VITA E DESTINOVasilij Grossman
Postfazione a "Stalingrado"
Robert Chandler
Vita e destino, il romanzo portato a termine da Vasilij Grossman nel 1960 e accolto come il Guerra e pace del Novecento, è stato tradotto in quasi tutte le lingue europee – oltre che in cinese, giapponese, coreano, turco e vietnamita –, è stato adattato per il teatro e la televisione, e perfino trasposto in una versione radiofonica di otto ore per la BBC. Tuttavia, il lettore può non sapere che Grossman aveva in origine concepito Vita e destino non come un romanzo a sé, ma come il secondo di due, strettamente legati, incentrati sulla battaglia di Stalingrado, e a cui sarebbe forse più semplice riferirsi come a una dilogia. Il primo romanzo, pubblicato nel 1952 con il titolo Za pravoe delo (Per la giusta causa), nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto chiamarsi Stalingrado. Ed è appunto questo il titolo che si è deciso di dare alla nostra traduzione.
Nei due romanzi i personaggi sono in larga parte gli stessi, e lo stesso vale per la trama: Vita e destino riprende dal punto in cui Stalingrado si conclude, ovvero alla fine del settembre 1942. La disquisizione di Ikonnikov sulla bontà illogica, ora in Vita e destino e spesso considerata nodale per il romanzo, era inizialmente parte di Stalingrado. E la lettera in cui la madre di Štrum scrive dei suoi ultimi giorni nel ghetto di Berdičev – passaggio tra i più memorabili di Vita e destino – è in egual misura cruciale per entrambi i romanzi. Se è pur vero che il contenuto della lettera è stato pensato per Vita e destino, è in Stalingrado che ci vengono raccontati il suo viaggio per arrivare a destinazione e ciò che Štrum prova nel leggerla.
Grossman finì di scrivere il secondo romanzo quindici anni dopo aver cominciato il primo. Vita e destino, fra le altre cose, è ritenuto il manifesto della sua filosofia morale e politica – una meditazione sulla natura del totalitarismo, sul pericolo di ogni ideologia, anche la più apparentemente innocua, e sulla responsabilità morale che ogni individuo ha delle proprie azioni. E non sono pochi i lettori a sostenere che una tale profondità filosofica ha cambiato loro la vita. Al contrario, Stalingrado è meno filosofico, più immediato, e presenta una storia umana più ricca e variegata.
INTRODUZIONE
Efim Etkind.
"Non sono colpevoli. Forze di piombo, oscure, li sospingevano, milioni di tonnellate pesavano su di loro. Non vi sono innocenti tra i vivi. Tutti sono colpevoli, tu imputato, tu procuratore, ed io che penso all'imputato, al procuratore e al giudice.
Ma perché ci fa tanto male e vergogna la nostra abiezione?" Vasilij Grossman, "Tutto scorre". Più di vent'anni fa - nel 1960 - Vasilij Grossman terminava il suo romanzo "Vita e destino". Il libro uscì nel 1980, non nel paese dell'autore, ma in Occidente.
Vent'anni...
Molto tempo.
In vent'anni un uomo può cambiare totalmente, il pianeta può subire una metamorfosi, i gusti estetici trasformarsi.
Ma il vero, l'essenziale, il fondamentale non cambiano.
Il pane rimane il pane, l'acqua è sempre l'acqua.
Nel corso dei due ultimi decenni i gusti si sono evoluti, come pure le idee.
Tuttavia, il romanzo "Vita e destino" ha saputo mantenere una importanza vitale.
Non ha perso nulla della sua forza esplosiva.
La vicenda di questo libro è unica; eccola a grandi linee.
Nel 1962, Grossman termina la sua epopea (la cui prima parte s'intitola "Per una giusta causa") e consegna il manoscritto di "Vita e destino" alla rivista Znamja.
Il capo-redattore, Vadim Kozevnikov, lo legge e lo passa alla Lubjanka, al K.G.B.
Così si sente più tranquillo, perché quel che ha letto è terribile! Dobbiamo scagliargli contro una pietra? E perché solo a lui? Vasilij Grossman ha smontato meglio di chiunque altro il meccanismo della delazione.
In questo caso, è evidente, le cose sono andate così: numerosi membri del comitato di redazione hanno letto il romanzo, ciascuno ha avuto paura di se stesso e degli altri, e la conclusione è stata una denuncia redatta da tre personaggi: Vadim Kozevnikov, il più cospicuo, e altri due di secondo piano, Liudmila Skorino e Aleksandr Krivickij.
Teniamo a mente questi nomi, perché è grazie a tali amatori delle belle lettere che Vasilij Grossman, un bel giorno, vide comparire due uomini in borghese, rispettivamente un maggiore e un capitano del K.G.B.
Gli presentarono un mandato di perquisizione e di sequestro del romanzo.
Dichiararono all'autore che avevano ordine di "impossessarsi del manoscritto" e gli proposero di risparmiargli la perquisizione se avesse consentito a consegnare loro tutte le copie del suo nuovo libro.
Non presero soltanto le copie dattiloscritte, ma anche una borsa piena di brogliacci e persino (presso i dattilografi) i nastri della macchina e le carte carbone, col pretesto che sarebbe stato possibile leggere "in trasparenza".
In breve, fu un lavoro coscienzioso.
Il libro "Vita e destino" era sotto chiave e sembrava sul punto di essere distrutto per sempre.
L'autore non fu arrestato, ma sopravvisse per poco: un anno e mezzo più tardi un cancro lo portava via.
Aveva solo 59 anni, era uno spirito indomabile, avrebbe potuto fare ancora molto se non fosse stato stroncato il giorno in cui gli fu sottratta l'opera della sua vita.
A proposito di quel giorno, disse ad un amico: Sono caduto sotto una ghigliottina.
Tuttavia, aveva già fatto molto; nella storia della letteratura e del pensiero libertario del nostro secolo occuperà uno dei primi posti.
La realtà sovietica è fantastica; non crediate che il nome di Vasilij Grossman sia sparito dai manuali e dalle enciclopedie, come il nome di tanti altri, classificati "nemici del popolo": Babel', Pil'njak, Artm Veslyj, Boris Kornilov.
Si è preferito non attirare l'attenzione, si è voluto dimenticare "Vita e destino".
I biografi di Vasilij Grossman ci presentano un cittadino sovietico esemplare: studente di chimica all'Università di Mosca (1929-1933), ingegnere in una officina di Donbass, poi in una fabbrica di matite moscovita, scrisse il suo primo racconto "Glckauf" - sulla vita dei minatori di Donbass - nel 1934 e poté diventare scrittore di professione grazie alla benevolenza di Maksim Gorkij, il pontefice della letteratura sovietica.
La sua opera maggiore fu il romanzo "Stepan Kolciugin" (1936-1941), storia della formazione di un operaio rivoluzionario, di un bolscevico; Vasilij Grossman, autore di questo voluminoso libro, è nella linea del realismo socialista, è uno scrittore sovietico come tanti altri.
Solo durante la guerra diventa uno dei migliori corrispondenti e tuttavia "Vita e destino" sembra cadere dal cielo: uno scrittore qualunque diventa di punto in bianco uno dei maggiori romanzieri del secolo.
Si capisce la paura di Vadim Kozevnikov.
Sapeva con cognizione di causa che Grossman lo minacciava personalmente.
Non era forse di lui e dei suoi scritti che Grossman parlava quando scriveva nel suo ultimo romanzo "Tutto scorre": "Ignorando la libertà, lo Stato ha creato un fac-simile di parlamento, di elezioni, di sindacati professionali, un fac-simile di società e di vita sociale...".
Il romanzo "Vita e destino" è la prova che fac-simile e vita sono opposti contraddittori.
Kozevnikov non poteva non sentire che tutta la sua gloria di scrittore, le migliaia di copie del suo libro "La spada e lo scudo", la sua rivista Znamja (che nel 1947 si era fatta attaccare dalla "Pravda" per aver pubblicato un brano di gran valore di Grossman, intitolato "Se si crede ai Pitagorici") e la sua funzione di segretario della direzione dell'Unione degli Scrittori provenivano dalla pseudo-realtà del fac-simile.
Perché, se Vasilij Grossman esiste, Vadim Kozevnikov appartiene al nulla.
I responsabili del K.G.B. compresero anch'essi che nonostante il Ventesimo e il Ventiduesimo Congresso, nonostante il "disgelo" dell'epoca di Chruscv, non ci si poteva permettere di spingersi così avanti.
Il quadro che Grossman abbozza della società sovietica è troppo terribile e, soprattutto, troppo fedele alla realtà.
Quale poteva essere la ragione del loro terrore? Per decidere di mettere sotto sigilli il manoscritto di uno scrittore noto, occorre infatti temerlo come la peste, al punto di non accontentarsi dell'arma usuale della censura: l'interdizione.
Che un autore dia da leggere due o tre copie della sua opera agli amici, bella prodezza! Lo Stato non crollerà per così poco...
Dopo tutto, la polizia non aveva confiscato il romanzo di Boris Pasternak "Il dottor Zivago", rifiutato dalla redazione del Novyj' Mir (con a capo Konstantin Simonov) perché contro-rivoluzionario; né il romanzo di Aleksandr Bek "Nuova destinazione", proibito dalla censura (e presto pubblicato in Occidente); né il manoscritto del poema di Aleksandr Tvardovskij "Trkin all'altro mondo", che solo molto più tardi fu pubblicato sulle Izvestija per ordine speciale di Chruscv.
Dodici anni dopo il libro di Grossman, "Arcipelago Gulag" di Aleksandr Solzenicyn subiva la stessa sorte e nel 1973 veniva confiscato.
Fu più difficile impadronirsene.
Occorse far parlare, con torture (o iniezioni?), la collaboratrice dell'autore per scoprire il nascondiglio del manoscritto sedizioso.
Ma si può ben capire come l'"Arcipelago" abbia potuto far paura alle autorità e, prima di tutti, al K.G.B.: "l'indagine letteraria" di Solzenicyn straripa di fatti, di allusioni a destini reali, di nomi di vittime e boia.
Il libro di Vasilij Grossman è frutto dell'immaginazione dell'autore: è un romanzo.
Tra le decine di personaggi che il libro contiene, solo alcuni sono esistiti (i generali Rodimcev, Ciujkov, per esempio), mentre tutti gli altri sono stati inventati.
E' chiaro il pericolo che rappresentano le testimonianze critiche, accusatrici.
Ma da quando la letteratura è pericolosa? E' già capitato che la pubblicazione di documenti provochi la caduta di uomini di Stato, di governi ed anche di regimi.
Basti ricordare l'affare Watergate e il destino di Richard Nixon, oppure, circa un secolo prima, il ruolo che il caso Dreyfus e il "J'accuse" di Zola giocarono nella storia della Terza Repubblica.
Ma un'opera di fiction non ha mai causato la perdita di un regime politico o di un partito.
Il poema "documentario" di Dante non influì sulle vicende dei Ghibellini e dei Guelfi neri.
Zola, che col suo pamphlet pubblicato su L'Aurore aveva scosso l'intera Francia, non abbatté il papato con i romanzi "Rome" e "Paris"; fu giudicato per il suo "J'accuse" e non per i "Rougon-Macquart" o "Trois Villes".
La confisca di un romanzo è il più alto riconoscimento che il potere dello Stato possa accordare ad un'opera letteraria; l'immaginazione dell'autore viene collocata al livello stesso della realtà; le riflessioni dello scrittore diventano divulgazione di segreti di Stato.
Il potere s'impaurisce di fronte a personaggi inventati, teme i pensieri dell'autore, anche se essi non hanno alcuna possibilità di trasformarsi in libri a grossa tiratura, anche se dovranno restare chiusi nel cassetto del suo studio.
E come sembrava forte questo potere dai nervi tanto fragili, con i suoi carri armati, la sua aviazione, le sue tipografie, la sua radio, la televisione, i missili e l'energia nucleare! Ecco che invece ha paura di un romanzo! Del manoscritto di un romanzo! Perfino della carta carbone, di quel che si può leggervi "in trasparenza".
E' così che un importante esponente del Comitato centrale riceve Vasilij Grossman e gli spiega "come non sia proprio il caso di pubblicare il suo romanzo, né di rendergli il manoscritto e che il libro corre il rischio di non vedere la luce prima di due o trecento anni".
Boris Jampol'skij, amico di Grossman, autore di memorie mai pubblicate in URSS, fa un eloquente commento di questa frase: "La spocchia mostruosa del favorito, è della stessa stoffa del Reich millenario, dei diecimila anni di Mao, dell'amicizia eterna, la riabilitazione postuma, la reintegrazione in seno al partito, di un individuo ucciso dal partito stesso.
E' vero.
Tuttavia, più sono madornali e irresponsabili le cifre buttate là dal favorito del momento, e più si fa evidente la paura che lo abita e chiara l'importanza che egli attribuisce al romanzo che non sarebbe il caso di pubblicare." Il romanzo di Vasilij Grossman esplora la realtà sovietica in un momento cruciale della sua storia: Stalingrado è al tempo stesso la sconfitta più severa subita dall'Armata Rossa costretta alla ritirata fino al Volga e la vittoria più convincente dello Stato sovietico, che riesce a tener testa ai tedeschi proprio nel momento in cui essi riportano le più abbaglianti vittorie.
Stalingrado è un punto decisivo della nuova storia, una svolta determinante per il destino del mondo e dell'umanità.
Stalingrado è una immensa speranza per tutti - e innanzitutto per la Russia - perché è la fine del nazismo e il trionfo della democrazia.
Vasilij Grossman ci permette di assistere a questo momento-cerniera, attraverso molteplici punti di vista e protagonisti: un fisico, dei soldati semplici, russi o tedeschi, un colonnello del corpo carristi sovietico, un importante S.S., costruttore di Auschwitz, dei funzionari di partito, dei vecchi bolscevichileninisti, i leaders dei due campi: Hitler e Stalin.
E il lettore incomincia a scoprire che tutte le speranze di giustizia e di democrazia sono prive di consistenza.
Si accorge, infatti, che non vi è una differenza di principio tra il nazismo di Hitler e il bolscevismo di Stalin.
Fanatismo di classe e fanatismo di razza sono omologhi: nell'uno e nell'altro caso si tratta solo di trovare un vago e illusorio fondamento teorico alla costrizione imposta al popolo per assicurarsi il potere.
Vasilij Grossman coglie questa somiglianza con una franchezza inaudita, inimmaginabile nella letteratura sovietica ufficiale e non solo ufficiale.
Non esita, parlando della realtà nazista, a usare i termini che designano abitualmente le realtà sovietiche.
Come in questo dialogo in un ospedale militare: Veramente io, per essere sincero, ho avuto dei dubbi su B.; ho pensato: "Ma, questo deve essere uno del Partito".
No, io non sono del Partito (2, 11).
Una fraseologia perfettamente sovietica.
Ora, gli interlocutori non sono altro che i tedeschi Gerne e Fresser.
Parlano del luogotenente Bach che qualche pagina dopo, nello stesso ospedale, si abbandona alle seguenti riflessioni: "...Quando ascoltava le parole sfrontate di quei canuti professori che dichiaravano Faraday, Darwin e Edison una banda di farabutti che avevano rovinato la scienza tedesca, e che Hitler era il più grande sapiente di tutti i tempi e popoli, allora pensava con gioia maligna: 'Tutti questi inetti finiranno un bel giorno per essere spazzati via.' Lo stesso sentimento suscitavano in lui i romanzi in cui con sbalorditiva sfacciataggine veniva descritta tanta gente senza difetti, la felicità di operai e contadini allineati, il saggio lavoro del Partito che ti aiuta a crescere.
Ah! che versi stiracchiati pubblicavano i giornali!" (2, 12).
Sostituendo "russe" a "tedesche" e "Stalin" a "Hitler", tutto collima.
Quando l'S.S.
Liss tenta di convincere il vecchio leninista Mostovskoj che i due sistemi sono identici, non fa che esprimere la convinzione profonda dell'autore.
Quando lo stesso Liss evoca il ruolo della polizia in seno allo Stato, non parla solo della Germania, ma anche della Russia: "La Gestapo respirava e prosperava ovunque: nelle università, nella firma del direttore di un convalescenziario infantile, nelle audizioni dei futuri cantanti d'opera, nelle decisioni della giuria incaricata di scegliere i quadri per l'esposizione di primavera, nella lista dei candidati alle elezioni del Reichstag.
Era il perno della vita.
La base dell'infallibile giustizia del partito, la vittoria della sua logica o, meglio, della sua irrazionalità su ogni altra logica, della sua filosofia su ogni altra filosofia, era riposta nel lavoro della polizia segreta di Stato.
La Gestapo era la bacchetta magica! Bastava farla cadere perché sparisse ogni magia: un grande oratore si trasformava in un chiacchierone, i sommi scienziati in volgarizzatori di idee altrui.
Questa bacchetta magica non bisognava lasciarsela sfuggire di mano" (2, 31).
O prendiamo l'esempio di Chalb, importante membro del partito nazista che spiega all'ufficiale Lehnard che non vi saranno rivolte nell'esercito tedesco: "E' ora che si manifesta nella sua pienezza la saggezza del partito; - dice - non abbiamo esitato ad estirpare dal corpo del popolo non solo le parti contaminate, ma anche alcune sane all'apparenza, che rischiavano però di marcire nei momenti difficili.
Abbiamo purgato le città, le armate, le campagne e la Chiesa dagli spiriti forti e dalle ideologie ostili.
Lo scontento, i sospetti e le lettere anonime fioriranno, ma non vi saranno ribellioni, anche se il nemico ci accerchiasse oltre che sul Volga, fino a Berlino! Possiamo esserne riconoscenti a Hitler..." (3, 34).
Di quale speranza si può parlare, se siamo posti di fronte a due campi che come specchi si rimandano un'identica immagine? Si può, è vero, replicare che esiste comunque una differenza: i nazisti hanno fondato il loro totalitarismo sull'ideale nazionale, i comunisti sulla nozione di classe.
Ma con molta logica Vasilij Grossman ci dimostra che l'internazionalismo dei comunisti degenera in un nazionalismo di Stato e nulla più lo distingue dall'ideologia nazista.
Questa degenerazione, avviata da tempo, trova la sua giustificazione, riceve la sanzione suprema, dopo la vittoria di Stalingrado.
Per Grossman, Stalingrado ha aiutato "la popolazione e l'esercito a forgiarsi una nuova coscienza...".
La storia della Russia "diventava la storia della gloria russa, invece di essere la storia delle sofferenze e delle umiliazioni degli operai e dei contadini russi.
L'elemento nazionale cambiava natura, non apparteneva più al campo della forma, ma al contenuto, era un nuovo fondamento della comprensione del mondo (...) Così, la logica degli avvenimenti ha fatto sì che, nel momento in cui la guerra popolare raggiungeva il suo apice durante la difesa di Stalingrado, questa stessa guerra permetteva a Stalin di proclamare apertamente l'ideologia del nazionalismo di Stato" (3, 20).
Curioso paradosso: è proprio a Stalingrado che i due regimi, apparentemente antagonisti, finiscono per incontrarsi.
Di qui l'ambiguità di Stalingrado, più volte sottolineata da Vasilij Grossman: il trionfo delle armate sovietiche dissimula al tempo stesso la grandezza e l'orrore.
La grandezza, perché la vittoria di Stalingrado è l'apoteosi di un popolo; l'orrore, perché la vittoria di un popolo significò l'apoteosi di Stalin e del suo regime imperiale. "Il trionfo di Stalingrado giocò un ruolo determinante sull'esito della guerra" dice Vasilij Grossman.
E aggiunge: "ma la disputa silenziosa tra il popolo e lo Stato, entrambi vincitori, si protrasse oltre.
Da questa disputa dipendevano il destino dell'uomo e la sua libertà" (3, 16).
Sul Volga si giocava il destino del nostro secolo, il destino di tutti gli Stati, delle alleanze pro e contro la Germania, di tutti i partiti politici d'Europa o d'America, di tutti gli scampati al nazismo.
E' vero.
Tuttavia vi si profilava già qualcosa d'altro: la catastrofe, per i vinti, ovviamente, ma anche per i vincitori.
"Era in gioco la sorte dei calmucchi, dei tartari della Crimea, dei ceceni e dei balcari, esiliati per ordine di Stalin in Siberia e nel Kazakistan, senza più il diritto di far memoria della loro storia, di insegnare ai propri figli nella lingua materna.
Era in gioco la sorte di Michoels e del suo amico, l'attore Zuskin, degli scrittori Bergelson, Markish, Fefer, Kvitko, Nusinov, le cui esecuzioni dovevano precedere il sinistro processo dei medici ebrei, il professor Vovsi in testa.
Era in gioco la sorte degli ebrei salvati dall'Armata Rossa e sulla cui testa Stalin si preparava a far ricadere il potere che aveva preso dalle mani di Hitler, commemorando così il decimo anniversario della vittoria popolare di Stalingrado" (3, 11).
Nel momento stesso in cui uno degli avversari schiaccia l'altro, ci si accorge che sono figli della stessa madre.
La loro connivenza non risale a ieri, anche se celavano accuratamente le proprie affinità.
Il totalitarismo tedesco recitava la commedia dell'antibolscevismo, ma battezzava il suo regime "socialista e operaio", dando a Hitler il titolo di "guida sapientissima", prendeva la bandiera rossa come emblema e fissava le maggiori feste al primo maggio e al 6 novembre.
Il totalitarismo sovietico copriva di obbrobrio la fraseologia nazista, la dottrina razzista e i fascisti antisemiti, ma dopo Stalingrado, pur conservando la propria retorica ipocrita e propagandistica, si gettava irrevocabilmente nell'avventura del razzismo e dell'antisemitismo, che diventava la grande caratteristica del regime.
Si noti che i comunisti sovietici, persuasi della forza invincibile e dell'attrattiva magica della luminosa teoria del marxismo-leninismo, non si dettero neppure la pena di far concordare due principi tanto contrari: il socialismo e l'antisemitismo (o, semplicemente, il delirio nazionalista).
Da dove proviene una somiglianza così stupefacente? Come sono potute nascere, nel ventesimo secolo, due forme, così diverse e pur simili, di totalitarismo sterminatore? Chi ne porta la responsabilità? Questa domanda preoccupa un gran numero di persone.
E' effettivamente di importanza capitale per il nostro tempo.
Le risposte date sono di vario genere.
Per gli uni, i responsabili sono i politici di sinistra che pensavano di trasformare l'uomo cambiando la società, quando l'uomo non può essere cambiato.
Per altri, la responsabilità incombe sui materialisti occidentali che hanno rifiutato la profonda spiritualità che caratterizzava la religione nel Medio Evo; per altri, è degli ebrei, vendicatisi del cristianesimo con l'invenzione del marxismo che, nato tedesco, mise le sue radici in Russia e provocò in Germania la vittoria dei nazisti; per altri la colpa è delle realizzazioni scientifiche e tecniche, del progresso, che privano l'uomo della spiritualità e lo trasformano in robot-consumatore; per altri, dei filosofi, propugnatori di sistemi teorici perfetti e pronti a sacrificare l'umanità alle loro idee astratte; per altri ancora, di avventurieri avidi di potere, che possono raggiungere i loro fini grazie a tecniche di propaganda sconosciute fino ad ora, che provocano psicosi collettive e permettono di sterminare milioni di persone.
La risposta di Vasilij Grossman è assai diversa.
Nell'epopea "Vita e destino" essa è solo abbozzata e sarà formulata definitivamente nel romanzo "Tutto scorre", iniziato nel 1955 e terminato nel 1963, dopo la confisca del manoscritto di "Vita e destino".
Grossman ritiene che la Russia abbia seguito una evoluzione contraria a quella dell'Occidente.
La storia dell'Occidente è un costante e progressivo accrescimento della libertà; la storia della Russia è contrassegnata da un incremento altrettanto sistematico della schiavitù. "...Per mille anni, il progresso e la schiavitù si sono trovati in Russia reciprocamente incatenati.
Ogni breccia aperta verso la luce approfondiva la nera fossa della servitù".
Nel ventesimo secolo, Lenin rafforzò questo legame, "favorendo un nuovo asservimento dei contadini e degli operai, trasformando gli uomini di cultura in servi dello Stato...".
A questo punto si produsse quel fenomeno che doveva porre la Russia al centro dell'attenzione internazionale: "la sintesi di socialismo e assenza di libertà"; essa stupì il mondo e consentì di creare uno Stato estremamente potente.
Sembrò che si potesse "costruire una nazione e uno Stato nel nome della forza, nel disprezzo della libertà". "Gli apostoli europei delle rivoluzioni nazionali intravvidero la fiamma che veniva dall'Oriente.
Gli italiani e poi i tedeschi, svilupparono a modo loro l'idea del nazional-socialismo".
Poiché tutto si originò da lì, "la millenaria legge russa divenne legge al mondo intero".
La specificità dell'evoluzione russa - una costante progressione in favore di una schiavitù sempre maggiore - fu adottata da altre nazioni.
La sintesi "socialismo e assenza di libertà" si rivelò una forma di Stato così pratica e potente da imporsi su tutte le altre: la democrazia s'indebolì, la società democratica cedette il passo al regime totalitario, non fu in grado di rivaleggiare con la dittatura del partito e delle sue guide.
Per Vasilij Grossman, una tale spiegazione concilia la prospettiva storica con la necessità sociale, è più verosimile di ogni altra teoria astratta sul Male eterno e sull'impotenza del Bene.
Per l'autore gli scritti del detenuto Ikonnikov non sono un'assurdità; essi affermano che "gli uomini che vogliono il bene dell'umanità sono impotenti anche solo a ridurre il Male sulla terra", che la stessa dottrina cristiana ha causato più vittime dei "delitti dei banditi e dei criminali, che praticano il male per il male" e che la sola via d'uscita per gli uomini è la "bontà privata di un singolo individuo nei confronti di un suo simile, una bontà senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia.
Si potrebbe chiamare una bontà insensata.
La bontà degli uomini fuori dal Bene religioso o sociale" (2, 16).
E' davvero questa l'unica soluzione? Grossman non ne conosce altre, anche se ne percepisce l'ingenuità.
Ogni tentativo d'imporre all'umanità un Bene generale, obbligatorio, assoluto, sfocia in una catastrofe sanguinosa, simile a quelle che hanno accompagnato tutta la storia del cristianesimo, i movimenti socialisti o la religione musulmana.
Vasilij Grossman elabora una teoria filosofica e sociale coerente delle molteplici sfaccettature del fascismo mondiale, alla cui origine pone la Rivoluzione di Ottobre.
Forse le guide del comunismo russo volevano fare il Bene dell'umanità, ma non hanno arrecato che il Male, un male senza precedenti, inaudito, apocalittico, su scala universale.
Per la sua coerenza, tale teoria era sufficiente a spaventare a morte i dirigenti sovietici.
Nessuno fino ad allora aveva osato in URSS elaborare una teoria storica o filosofica contraria al vigente monopolio ideologico.
Ma l'epopea di Grossman li terrificava ancora di più per il suo versante "autentico".
Il libro si svolge su diversi piani contemporaneamente.
Al centro, si trovano le due sorelle Evgenija e Ljudmila Sciaposhnikov, i loro destini terribili e così dissimili.
Evgenija lascia il marito Krymov, un bolscevico d'antica data, per il colonnello Novikov, ma ritornerà da Krymov quando questi sarà arrestato.
Ljudmila è sposata al fisico Shtrum.
Attorno alle due sorelle non vi sono che destini tragici, e comunque così usuali, di sovietici, tutti a modo loro fedeli al regime o, perlomeno, al paese! Incontriamo Krymov, comunista e intellettuale, che non ha mai dubitato per un solo istante delle ragioni del socialismo sovietico.
Ma ecco che si trova nelle prigioni della Ceka, dove inizia a comprendere il grande mistero del nostro tempo: il meccanismo psicologico dei processi di Mosca.
Incontriamo Shtrum, fisico teorico di talento, che nel momento in cui fa una scoperta d'importanza capitale aprendo alla scienza prospettive insospettate, vede abbattersi su di sé il flagello di un antisemitismo che non avrebbe mai immaginato (tanto sembra assurdo in una società che si dice "socialista").
Vi è la storia di Krymov che capitola di fronte alla logica satanica dei giudici istruttori della Ceka, i quali a forza di colpi, umiliazioni, torture e demagogia, riducono questo commissario militare, così fiero della sua purezza ideologica, a un vero e proprio rottame...
Vi è la storia di Shtrum, che resiste nonostante i sarcasmi, il tradimento dei suoi amici e dei collaboratori più vicini, il pericolo di essere eliminato fisicamente e che, nel momento più felice della sua vita e della sua carriera, quando, in virtù di una telefonata di Stalin, si trova al culmine della gloria, cede improvvisamente...
Vi è la storia del colonnello Novikov, glorioso comandante di una divisione blindata, eroe della Battaglia di Stalingrado, che per salvare degli uomini e del materiale, ritarda l'attacco di otto minuti, meritandosi una sanzione e sfiorando da vicino una condanna a morte...
Vi è la storia di brillanti traditori, di conformisti, delatori, leccapiedi come il professor Sokolov, accademici che tremano di fronte alla legge, o generali come Neudobnov e Getmanov...
Tutto questo si struttura all'interno di un quadro preciso della società sovietica, dove i vivi si spaccano la testa contro il muro della burocrazia e della polizia, mentre regnano assolutisticamente gli uomini del "mondo in facsimile." L'epopea di Grossman unisce ciò che vive all'inerte; e, nella situazione sovietica, l'inerte prevale sempre, secondo buona logica, sul vivente.
Uno dei temi principali di Vasilij Grossman è quello dell'uomo che si oppone allo Stato.
L'uomo è piccolo, inerme, smarrito, patetico, fragile, mortale.
Lo Stato invece è onnipotente, gigantesco, eterno, invulnerabile.
Prende di volta in volta l'aspetto della macchina burocratica, della Lubjanka, di Auschwitz, del Partito, di una guida semi-divina.
La pressione esercitata sull'uomo da parte dello Stato è incommensurabile.
Grossman non esita a ricorrere all'iperbole: "...i campi di forza creati dal nostro Stato, la sua massa di trilioni di tonnellate, l'estremo terrore e l'estrema sottomissione ch'esso ingenera negli uomini che non pesano più di piume..." ("Tutto scorre").
Comprendiamo allora il senso della sua epopea; la piccola piuma umana è la più forte! Non possiamo fare a meno di evocare Blaise Pascal che, trecento anni prima, nel 1670, scriveva: "L'uomo è solo una canna, la più fragile della natura (...) Non occorre che l'universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d'acqua bastano per ucciderlo.
Ma, quand'anche l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e conosce la superiorità che l'universo ha su di lui, mentre l'universo non ne sa nulla". La speranza rimane, perché a dispetto dei dittatori implacabili e dell'onnipotenza burocratica delle forze che sono contro l'uomo, ciò che vive può essere preservato nella più piccola, più impercettibile cellula della moralità sociale: la semplice bontà umana.
Avevamo a disposizione due copie del romanzo, riuscite, Dio sa come, a fuggire dalla loro prigione di cemento della Lubjanka.
Uno studio attento ha dimostrato che entrambe erano difettose: mancavano delle pagine, delle righe, un paragrafo, anche interi capitoli.
Per fortuna, il raffronto dei due testi ci ha permesso di colmare quasi tutti i "vuoti" e di correggere un buon numero di errori.
Le due varianti ci hanno permesso di ricostruire un solo testo, sintetico.
Il romanzo di Vasilij Grossman ci ha messi a confronto con un lavoro filologico di tipo particolare: ricostruire il testo definitivo di un romanzo confiscato dalla polizia.
Un problema che i manuali di filologia non avevano previsto.
La filologia raccomanda, nella maggior parte dei casi, di uniformarsi alle ultime volontà dell'autore ("Prendiamo come testo di base quello dove la volontà creatrice dell'autore è più manifesta").
Ma di quale volontà creatrice, di quale scelta dell'autore si può parlare, dal momento che Grossman, nonostante il "disgelo", non aveva alcuna libertà e il suo manoscritto è stato messo sotto chiave? Cosa avrebbe desiderato l'autore? Pensava davvero che la sua opera avrebbe visto la luce in Unione Sovietica? Perché Grossman scrisse il suo libro prima, durante e soprattutto dopo il "caso Pasternak".
Ora, "Il dottor Zivago", apparso in Italia provocando uno scandalo, era meno pericoloso per il Comitato centrale e la Ceka del libro di Grossman.
Quest'ultimo solleva tutti - o quasi tutti - i problemi dello stalinismo, e l'autore non poteva ignorarlo.
Tuttavia continuò a scrivere, senza nascondersi, e inviò il suo manoscritto alla redazione di una rivista sovietica perfettamente ortodossa.
Credeva nel miracolo.
Allora il miracolo non avvenne.
Accadde più tardi: dopo vent'anni di reclusione, il manoscritto sfuggì alla sua prigione e trovò un editore.
Durante questi vent'anni, qualcosa si era mosso nella letteratura russa.
Si era vista nascere la prosa degli anni Sessanta, legata a Novyj'Mir, i racconti e i romanzi di Jurij Trifonov, Fdor Abramov, Sergej Zalygin, Vladimir Voijnovic, Georgyj Vladimov; c'erano Vasilij Sciukscin e Valentin Rasputin; le opere di Aleksandr Solzenicyn erano state pubblicate sulla stampa ufficiale e non ufficiale; era nato il Samizdat e con lui autori come Evgenija Ginzburg e Aleksandr Galic.
Esisteva la letteratura russa dell'emigrazione; gli autori in esilio (Aleksandr Zinov'ev, Iosif Brodskij, Viktor Nekrasov), i libri transfughi (di Jurij Dombrovski, Andrej Bitov, Fazil' Iskander, Lidja Ciukovskaja).
Ed ecco che dopo questo grande momento di evoluzione della letteratura russa verso la libertà, il vecchio libro di Vasilij Grossman emerge dal nulla.
Malgrado il suo ritardo, rimane vivo; avrà il suo posto nella letteratura russa e mondiale.
Non come monumento storico, ma come opera d'arte, che partecipa del movimento della vita.
Citerò, come conclusione, la testimonianza di uno scrittore che ha conosciuto bene Grossman e ce ne ha lasciato dei bei ricordi, Boris Jampol'skij: "Lo vedevo spesso, negli anni in cui creava il suo capolavoro.
Le sue mani d'operaio, grandi e forti, sembravano maneggiare un martello, uno scalpello, piuttosto che una fragile penna intinta d'inchiostro.
Si sarebbe detto che stava costruendo una cattedrale grandiosa; e il suo libro, che non doveva vedere la luce, era sì una cattedrale maestosa, moderna, austera e apportatrice di luce, la santa cattedrale del nostro tempo".
VITA E DESTINO
PARTE PRIMA
1.
La
terra era avvolta nella nebbia.
Sui
pali dell'alta tensione che si stagliavano ai lati della strada si riflettevano
le luci dei fari delle automobili.
Non
era piovuto, ma all'alba la terra era diventata umida, e quando il semaforo
segnalò il divieto, sull'asfalto bagnato apparve una vaga macchia rossastra.
Già
a molti chilometri di distanza si sentiva il respiro del lager: in quella
direzione convergevano sempre più fitti pali, strade e ferrovie.
Era
uno spazio tutto riempito di linee rette, uno spazio di rettangoli e
parallelogrammi che fendevano la terra, il cielo autunnale, la nebbia.
Le
sirene lontane lanciarono un urlo flebile e prolungato.
La
strada si addossava alla ferrovia, e una colonna di autocarri carichi di sacchi
di cemento corse per un po' quasi alla stessa velocità dell'interminabile treno
merci.
I
conducenti in cappotto militare non guardavano i vagoni e le macchie diafane
dei volti dei ferrovieri.
Dalla
nebbia emerse il recinto del lager, le file di reticolati tesi tra i pilastri
di cemento armato.
Le
baracche allineate formavano strade larghe, rettilinee.
La
loro uniformità rivelava la disumanità dell'enorme luogo di detenzione.
Fra
milioni di isbe russe, non ce ne sono né ce ne saranno mai due perfettamente
identiche.
Tutto
ciò che vive è irripetibile.
E'
impensabile che due uomini, due cespugli di rose selvatiche siano identici...
La
vita si spegne là dove la costrizione si sforza di annullare ogni peculiarità
dei singoli.
Lo
sguardo rapido ma attento del vecchio macchinista seguiva lo stagliarsi dei
pali di cemento, degli alti piloni sormontati dai riflettori girevoli, delle
torrette di osservazione in cui si scorgeva, alla luce vitrea del fanale, la
guardia appostata dietro la mitragliatrice.
Il
macchinista fece un cenno al suo aiutante; la locomotiva lanciò il segnale d'avvertimento.
Apparvero
la cabina illuminata dalla lampada elettrica, la fila di macchine ferme al
passaggio a livello bloccato dalla sbarra a strisce, il rosso occhio bovino del
semaforo.
Da
lontano si sentirono i fischi del convoglio che stava per sopraggiungere.
Il
macchinista disse all'aiutante: E' Zucker, lo riconosco dal fischio stentato:
ha scaricato e adesso fila verso Monaco col convoglio vuoto.
Il
treno, rimbombando, incrociò l'altro treno diretto al lager: l'aria lacerata
cominciò a crepitare, gli squarci grigi tra i vagoni presero a balenare e
all'improvviso lo spazio e la luce autunnale del mattino ricongiunsero, nel
ritmo della corsa, i loro brandelli strappati in una tela.
L'aiutante,
estratto di tasca uno specchietto, si carezzò la guancia sporca.
Con
un gesto della mano il macchinista capo glielo chiese e quello, passandolo con
fare eccitato, osservò: Mi creda, signor Apfel, potremmo tornare all'ora di
pranzo e non alle quattro del mattino, stanchi morti, se non fosse per questa
maledetta disinfezione dei vagoni.
Come
se non la si potesse fare al deposito.
Al
vecchio erano venute a noia le eterne lamentele sulla disinfezione.
Dai
un bel fischio, disse, non ci instradano sul binario morto, ci mandano
direttamente alla banchina di scarico principale.
2.
Nel
lager tedesco Michajl Sidorovic Mostovskoj, per la prima volta dopo il secondo
congresso dell'Internazionale comunista, ebbe modo di mettere a profitto la sua
conoscenza delle lingue estere.
Prima
della guerra, vivendo a Leningrado, non gli era capitato spesso di parlare con
degli stranieri.
Ora
gli tornarono alla mente gli anni d'esilio passati a Londra e in Svizzera; là,
in compagnia dei rivoluzionari, aveva parlato, discusso, cantato in molte
lingue europee.
Il
suo vicino di tavolaccio, un prete italiano di nome Guardi, spiegò a Mostovskoj
che nel lager vivevano uomini di cinquantasei differenti nazionalità.
Il
destino, il colore della pelle, il vestito, l'andatura strascicata, la minestra
a base di navone e surrogato di fecola che i reclusi russi chiamavano
"occhio di pesce", tutto questo era identico per le decine di
migliaia di abitanti delle baracche.
Per
i superiori, gli uomini nel lager si distinguevano solo dal numero e dalla
tinta della striscia di stoffa cucita sulla giubba: rossa per i politici, nera
per i sabotatori, verde per i ladri e gli assassini.
In
quella babele di lingue, gli uomini non si capivano l'un l'altro, ma erano
legati da un'unica sorte.
Specialisti
di fisica molecolare o di antichi manoscritti giacevano sui medesimi pancacci
accanto a contadini italiani e pastori croati incapaci di scrivere il proprio
nome.
Quello
che un tempo ordinava la colazione al cuoco e inquietava la governante per la
sua inappetenza, e quello che mangiava soltanto baccalà, ora andavano insieme
al lavoro battendo le suole di legno e spiavano ansiosamente l'arrivo dei
"Kosttrger", i cucinieri coi bidoni di cibo, i "kostrigi"
come li chiamavano i prigionieri russi.
I
destini di tutti, pur nella loro varietà, finivano per assomigliarsi.
Li
legasse la nostalgia del giardinetto lungo una polverosa strada italiana, del
cupo rombo del mare del Nord, o il ricordo dell'abat-jour arancione nella casa
di un responsabile della direzione alla periferia di Bobrujsk, per tutti i
prigionieri, dal primo all'ultimo, il passato era meraviglioso.
Quanto
più dura era stata la vita per uno di essi prima del lager, con tanto più
ardore mentiva.
Tale
menzogna non serviva a scopi pratici, era piuttosto un inno alla libertà: un
uomo fuori del lager non può non essere felice...
Prima
della guerra questo campo era denominato campo per criminali politici.
Il
nazionalsocialismo aveva creato un nuovo tipo di criminale politico: il
criminale senza crimini.
Molti
cittadini finivano nel lager solo per avere espresso osservazioni critiche sul
regime hitleriano chiacchierando con gli amici, per una barzelletta di
contenuto politico.
Non
avevano diffuso manifestini, non avevano preso parte a riunioni segrete.
Li
si accusava del fatto che avrebbero potuto farlo.
La
detenzione di prigionieri di guerra nei campi di concentramento politici era
anch'essa un'innovazione del fascismo.
Vi
si trovavano piloti inglesi e americani abbattuti sul suolo germanico,
comandanti e commissari dell'Armata Rossa che interessavano la Gestapo.
Da
loro si esigevano informazioni, collaborazione, consigli, che sottoscrivessero
questo o quel proclama.
Nel
lager si trovavano sabotatori, operai riottosi che avevano osato sfuggire al
lavoro obbligatorio negli stabilimenti militari e nei cantieri.
L'internamento
in campi di concentramento di operai che avevano eseguito un cattivo lavoro era
anch'esso un'acquisizione del nazionalsocialismo.
Nel
lager si trovavano uomini con pezze lilla sulla giubba: emigranti tedeschi
usciti dalla Germania fascista.
E
questa era un'altra innovazione del regime: abbandonato il proprio paese, per
quanto si fosse comportato lealmente all'estero, l'emigrato diventava
automaticamente un nemico politico.
Gli
uomini con le strisce verdi sulla giubba, i ladri e gli assassini, nel lager
politico godevano di uno stato di privilegio: la direzione si serviva di loro
per controllare i politici.
Il
potere del criminale sul recluso politico fu quindi un'ulteriore novità
introdotta dal nazismo.
Nel
campo si potevano trovare uomini con un destino a tal punto singolare che per
essi non era stato possibile escogitare una pezza dal colore adeguato.
Tuttavia
anche all'indiano incantatore di serpenti, al persiano giunto da Teheran per
studiare la pittura tedesca, al cinese studente di fisica, il nazismo assegnò
un posto sui pancacci, la gamella di brodaglia e dodici ore di lavoro nei
cantieri o sui terreni da bonificare.
Il
movimento dei convogli verso i lager della morte, verso i campi di
concentramento, durava giorno e notte.
Il
rumore delle ruote persisteva nell'aria insieme al fischio delle locomotive, al
rimbombo delle suole di legno di centomila internati diretti al lavoro con un
numero azzurro di cinque cifre cucito sulla divisa.
I
lager divennero le città della Nuova Europa.
Crebbero
e si estesero con una loro propria topografia di vie e piazze, ospedali, bazar
di rigattieri, forni crematori e stadi.
Come
sembravano ingenue, perfino benignamente patriarcali, le vecchie galere che
occupavano il loro piccolo posto ai margini della città, in confronto a queste
metropoli-lager, illuminate dal bagliore rosso e nero, carico di terrore e
pazzia, dei forni crematori.
Si
sarebbe potuto credere che per controllare quella massa di prigionieri fossero
necessarie innumerevoli schiere di sorveglianti, milioni di carcerieri.
Ma
non era così.
Per
intere settimane nelle baracche non si vedeva un'uniforme delle S.S.
Nelle
città-lager erano gli stessi detenuti ad assumersi il compito della
sorveglianza poliziesca.
Erano
essi stessi a vegliare sul rispetto del regolamento interno nelle baracche, a
controllare che nei loro pentoloni finissero solo patate marce e gelate, perché
quelle buone e sane dovevano essere selezionate per gli approvvigionamenti del
fronte.
I
detenuti erano medici negli ospedali, batteriologi nei laboratori dei lager,
portieri che spazzavano i marciapiedi dei campi, erano gli ingegneri che davano
la luce e il calore alle baracche, che riparavano e sostituivano pezzi di
macchinari.
I
"kapò", la crudele ed efficiente polizia del lager, portavano sulla
manica destra una fascia gialla; tenevano sotto il loro controllo l'intera vita
del campo, dagli avvenimenti più comuni alle faccende intime che avevano luogo
durante la notte sui pancacci.
Essi
erano ammessi ai più reconditi affari dello Stato del lager, perfino alla
compilazione delle liste di selezione, all'elaborazione degli elenchi dei
predestinati alle camere a gas e alle celle di segregazione.
Si
sarebbe potuto dire che, spariti i superiori, i detenuti avrebbero conservato
la corrente ad alta tensione per non disperdersi e continuare il lavoro.
Questi
kapò e gli anziani del blocco servivano i loro capi, ma sospiravano e versavano
anche qualche lacrima su coloro che conducevano ai forni.
E
tuttavia il loro sdoppiamento non arrivava all'estremo di porre i propri nomi
nelle liste di selezione.
Particolarmente
funereo parve a Michajl Sidorovic che il nazismo non arrivasse nel lager col
monocolo, con arroganza d'attore di quart'ordine, che non fosse estraneo al
popolo.
Esso,
invece, viveva nei lager con disinvoltura, non isolato dal popolo minuto;
scherzava in modo popolaresco e i suoi giochi divertivano; era plebeo e si
comportava in modo semplice, conosceva perfettamente la lingua, l'animo e la
mente di quelli che aveva privati della libertà.
3.
Mostovskoj,
Agrippina Petrovna, il medico militare Levinton, l'autista Semnov, dopo che
furono arrestati dai tedeschi una notte d'agosto alla periferia di Stalingrado,
vennero portati al comando dello stato maggiore della divisione di fanteria.
Agrippina
Petrovna, dopo l'interrogdatorio, fu rilasciata su segnalazione di un
collaboratore della gendarmeria di campo, ricevette dall'interprete una
pagnotta di farina di piselli e due banconote rosse da trenta rubli; Semnov
invece fu aggregato alla colonna di prigionieri diretti ad uno
"Stalag" dei dintorni, presso la fattoria Vertjacij.
Mostovskoj
e Sof'ja Osipovna Levinton furono condotti allo stato maggiore dell'armata.
Lì
Mostovskoj vide per l'ultima volta Sof'ja Osipovna, ferma in mezzo al cortile
polveroso, senza bustina, con le decorazioni strappate; Mostovskoj rimase
avvinto dall'espressione cupa e irosa dei suoi occhi e del volto.
Dopo
il terzo interrogatorio spinsero Mostovskoj a piedi fino alla stazione
ferroviaria dove il convoglio si riforniva di grano; dieci vagoni di ragazzi e
ragazze erano assegnati al lavoro in Germania, e Michajl sentiva grida
femminili provenienti dal treno in partenza.
Fu
rinchiuso in un piccolo scompartimento di servizio di un vagone di ultima
classe.
Il
soldato che lo aveva in consegna non era un tipo violento, ma alle domande di
Mostovskoj il suo viso assumeva l'espressione di un sordomuto.
Si
avvertiva che era completamente e unicamente dedito a sorvegliare il suo
prigioniero.
Allo
stesso modo l'esperto guardiano dello zoo è teso a tenere sotto controllo la
cassa in cui si agita l'animale durante il viaggio di trasferimento.
Mentre
il treno percorreva il territorio del governatorato generale polacco, nello
scompartimento fece il suo ingresso un nuovo passeggero: un vescovo polacco,
bell'uomo alto, grigio, con due occhi tragici e una bocca turgida da ragazzo.
Cominciò
subito a raccontare a Michajl della repressione organizzata da Hitler contro il
clero del suo paese.
Parlava
in russo con un forte accento.
Dopo
che Michajl Sidorovic inveì contro il cattolicesimo e il Papa tuttavia, egli si
acquietò e prese a rispondere alle sue domande, brevemente, nella propria
lingua.
Passata
qualche ora l'ecclesiastico fu fatto scendere a Poznam.
Mostovskoj
giunse al lager senza passare per Berlino...
Aveva
l'impressione di trovarsi già da lunghi anni nel blocco speciale dove erano
detenuti i reclusi che interessavano alla Gestapo in modo particolare.
Qui
i prigionieri erano nutriti meglio che nel lager operaio, ma era la vita facile
delle cavie - martiri dei laboratori.
Il
guardiano di turno chiama l'uomo alla porta e gli riferisce che un compagno gli
propone uno scambio vantaggioso: del tabacco contro la razione di rancio, e
l'uomo, sorridendo di piacere, torna al suo pancaccio.
Il
giorno dopo viene chiamato di nuovo e, interrompendo la conversazione, si
dirige alla porta; l'interlocutore ormai non aspetterà più la fine del
racconto.
Dopo
neppure un giorno il kapò si accosta al pancaccio e ordina al guardiano di
turno di raccogliere gli stracci mentre qualcuno, con tono adulatorio, domanda
allo "Stubenlteste" Kse se si può occupare il posto rimasto libero.
E'
abituale ormai la mescolanza selvaggia di discorsi sulla selezione, sulla
cremazione dei corpi e sulle squadre di calcio del lager: la migliore
dell'azienda agricola è la "Moorsoldaten", l'attacco in gamba ce l'ha
la Cucina, invece la squadra polacca di lavoro è priva di difesa.
Sono
diventate correnti le decine e centinaia di voci sui nuovi armamenti, sui
dissidi tra i capi del nazismo.
Le
voci sono ottimistiche e menzognere: l'oppio del popolo dei lager.
4.
Verso
mattina cadde una neve che non si sciolse e durò fino a mezzogiorno.
I
russi provarono felicità e tristezza.
La
Russia soffiava dalla loro parte, gettava il suo fazzoletto materno sotto le
misere gambe tormentate, imbiancava i tetti delle baracche ed esse, da lontano,
assumevano un'aria campagnola e familiare.
Ma
la felicità che era balenata per un momento si confuse con la tristezza e poi
vi annegò.
A
Mostovskoj si avvicinò un piantone, il soldato italiano Andrea, che gli riferì
in francese stentato che un suo collega della cancelleria aveva visto una carta
che riguardava un vecchio russo, ma lo scrivano non aveva fatto in tempo a
leggerla perché il superiore dell'ufficio se l'era presa con sé.
"Ecco,
la decisione sul che fare della mia vita sta in quella carta" pensò
Mostovskoj e si rallegrò della propria serenità.
Ma
non importa sussurrò Andrea si farà ancora in tempo a sapere.
Dal
comandante del campo? chiese Guardi, e i suoi occhi enormi brillarono neri
nella penombra o dal rappresentante della polizia politica Liss? Mostovskoj si
stupiva della differenza tra il Guardi di giorno e quello di notte.
Di
giorno il sacerdote parlava di minestra, dei nuovi arrivati, si accordava con i
vicini sullo scambio delle razioni, ricordava il piccante e saporito cibo
italiano.
I
prigionieri di guerra dell'Armata Rossa, incontrandolo nella piazzola del
lager, conoscevano il suo modo di dire preferito: "Tutti kaputt" e
loro stessi da lontano gli rispondevano: Papà Padre, tutti kaputt e sorridevano
come se queste parole infondessero speranza e allegria.
Lo
chiamavano Papà Padre credendo, naturalmente, che questo "padre"
fosse il suo nome.
Una
volta, a tarda sera, i comandanti e i commissari che si trovavano riuniti nello
stesso blocco, avevano cominciato a scherzare su Guardi, domandandosi se
davvero avesse mantenuto il voto di castità.
Guardi,
tutto serio, ascoltava l'intrecciarsi frammentario di parole francesi, tedesche
e russe.
Poi
prese a parlare e Mostovskoj traduceva le sue parole.
In
fondo i rivoluzionari russi, per amore dell'ideale, andavano in galera e al
patibolo.
Perché
allora i suoi interlocutori dubitavano che per amore della fede religiosa un
uomo potesse rinunciare alla vicinanza di una donna? Non è neanche da
paragonare col sacrificio della propria vita.
Non
dirà sul serio si lasciò scappare il commissario di brigata (1) Osipov.
La
notte, quando gli internati cominciavano ad addormentarsi, Guardi diventava un
altro.
Si
metteva in ginocchio sul pancaccio e pregava.
Pareva
che nei suoi occhi estatici, in quel nero vellutato ed espressivo, potesse
affogare tutta la sofferenza della città dei forzati.
I
tendini risaltavano sul collo bruno, come per uno sforzo fisico; il suo lungo
viso apatico acquistava un'espressione di cupa, ispirata tenacia.
Pregava
a lungo, e Michajl Sidorovic si addormentava al rapido e sommesso bisbiglio del
sacerdote italiano.
Mostovskoj
abitualmente si svegliava dopo un'ora e mezza o due di sonno, e a quell'ora
Guardi dormiva.
Il
sonno del prete era agitato, come se cercasse di congiungere in una sola le sue
due nature: quella diurna e quella notturna.
Russava,
impastava le labbra, digrignava i denti; con un rombo liberava i gas
intestinali e all'improvviso cantilenava bellissime parole di preghiera sulla
misericordia di Dio e della Madonna.
Non
rimproverava mai al vecchio comunista russo il suo ateismo e spesso gli faceva
domande sulla Russia sovietica.
L'italiano,
ascoltando Mostovskoj, annuiva col capo come se approvasse la chiusura di
chiese e monasteri, la sottrazione degli immensi possedimenti terrieri del
sinodo ortodosso.
I
suoi occhi neri guardavano tristemente il vecchio comunista, e Michajl
Sidorovic chiedeva irritato: "Vous me comprenez?" Guardi sorrideva
col solito sorriso di tutti i giorni, lo stesso con cui parlava di ragù e di
salsa al pomodoro.
"Je
comprends tout ce que vous dites, je ne comprends pas seulement pourquoi vous
dites cela".
I
prigionieri di guerra russi che si trovavano in questo blocco speciale non
erano esonerati dal lavoro e perciò Mostovskoj li vedeva e chiacchierava con
loro solo la sera tardi o durante la notte.
Il
generale Gudz' e il commissario di brigata Osipov erano gli unici a non
lavorare.
Di
frequente, interlocutore di Mostovskoj era uno strano individuo di età
indefinibile che si chiamava Ikonnikov-Morz.
Dormiva
nel posto peggiore della baracca, presso la porta d'ingresso dove soffiava un
gelido spiffero e dove per di più era collocato un enorme bidone con un rumoroso
coperchio: il bugliolo.
I
reclusi russi chiamavano Ikonnikov "il vecchio paracadutista", lo
ritenevano un matto e lo trattavano con schifiltosa compassione.
Aveva
quella tempra incredibile che è caratteristica solo dei pazzi e degli idioti.
Mai
che si prendesse un raffreddore, benché andando a dormire non si togliesse i
vestiti bagnati dalla pioggia autunnale.
Pareva
che con una voce così sonora e chiara potesse parlare solo un folle.
Aveva
fatto conoscenza con Michajl Sidorovic in questa maniera.
Gli
si avvicinò un giorno fissandolo a lungo in viso senza parlare.
Ha
qualcosa di buono da dirmi, compagno? chiese Michajl Sidorovic Mostovskoj, e
ridacchiò quando Ikonnikov gli rispose cantilenando: Di buono? E che cos'è la
bontà? D'improvviso queste parole riportarono Michajl all'infanzia, quando il
fratello più grande, di ritorno dal seminario, intratteneva col padre
discussioni su argomenti teologici.
E'
una questione che ha la barba bianca replicò ci hanno già pensato i buddisti e
i primi cristiani.
E
anche i marxisti ci si sono affaticati non poco.
E
han trovato una soluzione? domandò Ikonnikov con un tono che infastidì
Mostovskoj.
Beh,
l'Armata Rossa ribatté questi la sta risolvendo adesso.
Ma
nel suo tono, mi scusi, c'è qualcosa di ambiguo, qualcosa che non si capisce se
è da pope o da tolstojano.
Non
può essere altrimenti precisò Ikonnikov.
Infatti
sono stato tolstojano.
Questa
è bella esclamò Michajl Sidorovic.
Quello
strano individuo destava il suo interesse.
Sa
disse Ikonnikov io sono convinto che le persecuzioni che i bolscevichi hanno
condotto contro la Chiesa durante la rivoluzione hanno avvantaggiato la fede
cristiana, dato che la Chiesa, prima della rivoluzione, versava in una situazione
pietosa.
Michajl
Sidorovic Mostovskoj osservò affabilmente: Ma lei è davvero un dialettico.
Proprio
in vecchiaia mi deve capitare un miracolo evangelico...
No
si oppose Ikonnikov con aria cupa.
E'
per lei che il fine giustifica i mezzi, e i vostri mezzi sono spietati.
Non
veda in me un miracolo, e neanche un dialettico.
Allora
chiese Michajl tremando impercettibilmente di irritazione in che cosa posso
esserle utile? Ikonnikov, come un soldato che si mette all'erta, rispose: Non
rida di me! e la sua voce addolorata risuonò addirittura tragica.
Non
sono venuto da lei per scherzare.
Il
15 settembre dell'anno scorso ho visto l'esecuzione di ventimila ebrei, vecchi,
donne e bambini.
E
quel giorno ho capito che Dio non può permettere una cosa simile, e mi è apparso
chiaro che non esiste.
Nell'attuale
tenebra io vedo chiaramente la vostra forza che lotta contro un male
spaventoso...
Ebbene,
discutiamone disse Michajl Sidorovic.
Ikonnikov
lavorava nella zona paludosa dell'area di bonifica vicino al lager, dove stavano
impiantando un sistema di enormi condotti di cemento per il convogliamento nel
fiume dei rivoli fangosi che rendevano marcia la bassa pianura.
In
quella zona gli operai venivano chiamati "Moorsoldaten", soldati di
fango.
Vi
erano destinati coloro che s'erano attirati l'antipatia dei superiori.
Le
mani di Ikonnikov erano piccole, le dita sottili terminavano con unghie
infantili.
Tornava
dal lavoro coperto di fango dalla testa ai piedi, bagnato andava verso il
pancaccio di Mostovskoj e chiedeva: Posso sedermi accanto a lei? Si sedeva e
sorridendo, senza guardare l'interlocutore, si passava una mano sulla fronte.
Aveva
una fronte strana, non molto grande, sporgente, luminosa, così luminosa che
pareva avesse una vita indipendente dalle orecchie sporche, dal collo marron
scuro e dalle mani con le unghie scheggiate.
Al
prigioniero di guerra sovietico, alla gente con una biografia semplice,
sembrava un uomo incomprensibile e oscuro.
Gli
antenati di Ikonnikov, a partire dall'epoca di Pietro il Grande, erano stati
sacerdoti di generazione in generazione.
Solo
l'ultima aveva imboccato un'altra strada e tutti i fratelli, per desiderio del
padre, avevano ricevuto un'educazione laica.
Ikonnikov
aveva studiato all'Istituto di Tecnologia di Pietroburgo, ma attratto dalle
teorie di Tolstoj non aveva terminato l'ultimo corso e si era diretto a nord
della provincia di Perm con l'incarico di maestro di scuola.
Visse
in campagna per circa otto anni, successivamente si spostò nel Sud, a Odessa,
si imbarcò su di un mercantile come meccanico, fu in India, in Giappone, visse
a Sidney.
Dopo
la rivoluzione era tornato in Russia, aveva partecipato a una comune agricola.
Era
un suo sogno di antica data, credeva che il lavoro contadino comunista avrebbe
creato davvero il regno di Dio in terra.
Al
tempo della collettivizzazione vide convogli zeppi di famiglie di kulaki a cui
avevano strappato ogni avere.
Vide
cadere nella neve la gente estenuata e non rialzarsi più.
Vide
villaggi chiusi e morti.
Con
porte e finestre sbarrate.
Vide
una contadina arrestata, vestita di cenci, con un collo secco, le mani scure da
lavoratrice, che i soldati di scorta guardavano con orrore: impazzita per la
fame, s'era mangiata i suoi due bambini.
A
quell'epoca egli, senza abbandonare la comune, cominciò a predicare il Vangelo,
pregando Dio di salvare coloro che stavano per morire.
Finì
con l'essere imprigionato, ma fu stabilito che la carestia degli anni trenta
aveva alterato le sue facoltà mentali.
Dopo
un anno di cure forzate in un carcere psichiatrico venne liberato e si trasferì
in Bielorussia dal fratello maggiore, professore di biologia, trovando con il
suo aiuto sistemazione in una biblioteca tecnica.
Ma
quei tragici avvenimenti avevano prodotto in lui un'impressione tremenda.
Quando,
all'inizio della guerra, i tedeschi avevano conquistato la Bielorussia, egli
aveva visto la sofferenza dei prigionieri, le esecuzioni di ebrei in città e
paesi.
Era
ricaduto allora in una specie di crisi mistica e cominciò a pregare conoscenti
e sconosciuti di nascondere gli ebrei; egli stesso tentò di salvare donne e
bambini.
Presto,
però, i nazisti lo acciuffarono e, sfuggito per un miracolo alla forca, lo
cacciarono in un lager.
Nella
testa del "paracadutista" regnava il caos, egli professava una morale
grottesca e ridicola, al di sopra della lotta di classe.
Là
dove c'è la costrizione spiegava Ikonnikov a Mostovskoj regna il dolore e si
sparge il sangue.
Io
ho assistito alle grandi sofferenze del popolo contadino, anche se la
collettivizzazione la si faceva in nome del bene.
Io
non credo nel bene, credo nella bontà.
Allora,
a sentirla, dovremmo inorridire che in nome del bene impicchino Hitler e
Himmler.
Inorridisca
pure, ma senza di me rispose Michajl Sidorovic.
Chieda
a Hitler obiettò Ikonnikov e lui le risponderà che anche questo lager è fatto
per il bene.
A
Mostovskoj pareva che i suoi sforzi di logica durante le discussioni con
Ikonnikov fossero paragonabili ai tentativi assurdi di chi con un coltello
cercasse di colpire una medusa.
Il
mondo non si è elevato al di sopra della verità definita da un cristiano della
Siria nel sesto secolo ripeteva Ikonnikov; vale a dire "condanna il
peccato e perdona il peccatore".
Nella
baracca si trovava un altro russo anziano, Cernecov, cieco di un occhio.
Un
guardiano gli aveva spezzato l'occhio finto di vetro e l'orbita rossa e vuota
faceva una strana impressione sul suo volto pallido.
Quando
parlava con qualcuno, per pudore copriva con il palmo lo squarcio dell'orbita
vuota.
Era
un menscevico scappato dalla Russia sovietica nel 1921.
Aveva
vissuto vent'anni a Parigi lavorando in banca come contabile ed era capitato
nel lager per avere aderito alla richiesta rivolta agli impiegati della banca
di sabotare i depositi della nuova amministrazione tedesca.
Mostovskoj
cercava di non incontrarlo mai.
Il
menscevico guercio, evidentemente, sentiva insidiata la sua popolarità, dato
che un soldato spagnolo, un norvegese che trafficava in oggetti di cancelleria
e un avvocato belga provavano inclinazione per il vecchio bolscevico e gli
ponevano frequenti quesiti.
Un
giorno si sedette sul pancaccio di Mostovskoj il capo riconosciuto dei
prigionieri di guerra russi, il maggiore Ersciov.
Accostandosi
a lui e posandogli una mano sulla spalla, prese a parlare velocemente e con
calore.
Mostovskoj
si volse impercettibilmente: Cernecov li guardava dal pancaccio poco lontano.
A
Michajl venne da pensare che l'espressione dell'occhio che vedeva fosse più
terribile dell'orbita rossa dell'occhio sfondato.
"Sì,
fratello, non deve essere allegra per te" pensò, ma senza gioia maligna.
Una
legge dettata dall'abitudine aveva stabilito, ben s'intende non a caso, che
Ersciov era indispensabile a tutti.
Dov'è
Ersciov? Avete visto Ersciov? Compagno Ersciov! Maggiore Ersciov! Ersciov ha
detto...
Chiedi
a Ersciov...
Arrivava
gente per lui anche dalle altre baracche e davanti al suo pancaccio c'era
sempre andirivieni.
Michajl
Sidorovic lo aveva ribattezzato un "signore delle menti", e così
erano stati definiti i progressisti degli anni sessanta e degli anni ottanta.
Erano
i populisti, era l'ormai tramontato Michajlovskij.
In
tal modo anche il campo di concentramento di Hitler aveva il suo bravo capo
morale! La solitudine del guercio era un tragico simbolo del lager.
Erano
passate decine di anni dall'epoca in cui Michajl Sidorovic era finito per la
prima volta in un carcere zarista, ma anche il secolo era un altro, il
diciannovesimo.
Ora
si ricordava di quanto si era offeso dell'incredulità di alcuni dirigenti del
partito sulla sua capacità di svolgere un lavoro pratico.
Si
sentiva forte, constatava come di giorno in giorno la sua parola si facesse
sempre più autorevole per il generale Gudz', e per il commissario di brigata
Osipov e per il sempre avvilito e triste maggiore Kirillov.
Fino
a prima della guerra si era rallegrato del fatto che, tenuto lontano
dall'attività, fosse meno a contatto con tutto ciò che suscitava la sua
protesta e il suo disaccordo: l'assolutismo di Stalin nel partito, i sanguinosi
processi contro l'opposizione, lo scarso rispetto nei confronti della vecchia
guardia.
Aveva
dolorosamente sofferto per la condanna di Bucharin che conosceva bene e amava.
Ma
sapeva che contrapponendosi al partito in una qualsiasi di tali questioni egli,
contro la propria volontà, si sarebbe rivelato un oppositore dell'idea
leninista, alla quale aveva consacrato la vita.
Talvolta
lo tormentava il dubbio che forse non si opponeva all'ingiustizia per debolezza
e vigliaccheria.
In
fondo, si erano verificate molte turpitudini prima della guerra! Spesso ricordava
il defunto Lunaciarskij.
Avrebbe
desiderato rivederlo, era così semplice parlare con Anatolij Vasil'evic, così
immediato; si intendevano con una mezza parola.
Ora,
nel terribile lager tedesco, si sentiva forte e fiducioso.
Solo
una penosa sensazione non l'abbandonava. Neanche nel lager poteva ritrovare
quel sentimento giovane, chiaro e compiuto di sentirsi suo tra i suoi, estraneo
tra gli estranei.
Il
nocciolo della questione era che questo non dipendeva dal fatto oggetto una
volta della domanda di un ufficiale inglese - che gli era impedito di occuparsi
di filosofia, perché in Russia era vietato esprimere idee antimarxiste.
A
qualcuno forse potrebbe dare fastidio.
Non
a me che sono marxista aveva replicato Michajl Sidorovic.
Le
ho fatto questa domanda proprio perché lei è marxista, e un marxista della
vecchia guardia aveva precisato l'inglese.
Benché
rabbuiato per il dolore destato da quelle parole, Mostovskoj aveva saputo
tenergli testa.
Qui
la questione non era tanto che uomini come Osipov, Gudz', Ersciov talvolta lo
tormentassero benché gli fossero intimamente vicini.
Il
guaio era che molto del suo stesso animo gli era diventato estraneo.
Accadeva
che in tempo di pace egli, rallegratosi di aver incontrato un vecchio amico, se
lo scoprisse subito dopo straniero.
Ma
che fare quando l'estraneo del giorno presente viveva in lui stesso, era una
parte di sé? Con te stesso non puoi troncare i rapporti, non puoi smettere di
incontrarti...
Durante
i dialoghi con Ikonnikov si arrabbiava, diventava brusco e sarcastico, gli dava
del cretino, del mollusco, dello smidollato.
Però,
pur ridendo di lui, ne sentiva la mancanza se quello non si faceva vedere per
qualche tempo.
Proprio
in ciò consisteva il grande cambiamento avvenuto tra il periodo della gioventù
passato in carcere e il momento presente.
Allora,
sia tra gli amici che solo con i propri pensieri, tutto gli era vicino e
comprensibile.
Ogni
idea, ogni opinione dell'avversario, in cambio, gli sembrava estranea e
assurda. Ed ora, all'improvviso, riconosceva nei pensieri di uno sconosciuto
ciò che anni prima gli era stato chiaro, mentre alle volte ciò che gli era
stato alieno prendeva forma, in modo misterioso, nei pensieri e nelle parole di
amici.
"Deve
essere perché sono al mondo da troppo tempo" cominciò a dubitare
Mostovskoj.
5.
Il
colonnello americano occupava da solo il box di una baracca isolata.
Aveva
il permesso di uscire liberamente nelle ore serali e mangiava separato dagli
altri.
Si
diceva che, a suo favore, era stata avanzata una richiesta da parte del governo
svedese, e che il presidente Roosevelt in persona aveva chiesto sue notizie
attraverso il re di Svezia.
Una
volta il colonnello portò in dono una tavoletta di cioccolato al maggiore
Nikonov, che era ammalato.
In
questa circostanza la sua attenzione si era rivolta soprattutto ai prigionieri
di guerra russi. Si era sforzato di instaurare con loro un dialogo sulla
tattica tedesca e sui perché degli insuccessi del primo anno di guerra.
Chiacchierava
spesso con Ersciov e, fissando gli occhi acuti, ad un tempo seri ed allegri del
maggiore russo, si dimenticava che quello non capiva l'inglese.
Gli
pareva strano che non lo potesse capire con un viso così intelligente, e
soprattutto non comprendesse un discorso proprio su argomenti che turbavano
entrambi.
Sul
serio non capisce un accidente? domandava irritato.
Ersciov
gli rispondeva in russo: Il nostro bravo sergente conosceva perfettamente sette
lingue, tranne quelle straniere.
Tuttavia,
nel linguaggio comune consistente in sorrisi, sguardi, pacche sulle spalle e
una decina e mezzo di parole corrotte in russo, tedesco, inglese, gli uomini
russi del lager riuscivano a parlare di amicizia, compassione, aiuto, amore per
la casa, le mogli, i bambini, con gli uomini di decine di nazionalità di lingua
differente.
"Kamarad,
Gut, Brot, Suppe, Zigaretten, Arbeit" e un'altra dozzina di parole di
slang tedesco sorto nel lager...
Tutto
questo bastava per indicare l'essenziale della vita rozza e complicata degli
internati.
C'erano
anche detenuti di numerose nazionalità che usavano parole russe come
"rebiata, tabaciok, tovarish".
E
la parola russa "dochodjaga", "arrivato", che era riferita
alla condizione di un internato vicino alla morte, divenne d'uso comune,
conquistò il consenso di tutte e cinquantasei le nazionalità rappresentate.
Con
l'assunzione di una decina e mezzo di parole, il grande popolo tedesco invase
città e campagne dove era stanziato il grande popolo russo: milioni di donne di
campagna, di vecchi e bambini, e milioni di soldati tedeschi comunicavano con
parole come "matka, pan, ruki vverch, kurka, jajka, kaputt" (2).
Anche
se, naturalmente, non ne venne nulla di buono.
Al
grande popolo tedesco bastarono comunque queste parole per [Interruzione nel
testo originale. (N.d.R.)] ................................................
aveva
dimenticato il russo, ma conosceva alla perfezione il gergo parlato.
Non
gli riusciva di capire i prigionieri di guerra sovietici, cercava di sfuggirli.
Allo
stesso modo costoro non potevano mettersi d'accordo tra di loro: alcuni pronti
a morire ma non a tradire, altri intenzionati a entrare nelle truppe di Vlasov
(3).
Quanto
più parlavano e discutevano, tanto meno si capivano.
Infine
tacevano, pieni ormai di reciproco odio e disprezzo.
In
questo tacere dei muti alle parole dei ciechi, in questa fitta mescolanza di
uomini accomunati solo dal terrore, dalla disperazione e dal dolore,
nell'incomprensione di esseri che pur parlavano la stessa lingua, si delineava
in modo tragico una delle grandi miserie del nostro secolo.
6.
Il
giorno in cui era nevicato, i discorsi dei prigionieri russi furono
particolarmente malinconici.
Perfino
il colonnello Zlatokrylec e il commissario di brigata Osipov, sempre energici e
pieni di forza d'animo, erano cupi e taciturni.
Tutti
erano in preda all'angoscia.
Il
maggiore d'artiglieria Kirillov sedeva sul pancaccio di Mostovskoj con le
spalle rilasciate e scoteva la testa, muto.
Sembrava
che non solo i suoi occhi scuri, ma anche il suo corpo fosse pieno di angoscia.
Un'espressione
simile l'hanno i disperati, gli ammalati di cancro: guardando in occhi simili,
persino le persone care si augurano per compassione che tu muoia al più presto.
Il
giallastro e onnipresente Kotikov, indicando Kirillov sussurrò ad Osipov: Quello
lì o si impicca o si aggrega a Vlasov...
Mostovskoj,
lisciandosi le grigie guance setolose, disse: Sentite un po', cosacchi.
Ma
davvero, come si deve.
Possibile
che non capiate? Per i fascisti, ogni giorno di vita dello Stato fondato da
Lenin è intollerabile.
Non
hanno alternative.
O
divorarci, annientarci, o estinguersi.
Proprio
nell'odio che ci dimostrano i fascisti consiste la controprova della giustezza
dell'operato di Lenin.
Ancora
una cosa, e non da poco.
Ricordate
che quanto più è grande l'odio dei fascisti nei nostri confronti, tanto più
dobbiamo essere certi della nostra ragione.
E
noi la spunteremo.
Si
volse di scatto verso Kirillov e continuò domandando: Ma che fa? Si ricorda
l'opera in cui Gorkij cammina nel cortile della prigione e un georgiano gli
grida: 'Perché cammini come una gallina, va a testa alta!'.
Tutti,
a questa battuta, scoppiarono a ridere.
Giusto,
no? Tutti a testa alta ribadì Mostovskoj.
Pensate
che il grande, nobile Stato sovietico difende l'idea comunista! Che Hitler si
confronti pure con lo Stato e l'idea.
Stalingrado
è salda, resiste.
Qualche
volta, prima della guerra, è parso che noi abbiamo dato un giro di vite troppo
brusco, troppo brutale.
Ma
ora, in realtà, anche per i ciechi è evidente che il fine giustifica i mezzi.
Già,
il giro di vite è stato brusco.
Ben
detto intervenne Ersciov. No, hanno stretto troppo poco ribatté il generale
Gudz'.
Bisognava
stringere di più, così il nemico non sarebbe arrivato fino al Volga.
Non
spetta a noi dare lezioni a Stalin sentenziò Osipov.
Beh,
allora disse Mostovskoj se ci toccherà di morire in prigione o marcire in
miniera non c'è niente da fare.
Non
è a questo che dobbiamo pensare.
E
a cosa, allora? domandò a voce alta Ersciov.
L'uditorio
si scambiò occhiate interrogative, guardandosi intorno senza fiatare.
Eh,
Kirillov, Kirillov esortò all'improvviso Ersciov.
Ha
detto bene il nostro Mostovskoj, che dobbiamo rallegrarci di essere odiati dai
fascisti.
Noi,
in cambio, odiamo loro.
Capisci?
Pensa.
Finire
nel lager dove ci sono amici che ti sentono amico.
Tu
con i tuoi.
Questo
è il punto.
E
allora? Ricordati che noi siamo gente dalla tempra forte; ce ne vuole prima che
il tedesco ci faccia schiattare.
7.
Per
l'intera giornata il comando della Sessantaduesima armata non poté stabilire
contatti con i distaccamenti dei vari reparti.
Allo
stato maggiore molte radioriceventi s'erano guastate; le comunicazioni erano
interrotte ovunque.
C'erano
momenti in cui alle persone che guardavano scorrere il Volga appena increspato,
il fiume pareva immobile, mentre oltre il suo argine si dibatteva una terra
tremante.
Un
centinaio di pezzi dell'artiglieria pesante sovietica facevano fuoco oltre il
Volga.
Davanti
allo spiegamento tedesco, sul versante sud del Kurgan (4) di Mamai, si alzavano
fontane di zolle e d'argilla.
Le
turbinanti nuvole di terra che passavano per un setaccio stupefacente e
invisibile, creato dalla forza di gravità, formavano quasi un campo alla
stagione delle semine, e pesanti masse di terreno precipitavano al suolo mentre
piccolissime particelle in sospensione venivano attirate verso il cielo.
Più
volte al giorno i soldati dell'Armata Rossa, assordati e con gli occhi arsi,
fronteggiavano i carri e la fanteria nemica.
Al
comando, isolato dalle truppe, la giornata pareva penosamente lunga.
Ciujkov
(5), Krylov e Gurov cercavano di far di tutto per riempire quella giornata:
prendevano visione degli incartamenti, curavano la corrispondenza, discutevano
dei possibili spostamenti del nemico, scherzavano e bevevano vodka,
accompagnandola ogni tanto con qualche spuntino, oppure tacevano porgendo
l'orecchio al fragore delle bombe.
Tutt'intorno
al rifugio imperversava una bufera di ferro, falciando la vita di chi per un
istante aveva sollevato la testa oltre la superficie del terreno.
Lo
stato maggiore era paralizzato.
Forza,
giochiamo a briscola decise Gurov e spostò il voluminoso posacenere pieno di
mozziconi all'angolo del tavolo.
Perfino
il capo di stato maggiore d'armata Krylov aveva perso la pazienza.
Tamburellando
con un dito sul tavolo disse: Non esiste condizione peggiore che aspettare, per
quanto ci si rimpinzi.
Ciujkov
distribuì le carte e dichiarò briscola di cuori, poi all'improvviso mise da
parte il mazzo e si arrese: No, non posso! esclamò.
Sedeva
con aria pensosa.
Il
suo viso assunse un'espressione terribile, tanto era piena di odio e di noia.
Gurov,
come presentendo il proprio destino, ripeté soprappensiero: Sì, dopo una
giornata così si può morire d'un colpo.
Ma
poi scoppiò a ridere e disse: Nella divisione andare al cesso di giorno è
un'impresa spaventosa, impossibile! Mi hanno raccontato che il capo di stato
maggiore Ljudnikov è saltato giù nel rifugio gridando: 'Urrà ragazzi, ho
cagato!' Si volta, e nel rifugio c'è la dottoressa della quale è innamorato.
Col
buio le incursioni dell'aviazione tedesca cessarono.
Probabilmente,
un uomo che fosse capitato di notte sulla riva di Stalingrado, oppresso dal
fragore e dal crepitio, si sarebbe figurato che un destino avverso l'aveva
portato in quel posto nell'ora dell'attacco decisivo; per i veterani quello non
era invece tempo di battaglia, ma di piccolo bucato, di corrispondenza, tempo
in cui i meccanici del fronte, i tornitori, i saldatori, gli orologiai
fabbricavano accendini, bocchini e lampade con i bossoli delle granate,
ricavando gli stoppini dalla stoffa del mantello.
Il
fuoco guizzante delle esplosioni illuminava la scarpata della riva, le rovine
della città, i depositi di carburante, le ciminiere delle fabbriche, e in
queste brevi vampate la costa e la città assumevano un aspetto sinistro,
lugubre.
Al
cadere della notte il centro di collegamento dell'armata riprese a vivere, le
macchine da scrivere ricominciarono a crepitare moltiplicando le copie dei
bollettini di guerra; i motorini presero a ronzare, l'alfabeto Morse a
ticchettare e i telefonisti a chiamarsi da una linea all'altra: riallacciavano
alla rete i centri di comando delle varie divisioni, dei reggimenti, delle
batterie, delle compagnie...
Le
staffette dello stato maggiore tossicchiavano in modo discreto, gli ufficiali
di collegamento riferivano all'esecutivo di turno.
A
rapporto da Ciujkov e Krylov si presentarono il vecchio Podzarskij, che
comandava l'artiglieria dell'armata, il capo del genio generale Tkacenko e il
veterano di Stalingrado tenente colonnello Batjuk, appostato con la sua
divisione sotto il Kurgan.
Nelle
relazioni indirizzate al membro del Consiglio d'armata Gurov, risuonavano nomi
divenuti famosi a Stalingrado: quelli del motorista Bezdid'ko, del tiratore
scelto Vasilij Zajecv, di Anatolij Cechov, del sergente Pavlov; si elencavano
inoltre tutti coloro che si erano subito distinti in battaglia: Scionin,
Vlasov, Brysin, ai quali la prima delle giornate di Stalingrado portò la
gloria.
In
prima linea si affidavano al postino tessere piegate a triangolo isoscele:
Vola, foglietto, da occidente ad oriente... vola con un saluto, torna con la
risposta...
Buon
giorno e forse buona notte...
In
prima linea seppellivano i caduti, e i morti passavano la prima notte del loro
sonno eterno vicino ai fortini e alle casematte dove i compagni scrivevano a
casa, si radevano, mangiavano il pane, bevevano il tè, facevano toeletta nei
bagni che si erano costruiti da soli.
8.
Per
i difensori di Stalingrado sopraggiunsero presto i giorni più difficili.
Nel
trambusto dei combattimenti in città, dell'attacco e del contrattacco; nella
battaglia per la "Casa dello Specialista", per il mulino, per il
palazzo della Gosbank; nella lotta per scantinati, cortili, piazze, la
superiorità delle forze tedesche si faceva manifesta.
Il
cuneo tedesco, conficcato nella zona sud di Stalingrado, nel giardino dei
Lapscin, nel burrone Kuporosma ed El'scianka, si era dilatato, e i mitraglieri
tedeschi, che trovavano riparo proprio vicino all'acqua, facevano fuoco sulla
riva destra del Volga, a sud della Krasnaja Sloboda.
Gli
ufficiali dello stato maggiore segnavano ogni giorno sulla carta la linea del
fronte, constatando come le tracce azzurre progredivano inesorabilmente mentre
continuava ad assottigliarsi lo spazio tra la linea rossa della difesa
sovietica e la fascia celeste del Volga.
L'iniziativa,
anima della guerra, in quei giorni era decisamente in mano ai tedeschi.
Essi
avanzavano e avanzavano, e tutta la furia del contrattacco non riusciva a
bloccare il loro movimento lento, ma terribilmente deciso.
Nel
cielo, dall'alba al tramonto, gemevano i motori degli Stukas che martoriavano
la terra sventurata con bombe dirompenti.
E
in centinaia di teste martellava pungente la domanda di cosa sarebbe accaduto
l'indomani, tra una settimana, quando l'area della difesa sovietica si sarebbe
trasformata in un filo, facilmente tranciabile dai denti d'acciaio
dell'iniziativa germanica.
9.
A
notte inoltrata il generale Krylov s'infilò nella branda del suo riparo
blindato.
Gli
dolevano le tempie, la gola gli bruciava per il fumo di decine di sigarette.
Krylov
si passò la lingua sul palato asciutto e si volse verso la parete.
La
sonnolenza gli confuse nella mente il ricordo delle battaglie di Sebastopoli e
di Odessa, il grido della fanteria romena all'assalto, i cortili di Odessa
lastricati di ciottoli coperti d'edera e la bellezza marina di Sebastopoli.
Rivide
se stesso al posto di comando, e in quella nebbiosa sonnolenza baluginavano i
vetri del pince-nez del generale Petrov; il vetro lampeggiante brillava in
mille frammenti, e mentre il mare si agitava, la polvere grigia delle rocce
frantumate dai proiettili tedeschi pioveva sulle teste dei marinai e dei
soldati, si sollevava verso il monte Sapun.
Udiva
l'indifferente sciabordio dell'onda contro il bordo del motoscafo e la voce
robusta del sommergibilista: "Salti!".
Gli
sembrò di tuffarsi nell'acqua, ma il piede toccò subito la corazza del sottomarino...
E
poi l'ultimo sguardo a Sebastopoli, alle stelle del cielo, ai fuochi sulla
riva...
Krylov
si addormentò, ma anche nel sonno l'ossessione della guerra non gli dava
tregua.
Il
sottomarino da Sebastopoli si diresse verso Novorossijsk...
Egli
accavallò le gambe intorpidite; il petto e la schiena erano fradici di sudore,
il rumore del motore batteva alle tempie.
All'improvviso
il motore tacque e il sottomarino si posò con leggerezza sul fondo.
L'afa
divenne insopportabile, la volta metallica era opprimente, divisa in quadrati
imbullonati...
Sentì
un muggito sordo: era esplosa una bomba di profondità.
Una
violenta corrente urtò lo scafo ed egli fu scaraventato giù dalla cuccetta.
In
quell'istante Krylov aprì gli occhi: tutto era in fiamme: vicino alla porta
spalancata del fortino, verso il Volga, correva un torrente di fuoco, si
udivano delle urla e lo stridio dei cingolati.
Col
mantello, copriti la testa col mantello! gridò a Krylov un soldato sconosciuto,
porgendoglielo.
Ma,
allontanandosi dal soldato, il generale gridò: Dov'è il comandante? D'un tratto
capì.
I
tedeschi avevano colpito i depositi di carburante e la nafta incendiata
scorreva verso il Volga.
Pareva
che non sarebbe stato possibile uscire vivi da quel torrente di fuoco.
Le
fiamme sibilavano alzandosi con sinistri crepitii dal liquido che si spargeva
riempiendo buche e fosse e invadendo i camminamenti.
La
terra, il fango, la roccia impregnati cominciarono a fumare.
La
benzina si riversava in neri e lucidi rivoli dai depositi crivellati di proiettili
incendiari, enormi ruote di fuoco e di fumo, sprigionandosi dalle cisterne, si
dispiegavano all'intorno.
La
vita, che aveva trionfato sulla terra milioni di anni prima, la rozza e
terribile vita dei mostri primitivi, si scatenava dalle remote fosse
sepolcrali, urlava di nuovo, affilava le lame strepitando, fagocitando con
avidità tutto ciò che la circondava.
Le
fiamme si alzavano per centinaia di metri trascinando nubi di vapore
incandescente che divampavano in alto esplodendo nel cielo.
La
massa di fuoco era così estesa che il turbine d'aria non faceva in tempo a
fornire ossigeno alle incandescenti molecole di idrocarburo, e la nera cappa
ondeggiante tagliava fuori il cielo autunnale trapuntato di stelle dalla terra
infuocata.
Era
spaventoso guardare verso l'alto quel firmamento zampillante, denso e nero.
Le
colonne di fuoco e fumo che si elevavano al cielo assumevano talvolta le
sembianze di esseri viventi presi dalla disperazione e dalla collera, ora
sembravano dei pioppi tremanti, ora delle tremule agitate.
Il
nero e il rosso vorticavano in brandelli di fuoco, come ragazze scarmigliate
lanciate nella danza.
La
benzina incendiata si propagava uniformemente sull'acqua, trascinata dalla
corrente sfrigolava, fumava, serpeggiava.
Cosa
stupefacente, in quei terribili istanti molti soldati riuscivano lo stesso a
guadagnare la riva opposta e gridavano: Di qua, corri di qua, prendi questo
sentiero! Alcuni fecero in tempo a raggiungere due o tre volte il rifugio
galleggiante dello stato maggiore e tornare alla riva: nel punto di
biforcazione dei torrenti di benzina si era formato sul Volga un piccolo gruppo
di superstiti.
Degli
uomini con giubbe imbottite aiutarono il generale dell'armata e gli ufficiali
dello stato maggiore a guadagnare la riva.
I
soldati strapparono al fuoco anche il generale Krylov che era già dato per
spacciato, e sbattendo le ciglia bruciacchiate si fecero strada ancora una
volta tra il folto dei rovi verso il rifugio del comando.
Gli
operatori dello stato maggiore della Sessantaduesima armata rimasero in quella
piccola sporgenza di terra sul Volga fino al mattino.
Riparandosi
il volto dall'aria rovente, scrollandosi di dosso le faville, guardavano il
comandante d'armata che portava il cappotto militare poggiato sulle spalle e da
sotto il berretto esibiva un ciuffo di capelli.
Cupo
e accigliato, dava l'impressione di essere calmo, di riflettere.
Gurov,
guardando i soldati che stavano intorno, disse: A quanto pare, non bruciamo
neanche col fuoco... e si toccò i bottoni roventi del cappotto.
Ehi,
soldato col badile! chiamò il capo del genio generale Tkacenko scava un piccolo
fossato, che non coli altro fuoco da quella collinetta! Poi si rivolse a
Krylov: Tutto è cambiato, compagno generale: il fuoco corre come l'acqua e il
Volga è invaso dalle fiamme.
Per
fortuna che il vento non è forte, altrimenti saremmo andati tutti arrosto.
Quando
la brezza risalì dal Volga, la greve cappa dell'incendio ondeggiò, si piegò e
gli uomini sbandarono per evitare le fiamme.
Alcuni,
andando alla riva, bagnavano gli stivali e l'acqua evaporava dai gambali
caldissimi.
Altri
tacevano con lo sguardo fisso a terra, altri si guardavano intorno, altri
ancora, vincendo la tensione, scherzavano: Qua almeno non servono fiammiferi,
si può accendere direttamente dal Volga e dall'aria.
Altri
infine si tastavano, scotevano la testa dopo avere constatato il calore delle
fibbie di metallo del cinturone.
Si
sentirono delle deflagrazioni: erano bombe a mano che esplodevano nei rifugi
del battaglione addetto alla difesa dello stato maggiore.
Poi
saltarono le cartucce dei nastri per mitragliatrici.
Una
mina tedesca emise un fischio attraverso il fuoco ed esplose lontano.
Oltre
il fumo balenavano remote figure di uomini sulla riva; evidentemente qualcuno
cercava di deviare il fuoco dal comando, ma dopo un momento tutto veniva
coperto di nuovo dalle vampe e dal fumo.
Krylov
guardava le fiamme espanse all'intorno, ma non aveva ricordi, non faceva
domande...
E
se i tedeschi avessero pensato di far coincidere l'incendio con l'attacco? I
tedeschi non sanno in che situazione si trova il comando d'armata, tanto che il
prigioniero catturato il giorno prima non credeva che lo stato maggiore
dell'armata avesse sede sulla riva destra...
Evidentemente
si trattava di un'operazione diversiva, allora c'erano possibilità di
sopravvivere fino a domani.
Sempre
che non si alzi il vento.
Squadrò
Ciujkov che gli stava accanto e fissava il fuoco sibilante: il suo viso nero di
fuliggine pareva arroventato, di rame.
Si
tolse il berretto, si passò la mano sui capelli e somigliava a un fabbro di
campagna, madido di sudore; le faville crepitavano sopra la sua testa crespa.
Alzò
lo sguardo verso la rombante cupola di fuoco, volse gli occhi al Volga dove tra
le lingue serpeggianti trasparivano squarci di tenebra.
A
Krylov balenò l'idea che il comandante dell'armata si stesse arrovellando sugli
stessi problemi che tormentavano lui: avrebbero i tedeschi dato inizio
all'attacco quella notte stessa? Dove collocare lo stato maggiore nel caso si
potesse vedere il domani...
Ciujkov,
sentendo su di sé lo sguardo del comandante dello stato maggiore gli sorrise, e
indicando con un ampio gesto la massa di fuoco e fumo sopra la testa, disse:
Bella roba, diavolo, eh?
Le
fiamme dell'incendio erano ben visibili dal Krasnyj Sad, oltre il Volga,
dov'era insediato lo stato maggiore del fronte di Stalingrado.
Il
capo di stato maggiore, generale di brigata Zacharov, che aveva ricevuto per
primo la comunicazione dell'incendio, trasmise l'informazione ad Eremenko, ma
il comandante chiese a Zacharov che andasse lui personalmente al centro di
collegamento a parlare con Ciujkov.
Zacharov,
respirando a fatica, percorreva il sentiero in fretta e furia.
L'aiutante
di campo, alla luce del fanale, di quando in quando lo avvertiva: Attenzione,
compagno generale!, e con la mano scostava i rami dei meli che pendevano sul
sentiero.
Il
bagliore lontano illuminava i fusti degli alberi, cadeva sulla terra in macchie
rosate.
Questa
luce indistinta riempiva l'animo di angoscia.
Il
silenzio che aleggiava intorno era infranto solamente dai richiami a bassa voce
delle sentinelle, e aggiungeva una forza particolarmente penosa al fuoco
pallido e muto.
Al
centro di collegamento la centralinista di turno, rivolta all'ansante Zacharov,
disse che non c'erano comunicazioni né telefoniche né telegrafiche né via radio
con Ciujkov...
Ce
ne sono con la divisione? chiese nervoso Zacharov.
Abbiamo
appena stabilito il collegamento con Batjuk, compagno generale.
Forza,
presto! La centralinista aveva timore di guardare Zacharov ed era ormai sicura
che il difficile e collerico carattere del generale si sarebbe scatenato; così,
all'improvviso, esclamò festosa: Ecco, prego compagno generale e gli porse la
cornetta.
Con
Zacharov parlava il capo di stato maggiore della divisione, e la giovane
telefonista si intimorì ancor di più sentendo il respiro pesante e la voce autoritaria
del generale interrogare: Che cosa succede da voi, mi dica: siete in contatto
con Ciujkov? Il capo di stato maggiore della divisione riferì dell'incendio ai
serbatoi di nafta e che la cortina di fuoco si era rovesciata contro la sede
del comando; la divisione non aveva contatti col comandante.
A
quanto pareva non tutti erano morti, dato che oltre il fuoco e il fumo si
vedevano uomini fermi sulla riva; tuttavia né da terra né dal Volga, in barca,
era possibile raggiungerli, perché il fiume era in fiamme.
Batjuk
aveva costeggiato con una compagnia della difesa dello stato maggiore la riva
dove divampava l'incendio, nel tentativo di deviare la corrente di fuoco e
aiutare gli uomini bloccati a trarsi in salvo.
Zacharov,
dopo avere ascoltato le parole del capo dello stato maggiore disse: Informi
Ciujkov, se è ancora vivo, informi Ciujkov... e tacque.
La
telefonista, stupita per la lunga pausa e in attesa del rombo della voce roca
del generale, guardava timorosamente Zacharov che in piedi si passava il fazzoletto
sugli occhi umidi.
Quella
notte, nel fuoco e per il crollo dei rifugi, morirono quaranta comandanti
operativi.
10.
Krymov
arrivò a Stalingrado subito dopo l'incendio dei serbatoi di nafta.
Ciujkov
aveva situato la sede del comando d'armata presso la scarpata del Volga,
dislocandovi il reggimento dei fucilieri, che entrava a far parte della
divisione di Batjuk.
Visitò
il rifugio del comandante di campo, capitano Michajlov, e dopo aver ispezionato
il vasto interrato, ricoperto di numerosi strati di tronchi, annuì soddisfatto.
Osservando
il viso afflitto del rosso e lentigginoso capitano, il comandante dell'armata
disse allegramente: Ti sei fatto costruire un rifugio troppo lussuoso, compagno
capitano.
Fu
così che lo stato maggiore del reggimento, traslocato il suo semplice mobilio,
si spostò di qualche decina di metri nel senso della corrente, e il rosso
Michajlov sloggiò con decisione il comandante di battaglione.
Il
comandante di battaglione, rimasto senza alloggiamento, non ritenne di
scomodare i comandanti delle sue compagnie (già vivevano troppo stretti), e
ordinò che scavassero un nuovo rifugio sulla stessa altura.
Quando
Krymov giunse al comando della Sessantaduesima armata, erano in pieno corso i
lavori del genio, si erano aperte linee di comunicazione tra i reparti dello
stato maggiore, strade e sentieri collegavano la sezione politica con gli
addetti alle operazioni e l'artiglieria.
Krymov
vide un paio di volte il comandante che usciva per controllare il cantiere.
Mai
in nessuna parte del mondo, probabilmente, ci si è dedicati con tanta alacrità
alla costruzione di ripari come a Stalingrado.
I
rifugi di Stalingrado non si costruivano né per stare al caldo né come modello
architettonico per i posteri.
La
probabilità di rivedere l'alba e l'ora del rancio dipendeva dallo spessore
delle pareti, dalla profondità dei passaggi di comunicazione, dalla vicinanza
della latrina e dall'efficacia della mimetizzazione.
Quando
si parlava di un uomo si parlava anche della sua tana.
Oggi
Batjuk ha lavorato con i mortaisti in modo assennato sul Kurgan di Mamai... e
anche il rifugio, tra l'altro, era ben fatto: la porta è di quercia, grossa
come quella del senato: è una persona intelligente...
Capitava
anche che si parlasse di qualcuno in questi termini: E allora lo hanno beccato
di notte, ha perso la posizione chiave, non aveva collegamenti con le unità.
Il
nemico l'ha avvistato dall'aria...
una
tenda impermeabile al posto della porta; buona contro le mosche forse.
Un
uomo leggero.
Ho
sentito dire che la moglie lo ha lasciato prima della guerra...
Molte
storie erano legate ai rifugi e alle gallerie sotterranee di Stalingrado.
Così
si raccontava di come nel tunnel in cui viveva lo stato maggiore di Rodimcev
aveva fatto all'improvviso irruzione l'acqua, e tutta la cancelleria
galleggiava lungo la riva; di come dei burloni avevano segnato sulla carta
l'ansa del Volga dove era 'sfociato' lo stato maggiore di Rodimcev, di come si
fossero sfondate le famose porte del rifugio di Batjuk, e di come Zoludv e
tutto il suo stato maggiore rimasero bloccati nella fabbrica di trattori.
Il
pendio del lungofiume di Stalingrado, tutto bucherellato di rifugi ricordava a
Krymov un'enorme nave da guerra: a babordo si stendeva il Volga, a tribordo la
compatta cortina del fuoco nemico.
Krymov
aveva avuto l'incarico dalla direzione politica di troncare la bega sorta tra
il comandante e il commissario della batteria nella divisione di Rodimcev.
Dirigendosi
verso di loro, riordinava le idee per quanto doveva dire al comandante di
campo, deciso a por fine a quella vana disputa.
L'inviato
della sezione politica dell'armata lo condusse alla bocca di pietra della larga
caverna nella quale aveva sede il comando di Rodimcev.
La
sentinella annunciò l'arrivo dal fronte del commissario di battaglione e la
voce profonda di qualcuno disse: Chiamalo dentro, non ci è abituato.
Se
no è facile che se la faccia addosso.
Krymov
passò sotto la bassa volta: sentendosi al centro degli sguardi degli ufficiali
si presentò al corpulento commissario di reggimento che indossava una giubba da
soldato, seduto su una cassa di scatolame.
Ah,
sono contento di ascoltare una conferenza; è una buona cosa disse il
commissario.
Abbiamo
sentito che sulla riva destra è arrivato Manul'skij e anche qualcun altro; e
pare che non ci riuniremo a Stalingrado.
Oltre
a ciò sono incaricato dal superiore della direzione politica soggiunse Krymov
di troncare il diverbio tra il comandante di batteria e il commissario.
C'è
stato in effetti questo diverbio ammise il commissario.
Ieri,
però, si è concluso: al comando è caduta una bomba da una tonnellata.
Ha
fatto fuori diciotto uomini tra cui il comandante e il commissario.
Parlava
con una naturalezza quasi confidenziale: Erano giusto all'opposto, perfino
nell'aspetto fisico: il comandante era un uomo semplice, figlio di contadini,
mentre il commissario portava i guanti e un anello al mignolo.
Ora
giacciono uno accanto all'altro.
Da
uomo che sapeva dominare l'umore suo e degli altri evitando di essere
sopraffatto, d'un tratto cambiò tono e disse con voce allegra: Quando la nostra
divisione era ferma presso Kotluban' mi capitò di accompagnare al fronte, con
l'auto, un conferenziere di Mosca, Pavel Fdorovic Judin.
Un
membro del Consiglio di guerra mi avvertì: 'Se perde un capello ti taglio la
testa'.
Fu
davvero spossante.
Appena
in movimento, giù un aereo in picchiata.
Comunque
ne ebbi tutti i riguardi.
Non
è piacevole rimetterci la testa.
E
debbo dire anche che il compagno Judin si riguardò, dando prova di iniziativa.
Gli
uomini che porgevano orecchio al dialogo ridacchiavano e Krymov si accorse che
quel tono indulgentemente canzonatorio lo scocciava.
Generalmente
instaurava degli ottimi rapporti con i comandanti, pienamente passabili con gli
ufficiali, ma aspri e non sempre sinceri con quelli della sua stessa categoria
di funzionari politici.
Anche
questa volta, infatti, quel commissario lo infastidiva: da pochi giorni al
fronte si crede un veterano, probabilmente è entrato nel partito poco prima
della guerra, e allora è senz'altro uno di quelli che dicono che Engels non lo
convince completamente.
Con
ogni evidenza, comunque, pure Krymov irritava non poco il Commissario della
divisione.
Questa
sensazione non lo abbandonò mentre l'attendente gli stava preparando l'alloggio
e qualcun altro gli offriva il tè.
Quasi
ogni reparto dell'esercito ha un suo particolare stile nei rapporti, differente
da ogni altro.
Nello
stato maggiore della divisione di Rodimcev andavano molto fieri del loro
giovane generale.
Terminata
la relazione, cominciarono a far domande a Krymov.
Il
capo di stato maggiore Bel'skij, che sedeva accanto a Rodimcev, chiese:
Quand'è, compagno relatore, che gli alleati apriranno il secondo fronte? Il
commissario di divisione, semisdraiato su di un panchetto poggiato al
rivestimento in pietra del rifugio, si mise a sedere, rastrella la paglia con
le mani e disse: Perché tanta fretta? A me interessa sapere, semmai, come il
nostro comando si propone di agire.
Krymov,
scontento, gettò un'occhiata di traverso al commissario e disse: Visto che il
commissario imposta così la questione, non spetta a me rispondere, ma al
generale.
Tutti
si volsero verso Rodimcev che dichiarò: Qui un uomo alto non ce la fa a stare
in piedi.
In
una parola, viviamo in una fogna.
Non
c'è nessun gran merito nella difesa.
Fare
un passo fuori da questo cunicolo non è possibile.
Anche
se lo vogliamo, qui non si possono costituire riserve...
In
quell'istante squillò il telefono.
Rodimcev
alzò la cornetta.
Tutti
lo seguirono con gli occhi.
Quando
posò il ricevitore, Rodimcev si piegò su Bel'skij e sussurrò qualche parola.
Bel'skij
si accostò all'apparecchio ma Rodimcev bloccò con la mano la cornetta e disse:
A che scopo? Forse non ha sentito? Sotto l'arco del cunicolo illuminato
dall'incerta e fumosa luce delle lampade costruite con bossoli di proiettile,
fitte raffiche di mitragliatrice rintronavano infatti nei crani dei difensori;
sembrava il rumore che fanno i carri quando passano su un ponte.
Di
quando in quando rimbombavano le esplosioni delle bombe a mano.
Nel
tunnel gli scoppi echeggiavano con grande frastuono.
Rodimcev
chiamava a sé ora l'uno ora l'altro dei suoi collaboratori dello stato maggiore
e con impazienza si riattaccava al telefono.
Captato
per un istante lo sguardo di Krymov che sedeva poco distante,
gentilmente,
sorridendogli in modo familiare, gli fece: Il Volga si agita, compagno
conferenziere.
Il
telefono suonava intanto senza posa.
Ascoltando
la conversazione di Rodimcev, Krymov intuiva ciò che stava accadendo.
Il
sostituto del comandante della divisione, il giovane colonnello Borisov, si
avvicinò al generale e, chinandosi sulla cassa su cui era spiegata la pianta di
Stalingrado, con sicurezza traccia una grossa linea azzurra perpendicolare che
tagliava il rosso punteggiamento della difesa sovietica fino al Volga.
Borisov
guardò significativamente Rodimcev con i suoi occhi scuri.
Rodimcev
si alzò all'improvviso, vedendosi venire incontro, dalla penombra, un uomo
avvolto in un telo da tenda.
Dall'andatura
e dall'espressione del viso del nuovo arrivato fu subito chiaro da dove
giungeva.
Sembrava
circonfuso da una vaga nuvola incandescente; si sarebbe detto che a frusciare,
nei suoi rapidi movimenti, non fosse il telo che lo avvolgeva, ma l'elettricità
crepitante dalla quale era come portato.
Compagno
generale gridò questi con rammarico mi hanno respinto.
Quei
cani sono arrivati al burrone, puntano al Volga.
Ho
bisogno di rinforzi.
Contenete
il nemico a qualunque costo.
Non
ho riserve rispose Rodimcev.
Contenete
a qualunque costo ripeté l'uomo sotto il telo, e a tutti fu chiaro, quando si
fu voltato e diretto all'uscita, che egli sapeva benissimo quale sarebbe stato
il prezzo da pagare.
Qui
vicino? chiese Krymov e indicò sulla carta la tortuosa linea del fiume.
Ma
Rodimcev non fece in tempo a rispondere.
All'ingresso
del tunnel si udirono spari di pistola, lampeggiarono rossi bagliori di bombe a
mano.
Si
fece sentire il penetrante fischio del comandante.
Il
capo di stato maggiore lanciandosi verso Rodimcev gridò: Compagno generale, il
nemico ha fatto irruzione nella sede del comando! E all'improvviso il generale
dalla calma appena ostentata, che riportava sulla carta topografica gli
spostamenti con un mozzicone di matita, quel generale scomparve; e con lui la
sensazione che la guerra tra le macerie e i burroni fosse combattuta con
l'acciaio cromato e le lampade catodiche.
Con
una voce trascinante, l'uomo dalle labbra sottili urlò: Su, presto, stato
maggiore! Controllate le vostre armi, prendete le granate, dietro a me,
respingiamo il nemico! Nella sua voce e negli occhi che in un lampo,
imperiosamente, si scontrarono con Krymov, c'era un freddo e bruciante spirito
battagliero.
In
quell'istante fu evidente che non nell'esperienza, né nella conoscenza delle carte,
ma nell'animo impetuoso, pieno di gaiezza e furore, consisteva la forza
dell'uomo.
Dopo
qualche secondo gli ufficiali dello stato maggiore, gli scrivani, gli addetti
ai collegamenti, i telefonisti, urtandosi trafelati si riversavano all'uscita
del tunnel; nello spiazzo illuminato dal fuoco baluginante della battaglia,
correva con passo leggero Rodimcev, proteso contro il nemico, tra le
deflagrazioni, gli spari e le grida.
Quando,
col respiro mozzo, Krymov giunse tra i primi al limite del burrone e guardò
giù, il suo cuore rabbrividì per un insieme di ripugnanza, paura e odio.
Nel
fondo del dirupo si stagliavano delle ombre confuse, si accendevano e si
spegnevano le scintille degli spari, balenava un barbaglio ora verde ora rosso,
mentre nell'aria sciabolava un incessante sibilo metallico.
Osservò
l'enorme budello brulicante di un centinaio di esseri inquieti, carichi di
odio; bisbigliavano appena, gli occhi rilucenti; strisciavano svelti frusciando
sugli sterpi secchi.
Con
ira, repulsione e timore, prese a sparare con il fucile in direzione delle
scintille che brillavano nel buio, contro le ombre rapide che, carponi,
risalivano il burrone.
A
qualche decina di metri i tedeschi si affacciarono alla cima.
Lo
schianto frequente delle bombe a mano faceva vibrare l'aria e la terra: il
gruppo d'assalto tedesco tentava di conquistare l'ingresso del tunnel.
Le
sagome umane, i bagliori degli spari si stagliavano nelle tenebre; le grida e
gli urli ora echeggiavano ora si spegnevano.
Pareva
un'enorme nera caldaia in ebollizione e Krymov, con tutto il corpo, con tutta
l'anima, si immerse in quel gorgogliante ribollire: ormai non poteva pensare e
sentire come prima.
Ora
gli pareva di saper dominare l'attrazione che lo calamitava nel gorgo, ora lo
afferrava il senso della rovina.
Gli
pareva che le tenebre, nere come la pece, gli si riversassero negli occhi,
nelle narici, che non ci fosse più aria respirabile, né cielo stellato sopra la
sua testa, ma solo buio, il burrone e strani esseri che bisbigliavano tra gli
sterpi.
Sembrava
che non fosse possibile raccapezzarsi in ciò che stava accadendo; nello stesso
tempo in lui si rafforzava un solare, chiaro sentimento che lo legava agli
uomini che strisciavano lungo il pendio, il sentimento della propria forza,
unita a quella dei compagni che sparavano accanto a lui, un senso di ebbrezza
all'idea che da qualche parte, lì vicino, c'era Rodimcev.
Questa
stupefacente sensazione scoperta in una notte di battaglia, mentre a tre passi
non si distingue se chi ti sta accanto è un compagno o un nemico che ti può
fulminare, si fondeva con un'altra non meno stupefacente e inesplicabile,
legata all'andamento generale dello scontro; una sensazione che dava ai soldati
la possibilità di giudicare d'istinto la proporzione delle forze in lotta e di indovinarne
l'esito.
11. La percezione che prova un uomo isolato dagli altri dal fumo, dal fuoco assordante, spesso si rivela più giusta del giudizio di chi studia chino sulla carta dello stato maggiore. Nell'istante della crisi può verificarsi nel soldato che avanza un sorprendente mutamento; quando, già prossimo a raggiungere l'obiettivo, si guarda intorno smarrito nel non vedere più coloro con i quali aveva cameratescamente iniziato l'azione: allora il nemico, che per tutto il tempo era sembrato isolato, debole, stupido, diventa di colpo numeroso e imponderabile. In quell'istante di crisi della lotta, chiaro per quelli che lo vivono, misterioso e inesplicabile per quelli che si sforzano dal di fuori di comprenderlo, si verifica un cambiamento nella consapevolezza: l'ardito, intelligente "noi" si trasforma in un timido fragile "io", e il nemico fallito, che si percepiva come un isolato oggetto di caccia, si trasforma in una terrificante e minacciosa fusione di "essi". Prima tutti gli avvenimenti di una battaglia erano conosciuti da chi vi aveva partecipato e con successo aveva sostenuto separatamente le varie fasi di un assalto nemico: l'esplosione di un ordigno, le raffiche della mitragliatrice... ecco, quello che spara da un riparo ora scappa, non può non scappare perché è solo, isolato dal suo cannone, dalla sua mitragliatrice, dal soldato che spara vicino a lui ed è anch'esso solo. Invece io siamo noi, io è tutta l'enorme fanteria che va all'attacco, io è l'artiglieria che mi copre, io sono i carri armati che mi riparano: io è il razzo che illumina la nostra azione. Ma ecco: all'improvviso anch'io resto solo, tutto ciò che fin qui sembrava diviso e debole si fonde nella spaventosa uniformità del fuoco nemico di fucili, mitragliatrici, artiglieria, e subito viene meno la forza che dovrebbe liberarmi dalla solitudine. La salvezza, nella mia fuga, consiste nel nascondere la testa, coprire il petto, la fronte, la mascella... E nel buio della notte, esponendosi a un colpo fulmineo, daccapo quelli che sembravano essere deboli e isolati, prendono a disgregare la compattezza del nemico che si lancia contro di loro: il nemico percepisce il rischio del proprio isolamento, nel quale è custodita pur sempre la potenzialità della vittoria. Se si comprende tale oscillazione, si ha forse modo di intuire ciò che dà alla guerra il diritto di essere definita arte. In questa sensazione di isolamento e di pluralità, nel passaggio dalla consapevolezza dell'isolamento all'esperienza della pluralità, c'è non solo l'insieme degli avvenimenti, durante gli assalti notturni di compagnie e battaglioni, ma anche il segno degli sforzi militari delle armate e dei popoli. Esiste un'unica sensazione che si cancella quasi completamente in chi prende parte a una battaglia: la sensazione del tempo. La fanciulla che ha ballato fino al mattino a una festa di capodanno non può dire quale sia stata la sua percezione del tempo, se sia stato lungo o al contrario breve. Analogamente chi ha scontato venticinque anni di prigionia potrà dire.
13
Dopo l’incendio ai serbatoi di petrolio il generale di corpo d’armata Erëmenko decise di far visita a Čujkov, a Stalingrado.
Il viaggio era pericoloso e privo della benché minima utilità pratica.
Grandissima, invece, era la sua necessità umana e psicologica, e dunque Erëmenko perse tre giorni per guadare il fiume.
I muri bianchi del bunker di Krasnyj Sad trasudavano quiete, e anche l’ombra dei meli era gradevole, durante le passeggiate mattutine del comandante.
Il fragore lontano e il fuoco di Stalingrado si fondevano con lo stormire delle foglie e il lamento dei giunchi – una strana commistione, dolorosa –, e nelle sue passeggiate il comandante borbottava seminando imprecazioni.
Quella mattina Erëmenko comunicò a Zacharov la sua decisione di recarsi a Stalingrado e gli ordinò di assumere il comando.
Scherzò con la cameriera che apparecchiava per la colazione, concesse al vicecapo di Stato maggiore una licenza di due giorni a Saratov e accolse la richiesta del generale Trufanov, a capo di una delle sue armate della steppa, autorizzandolo a colpire un grosso assembramento di artiglieria rumeno. «D’accordo, d’accordo, avrai i tuoi bombardieri» gli disse.
Gli attendenti cercavano di indovinare a cosa si dovesse il buonumore del comandante. Buone nuove da Čujkov? Una telefonata fausta con i superiori? Una lettera da casa?
Notizie simili, però, di solito giungevano anche al loro orecchio, mentre Erëmenko non era stato convocato a Mosca e i resoconti di Čujkov erano tutt’altro che allegri.
Il generale fece colazione, si infilò la giubba e uscì per la sua passeggiata. L’attendente Parchomenko lo seguiva a una decina di passi di distanza. Come al solito il comandante procedeva senza fretta, fermandosi di tanto in tanto a grattare una coscia e fissare lo sguardo sul Volga.
Erëmenko si avvicinò a un battaglione di soldati che stavano scavando. Erano persone di una certa età con il collo scurito dal sole, i visi cupi e tutt’altro che allegri. Lavoravano in silenzio e sbirciavano rabbiosi il pasciuto signore col berretto verde che se ne stava senza fare niente sul ciglio dello sterro.
«Chi lavora peggio, tra di voi?» chiese Erëmenko.
Ai soldati del battaglione, stanchi di scavare, la domanda non sembrò fuori luogo. Gli occhi di tutti si fissarono su un uomo che si era svuotato una tasca per cavarne qualche granello di trinciato e delle molliche di pane.
«Forse lui» dissero in due, cercando conferma dagli altri.
«Quello lì, eh?» ribatté Erëmenko, serio. «Dunque è lui lo scansafatiche».
Il soldato sospirò con grande dignità, alzò gli occhi verso Erëmenko e, convinto che la domanda non avesse un fine pratico ma nascesse da pura curiosità, decise di non ribattere.
«E chi è il migliore, invece?» chiese il generale.
Tutti indicarono un tipo canuto: i pochi capelli non gli riparavano il cranio dal sole come l’erba rada non ripara la terra dai raggi.
«Lui. Trošnikov» disse uno. «Si dà un gran da fare».
«È abituato a faticare, è più forte di lui» confermarono gli altri, quasi a volerlo giustificare.
Erëmenko si infilò una mano in tasca, tirò fuori un orologio d’oro che brillò al sole e, chinatosi con fatica, lo porse a Trošnikov. Che lo guardò incredulo.
«È per te. Un premio» disse Erëmenko.
E continuando a fissare lo scavatore disse:
«Parchomenko, prendi nota dell’avvenuta consegna».
Poi proseguì; alle sue spalle un ronzio di voci eccitate: le risa e la meraviglia degli sterratori per la fortuna inaudita di quel Trošnikov che non sapeva stare con le mani in mano.
Il comandante del fronte aspettò due giorni prima di attraversare il fiume. Il collegamento con la riva destra era praticamente interrotto. Le vedette che riuscivano a raggiungere Čujkov si prendevano dai cinquanta ai settanta fori di pallottola in pochi minuti di traversata e attraccavano in un bagno di sangue.
Erëmenko era arrabbiato, nervoso.
Chi doveva occuparsi della sua traversata non temeva bombe e pallottole del fuoco tedesco, ma la collera del comandante. Secondo Erëmenko la colpa delle scorribande di mortai, cannoni e aerei nemici era di maggiori russi negligenti e capitani dallo scarso zelo.
Quella notte Erëmenko uscì dal bunker e rimase su una duna di sabbia accanto alla riva.
La mappa bellica, sempre aperta nel suo rifugio di Krasnyj Sad, ora gli crepitava davanti, fumante, alitando la vita e la morte.
Gli pareva di vederlo, il tratteggio rosso della prima linea del fronte che aveva segnato personalmente, distingueva quasi le grosse frecce delle incursioni di Paulus in direzione del Volga o gli assembramenti della difesa e dell’artiglieria evidenziati con le matite colorate. Quando osservava la mappa sul tavolo, però, si sentiva in grado di spostarla, la linea del fronte, o di far cantare a suo piacimento l’artiglieria sulla riva sinistra. A quel tavolo si sentiva signore e padrone.
Lì, invece, la sensazione era un’altra...
Il bagliore che incombeva su Stalingrado, quel tuono lento nel cielo, tutto ciò lo scuoteva con una forza e una passione immani, fuori del suo controllo.
Al crepitare degli spari e delle esplosioni provenienti dalle fabbriche si aggiungeva un suono prolungato e appena percettibile: a-a-a-a-a-a...
Nel lungo grido della fanteria di Stalingrado al contrattacco c’era, sì, un che di minaccioso, ma anche tristezza e angoscia.
A-a-a-a-a-a... Il grido si spandeva sul Volga... Attraversando l’acqua fredda della notte sotto le stelle di un cielo autunnale, quell’«urrà» sembrava perdere tutto il calore della passione, lasciando intravedere una natura completamente altra, non audace né temeraria – la tristezza di un’anima che si congeda da quanto ha di più caro e invita coloro che ama ad aprire gli occhi, ad alzare la testa dal cuscino per ascoltare un’ultima volta la voce di padri, mariti, figli, fratelli...
Uno strazio che anche il generale avvertì.
Lui che era abituato a farla, la guerra, dalla guerra veniva risucchiato; lì, su quella sabbia arida, il generale Erëmenko era un soldato solo e scosso dall’imponenza del fuoco e del fragore, e come tutti su quella riva – migliaia, decine di migliaia di soldati – sentiva che la guerra di un popolo era un’impresa più grande della sua capacità, del suo potere e della sua volontà. E che forse non poteva sperare di capirla meglio di così, la guerra.
Salpò per la riva destra alle prime luci dell’alba. Avvertito telefonicamente, Čujkov si diresse al fiume per seguire la rapida corsa della motovedetta blindata.
Erëmenko scese con calma, incurvando col proprio peso la passerella gettata sulla riva, attraversò gli scogli con passo malfermo e raggiunse Čujkov.
«Salute, compagno Čujkov» disse.
«Salute a te, compagno generale» rispose l’altro.
«Sono venuto a vedere come ve la passate. No, il petrolio in fiamme non t’ha abbrustolito troppo. Sei sempre capellone, vedo. E sempre grasso. Ti diamo troppo da mangiare, direi».
«Come faccio a dimagrire, se non esco mai dal rifugio?» rispose Čujkov e, infastidito dalla frase del comandante sul cibo, aggiunse: «La spiaggia non è posto per ricevere gli ospiti...».
Com’era prevedibile, sentendosi definire «ospite» Erëmenko si risentì. E a Čujkov che gli proponeva di entrare nel suo alloggio, rispose: «Sto bene dove sto».
Nel frattempo sull’oltrefiume avevano acceso gli altoparlanti.
Fuochi, razzi e bagliori di esplosioni illuminavano la riva, che pareva deserta. La luce andava e veniva, in sprazzi di un bianco accecante. Erëmenko scrutò la scarpata con i fori delle trincee e dei bunker, gli ammassi di roccia che si alzavano lungo il fiume e sbucavano dalle tenebre per ripiombarvi subito dopo.
Una voce cantava lenta, imponente e greve:
Che la collera magnanima come l’onda s’accenda,
è una guerra del popolo, la nostra, una guerra santa...10
E siccome non si scorgeva anima viva né sulla sponda, né sulla scarpata, e tutto intorno – la terra, il Volga, il cielo – era acceso dalle fiamme, si aveva l’impressione che a cantare fosse la guerra stessa, che non aveva bisogno degli esseri umani per scagliare parole pesanti come macigni.
La scena a cui stava assistendo lo incuriosiva, e Erëmenko provava un certo disagio. Aveva ragione Čujkov: era davvero un ospite in visita al signore di Stalingrado. E gli dava sui nervi che l’altro avesse probabilmente intuito l’angoscia che lo aveva indotto ad attraversare il Volga, che sapesse quanto soffriva il comandante nelle sue passeggiate tra i giunchi mormoranti di Krasnyj Sad.
Erëmenko chiese al signore di quell’apoteosi di fuoco e fiamme come intendesse usare le riserve, se fanteria e artiglieria si muovessero congiuntamente e se i tedeschi erano concentrati nel quartiere delle fabbriche. Lui domandava e Čujkov rispondeva com’era tenuto a rispondere a un suo superiore.
Poi rimasero in silenzio. D’accordo, avrebbe voluto obiettare Čujkov, è la più imponente azione difensiva della storia, ma quand’è che attacchiamo?
Però non si decise. Erëmenko avrebbe potuto pensare che ai difensori di Stalingrado facesse difetto la pazienza, che gli stessero chiedendo di liberarli dal loro fardello.
D’un tratto Erëmenko chiese:
«Tuo padre e tua madre stanno nelle campagne vicino a Tula, giusto?».
«Signorsì, compagno comandante».
«E ti scrivono?».
«Signorsì, compagno comandante. Mio padre non ha smesso di lavorare».
Si guardarono; il fuoco dell’incendio tingeva di rosa le lenti degli occhiali di Erëmenko.
L’unica conversazione davvero necessaria pareva ormai imminente.
«Immagino che vorrai domandarmi anche tu quello che mi domandano sempre, ossia se avrai rinforzi e nuove munizioni» disse Erëmenko.
E a quel punto l’unica conversazione che avrebbe avuto un senso non ebbe luogo.
La sentinella in cima al promontorio guardò giù; Čujkov seguì il fischio di una pallottola, alzò gli occhi e disse:
«Si starà chiedendo chi sono quei due pazzi vicino all’acqua...».
Erëmenko mugugnò qualcosa, si grattò il naso.
Era giunto il momento di congedarsi. Una legge non scritta vuole che il comandante sotto tiro nemico possa andarsene solo su espressa richiesta dei suoi sottoposti. Ma lo sprezzo del pericolo di Erëmenko era tale e tanto, che certe regole non lo riguardavano.
Si voltò a seguire il fischio di una granata, incurante e attento insieme.
«È ora che tolga le tende, Čujkov».
Čujkov restò qualche attimo sulla riva a fissare la vedetta che si allontanava: la scia di schiuma era come il fazzoletto bianco di una donna che lo salutava.
In piedi a prua, Erëmenko osservava l’Oltrevolga palpitare come un’onda alla luce fosca che proveniva da Stalingrado, mentre il fiume su cui sobbalzava l’imbarcazione era immobile come una lastra di pietra.
Irritato, Erëmenko non riusciva a stare fermo. Aveva troppi pensieri per la testa, i soliti pensieri. Il fronte era chiamato a nuove imprese. Bisognava mettere insieme i blindati e preparare l’attacco al fianco sinistro, come ordinatogli dal quartier generale. Ma non ne aveva fatto parola con Čujkov.
Che nel frattempo era tornato nel bunker; all’udire i suoi passi pesanti tutti gli uomini – il mitragliere alla porta, l’addetto all’ingresso e il capo di Stato maggiore della divisione di Gur’ev da lui espressamente chiamato – scattarono in piedi e constatarono che il comandante era di pessimo umore. Ne aveva ben donde del resto.
Le divisioni si stavano diradando, nel susseguirsi di attacchi e contrattacchi le bandiere tedesche rosicchiavano, inesorabili, metri e metri della terra di Stalingrado. Dalle retrovie nemiche erano sopraggiunte due divisioni di fanteria al completo, che si erano concentrate nel quartiere della Fabbrica Trattori e restavano sinistramente inattive.
Eppure non era stato capace di esporre i suoi timori, le sue angosce e i suoi pensieri più foschi al comandante del fronte.
Né l’uno né l’altro, tuttavia, avrebbero saputo dire perché quell’incontro li aveva delusi. C’era qualcosa al di sopra degli eventi – l’essenziale – a cui nessuno dei due era riuscito a dar voce.
14
Quella mattina d’ottobre il maggiore Berëzkin si svegliò, pensò alla moglie, alla figlia e all’artiglieria pesante, tese l’orecchio al rumore che in un mese a Stalingrado gli era diventato familiare, chiamò il mitragliere Gluškov e gli ordinò di portare il necessario per lavarsi.
«L’acqua è fredda, come da ordini ricevuti» disse Gluškov, e sorrise al pensiero del piacere che Berëzkin avrebbe provato per quelle abluzioni mattutine.
«Sugli Urali, da mia moglie e mia figlia, avrà già nevicato...» disse questi. «Non mi scrivono, ti rendi conto?».
«Lo faranno, compagno maggiore» disse Gluškov.
Mentre Berëzkin si asciugava e infilava la camicia d’ordinanza, Gluškov gli riferì quanto accaduto nelle prime ore del mattino.
«Una bomba è caduta sulle cucine e ha fatto fuori il magazziniere; il vicecomandante di Stato maggiore del II battaglione, uscito a fare i suoi bisogni, s’è preso una scheggia nella spalla; i soldati del genio hanno pescato una perca di cinque chili stordita da una bomba, sono andato a vederla anch’io, e l’hanno regalata al loro capitano, il compagno Movšovič. È passato il compagno commissario; ha lasciato detto di chiamarlo, appena lei si svegliava».
«Bene» disse Berëzkin. Bevve una tazza di tè, mangiò della galantina di zampetto di vitello, telefonò al commissario e al capo di Stato maggiore e riferì d’essere diretto ai battaglioni, dopo di che si infilò la giubba e andò alla porta.
Gluškov sbatté l’asciugamano e lo appese al gancio, cercò con la mano la granata che aveva al fianco, si palpò la tasca per verificare che la borsa del tabacco fosse al suo posto, prese il mitra dall’angolo e seguì il suo comandante.
Berëzkin uscì dal bunker semibuio e la luce lo accecò, costringendolo a strizzare gli occhi. Si trovò di fronte a una scena divenuta familiare negli ultimi mesi: argilla franata, il promontorio scuro disseminato di macchie (le tende luride che coprivano i bunker dei soldati), tubi fumanti di stufe raffazzonate. E su tutto le sagome scure delle fabbriche con i tetti sfondati.
A sinistra, vicino al Volga, si stagliavano le ciminiere della fabbrica Ottobre rosso, e i vagoni merci si ammassavano come un gregge allo sbando attorno al cadavere del pastore – la locomotiva riversa. Più oltre si scorgeva l’ampio ricamo delle rovine defunte della città, e il cielo d’autunno si insinuava nelle brecce delle finestre in migliaia di macchie azzurre.
Tra le fabbriche si alzavano fumo e fiamme lucenti, e l’aria tersa era attraversata ora da un monotono frusciare, ora da un cigolio secco e sincopato. Le officine parevano funzionare a pieno ritmo.
Berëzkin osservò attentamente i suoi trecento metri di terreno, la linea di difesa del reggimento che passava tra le casette di quel paesino di operai. Nel bailamme di macerie e stradine solo il suo sesto senso lo aiutava a distinguere le case in cui i suoi soldati preparavano la kaša da quelle in cui i tedeschi banchettavano a lardo e grappa.
Al fischio di una mina Berëzkin chinò la testa e inveì.
Sul versante opposto del burrone il fumo sbarrò l’accesso a uno dei rifugi, e di lì a un attimo si udì un’esplosione. Il capo del battaglione di collegamento della divisione vicina mise fuori la testa dal bunker: era senza giubba, con le sole bretelle. Fece un passo: il fischio si ripeté, lui tornò indietro di gran carriera e richiuse la porta alle sue spalle. La mina esplose a una decina di metri. Sulla porta del bunker tra il burrone e il promontorio sul Volga c’era Batjuk. Osservava quel che stava accadendo.
«Fuoco!» gracchiò quando l’altro accennò di nuovo a muoversi, e neanche a farlo apposta i tedeschi lanciarono una granata. Batjuk vide Berëzkin e gli gridò:
«Mica male, eh, collega?».
Quei due passi per il sentiero deserto erano, di fatto, un’impresa disperata, mortale: dopo una bella dormita e un abbondante Frühstück, i tedeschi sorvegliavano con grande interesse il sentiero e sparavano a chiunque senza risparmiare le munizioni. A una curva Berëzkin si fermò al riparo di un mucchio di ferraglia e, misurata la distanza, disse sornione:
«Prima tu, Gluškov. Corri!».
«Ma no, non posso, c’è sicuramente un cecchino» disse questi.
Attraversare per primi un luogo pericoloso era un privilegio riservato ai capi, perché solitamente il nemico non faceva in tempo a sparare.
Berëzkin osservò le case dei tedeschi, strizzò l’occhio a Gluškov e corse via.
Quando raggiunse il terrapieno che copriva la visuale dalle case occupate, sentì distintamente dietro di sé un fischio e uno schiocco: una pallottola dirompente.
Dietro al terrapieno, Berëzkin si accese una sigaretta. Intanto Gluškov accorreva a lunghe falcate. Una raffica sollevò la terra sotto i suoi piedi, come se una nidiata di usignoli si fosse improvvisamente alzata in volo. Gluškov scartò di lato, inciampò, cadde, si rialzò e raggiunse Berëzkin.
«Per poco non ci lascio la pelle» disse; poi tirò il fiato e spiegò: «Pensavo che il crucco si sarebbe acceso una sigaretta per consolarsi di non aver fatto secco lei. Ma quel bastardo non fuma, mi sa...».
Gluškov si tastò il panno sbrindellato della giubba e inveì contro i tedeschi.
Quando ormai erano vicini al comando del battaglione, Berëzkin chiese:
«T’hanno ferito, compagno Gluškov?».
«Mi ha scorticato un calcagno, maledetto, si è portato via un pezzo di scarpa».
Il comando del battaglione si trovava nelle cantine del Gastronom, un negozio di alimentari, e nell’aria umida incombeva un odore di mele e verze in salamoia.
Sul tavolo c’erano due portacandela ricavati da bossoli di granata. Sulla porta un cartello: «Venditori e clienti sono pregati di usarsi reciproca cortesia».
La cantina ospitava lo Stato maggiore di due battaglioni: i fucilieri e il genio. I due comandanti, Podčufarov e Movšovič, erano entrambi seduti al tavolo e facevano colazione. Aprendo la porta, Berëzkin udì la voce infervorata di Podčufarov:
«Non mi piace allungare i liquori, piuttosto non bevo».
I due ufficiali scattarono entrambi sull’attenti. Il capo di Stato maggiore nascose il quartino di vodka sotto il mucchio delle granate e il cuoco fece scudo col suo corpo alla perca di cui aveva discusso con Movšovič fino a qualche minuto prima. Il soldato d’ordinanza di Podčufarov, accucciato davanti al grammofono e pronto – a un cenno del proprio superiore – a far partire la Serenata cinese, scattò in piedi e riuscì a malapena a togliere il disco, ma il motore del grammofono continuò a gracchiare. Gli occhi fissi nel vuoto come si addice a un vero soldato, l’ordinanza colse comunque lo sguardo furente di Podčufarov su quell’arnese che gracchiava e strideva imperterrito.
I due comandanti e gli altri commensali sapevano bene cosa si pretendeva da loro: combattere, osservare il nemico al binocolo e riflettere chini su una mappa. Era questo che volevano i capi. Ma non si può sparare e parlare al telefono con superiori o sottoposti ventiquattr’ore su ventiquattro. Bisogna pur mangiare...
Berëzkin guardò il grammofono che ronzava e scoppiò a ridere.
«Bene» disse, e aggiunse: «Seduti, compagni, continuate pure».
Quelle parole, però, potevano sottintendere anche l’inverso, e sul viso di Podčufarov si dipinse un’espressione triste e contrita, mentre Movšovič, a capo di un battaglione del genio e dunque non alle dirette dipendenze del comandante di reggimento, pareva soltanto triste, non mortificato. Sui volti dei rispettivi sottoposti affiorarono all’incirca i medesimi sentimenti.
«Che fine ha fatto il suo persico da cinque chili, compagno Movšovič?» continuò Berëzkin in un tono particolarmente sgradevole. «Ne parla tutta la divisione, ormai».
Triste più che mai Movšovič disse:
«Cuoco! Il pesce, per favore».
E il cuoco, l’unico che stesse effettivamente svolgendo le mansioni a cui era chiamato, disse candidamente:
«Il compagno capitano ha ordinato di farglielo alla giudea. Pepe e alloro ce li ho, mi mancano il pane bianco e il rafano...».
«Ho capito» disse Berëzkin. «L’ho mangiato a Bobrujsk, così condito, da una certa Fira Aronovna, e non è che mi fosse piaciuto granché».
E gli uomini nello scantinato capirono che il comandante di reggimento non aveva alcuna intenzione di arrabbiarsi.
Sembrava sapere che quella notte Podčufarov aveva respinto un attacco tedesco, che la mattina era finito sotto una frana e che il soldato di ordinanza, quello della Serenata cinese, lo aveva tirato fuori gridando: «Lasci fare a me, compagno capitano, ci penso io...».
Sembrava sapere che Movšovič e i soldati del genio avevano strisciato per un sentiero a rischio di blindati, coprendo di terriccio e mattoni rotti il merletto a scacchiera delle mine anticarro...
La loro gioventù era felice di quel nuovo giorno che le spettava, di un brindisi con la tazza di latta tra un piatto di verze e una sigaretta...
Di fatto non accadde nulla: i due padroni dello scantinato rimasero qualche istante in piedi di fronte al loro superiore, dopo di che lo invitarono a unirsi a loro e lo osservarono compiaciuti mentre si gustava la verza.
Berëzkin paragonava spesso la battaglia di Stalingrado all’anno di guerra appena trascorso, dove ne aveva viste di tutti i colori. Sapeva di poter sopportare una tensione simile solo per il silenzio e la quiete che aveva dentro di sé. E dal canto loro, in ore e giorni in cui sembravano possibili solo follia, terrore o prostrazione, anche i soldati mangiavano la minestra, accomodavano gli scarponi, fabbricavano cucchiai e parlavano delle mogli o di superiori buoni o cattivi. Intrepido e temerario in battaglia, chi non aveva una propria, profonda, calma interiore – lo aveva constatato – non reggeva a lungo. La paura, la viltà erano per Berëzkin uno stato d’animo passeggero, una sorta di raffreddore da cui si guariva facilmente.
Non avrebbe saputo dire cosa fossero viltà e coraggio. Una volta, la guerra era appena scoppiata, i superiori l’avevano accusato di eccessiva pavidità per aver dato ordine al proprio reggimento di ritirarsi, sottraendolo al fuoco tedesco. Poco prima di Stalingrado, poi, aveva ordinato a un comandante di battaglione di spostare gli uomini sul declivio opposto di un’altura per non esporli invano al fuoco degli strafottenti mortai tedeschi.
«Cosa mi combina, compagno Berëzkin?» lo aveva ripreso il comandante di divisione. «E pensare che me l’avevano descritta come un uomo coraggioso e dai nervi saldi...».
Berëzkin non aveva risposto a parole, ma con un sospiro: evidentemente si erano sbagliati.
I capelli di un fulvo chiaro, come chiaro era l’azzurro degli occhi, Podčufarov si tratteneva a stento da improvvisi scoppi di risa o di rabbia. Magro, il viso lungo e lentigginoso con ciocche di capelli canuti sulla testa scura, Movšovič rispondeva rauco alle domande di Berëzkin. Tirò fuori un notes e si mise a disegnare il nuovo schema di distribuzione delle mine anticarro.
«Me lo dia, quel foglio. Per ricordo» disse Berëzkin, che poi si chinò sul tavolo e aggiunse a mezza voce: «Il comandante di divisione mi ha mandato a chiamare. Secondo le informazioni in nostro possesso, i tedeschi stanno ritirando gli uomini dalla città per concentrarli contro di noi. Con un sacco di blindati. È chiaro?».
Berëzkin tese l’orecchio a uno scoppio vicino che fece tremare le pareti dello scantinato e sorrise.
«È tranquillo, qua da voi. Nel mio burrone avrei già ricevuto la visita di un paio di uomini dello Stato maggiore, oltre che di commissioni di ogni sorta».
Intanto un nuovo colpo scosse l’edificio e dal soffitto piovve qualche pezzo d’intonaco.
«È tranquillo, qui, ha ragione, ci disturbano in pochi» disse Podčufarov.
«È questo, il bello» ribadì Berëzkin.
Parlava a voce bassa, tranquillo, quasi dimenticasse di essere lui il capo; e se ne dimenticava perché era abituato a obbedire più che a comandare.
«Lo sapete come sono i capi, no? Perché non attacchi? Perché non hai preso quell’altura? Perché tante perdite? Perché non hai avuto perdite? Perché non riferisci? Perché dormi? Perché...».
Berëzkin si alzò in piedi.
«Andiamo, compagno Podčufarov, voglio vedere come si difende».
Nella stradina di quel borgo di operai, nelle case sventrate con la tappezzeria colorata alle pareti, nei giardini e negli orti arati dai cingoli, tra le rare dalie d’autunno sopravvissute per miracolo e fiorite dio solo sa perché regnava una tristezza lacerante.
«Compagno Podčufarov,» disse di punto in bianco Berëzkin «mia moglie non mi scrive. L’ho vista una volta, poi niente più lettere. So soltanto che sono sugli Urali, lei e mia figlia».
«Vedrà che le scriveranno, compagno maggiore» rispose l’altro.
Nel seminterrato di una palazzina a due piani, sotto le finestre murate, giacevano i feriti in attesa di essere sfollati durante la notte. Sul pavimento un secchio d’acqua e una tazza, e sulla parete di fronte alla porta, tra due finestre, una cartolina illustrata: «Il maggiore si fidanza».
«Questa è la retroguardia,» disse Podčufarov «la prima linea è più avanti».
«Ci arriveremo» disse Berëzkin.
Attraversarono l’anticamera, entrarono in una stanza con il soffitto sfondato e provarono la stessa sensazione di chi, in una fabbrica, passa dagli uffici dell’amministrazione ai reparti produttivi. Nell’aria l’odore pungente, spaventoso, delle munizioni, sotto i piedi un continuo cricchiare di bossoli vuoti. Mine anticarro in una carrozzina color crema.
«Stanotte i tedeschi mi hanno preso quel rudere laggiù» disse Podčufarov avvicinandosi alla finestra. «Sapesse quanto lo rimpiango: è una casa bellissima, con le finestre che danno a sudovest. Di là tengono sotto tiro tutto il mio fianco sinistro».
Accanto alle fessure strette delle finestre murate c’era una mitragliatrice; un mitragliere senza berretto e con la testa fasciata da una benda sporca di polvere e fumo caricava un nuovo nastro, mentre l’attendente masticava a bocca aperta una fetta di salame cotto, pronto a riaprire il fuoco.
Si avvicinò il comandante di compagnia, un tenente. Aveva una margherita bianca nel taschino della camicia d’ordinanza.
«Bravo!» disse Berëzkin sorridendogli.
«Felice di vederla, compagno capitano» disse il tenente. «Tutto come da rapporto della scorsa notte, sono di nuovo al civico sei barra uno. Hanno cominciato alle nove in punto» e guardò l’orologio.
«C’è qui il comandante di reggimento. Riferisca a lui».
«Chiedo scusa, non l’avevo riconosciuta» disse lesto il tenente portando la mano alla visiera.
Da sei giorni, ormai, il nemico aveva isolato alcune case nella zona del reggimento e le stava ingoiando con precisione teutonica. La difesa sovietica si spegneva tra le rovine, e con essa si spegneva anche la vita dei soldati dell’Armata Rossa. Invece in quella fabbrica dagli scantinati particolarmente profondi la difesa teneva. Per quanto forate dai proiettili e rosicchiate dalle granate, le pareti erano robuste e resistevano ai colpi. I tedeschi avevano tentato di buttar giù l’edificio dal cielo e per tre volte i bombardieri avevano sganciato il loro carico. Un angolo della fabbrica era stato distrutto, ma sotto le macerie lo scantinato era integro, i soldati avevano portato via i detriti, piazzato mitragliatrici, mortai e un cannone leggero, e riuscivano a tenere a bada e a distanza i tedeschi. La casa era in un’ottima posizione: le vie di accesso erano tutte scoperte.
Il comandante di compagnia che stava riferendo a Berëzkin disse:
«La notte scorsa abbiamo provato a raggiungerli, ma non c’è stato niente da fare. Uno ce l’hanno ammazzato e due sono tornati feriti».
«A terra!» fu l’urlo tremendo della vedetta, e alcuni uomini si gettarono immediatamente sul pavimento; il comandante di compagnia lasciò il discorso a metà, allargò le braccia quasi volesse tuffarsi e si buttò a terra anche lui.
Il fischio crebbe, lancinante, e si trasformò all’improvviso nel rombo di esplosioni soffocanti e fetide che scossero la terra e il cuore. Un ceppo grosso e nero si schiantò al suolo, rimbalzò, rotolò ai piedi di Berëzkin: quel tronco divelto dalla forza dello scoppio gli aveva quasi centrato la gamba, pensò il maggiore prima di rendersi conto che si trattava di una carica inesplosa. La tensione si fece insopportabile.
Ma la bomba non scoppiò, e l’ombra nera che inghiottiva il cielo e la terra, oscurava il passato e corrodeva il futuro, svanì.
Il comandante di compagnia si rialzò.
«Bella briscola» disse una voce spaventata.
«Pensavo d’averci lasciato la pelle» scoppiò a ridere qualcun altro.
Berëzkin si asciugò il sudore dalla fronte, raccolse la margherita bianca, scrollò via la polvere di mattone e risistemò il fiore nel taschino del tenente.
«Immagino si tratti di un regalo...» disse, e spiegò a Podčufarov: «Sa perché state in pace, qui? Perché i capi non ci vengono, da voi. E i capi vogliono sempre qualcosa. Hai un bravo cuoco? Te lo portano via. Un barbiere sopraffino, o, che ne so, un sarto come si deve? Li vogliono per sé. Se ne approfittano! Uh, che bel bunker ti sei scavato! Adesso però sloggia. Buona la tua verza in salamoia, mandamela!». Poi si voltò verso il tenente e disse: «I due feriti, perché sono tornati? Non hanno raggiunto il luogo dell’assedio?».
«Li hanno colpiti prima, compagno comandante di reggimento».
«Ho capito».
«Lei è un uomo fortunato» disse Podčufarov quando uscirono e presero per gli orti dove, tra il giallo dei fusti di patata, erano scavati i bunker e le trincee della II compagnia.
«Chi lo sa» ribatté Berëzkin, e saltò dentro a una trincea. «Come in campagna!» disse con lo stesso tono con cui avrebbe detto: «Come in vacanza!».
«La terra si adatta alla guerra più di ogni altra cosa» confermò Podčufarov. «Ci ha fatto il callo» e riprendendo la conversazione iniziata dal comandante di reggimento, aggiunse: «Altro che cuoco, a volte ti portano via anche la moglie».
La trincea rimbombava di grida eccitate, crepitava di colpi di fucile e brevi raffiche di mitra.
«Il comandante di compagnia è stato ucciso. Il capo è Soškin, adesso, il commissario» disse Podčufarov. «Quello è il suo bunker».
«Ho capito, ho capito» disse Berëzkin sbirciando oltre la porta socchiusa.
Rosso in volto e nero di sopracciglia, Soškin li raggiunse accanto alle mitraglie e, gridando qualche mezza frase a voce troppo alta, riferì che la compagnia aveva aperto il fuoco contro i tedeschi onde evitare che si concentrassero e attaccassero l’edificio al civico sei barra uno.
Berëzkin gli prese il binocolo e osservò con attenzione gli sprazzi di luce degli spari e le lingue di fuoco che uscivano dalle bocche dei mitra.
«Seconda finestra, secondo piano. C’è un cecchino, direi».
Aveva appena finito la frase che alla finestra da lui indicata si accese una fiamma e una pallottola sibilò conficcandosi nella parete della trincea, proprio tra la testa di Berëzkin e quella di Soškin.
«Lei è un uomo fortunato» disse Podčufarov.
«Chi lo sa» rispose Berëzkin.
Avanzando lungo la trincea raggiunsero un fucile anticarro attaccato alla ruota di un barroccio, invenzione della compagnia locale.
«È la nostra contraerea» disse un sergente con la barba incolta e polverosa e l’inquietudine negli occhi.
«Carro armato a cento metri, accanto alla casa col tetto verde!» gridò Berëzkin per metterlo alla prova.
Il sergente fece girare la ruota e la lunga canna del fucile puntò a terra.
«Da Dyrkin un soldato ha attaccato un mirino di precisione a un fucile anticarro» disse Berëzkin «e ha fatto saltare tre mitragliatrici in un giorno».
Il sergente diede un’alzata di spalle.
«Dyrkin se la passa bene, è nelle fabbriche».
Proseguirono lungo la trincea e Berëzkin riprese la conversazione iniziale:
«Le ho mandato un pacco, un gran bel pacco. E lei non mi scrive, lo capisce? Non mi risponde proprio. Non so nemmeno se l’hanno ricevuto. E se stessero male? Non è così improbabile, quando si è sfollati».
Podčufarov ricordò di colpo i muratori che in un lontano passato andavano a lavorare a Mosca e tornavano al paese carichi di regali per mogli, vecchi e bambini. Per loro la vita e il calore della campagna, di casa, valevano più del chiasso, della folla e delle luci di Mosca.
Mezz’ora dopo erano di ritorno al comando del battaglione, ma Berëzkin non volle scendere nello scantinato. Salutò Podčufarov sullo spiazzo esterno.
«Si assicuri che il sei barra uno abbia tutto il sostegno possibile» disse. «Non cercate più di raggiungerlo, lo faremo noi nottetempo». E aggiunse: «Uno... Non mi piace come tratta i feriti. Al comando avete i divani e i feriti li lasciate per terra. Due. Non ha mandato a prendere il pane e i suoi uomini lo mangiano raffermo. Tre. Il suo Soškin era ubriaco fradicio. Quattro...».
Podčufarov lo ascoltava stupito: aveva visto tutto! Il vicecomandante con indosso i pantaloni tedeschi... Il comandante della I compagnia con due orologi al polso...
«I tedeschi attaccheranno. È chiaro questo?» sentenziò Berëzkin.
Poi fece per dirigersi alla fabbrica, e Gluškov – che intanto si era sistemato il tacco della scarpa e si era ricucito la giubba – gli chiese:
«Si torna a casa?».
Berëzkin non gli rispose, e rivolto a Podčufarov disse:
«Telefoni al commissario di reggimento e gli dica che sto andando da Dyrkin, alla fabbrica numero tre». Poi gli strizzò l’occhio e aggiunse: «E mi mandi un po’ della sua verza, che mi è proprio piaciuta. Sono o non sono un suo superiore?».
15
Tolja non scriveva... La mattina Ljudmila Nikolaevna aveva il suo bel da fare: la madre e il marito andavano al lavoro, Nadja a scuola, e lei doveva pensare a tutto. La prima a uscire era la madre, chimico nel laboratorio di un famoso saponificio di Kazan’. Passando accanto alla stanza del genero, Aleksandra Vladimirovna ripeteva sempre una battuta sentita in fabbrica: «I padroni arrivano alle sei, gli impiegati alle nove».
Poi toccava a Nadja andare a scuola, anzi, volarci, dato che non c’era mai modo di farla alzare dal letto; saltava giù all’ultimo momento, afferrava le calze, una giacchetta, libri e quaderni, faceva colazione strozzandosi con il tè e si metteva sciarpa e cappotto mentre correva giù per le scale.
Viktor Pavlovič si sedeva a tavola dopo che Nadja era uscita, la teiera era già fredda e gli toccava riscaldarla ogni volta.
Quando la nipote diceva che voleva andarsene al più presto da quel buco, Aleksandra Vladimirovna si arrabbiava. Nadja non sapeva che a Kazan’ avevano vissuto Deržavin, Aksakov, Tolstoj, Lenin, Zinin e Lobačevskij, e che anche Maksim Gor’kij un tempo aveva lavorato presso un fornaio della città.
«La tua è indifferenza senile!» la rimproverava Aleksandra Vladimirovna, ed era strano sentirlo dire da un’anziana a un’adolescente.
Ljudmila vedeva che la madre non aveva perso interesse per la gente e il nuovo lavoro. Ma accanto all’ammirazione per tanta forza di volontà conviveva un altro sentimento: come ci si poteva appassionare ai gas idrogenati, alle strade e ai musei di Kazan’ in mezzo a tanto dolore?
Un giorno che Štrum le aveva detto qualcosa a proposito dell’eterna giovinezza d’animo di Aleksandra Vladimirovna, Ljudmila era sbottata:
«È vecchia ed egoista, altro che giovane».
«Non è egoismo, il suo. La nonna è una populista» aveva detto Nadja, aggiungendo: «E i populisti sono brava gente, ma con poco cervello».
Nadja era sempre categorica e lapidaria nelle sue affermazioni, forse perché il tempo non le bastava mai. «Cretinate» diceva infilandoci una sfilza di erre. Non perdeva un bollettino di guerra, conosceva ogni dettaglio delle operazioni militari e metteva sempre becco quando si parlava di politica. Quell’estate era stata in un kolchoz, e al ritorno aveva spiegato alla madre a cosa si dovesse la loro bassa produttività.
Non le mostrava mai i suoi voti, solo una volta le disse en passant:
«Ho avuto otto in condotta. Quella di matematica mi ha cacciato dalla classe, pensa. Uscendo le ho detto “Good bye!” e sono scoppiati a ridere tutti quanti».
Come molti figli di famiglie facoltose che prima della guerra non erano sfiorati da questioni di soldi e di cucina, da sfollata Nadja parlava in continuazione di pacchi speciali o di virtù e difetti del razionamento per privilegiati, sapeva perché l’olio di girasole era meglio del burro, conosceva i pro e i contro dei cereali mondati e i vantaggi dello zucchero in zollette rispetto a quello in polvere.
«Sai una cosa?» diceva alla madre. «Ho preso una decisione. Da oggi voglio il tè col miele, invece che con il latte condensato. Per me è meglio, e a te non fa differenza».
Ogni tanto Nadja si incupiva e sputava cattiverie contro gli adulti guardandoli con sarcastico disprezzo. Un giorno in presenza della madre disse al padre che era un idiota, e con una cattiveria tale che Štrum non seppe reagire.
Ogni tanto la madre la vedeva piangere con un libro in mano. Nadja si riteneva una persona ottusa e sfortunata, condannata a vivere una vita dura e scialba.
«Non ho amici, sono stupida e non interesso a nessuno» disse un giorno a tavola. «Nessuno vorrà sposarmi, finirò la scuola di farmacia e me ne andrò in campagna».
«Non ci sono farmacie, in campagna» sentenziò Aleksandra Vladimirovna.
«Anche riguardo al matrimonio, la tua prognosi mi sembra alquanto pessimista» le ribatté Štrum. «Ultimamente ti sei fatta più carina».
«Me ne infischio» rispose Nadja guardando il padre con cattiveria.
Quella notte Ljudmila la vide leggere poesie: teneva il libro fuori dalla coperta con la mano nuda, sottile.
Un giorno Nadja portò a casa dall’università una borsa con due chili di burro e un grosso pacco di riso, e disse:
«Siamo tutti ladri e carogne, me compresa, e ci approfittiamo della situazione. Anche papà baratta biecamente il suo talento per un pezzo di burro. Come se chi è malato e ignorante o chi è piccolo e debole debba patire la fame perché non conosce la fisica e non può realizzare il trecento per cento del piano stabilito... Solo gli eletti possono ingozzarsi».
A cena, poi, aggiunse in tono di sfida:
«A me spetta doppia razione di miele e burro, mamma. Stamattina mi sono svegliata tardi e non ho mangiato».
Nadja assomigliava molto al padre. E Ljudmila aveva notato che il marito perdeva spesso le staffe per certi lati del carattere che la figlia aveva preso da lui.
Una volta, scimmiottando la cadenza del padre, Nadja disse:
«Quel Postoev è un furfante, una nullità, un volpone e niente più!».
E Štrum andò su tutte le furie:
«Come osi, scolaretta che non sei altro, parlare così di un accademico?».
Ma Ljudmila ricordava perfettamente che quando era studente all’università il marito apostrofava come «palloni gonfiati, carrieristi, nullità e scimmioni» molti accademici illustri.
Nadja non aveva una vita facile, e lei lo sapeva, e sapeva anche che la figlia aveva un brutto carattere, complicato, solitario.
Uscita Nadja, toccava a Viktor Pavlovič fare colazione. Sbirciava un libro con la coda dell’occhio, mandava giù il boccone senza masticare, faceva una faccia stupita e ottusa, cercava a tentoni il bicchiere senza staccare gli occhi dal libro e diceva: «Lo vorrei più caldo, se si può». Conosceva tutti i suoi gesti: si sarebbe grattato la testa, poi avrebbe sporto il labbro e facendo una smorfia con la bocca si sarebbe stuzzicato i denti, al che lei avrebbe detto:
«Ma insomma, Viktor, ti decidi o no ad andare dal dentista?».
Sapeva che si grattava e faceva le smorfie perché pensava al lavoro, e non perché gli prudesse la testa o avesse un pizzicorino al naso. Sapeva che se gli avesse detto: «Viktor, non mi ascolti!», lui avrebbe continuato a fissare il suo libro e avrebbe risposto: «Ho sentito tutto. Vuoi che te lo ripeta? “Ma insomma, Viktor, ti decidi o no ad andare dal dentista?”», e la solfa sarebbe ricominciata: stupore, sorso di tè e broncio schizofrenico; tutto perché, scorrendo il lavoro di un fisico suo conoscente, condivideva certe affermazioni e non altre. Poi sarebbe rimasto a lungo immobile, prima di scuotere la testa con una tristezza succube, senile: l’espressione che hanno sul viso e negli occhi i malati di tumore al cervello. E di nuovo la moglie avrebbe saputo a cosa stava pensando. A sua madre.
Quando Štrum beveva il tè pensando al lavoro e bofonchiando in preda alla malinconia, Ljudmila guardava gli occhi che aveva baciato, i ricci tra cui aveva passato le dita, le labbra che l’avevano sfiorata, le ciglia, le sopracciglia, le mani dalle dita minute e deboli a cui aveva tagliato le unghie dicendo: «Sciattone mio...».
Sapeva tutto di lui: che prima di dormire leggeva libri per bambini, e quali smorfie faceva quando si lavava i denti, che voce aveva – un filo, tremante – quando si metteva in ghingheri per una relazione sull’emissione di neutroni. Sapeva che gli piaceva il boršc all’ucraina, con i fagioli, e che si lamentava nel sonno, rigirandosi nel letto. Sapeva che il tacco della scarpa sinistra gli si consumava prima del destro e che sporcava sempre i polsini delle camicie; sapeva che gli piaceva dormire con due guanciali; sapeva della sua segreta paura di attraversare le piazze, conosceva l’odore della sua pelle e la forma dei buchi sui suoi calzini. Sapeva cosa canticchiava quando aveva fame ed era ora di pranzo, e sapeva com’erano fatte le unghie dei suoi alluci; sapeva come lo chiamava la madre da piccolo, a due anni; sapeva che quando camminava trascinava i piedi; sapeva il nome dei ragazzini con cui aveva fatto a botte alle elementari. Sapeva che gli piaceva canzonare Tolja, Nadja e gli amici, e che lo faceva spesso e volentieri. Persino adesso che era quasi sempre di pessimo umore, Štrum la prendeva in giro perché un’amica di lei, Mar’ja Ivanovna Sokolova, leggeva poco e una volta, parlando, aveva scambiato Balzac con Flaubert.
Con Ljudmila, poi, era un vero maestro, riusciva a farla arrabbiare ogni volta. Come in quel momento, per esempio: seria e scocciata insieme, la moglie cercava di difendere l’amica.
«Ti prendi sempre gioco di chi mi sta a cuore. Mar’ja ha un gusto impeccabile, non ha bisogno di leggere molto. Lei li sente, i libri».
«Come no, come no» ribatteva lui. «È convinta che Max und Moritz l’abbia scritto Anatole France!».
Sapeva che amava la musica e conosceva le sue opinioni politiche. L’aveva visto piangere, l’aveva visto strapparsi di dosso la camicia, impazzito di rabbia, e inciampare nelle mutande lunghe mentre cercava di raggiungerla con il pugno alzato, pronto a colpirla. Conosceva la sua rettitudine intrepida, crudele, i suoi attimi di ispirazione; lo aveva visto declamare poesie e prendere un lassativo.
E per quanto nulla fosse cambiato nei loro rapporti, Ljudmila sentiva che il marito ce l’aveva con lei. Un cambiamento c’era stato a dire il vero: lui non le parlava più del suo lavoro. Le parlava delle lettere di amici scienziati e del razionamento. Ogni tanto le raccontava di quel che accadeva in università e in laboratorio, del piano di lavoro che stavano stilando o dei suoi colleghi: di Savost’janov che si era presentato dopo una sbornia e si era addormentato, o delle assistenti che cuocevano le patate sotto cappa, o di Markov che stava approntando una nuova serie di esperimenti.
Ma del suo lavoro, di quel lavoro interiore di cui Ljudmila era stata la sua unica e sola confidente, aveva smesso di parlare.
Una volta si era lamentato con lei che, quando leggeva agli amici più cari appunti e riflessioni ancora in fieri, il giorno seguente provava una sensazione sgradevole: gli pareva che il lavoro avesse perso forza e faceva fatica a riprenderlo in mano.
L’unica persona a cui un tempo affidava i propri dubbi, a cui leggeva qualche appunto frammentario o esponeva le supposizioni più astruse e temerarie senza tema di successivi cedimenti era la moglie.
Ma ora aveva smesso di parlarle.
Ora la sua angoscia si placava solo quando ne incolpava Ljudmila. Pensava continuamente a sua madre. Pensava a cose a cui non aveva mai pensato e alle quali l’aveva costretto a pensare il nazismo: al suo essere ebreo, al fatto che sua madre fosse ebrea.
In cuor suo rimproverava a Ljudmila di avere trattato la suocera con freddezza.
«Se ti fossi sforzata di andare d’accordo con mia madre» le aveva detto un giorno «sarebbe rimasta con noi a Mosca».
Allora Ljudmila aveva passato in rassegna tutte le ingiustizie e le cattiverie – ed erano tante – che Viktor aveva fatto a Tolja.
Era dura con lui, sì, ma soltanto perché il marito era ingiusto con il figliastro, perché non vedeva in lui nulla di buono e gli perdonava a fatica i suoi difetti. Mentre a Nadja – maleducata, pigra, sciatta, che non l’aiutava mai nelle faccende di casa – rimetteva qualunque peccato.
Ljudmila pensò alla suocera; il suo era un destino tremendo. Ma come poteva pretendere, il marito, che lei e Anna Semënovna fossero amiche? In fondo anche lei trattava male Tolja. Per questo Ljudmila tollerava a stento ogni sua lettera, ogni suo viaggio a Mosca. C’era sempre e solo Nadja, Nadja, Nadja... Nadja aveva gli occhi di Viktor... Nadja teneva la forchetta come Viktor... Nadja era distratta, Nadja era intelligente, Nadja era riflessiva. L’affetto, l’amore che Anna Semënovna nutriva per il figlio trapassavano nella nipote. Perché Tolja non la teneva come Viktor, la forchetta, questo era sicuro.
Stranamente, negli ultimi tempi Ljudmila si era scoperta a pensare spesso al padre di Tolja, al suo primo marito. Avrebbe voluto rintracciare i parenti di lui, la sorella maggiore di Abarčuk; lei sì che sarebbe stata felice di vedere negli occhi di Tolja, nel suo pollice un po’ storto, nel suo grosso naso, gli occhi, le mani e il naso del fratello.
E come non le interessava ricordare quanto di buono c’era nel rapporto tra Viktor e il figliastro, allo stesso modo perdonava ad Abarčuk tutte le sue cattiverie, compreso il fatto che l’avesse abbandonata con un neonato al collo senza nemmeno dargli il suo nome.
La mattina Ljudmila Nikolaevna restava sola in casa. Aspettava con ansia quel momento, i suoi familiari la infastidivano. Ciò che succedeva nel mondo, la guerra, la sorte delle sue sorelle, il lavoro del marito, il carattere di Nadja, la salute della madre, la pietà per i feriti, il dolore per chi moriva prigioniero dei tedeschi, tutto scaturiva dalla sua sofferenza, dalla sua angoscia per il figlio.
I sentimenti della madre, del marito e della figlia, invece, si dovevano ad altro, lo sentiva. Il loro attaccamento, il loro amore per Tolja le parevano superficiali. Per lei il mondo si riduceva a Tolja, per loro Tolja era solo una parte del mondo.
Passavano i giorni, passavano le settimane, e Tolja non scriveva.
Ogni giorno la radio trasmetteva i bollettini di guerra, ogni giorno la guerra riempiva i giornali. I soldati sovietici si ritiravano. Bollettini e giornali parlavano dell’artiglieria. E Tolja era artigliere. E Tolja non scriveva.
Una sola persona capiva davvero la sua angoscia: Mar’ja Ivanovna, la moglie di Sokolov.
A Ljudmila Nikolaevna non piaceva frequentare le mogli degli altri professori; le chiacchiere sui successi dei rispettivi consorti, i vestiti nuovi e le domestiche le davano sui nervi. A Mar’ja Ivanovna, invece, si era affezionata: forse perché il carattere mite dell’amica, timida, era l’opposto del suo, o forse perché l’interesse che mostrava per Tolja la commuoveva.
Con lei parlava di Tolja molto più liberamente che con il marito o la madre, e ogni volta si sentiva più serena, più tranquilla. E per quanto Mar’ja Ivanovna passasse dagli Štrum quasi ogni giorno, a Ljudmila Nikolaevna sembrava sempre di non vederla da una vita, e allora continuava ad andare alla finestra per avvistarne la sagoma magra e il viso gentile.
Ma intanto Tolja non scriveva.
16
Aleksandra Vladimirovna, Ljudmila e Nadja erano in cucina. Ogni tanto Nadja infilava nella stufa qualche foglio spiegazzato del suo quaderno, e allora il rosso che languiva riprendeva vita e la stufa si riempiva di una fiamma viva, ma effimera. Sbirciando la figlia con la coda dell’occhio, Aleksandra Vladimirovna disse:
«Ieri sera sono passata a casa di una delle mie assistenti. Quanta miseria, che promiscuità, che fame... Signore Iddio, noi siamo dei pascià, al confronto. C’erano anche dei vicini di casa, parlavano di prima della guerra, di quel che ognuno preferiva. Chi diceva la carne di vitello, chi un certo tipo di minestra con la carne. “A me piace quando finisce l’allarme aereo” ha detto la figlia della mia assistente».
Ljudmila Nikolaevna rimase in silenzio, mentre Nadja disse:
«Quanti amici avrai, eh, nonna? Un milione...».
«E tu neanche mezzo...».
«Meglio così» disse Ljudmila Nikolaevna. «Ultimamente Viktor va spesso dai Sokolov. Frequentano certa gentaglia... Non capisco come facciano lui e Sokolov a perdere ore e ore in chiacchiere... Non si stancheranno di dare aria alla bocca? Non hanno alcun rispetto per la povera Mar’ja Ivanovna, che avrebbe bisogno di un po’ di requie e invece non può riposarsi né starsene in santa pace. Quanto fumano, poi...».
«Quel tataro, Karimov, mi piace» disse Aleksandra Vladimirovna.
«A me ripugna».
«La mamma è come me. Non le piace nessuno» disse Nadja. «Solo Mar’ja Ivanovna».
«Siete proprio strane, voi» disse Aleksandra Vladimirovna. «Avete i vostri amici di Mosca, ve li siete portati da casa. Quelli che incontrate qui, in treno, nei circoli, a teatro, non li guardate nemmeno. Avete occhi soltanto per chi ha la dacia dove ce l’avete voi. Lo fa anche Ženja, l’ho notato... Tra voi vi riconoscete da dettagli insulsi, da frasi del tipo: “Uh, quella è una nullità, non ama Blok; quell’altro è un primitivo, non capisce Picasso... Uh, lei gli ha regalato un vaso di cristallo. Che caduta di stile...”. Viktor, invece, è un democratico, se ne infischia di tanto decadentismo».
«Sciocchezze» disse Ljudmila. «La dacia non c’entra. C’è gente meschina con e senza dacia. L’importante è non frequentarla».
Negli ultimi tempi la figlia si arrabbiava spesso con lei, e Aleksandra Vladimirovna se ne era accorta.
Ljudmila Nikolaevna poteva dare consigli al marito, fare un appunto a Nadja, rimproverarle un passo falso e perdonargliene un altro, poteva viziarla o rifiutarsi di farlo, ma sentiva che sua madre la giudicava sempre e comunque. Aleksandra Vladimirovna non esprimeva le sue opinioni, che però esistevano. A volte Štrum e la suocera si guardavano, e subito negli occhi di lui spuntava un sorrisetto di intesa, quasi che le stranezze del carattere di Ljudmila fossero già state argomento di conversazione, tra loro. E non importava che fosse davvero così; l’importante era che in famiglia aveva fatto la sua comparsa una forza nuova in grado di modificare gli equilibri consueti con la sua sola presenza.
Un giorno Štrum aveva detto a Ljudmila che, al posto suo, avrebbe ceduto lo scettro ad Aleksandra Vladimirovna: che si sentisse padrona, non ospite.
A Ljudmila quelle parole erano suonate false; pensò che il marito intendesse sottolineare l’affetto che nutriva per la suocera facendo risaltare, per contrasto, la freddezza con cui lei aveva trattato Anna Semënovna.
Non glielo avrebbe mai confessato, era ridicolo, se ne vergognava persino, ma a volte era gelosa del rapporto che il marito aveva con i figli, soprattutto con Nadja. In quel momento, però, la sua non era gelosia. Non riusciva ad ammettere nemmeno con se stessa che sua madre – rimasta senza un tetto e rifugiatasi in casa loro – la irritava e le era di peso. E poi era strana, quella sua irritazione mista ad affetto, perché, in caso di bisogno, avrebbe ceduto alla madre l’ultimo vestito che le restava e avrebbe diviso con lei l’ultimo pezzo di pane.
Dal canto suo Aleksandra Vladimirovna sentiva spesso un desiderio improvviso di piangere senza una ragione, di morire, di non tornare a casa la sera e di fermarsi a dormire sul pavimento di una collega, oppure di fare le valigie e partire per Stalingrado, in cerca di Sergej, di Vera, di Stepan Fëdorovič.
Aleksandra Vladimirovna approvava quasi tutte le scelte e i discorsi del genero; Ljudmila, invece, quasi mai. Nadja se n’era accorta:
«Se la mamma ti tratta male, dillo alla nonna» diceva sempre al padre.
In quel momento, per esempio, Aleksandra Vladimirovna aveva detto a figlia e nipote che la loro era una vita da gufi: «Mentre Viktor, invece, è una persona normale».
«Parole, solo parole» aveva risposto Ljudmila, stizzita. «Quando sarà ora di tornare a Mosca, anche tu e Viktor sarete felici».
«Sai cosa ti dico, mia cara?» ribatté di punto in bianco Aleksandra Vladimirovna. «Quando sarà ora di tornare a Mosca, io non verrò. Resterò qui. Non c’è posto per me, nella tua casa di Mosca. Hai capito bene? Convincerò Ženja a trasferirsi qui, oppure andrò io da lei, a Kujbyšev».
Fu un momento difficile nel rapporto tra madre e figlia. In quel rifiuto c’era tutto ciò che Aleksandra Vladimirovna aveva nel cuore. E anche il peso sul cuore di Ljudmila Nikolaevna fu evidente, quasi dichiarato. Eppure la figlia si mostrò offesa, quasi sentisse di non avere colpe di fronte alla madre.
Aleksandra Vladimirovna, invece, osservò il viso sofferente di Ljudmila e si sentì in colpa. La notte pensava soprattutto a Serëža: ricordava i suoi accessi d’ira, le liti, oppure se lo immaginava in uniforme; era dimagrito di sicuro, e i suoi occhi dovevano sembrare ancora più grandi, con quelle guance scavate. Serëža suscitava in lei un sentimento particolare: era il figlio del figlio che amava più di ogni altra cosa al mondo e che aveva perduto...
«Non tormentarti così per Tolja» disse a Ljudmila. «Sono preoccupata quanto te, credimi».
C’era una nota stonata in quelle parole, una crepa nel suo amore per la figlia: non era vero che si preoccupava tanto per Tolja. Franche fino a risultare crudeli, madre e figlia si spaventarono entrambe della propria schiettezza e fecero marcia indietro.
«La verità è bene, ma l’amore è meglio. Potrebbe essere il titolo di una commedia di Ostrovskij» sentenziò serafica Nadja, e Aleksandra Vladimirovna guardò incattivita, con un po’ di paura, persino, quella ragazzina che aveva già capito ciò a cui lei non era ancora arrivata.
Di lì a poco tornò Viktor Pavlovič. Aprì la porta con la sua chiave e si presentò in cucina.
«Che bella sorpresa» disse Nadja. «Pensavamo che avessi piantato le tende dai Sokolov».
«Ma bene, siete tutte a casa, intorno alla stufa. Che bello, sono proprio contento, è meraviglioso» disse tendendo la mano verso il fuoco.
«Pulisciti il naso» disse Ljudmila. «Dove la vedrai, tanta meraviglia, lo sai solo tu...».
Nadja scoppiò a ridere e scimmiottò la madre:
«Te lo vuoi pulire, quel naso? In che lingua te lo devo dire?».
«Nadja Nadja» la ammonì Ljudmila Nikolaevna: non era disposta a dividere con nessuno il diritto di rimprovevare il marito.
Viktor Pavlovič disse:
«Fuori tira un vento freddissimo».
E passò nell’altra stanza; dalla porta aperta lo videro sedersi al tavolo.
«Sta di nuovo scrivendo sulla copertina dei libri» notò Nadja.
«Non sono affari tuoi» disse Ljudmila Nikolaevna, e rivolta alla madre: «Perché era così felice che fossimo tutte a casa? Quell’uomo ha qualcosa che non va, si preoccupa sempre quando non ci vede. Di sicuro dovrà tirare le fila di qualche suo pensiero e sarà stato lieto di non avere altre preoccupazioni a distrarlo».
«Parla piano, lo stiamo disturbando» disse Aleksandra Vladimirovna.
«Anzi!» disse Nadja. «Se si parla forte, non ci fa caso, ma basta un sussurro perché si presenti a chiedere di cosa stiamo bisbigliando».
«Parli di tuo padre come la guida di un museo parla degli istinti animali».
Si guardarono e scoppiarono a ridere entrambe.
«Come hai potuto dirmi quelle cose, mamma?» chiese Ljudmila Nikolaevna.
La madre le accarezzò i capelli senza dire nulla.
Poi cenarono. Viktor Pavlovič ebbe l’impressione che ci fosse un calore speciale, quella sera, in cucina.
Il punto fermo della sua vita restava lo stesso. Negli ultimi tempi aveva un’idea fissa: era sicuro che gli esperimenti contraddittori accumulati in laboratorio avrebbero trovato una spiegazione inattesa.
Seduto al tavolo della cucina provava una strana, felice, impazienza: gli formicolavano le dita, tanta era la voglia di riprendere in mano la penna.
«Stasera il minestrone è ottimo» disse battendo il cucchiaio contro la scodella vuota.
«In che senso?» chiese Ljudmila Nikolaevna.
«Ricordi l’ipotesi di Prout, vero Ljudmila?» disse facendo scivolare il piatto verso la moglie.
«È quella sull’origine degli elementi» disse Aleksandra Vladimirovna.
«Sì, ora ricordo» disse Ljudmila. «Tutti gli elementi derivano dall’idrogeno. Ma cosa c’entra il minestrone?».
«Il minestrone?» chiese a propria volta Viktor Pavlovič. «No. È che la storia di Prout è strana. Se la sua ipotesi è giusta è perché ai suoi tempi nella determinazione dei pesi atomici si commettevano errori madornali. Se invece avessero saputo fissarli con la precisione di Dumas e Stass, Prout non avrebbe certamente avuto il coraggio di supporre che fossero tutti multipli dell’idrogeno. Sbagliando, ha visto giusto».
«E il minestrone cosa c’entrerebbe?» chiese Nadja.
«Quale minestrone?» domandò stupito Štrum, che poi parve ricordare e disse: «Ma no, niente... È che in un tale minestrone è difficile capirci qualcosa, ci vorrebbe un secolo per raccapezzarsi».
«È stato l’argomento della sua lezione di oggi?» chiese Aleksandra Vladimirovna.
«No no, era tanto per parlare. Non insegno, io. C’entrava come i cavoli a merenda, lo so...».
Štrum colse lo sguardo della moglie e sentì che aveva capito: il lavoro lo stava appassionando di nuovo.
«Come vanno le cose?» chiese poi. «È passata Mar’ja Ivanovna? Ti ha forse letto Madame Bovary, celebre romanzo di Balzac?».
«Smettila» disse Ljudmila Nikolaevna.
Quella notte aspettò che il marito le parlasse del suo lavoro. Invece lui non fiatò, né lei gli chiese nulla.
17
Come sembravano ingenue, a Štrum, le idee dei fisici della metà dell’Ottocento, di Helmholtz, per esempio, per il quale lo scopo della fisica si riduceva allo studio delle forze di attrazione e repulsione a seconda della distanza.
È il campo di forze l’anima della materia! Quel che tiene insieme l’onda di energia e il corpuscolo... La corpuscolarità della luce... Che sia uno scroscio di gocce luminose o un’onda repentina?
La teoria dei quanti aveva ridisegnato le leggi che governano gli enti fisici; le nuove leggi erano leggi della probabilità, leggi di una particolare statistica che rifiutava il singolo e riconosceva solamente l’insieme. Per Štrum i fisici del secolo passato avevano baffi tinti, abiti con colletti inamidati e polsini rigidi e si davano appuntamento attorno a un tavolo da biliardo. Erano uomini profondi, armati di righelli e cronometri, che aggrottando le folte sopracciglia misuravano velocità e accelerazioni, e determinavano le masse delle sfere elastiche che riempiono il tavolo verde del mondo.
Ma poi lo spazio misurato con perni e righelli di metallo e il tempo calcolato dagli orologi più moderni si deformarono di colpo, dilatandosi e appiattendosi. La loro immutabilità non era più un fondamento, per la scienza, ma piuttosto una prigione. E venne il giorno del Giudizio, il giorno in cui verità millenarie furono proclamate errori. La verità aveva dormito per secoli – come in un bozzolo – in antichi pregiudizi, errori e imprecisioni.
Il mondo divenne non-euclideo, la sua natura geometrica si scoprì formata di masse e velocità.
La scienza si muoveva precipitosamente verso un mondo che Einstein aveva liberato dai ceppi del tempo e dello spazio assoluti.
Due flussi – uno che scorreva insieme agli Universi, il secondo che cercava di penetrare nel nucleo atomico – si biforcavano senza tuttavia perdersi di vista, per quanto uno procedesse nel mondo dei parsec e l’altro si misurasse in millimicron. Più i fisici si addentravano nelle viscere dell’atomo, più riuscivano a chiarire le leggi che determinavano la luminescenza delle stelle. Lo spostamento verso il rosso del raggio visivo negli spettri delle galassie lontane generò l’idea di Universi in fuga nello spazio infinito. Ma bastava concentrarsi su uno spazio finito e lenticolare deformato dalle velocità e dalle masse per immaginare che anche lo spazio che trascinava con sé le galassie fosse destinato ad ampliarsi.
Štrum non aveva dubbi: gli scienziati erano le persone più felici del mondo... Certe mattine mentre era diretto all’Istituto, o la sera quando andava a fare una passeggiata, o la notte mentre pensava al suo lavoro, lo prendeva un senso di felicità, quiete ed entusiasmo.
Le forze che riempivano l’Universo con la luce serena delle stelle venivano liberate dalla trasformazione dell’idrogeno in elio...
Due anni prima della guerra due giovani tedeschi avevano scisso i pesanti nuclei dell’atomo grazie ai neutroni; con le loro ricerche i fisici sovietici erano pervenuti a risultati analoghi per vie diverse, e anche loro avevano provato la stessa sensazione che, centomila anni fa, doveva aver provato l’uomo delle caverne di fronte al primo fuoco...
Nel XX secolo era la fisica a indicare la strada... E nel 1942 il crocevia di tutti i fronti del conflitto mondiale era Stalingrado.
Eppure Štrum era assillato, perseguitato da dubbi, dolore, sfiducia.
18
Viktor caro,
per quanto mi trovi oltre la linea del fronte e dietro il filo spinato di un ghetto ebraico, sono convinta che questa mia lettera giungerà fino a te. Non riceverò la tua risposta, invece, perché non ci sarò più. Voglio, però, che tu sappia come sono stati i miei ultimi giorni: mi sarà più facile, così, lasciare questa vita.
Gli uomini sono difficili da capire, Viktor caro... Il 7 di luglio i tedeschi sono entrati in città. Ai giardini pubblici la radio trasmetteva le ultime notizie, io tornavo dall’ambulatorio, dove avevo visitato alcuni malati, e mi fermai ad ascoltare il bollettino di guerra. Lo leggeva una donna, in ucraino. D’un tratto sentii degli spari lontani, poi notai alcune persone che correvano attraverso il parco e ripresi la via di casa, meravigliandomi di non aver sentito l’allarme antiaereo. All’improvviso vidi un carro armato e udii una voce: «I tedeschi!».
«Non diffonda il panico, lei!» mi scappò detto. Il giorno prima ero passata dal segretario del Soviet cittadino per chiedergli quando ci avrebbero fatto sfollare: «È presto per parlarne» si era arrabbiato. «Non abbiamo ancora le liste». E invece i tedeschi erano già in città. Quella notte ci fu un gran via vai di vicini; i più tranquilli eravamo io e i bimbi più piccoli. Sarà quel che sarà, per me come per tutti, così avevo deciso. Lì per lì mi sono spaventata: sapevo che non ti avrei più rivisto, mentre invece avrei tanto voluto guardarti, baciarti la fronte, gli occhi... Però almeno tu eri in salvo, e dovevo esserne felice, ho pensato poi.
Ho preso sonno che era l’alba, e al risveglio avevo nel cuore un’angoscia tremenda. Ero nella mia stanza, nel mio letto, ma mi sentivo straniera, persa, sola.
Quella stessa mattina i tedeschi mi ricordarono ciò che avevo dimenticato in anni di potere sovietico: sono ebrea. «Juden Kaputt!» gridavano dai camion.
Poi me lo ricordarono anche alcuni vicini di casa. Sotto la mia finestra la moglie del portinaio commentava: «Grazie a Dio gli ebrei hanno i giorni contati». Ma perché? Suo figlio ha sposato un’ebrea, è stata a trovarli, mi ha raccontato dei nipoti...
La mia vicina, una vedova con una figlia di sei anni, Alënuška, che ha due occhi azzurri meravigliosi – te ne ho scritto, una volta –, è venuta da me e mi ha detto di radunare le mie cose prima di sera, che si trasferiva nella mia stanza. «Va bene, allora io mi prendo la sua». «No, lei si prende lo sgabuzzino dietro la cucina».
Ho rifiutato: non ha le finestre e non c’è la stufa.
Poi sono andata in ospedale. Al ritorno la porta della mia camera era stata forzata e le mie cose erano nello sgabuzzino. «Ho tenuto il divano,» mi ha informato la vicina «tanto nella sua nuova stanza non entra».
È assurdo! È laureata, e il suo povero marito era un’ottima persona, un uomo mite, faceva il contabile in banca, all’Ukoopspilka. «Lei è fuorilegge» mi ha detto, e dal tono pareva quasi che ne traesse chissà quale vantaggio. Alënuška, la figlia, è rimasta con me tutta la sera, le ho raccontato le favole. È stata la mia festa di trasloco. Non voleva andare a dormire, la madre ha dovuto portarla via di peso. Poi, Viktor caro, il Policlinico è stato riaperto, ma io e un altro medico ebreo siamo stati licenziati. Ho chiesto che mi pagassero l’ultimo mese di lavoro, ma il nuovo dirigente mi ha risposto di domandarli a Stalin, i soldi che avevo guadagnato con i sovietici, di scrivergli a Mosca. Marusja, l’inserviente, mi ha abbracciato e mi ha bisbigliato piangendo: «Signore Iddio, che ne sarà di lei? Che ne sarà di tutti voi...». E il dottor Tkačev mi ha stretto la mano. Non so cosa sia peggio: la cattiveria o la compassione con la quale di solito si guarda un gattino rognoso a cui resta poco da vivere. Non avrei mai creduto di doverlo provare sulla mia pelle.
Molte persone mi hanno stupito. E non erano solo ignoranti, gente incattivita e rozza. Un vecchio insegnante, per esempio, un pensionato di settantacinque anni che mi chiedeva sempre di te, mi diceva di salutarti e ti definiva «il nostro orgoglio». In quei giorni maledetti, se mi incontrava per strada non mi salutava nemmeno, si girava dall’altra parte. Mi hanno riferito che a una riunione alla Kommandantur ha sostenuto che adesso l’aria è più pulita: «Non puzza più d’aglio». Perché l’ha fatto? Perché si è voluto sporcare le mani? E sapessi quante altre calunnie sugli ebrei sono state dette in quella riunione... Però non ci sono andati tutti, Viktor caro, è ovvio. Molti si sono rifiutati. Sai una cosa? Dai tempi dello zar per me l’antisemitismo è legato al patriottismo di bassa lega dell’Unione di San Michele Arcangelo. Qui, invece, quelli che chiedono di liberare la Russia dagli ebrei si umiliano di fronte ai tedeschi e sono pronti a vendere la Russia per trenta denari nazisti. E intanto dalla periferia vengono a rubare in città, occupano le case, portano via coperte e vestiti. Farabutti. Un po’ come quelli che davano la colpa ai medici e li ammazzavano, durante l’epidemia di colera del secolo scorso. Poi ci sono i pigri d’animo, quelli che acconsentono a qualunque bassezza pur di non contraddire i potenti.
Gli amici passano continuamente a riferirmi le ultime notizie, ma hanno tutti la pazzia negli occhi, delirano. È nata una strana espressione: «scasare le cose». Perché dal vicino sono più al sicuro. È una specie di gioco, ormai.
Dopo qualche giorno ci è stato detto che gli ebrei dovevano lasciare le loro abitazioni e che avevamo diritto a quindici chili di bagaglio. Sui muri dei palazzi erano affissi dei cartelli giallognoli: I giudei dovranno trasferirsi nella Città vecchia non oltre le diciotto del 15 luglio 1941. Per chi non obbediva c’era la fucilazione.
E dunque, Viktor caro, anch’io ho radunato le mie cose. Ho preso il cuscino, un po’ di biancheria, la tazza che mi avevi regalato tu, un cucchiaio, un coltello, due piatti. Si ha bisogno d’altro, forse? Ho preso anche alcuni strumenti medici. E ho portato con me le tue lettere, le fotografie della mia povera mamma e di nonno David, e quella dove ci siete tu e tuo padre, poi un volumetto di Puškin, le Lettres de mon moulin, la raccolta di Maupassant dove c’è Une vie, un vocabolario, il volume di Čechov con Una storia noiosa e Il vescovo, e il mio cesto era già colmo. Quante lettere ti ho scritto, sotto questo tetto, quante notti ho pianto per ore sulla mia solitudine... Adesso posso finalmente confessartelo.
Ho detto addio alla casa e al giardino, sono rimasta qualche minuto sotto l’albero, ho preso commiato dai vicini. Certa gente è strana. Non me n’ero ancora andata, che già due donne si litigavano le mie sedie e la mia scrivania. Quando poi le ho salutate, sono scoppiate a piangere. Ho chiesto ai Basan’ko di raccontarti tutto per filo e per segno, nel caso passassi a guerra finita, e mi hanno promesso di farlo. Mi ha commosso il cagnetto Tobik, un bastardino, che l’ultima sera mi ha scodinzolato più del solito.
Se mai capitassi da queste parti, dagli qualcosa da mangiare per l’affetto dimostrato a una vecchia giudea.
Mentre mi incamminavo e pensavo a come avrei fatto a trascinare il cesto fino alla Città vecchia, ho visto arrivare un mio paziente, Ščukin, un uomo cupo che pensavo duro di cuore. Si è offerto di aiutarmi, mi ha consegnato trecento rubli e ha aggiunto che mi avrebbe portato del pane una volta alla settimana, alla recinzione. Lavora in una tipografia, non è al fronte per via dei suoi occhi malati. Prima della guerra l’avevo in cura io, e se mi avessero chiesto di stilare un elenco di persone di cuore, di persone sensibili, avrei fatto una decina di nomi, ma non il suo. Sai, Viktor caro, dopo averlo incontrato mi sono sentita di nuovo un essere umano; qualcun altro mi trattava con gentilezza, oltre ai cani.
Mi ha detto che la tipografia stava stampando una disposizione: agli ebrei è fatto divieto di camminare sui marciapiedi, devono portare sul petto una toppa gialla a forma di stella a sei punte, non hanno diritto di usare i mezzi pubblici e la banja, non possono recarsi negli ospedali o al cinema, è loro proibito comperare burro, uova, latte, bacche, pane bianco, carne e verdure di qualunque tipo a eccezione delle patate; possono fare acquisti al mercato solo dopo le sei di sera (quando i contadini tornano a casa). La Città vecchia verrà recintata con il filo spinato e se ne potrà uscire solo sotto scorta, per i lavori forzati. I russi che ospitano un ebreo saranno fucilati, così come chi nasconde un partigiano.
Da Ščukin è arrivato il suocero, un vecchio contadino che vive nello shtetl di Čudnov. Ha visto portar via nel bosco tutti gli ebrei, con fagotti e valigie. Poi al villaggio hanno sentito spari e urla disperate per tutta la giornata, e nessuno ha fatto ritorno. I tedeschi installati in casa sua si sono presentati a notte fonda, già ubriachi, e hanno continuato a bere fino al mattino seguente; bevevano e si spartivano davanti a lui spille, anelli e bracciali. Quello che non so è se sia stata una loro iniziativa o un esempio di quel che aspetta noi tutti.
Com’è stato triste, figlio mio, il mio viaggio verso il medioevo del ghetto. Attraverso la città in cui ho lavorato vent’anni. Prima siamo passati per via Svečnaja, deserta. Quando, però, siamo sbucati su via Nikol’skaja ci abbiamo trovato centinaia di persone, in marcia verso quel ghetto sciagurato. La strada era bianca di fagotti e cuscini. I malati avevano bisogno di essere sostenuti. Il padre paralitico del dottor Margulis veniva trasportato su una coperta. Un giovanotto teneva in braccio una vecchia, seguito dalla moglie e dai figli carichi di fagotti. Gordon, il direttore della drogheria, che è grasso, non aveva più fiato: si era messo un cappotto col collo di pelliccia e il sudore gli colava sul viso. Mi è rimasto impresso un ragazzo: non aveva niente con sé e camminava a testa alta, con un libro aperto in mano e un’espressione altera e serena sul viso. Molti altri, invece, erano come impazziti, terrorizzati...
Noi camminavamo lungo il selciato e la gente ci guardava dai marciapiedi.
Mi sono accompagnata per un po’ con i Margulis, e sentivo su di me i sospiri di compassione delle donne. Di Gordon e del suo cappotto pesante, invece, si facevano beffe; eppure, credimi, più che far ridere faceva paura. Ho riconosciuto molte facce note. Alcuni mi hanno fatto un cenno col capo, altri hanno guardato altrove. Non ho visto sguardi indifferenti, in quella folla, ma occhi curiosi, spietati, talvolta rossi di pianto.
C’erano due diversi gruppi di persone, su quella strada. Da una parte gli ebrei in cappotto e cappello, le donne con gli scialli pesanti. E sul marciapiede gli altri, in abiti estivi: bluse chiare, uomini in maniche di camicia, alcuni con le casacche ucraine ricamate. Pareva quasi che per gli ebrei in marcia anche il sole avesse smesso di splendere, che camminassero nel freddo di una notte di dicembre.
All’ingresso del ghetto congedai il mio accompagnatore, che mi indicò il punto del filo spinato dove ci saremmo incontrati.
Sai cosa ho provato una volta dietro il filo, Viktor caro? Pensavo che avrei avuto paura. Invece, figurati, in quel recinto per le bestie mi sono sentita sollevata. E non perché io sia una succube, no. No. Ero attorniata da gente con il mio stesso destino, lì dentro, non avrei dovuto camminare sul selciato come un cavallo, né mi avrebbero fissato con cattiveria; i conoscenti mi avrebbero guardato negli occhi e non mi avrebbero evitato. Tutti avevamo il marchio imposto dai nazisti, dunque dentro il recinto quel marchio non mi avrebbe bruciato troppo il cuore. Non mi sarei sentita un animale senza diritti, ma una persona sfortunata. Per questo ho provato sollievo.
Sono andata a stare insieme a un collega, il dottor Sperling, in una casetta di due stanze intonacata d’argilla. Gli Sperling hanno due figlie grandi e un maschio, un ragazzino di dodici anni. Mi fermo spesso a guardare quel visino smunto e quei suoi occhioni tristi; si chiama Jurij, ma due volte m’è scappato di chiamarlo Viktor, e lui mi ha corretto: «Mi chiamo Jurij, non Viktor».
Come sono diverse, le persone! Con i suoi cinquantotto anni Sperling è pieno di energia. Si è procurato materassi, cherosene e un carro di legna. Durante la notte gli hanno portato un sacco di farina e mezzo sacco di fagioli. È felice come una pasqua per ogni sua conquista. Ieri ha appeso al muro dei tappeti. «Ce la faremo, ce la faremo» ripete sempre. «L’essenziale è fare scorta di legna e di cibarie».
Mi ha detto che dovremmo creare una scuola, nel ghetto. Mi ha anche proposto di dare lezioni di francese a Jurij, mi pagherà con un piatto di minestra. Ho accettato.
La moglie di Sperling, Fanny Borisovna, è grassa e non fa che lamentarsi: «È finita, siamo finiti» dice, però intanto bada a che la figlia maggiore Ljuba, una cara ragazza, non regali a nessuno una manciata di fagioli o un tozzo di pane. Alja, la più piccola, la preferita della madre, è un vero demonio: prepotente, sospettosa, avara, se la prende continuamente con il padre e la sorella. Abitava a Mosca, era venuta in Ucraina a trovare i genitori e la guerra l’ha costretta a restare.
Quanta miseria dappertutto, Dio mio! Chi dice che gli ebrei sono tutti ricchi e hanno sempre e comunque qualcosa da parte per i giorni bui dovrebbe venire a vedere la nostra Città vecchia... Eccoli, i giorni bui, più bui di così davvero non si può... E nella Città vecchia non c’è solo chi ha traslocato con i suoi quindici chili di bagaglio: qui hanno sempre vissuto artigiani, anziani, operai, inservienti d’ospedale. Sapessi in che condizioni vivevano e vivono! Cosa non sono costretti a mangiare! Le vedessi, queste casupole semidistrutte abbarbicate alla terra...
C’è tanta gente malvagia, qui, Viktor caro, gente avida, vigliacca, furba, sempre pronta a tradire; c’è un uomo orrendo, un tal Epstein, arrivato da una qualche cittadina polacca. Porta una fascia sul braccio e accompagna i tedeschi nelle perquisizioni, partecipa agli interrogatori, si ubriaca con i polizei ucraini e loro lo mandano di casa in casa a spillare vodka, soldi e cibo. L’ho visto due volte: pasciuto, bello, con un abito elegante color crema; cucita sul suo vestito, la stella gialla sembra quasi un crisantemo.
Ma è di altro che volevo parlarti. Non mi sono mai sentita ebrea, ho avuto amiche russe sin da quando ero bambina; i poeti che più amo sono da sempre Puškin e Nekrasov, e a teatro lo spettacolo che mi ha fatto piangere con tutto il pubblico, a un convegno di medici condotti russi, è stato Zio Vanja, con Stanislavskij. Una volta, avrò avuto quattordici anni, in famiglia volevano emigrare in Sudamerica. «Non la lascio, la Russia, piuttosto mi ammazzo» dissi a mio padre. E non sono partita.
In questi giorni tremendi il mio cuore è ricolmo di affetto materno per il popolo ebreo. Un affetto che non conoscevo. E che mi ricorda l’amore che nutro per te, figlio mio.
Visito i malati a domicilio. Vivono a decine in una stanza: vecchi quasi ciechi, neonati, donne incinte. Prima negli occhi delle persone cercavo i sintomi delle malattie, di glaucomi e cataratte. Adesso non ce la faccio più a guardarli, quegli occhi, perché ci vedo solo il riflesso dell’anima. Di un’anima buona, Viktor caro! Triste e buona, sorridente ma condannata, sconfitta dalla violenza ma che al tempo stesso sulla violenza trionfa. Di un’anima forte, Viktor!
Sentissi con quanta premura i più anziani mi chiedono di te. Come cercano di farmi coraggio persone con le quali non oso mai lamentarmi perché stanno peggio di me.
Certe volte mi sembra di non essere io a curarli, ma che siano loro a medicare la mia anima. E con che affetto mi porgono un pezzo di pane, una cipolla o una manciata di fagioli.
Non è la mia parcella, Viktor caro, credimi! Quando un vecchio operaio mi stringe la mano e mi infila nella borsa un paio di patate dicendomi «Le prenda, dottore, la prego», mi vengono le lacrime agli occhi. C’è qualcosa di puro, di buono, di paterno in quel gesto, che le parole non riescono a trasmettere.
Non lo scrivo per rassicurarti. La mia vita non è stata facile, negli ultimi tempi, anzi; piuttosto, fossi in te mi meraviglierei di come il mio cuore abbia retto a tanto dolore. Ma non tormentarti al pensiero che abbia sofferto la fame, perché non è mai successo. Né mi sono mai sentita sola.
Che dirti della gente? Mi stupisce, Viktor caro, nel bene e nel male. Per quanto condividano lo stesso destino, le persone sono molto diverse tra loro. Pensa a un temporale. Tutti, o quasi, cerchiamo riparo dalla pioggia, ma non per questo siamo tutti uguali. Perché ognuno si ripara a suo modo...
Il dottor Sperling è convinto che le persecuzioni finiranno con la guerra. Sono in molti a pensarla come lui, e mi sono resa conto che maggiore è l’ottimismo, più le persone sono meschine ed egoiste. Se qualcuno si presenta all’ora di pranzo, Alja e Fanny Borisovna nascondono subito il cibo.
Gli Sperling mi trattano bene, anche perché mangio poco e porto a casa più di quanto consumo. Tuttavia ho deciso di andarmene, non mi piacciono. Mi cercherò un altro posto dove stare. Più si è tristi, con meno speranze di sopravvivere, più si è generosi, buoni, migliori.
I poveri, gli stagnini, i sarti, tutti condannati a morte certa, sono molto più nobili d’animo, molto più generosi e intelligenti di chi è riuscito a mettere da parte qualcosa da mangiare. Le maestre, quello strambo del vecchio Spielberg, maestro anche lui e giocatore di scacchi, le bibliotecarie, l’ingegner Rejvič, più sprovveduto di un bambino e che sogna di armare il ghetto con delle granate rudimentali: sono persone straordinarie, prive di senso pratico, ma affettuose, tristi e buone.
Qui ho capito che la speranza non ha quasi mai a che vedere con la ragione, che la speranza è illogica e, credo, figlia dell’istinto.
Qui si vive come se avessimo davanti anni e anni, Viktor caro. Non saprei dirti se sia sciocco o intelligente, è semplicemente così. E anch’io mi sono arresa a questa legge. Sono arrivate due donne da uno shtetl, ripetono anche loro ciò che ho sentito dal mio amico. I tedeschi stanno eliminando tutti gli ebrei, non risparmiano neanche vecchi e bambini. Arrivano in macchina con i polizei, portano qualche decina di persone nei campi, fanno scavare delle fosse e poi, un paio di giorni dopo, ci trascinano gli ebrei e li fanno fuori tutti. Negli shtetl attorno alla città è tutto un levarsi di tumuli, di kurgan ebrei...
Nella casa accanto alla mia vive una ragazza polacca. Racconta che in Polonia gli omicidi sono all’ordine del giorno, che gli ebrei vengono massacrati e che ne sopravvivono solo nei ghetti, a Varsavia, Łódź e Radom. E allora, riflettendo, ho capito che se ci hanno radunati qui non è per preservarci come gli uri nelle foreste della Bielorussia, ma perché siamo bestie destinate al macello. Il nostro turno verrà tra un paio di settimane, così vuole il programma. Eppure, pensa, anche se lo so, continuo a curare i malati e a dire: «Se si pulisce regolarmente gli occhi con questo medicinale, tra un paio di settimane sarà guarito». E ho davanti un vecchio al quale tra sei mesi o un anno dovrei, invece, togliere la cataratta.
Do lezioni di francese a Jurij e mi dispiace che abbia una pessima pronuncia.
E intanto i tedeschi saccheggiano il ghetto, oltre il filo spinato le guardie sparano ai bambini per passare il tempo, e sempre più persone confermano che il nostro destino può compiersi in qualunque momento.
Eppure, malgrado tutto, la gente continua a vivere. C’è stato persino un matrimonio, di recente. Le voci corrono, e sono tante. Capita che un vicino – senza più fiato per la gioia – si precipiti a dirti che i nostri sono passati all’attacco e i tedeschi sono in fuga. O che, invece, di punto in bianco qualcuno tiri fuori che il governo sovietico e Churchill abbiano imposto un ultimatum ai tedeschi, e che Hitler abbia ordinato di non uccidere più gli ebrei. Oppure che ci sarà uno scambio: ebrei contro prigionieri di guerra tedeschi.
Non c’è posto al mondo dove la speranza sia viva come nel ghetto. Succedono tante cose, nel mondo, ma lo scopo, il senso di tutto è uno solo: la salvezza degli ebrei. Quanta speranza!
E la fonte è una sola: l’istinto di sopravvivenza che si oppone contro ogni logica all’idea tremenda di morire senza lasciare tracce. Mi guardo intorno e mi chiedo: davvero siamo tutti in attesa di esecuzione? Parrucchieri, calzolai, sarti, medici, fuochisti: lavoriamo tutti quanti. Hanno persino aperto una maternità, o meglio qualcosa che le somiglia. Il bucato è a stendere, si lava, si cucina, dal 1° settembre i bambini sono tornati a scuola e le madri vanno a parlare con gli insegnanti.
Il vecchio Spielberg ha portato a rilegare alcuni libri. Alja Sperling fa ginnastica ogni mattina e prima di dormire si mette i bigodini e litiga col padre che non le vuole comperare due tagli di stoffa per l’estate.
Io lavoro dalla mattina alla sera: visito, do lezioni, rammendo, lavo, mi preparo per l’inverno infilando l’ovatta sotto la fodera del soprabito. E ascolto i racconti delle piaghe che si sono abbattute sugli ebrei: una conoscente, la moglie di un avvocato, è stata picchiata fino a perdere conoscenza per aver comperato un uovo d’anatra al suo bambino; a un ragazzo, il figlio del farmacista Sirota, hanno sparato a una spalla mentre cercava di passare sotto il filo spinato per recuperare il pallone. E tante, tante altre storie simili.
Che forse storie non sono. Oggi i tedeschi hanno preso ottanta giovani per cavare patate, hanno detto; alcuni erano persino felici di portare a casa qualcosa per i propri cari. Ma io sapevo di quali patate si trattava.
La notte, nel ghetto, è un momento particolare, Viktor caro. Mio diletto, ti ho sempre insegnato a dire la verità, un figlio deve sempre dire la verità a sua madre. Ma anche una madre deve dire la verità a suo figlio. Non pensare che io sia una donna forte, figlio mio. Sono debole. Ho paura del dolore e ho paura di andare dal dentista. Da bambina avevo paura dei tuoni e del buio. Da vecchia ho avuto paura delle malattie e della solitudine, temevo che se mi fossi ammalata non sarei riuscita a lavorare, ti sarei stata di peso e tu non saresti stato in grado di nasconderlo. Avevo paura della guerra. Adesso la notte ho una paura tremenda, di quelle che gelano il cuore. Vado incontro alla morte. E vorrei tanto chiamarti in mio soccorso.
Da bambino correvi da me perché ti difendessi. In questi momenti di debolezza vorrei essere io a nascondere la testa tra le tue ginocchia così che tu, forte e intelligente come sei, potessi proteggermi, difendermi. Il mio spirito non è sempre forte, Viktor caro, sono anche debole. Penso spesso al suicidio, e non so cosa sia a trattenermi, se la debolezza, la forza o una speranza priva di senso.
Ma poi passa. Mi addormento e sogno. Sogno spesso la mia povera mamma, parlo con lei. La scorsa notte ho sognato Aleksandra Šapošnikova, quando vivevamo tutte e due a Parigi. Non ho mai sognato te, invece, eppure ti penso sempre, anche nei momenti più duri. Mi sveglio, vedo il soffitto, mi ricordo che i tedeschi ci hanno invaso e mi ricordo che sono una lebbrosa, ed ecco che mi sembra questo il sogno, l’incubo.
Passa qualche minuto, però, e sento Alja che litiga con Ljuba per decidere a chi tocchi andare al pozzo, o mi arriva la notizia che la notte nella strada vicino alla nostra i tedeschi hanno spaccato la testa a un vecchio.
È venuta una conoscente, una studentessa di pedagogia, a chiedermi di visitare un malato. In realtà sta nascondendo un tenente con una ferita alla spalla e un occhio bruciato. Un caro ragazzo, senza più forze, che viene dal Volga e ne ha la cadenza. La notte scorsa è passato sotto il filo spinato per rifugiarsi nel ghetto. Il suo occhio non è ferito gravemente, sono riuscita a fermare la suppurazione. Mi ha raccontato degli scontri, delle nostre armate in ritirata, e mi ha fatto venire l’angoscia. Vuole tirare il fiato per poi tornare al fronte. Alcuni ragazzi vorrebbero unirsi a lui, uno è stato mio studente. Potessi andarci anch’io, Viktor caro! Ero così felice di aiutare quel giovane, mi pareva di combattere anch’io la mia guerra contro il nazismo.
Gli hanno portato qualche patata, del pane, dei fagioli e una vecchina gli ha sferruzzato delle calze di lana.
Oggi è una giornata di drammi. Ieri una conoscente ha procurato ad Alja i documenti di una giovane russa morta in ospedale. Se ne andrà questa notte. E oggi abbiamo saputo da un contadino venuto alla recinzione che gli ebrei mandati a cavare patate stanno scavando delle fosse profonde a quattro verste dalla città, accanto all’aeroporto, lungo la strada per Romanovka. Tieni a mente questo nome, Viktor caro, ci troverai la fossa comune dove giacerà tua madre.
Anche Sperling ha capito tutto, è pallido, gli tremano le labbra e mi chiede sconcertato: «C’è da sperare che tengano in vita chi ha una specializzazione?». In effetti c’è chi dice che in certi shtetl abbiano risparmiato i sarti e i calzolai migliori, e i migliori medici.
Eppure, nonostante tutto, questa sera Sperling ha chiamato un vecchio fuochista: voleva un nascondiglio nel muro per la farina e il sale. E io mi sono seduta accanto a Jurij per leggere le Lettres de mon moulin. Ricordi quando abbiamo letto il mio racconto preferito, Les vieux? Ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere, avevamo le lacrime agli occhi. Poi ho dato a Jurij alcuni esercizi per dopodomani. Bisogna fare così. Ma che strazio guardare il visino triste del mio allievo, le sue dita che scrivono sul quaderno il numero dei paragrafi di grammatica che deve studiare...
E quanti altri bambini sono come lui: con occhi splendidi, capelli ricci e scuri. Tra loro ci sono futuri scienziati, fisici, docenti di medicina, musicisti e forse anche qualche poeta.
Li vedo correre a scuola, la mattina, seri come non dovrebbero esserlo alla loro età, con gli occhi sgranati, con la tragedia negli occhi. Ogni tanto, poi, vengono alle mani, litigano, ridono, e invece di rallegrarmi, la mia angoscia si fa ancora più forte.
Si dice che i bambini siano il nostro futuro, ma che cosa si può dire di questi? Non diventeranno mai musicisti, calzolai, sarti. La scorsa notte ho visto chiaramente che questo mondo rumoroso di papà barbuti e indaffarati, di nonne brontolone che sfornano biscotti al miele e colli d’oca farciti, il mondo dei matrimoni e dei loro rituali, dei modi di dire, dei sabati di festa, finirà per sempre sottoterra, e dopo la guerra la vita tornerà a gorgogliare, ma noi non ci saremo, estinti come gli aztechi.
Il contadino che ci ha detto delle fosse ci ha anche raccontato che sua moglie aveva pianto, quella notte: «Sanno cucire, sono calzolai, sanno lavorare la pelle, aggiustano gli orologi, vendono le medicine nelle farmacie... Cosa succederà quando li avranno ammazzati tutti?».
E mi sono immaginata una scena. Uomini che passavano accanto a delle rovine. Uno diceva: «Ti ricordi? Ci vivevano gli ebrei, qui. Il fuochista Boruch. La sera del sabato la moglie si sedeva su quella panca e i bambini giocavano». E un altro aggiungeva: «Sotto quel vecchio pero di solito c’era una dottoressa, non ricordo come si chiamasse, una volta mi ha curato gli occhi; dopo il lavoro portava lì una sedia di vimini e leggeva». Così sarà, Viktor caro.
È come un refolo di paura che ha sferzato i nostri volti facendoci capire che ormai manca poco.
Vorrei dirti ancora una cosa, Viktor caro... Anzi no, no.
Ora finisco la lettera, mio caro, la porto al recinto del ghetto e la consegno al mio amico. Non è facile, è l’ultima volta che parlo con te, e quando l’avrò spedita sarò per sempre lontana e non saprai mai cosa mi sarà successo nelle ultime ore. È il nostro ultimissimo addio. E cosa posso dirti prima di lasciarti per sempre? Sei stato la mia gioia, in questi giorni e in tutta la mia vita. La notte ti pensavo, ricordavo i vestitini di quand’eri bambino, i tuoi primi libri, la tua prima lettera, il primo giorno di scuola; tutto, ricordavo tutto, dai tuoi primi giorni di vita fino alle ultime notizie che ho ricevuto da te, al telegramma del 30 giugno. Chiudevo gli occhi e ti vedevo farmi da scudo contro l’orrore che avanza. Ma quando poi ricordavo che cosa stava accadendo attorno a me, ero felice che fossi lontano, che quest’orrore risparmiasse almeno te.
Sono sempre stata sola, Viktor caro. Nelle notti insonni ho pianto d’angoscia. Non l’ho mai detto a nessuno. Mi consolavo pensando che ti avrei parlato della mia vita. Del perché io e tuo padre ci fossimo lasciati, del perché fossi rimasta sola tutti quegli anni. E pensavo: come si meraviglierà il mio Viktor a sapere che sua madre ha fatto degli errori e delle pazzie, che è stata gelosa e ha fatto ingelosire, come tutti i giovani. Ma il mio destino è di morire sola, senza condividere tutto questo con te. Certe volte ho pensato che non avremmo dovuto vivere lontani, che ti amavo troppo e che l’amore mi dava il diritto di stare con te, in vecchiaia. Poi ho pensato che era proprio perché ti amavo troppo che non dovevamo vivere insieme.
Ma enfin... Sii sempre felice con coloro che ami, con coloro che hai accanto e che ora ti sono più cari di tua madre. E perdonami.
Sento piangere delle donne, per strada, sento i polizei che imprecano; guardo queste pagine e mi sento in salvo da questo mondo tremendo e pieno di dolore.
Come posso finire questa lettera? Dove troverò le forze, figlio mio? Ci sono forse parole d’uomo in grado di esprimere il mio amore per te? Ti bacio, bacio i tuoi occhi, la tua fronte, i capelli.
Ricordati che l’amore di tua madre è sempre con te, nella gioia e nel dolore, e che nessuno potrà mai portartelo via.
Viktor, mio caro... È l’ultima riga dell’ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre...
Mamma
19
Lui era ebreo ed ebrea era sua madre: prima della guerra Štrum non ci aveva mai riflettuto. Lei non gliene aveva mai parlato, né da bambino né da studente. E mai, mentre frequentava l’Università di Mosca, c’era stato compagno, professore o capo di seminario che avesse affrontato l’argomento.
Mai gli era capitato di sentire certi discorsi prima della guerra, all’Istituto o all’Accademia delle Scienze.
Mai aveva provato il desiderio di parlarne con Nadja, di spiegarle che aveva una madre russa e un padre ebreo.
Il secolo di Einstein e Planck era diventato anche il secolo di Hitler. La Gestapo e il Rinascimento scientifico erano figli della stessa epoca. Com’era umano il XIX secolo, il secolo della fisica ingenua, rispetto al XX: il XX secolo aveva ucciso sua madre. I princìpi del nazismo e quelli della fisica contemporanea si somigliavano in modo terrificante.
Il nazismo aveva respinto il concetto di individuo singolo, il concetto di «persona», e agiva per insiemi enormi. La fisica contemporanea parlava di maggiori o minori probabilità dei fenomeni nel tale o talaltro insieme di individui fisici. Ma nel suo meccanismo spaventoso il nazismo non si fondava forse sulla legge della politica dei quanti, della probabilità politica?
Il nazismo era pervenuto all’idea di eliminare interi strati della popolazione, insiemi legati dalla razza o dall’etnia, sulla base del fatto che in quegli strati e sottostrati la probabilità di un’opposizione nascosta o manifesta era maggiore che altrove. La meccanica delle probabilità e degli insiemi umani.
E invece no! Il nazismo è destinato a perire proprio perché vuole applicare all’uomo le leggi degli atomi e dei ciottoli!
Uomo e nazismo non possono convivere. Se vince il nazismo, l’uomo smetterà di esistere, resteranno solamente delle creature antropomorfe con un’anima manomessa. Se invece sarà l’uomo a vincere, l’uomo libero, razionale e buono, il nazismo perirà e gli umiliati torneranno a essere uomini.
Non stava, forse, dando ragione a Čepyžin e alla teoria della pasta lievitata11 che aveva confutato l’estate prima? Sembrava lontanissima, quella conversazione, sembravano trascorsi decenni da quella serata moscovita.
E non gli pareva di essere lui, l’uomo che camminava per piazza Trubnaja, agitato, e che ascoltava l’amico e si accendeva nella foga della discussione.
Mamma... Marusja... Tolja...
C’erano momenti in cui la scienza era, per lui, l’inganno che impedisce di cogliere la follia e la crudeltà della vita.
E forse non era un caso che fosse diventata l’ancella di un secolo tremendo, che gli avesse offerto il braccio. Come si sentiva solo... Non aveva nessuno a cui confidare quei pensieri. Čepyžin era lontano. Per Postoev erano bizzarrie prive di interesse.
Sokolov era incline alla mistica, a una strana rassegnazione religiosa di fronte alla crudeltà e all’ingiustizia di Cesare.
C’erano due scienziati eccellenti nel suo laboratorio: Markov, fisico sperimentale, e Savost’janov, un cervellone che amava alzare il gomito. Ma se Štrum avesse provato a parlare di certi argomenti con loro, gli avrebbero dato del pazzo.
Prese dal tavolo la lettera della madre e la rilesse.
«Viktor caro, per quanto mi trovi oltre la linea del fronte e dietro il filo spinato di un ghetto ebraico, sono convinta che questa mia lettera giungerà fino a te... Dove troverò le forze, figlio mio...».
E per l’ennesima volta sentì una lama gelata contro la gola.
20
Ljudmila Nikolaevna prese dalla cassetta della posta una lettera che veniva dal fronte.
Entrò nella stanza a grandi passi e, avvicinata la busta alla luce, strappò un angolo di quella carta rozza.
Per un attimo le parve che dalla busta cadesse una fotografia di Tolja neonato, quando ancora non reggeva la testa, nudo su un cuscino con i piedini per aria e le labbra imbronciate.
In qualche strano modo, senza neanche leggere le parole, ma lasciandosi impregnare da quelle righe in bella grafia scritte da un ragazzo istruito ma non troppo, capì che suo figlio era vivo, che era in vita!
Lesse che Tolja aveva due brutte ferite al petto e a un fianco, che aveva perso molto sangue, che era debole e non era in grado di scrivere, e che da quattro settimane la febbre non scendeva... Ma la disperazione di un attimo prima era stata tale e tanta, che la gioia le velò gli occhi di lacrime.
Uscì sulle scale, lesse le prime righe e, ormai calma, si diresse alla legnaia. Là, in quella penombra fredda, lesse la parte centrale, poi la conclusione, e pensò che quella lettera fosse un addio.
Ljudmila Nikolaevna cominciò a mettere la legna in un sacco. E sebbene il dottore che l’aveva in cura a Mosca al CEKUBU di vicolo Gagarin, il Policlinico degli scienziati, le avesse detto di non sollevare pesi superiori ai tre chilogrammi e di fare solo movimenti fluidi e lenti, con un gemito da contadina si gettò sulle spalle il sacco pieno di ceppi secchi e salì di corsa al primo piano. Lasciò cadere la legna sul pavimento e i piatti che erano sul tavolo sussultarono tintinnando.
Si infilò il cappotto, si annodò un fazzoletto sulla testa e uscì.
La gente le passava accanto e si voltava a guardarla.
Attraversò la strada, un tram suonò – brusco – e la conducente alzò il pugno minacciosa.
Se avesse svoltato a destra, il vicolo l’avrebbe condotta alla fabbrica dove lavorava la madre.
Se Tolja fosse morto, suo padre non l’avrebbe mai saputo, pensò. Chissà in quale lager era... O magari era già morto da un pezzo.
Ljudmila Nikolaevna si diresse verso l’Istituto del marito. Passando accanto a casa dei Sokolov, entrò nel cortile e bussò alla finestra, ma la tendina non si mosse: Mar’ja Ivanovna non c’era.
«Viktor Pavlovič è appena tornato nel suo ufficio» le disse qualcuno, e lei ringraziò senza capire chi le avesse parlato, se un uomo, una donna, un conoscente o uno sconosciuto. Attraversò il laboratorio dove, come sempre, erano in pochi a darsi da fare. Di solito gli uomini chiacchieravano, oppure leggevano un libro fumando una sigaretta; le donne, invece, erano sempre impegnate: preparavano il tè nelle provette, si toglievano lo smalto con i solventi, lavoravano ai ferri...
Notava tutto, lei, tutto quanto, anche la carta con cui un inserviente si stava confezionando una sigaretta. Nell’ufficio di Viktor Pavlovič la salutarono chiassosamente, e Sokolov le andò subito incontro, di corsa o quasi, agitando una grossa busta bianca:
«Abbiamo una speranza, può essere che ci rimandino a Mosca armi e bagagli, apparecchiature e famiglia. Mica male, eh? Non dicono con precisione quando, ma comunque...».
Provò odio per quel volto infervorato, per quegli occhi. Anche Mar’ja Ivanovna le sarebbe corsa incontro a quel modo? No, lei no. Lei avrebbe capito subito, gliel’avrebbe letto in faccia.
Se avesse saputo di incontrare tanti visi felici, non sarebbe andata da Viktor. Anche lui era contento, quella sera la sua contentezza sarebbe entrata in casa insieme a lui, e anche Nadja sarebbe stata felice di lasciare l’odiata Kazan’.
Ma tutta quella gente valeva forse il giovane sangue che aveva pagato la loro gioia?
Alzò gli occhi pieni di astio verso il marito.
E gli occhi di lui guardarono gli occhi di lei, scuri, compresero tutto e si riempirono di angoscia.
Una volta soli, le disse che aveva capito subito che era successa una disgrazia.
Lesse la lettera e disse:
«Che cosa possiamo fare, Dio mio, cosa?».
Štrum si infilò il cappotto e si diressero all’uscita.
«Per oggi non torno» disse a Sokolov, che aveva accanto il nuovo capo del personale, Dubenkov, un tipo alto con la testa tonda e una bella giacca alla moda troppo stretta per le sue spalle robuste.
Lasciata per un attimo la mano di Ljudmila, Štrum bisbigliò a Dubenkov:
«Volevamo cominciare a stilare gli elenchi per Mosca, ma oggi non ce la faccio, le spiego poi perché».
«Non se ne dia pensiero, Viktor Pavlovič» disse Dubenkov con la sua voce di basso. «Non c’è fretta. Sono programmi a lungo termine, penso io al lavoro di preparazione».
Sokolov gli fece un cenno con la mano, chinò la testa e Štrum capì che aveva intuito il loro nuovo dolore.
Un vento freddo batteva le strade e alzava la polvere, ora in piccoli vortici, ora spargendola all’improvviso come farina nera e inutile. C’era un’asprezza implacabile in quel freddo, nel battere d’ossa dei rami, nell’azzurro gelido delle rotaie dei tram.
La moglie volse verso di lui il viso ringiovanito dalla sofferenza, scavato, intirizzito, e lo guardò con insistenza, implorante.
Un tempo avevano avuto una gatta che al primo parto non era riuscita a far nascere il suo gattino; agonizzando, era strisciata fino a Štrum piangendo e fissandolo con i suoi occhi chiari sgranati. Ma a chi potevano rivolgersi, chi dovevano implorare in quel cielo enorme e vuoto, su quella terra polverosa e senza pietà?
«Quello è l’ospedale militare dove lavoravo» disse lei.
«Ljuda!» disse lui all’improvviso. «Lì sapranno sicuramente leggere tra le righe di una lettera dal fronte. Perché non ci abbiamo pensato prima!».
La vide salire le scale e parlare con la guardia.
Štrum faceva avanti e indietro: arrivava all’angolo della strada e tornava all’ingresso dell’ospedale. I passanti gli correvano accanto con le retine della spesa: dentro a barattoli di vetro, pasta e patate grigie galleggiavano in una brodaglia altrettanto grigia.
«Viktor» lo chiamò la moglie.
Dalla voce capì che era tornata in sé.
«Dunque» disse. «È a Saratov. Il viceprimario c’è stato da poco. Mi ha scritto la via e il numero civico».
E subito ci furono un’infinità di cose da fare, un’infinità di domande: quando partiva la nave, come procurarsi il biglietto, come mettere insieme un po’ di cibo e vestiti, a chi chiedere in prestito dei soldi e come ottenere una trasferta di lavoro a Saratov per poterci arrivare senza problemi.
Ljudmila Nikolaevna partì senza abiti né cibarie, praticamente senza soldi, e salì sulla nave senza biglietto, nella calca generale di chi si imbarcava.
Portò con sé solo il ricordo dei saluti in quella sera scura d’autunno: la madre, il marito e Nadja. Onde nere sciabordavano contro le fiancate della nave, un vento contrario sferzava ululando l’acqua del fiume, strappandole qualche schizzo.
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