lunedì 15 gennaio 2018


CEMENTO
di Thomas Bernhard
Estratto da https://2000battute.blog/2013/04/13/cemento-thomas-bernhard/
Il racconto è un monologo del narratore, Rudolf, un musicologo che vuole scrivere un libro, un’opera letteraria dedicata a Mendelssohn Bartholdy, il compositore. Da più di dieci anni ci prova ma non è ancora riuscito neppure a iniziare. Cerca la prima frase, si tormenta per la pagina bianca. La storia si svolge nella casa di campagna, poi si sposta nel finale a Palma di Maiorca, dove Rudolf si trasferisce per un lungo soggiorno sempre in cerca di quella prima frase. Questa la trama, che non è di fondamentale importanza, è solo il canovaccio attorno a cui Bernhard avvolge le sue spire e lancia le sue sferzate.
L’attacco del libro, le prime trenta pagine, sono deflagranti, Bernhard imprime un ritmo forsennato, destabilizzante, in un accavallarsi folle di allucinazioni che il personaggio ribalta sul lettore in presa diretta, come se scrivesse mentre le parole ancora mulinano nel cervello, nella pancia, addosso, prima di pronunciarle, le scrive prima di vergarle.

Rudolf, come molti personaggi di Bernhard, è monomaniaco, ossessivo nella sua fissazione ma anche in balia dell’instabilità emotiva, debole, inerte, si dimena rimanendo immobile, si agita per non muoversi di un passo, lotta con le ombre, è schiacciato sotto un peso opaco e informe.
La causa del suo tormentarsi è la sorella.

È terribile, non appena sono in grado di dedicarmi a un lavoro intellettuale nel campo della musica, spunta mia sorella e me lo distrugge. Come se lei, da Vienna, sentisse che sono qui, a Peiskam, in procinto di affrontare un certo tema, quando voglio mettere mano al tema, lei spunta fuori e me lo distrugge. La gente è fatta apposta per scovare l’intelletto e per annientarlo, sente che una mente è preparata per uno sforzo intellettuale e si mette in viaggio per soffocare questo sforzo intellettuale. E se non è mia sorella, l’infelice, la maligna, la perfida, è qualcun altro della sua razza. Quanti scritti ho iniziato e poi, perché è spuntata mia sorella, bruciato. Gettati nella stufa al suo arrivo. Nessun altro dice spesso quanto lei: non disturbo, vero?, uno scherno se è continuamente in bocca a una persona che ha sempre disturbato e sempre disturberà e la cui missione sembra essere quella di disturbare tutto e tutti e quindi distruggere e infine annientare e annientare sempre ciò che a me sembra la cosa più importante al mondo: un prodotto intellettuale.
Trenta pagine scritte con questo passo furioso, travolgenti, diluvianti, svolge con la precisione chirurgica tipica del suo stile il flusso di una coscienza turbata, priva di appoggi per l’equilibrio, vacillante sull’orlo del tracollo. È la potenza di Bernhard che esplode senza preavviso, impietosa della fragilità di quell’essere vivente che è il lettore, neanche il tempo di accomodarsi meglio per la lettura e già vi schizzano in faccia parole come lapilli.

Bernhard o lo si ama fino all’adorazione oppure lo si rifiuta come un corpo alieno e minaccioso, non credo ammetta mezze misure.
Poi rallenta? No, non rallenta, è senza requie, Cemento è come vi ho detto un monologo turbato e perturbante, ansiogeno, di una mente tanto inconsapevolmente lucida quanto consapevolmente in balia delle proprie fobie. Cambia, d’un tratto. La sorella, l’infelice, la maligna, la perfida, diventa la guida, colei che gli dice la verità, colei dalla quale non può separarsi.
Adesso penso che lei probabilmente si era davvero interessata  totalmente a me per venirmi in aiuto, la terribile, come sempre la definivo quando ne avevo l’occasione. È già un anno e mezzo che non te ne vai da Peiskam, disse varie volte. Io ero furioso, perché lei non mi dava requie nel volermi trascinarmi via da Peiskam. Nessuno viaggia più volentieri di te e adesso te ne stai qui a pencolare da un anno e mezzo e crepi! Lo diceva con molta calma, come un medico, penso adesso. Qui non riuscirai mai a cominciare con il tuo Mendelssohn Bartholdy, te lo garantisco. Sei inchiodato all’improduttività. Da un lato Peiskam è una cripta, dall’altro un carcere che minaccia continuamente l’esistenza, diceva.
Così Rudolf matura la decisione di partire per Palma, dove avrà termine il racconto. In mezzo a questi  snodi della trama, Bernhard sprigiona il fascino delle descrizioni degli ambienti soffocanti e chiusi: le stanze della casa, la scala, l’orientamento delle finestre, la luce che vi penetra sgradita, la minuziosa e maniacale disposizione dei testi sulla scrivania, fino alla postura di Rudolf seduto, che egli stesso osserva in un gioco di straniamento. Come sempre sono descrizioni di atmosfere dominate dalla penombra, da una tinta grigiastra posata dall’animo inquieto del narratore e da geometrie che sembrano indurre proprio quello stato d’animo.
Improvvisamente, come sempre fa Bernhard, senza preavviso scarica la sua furia contro la società nella quale vive. Apre uno squarcio nella letteratura e vi fa penetrare l’attualità.
Lascio un paese nel quale la chiesa simula e il socialismo arrivato al potere depreda e l’arte puttaneggia con entrambi. Lascio un paese nel quale un popolo educato alla stupidità si fa intasare le orecchie dalla chiesa e la bocca dallo stato, e nel quale tutto ciò che mi è sacro finisce da secoli negli immondezzai dei suoi dominatori. Se me ne vado, mi dicevo nella poltroncina di ferro, in fondo me ne vado da un paese nel quale non ho davvero più niente da cercare e nel quale non ho mai trovato la felicità. Se me ne vado, me ne vado da un paese nel quale le città puzzano e gli abitanti di queste città sono imbarbariti. Me ne vado da un paese nel quale la lingua è diventata volgare e lo stato mentale di coloro che parlano questa lingua volgare è tutto sommato degno di gente incapace di intendere e di volere. Me ne vado da un paese, mi dicevo nella poltroncina di ferro, nel quale i cosiddetti animali feroci sono diventati l’unico modello. Me ne vado da un paese nel quale anche in pieno giorno regna la notte più tenebrosa e nel quale a ben guardare sono al potere soltanto analfabeti fracassoni. Se me ne vado, mi dicevo nella poltroncina di ferro, in fondo lascio solo il cesso dell’Europa, che si trova in uno stato desolantemente rivoltante e proprio incredibilmente sporco, mi dicevo. Io me ne vado, mi dicevo seduto nella poltroncina di ferro, cioè lascio dietro di me un paese che ormai da anni mi opprime nella maniera più dannosa e ad ogni occasione, non importa dove e quando, ormai mi caga in testa in modo subdolo e perfido.
È Rudolf il musicologo oppure è Bernhard lo scrittore a parlare qui? Difficile dirlo, forse entrambi, anzi probabilmente entrambi, le voci si accavallano, Bernhard entra ed esce dal suoi racconti, sbattendo la porta e gridando, vi si para davanti all’improvviso e grida la sua rabbia.
Cemento si conclude a Palma, in modo sorprendente, con uno scarto verso l’esterno. Non ve lo racconto. Ma prima di concludere, Bernhard lascia cadere un passo bellissimo che invece voglio trascrivere e poi ho finito.
Quando abbiamo le frasi in testa non abbiamo ancora la certezza di metterle sulla carta. Le frasi ci fanno paura, prima ci fa paura il pensiero, poi la frase, poi che probabilmente non abbiamo più in testa questa frase quando vogliamo annotarla. Molto spesso annotiamo una frase troppo presto, poi una troppo tardi; dobbiamo scrivere la frase nel momento giusto, altrimenti va perduta. Il mio lavoro su Mendelssohn Bartholdy è certo un lavoro letterario, mi dicevo, non musicale, pur essendo in tutto e per tutto musicale. Ci lasciamo avvincere da un tema e ne restiamo avvinti per molti anni, decenni, e se capita ci lasciamo soffocare da questo tema. Perché non lo abbiamo affrontato abbastanza presto o perché lo abbiamo affrontato troppo presto. Il tempo distrugge tutto, qualsiasi cosa facciamo.
Sono tornato a Thomas Bernhard, sono a casa, finalmente.