ATTI OSCENI IN LUOGO PRIVATO
Marco Missiroli
Infanzia
Avevo dodici anni e un mese, mamma riempiva i piatti di cappelletti e raccontava di come l’utero sia il principio della modernità. Versò il brodo di gallina e disse – Impariamo dalla Francia con le sue ondate di suffragette che hanno liberalizzato le coscienze. – E i pompini. La crepa fu questa. Mio padre che soffiava sul cucchiaio mentre sentenziava: e i pompini. Mamma lo fissò, Non ti azzardare più davanti al bambino, le sfuggì il sorriso triste. Lui continuò a raffreddare i cappelletti e aggiunse – Sono una delle meraviglie del cosmo. Era il 1975 e abitavamo a Parigi da poco, X arrondissement, rue des Petits Hôtels. Avevamo lasciato l’Italia perché mio padre era stato trasferito dalla sua azienda farmaceutica. La mamma aveva accettato la Francia perché adorava i luccichii di place Vendôme e le sciccherie libertine. Era una donna elegante, religiosa, maggiorata. Amava Jane Austen e l’agio della sua Bologna. Da ragazza era emigrata a Milano per studiare e conoscere un borghese che la mantenesse mentre giurava fede al proletariato. Aveva quarantadue anni quando le uscì quella tristezza a cena. Bastò per riportarmi al trauma di un mese prima, il giorno del trasloco nella capitale francese. Quel pomeriggio c’era Emmanuel, l’amico di famiglia. Papà era uscito per comprare un trapano e passare in azienda, io ero nella mia stanza a svuotare gli scatoloni. Mamma aveva detto che avrebbe fatto lo stesso nella sua camera, Emmanuel la aiutava con i pantaloni alle caviglie. Li avevo visti dallo spiraglio della porta. Lui in piedi con gli occhi socchiusi davanti a questa donna sposata e inginocchiata, il grande seno incagliato nel vestito. Il grande seno che sfioravo nell’abbraccio della buonanotte. Ero rimasto immobile, ero tornato in camera mia e avevo continuato a sventrare scatole finché la porta si era aperta. – Tutto bene, amore mio? – aveva chiesto mamma con il rossetto fresco. – Tutto bene. Lei aveva sorriso, amara, nella stessa smorfia della cena dei cappelletti. Poi se n’era andata e solo allora mi ero accorto del gonfiore nei miei pantaloni, conteneva lo spasmo che non ero mai riuscito a sfogare. Quel giorno, per la prima volta, mi ero accarezzato e avevo intuito il movimento di liberazione. Avanti e indietro con costanza. L’inganno di mamma, l’estasi di Emmanuel. La mia gelosia. Mi ero accanito con la mano un’ultima volta, la decisiva, e solo allora avevo saputo come andava il mondo e come sarebbe andata la mia vita. Dalla liberazione il mio carattere cambiò. Il battesimo erotico mi rese mansueto e intelligente. Mamma mi chiamava Ometto di mondo, papà diceva Cher Libero. Il Caro anteposto al nome sanciva l’entrata ufficiale nel suo circolo di attenzioni. L’equazione fu semplice: la sessualità emancipata aveva prodotto lungimiranza. Iniziai a capire la mia famiglia e il modo esatto di interpretarla. A ogni preoccupazione mi rifugiavo alla toilette e mi liberavo. Venire significava correggere le questioni interiori senza interpellare chi avrebbe dovuto educarmi. Ero un bambino autodepurato. Sereno e magnifico, attento e anticipatore. Un godimento barattava un paio di piagnistei. Ricordo alla perfezione tre elementi di quei primi autoerotismi: le guance paonazze, la fioritura del cuore e un inaspettato ribollire cerebrale. Amplessi di cinque-sei secondi mi provocavano tremori e l’assoluta convinzione che fosse solo la punta dell’iceberg. La realtà intorno a me era diversa e il mio nuovo spirito mi stava aprendo le porte dei grandi: – Cher Libero, figliolo, ti porto al Roland Garros. Non ho mai dimenticato il pomeriggio in cui papà mi invitò ad assistere a un match sul Centrale degli Open di Francia, privilegio che negli anni era toccato solo a Emmanuel. Aveva una camicia bianca, il panama sgualcito e due lapislazzuli opachi come occhi. Le donne lo fissavano mentre lui fissava a vuoto Björn Borg che prendeva a pallate Ivan Lendl. – Perché non sei venuto con Emmanuel? – chiesi a bruciapelo. Papà rimase in silenzio quel giorno e gli altri che seguirono. Emmanuel non si fece vedere a casa per un mese, nessuno lo nominò finché mamma, servendo l’arrosto alle prugne, si lasciò sfuggire che era il piatto preferito di Manù. Quella sera pianse. Papà era uscito per il suo torneo di bridge e io ero in cucina a finire il puzzle della Pantera rosa, quando la sentii squittire la raggiunsi in salotto. Diede la colpa a Orgoglio e pregiudizio che stava rileggendo, mi disse che ero il suo ometto di mondo e mi tenne stretto. Fu allora che decisi i miei comandamenti: avrei scelto con cura il mio migliore amico e non mi sarei sposato. Emmanuel tornò una sera di qualche settimana dopo. Quando suonò il campanello si precipitò mio padre, mamma rimase in camera e mi chiamò. – Sai cosa fa andare bene l’umanità, ometto di mondo? – L’utero e la Francia? – Il silenzio, il maquillage e Dio. Prese il rossetto dalla borsa e se lo mise. Mi scompigliò i capelli e andò in salotto. Restai con il volto affondato nel suo cuscino, mamma sapeva di glicine, e aspettai che mi chiamassero per il roast beef con le patate al timo. Ricordo tutto di quella sera: il cambiamento dei posti a sedere, misero me tra papà e Emmanuel, la televisione in sottofondo, prima e unica volta, mamma sempre in piedi a servire cibo. Ricordo anche un paio di dettagli: Emmanuel che non mi guardò mai e il saluto tra lui e mia madre alla fine, proprio sulle scale, mentre papà era rimasto in cucina a caricare la lavastoviglie. Lei che va per baciarlo sulla guancia e lui che le stringe la mano per ringraziarla della cena. Quando il nostro ospite se ne andò, mamma si tolse il rossetto e osò una battuta sul roast beef francese, scialbo, poi mi domandò se l’indomani avessi voluto conoscere il Creatore. Accettai, anche se papà diceva che la religione era la più grande illusion dell’uomo. – Per due motivi, cher Libero. Primo: Dio non si è mai fatto vedere per confermare la sua presenza. Secondo: nessuno è mai tornato da morto per confermare la presenza di Dio. Dissi a mamma che forse era vero, lei rispose che era il momento di andare. Si era messa il tailleur grigio, per questo la teoria di mio padre sarebbe stata capovolta. Dio quel giorno si sarebbe fatto vedere, come si erano fatti vedere gli insegnanti, gli imbianchini, i direttori di banca, i commercianti di surgelati e i padri dei miei amici di Milano ogni volta che invitavo i loro figli a casa. Venivano a prenderli in anticipo, anche di un’ora, perché sapevano che mia madre li avrebbe trattenuti a chiacchierare in grigio. Stoffa pregiata, taglio discreto, se non per il terzo bottone del giacchino che traballava lussuria: una minuscola gemma sull’orlo del collasso. Un seno in galera vale cento seni liberi. Lo intuii più avanti, se lo avessi saputo quel giorno avrei capito perché molti uomini rischiarono il torcicollo per guardarla. Trovammo pace all’entrata di Notre-Dame, mamma mi portò davanti a un crocifisso e disse – Libero, vedi Gesù al centro di tutto? Ecco, non guardare Lui, guarda quella signora ai suoi piedi. – La Madonna. – L’utero che vede e provvede, – finì di dirlo e il bottone cedette. Mamma lo raccolse, io chiesi alla Vergine di non fare più entrare Emmanuel in casa mia. La Madonna mi ignorò. In cambio, quell’estate, avrebbe provveduto al più inaspettato e misericordioso dei battesimi. Papà decise che avremmo trascorso le vacanze in territorio francese. Dovevamo far girare l’economia del paese che lo aveva riaccolto. Lui e mamma scelsero Deauville, il litorale dei parigini con le berline e i vizietti sospettabili. Noi avevamo una Peugeot 305 e il terrore di passare le ferie da soli. Invitarono Emmanuel. Mi immaginai mamma in pareo e lui che la fissava dal lettino. La gelosia mi provocava eccitazioni amare e mortificazioni del corpo. Mi scrutai nudo davanti allo specchio, glabro e tardivo, ancora latitante di eiaculazione al contrario di Mario e Lorenzo, i miei amici di Milano. Loro fiorivano, io ero un frutto acerbo con le spalle più strette dei fianchi. Mi salvavo per gli occhi azzurri e un’aura che metteva pace. Mai avuto uno sguardo ambiguo da una compagna di classe: migliore amico di Stefania, confidente di Lucia, complice di Maria e servitore della Giulia che Mario aveva consumato di baci. Per Deauville chiesi a mia madre un costume nuovo. Lo indossai il giorno della partenza, un venerdì di luglio che abbagliava una Parigi deserta. Mentre scendevamo le scale, papà mi avvertì che Emmanuel avrebbe portato un’amica. Lo aspettammo sotto casa con la Peugeot 305 carica come un mulo e mamma in caftano celeste. Quello che vedemmo tre minuti dopo provocò una smorfia di soddisfazione di mio padre e un silenzio prolungato di mia madre. Sul lato passeggero della Citroën di Emmanuel sedeva una trentenne castano chiara con la pelle di luna e le lentiggini. Si presentò in un italiano stentato: Marie. Ci presentammo tutti, quando fu il mio turno lei esclamò – E tu devi essere le Grand Liberò. Il grande Libero. Tentennai e mamma mi bruciò sul tempo: – Le petit Libero, – risero, Marie no, si aggiustò un foulard di seta e mi disse – Perché non vieni in macchina con me e Manù? Del viaggio ricordo Emmanuel che cantava le canzoni della radio e noi che facevamo i ritornelli, un cappello di paglia che Marie aveva messo in testa al suo Grand Liberò. Era la prima volta che non sentivo l’affanno di disturbare. Mi ero sistemato al centro del sedile posteriore, dallo specchietto si vedeva una spalla di Marie e il suo collo bianco. Possedevo già l’acutezza delle angolature, mi spostai a sinistra e allargai il campo di visuale. C’era più spalla e meno collo, c’era il profilo del seno. Era sproporzionato rispetto all’ossatura e alla gentilezza dei modi. La guardai dal riflesso e incrociai i suoi occhi, avvampai. Fu allora che lei mi chiese di allungare una mano. – Avanti, Grand Liberò, mica te la mangio. – Non ti fidare – disse Emmanuel. Rischiai e mi ritrovai sul palmo tre ciliegie, le mangiai mentre alla radio cantava Charles Aznavour. – Dammi i noccioli. Accadde lì, quando Marie me li prese e mi pulì le dita con una salviettina fresca, che ringraziai la Madonna di Notre-Dame per non avermi ascoltato. Ebbi due capogiri. Uno dovuto alle traiettorie della Citroën, l’altro perché le sedici ciliegie che ingurgitai avevano portato a piccoli incontri con Marie. Mi raccontò che era una bibliotecaria, lavorava nel IV arrondissement. Lì aveva conosciuto Emmanuel qualche mese prima – Manù, il più affascinante professore di Parigi. Il mio carattere docile nascondeva premeditazioni insospettabili. Quando Marie mi domandò se avevo già amici a Parigi dissi che no, ero un’isola senza mare. Un’isola senza mare. Era una frase che papà mi aveva consigliato di usare per tramortire le donne. Scavava in un fondo di verità, e colpiva alla voce tenerezza. – Tu es adorable – Marie lo sussurrò mentre mi pizzicava lo zigomo – Il mare che cerchi sarà a Deauville, Grand Liberò. E noi il tuo arcipelago. Quando arrivammo a destinazione avevo sconfitto la solitudine. A Deauville avevamo affittato una villetta con terrazzino e due camere da letto in rue Laplace. L’estate prima in Sardegna e quella prima ancora in Costa Azzurra mi era capitata una stanza tutta mia. Quell’anno, mi disse papà, avrei dovuto adattarmi. Mi limitai a scaricare la valigia e ad aspettare su un’amaca appesa tra due fichi nel giardino della villetta. Guardai gli altri affannarsi nei bagagliai, mamma aveva il trucco sbavato e una mano che tormentava l’altra. Venne verso di me, mi mostrò dove avrei dormito: un loculo ricavato da una rientranza del corridoio. Avevo a disposizione poco più di una branda da campeggio. Appiccicai l’orecchio al muro di cartongesso: sentii la voce di Emmanuel. E quella della mia Marie. Papà era un tipo pratico. Aveva preso dal nonno, ufficiale nella Prima guerra mondiale, un temerario in grado di schivare sette agguati aerei mentre attraversava la Manica con un monoplano scassato. Come lui anche mio padre scardinava le detonazioni di mia madre e sorvolava sentimenti impetuosi. L’anno prima era stato eletto miglior venditore di Fiori di Bach dell’Europa centro-meridionale e aveva festeggiato quattordici anni di matrimonio con mamma. Per la prima sera a Deauville decise di portarci al casinò. Avrebbe rinsaldato la sua complicità a carte con Emmanuel e offerto a mia madre utopie di mobilità economica. – E Libero? – domandò Marie. – Aspetto fuori – dissi. Papà entrò con Emmanuel, mamma si offrì di restare con me. Chiesi e ottenni di rimanere in solitudine a guardare le cabine degli stabilimenti con i nomi delle star del cinema: Cary Grant, Jean-Paul Belmondo, Federico Fellini e via via, me le passai tutte fino al bar du Soleil. Lì mi sentii chiamare. – È un’ingiustizia, Grand Liberò. – Marie veniva verso di me. La salutai. Mi raggiunse – È un’ingiustizia che tu puoi startene fuori e io no. Così conobbi Marie Lafontaine. Mi offrì un jus d’orange e si ordinò un rosé. Scoprii di lei che possedeva l’arte dell’ascolto e del bere in punta di labbra, snocciolava le olive in bocca tenendo gli ossi contro la guancia, tifava Saint-Germain e il suo libro preferito era Lo straniero di Camus. Pizza ai quattro formaggi, i film senza lieto fine, i mori e i brizzolati, la Provenza meglio della Normandia. Detestava la roulette e i barboncini. Aveva avuto grandi amori? (si domandò): uno magnifico di cinque anni, gli altri robetta per sfortuna e demerito. Tamburellò le dita sul mio ginocchio ogni volta che rise, spesso, e si tormentò l’orecchino destro ogni volta che era sovrappensiero, spesso. Ecco quello che le rivelai di me: avevo fatto uno sciopero della fame di due pasti per oppormi al trasferimento in Francia, non mi piaceva il calcio ma amavo John McEnroe, ero un campione di puzzle e andavo matto per il purè di patate. Ero capace di dormire anche quindici ore di fila. La mia tartaruga Robespierre aveva vissuto ventun anni ed era morta il giorno del mio compleanno. – Che altro, Grand? Avrei voluto fare il lavoro di papà o la guardia forestale, i libri mi davano noia tranne le storie di indiani. Mi chiese come mai gli indiani, dissi che erano rimasti in pochi e a me piacevano i pochi. – Ti piace Dio, Marie? – Dipende. – E l’utero? Mi fissò, poi disse – Non ho figli, e va bene così. E tu, Grand Liberò, hai avuto grandi amori? Bevvi il jus d’orange e rimasi in silenzio. Lei mi abbracciò di colpo, si protese in avanti e trascinò il mio sgabello fino al suo, mi trattenne con le sue braccia calde. C’era un profumo di torta in forno e c’era la spinta del grande seno. Premeva contro il mio sterno, più della mamma, meglio della mamma. Appena uscirono dal casinò ci trovarono sul pontile che chiacchieravamo su quale cabina avremmo preso l’indomani. Io scelsi Fellini, Marie Cary Grant, papà e gli altri dissero che bisognava andare a casa per cancellare la brutta serata al tavolo da gioco. Novecento franchi buttati. Quando arrivammo mi stesi sull’amaca ad ascoltare Deauville di notte, gli echi delle feste, mentre le camere da letto si spegnevano. Poi andai in bagno e mi lavai i denti e la faccia. Feci tutto in fretta, da quando la zia era morta alla toilette non potevo stare chiuso dentro a lungo, altrimenti mamma veniva a chiamarmi. Arraffai uno strappo di carta igienica e mi ritirai nel loculo, mi stesi sulla branda. Mi rigirai. Le molle cigolavano sul lato destro. Potevo usare il braccio sinistro con una minima rotazione del polso. Ritrovai lì il senso pratico di papà, nel compimento di una masturbazione circense che mi avrebbe sostenuto per l’intera esistenza. Aspettai che il resto della casa si addormentasse. Trascorsi l’attesa preparandomi il pensiero, a dodici anni si è molta mano e poca testa, io ero diverso. Avevo capito che l’eros è l’arte di immaginare situazioni realistiche con possibilità di fallimento: mi vidi di nuovo al bar du Soleil con Marie, lei ha un vestito scollato. Ha già bevuto due rosé, mi confida del suo amore finito male. Lui era un poco di buono, solo adesso lei si sente a suo agio, grazie a me. Piange, mi tira a sé con lo sgabello e invece di abbracciarmi si appoggia alla mia spalla e io sento le sue lacrime. Mi fermai. L’elastico del pigiama sforzava, lo abbassai. Feci attenzione al cigolio, tutto stava nel tenere sollevato il gomito ed essere il John McEnroe dell’onanismo: usare l’impugnatura Continental. Controllai la respirazione e tornai a dove ero rimasto: io che sento le lacrime di Marie, gliele asciugo e la tengo stretta. Anche lei lo fa, mi tiene stretto, ancora, e io sento che è il momento, preparo la carta igienica anche se so che rimarrà asciutta, do il colpo di grazia, la branda sussulta mentre spalanco la mascella, la voce di papà squilla al di là del muro, – La smetti di agitarti o no? La mattina mi svegliai prima di tutti, sgattaiolai fuori e iniziai un piccolo puzzle della Tour Eiffel sul tavolo del giardino. In un’ora incastrai una miseria di tasselli, continuavo a fissare la finestra dei miei genitori con la vergogna di chi è stato preso in flagranza di reato. Quando mamma mi chiamò erano tutti in cucina a ingozzarsi di croissant e cose buone comprate da Emmanuel alla boulangerie St. Augustin. Guardai le piastrelle turchesi dietro il lavello e nessuno di loro. – Come hai dormito, ometto? – chiese mamma. Sollevai la testa. Papà smise di mangiare il suo croissant e mi strizzò l’occhio. Fu il primo sigillo della nostra alleanza. Il secondo arrivò al mare. Andammo allo stabilimento e io scelsi la cabina Fellini. Quando vidi uscire Marie da Cary Grant, in due pezzi, seppi che quella notte sarei stato recidivo, e che l’eros mi provocava timidezza. Rimasi accucciato sulla mia sdraio in maglietta e cappellino, rifiutai di passeggiare, rifiutai i racchettoni con Emmanuel che si mise a giocare con mamma. Mio padre chiacchierava con Marie sulla battigia. Mi chiamò da lui. Gli feci cenno che volevo starmene per conto mio, insistette e lo raggiunsi. – Facciamoci un bagno. Dissi che non ne avevo voglia, poi mi sentii toccare da dietro, era la mano di Marie che mi sollevava la maglietta e mi toglieva il cappellino, – Avanti Grand Liberò, un piccolo tuffo – sorrise, e salì all’ombrellone per appoggiare gli occhiali e i miei vestiti. Adocchiò Emmanuel che giocava con mamma. Anche papà li fissava, lo presi per un braccio e lo trascinai in acqua. Ci tuffammo, quando riemergemmo Marie era ancora all’ombrellone e si era seduta sul lettino. – È bellissima, n’est-ce pas? – chiese papà mentre mi caricava sulle sue spalle da ballerina. La brezza della Normandia mi gelò, – Ti piace? – Moi, j’aime ta mère – e mi lanciò nell’oceano. Riaffiorai e mi trovai solo, mio padre stava andando verso riva, e verso la sua sposa da più di un decennio. Mi lasciò con il suo secondo sigillo, e mio futuro patrimonio: la devozione. Tornai a casa per primo e terminai il pilone occidentale della Tour Eiffel. Qualcosa aggrovigliava la mia testa, e il mio eros: Dio, l’utero, il sentore che mi sarebbe sfuggita qualsiasi donna, soprattutto la rincorsa di mio padre verso sua moglie. Accanirmi con i puzzle avrebbe rimesso a posto i pezzi della mia infanzia? Cominciai la terza gamba della Torre e vidi arrivare papà con la faccia buia: mi avvertì che Emmanuel e Marie avevano discusso e che dovevo fare finta di niente. Feci una doccia e presi uno dei miei libri sugli indiani, mi rannicchiai sull’amaca. Era questione di tempo. Mamma spuntò poco dopo e si fermò da me. Mi baciò e si tolse gli occhiali da sole. Era paonazza. – Stai lontano da Marie, intesi? – e filò dentro anche lei. C’era stato un intreccio di uteri, e forse una vittima. Deauville era celebre per il glamour, le ambizioni piccolo-borghesi e i parvenu. Anche per il gioco, certo, e la sua aria di azzardo mi convinse a prendere il mio quaderno per annotarmi una vertigine: Consola la bionda. Era un taccuino con in copertina Arsenio Lupin e la sua giacca rossa. Avevo l’abitudine di scriverci le cose più grandi di me. A Milano l’avevo riempito con una ventina di scintille, Pellerossa accompagnano chi muore con il tamburo; Lucia, baciarla o sposarla; oppure Impara dal camaleonte: scompari. Rimasi a dondolare sotto il fico. Emmanuel e Marie arrivarono quasi subito. Muti e veloci. Lei si affrettò, lui rallentò e prima di entrare mi sorrise. Lo ignorai e diventai camaleonte finché papà spuntò fuori con la sentenza: i nostri ospiti sarebbero tornati a Parigi l’indomani mattina. Andai in camera e tirai fuori le carte da briscola che avevo portato dall’Italia: le mischiai e tagliai il mazzo con la sinistra. Venne l’asso di spade. Nella simbologia di mamma annunciava un successo schiacciante. Fu il momento che decise il mio destino a Deauville. Avevo imparato a interrogare il futuro quando vivevamo a Milano. Stavamo a Porta Venezia, il quartiere della borghesia giovane, la casa la pagava l’azienda di papà che vendeva Fiori di Bach e rimedi omeopatici alle farmacie. Mamma teneva lezioni private di italiano, spendeva in Montenapoleone e per i suoi santoni. Frequentava un gruppo di fanatici che le avevano inculcato il culto delle premonizioni in cambio di centomila lire a seduta. Controllava fondi di caffè e segni zodiacali. Leggeva le carte. Si era stancata di colpo, perché l’utero è fatto per generare, non per trattenere: giustificava così le sue cadute passionali. Nel frattempo io avevo imparato. Interpretavo un mazzo di briscola meglio dell’istinto. Mi fidavo del futuro più che di me stesso. Che quella notte, prima della partenza di Emmanuel e Marie, preparò il suo coup de théâtre con dettagli significativi. I miei pianeti si allinearono a cena, quando papà si mise a leggere “L’Équipe” in giardino. Fischiettava in giacca e camicia bianca. Mamma uscì dal bagno con l’acconciatura a mo’ di ananas. Io mi rintanai nel loculo, le orecchie al muro: nella stanza dei nostri ospiti non volava una mosca. Emmanuel e Marie si presentarono di colpo, vestiti come il giorno prima. Lei aveva gli occhi gonfi, lui fumava il sigaro e fece strada verso il ristorante. Rimasi indietro di qualche passo e riuscii a sorridere a Marie, lei ricambiò. Camminava veloce, tutti camminavano veloci, appena arrivammo papà chiese al maître un tavolo in veranda. L’asso di spade diede il primo segnale quando mi ritrovai seduto di fronte a Marie. Ricordo che mangiai mezza zuppa di ostriche e due bocconi di salmone. Papà tenne viva la conversazione, lo sostenne Emmanuel e tutto filò liscio finché si inserì mamma con una filippica sulla Gauche italiana. Cos’era rimasto del comunismo? E dov’era finito l’insegnamento di Gramsci? – Tutte chiacchiere – disse Marie: ora eravamo in Francia e c’era da fare i conti con Giscard d’Estaing. O ci eravamo trasferiti solo per i musei? Tremai io, e tremò papà. – Allora è vero quel che dicono sull’insolenza dei parigini – rispose mamma. – E cos’è che dicono dei parigini? – Chiedilo al tuo Emmanuel, almeno avrete un argomento di conversazione. – Chiedilo tu, al tuo Emmanuel – Marie si alzò da tavola, domandò permesso e se ne andò. Non la seguì nessuno e io dovetti assistere alle due nature di mia madre: la soddisfazione per aver vinto la guerra degli uteri, le successive lacrime di dispiacere. Finimmo i sorbetti e facemmo una passeggiata sul lungomare di Deauville. Passammo davanti al bar du Soleil, adocchiai i due sgabelli su cui ci eravamo seduti io e Marie. Sentii la nostalgia. Dissi a papà che ero stanco e lui capì. Quando tornammo a casa evitai di salutare Emmanuel, lui si rintanò in camera e anche i miei genitori. Marie non era rientrata. Quella notte mi addormentai a fatica, mi svegliarono la sete e un sentore di profezia. Mi alzai, uscii dal loculo, andai in cucina. Lei era seduta al tavolo. C’erano due cose che non sopportavo: farmi vedere in mutande e capire che una situazione mi impauriva. Quella notte, davanti a Marie Lafontaine, le provai entrambe. Cercai di indietreggiare, lei tirò su la testa e mi fissò, poi disse piano – Grand, c’est toi? Andai avanti e le dissi che volevo bere. Lei si alzò per prendere una bottiglia d’acqua nel frigorifero, me ne versò un bicchiere e me lo porse. Il rimmel le era colato su una guancia e i capelli erano scompigliati. Bevvi, e andai ad appoggiare il bicchiere sul tavolo. Poi lei disse – Vado un po’ fuori, bonne nuit. L’unico gioco d’azzardo che si avverò a Deauville quella notte appartenne a un quasi tredicenne che invece di tornarsene a letto uscì nel giardino di una villetta e aspettò finché una trentenne si accorse di lui per la seconda volta. Quando accadde, lei lo chiamò a sé – Neanche tu riesci a dormire, Grand? Mi avvicinai all’amaca, Marie si era stesa, restai impalato. Lei sorrise e si mise a sedere, mi disse che le dispiaceva per la serata e per la vacanza e per la figuraccia, era solo un po’ nervosa, e insicura. – Insicura? Annuì. Le dissi che anche a me era successo. Almeno due volte l’anno prima e l’anno ancora prima con Lucia e Giulia. – Si vede che non ti meritavano, Libero. – Nemmeno a te. Mi abbracciò e mi disse di sedermi con lei. Ubbidii, avevo paura, avevo stupore. Lei mi fece spazio e io mi accucciai nell’angolo. – Sei un gentiluomo. Beata chi ti sposa. Il vestito le era salito alle ginocchia e la parte alta era confusa dalla notte. Mi afferrò la mano e me la tenne tra le sue, guardai la casa buia. – Non ti preoccupare, dormirò qui – Mi tirò a sé e mi lasciò altro spazio. Finii tra i suoi capelli e la mia gamba destra le lambì il fianco sinistro, le mani le tenevo sullo stomaco come i morti. Sentivo il seno contro la spalla, mi voltai e lo vidi, mastodontico e stropicciato per la posizione. Lei si inclinò, confluimmo al centro dell’amaca, mi accarezzò la nuca e disse: – Non ho un gran fiuto per gli uomini. Mi dispiace averti rovinato la vacanza. – Il bello di questa vacanza sei tu – mi tremò la voce, ma lo dissi, avevo un accenno di erezione. Maturò, mi girai, lei mi trattenne e tornò ad accarezzarmi la testa. Non mi mossi, ero accaldato, ancora impaurito. Premevo contro la sua gamba e sentii la sua gamba premere contro la mia intimità. Quando smise mi ritrovai con un piacere impiccato. Nella mia vita ero stato sprovveduto, adorabile, addomesticato. Cambiai le mie priorità: le toccai la coscia, fu allora che lei sussurrò Mon petit Libero. Mi strinse in un abbraccio che sapeva di sorella, mi disse Vienimi a trovare in città, lavoro all’Hôtel de Lamoignon, la biblioteca nel IV. Mi diede un bacio sulla guancia e io mi ritrovai che camminavo verso il loculo. Andai in bagno, chiusi la porta a chiave, e prima di darmi la liberazione mi guardai allo specchio. Ero un bambino a un passo dall’adolescenza che stentava ad abbandonare la sua infanzia. Fu una vacanza strana. Quando ci alzammo, la mattina dopo, Emmanuel e Marie non c’erano più. Forse non c’erano mai stati, trovammo un biglietto in cucina: Merci, merci, merci. Tre grazie che mi provarono la loro presenza a Deauville. Andai fuori, l’amaca era mossa dal vento e aveva sopra una foglia, la tolsi e mi stesi. Avvicinai il naso alle corde e sentii l’odore di salsedine, e di Normandia. Scrissi l’ultima traccia di quella notte sul mio quaderno: Biblioteca Hôtel de Lamoignon, Marie. Per una settimana tornammo una famiglia. Mamma scelse la cabina Marilyn Monroe e io lasciai la decisione a papà, lui andò su John Wayne. Tenemmo l’accoppiata glamour e western per tutti i giorni di mare, placidi e guardinghi, l’ultimo pomeriggio assistetti a una scena curiosa: papà che va sott’acqua e risale sotto le gambe di mamma, la carica sopra le spalle. Lei rimane lassù e ride e urla Lasciami, lasciami. Si tuffa e quando riemerge va verso mio padre e lo abbraccia, lui la bacia. Chiudemmo con quella bellezza. Il bilancio della vacanza contò un sodalizio con papà, settecento franchi vinti da mamma sul 27 alla roulette, cinque cene di pesce al ristorante e un’intossicazione alimentare da gamberetti, uno sguardo ricambiato con un’inglese, innumerevoli spasmi sfogati. E poi un comandamento di mio padre, il giorno della partenza: – Tu devras avoir du courage, so che sarai coraggioso. Charmant, protettivo, franco. Papà era questo, secondo mamma. Glielo sentii dire alla sua amica Manuela di Milano quando le chiese perché si fosse innamorata di lui. Mancava qualcosa: era un uomo privo di senso della realtà. Il comandamento che mio padre mi diede a Deauville era figlio della sua verginità d’animo e di una sorta di presagio che percepiva nei miei confronti. Sapeva che dal trasferimento francese mi sarei potuto sentire in bilico. Non tanto per la lingua, quanto per l’affanno del cuore. Affanno che era stato anche il suo. Lo capii con il liceo. Il primo giorno papà mi accompagnò insieme a mamma. Il Lycée Colbert l’aveva voluto lei perché pubblico, multietnico, culla della nuova classe dirigente progressista. Era una scuola bobo, bourgeois-bohème. L’entrata era di un nugolo di ragazzini con la pashmina al collo, io avevo una camicia di una taglia in più e la certezza che il posto di banco avrebbe deciso la mia adolescenza. Fu così. Dipese dall’ordine alfabetico: Libero Marsell finì tra Antoine Lorraine e Hélène Noisenau. Un nero e una biondina con la treccia e l’odore di mandarino. Le strinsi la mano per presentarmi e mi accorsi che non mi attraeva: troppo magra, troppo fresca. Mi guardai intorno, eravamo in trentatré, diciannove maschi e quattordici femmine. Scartai le troppo avvenenti, rimaneva una morettina con il sedere sporgente. Si chiamava Camille. Mi guardò una volta. Colpivo alla prima occhiata, diventavo invisibile per il resto della storia. Dal mio banco vedevo i bobo che socializzavano e pensavo a Mario e Lorenzo che se n’erano andati insieme al Beccaria, a Milano. Rivolevo l’affidabilità gentile di Marione e la barbarie di Lorenzo. Rivolevo me stesso. Mi alzai di scatto e andai alla finestra. C’era il traffico parigino e un uomo sbilenco dall’altra parte della strada: papà. Dava uno sguardo a “L’Équipe”, e uno alle finestre della possibile classe di suo figlio. Andai in bagno e trattenni il pianto, quando uscii mi trovai di fronte Antoine Lorraine. Mi fissò, – Ci abitueremo, non ti preoccupare – mi appoggiò una delle sue manone sulla spalla, – Sei italiano? – Per metà francese. Anche lui era a metà. Congolese e parigino. Un nero con la erre moscia e una sana concretezza, – Le ragazze buone sono nelle classi avanti. Occhi aperti. Trovai così un amico. Eravamo due metà che avrebbero fatto un intero. Quando tornai a casa confidai a mamma la sensazione di quell’amicizia, lei annuiva mentre preparava il pasticcio di foie gras e la crostata di mele cotogne. A tavola sedeva Emmanuel. Sforzò un sorriso, io non ricambiai e raggiunsi papà che trafficava ai fornelli. Gli andai vicino e lui mi anticipò: l’avrei trovato davanti al Colbert dalle nove alle dieci, tutto il primo mese di lezioni. Un piccolo coraggio per te, mon cher Libero. – Ma è un ometto, – mia madre si versò da bere – lascialo crescere. La prima crescita fu nell’attività onanistica. Da pochi mesi qualcosa aveva scosso la prevedibilità del mio corpo: una peluria percettibile e l’abbassamento del timbro vocale. Erano mutazioni che si portavano dietro alcuni effetti secondari, avevo scoperto che l’autoerotismo sfiatava la mia ansia atavica. Un orgasmo equivaleva a dieci gocce di Rescue Remedy che papà mi allungava quando non riuscivo a dormire. Ne approfittavo anche di mattina prima di andare a scuola. Il risultato furono un’astenia cocciuta e due occhiaie croniche. L’altro cambio di prospettiva era riuscire a togliermi dall’invisibilità. A scuola anche i professori faticavano a ricordarsi il mio nome e a trovarmi in mezzo agli altri. Le ragazze mi guardavano come un compagno a cui sorridere per cortesia. L’unica era Camille, aveva modi gentili e mi chiedeva se volevo un aiuto per la grammatica o per la pronuncia. Mi interessavano poco i miei coetanei, al contrario della professoressa di francese. Si chiamava Mademoiselle Rivoli. Bruna, bassina, viso ampio e un seno che faceva di tutto per mortificare. Quella mercanzia timida la trasformò in un’esca irresistibile. Cominciai a farmi notare con piccoli interventi e con un silenzio intelligente. Per Mademoiselle Rivoli io ero un immigrato che si stava impegnando il doppio per ottenere i risultati degli altri. Guadagnai una sua speciale attenzione e, un giorno, un consiglio: Marsell, legga Lo straniero di Albert Camus. Ci troverà dentro qualcosa. – Chiedile di uscire – insisteva Antoine. Mademoiselle Rivoli rimase il prototipo erotico per il primo quadrimestre. Gli sforzi si videro nei voti di metà anno: buono in francese, sufficiente in matematica, discreto in storia e così via per una media del più che sufficiente. L’unica pecca: non averle chiesto un rendez-vous e aver ignorato quel libro di Camus. La sera della pagella organizzammo un’uscita con i miei compagni di liceo, saremmo andati a mangiare in una brasserie al Trocadéro e poi al cinema a vedere Guerre stellari. A tavola Antoine fece in modo di sedersi vicino a Hélène, io finii accanto a Camille che chiese subito se mi mancasse l’Italia. Mi mancava, certo, anche se nella Ville Lumière stavo bene. Le raccontai della mia vita a Milano e per la prima volta dall’inizio del liceo non mi sentii solo. Il mio esilio finì per mano di una ragazza dal sedere sporgente e dai gesti accorti. Aveva un viso bruttarello, ma il suo sorriso sconfiggeva il mio sentirmi fuori posto. Le svelai qualcosa della mia famiglia bislacca, di come avessi imparato a leggere il futuro grazie a mamma e di come papà avesse tentato di calmare i guaiti del mio vecchio cane con una mistura di Fiori di Bach e granuli omeopatici. La feci ridere e risi anche io quando mi disse che il primo giorno di scuola mi aveva scambiato per un russo denutrito o per un trapezista di un circo rumeno. Bastò questo per sederci vicini al cinema e per un petit bisou sulla guancia dopo che Luke Skywalker riuscì a mettere in fuga Dart Fener. In un mese accadde qualcosa di doloroso, qualcosa di dolce, qualcosa di strano e un piccolo miracolo. Qualcosa di doloroso: compresi definitivamente che l’estetica contava quanto il fattore ormonale. Camille non appagava l’occhio. Con lei seppi che mi vergognavo a farmi vedere accanto a ragazze che ritenevo deludenti. Mi dannavo per quel razzismo estetico, decisi di forzarlo. Due giorni dopo il cinema andammo a mangiare un gelato, lei mi prese la mano e io sentii cinque dita gelide. Provai a staccarmi con i miei silenzi, Camille insistette per qualche tempo, poi capì. A scuola smettemmo di parlarci e mi dispiacque. Andò peggio ad Antoine con Hélène: si sentì dire che i noirs non facevano per lei. Pensai agli indiani, e provai un dispiacere più vicino all’indignazione. Qualcosa di dolce: l’eredità di Camille furono i baci. Il suo petit bisou mi lasciò un eros diverso. Dalla sera del cinema passai le nottate seducendo il dorso della mia mano sinistra. Facevo prove a labbra chiuse, a labbra schiuse, a labbra aperte con una punta di lingua. Il cervello si distolse dall’ossessione del seno a favore della bocca. Provavo batticuori e immaginavo storie d’amore. Con Mademoiselle Rivoli, con una ragazza di terza che vedevo passare nei corridoi del liceo. Mamma stava scomparendo dai miei orizzonti, al contrario di Marie che ogni tanto si affacciava. Non l’avevo più vista, né sentita menzionare, da quella sera a Deauville. Qualcosa di strano: mia madre che mi prende sottobraccio, vestita con un lupetto di seta, e mi porta prima a Notre-Dame, poi nella chiesa di Saint-Vincent-de-Paul vicina a casa. Il prete che ci saluta dal fondo della navata. Io che attendo su una sedia e il Cristo che mi guarda dal crocifisso. La mia camminata fino al confessionale, c’è buio, un’ombra dietro la grata che dice: Di cosa chiacchieriamo, figliolo? Ti piace il calcio? Io che gli racconto di John McEnroe, della sua bravura e della sua collera, e di come certe volte la sua collera è anche la mia. Il prete che sorride e mi chiede di parlargli d’altro e io gli dico che papà è sempre più triste perché Emmanuel è sempre più a casa nostra per colpa di mamma. Io che non ho più niente da dire e lui che sussurra Recita un Padre nostro, figliolo. Un piccolo miracolo: il secondo giorno di primavera andai a casa di Antoine a fare i compiti. Abitava nel XIX, veniva al Colbert perché suo padre lavorava nel X. Ci accanimmo sulla matematica, lui era molto bravo, poi rimanemmo a chiacchierare in camera sua. Erano sette in famiglia. Verso sera qualcuno bussò alla porta, lui disse Avanti e si affacciò sua sorella maggiore, Lunette. Aveva due anni in più di noi, gli occhi chiari e le labbra grandi. Le gambe da ballerina e il seno a punta. Antoine mi disse Non guardare, porco. Arrivai a casa per cena, mangiai lo spezzatino con i miei e ricordo che quella sera Emmanuel non c’era. Poi mi ritirai in camera e mi baciai il dorso della mano sinistra. Lunette, amore, Lunette. Appena fu l’ora andai a letto e cominciai. La mia prima pulsione sentimentale si consumò subito e mi mozzò il fiato, non per il piacere: una goccia vischiosa era uscita dalla mia intimità. Adolescenza Per qualche tempo mi concentrai sul mio sperma e su Dio. Contemplavo le mie evoluzioni organiche e andavo con mamma in chiesa la domenica mattina. Papà ci vedeva uscire e diceva J’ai une famille de fous, ho una moglie e un figlio squinternati. Dopo la messa avevo l’obbligo di confessarmi con il prete di Saint-Vincent-de-Paul che si chiamava Dominique e ogni volta parlavamo di tennis, degli indiani e delle varie contraddizioni della Chiesa che mi aveva messo in testa mio padre, prima fra tutte l’atto di dolore. – A un certo punto recita “perché peccando ho meritato i tuoi castighi”, – dissi, e mi avvicinai all’orecchio del prete – Però mamma dice che Dio non sa nemmeno cosa sono i castighi.