mercoledì 24 gennaio 2018



IL DONO 
 Mi trovavo alla libreria Feltrinelli in corso Vercelli. Il sole era un pò velato. Le case non avevano i profili nitidi, e sembravano prepararsi al freddo umido del novembre milanese. Spendevo molto tempo in libreria. Era mia abitudine Scegliere tre o quattro libri e sedermi  al bar interno, con davanti un caffè, per sfogliarli, leggere qualche pagina a caso, per poi decidere. Lo facevo sempre nella libreria di Barnes e Noble a New York vicino a Union Square. Sfogliavo un romanzo, e stavo leggendo: "Beatrice Dahl era distesa su una sedia a sdraio. Con il corpo snello spalmato di crema, lucido nell'ombra, sembrava un pitone addormentato. Le dita di una mano con le unghie dipinte toccavano leggermente un bicchiere pieno di ghiaccio, appoggiato sulla tavola accanto a lei, mentre l'altra mano sfogliava le pagine di una rivista. Grandi occhiali da sole le nascondevano il volto morbido, ma Kerans notò l'espressione caparbia del labbro inferiore. Probabilmente Riggs l'aveva seccata, cercando di imporle la logica dei suoi argomenti." Di Ballard, "Deserto d'acqua",Edizione Urania,  che avevo letto tanti anni prima in inglese.
Mentre sorseggiavo un caffè vidi a due passi da me, contro il banco di libri un profilo di una donna bruna, alta, procace, con un cardigan blu con il collo a scialle su una gonna stretta nera a fiori bianchi grandi. Non la vedevo bene perchè il sole sparava la luce dalla vetrata e creava un alone luminoso sul profilo sinuoso del suo corpo. "Ma io la conosco, quella donna", pensai. Poi un lampo e mi venne in mente il nome. Silvana. Una ex collega giovanissima, ora meno giovane, dove lavoravo dieci anni prima. Era nell'ufficio legale e mi aveva aiutato nelle beghe amministrative delle autorizzazioni ambientali. Diceva sempre " si può sbrogliare, non si preoccupi Dr. Martelli". Rapporti molto formali. Io sessant'anni e lei forse trentenne. Non c'è mai stato niente fra noi, anche se invidiavo quel collega che vedevo uscire con lei dall'ufficio. Mi  ero appena sposato la seconda volta. 
Dico, ad alta voce perchè mi senta:"" si può sbrogliare, non si preoccupi Dr. Martelli". Si gira verso di me e si avvicina. Il mio sguardo si fissa sulle sue labbra vermiglie che si aprono in un sorriso su denti bianchi perfetti. "Dr Martelli, che sorpresa!". Mi alzo e lei invece di darmi la mano apre le braccia e mi stringe con morbido affetto, baciandomi le guance. Sento che il mio cuore pulsa a mille e il rossore al viso. 
Mi sentivo in imbarazzo per quel sussulto adolescenziale di un ultrasessantenne. Lei lo vide e mi sorrise in modo un pò complice. "Che bello reicontrarsi!", dissi banalmente. Ci raccontammo cosa ci era successo da allora. Lei lavorava in un grande studio legale che aveva uffici in Foro Bonaparte. Sposata divorziata, non aveva figli. Abitava nella via dietro il Teatro Nazionale, proprio a pochi passi. Parlammo, parlammo. Come vecchi amici, che non eravamo mai stati. Lei aveva  una voce dai toni caldi, profondi, tranquillizzante, pacata. Mi lasciavo coinvolgere nel suo racconto che diventava sempre più personale. Aveva voglia di sfogarsi. Parlava della delusione di un'anno prima quando lei e Sandro, suo ex marito, avevano deciso di mettere fine a un rapporto che si trascinava stanco. Tutti e due avvocati, sempre presi dal lavoro. 
Non feci il solito fesso che incominciava con il gioco del tentativo di acchiappo. Anche se il suo racconto sembrava invitarmi. Ascoltavo, sorridevo, commentavo in modo rispettoso, distaccato. "Prendiamo qualcosa da bere, come aperitivo?" Disse lei. Due calici di pinot . Qualche oliva e patatine. "Ma perchè non fai un salto su da me, mangi qualcosa e poi ci salutiamo. Devo essere in ufficio alle 14". Sentii una fitta allo stomaco. "Va bene, mi piace l'idea. Così finiamo di raccontarci". La sua casa era in un vecchio palazzo fine ottocento, perfettamente restaurato. L'appartamento luminoso, arredamento con pochi mobili ma di gran gusto. Colori e atmosfera che si sposava con la morbidezza della padrona di casa. 
Mi preparò una insalata con due uova sode. Bevemmo ancora vino bianco. Mi sentivo un pò bevuto. Non mi piaceva  pensare alla mia espressione poco controllata, per il vino. 
"Silvana è un nome sbagliato per come io ti vedo. Preferirei ti chiamassi Eleonora," dissi scherzando. Ormai i miei freni erano andati. Vedevo che da come mi guardava, che così era  dei suoi. Ci sedemmo su un divano. Di fronte a una finestra. Il caffè. "Ma adesso come ti senti?, " le dissi. Mi rispose che si sentiva realizzata nel lavoro, ma che le mancava una vita di coppia che non aveva più. E aggiunse che erano stati anni intensi, e quando erano finito non era subentrato affetto e voglia di stare insieme. Il suo racconto diventava sempre più personale ed intimo. Quasi come se il fatto che io fossi un estraneo le permettesse di dire tutto di sè.
Il mio ascoltare in  silenzio, come fossi il suo psicanalista, la incoraggiava. Mi diceva: " Vedi, Franco, (ci davamo del tu da quando ci eravamo incontrati, ovvio) quello che mi manca  è il calore". Sapevo che voleva parlare di "quel calore". Le parole dovevano essere quelle meno esplicite. "Di notte mi sveglio in subbuglio". E ancora: " Mi piaccio, mi piacciono le sensazioni che la mia mente produce". Io la guardavo e sentivo che lei aveva intuìto la sintonia con me...intuìto solo, perchè non ci conoscevamo. 
Era l'aver bevuto che ci aveva portato in una dimensione "altra", sempre controllata, ma al tempo stesso molto intima?.  Mi sentivo bene perchè era come da fuori guardassi quella scena sempre più piacevole. Il suo sguardo voleva capire fino a che punto stavo entrando nelle "sue" sensazioni. Pensai che dipendeva da me il farla sentire a suo agio per proseguire quel percorso che la sua mente aveva iniziato. Mi sembrava che attendesse, con il suo sguardo,  un gesto che confermasse  la complicità. Ed io non potevo farlo perchè pensai che  avrebbe rovinato l'atmosfera. Non dissi niente, non potevo rovinare la scena. Qualsiasi parola sarebbe stata sbagliata. Lei si era messa a nudo. Si era fatta penetrare nell'intimo. Quale più bel dono di sè. Ad un quasi sconosciuto.