domenica 24 aprile 2022

VENTICINQUE AGOSTO 1983 Estratto da "Venticinque agosto 1983 e altri racconti inediti" Jorge Luis Borges



 VENTICINQUE AGOSTO 1983

Estratto da "Venticinque agosto 1983 e altri racconti inediti"

Jorge Luis Borges

[...]Gli stoici insegnano che non dobbiamo lamentarci della vita: la porta della prigione è aperta. L’ho sempre intesa in questo modo, ma la pigrizia e la vigliaccheria mi hanno trattenuto[...]

Sull’orologio della stazioncina vidi che erano le undici di sera passate. Tornai in albergo a piedi. Sentii, come altre volte, la rassegnazione e il sollievo che ci infondono i luoghi meno noti. L’ampio portone era aperto; la villa, al buio. Entrai nell’atrio, dove specchi pallidi replicavano le piante della sala. Stranamente il padrone non mi riconobbe e mi tese il registro. Presi la penna, che era legata alla scrivania, la intinsi nel calamaio di bronzo e, quando mi chinai sul libro aperto, ebbi la prima delle molte sorprese che mi avrebbe riservato la serata. Il mio nome, Jorge Luis Borges, era già scritto e l’inchiostro ancora fresco.

Il padrone mi disse: «Credevo che fosse già salito».Poi mi guardò bene e si corresse: «Mi scusi, signore. L’altro le assomiglia molto, ma lei è più giovane».

Gli domandai: «Qual è la sua stanza?».

«Ha chiesto la numero 19», fu la risposta.

Era quello che temevo.

Posai la penna e salii di corsa le scale. La camera 19 era al secondo piano e si affacciava su un povero cortile abbandonato con una ringhiera intorno e, ricordo, una panchina da piazza. Era la stanza più alta dell’albergo. Provai ad aprire, la porta cedette. Non avevano spento il lampadario. Sotto quella luce impietosa, mi riconobbi.

Là, sdraiato supino in un angusto letto di ferro, più vecchio, dimagrito e molto pallido, c’ero io, gli occhi persi sulle alte modanature in gesso. Poi mi giunse la voce. Non era esattamente la mia; era quella che sento nelle registrazioni, sgradevole e senza sfumature.

«Che strano – diceva – siamo due e siamo la stessa persona. Ma nulla è strano nei sogni».

Chiesi spaventato: «Allora è tutto un sogno?».

«È, ne sono certo, il mio ultimo sogno». Con la mano indicò il flacone vuoto sul marmo del comodino. «Tu però hai molto da sognare prima di giungere a questa sera. Che giorno è per te?».

«Non so bene – risposi stordito. – Ma ieri ho compiuto sessantun anni».

«Quando da sveglio arriverai a stasera, ne avrai compiuti, ieri, ottantaquattro. Oggi è il 25 agosto 1983».

«Tanti anni bisognerà aspettare», mormorai.

«A me non resta più nulla – disse lui bruscamente. – Posso morire da un momento all’altro, posso perdermi in quello che non so, e continuo a sognare il mio doppio. Quel tema logoro che mi hanno suggerito gli specchi e Stevenson».

Capii che rievocare Stevenson era un commiato e non un segno di pedanteria. Ero lui e lo capivo. Non bastano i momenti più drammatici per diventare Shakespeare e inventarsi frasi memorabili. Per distrarlo gli dissi: «Sapevo che ti sarebbe successo. Proprio qui, anni fa, in una delle stanze al piano di sotto, iniziammo ad abbozzare la storia di questo suicidio».

«Sì – rispose lentamente, come se cercasse di ricordare. – Ma non vedo il legame. In quel primo abbozzo, avevo comprato un biglietto di sola andata per Adrogué e, una volta arrivato all’hotel Las Delicias, ero salito nella camera 19, la più appartata. Là mi ero suicidato».

«Ecco perché sono qui», gli dissi.

«Qui? Noi siamo sempre qui. Ti sto sognando qui, nella casa di calle Maipú. Me ne sto andando qui, nella stanza che era di nostra madre».

«Che era di nostra madre – ripetei, senza voler capire. – Io ti sogno nella camera 19, su in cima».

«Chi sogna chi? Io so che ti sogno, ma non se tu mi stai sognando. L’albergo di Adrogué fu demolito tanti anni fa, venti, forse trenta. Chissà».

«Sono io che sogno», replicai con un certo tono di sfida.

«Non ti rendi conto che l’importante è scoprire se c’è uno solo che sogna o due che si sognano».

«Sono io Borges, quello che ha visto il tuo nome sul registro ed è salito».

«Borges sono io, che sto morendo in calle Maipú».

Ci fu un silenzio; l’altro mi disse: «Facciamo una prova. Qual è stato il momento più terribile della nostra vita?».

Mi chinai su di lui e parlammo allo stesso tempo. So che mentimmo entrambi.

Un lieve sorriso illuminò il volto invecchiato. Sentii che quel sorriso rifletteva in qualche modo il mio.

«Ognuno ha mentito all’altro – disse, – perché ci sentiamo due persone, non una. La verità è che siamo due e siamo la stessa persona».

Quella conversazione mi irritava. Glielo dissi.

Poi aggiunsi: «E tu, là nel 1983, non mi riveli nulla degli anni che mi mancano?».

«Povero Borges, che posso dirti? Si ripeteranno le disgrazie a cui ormai sei abituato. Resterai solo in questa casa. Toccherai i libri senza lettere e il medaglione di Swedenborg e il vassoio di legno con la Croce Federale. La cecità non è un mondo di tenebre: è una forma di solitudine. Tornerai in Islanda».

«L’Islanda! L’Islanda dei mari!».

«A Roma, ripeterai i versi di Keats, il cui nome, come quello di tutti, è scritto sull’acqua».

«Non sono mai stato a Roma».

«Ci sono anche altre cose. Scriverai i nostri versi migliori, in un’elegia».

«In morte di…», dissi io. Non osai pronunciare il nome.

«No. Lei vivrà più a lungo di te».

Restammo in silenzio.

L’altro proseguì: «Scriverai il libro che abbiamo tanto sognato. Verso il 1979, capirai che la tua presunta opera non è altro che una serie di abbozzi, di abbozzi miscellanei, e cederai alla vana e superstiziosa tentazione di scrivere il tuo grande libro. La superstizione che ci ha inflitto il Faust di Goethe, Salammbô, l’Ulisse. Ho riempito, incredibile a dirsi, un gran numero di pagine».

«E alla fine hai compreso di aver fallito».

«Peggio. Ho compreso che era un capolavoro nel senso più schiacciante del termine. Le mie buone intenzioni non erano andate oltre le prime pagine; nelle altre c’erano i labirinti, i coltelli, l’uomo che si crede un’immagine, il riflesso che si crede vero, la tigre delle notti, le battaglie che tornano nel sangue, Juan Muraña cieco e fatale, la voce di Macedonio, la nave fatta con le unghie dei morti, l’inglese antico ripetuto nei pomeriggi».

«Questo museo mi è familiare», osservai con ironia.

«E anche i falsi ricordi, il doppio gioco dei simboli, le lunghe enumerazioni, il buon uso della prosaicità, le simmetrie imperfette che i critici scoprono con gioia, le citazioni non sempre apocrife».

«Hai pubblicato il libro?».

«Ho giocato, senza convinzione, con il melodrammatico proposito di distruggerlo, forse col fuoco. Ho finito per pubblicarlo a Madrid, sotto pseudonimo. Si è parlato di un goffo imitatore di Borges, che aveva il difetto di non essere Borges e di aver copiato il modello in modo esteriore».

«Non mi sorprende – commentai. – Ogni scrittore finisce per diventare il suo discepolo meno intelligente».

«Quel libro è stata una delle strade che mi hanno condotto a questa serata. Quanto alle altre… L’umiliazione della vecchiaia, la convinzione di aver già vissuto ogni giorno…».

«Non scriverò quel libro», dissi.

«Lo scriverai. Le mie parole, che ora sono il presente, saranno solo il ricordo di un sogno».

Il suo tono dogmatico mi infastidì; senza dubbio era lo stesso che uso a lezione. Mi infastidì che ci somigliassimo tanto e che approfittasse dell’impunità concessa dalla morte imminente.

Per prendermi una rivincita, gli chiesi: «Sei proprio sicuro di stare per morire?».

«Sì – rispose. – Sento una sorta di dolcezza e di sollievo che non avevo mai provato. Non so come spiegarti. Tutte le parole richiedono un’esperienza condivisa. Perché sembri così irritato da quello che ti dico?».

«Perché ci somigliamo troppo. Detesto la tua faccia, che è la mia caricatura, detesto la tua voce, che fa il verso alla mia, detesto la tua sintassi patetica, che è la mia».

«Anche io – ribatté lui. – Per questo ho deciso di suicidarmi».

Fuori cantò un uccello.

«È l’ultimo», disse l’altro.

Con un gesto mi chiamò al suo fianco. La sua mano cercò la mia. Indietreggiai; temetti che potessero confondersi.

Mi disse: «Gli stoici insegnano che non dobbiamo lamentarci della vita: la porta della prigione è aperta. L’ho sempre intesa in questo modo, ma la pigrizia e la vigliaccheria mi hanno trattenuto. Una dozzina di giorni fa, tenevo una conferenza a La Plata sul sesto libro dell’Eneide. All’improvviso, mentre scandivo un esametro, ho capito qual era la mia strada. Ho preso questa decisione. Da quel momento, mi sono sentito invulnerabile. La mia sorte sarà la tua, avrai una brusca rivelazione, in mezzo al latino e a Virgilio, dopo aver completamente dimenticato questo strano dialogo profetico che si svolge in due tempi e in due luoghi. Quando tornerai a sognarlo, sarai quello che sono io e tu sarai il mio sogno».

«Non lo dimenticherò, domani scrivo tutto».

«Resterà nel profondo della tua memoria, sotto la marea dei sogni. Quando lo scriverai, ti sembrerà di ordire la trama di un racconto fantastico. Ma non accadrà domani, mancano ancora molti anni».

Smise di parlare, capii che era morto. In un certo senso, io morivo con lui; mi chiusi angosciato sul cuscino, ma non c’era più nessuno.

Fuggii dalla stanza. Fuori non c’era il cortile, né le scale di marmo, né la grande casa silenziosa, né gli eucalipti, né le statue, né il pergolato, né le fontane, né il cancello della villa nel paese di Adrogué.

Fuori mi aspettavano altri sogni.