lunedì 18 novembre 2019


LA ZONA MORTA
(The Dead Zone, 1979)
Stephen King
PROLOGO

1

Al tempo in cui si diplomò al college, John Smith aveva scordato tutto della brutta caduta sul ghiaccio in quel giorno di gennaio del 1953. Effettivamente gli sarebbe stato difficile ricordarsene anche quando terminò le scuole secondarie. Suo padre e sua madre, poi, non ne avevano mai saputo niente.Si pattinava su un tratto sgombro dello stagno Runaround nel Durham. I ragazzi più grandi giocavano a hockey con vecchi bastoni imbottiti e utilizzando un paio di ceste per patate come porte. I più piccini annaspavano lì intorno, come i piccoli hanno sempre fatto da tempo immemorabile, le caviglie inarcate in fuori e in dentro in modo buffo, l'alito che si congelava in nuvolette a causa del gran freddo. In un angolo, due copertoni di gomma bruciavano fuligginosi e qualche genitore sedeva lì vicino per sorvegliare i bambini. L'era delle slitte motorizzate era ancora lontana e il divertimento invernale consisteva nel tenere in movimento il proprio corpo anziché un motore a benzina.Johnny era venuto da casa, i pattini gli pendevano da una spalla. Aveva sei anni ed era un buon pattinatore, non abbastanza per giocare a hockey con i grandi, ma in grado di disegnare anelli attorno alla maggior parte dei suoi coetanei che stavano sempre a braccia spalancate per mantenere l'equilìbrio o piombavano pesantemente sul proprio sedere.Stava pattinando lentamente sul margine esterno del tratto sgombro desiderando di saper andare all'indietro come Timmy Benedix e intanto sentiva tutto intorno i rumori sordi e gli scricchiolii misteriosi del ghiaccio sotto la coltre di neve, le grida dei giocatori di hockey, il rombo di un autocarro che attraversava il ponte diretto all'U.S. Gypsum di Lisbon Falls, il mormorio delle voci degli adulti. Era felice di essere vivo in quella fredda, bella giornata d'inverno, nulla lo turbava, non desiderava nulla... tranne che essere capace di pattinare all'indietro, come Timmy Benedix.Passò oltre i copertoni che bruciavano e vide due o tre fra i grandi che si passavano una bottiglia di qualcosa di alcoolico.«Un po' anche a me!» gridò a Chuck Spier che era infagottato in una grande camicia da boscaiolo e portava pantaloni da neve di flanella verde.Chuck sogghignò: «Fila via, bimbo, la tua mamma ti chiama!»Con un ampio sorriso Johnny Smith, anni sei, si allontanò pattinando e sulla strada che costeggiava il ghiaccio vide Timmy Benedix in persona che stava venendo dalla scarpata seguito da suo padre.«Timmy!» gridò. «Guarda!»Compì un semicerchio e cominciò a pattinare goffamente all'indietro.Senza accorgersene, stava invadendo l'area della partita di hockey.«Ehi, ragazzino!» gridò qualcuno. «Togliti di mezzo!»Johnny non sentì. Ci stava riuscendo! Stava pattinando all'indietro! Di colpo aveva afferrato il meccanismo. Stava tutto nel modo di spingere le gambe...Abbassò gli occhi, affascinato, per vedere quello che le sue gambe stavano facendo.Il disco di gomma, grosso, slabbrato e arrotondato agli spigoli, gli sibilò vicino, senza che lui lo vedesse. Uno dei ragazzi più grandi, non certo un ottimo pattinatore, stava inseguendo il disco con un lungo tuffo quasi alla cieca.Chuck Spier lo vide arrivare. Scattò in piedi e urlò: «Johnny! Attenzione!»John alzò la testa e l'attimo dopo il goffo pattinatore, con tutti i suoi settantacinque chili, piombò sul piccolo John Smith.Johnny fu catapultato a braccia spalancate. Una frazione di secondo e poi la sua testa picchiò sul ghiaccio e fu il buio.Buio... ghiaccio nero... buio... ghiaccio nero... nero. Nero.Gli dissero che era svenuto. Tutto ciò che riusciva a ricordare era quello strano pensiero insistente e la vista improvvisa di un cerchio di volti: giocatori spaventati, adulti preoccupati, bambini curiosi. Timmy Benedix che sorrideva stupidamente, Chuck Spier che lo sorreggeva.Ghiaccio nero. Nero.«Allora?» chiese Chuck. «Johnny... come va? Ti sei preso una botta d'inferno.»«Nero», disse Johnny con voce gutturale. «Ghiaccio nero. Non saltarlo più, Chuck.»Chuck guardò attorno, un po' spaventato, poi fissò Johnny. Toccò il grosso bernoccolo che si stava gonfiando sulla fronte del bambino.«Mi rincresce», disse l'inesperto hockeista. «Non l'ho nemmeno visto. I piccoli non devono invadere il campo di gioco. Almeno questa è la regola.» Si guardò attorno, incerto, in cerca di approvazione.«Johnny?» ripeté Chuck. Non gli piaceva lo sguardo che aveva: occhi opachi e sperduti, lontani e freddi. «Stai bene?»«Non saltarlo più», disse Johnny senza rendersi conto di quello che stava dicendo, pensando solo al ghiaccio, al ghiaccio nero. «L'esplosione. L'acido.»«Non conviene portarlo dal dottore?» domandò Chuck a Bill Gendron. «Non sa quello che dice.»«Lasciategli ancora un minuto», suggerì Bill.Glielo lasciarono e la mente di Johnny si schiarì. «Sto bene», mormorò. «Fatemi alzare.» Timmy Benedix stava ancora ghignando, accidenti a lui. Johnny decise che gli avrebbe fatto vedere un paio di cosette. Prima della fine della settimana, gli avrebbe fatto dei bei cerchi intorno... pattinando all'indietro e in avanti.«Vieni qui e siediti per un po' vicino al fuoco», esortò Chuck. «Ti sei preso una botta d'inferno.»Johnny lasciò che lo sistemassero vicino al fuoco. L'odore della gomma che si liquefaceva era acre e pungente e gli causava un po' di nausea. Gli doleva la testa. Il bozzo sopra l'occhio sinistro gli pulsava stranamente. Sembrava che sporgesse di un chilometro.«Ti ricordi chi sei e che cosa ti è successo?» chiese Bill.«Certo. Certo che mi ricordo. Sto bene.»«Come si chiamano tuo papà e tua mamma?»«Herb e Vera, Herb e Vera Smith.»Bill e Chuck si guardarono e si strinsero nelle spalle.«Credo che stia bene», disse Chuck e poi, per la terza volta, «ma di sicuro ha preso una botta d'inferno. Accidenti!»«Questi piccoli...» disse Bill guardando affettuosamente le sue gemelline di otto anni che pattinavano tenendosi per mano. Poi riportò lo sguardo su Johnny. «Probabilmente un adulto ci sarebbe rimasto secco.»«Non un polacco», disse Chuck e scoppiarono a ridere. La bottiglia ricominciò a circolare.Dieci minuti più tardi Johnny era tornato a pattinare; il mal di testa si era attenuato e il bernoccolo spiccava sulla sua fronte come un vistoso marchio di fabbrica. Quando rincasò per il pranzo aveva dimenticato completamente sia la caduta sia lo svenimento per la gioia di avere scoperto come si faceva a pattinare all'indietro.«Santo cielo!» esclamò Vera Smith quando lo vide. «Cosa ti sei fatto?»«Caduto», rispose lui e cominciò a ingozzarsi di minestra al pomodoro.«Ma ti senti proprio bene, John?» gli chiese la madre accarezzandolo dolcemente.«Certo, mammina.» Ed era vero a esclusione di quegli incubi che, di quando in quando, ritornarono durante il mese successivo... gli incubi e una tendenza a essere invaso da una forte sonnolenza in certi momenti della giornata, lui che non l'aveva mai provata prima d'allora. Ma anche quella cessò pressappoco contemporaneamente ai brutti sogni.Stava benone.A metà febbraio, Chuck Spier si alzò una mattina e scoprì che la batteria della sua vecchia De Soto del 1948 era scarica. Cercò di ricaricarla usando il camion della sua fattoria. Mentre collegava il secondo morsetto alla batteria della De Soto, questa gli esplose in faccia inondandolo di schegge e di acido corrosivo. Perse un occhio. Vera disse che era per la misericordia del Signore che non li avesse persi tutti e due. Johnny pensò che era una terribile tragedia e andò con suo padre a far visita a Chuck all'ospedale di Lewiston, una settimana dopo la disgrazia. Vedere il grande Chuck su quel letto d'ospedale così malridotto e indifeso aveva turbato profondamente Johnny e durante la notte sognò di essere lui disteso là dentro.A volte, negli anni seguenti, Johnny ebbe delle premonizioni, per esempio gli accadeva di sapere quale disco la radio avrebbe trasmesso prima che venisse annunciato o suonato, ma non le collegò mai con la sua caduta sul ghiaccio che ormai aveva completamente dimenticato.E le premonizioni non erano poi tanto folgoranti e nemmeno frequenti. Fu soltanto la notte della fiera della contea e della maschera che accadde qualcosa di veramente straordinario. Prima del secondo incidente.In seguito ci ripensò spesso.Il fatto con la ruota della fortuna si verificò prima del secondo incidente.Come un avvertimento che proveniva dalla sua infanzia. 

2
Il viaggiatore di commercio, instancabile sotto il sole bruciante di quell'estate del 1955, attraversava in lungo e in largo il Nebraska e lo Iowa al volante di una berlina Mercury del 1953 che aveva già addosso più di centomila chi lometri. L'auto aveva le valvole ansimanti. Lui era un omaccione, ma con l'aspetto di un ragazzo del Midwest campagnolo; in quell'estate del 1955, dopo solo quattro mesi da quando la sua ditta di vernici in Omaha era fallita, Greg Stillson aveva soltanto ventidue anni.Il baule e i sedili posteriori della Mercury erano zeppi di scatoloni e gli scatoloni erano pieni di libri. Si trattava per la maggior parte di Bibbie di tutti i tipi e i formati. L'articolo più importante era La Bibbia del Cammino della Fede, illustrata con sedici tavole a colori, a un dollaro e sessantanove cent, rilegatura garantita per almeno dieci mesi; poi, per i meno esigenti, c'era Il Nuovo Testamento del Cammino della Fede, per sessantacinque cent, senza illustrazioni, ma con le parole di nostro Signore Gesù Cristo stampate in rosso; e per gli scialacquatori La Vera Parola di Dio, edizione di lusso, a diciannove dollari e novantacinque cent, legata in similpelle bianca, col nome del possessore da imprimere in oro sulla copertina, ventiquattro tavole a colori e un inserto nel mezzo per annotarci nascite, matrimoni e decessi. E la rilegatura della Vera Parola di Dio, edizione lusso, poteva resistere per almeno due anni. C'era anche uno scatolone di una brochure intitolata America la Voce della Verità: Il Complotto giudaico-comunista contro gli Stati Uniti.Con questo opuscolo, stampato su carta da poco prezzo, Greg guadagnava più che con tutte le Bibbie messe assieme. Diceva tutto sul come i Rothschild, i Roosevelt e i Greenblatt stavano impadronendosi dell'economia e del governo degli Stati Uniti. C'erano grafici che mostravano come gli ebrei fossero in diretto collegamento con la cricca comunista-marxista-leninista-trotzista e cioè con l'Anticristo.I giorni del maccartismo non erano finiti da molto a Washington; nel Midwest la stella di Joe McCarthy non era ancora tramontata e Margaret Chase Smith del Maine era conosciuta come «quella vacca» a causa della sua famosa Dichiarazione di Coscienza. Oltre la documentazione sul comunismo, la clientela rurale di Greg Stillson sembrava avere un morboso interesse all'idea che gli ebrei stessero governando il mondo.Greg infilò il polveroso viale d'accesso di una fattoria a circa venti miglia a ovest di Ames, Iowa. Sembrava abbandonata o comunque inospitale: imposte serrate e porte delle stalle chiuse, ma non si può mai sapere se prima non si prova. Questo motto era stato assai utile a Greg in quei due anni circa da quando lui e sua madre si erano trasferiti dall'Oklahoma a Omaha. L'impresa di vernici non era stata uno strepitoso successo, ma lui aveva avuto bisogno di togliersi dalla bocca per un po' il sapore di Gesù, mi si perdoni la piccola bestemmia. Ma ora era tornato all'ovile, questa volta però non sul pulpito o per un revival, e in certo qual modo era un sollievo essere finalmente fuori degli affari.Aprì la portiera e, mentre posava il piede nella polvere del viale, un grosso cane uscì dalla stalla, le orecchie tese all'indietro, e gli abbaiò contro. «Ciao, bastardo», disse Greg con la sua voce bassa, amabile, suadente: la voce di un consumato oratore nonostante i ventidue anni.Il bastardone non sembrò cogliere il tono amichevole. Continuò ad avanzare, grosso e minaccioso, con l'unico miraggio di un pasto a base di viaggiatore di commercio. Greg tornò a sedersi in macchina, chiuse la portiera e suonò due volte il clacson. Il sudore gli colava lungo il viso e aureolava di grigio scuro il suo vestito di candido lino con chiazze circolari sotto le ascelle e con ampie ramificazioni lungo la schiena. Suonò ancora, ma senza esito. I contadini dovevano essere saliti sui loro trattori o sulle loro Studebaker per raggiungere la città.Greg sorrise.Invece di ingranare la retromarcia e abbandonare il campo, si girò e tirò fuori uno spruzzatore di insetticida caricato però con ammoniaca.Tirando indiètro lo stantuffo, Greg scese di nuovo dalla macchina, sempre sorridendo cordialmente. Il cane, che s'era accovacciato a terra, subito si alzò e cominciò ad avanzare verso di lui, ringhiando.Greg continuò a sorridere. «Bravo, bastardino», disse con quella sua voce gentile e suadente. «Vieni qui. Vieni e beccati questo.» Odiava quei cagnacci da fattoria che spadroneggiavano sul loro mezzo acro di cortile come piccoli Cesari arroganti; da loro si poteva capire la scorza dei padroni, per giunta.«Fottuta banda di villani», disse sottovoce. Sorrideva sempre. «Vieni qui, cagnolino.»Il cane venne. Tese le zampe per saltargli addosso. Dalla stalla una mucca muggì e il vento arruffò dolcemente il grano. Mentre la bestia spiccava il salto, il sorriso di Greg si mutò in un ghigno. Premette lo stantuffo e spruzzò una nuvola di ammoniaca puzzolente direttamente negli occhi e sul naso del cane.Il furioso abbaiare si mutò di colpo in brevi guaiti disperati e poi, quando il morso dell'ammoniaca divenne più penetrante, in ululati di dolore. Si diede immediatamente alla fuga, non più cane da guardia ma bastardo sconfitto.Il viso di Greg Stillson s'era incupito, gli occhi ridotti a due fessure minacciose. Avanzò rapidamente e assestò una pedata sui fianchi del cane con una delle sue scarpe pesanti. Il cane lanciò un ululato lacerante e, spinto dal dolore e dal terrore, sigillò il suo destino girandosi per dare battaglia all'artefice della sua miseria, invece di rifugiarsi nella stalla.Ringhiando, si lanciò ciecamente, addentò il risvolto destro dei pantaloni bianchi di Greg e lo lacerò.«Figlio di puttana!» urlò Greg e assestò un'altra pedata al cane, questa volta abbastanza violenta da mandarlo a rotolare nella polvere. Poi, ancora un calcio sempre urlando. Il cane, con gli occhi lacrimanti e il muso straziato, una costola rotta e un'altra malamente scheggiata, avvertì il pericolo rappresentato da quella furia, ma era troppo tardi.Greg Stillson lo inseguì attraverso l'aia polverosa ansimando e gridando, col sudore che gli colava sul viso, e lo scalciò, lo scalciò finché l'animale non fu più in grado neppure di muoversi. Sanguinava da una mezza dozzina di parti. Era agonizzante.«Non dovevi mordermi», sussurrò Greg. «Hai capito? Mi capisci? Non dovevi mordermi, schifosa bestiaccia. Nessuno deve venirmi tra i piedi. Hai capito? Nessuno.» Gli assestò un'altra pedata con la scarpa insanguinata, ma il cane non poté far altro che esalare un rantolo soffocato. A Greg doleva la testa. Colpa del sole, o perché si era accanito sull'animale sotto il sole cocente. Meno male che non era svenuto.Chiuse gli occhi un attimo respirando affannosamente, col sudore che gli scendeva lungo le guance, come lacrime, e gli inzuppava i capelli; il cane straziato moriva ai suoi piedi. Dietro le palpebre chiuse, delle chiazze luminose e colorate, pulsanti al ritmo del suo cuore, fluttuavano nel buio.Gli doleva la testa.A volte si chiedeva se non stesse per diventare matto. Come in quel momento. La sua intenzione era di neutralizzare il cane con una spruzzata d'ammoniaca per farlo ritornare nella stalla, così lui avrebbe potuto lasciare il cartoncino della ditta infilato nella fessura della porta per ripassare in un secondo tempo e piazzare qualche libro. E invece, guarda un po'. Guarda che macello. Come poteva lasciare il suo biglietto da visita, adesso?Aprì gli occhi. Il cane giaceva ai suoi piedi, rantolante, il sangue gli sgorgava dalle narici. Come Greg abbassò lo sguardo, la bestia gli leccò umilmente una scarpa come a riconoscere la propria sconfitta e poi tirò le cuoia.«Non dovevi strapparmi i calzoni», gli disse Greg. «I pantaloni mi costano cinque carte, o cane di merda.»Doveva tagliare la corda. Se la sarebbe vista davvero bella se Clem Zappaterra con moglie e sei figli fosse arrivato in quel momento sulla sua Studebaker e avesse visto Fido crepare lì tra i piedi del malvagio piazzista. Ci avrebbe rimesso il posto» L'Editrice Cammino della Fede non tiene venditori che uccidono cani con padroni cristiani.Ghignando nervosamente, Greg risalì in macchina e uscì velocemente a marcia indietro dal viale. Voltò a est sulla strada sudicia che si stendeva dritta come uno spago attraverso i campi e poco dopo filava a cento all'ora lasciando dietro un piumaggio di polvere lungo tre chilometri.Certo che no, non voleva perdere l'impiego. Non ancora. Gli rendeva bene. Ai trucchetti che l'Editrice Cammino della Fede già conosceva, Greg ne aveva aggiunti altri di sua privata iniziativa che quelli ignoravano. I risultati erano buoni. E poi, andando continuamente in giro, conosceva un sacco di gente... un sacco di ragazze. Era una bella vita, tranne che...Tranne che non ne era soddisfatto.Continuava a guidare con la testa che gli pulsava. No, non era per niente soddisfatto. Sentiva di essere destinato a occupazioni più nobili che vagabondare per il Midwest e vendere Bibbie e falsificare i copia-commissioni per mettersi in tasca due dollari extra al giorno. Sentiva di essere destinato alla... alla...Alla grandezza.Sì, era così, così senz'altro. Qualche settimana prima aveva rimorchiato una ragazza nel fienile. I genitori di lei erano a Davenport per vendere una camionata di galline, lei aveva attaccato chiedendogli se gradiva una limonata e una cosa aveva tirato l'altra e, dopo che se l'era fatta, lei aveva detto che era stato quasi come il solletico di un predicatore e lui le aveva dato uno schiaffo e non sapeva il perché. Uno schiaffo e poi se n'era andato.Be', no.In effetti le sberle erano state tre o quattro. Finché lei s'era messa a gridare e a piangere chiedendo aiuto e allora lui aveva smesso e in qualche modo, usando ogni grammo del fascino che Dio gli aveva dato, era riuscito a rabbonirla. Anche allora la testa gli aveva fatto male, chiazze luminose pulsanti come coltellate gli erano ballate davanti agli occhi e lui aveva cercato di attribuirle al caldo, al caldo esplosivo che c'era nel fienile, ma non era stato affatto il caldo a fargli dolere la testa. Era la stessa sensazione che aveva avvertito nel cortile quando il cane gli aveva strappato i pantaloni, qualcosa di buio e di folle.«Non sono pazzo», disse a voce alta, guidando. Abbassò il vetro del finestrino per lasciar entrare il caldo estivo, l'odore della polvere, del grano e del letame. Accese la radio al massimo e pescò la canzone di Patti Page. Il mal di testa si affievolì un poco.Tutto sta nel controllarti, e nel conservare pulito il tuo curriculum. Così facendo nessuno può fotterti. E lui stava migliorando in entrambe le cose. Non gli tornavano più così frequenti i sogni su suo padre, quei sogni in cui suo padre gli stava davanti, col cappello rialzato sulla fronte, muggendo: «Non sei buono a nulla, nano! Non vali una merda!»Quei sogni non li faceva più tanto spesso proprio perché non erano veri. Non era più un nano. Sì, era stato malato per un bel po' di tempo, da piccolo, minutino ed esile, ma era cresciuto, s'era preso cura di sua madre.E suo padre era morto. Suo padre non poteva vedere. Non poteva, lui, Greg, fargli rimangiare quelle parole, perché il vecchio era morto in un'esplosione di un pozzo petrolifero; era crepato e, per una volta, almeno per una volta, Greg avrebbe voluto dissotterrarlo e urlargli sulla faccia ammuffita: «Avevi torto, papà, avevi torto!» E poi dargli una bella pedata come...Come quella che aveva assestato al cane.Il mal di testa era tornato, opprimente.«Non sono pazzo», disse ancora. Sua madre glielo aveva ripetuto spesso che lui era destinato a qualcosa di grande, di veramente grande, e Greg ci credeva. Si trattava soltanto di tenere le cose sotto controllo, come schiaffeggiare le ragazze e dare calci al cane e conservare pulito il suo curriculum.In che cosa consistesse la sua vera grandezza, l'avrebbe saputo quando questa fosse arrivata. Dir ciò era assolutamente certo.Ripensò al cane, questa volta con l'accenno di un sorriso che non era né divertito né compassionevole.Il successo gli era davanti. Magari ancora lontano di anni, lui era giovane, fiducioso, niente di male a essere giovani finché riesci a capire che non si può avere tutto in un colpo solo. Finché credi che alla fine arriverà il successo.E Dio e il Figliol Gesù aiutano chi la pensa così.Greg Stillson cacciò un gomito cotto dal sole fuori del finestrino e cominciò a fischiare. Schiacciò l'acceleratore, portò la vecchia Mercury a centoventi e galoppò lungo la dritta strada campagnola dello Iowa verso il futuro, ovunque si trovasse. 

PARTE PRIMA
LA RUOTA DELLA FORTUNA CAPITOLO PRIMO 

Le due cose che Sarah ricordò, in seguito, di quella sera furono la sequenza di colpi da lui azzeccati alla ruota della fortuna e la maschera. Ma col passare degli anni, fu alla maschera che lei pensò, se mai riuscì a indursi a ripensare a quell'orribile serata.Lui viveva in un appartamento nei Cleaves Mills. Sarah ci arrivò alle otto meno un quarto, parcheggiò l'auto sull'angolo e citofonò perché le aprisse. Sarebbero usciti con la macchina di lei perché quella di Johnny era ferma nell'autorimessa Tibbets a Hampden con un cuscinetto bloccato o qualcosa del genere. Qualcosa di costoso, le aveva detto Johnny al telefono, e poi s'era messo a ridere, la tipica risata di Johnny Smith. Sarah sarebbe scoppiata in lacrime se fosse capitato alla sua auto, alla sua macchina tascabile.Sarah attraversò l'atrio diretta alle scale, sfiorando la bacheca delle inserzioni appesa alla parete. Di solito era costellata di opuscoli pubblicitari che reclamizzavano motociclette, elementi di impianti stereo, offerte di dattilografe e messaggi di gente che, recandosi in Florida, chiedeva passeggeri paganti per dividere guida e benzina. Ma quella sera la bacheca era dominata da un grande cartello raffigurante un pugno chiuso su uno sfondo rosso violento che ricordava un incendio. Sul poster, c'era stampata in nero un'unica parola: SCIOPERO! Si era sul finire dell'ottobre 1970.Johnny occupava l'appartamento sul davanti della casa, al secondo piano. La mansarda, la chiamava, dove te ne potevi stare in smoking come Ramon Navarro, una generosa dose di spumante in una coppa, a contemplare l'enorme cuore pulsante di Cleaves Mills: la gente frettolosa del dopo spettacolo, i taxi che corrono veloci, le insegne al neon.In realtà, Cleaves Mills era più che altro una strada principale, con un semaforo all'incrocio che dopo le sei del pomeriggio funzionava solo a luce gialla intermittente, con due dozzine di negozi e una piccola fabbrica di mocassini. Come la maggior parte delle cittadine attorno a Orono, dove sorgeva l'università del Maine, la sua vera risorsa consisteva nel rifornire gli studenti di tutto quello che consumavano: birra, vino, benzina, musica, tavole fredde e calde, droga, alloggi e cinema. Il cinema era La Penombra. Dava film d'essai e nostalgiche pellicole degli Anni Quaranta. D'estate ritornava ai western all'italiana di Clint Eastwood.Johnny e Sarah avevano completato da un anno gli studi ed entrambi insegnavano alla Cleaves Mills High. Gli insegnanti, gli amministratori e gli studenti dell'università usavano Cleaves come dormitorio e la cittadina godeva di un invidiabile provento delle tasse. Aveva anche una bella scuola superiore. I locali potevano avercela su con quelli dell'università a causa delle loro chiacchiere, delle loro marce estremiste contro la guerra e delle loro intromissioni nella politica locale, ma non sputavano certo sui dollari che annualmente venivano pagati come tasse sulle graziose villette della facoltà e sulle case affittate agli studenti.Sarah bussò alla porta e Johnny, con voce un po' soffocata, gridò: «È aperto, Sarah!»Un po' sorpresa, spinse l'uscio. L'appartamento di Johnny era completamente al buio, illuminato a tratti dalla luce gialla intermittente del semaforo della strada a mezzo isolato da lì.«Johnny...?»Chiedendosi se fosse saltata una valvola, Sarah arrischiò un esitante passo in avanti e fu allora che le apparve, proprio davanti agli occhi, una faccia orrenda, come uscita da un incubo. Emanava una luce spettrale verde: un occhio era spalancato e sembrava fissarla, l'altro era chiuso. Metà faccia, quella di sinistra, aveva l'occhio aperto e sembrava normale. Ma l'altra metà, di destra, sembrava appartenere alla faccia di un mostro.Sarah lanciò un grido soffocato e balzò indietro ansimando. Poi, si accese la luce e riconobbe l'appartamento di Johnny, con Nixon sulla parete che cercava di vendere automobili usate, il tappeto sul pavimento, fatto a mano dalla madre di Johnny, le bottiglie di vino trasformate in candelieri. La faccia si spense e Sarah vide che era una maschera da pochi soldi, soltanto una maschera che lasciava scoperto soltanto l'occhio sinistro di Johnny.Lui si tolse la maschera e le fu davanti, sorridendole allegramente, vestito con jean sbiaditi e un maglione marrone.«Buon Halloween, Sarah», disse.Ancora le batteva forte il cuore. L'aveva davvero spaventata. «Spiritosissimo», gli rispose lei e si girò per andarsene. Non le piaceva essere terrorizzata in quel modo.Johnny la bloccò sulla porta. «Ehi... Scusami.»«E devi scusarti un bel po'.» Lo guardò freddamente, o almeno cercò di farlo. La sua collera stava già sbollendo. Non si poteva tenere il muso a Johnny, questo era il fatto. Che l'amasse o no, e stava ancora cercando di capirlo, era impossibile essere in collera con lui per molto tempo, o covare rancore. Si chiese se qualcuno mai fosse riuscito a tenere il broncio a Johnny Smith e la sola idea era così ridicola che non poté trattenere un sorriso.«Ecco, così va meglio. Uomo, credevo volessi piantarmi in asso.»«Non sono un uomo.»La mangiò con gli occhi: «Me ne sono accorto».Lei indossava una voluminosa pelliccia finta, tipo procione o qualcosa del genere, e il candido desiderio di lui la fece sorridere di nuovo. «Sull'argomento, non puoi pronunciarti.»«Oh, sì, che posso», le rispose. La circondò con un braccio e la baciò. Dapprima lei non ricambiò il bacio ma subito dopo, naturalmente, cedette.«Mi spiace averti spaventata», ripeté Johnny e strofinò amichevolmente il naso contro il suo prima di lasciarla andare. Prese la maschera fra le mani. «Pensavo ti sarebbe piaciuta. La metterò venerdì alla riunione di classe.»«Oh, Johnny, non contribuirebbe molto alla disciplina.»«In un modo o nell'altro me la caverò», disse lui con una smorfia. E, al diavolo, ci sarebbe riuscito.Lei andava a scuola ogni giorno portando occhiali severi da zitella, i capelli tirati all'indietro in una crocchia così stretta che le faceva venire le lacrime agli occhi. Indossava gonne appena sopra il ginocchio in un periodo in cui la stragrande maggioranza delle ragazze le portava appena sotto l'orlo delle mutandine (e le mie gambe sono migliori di quelle di tutte loro, pensava Sarah con risentimento). Aveva assegnato i posti nei banchi in modo da tenere isolati i disturbatori e spediva risolutamente dal direttore gli allievi indisciplinati. Combatteva una lotta continua con l'incubo tipico dell'insegnante alle prime armi: la disciplina. Aveva la sensazione che, tra gli studenti, si fosse formata una specie di giuria che deliberava su ogni professore nuovo e che il verdetto nei suoi confronti non fosse favorevole.Johnny era il contrario esatto di tutto ciò che un buon insegnante dovrebbe essere. Passava di classe in classe in uno stato quasi di stupore, spesso in ritardo perché si fermava a chiacchierare nei corridoi durante gli intervalli. Lasciava che i ragazzi si sedessero dove volevano, così che la stessa faccia non era mai allo stesso posto per due giorni di seguito e gli indisciplinati della classe gravitavano invariabilmente sul fondo dell'aula. Sarah, con quel sistema, non avrebbe imparato i nomi degli alunni prima di marzo, ma Johnny sembrava già averli tutti sulla punta delle dita.Era alto di statura, un po' dinoccolato; i ragazzi lo chiamavano Frankenstein e lui sembrava divertirsi di ciò invece di offendersi. Le sue classi erano per la maggior parte tranquille, bene educate e con poche assenze; Sarah, invece, era sempre alle prese con il problema di allievi che marinavano la scuola. Insomma, quella stessa giuria scolastica sembrava orientata a favore di Johnny, anzi era il tipico insegnante a cui, da lì a dieci anni, avrebbero dedicato il libro scolastico dell'anno. Sarah non lo era proprio e a volte si chiedeva perché ne facesse una vera e propria malattia.«Vuoi una birra prima che usciamo? Un bicchiere di vino? Qualcosa?»«No, ma spero tu abbia soldi», gli rispose prendendolo a braccetto e decidendo di non essere più arrabbiata. «Mangio sempre per lo meno tre panini, soprattutto all'ultima fiera dell'anno.» Erano diretti a Esty, venti miglia a nord di Cleaves Mills, dove si teneva l'ultima fiera agricola dell'anno del New England che si chiudeva venerdì sera, vigilia d'Ognissanti.«Considerando che venerdì è giorno di paga sono in fondi: posseggo otto dollari.»«Però... L'ho sempre saputo che se mi fossi mantenuta casta e pura alla fine avrei incontrato un ricco protettore.»Lui annuì e sorrise. «Mi infilo il cappotto e andiamo.»Sarah lo guardò con affetto e ripensò a quello che, ultimamente, si era detta sempre più spesso, sotto la doccia, mentre leggeva un libro, preparandosi a una lezione o cucinandosi una cena solitaria: è un uomo molto divertente, ci si sta bene assieme, è simpatico, non mi fa mai piangere. Ma è amore questo? Anche quando ho imparato ad andare in bicicletta, qualche volta sono caduta e mi sono fatta male alle ginocchia. Si tratta di un passaggio obbligato.«Devo andare in bagno», le gridò lui.«Va bene.» Sorrise leggermente. Johnny era una di quelle persone che, immancabilmente, devono comunicare a tutti le proprie necessità corporali.Andò alla finestra e guardò fuori. C'erano dei ragazzi che stavano entrando nel parcheggio vicino a O'Mike dove si mangia la pizza e si beve birra. Di colpo desiderò essere con loro, una di loro. L'università era un asilo sicuro dove tutti, anche gli insegnanti, potevano far parte della brigata di Peter Pan e non diventare mai adulti. E per fare il Capitano Uncino ci sarebbe sempre stato un Nixon o un Agnew.Aveva conosciuto Johnny in settembre, all'inizio dell'anno scolastico, ma già lo conosceva di vista ai corsi preparatori che avevano frequentato insieme. A quell'epoca, era incollata a un Delta Tau Delta e non una delle caratteristiche riferibili a Johnny si applicava a Dan. Quest'ultimo era bellissimo, arguto in un modo tagliente tanto che l'aveva sempre messa un po' a disagio, forte bevitore, amante appassionato. A volte, quando beveva molto, diventava cattivo. Una sera, alla birreria di Bangor, l'uomo nel separé attiguo al loro aveva fatto una battuta su qualcòsa che Dan stava dicendo a proposito della squadra di football e Dan gli aveva chiesto se voleva tornare a casa con la testa voltata dall'altra parte. L'uomo si era scusato, ma Dan non aveva accettato le scuse, voleva farsi una bella scazzottata. Cominciò a fare apprezzamenti pesanti sulla donna che era con quell'uomo. Sarah gli aveva messo una mano sul braccio pregandolo di smetterla. Dan s'era scrollato via la mano e l'aveva guardata con una strana luce piatta negli occhi grigi che le aveva gelato in gola qualunque parola avesse voluto aggiungere. Poi, Dan e l'altro erano usciti e Dan l'aveva pestato. Lo aveva pestato finché l'altro, che era vicino ai quaranta e cominciava a metter su pancia, s'era messo a urlare. Sarah non aveva mai sentito, prima d'allora, un uomo gridare dal dolore e non voleva sentirlo mai più. Se ne erano dovuti andare in fretta perché il barista aveva capito come sarebbe andata a finire e aveva chiamato la polizia. Quella sera avrebbe voluto andare a casa da sola. Ne sei davvero convinta? si era chiesta con cattiveria, ma il campus distava dodici miglia, gli autobus avevano smesso il servizio alle sei e a lei l'autostop faceva paura.Strada facendo, Dan non aprì bocca. Aveva un graffio sulla guancia. Quando arrivarono a casa di Sarah, lei gli disse che non voleva più vederlo. «Come preferisci, baby», aveva risposto lui con una noncuranza che l'aveva gelata. Le telefonò due volte, dopo l'incidente alla birreria, la terza volta Sarah uscì con lui odiandosi per aver accettato l'invito.La storia andò avanti per tutto l'autunno del suo ultimo anno di studi. Dan l'aveva spaventata e attratta allo stesso tempo. Era il suo primo vero amante e ancora, a due giorni dalla vigilia d'Ognissanti del 1970, era rimasto l'unico: lei e Johnny non erano mai andati a letto insieme.Dan, sessualmente, era magnifico. L'aveva usata, ma era stato bellissimo. Lui non voleva prendere nessuna precauzione e così Sarah era stata costretta ad andare all'ambulatorio dell'università dove, con molto imbarazzo e con la scusa di mestruazioni difficili, aveva ottenuto la pillola. Sessualmente Dan l'aveva dominata. Con lui Sarah non godeva molto, ma le sue iniziative un po' rudi erano in parte riuscite a risvegliarle i sensi. Poco prima che si lasciassero, lei aveva cominciato a sentire l'esigenza di arrivare a una sessualità più matura, un desiderio sorprendentemente mescolato ad altre sensazioni: disgusto di sé e di Dan, la sensazione che nessuna sessualità tanto legata all'umiliazione e al plagio potesse essere effettivamente considerata sana sessualità e disprezzo per la propria incapacità a porre fine a una relazione che era soltanto distruttiva.Tutto finì da un giorno all'altro, agli inizi dell'anno. Lui se ne andava. «Dove andrai?» gli aveva chiesto timidamente, seduta sul letto del compagno di stanza di Dan, mentre lui ficcava le sue cose in due valigie. Avrebbe voluto fargli delle domande più personali. Andrai lontano? Ti troverai un impiego? Insegnerai ai corsi serali? Nei tuoi programmi c'è posto per me? Quest'ultima domanda, sopra ogni altra, era stata incapace di pronunciarla anche perché non era preparata a nessuna risposta. La risposta che lui diede all'unica domanda neutra fu comunque sufficientemente sconvolgente.«Vietnam, suppongo.»«Cosa?»Si accostò a uno scaffale, frugò tra le carte che c'erano appoggiate e le porse una lettera. Era del centro reclutamento di Bangor: l'ordine di presentarsi per esami cimici.«Non puoi rifiutare?»«No. Forse. Non lo so.» Accese una sigaretta. «Non credo che nemmeno ci proverò.»Sarah lo fissò sconvolta.«Sono stufo di questo tran tran. College, un lavoro e una mogliettina. Ti eri candidata per il ruolo di mogliettina, suppongo. E non credere che io non ci abbia pensato. Ma non funzionerebbe. Lo sai che non funzionerebbe e lo so anch'io. Io e te non armonizziamo, Sarah.»Allora lei era scappata via avendo avuto la risposta a tutte le sue domande e non l'aveva rivisto mai più. Aveva incontrato qualche volta il compagno di stanza di Dan a cui lui aveva scritto tre lettere tra gennaio e giugno: era stato arruolato e mandato in qualche località del sud per l'addestramento. Da allora, l'amico non ne aveva più saputo nulla e così pure Sarah Bracknell.Dapprima, le parve di sentirsi meglio. Il suo caso non era certo quello descritto da tutte quelle tristi canzoni che si ascoltano alla radio dell'automobile dopo la mezzanotte e che parlano invariabilmente di amori finiti e di sbornie di lacrime. Non si cercò un altro ragazzo di rimpiazzo, non si abbandonò all'alcool. Dedicò quasi tutte le serate di quella primavera allo studio, tranquillamente, nel suo alloggio. Si sentiva sollevata, non in preda a una crisi.Fu solo dopo che ebbe conosciuto Johnny a un ballo di studenti dove entrambi erano stati sorteggiati come chaperon che lei si rese conto di quale disastro fosse stato il suo ultimo semestre scolastico. Il tipo di disastro che non si riesce a vedere finché ci si sta dentro, perché si è troppo coinvolti. Proprio come nella storia delle due scimmie: due scimmie si incontrano, in una città dell'ovest, per fare un viaggio in autostop. Una scimmia è cittadina, con sulla schiena null'altro che una sella. L'altra è una cercatrice d'oro, carica di involti, attrezzi da campeggio, utensili da cucina e sacchetti con venti chili di minerale. La sua schiena è curvata dal peso. La scimmia cittadina dice: ti porti appresso un accidenti di carico. E la scimmia cercatrice d'oro risponde: carico? Quale carico?Ripensandoci, era la solitudine che la terrorizzava. Erano stati cinque mesi d'agonia. Otto mesi, calcolando l'estate, quando Sarah aveva preso in affitto un appartamentino in Flagg Street a Veazie e non aveva fatto altro che cercare un posto d'insegnante e leggere romanzi. Si alzava, faceva colazione, usciva per presentarsi a possibili datori di lavoro, tornava a casa, mangiava, faceva un sonnellino, e i sonnellini a volte duravano quattro ore, mangiava ancora, leggeva fin verso le undici e mezzo, mezzanotte, guardava la televisione finché le veniva sonno, andava a dormire. Non ricordava d'aver mai pensato durante quel periodo. La vita era una routine. A volte, avvertiva un vago senso di dolore ai reni, un dolore inappagato, come le pareva fosse definito da alcune scrittrici di novelle e allora faceva una doccia fredda o un'irrigazione. Dopo un po' le irrigazioni si fecero sempre più penose, il che le diede una specie di amara, remota soddisfazione.Durante quel periodo si congratulava con se stessa, di quando in quando, per la maturità con cui aveva affrontato tutta la vicenda. Non pensava quasi mai a Dan, Dan Chi, ah-ah. Più tardi, si rese conto che, per otto mesi, non aveva pensato a niente e a nessun altro. Il paese intero era passato attraverso sconvolgimenti durante quegli otto mesi, ma lei se ne era appena accorta. Le marce, i poliziotti con l'elmetto e la maschera antigas, i crescenti attacchi sulla stampa scatenati da Agnew, le sparatorie nel Kent, l'estate di violenze quando negri e gruppi radicali avevano occupato le strade, tutte cose che sarebbero potute accadere alla televisione. Sarah era troppo compiaciuta dalla facilità con cui riusciva a dimenticare Dan, da come si stava comportando equilibratamente e da quanto si sentisse sollevata nel trovare che tutto andava benissimo. Ma quale carico?Poi aveva cominciato a insegnare alla Cleaves Mills High ed era stata una rivincita personale trovarsi dall'altro lato della cattedra, dopo sedici anni passati da allleva. E le era successo di conoscere Johnny Smith a quel ballo, anche se con un nome così assurdo, aveva pensato, come poteva essere una persona reale? Ed era tornata abbastanza consapevole di sé da accorgersi del modo con cui lui la guardava, senza secondi fini, ma con un sano apprezzamento per la sua figura chiusa nell'abito di maglia grigio chiaro.Le aveva chiesto di andare con lui al cinema, alla Penombra davano Cittadino Kane, e lei aveva accettato. S'erano trovati bene assieme e lei aveva pensato: Niente fuochi d'artificio. Le era piaciuto il bacio della buonanotte e s'era detta: Non è certo Errol Flynn. L'aveva continuamente fatta sorridere col suo modo di parlare in fretta e con tono cattedratico e lei aveva pensato ancora: Da adulto vuol diventare un Henny Youngman.Quella sera, a casa, mentre era seduta in camera da letto a guardare alla televisione un film con Bette Davis, quei pensieri le tornarono in mente e affondando i denti in una mela si sentiva piuttosto turbata per la propria slealtà.E una voce, che aveva taciuto per più di un anno, si fece udire bruscamente. Quel che vuoi dire è che lui non è certo Dan? Non è così?No! confermò a se stessa, questa volta un po' più turbata. A Dan non ci penso più, per niente. È stato... è stato tanto tempo fa.Ti illudi, replicò la voce, che sia stato tanto tempo fa. Dan è partito ieri.Si rese conto di colpo che stava seduta a casa sua, da sola, di notte, che mangiava una mela, che guardava un film alla televisione di cui non le importava nulla e che stava facendo tutto questo perché era più facile che pensare.Era estremamente turbata, adesso.Era scoppiata in lacrime.Con Johnny era uscita una seconda e una terza volta dopo che lui glielo aveva chiesto e quel fatto servì a rivelarle quello che era diventata. Non avrebbe potuto dire d'avere in quel momento un altro ragazzo, perché non era esattamente così. Era un tipino grazioso e gli aspiranti erano stati numerosi dopo l'affare con Dan, ma i soli appuntamenti che aveva accettato erano stati per andare a mangiarsi un panino con il compagno di stanza di Dan, anche se adesso si rendeva conto, con un leggero disgusto e un po' di pietà per se stessa, che a quegli appuntamenti assolutamente innocui c'era andata per estorcere al povero ragazzo notizie di Dan. Ma quale carico?La maggior parte delle sue compagne del College erano sparite dopo il diploma. Bettye Hackman era in Africa col Peace Corp. Deenie Stubbs insegnava a Houston. Rachel Jurgens s'era sposata e viveva nel Massachusetts.Un po' sorpresa, Sarah aveva dovuto concludere che Johnny Smith era il primo nuovo fidanzato che lei s'era fatta dopo un lunghissimo periodo, e pensare che l'avevano eletta Miss Simpatia della sua classe. Aveva accettato di uscire con due professori di Cleaves, tanto per mantenere le cose in una giusta prospettiva. Uno era Gene Sedecki, il nuovo insegnante di matematica, un vero seccatore. L'altro, George Rounds, aveva subito cercato di allungare le mani. Lei gli aveva rifilato un ceffone, e l'indomani quello aveva avuto l'impudenza di strizzarle l'occhio mentre si incrociavano nell'atrio della scuola.Johnny invece era divertente, un compagno delizioso. E sessualmente la attraeva, quanto fortemente non poteva onestamente però ancora dirlo. Un venerdì sera, dopo una assemblea di insegnanti, lui l'aveva invitata nel suo appartamento per una cena a base di spaghetti. Mentre il sugo si cuoceva, lui era sceso al negozio all'angolo per comprare del vino ed era tornato con due bottiglie di sidro.Dopo mangiato avevano guardato la televisione e avevano cominciato a baciarsi e a strusciarsi e Dio sa dove sarebbero andati a finire se un paio di amici, assistenti all'università, non fossero capitati lì con una mozione della facoltà sulla libertà accademica. Volevano che Johnny desse un'occhiata al documento ed esprimesse il suo parere. Lui l'aveva fatto, ma con meno entusiasmo del solito. Lei lo aveva notato, con caldo, segreto piacere e il pungolo nei reni, l'inappagato dolore, l'aveva questa volta deliziata, quella sera non l'avrebbe certo spento con una irrigazione.Si allontanò dalla finestra, dirigendosi verso il divano dove Johnny aveva lasciato la maschera.«Buon Halloween», sbuffò con una risatina.«Che cosa?» gridò Johnny dal bagno.«Ho detto che se non ti sbrighi, vado via da sola.»«Vengo subito.»«Bene!»Fece correre un dito sulla maschera che raffigurava da una parte il dottor Jekyll e dall'altra Mister Hyde. Gentile dottor Jekyll a sinistra, feroce, inumano Hyde a destra. A che punto saremo io e Johnny il giorno del Ringraziamento? si chiese. O a Natale?L'idea le trasmise per tutto il corpo un fremito di eccitazione.Le piaceva. Johnny era un uomo dolce, perfettamente normale.Contemplò ancora la maschera, l'orribile Hyde che sporgeva dalla faccia di Jekyll come un grumoso carcinoma. La maschera era ricoperta da una vernice fluorescente che l'avrebbe fatta brillare anche al buio.Cosa c'è di normale? Niente, nessuno. Non nella realtà. Se lui era così normale, come poteva venirgli in mente di esibire un oggetto del genere all'assemblea di classe e di poter poi mantenere la disciplina? E come potevano gli allievi chiamarlo Frankenstein, e tuttavia rispettarlo e amarlo? Che cosa vuol dire normale?Johnny apparve, sgusciando tra la tenda a perline che separava la camera da letto e il bagno dal soggiorno.Se mi vuol portare a letto stasera, credo che gli dirò di sì.E fu un pensiero caldo, come tornare a casa.«Di cosa stai ridacchiando?»«Di niente», gli rispose, buttando la maschera sul divano.«No, sul serio. Era qualcosa di bello?»«Johnny», gli disse, mettendogli una mano sul petto e alzandosi in punta di piedi per sfiorarlo con un bacio, «certe cose non si devono mai dire. Dai, usciamo.»

2
In fondo alle scale, nell'atrio, si fermarono un attimo mentre lui si abbottonava il giubbotto, e lei si sorprese a fissare ancora il poster dello SCIOPERO! col pugno chiuso e lo sfondo fiammeggiante.«Ci sarà un altro sciopero studentesco quest'anno», disse lui seguendo lo sguardo di Sarah.«La guerra?»«Solo parzialmente per la guerra. Il Vietnam e la dottrina di Kent hanno attivato molti più studenti che in passato, credo che all'università non ci sono mai state così poche secchie.»«Che vuol dire, secchie?»«Gente che studia per essere promossa, senza alcun interesse verso il sistema, se non dato dal fatto che questo gli assicura, dopo la laurea, un impiego da diecimila dollari l'anno. Una secchia è uno studente al quale non frega niente di niente tranne che della propria pelle. Ma è finita. La maggior parte degli studenti ha aperto gli occhi. Ci sarà qualche cambiamento grosso.»«È così importante per te? Anche adesso che ne sei fuori?»Si raddrizzò. «Madam, sono un ex studente, Smith, diploma del 70. Riempi i boccali per brindare al caro vecchio Maine.»Lei sorrise. «Muoviti, andiamo. Voglio fare un giro sulla giostra prima che chiudano.»«Benissimo», fece lui prendendola a braccetto. «Ho parcheggiato la tua macchina proprio qui all'angolo.»La serata era coperta, ma non pioveva, era dolce per l'ottobre avanzato. Un quarto di luna cercava di bucare la coltre di nuvole. Johnny circondò con un braccio la vita di Sarah, che gli si strinse contro.«Sai, continuo a pensare a te, Sarah, tanto.» Il tono era volutamente casuale. Il cuore di lei rallentò un poco, per poi riprendere veloce.«Sul serio?»«Suppongo che quel ragazzo, Dan, ti abbia fatto soffrire, no?»«Non so cosa m'abbia fatto», rispose lei con sincerità. Era buio ormai. Il lampeggiatore giallo, un isolato dietro di loro, faceva apparire e scomparire le loro ombre sul muro opposto.Johnny parve rifletterci su. «Non vorrei fare anch'io la stessa cosa», disse alla fine.«No, lo so. Ma Johnny... dà tempo al tempo.»«Già», fece lui. «Tempo. Ne abbiamo, suppongo.»E il tempo sembrò ritornare su di lei, con un'ondata di inesprimibile amarezza e rimpianto.Voltarono l'angolo e Johnny le aprì la portiera. Girò attorno all'auto e si sedette al volante. «Hai freddo?» le chiese.«No. È una bella serata.»«Proprio così», convenne lui avviando il motore della macchina. I pensieri di Sarah tornarono a quella ridicola maschera. La metà faccia che raffigurava il dottor Jekyll, con l'occhio azzurro di Johnny che sbirciava da dietro l'occhiaia tonda era accettabile perché ci potevi scorgere dentro un pezzettino di Johnny. Era la metà che raffigurava Mister Hyde che l'aveva spaventata, perché quell'occhio era ridotto a una fessura. Poteva essere chiunque. Assolutamente chiunque. Dan, per esempio.Eppure, quando arrivarono al luna park di Esty, dove le lampadine del viale centrale ammiccavano nel buio e i lunghi raggi al neon della ruota gigante giravano in alto e poi in basso, lei aveva dimenticato la maschera. Era col suo ragazzo e andavano a divertirsi insieme.
3
Tenendosi per mano, e quasi senza parlare, percorsero il viale, e a Sarah sembrò di essere ritornata alle fiere della sua infanzia. Era cresciuta a South Paris, nel Maine occidentale, e la grande fiera era quella di Fryeburg. Per Johnny, ragazzo di Pownal, probabilmente era stata quella di Topsham. Ma in realtà le fiere erano tutte eguali, e non erano cambiate molto col passar degli anni. Si lasciava la macchina nel parcheggio, si pagavano due dollari per l'ingresso, e non appena dentro, si sentiva l'odore dei panini caldi alla salsiccia, dei peperoni e delle cipolle fritte, del lardo, dello zucchero filato, della segatura, e anche quello dolce e aromatico dello sterco di cavallo. Si sentiva il rombo profondo dei rulli del tobbogan, quello che chiamavano Il Topo Matto. Si sentiva lo schiocco delle carabine dei tirassegno, gli squilli metallici delle trombe dell'imbonitore del gioco del Bingo che provenivano dagli altoparlanti appesi tutt'intorno al tendone pieno di cavi, tavolini e sedie pieghevoli prelevate dal mortuario locale. E poi c'era la musica del rock-and-roll che cercava di sovrastare quella dell'organo e, di sottofondo, il vociare continuo degli imbonitori, due colpi venticinque cent, vincete uno di questi cagnolini imbottiti per il vostro bambino, coraggio, tentate la vincita. Non era cambiato nulla. Si tornava fanciulli, ansiosi di essere infinocchiati.«Fermo!» esclamò Sarah. «Il mulinello! Il mulinello!»«D'accordo», rispose Johnny rassegnato. Allungò un dollaro alla donna della biglietteria e ne ebbe in cambio due biglietti rossi e venti cent di resto.«Che cosa vuol dire 'd'accordo'? Perché se sei d'accordo usi quel tono di voce?»Lui si strinse nelle spalle, con un'aria un po' troppo innocente.«Non è per quello che hai detto, John Smith. È per come lo hai detto.»Nel frattempo il giro era terminato. I passeggeri scendevano e defluivano verso l'uscita. Erano per lo più giovanissimi in camiciotti di lana o giacconi di pelle. Johnny precedette Sarah su per la rampa di legno e consegnò i biglietti all'uomo che azionava il mulinello, che aveva un'aria scocciatissima.«Niente», riprese a dire, mentre l'uomo li faceva salire su uno dei piccoli gusci rotondi e chiudeva la sbarra di sicurezza. «Solo che questi carrelli sono su piccole piste circolari, esatto?»«Esatto.»«E le piccole piste circolari sono incastrate su un grande disco circolare che gira e gira tutt'intorno, esatto?»«Esatto.»«Be', quando la velocità è al massimo, il carrello in cui sediamo gira sulla sua pista circolare e a volte arriva a sette g, che è solo cinque volte meno forte di quella che si beccano gli astronauti quando decollano da Cape Kennedy. E io conoscevo un ragazzo...» Johnny ora si piegava solennemente su di lei.«Oh, adesso arriva una delle tue grandi balle», disse Sarah, a disagio.«Quando questo ragazzo aveva cinque anni cadde dai gradini della porta e si fece una frattura sottilissima nella spina dorsale, in cima al collo. Poi, dieci anni dopo, andò sul mulinello alla fiera di Topsham... e...» Alzò le spalle e le diede un confortante colpetto sulla mano. «Ma tu probabilmente te la caverai, Sarah.»«Ohhh... voglio scendere...»E il mulinello li fece turbinare, trasformando la fiera e il viale in una saettante e confusa sfilata di luci e di volti, e lei strillò e rise e cominciò a riempirlo di pugni.«Frattura capillare!» gli gridò. «Te la do io una frattura capillare quando scendiamo, ballista!»«Non senti ancora niente che ti pizzichi il collo?» le chiese lui serafico.«Oh, ballista che non sei altro!»Fecero altri giri, sempre più velocemente e, mentre saettavano oltre il macchinista per la decima o forse quindicesima volta, lui si chinò e la baciò e il carrello piroettò sulle sue guide, suggellando le loro labbra in un contatto caldo, eccitante e intimo. Poi la corsa rallentò, il carrello sferragliò più esitante e alla fine si fermò, cullandoli.Saltarono giù e Sarah si stirò il collo. «Frattura capillare del cavolo», sussurrò.Una donna grassa, in pantaloni celesti e scarpette basse stava passando vicino a loro. Johnny la interpellò, accennando col pollice verso Sarah. «Questa ragazza mi sta importunando, signora. Se vede un agente lo avverte per favore?»«Vi credete tanto spiritosi, voi giovani», rispose sdegnosamente la donna grassa. Veleggiò verso la tenda del Bingo, serrandosi circospetta la borsetta sotto il braccio. Sarah ormai rideva apertamente.«Sei impossibile», disse.«Farò una brutta fine», convenne Johnny. «Mia madre me lo dice sempre.»Camminarono su per il viale, a fianco a fianco, aspettando che il mondo smettesse di ondeggiare ai loro occhi e sotto i loro piedi.«È molto religiosa tua mamma, vero?» domandò Sarah.«È una battista, come puoi immaginare», ammise Johnny. «Ma è a posto. Si controlla. Non può fare a meno di rifilarmi qualche libretto quando vado a casa, è la sua mania. Papà e io la sopportiamo. Avevo l'abitudine di farle domande dirette, le chiedevo che diavolo potesse esserci nel Regno dei Sogni che tenesse compagnia a Caino, se i suoi genitori erano i primi viventi della terra, e via dicendo, ma poi decisi che erano soltanto provocazioni e ho smesso di tormentarla. Due anni fa credevo che Eugene McCarthy avrebbe salvato il mondo, e se non altro i battisti non hanno Gesù che si candida alla presidenza.»«Tuo padre non è credente?»Johnny si mise a ridere. «Non lo so, ma certo non è un battista.» Dopo un attimo di riflessione aggiunse: «Papà fa il falegname» come se quello spiegasse tutto. Lei sorrise.«Che cosa direbbe tua madre se sapesse che frequenti una peccatrice cattolica?»«Mi chiederebbe di portarti in casa», rispose subito Johnny, «in modo da poterti rifilare qualche opuscolo.»Lei si fermò, sempre tenendolo per mano. «Ti piacerebbe portarmi dai tuoi?» Glielo chiese guardandolo fisso.La lunga, simpatica faccia di Johnny si fece seria. «Sì», rispose. «Mi piacerebbe che tu li conoscessi... e viceversa.»«Perché?»«Non lo immagini?» domandò lui dolcemente, e di colpo lei ebbe la gola chiusa e la testa pulsante, come se stesse per piangere. Gli strinse forte la mano.«Oh, Johnny, ti voglio bene.»«Io di più», disse lui convinto.«Portami sulla grande ruota», gli chiese lei improvvisamente, sorridendo. Basta con quell'argomento, finché non avesse avuto modo di rifletterci, di pensare a dove sarebbe potuto sfociare. «Voglio andare su in cima, da dove si vede tutto.»«Lassù in cima potrò baciarti?»«Due volte, se ti spicci.»Si fece guidare da lei fino al botteghino della biglietteria, dove sganciò un altro dollaro. Quand'ebbe pagato, le disse: «Quando ero alle superiori conoscevo un tipo che lavorava nelle fiere e lui diceva che quasi tutti gli addetti al funzionamento dei padiglioni sono sempre ubriachi fradici e si abbandonano a qualsiasi...»«Va' al diavolo», gli rispose Sarah allegramente. «Nessuno campa in eterno.»«Ma tutti ci provano, non l'hai mai notato?» le rispose seguendola in una di quelle gondole ondeggianti. In effetti riuscì a baciarla parecchie volte su in cima, con il vento d'ottobre che gli arruffava i capelli e la fiera che si stendeva sotto di loro come un quadrante luminoso nel buio.
 4
Dopo la ruota, andarono sulla giostra, sebbene lui le avesse confessato di sentirsi ridicolo. Aveva le gambe così lunghe che sarebbe potuto stare in piedi a cavalcioni dei cavallucci di cartapesta. Lei gli disse perfidamente che alle superiori aveva conosciuto una ragazza debole di cuore, ma che nessuno lo sapeva, e un giorno era salita sulla giostra col suo ragazzo e...«Un giorno o l'altro te ne pentirai», le disse Johnny, convinto. «Una relazione basata sulle bugie non può andare avanti, Sarah.»Gli fece uno sberleffo.Dopo la giostra venne il labirinto degli specchi, un bel labirinto davvero, le ricordava quello del racconto di Bradbury Qualcosa di maligno ci aspetta, dove la vecchia maestra quasi si smarrisce. Poteva scorgere Johnny mentre, distante da lei, annaspava e la salutava col braccio. Dozzine di Johnny, dozzine di Sarah. Si oltrepassavano a vicenda, sgusciavano attorno ad angoli non euclidei, sembravano sparire. Lei compiva svolte a sinistra, svolte a destra, picchiò col naso contro lastre di vetro trasparente e ridacchiava di continuo, in parte per una reazione nervosa da claustrofobia. Uno degli specchi la rifletté in una piatta nanerottola. Un altro creò l'apoteosi di una florida fanciulla dagli stinchi lunghi mezzo chilometro.Alla fine si comprarono un paio di salsicciotti e un vassoio colmo di patatine fritte, saporite come difficilmente lo sono dopo che si sono compiuti i quindici anni.Passarono davanti a un baraccone, sulla cui piattaforma stavano tre ragazze in sottana e reggipetto trapunti di paillettes. Ancheggiavano al ritmo di un vecchio motivo di Jerry Lee Lewis, mentre l'imbonitore le incitava da un microfono. «Vieni, baby», imperversava Jerry Lee Lewis col suo pianoforte stentoreo sotto il portico cosparso di segatura. «Vieni, baby, baby prendi il toro per le corna... non c'è trucco... tutto il mondo fa lo skake...»«Club Playboy», si stupì Johnny e si mise a ridere. «Ad Harrison Beach c'era un posto del genere. L'imbonitore giurava che le ragazze riuscivano a toglierti gli occhiali dal naso tenendo le mani legate dietro la schiena.»«Un modo interessante per buscarsi una malattia venerea», commentò Sarah, e Johnny rise di gusto.Alle loro spalle, la voce amplificata dell'imbonitore divenne cavernosa, contrappuntata dal pianoforte di Jerry Lee. «Entrate, giovanotti, venite dentro. Non fate i timidi, perché le ragazze non lo sono di certo, nemmeno un po'! Qui dentro c'è tutto... la vostra cultura non sarà completa finché non vedrete lo spettacolo del Club Playboy...»«Non vuoi completare la tua cultura?» gli chiese Sarah.Johnny sorrise: «Ho completato gli studi fondamentali sull'argomento già da qualche tempo. Posso aspettare ancora un po' prima di prendere la laurea».Lei guardò l'orologio. «Ehi, Johnny, si sta facendo tardi. Domani c'è scuola.»«Già. Meno male che è venerdì.»Lei sospirò, pensando alle lezioni di letteratura moderna che l'aspettavano l'indomani in due classi insopportabilmente turbolente.Erano ritornati indietro lungo il viale. La ressa stava diminuendo. Qualche padiglione era già chiuso. Due uomini con la sigaretta pendente dalle labbra stavano coprendo con un telone Il Topo Matto. L'uomo del tirassegno stava spegnendo le lampadine.«Che cosa fai sabato?» le chiese Johnny di colpo sospettoso. «So che te lo chiedo un po' in ritardo, ma...»«Ho un impegno», rispose Sarah.«Oh!»Ma Sarah non riuscì a sostenere per molto tempo l'aria mortificata di Johnny: «Mi devo vedere con te.»«Hai detto che devi? Perdinci, che bello.» Si guardarono sorridendo. La voce dentro Sarah, che a volte era reale come la voce di una creatura umana, si fece sentire di colpo:Ecco che sei di nuovo felice Sarah. Non è stupendo?«Certo!» le rispose. Si rizzò sulla punta dei piedi e lo baciò svelta. Si lasciò andare prima di un eventuale ripensamento: «A volte a Veazie mi sento sola mica male, sai. Magari, potrei... decidermi a passare la notte da te».Johnny la guardò con un'aria che la commosse: «È questo che desideri, Sarah?»Lei annuì. «Lo desidero moltissimo.»«Ne sono felice», disse lui cingendola con un braccio.«Nei sei sicuro?» gli chiese Sarah vergognandosi un po'.«Ho solo paura che tu possa cambiare idea.»«No, lo sai bene.»Johnny la strinse ancor di più a sé: «È la mia notte fortunata».Proprio in quel momento stavano passando davanti alla ruota della fortuna e Sarah si sarebbe ricordata in seguito che era l'unico padiglione ancora aperto su quel lato del viale, per almeno una trentina di metri a nord e a sud. L'uomo dietro al banco aveva appena finito di far pulizia e scrutava il pavimento alla ricerca di eventuali monetine cadute. Forse la sua ultima incombenza prima di chiudere, pensò lei. Alle spalle dell'uomo la grande ruota a settori, orlata di piccole lampadine elettriche. L'uomo doveva aver sentito il commento di Johnny: «Ehi, se si sente in vena, giovanotto, faccia girare la ruota della fortuna. Trasformi i cent in dollari. C'è proprio tutto nella ruota, tenti la fortuna, un quarto di dollaro per far girare la ruota della fortuna».Al richiamo Johnny si girò di colpo.«Mi sento in vena, proprio come ha detto lui.» Sorrise a Sarah: «Se non ti secca...»«No, vacci. Solo non metterci troppo tempo.»Lui la guardò con quella sua aria schietta e pensosa che la faceva sentire al tempo stesso indifesa e incerta su come sarebbe andata a finire tra loro. Avvertì un colpo allo stomaco, come una leggera nausea e provò un improvviso desiderio sessuale.«No, faccio presto», la rassicurò Johnny. Guardò l'uomo. Il viale alle loro spalle era ormai completamente deserto, le nuvole s'erano infittite e faceva freddo. L'alito si condensava in bianco vapore.«Allora, tenta la fortuna, giovanotto?»«Sì.»Entrando in fiera aveva sistemato tutti gli spiccioli nel taschino davanti e adesso tirò fuori quanto restava dei suoi otto dollari. In totale un dollaro e ottantacinque.Il quadro delle puntate consisteva in una striscia di plastica con numeri e poste dipinti entro dei quadrati. Assomigliava un po' al quadro della roulette, ma Johnny s'accorse subito che le poste avrebbero fatto inorridire un frequentatore di Las Vegas. Una combinazione a cavallo pagava solo due volte la posta. C'erano due caselle, zero e doppio zero. Lo fece rimarcare al croupier che si limitò a scrollare le spalle.«Se volete Las Vegas, andate a Las Vegas. Che altro posso dirvi?»Ma il buon umore di Johnny quella sera era invincibile. Le cose erano cominciate male con quella maschera, ma da allora in poi tutto era andato a gonfie vele. Senz'altro la sua migliore serata da anni, per non dire la migliore in assoluto. Guardò Sarah. Era colorita in volto, gli occhi scintillanti. «Tu che cosa dici, Sarah?»Lei scrollò il capo. «Per me è arabo. Come si fa?»«Si gioca un numero. O rosso/nero. O pari/dispari. O una combinazione di dieci numeri. Pagano tutto in modo differente.» Scrutò il croupier che lo ricambiò con un'occhiata impenetrabile. «Almeno, dovrebbe essere così.»«Punta sul nero», fece lei. «Sembra eccitante, no?»«Nero», disse lui e posò la moneta sul quadrato nero.L'uomo fissò il solitario nichelino che spiccava sulla vastità del quadro: «Puntata ricca», sospirò e si girò verso la ruota.Johnny si portò la mano alla fronte con un gesto vago. «Un momento», disse poi bruscamente. Spinse uno dei suoi quarti di dollaro sul quadrato che indicava 11-20.«Ha puntato? Proprio lì?»«Certo», rispose Johnny.L'uomo impresse il movimento alla ruota che vorticò in un cerchio di luci in cui si confondevano il rosso e il nero. Johnny si toccò la fronte sempre con aria assente. La ruota cominciò a rallentare e si poteva sentire il tic toc della piccola linguetta di legno che superava i rilievi che c'erano tra i numeri. Arrivò all'8, al 9, sembrò fermarsi sul 10, scivolò dentro la casella dell'11 con un clik definitivo e si arrestò.«La signora perde, il signore vince», proclamò l'uomo.«Hai vinto, Johnny?»«Sembra di sì», constatò Johnny mentre l'uomo aggiungeva due quarti di dollaro a quello originale. «Te l'ho detto, Sarah, è la mia sera fortunata.»«Due volte è fortuna, una volta è soltanto un caso», commentò l'uomo.«Provaci ancora, Johnny», incitò Sarah.«D'accordo. Ancora lo stesso.»«Vado?»«Sì.»L'uomo fece partire la ruota e, mentre quella girava, Sarah gli mormorò piano: «Ma è vero che tutte le ruote delle fiere sono truccate?»«Lo erano, di regola. Ma adesso il governo le controlla.»La ruota aveva rallentato i giri. La linguetta superò il 10 ed entrò nel quadrato di Johnny, rallentando sempre più.«Dai, dai!» incitò Sarah. Due ragazzotti, già avviati all'uscita, si fermarono a guardare.La linguetta di legno, adesso lentissimamente, superò il 16 e il 17 e si fermò sul 18.«Il signore vince di nuovo.» L'uomo aggiunse altri sei quarti di dollaro al gruzzolo di Johnny.«Sei ricco!» esclamò cupida Sarah, e lo baciò sulla guancia.«Vai forte, amico», concordò calorosamente l'uomo. «Nessuno abbandona una serie calda. Coraggio.»«Devo continuare?» chiese Johnny alla ragazza.«Perché no?»«Sì, va' avanti, amico!» intervenne uno dei ragazzotti. Su un bottone del suo giubbotto c'era la faccia di Jimi Hendrix. «Quello lì m'ha fregato otto dollari stasera. Ci godo se prende una battuta.»«A te allora», disse Johnny a Sarah. Le diede un quarto di dollaro della pila dei nove. Dopo un attimo d'esitazione, lei lo pose sul 21. Un en plein pagato dieci a uno segnalava il tabellone.«Lei, amico, resta sempre lì, vero?»Johnny guardò le otto monete impilate sul quadro, poi cominciò a strofinarsi la fronte, come per un inizio di mal di testa. D'improvviso, raccolse il gruzzolo e lo fece tintinnare tra le mani a coppa.«No. Faccia girare per la signora. Stavolta sto a guardare.»Lei lo guardò senza capire: «Johnny?»Lui si strinse nelle spalle: «È soltanto un presentimento».L'uomo della ruota strabuzzò gli occhi come per dire cielo-dammi-tu-la-forza-di-sopportare-questo-incosciente e fece partire ancora il suo aggeggio. Ruotò, rallentò, e si fermò. Sul doppio zero. «Il banco vince, vince il banco», cantilenò l'uomo e la puntata di Sarah sparì nel suo grembiule.«Ma è giusto, Johnny?» chiese Sarah, delusa.«Zero e doppio zero fanno vincere solo il banco.»«Allora sei stato bravo a ritirare i tuoi soldi.»«Credo proprio di sì.»«Volete che faccia girare la ruota o che me ne vada a bere un caffè?» volle sapere l'uomo.«Forza», disse Johnny, e mise i suoi quarti di dollaro su due cavé della terza colonna.Mentre la ruota ronzava entro la sua cornice di luci, Sarah domandò a Johnny sempre con gli occhi al mulinello: «Quanto può fare in una sera un posto come questo?»Ai due ragazzotti s'era unito un quartetto di adulti, due uomini e due donne. Uno degli uomini, dalla corporatura massiccia, rispose: «Qualcosa tra i cinque e i settecento dollari».L'uomo della ruota alzò ancora gli occhi al cielo. «Oh, amico, come vorrei che avesse ragione.»«Ehi, non venga a pianger miseria con me», replicò l'uomo massiccio. «Vent'anni fa ci ho lavorato anch'io con quell'affare. Da cinque a settecento per sera e di sabato anche duemila. E con una ruota pulita.»Johnny tenne d'occhio la ruota, che ora girava abbastanza lentamente da far leggere ogni numero. L'indice scattò oltre lo zero e il doppio zero, poi superò la prima colonna e la seconda, rallentando ancora.«Troppa forza», disse uno dei ragazzi.«Aspetta», fece Johnny con un tono di voce tutto particolare. Sarah lo guardò e la lunga, simpatica faccia di lui appariva stranamente tesa, gli occhi azzurri più scuri del solito, assenti e lontani.L'indice si arrestò definitivamente sul 30.«Bel colpo, bel colpo», salmodiò rassegnato l'uomo, mentre la piccola folla alle spalle di Johnny e di Sarah applaudiva. Il tipo massiccio diede a Johnny una pacca tale da farlo barcollare un po'. L'uomo della ruota pescò dentro la scatola sotto il banco e aggiunse quattro dollari agli otto quarti di Johnny.«Adesso smetti?» chiese Sarah.«Ancora una», rispose Johnny. «Se vinco, l'ometto ci paga la fiera e la tua benzina. Se perdo, siamo sotto di mezzo dollaro circa.»«Gente gente, gente», riattaccò quello della ruota. Si stava riavendo. «Puntate dove volete. Avanti un altro, fatevi sotto. La ruota non si guarda, si gioca. La ruota corre, corre e dove va a fermarsi mai nessuno lo saprà.»L'uomo robusto e i due ragazzotti si fecero avanti, mettendosi a fianco di Johnny e Sarah. Dopo un breve conciliabolo i due ragazzi misero insieme spiccioli per mezzo dollaro e li posarono sulla colonna mediana. L'uomo robusto, che si presentò come Steve Bernhardt, sistemò un dollaro sul pari.«E lei giovanotto?» chiese quello della ruota a Johnny.«Gioca ancora lo stesso posto?»«Sì.»«Ehi, dico», esclamò uno dei ragazzotti, «questo è sfidare la sorte.»«Direi», fece Johnny, e Sarah gli sorrise.Bernhardt lanciò un'occhiata indagatrice a Johnny, e di colpo spostò il proprio dollaro sulla stessa terza colonna. «Al diavolo», sospirò il ragazzo che aveva parlato di sfida alla sorte. Anche lui spostò i cinquanta cent sulla colonna di Johnny.«Tutte le uova in questo paniere», commentò l'uomo della ruota. «Siete convinti?»I giocatori, in silenzio, accennarono di sì. Un paio di scaricatori di porto s'erano fermati a guardare e uno di loro era accompagnato da una donna; adesso c'era un crocchio abbastanza numeroso davanti al baraccone della ruota. L'uomo le assestò una spinta vigorosa. Dodici paia di occhi la guardarono girare. Sarah si sorprese a fissare ancora Johnny, pensando quanto strano sembrasse il suo volto. Pensò di nuovo alla maschera del dottor Jekyll e Mister Hyde, pari o dispari, si disse. Lo stomaco le si rivoltò ancora, dandole un po' di vertigine. La ruota rallentò, cominciò a ticchettare. I due ragazzoni la incitarono perché proseguisse la corsa.«Ancora un po', baby», implorò Steve Bernhardt. «Ancora un passetto, tesoro.»La ruota ticchettò sulla terza colonna, si fermò sul 24. Di nuovo la folla acclamò.«Johnny, ce l'hai fatta, ce l'hai fatta!» gridò Sarah.L'uomo della ruota fischiò tra i denti, irritato, e pagò. Un dollaro per i due ragazzotti, due a Bernhardt, un pezzo da dieci e due da uno a Johnny che adesso aveva sul quadro diciotto dollari.«Bel colpo, bel colpo, gente. Ancora uno, giovanotto? Stasera la ruota le vuol bene.»Johnny guardò Sarah.«Decidi tu, Johnny», disse lei ma di colpo si sentì a disagio.«Forza, amico», incitò il ragazzo col bottone di Jimi Hendrix. «Ci godo a vedere la battuta di quello lì.»«Okay», disse Johnny, «per l'ultima volta.»«Punti dove vuole.»Tutti fissarono Johnny, che rimase pensoso per un attimo stropicciandosi ancora la fronte. Il suo viso, di solito ridente, era calmo, serio e composto. Guardava la ruota nella sua cornice di luci e si tormentava con le dita la fronte, sopra l'occhio destro.«Lo stesso di prima», disse alla fine.Ci fu un piccolo mormorio.«Dico, questo è davvero sfidare la sorte.»«Ha del fegato», disse Bernhardt guardando sua moglie, che si strinse nelle spalle a sottolineare la propria meraviglia. «Mi accodo, in barba alla scalogna.»Il ragazzotto dal bottone sbirciò l'amico che scrollò le spalle e annuì: «Okay», disse. «Anche noi ci restiamo.»La ruota partì. Sarah sentì uno dei facchini scommettere con l'altro cinque dollari contro l'uscita della combinazione per la terza volta. Il suo stomaco ebbe un altro rimescolìo, che però non si fermò al punto che lei capì che stava per vomitare. La faccia le si imperlò di sudore freddo.La ruota cominciò a rallentare alla terza colonna e uno dei ragazzotti agitò le mani, deluso. Ma non si allontanò. La ruota ticchettò sull'11, sul 12, sul 13. L'uomo finalmente sembrava felice. Tic toc tic, 14, 15, 16.«Ci va», disse Bernhardt, e c'era reverenza e paura nella sua voce. L'uomo fissava la ruota come per cercare di fermarla. L'indice ticchettò sul 20, sul 21, e si fermò nella casella del 22.Ci fu un altro urlo di trionfo nella folla, che ormai era aumentata a quasi una ventina di persone. Sembrava che tutti quelli rimasti in fiera si fossero radunati lì. Sarah udì debolmente lo scaricatore che aveva perduto la scommessa brontolare qualcosa su un «culo del diavolo» mentre pagava. La testa le pulsava forte. Le gambe le si fecero di colpo terribilmente deboli, i muscoli tremanti. Batté più volte gli occhi, e ne ricavò solo un attimo di vertigine nauseante. Il mondo le sembrò alzarsi di sghembo, come quando era sul mulinello e poi si riadagiò lentamente.Un salsicciotto andato a male, pensò lugubremente. Ecco che cosa ti capita per aver voluto venire alla fiera, Sarah.«Gente-gente-gente», disse l'uomo della ruota con scarso entusiasmo, e pagò. Due dollari ai ragazzotti, quattro a Steve Bernhardt, e poi un mazzetto a Johnny, tre da dieci, uno da cinque e uno da uno. L'uomo non era arcifelice ma era anche un ottimista. Se il giovanotto alto e sparuto con la biondina tentava ancora la terza colonna, lui avrebbe quasi certamente recuperato del tutto quanto aveva finora sborsato. Finché restavano sul quadro, i soldi non erano del giovanotto. E se quello faceva ancora centro? Be', quel giorno con la ruota aveva guadagnato un migliaio di dollari, poteva quindi permettersi di pagare qualcosa. Sarebbe corsa la voce che la ruota di Sol Drummore era sbancata e le puntate dell'indomani sarebbero state buone. Un vincente era una buona pubblicità.«Puntate a volontà, la ruota parte e va», cantilenò. Diversi tra gli astanti si erano avvicinati e stavano mettendo dieci cent e quarti di dollaro. Ma l'uomo guardava soltanto un giocatore: «Allora, amico? Vuole sbancare la ruota?»Johnny si girò verso Sarah: «Che cosa vuoi... ehi, stai male? Sei bianca come un lenzuolo».«Lo stomaco», rispose riuscendo a sorridere. «Penso sia stata la salsiccia. Non possiamo andare a casa?»«Ma certo.» Stava prelevando dal quadro le banconote spiegazzate, quando gli occhi gli caddero ancora sulla ruota. La preoccupazione per lei si dissipò nel suo sguardo. I suoi occhi si erano rifatti più scuri, freddamente calcolatori. Guarda quella ruota come un bambino guarderebbe la sua colonia privata di formiche, pensò Sarah.«Solo un momento», le disse.«Va bene», fu la risposta di Sarah, che però ora si sentiva la testa vuota e lo stomaco in agonia. E in pancia dei brontolii che non le piacevano affatto. Dio mio, non le uscite posteriori, per carità.Pensò: Non è soddisfatto finché non perde tutto quello che ha vinto.E poi, con strana certezza: Ma non perderà.«Allora, giovanotto?» chiese l'uomo della ruota. «Avanti o indietro? Dentro o fuori?»«Cesso o successo», esclamò uno degli scaricatori, e vi fu una risata nervosa. La testa di Sarah turbinava.Improvvisamente, Johnny ammucchiò dollari e quarti di dollaro nell'angolo del quadro.«Che cosa sta facendo?» chiese l'uomo, con sincero stupore.«Tutto il malloppo sul 19», disse Johnny.Sarah soffocò un gemito.La folla mormorò.«Non esageri», ammonì Steve Bernhardt nell'orecchio di Johnny, che non rispose. Fissava la ruota con aria indifferente. I suoi occhi sembravano quasi viola.Un improvviso tintinnio avvertì Sarah che gli altri che avevano puntato stavano ritirando i soldi dal tabellone, lasciando che Johnny restasse il solo a giocare.No! Ebbe l'impulso di gridare. Non in quel modo, non lui solo, non è legale...Si morse le labbra, temendo di vomitare se avesse aperto la bocca. Lo stomaco, ora, la faceva impazzire. La pila delle vincite di Johnny era lì solitaria sotto le lampade. Cinquantaquattro dollari, e l'en plein pagava dieci volte la posta.L'uomo della ruota si inumidì le labbra. «Signore, il governo mi proibisce di accettare puntate oltre i due dollari su un numero solo.»«Balle», brontolò Bernhardt. «Non dovrebbe nemmeno accettare puntate sopra i dieci dollari sulle combinazioni, però al ragazzo gliene ha lasciate fare di diciotto dollari. Che cosa c'è, le cominciano a tremare le balle?»«No, solo che...»«Si decida», disse John bruscamente. «O tutto o niente. La mia ragazza si sente male.»L'uomo della ruota valutò la folla, che gli ricambiò occhiate torve. Si metteva male. Quelli non capivano che il giovanotto stava buttando via i suoi soldi e che lui cercava di dissuaderlo. Al diavolo! In un modo o nell'altro, a quelli lì non sarebbe piaciuto. Che il ragazzo facesse la sua sparata, si mangiasse tutti i soldi, così lui poteva chiudere per quella sera.«Bene», disse, «dal momento che nessuno di voi è un ispettore governativo...» Si girò verso la ruota. «Gira e rigira la ruota va e dove si ferma nessuno sa.»Impresse la spinta e i numeri si confusero nella sequenza rapidissima. Per attimi che sembrarono molto più lunghi del reale, non vi fu altro suono che il fruscio della ruota della fortuna, del vento notturno che faceva fremere un lembo del tendone, e il battito doloroso nella testa di Sarah. Desiderava disperatamente che Johnny la circondasse con un braccio, ma lui era immobile, le mani sul tabellone, gli occhi sulla ruota che sembrava non volersi più fermare.Alla fine, quella rallentò quanto bastava per permettere a Sarah di leggere i numeri; vide il 19, l'1 e il 9 risaltanti rosso vivo sul fondo nero. Su e giù, su e giù. Il fruscio uniforme della ruota si trasformò in un ticchettare, che nel silenzio sembrò fortissimo.Adesso i numeri trascorrevano oltre l'indice con distinta determinazione.Uno degli scaricatori esclamò, meravigliato. «Cristo, ci va vicino, comunque!»Johnny era lì, tranquillo, a fissare la ruota e a Sarah sembrò (ma forse era il malessere che adesso le aveva invaso la pancia) che gli occhi di lui fossero quasi neri. Jekyll e Hyde pensò, e improvvisamente, irragionevolmente, ne ebbe paura.Tic tac tic.La ruota ticchettò sulla seconda colonna, superò il 15 e il 16, scattò oltre il 17 e, dopo un attimo di esitazione, anche oltre il 18. Con un ultimo tic! l'indice s'arrestò nella casella del 19. La folla trattenne il fiato. La ruota girò lentamente, spostando l'indice contro il divisorio tra il 19 e il 20. Per una frazione di secondo parve che il divisorio non riuscisse a trattenere la linguetta sul 19, che il moto agonizzante e residuo la spingesse sul 20. Poi la ruota rimbalzò, priva di forza, e si fermò.Per un attimo, nessuna reazione dalla folla. Silenzio assoluto.Poi uno dei ragazzotti, sommesso e stupefatto. «Ehi, signore, ha vinto cinquecentoquaranta dollari.»«Mai visto un colpo come questo. Mai», disse Steve Bernhardt.Poi la folla esplose. Johnny ricevette manate sulle spalle, pugni nelle costole. La gente travolse Sarah per poterlo toccare e separata da lui la ragazza fu invasa da un panico assurdo e sconvolgente. Priva di forze, fu spinta qua e là. Il suo stomaco era ormai stravolto e visioni postume della ruota turbinante ondeggiavano tuttora davanti ai suoi occhi.Un attimo dopo Johnny le era di nuovo accanto e lei vide con gioia che era tornato a essere Johnny e non l'impassibile, legnosa figura che aveva spiato la ruota nell'ultima puntata. Johnny appariva confuso e preoccupato per lei.«Baby, scusami», le disse e lei lo amò per quello.«Sto bene», gli rispose, senza sapere se era vero o no.L'uomo della ruota si schiarì la gola. «La ruota chiude», annunciò. «La ruota chiude.»Dalla folla salì un brontolìo rassegnato.L'uomo guardò Johnny. «Devo darle un assegno, signore. Non ho più i contanti sufficienti.»«Certo, come vuole», disse Johnny. «Solo, faccia in fretta. La signora sta davvero male.»«Un assegno, come no», saltò su a dire Steve Bernhardt con infinito disprezzo. «Le darà un assegno che sarà scoperto come il sedere di una vacca, e lui sarà in Florida per l'inverno.»«Caro signore», attaccò l'uomo della ruota, «le do le più ampie garanzie...»«Oh, dalle a tua madre, che forse ti crederà», ribatté Bernhardt che di colpo raggiunse il tabellone e si chinò sotto il banco.«Ehi!» strillò l'uomo. «Questa è una rapina!»La folla non parve commuoversi all'appello.«Per favore», mormorò Sarah, in preda alle vertigini.«Non mi importa dei soldi», disse Johnny improvvisamente. «Lasciateci andare, per piacere. La signora si sente male.»«Oh, questa poi», fece il ragazzotto col bottone di Jimi Hendrix, ma si scostò riluttante insieme al suo amico.«No, Johnny», riuscì a profferire Sarah, quantunque ormai riuscisse a non vomitare solo per uno sforzo di volontà. «Prendili i tuoi soldi.» Cinquecento dollari costituivano lo stipendio di Johnny di tre settimane.«Paga, trombone!» ruggì Bernhardt. Tirò fuori da sotto il banco la scatola da sigari, la mise da un lato senza neanche guardarla, si chinò ancora, e questa volta emerse con una cassettina d'acciaio verniciata di verde industriale. La sbatté sul tabellone. «Se non ci sono dentro cinquecento e quaranta dollari, mi mangio la camicia in presenza di tutti loro signori.» Calò una mano pesante sulla spalla di Johnny. «Aspetti un momento, figliolo. Avrà i suoi soldi o io non mi chiamo più Steve Bernhardt.»«Davvero, signore, non ho tanto...»«Tu paga», Steve Bernhardt torreggiò sull'uomo, «altrimenti ti faccio togliere la licenza. Lo faccio, credimi, te lo giuro.»L'uomo della ruota sospirò, e si frugò nella camicia. Ne tirò fuori una chiave appesa a una catenella. La folla respirò. Sarah era all'estremo. Lo stomaco lo sentiva gonfio, e di colpo inerte, come morto. Le stava venendo su tutto e con la velocità di un treno rapido. Si allontanò barcollando da Johnny e annaspò tra la gente.«Ma si sente bene, cara?» le chiese una voce di donna, e Sarah scosse ciecamente la testa.«Sarah!» chiamò Johnny.Non puoi sfuggire... a Jekyll e a Hyde, pensò incoerentemente. La maschera fluorescente sembrava penderle pazzamente davanti agli occhi, nel buio del viale, mentre si affrettava oltre la giostra. Urtò un palo con la spalla, barcollò, vi si aggrappò, e vomitò. Sembrava come un pugno doloroso che partisse dai piedi, rovesciandole lo stomaco.Ha l'odore dello zucchero filato, pensò e con un gemito vomitò ancora, e poi ancora. Davanti agli occhi, le danzavano macchioline. L'ultimo conato non era che muco e aria.«Oh, mio Dio», disse debolmente e si aggrappò al palo per non cadere. Dietro di lei, in lontananza, Johnny la stava chiamando, ma lei non poteva ancora rispondere, non voleva rispondere. Lo stomaco le si stava riassestando un pochino e lei voleva rimanere lì, al buio, ancora un momento e congratularsi d'essere viva, o di essere sopravvissuta alla sua serata in fiera.«Sarah? Sarah?»Sputò due volte, per pulirsi la bocca.«Sono qui, Johnny.»Lui girò attorno alla giostra, con i cavallucci di gesso irrigiditi in un mezzo salto. Sarah vide che stringeva in una mano, con aria assente, un grosso fascio di banconote.«Stai bene?»«No, ma meglio. Ho vomitato.»«Oh, oh, Gesù. Andiamo a casa.» La prese dolcemente per un braccio.«I soldi li hai avuti.»Johnny abbassò gli occhi sul mazzetto di banconote, e se lo ficcò nella tasca dei calzoni, con aria assente. «Sì, tutti o in parte, non so. Li ha contati quel tale grande e grosso.»Sarah prese un fazzoletto dalla borsetta e cominciò a strofinarsene la bocca. Un sorso d'acqua, pensò. Darei l'anima per un bicchier d'acqua.«Dovresti stare attento», gli disse. «Sono un sacco di soldi.»«I soldi trovati non portano fortuna», le rispose cupamente. «Una delle massime di mia madre. Ne ha un milione. E sul gioco d'azzardo fa scintille.»«Pura lana vergine battista al mille per mille», volle fare il verso Sarah e poi rabbrividì convulsamente.«Come ti senti?» le chiese, preoccupatissimo.«Sono ghiacciata», gli rispose. «In macchina voglio il riscaldamento al massimo e... oh, Dio, mi viene ancora da vomitare.»Gli girò le spalle e vomitò bava. Vacillava e lui la sostenne dolcemente ma con fermezza: «Riesci a camminare fino alla macchina?»«Sì, ora sto bene.» Ma la testa le doleva, si sentiva la bocca inaridita e i muscoli della schiena e dell'addome tesi e intorpiditi.Camminarono lentamente per il viale, trascinando i piedi sulla segatura e superando tendoni chiusi e annodati. Un'ombra emerse alle loro spalle e Johnny si guardò attorno allarmato, forse rendendosi improvvisamente conto di quanti soldi aveva addosso.Era uno dei ragazzotti, sui quindici anni. Sorrideva timidamente. «Spero si senta meglio», disse rivolto a Sarah. «Sono state quelle salsicce, scommetto. Capita spesso di trovarne guaste.»«Per favore, non parliamo di salsicce», implorò Sarah.«Le occorre una mano per portarla fino all'auto?» La domanda era diretta molto gentilmente a Johnny.«No, grazie. Va bene così.»«Okay. Adesso devo andare.» Ma indugiò ancora un momento, con un sorriso che diventava sempre di più un sogghigno. «M'è piaciuto un sacco vedere quel tizio prendersi la battuta.»Sparì nel buio.La berlinetta bianca di Sarah era la sola auto rimasta nel parcheggio; era accucciata sotto un fanale al sodio come una bambola dimenticata. Johnny aprì la portiera per Sarah e lei si sistemò all'interno accuratamente. Lui scivolò al volante e accese il motore.«Ci vorrà qualche minuto per il riscaldamento», le disse.«Non preoccuparti. Adesso ho molto caldo.»La guardò, e vide che aveva il viso cosparso di sudore. «Forse dovremmo fare un salto al pronto soccorso», disse. «Se è salmonellosi, può essere un affare serio.»«No, sto bene. Voglio solo andare a casa e mettermi a letto. Domattina mi alzo soltanto per telefonare a scuola che sono malata e poi torno subito a letto.»«Non pensarci. Avviserò io per te, Sarah.»Lo guardò, grata. «Davvero?»«Certo.»Adesso erano già sull'autostrada.«Mi dispiace di non poter venire da te», fece Sarah. «Mi dispiace tanto, sinceramente.»«Non è colpa tua.»«Sì, invece. Ho mangiato un salsicciotto guasto. Che seccatura!»«Ti amo, Sarah», disse Johnny. Così l'aveva detto, non poteva più ritirarsi, la frase restò sospesa tra loro, in attesa che qualcuno facesse qualcosa.Lei riuscì soltanto a dirgli: «Grazie, Johnny».Proseguirono in un delizioso silenzio.