lunedì 11 aprile 2022

IL FRUTTO DEL FUOCO Storia di una vita 1921-1931 Elias Canetti

  

 

 


IL FRUTTO DEL FUOCO

Storia di una vita 1921-1931

Elias Canetti 

[...] Bisogna ammettere, tuttavia, che perdurava ancora l’effetto della guerra appena conclusa. Nessuno poteva dimenticare le manifestazioni di ferocia omicida di cui era stato personalmente testimone. Molti vi avevano partecipato attivamente, e adesso erano tornati. Costoro sapevano bene di quali atrocità erano stati capaci – per obbedire agli ordini – e ora si aggrappavano avidamente a tutte le spiegazioni che la psicoanalisi metteva a disposizione riguardo alle loro inclinazioni omicide. La banalità della coazione collettiva alla quale si erano assoggettati si rispecchiava nella banalità di quella spiegazione. Già il solo constatare che chiunque beneficiasse del complesso edipico diventava immediatamente un essere inoffensivo faceva davvero uno strano effetto. Moltiplicandosi per mille, anche il destino più spaventoso si volatilizza, si riduce a un granellino di sabbia. Il mito penetra nell’uomo, lo afferra alla gola, lo scuote. Ma la ‘legge di natura’ a cui il mito viene ridotto non è altro che il piffero che lo fa ballare alla sua musichetta.[...]

[...] Una via verso la realtà, infatti, passa attraverso le immagini. Non credo che ne esista una migliore. Ci teniamo stretti a ciò che non muta e così riusciamo a far affiorare ciò che muta perennemente. Le immagini sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane. Qualcosa scivola 

     via e qualcosa va a male, ma uno riprova, le reti le portiamo con noi, le gettiamo e, via via che pescano, diventano più forti. È importante, però, che queste immagini esistano anche al di fuori della persona, in lui sono anch’esse soggette al mutamento. Deve esserci un luogo dove uno possa ritrovarle intatte, e non uno solo di noi, ma chiunque si senta nell’incertezza. Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell’esperienza, ci rivolgiamo a un’immagine. Allora l’esperienza si ferma, e la guardiamo in faccia. Allora ci acquietiamo nella conoscenza della realtà, che è nostra, anche se qui era stata prefigurata per noi. Apparentemente, essa potrebbe esistere anche senza di noi. Ma questa apparenza è ingannevole, l’immagine ha bisogno della nostra esperienza, per destarsi. Così si spiega che certe immagini rimangano assopite per generazioni: nessuno è stato capace di guardarle con l’esperienza che avrebbe potuto ridestarle.


    Forte si sente colui che trova le immagini di cui la sua esperienza ha bisogno. Saranno molte, ma non possono essere troppe, perché la loro funzione consiste proprio nel tenere insieme la realtà, che altrimenti si disperderebbe in mille rivoli. E neanche dovrebbe essere un’unica immagine, che fa violenza a chi la possiede, non lo abbandona e gli impedisce di trasformarsi. Sono molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, e se le troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto [...]


IL FRUTTO DEL FUOCO

PARTE PRIMA

INFLAZIONE E IMPOTENZA
Francoforte 1921-1924

Pensione Charlotte

I cambiamenti di scena dei miei primi anni li accettai senza opporre resistenza. Non ho mai rimpianto di essere stato esposto da bambino a impressioni tanto forti e contrastanti. Ogni posto nuovo, per quanto estraneo mi apparisse all’inizio, mi conquistava per l’impronta peculiare che lasciava in me e per le sue imprevedibili diramazioni.

Un solo passo ho vissuto con amarezza: la ferita per il distacco da Zurigo non si è mai rimarginata. Avevo sedici anni e mi sentivo così legato agli uomini, ai luoghi, alla scuola, al paese, alla poesia, persino alla lingua che mi ero conquistato vincendo l’ostinata resistenza della mamma, che non avrei voluto lasciarli mai più. A Zurigo avevo passato cinque anni soltanto, ero ancora giovanissimo, eppure mi sembrava di non dover più andare in nessun altro posto: a Zurigo avrei voluto passare tutta la mia vita, in un benessere spirituale sempre più grande.

Fu uno strappo violento, e tutte le ragioni che avevo messo in campo per difendere il mio desiderio di rimanere erano state derise. Dopo il colloquio annientatore che aveva deciso il mio destino, mi sentivo un essere ridicolo e meschino, un pavido che pensa solo ai libri e non sa guardare la vita in faccia, un presuntuoso imbevuto di un falso sapere, che non serve a nulla, un essere angusto e soddisfatto di sé, un parassita, uno che vive di rendita, già vecchio prima di aver affrontato una qualsiasi prova.

Nel nuovo ambiente, la cui scelta era dipesa da circostanze che per me rimasero oscure, reagii in due modi alla brutalità del cambiamento. Innanzitutto con la nostalgia, che era ritenuta una malattia tipica degli abitanti del paese in cui ero vissuto; provando una fortissima nostalgia mi sentivo proprio uno di loro. Ma reagii anche con un atteggiamento critico verso il mio nuovo ambiente. Era finita per sempre l’epoca in cui l’ignoto si riversava in me senza incontrare ostacoli. Ora cercavo di chiudermi a un ignoto che mi era stato imposto contro la mia volontà. Ma di ripulse totali e indiscriminate non ero capace, essendo, per carattere, troppo ricettivo, e così cominciò un periodo di verifiche puntuali e di asprezza satirica. Delle cose diverse da come le conoscevo esageravo la stranezza e finivo per trovarle buffe. E, come se non bastasse, molte novità si presentarono insieme.

Ci eravamo trasfeiriti a Francoforte e, siccome la situazione era incerta e non sapevamo ancora per quanto tempo saremmo rimasti in quella città, andammo ad abitare in una pensione. Vivevamo in due stanze, un po’ pigiati; non eravamo mai stati a contatto così stretto con altra gente, e, pur sentendoci una famiglia a sé, mangiavamo giù a pianterreno con tutti gli altri al lungo tavolo comune. Nella pensione Charlotte conoscemmo persone d’ogni genere, le vedevo tutti i giorni a pranzo, cambiavano solo ogni tanto. Alcune si trattennero per tutto il periodo, due anni, che passai in quella pensione, altre soltanto per un anno, oppure per sei mesi; erano persone molto diverse tra loro, e tutte mi sono rimaste impresse nella memoria; dovevo stare però molto attento per capire di che cosa parlavano. I miei fratelli, che avevano allora undici e tredici anni, erano i pensionanti più giovani e subito dopo venivo io, coi miei sedici anni.

Non sempre gli ospiti si incontravano giù in sala da pranzo. La signorina Rahm, una mannequin snella, giovane, biondissima, la bellezza alla moda della pensione, scendeva per il pranzo solo ogni tanto. Mangiava poco, per via della linea, ma tanto più era presente nei discorsi degli altri. Non c’era uomo che non la seguisse con lo sguardo, non c’era uomo che non la desiderasse; e poiché si sapeva che oltre al suo accompagnatore fisso, il proprietario di un negozio di abbigliamento maschile che non abitava nella pensione, anche altri uomini andavano ogni tanto a trovarla, molti facevano dei progetti su di lei con il tono compiaciuto di chi ha messo gli occhi su qualcosa che gli spetta di diritto e che, prima o poi, potrebbe anche essere suo. Le donne le tagliavano i panni addosso. Gli uomini, se osavano parlare di lei davanti alla moglie, oppure se erano soli, mettevano invece una buona parola, soprattutto lodavano la sua figura elegante; era così alta e snella – dicevano – che lo sguardo, correndo lungo il suo corpo, non sapeva dove fermarsi.

A capotavola sedeva la signora Kupfer, scura di pelle e consumata dalle preoccupazioni, una vedova di guerra che mandava avanti la pensione per mantenere se stessa e il figlio, donna ordinatissima, precisa, sempre compresa delle difficoltà del momento, ma solo di quelle traducibili in cifre; «Io questo non posso permettermelo» era la sua frase preferita. Alla sua destra sedeva il figlio Oskar, un giovane tarchiato con sopracciglia foltissime e fronte bassa. A sinistra della signora Kupfer sedeva il signor Rebhuhn, un uomo piuttosto anziano, sofferente d’asma, un funzionario di banca estremamente affabile, che si aggrondava e si infuriava soltanto quando il discorso cadeva sull’esito che aveva avuto la guerra. Pur essendo ebreo, era un fervente nazionalista, e, se qualcuno lo contraddiceva su quell’argomento, vibrava rapido come il baleno – lui, di solito così accomodante – la sua ‘pugnalata’. Si agitava tanto che gli veniva un attacco d’asma e allora sua sorella, la signorina Rebhuhn, che viveva con lui nella pensione, era costretta a portarlo via. Ma poiché questa sua suscettibilità era nota e inoltre tutti sapevano quanto l’asma lo facesse soffrire, di solito a tavola si evitava di portare il discorso su quel punto dolente, così che le sue esplosioni erano assai rare.

Solo il signor Schutt, sofferente per una ferita di guerra non certo meno grave dell’asma del signor Rebhuhn (era sempre molto pallido, poteva camminare solo con le grucce e aveva dei dolori così forti che per sopportarli doveva ricorrere alla morfina), solo il signor Schutt, dicevo, parlava senza peli sulla lingua. Odiava la guerra e si rammaricava che fosse finita troppo tardi, quando lui ormai era stato gravemente ferito; quella guerra, sottolineava, l’aveva prevista, aveva sempre pensato che il Kaiser fosse un pericolo pubblico; lui era un socialista indipendente e al Reichstag avrebbe votato senza esitare contro i crediti di guerra. Era stata un’idea quanto mai infelice far sedere quei due, il signor Rebhuhn e il signor Schutt, così vicini a tavola, separati soltanto dall’anziana signorina Rebhuhn. Nel momento del pericolo lei si girava a sinistra, verso il suo vicino, protendeva dolcemente le labbra da vecchia zitella, ci metteva davanti l’indice e lanciava al signor Schutt una lunga occhiata supplichevole, mentre con l’indice della mano destra rivolto obliquamente verso il basso accennava con precauzione al fratello. Il signor Schutt, di solito così accanito, capiva, e quasi sempre si bloccava, perlopiù lasciando addirittura la frase a mezzo; del resto, parlava a voce bassissima, tanto che bisognava ascoltare molto attentamente per capire qualcosa. Così, grazie alla vigilanza della signorina Rebhuhn, che tendeva sempre l’orecchio alle frasi del signor Schutt, la situazione era salva. Il signor Rebhuhn non si era mai accorto di nulla, e certo non cominciava per primo, era l’uomo più pacifico e soave del mondo. Solo se qualcuno si metteva a parlare della fine della guerra, approvandone il carattere insurrezionale, la ‘pugnalata’ gli saliva fulminea alle labbra, ed egli si gettava nella mischia con cieco furore.

Ma sarebbe sbagliatissimo credere che a tavola questo tipo di tensioni fossero abituali. Quel conflitto è l’unico che mi sia rimasto in mente, e forse l’avrei perfino dimenticato se dopo un anno non si fosse a tal punto acuito che diventò necessario allontanare da tavola entrambi i contendenti, il signor Rebhuhn come sempre al braccio della sorella, il signor Schutt assai più faticosamente sulle sue grucce, aiutato dalla signorina Kündig, una professoressa che viveva nella pensione da molto tempo, aveva fatto amicizia con lui e in seguito lo sposò, per dargli una casa sua e assisterlo più convenientemente.

La signorina Kündig era una delle due professoresse ospiti della pensione. L’altra, la signorina Bunzel, aveva il viso butterato e una voce un po’ piagnucolosa, come se a ogni frase si lamentasse per la propria bruttezza. Nessuna delle due poteva dirsi giovane, avevano circa quarant’anni, e insieme rappresentavano la cultura nella pensione. Zelanti lettrici della «Frankfurter Zeitung», erano sempre aggiornate sui grandi temi del momento, si capiva che erano alla ricerca di interlocutori che sapessero dimostrarsi all’altezza della loro conversazione. Ma se anche non trovavano nessuno che avesse voglia di dire la sua su Unruh o su Binding, su Spengler o sul Vincent di Meier-Graefe, le signorine non si dimostravano comunque prive di tatto: memori di ciò che dovevano alla proprietaria della pensione, in certe circostanze sapevano tacere. Mai, del resto, si poteva avvertire una sfumatura di scherno nella voce piagnucolosa della signorina Bunzel. E la signorina Kündig, che era di modi assai più giovanili e aggrediva con pari vivacità gli uomini e i temi culturali, era sempre in attesa di incontrare le due cose insieme, poiché un uomo a cui lei non potesse parlare avrebbe avuto occhi soltanto per la signorina Rahm, la mannequin. Una persona a cui lei non potesse fornire le sue delucidazioni su questo o su quello, non l’avrebbe comunque mai interessata; per questo motivo – confessò a mia madre a quattr’occhi – non si era ancora sposata, benché fosse, a differenza della collega, una donna attraente. Un uomo che non prendesse mai un libro in mano per lei non era neanche un uomo; meglio piuttosto restare libera, senza le preoccupazioni di una casa da mandare avanti. Nemmeno di avere dei bambini aveva poi questa gran voglia, ne vedeva in giro anche troppi. Andava a teatro e ai concerti, e quando ne parlava amava seguire l’impostazione della «Frankfurter Zeitung». Era una cosa davvero strana, diceva, come i critici fossero sempre del suo stesso parere.

A mia madre, la quale detestava l’estetismo decadente dei viennesi e in compenso aveva un debole per il modo di esprimersi dei tedeschi colti, che le era familiare fin dai tempi di Arosa, la signorina Kündig piaceva; le credeva, e non fece commenti maligni quando notò il suo interesse per il signor Schutt. Questi, a dire il vero, era un uomo troppo amareggiato per mettersi a conversare di arte o di letteratura, e quando la signorina Kündig gli parlava di Binding, da lei apprezzato non meno di Unruh (entrambi comparivano spesso sulle colonne della «Frankfurter Zeitung»), lui si limitava a reagire con un brontolio semirepresso. Una volta che il discorso cadde sul nome di Spengler, cosa allora inevitabile, il signor Schutt dichiarò: «Al fronte quello non c’è stato. Non mi risulta», al che il signor Rebhuhn obiettò in tono pacato: «Non mi pare che per un filosofo abbia molta importanza».

«Per un filosofo della storia forse sì» intervenne la signorina Kündig, e da ciò si poteva dedurre che, con il dovuto rispetto per Spengler, lei stava dalla parte del signor Schutt. Ma quella volta non si arrivò al conflitto. Già nel fatto che il signor Schutt esigesse da qualcuno il servizio al fronte e invece il signor Rebhuhn fosse propenso a esimerlo c’era una nota conciliante, come se i due si fossero scambiate le parti. Tuttavia la questione vera e propria – se Spengler fosse stato al fronte oppure no – per quella via non fu risolta, tanto che io ancora oggi lo ignoro. Alla signorina Kündig, era evidente, il signor Schutt faceva pena. Per un bel pezzo riuscì a nascondere questo suo sentimento dietro espressioni un po’ goliardiche, come «il nostro soldatino» oppure «eccolo qui ancora una volta». Dal volto di lui non si riusciva a capire se quelle frasi gli facevano piacere, la trattava in modo perfettamente neutro, come se lei non gli avesse mai rivolto la parola; tuttavia, entrando in sala da pranzo la salutava con un cenno del capo, mentre non degnava neppure di uno sguardo la signorina Rebhuhn, seduta alla sua destra. Un giorno che noi tre eravamo rimasti a scuola più a lungo del solito e ancora non eravamo a tavola, il signor Schutt aveva domandato alla mamma: «Dov’è la sua carne da cannone?» – come lei stessa ci raccontò poi con grande sdegno. «Mai e poi mai!» aveva ribattuto la mamma, adirata, e lui aveva aggiunto in tono sarcastico: «Mai più guerre!».

Comunque il signor Schutt apprezzava la fiera avversione che la mamma nutriva per la guerra, che pure non aveva mai conosciuto da vicino, e le sue osservazioni provocatorie erano intese, se mai, a confermarla in quei sentimenti. Fra i pensionanti c’era anche gente ben diversa, che egli sembrava ignorare a tutti gli effetti. Per esempio una giovane coppia, i Bemberg, che sedevano alla sua sinistra: lui, agente di borsa, aveva un gran fiuto per gli affari e lodava persino l’‘abilità’ della signorina Rahm, intesa come capacità di destreggiarsi fra i numerosi spasimanti. «È la più chic di tutte le giovani signore di Francoforte» diceva, ed era fra i pochissimi che non l’avevano presa di mira; ciò che aveva fatto colpo su di lui era «il suo fiuto per i quattrini» e il suo modo scettico di reagire ai complimenti. «Quella non si lascia abbindolare. Vuol prima sapere che cosa c’è dietro».

Sua moglie, un vero concentrato della moda del giorno (ciò che meno stonava era ancora la pettinatura alla maschietta), era una donna ‘leggera’ in senso diverso dalla signorina Rahm. Veniva dalla buona borghesia, ma nessuno l’avrebbe mai detto. Era chiaro che si comprava tutto ciò che le faceva piacere, ma che teneva veramente a poche cose. Frequentava le mostre di pittura e guardava con interesse le toilette dei ritratti femminili; confessava un debole per Lucas Cranach e lo spiegava con la sua «pazzesca» modernità – ma il verbo ‘spiegare’ suona davvero prolisso, rispetto alle sue scarne interiezioni. I Bemberg si erano conosciuti ballando lo shimmy. Erano ancora due perfetti estranei, eppure sapevano già tutti e due, confessava lui non senza fierezza, che «dietro» c’era qualcosa, soprattutto da parte di lei, ma lui era già considerato un giovane agente di borsa assai promettente. Lui la trovò «chic», la invitò a ballare e la chiamò subito «Pattie». «Lei mi ricorda Pattie,» le disse «una ragazza americana». Lei volle sapere se «Pattie» era stata il suo primo amore. «Per così dire» rispose lui. Lei capì, trovò «pazzesco» che la sua prima fiamma fosse stata un’americana e si tenne il nome di Pattie. Lui la chiamava così davanti a tutti i pensionanti, e quando lei non veniva a pranzo diceva: «Oggi Pattie non ha fame. Pensa alla linea».

Avrei certo dimenticato quella coppia inoffensiva, se non fosse per il signor Schutt, che riusciva a trattarli come se non esistessero. Quando arrivava, appoggiandosi sulle grucce, era come se quei due si fossero dileguati. Non udiva il loro saluto, non vedeva le loro facce, e la signora Kupfer, che solo in memoria del marito caduto in guerra tollerava la presenza del signor Schutt nella pensione, neppure una volta osò pronunciare davanti a lui le parole «signor Bemberg» o «signora Bemberg». I due sopportavano senza protestare quel boicottaggio che, partito dal signor Schutt, non si era tuttavia esteso agli altri pensionanti. Era come se i Bemberg compatissero l’invalido, che a loro sembrava un pover’uomo da ogni punto di vista, e anche se la compassione non era particolarmente intensa, si trattava pur sempre di un sentimento in grado di contrapporsi efficacemente al suo disprezzo.

All’altro capo del tavolo i contrasti erano meno acuti. Vi sedeva il signor Schimmel, un caporeparto che sprizzava salute da tutti i pori, con i baffi tesi e le guance rosse, un ex ufficiale che mai dimostrava amarezza o scontento. Il sorriso che non abbandonava mai il suo volto era una sorta di stato d’animo, ed era rassicurante constatare che esistono esseri così immodificabili. Neppure il tempo, per orribile che fosse, riusciva ad alterare il suo umore, e l’unica cosa un po’ sorprendente era che tanta contentezza restasse sola e che, per rimanere tale, non avesse bisogno di alcun complemento. Trovarlo non sarebbe stato difficile, poiché, non lontano dal signor Schimmel, sedeva la signorina Parandowski, commessa, bella e fiera creatura con una testa da statua greca, che non si lasciava affatto confondere dai riferimenti della signorina Kündig alla «Frankfurter Zeitung», e sulla quale le lodi del signor Bemberg alla signorina Rahm scivolavano via come acqua fresca. «Io non potrei» diceva scuotendo il capo. Non aggiungeva nulla, ma era chiaro che cosa non avrebbe potuto. La signorina Parandowski ascoltava, ma interveniva raramente; l’imperturbabilità le donava. I baffi del signor Schimmel – che le sedeva quasi di fronte – sembravano spazzolati a dovere soltanto per lei, quei due erano fatti l’uno per l’altra. Eppure lui non le rivolgeva mai la parola, mai una volta che entrassero o uscissero insieme dalla sala, sembrava che si fossero messi d’accordo per dimostrare che fra loro non c’era niente. La signorina Parandowski non aspettava che il signor Schimmel si alzasse e spesso veniva a tavola molto prima di lui. Una cosa però li accomunava, il mutismo, ma lui sorrideva sempre come se non stesse pensando a niente, lei invece, il capo fieramente eretto, era serissima, come se stesse sempre pensando a qualcosa.

Che sotto ci fosse un mistero era chiaro a tutti, ma ogni tentativo della signorina Kündig, che sedeva poco lontano, per venirne a capo naufragò miseramente contro la monumentale resistenza di entrambi. Una volta la signorina Bunzel si lasciò andare a tal punto da mormorare «Cariatide!» dietro la signorina Parandowski, mentre la signorina Kündig salutò gaiamente il signor Schimmel con «Arriva la cavalleria!». La signora Kupfer la redarguì immediatamente, che alla sua tavola non si permettesse mai più – disse – apprezzamenti personali sugli altri ospiti, ma la signorina Kündig approfittò di quella ramanzina per domandare chiaro e tondo al signor Schimmel se aveva qualcosa da eccepire contro un simile appellativo. «Mi ritengo onorato;» rispose il signor Schimmel con un sorriso «ho servito fra i cavalleggeri». «E tale resterà fino alla fine dei suoi giorni». In questo modo sarcastico soleva reagire il signor Schutt alle scappatelle della signorina Kündig, ancor prima che fosse risaputo che fra loro c’era del tenero.

Eravamo a Francoforte da circa sei mesi quando si presentò nella pensione il signor Caroli, uno spirito superiore. Riusciva a tenere tutti a debita distanza perché aveva letto molto. Le sue osservazioni sarcastiche, che si rivelavano frutti accuratamente canditi delle sue letture, mandavano in visibilio la signorina Kündig, la quale, se non riusciva a scoprire la fonte della citazione, implorava umilmente delucidazioni. «La prego, la supplico, mi dica questa dove l’ha presa! Me lo dica, la prego, altrimenti non riuscirò a prender sonno neppure stanotte». «Ma dove crede che l’abbia presa,» rispondeva il signor Schutt al posto del signor Caroli «l’ha presa certo dal Büchmann, come tutti i suoi discorsi». Errore gravissimo, e pessima figura del signor Schutt, perché nemmeno una delle citazioni del signor Caroli era tratta dal Büchmann. «Piuttosto che ricorrere al Büchmann preferirei avvelenarmi;» ribatteva quest’ultimo «io cito soltanto le cose che ho letto per davvero». E nella pensione erano tutti convinti che dicesse la verità. L’unico a dubitarne ero io, perché il signor Caroli ci ignorava. Neppure la mamma gli piaceva, che in fatto di cultura avrebbe potuto senz’altro tenergli testa, perché a tavola i suoi figli, cioè noi tre, rubavano il posto agli adulti e per colpa nostra bisognava reprimere le battute più spiritose. In quel periodo stavo leggendo i tragici greci, e quando un giorno il signor Caroli citò un passo dell’Edipo re (ne aveva visto una rappresentazione a Darmstadt), io continuai la citazione; egli fece finta di non sentire e poiché io, ostinato, ripetei la citazione, egli si voltò di scatto verso di me domandando in tono tagliente: «L’avete fatto oggi a scuola?». Per la verità, io intervenivo così raramente nella conversazione, che quella lezioncina per tapparmi la bocca una volta per tutte era davvero ingiusta, e anche gli altri commensali se ne resero conto. Ma temevano la sua ironia, e così nessuno protestò, ed io, mortificato, non dissi più nulla.

Il signor Caroli, oltre a ricordare una quantità di citazioni a memoria, sapeva fabbricarne di false con grande maestria, e poi aspettava, per vedere se qualcuno aveva colto la sua prodezza. La signorina Kündig, appassionata frequentatrice di teatri, era fra tutti quella che lo seguiva più da vicino. Il signor Caroli, che era un uomo veramente spiritoso, dimostrava grande talento soprattutto nel parodiare le frasi più serie e commoventi. Non poté evitare che la signorina Rebhuhn, l’anima più sensibile della compagnia, gli dicesse che per lui nulla era sacro, ma ebbe la sfacciataggine di ribattere: «Feuerbach no davvero». Tutti sapevano che per la signorina Rebhuhn Feuerbach era – lasciando da parte il fratello asmatico – una vera e propria ragione di vita. «Avrei voluto essere Ifigenia» diceva (quella di Feuerbach, naturalmente). Il signor Caroli, un uomo di circa trentacinque anni con un modo di fare da meridionale, abituato a sentirsi dire dalle donne che la sua fronte sembrava quella di Trockij, non era tenero con nessuno, neppure con se stesso, e una volta rispose alla signorina Rebhuhn che lui, invece, avrebbe preferito essere Rathenau. Mancavano esattamente tre giorni all’assassinio di Rathenau. Fu quella l’unica occasione in cui vidi il signor Caroli perdere il controllo. Mi guardò in faccia con le lacrime agli occhi – benché fossi solo uno studentello – e mi disse: «Questa è la fine!».

Il signor Rebhuhn, quell’uomo così affabile e innamorato dell’Imperatore, fu l’unico a non essere sconvolto dall’assassinio di Rathenau. Apprezzava il vecchio Rathenau assai più del giovane, al quale non perdonava di essere entrato al servizio della Repubblica. Ammetteva, tuttavia, che prima, durante la guerra, egli aveva reso qualche servizio al paese, quando la Germania aveva ancora il proprio orgoglio, quando ancora era un impero. «Quelli accopperanno tutti, tutti» disse cupo il signor Schutt. Il signor Bemberg nominò, per la prima volta nella sua vita, la classe operaia: «Questa, la classe operaia non la farà passar liscia!». Il signor Caroli disse: «Bisognerebbe emigrare!» e la signorina Rahm, che non poteva soffrire gli assassinii, perché spesso portavano ad altre conseguenze, aggiunse: «Mi porta via con sé?». Il signor Caroli non se lo fece ripetere due volte. Da quel giorno abbandonò ogni pretesa intellettuale, le fece apertamente la corte e fu visto, con gran dispetto delle signore, entrare nella sua stanza per uscirne soltanto alle dieci di sera.

Una visita di riguardo

Alla mensa della pensione Charlotte la mamma godeva di una certa considerazione, ma non aveva un ruolo dominante. Anche quando si opponeva a Vienna, ne conservava l’impronta. Di Spengler sapeva soltanto ciò che poteva dirle il titolo della sua opera. Della pittura non le era mai importato gran che, perciò quando van Gogh, con l’uscita del Vincent di Meier-Graefe, divenne l’argomento più nobile delle conversazioni a tavola, lei non era in grado d’intervenire, e una volta che si lasciò trascinare a dire la sua non fece una gran bella figura. I girasoli non hanno profumo, disse, la cosa migliore sono ancora i semi, che almeno si possono sgranocchiare. Seguì alle sue parole un silenzio imbarazzato, antesignana la signorina Kündig, che era la persona più competente, in quella tavolata, nel campo dell’attualità culturale e che, in effetti, si appassionava a molti degli argomenti trattati sulle pagine della «Frankfurter Zeitung». Proprio allora stava cominciando a diffondersi la religione di van Gogh; una volta la signorina Kündig disse che solo da quando aveva conosciuto la vita di van Gogh le si erano finalmente aperti gli occhi sul vero significato del Cristo. Il signor Bemberg protestò energicamente contro una simile affermazione; il signor Schutt la trovò esagerata; il signor Schimmel sorrise; la signorina Rebhuhn piagnucolò: «Però non ha niente di musicale!» (si riferiva a van Gogh) e, avvedendosi che nessuno aveva capito la sua frase, aggiunse senza scomporsi: «Vi immaginate van Gogh che dipinge il Concerto campestre?».

A quel tempo di van Gogh non sapevo nulla, perciò quando salimmo in camera nostra chiesi delucidazioni alla mamma. Ma ne sapeva talmente poco che mi vergognai per lei. Disse addirittura (prima non l’avrebbe mai fatto): «È un pazzo, che ha dipinto sedie di paglia e girasoli, sempre tutto giallo, non poteva soffrire nessun altro colore, finché gli ha proprio dato di volta il cervello e si è sparato una pallottola in testa». Queste informazioni mi lasciarono molto insoddisfatto, sentivo che la follia che la mamma gli attribuiva era un’accusa rivolta a me. Da qualche tempo la mamma condannava ogni forma di esaltazione, un artista su due per lei era un «pazzo», ma si riferiva solo ai moderni (e in particolare ai viventi), gli altri, gli artisti del passato con i quali era cresciuta, li lasciava stare. A nessuno, poi, permetteva di toccare il suo Shakespeare, e se a pranzo il signor Bemberg o qualche altro incauto si permetteva di dire quanto avesse trovato noioso questo o quel dramma di Shakespeare – era proprio ora di finirla, bisognava al più presto sostituire Shakespeare con qualche autore più moderno – la mamma viveva i suoi grandi momenti, gli unici che ancora le fossero concessi al tavolo della pensione.

Allora, finalmente, tornava a essere quella di una volta, suscitando in me l’antica ammirazione. Con poche frasi folgoranti annientava il povero signor Bemberg, che si guardava pietosamente intorno sperando in un aiuto che nessuno era disposto a dargli. Quando era in gioco Shakespeare, la mamma non si curava più di nulla, non aveva riguardi per nessuno, non le importava più niente di quello che gli altri pensavano di lei, e quando una volta concluse dicendo che per gli uomini scialbi di quei tempi d’inflazione, uomini che pensavano soltanto al denaro, Shakespeare non era davvero l’autore adatto, i cuori più diversi fremettero per lei: dalla signorina Kündig, che ammirava il suo slancio e il suo temperamento, al signor Schutt, vera incarnazione del tragico, anche se non avrebbe mai usato questa parola, fino alla signorina Parandowski, che era sempre dalla parte della fierezza e in Shakespeare immaginava qualcosa di estremamente fiero. Perfino il sorriso del signor Schimmel ebbe un che di arcano quando, fra lo stupore generale, fece il nome di Ofelia, e poi, temendo di averlo pronunciato male, lo ripeté un’altra volta più lentamente. «Il nostro cavalleggero è stato all’Amleto,» disse la signorina Kündig «chi l’avrebbe mai detto» – ma fu subito interrotta dal signor Schutt: «Si può benissimo pronunciare il nome di Ofelia senza aver mai visto l’Amleto». Risultò che il signor Schimmel non sapeva affatto chi fosse Amleto, e la cosa suscitò una grande ilarità. Mai più osò spingersi tanto innanzi. L’attacco del signor Bemberg a Shakespeare, ad ogni modo, era stato rintuzzato; persino sua moglie assicurò che le piacevano tanto le attrici che recitavano Shakespeare in abiti maschili, erano così chic.

Allora il nome di Stinnes compariva spesso sui giornali. Era il periodo dell’inflazione, ma io mi rifiutavo di capire alcunché di economia; dietro a tutto ciò che aveva attinenza con questioni economiche fiutavo una trappola dello zio di Manchester, che voleva attirarmi nei suoi affari. Il suo attacco in grande stile da Sprüngli a Zurigo (erano passati due anni appena) me lo sentivo ancora nelle ossa. Il suo effetto era stato ulteriormente rafforzato dalla tremenda discussione con la mamma. Tutto ciò che sentivo come una minaccia, lo riconducevo immancabilmente all’influsso dello zio di Manchester. Era naturale che per me lui e Stinnes quasi si identificassero. Dal modo con cui a tavola si parlava di Stinnes – l’invidia che sentivo nella voce del signor Bemberg quando pronunciava il suo nome, il disprezzo tagliente del signor Schutt («Tutti diventano più poveri e lui diventa sempre più ricco»), l’unanime simpatia delle donne della pensione (la signora Kupfer: «Lui sì che se lo può permettere»; la signorina Rahm, che gli dedicava la frase più lunga del suo repertorio: «Che cosa si può mai sapere di un uomo così!»; la signorina Rebhuhn: «Per la musica non ha tempo di sicuro»; la signorina Bunzel: «A me fa pena. Nessuno lo capisce»; la signorina Kündig: «Vorrei leggere le lettere dei suoi postulanti»; la signorina Parandowski avrebbe lavorato volentieri per lui, «perché si saprebbe dove si va a finire»; la signora Bemberg pensava volentieri a sua moglie: «Per un uomo così bisogna vestirsi in maniera molto chic») – insomma io sapevo che quando si cominciava a parlare di Stinnes, la cosa andava avanti per un pezzo. Solo mia madre taceva. Per una volta il signor Rebhuhn era d’accordo con il signor Schutt, un giorno gli scappò persino una parola dura, «parassita» disse, anzi, più precisamente: «È un parassita della nazione». Il signor Schimmel, con il suo mitissimo sorriso, diede all’osservazione della signorina Parandowski una piega inaspettata: «Forse ci ha già comprati tutti. Chi può saperlo?». Se domandavo alla mamma come mai se ne stesse così zitta, rispondeva che era meglio per lei, come straniera, non immischiarsi in faccende strettamente tedesche. Era chiaro però che pensava a un’altra cosa, qualcosa che non voleva tirar fuori.

Poi, un giorno, ci disse tenendo una lettera in mano: «Ragazzi, dopodomani avremo una visita. Il signor Hungerbach viene a prendere il tè da noi». Risultò che aveva conosciuto il signor Hungerbach nel sanatorio di Arosa. Era un po’ imbarazzante, disse, che venisse a farci visita nella pensione, era un uomo abituato a tutt’altro genere di vita, ma lei non sarebbe riuscita a trovare un pretesto per disdire l’incontro, e poi ormai era troppo tardi, lui era in viaggio, non avrebbe saputo dove raggiungerlo. Ogni volta che udivo la parola ‘viaggio’, immaginavo un esploratore che viaggiava a scopo di studio, perciò volli sapere in quale continente viaggiasse. «È in viaggio per affari, naturalmente» rispose la mamma. «È un industriale». Ora capivo perché a tavola era rimasta in silenzio. «È meglio non parlarne nella pensione. Tanto sono sicura che quando arriva nessuno lo riconoscerà».

Naturalmente, ero prevenuto; anche senza contare i discorsi sentiti a tavola, era un uomo che apparteneva alla sfera dello zio orco, e poi che cosa voleva da noi? Sentivo nella mamma una certa insicurezza, e pensavo di doverla proteggere da lui. Ma che fosse una cosa seria lo capii soltanto quando la mamma disse: «Non uscire dalla stanza quando sarà qui, ragazzo mio, vorrei che tu lo ascoltassi dal principio alla fine. Lui sì che conosce il mondo. Ad Arosa mi ha promesso di prendersi un po’ cura di voi, quando fossimo giunti in Germania. È un uomo occupatissimo. Eppure vedo che mantiene la parola».

Ero curioso di incontrare il signor Hungerbach. Mi aspettavo uno scontro duro e ci tenevo a trovare in lui un avversario capace di darmi del filo da torcere. Desideravo esserne impressionato, per potergli tener testa ancora meglio. La mamma, che aveva un ottimo fiuto per quelli che chiamava i miei «pregiudizi giovanili», mi disse di non pensare che il signor Hungerbach fosse diventato un uomo importante perché era il rampollo coccolato e vezzeggiato di una famiglia ricca. Al contrario, era figlio di un minatore, la sua era stata una vita difficile, era salito così in alto, passo dopo passo, grazie al proprio lavoro. Un giorno, ad Arosa, le aveva raccontato la storia della sua vita, e solo allora lei aveva capito che cosa significa cominciare dal nulla. Alla fine aveva detto al signor Hungerbach: «Ho paura che il mio ragazzo se la sia sempre passata troppo bene». Lui si era informato sul mio conto e alla fine aveva dichiarato che non è mai troppo tardi. Sapeva benissimo, lui, quel che va fatto in simili casi: «Gettare il ragazzo in mare e lasciare che annaspi. Di colpo si metterà a nuotare».

Il signor Hungerbach si comportava esattamente così. Bussò alla porta e ‘di colpo’ fu nella stanza. Strinse con forza la mano di mia madre ma, invece di guardare lei, mi fissò negli occhi e si mise ad abbaiare. Non era possibile fraintendere le sue frasi brevissime e spezzate; ma non parlava, abbaiava. Dal momento del suo ingresso fino a quello del congedo – si trattenne un’ora intera – non smise un attimo di abbaiare. Non faceva domande e non si aspettava risposte. Neppure una volta domandò alla mamma, che dopo tutto ad Arosa era stata in cura insieme a lui, come stesse in salute. Non mi chiese il mio nome. In compenso potei riascoltare da cima a fondo tutto ciò che un anno prima mi aveva tanto inorridito nel corso del mio violento colloquio con la mamma. Una dura disciplina il più presto possibile, ecco la cosa migliore. Niente università. I libri buttarli via, dimenticare quell’inutile ciarpame. Nei libri ci son solo sciocchezze, conta solo la vita, l’esperienza e il lavorar sodo. Lavorare finché fan male le ossa. Tutto il resto non è lavoro. Chi non ce la fa, chi è troppo debole, che vada pure a fondo, non merita altro. Non è il caso di starci a piangere sopra. Di uomini al mondo ce ne sono anche troppi. I buoni a nulla devono soccombere. Ma forse, non si poteva escludere, sarei ancora riuscito a combinare qualcosa. Malgrado gli inizi completamente sbagliati. In primo luogo, però, dovevo dimenticare tutte quelle sciocchezze che non avevano niente a che fare con la vita, la vita com’è davvero. La vita è lotta, lotta senza quartiere, ed è un bene che sia così. L’umanità, altrimenti, non potrebbe progredire. Una razza di deboli si sarebbe estinta da un pezzo, senza lasciare traccia. Niente si dà per niente. Ci vuole un uomo per educare un uomo, le donne sono troppo sentimentali, pensano soltanto a lustrare il loro principino e a tenerlo lontano dallo sporco. Il lavoro, invece, è prima di tutto sporcizia. Definizione del lavoro: una cosa che ti stanca e ti sporca, ma che non devi mollare. – Mi sembra una grave falsificazione convertire in espressioni intelligibili i latrati del signor Hungerbach. Più di una volta una parola o una frase mi sfuggiva, ma il senso di ogni singola direttiva era fin troppo chiaro: egli sembrava aspettarsi che balzassi in piedi, e lì, sull’istante, mi mettessi a lavorare sodo – altrimenti che lavoro sarebbe.

Intanto gli offrivamo il tè, eravamo seduti intorno a un tavolino basso e rotondo, l’ospite portava la tazza alla bocca, ma prima di essere riuscito a berne un sorso gli veniva in mente un’altra direttiva, troppo impellente per attendere la durata di un intero sorso. La tazza veniva posata bruscamente sul piattino e la bocca si apriva a nuove frasi brevissime, dalle quali una cosa traspariva comunque: la totale mancanza di dubbi. Anche gli adulti si sarebbero trovati in difficoltà a replicare, figuriamoci le donne e i bambini. Il signor Hungerbach faceva colpo e se ne compiaceva. Era tutto vestito di blu, il colore dei suoi occhi, l’abito era irreprensibile, non una macchiolina, non un solo granellino di polvere. Mi venivano in mente una quantità di cose, e le avrei dette volentieri, ma quella che mi veniva in mente più spesso, anzi, di continuo, era la parola ‘minatore’ e mi domandavo se quell’uomo, il più pulito, il più sicuro di sé, il più duro di tutti, davvero avesse mai lavorato da giovane in una miniera, come sosteneva la mamma.

Non aprii bocca una sola volta (quando mai avrei potuto? Non mi lasciò il minimo spiraglio), perciò, vuotato il sacco, il signor Hungerbach aggiunse a mo’ di conclusione (questa volta suonò come una direttiva a se stesso) che non aveva più tempo da perdere e subito se ne andò. Alla mamma strinse ancora la mano, a me non diede più neppure un’occhiata, mi aveva troppo annichilito, pensava, per ritenermi degno di un saluto d’addio. Proibì alla mamma di accompagnarlo giù a pianterreno, conosceva la strada, e ricusò, furono le sue ultime parole, ogni ringraziamento. Prima la mamma doveva aspettare l’effetto del suo intervento, poi avrebbe ringraziato. «Operazione riuscita, paziente morto» aggiunse. Era una battuta intesa a mitigare la serietà del discorso precedente. Un attimo dopo non c’era già più.

«È molto cambiato, ad Arosa era diverso» disse la mamma, piena d’imbarazzo e di vergogna. Aveva capito benissimo che difficilmente avrebbe potuto scegliersi un alleato peggiore per i suoi nuovi progetti educativi. A me, già mentre il signor Hungerbach parlava, era venuto un sospetto tremendo, un’idea tormentosa che mi fece ammutolire. Per un bel pezzo non fui in grado di manifestarlo apertamente. Intanto la mamma mi dava informazioni d’ogni genere sul signor Hungerbach, su com’era prima, solo un anno prima. Con mio stupore sottolineò – per la prima volta – che era credente. Le aveva confidato più volte che la fede significava molto per lui. Per la sua fede doveva ringraziare sua madre, aveva detto, e da allora quella fede non aveva mai vacillato, neppure nei periodi più difficili. Tutto sarebbe finito bene, l’aveva sempre saputo, ed era stato proprio così: non aveva mai vacillato, ecco perché era arrivato così lontano.

«Ma tutto questo cosa c’entra con la sua fede?» domandai. «Mi ha raccontato che in Germania le cose si mettono molto male» disse la mamma «e che, inevitabilmente, andranno sempre peggio; poi ricominceranno a migliorare. Bisogna tirarsi fuori dal pantano con le proprie forze, non c’è altro modo, non c’è posto per i deboli e i cocchi di mamma in simili frangenti».

«Parlava in questo modo anche allora?» domandai.

«Che vuoi dire?».

«Voglio dire come se abbaiasse in continuazione, e senza guardarti in faccia».

«No, di questo sono rimasta stupita anch’io. Era veramente diverso, allora. Si informava della mia salute e mi domandava se avevo tue notizie. Era colpito dal fatto che parlassi spesso di te e mi stava persino ad ascoltare. Una volta, lo ricordo benissimo, ha detto sospirando – pensa un po’, un uomo simile che sospira – che quando lui era giovane tutto era diverso, sua madre non avrebbe certo avuto tempo per le nostre sottigliezze, con i suoi quindici o sedici figli, non mi ricordo più il numero esatto. Volevo fargli leggere il tuo dramma, lui lo ha preso in mano, ha letto il titolo e ha detto: “Giunio Bruto – mica male come titolo, dai Romani c’è sempre da imparare qualcosa”». «Ma sapeva chi era Bruto?». «Certo, figurati che mi disse: “Era quello che ha condannato a morte i suoi figli”». «Dev’essere l’unica cosa che sa di tutta la storia. Quel particolare gli è certo piaciuto, è degno di lui. Ma il dramma lo ha poi letto?». «No, naturalmente no, non aveva tempo per la letteratura. Passava le sue giornate a studiare le pagine economiche dei quotidiani e mi consigliava sempre di trasferirmi in Germania: “Là potrà vivere spendendo poco, gentile signora, pochissimo, sempre meno!”».

«E per questo abbiamo lasciato Zurigo e siamo venuti in Germania?». Pronunciai queste parole con una tale amarezza che io stesso ne rimasi spaventato. La realtà era dunque più orribile dei miei sospetti. Che la mamma avesse potuto lasciare il luogo che io amavo più di ogni altro al mondo per spendere meno da qualche altra parte, mi diede un senso di profondissima mortificazione. Lei si accorse subito di essere andata troppo oltre, e fece marcia indietro: «No, questo no. No davvero. Può darsi che quest’idea abbia avuto una parte nelle mie riflessioni, ma non è stata l’elemento decisivo». «E qual è stato, allora, l’elemento decisivo?». La mamma si sentiva costretta in una posizione difensiva e, dato che l’impressione di quella, orribile visita non si era ancora dileguata, le faceva bene parlare con me e rispondere alle mie domande, serviva anche a lei per chiarirsi le idee.

Tuttavia mi appariva incerta, era come se procedesse per tentativi, in cerca di risposte che anziché fluire rapide dalla sua bocca facevano resistenza dentro di lei. «Voleva sempre parlare con me. Credo che mi volesse bene. Comunque era molto rispettoso e invece di scherzare, come facevano altri pazienti, era sempre serio e mi parlava di sua madre. Anche questo mi piaceva. Le donne, sai, di solito non sono contente se uno le paragona alla propria madre, perché questo le invecchia. A me invece piaceva, perché sentivo che mi prendeva sul serio». «Ma tu fai colpo su tutti, bella e intelligente come sei!». Lo pensavo davvero, se no in quel momento non l’avrei detto, non ero certo in vena di gentilezze, al contrario, sentivo dentro di me un odio terribile, finalmente stavo cominciando a capire le ragioni di quella che dal tempo della morte di mio padre era stata per me la perdita più dolorosa: il distacco da Zurigo.

«Continuava a ripetermi che ero un’irresponsabile, perché, essendo donna, ti avevo educato da sola. Avevi bisogno di sentire la mano forte di un uomo, diceva. Ma ormai è così, gli rispondevo io, dove potevo prendere un padre se non rubandolo? Proprio per dedicarmi completamente a voi non mi ero mai risposata, e ora mi toccava sentire che avevo fatto il vostro danno: il mio sacrificio si sarebbe risolto per voi in un disastro. Questo mi spaventava, mi spaventava molto. Adesso sono convinta che quell’uomo volesse spaventarmi per fare colpo su di me, sai, intellettualmente non era molto interessante, ripeteva sempre le stesse cose, ma parlandomi di te mi spaventò, e poi, subito dopo, mi offrì il suo aiuto. “Venga in Germania, gentile signora,” diceva “io sono occupatissimo, non ho mai tempo, non ho un minuto libero, ma troverò il modo di aver cura di suo figlio, venga per esempio a Francoforte, le farò visita e parlerò seriamente a quel ragazzo, che ancora non sa come va il mondo. Da noi aprirà gli occhi. Gli darò una lezioncina come si deve, e poi lei lo getterà nella vita! Ha studiato a sufficienza, basta coi libril Non diventerà mai un uomo! Vuole che suo figlio diventi una donnetta?”».

La sfida

Rainer Friedrich era un giovane alto, trasognato, che camminava senza pensare a dove stava andando, nessuno si sarebbe stupito se con la gamba destra si fosse avviato in una direzione e con la sinistra in un’altra. Non che fosse debole, ma le cose che riguardavano il corpo non lo interessavano affatto, perciò in ginnastica era l’ultimo della classe. Era sempre immerso nei suoi pensieri, che erano di due tipi. Il suo vero talento era la matematica, riusciva con una facilità che non avevo mai visto in vita mia. Un problema non sembrava nemmeno impostato che lui già l’aveva risolto; gli altri non avevano ancora capito bene di che cosa si trattasse e già da lui arrivava la risposta. Eppure non si vantava mai, rispondeva a bassa voce, con naturalezza, era come se traducesse correntemente da una lingua in un’altra. Non gli costava fatica, sembrava che la matematica fosse la sua lingua materna. Ero stupito di tutte e due le cose: della sua facilità e del fatto che non si desse delle arie. Non era solo un sapere, era un potere di cui era pronto a servirsi in qualsiasi momento e condizione di spirito. Gli domandai una volta se era capace di risolvere equazioni anche nel sonno; lui ci pensò su seriamente e poi disse con semplicità: «Credo proprio di sì». Avevo il massimo rispetto per il suo potere, ma non lo invidiavo. Era impossibile invidiare una dote così unica, il solo fatto che fosse talmente strabiliante da assomigliare a un prodigio la rendeva inattaccabile da ogni bassa invidia. Lo invidiavo, invece, per la sua modestia. «Ma è facilissimo,» diceva perlopiù, quando gli facevamo i complimenti per una delle sue risposte da sonnambulo «la stessa cosa puoi farla anche tu». Si comportava proprio come se credesse che tutti fossero in grado di fare come lui, ma in fondo non lo volessero, quasi per una specie di cattiva volontà che lui, però, non provava neanche a spiegare, chiaramente per motivi religiosi.

Infatti, la seconda cosa che teneva occupati i suoi pensieri, lontanissima dalla matematica, era la sua fede. Partecipava al circolo biblico, era un cristiano molto fervente. Abitava vicino a me e, mentre tornavamo a casa, cercava di convertirmi alla sua fede. Era la prima volta che a scuola mi capitava una cosa simile. Non cercava di riuscirci argomentando, la sua non era mai una discussione, della rigorosa consequenzialità del suo pensiero matematico non restava la minima traccia. La sua era piuttosto un’affabile preghiera, che esordiva sempre con il mio nome (nel pronunciarlo accentava in tono quasi implorante la ‘E’ della sillaba iniziale). «Élias» cominciava di solito, con voce un po’ strascicata, «provaci, anche tu puoi credere. Basta che tu lo voglia. È semplicissimo. Cristo è morto anche per te». Poiché non gli rispondevo, mi credeva un impenitente. Supponeva che fosse la parola ‘Cristo’ a suscitare la mia avversione. Come poteva sapere del resto che ‘Gesù Cristo’ mi era venuto vicinissimo nell’infanzia più remota, in quei meravigliosi inni inglesi che cantavamo insieme alla nostra governante? Ciò che mi respingeva e mi faceva ammutolire, ciò che mi inorridiva non era il nome di Cristo, che, forse senza sapere, portavo ancora nell’animo, ma proprio il fatto che fosse «morto anche per me». Con la parola ‘morire’ non mi ero mai riconciliato. Se qualcuno fosse dovuto morire per me mi sarei sentito gravato dai sensi di colpa più tremendi, sarebbe stato come approfittare di un assassinio. Se c’era una cosa che mi aveva tenuto lontano da Gesù Cristo era proprio questa idea del sacrificio, una vita immolata per tutti gli uomini, è vero, ma dunque anche per me.

Alcuni mesi prima che a Manchester cominciassimo a cantare in segreto quegli inni meravigliosi, Mr. Duke, durante le lezioni di religione, mi aveva parlato della storia di Abramo che era pronto a immolare il proprio figlio Isacco. Non sono mai riuscito a superare quel trauma e, se non suonasse ridicolo, direi che ancora oggi non ci riesco. Fu allora che si destò in me il dubbio nei confronti del comando, un dubbio che non mi ha più abbandonato ed è stato sufficiente a impedirmi di diventare un ebreo credente. La morte di Cristo sulla croce, per quanto da lui stesso voluta, aveva su di me un effetto non meno sconvolgente, poiché essa significa che la morte diventa la posta di qualcosa, quale che sia. Rainer Friedrich, che credeva di perorare la sua causa nel migliore dei modi e ogni volta ripeteva con calore che Cristo era morto anche per me, certo non immaginava di comprometterla irrimediabilmente proprio con quella frase. Forse interpretava erroneamente il mio silenzio e lo prendeva per indecisione. Altrimenti sarebbe stato difficile capire perché mai ripetesse ogni giorno la stessa frase, quando tornavamo a casa da scuola. La sua ostinazione era sorprendente ma mai sgradevole, perché ogni volta mi accorgevo che era dettata dall’affetto: Rainer voleva farmi sentire che non ero escluso dal suo bene più prezioso, che potevo averne parte non meno di lui. Anche la sua mitezza era disarmante: non sembrava mai irritato dal mio silenzio su quel punto (parlavamo di una quantità di cose e non si può certo dire che fossimo taciturni); si limitava a corrugare la fronte, come se si stupisse che quell’unico problema fosse così difficile da risolvere, e quando era arrivato davanti a casa e mi dava la mano per salutarmi, mi diceva ancora: «Pensaci Elias» – di nuovo con tono più supplichevole che enfatico – ed entrava nel portone incespicando.

Sapevo che il nostro ritorno a casa sarebbe finito ogni volta con il suo tentativo di convertirmi e mi ci abituai. Solo a poco a poco, invece, venni a sapere che un altro sentimento, del tutto opposto a quello cristiano, regnava nella sua casa. Rainer aveva un fratello minore, che pure frequentava la scuola Wöhler, due classi indietro rispetto alla nostra. Il suo nome mi è uscito di mente, forse a causa dei suoi violenti attacchi e della sua non celata ostilità. Non era grande e grosso, ma molto bravo in ginnastica; lui sì che lo sapeva quel che stavano facendo le sue gambe. Era tanto sicuro e risoluto quanto Rainer era vago e trasognato. Avevano gli stessi occhi, ma mentre il maggiore dei due fratelli ti guardava sempre con un’espressione interrogativa, affabile e piena di attesa, nello sguardo del minore c’era un che di arrogante, di litigioso, insomma un’aria di sfida. Lo conoscevo solo di vista, non avevo mai parlato con lui, ma da Rainer venivo sempre a sapere immediatamente quello che il fratello aveva detto di me.

Erano sempre cose spiacevoli e offensive. «Mio fratello dice che tu ti chiami Kahn, non Canetti, e vorrebbe sapere come mai avete cambiato nome». Questi dubbi venivano sempre dal fratello, erano espressi a suo nome. Rainer voleva le mie risposte per poter ribattere a suo fratello. Gli era molto affezionato, credo, e siccome voleva bene anche a me pensava probabilmente che riferendomi tutte quelle frasi odiose stava compiendo un tentativo di mediazione e di pacificazione. Mi chiedeva di confutarle, lui, poi, avrebbe riferito al fratello le mie risposte; ma se credeva a una possibilità di conciliazione si sbagliava di grosso. Mentre tornavamo a casa, ogni volta, per prima cosa, mi toccava sentire da Rainer un nuovo sospetto, una nuova accusa di suo fratello. Erano accuse così assurde che non le prendevo neanche sul serio; eppure a ciascuna di esse rispondevo coscienziosamente. Il loro contenuto essenziale andava sempre nella stessa direzione: anch’io, come tutti gli ebrei, cercavo di nascondere la mia origine. Che fosse una calunnia era evidente, e diventava più evidente ancora qualche minuto dopo, quando rispondevo con il silenzio all’immancabile tentativo di Rainer di convertirmi alla sua fede.

Forse l’incorreggibilità del fratello mi costringeva a dare risposte così pazienti e circostanziate. Tutto ciò che proveniva da suo fratello Rainer me lo comunicava, per così dire, tra parentesi. Lo trasmetteva con un tono di voce neutro, senza prendere posizione. Non diceva «Così la penso anch’io», oppure «Ma io non ci credo», trasmetteva il messaggio come se esso passasse attraverso di lui senza lasciare traccia. Se avessi udito quei sospetti, che erano inesauribili, nel tono aggressivo di suo fratello, mi sarei infuriato e non avrei mai risposto. Invece arrivavano in tono pacato, preceduti da «Mio fratello dice», oppure «Mio fratello domanda», ed ecco, poi, un’insinuazione così mostruosa che mi sentivo costretto a parlare, senza però inquietarmi sul serio, trattandosi di domande talmente assurde che il loro autore faceva pena e basta. «Elias, mio fratello domanda: Perché per la festa di Pessach usavate il sangue dei cristiani?». Se rispondevo: «Ma che dici? Ho partecipato alla festa di Pessach quand’ero bambino. Me ne sarei accorto. Avevamo in casa molte ragazze cristiane, erano loro le mie compagne di giochi» – il giorno seguente arrivava un’altra ambasciata di suo fratello: «Adesso magari no. Adesso la cosa è risaputa. Ma in passato, perché in passato gli ebrei sgozzavano bambini cristiani per la loro festa di Pessach?». Le antiche accuse venivano riesumate una per una: «Perché gli ebrei avvelenavano i pozzi?». Se rispondevo: «Non lo hanno mai fatto» il seguito era: «Sì invece, al tempo della peste». «Ma se morivano anche loro di peste come tutti gli altri!». «Sicuro, perché avvelenavano i pozzi. Odiavano talmente i cristiani che perivano miseramente, vittime del loro stesso odio». «Perché gli ebrei maledicono tutti gli altri uomini?». «Perché gli ebrei sono vigliacchi?». «Perché durante la guerra non c’era al fronte neanche un ebreo?».

E così via. La mia pazienza era inesauribile, rispondevo come meglio potevo, sempre con serietà, senza mai offendermi, come se stessi consultando il mio dizionario enciclopedico alla ricerca della verità scientifica. Con le mie risposte mi riproponevo di spazzar via quelle accuse, che mi apparivano del tutto assurde, dalla faccia della terra e, per emulare la serenità di Rainer, un giorno gli dissi: «Riferisci a tuo fratello che gli sono grato per le sue domande. Così posso spazzar via per sempre queste sciocchezze dalla faccia della terra». Perfino il candido, ingenuo, onesto Rainer rimase sbalordito. «Sarà difficile,» disse «quello non la finisce più di tirarne fuori». Ma l’ingenuo in realtà ero io, che per molti mesi non mi ero accorto di ciò a cui mirava in realtà suo fratello. Un giorno Rainer disse: «Mio fratello ti chiede perché rispondi sempre alle sue domande. Non puoi affrontarlo nel cortile della scuola durante l’intervallo, e sfidarlo a pugni? Puoi farci a botte, se non hai paura di lui!».

Non mi sarebbe mai venuto in mente di aver paura di lui. Mi faceva soltanto compassione, per l’indicibile stupidità delle sue domande. Ma lui voleva sfidarmi e aveva scelto la strana via di passare attraverso il fratello, che in tutto quel periodo non aveva desistito neppure per un giorno dai suoi tentativi di conversione. Da quel momento la compassione si trasformò in disprezzo. Non gli feci l’onore di una sfida. Aveva due anni di meno, non avrei fatto una bella figura a picchiarmi con l’alunno di una classe inferiore. Così interruppi ogni ‘rapporto’ con lui. Quando Rainer la volta dopo ricominciò: «Mio fratello ti manda a dire...», tagliai subito corto: «Tuo fratello vada pure al diavolo. Non mi batto coi ragazzini». Rainer ed io rimanemmo amici, però, e nulla mutò neppure nei suoi tentativi di convertirmi alla sua fede.

Il ritratto

Hans Baum, il primo compagno con cui feci amicizia, era figlio di un ingegnere delle Siemens-Schuckert-Werke. Molto formale, educato da suo padre a una rigida disciplina, attentissimo a non far passi falsi, sempre serio e coscienzioso, era un gran lavoratore, senza colpi d’ala ma pieno di buona volontà. Poiché leggeva buoni libri e frequentava i concerti dell’Auditorium, gli argomenti di conversazione fra noi non mancavano mai. Un tema inesauribile era Romain Rolland, soprattutto il Beethoven e Jean Christophe. Baum voleva fare il medico per una specie di senso di responsabilità nei confronti del genere umano, e questo in lui mi piaceva molto. In politica aveva idee moderate, respingeva per istinto ogni estremismo, era talmente compassato che dava la sensazione di essere sempre in divisa. Sin da giovanissimo considerava ogni cosa sotto tutti gli aspetti, «per giustizia», diceva, ma forse, soprattutto, perché era contrario a ogni forma di sconsideratezza.

Quando andai a trovarlo a casa sua, fui sorpreso dalla vivacità di suo padre, un piccolo borghese fatto e finito, che esternava in continuazione i suoi numerosi pregiudizi, bonario, sconsiderato, sempre pronto allo scherzo, affezionatissimo alla sua Francoforte. Tornai altre volte in casa loro, e ogni volta suo padre leggeva ad alta voce qualche passo del suo poeta preferito: Friedrich Stoltze. «È il poeta più grande di tutti i tempi,» diceva «chi non lo sa apprezzare va fucilato». La madre di Hans Baum era morta da parecchi anni, e la sorella di lui, una ragazza allegra e già un po’ corpulenta nonostante la giovane età, si occupava del ménage familiare.

C’era qualcosa nella correttezza del giovane Baum che mi lasciava perplesso. Avrebbe preferito mordersi la lingua piuttosto che dire una bugia. Viveva la viltà come una grave colpa, forse la più grave di tutte. Se un professore lo metteva alle strette – e questo non succedeva spesso, poiché in classe era uno dei migliori – Hans rispondeva con assoluta sincerità e senza preoccuparsi delle conseguenze. Se non si trattava di lui ma dei compagni, era cavalleresco e li proteggeva, ma senza mentire. Quando era interrogato si alzava in piedi diritto come un fuso (in tutta la classe era quello col portamento più rigido) e subito si abbottonava la giacca, deciso e compassato. Gli sarebbe stato impossibile presentarsi in una situazione ‘pubblica’ con la giacca sbottonata, e forse per questo, guardandolo, si pensava spesso a una divisa. Contro Baum non c’era proprio niente da eccepire; era un carattere precocemente maturo e certo non era uno sciocco, rimaneva però sempre uguale a se stesso, ogni sua reazione era prevedibile, con lui non ci si meravigliava mai, o tutt’al più del fatto che non ci fosse mai niente di cui meravigliarsi. Aveva una sensibilità spiccatissima per le questioni d’onore. Quando, parecchio tempo dopo, gli raccontai come si era comportato nei miei riguardi il fratello di Friedrich, Baum – che era ebreo – perse il controllo e mi chiese in tutta serietà se non dovesse affrontarlo lui quel ragazzaccio, benché fosse ormai passato parecchio tempo. Non capì né perché avessi risposto pazientemente per un periodo così lungo, né il totale disprezzo che in seguito gli avevo dimostrato. Quel fatto lo turbava, aveva la sensazione che io non potessi essere del tutto a posto, altrimenti non mi sarei prestato a quel gioco così a lungo. Siccome non gli permisi iniziative dirette a mio nome, fece indagini per conto suo e scoprì che il padre di Friedrich, che era morto, aveva avuto delle difficoltà finanziarie, nelle quali, probabilmente, ci avevano messo lo zampino alcuni suoi concorrenti ebrei. I particolari non li capivo, e questo era ovvio, poiché non ce li avevano detti con sufficiente precisione. Un fatto però era certo: qualche tempo dopo il padre di Friedrich era morto; a questo punto cominciai a comprendere le ragioni del cieco odio che si era sviluppato nella sua famiglia.

Felix Wertheim era un giovane allegro e molto vivace, che si curava poco di imparare, perché durante le ore di lezione era troppo occupato a studiare i professori. Nulla gli sfuggiva dei nostri insegnanti, li conosceva nei minimi particolari, se li studiava a memoria come altrettanti copioni e aveva le sue parti preferite, le più ricche di spunti. La sua vittima preferita era Krämer, il collerico professore di latino, lo imitava in maniera così perfetta che sembrava veramente di averlo davanti agli occhi in carne e ossa. Una volta, durante una delle sue esibizioni, Krämer entrò in classe prima del previsto e si trovò di colpo di fronte a se stesso. Wertheim era talmente infervorato che non riuscì più a fermarsi, e cominciò a insultare Krämer come se quest’ultimo fosse l’impostore che si era messo sfacciatamente nei suoi panni. La scena andò avanti per qualche minuto, i due stavano in piedi l’uno di fronte all’altro, e fissandosi increduli continuavano a insultarsi nella maniera più volgare, proprio come Krämer faceva sempre con noi. Tutta la classe era pronta al peggio. Invece non accadde nulla – Krämer, il collerico Krämer, fu sopraffatto da un accesso di risa, non riusciva a trattenersi. Wertheim si accasciò sul banco (sedeva in prima fila): la sfacciata ilarità di Krämer gli aveva tolto ogni piacere. Della faccenda non si fece più parola, non ci furono punizioni, Krämer si sentì talmente lusingato dall’assoluta fedeltà dell’imitazione che non ebbe cuore di prendere provvedimenti contro il suo ritratto vivente.

Il padre di Wertheim, proprietario di un grande negozio di confezioni, era un uomo ricco e non ne faceva mistero. Una volta per Capodanno fummo invitati da lui e ci trovammo in una grande casa piena zeppa di Liebermann. In ogni stanza ce n’erano cinque o sei, non credo che nell’alloggio ci fossero altri quadri. Il clou della collezione era un ritratto del padrone di casa. Ci trattarono bene, avevano fatto le cose in grande; il padrone di casa indicò senza timidezza il proprio ritratto e si mise a parlare, in modo che tutti potessero sentirlo, della sua amicizia con Liebermann. Io dissi a Baum a voce piuttosto alta: «Il fatto che abbia posato per un ritratto non vuole ancora dire che siano amici».

Non solo mi irritava la pretesa di quell’uomo di essere amico di Liebermann, ma l’idea stessa che un grande pittore avesse dipinto un volto così comune. La presenza del ritratto mi disturbava più del soggetto stesso. Quanto sarebbe stata più bella la collezione, mi dicevo, se non ci fosse stato quel quadro! Non vederlo era impossibile, tutto era disposto in modo da farlo notare. Le mie parole sgarbate non erano sufficienti a farlo scomparire; e poi, a parte Baum, nessuno ci aveva fatto caso.

Nelle settimane che seguirono ci furono tra noi discussioni molto accese su quell’argomento. Io domandavo a Baum se un pittore è tenuto a fare il ritratto a chiunque glielo chieda o se invece può rifiutarsi, qualora la persona in questione non gli vada a genio come tema della sua arte. Baum pensava che il pittore dovesse accettare, gli restava pur sempre la possibilità di manifestare la sua opinione sul soggetto dipingendo il quadro in un certo modo. Aveva tutto il diritto di fare un ritratto brutto o ripugnante, questo rientrava nell’ambito della sua arte; ma dire di no a priori sarebbe stato un segno di debolezza, significava non essere sicuri delle proprie capacità. Erano parole misurate, giuste, e sentivo che la mia mancanza di misura contrastava con esse in modo spiacevole.

«Come fa a dipingere» dicevo io «se il disgusto per quel viso lo fa rabbrividire? Se si vendica e deforma il volto del committente, il suo non è più un ritratto. Per dipingerlo così può fare anche senza di lui, non ha certo bisogno di metterlo in posa. E se si fa pagare dopo aver messo la sua vittima alla berlina, l’azione che compie per ottenere del denaro è davvero spregevole. Lo si potrebbe scusare se fosse un povero diavolo, che fa la fame perché nessuno lo conosce. Ma se si tratta di un pittore famoso e ricercato, è un atto imperdonabile».

Non che a Baum desse fastidio il rigore dei princìpi, tuttavia più che la morale degli altri gli interessava la propria. Non da tutti ci si può aspettare, diceva, che si comportino come Michelangelo, esistono anche caratteri meno indipendenti e orgogliosi. Io ritenevo che un pittore dovesse essere orgoglioso, chi non aveva la tempra necessaria era meglio che facesse un altro mestiere, un mestiere qualsiasi. Ma Baum mi fece riflettere su un altro punto importante.

Qual era l’idea che io mi ero fatto di un ritrattista? Un ritrattista deve rappresentare gli uomini così come sono o deve ritrarli come figure ideali? Per dipingere delle figure ideali non occorre essere ritrattisti! Ogni uomo è quel che è, ed è proprio questa peculiarità che il pittore deve cogliere nell’uomo che posa per lui. Solo così si saprà anche nei tempi avvenire che tipi di uomini sono esistiti in passato.

Questo argomento mi sembrò convincente e mi diedi per vinto. Ma continuai a pensare con un certo disagio al rapporto fra i pittori e i loro mecenati. Mi era rimasto il sospetto che i ritratti fossero atti di adulazione e perciò non andassero presi sul serio. Forse fu un’altra delle ragioni per cui a quell’epoca mi misi con tanta decisione dalla parte dei satirici. George Grosz divenne ai miei occhi importante come Daumier, la contraffazione attuata con intenti satirici mi conquistò completamente, mi ci abbandonavo senza opporre resistenza, come se quella fosse la verità.

«Le Plaidoyer d’un fou»

Circa sei mesi dopo il mio arrivo entrò in classe un nuovo compagno, Jean Dreyfus. Era più alto e più vecchio di me, ben sviluppato, sportivo, proprio un bel ragazzo. In casa parlava francese, e di questo ci si accorgeva un poco anche dal suo tedesco. Veniva da Ginevra, ma aveva vissuto anche a Parigi e si distingueva nettamente dagli altri compagni per la sua origine cosmopolita. Si avvertiva in lui una certa superiorità da uomo di mondo, ma di questo non si serviva affatto per mettersi in mostra; a differenza di Baum, non dava alcuna importanza alle nozioni scolastiche; trattava gli insegnanti, che del resto non prendeva sul serio, con ricercata ironia, e a me sembrava che su molte cose la sapesse più lunga di loro. Si comportava con cortesia squisita, eppure sembrava spontaneo, e io non sapevo mai in anticipo che cosa avrebbe detto su un certo argomento. Comunque non era mai grossolano né puerile, aveva sempre un perfetto controllo di sé e agli altri faceva sì sentire la propria superiorità, ma non in maniera opprimente. Era un ragazzo robusto, in lui lo spirito e il corpo sembravano ben bilanciati. A me sembrava un essere perfetto, anche se ero un po’ turbato dal fatto che non mi riusciva di scoprire quali erano le cose che veramente gli stavano a cuore. Così a tutto quello che in lui conquistava la mia simpatia si aggiungeva anche questo segreto. Me ne stavo a lungo a rimuginare quali cose potessero essere importanti per lui, e pur presumendo che la chiave dell’enigma si celasse nella sua origine familiare, da essa mi sentivo a tal punto abbagliato che non riuscivo a districare la matassa.

Credo che Dreyfus non abbia mai saputo che cosa in lui mi attraesse tanto. Se mai lo avesse saputo, mi avrebbe preso in giro di sicuro. Sin dai primissimi colloqui decisi di diventare suo amico e dato che egli era sempre così cortese e garbato con tutti, fu un processo che richiese un certo tempo. Il ramo paterno della sua famiglia possedeva una banca privata tedesca di una certa importanza. Si supponeva, perciò, che suo padre fosse un uomo molto ricco, e questo in me, che mi sentivo accerchiato e minacciato su questo tema da parte della famiglia in senso lato, avrebbe inevitabilmente prodotto diffidenza e avversione. Ma a ciò si opponeva la circostanza, per me irresistibile, che suo padre, a dispetto della tradizione familiare, era diventato un poeta; semplicemente un poeta, non un romanziere in cerca di facili successi, ma un lirico moderno, accessibile a pochi – presumevo – che certo doveva scrivere in francese. Di lui non avevo letto nulla, anche se sapevo che aveva scritto dei libri; non provai nemmeno a prenderli in mano, anzi oggi ho la sensazione di non averli voluti leggere perché quel che mi stava a cuore era l’aura di una poesia oscura e di difficile comprensione, talmente difficile che sarebbe stato insensato, alla mia età, cercare di accostarmi ad essa. Albert Dreyfus si interessava inoltre di pittura moderna, scriveva critiche d’arte e faceva collezione di quadri; era amico di molti fra i più estrosi pittori moderni e aveva sposato una pittrice: la madre, appunto, del mio compagno di scuola.

Di questa circostanza all’inizio non mi ero reso pienamente conto; Jean vi accennava ogni tanto come per inciso, la cosa non suonava particolarmente gloriosa, ma – per quel poco che si poteva supporre dalle sue frasi ben costruite – piuttosto come un problema. Solo in seguito, quando mi invitò da lui ed entrai nella sua casa piena di quadri, dei vigorosi ritratti impressionistici fra i quali figuravano anche alcune immagini infantili del mio amico, solo allora venni a sapere che quelle erano le opere di sua madre. E mi sembrarono così piene di vitalità e di talento che, a dispetto delle mie scarse conoscenze in quel campo, esclamai: «Ma allora è una vera pittrice! Non me l’avevi detto!»; al che lui rispose, un po’ sorpreso: «Ne dubitavi? Ma sì che te l’avevo detto!». Dipendeva da quel che si intende per ‘dire’: non lo aveva proclamato, l’aveva lasciato cadere così, incidentalmente, e, dato il pathos per me implicito nell’idea di una qualsiasi attività artistica, il suo modo di comunicare la cosa aveva funzionato al contrario, quasi avesse voluto sviare la mia attenzione e scusarsi cortesemente per i quadri di sua madre. Io che mi aspettavo qualcosa di simile ai fiorellini della signorina Mina a villa Yalta, ora caddi proprio dalle nuvole.

Non mi sarebbe nemmeno venuto in mente di domandare se la madre di Jean era anche una pittrice famosa. Una cosa sola contava: avevo visto i suoi quadri, essi esistevano davvero; importante era la loro ricchezza, la loro vitalità, ma anche il fatto che tutta la casa, piuttosto grande, ne fosse piena zeppa. In una visita successiva conobbi anche la pittrice, che mi fece l’impressione di una persona nervosa e un po’ frastornata; sembrava infelice, nonostante ridesse spesso. Avvertii che esisteva tra lei e il figlio un legame profondo e tenerissimo, Jean in presenza di sua madre mi sembrò meno equilibrato; era in ansia, come chiunque altro sarebbe stato al suo posto, e domandò a sua madre come stava. La risposta di lei non lo appagò, così Jean continuò a chiedere, volle sapere tutta la verità, senza un’ombra d’ironia, e non con superiorità, ma con vera partecipazione – l’ultima cosa che da lui mi sarei aspettato; se lo avessi visto più spesso in compagnia di sua madre certamente la mia immagine di Jean si sarebbe radicalmente trasformata.

Ma lei non la vidi mai più, mentre Jean lo vedevo tutti i giorni; così fu da lui che cercai di ricavare ciò di cui allora avevo più bisogno: un’immagine integra e inequivocabile dell’arte e della vita di chi si dedica all’arte. Un padre che aveva voltato le spalle agli affari di famiglia per diventare poeta, e inoltre aveva la passione dei quadri e proprio per questo aveva sposato una vera pittrice. Un figlio che parlava un francese meraviglioso, pur frequentando una scuola tedesca, e che di tanto in tanto – cosa c’era di più naturale, con un padre così! – scriveva egli stesso qualche poesia in francese, anche se in realtà la matematica lo interessava di più. E poi uno zio, fratello di suo padre, professore di medicina, un neurologo che insegnava all’Università di Francoforte e aveva una figlia bellissima, di nome Maria, che vidi una volta sola e avrei rivisto assai volentieri.

Non mancava proprio nulla: la scienza che veneravo più di ogni altra, la medicina (periodicamente mi sorprendevo a pensare che avrei voluto studiare medicina), e infine la bellezza di una tenebrosa cugina piena di capricci; Jean, che già si atteggiava un poco a conoscitore di donne, ne ammetteva senz’altro il fascino, benché tendesse a giudicarla, essendo sua cugina, con un metro alquanto severo.

Era piacevole parlare di ragazze con Jean. A dire il vero era lui che ne parlava, io lo stavo ad ascoltare. Mi ci volle un po’ di tempo prima di riuscire (grazie ai nostri colloqui) a farmi un’esperienza sufficiente per raccontare a mia volta delle storie. Inventavo ogni cosa, essendo ancora assolutamente inesperto, proprio come a Zurigo; ma stavo imparando da Jean e ne vestivo i panni. Lui non si accorse mai che gli propinavo soltanto delle frottole. Preferivo limitarmi a un piccolissimo numero di storie, e meglio ancora a una sola, che si protraeva attraverso complicate e alterne vicissitudini. Era una storia talmente appassionante che Jean mi pregava di parlargliene; una ragazza, soprattutto, che in onore di sua cugina avevo battezzato Maria, suscitava il suo vivo interessamento. Aveva – oltre alla bellezza – una serie di qualità estremamente contraddittorie: un giorno eri sicuro di aver conquistato il suo cuore e l’indomani scoprivi di esserle del tutto indifferente. Eppure non era detta l’ultima parola: due giorni dopo la tua perseveranza veniva ricompensata da un primo bacio, che dava inizio a una lunga serie di dispetti, dinieghi e dichiarazioni dolcissime. A lungo cercavamo d’indovinare come son fatte le donne. Jean confessava di non aver mai incontrato una persona enigmatica come la mia Maria; eppure di esperienze ne aveva avute parecchie. Mi disse che avrebbe voluto conoscerla, e io non esclusi del tutto questa possibilità, tanto l’umore capriccioso di lei mi permetteva di tenerlo a bada senza destare sospetti.

Solo grazie a questi colloqui, che andavano avanti all’infinito – avevano una loro particolare importanza e continuarono per mesi – si risvegliò il mio interesse per un argomento che in fondo continuava a restarmi indifferente. Non sapevo nulla. Non avrei saputo dire che cosa succede fra due persone che si amano, a parte i baci. Nella pensione abitavo porta a porta con la signorina Rahm, che riceveva tutte le sere le visite del suo amico. Benché la mamma, previdente, avesse messo il pianoforte contro la porta di comunicazione fra le due stanze, anche senza origliare si sentiva piuttosto bene. Ma, a causa della natura di quel rapporto, i rumori dalla stanza accanto mi stupivano senza occupare troppo i miei pensieri. Si sentivano all’inizio le preghiere del signor Ödenburg, alle quali la signorina Rahm replicava con un secco «no». Le preghiere si intensificavano sino al pianto, cominciavano delle suppliche e dei lamenti interminabili, interrotti da «no» sempre più freddi. Alla fine la signorina Rahm sembrava veramente in collera. «Fuori! Fuori!» intimava, mentre il signor Ödenburg scoppiava in un pianto da spezzare il cuore. Qualche volta lei lo buttava fuori sul serio, nel bel mezzo del pianto, e io mi domandavo se il signor Ödenburg continuasse a piangere anche per le scale, incontrando gli ospiti della pensione, ma non avevo il coraggio di uscire in corridoio per sincerarmene coi miei occhi. Qualche volta egli otteneva il permesso di restare, e il pianto, allora, si smorzava in un flebile guaito; ma alle dieci precise doveva comunque lasciare la stanza della signorina Rahm, perché nella pensione dopo quell’ora non erano più consentite visite maschili.

Se il pianto diventava così forte da disturbare la lettura, la mamma scuoteva la testa, ma della cosa non si parlava mai. Sapevo quanto le fosse sgradevole la vicinanza della signorina Rahm; tuttavia di quel tipo di rapporto, almeno per quanto riguardava le nostre orecchie infantilmente ignare, non sembrava del tutto scontenta. Le cose che riuscivo a sentire in quelle occasioni me le tenevo per me, nella mia immaginazione esse non si collegarono mai alle conquiste di Jean; ma ebbero forse un influsso indiretto, che allora non avrei mai sospettato, sul comportamento della mia Maria.

Nei resoconti di Jean e nelle mie invenzioni non c’era mai nulla di sconveniente. Erano racconti come usavano una volta. Il tutto aveva un tono cavalleresco, ciò che contava era l’ammirazione, non il possesso. Se riuscivi a esprimere l’ammirazione con tanta intelligenza e abilità da convincere, far breccia e non essere dimenticato, allora avevi vinto; la ‘conquista’ consisteva nel far colpo, nel farsi prendere sul serio. Se il flusso delle belle frasi che escogitavi e che riuscivi a pronunciare non veniva interrotto, se la tua possibilità di offrire i tuoi omaggi a una fanciulla non dipendeva più soltanto dalla tua abilità, ma anche dall’attesa e dalla compiacenza di lei, questa era la prova che eri stato preso sul serio e che dunque eri un uomo. Dimostrare questo era ciò che contava, era la dimostrazione che ci attraeva, assai più dell’avventura in sé. Jean poteva riferire una serie ininterrotta di simili ‘dimostrazioni’. Benché tutto ciò che gli contrapponevo fosse inventato dal principio alla fine, io credevo alle sue parole una per una, così come lui credeva alle mie. Mai mi venne in mente di mettere in dubbio ciò che egli mi raccontava solo perché io mi inventavo tutto. I nostri racconti avevano un’esistenza autonoma: forse Jean abbelliva qualche particolare; le storie che mi inventavo di sana pianta gli avranno forse fornito lo spunto per qualche dettaglio. I nostri racconti erano reciprocamente in sintonia, si adattavano bene gli uni agli altri, ed ebbero sulla sua vita interiore, in quel periodo, un influsso non minore che sulla mia.

Nelle mie conversazioni con Hans Baum assunsi un atteggiamento del tutto diverso. Lui e Jean non erano amici, Jean lo trovava noioso. Disprezzava gli scolari modello, e il senso del dovere che si leggeva nello sguardo di Baum gli sembrava addirittura ridicolo, rigido e poco vitale com’era, e sempre uguale a se stesso. Il fatto che quei due si tenessero a debita distanza fu la mia fortuna; infatti, se mai avessero messo a confronto le cose che dicevo all’uno e all’altro sull’amore, certo avrei perso la mia reputazione agli occhi di entrambi.

Quel che dicevo a Baum lo pensavo, parlando con Dreyfus, invece, giocavo. Probabilmente ci tenevo a imparare da Jean, anche se gareggiavo con lui soltanto a parole; nei fatti mi guardavo bene dall’imitarlo. Una volta ebbi con Baum un colloquio molto serio e, con suo grande stupore, gli comunicai la mia ultima opinione sull’argomento. «L’amore non esiste,» dichiarai «l’amore è un’invenzione dei poeti. Prima o poi leggi un libro in cui si parla dell’amore e ci credi solo perché sei giovane. Pensi che te l’abbiano tenuto nascosto gli adulti, perciò ti ci butti a pesce e ci credi, prima ancora di averlo sperimentato. Mai nessuno ci arriva da solo. In realtà l’amore non esiste». Baum esitava a rispondere, io sentivo che non era affatto d’accordo con me, ma poiché prendeva sempre tutto così sul serio e per di più era un ragazzo molto riservato, non cercò nemmeno di confutarmi. Per farlo avrebbe dovuto rivelare qualche sua esperienza intima, e di questo non era capace.

Con quella estrema ripulsa reagivo a un libro che la mamma possedeva sin dai tempi di Zurigo e che io avevo letto contro la sua volontà: Le Plaidoyer d’un fou di Strindberg. La mamma lo apprezzava in modo particolare, di questo mi ero accorto perché lo teneva da parte, e non nella pila in cui soleva accatastare tutti gli altri volumi di Strindberg. Una volta, mentre parlavo con la mia solita giovanile arroganza del signor Ödenburg, chiamandolo «quel venditore di cravatte» e domandandomi come facesse mai la signorina Rahm a sopportare tutte le sere la sua compagnia, la mia mano si mise a giocare, non so se per caso o intenzionalmente, con Le Plaidoyer d’un fou, ad aprire il libro, a sfogliarlo, richiuderlo, rigirarlo, aprirlo di nuovo. La mamma pensò che la quotidiana scenetta serale della stanza accanto mi avesse fatto venire in mente di leggerlo: «Non leggere quel libro!» mi pregò. «In te si guasterebbe qualcosa che mai più saresti in grado di risanare. Aspetta, dopo che tu stesso avrai fatto qualche esperienza, non potrà più farti del male».

Per tanti anni le avevo creduto ciecamente, e mai aveva avuto bisogno di argomentare per trattenermi dalla lettura di un libro. Ora però, dopo la visita del signor Hungerbach, l’autorità della mamma era scossa. L’avevo visto con i miei occhi, quell’uomo era completamente diverso da come lei lo aveva descritto e annunciato. Adesso volevo vedere da me quel che c’era in questo Strindberg. Non le promisi nulla; ma lei si fidò del fatto che non le avevo neppure detto di no. Alla prima occasione presi Le Plaidoyer d’un fou e, a sua insaputa, lo divorai a velocità folle, la stessa velocità con cui un tempo avevo letto Dickens; ma questa volta non mi venne voglia di ricominciare da capo.

Quella confessione non riuscivo a capirla, mi sembrava una menzogna dalla prima all’ultima riga. Credo che a respingermi fosse qualcosa che somiglia alla sobrietà, il tentativo di non dire nulla che vada oltre un certo attimo, il ridursi e limitarsi alla situazione che si descrive. Sentivo mancare l’impeto, l’impeto dell’invenzione, intendevo l’invenzione in genere, non dei particolari. Il vero impeto, l’odio, non lo riconobbi. Non vidi che era in gioco la mia esperienza più personale e più remota: la gelosia. Mi disturbava la mancanza di libertà iniziale, il fatto che si trattasse della moglie di un altro: mi sembrava una storia barricata in se stessa. Non potevo soffrire le vie traverse per arrivare a un essere umano. Con l’orgoglio dei miei diciassette anni guardavo dritto davanti a me e disprezzavo qualsiasi travestimento. Il confronto diretto era tutto, una cosa sola contava: lo scontro faccia a faccia. Le occhiate oblique le prendevo tanto poco sul serio quanto i colpi obliqui. Forse quel libro, che si faceva leggere con troppa facilità, sarebbe scivolato su di me come se non l’avessi mai letto. Ma ci fu quel passo che mi colpì come una mazzata, l’unico di tutto il libro che ho ancora davanti agli occhi in ogni particolare, benché, forse proprio a causa di quella scena, non lo abbia mai più ripreso in mano.

Il protagonista, l’uomo che si confessa, cioè Strindberg, riceve per la prima volta in camera sua la visita della moglie dell’amico, che è un ufficiale. Egli la sveste e la fa sdraiare sul pavimento. Attraverso il crespo sottile vede baluginare i suoi capezzoli. Questa descrizione di una situazione intima era una cosa per me completamente nuova. Si svolgeva in una stanza che poteva essere una stanza qualunque, anche la nostra. Forse uno dei motivi che mi indusse a rifiutarla con tanta veemenza fu questo: si trattava di una scena impossibile. L’autore voleva farmi credere all’esistenza di qualcosa che chiamava amore. Ma io non mi lasciai incantare e gli diedi del bugiardo. Non solo non volevo aver niente a che fare con quella storia, che trovavo ripugnante, perché si svolgeva dietro le spalle del marito della donna, un amico che si fidava di entrambi – ma la trovavo anche insensata, una trovata dozzinale, inverosimile, sfacciata. Perché mai una donna dovrebbe lasciarsi sdraiare sul pavimento? A che scopo lui la spogliava? Perché mai lei si lasciava spogliare? Eccola, sdraiata sul pavimento, mentre lui la guarda. Quella situazione, per me nuova e incomprensibile, suscitava anche la mia collera: come osava lo scrittore presentare una situazione del genere come se potesse capitare davvero?

Mi nacque dentro un sentimento di rivolta: anche se tutti, per debolezza, si fossero lasciati convincere che cose del genere possono esistere davvero, io non ci credevo, mai e poi mai ci avrei creduto. Che cosa c’entravano i guaiti del signor Ödenburg nella stanza accanto? La signorina Rahm camminava su e giù per la sua stanza dritta come una candela. L’avevo vista nuda con un binocolo da teatro mentre stavo guardando le stelle dal nostro balcone. Per caso, così pensavo, il binocolo si era diretto verso la finestra vivamente illuminata della sua stanza. La signorina Rahm era là, in piedi, nuda, a testa alta, snella nel riflesso della luce rossastra; ero così stupito che non riuscivo a smettere di guardarla. Fece due o tre passi, sempre dritta come una candela, proprio come quand’era vestita. Sul balcone i guaiti del signor Ödenburg non li sentivo più. Ma quando, imbarazzato, ritornai in camera, subito mi giunsero nettissimi all’orecchio, e compresi che per tutto il tempo da me trascorso sul balcone non erano mai cessati. Mentre la signorina Rahm camminava su e giù per la sua stanza, il signor Ödenburg aveva continuato a guaire, senza suscitare in lei la minima reazione; la signorina si comportava come se neanche lo vedesse, come se fosse sola, e neppure io avevo visto il signor Ödenburg, era proprio come se non ci fosse.

Lo svenimento

Ogni notte andavo sul balcone a guardare le stelle. Cercavo le costellazioni che conoscevo e quando le trovavo ero soddisfatto. Non erano tutte ugualmente nitide; non tutte erano contrassegnate da una vistosa stella azzurra, come Vega della costellazione della Lira, allo zenit sopra di me, o da una grande stella rossa come Betelgeuse, che appare quando sorge la costellazione di Orione. Sentivo la vastità che cercavo, di giorno non mi accorgevo della vastità dello spazio, questa sensazione si destava in me solo di notte, in presenza delle stelle, e talora la rafforzavo pronunciando a voce alta il numero immane di anni luce che mi separavano da questa o quella stella.

Molte cose mi tormentavano in quel periodo; mi sentivo in colpa per la miseria che vedevamo intorno a noi, pur senza condividerla. Mi sarei sentito meno in colpa se fossi riuscito a convincere la mamma, almeno una volta, dell’ingiustizia della nostra «agiatezza», come io la chiamavo. Ma quando cominciavo a parlarne, la mamma rimaneva fredda e distante, si chiudeva deliberatamente in se stessa, anche se un momento prima si era infervorata su un argomento qualsiasi di musica o di letteratura. Del resto, era facilissimo scioglierle di nuovo la lingua, bastava che lasciassi cadere l’argomento di cui lei non voleva sentir parlare, e subito ritrovava la parola. Ma per me era un punto d’onore costringerla a prender posizione. Raccontavo qualche triste avvenimento cui avevo assistito durante il giorno, le domandavo senza perifrasi se era a conoscenza di questo o di quello: lei taceva, con un’espressione sul volto di sottile disprezzo oppure di disappunto; solo se si trattava di una cosa veramente tremenda, allora diceva: «L’inflazione non l’ho fatta io» oppure: «Questa è una conseguenza della guerra».

Avevo l’impressione che non le importasse niente di come stavano le persone che non conosceva, soprattutto se le loro sofferenze erano causate dalla povertà; eppure, durante la guerra, quando gli uomini venivano mutilati e uccisi, aveva partecipato intensamente alle loro pene. Forse la sua compassione si era esaurita allora; a volte mi sembrava che qualcosa nel suo animo si fosse inaridito, perché l’aveva usato con troppa prodigalità. E questa era ancora l’ipotesi più sopportabile. In realtà ero sempre più angosciato dal sospetto che la mamma ad Arosa avesse subito l’influsso di persone che avevano fatto colpo su di lei perché «sapevano affrontare la vita» e «pagare di persona». Quando usava con troppa frequenza espressioni come queste, che mai in passato avrebbe adoperato, mi difendevo attaccandola («Come sarebbe a dire “sapevano affrontare la vita”? Ma se era gente malata, che viveva in sanatorio! Ti parlavano in quel modo ed erano uomini malati, che non facevano nulla»); allora la mamma si arrabbiava, rinfacciandomi la mia crudeltà verso i malati. Mi sembrava che avesse ritirato dal mondo tutta la sua compassione, per riservarla soltanto alla piccola cerchia di uomini e donne del suo sanatorio.

Ma poiché in quel piccolo mondo gli uomini erano assai più numerosi delle donne, intorno a lei, che allora era una giovane signora, si davano tutti un gran da fare e, gareggiando tra loro per destare la sua attenzione, ostentavano, forse proprio perché malati, tutta la loro virilità; e tutti le davano una grande importanza, tanto che lei era portata a credere a ciò che essi dicevano e ad apprezzare qualità e caratteristiche alle quali non molto tempo prima, durante la guerra, avrebbe pensato con disprezzo, anzi con orrore. Fra quegli uomini godeva di un’alta considerazione perché li ascoltava volentieri, voleva conoscere il maggior numero possibile delle loro vicende ed era sempre pronta ad accogliere le loro confidenze senza mai approfittarne per ricamarci su o imbastire intrighi meschini. Per anni era stata abituata ad avere come unico interlocutore un bambino, ora, invece, ne aveva molti e li prendeva tutti sul serio.

La mamma non riusciva ad avere con la gente un rapporto frivolo o superficiale. Così, proprio la sua qualità migliore, la serietà, la allontanò – nel periodo del sanatorio – dalla più vasta umanità che prima, insieme ai suoi figli, era stata tutto per lei, inducendola a concentrarsi su un’umanità ristretta e privilegiata, della quale, tuttavia, non poteva riconoscere il privilegio, trattandosi di gente ammalata. Forse la mamma era tornata quella che era stata in origine, la figlia prediletta e un po’ viziata di una famiglia ricca. Forse il grande periodo della sua vita, quando, sentendosi a un tempo colpevole e infelice, aveva espiato la sua colpa, peraltro indeterminata e quasi incomprensibile, dedicandosi con energia sovrumana all’educazione intellettuale dei suoi figli, il periodo culminato con la guerra, quando tutte le sue forze erano confluite in un odio selvaggio contro la guerra – forse quella grande stagione della sua vita era finita molto prima che io me ne rendessi conto, e con le lettere che ci eravamo scambiati tra Arosa e Zurigo avevamo giocato a nascondino, restando fedeli, almeno in apparenza, a un passato che ormai non esisteva più.

Tuttavia, quando vivevo nella pensione Charlotte, mai e poi mai sarei stato in grado di chiarire a me stesso tutte queste cose con fredda determinazione, benché, dopo la visita del signor Hungerbach, avessi cominciato a capirne parecchie e a interpretarle nella maniera giusta. Il nostro rapporto diventò una lotta, cominciai ad attaccare ostinatamente la mamma nel tentativo di riavvicinarla alle cose della vita che ritenevo «davvero» importanti. Le conversazioni che si svolgevano a tavola mi offrivano spesso un gradito pretesto per i miei attacchi. Imparai a nascondere di fronte a lei il mio vero obiettivo, ad attaccar discorso, certe volte, come un perfetto ipocrita, magari chiedendole delucidazioni su una cosa che dicevo di non aver capito bene o commentando il modo di fare di un commensale che anche a lei non piaceva. Nel giudizio sui Bemberg, i due giovani parvenus della tavolata, i nostri cuori battevano all’unisono. Il suo disprezzo per i nuovi ricchi non vacillò mai, finché visse. Ma se in quei momenti di accordo perfetto mi fossi reso conto che il suo disprezzo non era altro che la diretta conseguenza della sua idea di «buona famiglia», certo mi sarei sentito meno a mio agio.

Il trucco più efficace consisteva comunque nel farle qualche domanda. Con astuzia tutt’altro che innocente la interrogavo su un tema che lei – stando alle mie vecchie esperienze – conosceva bene. Era un modo efficace per cominciare a discutere, e poi avvicinarmi gradualmente al mio vero obiettivo. Ma spesso la pazienza non mi bastava e, se l’argomento mi interessava davvero, passavo avventatamente alle domande dirette. È quel che successe a proposito di van Gogh, quando la mamma fece fiasco completo e cercò di nascondere la propria ignoranza imprecando con estrema grettezza contro «quel pazzo di un pittore». In quei casi io perdevo la testa, mi scagliavo contro di lei con veemenza e arrivavamo a scontri mortificanti per tutti e due. Per lei, che era palesemente in torto. Per me, che le rinfacciavo senza misericordia che stava parlando di argomenti di cui non sapeva nulla, atteggiamento che in passato, quando discutevamo insieme di letteratura, aveva sempre criticato con la massima asprezza. Dopo quegli scontri ero talmente disperato che uscivo di casa, me ne andavo a zonzo in bicicletta – una delle due consolazioni degli anni di Francoforte. L’altra consolazione, ancora più necessaria, le volte che la mamma taceva, e non si arrivava a uno scontro, non si arrivava a nulla, erano le stelle.

Ciò che la mamma rinnegava ostinatamente (la responsabilità per le cose che succedevano intorno a lei) e rifiutava con una sorta di cecità consapevole e selettiva che faceva calare su di sé a comando, tutto ciò in quel periodo diventò per me così nitido e assillante che non riuscivo a starmene zitto, dovevo parlargliene, e divenne una sorta di permanente rimprovero nei suoi confronti. La mamma temeva il mio ritorno da scuola perché era sicura che me ne sarei uscito con qualche nuovo particolare osservato da me o udito da altri; mi bastava dire la prima frase per sentire la sua totale chiusura, e allora buttavo fuori con violenza ancora maggiore quel che mi urgeva dentro, che così assumeva il tono, per lei difficile da sopportare, del rimprovero personale. Da principio non avevo la minima intenzione di ritenerla responsabile dei fatti che per la loro ingiustizia o disumanità suscitavano il mio sdegno. Ma lei non voleva ascoltarmi, aveva un modo tutto suo di ammettere le cose soltanto a metà, e allora il mio racconto si trasformava davvero in accusa. Le cose che volevo riferirle assumevano un tono personale e in questo modo la costringevo ad ascoltare e a rispondere in un modo o nell’altro. Lei provava a dire «Lo so, lo so» oppure «Già, posso immaginarmelo». Ma io non gliela facevo passare liscia, rincaravo la dose, quel che avevo visto o sentito raccontare glielo sbattevo in faccia come un capo d’accusa. Era come se un potere ignoto mi avesse affidato una protesta che dovevo far giungere sino a lei. «Stammi a sentire!» dicevo, prima solo con impazienza, poi con rabbia. «Stammi a sentire! Questo me lo devi spiegare! Com’è possibile che succeda una cosa simile e nessuno ci faccia caso?».

Una donna per strada era crollata a terra svenuta. «È la fame» avevano detto alcuni passanti aiutandola a rialzarsi; aveva un aspetto terribilmente pallido ed emaciato; altra gente, però, aveva tirato dritto senza guardarsi indietro. «E tu ti sei fermato?» disse la mamma, pungente, un simile evento doveva pur commentarlo in qualche modo. Era vero, io me n’ero tornato a casa e ora stavo seduto con lei e con i miei fratelli intorno al tavolo rotondo per la solita merenda. Avevo davanti una tazza di tè, sul mio piatto c’era un panino col burro che non avevo ancora portato alla bocca, però mi ero messo a tavola come sempre, e solo dopo essermi seduto avevo cominciato a raccontare.

Ciò che avevo visto quel giorno non era uno spettacolo consueto, per la prima volta in vita mia qualcuno sveniva per strada sotto i miei occhi, crollava al suolo sfinito dalla fame e dalla debolezza. Ne rimasi talmente scosso che entrai nella stanza senza dire una parola e continuando a tacere presi il mio posto a tavola. Vedere il panino col burro, e soprattutto il barattolo del miele in mezzo al tavolo, mi sciolse la lingua, e cominciai a parlare. La mamma colse al volo il ridicolo della situazione ma, come sempre, reagì con troppa irruenza. Se avesse aspettato un attimo, e cioè che io prendessi in mano e addentassi il mio panino imburrato, o anche soltanto che ci spalmassi sopra del miele, il suo sarcasmo, che traeva alimento dalla situazione ridicola nella quale mi ero cacciato, certo mi avrebbe annichilito. Ma lei, ancora una volta, non mi prese abbastanza sul serio; forse pensò che ormai ero seduto e che perciò la merenda avrebbe seguìto il suo corso. Si fidò troppo del rito già iniziato e se ne servì come arma per mettermi al più presto fuori combattimento; le dava fastidio che la merenda fosse disturbata da descrizioni di gente affamata che sviene per la strada; solo fastidio, nient’altro, e, giudicando in base al proprio coinvolgimento, che era scarsissimo, sottovalutò la serietà del mio stato d’animo. Io saltai su urtando il tavolo, il tè si rovesciò sulla tovaglia, e gridando «Non mi fermo nemmeno qui!» mi precipitai fuori dalla stanza.

Scesi le scale volando, saltai sulla bicicletta e disperato mi misi a pedalare su e giù per le strade del quartiere, più in fretta che potevo, a casaccio, senza sapere quel che volevo – che cosa avrei potuto volere? –, ma pieno di un odio smisurato per quella nostra merenda. Avevo continuamente davanti agli occhi il vasetto del miele e lo coprivo di maledizioni. «Ah, se l’avessi gettato dalla finestra! In strada! Non in cortile!». Solo se fosse andato in frantumi per la strada, sotto gli occhi di tutti, il mio gesto avrebbe avuto un senso: tutti avrebbero visto che qui della gente teneva in casa il miele, mentre altri pativano la fame. Ma non avevo fatto niente di tutto questo. Avevo lasciato sul tavolo il vasetto del miele, non avevo neppure rovesciato la tazza, un po’ di tè si era versato sulla tovaglia, ecco tutto. Mi sentivo profondamente esacerbato, eppure non ero riuscito a far niente di concreto, non ne avevo avuto la forza: non sono altro che un placido agnellino, pensai, nessuno ascolta il suo pietoso belato, una cosa sola è successa: la mamma si è arrabbiata perché ho disturbato la merenda.

Non era davvero successo nient’altro. Ritornai a casa. La mamma mi punì chiedendomi con tono compassionevole se era stato davvero così terribile, da uno svenimento ci si riprende, disse, non è nulla di definitivo, probabilmente mi ero tanto spaventato perché quella donna l’avevo guardata in faccia proprio nel momento in cui stava cadendo per terra. Veder morire un essere umano era tutt’altra cosa. Temevo che ricominciasse col sanatorio nel bosco, e con la gente morta laggiù, diceva sempre che erano morti sotto i suoi occhi; questa volta però non lo disse, disse soltanto che mi dovevo abituare anche a cose del genere, non dicevo forse, di tanto in tanto, che mi sarebbe piaciuto fare il medico? Che razza di medico è un uomo che crolla di fronte alla morte del suo paziente? Forse per me era stato un bene assistere a quello svenimento, era un modo di cominciare ad abituarmi a certe situazioni.

Così quello svenimento che mi aveva tanto indignato fu l’occasione per sottolineare un requisito generale della professione medica. Invece di rimproverarmi per il mio gesto urtante, la mamma mi mise in guardia per la vita futura, nella quale sarei fallito se non fossi diventato più duro e controllato.

Dopo quell’episodio la taccia mi rimase: non ero tagliato per fare il medico. Avevo il cuore troppo tenero, a una simile professione non mi sarei mai abituato. Non ho mai voluto ammetterlo, ma rimasi molto impressionato dalla piega imprevista che la mamma aveva dato al mio avvenire. Cominciai a pensarci su, a esitare. Non ero più tanto sicuro di poter diventare un medico.

Gilgamesh e Aristofane

Il periodo di Francoforte non si esaurì nelle esperienze umane vissute nella pensione Charlotte. Queste, comunque, si arricchivano ogni giorno in un processo continuo, e perciò non vanno sottovalutate. Ti sedevi a tavola, sempre allo stesso posto, e davanti a te recitavano la loro parte, sempre agli stessi posti, alcune persone che ai tuoi occhi erano diventate dei personaggi. Personaggi che perlopiù erano sempre uguali a se stessi, dalla loro bocca non usciva mai nulla d’inaspettato. Alcuni, però, tenevano celata la loro natura e ogni tanto ti sorprendevano con uno scarto improvviso. In un modo o nell’altro, era sempre uno spettacolo, e neppure una volta entrai nella sala da pranzo della pensione Charlotte senza sentirmi eccitato e incuriosito.

Per i miei insegnanti (con una sola eccezione) non riuscivo a scaldarmi molto. Il collerico professore di latino perdeva il controllo al minimo pretesto e allora ci insultava, «asini fetenti» ci diceva, e non era la sua unica ingiuria. I suoi metodi didattici, basati su ‘frasi modello’ che dovevamo ripetere a pappagallo, erano assolutamente ridicoli. È strano che non abbia dimenticato il latino imparato a Zurigo per il disgusto che m’ispirava quel professore. Le sue sfuriate sono state l’esperienza più avvilente e più assordante di tutta la mia vita scolastica. La guerra l’aveva segnato, certo ne aveva riportato danni piuttosto seri; era quel che ci dicevamo di tanto in tanto per cercare di sopportarlo. Parecchi professori portavano il marchio della guerra, sia pure in modo meno appariscente. Ce n’era uno, però, pieno di calore umano, che riversava sui suoi allievi un affetto traboccante. Era un ottimo insegnante di matematica, che sembrava piuttosto disturbato. Ma si trattava di un disturbo di cui egli stesso faceva le spese, non i suoi allievi. Quell’uomo si dedicava all’insegnamento con tutta l’anima, la sua coscienziosità faceva quasi spavento.

Potrebbe venire la tentazione di prendere in esame questi insegnanti per illustrare i differenti effetti che la guerra produce sugli esseri umani; ma per farlo bisognerebbe conoscere, almeno in parte, le loro esperienze, di cui essi, invece, non ci parlavano mai. Davanti a me avevo i loro volti e le loro figure, sapevo come si comportavano in classe, nient’altro, tutto il resto lo conoscevamo soltanto per sentito dire.

Vorrei parlare almeno di un uomo fine e taciturno per il quale provo ancora un senso di gratitudine. Gerber era il nostro professore di tedesco, per contrasto con gli altri sembrava quasi un pavido. I temi che assegnava crearono tra me e lui una sorta di amicizia. All’inizio quei temi mi annoiavano, erano sempre su Maria Stuarda o su argomenti analoghi, tuttavia mi costavano poca fatica e a lui piacevano. Poi diventarono più interessanti, e io cominciai a manifestare sul serio le mie idee, che, per reazione alla scuola, erano già le idee di un ribelle e non andavano affatto d’accordo con le sue. Però lui le accettava. Aggiungeva in fondo al tema, con l’inchiostro rosso, delle lunghe considerazioni nelle quali mi proponeva vari argomenti di riflessione, ma lo faceva in maniera tollerante e senza lesinare gli elogi per il mio modo di esprimere quello che pensavo. Nelle sue osservazioni critiche, quali che fossero, mai lo sentivo ostile e, anche quando non potevo accettarle, ero molto contento che si fosse dato la pena di farmele. Pur non essendo un trascinatore, era un insegnante assai comprensivo. Aveva mani piccole, piedi piccoli e piccoli gesti; non era particolarmente lento nei movimenti, eppure faceva ogni cosa come a scartamento ridotto, neppure la sua voce aveva quei toni fastidiosamente virili con cui gli altri professori si davano tanta importanza.

Gerber mi aprì la biblioteca dei professori, da lui amministrata, e mi disse di prendere i libri che volevo. Assetato com’ero di autori classici, leggevo – in traduzione tedesca – un volume dopo l’altro, storici, drammaturghi, lirici, oratori; soltanto i filosofi – Platone e Aristotele – li lasciai provvisoriamente da parte. Ma gli altri li lessi davvero tutti quanti, e non solo i grandi, ma anche scrittori interessanti solo per il materiale che le loro opere offrivano, come Diodoro o Strabone. Gerber si meravigliava della mia costanza, per due anni continuai a prendere in prestito solo questo genere di libri. Quando arrivai a Strabone, egli scosse il capo e mi chiese se, tanto per cambiare, non volevo un testo medievale; ma la proposta allora non ebbe fortuna.

Un giorno che ci trovavamo tutti e due nella biblioteca dei professori, Gerber mi domandò con cautela, quasi con tenerezza, che cosa avrei voluto fare in futuro. Intuivo la risposta che si aspettava, ma dissi, non troppo sicuro: «Il medico». Rimase deluso, ci pensò su un momento e venne a un compromesso: «Allora lei diventerà un altro Carl Ludwig Schleich». Apprezzava i ricordi di Schleich, ma avrebbe preferito che gli dicessi chiaro e tondo che avrei voluto fare lo scrittore. Da allora mi fece spesso, incidentalmente e senza parere, il nome di medici scrittori.

Durante le sue lezioni leggevamo ad alta voce dei drammi, dividendoci tra noi le parti. Non voglio certo dire che fosse un gran divertimento. Ma egli lo faceva nella speranza di conquistare alle sue lezioni, obbligandoli ad assumersi una parte, anche gli allievi con scarsi interessi letterari. Raramente sceglieva dei drammi veramente noiosi. Leggemmo I masnadieri, l’Egmont e il Re Lear, e alcuni di essi andammo a vederli a teatro.

Nella pensione Charlotte si parlava molto di rappresentazioni teatrali, commentandole e sviscerandole in ogni particolare. E poiché anche i veri intenditori presenti nella pensione prendevano pur sempre spunto dalle recensioni della «Frankfurter Zeitung», le discutevano e, anche quando erano di opinione diversa, manifestavano un deferente rispetto per il punto di vista autorevole della carta stampata, le conversazioni riguardanti il teatro si ponevano a un certo livello ed erano forse più serie di quelle su altri argomenti. La passione per il teatro la sentivano tutti e ne erano orgogliosi. Un fiasco suscitava un senso di profondo rammarico, e non soltanto giudizi sprezzanti. Il teatro era un’istituzione riconosciuta, e anche coloro che per il resto militavano in campi avversi si sarebbero ben guardati dall’attaccarla. Il signor Schutt, impedito dalle sue gravi ferite, a teatro non ci andava quasi mai, ma anche dalle sue poche parole si capiva che la signorina Kündig aveva l’incarico di informarlo su ogni singolo spettacolo; i suoi giudizi suonavano sicuri come se a teatro ci fosse stato di persona. Chi non aveva niente da dire preferiva tacere: una figuraccia su quel tema era l’infortunio più increscioso che potesse capitare a chiunque.

Poiché gli altri argomenti di conversazione sembravano per la maggior parte così malcerti – tutto vacillava e il contrasto perenne delle opinioni non dipendeva affatto da motivi superficiali – si aveva l’impressione, soprattutto essendo molto giovani, che esistesse almeno una cosa intangibile per tutti: il teatro.

Io a teatro ci andavo abbastanza spesso; da una rappresentazione, in particolare, rimasi così incantato che feci di tutto per tornarci più volte. Vi recitava un’attrice che occupò a lungo i miei pensieri, ce l’ho ancora davanti agli occhi com’era allora: Gerda Müller nella parte di Pentesilea. Quella passione è entrata in me, di essa non ho mai dubitato, la mia iniziazione amorosa è stata la Pentesilea di Kleist. La confrontavo in cuor mio con una delle tragedie greche lette in quel periodo, Le Baccanti. Il selvaggio furore delle Amazzoni guerriere assomigliava a quello delle Menadi, e al posto delle donne invasate che dilaniano vivo il corpo del re, nella tragedia di Kleist Pentesilea aizza contro Achille la muta dei suoi cani e al pari di essi affonda i suoi denti nelle carni dell’amato. Da allora non ho mai più osato rivedere quel dramma e, leggendolo, ho sempre risentito il suono della sua voce, che per me non si è più affievolito. All’attrice che mi ha convinto che l’amore esiste davvero sono rimasto sempre fedele.

Non vedevo alcun rapporto fra la Pentesilea e le scene avvilenti nella stanza accanto. Quanto a Le Plaidoyer d’un fou continuavo a considerarlo, come prima, tutto una menzogna.

Fra gli attori più in voga ricordo Carl Ebert, che all’inizio recitava regolarmente, poi ogni tanto come ospite della compagnia. Molti anni dopo Ebert è diventato famoso per cose di tutt’altro genere. Io lo vidi quand’era agli inizi, nella parte di Karl Moor e in quella di Egmont. Mi abituai a vederlo in diversi ruoli, sarei andato a teatro anche soltanto per lui e in fondo non ho da vergognarmi di questa mia debolezza perché ad essa sono debitore dell’esperienza più importante del periodo di Francoforte. Seppi che in una matinée domenicale Carl Ebert avrebbe letto dei brani tratti da un’opera della quale non avevo mai sentito parlare. Quest’opera era più antica della Bibbia, era un’epopea babilonese. Sapevo che a Babilonia c’era stato il diluvio, si diceva che la leggenda biblica derivasse dalla tradizione babilonese. Non ero in grado di aspettarmi nulla di più e certo non mi sarei mosso soltanto per questo; ma il lettore era Carl Ebert e grazie all’infatuazione per il mio attore preferito incontrai Gilgamesh, che più di ogni altra cosa ha determinato la mia vita, il suo senso più segreto, la sua fede, la sua forza e le sue attese.

Il lamento di Gilgamesh per la morte dell’amico Enkidu mi penetrò nel cuore:

 

Giorno e notte piansi per lui,

e non volli che fosse sepolto –

se mai l’amico risorgesse al mio grido –

sette giorni piansi, e sette notti,

finché il verme assalì il suo volto.

Poiché egli se ne andò, non trovavo più la vita,

e come un ladro mi aggiravo per la steppa.

 

E poi viene l’impresa di Gilgamesh contro la morte, il cammino attraverso le tenebre del monte celeste e le acque della morte, fino a quando raggiunge il suo avo Utnapishtim, l’uomo che è stato salvato dal diluvio e ha ottenuto dagli dèi il dono dell’immortalità. Da lui Gilgamesh vuol sapere come potrà attingere la vita eterna. Gilgamesh, è vero, fallisce e muore. Ma proprio questo esito non fa che rafforzare il sentimento della necessità della sua impresa.

In questo modo sperimentai su me stesso l’azione di un mito: come qualcosa su cui, durante il mezzo secolo che da allora è trascorso, ho riflettuto in molti modi diversi, voltandolo e rivoltandolo dentro di me, senza mai seriamente metterlo in dubbio neppure una volta. Quel mito l’ho accolto in me come unità e in me è rimasto come unità. Su di esso non posso fare il sottile. La domanda se credo a una storia del genere non mi tocca affatto; di fronte alla mia sostanza più vera, come faccio a decidere se ci credo o no? Non serve ripetere come un pappagallo che sinora tutti gli uomini sono morti, si tratta semplicemente di decidere se bisogna accettare docilmente la morte o se ad essa bisogna ribellarsi. Il diritto allo splendore, alla ricchezza, alla miseria e alla disperazione di ogni esperienza me lo sono conquistato ribellandomi alla morte. Sono vissuto dentro questa rivolta senza fine. E se il mio dolore per le persone care che ho perduto nel corso degli anni non è stato minore di quello di Gilgamesh per l’amico Enkidu, in una cosa, una sola, ho superato l’uomo del leone: a me è cara la vita di ogni uomo, non soltanto quella dei miei cari.

Il fatto che questa epopea si concentri su pochissimi personaggi ha creato un grande distacco tra essa e l’epoca turbolenta nella quale io l’ho conosciuta. Il ricordo degli anni di Francoforte è dominato da eventi pubblici che rapidamente si susseguivano. Gli avvenimenti erano preceduti dalle ‘voci’, al tavolo della pensione si spargevano in continuazione delle voci che non sempre si rivelavano prive di fondamento. Ricordo che parlammo dell’assassinio di Rathenau prima di leggere la notizia sui giornali (la radio non c’era ancora). Al centro delle voci erano soprattutto i francesi. Avevano occupato Francoforte, poi se n’erano andati, improvvisamente qualcuno disse che sarebbero ritornati. Ogni giorno sentivamo parlare di «rappresaglie» e «riparazioni». La scoperta di un deposito clandestino di armi nello scantinato della nostra scuola fece grande scalpore. Dalle indagini che furono fatte risultò che il responsabile di quel deposito di armi era un giovane professore che conoscevo soltanto di vista, era un uomo molto amato, il più amato di tutta la scuola.

Fui molto impressionato dalle dimostrazioni, le prime che vedevo; erano frequenti e sempre contro la guerra. C’era una divisione netta fra chi approvava i moti popolari che avevano posto fine alla guerra e gli altri, che rivolgevano il loro rancore non contro la guerra, ma contro il trattato di Versailles che era stato stipulato l’anno seguente. Era questa la divisione principale, della quale sin da allora si avvertivano gli effetti. Durante una manifestazione sulla Zeil contro l’assassinio di Rathenau feci per la prima volta l’esperienza della massa. Ma gli effetti di quell’esperienza diedero vita a complicate discussioni solo qualche anno dopo, perciò ne parlerò più avanti.

Per il nostro piccolo nucleo familiare l’ultimo anno che passai a Francoforte fu di nuovo un anno di dissoluzione. Mia madre non si sentiva bene, o forse la tensione dei nostri scontri quotidiani le era diventata insopportabile. Partì per il Sud, come aveva già fatto molte volte in passato. Noi tre lasciammo la pensione Charlotte e andammo ad abitare presso una famiglia nella quale una donna premurosissima, la signora Suse, ci accolse con un calore e una bontà che non ci saremmo aspettati neppure da una madre. La famiglia era composta da padre, madre, due figli più o meno della nostra età, una nonna e una giovane domestica. Imparai a conoscere così bene ognuno di loro, oltre ai due o tre altri ospiti stranieri che vivevano in quella casa, che solo un libro intero potrebbe dare un’idea di ciò che compresi allora sulla natura umana.

Fu l’epoca, quella, in cui l’inflazione giunse al suo apice, il balzo quotidiano dei prezzi – si arrivò all’uso del miliardo – ebbe conseguenze estreme, anche se non uguali per tutti. Era uno spettacolo davvero spaventoso: tutto ciò che succedeva, e succedevano molte cose, dipendeva da un solo presupposto, la svalutazione del denaro, che cresceva su se stessa a un ritmo forsennato. Ciò che si abbatteva sugli uomini in quel periodo era più che un grande disordine, erano come tante esplosioni quotidiane, se qualcosa o qualcuno si salvava da una di esse, il giorno dopo incappava nell’esplosione seguente. Non ne vedevo gli effetti soltanto in grande, li vedevo, vicini e inequivocabili in tutto ciò che accadeva a ogni membro di quella famiglia; gli avvenimenti più piccoli, privati e personali avevano sempre e soltanto una causa, il movimento frenetico del denaro.

Per difendermi da quei membri della mia famiglia che vivevano in funzione del denaro, praticavo il disprezzo del denaro come una facile virtù. Consideravo il denaro una cosa noiosa e sempre uguale a se stessa, dalla quale non c’era da ricavare la minima soddisfazione spirituale, che inaridiva e isteriliva a poco a poco chiunque vi dedicasse la propria vita. In quel periodo, tutto a un tratto, cominciai a vedere nel denaro un altro aspetto, un aspetto sinistro – era un demone con una frusta gigantesca, che percuoteva ogni cosa e raggiungeva gli uomini anche nei loro più segreti recessi.

Forse a spingere la mamma a fuggire da Francoforte furono anche queste conseguenze estreme di un fenomeno del quale lei, all’inizio, avrebbe preferito prendere atto senza alcuna partecipazione, e che io tuttavia le ricordavo senza tregua. Mia madre ritornò a Vienna non appena si fu parzialmente ripresa dalla sua malattia, vi portò con sé i miei due fratelli minori e li mandò a scuola in quella città. Io rimasi ancora a Francoforte per circa sei mesi, perché mancava poco all’esame di maturità; poi mi sarei trasferito a Vienna anch’io per gli studi universitari.

Negli ultimi sei mesi passati a Francoforte, sempre con la stessa famiglia, mi sentii completamente libero. Frequentavo spesso riunioni politiche e assemblee e ascoltavo le discussioni, che si prolungavano di notte per le strade; e coglievo ogni opinione, ogni convinzione, ogni fede nello scontro con quelle degli altri. Si discuteva con una passione che era come un crepitare e un guizzare di fiamme, non prendevo mai parte alle discussioni ma ascoltavo con un’intensità che oggi mi fa rabbrividire, perché ero completamente indifeso. Le mie opinioni personali non potevano tener testa a impressioni così soverchianti per forza e per numero. Molte cose mi ripugnavano, ma non ero in grado di confutarle. Altre mi attraevano, ma non avrei saputo dire perché. Non avevo ancora il senso della divisione dei linguaggi che cozzavano gli uni contro gli altri. Non sarei in grado di rievocare fisicamente, e neppure di imitare, uno solo di quegli uomini che sentivo discutere. Avvertivo soltanto il contrasto delle opinioni, il nocciolo duro delle convinzioni, era una specie di crogiuolo stregato che fumava e ribolliva, ma tutti gli ingredienti che in esso galleggiavano conservavano il proprio odore e si potevano riconoscere.

Mai in vita mia ho sentito tanta irrequietezza negli uomini come in quei sei mesi. Fino a che punto si distinguessero gli uni dagli altri come persone singole non aveva molta importanza: la prima cosa a cui avrei guardato negli anni successivi allora la notavo appena. Invece ero attento a ogni convinzione, anche quando mi ripugnava. Molti oratori abituati a parlare in pubblico e sicuri del fatto loro mi sembravano dei ciarlatani. Ma poi, durante le discussioni per la strada, quando tutto si disperdeva in mille rivoli e gli uomini che cercavano di convincersi a vicenda non erano affatto degli oratori, allora la loro inquietudine mi contagiava e li prendevo sul serio, uno per uno.

Non suoni presuntuoso o frivolo se definisco questo periodo il mio apprendistato aristofanesco. Allora, leggendo Aristofane, mi colpirono la forza e la coerenza con cui ogni sua commedia si ispira a una trovata centrale, sempre sorprendente, dalla quale si dipana l’intera vicenda. Nella Lisistrata, la prima che ho letto, uno sciopero delle mogli, che si rifiutano di concedersi ai loro mariti, mette fine alla guerra tra Atene e Sparta. Di queste trovate centrali in Aristofane ce ne sono molte, ma poiché la maggior parte delle sue commedie sono andate perdute, ne conosciamo poche. Avrei dovuto essere cieco per non notare la somiglianza con ciò che vedevo intorno a me: anche qui tutto dipendeva da un unico presupposto centrale, il movimento folle del denaro. Non era una trovata, era la realtà, la cosa perciò non era affatto comica, era orribile, ma la forma, se cercavi di abbracciarla come un tutto, era simile a una commedia di Aristofane. Si potrebbe dire che lo sguardo crudele di Aristofane offriva l’unica possibilità di tenere unito ciò che si frantumava in mille schegge.

Da allora mi è rimasta un’avversione incrollabile per la rappresentazione, a teatro, di rapporti puramente privati. Nel conflitto fra la Vecchia e la Nuova Commedia, entrambe di derivazione ateniese, fin da allora io presi partito per la Vecchia, pur senza rendermi conto fino in fondo del perché. Solo ciò che tocca la collettività nel suo insieme mi pare degno di essere rappresentato a teatro. La commedia di carattere, che prende di mira questo o quell’individuo, mi ispira sempre una certa vergogna, anche se si tratta di una buona commedia; è come se mi fossi rifugiato in un nascondiglio che abbandono soltanto in caso di necessità, per nutrirmi o per bisogni analoghi. Per me la commedia, come al tempo dei suoi inizi aristofanei, trae vita dal suo interesse generale, dalla capacità di contemplare il mondo nelle sue connessioni più vaste. Muovendo da queste connessioni, deve fare e disfare audacemente, deve concedersi delle trovate che sfiorino la follia, deve annodare, dividere, variare, confrontare, deve inventare nuove strutture che le consentano nuove trovate, non deve mai ripetersi né rendersi troppo facile, insomma deve pretendere il massimo dallo spettatore, scuoterlo, strapazzarlo, sfinirlo.

È certo una riflessione assai tardiva quella che mi fa dire che scelsi sin da allora il tipo di dramma al quale in seguito mi sarei dedicato. Eppure credo di non sbagliarmi; non si spiegherebbe altrimenti come mai il ricordo dell’ultimo anno passato a Francoforte sia totalmente dominato dalla turbolenza degli avvenimenti pubblici e insieme, come se si trattasse dello stesso mondo, dalle commedie di Aristofane, nell’impressione violenta della prima lettura. In mezzo non vedo nulla, una cosa trapassa nell’altra, e la stretta contiguità dei due ricordi può avere un solo significato: in quel periodo furono queste le esperienze per me decisive, che si influenzarono l’un l’altra in maniera determinante.

Tuttavia, nello stesso periodo agiva qualcosa che era in rapporto con Gilgamesh e che fungeva da contrappeso. Qualcosa che riguardava il destino dell’uomo singolo, distinto da tutti gli altri, preso per sé solo: l’incombere della morte su di lui e il dubbio se egli debba accettarla.

PARTE SECONDA

TEMPESTA E COSTRIZIONE1
Vienna 1924-1925

Vita con mio fratello

All’inizio di aprile del 1924 andai ad abitare insieme a Georg in una stanza della Praterstrasse 22, in casa della signora Sussin. Era una stanza buia, la più interna del suo appartamento, e la finestra dava sul cortile. Vi passammo insieme quattro mesi, un periodo non particolarmente lungo. Ma era la prima volta che vivevo da solo con uno dei miei fratelli, e in quel periodo avvennero molte cose.

Nacque tra noi un rapporto molto stretto, io avevo assunto la veste di mentore, Georg mi chiedeva consiglio su ogni cosa, e specialmente su tutti i problemi morali. Quasi ogni sera, in quei quattro mesi passati insieme, parlammo di ciò che è lecito, di ciò che è doveroso, di ciò che è da aborrire in ogni circostanza, ma anche delle esperienze che avremmo voluto fare, delle cose che avremmo voluto conoscere – interrompendo il lavoro al grande tavolo quadrato vicino alla finestra, dove stavamo seduti, ciascuno coi suoi libri e i suoi quaderni. Eravamo separati soltanto da uno spigolo, ci bastava alzare la testa per guardarci in faccia. Georg era già allora di un bel palmo più alto di me, benché avesse sei anni di meno. Da seduti eravamo quasi alti uguali. A Vienna avevo deciso d’iscrivermi alla facoltà di chimica (anche se non ero affatto sicuro di rimanerci), e mancava un mese all’inizio del semestre. Dato che al liceo di Francoforte di chimica non mi avevano insegnato nulla, era proprio ora che cominciassi ad acquisire qualche nozione sull’argomento. Nelle quattro settimane che mi restavano volevo recuperare il terreno perduto. Avevo davanti a me il manuale di chimica inorganica, che, essendo un testo di teoria privo di qualsiasi connessione con la pratica, mi interessava persino, e andavo avanti spedito.

Ma per quanto profondamente fossi immerso nella mia lettura, quale che fosse l’argomento di cui mi stavo occupando, Georg aveva sempre il permesso di interrompermi con le sue domande. Frequentava una delle classi inferiori del «Realgymnasium» alla Stubenbastei, aveva solo tredici anni. Imparava volentieri e facilmente, solo in disegno, materia che in quella scuola era presa molto sul serio, aveva qualche difficoltà. Era tanto avido di conoscenze quanto lo ero stato io alla sua età, e su ogni cosa gli venivano in mente domande molto sensate. Non chiedeva quasi mai spiegazioni su cose che non aveva capito, tutto ciò che poteva leggere lo capiva con facilità; solo voleva saperne di più, voleva conoscere altri particolari che completassero l’esposizione schematica dei manuali. A molte delle sue domande ero in grado di rispondere lì per lì, senza riflettere né documentarmi. Ero felice di potergli dare qualcosa, fino a quel momento avevo tenuto tutto quanto per me, non avevo avuto nessuno con cui parlare di quelle cose. Georg capiva che ogni interruzione mi faceva piacere e che non ponevo alcun limite alle sue domande. In poche ore si toccavano i temi più svariati, questo mi rendeva più viva la chimica, ancora un po’ estranea e minacciosa, tanto più che in fin dei conti non escludevo di dovermene occupare per quattro anni, o forse anche di più. Georg m’interrogava sugli autori latini, sulla storia (qui, appena possibile, portavo il discorso sui Greci), su questioni di matematica, botanica e zoologia; ma le domande predilette erano quelle di geografia, sui paesi del mondo e i loro abitanti. Sapeva che era questo l’argomento su cui potevo dirgli di più; qualche volta dovevo farmi forza per riuscire a smettere, tanta era la voglia di raccontargli in tutti i particolari le cose che avevo imparato dai miei esploratori. E qui non gli risparmiavo i miei giudizi sul comportamento degli uomini. Parlando della lotta contro le malattie nei paesi tropicali mi lasciavo trascinare dall’entusiasmo. Non avendo ancora superato del tutto il dolore per la rinuncia alla medicina, gli trasmettevo la mia antica aspirazione ingenuamente e senza alcun ritegno.

Amavo la sua insaziabilità. Sedendomi davanti ai libri, già mi rallegravo al pensiero delle sue domande. Avrei sofferto più io del suo silenzio che lui del mio. Se fosse stato prepotente o calcolatore avrebbe potuto ridurmi alla sua mercé con la massima facilità. Una sera al nostro tavolo senza le sue domande sarebbe stata logorante, penosa. Ma Georg non era certo così: le sue domande non avevano secondi fini, proprio come le mie risposte. Georg voleva conoscere, io comunicargli ciò che sapevo; e le nuove conoscenze suscitavano da sole nuove domande. È strano che non mi abbia mai messo in imbarazzo. La sua insaziabilità spaziava all’interno dei miei limiti. Forse le nostre inclinazioni erano naturalmente affini, forse gli comunicavo ciò che sapevo con tanta passione da cancellare in lui il desiderio di sapere altre cose: fatto sta che Georg faceva solo domande alle quali io sapevo rispondere e non mi mortificava mai; eppure sarebbe stato facile, se solo mi avesse messo a confronto con le mie lacune. Eravamo entrambi del tutto aperti, non ci nascondevamo nulla. In quel periodo dipendevamo l’uno dall’altro, nessuno ci era vicino, uno solo era l’imperativo che avevamo di fronte: lui non doveva deludermi, io non dovevo deluderlo. Per nessuna ragione avrei rinunciato alle nostre ‘serate di studio’ al grande tavolo quadrato sotto la finestra.

Venne l’estate, le serate si allungarono, cominciammo a lasciare aperte le finestre che davano sul cortile. Due piani più in basso, proprio sotto di noi, c’era la bottega del sarto Fink, anche la sua finestra era aperta e il ronzio sommesso della macchina da cucire si sentiva fin su da noi. Lavorava fino a notte fonda, lavorava sempre. Lo sentivamo consumando al solito tavolo il pasto serale, lo sentivamo sparecchiando, lo sentivamo quando ci mettevamo a leggere e lo dimenticavamo soltanto quando il nostro colloquio diventava così appassionante che ci avrebbe fatto dimenticare qualsiasi cosa. Ma poi quando andavamo a letto, stanchissimi, perché la giornata era cominciata presto, sentivamo di nuovo il ronzio della macchina da cucire.

Il pasto serale consisteva di pane e yogurth, e per un certo periodo di pane solo, perché la nostra convivenza era cominciata con una piccola catastrofe, della quale ero io l’unico responsabile. Per vivere non avevamo certo da scialare, ma tutto ciò di cui avevamo bisogno era stato calcolato e la somma sarebbe stata sufficiente anche per un pasto serale un po’ più abbondante. Ricevevo in anticipo il denaro per tutto il mese, che in parte veniva dal nonno e per il resto dalla mamma, 

 lo portavo sempre con me e mi ero proposto di amministrarlo nella maniera migliore. Avevo già una certa esperienza; a Francoforte ero vissuto sei mesi senza la mamma con i miei fratelli più piccoli, e davvero non era stato facile, nell’ultima fase dell’inflazione galoppante, riuscire a cavarsela provvedendo a tutto. In confronto a Francoforte, vivere a Vienna mi sembrava un gioco da ragazzi.

E lo sarebbe stato, senonché avevo fatto i conti senza il Wurstelprater. Era vicinissimo, a meno di un quarto d’ora da casa nostra, e data l’enorme importanza che aveva avuto nei miei anni infantili passati a Vienna, sembrava ancora più vicino. Invece di tenere il mio fratello più piccolo lontano dalle sue seduzioni, lo portai laggiù insieme a me. Un pomeriggio di sabato gli mostrai quelle meraviglie, ma qualcuna non c’era più. Anche quelle che ritrovai, tuttavia, furono piuttosto deludenti. Georg aveva lasciato Vienna a cinque anni e, non avendo conservato alcun ricordo del Wurstelprater, si era dovuto basare sui miei racconti, che avevo ornato di tutte le meraviglie. Non era una vergogna che il fratello maggiore, apparentemente onnisciente, il fratello che gli aveva parlato del Prometeo di Eschilo, della Rivoluzione francese, della legge di gravità e della teoria dell’evoluzione, pretendesse di ammannirgli ora il Terremoto di Messina nel Tunnel degli orrori, il tutto preceduto dalla Bocca dell’Inferno?

Dovevo avergliela dipinta davvero a fosche tinte, perché, quando finalmente trovammo il Tunnel degli orrori e davanti a noi si spalancarono le fauci dell’Inferno, nelle quali i diavoli, senza fretta, gettavano i peccatori infilzandoli sui forconi, Georg mi guardò stupito e disse: «Sul serio una volta ti spaventavi a vedere questa roba?». «No, io no, avevo già otto anni, ma voi, che eravate piccolissimi, sì». Mi accorsi che ero sul punto di perdere la sua stima. Ma Georg non voleva, teneva troppo alle nostre discussioni serali, benché fossero appena incominciate, perciò non mostrò il minimo desiderio di entrare a vedere il Terremoto di Messina, l’attrazione che ci aveva indotti ad andare fin là. Io ero contento di potermi trarre d’impaccio, la voglia di vedere il Terremoto era passata anche a me, e mi affrettai dunque a portarlo via. Così ne ho conservato il ricordo in tutto il suo antico splendore.

Ma non riuscii a cavarmela così a buon mercato, per fargli dimenticare la delusione dovevo pur offrirgli qualcosa, e mi gettai sui giochi d’azzardo del Prater, che in realtà non mi avevano mai interessato. Ce n’erano moltissimi, per tutti i gusti, ma noi ci concentrammo sul lancio dell’anello, perché avevamo visto varie persone vincere una dopo l’altra. Feci tentare Georg, che non ebbe fortuna, allora provai io stesso, ma sbagliai, provai di nuovo e sbagliai, i miei tiri sembravano stregati. Presto mi lasciai a tal punto trascinare dal gioco che Georg mi ammonì tirandomi per la manica; ma io non mi diedi per vinto. Georg vide svanire a poco a poco tutto il nostro mensile, era perfettamente in grado di valutarne le conseguenze ma non disse nulla, neppure che gli sarebbe piaciuto tentare di nuovo. Capiva, credo, che provavo un senso di insopportabile vergogna nel tirare così male davanti a lui, una cosa inspiegabile, e che assolutamente dovevo riscattarmi con una serie di tiri azzeccati. Mi guardava con gli occhi sbarrati e di tanto in tanto era scosso da un brivido, mi sembrava che assomigliasse a uno di quei pupazzi meccanici che si trovavano davanti al Tunnel degli orrori. Continuai ostinatamente a tirare, ma sempre peggio. Le due figuracce, quella di prima e quella di adesso, si mescolavano e si fondevano in una sola. Il gioco mi sembrava cominciato da poco, ma certo durava da un pezzo, perché di colpo tutto il nostro denaro per il mese di maggio era svanito.

Se si fosse trattato di me soltanto, non mi sarei sentito così in colpa. Ma c’era Georg, io ero responsabile della sua sopravvivenza, facevo, per così dire, le veci di un padre, gli assegnavo da meditare i migliori princìpi, cercavo di infondergli alti ideali. Nel laboratorio di chimica, che proprio in quei giorni avevo cominciato a frequentare, mi venivano in mente per tutto il giorno le cose che di sera avrei detto a Georg, cose che si sarebbero impresse così profondamente nel suo animo che mai più avrebbe potuto dimenticarle. Proprio in virtù dell’amore fraterno, che allora era diventato il mio sentimento dominante, mi ero persuaso che un uomo deve rispondere di ogni frase che pronuncia, e che perfino un’unica falsità avrebbe potuto condurre Georg su una strada sbagliata e danneggiarlo per la vita. E ora avevo dissipato tutto il nostro mensile di maggio! Nessuno avrebbe dovuto saperlo, e men che mai la famiglia Sussin, presso la quale abitavamo: temevo che se l’avessero saputo ci avrebbero cacciato via.

Per fortuna nessun conoscente era stato spettatore del mio misfatto, e Georg capì immediatamente che bisognava star zitti. Ci consolammo a vicenda con virili propositi. A mezzogiorno eravamo soliti pranzare da Benveniste, una trattoria a due passi dal Carl-Theater, dove ci aveva portato il nonno. Ora non più. Ci saremmo accontentati di yogurth e pane. E per la sera di pane soltanto. Dove avrei trovato i soldi (almeno per lo yogurth e il pane) non lo dissi, non lo sapevo ancora.

Credo che questa piccola disgrazia, che mi ero meritato, ci abbia avvicinati di più l’uno all’altro, ancor più del gioco serale di domande e risposte. Per un mese intero facemmo davvero una vita grama. Senza la colazione che la signora Sussin ci portava ogni mattina, non so proprio come avremmo potuto resistere. Aspettavamo con una fame da lupi il caffelatte mattutino con due panini a testa. Ci alzavamo più presto del solito, ci lavavamo più presto del solito, e quando la signora entrava in camera con il vassoio eravamo già seduti al tavolo quadrato. Evitavamo i gesti nervosi che avrebbero tradito la nostra bramosia, e sedevamo rigidi, come se avessimo tutti e due qualcosa da ripassare mentalmente. La signora Sussin ci teneva a scambiare due frasi mattutine, dovevamo sempre informarla di come avevamo dormito, ed eravamo ancora fortunati se ci veniva risparmiato il resoconto di come aveva dormito lei.

Ogni mattina la signora ci parlava con enfasi di suo fratello, che si trovava in prigione a Belgrado, «Un vero idealista!»: cominciava sempre così, di getto, e mai lo nominava senza premettere la parola «idealista». In realtà non diceva nulla sulle sue convinzioni politiche, tuttavia era fiera di lui, perché era amico di Henri Barbusse e di Romain Rolland. Era un uomo malato, aveva cominciato fin da giovane a soffrire di tubercolosi, la prigione era un vero veleno per lui, che avrebbe avuto bisogno invece di un vitto sostanzioso e abbondante. Quando entrava con la colazione e il buon caffè fumante, la signora Sussin pensava alle cose che suo fratello non aveva, ed era naturale che parlasse di lui. «Ha cominciato presto, ha cominciato già a scuola. Alla sua età» e indicava Georg «era già un idealista. A scuola arringava i compagni e veniva punito. Gli insegnanti erano dalla sua parte, ma avevano l’obbligo di punirlo lo stesso». Non approvava la caparbietà del fratello, però dalla sua bocca non usciva mai una parola di biasimo. Lei e la sorella, che non essendo sposata viveva in casa dei coniugi Sussin, avevano dovuto ascoltare sulle opinioni politiche del fratello una quantità di cose spiacevoli. I serbi legittimisti le avevano tanto poco in simpatia quanto i buoni austriaci, e così lei e sua sorella si erano abituate una volta per sempre a considerare la politica una cosa incomprensibile, che preferivano lasciare agli uomini.

Mosche Pijade – così si chiamava il fratello – si era sempre considerato un rivoluzionario e uno scrittore. E che in quanto tale non fosse il primo venuto era dimostrato dai nomi dei suoi amici francesi. La prigionia e ancor più la malattia e la fame del fratello occupavano intensamente i pensieri della signora Sussin. Le sarebbe piaciuto fargli arrivare la colazione che portava a noi, e perciò pensare a lui tutte le mattine era il meno che potesse fare. In questo modo prolungava ogni volta la nostra spasmodica attesa del cibo, ma in compenso il racconto della fame di suo fratello ci rendeva più forti. A lui non sarebbe mai venuto in mente di dire che aveva fame. A casa, sin da quando era ragazzo, non si accorgeva mai di aver fame, preso com’era dai suoi nobili ideali. Così era diventato il nostro sostegno, e la storia della signora Sussin era attesa ogni mattina non meno del caffelatte con i buoni panini. Fra l’altro proprio in quell’occasione Georg sentì parlare per la prima volta della tubercolosi, alla quale avrebbe poi dedicato tutta la vita.

Georg ed io uscivamo insieme. Subito a sinistra, nel cortile, vedevamo il signor Fink, il sarto, seduto già da un pezzo davanti alla macchina da cucire. Era il primo rumore che sentivamo al mattino, subito dopo il risveglio, così come di notte era stato l’ultimo rumore che avevamo sentito prima di addormentarci. Passando davanti alla finestra del suo bugigattolo, salutavamo quell’uomo silenzioso dagli zigomi doloranti. Vedendolo con gli spilli in bocca avevo la sensazione che un lungo spillo gli attraversasse le guance e che per questo non potesse parlare. Se nonostante tutto diceva qualche parola, io mi meravigliavo; gli spilli, anche quelli che teneva fra le labbra, sembravano essersi dissolti.

Là, nella finestra del bugigattolo, c’era la macchina da cucire da cui Fink non si separava mai – era un uomo giovane, che non usciva mai di casa. Quando cominciai a conoscerlo un po’ meglio, ormai era estate, la finestra era aperta, in cortile si sentiva il ronzio della macchina da cucire che accompagnava sommessamente le risate di sua moglie, una florida donna bruna che riempiva di sé tutta la bottega. Chi voleva entrare dal sarto Fink per fargli un’ordinazione e bussava alla porta della stanzetta in cui egli viveva con la sua famiglia esitava un momento prima di entrare, per ascoltare ancora un attimo il riso della moglie, come se non credesse alle proprie orecchie. Colui che bussava sapeva benissimo che la gioia con cui veniva accolto nella bottega non era in realtà destinata a lui, era la gioia che emanava da quel corpo rigoglioso che lasciava il suo odore su ogni cosa. L’odore si impregnava delle risate e viceversa, e, di tanto in tanto, vi si univano le grida rivolte a Camilla, la figlioletta di tre anni. Alla bambina piaceva giocare soprattutto sulla soglia, proprio dietro la porta, e anche per questo i clienti si erano abituati ad aprirla con cautela: la prima cosa che si udiva, fra gli squilli di risa, erano le parole: «Camilla, lascia passare, fai entrare il signore». Diceva sempre «il signore», anche se io non avevo ancora diciannove anni, e lo diceva anche quando io ero nella stanza e stava bussando una donna. Quando vedeva che si trattava di una donna, la moglie di Fink per un po’ smetteva di ridere, ma non rettificava mai la sua frase; la cosa del resto non mi stupiva, dato che il signor Fink era un sarto da uomo. Allora egli alzava gli occhi per un attimo, gli spilli in bocca. Un grande spillo crudele gli trapassava le guance, come faceva a parlare? In sua vece parlavano le risate della moglie.

Karl Kraus e Veza

Era naturale che la prima volta li sentissi nominare insieme: le voci che parlavano di loro due provenivano dalla medesima fonte, la fonte da cui allora mi giungeva tutto ciò che era nuovo; infatti, se al mio arrivo a Vienna fossi stato affidato soltanto a me stesso e alle lezioni universitarie, che di lì a breve avrei dovuto frequentare, difficilmente mi sarebbe bastato per una nuova vita. Facevo visita agli Asriel ogni sabato pomeriggio nella loro casa della Heinestrasse, proprio accanto alla ruota del Prater, e da loro venivo a sapere una tale quantità di cose che mi sarebbero bastate per anni: nomi del tutto nuovi per me, che mi apparivano sospetti proprio per questo, perché prima non li avevo mai sentiti.

Ma il nome che sentivo nominare più spesso dagli Asriel era quello di Karl Kraus. Era l’uomo più severo e più grande che vivesse a Vienna. Non si lasciava impietosire da nessuno. Nelle sue letture attaccava tutto ciò che esiste di brutto e di marcio. Pubblicava una rivista che scriveva interamente da solo. Nessun intervento era gradito, non accettava contributi da nessuno, alle lettere non rispondeva. Ogni parola, ogni sillaba contenuta nella «Fackel» era scritta di suo pugno. La «Fackel» era come un tribunale, in cui Karl Kraus era l’unico accusatore e l’unico giudice. Di avvocati difensori non ce n’erano, del resto non servivano, Kraus era talmente giusto che non accusava mai nessuno che non lo meritasse. Non sbagliava mai, era impossibile che Kraus si sbagliasse. Tutto ciò che scriveva era esatto fino all’ultima virgola, mai uno scrittore aveva dato prova di una simile precisione. Curava personalmente ogni singolo capoverso, chi avesse voluto trovare nella «Fackel» un errore di stampa avrebbe potuto rompercisi il capo per settimane. La cosa più intelligente che potesse fare era rinunciarci. Kraus odiava la guerra e durante il conflitto mondiale era riuscito, malgrado la censura, a pubblicare sulla «Fackel» molte cose contro la guerra. Aveva scoperto abusi e denunciato casi di corruzione sui quali tutti gli altri avevano tenuto la bocca chiusa. Era un vero miracolo che non fosse finito in prigione. Aveva scritto una tragedia di ottocento pagine, intitolata Gli ultimi giorni dell’umanità, nella quale era rappresentato tutto quello che era successo durante la guerra. Quando ne leggeva dei brani, si restava come fulminati. In sala non volava una mosca, il pubblico non osava quasi respirare. Leggeva da sé tutte le parti, dai profittatori ai generali, dalla Schalek ai poveri diavoli, vittime della guerra, e tutti avevano una voce così autentica che sembravano in carne e ossa davanti all’ascoltatore. Chi aveva ascoltato le pubbliche letture di Kraus non ne voleva più sapere del teatro, che noia, il teatro, in confronto a Kraus, lui da solo era un intero teatro, anzi era meglio – e questo prodigio universale, questo gigante, questo genio portava il comunissimo nome di Karl Kraus.

Tutto avrei potuto credere di lui eccetto quel nome, non era possibile che uno che si chiamava in quel modo facesse tutto ciò che gli veniva attribuito. Continuando a frastornarmi con le loro informazioni su Karl Kraus, gli Asriel – entrambi, sia la madre sia il figlio, ci prendevano gusto – ironizzavano su quella mia diffidenza riguardo al nome, il nome non conta, ripetevano tutte le volte, quel che conta è la persona, altrimenti noi, lei o io, dato che abbiamo un nome armonioso, saremmo superiori a un uomo come Karl Kraus. Si può immaginare una cosa più ridicola, più assurda?

Mi ficcarono in mano il fascicolo rosso, e che si chiamasse «Die Fackel», «La Fiaccola», mi piacque assai; eppure assolutamente non mi riuscì di leggerlo. Inciampavo nelle frasi, non ne capivo il senso. Quando finalmente riuscivo a capire qualcosa, mi sembravano soltanto delle battute di spirito che non dicevano nulla. E poi si parlava di fatterelli locali, di errori di stampa, tutte cose che mi sembravano assolutamente irrilevanti. «Non sono altro che sciocchezze, come fate a leggere questa roba? Allora preferisco un quotidiano, è più interessante, almeno ci si capisce qualcosa, qui bisogna rompersi la testa, e lo stesso non se ne cava fuori nulla!». Ero sinceramente indignato con gli Asriel, mi facevano venire in mente il padre di un mio compagno di scuola di Francoforte, quello che quando andavo a trovarlo mi leggeva sempre qualche passo dello scrittore locale Friedrich Stoltze e alla fine di ogni poesia diceva: «Chi non lo sa apprezzare va fucilato. È il più grande poeta che sia mai esistito». Raccontai, non senza sarcasmo, l’episodio del poeta dialettale francofortese. Insomma, riuscii a mettere gli Asriel alle strette e, incalzandoli, li ridussi così a mal partito che d’improvviso cominciarono a parlare di certe signore raffinatissime che non perdevano una lettura di Karl Kraus ed erano talmente affascinate dalla sua persona che si sedevano sempre in prima fila, perché egli potesse notare il loro entusiasmo. Ma l’effetto che quella descrizione ebbe su di me fu un vero fiasco: «Signore raffinate!» replicai. «E magari impellicciate! Profumate ed estetizzanti! Come non si vergogna il vostro Karl Kraus di parlare davanti a gente simile!».

«Ma non sono affatto come dici tu! Sono donne di alta cultura! Perché mai non dovrebbe parlare davanti a loro? Afferrano al volo ogni allusione; lui non ha ancora terminato una frase e loro sanno già di che si tratta. Hanno in mente tutta la letteratura inglese e francese, non soltanto quella tedesca! Conoscono Shakespeare a memoria, per non parlare di Goethe. Sono donne talmente colte che non puoi fartene un’idea!».

«E come fate a saperlo? Avete parlato con loro? Parlate con gente simile? Il profumo non vi stordisce? Io non parlerei con una donna del genere neppure un minuto. Non ne sarei capace. Anche se fosse bellissima le volterei le spalle, dicendole tutt’al più: “Eviti di blaterare su Shakespeare. Si rivolterebbe nella tomba per il disgusto. E lasci stare Goethe. Il Faust non è roba da scimmiette”».

Ma a quel punto gli Asriel pensarono di avere partita vinta, perché gridarono all’unisono: «E Veza! Lo sa chi è Veza? Ha mai sentito parlare di lei?».

Questa volta sì che il nome mi colpì. Mi piacque subito, benché non volessi ammetterlo. Mi ricordava una delle mie stelle, la stella Vega della costellazione della Lira, e il mutamento di consonante me lo fece apparire ancora più bello. Dissi soltanto in tono brusco: «Che razza di nome è mai questo? Non c’è nessuno che si chiami così. Sarebbe un nome fuori del comune. Ma non esiste».

«Esiste eccome. Noi la conosciamo, abita con sua madre nella Ferdinandstrasse. A dieci minuti da qui. È davvero una creatura meravigliosa, con un viso spagnolo. È così raffinata e sensibile che davanti a lei nessuno si azzarderebbe a dire una volgarità. Ha letto più lei di tutti noi messi insieme. Sa a memoria delle poesie inglesi lunghissime, e mezzo Shakespeare per giunta. E Molière, Flaubert, Tolstoj». «E quanti anni ha questo portento?». «Ventisette». «E ha già letto tutte queste cose?». «Sicuro, e anche di più. Ma legge con intelligenza. Se qualcosa le piace, sa perché. Sa spiegarne le ragioni. Nessuno la mette nel sacco». «E si siede in prima fila da Karl Kraus». «Sì, ad ogni lettura».

Il 17 aprile 1924 doveva aver luogo la trecentesima lettura di Karl Kraus. Era stata prenotata la sala grande del Konzerthaus. E neppure quella, dicevano, sarebbe stata abbastanza grande per contenere tutti gli appassionati. Ma gli Asriel pensarono in tempo ai biglietti e insistettero che andassi anch’io. Perché star sempre a litigare sulla «Fackel»? Tanto valeva che ascoltassi una buona volta il grand’uomo. Così avrei potuto giudicare da me. Hans sfoderò il suo sorriso più altezzoso; e non sorrise lui solo all’idea che chiunque (figurarsi uno studentello arrivato da Francoforte fresco fresco dopo la maturità) presumesse di resistere al fascino di Karl Kraus in persona; perfino la sua graziosa e svelta mammina non poté trattenere un sorrisetto mentre continuava a ripetermi quanto mi invidiasse quel primo incontro con Karl Kraus.

Alice Asriel mi preparò con consigli appropriati. La veemenza con cui gli ascoltatori manifestavano il loro assenso non doveva spaventarmi: non erano i soliti viennesi da operetta che si davano appuntamento da Kraus, non erano dei buontemponi da osteria e neppure gli adepti di un cenacolo di esteti decadenti alla Hofmannsthal: era la vera Vienna intellettuale, la parte migliore e più sana di quella città in apparente declino. La prontezza con cui quel pubblico sapeva cogliere anche l’allusione più sottile mi avrebbe sbalordito, la gente rideva già quando Kraus apriva la bocca per parlare, e non aveva ancora finito che la sala intera si scatenava. Kraus aveva educato bene il suo pubblico, poteva farne ciò che voleva, e dire che era tutta gente di elevata cultura, quasi soltanto professori universitari, o per lo meno studenti. Non le era mai capitato di vedere tra il pubblico una faccia stupida, avevi un bel cercarla, era tempo perso. Leggere sul viso degli ascoltatori la reazione ai punti più salienti del discorso di Kraus era sempre stato per lei un grande divertimento. Le dispiaceva moltissimo non venire alla lettura, ma preferiva di gran lunga quelle che si svolgevano nella sala media del Konzerthaus; lì veramente non sfuggiva nulla di nulla. Nella sala grande – benché la voce di Kraus la reggesse benissimo – qualcosa per forza andava perduto, e lei era talmente fanatica di ogni parola di Kraus che ci teneva a non perderne nemmeno una. Perciò questa volta mi aveva ceduto il suo biglietto, assistere alla trecentesima lettura significava più che altro un omaggio a Kraus, e l’affluenza sarebbe stata comunque tale che avrebbe fatto poca differenza che lei ci fosse o no.

Io sapevo che gli Asriel vivevano in grandi ristrettezze – benché non se ne parlasse mai: c’erano tante questioni più importanti, di carattere intellettuale, che li assorbivano completamente. Eppure insistettero per offrirmi il biglietto: soltanto per questa ragione la signora Asriel rinunciò ad assistere alla trionfale ricorrenza.

La serata aveva anche uno scopo recondito che mi era stato taciuto, ma lo scopersi da solo, e non appena Hans ed io prendemmo posto nella sala, piuttosto indietro, cominciai a osservare furtivamente il pubblico intorno a me. Hans stava facendo, non meno furtivamente, la stessa cosa; ciascuno nascondeva all’altro che stava cercando qualcuno, eppure cercavamo entrambi la stessa persona. Dimenticando che la giovane signora dal nome inconsueto prendeva sempre posto in prima fila, speravo, benché non avessi mai visto un suo ritratto, di notarla improvvisamente nella nostra. Non riconoscerla subito mi sembrava inconcepibile, dopo la descrizione che me ne avevano fatto: la più lunga delle poesie inglesi che lei sapeva a memoria era The Raven (Il corvo) di Poe, e lei stessa aveva l’aspetto di un corvo, un corvo che un incantesimo aveva tramutato in una donna spagnola. Hans era troppo irrequieto per interpretare a dovere la mia irrequietezza, guardava ostinatamente verso le prime file, scrutando le porte che sul davanti davano accesso alla sala. Improvvisamente balzò in piedi, ma senza darsi delle arie, anzi, sembrava in soggezione e disse: «Eccola. È entrata proprio adesso»: «Dov’è?» dissi io, senza domandare di chi stesse parlando. «Dov’è?». «In prima fila, in fondo a sinistra. In prima fila, proprio come pensavo».

Da quella distanza vedevo pochissimo, eppure riconobbi i capelli corvini e me ne rallegrai. Trattenni le osservazioni ironiche che mi ero preparato, preferivo tenerle in serbo per dopo. Quasi subito arrivò Karl Kraus, che fu salutato da applausi così scroscianti come mai li avevo sentiti, neppure ai concerti. Sembrò – il mio occhio non era ancora esercitato – non prestarvi molta attenzione, indugiò solo un poco, in piedi, la sua figura sembrava lievemente curva. Quando si sedette e cominciò a parlare fui sorpreso dalla sua voce, nella quale vibrava qualcosa d’innaturale, una specie di prolungato gracidio. Ma quell’impressione si dileguò in fretta, la voce mutò all’improvviso e seguitò a mutare in continuazione, e quasi subito rimasi sbalordito dalla ricchezza e dalla varietà dei suoi toni. Tanto era il silenzio che all’inizio l’accolse, che sembrava davvero di essere al concerto, ma l’attesa era diversa, completamente diversa. Fin dal primo momento, e per tutta la durata dello spettacolo, era il silenzio che precede la tempesta. Già la prima battuta, in realtà era soltanto un’allusione, venne anticipata da risate che mi spaventarono. Suonavano entusiastiche e fanatiche, soddisfatte e minacciose a un tempo, avevano addirittura preceduto le parole alle quali si riferivano. Ma anche quando quelle parole furono pronunciate, come avrei potuto comprenderle? Alludevano a episodi locali, che non soltanto avevano a che fare con Vienna,ma appartenevano ormai all’intimità fra Kraus e il suo pubblico, che proprio quelle parole stava aspettando avidamente. Non erano ascoltatori isolati a ridere, ridevano molte persone insieme. Mentre guardavo obliquamente davanti a me, fissando uno spettatore alla mia sinistra per cercar di capire la strana anomalia delle sue risate, di cui mi sfuggivano i motivi, dietro di me risuonavano risate identiche, e così pure a due o tre posti di distanza, da ogni altro lato; soltanto allora mi accorsi che anche Hans accanto a me – nel frattempo l’avevo quasi dimenticato – rideva esattamente nello stesso modo. Erano sempre molte persone insieme che ridevano, e il loro era sempre un riso affamato. Non ci misi molto a capire: quella gente era venuta per un banchetto, non per festeggiare Karl Kraus.

Non so che cosa disse Kraus la sera del mio primo incontro con lui. Le centinaia di conferenze ascoltate in seguito vi si sono sovrapposte. Ma forse non lo sapevo nemmeno allora, tutto preso com’ero da quel pubblico che mi faceva paura. Karl Kraus lo vedevo male, un volto che ringiovaniva verso il basso, così mobile che non si poteva fissare su nulla, penetrante ed estraneo come quello di un animale mai visto, diverso da tutti quelli che si conoscevano. Ero sconcertato dai crescendo improvvisi di cui quella voce era capace, la sala era molto grande, eppure nella voce di Kraus vibrava un tremito che si comunicava a tutta la sala. I sedili e le persone sembravano cedere a quel tremito, non mi sarei meravigliato se i sedili si fossero piegati. La dinamica di quella sala gremita fino all’ultimo posto sotto l’effetto della voce di Kraus – era sempre presente anche quando taceva – davvero non si può descrivere, così come non si può descrivere l’‘Esercito di spettri’ delle fiabe. Ma credo che sia questa l’immagine che meglio la può rendere. Ci si immagini l’‘Esercito di spettri’ che prende posto in una sala, rinchiuso da colui che l’ha evocato e guidato, costretto a sedere in silenzio e poi incessantemente richiamato alla sua vera, selvaggia natura. Non che questa visione si avvicini molto alla realtà, tuttavia, poiché non ne conosco nessuna che sia più precisa, rinuncio a dare un’idea di com’era Karl Kraus in azione.

Ad ogni modo, durante l’intervallo uscii dalla sala e Hans mi fece conoscere la giovane signora che meglio di chiunque altro poteva testimoniare sulle impressioni che io avevo appena provato su di me. Ma lei era molto calma e controllata, in prima fila tutto sembrava più facile da sopportare. Aveva un aspetto assai inconsueto, un essere con qualcosa di prezioso che nessuno si sarebbe aspettato di vedere a Vienna, ma piuttosto in una miniatura persiana. L’arco alto delle sopracciglia, le lunghe ciglia nere che muoveva ora in fretta ora adagio, proprio come un virtuoso, mi facevano sentire in imbarazzo. Anziché guardarla negli occhi le fissavo le ciglia ed ero stupito da quella bocca così piccola.

Non mi domandava, disse, come mi era sembrata la lettura, perché non voleva mettermi in imbarazzo. «Lei è qui per la prima volta» aggiunse, con un tono da padrona di casa, quasi che la sala fosse casa sua e lei, dal suo posto in prima fila, dispensasse agli ospiti tutto ciò che quella serata poteva offrire. Conosceva i visitatori, sapeva sempre chi stava entrando e osservò senza sbagliarsi che io ero nuovo. Mi sembrava di essere invitato da lei e le ero grato per l’ospitalità, che consisteva nel prender nota della mia esistenza. Il mio accompagnatore – il tatto non era il suo forte – disse: «È davvero un gran giorno per lui» indicandomi con un movimento della spalla. «Questo non è detto;» disse lei «da principio è sconcertante». Non mi sentivo affatto preso in giro; benché avvertissi in ognuna delle sue frasi un sottofondo canzonatorio, ero felice che la sua osservazione corrispondesse così esattamente al mio stato d’animo. Ma proprio questa capacità di comprensione mi sgomentò, come pure le sue ciglia che ora si muovevano con una certa solennità, quasi che su alcune cose importanti dovessero tacere. Così dissi la frase più semplice e meno impegnativa che in quella circostanza avrei potuto dire: «Già, è davvero sconcertante». Poteva sembrare una frase sgarbata, ma non per lei, che infatti mi domandò: «Lei è svizzero?».

Non c’era nulla al mondo che sarei stato più volentieri. Nei tre anni che avevo passato a Francoforte il mio amore per la Svizzera si era trasformato in una rovente passione. Sapevo che la madre di Veza era una «spagnola», il suo cognome da nubile era Calderón e ora viveva con il terzo marito, un uomo vecchissimo di nome Altaras; Veza, perciò, aveva certo capito dal mio nome che anch’io ero uno «spagnolo». Perché allora mi aveva domandato se ero proprio ciò che avrei voluto essere più di ogni altra cosa al mondo? Dell’antico dolore per il distacco da Zurigo non parlavo con nessuno, e soprattutto mi sarei guardato dal fare una simile figuraccia davanti agli Asriel, i quali, spocchiosi e arroganti com’erano, o forse proprio a causa di Karl Kraus, si sentivano orgogliosissimi di essere viennesi. Perciò la bella dama del corvo non poteva aver saputo da nessuno della mia sventura, e la sua prima domanda diretta mi giunse dritta al cuore. Fui colpito più profondamente da quella domanda che non dalla lettura, che per me – anche qui lei aveva colto nel segno – per il momento era solo sconcertante. Le risposi: «Purtroppo no» volendo dire con questo che purtroppo non ero svizzero. Con quella frase mi misi nelle sue mani. Con la sola parola «purtroppo» rivelai di me stesso più di quanto a quell’epoca sapesse di me ogni altra persona. Lei parve comprenderlo, ogni sfumatura d’ironia scomparve dai tratti del suo viso e disse: «A me piacerebbe essere inglese». Hans, al suo solito modo, la sommerse con un diluvio di chiacchiere, del quale riuscii ad afferrare soltanto questo: che si poteva conoscere Shakespeare anche senza essere inglesi e che ormai gli inglesi di oggi non avevano con Shakespeare più nulla in comune. Ma lei non gli badò più di quanto gli badassi io, benché – come mi accorsi subito – non le sfuggisse una parola di quello che Hans stava dicendo.

«Dovrebbe ascoltare una lettura shakespeariana di Karl Kraus. È già stato in Inghilterra?». «Sì, da bambino. Ci sono andato a scuola per due anni. È stata la mia prima scuola». «Io ci vado spesso, a trovare dei parenti. Lei mi deve raccontare della sua infanzia in Inghilterra. Venga presto a trovarmi!».

Ogni affettazione era sparita, anche la civetteria con cui aveva fatto gli onori della serata. Parlò di cose che erano importanti per lei e le stavano a cuore, per rispondere alla cosa importante per me cui subito aveva accennato con tanta facilità, ma in un modo non offensivo. Quando tornammo in sala Hans, nel poco tempo che ci rimase, mi domandò in fretta due o tre volte di seguito come l’avevo trovata, ma io feci finta di non capire, e solo quando mi accorsi che era sul punto di pronunciare il suo nome dissi, per prevenirlo: «Chi? Veza?». Ma era già ricomparso Karl Kraus, nella sala si scatenò l’uragano e il nome di Veza ne fu sommerso.

Il buddhista

Non credo di averla rivista dopo la fine della lettura, ma anche se fosse accaduto non avrebbe avuto importanza, perché nel frattempo Hans aveva aperto le sue cateratte. Mi fu riversato addosso un sottile flusso di chiacchiere, dal quale era assente tutto ciò che era servito all’oratore per conquistare il pubblico: la passione convinta, l’ira, il disprezzo. Ogni cosa che Hans diceva passava accanto al suo interlocutore come se fosse rivolta a un’altra persona, che però era assente. «Naturalmente» e «ovviamente» erano le parole che usava di più, accompagnavano ogni sua frase per rafforzarla, e invece le toglievano la poca forza che aveva. Hans sapeva che le sue affermazioni non avevano peso e quindi cercava di innalzarle su un piano generale, nella speranza di metterle al sicuro. Ma il suo piano generale non era meno debole di quanto fosse lui stesso, per disgrazia nulla di quel che diceva veniva creduto. Nessuno lo riteneva un bugiardo, era un uomo troppo debole per inventarsi alcunché; ma invece di usare una parola ne usava cinquanta e perciò delle cose che aveva in mente, così diluite, non restava più nulla. Ripeteva la stessa domanda tante di quelle volte e così in fretta da non lasciare al suo interlocutore il tempo materiale di rispondere. Diceva: «Sul serio?», «Questo non mi va giù», «Lo sappiamo», interpolando a mo’ d’interiezione queste brevi frasi nei suoi interminabili discorsi, forse per dare ad essi un’enfasi maggiore.

Già da bambino Hans era esile, ma adesso era talmente sottile che tutti i vestiti gli ballavano addosso. L’aspetto più saldo e risoluto lo assumeva quando nuotava, per questo non faceva che parlare di nuoto. I «feloni» (dirò più avanti chi sono) tolleravano la sua presenza quando andavano a fare il bagno alla Kuchelau, anche se in realtà egli non era dei loro. Hans in realtà non faceva parte di nessun gruppo, stava sempre ai margini. Era piuttosto sua madre che attirava in casa dei giovanotti per assistere ai loro tornei verbali, e organizzava le cose in modo che suo figlio in quelle occasioni parlasse poco, in un certo senso per dovere di ospitalità, e perché la conversazione riuscisse interessante. Hans in compenso ascoltava con attenzione, recepiva tutto, starei per dire con ingordigia, e non appena i veri contendenti se n’erano andati, il torneo si ripeteva, come un postludio, fra Hans e qualche amico intimo della famiglia che rimaneva più a lungo, credendo di poter aspirare ai favori della madre. Così ogni disputa e ogni tema venivano rimasticati, finché di ognuno di essi, che pure, espresso con spontaneità, aveva una sua vita e un suo fascino, non restava che un sapore stantio.

Hans a quel tempo non era ancora consapevole del suo difficile rapporto con gli altri. C’erano sempre tanti giovani in casa, e immancabilmente avevano luogo nuove tenzoni – sotto lo sprone dello sguardo ammirato della signora Asriel; niente sfuggiva ad Alice, niente le sembrava che andasse troppo per le lunghe. I contendenti si trattenevano finché ne avevano voglia, ma nessuno li obbligava a restare, andavano e venivano a loro piacimento. Grazie alla socievolezza della signora Asriel – vivere liberamente in mezzo agli altri le piaceva molto ed era anzi un suo bisogno naturale – in casa di Hans gli ospiti non mancavano mai. E grazie a lei Hans, che viveva di imitazione intellettuale e ne era intimamente costituito, aveva sempre qualcosa da imitare, le «suggestioni intellettuali», come venivano chiamate, erano inesauribili. Hans non si accorgeva di non essere invitato con piacere, perché tutti gli ambienti non troppo rigidamente borghesi ricevevano volentieri sua madre, e lei, com’è ovvio, portava sempre con sé quel suo figlio che riteneva tanto intelligente.Dopo il 17 aprile, che fu davvero un gran giorno per me, perché in quella stessa data e nello stesso luogo erano entrate nella mia vita le due persone che per moltissimo tempo l’avrebbero dominata, dopo quel 17 aprile cominciò un periodo di simulazione che durò quasi un anno. Avrei rivisto molto volentieri la donna-corvo, ma non volevo assolutamente che gli altri si accorgessero di questo mio desiderio. Lei mi aveva invitato ad andare a trovarla, e gli Asriel, sia la madre che il figlio, ritornavano continuamente su quell’invito, chiedendomi se non volevo accettarlo. Dato che reagivo con malgarbo, e anzi davo a intendere di non averne affatto voglia, pensarono che fossi troppo timido e per incoraggiarmi mi fecero capire che erano disposti a venire con me. Erano stati a trovarla già più di una volta, presto ci sarebbero tornati e – semplicemente – mi avrebbero portato con sé. Ma era proprio quello che più mi atterriva. Alle chiacchiere di Hans mi ero ormai abituato – non le prendevo più troppo sul serio, ma il pensiero di quelle chiacchiere a casa di Veza era troppo sgradevole, e altrettanto sgradevole era la prospettiva che Alice poi mi avrebbe chiesto di raccontarle per filo e per segno come avevo trovato questo o quello. Davanti agli Asriel non avrei mai potuto parlare dell’Inghilterra e mai e poi mai sarei riuscito a dire una sola parola riguardo alla Svizzera: e parlare di questo era proprio ciò che mi attirava sopra ogni altra cosa.

Alice non voleva privarsi di quella gioia, e ogni sabato, quando andavo dagli Asriel, arrivava di punto in bianco la sua domanda, gentile ma insistente: «Quando andiamo a trovare Veza?». Per me era già sgradevole sentir pronunciare il suo nome, mi sembrava talmente bello da non doversi proferire così, davanti a chiunque. Perciò facevo finta di trovarla antipatica, evitavo di pronunciarne il nome e parlavo di lei con scarso rispetto.

 

A casa di Alice conobbi Fredl Waldinger, che fu per qualche anno il miglior compagno di conversazione che potessi desiderare. A dire il vero la pensavamo diversamente quasi su tutto, eppure non arrivammo mai né a offenderci né a litigare. Fredl non si lasciava sopraffare né prendere alla sprovvista, e alla foga delle mie tumultuose esperienze opponeva una resistenza placida e allegra. Quando lo incontrai per la prima volta era appena tornato dalla Palestina, dove era vissuto sei mesi in un kibbutz. Intonava volentieri canzoni ebraiche, ne sapeva molte, aveva una bella voce e le cantava bene. Non c’era bisogno di pregarlo, per lui intonare una canzone a metà di un discorso era naturale, usava le canzoni come riferimenti, erano le sue citazioni.

Altri giovani che incontrai in quello stesso ambiente si ammantavano di una certa qual boria da grandi letterati: il loro modello, se non era Karl Kraus, era Weininger o Schopenhauer. Le sentenze pessimistiche o misogine erano particolarmente apprezzate, benché nessuno di essi fosse misogino o misantropo. Avevano tutti un’amica con cui andavano d’amore e d’accordo e, insieme a lei e agli altri amici (dal nome di uno di essi, un certo Felo, si chiamavano i «feloni»), andavano a fare il bagno alla Kuchelau, dove regnava un’atmosfera sana, cordiale e vigorosa. Eppure le frasi taglienti, argute e sprezzanti venivano considerate da quei giovani il più bel fiore dello spirito. Era assolutamente vietato pronunciarle in forma inesatta, e buona parte della stima che gli uni avevano per gli altri dipendeva dall’attitudine a prendere la forma linguistica di quelle trovate non meno sul serio di come  preteso Karl Kraus, il vero maestro di tutti quei gruppi. Fredl Waldinger li frequentava un po’ alla lontana, li accompagnava volentieri a fare i bagni, ma non era un fanatico di Karl Kraus, per lui esistevano cose non meno importanti di Kraus, e altre a cui teneva addirittura di più.

Ernst Waldinger, il suo fratello maggiore, che aveva già pubblicato delle poesie ed era tornato dalla guerra con una grave ferita, aveva sposato una nipote di Freud ed era amico di Josef Weinheber (la loro amicizia era fondata sulla comune concezione dell’arte). Entrambi erano legati ai modelli classici, la severità della forma aveva per loro una grande importanza. Il cesellatore di cammei era il titolo di una poesia di Ernst Waldinger che si poteva definire programmatica, e perciò fu scelto come titolo di una sua raccolta poetica. Fredl Waldinger doveva in parte la propria libertà interiore a questo fratello, per il quale nutriva una grande stima. Ma non andava oltre la stima, menar vanto del successo esteriore non era nel suo carattere. I soldi non facevano colpo su di lui, e neppure la notorietà; tuttavia non gli sarebbe mai venuto in mente di disprezzare l’autore di un libro di poesie solo perché costui cercava a poco a poco di farsi un nome. Quando conobbi Fredl, era appena uscito Boot in der Bucht [La barca nella baia] di Weinheber. Fredl aveva con sé il libro e lo lesse ad alta voce, un paio di poesie già le sapeva a memoria. Mi piaceva moltissimo che prendesse sul serio le poesie, a casa mia le poesie erano disprezzate, le chiamavano «poesiole» per partito preso. Ma le vere citazioni di Fredl, come ho già detto, erano le canzoni, i canti popolari ebraici.

Fredl, mentre cantava, teneva la mano destra sollevata a mezz’aria, con il palmo aperto rivolto verso l’alto come un guscio, sembrava che offrisse qualcosa di cui dovesse scusarsi. Il suo aspetto era umile e nel contempo sicuro di sé, faceva quasi pensare a un monaco itinerante, il quale, tuttavia, invece di fare la questua, portava tra la gente i suoi doni. Fredl non cantava mai a piena voce, ogni mancanza di misura sembrava estranea al suo carattere, alla grazia campagnola con cui si conquistava il cuore degli ascoltatori. Fredl si rendeva certamente conto della sua bravura e ne era compiaciuto, come ogni altro cantore; ma più che all’autocompiacimento dava importanza al suo modo di sentire, e di esso recava testimonianza: il suo amore per la vita dei campi, la cura della terra, la sua attività manuale, chiara, umile, ma anche esigente. Raccontava volentieri che aveva degli amici arabi, non faceva differenze tra arabi ed ebrei, ogni alterigia fondata sulla superiorità culturale gli era estranea. Era forte e sano e avrebbe potuto fare tranquillamente a pugni con i suoi coetanei, eppure non ho mai conosciuto un uomo più mite, la sua mitezza era tale che non entrava in competizione con nessuno. Essere il primo o l’ultimo per lui era la stessa cosa; Fredl non si inseriva in alcuna graduatoria e sembrava che neanche si accorgesse dell’esistenza delle graduatorie.

Con lui entrò nella mia vita il buddhismo, al quale Fredl si era accostato attraverso la poesia. I Canti dei monaci e delle monache, nella traduzione di Carl Eugen Neumann, lo avevano affascinato. Ne recitava a memoria lunghi brani, in una cantilena ritmata, incantevole nella sua stranezza. In quell’ambiente tutto dedito alla discussione intellettuale, che ogni volta assumeva la forma di una gara fra due giovani contendenti, nella quale le opinioni valevano se erano sostenute con arguzia e incisività, in quell’ambiente senza pretese scientifiche, dove contavano la scioltezza, la versatilità, la varietà della conversazione, la cantilena di Fredl, sempre uguale a se stessa, mai chiassosa, mai ostile, mai esausta, non poteva che sortire l’effetto di una sorgente inesauribile ma un poco monotona.

La sua conoscenza del buddhismo, tuttavia, andava oltre quelle cantilene, benché esse gli apparissero singolarmente familiari. Fredl sapeva anche orientarsi con sicurezza nel campo della dottrina. Conosceva bene il canone pāli, nella parte tradotta da Carl Eugen Neumann, e così pure i libri dei Medi e dei Lunghi Discorsi, il Libro dei Frammenti, il Cammino della Verità – insomma tutto ciò che era stato pubblicato lo conosceva a fondo e lo illustrava durante le nostre lunghe conversazioni con un tono cantilenante, simile a quello delle sue canzoni.

Io ero ancora tutto pervaso dalle esperienze collettive del periodo di Francoforte, quando, di sera, mi univo alle manifestazioni, ascoltavo i comizi e mi sentivo profondamente emozionato dalle discussioni che poi continuavano per le strade. Uomini fra loro diversissimi, borghesi e operai, giovani e vecchi, si davano sulla voce a vicenda con una tale foga, un tale accanimento, una tale sicurezza delle proprie opinioni che un diverso parere sembrava inconcepibile; eppure il loro interlocutore si dichiarava convinto del contrario con lo stesso accanimento. Poiché il tutto si svolgeva di notte e io non ero abituato a stare per la strada a quell’ora, avevo l’impressione che quelle dispute non dovessero mai finire, che dovessero continuare per sempre, e dormire, ormai, non fosse più possibile, tale era l’importanza che ciascuno dava alle proprie convinzioni.

Un’esperienza particolarissima degli anni di Francoforte, un’esperienza che avevo vissuto di giorno, era stata la massa. Abbastanza presto, circa un anno dopo il mio arrivo a Francoforte, avevo assistito sulla Zeil a un corteo operaio. Era una manifestazione di protesta contro l’assassinio di Rathenau. Io mi trovavo sul marciapiede, dovevano esserci accanto a me altre persone che guardavano, però non le ricordo. Vedo ancora le figure alte e vigorose che marciavano dietro lo striscione delle Adler-Werke. Marciavano compatti lanciando intorno a sé sguardi di sfida, le loro grida mi colpirono come se fossero rivolte proprio a me. Il corteo s’ingrossava continuamente, le persone che vi entravano avevano qualcosa in comune, non tanto nell’aspetto quanto nel comportamento. Il corteo non finiva mai, ne sentivo emanare una salda convinzione, che diventava sempre più salda. Mi sarebbe piaciuto essere uno di loro, non ero un operaio, eppure quelle grida mi toccavano come se lo fossi. Non so se le persone accanto a me abbiano provato la stessa sensazione, non le vedo, comunque non ricordo nessuno che abbia lasciato il marciapiede per entrare nel corteo, può darsi che i cartelli inalberati da alcuni gruppi di manifestanti abbiano trattenuto la gente dal farlo.

Il ricordo di quella manifestazione, la prima che ho vissuto in modo cosciente, rimase vivissimo in me. Non riuscivo a dimenticarne l’attrazione fisica, il violento desiderio di partecipare, indipendentemente da ogni considerazione o ragionamento, così come non furono certo i dubbi di un qualche genere a trattenermi dal passo estremo di unirmi al corteo. In seguito, quando cedetti al mio impulso e mi trovai realmente in mezzo alla massa, ebbi la sensazione che fosse un fenomeno simile a quello che in fisica è noto come forza di gravità. Ma questa, è ovvio, non era una vera spiegazione di quel fatto sorprendente. Infatti non eri né prima, come individuo isolato, né dopo, come parte della massa, un oggetto inanimato, e la metamorfosi che si verificava all’interno della massa, un mutamento completo della coscienza, era un fatto che penetrava in profondità, rimanendo però enigmatico. Che cos’era? Era questo che volevo sapere. Questo enigma non mi ha più dato pace, mi ha perseguitato in tutta la parte migliore della mia vita, e seppure sono arrivato a qualcosa, l’enigma nondimeno è rimasto tale.

A Vienna ho incontrato alcuni giovani coetanei con i quali la conversazione era sempre piacevolissima: da una parte m’incuriosivano quando parlavano delle loro esperienze più importanti e dall’altra erano pronti ad ascoltarmi quando io tiravo fuori le mie. Il più paziente di tutti era Fredl Waldinger, ma poteva permetterselo, essendo immune da qualsiasi contagio: la mia descrizione dell’esperienza della massa – allora la chiamavo così – lo metteva di buon umore, ma non mi sentii mai preso in giro da lui. Io parlavo (Fredl l’aveva capito benissimo) di uno stato di ebbrezza, di un’intensificazione delle possibilità di esperienza, di un accrescimento della persona, che, superate le proprie limitazioni, incontrava altre persone in una condizione analoga e con esse formava un’unità superiore. Lui dubitava dell’esistenza di una simile unità superiore, e ancor più del valore di un’intensificazione dell’esperienza in stato di ebbrezza. Buddha gli aveva svelato che la vita non ha valore se non riesce a liberarsi da qualsiasi attaccamento alla vita stessa. La sua meta era la graduale estinzione della vita, il nirvana, che mi sembrava simile alla morte. Fredl negava, con molti argomenti di grande interesse, che il nirvana e la morte fossero la stessa cosa – tuttavia era innegabile che dal buddhismo egli aveva assorbito la tendenza a porre l’accento sulla negazione della vita.

Attraverso la discussione le nostre posizioni si rafforzavano. Grazie all’influenza reciproca stavamo soprattutto diventando più attenti e più cauti. Fredl andava sempre più a fondo nello studio dei testi religiosi del buddhismo, non si limitava più alle traduzioni di Carl Eugen Neumann, che tuttavia rimasero le più vicine al suo cuore. Si immergeva nella filosofia indiana, ne studiava le fonti su testi inglesi che traduceva in tedesco con l’aiuto di Veza. Io mi sforzavo di apprendere più cose riguardo alla massa della quale parlavo. Avevo comunque deciso di studiare il fenomeno che tanto occupava la mia mente e che per me era diventato l’enigma di tutti gli enigmi, ma forse, senza Fredl, non mi sarei interessato così presto alle religioni indiane, per le quali sentivo una grande ripugnanza, perché moltiplicavano la morte con la dottrina della trasmigrazione. Durante le nostre discussioni, mi rendevo conto con un senso di imbarazzo di poter opporre alla complessa dottrina seguita da Fredl – una delle più significative e profonde che l’uomo abbia creato – soltanto la descrizione un po’ sparuta di un’unica esperienza, che egli definiva pseudo-mistica. Esponendo le sue idee, Fredl poteva richiamarsi a un gran numero di spiegazioni, interpretazioni e catene causali – mentre io non ero in grado di esibire neppure una spiegazione dell’unica esperienza della quale parlavo con tanto fervore. L’estrema caparbietà con cui mi ci aggrappavo – proprio perché non riuscivo a spiegarla – doveva sembrare a Fredl un po’ corta di vedute, forse addirittura senza senso. E lo era; ma se dovessi dire dove si trovavano i miei veri punti di forza, li indicherei proprio là dove ero sopraffatto da esperienze per le quali non riuscivo a trovare una spiegazione. Nessuno è mai riuscito a togliermele dalla testa, neppure io stesso.

Ultimo viaggio sul Danubio
Il messaggio

Nel luglio 1924, terminato il primo semestre all’Università di Vienna, andai ospite per tutta l’estate in Bulgaria. Ero stato invitato a Sofia in casa delle sorelle di mio padre. Una tappa a Rustschuk, dove avevo trascorso i primi anni della mia infanzia, non era neppure prevista, dato che lì non era rimasto nessuno che potesse invitarmi. Col passar degli anni tutti i miei parenti si erano trasferiti a Sofia, che, essendo la capitale, era diventata sempre più importante trasformandosi a poco a poco in una grande città. Le mie vacanze non dovevano essere un ritorno nella città natale, bensì un’occasione per visitare il maggior numero possibile di parenti. Ma la cosa fondamentale doveva essere il viaggio ‘all’ingiù’, il viaggio sul Danubio.

    Poiché Bucco, il fratello maggiore di mio padre, che allora abitava a Vienna, aveva alcuni affari da sbrigare in Bulgaria, decidemmo di partire insieme. Fu un viaggio completamente diverso da quelli che ricordavo dall’epoca della mia infanzia, quando passavamo la maggior parte del tempo in cabina e la mamma ci pettinava ogni giorno con un pettine rigido per toglierci i pidocchi: le navi erano sporche, e in viaggio era impossibile non prenderseli. Questa volta non si parlò mai di pidocchi, dividevo la cabina con lo zio, un gran burlone, lo stesso zio che quand’ero molto piccolo si divertiva a prendermi in giro impartendomi la sua solenne benedizione. Durante il viaggio rimanemmo quasi sempre in coperta. Lo zio aveva bisogno di gente per raccontare le sue storielle, cominciò con alcuni conoscenti incontrati per caso e ben presto fu 
     attorniato da un folto gruppo di ascoltatori ai quali ammannì le sue barzellette con viso impassibile, ammiccando appena di tanto in tanto. Ne aveva un repertorio assai vasto, ma il mio interesse, avendole sentite moltissime volte, si era completamente esaurito. Ai discorsi seri non era in grado di reggere per molto tempo. In cabina, tuttavia, si sentì in dovere di dare al nipote che aveva appena iniziato gli studi universitari qualche consiglio utile per la vita. Ma i suoi consigli mi annoiavano ancor più dei suoi scherzi; perché, se è vero che conoscevo anche troppo bene tutti i suoi accorgimenti per strappare il riso e l’applauso, è altrettanto vero che trovavo i suoi consigli oltremodo irritanti.

    Non avendo la più pallida idea di ciò che in effetti mi passava per la mente, quegli stessi consigli avrebbe potuto rivolgerli a qualsiasi altro nipote. Dell’utilità della chimica ne avevo fin sopra i capelli. Non c’era parente di una certa età che non si dilungasse su quel tema, tutti si aspettavano da me l’accesso a un nuovo campo che ad essi finora era precluso. Nessuno dei miei parenti era andato oltre l’istituto superiore di commercio, e adesso si stavano accorgendo a poco a poco che, al di là delle operazioni di compravendita, nelle quali avevano sufficiente esperienza, era ormai indispensabile procurarsi delle cognizioni specifiche di carattere tecnico-scientifico di cui erano ancora del tutto digiuni. Io sarei dovuto diventare lo specialista in chimica della famiglia e, grazie alle mie conoscenze, sarei riuscito a estendere il campo delle loro iniziative commerciali. Di tutte queste cose parlavamo in cabina ogni notte prima di addormentarci, era una specie di preghiera serale, sia pure piuttosto breve. La benedizione con cui egli, quand’ero bambino, si era fatto gioco di me deludendomi immancabilmente, mentre io la prendevo così sul serio che ogni volta mi mettevo sotto il palmo della sua mano con gioiosa impazienza, per via delle belle parole iniziali («Yo ti bendigo...») – quella benedizione di cui da tanto tempo non volevo più sentir parlare, perché si era tramutata nella maledizione del nonno e nella morte improvvisa di mio padre, questa volta era intesa sul serio: proprio io avrei portato fortuna alla famiglia, accrescendone il benessere con le mie conoscenze nuove, moderne, ‘europee’. Zio Bucco, però, si interrompeva presto, perché, prima di addormentarsi definitivamente, doveva 
     ancora raccontare almeno due o tre storielle. Al mattino, poi, tornava di buon’ora in coperta, dove lo aspettava il suo uditorio.

    Il battello era pieno zeppo, un numero incalcolabile di persone stavano sedute o accampate in coperta, ed era un vero piacere serpeggiare da un gruppo all’altro ascoltando i loro discorsi. C’erano studenti bulgari che tornavano a casa per le vacanze, ma anche gente che lavorava già, come ad esempio un gruppo di medici che avevano rinfrescato le proprie conoscenze in ‘Europa’. Uno di loro, con un immenso barbone nero, mi sembrava di conoscerlo; niente di strano: mi aveva aiutato a venire al mondo, era il dottor Menachemoff di Rustschuk, il medico di famiglia, di lui in casa si parlava spessissimo, tutti gli volevano bene, quando l’avevo visto l’ultima volta non avevo ancora compiuto sei anni. Non lo presi del tutto sul serio, come tutto ciò che faceva parte di quel periodo balcanico della mia vita, di quel periodo ‘barbaro’ (così almeno pensavo), e fui sorpreso – presto attaccammo discorso – dalla quantità di cose che quell’uomo sapeva e delle quali s’interessava. Aveva seguito i progressi della scienza, e non solo nel proprio campo. Rispondeva in modo critico, discutendo di tutto, senza rifiutare a priori ciò che dicevo io solo perché era detto da un ragazzo di diciannove anni, e nei nostri discorsi la parola «denaro» non fu pronunciata neppure una sola volta.

    Di tanto in tanto, mi disse, aveva pensato a me; era sempre stato sicuro che, dopo la morte improvvisa di mio padre – evento che nessuno era stato in grado di spiegare in modo soddisfacente – io avrei potuto studiare soltanto medicina, perché il mistero di quella morte avrebbe di sicuro impegnato la mia mente fino alla fine dei miei giorni. Anche se quell’enigma si fosse rivelato insolubile, sarebbe stato lo stesso uno sprone fortissimo: se mi fossi dedicato alla medicina cercando di risolverlo, avrei certamente fatto nuove e importanti scoperte. Egli era presente quando mio padre, tornando precipitosamente dall’Inghilterra, mi aveva salvato la vita dopo quella tremenda scottatura. A mio padre dovevo la vita due volte. Un anno e mezzo dopo, a Manchester, io non avevo potuto salvarlo e, poiché mi era rimasto quel debito verso di lui, avevo il dovere di pagarlo salvando altre vite. Lo disse con la massima semplicità, senza pathos né toni ampollosi, eppure in 
     bocca sua la parola «vita» suonava come un bene prezioso e soprattutto raro, il che, data la folla enorme ammassata in coperta, faceva davvero uno strano effetto.

    Provai vergogna davanti a lui, vergogna soprattutto per l’ipocrisia con cui giustificavo di fronte a me stesso l’assurda decisione di studiare chimica. Però non dissi nulla, temevo di fare una figura indegna. Parlai invece del mio desiderio di sapere tutto ciò che al mondo val la pena di sapere. Egli m’interruppe, indicandomi le stelle – era già notte – e mi domandò: «Conosci i nomi delle stelle?». Allora ci indicammo a vicenda le costellazioni, cominciai io additando la Lira, con Vega, perché era stato lui a fare la domanda, poi il dottore additò il Cigno, con Deneb, perché la sua domanda doveva pur basarsi su qualcosa. E così ci mostrammo l’un l’altro tutta la volta celeste, senza che nessuno dei due potesse sapere in anticipo quale sarebbe stata la prossima stella indicata dall’altro. Presto l’intero firmamento fu esaurito, anche se non avevamo tralasciato una sola costellazione; un duetto simile non l’avevo mai cantato con nessuno; poi il dottore mi disse: «Sai quanti uomini sono morti nel frattempo?», intendendo il breve lasso di tempo che avevamo dedicato all’elencazione delle stelle. Io non dissi niente, lui non fece cifre. «Tu non li conosci. La cosa non ti riguarda. Un medico li conosce. La cosa lo riguarda».

    Quando l’avevo incontrato – all’imbrunire – il dottore stava seduto in mezzo a un gruppo di persone che conversavano animatamente; poco lontano alcuni studenti cantavano a squarciagola ardenti canzoni bulgare. Il mio compagno di viaggio mi aveva detto già a Vienna che sulla nave avremmo trovato il dottor Menachemoff, chissà come sarebbe stato contento di rivedermi, dopo tanto tempo (erano passati tredici anni). Io non ci avevo più pensato, poi, di colpo, mi ero trovato di fronte la sua barba nera. – Quanto avevo odiato, nel tempo trascorso, una barba nera simile a quella! – Forse era stato proprio un residuo di quell’antico sentimento ad attirarmi nelle vicinanze della sua barba. Sapevo che era lui, quella era la barba di un medico, e in preda a sentimenti discordanti lo avevo guardato fisso in faccia, e lui, interrompendo la sua frase in mezzo a una discussione, mi aveva detto: «Sei tu, lo sapevo, sei proprio tu. Eppure non ti ho riconosciuto. Come avrei potuto, del resto. Quando ti ho 
     visto l’ultima volta non avevi ancora compiuto sei anni».
Assai più di me il dottore viveva immerso nei tempi passati. Io avevo voltato le spalle a Rustschuk con una certa arroganza, quella era l’epoca in cui ancora non sapevo leggere. Dalle persone rimaste laggiù, che ogni tanto inopinatamente incontravo in ‘Europa’, non mi aspettavo nulla. Invece il dottore, che era sempre rimasto a Rustschuk, non aveva mai perso di vista i suoi antichi pazienti, e da quelli che avevano lasciato Rustschuk da bambini si aspettava imprese straordinarie. Sapeva della maledizione del nonno, quando eravamo partiti per l’Inghilterra tutta la città ne aveva parlato, ma era troppo fiero della propria scienza per poter credere alla sua efficacia. La morte di mio padre, pur seguita a così breve distanza, era rimasta per lui un mistero, e poiché nessuno era riuscito a risolverlo, gli sembrava naturale che io consacrassi la mia vita alla soluzione di quel mistero, o di altri analoghi enigmi.

    «Ricordi le sofferenze di allora?» disse, ritornando di colpo con il pensiero alle ustioni che avevo subito. «La pelle non c’era più. Solo la testa era stata risparmiata dall’acqua bollente. Era acqua del Danubio. Forse non lo sapevi. E ora navighiamo tranquilli su quello stesso Danubio». «Ma non è lo stesso,» dissi io «è sempre un altro. Le sofferenze non le ricordo più, ma ricordo benissimo il ritorno del babbo».

    «Fu quasi un miracolo,» disse il dottor Menachemoff «è stato il suo ritorno che ti ha salvato. Ecco come un uomo diventa un grande medico. Un uomo a cui è successa una cosa simile nella primissima infanzia deve diventare un medico. Sarebbe impossibile fare qualsiasi altra cosa. È per questo che tua madre si è trasferita a Vienna con voi bambini subito dopo la morte di tuo padre. Sapeva che là avresti trovato tutti i grandi maestri di cui hai bisogno. Che ne sarebbe di noi, senza la scuola di medicina di Vienna! È sempre stata una donna intelligente, tua madre. Ho sentito dire che è piuttosto malaticcia. Ci penserai tu a lei. Il migliore dei medici l’avrà in casa, sarà suo figlio. Vedi di finire in fretta; poi specializzati, ma senza esagerare».

    E qui mi fu prodigo di consigli per i miei studi universitari. Per quante obiezioni facessi – sia pure con titubanza – il dottore non ci faceva caso, purché si trattasse di medicina. Ma parlammo anche di altri argomenti, e a 
     tutto il resto egli rispose a tono; diceva solo cose che aveva lungamente meditato. Era un uomo duttile e saggio, pieno di speranza e di sollecitudine; solo a poco a poco compresi che una cosa non aveva capito e che non l’avrebbe capita mai. Egli non poteva credere che non sarei diventato un medico, in fondo dopo un solo semestre restavano aperte molte possibilità. Tale era la mia vergogna che smisi di fare sforzi per svelargli la verità e lasciai cadere quel tema così imbarazzante. O forse in effetti cominciai a vacillare in quel momento. Quando egli mi chiese notizie dei miei fratelli ed io, come sempre, parlai solo del minore, esaltando con grande orgoglio il suo grande talento, nemmeno fosse stato mio figlio, il dottor Menachemoff volle sapere che cosa avrebbe studiato lui. «Medicina» risposi, sentendomi sollevato: quella, infatti, era ormai una decisione presa. «Due fratelli – due medici» disse lui ridendo. «E perché non il terzo?». Ma era solo una battuta, e infatti non ebbi bisogno di spiegargli i motivi per cui quella del medico non sarebbe stata la professione adatta per Nissim.

    Sulla mia vocazione, in ogni caso, non aveva dubbi. Durante il viaggio ci incontrammo in coperta ancora un paio di volte. Mi presentò a parecchi suoi colleghi dichiarando con semplicità: «Un futuro luminare della scuola di medicina viennese». Non suonava come una fanfaronata, sembrava una cosa naturale. Per me diventava sempre più difficile esporgli la crudele, inequivocabile verità. Parlava tanto di mio padre, era stato presente quando mio padre era ritornato per salvarmi la vita, come avrei potuto deluderlo?

    Fu un viaggio bellissimo, vidi un numero incalcolabile di persone e con molte di esse attaccai discorso. Un gruppo di geologi tedeschi osservava le formazioni intorno alle Porte di Ferro e ne discuteva con parole per me incomprensibili. Uno storico americano cercava di illustrare alla propria famiglia le campagne di Traiano. Era diretto a Bisanzio, il vero tema delle sue ricerche. Solo sua moglie gli dava retta, le figlie, due belle ragazze, preferivano chiacchierare con gli studenti. Parlando inglese facemmo un po’ amicizia; le ragazze si lamentavano del padre che viveva sempre nel passato; loro, invece, che erano giovani, vivevano nel presente. Come dubitarne? Lo dicevano con una tale convinzione... Alcuni contadini 
     salirono a bordo con ceste di frutta e verdura. Un facchino portava sulla schiena un intero pianoforte, camminava in fretta sulle assi di legno, alla fine lo mise giù. Era piccolo, con il collo taurino e tutto muscoli, ma neppure oggi riesco a capire come potesse farcela da solo.

    A Lom Palanka Bucco e io scendemmo. Dovevamo pernottare, e il mattino seguente proseguire in treno per Sofia attraverso i Balcani. Il dottor Menachemoff, che tornava a Rustschuk, restò sul piroscafo. Quando mi congedai da lui non sentendomi affatto a posto con la mia coscienza, egli mi disse: «Non dimenticare quel che mi aspetto da te». E aggiunse: «Non lasciarti sviare da nessuno, capisci? Da nessuno!». Non aveva mai usato un tono così energico, le sue parole suonarono come un comando, e io sospirai profondamente.

    Per tutta la notte che passammo a Lom tormentati dalle cimici, non chiusi occhio neanche per un attimo e continuai a riflettere sul significato della sua ultima frase. Il dottore si era certo accorto che avevo tradito. Aveva simulato. Avendo io rinunciato a dirgli la verità in modo chiaro e incontrovertibile, poi mi ero vergognato del mio inganno. Ma anche lui aveva simulato. Aveva fatto finta di non capire cosa mi era successo. Senza aspettare il mattino andai dallo zio Bucco, tanto anche lui non poteva dormire in quella camera infestata dalle cimici, e gli domandai: «Cos’hai detto al dottor Menachemoff? Gli hai detto che cosa studio?». «Certo, chimica, che cosa avrei dovuto dirgli?». Allora lo sapeva davvero, e aveva tentato di riportarmi sulla retta via. Lui solo aveva fatto quello che avrebbe fatto mio padre: aveva cercato di concedermi la libertà di scegliere da me. Era stato testimone di ciò che era accaduto fra me e mio padre ed era l’unico ad averlo custodito. Si era trovato sulla nave che mi riportava laggiù e mi aveva trasmesso un messaggio che agli occhi del mondo non era di sua competenza. L’aveva fatto con astuzia, rifiutando di prender atto di ciò che era successo. Gli stava a cuore l’integrità del messaggio, il testo nella sua purezza. Non aveva avuto riguardi per la situazione in cui mi trovavo nel momento in cui venivo raggiunto da quel messaggio.
    

    L’oratore

    A Sofia nelle prime tre settimane abitai dalla zia Rachel, la sorella minore di mio padre. Era la più amabile di tutti i fratelli, una bella donna diritta, alta e imponente, affettuosa e allegra. Aveva due espressioni caratteristiche: o la si vedeva con il volto ridente o le si leggeva in viso una convinzione sostenuta con temperamento e passione, la sua causa era sempre disinteressata, era piuttosto una fede, un ideale. Aveva un marito abbastanza anziano, un uomo avveduto e stimato per il suo senso di giustizia, e tre figli, il più giovane dei quali aveva otto anni e portava, come me, il nome del nonno. La loro era una casa piena di vita, allegra e chiassosa, tutti ridevano continuamente e si chiamavano gridando da una stanza all’altra, nessuno poteva isolarsi, chi voleva un po’ di pace correva fuori e la trovava più facilmente per la strada che non a casa propria. Ma c’era in famiglia un punto fermo e pacifico, il consorte e padre – e quello che gli passava per la mente era per tutti un mistero. Non apriva quasi mai bocca, e si lasciava carpire solo qualche sentenza, peraltro inappellabile: pronunciava un sì o un no, una frase brevissima, ma così piano che si faceva fatica a sentirlo. Quando voleva dire qualcosa tutti tacevano, non occorreva intimare il silenzio. Per un attimo, così breve che faceva un effetto inquietante, non si udiva un rumore, poi arrivava, a voce bassa, appena percepibile, con parole contate e un po’ vaghe, la sentenza, la decisione. Subito dopo ricominciava il baccano, era difficile dire se erano più squillanti gli strilli di quei ragazzi scatenati o la voce acuta della madre che chiedeva, raccomandava, domandava qualcosa.

    Per me quel trambusto era nuovo. Quei ragazzi erano tutti protesi verso l’attività fisica, di libri non parlavano mai, di sport invece moltissimo. Erano dei giovani vigorosi, attivi, che non riuscivano a star fermi un momento e provocandosi allegramente si davano l’un l’altro continui spintoni. Il padre, che aveva un carattere completamente diverso, sembrava auspicare e favorire quell’eccesso di vitalità fisica. Mi aspettavo in ogni momento di sentirgli gridare «Ya basta!», e quando il tumulto era al culmine guardavo dalla sua parte. Lui se ne accorgeva benissimo, nulla gli sfuggiva, e sapeva ciò che mi aspettavo 
     da lui, ma non diceva nulla e il tumulto continuava; cessava soltanto, per breve tempo, quando tutti e tre i ragazzi uscivano di casa contemporaneamente.

    Ma dietro questo incoraggiamento alla vitalità c’era una convinzione, un metodo. La famiglia stava per emigrare. Insieme a molte altre famiglie aveva deciso di lasciare la città e il paese entro poche settimane. La Palestina, così si chiamava allora, era la meta agognata; sarebbero stati fra i primi a partire, erano considerati dei pionieri e ne erano altamente consapevoli. L’intera comunità degli «spagnoli» di Sofia, e non solo di Sofia ma di tutto il paese, si era convertita al sionismo. Non stavano male in Bulgaria, non subivano alcun tipo di persecuzione, non esistevano ghetti né casi di opprimente miseria, eppure c’erano fra loro dei capipopolo che avevano acceso la scintilla e non si stancavano di predicare il ritorno alla Terra Promessa. I loro discorsi, notevoli da più di un punto di vista, stigmatizzavano il separatismo altezzoso degli «spagnoli»: tutti gli ebrei sono uguali, dicevano, ogni forma di isolamento è riprovevole, e non si può certo dire che negli ultimi tempi siano stati gli «spagnoli» a essersi distinti per le loro imprese in favore dell’umanità. Gli «spagnoli» sono caduti, anzi, in una sorta di profondo torpore spirituale, ed è tempo che si destino e si gettino dietro le spalle, come un’inutile fissazione, la loro alterigia.

    Un mio cugino, Bernhard Arditti, passava per essere l’oratore più focoso di tutti, capace di autentici prodigi di persuasione. Era il figlio maggiore di quel Josef Arditti, ossessionato dal «diritto», che accusava di furto tutti i membri della famiglia e sguazzava nei processi, e della leggiadra Bellina, una donna che sembrava uscita da un quadro di Tiziano e non pensava ad altro, giorno e notte, che al modo di fare dei regali per rallegrare il cuore del suo prossimo, chiunque esso fosse. Bernhard, pur essendo avvocato, non aveva il minimo interesse per la pratica legale, probabilmente la voglia gli era passata a causa di suo padre, che si sentiva felice solo in mezzo agli articoli e ai commi. Giovanissimo, Bernhard si era convertito al sionismo e aveva scoperto la propria eloquenza che aveva messo al servizio della causa. Quando arrivai a Sofia, tutti parlavano di lui. Migliaia di persone si riunivano per ascoltarlo, la sinagoga maggiore quasi non 
     bastava a contenerle tutte. La gente si congratulava con me per quel cugino, compiangendomi per il fatto che non avrei potuto ascoltarlo di persona: nelle poche settimane del mio soggiorno, infatti, non era prevista nemmeno una riunione. Tutti erano travolti e conquistati dalle sue parole; fra coloro che conobbi, e furono moltissimi, nemmeno uno faceva eccezione, era come se un’onda immensa li avesse afferrati e trascinati in un mare, ormai ne facevano parte. Non incontrai una sola persona che si opponesse alla sua causa. Bernhard si rivolgeva ai suoi seguaci in spagnolo, ma li fustigava per la loro superbia che si fondava proprio sull’uso di quella lingua. Adoperava il vecchio spagnolo, ed io mi resi conto con stupore che nel linguaggio da me considerato un idioma infantile, un dialetto poverissimo da usare nelle cucine, si potevano trattare problemi generali e infondere negli uomini tanta passione da indurli a pensare seriamente di abbandonare ogni cosa, voltando le spalle a un paese in cui vivevano da generazioni, dov’erano riconosciuti e stimati e non se la passavano affatto male, per emigrare in una terra sconosciuta, promessa da migliaia di anni ma che a quell’epoca non era affatto la loro terra.

    Ero giunto a Sofia in un momento critico. Niente di strano, dunque, che in quella situazione non si trovasse in casa un letto per me. Uno dei ragazzi dovette andare a dormire da un’altra parte per farmi posto. Tanto più notevole fu dunque l’affabile ospitalità che mi accolse. Gli zii stavano chiudendo la casa, preparando i bagagli, e al solito trambusto, che evidentemente in quella casa regnava sovrano, si univa la confusione di un trasferimento affatto insolito. Sentivo nominare altre famiglie in cui succedeva la stessa cosa. L’emigrazione interessava un intero gruppo di famiglie, era la prima iniziativa del genere di ampia portata, e raramente si parlava d’altro.

    Andando a spasso, per vedere Sofia o anche solo per sfuggire al baccano di quella casa, mi capitava sovente di incontrare mio cugino Bernhard; proprio lui coi suoi discorsi era stato il promotore di tutto, o, per lo meno, aveva dato l’impulso decisivo all’iniziativa di cui ho appena parlato. Era un uomo tarchiato e lievemente pingue, con sopracciglia cespugliose, di circa dieci anni più vecchio di me, ma giovanile nell’aspetto e sempre in movimento; aveva la caratteristica di non parlare mai di fatti privati 
     (l’esatto contrario di suo padre). Il suo tedesco era talmente armonioso e sicuro che sembrava la sua lingua materna; tutto ciò che diceva appariva immutabile, eppure restava incandescente e fluido, una specie di lava che mai si raffredda. Se provavo a fargli un’obiezione, soltanto per metterlo alla prova, la spazzava via con ironica superiorità, e al tempo stesso sembrava scusarsi per la propria dimestichezza con la discussione politica, ridendo in maniera magnanima e per nulla offensiva.

    Quel che mi piaceva era il fatto che non dava alcun peso alle cose materiali. Poiché le scartoffie non lo interessavano, o meglio non le poteva soffrire, non si occupava mai di questioni d’interesse. Camminando al suo fianco per le strade larghe e pulite di Sofia, ti chiedevi soltanto come facesse a sbarcare il lunario. Era evidente che aveva bisogno di un nutrimento particolare: che viveva di ciò che gli riempiva l’anima. Forse le sue parole facevano effetto sugli altri proprio perché non gli accadeva mai di forzarle e deformarle in modo da farle coincidere con il proprio quotidiano tornaconto. Poiché non voleva nulla per sé, gli altri credevano in lui, ed egli credeva in se stesso perché i suoi pensieri non si perdevano mai dietro al guadagno.

    A Bernhard confidai che non avevo la minima intenzione di fare il chimico. Studiavo chimica solo per salvare le apparenze e prepararmi, intanto, a fare altre cose.

    «Perché questo sotterfugio?» mi chiese. «Tua mamma è una persona così intelligente!».

    «Ma si è lasciata influenzare da gente volgare. Quando era malata ad Arosa ha conosciuto delle persone che ‘sanno vivere’, come si dice, e che nella vita hanno avuto successo. Adesso vuole che anch’io ‘impari a vivere’; a modo loro, però, non a modo mio».

    «Attento!» disse Bernhard, fissandomi ad un tratto con uno sguardo serissimo, come se in quel momento mi vedesse per la prima volta come persona. «Stai attento! Sennò sei perduto. Quella razza la conosco bene. Anche mio padre voleva che stessi dietro a tutti i suoi processi».

    Non disse altro, l’argomento era troppo privato per interessarlo oltre. Ma era chiaro che stava dalla mia parte. Solo quando gli dissi che volevo scrivere in tedesco, e in nessun’altra lingua, scosse il capo con disappunto e replicò: 
     «Perché? Impara l’ebraico, piuttosto! È quella la nostra lingua. Credi che esista al mondo una lingua più bella?».

    Incontravo volentieri Bernhard, perché era riuscito a sottrarsi alla servitù del denaro. Guadagnava poco, ma nessuno era stimato come lui; neppure uno degli schiavi del commercio – categoria alla quale appartenevano quasi tutti i membri della mia famiglia – lo biasimava. Bernhard sapeva diffondere a piene mani una speranza che a loro serviva molto di più della ricchezza e della normale felicità. Sentivo che voleva conquistarmi; ma non brutalmente, magari con un discorso durante una manifestazione di massa, bensì da uomo a uomo, come se pensasse che sarei potuto diventare altrettanto utile alla causa quanto lui stesso. Gli domandai quale fosse il suo stato d’animo quando parlava: non smarriva per caso la sua identità, non temeva di perdersi nella massa entusiasta?

    «Mai! Mai!» mi disse con grandissima risolutezza. «Quanto più loro sono entusiasti, tanto più io mi sento me stesso. La gente si può tenere in pugno come cera molle, si può farne tutto quello che si vuole. Si può spingerla ad appiccare il fuoco alle proprie case, non ci sono limiti a questo potere. Prova anche tu! Basta volerlo! Tu non abuserai di questo potere! Anche tu, come me, lo userai per una causa giusta, per la nostra causa».

    «Io,» gli dissi «l’esperienza della massa l’ho avuta a Francoforte. Ero io a essere come cera. Non posso dimenticarlo. Vorrei sapere che cos’è. Vorrei proprio riuscire a capirlo».

    «Non c’è niente da capire. È dappertutto lo stesso. O sei una goccia che si dissolve nella massa o sei l’uomo che sa dare una direzione alla massa. Non hai altra scelta».

    Gli sembrava ozioso chiedersi che cosa fosse in realtà la massa. La accettava come un dato, una realtà che si può evocare al fine di raggiungere determinati scopi. Ma io gli domandai se chiunque ha il diritto di evocare la massa, purché ne sia capace.
    «No, non certo chiunque!» disse Bernhard con la massima decisione. «Solo chi la usa per la vera causa».
    «E come fa a sapere che è la vera causa?».

    «È una cosa che si sente, si sente qui!» e si batté più volte il petto con forza. «Chi non la sente non è capace di far nulla!».

    «Ma allora quel che conta è solo credere nella propria causa. E magari l’avversario crede nella causa opposta!».

    Lo dissi esitando, tastando il terreno, non avevo intenzione né di criticarlo né di metterlo in imbarazzo. Non ci sarei riuscito, del resto, era troppo sicuro di sé, volevo solo arrivare a una cosa che sentivo in maniera indistinta e che, dall’epoca di Francoforte, non aveva cessato di occupare la mia mente anche se non riuscivo a capirla bene. Ero stato afferrato dalla massa, era un’ebbrezza, nella massa ti perdevi, dimenticavi te stesso, ti sentivi immensamente dilatato e al tempo stesso appagato, qualsiasi cosa sentissi, non la sentivi per te stesso, era l’esperienza più altruistica che tu avessi mai conosciuto, e poiché l’egoismo che ti era stato inculcato da tutti ti circuiva di continuo e in fondo ti minacciava, avevi bisogno di quella frastornante esperienza altruistica come dello squillo di tromba del Giudizio Universale, e dunque ti astenevi dal disprezzare la massa o dallo sminuirla. Al tempo stesso sentivi però di non essere più padrone di te, di non essere libero, ti stava succedendo qualcosa di inquietante, per metà vertigine, per metà paralisi, com’era mai possibile tutto questo insieme? Che cos’era?

    Tuttavia non mi aspettavo affatto che Bernhard, l’oratore, proprio nel momento in cui aveva raggiunto il culmine della sua capacità di suggestione, rispondesse a questo mio interrogativo, peraltro ancora inarticolato. Gli opponevo resistenza, pur apprezzandolo. Diventare un suo seguace non mi sarebbe bastato. Di gente da seguire ce n’era a volontà, conoscevo sostenitori e paladini delle cause più svariate. In fondo – anche se ancora non lo dicevo a me stesso – consideravo Bernhard come un essere che aveva la facoltà di trasformare gli uomini in massa.

    Tornando nella casa di zia Rachel, vedevo che essa era dominata dalle emozioni che Bernhard suscitava da anni con i suoi discorsi in quella famiglia, non meno che in tante altre. Per tre settimane fui testimone dell’atmosfera della partenza imminente. Il momento culminante fu l’addio alla stazione. Centinaia di persone si erano radunate per accompagnare i parenti. Gli emigranti, si trattava di parecchie famiglie che occupavano tutto il treno, furono sommersi dai fiori e dalle invocazioni, la gente cantava, benediceva, piangeva, era come se la stazione fosse stata costruita soltanto per quell’addio, come se 
     l’avessero fatta così grande proprio perché potesse accogliere quella ricchezza di affetti. Bambini tenuti in braccio venivano fatti sporgere dai finestrini degli scompartimenti, i vecchi, soprattutto donne già un poco avvizzite, stavano in piedi lungo il binario con gli occhi pieni di lacrime, non vedevano più i loro bambini e salutavano quelli sbagliati. Erano i loro nipoti che se ne stavano andando, i nipoti partivano e i vecchi restavano, questa era l’impressione – non del tutto esatta – della partenza. Un’attesa immane riempiva l’atrio della stazione, forse i nipoti erano là in funzione di quell’attesa e del momento dell’addio.

    L’oratore era venuto con gli altri ma rimaneva a Sofia. «Ho ancora da fare,» disse «non posso andar via. Devo far coraggio a chi ancora non se la sente». Si fermò all’ingresso della stazione, non si fece avanti, sembrava che preferisse rimanere in disparte, in incognito, nascosto sotto una cappa magica che doveva renderlo invisibile. Ogni tanto qualcuno lo salutava, chiamandolo in causa, e questo sembrava irritarlo. A un certo punto la gente lo pregò con insistenza di dire due parole. Sin dalla prima frase si trasformò in un altro uomo, focoso e risoluto, sembrava che le sue stesse parole lo facessero sbocciare, e subito seppe trovare e donare ai presenti le parole di benedizione e di augurio di cui essi avevano bisogno per affrontare l’impresa.

    Dalla casa di zia Rachel, ormai vuota e abbandonata, mi trasferii nella casa di zia Sophie, la sorella maggiore di mio padre. Dopo la baraonda delle settimane precedenti, tutto qui mi sembrava sciapo e ovattato, come per una sorta di diffidenza verso qualsiasi iniziativa che andasse al di là del solito tran tran quotidiano. Si condividevano, certo, le idee degli emigranti, ma non se ne parlava, l’eccitazione veniva risparmiata per le occasioni solenni, e nel frattempo si faceva la solita vita. Quella casa era il regno della ripetizione, vi imperava la routine della mia infanzia più remota, che ormai per me aveva perso ogni significato; le avevamo voltato le spalle partendo per l’Inghilterra, e la via verso l’infanzia mi era sbarrata dal fatto atroce avvenuto a Manchester. Ascoltavo i discorsi casalinghi di Sophie, grande esperta di diete e clisteri, donna premurosissima che non aveva mai niente da raccontare, ascoltavo suo marito, uomo prosaico e di 
     poche parole, e il prosaico figlio maggiore, che con molte parole diceva altrettanto poco, e infine, delusione delle delusioni, ascoltavo la loro figlia Laurica, la compagna di giochi della mia infanzia che a cinque anni volevo assassinare con la scure.

    Già nelle proporzioni c’era qualcosa che non tornava: io me la ricordavo alta, molto più alta di me, e adesso era più piccola, graziosa, civettuola, e pensava solo a sposarsi, a trovar marito. Dov’era la sua pericolosità, che ne era dei suoi quaderni che tanto avevo invidiato? Non ne sapeva più nulla, nel frattempo aveva disimparato a leggere, non ricordava affatto la scure con cui l’avevo minacciata e neppure le proprie urla. Non era stata lei a spingermi nell’acqua bollente, c’ero caduto da solo, non ero rimasto a letto per settimane, «ti sei solo scottato un po’»; e quando, pensando che avesse dimenticato soltanto le cose che la riguardavano da vicino, le ricordai la maledizione del nonno, scoppiò in una risata argentina come la servetta di un’opera buffa. «Figurarsi, un padre che maledice il figlio, sono cose che non esistono, te lo sarai inventato tu, sono solo favole, e a me le favole non piacciono»; allora le rinfacciai che a Vienna avevo assistito a innumerevoli scenate fra il nonno e la mamma, tutte incentrate su quella maledizione, e che il nonno scappava via infuriato senza neanche salutare, e la mamma, affranta, piangeva poi per ore e ore; ma lei se la cavò con aria saputa dicendo: «Sono solo fantasie, è tutto frutto della tua immaginazione».

    Potevo dire tutto ciò che volevo, non serviva a niente, non era successo niente di tremendo, non succedeva mai niente di tremendo. Allora tirai fuori – di malavoglia – l’incontro con il dottor Menachemoff sul battello del Danubio. Avevamo parlato per ore e ore, e lui si ricordava ogni cosa. Aveva tutto così chiaro davanti agli occhi come se fosse successo il giorno prima. Il dottor Menachemoff era stato, a Rustschuk, anche il medico della famiglia di Laurica e lei lo conosceva meglio di me, perché prima di trasferirsi a Sofia aveva abitato a lungo laggiù. Ma anche di fronte a questo argomento la sua risposta fu pronta: «In provincia la gente si riduce così. È gente sorpassata. Sono tutte cose che s’inventano. Non hanno nient’altro a cui pensare. Credono a un sacco di stupidaggini. Sei caduto nell’acqua da solo. Non sei stato affatto così male. 
     Tuo padre non è tornato da Manchester. Era troppo lontano. Allora viaggiare mica costava poco. Tuo padre non era più a Rustschuk. Quando mai il nonno avrebbe potuto maledirlo? Il dottor Menachemoff non sa niente. Solo la famiglia conosce queste cose».

    «E tua madre?». Il giorno prima la zia Sophie aveva parlato di quando mi aveva tirato fuori dall’acqua e tolto i vestiti, e tutta la pelle era venuta via. «La mamma non ricorda più niente» disse Laurica. «È un po’ svanita per via dell’età. Ma non bisogna dirglielo».

    Ero esasperato dalla sua testardaggine e dalla sua ristrettezza di vedute. Niente le importava eccetto una cosa, un vero chiodo fisso: sposarsi, trovare finalmente marito. Aveva ventitré anni e temeva di essere considerata, ormai, una vecchia zitella. Mi subissava di domande, supplicandomi di dirle la verità: poteva ancora piacere a un uomo? Avevo diciannove anni, dovevo conoscere quella sensazione. Mi veniva voglia di baciarla? Con quella pettinatura mi veniva voglia di baciarla di più o di meno che con quella del giorno prima? La trovavo magra? Era carina, certo, ma magra proprio no. Sapevo ballare io? Per piacere a un uomo non c’era occasione migliore che il ballo. Una sua amica si era fidanzata proprio a un ballo. Ma lui, poi, le aveva detto che quella promessa non contava, gli era solo venuto in mente così, ballando. Secondo me una cosa simile poteva capitare anche a lei? Che ne pensavo?
    Niente, ne pensavo, alle sue domande non sapevo proprio cosa rispondere, e, per quanto veloci mi piovessero addosso, restavo impenetrabile. Non provavo ancora nessuna sensazione, benché avessi diciannove anni, le dissi. Non sapevoaffatto se una donna mi piaceva o no. Da che cosa avrei dovuto accorgermene? Erano tutte stupide, con loro non si poteva mai parlare di niente. Erano tutte come lei, non si ricordavano niente. Come fa a piacere una persona che non ricorda niente? La sua pettinatura era sempre uguale, certo che era magra, perché mai una donna non dovrebbe essere magra? No, non sapevo ballare. Ci avevo provato una volta, a Francoforte, ma pestavo continuamente i piedi della ragazza. E poi un uomo che si fidanza durante un ballo è un cretino. Chi si fidanza è sempre un cretino.

    La ridussi alla disperazione, ma almeno la riportai alla 
     ragione. Per ottenere una risposta cominciò a ricordare. Non ne venne fuori molto, ma la scure alzata la vedeva ancora davanti a sé, continuava a sognarla, l’ultima volta l’aveva sognata quando il fidanzamento della sua amica era andato in fumo.

    Allo stretto

   All’inizio di settembre andammo ad abitare in casa della signora Olga Ring: bellissima, con un profilo da romana antica, era una donna orgogliosa e appassionata che nella vita non voleva nulla senza dare qualcosa in cambio. Il marito era morto da parecchio tempo; il loro amore era diventato leggendario fra gli amici, eppure nella signora Olga non degenerò in un culto per il defunto, anche per il fatto che nei suoi confronti lei non si sentiva colpevole. Non temeva di pensare al marito, perciò non falsificò mai la sua immagine e rimase se stessa. Ebbe molti pretendenti, ma neppure un momento di debolezza, e si conservò bella fino alla tarda, terribile fine.

    La signora Olga trascorreva la maggior parte dell’anno presso la figlia sposata, a Belgrado. Nella casa di Vienna, dove niente era stato cambiato, o meglio, nella sua parte più remota, un minuscolo stanzino, viveva il figlio Johnnie, pianista di bar, che ai propri occhi e a quelli di sua madre non era affatto un fallito, ma certo lo era per il resto della famiglia. Anche Johnnie era bellissimo, proprio il ritratto della signora Olga, eppure assai diverso, perché tutta la sua figura era più corpulenta. Ci si stupiva che non andasse in giro vestito da donna, spesso lo prendevano per una donna. Adulatore consumato, accettava tutto quello che gli davano, il suo braccio era sempre teso, la mano sempre aperta. Pensava che tutto questo, e anche di più, gli spettasse di diritto, perché suonava bene il pianoforte. Nel suo bar era il beniamino del pubblico, suonava sia le canzonette più in voga sia quelle dei tempi andati, per imparare un pezzo gli bastava suonarlo una volta, era una specie di inventario vivente dei rumori della notte. Di giorno dormiva nel suo stanzino, dove entrava appena il suo letto. Il resto della casa, ammobiliata con pesante decoro borghese, veniva affittato.

    Per un certo periodo Johnnie aveva avuto il compito di riscuotere la pigione per conto della madre, detrarne una piccola parte e spedire il resto a Belgrado. Questo, almeno, era l’incarico, ma di fatto le sue detrazioni si mangiavano l’intera pigione e per la madre non restava più niente. A Belgrado le arrivavano soltanto dei conti da pagare e, dato che non sapeva come saldarli – dal suo felice matrimonio non le era rimasto nient’altro che quell’appartamento –, bisognava trovare un sistema migliore. Sua nipote, Veza, si incaricò di affittare la casa e di incassare la pigione mese per mese; provvedeva lei a pagare i conti e solo quello che restava doveva essere consegnato a Johnnie, se ne aveva bisogno. Johnnie ne aveva sempre bisogno, e la signora Olga continuava a non ricevere neppure un centesimo. Ma lei non si lagnava, adorava quel figlio. «Mio figlio, il musicista» diceva sempre di lui, e, poiché in ogni cosa che diceva si sentiva l’impronta della sua fierezza, chi non conosceva Johnnie avrebbe potuto ritenerlo, nonostante il suo nome da bar, uno Schubert in incognito.

    Eravamo contenti di entrare in quella casa; benché ammobiliata da altri, era pur sempre una casa tutta per noi. Avevamo di fronte la visione della Scheuchzerstrasse e, benché non si trattasse di Zurigo, il mio paradiso, eravamo pur sempre a Vienna, il paradiso della mamma. Tornavamo a Vienna dopo cinque anni, nel frattempo per me c’era stata ‘villa Yalta’, a Zurigo, e per la mamma il sanatorio di Arosa in mezzo al bosco; e poi c’era stata la vita di pensione e inflazione a Francoforte. Era ben strano che dopo tutto questo potessimo ancora immaginare un’esistenza in comune priva di tensioni. Eppure parlavamo tutti, ciascuno a modo suo, come se a Vienna dovesse cominciare una nuova èra di salute, di studio e di pace.

    Ma c’era un inconveniente, che si chiamava Johnnie Ring. La nostra stanza di soggiorno e sala da pranzo confinava con il suo stanzino e quando la famiglia, finalmente riunita, sedeva a tavola, la porta si apriva e si affacciava la figura grassoccia di Johnnie, avvolta soltanto in una vecchia vestaglia, che salutando con un «Bacio la mano, gentile signora!» ci passava davanti, ciabattando veloce verso la toilette. Era nei patti che potesse servirsene, ma ci eravamo scordati di escludere l’ora dei pasti, durante i quali ci avrebbe fatto piacere non essere 
     disturbati. Johnnie, invece, giungeva sempre puntualmente non appena avevamo immerso i cucchiai nella minestra – forse le nostre voci l’avevano svegliato ricordandogli le sue necessità, o forse, invece, era soltanto curioso di conoscere il nostro menu. Infatti non tornava indietro subito ma faceva in modo di ripassare, frusciando, diretto al suo stanzino quando nei nostri piatti c’era già la pietanza. Era proprio un fruscio, benché Johnnie non fosse vestito di seta; quel rumore nasceva dal suo modo di muoversi e dalla rapida successione di almeno una dozzina di «bacio la mano mi scusi gentile signora bacio la mano mi scusi bacio la mano mi scusi gentile signora bacio la mano mi scusi». Doveva passare dietro la sedia della mamma e, con un’agilissima piroetta, si infilava di stretta misura tra lo schienale e il buffet senza mai sfiorarla neppure una volta. La mamma, tesissima, si aspettava ogni volta che lui la toccasse con quella sua vestaglia bisunta, respirava profondamente quando il pericolo era passato e Johnnie era sparito dietro la porta dello stanzino, e alla fine ogni volta ripeteva la stessa frase: «Sia ringraziato Iddio, altrimenti avrei perso l’appetito». Noi ci rendevamo conto che quell’uomo suscitava in lei un enorme disgusto, senza sospettarne il vero motivo, e una cosa ci stupiva, il fatto che lei rispondesse sempre con grande gentilezza alle sue parole. Nella scelta del saluto – «Bene alzato, signor Ring!» – l’ironia non mancava di certo, ma non era percepibile, il tono era innocente, gentile, persino affabile. Il sospiro di sollievo quando Johnnie era passato non era mai tanto forte che egli potesse udirlo dietro la porta chiusa dello stanzino; per il resto, la conversazione proseguiva come se Johnnie non fosse comparso affatto.

    In altri momenti, soprattutto di sera, Johnnie coinvolgeva la mamma in una conversazione cui lei era incapace di sottrarsi. Cominciava a lodare i suoi tre ragazzi, così bene educati. «È una cosa da non credere, gentilissima signora, sono belli come principini!». «I miei figli non sono belli, signor Ring» rispondeva indignata mia madre. «Per un uomo la bellezza non conta». «Non lo dica, gentilissima signora, la bellezza è un grande aiuto! Se sono belli, avranno più successo nella vita. Potrei raccontarle tanti episodi! Da noi al bar viene il giovane Tisza. Chi erano i Tisza – non occorre che glielo dica. Vivono ancor oggi in Ungheria. Una persona incantevole, questo giovane 
     Tisza! È una vera bellezza, non è soltanto carino, ed è un tale rubacuori! Li ha tutti ai suoi piedi. Suono per lui tutto ciò che desidera, e ogni volta mi ringrazia, mi ringrazia in modo speciale per ogni pezzo. “Meraviglioso!” dice, e mi guarda con intenzione. “Lo ha suonato in modo meraviglioso, caro Johnnie!”. Quel che desidera glielo leggo negli occhi. Mi getterei nel fuoco per lui. Dividerei con lui la mia ultima vestaglia! E come mai il giovane Tisza è così? Educazione, gentilissima signora, è tutta questione di educazione. Le buone maniere sono metà del buon cuore. È la madre che conta. Oh, che fortuna avere una mamma come lei! Chissà se i suoi tre angeli si rendono conto del tesoro che possiedono in una mamma come lei! Ce n’è voluto di tempo prima che io riuscissi a dire grazie a mia madre. Non che io voglia paragonarmi ai suoi tre angeli, gentilissima signora!». «Ma perché li chiama angeli, signor Ring? Dica pure birbanti, non mi offendo mica. Non sono sciocchi, questo è vero, ma non è merito loro, mi sono data abbastanza da fare per istruirli». «Vede, gentilissima signora, vede che ora lo ammette, è lei che si è data da fare! Lei, soltanto lei! Senza di lei, senza il suo sacrificio, forse sarebbero davvero diventati dei birbanti».

    «Sacrificio»: ecco la parola magica con cui Johnnie catturava la mamma. Se egli avesse saputo l’importanza che aveva assunto per lei la parola «sacrificio», e con essa tutti i suoi derivati, certo l’avrebbe usata più spesso. Da molto tempo la mamma aveva cominciato a dire che aveva sacrificato la sua vita per noi; era l’unica traccia di religione che le fosse rimasta. Man mano che la sua fede nell’esistenza di Dio si affievoliva, e che in lei la presenza di Dio si sentiva sempre meno, fino a svanire quasi del tutto, sempre più aumentava ai suoi occhi l’importanza del sacrificio. Sacrificarsi non era soltanto un dovere, era l’atto più eccelso che potesse compiere un essere umano; ma non per comandamento divino (Dio era troppo lontano per occuparsene): ciò che contava era il sacrificio in sé, il sacrificio che deriva dal proprio impulso più profondo. Anche nell’estrema concentrazione di quella parola, il sacrificio era una realtà complessa e dilatata nel tempo, si estendeva per ore, per giorni, per anni – il sacrificio era la vita di tutte le ore che lei non aveva vissuto. Una volta che Johnnie l’aveva catturata con quella parola 
     magica, poteva continuare a parlarle per tutto il tempo che voleva. La mamma non lo congedava, casomai era lui a lasciarla, per portare a spasso Nerone, il suo cane lupo, oppure perché suonava il campanello che annunciava una visita. Arrivava un giovanotto che spariva con Johnnie e con Nerone nello stanzino e lì restava per ore, fino a quando non arrivava il momento di andare al bar a suonare il pianoforte. Dallo stanzino non trapelava il minimo rumore, Nerone, abituato a dormire lì, non abbaiava mai. Non si riusciva a capire se Johnnie e il giovanotto stessero parlando tra loro. La mamma non si sarebbe mai abbassata sino ad origliare alla porta, che quei due parlassero era perciò solo una sua supposizione. Nello stanzino non avrebbe mai gettato neppure un’occhiata (lo evitava come la peste); tuttavia era davvero minuscolo, ci stava un letto o poco più, e che ben due persone (una delle quali era il florido Johnnie) e un cane di grossa taglia resistessero così allo stretto per tanto tempo senza fare il minimo rumore le dava parecchio da pensare. Non diceva mai nulla, ma io sentivo quando ci stava pensando. La sua vera preoccupazione, però, era che potessi pensarci io, cosa che a me non veniva neanche in mente, non mi interessava affatto. Una volta la mamma mi disse: «Credo che quel giovanotto si metta a dormire sotto il letto. Ha sempre un’aria così pallida e stanca. Forse non ha una stanza propria, e Johnnie, per compassione, lo lascia dormire un paio d’ore sotto il letto». «E perché non sopra?» dissi io in tutta innocenza. «Pensi che Johnnie sia troppo grasso e non ci sia posto per tutti e due?». «Ho detto sotto il letto» rispose la mamma, e lanciandomi un’occhiata penetrante aggiunse: «Che strane idee ti vengono in mente?». A me non veniva in mente proprio nulla, ma lei, ad ogni buon conto, preveniva i miei pensieri confinandoli nello spazio sotto il letto, in modo che sopra ci fosse posto per il cane, il che probabilmente le sembrava innocuo. Se avesse potuto guardarmi dentro si sarebbe stupita, agli avvenimenti dello stanzino non pensavo affatto, ne ero distolto da un’altra cosa che riguardava lei; quella sì che mi sembrava oscena, anche se allora non avrei adoperato questa parola.

    A sbrigare i lavori domestici veniva in casa tutte le mattine una donna in stato di avanzata gravidanza, la signora Lischka. Si tratteneva oltre il pasto di mezzogiorno, per 
     lavare i piatti, poi se ne tornava a casa sua. Veniva soprattutto per i lavori pesanti: per il bucato e per battere i tappeti. «Per i lavori leggeri non ne ho bisogno,» diceva la mamma «li posso fare da me». Nel suo stato, nessuno voleva darle lavoro, spiegò la mamma, tutti temevano che, essendo la gravidanza così avanzata, quella donna non fosse in grado di fare le cose per bene. Ma lei aveva assicurato che lavorava con coscienza, voleva soltanto esser messa alla prova. Allora la mamma, presa da compassione, le aveva permesso di venire. Era stato un rischio, sarebbe stato spiacevole se improvvisamente si fosse sentita male, o se, addirittura, si fosse verificato il lieto evento – su ciò la mamma, per riguardo alla nostra giovane età, non si esprimeva in modo più preciso e ci risparmiava ulteriori particolari. La donna aveva garantito che mancavano ancora due mesi e che, nel frattempo, poteva ancora eseguire a fondo tutti i lavori di casa. I fatti dimostrarono che aveva detto la verità, il suo zelo era straordinario. «Potrebbero prenderla a esempio anche le donne non incinte» diceva la mamma.

    Una volta, tornando a casa per il pranzo, guardai giù in cortile dal pianerottolo delle scale: vidi la signora Lischka che batteva i tappeti, faceva fatica a non darsi dei colpi sul ventre, a ogni colpo si girava con uno strano movimento rotatorio. Sembrava che distogliesse con disprezzo lo sguardo dal tappeto, come se quella vista la disgustasse, come se non volesse vederlo per nessun motivo. Aveva il viso paonazzo, dall’alto, a quella distanza, sembrava alterato dall’ira, il sudore le grondava sul viso rosso, stava urlando qualcosa che non capivo. Poiché intorno a lei non vidi nessuno con cui potesse parlare, pensai che gridando in quel modo s’incitasse a battere i tappeti con più forza.

    Sconvolto, entrai in casa e domandai alla mamma se aveva visto la signora Lischka giù in cortile. Sarebbe salita subito in casa, fu la risposta, quel giorno avrebbe ricevuto anche il pranzo, nei giorni in cui batteva i tappeti riceveva anche il pranzo. Per contratto la mamma non era affatto tenuta a darle da mangiare («per contratto» disse la mamma), ma quella donna le faceva davvero una gran pena. La signora Lischka le aveva detto che era abituata a non mangiare niente per tutto il giorno, si cucinava qualcosa la sera tornando a casa. Ma la 
     mamma non aveva cuore di vederla lavorare digiuna e nei giorni in cui batteva i tappeti le dava anche il pranzo. Lei era sempre così contenta che batteva i tappeti con un impegno tutto speciale. Quando tornava su con i tappeti era tutta in sudore, e in cucina non si poteva resistere per la puzza; perciò in quei giorni la mamma serviva lei stessa il pranzo e lasciava la signora Lischka in cucina con la sua fame. Le dava un piatto pieno fino all’orlo, un piatto enorme, nessuno di noi, diceva, neppure Georg, che era il più piccolo, riusciva a mangiare così tanto. Poco dopo era sparito tutto, forse la signora Lischka un po’ di cibo lo metteva in un pacchetto per portarselo a casa nella borsa. Davanti a lei, la «signora», non mangiava mai, pensava che non stesse bene. Parlammo di tutto questo a tavola. Io domandai perché la signora Lischka non ricevesse il pranzo tutti i giorni. La mamma rispose che anche quando faceva il bucato riceveva qualcosa, un po’ meno, però. Ma nei giorni in cui il lavoro era leggero, allora no, ‘per contratto’ lei non era tenuta a darle nulla, del resto la signora Lischka era riconoscente per quello che riceveva, più riconoscente di me, in ogni caso.

    Di «riconoscenza» si parlava spesso; quando, indignato per qualcosa, criticavo la mamma, lei era subito pronta ad accusarmi d’ingratitudine. Una discussione pacata fra noi era impossibile. Io dicevo senza riguardi quel che pensavo, ma soltanto quando ero in collera, perciò le mie parole avevano sempre un tono offensivo. Lei si difendeva come meglio poteva. Quando si sentiva con le spalle al muro ritornava ai sacrifici che faceva per noi da ben dodici anni e mi rimproverava di non dimostrare la minima riconoscenza nei suoi riguardi.

    I suoi pensieri erano rivolti allo stanzino sovrappopolato del nostro appartamento, e al pericolo che quella promiscuità poteva rappresentare per noi; parlava apertamente soltanto della pigrizia di Johnnie, del cattivo esempio dato da un uomo adulto che, o se ne sta sdraiato sul letto tutto il santo giorno, oppure gironzola per la casa seminudo con addosso una lurida vestaglia, ma, dentro di sé, pensava a ogni sorta di vizi e depravazioni di cui io non sospettavo nulla. I miei pensieri, invece, erano rivolti alla cucina nella quale si trovava la signora Lischka, che ci era grata perché qualche volta riceveva un piatto di minestra, tanto che quando mi incontrava non mancava 
     mai di proclamare con voce piena di gioia: «Avete proprio una buona mamma!» e, per rafforzare le sue parole, scuoteva vigorosamente il capo. La signora Lischka rappresentava per la mamma e per me un’occasione permanente per confermarci nelle nostre idee: alla mamma riconfermava il suo buon cuore, perché, senza esservi tenuta ‘per contratto’, ogni tanto le dava da mangiare, e in me riconfermava un certo senso delle convenienze, che mi faceva sentire come una colpa il fatto che la signora Lischka lavorasse da noi in quelle condizioni. Era una specie di torneo dell’autocompiacimento nel quale ci gettavamo come due instancabili cavalieri. Data l’energia che impiegavamo in quelle tenzoni, avremmo potuto battere tutti i tappeti del caseggiato, e di sicuro ce ne sarebbe ancora avanzata per lavare la biancheria. Ma era una questione di principio, di questo eravamo entrambi convinti: il principio della riconoscenza, pensava lei, della giustizia, pensavo io.

    Fu così che in casa nostra entrò la diffidenza. Per la mamma era un male che in casa ci fosse quel segreto, lo stanzino sovrappopolato di Johnnie, mentre io ero preso da un senso di spavento per la presenza di quella donna in stato di avanzata gravidanza che si arrabattava in cortile o in cucina. Avevo sempre paura che non ce la facesse, tutto a un tratto avremmo sentito strillare, saremmo accorsi in cucina e l’avremmo vista per terra in un lago di sangue. Gli urli, m’immaginavo, erano quelli del neonato, e la signora Lischka la vedevo già morta.

    Il dono
Il dono

    Non ricordo un anno più opprimente di quello che passammo tutti insieme nella Radetzkystrasse, pigiati in quel piccolo appartamento.

    Appena entrato in casa, mi sentivo osservato. Non andava mai bene niente di quello che facevo o dicevo. Tutto era così vicino, la stanzetta da letto e di studio nella quale cercavo di rifugiarmi il più in fretta possibile era posta fra il soggiorno comune e la camera da letto della mamma e dei miei fratelli. Impossibile sgattaiolarvi dentro senza esser visto, e così tutte le volte, appena tornavo a casa, 
     cominciavano i saluti e le spiegazioni in soggiorno. Era un vero interrogatorio, e anche se non arrivavano subito le accuse vere e proprie, già le domande tradivano sfiducia. Ero stato in laboratorio o ero andato a sentire qualche lezione, tanto per perder tempo?

    A domande di quel genere mi ero esposto da solo con la mia loquacità. Ero abituato a parlare soprattutto delle lezioni che trattavano argomenti non troppo lontani dalla comune capacità di comprensione. La storia d’Europa dopo la Rivoluzione francese risultava a chiunque più accessibile che non la fisiologia delle piante o la chimica-fisica. Anche se non parlavo della chimica-fisica, ciò non significava che non mi ci dedicassi con sufficiente impegno. Ma una cosa sola contava, quello che dicevo, e le mie stesse parole mi venivano ritorte contro come capi d’accusa: mi occupavo più del Congresso di Vienna che dell’acido solforico! «In questo modo ti disperdi,» era la formula «così non andrai mai avanti».

    «Devo andare a sentire quelle lezioni,» rispondevo io «altrimenti soffoco. Non posso mica lasciar perdere tutto ciò che mi interessa sul serio solo perché studio una materia che non mi va giù».

    «Già, ma perché non ti va giù? Fai di tutto per prepararti a non esercitare nessuna professione. Hai paura che da un momento all’altro la chimica possa cominciare a interessarti. Eppure è una professione che ha un grande avvenire – ma tu sei prevenuto e ti chiudi a doppia mandata. Non sporcarsi le mani, per carità! L’unica cosa pulita sono i libri. Vai a sentire tutte le lezioni possibili e immaginabili solo per leggere altri libri. È una cosa che non ha fine. Non hai ancora capito come sei fatto? Hai già cominciato da bambino. Per ogni libro da cui impari una cosa nuova hai bisogno di altri dieci libri per saperne ancora di più. Una lezione che ti interessa è una nuova lista. L’argomento ti interesserà sempre più. La filosofia dei Presocratici! Benissimo, dovrai farci su un esame. Non c’è niente da fare. Prendi appunti, hai già riempito quaderni su quaderni, a che ti servono i libri che vorresti leggere in più? Credi che non sappia tutto quello che hai già scritto sulla tua lista? Sono spese che non possiamo affrontare. E anche se potessimo, per te sarebbe un male. Continuerebbero ad attirarti sempre più e ti distoglierebbero dal tuo compito principale. Tu stesso dici che in 
     questo campo Gomperz è molto conosciuto, non hai detto che già suo padre era famoso per il suo libro sui Pensatori greci?».

    «Sì,» la interruppi «è un’opera in tre volumi, mi piacerebbe leggerli, vorrei proprio averli».

    «Ecco, mi basta nominare il padre del tuo professore, e subito tu metti in programma la lettura di un’opera scientifica in tre volumi! Non penserai che te la regali davvero! Ti dovrai accontentare del figlio. Prendi appunti e studia sui tuoi quaderni».

    «Va troppo per le lunghe. Ci mette tanto di quel tempo, tu sapessi. Vorrei leggere più avanti, non posso aspettare che Gomperz arrivi a Pitagora, già adesso vorrei sapere qualcosa su Empedocle e su Eraclito».

    «Di autori antichi ne hai già letti moltissimi a Francoforte. A quanto pare erano sempre quelli sbagliati. Dappertutto trovavo in giro quei libracci che sembravano tutti uguali. Come mai non hai letto anche i filosofi greci? Fin da allora ti interessavi a certe cose che poi in seguito non hai saputo utilizzare».

    «Allora i filosofi non mi piacevano. Da Platone mi teneva lontano la teoria delle idee, che riduce il mondo a pura apparenza. Aristotele non l’ho mai potuto soffrire. È il filosofo onnisciente che vuole incasellare tutto. Con lui hai l’impressione di esser imprigionato in un’infinità di cassetti. Se allora avessi saputo dell’esistenza dei Presocratici, credimi pure, li avrei letti parola per parola. Ma nessuno me ne aveva mai parlato. Tutto cominciava con Socrate, era come se prima di Socrate nessuno al mondo avesse mai pensato. E devi sapere che Socrate non mi è mai piaciuto molto. Forse evitavo i grandi filosofi perché erano suoi discepoli».

    «Devo proprio dirti come mai non ti piaceva?». Avrei preferito che non me lo dicesse. Anche sulle cose di cui non s’intendeva, la mamma aveva sempre un’opinione personalissima; sapevo che non poteva aver ragione, eppure quello che diceva mi colpiva ogni volta e si depositava come una nebbia sulle cose che amavo. Sentivo che cercava deliberatamente di rovinarmi il gusto di quelle letture, solo perché pensava che mi avrebbero fuorviato. Ero sempre sul punto di entusiasmarmi per le cose più diverse, e questo, data la mia età, la mamma lo trovava 
     ridicolo e poco virile. Era il rimprovero che sentivo più spesso sulle sue labbra all’epoca della Radetzkystrasse.

    «Socrate non ti piace perché è troppo ragionevole, parte sempre dalla vita di ogni giorno, ha i piedi per terra, parla volentieri del lavoro manuale».

    «Non era però certo un gran lavoratore. Parlava tutto il giorno».

    «Per questo non lo potete soffrire, proprio voi che non aprite mai bocca! Oh, come vi capisco!». Eccolo di nuovo l’antico sarcasmo che avevo conosciuto così presto, quando la mamma mi insegnava il tedesco. «Certo, vorresti essere soltanto tu a parlare, e hai paura della gente come Socrate, che esamina per filo e per segno quel che uno dice e non chiude un occhio su niente».

    Era apodittica come un Presocratico; chissà che il mio amore per i Presocratici, che cominciavo a conoscere soltanto ora, non dipendesse proprio dal suo modo di essere, ormai diventato parte di me. Con quanta sicurezza esprimeva sempre le sue opinioni! Ma si possono ancora chiamare opinioni? Ogni frase che mia madre pronunciava aveva la forza di un articolo di fede: ogni proposizione esprimeva una certezza. Non conosceva il dubbio; non su di sé, almeno. Ma forse era meglio così; il dubbio, se l’avesse conosciuto, avrebbe avuto la stessa forza delle sue asserzioni, e così avrebbe dubitato di sé in ogni fibra, sino a farsi a pezzi.

    Poiché mi sentivo con le spalle al muro, attaccavo in tutte le direzioni. Ricacciato con le spalle al muro, attingevo dalla resistenza che sentivo in me la forza di attaccare di nuovo. Di notte mi sentivo solo; i miei fratelli, che davano man forte alla mamma, sottolineando con le loro maliziose battute le critiche che lei mi rivolgeva, dormivano già, e anche la mamma era ormai a letto; così finalmente ero libero, e chiuso nella mia stanzetta sedevo al mio minuscolo tavolino per leggere o scrivere, interrompendomi per guardare con affetto il dorso dei miei libri. Le file dei miei libri non aumentavano più a blocchi interi, come a Francoforte. Ma la corrente non si disseccò mai del tutto, di occasioni per ricevere un regalo ce n’erano ancora, e chi avrebbe mai osato regalarmi qualcosa che non fosse un libro?

    La chimica, la fisica, la botanica, e anche la zoologia generale erano le materie che avevo intenzione di studiare 
     di notte, e il fatto che vi dedicassi perfino le ore notturne non era visto dalla mamma come un inutile spreco di energia elettrica. Ma i libri di studio non restavano aperti a lungo, i quaderni universitari nei quali prendevo svogliatamente appunti durante le lezioni erano ben presto sostituiti dai veri quaderni, dai miei quaderni, nei quali annotavo scrupolosamente tutti i miei momenti di esaltazione, ma anche i miei tormenti. Primadi addormentarsi, la mamma vedeva ancora filtrare da sotto la porta la luce accesa nella mia stanza, il rapporto che avevamo nella Scheuchzerstrasse di Zurigo si era invertito. Lei poteva certo immaginare quel che io stavo facendo al mio tavolinetto, ma siccome, ufficialmente, restavo alzato per studiare, e questo era stato approvato una volta per tutte, quella mia abitudine doveva accettarla senza dir nulla.

    La mamma era convinta di dover vigilare sui miei passi in quel periodo, e per buoni motivi. Non si fidava della chimica: non mi attraeva abbastanza e temeva che alla lunga il mio interesse sarebbe cessato. Per tener conto delle sue preoccupazioni materiali – benché intuissi che erano infondate – io avevo rinunciato a studiare medicina (solo perché erano studi troppo lunghi) e di questo, certo, la mamma aveva preso atto e apprezzava il «sacrificio» implicito in questa mia decisione. Lei aveva sacrificato la sua vita per noi, le malattie e gli sfinimenti che di tanto in tanto la colpivano dimostravano quanto le fosse costato quel sacrificio. Era venuto il momento che anch’io, essendo il primogenito, mi sacrificassi. Così rinunciai alla medicina, che consideravo una professione disinteressata, un servizio reso all’umanità, per scegliere una professione che tutto era fuorché disinteressata: il futuro, la mamma lo udiva da ogni parte, apparteneva alla chimica. Ai chimici si aprivano impieghi promettenti nell’industria, la chimica era utile, utilissima, chi riusciva a inserirsi in quel campo guadagnava splendidamente, e che io mi piegassi o fossi disposto a piegarmi a tanta utilità era considerato dalla mamma un sacrificio assai apprezzabile. Ma sarei davvero andato avanti a studiare per quattro anni? Su questo aveva forti dubbi. Solo a una condizione ben precisa avevo accettato di studiare chimica: a Georg, che dopo i mesi trascorsi insieme nella Praterstrasse amavo più di qualsiasi altra persona al mondo, doveva esser concesso di studiare medicina al posto mio. Gli avevo trasmesso tutto 
     il mio entusiasmo per quella disciplina, ed egli non desiderava altro che poter fare un giorno ciò a cui io avevo rinunciato per amor suo.

    I dubbi della mamma erano giustificati. Io avevo la mia interpretazione della faccenda, il mio non era affatto un sacrificio, perché non mi ero messo a studiare chimica con l’intenzione di diventare sul serio un chimico che guadagna bene. Avevo una prevenzione invincibile contro tutte le attività esercitate con l’unico scopo di far quattrini e non per un’intima vocazione. Tenevo tranquilla la mamma lasciandole credere che un giorno o l’altro mi sarei impiegato come chimico in un’industria. Ma di questo non parlavo mai, mi limitavo a tollerare una sua tacita supposizione. Esisteva tra noi una sorta di armistizio: io rinunciavo a tutti i miei discorsi sul fatto che solo una professione ispirata da una vocazione è degna di essere intrapresa e che si possono apprezzare soltanto le professioni più utili agli altri che a se stessi. Lei, in compenso, evitava le descrizioni del futuro dominato dalla chimica. La mamma non aveva dimenticato ciò che era accaduto durante la guerra solo pochi anni prima, ricordava bene l’impiego dei gas asfissianti, e credo che non le sia stato facile mandar giù questo aspetto della chimica, perché anche nel periodo della disillusione e della chiusura in se stessa il suo odio per la guerra rimase fortissimo. Così tacevamo entrambi sul futuro poco attraente che mi attendeva in virtù del mio «sacrificio». La cosa principale era che andassi ogni giorno in laboratorio, per abituarmi con un tirocinio regolare a un’occupazione che avrebbe richiesto molta disciplina e certo non avrebbe alimentato né la mia insaziabile avidità di conoscenze né le mie esaltazioni poetiche.

    La mamma non sospettava che la stessi ingannando sulla natura della mia impresa. Neppure per un istante mi ero seriamente proposto di abbracciare la professione del chimico. Frequentavo il laboratorio, ci passavo le ore migliori della giornata, facevo quel che mi dicevano di fare non peggio degli altri studenti; inventai persino una motivazione per giustificare ai miei occhi quell’attività. Desideravo ancora imparare e far mio tutto ciò che al mondo era degno di essere conosciuto, la mia convinzione che non solo ciò fosse desiderabile, ma anche possibile, era ancora intatta. Non vedevo limiti da nessuna parte, 
     né nella capacità di assimilazione della mente umana, né nella mostruosità di una creatura fatta soltanto delle cose che ha imparato e di quelle che vuole imparare. Non era ancora mai capitato che un campo qualsiasi del sapere da me affrontato con impeto e serietà mi suscitasse un sentimento di frustrazione. Avevo avuto, certo, dei cattivi insegnanti, che non sapevano comunicare nulla, assolutamente nulla, e per di più riuscivano a ispirare negli allievi un senso di ripugnanza per la loro materia. Uno di questi insegnanti era stato, a Francoforte, proprio il professore di chimica. Delle sue lezioni non mi era rimasto molto di più delle formule dell’acqua e dell’acido solforico; durante quel paio di esperimenti che ci aveva illustrato i suoi gesti mi riempivano di disgusto. Era come se davanti a noi fosse seduto un bradipo vestito da uomo, che più passavano le ore più diventava lento nell’armeggiare alle sue apparecchiature. Così, al posto di una vaga idea della chimica, era rimasta una vera lacuna. Ebbene, questa lacuna si trattava ora di colmarla, ed era talmente grande che a questo scopo potevo addirittura studiare chimica all’università.

    Non esistono limiti alle possibilità di autoinganno. Ricordo bene che mi ripetevo ogni momento questa motivazione quando, a casa mia, venivo ammonito con insistenza a non dedicarmi ad altro, a concentrarmi soltanto sulla chimica. Niente avrei conosciuto tanto a fondo quanto la chimica, di cui non sapevo quasi nulla. Questo era il sacrificio con cui volevo espiare la mia colpevole ignoranza, mentre la medicina, cui avevo rinunciato, era il dono che facevo a mio fratello per dimostrargli il mio amore. Georg era parte di me, insieme avremmo dato fondo a tutto lo scibile umano, e allora nulla avrebbe potuto separarci mai più.

    L’accecamento di Sansone

    Fra le accuse che in quell’anno mi venivano rivolte più spesso ce n’era una che mi dava del filo da torcere: io non sapevo come va il mondo, ero accecato, non volevo saperlo. Mi ero messo i paraocchi ed ero deciso a non togliermeli mai. Ero sempre alla ricerca delle cose che avevo 
     conosciuto attraverso i libri. Vuoi che mi limitassi a un solo tipo di libri, vuoi che ne ricavassi le cose sbagliate – fatto sta che ogni tentativo di parlare con me di come va il mondo in concreto era condannato al fallimento.

    «Per te o le cose si pongono sul piano dei grandi princìpi morali, oppure non ti interessano. La parola libertà, che ti piace così tanto, in bocca tua è una vera barzelletta. Non esiste al mondo una persona meno libera di te. Sei incapace di porti di fronte a un fatto con animo imparziale, senza tirar subito fuori tutti i tuoi pregiudizi, tant’è che alla fine il fatto non si vede più. E questo, alla tua età, non sarebbe poi così grave, se non ci fosse questa ostinata resistenza, questa tua caparbietà, il tuo fermo proposito di lasciare le cose come stanno, senza modificarle di una virgola. Tu di tutto ciò che è sviluppo, maturazione graduale, miglioramento, e soprattutto sforzo di essere utili agli altri, con tutti i tuoi paroloni, non hai davvero la più pallida idea. Il male di fondo è il tuo accecamento. Forse avrai anche imparato qualcosa da Michael Kohlhaas. Solo che tu non sei un caso interessante. Lui ha pur dovuto mettersi a fare qualcosa, a un certo punto. E tu, che cosa fai?».

    Sì, era vero, non volevo imparare come va il mondo. Avevo la sensazione che basti guardare e capire qualcosa di riprovevole per diventarne corresponsabili. Non volevo imparare, se imparare significa esser costretti a percorrere quella via. Era dall’apprendimento per imitazione che io mi difendevo. Mi difendevo coi paraocchi, in questo la mamma aveva ragione. Non appena mi accorgevo che qualcuno mi consigliava qualcosa soltanto perché nel mondo si usava così, io m’impuntavo, come se non capissi quel che la gente pretendeva da me. Ma per altre vie arrivavo lo stesso vicino alla realtà, molto più vicino di quanto supponesse la mamma, e forse, a quell’epoca, di quanto io stesso potessi immaginare.

    Una via verso la realtà, infatti, passa attraverso le immagini.2 Non credo che ne esista una migliore. Ci teniamo stretti a ciò che non muta e così riusciamo a far affiorare ciò che muta perennemente. Le immagini sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane. Qualcosa scivola 
     via e qualcosa va a male, ma uno riprova, le reti le portiamo con noi, le gettiamo e, via via che pescano, diventano più forti. È importante, però, che queste immagini esistano anche al di fuori della persona, in lui sono anch’esse soggette al mutamento. Deve esserci un luogo dove uno possa ritrovarle intatte, e non uno solo di noi, ma chiunque si senta nell’incertezza. Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell’esperienza, ci rivolgiamo a un’immagine. Allora l’esperienza si ferma, e la guardiamo in faccia. Allora ci acquietiamo nella conoscenza della realtà, che è nostra, anche se qui era stata prefigurata per noi. Apparentemente, essa potrebbe esistere anche senza di noi. Ma questa apparenza è ingannevole, l’immagine ha bisogno della nostra esperienza, per destarsi. Così si spiega che certe immagini rimangano assopite per generazioni: nessuno è stato capace di guardarle con l’esperienza che avrebbe potuto ridestarle.

    Forte si sente colui che trova le immagini di cui la sua esperienza ha bisogno. Saranno molte, ma non possono essere troppe, perché la loro funzione consiste proprio nel tenere insieme la realtà, che altrimenti si disperderebbe in mille rivoli. E neanche dovrebbe essere un’unica immagine, che fa violenza a chi la possiede, non lo abbandona e gli impedisce di trasformarsi. Sono molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, e se le troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto.

    Io ho avuto la fortuna di trovarmi a Vienna, quando più avevo bisogno di queste immagini. Contro la falsa realtà da cui mi sentivo minacciato, la realtà della piattezza, della rigidezza, dell’utile, dell’angustia, dovevo trovare l’altra realtà, che era vasta a sufficienza perché potessi dominare anche le sue durezze, senza soccombere.

    Capitai davanti ai quadri di Brueghel. Il luogo in cui li vidi per la prima volta non era la vera sede di quelle meraviglie, il Kunsthistorisches Museum. Fra una lezione e l’altra all’Istituto di Fisica o di Chimica trovavo il tempo di fare una capatina a Palazzo Liechtenstein. Dalla Boltzmanngasse scendevo in quattro salti la scalinata dello Strudlhof, e subito mi trovavo in quella meravigliosa pinacoteca, che oggi non esiste più. Fu là che vidi i miei primi Brueghel. Che importa se erano delle copie? Vorrei proprio vedere l’uomo imperturbabile, senza sensi e senza nervi, che trovandosi improvvisamente di fronte a quei quadri si domandasse: saranno copie o originali? Se anche fossero state copie di copie, io non ci avrei proprio fatto caso, perché erano La parabola dei ciechi e Il trionfo della morte. Tutti i ciechi che ho visto in seguito sono usciti dal primo di quei due quadri.
 L’idea della cecità mi perseguitava sin da quando, nei primi anni dell’infanzia, mi ero preso il morbillo e per qualche giorno avevo perso la vista. Ed ecco ora sei uomini ciechi, in una fila storta, che si tengono uniti gli uni agli altri per il bastone o per la spalla. Il primo, che li guida, è già finito nel fossato, il secondo, che sta per cadergli addosso, ha la faccia rivolta verso lo spettatore: le orbite sono vuote e la bocca, aperta per lo spavento, scopre i denti. Tra lui e il terzo la distanza è maggiore che tra gli altri, entrambi stringono ancora saldamente nella mano il bastone che li unisce, ma il terzo ha avvertito uno scarto, un movimento incerto, ed esitando appena si sta alzando sulla punta dei piedi, il suo volto, che è visto di profilo – un solo occhio cieco –, non tradisce paura ma un accenno di domanda, mentre dietro di lui il quarto, che è ancora fiducioso, appoggia la mano sulla sua spalla e ha il viso rivolto in su, verso il cielo. La bocca è spalancata, come se in essa egli sperasse di ricevere dall’alto qualcosa che agli occhi non è concesso. Il lungo bastone nella mano destra è soltanto suo, ma egli non vi si appoggia. Di tutti e sei è quello con la fede più salda, è fiducioso sino al rosso delle calze, e gli ultimi due, dietro di lui, seguono devotamente i suoi passi, ognuno ricalcando le orme di quello che lo precede. Anch’essi hanno la bocca aperta, di meno, però, il fossato è lontano, non si aspettano e non temono nulla e non hanno domande da fare. Se tutto non dipendesse a tal punto da quegli occhi ciechi, ci sarebbe qualcosa da dire sulle dita dei sei, che afferrano e toccano in modo diverso da coloro che vedono; e anche i piedi sentono il terreno in maniera diversa. Quest’unico quadro sarebbe bastato per riempire una pinacoteca, ma subito dopo mi trovai inaspettatamente davanti – sento ancora oggi lo shock – Il trionfo della morte. Centinaia di morti, di scheletri, attivissimi scheletri, sono occupati a trascinare con sé un numero altrettanto grande di uomini vivi: sono figure d’ogni genere, in massa o isolate, riconoscibili per ceto sociale, tese 
     in uno sforzo inaudito; la loro energia supera di molto quella dei viventi che stanno attaccando. Sappiamo che i morti vinceranno, ma ancora non hanno vinto. Si sta dalla parte dei vivi, si vorrebbe aiutarli a difendersi, ma si rimane sconvolti nel vedere che i morti sembrano più vivi di loro. La vitalità dei morti, se così vogliamo chiamarla, ha un unico scopo: afferrare i vivi e portarli via con sé. I morti non si distraggono, non si disperdono in iniziative diverse, vogliono tutti un’unica cosa, quella soltanto; i vivi, invece, sono attaccati alla propria esistenza, ma ciascuno a modo suo. Tutti si agitano, nessuno si arrende, in quel quadro non ho trovato un solo uomo stanco di vivere, la vita va strappata a tutti con la forza, nessuno è disposto a cederla spontaneamente. L’energia di questa difesa, variata in cento modi, è passata dentro di me, da allora mi sono spesso sentito come se fossi io tutti quegli uomini che lottano contro la morte.

    Capivo che si trattava di massa, da una parte come dall’altra, e che, per quanto il singolo senta la propria morte da solo, la stessa cosa vale per ogni altro singolo, e perciò si deve pensare a tutti i singoli.

    Qui, è vero, la morte ancora trionfa; ma l’effetto non è quello di una battaglia che ormai è vinta una volta per tutte; la battaglia continua, si rinnova sempre, e, se la viviamo come in questo quadro, non saremo affatto sicuri che l’esito sarà sempre lo stesso. Il trionfo della morte di Brueghel è stata la prima cosa che mi ha dato fiducia nella mia lotta. Ogni altro Brueghel che ho poi visto al Kunsthistorisches Museum vi ha aggiunto un nuovo pezzo di realtà, e ogni volta è stato un dono, un dono perenne. Sono stato centinaia di volte davanti a ogni quadro di Brueghel, li conosco tutti come le persone che mi sono più care, e fra i libri che avevo progettato e che mi rimprovero di non aver portato a termine ce n’è anche uno che contiene tutte le mie esperienze con Brueghel.

    Ma non furono questi i primi quadri che andai a cercare. A Francoforte, per arrivare allo Städelsches Kunstinstitut, si deve attraversare il Meno. Contemplavo il fiume e la città, e poi respiravo profondamente, per trovare il coraggio di affrontare la cosa terribile che mi attendeva. Sansone accecato dai Filistei, il grande quadro di Rembrandt, mi spaventava, mi torturava e m’incatenava lì. Vedevo quella scena come se si stesse svolgendo sotto i 
     miei occhi: e poiché raffigurava l’attimo in cui Sansone è privato della vista, essere testimoni in quel caso era davvero raccapricciante. Davanti ai ciechi avevo sempre sentito un particolare malessere, e non li avevo mai fissati a lungo, pur essendone affascinato. Poiché non potevano vedermi, davanti a loro mi sentivo in colpa. Ma qui non era raffigurata la loro condizione, la cecità, bensì l’accecamento.

    Ecco Sansone disteso, il petto nudo, la camicia tirata giù, il piede destro sollevato di sbieco a mezz’ariale dita rattrappite da un dolore folle. Un soldato con elmo e corazza, chino su di lui, gli ha piantato il ferro nell’occhio destro, il sangue gli sprizza sulla fronte, i capelli di Sansone sono tagliati corti, sotto di lui c’è un soldato che gli tiene ferma la testa contro il ferro. Un altro scherano occupa la parte sinistra del quadro. È piantato a gambe larghe, piegato su Sansone, e impugna con tutte e due le mani l’alabarda, puntandola verso l’occhio sinistro di Sansone, che rimane spasmodicamente chiuso. L’alabarda attraversa metà del quadro, è la minaccia dell’accecamento che sarà ripetuto. Sansone ha due occhi come tutti, ma dello sgherro che impugna l’alabarda si vede un occhio soltanto; quell’occhio, fissando il volto imbrattato di sangue di Sansone, è tutto concentrato nel compimento dell’opera.

    La luce, che scaturisce da un punto esterno al gruppo in cui tutto accade, investe Sansone in pieno. È impossibile distogliere lo sguardo, l’accecamento non è ancora ma sta per diventare cecità, non ci si può aspettare clemenza o misericordia. L’accecamento vuol essere visto, e chi lo ha visto una volta sa per sempre che cosa vuol dire, e dovunque si trovi continua a vederlo. Ci sono due occhi, nel quadro, che sono fissi sull’accecamento, non lo lasciano un istante, sono gli occhi di Dalila che fugge trionfante, in una mano le forbici, nell’altra i capelli recisi di Sansone. Ha paura dell’uomo di cui stringe i capelli? Vuole sfuggire a quell’unico occhio che a Sansone è rimasto, sia pure per poco? Dalila guarda indietro verso Sansone, sul suo volto si legge l’odio e la tensione omicida, su di esso cade copiosa la luce, proprio come sul volto dell’accecato. La bocca di Dalila è semiaperta: «I Filistei ti sono addosso, Sansone!» ha appena gridato.

    Sansone capisce la lingua di Dalila? Comprende certo 
     la parola Filistei, il nome della gente di lei, la stessa gente che egli ha vinto e ucciso. Fra la prima mutilazione e la seconda, Dalila guarda ancora verso di lui, non risparmierà l’occhio rimasto, non griderà «Grazia!», non si getterà davanti al coltello, non ricoprirà il volto di Sansone con i capelli che tiene in mano per restituirgli la forza di un tempo. Che cosa sta fissando il suo sguardo rivolto indietro? L’occhio accecato e quello che sta per esserlo. È in attesa che il ferro colpisca ancora. La volontà di Dalila muove l’intera scena. Gli uomini con la corazza, l’uomo con l’alabarda sono i suoi scherani. Dalila ha privato Sansone della sua forza, Dalila tiene in pugno la forza di Sansone e lo odia e lo teme ancora, e fintanto che pensa al suo accecamento continuerà a odiarlo, e per questo, per odiarlo sempre, ci penserà in eterno.

    Questo quadro, di fronte al quale ho sostato tante volte, mi ha insegnato che cos’è l’odio. Lo avevo provato molto presto, l’odio, assai troppo presto, a cinque anni, quando volevo uccidere con la scure la mia compagna di giochi. Ma questo non significa ancora sapere ciò che si è provato, per riconoscerlo occorre che esso appaia davanti ai nostri occhi, ma in altri. Reale diventa soltanto ciò che riconosciamo perché già lo abbiamo vissuto. Prima esso giace in noi, senza che possiamo nominarlo, poi improvvisamente si erge come immagine, e allora ciò che è accaduto agli altri prende corpo in noi come ricordo: ora è reale.

        Prime glorie intellettuali
I giovani che frequentavo avevano una cosa in comune, anche se per tutto il resto erano assai diversi tra loro: si interessavano soltanto a questioni intellettuali. Sapevano perfettamente tutto ciò che c’era scritto sui giornali, ma si emozionavano soltanto quando parlavano di libri. Alcuni libri, pochi, erano al centro dell’attenzione, sarebbe stato riprovevole non conoscerli. Tuttavia non si può dire che i nostri discorsi ripetessero, in qualsiasi forma, un’opinione corrente o dominante; ciascuno leggeva quei libri per conto suo, ne recitava dei passi di fronte agli altri, ne citava lunghi brani a memoria. Le critiche non solo erano ammesse, ma anzi desiderate, ci si sforzava di 
     scoprire i punti deboli che potessero far vacillare la pubblica reputazione di un libro; e sviscerando con passione ciascuno di quei punti, grande importanza veniva attribuita alla logica, alla prontezza e all’arguzia. A parte tutto ciò che era stato stabilito una volta per tutte da Karl Kraus, nulla era incrollabile, e anzi ci piaceva moltissimo trovar da ridire su tutte le opinioni che con troppa facilità e rapidità avevano avuto successo.

    I libri che contavano davvero erano quelli che lasciavano più spazio alla discussione. I tempi della massima influenza di Spengler, dei quali ero stato testimone alle tavolate della pensione di Francoforte, sembravano ormai lontani; o forse a Vienna l’influenza di Spengler non era mai stata altrettanto decisiva. Tuttavia, una nota di pessimismo era presente inconfondibilmente anche qui. Sesso e carattere di Otto Weininger – benché apparso ormai da vent’anni – entrava ancora in ogni discussione. Tutti i libri pacifisti che avevo amato a Zurigo, durante la guerra, erano ormai messi in ombra da Gli ultimi giorni dell’umanità. La letteratura del decadentismo non contava più nulla. Hermann Bahr era ormai fuori gioco, aveva recitato troppe parti, in nessuna delle quali, ormai, veniva più preso sul serio. L’atteggiamento che gli scrittori avevano tenuto nei confronti della guerra, e soprattutto durante la guerra, influiva in modo decisivo sul loro prestigio. Il nome di Schnitzler, per esempio, non veniva attaccato, pur non essendo Schnitzler particolarmente attuale, nessuno si permetteva di deriderlo, perché egli – a differenza di tanti altri – non si era mai piegato alla propaganda bellica. Non era certo un momento favorevole per la Vecchia Austria. La monarchia, or ora andata in pezzi, era ormai screditata, e monarchiche, mi dicevano, erano rimaste soltanto le beghine. Della mutilazione dell’Austria e della strana sopravvivenza di Vienna – una capitale ormai troppo grande – come una sorta di ‘idrocefalo’ erano tutti ben consapevoli. Ma non per questo si rinunciava alle pretese intellettuali di una vera metropoli. La gente s’interessava ancora a tutto ciò che accadeva nel mondo, proprio come se il mondo fosse in trepida attesa di quel che si pensava a Vienna, e restava fedele al gusto tipicamente viennese, alle tradizioni viennesi, soprattutto in campo musicale. Che si fosse portati o no per la musica, ai concerti si andava lo stesso, anche nei posti in piedi. 
     Il culto di Gustav Mahler, che nel resto del mondo era ancora relativamente sconosciuto come compositore, a Vienna aveva già raggiunto un suo primo apice: la sua grandezza era incontestata.

    Non c’era quasi conversazione nella quale non venisse fuori il nome di Freud, un nome non meno compatto di quello di Karl Kraus, con quel cupo dittongo e la ‘d’ finale, ma certo più attraente quanto a significato.3 Erano allora in circolazione tutta una serie di nomi monosillabici, che sarebbero bastati per le esigenze più diverse, ma Freud era un caso particolare: alcune parole da lui create erano già entrate nell’uso comune. Dai personaggi più autorevoli del mondo universitario era ancora sdegnosamente ignorato. Ma gli atti mancati, in compenso, erano diventati una specie di gioco di società. Per poter usare spesso quel termine così amato, la gente li produceva in serie; in ogni conversazione, per quanto assai animata e apparentemente del tutto spontanea, lo si poteva indovinare sulla bocca del proprio interlocutore: ora viene un atto mancato. E subito dopo l’atto mancato era lì, materializzato, e si poteva procedere compiaciuti alla sua spiegazione, svelando quali processi l’avevano generato; in quel modo si poteva parlare di sé all’infinito, senza stancarsi né dare l’impressione d’insistere in modo inopportuno sulle proprie faccende private: si stava anzi contribuendo a chiarire un fenomeno di interesse generale, anzi di interesse scientifico.

    Comunque, me ne accorsi ben presto, questa era la parte più illuminante della dottrina freudiana. Quando si parlava di atti mancati, non avevo mai la sensazione che qualcosa venisse fatto rientrare a tutti i costi in uno schema preordinato e sempre uguale a se stesso, che, perciò, veniva presto a noia. E poi i suoi atti mancati ciascuno li inventava a modo suo. Capitavano episodi divertenti, qualche volta sfuggiva persino un vero atto mancato che, evidentemente, non era stato programmato. Con i complessi di Edipo, invece, la situazione era diversa. Sui complessi di Edipo tutti si accapigliavano, ognuno voleva il suo, oppure venivano usati per scagliarsi contro i presenti. Ogni volta che partecipavi a una riunione mondana 
     potevi metterti l’animo in pace: o il tuo complesso di Edipo lo menzionavi da te, oppure trovavi qualcun altro che, dopo averti lanciato un’occhiata impietosa e penetrante, t’inchiodava al tuo Edipo. In un modo o nell’altro a ciascuno (anche ai figli postumi) toccava il suo Edipo, e alla fine si ritrovavano tutti ugualmente colpevoli, potenzialmente erano tutti gli amanti della propria madre e gli assassini del proprio padre, ciascuno, nell’alone mitico di quel nome, diventava un re di Tebe in incognito.

    Io avevo i miei dubbi sull’intera faccenda, forse perché, sin da bambino, avevo conosciuto una forma di gelosia omicida e mi rendevo ben conto che le sue motivazioni erano affatto diverse. Ma anche se uno degli innumerevoli sostenitori di quella teoria freudiana fosse riuscito a persuadermi che essa era universalmente valida, mai e poi mai avrei accettato di chiamarla con quel nome. Sapevo chi era Edipo, avevo letto Sofocle, nessuno mi poteva defraudare dell’inaudita mostruosità di quel destino. Quando arrivai a Vienna, quel destino era stato ridotto a una tiritera che tutti ripetevano, tutti, nessuno escluso, nemmeno il più altero spregiatore della plebe si sentiva superiore all’‘Edipo’ freudiano.

    Bisogna ammettere, tuttavia, che perdurava ancora l’effetto della guerra appena conclusa. Nessuno poteva dimenticare le manifestazioni di ferocia omicida di cui era stato personalmente testimone. Molti vi avevano partecipato attivamente, e adesso erano tornati. Costoro sapevano bene di quali atrocità erano stati capaci – per obbedire agli ordini – e ora si aggrappavano avidamente a tutte le spiegazioni che la psicoanalisi metteva a disposizione riguardo alle loro inclinazioni omicide. La banalità della coazione collettiva alla quale si erano assoggettati si rispecchiava nella banalità di quella spiegazione. Già il solo constatare che chiunque beneficiasse del complesso edipico diventava immediatamente un essere inoffensivo faceva davvero uno strano effetto. Moltiplicandosi per mille, anche il destino più spaventoso si volatilizza, si riduce a un granellino di sabbia. Il mito penetra nell’uomo, lo afferra alla gola, lo scuote. Ma la ‘legge di natura’ a cui il mito viene ridotto non è altro che il piffero che lo fa ballare alla sua musichetta.

    I giovani che frequentavo io non erano mai stati in guerra. Ma andavano tutti alle pubbliche letture di Karl 
     Kraus e conoscevano – a memoria, si potrebbe dire – Gli ultimi giorni dell’umanità. Era questo il loro modo di fare i conti con la guerra, che certo aveva offuscato la loro giovinezza, e per conoscere la guerra è difficile indicare un metodo più concentrato e al tempo stesso più legittimo. Così quei giovani avevano sempre la guerra davanti agli occhi, e dato che nessuno di loro era scampato ai suoi pericoli e quindi non c’era ragione di volerla dimenticare, il pensiero della guerra li occupava di continuo. Quei giovani non studiavano la struttura psicologica degli uomini in quanto massa, la struttura che li aveva spinti ad andare in guerra docilmente, con entusiasmo, e che ancora adesso, parecchi anni dopo la sconfitta, li rendeva – sia pure in modo diverso – prigionieri della guerra. Su queste cose non era stato detto quasi nulla, una teoria di questi fenomeni ancora non esisteva. Ciò che Freud sosteneva in proposito – come avrei constatato di lì a breve – era del tutto inadeguato. Perciò quei giovani si accontentavano della psicologia dei processi individuali, così come Freud la offriva, con quella sua incrollabile sicurezza di sé. Potevo dire qualsiasi cosa sull’enigma della massa, il mio rompicapo fin dall’epoca di Francoforte: a quei giovani sembrava impossibile discutere con me su quel tema, perché mancavano le formule intellettuali per farlo. I fatti non riconducibili a una formula per loro non esistevano, non erano altro, sicuramente, che una mia fantasia, del tutto priva di consistenza, altrimenti o Freud o Kraus ne avrebbero pur parlato, in un modo o nell’altro.

    Non c’era nulla, per il momento, che potesse colmare la lacuna che avvertivo. Ma non molto tempo dopo, nell’inverno immediatamente successivo del 1924-1925, ebbi l’‘illuminazione’ che determinò tutto il resto della mia vita. Devo proprio chiamarla ‘illuminazione’, perché fu un’esperienza legata a una luce particolare; ciò che mi investì all’improvviso fu un sentimento di violenta espansione. Camminavo svelto, con insolita energia, in una strada di Vienna, camminai per tutto il tempo dell’‘illuminazione’. Non ho mai dimenticato quel che mi accadde quella notte. L’‘illuminazione’ mi è rimasta nella memoria come un fatto istantaneo; dopo cinquantacinque anni (tanti ne sono passati esattamente) la sento ancora come qualcosa che in me non si è esaurito. Il contenuto intellettuale della mia illuminazione è così semplice e scarno 
     che il suo effetto sembrerebbe inspiegabile; eppure da essa ho tratto, come da una rivelazione, la forza per dedicare trentacinque anni della mia vita e, fra questi, venti anni interi, al tentativo di chiarire che cos’è veramente la massa, come il potere nasca dalla massa e come, a sua volta, esso agisca sulla massa. Allora non mi rendevo conto di quanto la natura della mia impresa dipendesse dal fatto che a Vienna esisteva un uomo come Freud: il solo fatto che di lui si parlasse così tanto già significava che ciascuno può giungere da solo, per propria decisione e volontà, a spiegare le cose. Poiché le idee di Freud non mi bastavano (non spiegavano la cosa per me più importante), ero onestamente e ingenuamente convinto di dover battere strade diverse, del tutto indipendenti da Freud. Avevo bisogno di Freud come avversario, questo mi era chiaro anche allora. Ma che lo usassi inoltre come una specie di modello, nessuno sarebbe riuscito a farmelo accettare.

    L’illuminazione che ricordo con tanta chiarezza ebbe luogo nella Alserstrasse. Era notte, nel cielo mi colpiva il riverbero rosso della città, lo contemplavo guardando in alto. Dato che non facevo attenzione a dove mettevo i piedi, incespicai lievemente più volte e, proprio mentre stavo incespicando, la testa in su, il cielo rosso sopra di me (che in realtà così non mi piaceva), mi balenò improvvisamente l’idea che esistesse una pulsione di massa in perpetuo contrasto con la pulsione della personalità e che tutto il corso della storia umana potesse essere spiegato mediante il conflitto fra queste due pulsioni. Magari non sarà stata un’idea nuova; ma per me lo era, perché mi colpì con violenza inaudita. Mi sembrava che tutto ciò che stava capitando nel mondo si potesse ricondurre a quel principio. La massa esisteva: l’avevo già constatato a Francoforte, e a Vienna l’avevo sperimentato di nuovo; qualcosa costringeva gli uomini a farsi massa, era un fatto evidente, inconfutabile; poi la massa si scomponeva di nuovo nei singoli, questo era altrettanto evidente; e così pure che quei singoli aspiravano a ridiventare massa. Esisteva una tendenza che spingeva gli uomini verso la massa e una tendenza che li allontanava dalla massa, su ciò non avevo dubbi, mi sembravano due tendenze così forti e così cieche che le percepivo come ‘pulsioni’, e così le chiamai. Ma che cosa fosse la massa in sé, questo non 
     lo sapevo, era un enigma che allora mi proposi di risolvere, mi sembrava l’enigma più importante, e comunque quello che subito risalta nel nostro mondo.

    Ma come suona fiacco, estenuato, esangue quello che vado dicendo. Ho parlato di «violenza inaudita»: fu proprio così, perché l’energia che ad un tratto mi pervase mi costrinse a camminare più in fretta, quasi a passo di corsa. Sfrecciai per la Alserstrasse, la percorsi fino alla circonvallazione in tutta la sua lunghezza e mi sembrò di averci messo un attimo, avevo un ronzio nelle orecchie, il cielo, immutato, era ancora rosso, come se quel colore gli fosse stato assegnato per l’eternità; di nuovo incespicai, ma senza mai cadere, inciampare era una parte integrante di quel mio moto. L’esperienza di un movimento come quello non l’ho avuta mai più, e neanche me la sarei augurata: era un movimento troppo strano, troppo estraneo a me, molto più rapido del consueto; era un’estraneità che veniva da dentro, ma che io non dominavo.

    Patriarchi

    L’aspetto esotico di Veza lo notavano tutti, ovunque andasse dava nell’occhio. Un’andalusa che non era mai stata a Siviglia, ma di Siviglia parlava come se ci fosse nata e cresciuta. Ciascuno di noi l’aveva già incontrata nelle Mille e una notte, sin da quando aveva preso in mano quel libro per la prima volta. Nelle miniature persiane era un’immagine familiare. Eppure, nonostante quest’ubiquità orientale, non era una figura di sogno, l’immagine di Veza era ben definita, il suo aspetto non si offuscava, non si dissolveva, manteneva chiari i suoi contorni e la sua luminosità.

    Alla sua bellezza, che lasciava senza parole, opponevo una forte resistenza. Giovane e inesperto, appena uscito dall’adolescenza, sgraziato e maldestro, di fronte a lei mi sentivo un Calibano, nonostante la mia giovine età; ero goffo, insicuro, dai modi grossolani, incapace di servirmi in sua presenza di quella che era forse la mia unica risorsa: la parola; così, prima di incontrarla provai a escogitare le ingiurie più assurde che dovevano servirmi da corazza contro di lei. «Affettata» era di tutte la più lieve; 
     «sdolcinata», mi dicevo, «ricercata», era solo una «principessa che sapeva usare metà del linguaggio, la metà raffinata, una donna lontana da tutto ciò che è autentico, spietato, severo e inflessibile. Eppure, per confutare quelle accuse, bastava ripensare alla lettura del 17 aprile. La sala non aveva acclamato Karl Kraus per la sua raffinatezza, ma per la sua severità, e durante l’intervallo, quando l’avevo conosciuta, Veza mi era parsa composta e piena di dignità, e non aveva cercato alcun pretesto per sottrarsi alla seconda parte del programma. Da allora a ogni lettura – ormai non ne perdevo una – la cercavo furtivamente con lo sguardo, e la trovavo sempre. La salutavo da lontano, non avevo mai osato avvicinarmi, ed ero costernato quando lei non mi notava; ma Veza per lo più rispondeva al mio saluto.

    Anche là dava nell’occhio, era la figura più esotica di quell’uditorio. Poiché sedeva sempre in prima fila, certamente Karl Kraus l’aveva notata. Mi sorpresi a domandarmi quale impressione ne avesse lui. Non applaudiva mai, neppure questo poteva essergli sfuggito. Ogni volta era là, allo stesso posto: un omaggio cui neppure Kraus poteva essere indifferente. Già in quel primo anno, durante il quale, nonostante il suo invito, non mi arrischiai a farle visita, provai una crescente irritazione per quel posto in prima fila. Ma poiché non comprendevo da che cosa derivasse quella mia irritazione, mi inventavo le ragioni più stravaganti. Laggiù la voce arrivava troppo forte, non si poteva resistere a quei crescendo improvvisi. Come non sprofondare sotto terra per il pudore e la vergogna davanti a certi personaggi degli Ultimi giorni dell’umanità? E come faceva quando non riusciva a frenare le lacrime, ascoltando I tessitori o il Re Lear? Come poteva sopportare che Kraus la vedesse piangere? Ma forse voleva proprio questo! Che fosse fiera dell’effetto che su di lei avevano le parole di Kraus? Era un atto di adulazione mettersi a piangere davanti a tutti? Eppure, di questo ero sicuro, non era affatto una donna sfacciata, avevo anzi l’impressione che fosse estremamente pudica, più di chiunque altro; e invece, davanti a Karl Kraus, ostentava ogni suo sentimento, ogni sua reazione a quel che aveva appena udito. Al termine della lettura, Veza non si avvicinava al podio; mentre molti cercavano di farsi avanti, lei no, restava in piedi e guardava, nient’altro. Anch’io, dopo le 
     letture, ero sempre talmente scosso e turbato che rimanevo nella sala ancora per un bel po’ e applaudivo in piedi, finché mi dolevano le mani. In quello stato la perdevo di vista, senza i suoi capelli nerissimi, quasi blu, e quella nitida scriminatura non sarei riuscito a ritrovarla. Finita la lettura, Veza non faceva nulla in cui io potessi cogliere una mancanza di dignità. Non restava nella sala più a lungo di tanti altri, e quando Kraus veniva a fare l’inchino, Veza non era fra gli ultimissimi.

    Forse ciò che cercavo era proprio lasua approvazione; dopo ognuna di quelle letture, che si trattasse dei Tessitori, del Timone o degli Ultimi giorni dell’umanità, l’eccitazione durava a lungo, le letture di Kraus erano i momenti culminanti della mia esistenza. Vivevo nella trepida attesa di quei momenti, ciò che mi accadeva nel frattempo giaceva in un mondo profano. In sala me ne stavo da solo, non parlavo con nessuno, e facevo in modo di essere solo anche nel momento di lasciare la sala. Osservavo Veza per evitarla, non sapevo quanto grande fosse il mio desiderio di sedere al suo fianco. Finché lei stava in prima fila, sotto gli occhi di tutti, mi sarebbe stato comunque assolutamente impossibile. Ero geloso del dio che mi riempiva tutto; benché dinanzi a lui non cercassi affatto di chiudermi, in nessuna parte di me, benché ogni poro della mia pelle fosse aperto per lui, non volevo concedergli quella esotica creatura coi capelli neri e la riga in mezzo, che sempre gli sedeva così vicino e rideva e piangeva per lui, piegandosi sotto il turbine della sua eloquenza. Avrei voluto star seduto accanto a lei, ma non lì davanti, soltanto dove il dio non potesse vederla, e noi due, io e lei, potessimo raccontarci con gli sguardi l’effetto che ci facevano le sue parole.

    Sin da quel periodo, quando ancora mi aggrappavo all’orgogliosa risoluzione di non andare a trovarla, ero geloso di Veza e non sospettavo affatto che stavo radunando le mie forze per rapirla al dio. A casa mi sembrava di soffocare sotto le persecuzioni della mamma, provocate dal mio comportamento; ma intanto vedevo davanti a me l’istante in cui avrei suonato alla porta di Veza. Ricacciavo quel pensiero lontano da me come un oggetto, ma esso mi veniva ancora più vicino. Per non cedere, mi mettevo a pensare agli Asriel, e al diluvio di chiacchiere che mi avrebbe investito. «Com’è andata? Che cosa ha detto? Proprio come 
     pensavo! Quello non le piace. È naturale». Sentivo già gli ammonimenti della mamma, che sarebbe venuta a sapere tutto in un baleno. Nelle domande e nelle risposte che andavo immaginando anticipai quel che poi accadde davvero. Mentre continuavo a evitare scrupolosamente di avvicinarmi a Veza e non riuscivo a escogitare nulla da dirle che non fosse o troppo grossolano o troppo insulso, già mi figuravo tutti i discorsi maligni e odiosi che in seguito avrei sentito sul suo conto nella nostra casa.

    Avevo sempre saputo, a dispetto dei divieti che mi ero imposto, che un giorno o l’altro sarei andato a trovarla, e ogni volta che la vedevo alle conferenze di Kraus mi sentivo rafforzato in questa consapevolezza. Ma quando accadde davvero, in un pomeriggio libero, era passato più di un anno dal giorno del suo invito. Nessuno lo venne a sapere, i miei piedi trovarono da soli la via per la Ferdinandstrasse, io mi rompevo la testa per trovare una spiegazione plausibile, che non suonasse né immatura né servile. Le sarebbe piaciuto essere inglese, aveva detto, che cosa poteva esserci di più naturale, quindi, che farle qualche domanda sulla letteratura inglese? Avevo ascoltato da poco il Re Lear, una delle letture più grandiose di Karl Kraus; di tutti i drammi di Shakespeare era quello che mi faceva pensare di più. Non riuscivo a liberarmi dall’immagine del vecchio nella landa. Veza, di sicuro, lo sapeva tutto in inglese. C’era qualcosa nel Re Lear a cui non potevo rassegnarmi. Di questo volevo parlarle.

    Quando suonai, Veza mi aprì personalmente e mi salutò come se mi stesse aspettando. L’avevo vista pochi giorni prima alla lettura, nella sala media del Konzerthaus. Per caso, così pensavo io, le ero finito vicino e alla fine anch’io ero balzato in piedi applaudendo freneticamente. Mi ero comportato come un invasato, avevo alzato le braccia e battendo le mani avevo gridato «Evviva! Evviva Karl Kraus!». Non la finivo più, nessuno la finiva più, abbassai le mani soltanto quando cominciarono a farmi male e accanto a me notai una persona che se ne stava là come in trance, senza applaudire. Era lei, ma non sapevo se si era accorta di me.

    Attraverso il corridoio buio mi condusse nella sua stanza, dove fui accolto da una calda, luminosa atmosfera. Mi sedetti fra quadri e libri, ma senza osservarli con molta attenzione, perché lei si mise al tavolo, di fronte a me, e 
     disse: «Lei non mi ha notato. Ero al Lear». Le dissi che l’avevo notata benissimo: perciò ero venuto a trovarla. Poi le domandai perché Lear, alla fine, dovesse morire. Era vecchissimo, certo, aveva patito enormemente, sofferenze atroci, eppure avrei preferito uscire dalla sala con l’idea che egli avesse superato tutto e vivesse ancora. Lear doveva vivere per sempre. Se in un dramma moriva un altro eroe, un giovane, ero pronto ad accettarlo, soprattutto se era uno di quei tanti smargiassi o attaccabrighe che di solito, appunto, son chiamati eroi; ad essi concedevo di buon grado la morte: la loro fama era proprio dovuta al fatto che avevano dispensato la morte a piene mani. Ma Lear, che era già così vecchio, doveva diventare ancora più vecchio. Non si sarebbe mai dovuto sapere che moriva. In quel dramma c’erano già tanti morti. Almeno un personaggio doveva restare in vita e questi era lui.

    «Perché proprio lui? Non merita finalmente il riposo?».

    «La morte è un castigo. Lear merita di vivere».

    «Proprio il più vecchio? Il più vecchio deve vivere ancora? Mentre tanti giovani l’hanno preceduto nella morte, e sono stati defraudati della vita?».

    «Quando muore il più vecchio muore più vita. Muoiono tutti i suoi anni. Ciò che si perde con lui è molto di più».

    «Allora lei vorrebbe che certa gente vivesse quanto i patriarchi della Bibbia?».

    «Sì! Sì! Lei no?».

    «No. Potrei fargliene vedere uno. Abita due porte più in là. Può anche darsi che si faccia vivo mentre lei è ancora qui».

    «Lei sta alludendo al suo patrigno. Ne ho sentito parlare».

    «Non può aver sentito nulla che si avvicini alla verità. La verità la conosciamo soltanto noi, mia madre ed io».

    Quel tema era venuto troppo in fretta, non avrebbe voluto parlarne subito. Era riuscita a proteggersi da lui nella propria stanza, nella propria atmosfera. Se avessi immaginato quanta fatica le era costata, forse avrei evitato l’argomento dei vecchi, che proprio perché ormai così vecchi dovrebbero poter vivere per sempre. Ero giunto dal Re Lear a lei quasi come un cieco e, grato per aver vissuto al suo fianco un’esperienza meravigliosa, mi sentivo in dovere di parlargliene. Ero in debito verso Lear perché 
     era stato Lear a condurmi da lei. Senza Lear ci avrei certo impiegato più tempo ancora: ebbene, adesso ero seduto là, tutto preso da Lear, come avrei potuto non rendergli omaggio? Sapevo che cosa Shakespeare significava per lei, ero convinto che di nulla avrebbe parlato più volentieri. Non mi era venuto in mente di farmi raccontare dei suoi viaggi in Inghilterra e lei non aveva pensato alla mia infanzia laggiù. Eppure, al nostro primo incontro, mi aveva invitato proprio perché gliene parlassi. L’avevo colpita nel punto più dolente, la vita con quel patrigno era per tutte e due, per sua madre e per lei, un vero tormento. Presto quell’uomo avrebbe compiuto novant’anni: ed ecco che arrivavo io a dirle – così sembrava – che per un uomo così vecchio la cosa migliore era vivere per sempre.

    La colpii così profondamente durante la mia prima visita che poco ci mancò che non fosse anche l’ultima. Fece uno sforzo per ricomporsi (aveva la sensazione di doversi giustificare per essersi così visibilmente spaventata) e mi raccontò – con uno sforzo notevole – come aveva organizzato la sua vita in quell’inferno.

     

    L’appartamento in cui Veza viveva con la madre era composto da tre camere in fila abbastanza grandi, le cui finestre davano sulla Ferdinandstrasse. Era al piano ammezzato, piuttosto in basso, dalla strada era facile farsi sentire. Dalla porta di casa un corridoio portava alle stanze, che si aprivano sulla sinistra; a destra si trovavano la cucina e gli altri locali di servizio, e dietro la cucina una cameretta buia per la domestica, talmente nascosta che nessuno ci pensava mai.

    Delle tre stanze sulla sinistra, la prima era la camera da letto dei genitori. Il patrigno di Veza, un vecchio magrissimo di circa novant’anni, era sdraiato nel letto, oppure sedeva dritto, in vestaglia, nell’angolo davanti al fuoco. Poi veniva la camera da pranzo, usata, perlopiù, soltanto quando c’erano ospiti. La terza era la camera di Veza, se l’era arredata secondo il suo gusto, coi colori che le piacevano, piena di libri e di quadri, seria e ariosa al tempo stesso; si entrava in quella stanza con un sospiro di sollievo e non la si lasciava volentieri, era talmente diversa dal resto della casa che quand’eri sulla soglia 
     credevi di sognare. La soglia severa di un’oasi fiorita, che pochissimi potevano varcare.

    L’inquilina di quella stanza esercitava sugli altri un dominio che aveva dell’incredibile. Non era un dominio basato sul terrore, s’imponeva senza chiasso, a Veza bastava inarcare lievemente le sopracciglia per scacciare dalla soglia gli importuni. Il nemico principale era il patrigno, Mento Altaras. In epoche precedenti, delle quali non ero stato testimone, quando la lotta era ancora aperta, i confini non tracciati, e nessuno sapeva se la pace sarebbe mai stata fatta, il patrigno, di tanto in tanto, spalancava la porta all’improvviso e batteva più volte minacciosamente sulla soglia con il suo bastone. Alto e allampanato, stava lì in piedi nella sua vestaglia, la testa sottile, torva ed emaciata assomigliava a quella di Dante, del quale non aveva mai sentito parlare. Poi, per qualche istante, smetteva di battere e lanciava spaventose minacce e maledizioni in lingua spagnola; e restava lì, sulla soglia, un poco picchiando e un poco maledicendo, finché i suoi desideri, voleva arrosto o vino, non venivano soddisfatti.

    La figliastra, appena adolescente, aveva cercato di difendersi alla meglio chiudendo a chiave dal di dentro le due porte della sua stanza – quella comunicante con la camera da pranzo e quella che dava nel corridoio. Poi, man mano che cresceva e diventava più attraente, le chiavi cominciarono a sparire; quando il fabbro ne portava delle altre, sparivano anche quelle. La madre usciva, la domestica non sempre era in casa, e il vecchio, nonostante l’età, quando voleva fortemente qualcosa aveva la forza di tre uomini, e sarebbe stato capace di sopraffare la moglie, la figliastra e la domestica messe insieme. C’era di che aver paura. Madre e figlia non sopportavano l’idea di essere separate per sempre. Per poter restare nella casa della madre, Veza inventò una tattica per domare il vecchio, una tattica che richiedeva una perspicacia, una forza e una perseveranza inaudite per una diciottenne. La tattica consisteva in questo: se usciva dalla sua stanza, il vecchio non otteneva nulla. Poteva picchiare con il suo bastone, strepitare, imprecare, minacciare, tutto era vano. Nessuno gli dava né vino né arrosto finché non tornava in camera sua; poi, quando li chiedeva di nuovo, vino e arrosto arrivavano immediatamente. La figliastra, senza saper nulla di Pavlov, aveva inventato questo metodo pavloviano. 
     Ci vollero parecchi mesi perché il vecchio si rassegnasse al suo destino. Se rinunciava alle sue aggressioni riceveva bistecche sempre più succulente, e vini d’annata sempre più pregiati. Ma se di nuovo si lasciava trascinare dall’ira e compariva urlando e maledicendo sulla soglia vietata, allora veniva punito, e fino a sera non riceveva nulla né da mangiare né da bere.

    Il vecchio aveva trascorso la maggior parte della sua vita a Sarajevo. Là da bambino vendeva pannocchie calde per le strade. Di quei suoi inizi si parlava spesso. Essi risalivano alla metà dell’altro secolo ed erano diventati il pezzo forte della sua leggenda, o meglio il suo preludio. Su quel che era successo dopo non si riusciva a sapere nulla, il salto era immenso, ma prima di ritirarsi, ormai vecchio, dai suoi affari, era diventato uno degli uomini più ricchi di Sarajevo e di tutta la Bosnia. Possedeva un’infinità di case (tutti dicevano che fossero quarantasette) e grandi boschi. I figli, che continuavano le sue attività, facevano una vita da gran signori e non c’era da meravigliarsi che avessero voluto allontanare il vecchio da Sarajevo. Egli pretendeva che vivessero in modo frugale e appartato, senza mettere in mostra la loro ricchezza. Era un uomo notoriamente avaro e duro di cuore, non dava mai un soldo in beneficenza, e questa era considerata una vergogna inaudita. Compariva di punto in bianco, inatteso, ai grandi ricevimenti offerti dai suoi figli e usava il bastone per cacciare gli ospiti dalle loro case. I figli riuscirono a farlo risposare a Vienna (era vedovo e aveva ormai passato la settantina). Una vedova bellissima e molto più giovane di lui, Rachel Calderón, fu l’esca a cui il vecchio non seppe resistere. Appena raggiunse Vienna, i figli si sentirono sollevati. Il maggiore acquistò – cosa, allora, poco comune – un aereo privato, che fece salire notevolmente il suo prestigio nella città natale. Di tanto in tanto arrivava a Vienna e consegnava al padre spessi rotoli di banconote, il vecchio pretendeva che il denaro gli fosse dato in quella forma.

    Nei primi anni il vecchio usciva ancora da solo, non voleva che nessuno lo accompagnasse. Indossava un cappotto logoro che gli ballava addosso, un paio di pantaloni sdruciti, e teneva sempre nella mano sinistra un cappello sbrindellato che sembrava tirato fuori dal bidone della spazzatura; egli lo riponeva in un luogo segreto 
     e non voleva che nessuno glielo pulisse. Non si capiva perché lo prendesse sempre con sé, dal momento che non lo metteva mai.

    Un giorno la domestica tornò a casa tutta tremante: disse che aveva appena visto il signore all’angolo di una strada in un quartiere del centro, il cappello era rovesciato per terra davanti a lui, e in esso un passante aveva gettato una moneta. Non appena rincasò, il vecchio fu messo alle strette e s’infuriò a tal punto che temettero che ammazzasse la moglie con il pesante bastone che portava sempre con sé. La moglie era una donna mite e affabile, che normalmente evitava di scontrarsi con lui; quella volta però non cedette. Gli prese il cappello e lo gettò via. Rimasto senza cappello, il vecchio non andò più a chiedere l’elemosina, ma per uscire di casa continuò a indossare il suo frusto cappotto e i pantaloni sdruciti. La domestica, che gli veniva mandata dietro per tenerlo d’occhio, lo seguiva per la lunga passeggiata fino al Naschmarkt. Ma aveva di lui una tale paura che là lo perdeva di vista. Il vecchio tornava a casa con un cartoccio pieno di pere e le mostrava trionfante alla moglie e alla figliastra: le aveva ricevute gratis da una donna del mercato, che non aveva voluto neppure un soldo; riusciva a darsi un’aria così affamata e mal ridotta che le donne del Naschmarkt, tutt’altro che tenere, avevano compassione di lui e gli davano, di nascosto, della frutta che neanche era marcia.

    In casa aveva altro a cui badare: doveva nascondere gli spessi rotoli di banconote nella sua camera da letto, in modo da averli sempre a portata di mano. I materassi dei due letti ne erano pieni zeppi, fra il tappeto e il pavimento si era formato un secondo tappeto di carta moneta, di tutte le scarpe che aveva poteva metterne un solo paio: le altre le aveva riempite di banconote. Nel suo cassetto della biancheria c’era almeno una dozzina di paia di calze che nessuno poteva toccare e di cui egli controllava spesso il contenuto. Solo due paia, portate a turno, erano destinate al suo uso personale. Sua moglie riceveva per le spese di casa una somma settimanale, concordata con precisione con il figlio maggiore in un apposito incontro. Il vecchio aveva cercato di sottrargliene una parte, ma poiché tutto ciò aveva avuto delle ripercussioni sul suo vino e sul suo arrosto (ne divorava quantità spropositate), alla fine aveva preferito lasciar perdere.

    Mangiava talmente tanto, e non solo all’ora dei pasti, che i familiari temevano per la sua salute. Sin dalla prima colazione pretendeva arrosto e vino; per lo spuntino delle dieci, ben prima dell’ora di pranzo, ancora vino e arrosto. Di contorno non voleva mai nulla; quando sua moglie, per evitare che mangiasse troppa carne, cercava di soddisfare il suo appetito offrendogli del riso o della verdura, lui con disprezzo mandava indietro il piatto e, se la moglie insisteva, dalla rabbia buttava tutto sul tappeto; mangiava soltanto la carne, la divorava in un baleno – ma gliene davano sempre troppo poca –, ne voleva di più, sempre di più. La sua fame feroce, di quell’unico cibo sanguinolento, era quasi insaziabile. Sua moglie chiamò un medico, un uomo pacato e pieno di esperienza, che veniva anche lui da Sarajevo e del vecchio sapeva tutto, capiva la sua lingua e poteva servirsene per conversare a lungo con lui. Ma il medico non riuscì a visitarlo. Non aveva bisogno di nulla, disse il vecchio, magro era sempre stato, la sua unica medicina era arrosto e vino, e se non gliene davano a volontà sarebbe andato a mendicarlo per strada. Aveva notato che nulla faceva tanto spavento ai suoi familiari quanto quel suo vizio di chiedere l’elemosina. E infatti quella minaccia, che era seria, la presero sul serio. Il medico lo mise in guardia: se avesse continuato a mangiare in quel modo non sarebbe vissuto più di due anni; come tutta risposta il vecchio gli lanciò una tremenda maledizione. Voleva carne, nient’altro che carne, non aveva mai mangiato altro in vita sua, non aveva certo intenzione di farsi menare per il naso a ottant’anni, ya basta!

    Due anni dopo, al suo posto, morì il dottore. Il vecchio era sempre contento quando moriva qualcuno, ma quella volta la sua gioia fu tale che per diverse notti rimase sveglio festeggiando l’evento con arrosto e vino. Un secondo medico ripeté lo stesso tentativo; non aveva nemmeno cinquant’anni ed era un tipo vigoroso e molto carnale, ma ebbe ancor meno fortuna del primo. Il vecchio gli voltò le spalle senza dire una parola e lo mandò via senza prendersi neppure la briga di lanciargli una maledizione. Morì anche lui, come il predecessore; ma ci mise un po’ di più. Il vecchio non fece caso alla sua morte. Sopravvivere, ormai, era diventato per lui una seconda natura, aveva arrosto e vino a sufficienza per nutrirsi, che bisogno c’era di 
     un altro medico come vittima sacrificale? In realtà fecero ancora un tentativo, una volta che la moglie, ammalata, si lamentò con il proprio medico di quel che le toccava sopportare. Soffriva per la mancanza di sonno, suo marito si svegliava a metà della notte e pretendeva il suo cibo. Da quando lui usciva meno, era ancora peggio. Il medico, un tipo temerario (ma forse ignorava il destino dei suoi due predecessori), volle a tutti i costi dare un’occhiata al vecchio, il quale, per l’appunto, stava divorando la sua bistecca al sangue nel letto a fianco, senza preoccuparsi affatto della moglie malata. Il medico lo investì, strappandogli il piatto di mano: Ma che cosa gli saltava in mente? La sua vita era in pericolo! Non sapeva che stava per diventare cieco? Allora, per la prima volta, il vecchio si spaventò; ma la ragione dello spavento si chiarì solo in seguito.

    Nel suo modo di nutrirsi nulla cambiò. In compenso rinunciò del tutto a uscire di casa e, di tanto in tanto, cominciò a chiudersi a chiave in camera da letto per un’ora o due, cosa che prima non aveva mai fatto. Se qualcuno bussava, egli non rispondeva. Lo sentivano rovistare nel camino e, sapendo quanto fosse affascinato dal fuoco, supponevano che se ne stesse seduto davanti al camino a meditare: se avesse avuto voglia del solito cibo, certamente si sarebbe fatto vivo. Così, infatti, avveniva regolarmente; ma una volta la figliastra, abituata com’era a giocare a nascondino con le proprie chiavi, prese con sé la chiave della porta che separava la camera da letto dei genitori dalla sala da pranzo e di colpo, quando sentì che il vecchio armeggiava nel camino, entrò nella sua stanza. Lo trovò con un rotolo di banconote in mano, che il patrigno gettò nel fuoco sotto i suoi occhi; altri rotoli erano sparsi sul pavimento lì accanto, altri ancora erano ormai inceneriti nel camino. «Lasciami stare» disse il vecchio, indicando i rotoli non bruciati sul pavimento. «Non ho tempo. Non ho ancora finito». Stava bruciando i suoi soldi per non lasciarli a nessuno, ma ne aveva talmente tanti che la stanza era ancora piena zeppa di banconote.

    Bruciare i soldi fu il primo segno di debolezza del vecchio Altaras. Quel terzo medico non era stato chiamato per lui ed egli l’aveva ricevuto senza interesse, come se la faccenda non lo riguardasse; consumando in sua presenza il solito pasto, voleva fargli capire quanto gli fossero indifferenti 
     la moglie e le sue lamentele. Ma poi era rimasto impressionato dalla brutalità di quell’uomo, e si era spaventato davvero. Forse ogni tanto cominciava a dubitare di poter tirare avanti all’infinito; la minaccia ai suoi occhi, in ogni caso, l’aveva turbato. Tutte le volte che poteva, si metteva a contemplare il denaro e il fuoco – e ciò che amava più di ogni cosa era vedere l’uno dissolversi nell’altro.

    Una volta scoperto, non si diede più la pena di chiudere a chiave e si dedicò apertamente alla sua impresa. Per impedirglielo ci sarebbe voluta la forza di parecchi uomini. La moglie, impotente, non sapeva cosa fare, e così, dopo averci pensato su per un po’, scrisse al figlio maggiore del vecchio che viveva a Sarajevo. Questi, malgrado la sua prodigalità, quando apprese che il padre aveva distrutto volontariamente tanto denaro, si precipitò a Vienna e fece al vecchio un discorso molto serio. Né Veza né sua madre seppero mai di che cosa l’avesse minacciato. Ma fu certamente una minaccia più terribile del solitario ammonimento del medico – forse l’interdizione e l’internamento in una clinica, dove avrebbe dovuto dire addio alla carne e al vino nelle quantità abituali. La minaccia, comunque, fu efficace. Il vecchio conservò nei suoi nascondigli i rotoli superstiti di banconote, ma non ne bruciò più e dovette sottoporsi a periodiche ispezioni nella sua stanza.

    Veza era riuscita a salvare l’aria che respirava (e aveva solo diciotto anni) dai colpi di bastone, dalle minacce e dalle maledizioni di quell’uomo sinistro; ma tutto questo l’aveva segnata. Ormai capitava raramente che il vecchio comparisse sulla soglia della sua stanza. Un paio di volte al mese succedeva ancora che egli spalancasse la porta e a una certa distanza si ergesse, alto e allampanato, davanti ai visitatori di Veza, i quali rimanevano più stupiti che spaventati. Pur tenendo in mano il bastone, non batteva, non imprecava, non minacciava più: veniva a chiedere aiuto. Adesso era la paura a spingerlo davanti alla porta vietata. Diceva: «Mi hanno rubato i soldi. I soldi stanno bruciando». Siccome nessuno lo sopportava, viveva molte ore da solo, e ogni tanto lo assaliva un’angoscia tremenda che sempre si riferiva ai suoi soldi. Da quando non poteva più bruciarli da sé, ne veniva derubato: le fiamme invadevano 
     la sua stanza, decise a prendersi con la forza i soldi che non venivano più sacrificati spontaneamente.

    Egli non veniva mai quando Veza era sola, ma quando sentiva delle voci nella stanza di lei. Sentiva ancora bene, se Veza aveva ospiti se ne accorgeva subito. Il campanello alla porta, i passi davanti alla sua camera, le voci animate in corridoio e poi nella stanza di Veza, che parlavano in una lingua a lui sconosciuta, il fatto di non poter vedere chi fosse: tutto ciò scatenava in lui il terrore che qualcuno tramasse segretamente un attentato contro il suo denaro. Nel primo periodo delle mie visite lo vidi due o tre volte e fui colpito dalla sua somiglianza con Dante.

    Era come se Dante fosse uscito dalla tomba. Avevamo appena parlato della Divina Commedia, quando di colpo la porta si aprì e ce lo trovammo davanti, sembrava quasi avvolto in un lenzuolo e agitava il bastone, verso l’alto, non per difendersi, ma per accusare: «Mi arrobaron las paras – mi hanno rubato i soldi!». No, non era Dante, ma piuttosto un personaggio del suo Inferno.

    Lo sfogo

    Il 24 luglio 1925, la vigilia del mio ventesimo compleanno, ci fu lo sfogo. È un argomento di cui da allora non ho mai parlato e mi riesce difficile farlo adesso.

    Avevo in programma un giro a piedi attraverso le montagne del Karwendel insieme a Hans Asriel. Volevamo vivere nella maniera più modesta possibile, dormendo nelle baite. Non sarebbe stata una grande spesa. Hans, che lavorava alle dipendenze del signor Brosig, fabbricante di articoli in pelle, era riuscito a risparmiare lo stretto necessario dal suo magro stipendio. Era attentissimo nelle spese, e ci era costretto, perché viveva con la madre, il fratello e la sorella in condizioni economiche assai precarie.

    Hans fece tutti i conti per il nostro giro, che sarebbe durato meno di una settimana. Dopo, forse, avremmo potuto fermarci da qualche parte per un’altra settimana, perché io volevo utilizzare quel periodo anche per lavorare, e precisamente per cominciare il mio libro sulla massa. A questo scopo preferivo starmene completamente solo in un posto qualsiasi fra le montagne, ma non ne parlai in modo 
     esplicito, per non offendere Hans. Tanto più minuziosi erano in compenso i nostri piani per il giro attraverso il Karwendel. Hans, che era un ragazzo assai metodico, computava, chino sulle carte, ogni tratto di strada e ogni vetta. Le prime settimane di luglio trascorsero in quei preparativi, su cui riferivo a casa durante l’ora dei pasti. La mamma ascoltava tutto senza dire né sì né no; ma intanto io davo sempre maggiori particolari, da noi non si sentiva parlare d’altro, come potevo pensare perciò che la mamma avesse delle obiezioni? Mi sembrava, anzi, che anche lei prendesse parte a quei progetti con il pensiero. La nostra meta doveva essere Pertisau, sul lago di Achen. Una volta la mamma accennò persino alla possibilità che lei stessa andasse in vacanza a Pertisau e ci aspettasse lì. Non che l’idea fosse seria, e infatti fu subito lasciata cadere, ma le mie discussioni con Hans per mettere a punto i dettagli continuarono. Il mattino del 24 luglio la mamma dichiarò improvvisamente che mi dovevo togliere quel progetto dalla testa, quel giro non potevo farlo, non avevo abbastanza soldi per concedermi quel lusso. Dovevo già essere contento di poter studiare; non mi vergognavo di avanzare simili pretese, quando c’era gente che non sapeva neppure come tirare avanti?

    Fu un duro colpo, perché arrivò all’improvviso, dopo che per varie settimane la mamma aveva benevolmente tollerato i nostri progetti, e addirittura manifestato per essi un certo interesse. Dopo quasi un anno di convivenza soffocante e piena di attriti, avevo bisogno di andarmene e di sentirmi libero. Negli ultimi tempi la pressione era diventata sempre più intollerabile, e dopo ogni bisticcio, imbarazzante e penoso, mi rifugiavo nel pensiero del nostro viaggio. Le nude rocce calcaree di cui mi avevano tanto parlato mi apparivano in una luce radiosa, ed ecco che un mattino, durante la colazione, la mannaia calò inesorabile, mozzandomi il fiato e la speranza.Avevo una gran voglia di prendere a pugni le pareti, ma mi controllai, in modo da evitare un’esplosione di violenza fisica di fronte ai miei fratelli. Tutto avvenne sulla carta, ma non, come le altre volte, in frasi comprensibili e ragionevoli; non mi servii neppure dei soliti quaderni, afferrai invece un grande blocco di carta da lettere, quasi nuovo, e cominciai a riempire di caratteri cubitali un foglio dopo l’altro: «Soldi, soldi, sempre soldi» e nella 
     riga dopo lo stesso, e nella riga dopo di nuovo, finché il foglio era pieno; allora lo strappavo e ricominciavo a scrivere – «Soldi, soldi, sempre soldi» – sul foglio seguente. Non avevo mai scritto a lettere così grandi, perciò i fogli si riempivano in fretta, i fogli già staccati erano sparsi intorno a me sul grande tavolo della camera da pranzo, aumentavano sempre più, finché non cominciarono a cadere sul pavimento. Il tappeto intorno al tavolo ne fu ben presto disseminato, io non riuscivo a smettere, era un blocco da cento fogli, li riempii uno a uno. I miei fratelli si accorsero che stava succedendo una cosa insolita perché recitavo quel che stavo scrivendo, a voce non troppo alta, per la verità, ma chiaramente udibile: «Soldi, soldi, sempre soldi» echeggiava per tutta casa. Avvicinatisi cautamente, tirarono su un foglio e lessero ad alta voce quel che c’era scritto: «Soldi, soldi, sempre soldi». Poi Nissim, il secondogenito, si precipitò in cucina dalla mamma e le disse: «Elias è diventato matto. Vieni a vedere!».

    La mamma non venne, però mi mandò la seguente ambasciata: «Che la smetta immediatamente. Con quello che costa la carta da lettere!». – Ma io non l’ascoltai e continuai a scrivere come un forsennato. Forse in quel momento ero diventato matto; ma, comunque la cosa possa esser definita, la parola in cui per me si concentrava ogni oppressione, ogni bassezza, aveva acquistato su di me un potere irresistibile, mi dominava completamente. Non badavo a niente, né alle urla dei miei fratelli che mi prendevano in giro (ma il minore, Georg, lo faceva senza entusiasmo, essendosi spaventato moltissimo), né alla mamma, che alla fine si degnò di entrare nella stanza, forse irritata da tutto quello spreco di carta, o forse non più tanto sicura che davvero si trattasse di una «commedia», come aveva detto all’inizio. Ma quando si fece viva, non le badai più che ai fratelli, non avrei badato a nessuno, ero invasato da quella parola, che consideravo l’essenza di ogni inumanità. Continuavo a scrivere e la forza della parola che mi ossessionava non veniva meno, non odiavo la mamma, odiavo soltanto quella parola, e finché c’era carta il mio odio non si estingueva. Quel che fece impressione alla mamma fu soprattutto la velocità folle dei miei gesti. La mia mano correva sui fogli, ma io ero senza fiato come se avessi corso, non avevo mai fatto niente 
     a quella velocità. «Era come un treno rapido,» disse poi la mamma «con tutto il peso di un rapido a pieno carico». Ecco la parola che la mamma non era mai sazia di sbandierare, pur sapendo benissimo quanto mi angustiasse, eccola riprodotta in migliaia di esemplari, con insensata prodigalità, una prodigalità incompatibile con la sua essenza, eccola evocata senza tregua, come se quella parola potesse essere spesa a volontà, come se fosse possibile spenderla fino in fondo. Non è escluso che la mamma abbia avuto paura sia per la mia sorte sia per la sorte della sua parola chiave, che stavo dilapidando a piene mani.

    Non mi accorsi che a un certo punto la mamma era uscita dalla stanza, e neanche del momento in cui rientrò. Finché non avevo finito il blocco, non potevo rendermi conto di nulla. Ma ecco che ad un tratto vidi nella stanza il dottor Laub, il nostro medico di famiglia, un vecchio professionista. Mia madre era in piedi mezzo nascosta dietro di lui, con il viso girato dall’altra parte, sapevo che era lei ma non potevo guardarla negli occhi, si nascondeva dietro il dottore, e solo allora mi resi conto che qualcuno un attimo prima aveva bussato energicamente alla mia porta. «Che cos’ha il nostro ragazzino?» domandò il dottor Laub con il suo tono grave. La sua lentezza, le pause che faceva dopo ogni frase, il suo modo energico di calcare su ogni parola, l’indicibile futilità delle sue autorevoli spiegazioni, la sua abitudine di ricollegarsi all’ultima visita come se in mezzo ci fosse stato il nulla (l’ultima volta era itterizia; e ora?), tutte queste cose insieme fecero il loro effetto, riportandomi alla ragione. Benché mi restasse ancora qualche foglio, smisi immediatamente di scrivere.

    «Ma che cosa scriviamo con tanto zelo?» disse il dottor Laub, mettendoci un’eternità per arrivare alla fine della frase. Saltando giù dal rapido sul quale ero sfrecciato sulla carta fino a quel momento, gli porsi, con un ritmo che andava più d’accordo con il suo, l’ultimo foglio. Il dottore lo lesse con solennità. La pronunciava, quella parola, come l’avevo scritta io, ma nella sua bocca non suonava satura d’odio, suonava circospetta, come se uno dovesse pensarci su dieci volte prima di lasciarsi scappare una parola così preziosa. La sua leggera balbuzie la faceva suonare parsimoniosa, osservai fra me; eppure 
     rimasi tranquillo, stranamente non si riattizzò il mio furore. Il dottore lesse tutto quel che era scritto su quell’ultimo foglio e, dato che ne avevo riempito più di metà ed egli non accelerò mai il suo ritmo, ci mise un bel po’ di tempo. Nessun «soldo», neppure uno, andò perduto, e io, quando ebbe finito, fraintesi un suo gesto e pensai che volesse da me un altro foglio per continuare la lettura di tutti quei soldi. Ma, quando glielo porsi, egli fece cenno di no e disse: «Va bene così. Per ora può bastare». Poi si schiarì la voce, mi posò una mano sulla spalla e domandò, come se del miele gli gocciolasse dalla bocca: «E adesso mi racconti un po’: che cosa ne vogliamo fare di questi soldi?». Non so se sia stata astuzia o ingenuità, comunque mi si sciolse la lingua e gli raccontai per filo e per segno tutta la storia del Karwendel, con la mamma che aveva ascoltato per settimane senza fare la minima obiezione, e che anzi quasi interveniva nei nostri progetti con le sue proposte, e ora di punto in bianco diceva di no a tutto. Nel frattempo non era accaduto nulla che avesse modificato la situazione, il suo era un atto di puro arbitrio, come quasi tutto ciò che succedeva in casa nostra. Volevo andarmene di casa, lontanissimo, all’altro capo del mondo, dove non avrei più dovuto sentire quella maledetta parola.

    «Ah, ecco,» disse lui, indicando col braccio i fogli disseminati sul pavimento «per questo quella parola l’abbiamo scritta tante volte, per metterci bene in testa che non vogliamo più sentirla nominare. Ma, prima di andarcene all’altro capo del mondo, è meglio che facciamo quel giro tra le montagne del Karwendel. Ci farà bene». A quella prospettiva il cuore mi si allargò, mi parlava con un tono così sicuro come se lui potesse disporre dei soldi necessari, come se lui li avesse messi da parte. Cominciai a prestargli ascolto in un altro modo e a riporre in lui qualche speranza, e forse adesso penserei a quell’uomo con gratitudine se egli non avesse subito rovinato tutto con quella sua imperdonabile saggezza: «Dietro c’è dell’altro» dichiarò. «I soldi non c’entrano. C’entra l’Edipo. Un caso lampante che con i soldi non ha niente a che vedere». Mi diede un buffetto e se ne andò via. La porta che dava sull’anticamera era rimasta aperta. Udii la domanda preoccupata della mamma e il suo responso: «Lo 
     lasci andare. Domani stesso, è la cosa migliore. È quello che ci vuole per l’Edipo».

    Con ciò la cosa fu decisa. Per la mamma l’autorità suprema era rappresentata dai medici. Quando si trattava di una sua malattia, le piaceva consultarne più d’uno. Così poteva scegliere tra i diversi pareri quello che le andava più a genio, senza trasgredire di testa sua le indicazioni di nessuno. Per noi, invece, un medico e un parere dovevano bastare, e a quest’ultimo bisognava attenersi. Il viaggio era ormai deciso, non ci furono altre parole. Potevo andare in montagna con Hans per due settimane. Restai a casa ancora due giorni. Non furono sollevate altre accuse. Ero considerato in pericolo, la mia psiche era labile, tutti quei fogli che avevo scritto erano stati tirati su, accuratamente piegati e messi da parte. Dopo un simile spreco di carta, bisognava almeno conservarli in quanto sintomo di un disturbo mentale.

    In quegli ultimi giorni di permanenza a casa non mi sentii meno oppresso; ma ormai avevo la prospettiva di andarmene lontano. Riuscii a tenere la bocca chiusa, contrariamente alle mie abitudini, e ci riuscì anche la mamma.

    L’autodifesa