[...] «Indietro», disse il poliziotto in tono autoritario. I tre arretrarono e lui
avanzò. Si scambiarono di posizione: adesso gli uomini erano dietro
l’agente. Questi spostò il fucile e lo puntò dritto al petto di Reacher.
«Lei è in arresto», dichiarò.
Reacher rimase immobile e chiese: «Con quale accusa?»
«Qualcosa mi verrà in mente», rispose il poliziotto prendendo il fucile con
una mano ed estraendo con l’altra le manette dalla custodia appesa alla
cintura. Le tenne sul palmo. Uno degli uomini alle sue spalle avanzò, le
prese e si portò dietro Reacher.
«Braccia dietro la schiena», intimò il poliziotto.
«Questi uomini sono autorizzati?» chiese Reacher.
«Perché le interessa?»
«A me non interessa, ma a loro dovrebbe. Se mi mettono le mani addosso
senza una buona ragione, si ritroveranno con le braccia spezzate.»
«Sono tutti autorizzati», disse l’agente. «In particolare quello che ha
appena steso.»
Mise entrambe le mani sul fucile.
«Legittima difesa», rispose Reacher.
«Risparmi il fiato per il giudice», replicò il poliziotto.
L’uomo alle sue spalle gli mise le braccia dietro la schiena e lo ammanettò.
Il tipo che aveva sempre fatto da portavoce aprì la portiera dell’auto e la
tenne spalancata.
«Salga in macchina», disse il poliziotto.
Reacher rimase immobile e valutò le alternative. Non impiegò molto. Non
ne aveva. Era ammanettato. Aveva un uomo alle spalle, a circa un metro e
mezzo, altri due erano dietro il poliziotto, sempre a un metro e mezzo. Il
fucile antisommossa era un Mossberg. Non ne riconobbe il modello, ma
aveva un’ottima opinione della marca.
«In macchina», ripeté l’agente.
Reacher girò attorno alla portiera aperta e si infilò dentro. Il sedile era
ricoperto di vinile e vi scivolò facilmente sopra. Il divisorio di sicurezza
era di plastica trasparente antiproiettile. Il cuscino del sedile era stretto,
scomodo per lui che aveva le braccia ammanettate dietro la schiena. Piantò
bene i piedi, uno nel vano sinistro e l’altro nel destro. Suppose che lo
avrebbero sballottato un po’.
Il poliziotto salì davanti. La sospensione cedette sotto il suo peso. Rimise il
Mossberg nella fondina, sbatté la portiera, e partì velocemente. Reacher fu
scagliato all’indietro. Poi l’agente fece una brusca frenata a uno stop e lui
cadde in avanti. Si girò durante il movimento e colpì lo schermo di plastica
con la spalla. Il poliziotto ripeté la mossa all’incrocio successivo e a quello
dopo ancora, ma a Reacher la cosa non creò problemi. C’era da
aspettarselo. In passato, quando lui era davanti e qualcun altro sedeva
dietro, aveva guidato nello stesso modo. Ed era una piccola città. La
stazione di polizia non poteva essere lontana.
Era quattro isolati a ovest e due a sud del ristorante. Si trovava in un altro
edificio anonimo di mattoni, su una strada abbastanza larga da consentire
all’agente di parcheggiare in diagonale, contro il marciapiede. Lì
posteggiata c’era solo un’altra macchina. Piccola città, piccolo
Dipartimento di polizia. L’edificio era a due piani. La polizia occupava il
primo, sopra c’era il tribunale. Reacher suppose che nel seminterrato ci
fossero le celle. Il tragitto fino al banco d’ingresso andò liscio. Non creò
guai, sarebbe stato inutile. Non avevi alcun margine se eri un fuggitivo
appiedato in una cittadina con venti chilometri di strada in una direzione e
forse venti nell’altra. Il banco era presidiato da un agente di pattuglia che
sarebbe potuto essere il fratello minore del poliziotto che lo aveva
arrestato. Stesse dimensioni, stessa sagoma. Stessa faccia, stessi capelli,
anche se questi era un po’ più giovane. Gli tolsero le manette, consegnò la
roba che aveva in tasca e i lacci delle scarpe. Non aveva cintura. Lo
accompagnarono giù per una scala e lo misero in una cella di un metro e
ottanta per due e mezzo con davanti una vecchia inferriata, ridipinta una
cinquantina di volte.
«Il mio avvocato?» domandò.
«Ne conosce uno?» domandò a sua volta l’uomo al banco.
«Quello d’ufficio andrà bene.»
L’uomo al banco annuì, chiuse il cancello e si allontanò. Reacher restò
solo. Il blocco delle celle era vuoto. Tre celle in fila, un corridoio stretto,
niente finestre. Ogni cella aveva un ripiano di ferro fissato al muro che
serviva da letto e un water di acciaio con un lavandino inserito in alto nella
vaschetta. Sul soffitto alcune plafoniere emanavano luce da dietro la grata
metallica. Reacher mise la testa sotto l’acqua fredda, nel lavandino, e si
massaggiò le nocche. Gli facevano male, ma non erano ferite. Si stese sulla
branda e chiuse gli occhi.
Benvenuto a Despair, pensò.