domenica 3 aprile 2022

LA CORTINA DI FERRO Anne Applebaum

 


LA CORTINA DI FERRO


Anne Applebaum 



“L’ingresso dell’Armata Rossa in Europa orientale nel 1944 e 1945 non era stato ben pianificato, e nulla di ciò che seguì, violenze, furti, riparazioni, stupri, rientrava in un progetto a lungo termine. La presenza dell’Unione Sovietica nella regione fu senza dubbio la conseguenza secondaria dell’invasione hitleriana dell’URSS, delle vittorie dell’Armata Rossa a Stalingrado e Kursk e della decisione degli Alleati occidentali di non avanzare oltre né più velocemente quando ne avevano la possibilità. Ma presumere che le autorità dell’Unione Sovietica non avessero mai contemplato prima un’invasione militare dell’Europa orientale, o che l’occasione di metterla in atto le lasciasse indifferenti, sarebbe un errore. Al contrario, esse avevano già cercato di rovesciare l’ordine politico nella regione più di una volta.” (pag.83)


INTRODUZIONE

Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia; tutte queste famose città e le popolazioni attorno a esse giacciono in quella che devo chiamare la sfera sovietica, e tutte sono soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza sovietica, ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo da Mosca.

WINSTON CHURCHILL, discorso a Fulton, Missouri, 5 marzo 1946

Fra molte altre cose il 1945 segnò uno dei più straordinari movimenti di popolazioni della storia europea. Per tutto il continente centinaia di migliaia di persone tornavano dall’esilio sovietico, dal lavoro forzato in Germania, dai campi di concentramento e per prigionieri di guerra, da nascondigli e rifugi d’ogni genere. Strade, sentieri, binari e treni erano affollati di gente lacera, affamata, sporca.

Particolarmente orribili erano le scene cui si poteva assistere nelle stazioni ferroviarie. Madri denutrite, bambini malati e a volte intere famiglie, in attesa di un treno su cui riuscire a salire, restavano accampati per giorni e giorni su luridi pavimenti di cemento, rischiando di cadere vittima di epidemie e della fame. Ma nella città di Łódź, nella Polonia centrale, un gruppo di donne decise di impedire altre tragedie. Guidate da ex membri della Liga Kobiet, la Lega delle donne polacche, organizzazione benefica e patriottica fondata nel 1913, esse si misero al lavoro, aprendo nella stazione ferroviaria della città un rifugio per donne e bambini, cui fornirono, oltre all’assistenza di volontari e infermiere, piatti caldi, medicine e coperte.

Nella primavera del 1945 le motivazioni di quelle donne erano le stesse che avrebbero potuto spingerle all’azione nel 1925 o nel 1935: testimoni di un’emergenza sociale, si erano organizzate per essere d’aiuto. Nessuno gliel’aveva chiesto o ordinato, e nessuno le pagava per farlo. Janina Suska-Janakowska, che all’epoca del nostro incontro aveva quasi novant’anni, ricordava quei primi interventi a Łódź come del tutto apolitici: «Nessuno riceveva dei soldi per quelle attività filantropiche … Chiunque avesse un momento libero dava una mano».1 Oltre a prestare aiuto a viaggiatori disperati, la Lega delle donne di Łódź, inizialmente, non aveva programmi politici.

Passarono cinque anni. Nel 1950 essa era ormai divenuta qualcosa di ben diverso. Aveva una sede centrale a Varsavia ed era diretta da un organo centralizzato, nazionale, che poteva sciogliere, e lo faceva, le sezioni locali che non obbedivano agli ordini. La sua segretaria generale, Izolda Kowalska-Kiryluk, parlava dei compiti primari della Lega non in termini filantropici e patriottici, ma usando un linguaggio politico, ideologico: «Dobbiamo intensificare il nostro lavoro organizzativo e mobilitare un numeroso gruppo di donne attive, educandole e facendo di esse consapevoli militanti sociali. Dobbiamo accrescere giorno dopo giorno la coscienza sociale delle donne e unirci al grandioso compito della ricostruzione sociale della Polonia popolare per trasformarla in una Polonia socialista».

La Lega delle donne teneva inoltre congressi nazionali, e in quello del 1951 la sua vicepresidente, Zofia Wasilkowska, espose un esplicito programma politico: «La principale forma di attivismo della Lega, come afferma il suo statuto, consiste in un lavoro di educazione, di illuminazione … accrescere la coscienza delle donne perché giunga a un livello incomparabilmente più alto e mobilitarle per la più completa realizzazione degli obiettivi del piano sessennale».2

Nel 1950, in altre parole, la Lega era di fatto divenuta la sezione femminile del Partito comunista polacco e, in questa veste, sollecitava le donne a seguire la linea del partito in materia di scelte politiche e relazioni internazionali, le esortava a sfilare in corteo il 1o maggio e a firmare petizioni per denunciare l’imperialismo occidentale. Essa impiegava squadre di agitatrici che partecipavano a corsi in cui veniva loro insegnato come diffondere ulteriormente il messaggio del partito. Chi muoveva obiezioni – chi, per esempio, si rifiutava di sfilare il 1o maggio o di partecipare alle celebrazioni per il compleanno di Stalin – rischiava di essere espulsa dalla Lega, e alcune lo furono. Altre diedero le dimissioni. Quelle che rimasero non erano più volontarie, ma burocrati che lavoravano al servizio dello Stato e del Partito comunista.

Erano passati cinque anni, nel corso dei quali la Lega delle donne polacche e innumerevoli organizzazioni simili avevano subito una metamorfosi radicale. Chi l’aveva causata? Che cosa era accaduto? Perché tutti si adeguarono? È a tali domande che questo libro vuole rispondere.

Benché sia stato più frequentemente usato per definire la Germania nazista e l’Unione Sovietica staliniana, il termine «totalitarismo» fu impiegato per la prima volta nel contesto del fascismo italiano. Coniato da uno dei suoi critici, venne adottato con entusiasmo da Benito Mussolini che, in un discorso, ne espose quella che resta tuttora la sua migliore definizione: «Tutto nello Stato, niente fuori dello Stato, nulla contro lo Stato».3 In senso stretto, un regime totalitario è un regime che bandisce ogni istituzione tranne quelle che ha ufficialmente approvato. In un regime totalitario esistono quindi un solo partito politico, un solo sistema educativo, un unico credo artistico, un’unica economia pianificata centralmente, mezzi di comunicazione di massa unificati e un solo codice morale. In uno Stato totalitario non esistono scuole indipendenti, aziende private, organizzazioni di base e pensiero critico. Mussolini e il suo filosofo favorito, Giovanni Gentile, esposero una «concezione dello Stato» per la quale «tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato».4

Dall’italiano il termine «totalitarismo» si diffuse in tutte le lingue europee e del mondo. Dopo la morte di Mussolini il concetto trovò tuttavia pochi aperti sostenitori, e il termine finì per essere definito dai suoi critici, molti dei quali sono da annoverare fra i maggiori pensatori del XX secolo.5 La via della schiavitù di Friedrich Hayek è una risposta filosofica alla sfida del totalitarismo, e così La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper. 1984, di George Orwell, è una visione distopica di un mondo interamente dominato da regimi totalitari.

La più grande studiosa della politica totalitaria è stata probabilmente Hannah Arendt, che in Le origini del totalitarismo, scritto nel 1949, definì quest’ultimo «una nuova forma di governo» resa possibile dall’avvento della modernità. La distruzione di società e stili di vita tradizionali, sosteneva, aveva creato le condizioni per lo sviluppo di un «carattere totalitario», uomini e donne la cui identità dipendeva in tutto e per tutto dallo Stato. Com’è noto, secondo Arendt sia la Germania nazista sia l’Unione Sovietica erano regimi totalitari, e in quanto tali più simili che differenti.6 Carl J. Friedrich e Zbigniew Brzezinski spinsero questa tesi ancora oltre in Totalitarian Dictatorship and Autocracy, pubblicato nel 1956, e cercarono del totalitarismo una definizione più operativa. I regimi totalitari, a loro parere, avevano tutti in comune almeno cinque fattori: un’ideologia dominante, un unico partito al potere, una polizia segreta pronta a usare il terrore, il monopolio dell’informazione e un’economia pianificata. In base a questi criteri non andavano definiti totalitari soltanto i regimi sovietico e nazista, ma anche altri, come per esempio la Cina di Mao.7

Nei tardi anni Quaranta e primi Cinquanta, tuttavia, «totalitarismo» era qualcosa di più di un mero concetto teorico. All’inizio della guerra fredda esso assunse anche concrete connotazioni politiche. In un cruciale discorso del 1947 il presidente statunitense Harry Truman dichiarò che gli americani dovevano essere «pronti ad aiutare i popoli liberi a preservare le loro libere istituzioni e la loro integrità nazionale contro movimenti aggressivi che cercano di imporre loro regimi totalitari».8 Era quella che sarebbe divenuta nota come «dottrina Truman». Il termine «totalitarismo» fu usato anche dal presidente Dwight Eisenhower durante la campagna presidenziale del 1952, quando proclamò la sua intenzione di intervenire in Corea per porre termine alla guerra che vi divampava: «So qualcosa di questa mente totalitaria. Per tutti gli anni della seconda guerra mondiale ho portato un pesante fardello nella crociata del mondo libero contro la tirannia che allora minacciava tutti noi».9

Poiché gli americani fautori della guerra fredda prendevano apertamente posizione contro il totalitarismo, coloro che sulla guerra fredda erano scettici iniziarono ovviamente a mettere in discussione il termine e a chiedersi che cosa significasse. Il totalitarismo era una reale minaccia o soltanto un’esagerazione, uno spauracchio, un’invenzione del senatore Joseph McCarthy? Per tutti gli anni Settanta e Ottanta gli storici revisionisti studiosi dell’URSS non cessarono di sostenere che nemmeno l’Unione Sovietica staliniana era mai stata davvero totalitaria. Secondo loro, in URSS non tutte le decisioni venivano in realtà prese a Mosca, a dare il via al terrore era altrettanto probabile che fosse stata la polizia locale quanto i vertici politici, non sempre i responsabili della pianificazione centrale avevano avuto successo nel tentativo di controllare l’economia, e il terrore di massa aveva creato «opportunità» per molti nella società.10 Alcuni giunsero a giudicare il termine «totalitario» grezzo, impreciso e sfacciatamente ideologico.

Diverse di queste stesse osservazioni erano state in realtà avanzate da molti teorici «ortodossi» del totalitarismo. Pochi avevano sostenuto che esso funzionasse. Al contrario, «siccome i regimi totalitari aspirano all’impossibile e vogliono avere a loro disposizione la personalità dell’uomo e il destino, possono essere realizzati solo in modo frammentario» scrisse Friedrich. «Ma è proprio per questo che le conseguenze della pretesa di governare in modo totalitario sono tanto pericolose e tanto oppressive, perché sono così tenui, incalcolabili e difficili da dimostrare … Questa contorsione deriva dall’aspirazione frustrata al potere: caratterizza la vita di questi regimi e la rende tanto difficile da capire per chi ne è fuori.»11

In anni più recenti, alcuni teorici politici hanno portato questa tesi revisionista ancora oltre, sostenendo che il termine «totalitario» è davvero utile soltanto in teoria, come modello negativo in opposizione al quale i democratici liberali possono definire se stessi.12 Per altri, esso è completamente privo di senso: è divenuto un termine che significa soltanto «l’antitesi teorica alla società occidentale», o anche semplicemente «quelli che non ci piacciono». Secondo un’interpretazione più sinistra, l’uso della parola «totalitarismo» è meramente strumentale: la si impiega per enfatizzare la legittimità della democrazia occidentale.13

Nel discorso comune il termine «totalitario», più che essere usato in modo strumentale, è abusato. Vengono definiti «totalitari» politici democraticamente eletti (per esempio: «Gli istinti totalitari di Rick Santorum»), governi e persino imprese (capita di leggere della «marcia degli Stati Uniti verso il totalitarismo» o di scoprire che la Apple ha «un approccio totalitario al suo app store»).14 Gli iperliberisti, a partire da Ayn Rand, hanno usato questo termine per definire i liberali progressisti, e i liberali progressisti (oltre che, in verità, i conservatori) per definire Ayn Rand.15 È una parola ormai applicata a un tale numero di persone e istituzioni da poter sembrare a volte priva di qualunque senso.

Ma, se l’idea stessa di «controllo totale» può apparire oggi grottesca, ridicola, esagerata o stupida, e se lo stesso termine può aver perso la capacità di scioccare, è importante ricordare che «totalitarismo» è qualcosa di più di un insulto mal definito. Sono esistiti nella storia regimi che hanno aspirato al controllo totale. Se vogliamo capirli – se vogliamo capire la storia del XX secolo –, dobbiamo comprendere come il totalitarismo abbia funzionato, sia in teoria sia in pratica. D’altronde, l’idea di controllo totale non è del tutto passata di moda. Il regime nordcoreano, impostato sul modello staliniano, è cambiato ben poco in settant’anni. Se può sembrare che le nuove tecnologie abbiano reso più difficile aspirare al controllo totale, per non parlare di raggiungerlo, non possiamo essere sicuri che cellulari, Internet e fotografie satellitari non possano divenire un giorno strumenti di controllo nelle mani di regimi che aspirano a essere «onnicomprensivi».16 Quella di «totalitarismo» rimane una definizione empirica utile e necessaria, che aspetta da tempo di essere recuperata.

Un regime in particolare capì i metodi e le tecniche del controllo totalitario talmente bene da esportarli con successo: dopo la fine della seconda guerra mondiale e la marcia dell’Armata Rossa su Berlino, i leader dell’Unione Sovietica, esattamente come non avevano risparmiato gli sforzi per imporre un sistema totalitario alle tante differenti regioni della stessa URSS, fecero di tutto per imporre un sistema di governo totalitario ai paesi europei, tanto diversi fra loro, che allora occupavano. E in questo non conobbero remore. Stalin, gli ufficiali del suo esercito e gli agenti della sua polizia segreta – nota dal 1934 al 1946 come Commissariato del popolo per gli affari interni (Narodnyj kommissariat vnutrennich del, o NKVD), e solo successivamente come KGB –, oltre che i loro alleati locali, non avevano in mente di colpire Ayn Rand o i liberali progressisti, quando crearono Stati totalitari nell’Europa centrale. Per parafrasare Mussolini, quello che volevano, e con grande determinazione, era creare società in cui tutto fosse nello Stato, niente fuori dello Stato, nulla contro lo Stato; e volevano crearle in fretta.

Certo, gli otto paesi europei occupati in tutto o in parte nel 1945 dall’Armata Rossa avevano culture, tradizioni politiche e strutture economiche estremamente diverse. Essi includevano la Cecoslovacchia, un tempo democratica, e la Germania, appena uscita dal fascismo, oltre che monarchie, autocrazie e Stati semifeudali. Erano abitati da cattolici, ortodossi, protestanti, ebrei e musulmani che parlavano lingue slave, neolatine, ugro-finniche e germaniche. Includevano russofili e russofobi, la Boemia industrializzata e l’Albania rurale, la Berlino cosmopolita e piccoli villaggi di case di legno nei Carpazi. Fra i loro abitanti c’erano ex sudditi degli imperi austroungarico, prussiano e ottomano, oltre che dell’impero russo.

Eppure, in quel periodo gli americani e gli europei dell’Ovest giunsero a vedere le nazioni dell’Europa sotto il dominio comunista ma non sovietico – Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania orientale, Romania, Bulgaria, Albania e Iugoslavia – come un «blocco», destinato infine a divenire noto come «Europa dell’Est». Quest’ultima è un’espressione politica e storica, non geografica. Non include paesi «dell’est» quali la Grecia, che non è mai stata comunista, o gli Stati baltici e la Moldavia che, pur storicamente e culturalmente simili all’Europa orientale, furono allora incorporati in senso stretto nell’Unione Sovietica. Fra l’esperienza dei paesi baltici e quella in particolare della Polonia vi sono affinità, ma anche importanti differenze: per i primi la sovietizzazione significò la perdita della sovranità anche formale.

Negli anni successivi alla morte di Stalin, specie dal 1989, le otto nazioni dell’Europa dell’Est presero strade ben diverse, ed è ormai divenuto abituale osservare che, in realtà, non hanno mai avuto molto in comune. È assolutamente vero: prima del 1945 non erano mai state unite in nessun modo e, a parte la memoria storica del comunismo, è straordinario quanto poco le accomuni tuttora. Eppure, per molti anni, dal 1945 al 1989, esse hanno avuto moltissimo in comune. Per amore di semplicità ed esattezza storica, e perché è un’espressione ormai familiare, mi riferirò quindi a esse in tutto il libro come «Europa dell’Est».17

Per un brevissimo periodo, fra il 1945 e il 1953, sembrò che l’URSS avesse successo nell’impresa di convertire le nazioni dell’Europa dell’Est, tanto diverse fra loro, in una regione ideologicamente e politicamente omogenea. Di ex nemici come di ex alleati di Hitler essa fece effettivamente, in quel periodo, un gruppo di entità politiche in apparenza identiche.18 All’inizio degli anni Cinquanta le capitali degli «antichi Stati» della regione, per usare un’espressione di Churchill, grigie e ancora disseminate delle rovine lasciate dalla guerra, erano tutte pattugliate dagli stessi tipi di arcigni poliziotti, progettate dagli stessi architetti fedeli al realismo socialista, e ricoperte da manifesti di propaganda del medesimo genere. Il culto di Stalin, il cui stesso nome era venerato in URSS come «simbolo dell’imminente vittoria del comunismo»,19 vigeva ovunque, insieme a quelli molto simili dei leader dei partiti locali. Alle sfilate e celebrazioni del potere comunista organizzate dallo Stato prendevano parte milioni di persone. All’epoca l’espressione «cortina di ferro» sembrava ben più di una metafora: l’Europa dell’Est era letteralmente separata dall’Occidente da muri, recinzioni e fili spinati. Nel 196l, l’anno in cui fu eretto il Muro di Berlino, si sarebbe detto che quelle barriere dovessero durare per sempre.

La velocità con cui questa metamorfosi si produsse appare, retrospettivamente, quasi sbalorditiva. Persino in Unione Sovietica lo sviluppo di uno Stato totalitario aveva richiesto due decenni, e s’era trattato di un processo discontinuo. I bolscevichi non erano partiti da un piano preordinato. Dopo la rivoluzione avevano proceduto a zigzag, mostrandosi a volte più rigidi e a volte più liberali, nella misura in cui una politica dopo l’altra mancava di produrre i profitti economici promessi. Al collettivismo del «comunismo di guerra» e al «terrore rosso» dell’epoca della guerra civile aveva fatto seguito la Nuova politica economica di Lenin, più liberale, che aveva concesso qualche spazio al privato nel commercio e nell’industria. A essa, abolita nel 1928, erano subentrati un Piano quinquennale e una serie di nuove politiche destinate a divenire note come «stalinismo»: una spinta verso una più rapida industrializzazione, la collettivizzazione forzata e la pianificazione centralizzata; restrizioni draconiane in materia di libertà di espressione, letteratura, mezzi di comunicazione di massa e arti; e l’espansione del Gulag, il sistema dei campi di lavoro forzato. I termini «stalinismo» e «totalitarismo» sono spesso utilizzati come equivalenti, e a ragione.

Ma nei tardi anni Trenta anche lo stalinismo era in crisi. Le condizioni di vita non stavano migliorando velocemente come il partito aveva promesso. Gli investimenti, mal pianificati, cominciavano a mietere insuccessi. La fame che aveva imperversato in Ucraina e nel Sud della Russia all’inizio del decennio, se era stata di qualche utilità politica al regime, aveva generato paura anziché ammirazione. Nel 1937 la polizia segreta sovietica lanciò una campagna pubblica di arresti, incarcerazioni ed esecuzioni che, inizialmente diretta contro sabotatori, spie e «danneggiatori», accusati di bloccare il progresso della società, si estese fino a colpire i vertici del partito. Il Grande Terrore non era né la prima ondata di arresti cui si assistesse in Unione Sovietica né la più vasta: ondate precedenti avevano in larga misura preso di mira contadini e minoranze etniche, specie a ridosso dei confini. Ma essa fu la prima diretta contro le massime autorità del partito e generò profonda inquietudine in patria e fra i comunisti all’estero. Con il tempo, il Grande Terrore avrebbe potuto portare a una reale disillusione. Ma lo stalinismo, e Stalin, furono fortuitamente salvati dalla seconda guerra mondiale. Nonostante il caos e gli errori, nonostante la massa di morti e le grandi distruzioni, la vittoria avallò la legittimità del sistema e del suo leader, «dimostrando» il loro valore. Dopo la vittoria il culto quasi religioso di Stalin giunse a un nuovo apice. La propaganda definiva il leader sovietico «l’incarnazione dell’eroismo, del patriottismo, della devozione alla Patria socialista».20

Nello stesso tempo, la guerra offrì a Stalin un’opportunità senza precedenti per imporre la propria particolare visione di società comunista ai suoi vicini. La prima occasione si presentò subito, nel 1939, dopo la firma del patto Molotov-Ribbentrop, con il quale Unione Sovietica e Germania nazista si accordarono per dividere Polonia, Romania, Finlandia e Stati baltici in due sfere di influenza, sovietica e tedesca. Il 1o settembre la Polonia fu invasa da Hitler da ovest e il 17 settembre da Stalin da est. Nel giro di pochi mesi, inoltre, le truppe sovietiche occuparono gli Stati baltici, parte della Romania e la Finlandia orientale. Se l’Europa occupata dai nazisti sarebbe stata infine liberata, Stalin, invece, non avrebbe mai restituito i territori conquistati in questa prima fase del conflitto. La Polonia e la Finlandia orientali, le nazioni baltiche, la Bucovina e la Bessarabia, chiamata ora Moldavia, furono incorporate nell’Unione Sovietica. I territori polacchi orientali fanno tuttora parte dell’Ucraina e della Bielorussia.

Nelle zone che occuparono, gli ufficiali dell’Armata Rossa e dell’NKVD iniziarono immediatamente a imporre il loro sistema. A partire dal 1939 procedettero a «sovietizzare» le popolazioni di quelle zone servendosi a questo fine di collaboratori locali, membri del movimento comunista internazionale, di violenze generalizzate e di deportazioni di massa nei campi di concentramento del Gulag. In queste imprese Stalin imparò preziose lezioni, e si guadagnò preziosi alleati: l’invasione della Polonia orientale e degli Stati baltici del 1939 formò ufficiali dell’NKVD pronti a ripetere l’esperienza e desiderosi di farlo. Immediatamente, ancora prima dell’invasione nazista dell’URSS nel 1941, le autorità sovietiche iniziarono a preparare il terreno per una trasformazione analoga dell’Europa orientale.

Quest’ultimo punto è controverso: nella storiografia classica, infatti, la storia della regione nel dopoguerra è generalmente divisa in fasi.21 Prima, nel 1944-45, vi sarebbe stata una vera democrazia; poi, come scrisse Hugh Seton-Watson, una falsa democrazia; e infine, nel 1947-48, una repentina svolta politica e un’occupazione in piena regola del potere: il terrore politico venne incrementato, i media imbavagliati, le elezioni manipolate. Ogni simulacro di autonomia nazionale fu abbandonato.

Da allora alcuni storici e politologi hanno imputato questo mutamento di atmosfera politica allo scatenarsi della guerra fredda, con cui coincise. A volte, dell’inizio dello stalinismo nell’Europa dell’Est sono stati addirittura accusati i fautori occidentali della guerra fredda, la cui aggressiva retorica avrebbe «costretto» il leader sovietico a serrare la morsa sulla regione. A dare a questa tesi «revisionista» la sua forma classica fu, nel 1959, William Appleman Williams, secondo il quale la guerra fredda fu causata non dall’espansione comunista, ma dalla pressione americana a favore di mercati internazionali aperti. Più recentemente, un illustre studioso tedesco ha sostenuto che la divisione della Germania non fu dovuta alle politiche totalitarie praticate dai sovietici nell’Est del paese dopo il 1945, bensì al fatto che le potenze occidentali mancarono di trarre profitto dalle aperture pacifiche di Stalin.22

Un esame approfondito di ciò che concretamente accadde nella regione tra il 1944 e il 1947 rivela la fallacia di queste argomentazioni; e, grazie all’accessibilità degli archivi sovietici e dell’Europa orientale, un esame approfondito è ora possibile.23 Le nuove fonti hanno aiutato gli storici a capire che quel primo periodo «liberale» non fu, in realtà, tanto liberale come a volte, a posteriori, è parso. Certo, non ogni elemento del sistema politico sovietico venne esportato nella regione non appena l’Armata Rossa ne varcò i confini, e nulla dimostra che Stalin si aspettasse di creare un «blocco» comunista molto in fretta. Nel 1944 il suo viceministro degli Esteri, Ivan Majskij, scrisse una nota in cui prevedeva che tutte le nazioni d’Europa avrebbero finito per divenire Stati comunisti, ma per questo sarebbero occorsi trenta o forse quarant’anni. (Prevedeva anche che nell’Europa del futuro vi sarebbe stata un’unica potenza terrestre, l’URSS, e un’unica potenza marittima, la Gran Bretagna.) Nel frattempo, a suo parere, l’Unione Sovietica avrebbe dovuto astenersi dal cercare di fomentare «rivoluzioni proletarie» nell’Europa orientale, e sforzarsi invece di mantenere buoni rapporti con le democrazie occidentali.24

Questa visione a lungo termine era certamente in sintonia con l’ideologia marxista-leninista quale Stalin la intendeva. I capitalisti, era convinto, non avrebbero potuto collaborare fra loro per sempre. Presto o tardi, l’avido imperialismo che li contraddistingueva li avrebbe posti in conflitto, e a trarne vantaggio sarebbe stata l’Unione Sovietica. «Le contraddizioni fra Inghilterra e America devono ancora farsi sentire» disse ai suoi collaboratori pochi mesi dopo la fine della guerra. «I conflitti sociali in America si stanno estendendo sempre di più. In Inghilterra i laburisti hanno promesso così tanto agli operai, in termini di socialismo, che sarà difficile per loro fare marcia indietro. Ben presto si troveranno in conflitto non solo con la loro borghesia, ma anche con gli imperialisti americani.»25

Se l’URSS non aveva fretta, non l’avevano neanche i dirigenti comunisti dell’Europa orientale, pochi dei quali si aspettavano di prendere il potere immediatamente. Negli anni Trenta molti si erano uniti a partiti centristi e socialisti in «fronti nazionali», o avevano assistito al successo di queste coalizioni in diversi paesi, soprattutto in Spagna e Francia. Lo storico Tony Judt si è spinto fino a definire la Spagna «una prova generale della presa del potere nell’Europa orientale dopo il 1945».26 Questi primi fronti nazionali erano stati creati contro Hitler. Dopo la guerra molti si preparavano a rifondarli contro il capitalismo occidentale. Stalin adottò una visione a lungo termine: la rivoluzione proletaria sarebbe avvenuta a tempo debito; prima occorreva che la regione conoscesse una rivoluzione borghese. Secondo la schematica interpretazione sovietica della storia, la necessaria rivoluzione borghese non era ancora avvenuta.

Tuttavia, come spiegherà la prima parte di questo libro, l’URSS esportò fin dall’inizio alcuni elementi chiave del sistema sovietico in ogni nazione occupata dall’Armata Rossa. Innanzitutto, l’NKVD, in collaborazione con i partiti comunisti locali, creò immediatamente una polizia segreta a propria immagine, usando spesso persone che aveva formato a Mosca. Ovunque l’Armata Rossa arrivò, anche in Cecoslovacchia, da dove si sarebbe infine ritirata, questi agenti segreti nuovi di zecca iniziarono subito a fare uso di una violenza selettiva, individuando con cura i nemici politici in base a liste e criteri elaborati in precedenza. In qualche caso essi presero di mira anche gruppi etnici nemici. Inoltre, posero sotto il loro controllo i ministeri degli Interni della regione, e a volte anche quelli della Difesa, e presero parte alla confisca e ridistribuzione immediate delle terre.

In secondo luogo, in ogni nazione occupata le autorità sovietiche posero alla direzione del mezzo di comunicazione di massa più potente dell’epoca, la radio, fedeli comunisti locali. Se, nei primi mesi dopo la fine della guerra, nella maggior parte dell’Europa dell’Est rimase possibile pubblicare quotidiani o riviste non comunisti, e se a non comunisti fu permesso di dirigere altri monopoli statali, le stazioni radio nazionali, in grado di raggiungere tutti, da contadini analfabeti a sofisticati intellettuali, furono sottoposte al ferreo controllo del Partito comunista. Le autorità speravano che a lungo termine la radio, insieme ad altri strumenti di propaganda e a modifiche del sistema educativo, avrebbe contribuito a portare masse di persone nel campo comunista.

In terzo luogo, ovunque arrivò l’Armata Rossa, i comunisti sovietici e locali si diedero a molestare, perseguitare e infine mettere al bando molte delle organizzazioni indipendenti di quella che oggi chiameremmo società civile: la Lega delle donne polacche, raggruppamenti «antifascisti» tedeschi, associazioni religiose e scuole. In particolare si concentrarono, fin dai primissimi giorni dell’occupazione, sui gruppi giovanili: i giovani socialdemocratici, le organizzazioni giovanili cattoliche e protestanti, i boy scout. Ancora prima di proibire i partiti politici indipendenti per gli adulti, ancora prima di mettere fuori legge le organizzazioni religiose e i sindacati indipendenti, sottoposero a vincoli rigorosi le organizzazioni dei giovani e le misero sotto stretto controllo.

Infine, le autorità sovietiche, sempre in collaborazione con i partiti comunisti locali, applicarono ovunque fosse possibile politiche di pulizia etnica di massa, espellendo da città e paesi in cui vivevano da secoli milioni di tedeschi, polacchi, ucraini, ungheresi e cittadini di altre nazionalità, che, con pochi averi, venivano portati con camion e treni in campi profughi e nuove abitazioni distanti centinaia di chilometri dai luoghi che li avevano visti nascere. Disorientati, deportati, erano più facili da manipolare e controllare. Di questa politica furono complici in qualche misura Stati Uniti e Gran Bretagna – la pulizia etnica a danno dei tedeschi sarebbe stata sancita nel trattato di Potsdam –, ma all’epoca pochi in Occidente immaginavano che la pulizia etnica operata dai sovietici si sarebbe rivelata tanto estesa e violenta.

Altri elementi del capitalismo e anche del liberalismo furono, per qualche tempo, conservati. Fattorie, imprese e attività commerciali private sopravvissero per tutto il 1945 e il 1946, e a volte più a lungo. Qualche giornale e periodico indipendente continuò a uscire e qualche chiesa rimase aperta. In alcuni paesi si permise addirittura che partiti e politici non comunisti, anche se selezionati, proseguissero nelle loro attività. Ma tutto questo non avvenne perché i sovietici e i loro alleati dell’Europa orientale fossero dei democratici di idee liberali. Essi giudicavano tali elementi meno importanti, a breve termine, della polizia segreta, della radio, della pulizia etnica e del controllo dei gruppi giovanili e delle altre organizzazioni civili. Non era un caso che i giovani comunisti ambiziosi andassero sempre a lavorare in uno di questi settori. Dopo l’adesione al partito, nel 1945, allo scrittore comunista Wiktor Woroszylski furono offerte tre alternative: il movimento giovanile comunista, la polizia segreta o il dipartimento della Propaganda, che si occupava dei mass media.27

Neanche le libere elezioni che si tennero in alcuni paesi nel 1945 e 1946 erano un segno di tolleranza da parte dei comunisti. I partiti comunisti dell’URSS e dell’Europa dell’Est le permisero perché convinti che, grazie al controllo della polizia segreta e della radio e alla massiccia influenza sui giovani, avrebbero vinto. Ovunque, i comunisti credevano nel potere della loro propaganda e, nei primi anni dopo la fine della guerra, con buone ragioni. Furono in molti allora, per disperazione, disorientamento, pragmatismo, cinismo o motivi ideologici, a aderire al Partito comunista, e non soltanto in Europa orientale, ma anche in Francia, Italia e Gran Bretagna. In Iugoslavia il Partito comunista di Tito godeva, grazie al ruolo svolto nella resistenza, di autentica popolarità. In Cecoslovacchia, occupata da Hitler nel 1938 grazie all’atteggiamento conciliante dell’Occidente, l’Unione Sovietica suscitò nei primi tempi reali speranze: si pensava che si sarebbe dimostrata una potenza più benevola. Persino in Polonia e in Germania, paesi dove il sospetto sulle motivazioni sovietiche era forte, l’impatto psicologico della guerra condizionò in molti cittadini la visione della situazione. Negli anni Trenta il capitalismo e la democrazia liberale avevano catastroficamente fallito. Per tanti era giunto il momento di provare qualcosa di diverso.

Benché per noi sia a volte difficile capirlo, i comunisti credevano nella propria dottrina. Se l’ideologia comunista ci sembra ora, con il senno di poi, sbagliata, questo non significa che all’epoca non ispirasse una fervente fede. La gran parte dei dirigenti comunisti dell’Europa orientale e molti dei loro seguaci erano realmente convinti che prima o poi la maggioranza dei lavoratori avrebbe acquisito una coscienza di classe, capito il suo destino storico e votato per un regime comunista.

Si sbagliavano. Nonostante le intimidazioni, la propaganda e persino la reale attrazione che il comunismo esercitava su alcuni, sconvolti dalla guerra, i partiti comunisti persero le prime elezioni in Germania, Austria e Ungheria con un ampio margine. In Polonia, i dirigenti del partito tastarono il terreno con un referendum e, visti i cattivi risultati, abbandonarono del tutto l’idea di libere elezioni. In Cecoslovacchia il Partito comunista ottenne buoni risultati in una tornata elettorale iniziale, nel 1946, e si accaparrò un terzo dei voti. Ma quando divenne chiaro che nelle elezioni successive, nel 1948, sarebbe andata molto peggio, i suoi dirigenti optarono per un colpo di Stato. Le politiche più dure imposte al blocco orientale nel 1947 e 1948 non furono quindi semplicemente, e certo non solo, una reazione alla guerra fredda. Furono anche una reazione al fallimento. L’Unione Sovietica e i suoi alleati locali non erano riusciti a conquistare il potere pacificamente. Non erano riusciti a ottenere un controllo assoluto, e neanche sufficiente. Nonostante l’influenza che esercitavano sulla radio e sulla polizia segreta, non erano popolari né oggetto di diffusa ammirazione. Il numero dei loro seguaci stava rapidamente scemando, persino in paesi come la Cecoslovacchia e la Bulgaria, dove essi avevano inizialmente goduto di qualche autentico sostegno.28

Di conseguenza, i comunisti locali, consigliati dagli alleati sovietici, ricorsero alle tattiche più drastiche già impiegate, e con successo, in URSS. La seconda parte di questo libro descrive tali tecniche: nuove ondate di arresti, l’espansione dei campi di lavoro, un controllo molto più stretto su media, intellettuali e arti. Certi modelli furono seguiti quasi ovunque: prima l’eliminazione dei partiti «di destra» o anticomunisti, poi la distruzione della sinistra non comunista e quindi l’eliminazione dell’opposizione in seno al Partito comunista stesso. In alcuni paesi le autorità si spinsero fino a montare processi farsa in stile prettamente sovietico. Infine, i partiti comunisti della regione avrebbero tentato di cancellare tutte le organizzazioni indipendenti superstiti, di reclutare seguaci, invece, per le organizzazioni di massa controllate dallo Stato, di sottoporre a controlli molto più rigidi l’educazione e di scavare la terra sotto i piedi alle Chiese cattolica e protestante. Essi crearono nuove, onnicomprensive forme di propaganda educativa, promossero parate e conferenze pubbliche, coprirono il territorio di striscioni e manifesti, organizzarono campagne di raccolta firme e manifestazioni sportive.

Ma avrebbero di nuovo fallito. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, in tutta la regione si assistette a una serie di piccole e grandi sollevazioni. Nel 1953 gli abitanti di Berlino Est scesero in piazza in manifestazioni di protesta cui misero fine i carri armati sovietici. Seguirono, nel 1956, due grandi rivolte: in Polonia e in Ungheria. In seguito a questi eventi i comunisti dell’Europa dell’Est ricorsero di nuovo a tattiche più moderate. Ma avrebbero continuato a fallire, e a passare da una strategia all’altra, fino alla perdita definitiva del potere nel 1989.

Fra il 1945 e il 1953 l’Unione Sovietica trasformò radicalmente un’intera regione, dal Baltico all’Adriatico, dal cuore del continente europeo alle sue periferie meridionali e orientali. In questo libro, però, mi concentrerò sull’Europa centrale. Pur accennando anche alla Cecoslovacchia, alla Romania, alla Bulgaria e alla Iugoslavia, dedicherò la mia attenzione soprattutto all’Ungheria, alla Polonia e alla Germania Est. Ho scelto questi tre paesi non perché essi fossero simili, bensì perché erano molto diversi.

Diversa era, innanzitutto, la loro esperienza della guerra. La Germania era stata l’aggressore principale e, poi, il principale sconfitto. La Polonia aveva combattuto duramente contro l’occupazione tedesca e s’era schierata con gli Alleati, anche se, infine, non aveva goduto dei frutti della vittoria. L’Ungheria aveva tenuto una posizione intermedia, sperimentando l’autoritarismo, collaborando con la Germania e cercando in seguito di cambiare fronte per scoprire che ormai era troppo tardi. Ben diverse erano anche le loro esperienze storiche. La Germania era stata per decenni la potenza politica ed economica dominante nell’Europa centrale. La Polonia, se per tutto il XVII secolo era stata un impero continentale, nel XVIII era stata spartita fra altri tre imperi e nel 1795 aveva perso la sua sovranità, per riconquistarla solo nel 1918. Quanto all’Ungheria, la sua potenza e influenza erano giunte al culmine nella prima parte del XX secolo, ma, dopo la prima guerra mondiale, essa aveva perduto due terzi del proprio territorio, un’esperienza così traumatica che se ne avvertono tuttora gli echi nella politica nazionale.

Negli anni immediatamente precedenti la guerra, nessuno di questi tre paesi si poteva definire, a rigor di termini, democratico. Ma tutti avevano esperienza di liberalismo politico, governo costituzionale ed elezioni. In tutti esistevano Borse, investimenti stranieri, società di capitali e leggi che tutelavano i diritti di proprietà. Tutti avevano istituzioni civili – chiese, organizzazioni giovanili, associazioni di categoria – da centinaia di anni, oltre che una lunga tradizione in materia di stampa, editoria e testate giornalistiche. Il primo quotidiano era apparso in Polonia nel 1661. I tedeschi, prima dell’ascesa di Hitler al potere, nel 1933, avevano prodotto un’immensa varietà di mezzi di comunicazione in competizione fra loro. Tutti avevano complessi legami economici e culturali con l’Europa occidentale, legami molto più forti, negli anni Trenta, di quelli con la Russia. Nulla nella loro storia o cultura li destinava a trasformarsi per forza in dittature totalitarie. La Germania occidentale, pur culturalmente identica a quella orientale, sarebbe divenuta una democrazia liberale, e così l’Austria, che aveva fatto a lungo parte dell’impero asburgico insieme a Cecoslovacchia e Ungheria.

A volte, vista retrospettivamente, la storia sembra inevitabile, e nei decenni successivi all’imposizione del comunismo alcuni cercarono motivazioni post hoc ai regimi comunisti dell’Europa dell’Est. La metà orientale del continente, si disse, era più povera della metà occidentale (ma non era, ovviamente, il caso della Germania); le nazioni della regione erano meno sviluppate (ma, a paragone della Grecia, della Spagna e del Portogallo, non lo erano l’Ungheria e la Polonia) o meno industrializzate (ma i territori cechi erano tra i più industrializzati d’Europa). Dalla prospettiva del 1945, tuttavia, nessuno che guardasse al futuro poteva prevedere che l’Ungheria, con i suoi antichi legami con le terre germanofone dell’Ovest, la Polonia, con la sua tradizione di accanito antibolscevismo, e la Germania Est, con il suo passato nazista, sarebbero rimaste sotto il controllo politico sovietico per quasi mezzo secolo.

Quando questi paesi caddero sotto il dominio politico dell’URSS, pochi, al di fuori della regione, capirono che cosa era successo e perché. Anche oggi molti continuano a guardare all’Europa dell’Est unicamente attraverso il prisma della guerra fredda. Con qualche eccezione, i libri occidentali sull’Europa orientale del dopoguerra si concentrano per la maggior parte sul conflitto Est-Ovest, sulla divisione della Germania («la questione tedesca») e sulla nascita della NATO e del patto di Varsavia.29 La stessa Hannah Arendt ebbe a liquidare la storia della regione nel dopoguerra come di scarso interesse: «Fu come se questo ripetesse con estrema fretta tutte le fasi dalla Rivoluzione d’ottobre alla creazione della dittatura totalitaria. La vicenda, per quanto indicibilmente orribile, non è quindi in sé molto interessante e varia ben poco da paese a paese».30

Ma Arendt aveva torto: nell’Europa dell’Est non si assistette a una ripetizione delle complicate fasi della Rivoluzione d’ottobre. I leader russi applicarono nella regione solo le tecniche che avrebbero avuto una possibilità di successo e minarono solo le istituzioni che ritenevano assolutamente necessario distruggere. Per questo la storia della regione riveste tanto interesse: dice di più sulla mentalità totalitaria, sulle priorità sovietiche e sul modo di pensare sovietico di qualunque studio dedicato alla storia dell’URSS. Inoltre, cosa ancora più importante, dice di più su come gli esseri umani reagiscono all’imposizione del totalitarismo di quanto potrebbe dirci qualunque monografia su questo o quel paese.

Un’ampia varietà di studiosi, in anni recenti, ha iniziato a riconoscerlo. Nei due decenni seguiti al crollo del comunismo e all’apertura degli archivi in tutta l’Europa centrale, in Germania e in Russia, all’Europa dell’Est è stata dedicata un’enorme quantità di ricerche. Un’attenzione particolare hanno ricevuto, nel mondo anglofono, le conseguenze fisiche e umane della seconda guerra mondiale – specie nell’opera di Jan Gross, Timothy Snyder e Bradley Abrams – e la storia della pulizia etnica nella regione.31 Ancora meglio compresa è la sua politica internazionale. Nello studio delle origini della guerra fredda e del conflitto Stati Uniti-Unione Sovietica sono oggi impegnati interi istituti.32 Nel trattare tali argomenti mi sono basata perlopiù su fonti secondarie.

Lo stesso si può dire della storia politica dell’Europa dell’Est, raccontata molto bene attingendo a fonti d’archivio nelle lingue della regione. Non ho quindi cercato di replicare l’opera di ottimi storici quali: Andrzej Paczkowski e Krystyna Kersten, i cui scritti sui vertici comunisti e la polizia segreta polacchi restano ineguagliati; Norman Naimark, che sull’occupazione sovietica della Germania orientale ha scritto un’opera che, fra quelle in inglese, è divenuta un classico; Peter Kenez e László Borhi, autori di superbe ricerche sulle macchinazioni politiche in Ungheria; Bradley Adams, Mary Heimann e Karel Kaplan, che hanno descritto il periodo in Cecoslovacchia.33 Eccellenti articoli e interi libri sono stati dedicati anche ad argomenti più specifici. Fra i migliori, sempre in inglese, includerei i lavori di John Connelly sulla stalinizzazione delle università dell’Europa dell’Est, di Catherine Epstein e Marci Shore sugli intellettuali comunisti e di sinistra, di Mária Schmidt sui processi farsa, di Martin Mevius sul simbolismo nazionale in Ungheria e di Mark Kramer sulla destalinizzazione e i fatti del 1956.34

Storie generali sull’Europa dell’Est nel suo insieme sono molto più rare, non fosse altro che per difficoltà pratiche. Non è facile trovare uno storico in grado di leggere tre o quattro lingue diverse, per non dire nove o dieci. Una risposta, spesso, la offrono i volumi collettanei, e ne esistono almeno due recenti ottimi: Stalinism Revisited: The Establishment of the Communist Regimes in East-Central Europe and the Dynamics of the Soviet Bloc, a cura di Vladimir Tismaneanu, e The Establishment of Communist Regimes in Eastern Europe, 1944-1949, a cura di Norman Naimark e Leonid Gibianskii. Se entrambi i volumi contengono saggi eccellenti, non necessariamente queste pubblicazioni cercano modelli o stabiliscono confronti. E siccome io volevo fare esattamente questo, sono ricorsa all’aiuto di due ricercatori e traduttori straordinari, entrambi scrittori in proprio, Regine Wosnitza a Berlino e Attila Mong a Budapest. Inoltre, mi sono affidata alla mia conoscenza del polacco e del russo.

Benché sul periodo sia stato scritto molto, rimangono ancora tante, tante storie da raccontare. Nel prepararmi a scrivere questo libro ho lavorato negli archivi di ex polizie segrete quali l’IPN a Varsavia, gli ÁBTL in Ungheria e la BStU (l’archivio della Stasi) a Berlino, nonché in archivi di ministeri, di accademie d’arte tedesche, dell’istituto cinematografico ungherese e delle radio polacca e tedesco-orientale, per citarne solo alcuni. Inoltre, ho attinto a diverse nuove, o relativamente nuove, raccolte di documenti sovietici sul periodo, fra cui: i due volumi di Vostočnaja Evropa v dokumentach rossijskich archivov, 1944-1953 gg. (L’Europa orientale nei documenti degli archivi russi, 1944-1953); i due volumi di Sovetskij faktor v vostocnoj Evrope, 1944-1953 (Il fattore sovietico nell’Europa orientale, 1944-1953); i tre volumi sulla politica dell’occupazione sovietica nella Germania Est, tutti pubblicati a Mosca da editori russi; e un’opera in sette volumi sullo stesso argomento pubblicata dall’archivio di Stato russo.35 Una commissione congiunta di storici polacchi e ucraini ha ora raccolto un’imponente serie di documenti sulla storia dei reciproci rapporti fra i due paesi. Inoltre, l’archivio militare polacco a Varsavia possiede una vasta raccolta di documenti copiati da archivi russi nei primi anni Novanta. La Central European University Press, infine, ha pubblicato due ottime raccolte di documenti sulle rivolte del 1953 in Germania e del 1956 in Ungheria; e un’ampia varietà di documenti è stata pubblicata in polacco, ungherese e tedesco.

Oltre a consultare archivi, per apprendere da persone che avevano effettivamente vissuto quel periodo e per sentirle raccontare con il loro linguaggio gli eventi e le emozioni provate all’epoca, ho condotto in Polonia, Ungheria e Germania una serie di interviste. So bene che è stata forse l’ultima opportunità per farlo; mentre scrivevo questo libro, diverse persone che avevo intervistato nelle fasi iniziali sono scomparse. Rimango profondamente grata a loro e alle loro famiglie per avermi permesso di interrogarle diffusamente in quel momento della loro vita.

Questa ricerca si è posta una varietà di obiettivi. Nei documenti dell’epoca ho cercato la prova della deliberata distruzione della società civile e della piccola impresa. Ho studiato i fenomeni del realismo sociale e dell’educazione comunista. Ho raccolto la maggiore quantità possibile di informazioni sulla creazione e i primi sviluppi delle polizie segrete della regione. Tramite letture e conversazioni ho cercato di capire come le persone comuni abbiano imparato a fare fronte ai nuovi regimi; come, volenti o nolenti, abbiano con essi collaborato; come e perché abbiano aderito al partito e ad altre istituzioni dello Stato; come abbiano opposto resistenza, attiva o passiva; come siano giunte a compiere scelte terribili cui la maggior parte di noi in Occidente, ora, non si trova mai di fronte. Soprattutto ho cercato di capire il totalitarismo reale – non il totalitarismo in teoria, ma in pratica – e come nel XX secolo esso abbia modellato la vita di milioni di europei.

I

ORA ZERO

La folle orgia di macerie, fili di ferro aggrovigliati, cadaveri contorti, cavalli morti, pezzi ribaltati di ponti saltati in aria, zoccoli sanguinanti strappati a cavalli, armi rotte, munizioni sparse, vasi da notte, lavabi arrugginiti, paglia e viscere di cavalli galleggianti in pozze di fango misto a sangue, macchine fotografiche, carcasse di automobili e di carri armati: tutte testimonianze dell’atroce sofferenza di una città…

TAMÁS LOSSONCZY, Budapest, 19451

Come trovare le parole per trasmettere con verità e accuratezza l’immagine di una grande capitale distrutta fino a essere quasi irriconoscibile; di una nazione un tempo potente che ha cessato di esistere; di un popolo conquistatore così brutalmente arrogante e ciecamente sicuro della propria missione di razza padrona … che ora vedete frugare tra le proprie rovine, esseri umani spezzati, inebetiti, tremanti, affamati, senza volontà, scopo o orientamento.

WILLIAM SHIRER, Berlino, 19452

Mi sembrava di camminare su cadaveri, di poter mettere il piede in ogni momento in una pozza di sangue.

JANINA GODYCKA-CWIRKO, Varsavia, 19453

Per tutta la notte si udiva l’eco delle esplosioni e per tutto il giorno il fuoco dell’artiglieria. Nell’intera Europa orientale, ad annunciare l’arrivo dell’Armata Rossa furono il frastuono delle bombe, il crepitare delle mitragliatrici, il rullare dei carri armati, il rombare dei motori e gli edifici in fiamme. All’avvicinarsi della linea del fronte la terra tremava, i muri vibravano, i bambini gridavano. Poi tutto cessava.

La fine della guerra, ovunque e in qualunque momento giunse, portò con sé un improvviso e inquietante silenzio. «Una notte troppo tranquilla» scrisse un’anonima cronista del termine del conflitto a Berlino. La mattina del 27 aprile 1945 uscì dal portone della sua casa e non vide nessuno: «Neppure un civile. Per le strade i russi se ne stanno ancora fra di loro. Ma in ogni casa si sussurra e si trema. Ci fosse qualcuno capace di rappresentarlo, questo sotterraneo mondo della metropoli, nascosto per la paura».4

La mattina del 12 febbraio 1945, il giorno in cui l’assedio della città si concluse, un impiegato dello Stato ungherese fu testimone del medesimo silenzio per le strade di Budapest. «Mi recai nel quartiere del Castello, non un’anima da nessuna parte. Percorsi via Werbőczy. Nient’altro che cadaveri e rovine, carri pieni di rifornimenti e carretti … Andai in piazza Szentháromság e decisi di dare un’occhiata al Consiglio, nel caso ci fosse qualcuno. Deserto. Tutto sottosopra e non un’anima…»5

Anche Varsavia, una città già distrutta prima della fine della guerra – gli occupanti nazisti l’avevano rasa al suolo dopo la rivolta dell’autunno –, piombò nel silenzio quando, il 16 gennaio 1945, l’esercito tedesco finalmente si ritirò. Władysław Szpilman, fra i pochissimi che avevano trovato rifugio tra le rovine, notò il cambiamento. «Seguì il silenzio» scrisse nel suo libro di memorie, Il pianista, «un silenzio così totale che neppure Varsavia, una città ormai morta da tre mesi, aveva mai conosciuto. Non sentivo più i passi delle sentinelle fuori dell’edificio. Non capivo cosa stesse accadendo.» La mattina seguente «il silenzio fu infranto da un rumore forte e risonante. L’ultima cosa che mi sarei aspettato di sentire»: era arrivata l’Armata Rossa e gli altoparlanti stavano trasmettendo, in polacco, la notizia della liberazione della città.6

Fu questo il momento chiamato a volte «Ora Zero», Stunde Null: la fine della guerra, la rotta della Germania, l’arrivo dell’Unione Sovietica, il momento in cui i combattimenti giunsero al termine e ricominciò la vita. La maggior parte delle storie della presa del potere comunista in Europa orientale inizia in questo preciso momento, ed è logico che sia così.7 Coloro che vissero questo passaggio di potere sentirono l’Ora Zero come una svolta: qualcosa di molto concreto finiva, e qualcosa di molto nuovo iniziava. Da quel momento, si dissero in molti, tutto sarebbe stato diverso. E lo fu.

Ma, se è logico dare inizio a qualunque storia della presa del potere comunista in Europa orientale con la fine della guerra, risulta anche, per certi versi, estremamente fuorviante. Nel 1944 o 1945 gli abitanti della regione non si trovavano di fronte a una tabula rasa, e non partivano da zero. Né emergevano dal nulla, senza precedenti esperienze, pronti a ricominciare da capo. Essi uscirono dagli scantinati delle loro case distrutte, o dalle foreste dove avevano vissuto come partigiani, o dai campi di lavoro in cui erano stati imprigionati e, se erano abbastanza sani, affrontarono lunghi e difficili viaggi per tornare a casa. Non tutti, inoltre, dopo la resa dei tedeschi, smisero di combattere.

Uscendo carponi dalle rovine, essi non si trovarono di fronte un territorio vergine, bensì distruzioni. «La guerra finì come finisce un tunnel» scrisse la memorialista ceca Heda Kovály: «Vedevi la luce davanti a te da molto lontano, un bagliore che si faceva sempre più intenso, e il suo fulgore, per te rannicchiata lì nel buio, sembrava tanto più abbagliante quanto più tempo occorreva per raggiungerlo. Ma quando finalmente il treno sbucò alla radiosa luce del sole, tutto ciò che vedesti fu una terra desolata, disseminata di erbacce e sassi, e un mucchio di rifiuti».8

Le fotografie dall’Europa orientale dell’epoca mostrano scene apocalittiche. Città rase al suolo. Ettari di macerie, paesi bruciati e, dove un tempo c’erano case, rovine carbonizzate e fumanti. Grovigli di filo spinato, resti dei campi di concentramento, di lavoro e per prigionieri di guerra; terreni spogli, sventrati dai cingoli dei carri armati, senza alcun segno di attività agricole, di allevamento, di vita di qualunque genere. Nelle città distrutte di recente si sentiva nell’aria il fetore dei cadaveri. «In tutte le descrizioni ho sempre trovato l’espressione “dolciastro fetore cadaverico”. Mi pare che l’aggettivo “dolciastro” sia impreciso e del tutto inadeguato» scrisse una sopravvissuta tedesca. «Questa esalazione non mi sembra affatto un odore; piuttosto qualcosa di solido, di viscoso, un impasto d’aria, un’esalazione che ristagna all’altezza del viso e delle narici; troppo ferma e impenetrabile per poter essere inspirata. Da togliere il fiato. Ti respinge come un pugno.»9

Le sepolture provvisorie erano ovunque, e la gente camminava per le strade con cautela, come si attraversa un cimitero.10 Finché ebbero inizio le esumazioni e, dai cortili e dai parchi cittadini, i cadaveri furono portati in fosse comuni. Le nuove sepolture erano spesso accompagnate da funerali e cerimonie, anche se, a Varsavia, una fu clamorosamente interrotta. Nell’estate del 1945 una processione funebre stava lentamente percorrendo le vie della città quando le persone in lutto, vestite di nero, videro qualcosa di straordinario: «Un tram di Varsavia, rosso e sferragliante», il primo a circolare in città dalla fine della guerra. «Sui marciapiedi i pedoni si fermarono, altri si misero a corrergli accanto battendo le mani e salutandolo a gran voce. Cosa straordinaria, anche il corteo funebre si fermò: coloro che accompagnavano il morto, contagiati dallo stato d’animo generale, si voltarono verso il tram e iniziarono anch’essi ad applaudire.»11

Anche questo era tipico. A volte i superstiti sembravano presi da una strana euforia. Era un sollievo essere vivi; al dolore si mescolava la gioia, e il lavoro, i commerci, la ricostruzione iniziarono immediatamente, spontaneamente. Nell’estate del 1945 Varsavia era un alveare brulicante di attività. Come scrisse Stefan Kisielewski: «Fra le rovine delle strade c’è una confusione mai vista prima. Il commercio: vivace. Il lavoro: in rapida crescita. Il senso dell’umorismo: ovunque. La folla, traboccante di vita, inonda le strade; nessuno penserebbe che si tratta delle vittime di un immenso disastro, di gente a malapena uscita da una catastrofe, o che vive in condizioni estreme, disumane…».12 In uno dei suoi romanzi, Sándor Márai descrisse Budapest in questo periodo:

Quanto restava di una città e di una società viveva di nuovo, con una gioia così sfrenata e testarda, con mille trucchi ed espedienti, come se non fosse successo nulla … Lungo i viali del centro di Pest, dentro ai portoni, si trovava ormai ogni ben di Dio, cibarie, articoli di profumeria, vestiti, scarpe, tutto quello che si poteva immaginare … E monete d’oro dell’epoca di Napoleone, morfina, strutto … Gli ebrei erano sbucati fuori dalle case marchiate con la stella gialla e nel giro di un paio di settimane a Budapest, in mezzo alle carcasse dei cavalli e ai cadaveri degli uomini, tra le macerie delle case, si poteva già contrattare il prezzo di pesanti stoffe inglesi, profumi francesi, liquori olandesi, orologi svizzeri…13

Questo entusiasmo per il lavoro e la rigenerazione sarebbe durato molti anni. Il sociologo britannico Arthur Marwick avanzò una volta l’ipotesi che, a fornire ai tedeschi un incentivo per ricostruire, per ritrovare un senso di orgoglio nazionale, potesse essere stata l’esperienza del fallimento nazionale. A contribuire al boom del dopoguerra, scrisse, fu forse la dimensione stessa del crollo della nazione: dopo l’esperienza della catastrofe economica e personale, i tedeschi si gettarono nella ricostruzione.14 Ma questa spinta a ricostruire, a tornare «normali», non riguardò solo la Germania, dell’Est e dell’Ovest. Polacchi e ungheresi, in memorie e conversazioni sul dopoguerra, parlano ripetutamente di come fossero alla disperata ricerca di istruzione, un lavoro normale, una vita senza violenze e sconvolgimenti continui. I partiti comunisti erano pronti a trarre profitto da questo anelito alla pace.

In Europa orientale, tuttavia, dove la violenza s’era dispiegata su una scala superiore a qualunque cosa la metà occidentale del continente avesse conosciuto, i danni alle proprietà erano più facili da riparare di quelli demografici. Durante il conflitto, la regione aveva conosciuto il peggio della follia ideologica tanto di Stalin quanto di Hitler. Entro il 1945 il territorio compreso fra Poznań a ovest e Smolensk a est era stato per la maggior parte occupato non una, ma due o addirittura tre volte. Dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939, Hitler l’aveva invaso da ovest occupando la Polonia occidentale, e Stalin da est occupando la Polonia orientale, gli Stati baltici e la Bessarabia. Nel 1941 Hitler aveva invaso a sua volta gli stessi territori da ovest. Nel 1943 la ruota era tornata a girare ed era stata l’Armata Rossa, da est, a marciare di nuovo sulla medesima regione.

Nel 1945, in altre parole, l’intera Europa orientale era stata percorsa dai sanguinari eserciti e dalle brutali polizie segrete non di uno, ma di due Stati totalitari, il che aveva provocato ogni volta profondi cambiamenti etnici e politici. Per citare un solo esempio, la città di Lwów era stata occupata due volte dall’Armata Rossa e una volta dalla Wehrmacht. Dopo la fine della guerra fu chiamata L’viv, non Lwów, non faceva più parte della Polonia orientale, bensì dell’Occidente dell’Ucraina sovietica, e i polacchi e gli ebrei che l’abitavano prima del conflitto erano stati uccisi o deportati e sostituiti da ucraini delle campagne circostanti.

Rispetto al resto del continente, l’Europa orientale, insieme all’Ucraina e agli Stati baltici, fu anche teatro della maggior parte delle uccisioni per motivi politici. «Hitler e Stalin giunsero al potere a Berlino e a Mosca» scrisse Timothy Snyder in Terre di sangue, storia ineguagliata delle stragi di massa dell’epoca, «ma le loro visioni di trasformazione riguardavano soprattutto le terre di mezzo.»15 Stalin e Hitler nutrivano il medesimo disprezzo per l’idea stessa di sovranità nazionale applicata a una qualunque delle nazioni dell’Europa dell’Est, e si adoperarono congiuntamente per eliminarne le élite. I tedeschi consideravano gli slavi sottouomini, non molto al di sopra degli ebrei, e, nei territori fra Sachsenhausen e Babi Yar, non ci pensarono due volte a ordinare arbitrari assassini per strada, esecuzioni pubbliche di massa o l’incendio di interi paesi per vendicare un solo nazista morto. L’Unione Sovietica, dal canto suo, giudicava i vicini occidentali roccaforti capitaliste e antisovietiche, la cui stessa esistenza costituiva per l’URSS una sfida. Nel 1939, e di nuovo nel 1944 e 1945, l’Armata Rossa e l’NKVD arrestarono, nei territori da poco conquistati, non soltanto nazisti e collaborazionisti, ma chiunque suscettibile in teoria di opporsi all’amministrazione sovietica: socialdemocratici, antifascisti, uomini d’affari, banchieri e commercianti, spesso le stesse persone prese di mira dai nazisti. Se in Europa occidentale non mancarono vittime civili, e accadde che soldati britannici e americani si rendessero responsabili di furti, maltrattamenti e soprusi, per la maggior parte quelli che essi cercavano di uccidere erano i nazisti, non i potenziali leader delle nazioni liberate. E, per la maggior parte, trattarono i capi della resistenza con rispetto, non con diffidenza.

Era a est, inoltre, che i nazisti avevano perseguito con la massima energia l’Olocausto e creato la maggior parte dei ghetti e dei campi di concentramento e di sterminio. Snyder osserva che, all’arrivo di Hitler al potere, nel 1933, gli ebrei costituivano meno dell’1 per cento della popolazione tedesca, e molti di essi riuscirono a fuggire. La visione hitleriana di un’Europa «libera dagli ebrei» divenne realizzabile soltanto quando la Wehrmacht invase la Polonia, la Cecoslovacchia, la Bielorussia, l’Ucraina, gli Stati baltici e, infine, l’Ungheria e i Balcani: lì viveva la maggior parte degli ebrei d’Europa. Dei 5,4 milioni di ebrei che morirono nell’Olocausto, la grande maggioranza veniva dall’Europa orientale. E la maggior parte degli altri fu portata lì per essere uccisa. La decisione di trasferire gli ebrei di tutta Europa all’est per procedere alla loro esecuzione era strettamente legata al disprezzo in cui i nazisti tenevano tutti gli europei orientali. Lì, in una terra di sottouomini, era possibile fare cose disumane.16

Soprattutto, fu in Europa orientale che nazismo e comunismo sovietico entrarono in conflitto. Se essi avevano iniziato la guerra da alleati, Hitler non aveva mai cessato di desiderare di muovere contro l’URSS per distruggerla e, dopo l’invasione tedesca, Stalin promise di fare altrettanto. Gli scontri fra l’Armata Rossa e la Wehrmacht, quindi, furono più feroci e sanguinosi a est di quelli che ebbero luogo più a occidente. I soldati tedeschi temevano realmente le «orde» bolsceviche, sulle quali avevano sentito tante terribili storie, e, all’avvicinarsi della fine del conflitto, combatterono contro di esse con tutta la forza della disperazione. Particolarmente profondo era il loro disprezzo per i civili, e inesistente qualunque rispetto per la cultura e le infrastrutture locali. Un generale tedesco, contravvenendo all’ordine di Hitler, lasciò in piedi Parigi per la considerazione sentimentale che nutriva per la città; altri generali tedeschi, invece, diedero completamente alle fiamme Varsavia e distrussero gran parte di Budapest senza pensarci un attimo. Neanche le forze aeree occidentali dimostrarono di preoccuparsi granché dell’antica architettura della regione: alle morti e alle distruzioni diedero il loro contributo anche i bombardieri alleati, infierendo non soltanto su Berlino e Dresda, ma, fra tante altre località, su Danzica e Königsberg (Gdańsk e Kaliningrad).

Quando il fronte orientale avanzò fino ad attestarsi nella stessa Germania, la battaglia non si fece che più intensa. L’Armata Rossa si concentrò sulla marcia su Berlino con una sorta di ossessione. Fin dall’inizio della guerra i soldati sovietici si salutavano al grido: «Ci vediamo a Berlino». Stalin voleva assolutamente raggiungerla prima che vi arrivassero gli altri Alleati. I suoi comandanti lo sapevano, e così i comandanti americani. Il generale Eisenhower, ben consapevole che i tedeschi a Berlino avrebbero combattuto fino alla morte, decise di salvare vite americane lasciando che a prendere la città fosse Stalin. Churchill era contrario: «Se [i russi] … prendono Berlino, non s’imprimerà indebitamente nella loro mente l’idea di avere dato alla vittoria comune il contributo di gran lunga maggiore, e questo non rischierà di condurli a un atteggiamento suscettibile, in futuro, di sollevare gravi e temibili difficoltà?».17 Ma ad avere la meglio fu la prudenza di Eisenhower, e americani e britannici avanzarono verso est lentamente: il generale George C. Marshall aveva dichiarato di essere «riluttante a mettere in pericolo vite americane a fini puramente politici», e il feldmaresciallo Sir Alan Brooke avrebbe sostenuto che «l’avanzata nel paese doveva in una certa misura coincidere con quelli che sarebbero stati infine i nostri confini».18 Intanto l’Armata Rossa avanzava verso la capitale tedesca, lasciando dietro di sé una scia di distruzioni.

A guardare i numeri, il risultato è desolante. In Gran Bretagna morirono per la guerra 360.000 persone, in Francia 590.000. Sono cifre spaventose, ma corrispondono a meno dell’1,5 per cento della popolazione di quei paesi. L’Istituto nazionale della memoria di Varsavia stima che in Polonia, invece, la guerra fece 5,5 milioni di vittime, 3 milioni delle quali erano ebrei. In totale perse la vita il 20 per cento circa dei polacchi, una persona su cinque. Anche in paesi in cui i combattimenti furono meno sanguinosi, la percentuale dei caduti fu più alta che in Occidente. In Iugoslavia morì un milione e mezzo di persone, il 10 per cento della popolazione. L’Ungheria e la Cecoslovacchia persero, rispettivamente, il 6,2 e il 3,7 per cento dei loro abitanti di prima della guerra.19 In Germania persero la vita fra i 6 e i 9 milioni di persone – a seconda di chi consideriamo «tedesco», visti tutti i mutamenti di confini –, cioè il 10 per cento della popolazione.20 Sarebbe stato difficile in Europa orientale, nel 1945, trovare una sola famiglia che non avesse subito una grave perdita.

Passata la tormenta, divenne inoltre chiaro che coloro che non erano morti vivevano spesso altrove. Nel 1945 la demografia, la distribuzione della popolazione e la composizione etnica di molti paesi della regione erano ben diverse da quelle che erano state nel 1938. In Occidente non s’è ancora compreso in tutta la sua portata come l’occupazione nazista dell’Europa orientale, con le ondate di deportazioni e reinsediamenti che l’avevano accompagnata, avesse provocato grandi spostamenti di popolazione. Nella Polonia e nella Cecoslovacchia occupate erano stati trasferiti, nel deliberato intento di mutare la composizione etnica di determinate regioni, «coloni» tedeschi, e gli abitanti di quelle zone erano stati espulsi o uccisi. Già nel dicembre 1939 polacchi ed ebrei furono scacciati dalle loro case nei migliori quartieri di Łódź per fare posto agli amministratori tedeschi e, negli anni successivi, circa 200.000 polacchi vennero costretti ad abbandonare la città per recarsi in Germania come lavoratori coatti, mentre gli ebrei furono ammassati in un ghetto, dove per la maggior parte morirono.21 Il regime d’occupazione tedesco insediò al loro posto dei tedeschi, fra cui persone di etnia germanica provenienti dagli Stati baltici e dalla Romania, alcune delle quali erano convinte di ricevere proprietà abbandonate o in disuso.22

Nel dopoguerra molti di questi cambiamenti sarebbero stati cancellati o vendicati. Gli anni 1945, 1946 e 1947 furono anni di profughi: tedeschi che si trasferivano a ovest, polacchi e cechi che facevano ritorno a est dal lavoro coatto e dai campi di concentramento in Germania, deportati che rientravano dall’Unione Sovietica, soldati di tutti i generi che tornavano da altre regioni, esuli che rimpatriavano dalla Gran Bretagna, dalla Francia o dal Marocco. Alcuni di essi fecero ritorno a casa, ma, scoprendo che tutto era cambiato, ne ripartirono. Secondo Jan Gross fra il 1939 e il 1943 c’erano in Europa circa 30 milioni di dispersi, trapiantati o deportati. E fra il 1943 e il 1948 furono trasferiti altri 20 milioni di persone.23 Krystyna Kersten ha osservato che fra il 1939 e il 1950 un polacco su quattro cambiò luogo di residenza.24

La grande maggioranza di questa gente tornò a casa senza niente, e fu subito costretta a chiedere aiuto, a chiese, enti di beneficenza o allo Stato, qualunque forma esso prendesse. Intere famiglie, autosufficienti prima della guerra, si trovarono in coda in uffici governativi per cercare di farsi assegnare una casa o un appartamento. Uomini che prima potevano contare su un lavoro indipendente e un salario mendicavano tessere del razionamento, speravano di trovare un posto nella burocrazia statale. La mentalità del profugo, espulso con la forza da casa propria, non è quella dell’emigrante che parte in cerca di fortuna: la sua stessa condizione lo porta alla dipendenza e a un senso di impotenza forse mai conosciuto prima.

A peggiorare le cose, alle spaventose devastazioni materiali si accompagnò, in Europa orientale, una spaventosa devastazione economica, e su una scala altrettanto incomprensibile. Non tutte le nazioni dell’Est europeo erano ricche prima della guerra, ma, rispetto alla metà occidentale del continente, nel 1939 la regione non era neanche tanto indietro, quanto nel 1945. Se durante il conflitto alcuni gruppi avevano tratto profitto dalla domanda di armi e carri armati – diversi storici dell’economia hanno osservato come, in quegli anni, la classe operaia si espanse, specie in Boemia e Moravia –, la seconda metà della guerra fu una catastrofe quasi per tutti.25 Nel 1945 e 1946 il prodotto nazionale lordo dell’Ungheria era la metà di quello del 1939. Secondo un calcolo gli ultimi mesi di guerra avevano distrutto circa il 40 per cento dell’infrastruttura economica del paese.26 A Budapest, la capitale, avevano subito danni i tre quarti degli edifici, il 4 per cento dei quali era totalmente distrutto e il 22 per cento inabitabile. La popolazione s’era ridotta di un terzo.27 I tedeschi, nel lasciare il paese, avevano portato con sé la maggior parte del materiale rotabile delle ferrovie; e l’esercito sovietico, a titolo di riparazione, si sarebbe preso gran parte del resto.28

Anche per la Polonia la stima generale dei danni s’attesta vicino al 40 per cento, ma certe zone avevano subito distruzioni molto più estese. Duramente colpita era stata soprattutto l’infrastruttura dei trasporti: la metà dei ponti del paese non esisteva più, e la stessa sorte era toccata a porti, impianti portuali e ai due quinti delle ferrovie. La maggior parte delle grandi città polacche era disseminata di macerie: erano andati perduti appartamenti e case, monumenti antichi, opere d’arte, università e scuole. Nel centro di Varsavia il 90 per cento circa degli edifici era parzialmente o completamente distrutto: i tedeschi, ritirandosi, li avevano fatti sistematicamente saltare in aria.29

Immani distruzioni avevano subito anche le città della Germania, sia per i bombardamenti aerei alleati, che avevano provocato immensi incendi, sia per la pervicacia di Hitler, che aveva voluto che i suoi soldati combattessero fino all’ultimo istante, strada per strada. E in Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania, dove le devastazioni non erano state così estese e non vi erano stati bombardamenti aerei, i danni erano ugualmente pesantissimi. La Romania, per esempio, aveva perso i suoi campi petroliferi, che prima del 1938 contribuivano per un terzo al reddito nazionale.30

Ma la guerra aveva alterato le economie della regione anche in altri modi, più difficili da quantificare. In due saggi giustamente celebri sulle conseguenze sociali del conflitto, Jan Gross e Bradley Abrams hanno sottolineato come in gran parte dell’Europa orientale – certamente in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia e Romania, oltre che in Germania – l’espropriazione della proprietà privata su larga scala avesse avuto inizio durante la guerra, sotto i regimi nazista e fascista, non dopo, sotto il comunismo. Alla confisca di massa dei beni e delle aziende ebraici in Europa centrale, da parte dello Stato o degli occupanti tedeschi, aveva fatto seguito, con il procedere dell’occupazione, una più ampia germanizzazione. A volte s’era ricorso, a questo fine, a stratagemmi: le banche ceche venivano poste sotto il controllo di banche tedesche che, quindi, potevano spesso «stabilire se una banca o un’azienda ceca fosse o no solvibile e, in caso di insolvenza, le operazioni di salvataggio erano affidate a banche o aziende tedesche che, in questo modo, ne assumevano il controllo».31 In qualche caso, invece, il controllo era imposto direttamente. In Polonia era accaduto spesso che a capo di imprese e attività ancora appartenenti, tecnicamente, a polacchi fossero posti manager e dirigenti tedeschi.

L’occupazione, inoltre, aveva riorientato le economie regionali. Fra il 1939 e il 1945 le esportazioni verso la Germania erano raddoppiate e a volte triplicate, e così gli investimenti tedeschi nelle industrie locali. Già a partire dai primi anni Trenta economisti tedeschi avevano propugnato la creazione in Europa orientale di colonie economiche e, nel corso dell’occupazione, imprese tedesche avevano iniziato a realizzarle, spesso appropriandosi di imprese e attività ebraiche e anche non ebraiche.32 La regione era divenuta un mercato autonomo, chiuso, quale non era mai stata in passato.33 Il risultato fu che, con il crollo del Reich, si spezzarono anche i suoi legami commerciali internazionali, cosa che in seguito rese più facile all’Unione Sovietica prendere il posto della Germania.

Per ragioni simili la disfatta tedesca generò anche una crisi di proprietà. Al termine del conflitto gli imprenditori, i manager e gli investitori tedeschi fuggirono o furono uccisi. Molte fabbriche vennero semplicemente abbandonate, lasciate senza proprietari. A prenderne il controllo furono a volte consigli operai, a volte le autorità locali. Queste proprietà abbandonate sarebbero state infine per la maggior parte nazionalizzate, se non erano già state smontate e trasferite «chiavi in mano», sorprendentemente senza grandi opposizioni, in Unione Sovietica, che considerava tutti i beni «tedeschi» legittime riparazioni di guerra.34 Nel 1945 il fatto che le autorità potessero confiscare proprietà private senza qualsivoglia compenso era ormai in Europa orientale un principio stabilito. Quando avrebbe avuto inizio la nazionalizzazione su scala più vasta, nessuno ne sarebbe stato minimamente sorpreso.

Di tutti i tipi di danni provocati dalla seconda guerra mondiale, i più difficili da quantificare sono quelli psicologici ed emotivi. La ferocia della prima guerra mondiale aveva creato una generazione di leader fascisti, intellettuali idealisti e artisti espressionisti che, nel tentativo di comunicare il loro disorientamento, avevano alterato la figura umana rappresentandola in forme e colori inumani. La seconda guerra mondiale, invece, essendo stata segnata, oltre che da combattimenti, da occupazioni, deportazioni e spostamenti di massa della popolazione civile, toccò molto più profondamente la vita quotidiana. La violenza costante, quotidiana, modellò la psiche in modi innumerevoli, non tutti facili da esprimere a parole.

Anche sotto questo aspetto, a est le cose andarono diversamente che a ovest, specie nei paesi anglosassoni. Cercando di spiegare le differenze mentali fra l’Europa e l’America del dopoguerra, il poeta polacco Czesław Miłosz raccontò come la guerra avesse mandato in frantumi il senso dell’ordine naturale delle cose di un uomo: «Prima, il passante che di sera si fosse imbattuto in un cadavere sul marciapiede sarebbe corso al primo telefono. Si sarebbe raccolto un capannello di curiosi e ci sarebbero stati scambi di osservazioni e commenti. Adesso ognuno sa che deve passare in fretta e alla larga da quel fantoccio afflosciato in una pozza scura e non fare inutili domande».

Sotto l’occupazione cittadini rispettabili cessarono di vedere nel banditismo un crimine, scrisse Miłosz, almeno quando era al servizio della resistenza. Ragazzi di rispettabili famiglie della classe media, ligie alla legge, si convertirono in spietati criminali: per loro «l’uccisione di un uomo non è un problema morale particolarmente complicato». Sotto l’occupazione divenne normale cambiare nome e professione, viaggiare con documenti falsi, mandare a memoria biografie inventate, vedere il proprio denaro perdere ogni valore dalla sera alla mattina, vedere rastrellare la gente per strada come si trattasse di bestie.35

I tabù sulla proprietà sparirono e il furto divenne un’attività di routine, anzi, patriottica. Si rubava per mantenere in vita il proprio gruppo di partigiani, per procurare cibo alla resistenza o dare da mangiare ai propri figli. Se a rubare erano gli altri, nazisti, criminali, partigiani, si guardava a essi con risentimento. Con l’avvicinarsi della fine della guerra l’epidemia di furti s’intensificò ancora di più. Nel romanzo di Sándor Márai La donna giusta, un personaggio si meraviglia dello spirito imprenditoriale dei ladri che passavano al setaccio le rovine degli edifici bombardati: «Pensavano che era tempo di organizzarsi per conto proprio in modo da salvare quanto non si erano già rubati i nazisti e le Croci Frecciate, e poi i russi insieme ai comunisti nostrani che si erano affrettati a rimpatriare … Pensavano fosse loro dovere di patrioti quello di mettere per tempo le mani su tutto ciò che si poteva ancora arraffare … Per questo hanno cominciato a “mettere in salvo” la roba».36

In Polonia, come ha scritto Marcin Zaremba, l’intervallo fra la ritirata degli occupanti nazisti e l’arrivo dell’Armata Rossa fu segnato da ondate di saccheggi a Lublino, Radom, Cracovia e Rzeszów; cittadini polacchi fecero irruzione in abitazioni e negozi abbandonati dai tedeschi, come spiegò uno di essi, «nemmeno per trovare qualcosa, o per prendere qualcosa, ma soltanto per rubare ai tedeschi, per appropriarsi di beni tedeschi, dopo che essi ci avevano preso tutto».37

Nei mesi che seguirono la fine della guerra un’ondata più organizzata di saccheggi si abbatté sugli ex territori della Germania, in Slesia e Prussia orientale, divenuti ora polacchi. Gruppi di saccheggiatori in automobili, camion e altri veicoli percorsero in lungo e in largo le città semivuote alla ricerca di mobili, vestiario, macchinari e altri oggetti preziosi. Degli «specialisti», a Wrocław e Danzica, andavano alla ricerca di macchine per il caffè e materiali da cucina per conto di ristoranti e bar di Varsavia. «All’inizio i saccheggiatori non si intendevano di libri rari» ricorda un memorialista «ma presto comparvero esperti anche in questo campo.» Furono depredate persino, in tutto il paese, ex proprietà ebraiche, nonché i luoghi di sepoltura ebraici, dove i contadini speravano di trovare «tesori sepolti» o denti d’oro. Ma la maggior parte dei saccheggiatori non discriminava fra gli obiettivi: attaccava allo stesso modo le proprietà dei gentili e degli ebrei. Dopo la rivolta di Varsavia anche la capitale polacca in macerie fu oggetto di saccheggi: all’ultimo, eroico atto della resistenza polacca fece seguito la razzia, a opera di persone d’ogni genere, «vicini di casa, passanti, soldati», dei caseggiati semidistrutti e dei negozi vuoti. Nel 1946 i campi attorno a Treblinka furono scavati alla ricerca di tesori, e nel settembre dello stesso anno dei passanti si buttarono addirittura, nei pressi di Łódź, sulle vittime di un incidente ferroviario, non per aiutarle, ma in cerca di oggetti preziosi.38

Se infine, in Polonia come altrove, la febbre dei saccheggi si placò, non è escluso che essa abbia contribuito alla tolleranza verso la corruzione e il furto di proprietà pubbliche, che divennero in seguito così diffusi. Anche la violenza era divenuta normale, e lo sarebbe rimasta per molti anni. Eventi che, solo pochi mesi prima, avrebbero causato una generale indignazione, non davano più fastidio a nessuno. Oltre settant’anni dopo un ungherese mi raccontò una scena terribile, che ricordava ancora con chiarezza, cui aveva assistito per strada a Budapest: il brusco arresto di un uomo che, di punto in bianco, era stato strappato ai suoi bambini. «Il padre stava tirando la carriola su cui erano seduti i suoi figli; i soldati sovietici non ci badarono, presero il padre e lasciarono i bambini in mezzo alla strada.» A nessuno dei passanti l’episodio parve avere qualcosa di strano.39 Quando alla cessazione ufficiale delle ostilità seguirono altre violenze – la brutale espulsione dei tedeschi, e non solo dei tedeschi, le aggressioni agli ebrei che tornavano a casa, gli arresti di uomini e donne che avevano combattuto contro Hitler, la continuazione della guerra partigiana in Polonia e negli Stati baltici –, nessuno trovò strano neanche questo.

Non tutti gli atti di violenza avevano motivazioni etniche o politiche. «Nessuna attività in paese si conclude senza uno scontro» ricordava un insegnante di campagna polacco.40 Era ancora facile procurarsi armi, e i tassi di omicidio erano alti. In molte zone dell’Europa orientale le campagne erano percorse da bande armate, i cui membri si definivano a volte partigiani, anche se non avevano alcun rapporto con nessuna struttura organizzata della resistenza, ma vivevano rubando e uccidendo. In tutte le città della regione erano all’opera bande di ex soldati alla deriva, e la violenza criminale sfumava nella violenza politica, tanto che i documenti pubblici non permettono sempre di distinguere l’una dall’altra. In due settimane, sul finire dell’estate del 1945, in una sola contea della Polonia la polizia registrò 20 omicidi, 86 rapine, 1084 casi di effrazione, 440 «reati politici» (non meglio definiti) e 125 casi di «resistenza all’autorità», 29 «altri» reati contro l’autorità, 92 incendi dolosi e 45 crimini sessuali. «Il problema principale della gente è la sicurezza» concludeva il rapporto di polizia. «Sarebbe meglio se ci fosse tranquillità qui, invece che aggressioni e furti.»41

Al crollo morale s’accompagnò il crollo delle istituzioni. Le istituzioni sociali e politiche polacche avevano cessato di funzionare nel 1939. Quelle ungheresi subirono la stessa sorte nel 1944, e quelle tedesche nel 1945. La catastrofe diffuse fra la gente un profondo cinismo sulle società in cui era cresciuta e i valori a cui era stata educata, e non c’è da meravigliarsene: si trattava di società deboli, i cui valori erano crollati troppo facilmente. L’esperienza della sconfitta nazionale – o per l’invasione e l’occupazione naziste nel 1939, o per l’invasione e l’occupazione alleate nel 1945, o per entrambe – fu incredibilmente dura per coloro che la vissero.

Da allora molti hanno cercato di raccontare che cosa significhi assistere al disintegrarsi di tutta la propria civiltà, vedere edifici e paesaggi della propria infanzia nella rovina più completa, doversi rendere conto che il mondo morale dei propri genitori e insegnanti non esiste più e che i dirigenti della propria nazione, prima guardati con tanto rispetto, hanno fallito. Ma, per coloro che non hanno vissuto nulla di tutto ciò, capirlo resta difficile. Parole come «deserto» e «vuoto», applicate a una catastrofe nazionale quale un’occupazione straniera, sono semplicemente insufficienti: non riescono a trasmettere la rabbia che la gente provava verso i propri leader dell’anteguerra e del tempo di guerra, verso sistemi politici che avevano fatto fallimento, verso il proprio «ingenuo» patriottismo e le pie illusioni dei propri genitori e insegnanti. L’ampiezza delle distruzioni, la perdita di case, famiglie, scuole, condannò milioni di persone a una sorta di radicale solitudine. Le diverse regioni dell’Europa orientale vissero questo crollo in momenti diversi, e l’esperienza non fu dappertutto identica. Ma in qualunque momento e forma si produsse, il fallimento nazionale ebbe profondi effetti, specie sui giovani, molti dei quali conclusero semplicemente che tutto ciò che un tempo avevano ritenuto vero era falso. Inoltre la guerra li aveva lasciati senza una rete sociale e un contesto. Molti facevano pensare davvero al «carattere totalitario» di Hannah Arendt, all’«essere umano completamente isolato che, senza alcun vincolo sociale con i familiari, gli amici, i compagni e i conoscenti, senta di avere un posto nel mondo esclusivamente mercé l’appartenenza al movimento, al partito».42

Fu indubbiamente questo che accadde a Tadeusz Konwicki, romanziere polacco che visse la guerra da partigiano. Cresciuto in una famiglia patriottica nei dintorni di Vilnius, in quella che era allora la Polonia orientale, durante il conflitto aderì con entusiasmo al braccio armato della resistenza polacca, l’Esercito interno. Prima combatté contro i nazisti, poi, per un certo periodo, la sua unità si volse contro l’Armata Rossa. Finché la loro lotta degenerò in rapine a mano armata e atti di violenza gratuiti, ed egli iniziò a chiedersi perché continuasse a combattere. Alla fine lasciò le foreste e si trasferì in Polonia, uno Stato i cui confini non includevano più la sua casa di famiglia. Non appena arrivato, capì di non possedere niente. A diciannove anni, tutto ciò che aveva era un cappotto, un piccolo zaino e un fascio di documenti falsi. Non aveva famiglia, né amici, né un’istruzione superiore. La sua esperienza era condivisa da molti. Lucjan Grabowski, un giovane partigiano dell’Esercito interno che combatté nei pressi di Białystok, depose le armi più o meno nello stesso periodo, e anch’egli capì che non aveva niente: «Non avevo un vestito, quelli di prima della guerra erano troppo piccoli … Il mio portafoglio era vuoto, non conteneva che un biglietto da un dollaro ricevuto da non so chi e qualche migliaio di złoty che mio padre si era fatto prestare da un vicino di casa. Questo era tutto ciò che avevo da mostrare per i quattro anni passati a combattere contro gli occupanti».43

Konwicki aveva perso anche la fede in molto di ciò che in passato aveva creduto vero. «Durante la guerra» mi ha detto «vidi tanti, tanti massacri. Vidi un intero mondo di idee, umanesimo, moralità crollare. Ero solo, in questo paese in rovina. Che cosa dovevo fare? Che strada dovevo prendere?»44 Andò alla deriva: pensò di scappare in Occidente, cercò di riscoprire le sue radici «proletarie» lavorando come bracciante. Infine entrò, quasi per caso, nel mondo letterario comunista e nel Partito comunista, cosa che prima del 1939 non avrebbe mai ritenuto possibile. Per un brevissimo periodo divenne addirittura uno scrittore «stalinista», adottando lo stile e i manierismi dettati dal partito.

Il suo fu un destino drammatico, ma non inusuale. Anche la sociologa polacca Hanna Świda-Ziemba ha cercato di ricostruire la morale anteguerra della sua generazione, dei polacchi nati nei tardi anni Venti e primi anni Trenta, e ha dipinto un quadro molto simile. Essi erano cresciuti con una profonda fede nello Stato polacco, convinti del suo speciale destino. Particolarmente importante per loro, ha scritto, era il concetto stesso di «Polonia», perché lo Stato polacco moderno era nato soltanto nel 1918, ed essi erano i primi ad avere frequentato le sue scuole. Avevano imparato a oggettivare la nazione, ad aspirare a «servirla», a rapportarsi a essa usando nuove categorie, come quelle di fede e tradimento. Quando la nazione crollò, non rimase loro più niente.45 Molti riversarono la propria delusione sui politici d’anteguerra, sulla destra autoritaria e sui generali che avevano catastroficamente fallito nel preparare la Polonia al conflitto. Un altro scrittore polacco, Tadeusz Borowski, volse in satira il melenso patriottismo dei politici di prima della guerra: «La vostra patria: un angolo pacifico e un ceppo che brucia obbediente nel camino. La mia patria: una casa bruciata e una convocazione dell’NKVD».46

Per i giovani nazisti l’esperienza del fallimento fu ancora più apocalittica: era stato insegnato loro non soltanto il patriottismo, ma la fede nella superiorità fisica e mentale tedesca. Hans Modrow, che nella Germania Est sarebbe divenuto un dirigente comunista, aveva nel 1946 più o meno la stessa età di Konwicki, e non era meno disorientato. Membro fedele della Gioventù hitleriana, aveva aderito al Volkssturm, la «milizia del Popolo» che oppose l’ultima resistenza all’Armata Rossa nei giorni conclusivi della guerra. Allora era divorato dall’odio per i bolscevichi, che giudicava sottouomini, fisicamente e moralmente inferiori ai tedeschi. Ma nel maggio 1945 fu catturato dall’Armata Rossa e conobbe subito un momento di profonda disillusione. Insieme a un altro gruppo di prigionieri di guerra tedeschi, venne caricato su un camion e portato a lavorare in una fattoria:

Ero giovane e avevo voglia di dare una mano. In piedi sul camion, tesi agli altri i loro zaini, poi, per potere saltar giù, diedi il mio a uno. Non feci in tempo a scendere, che era stato rubato. Non mi fu mai restituito. E non era stato un soldato sovietico a rubarlo, ma uno di noi, di noi tedeschi. Solo il giorno dopo l’Armata Rossa ci rese tutti eguali: raccolsero tutti gli zaini, nessuno poté tenersene uno, e ci diedero un cucchiaio e una scodella per mangiare. Dopo quell’episodio iniziai a pensare al cosiddetto cameratismo dei tedeschi in modo diverso.47

Pochi giorni più tardi fu nominato autista di un capitano sovietico, che gli pose delle domande sul poeta tedesco Heinrich Heine. Modrow non ne aveva mai sentito parlare, e si sentì in imbarazzo nello scoprire che persone cui aveva sempre pensato come a «sottouomini» sembravano conoscere la cultura tedesca meglio di lui. Infine fu trasferito in un campo per prigionieri di guerra nei pressi di Mosca, dove, dopo una selezione, venne mandato a frequentare una scuola «antifascista» e a studiare il marxismo-leninismo, cosa che, a quel punto, accolse con entusiasmo. La sua esperienza del fallimento della Germania era così profonda che non tardò ad abbracciare un’ideologia che, per tutta la sua infanzia, aveva imparato a odiare. Con il passare del tempo iniziò persino a provare una sorta di gratitudine. Il Partito comunista gli offrì l’occasione per riparare agli errori del passato, i suoi e quelli della Germania. La vergogna che provava per essere stato un fervente nazista poté infine essere cancellata.

Ma i ricordi della guerra non potevano essere cancellati. Né era facile spiegare il passato a persone che non avevano conosciuto lo stesso livello di distruzioni, e non erano stati testimoni del punto cui poteva arrivare l’indifferenza umana per le sofferenze altrui. «Gli abitanti dei paesi occidentali, soprattutto gli americani, sembrano all’uomo dell’Est poco seri» ha scritto Miłosz. Non avendo subito esperienze simili, «la loro mancanza di immaginazione è terrificante».48 Miłosz ha omesso di aggiungere che era vero anche il contrario: gli europei dell’Est nutrivano, nei confronti dei loro vicini dell’Ovest, aspettative assolutamente irrealistiche.

Gli europei dell’Ovest e gli americani non guardarono mai al comunismo sovietico con indifferenza, né prima né dopo la guerra. Accesi dibattiti sul carattere del nuovo regime bolscevico e sul comunismo in generale s’erano scatenati nella maggior parte delle capitali occidentali ben prima del 1945. I quotidiani americani avevano iniziato a parlare a tinte vivide del «Pericolo Rosso» già nel 1918. Negli anni Venti e Trenta gran parte del dibattito pubblico a Washington, Londra e Parigi aveva per oggetto la minaccia comunista alla democrazia liberale.

Anche durante l’alleanza con Stalin del tempo di guerra, la maggioranza degli uomini di Stato britannici e americani che trattavano direttamente con la Russia nutriva una gran quantità di dubbi sulle sue intenzioni nel dopoguerra ed era ben consapevole del carattere del suo regime. «Le rivelazioni tedesche, ahimè, rispondono probabilmente a verità» disse Winston Churchill ai dirigenti polacchi in esilio dopo la fortuita scoperta da parte dei nazisti dei resti di migliaia di ufficiali polacchi sepolti nella foresta di Katyń, dove erano stati uccisi dalla polizia segreta sovietica: «I bolscevichi possono essere molto crudeli».49 George Kennan, il diplomatico statunitense che avrebbe plasmato la politica americana postbellica verso l’URSS, passò gli anni del conflitto a Mosca, da dove «bombardò i gradini inferiori della burocrazia di Washington con analisi della perversione comunista».50 Dean Acheson, allora vicesegretario di Stato, paragonò i negoziati con i delegati sovietici dell’estate del 1944 all’«avere a che fare con un’antiquata slot-machine … A volte si potevano accelerare le cose dandole degli scossoni, ma parlare con essa era inutile».51

Non che avesse realmente importanza. Nelle sue memorie Acheson sintetizzò le proprie osservazioni su quei negoziati scrivendo che «da noi al dipartimento di Stato, tuttavia, quel frustrante interludio russo fu presto dimenticato, tra gli eventi di più grande portata che si profilavano».52 In verità, durante la guerra sia Washington sia Londra ebbero quasi sempre «eventi di più grande portata» di cui preoccuparsi almeno fino al 1945. Fino alla conclusione del conflitto il comportamento russo in Europa orientale fu sempre una preoccupazione secondaria.

A metterlo in evidenza con il massimo della chiarezza sono i resoconti ufficiali e ufficiosi delle conferenze di Teheran e Jalta del novembre 1943 e febbraio 1945, in cui Stalin, Roosevelt e Churchill decisero con stupefacente noncuranza il destino di intere regioni europee. Quando, al primo incontro dei Tre Grandi a Teheran, si pose il problema dei confini della Polonia, Churchill disse a Stalin che avrebbe potuto tenersi il pezzo di Polonia orientale che s’era inghiottito nel 1939, e la Polonia, in cambio, avrebbe potuto «spostarsi a ovest, come soldati che fanno due passi a sinistra». Poi, «con l’aiuto di tre fiammiferi, diede una dimostrazione della sua idea di spostamento della Polonia verso occidente». Il che, si legge nei verbali, «piacque al maresciallo Stalin».53 A Jalta Roosevelt suggerì tiepidamente che la frontiera orientale della Polonia avrebbe potuto forse essere spostata in avanti per includere la città di Lwów e i campi petroliferi attorno a essa. Stalin sembrava disponibile, ma nessuno insistette, e l’idea fu lasciata cadere. Così venne decisa l’identità nazionale di centinaia di migliaia di persone.

Dietro a tutto ciò non c’era alcun sentimento ostile verso la regione, solo priorità diverse. La prima preoccupazione di Roosevelt a Jalta era la forma che avrebbero preso le nuove Nazioni Unite, che concepiva come un organismo destinato a prevenire la guerra in futuro; e per costruire quel nuovo sistema internazionale egli aveva bisogno della collaborazione sovietica. Inoltre gli occorreva l’aiuto di Mosca per l’invasione della Manciuria e aveva bisogno di utilizzare le basi russe in Estremo Oriente. Queste preoccupazioni erano semplicemente più importanti, per lui, del destino della Polonia o della Cecoslovacchia; e poi c’erano anche altre poste in gioco, dal futuro della monarchia italiana al petrolio del Medio Oriente. L’Europa orientale, se occupava un posto centrale nei progetti di Stalin per il dopoguerra, presentava per il presidente americano un interesse solo marginale.54

Churchill, dal canto suo, era profondamente consapevole della debolezza britannica. Non si faceva alcuna illusione sulla capacità della Gran Bretagna di costringere l’Armata Rossa, una volta entrata in Polonia, Ungheria o Cecoslovacchia, ad andarsene. Nelle sue memorie ricorda come, appena prima del summit di Jalta, avesse detto a Roosevelt che «avremmo dovuto occupare quanta più parte dell’Austria fosse possibile, poiché “era indesiderabile che una parte dell’Europa occidentale superiore al necessario fosse occupata dai russi”». Non si capisce bene in base a quali criteri l’Austria fosse, in quella fase, più Europa «occidentale» dell’Ungheria o della Cecoslovacchia. Ma il fatalismo di Churchill risuona forte e chiaro: una volta arrivata, l’Armata Rossa non se ne sarebbe più andata.55

Entrambi i leader sapevano inoltre che, finita la guerra, i loro elettori sarebbero stati impazienti di vedere mariti, fratelli e figli tornare a casa. Sarebbe stato molto difficile «vendere» un nuovo conflitto con l’URSS. La propaganda del tempo di guerra aveva ritratto Stalin come un gioviale «Zio Joe», un amico dei lavoratori un po’ rozzo, e sia Churchill sia Roosevelt avevano fatto le sue lodi in discorsi pubblici. A Londra dei simpatizzanti avevano organizzato concerti per raccogliere fondi a favore dell’Unione Sovietica ed eretto una statua di Lenin davanti all’edificio in cui il leader bolscevico aveva abitato in una soffitta.56 Negli Stati Uniti c’erano già uomini d’affari impazienti di trarre profitto dalla nuova amicizia: «A guerra finita [l’URSS] sarà, se non il principale cliente dell’America, almeno il suo cliente più sollecito» dichiarò il presidente della camera di commercio americana.57 Fare marcia indietro e dire ai britannici e agli americani stanchi della guerra che avrebbero dovuto restare in Europa per combattere l’Unione Sovietica sarebbe stato politicamente difficile, se non impossibile.

Ancora maggiori erano le difficoltà logistiche. Churchill, cui l’occupazione russa di Berlino non faceva affatto piacere, nella primavera del 1945 ordinò ai suoi strateghi di studiare la possibilità di un attacco alleato alle forze sovietiche in Europa centrale, usando eventualmente truppe polacche e persino tedesche. Il piano, denominato Operation Unthinkable, «Operazione impensabile», fu immediatamente liquidato come irrealistico. I suoi autori misero in guardia il primo ministro britannico: gli effettivi dell’Armata Rossa erano tre volte più numerosi di quelli britannici, e avrebbe potuto seguirne una campagna militare «lunga e costosa», se non addirittura una «guerra totale». Lo stesso Churchill scrisse a margine del documento che un attacco all’Armata Rossa era «altamente improbabile», anche se alcuni elementi dell’«Operazione impensabile» sarebbero più tardi confluiti nel piano strategico elaborato in vista di un eventuale attacco sovietico alla Gran Bretagna.58

Non mancava neanche, da parte occidentale, una certa ingenuità, come lamentò Miłosz: Roosevelt, in particolare verso la fine della vita, espresse ripetutamente la sua fiducia nelle buone intenzioni di Stalin. «Non preoccupatevi,» dichiarò nel 1944 al leader polacco in esilio Stanisław Mikołajczyk «Stalin non intende privare la Polonia della libertà: non oserebbe perché sa che il governo degli Stati Uniti è compatto dietro di voi.»59 Circa un anno più tardi i negoziatori americani e britannici acconsentirono ad accordare all’Unione Sovietica il comando della Commissione alleata di controllo a Budapest, l’organismo destinato a dirigere l’Ungheria dopo la guerra, alla rigorosa condizione che l’URSS, prima di impartire al governo ungherese qualsiasi istruzione, si consultasse con gli altri Alleati. Mosca non avrebbe neanche finto di farlo.60

In seguito, alcuni avrebbero sostenuto che la politica americana del dopoguerra fu influenzata da simpatizzanti comunisti nel governo americano ed «elementi filosovietici» a Washington.61 Anche se Alger Hiss, probabilmente il più famigerato agente sovietico, faceva parte della squadra di negoziatori degli Stati Uniti a Jalta, la sua influenza, ammesso che ne avesse, sarebbe stata superflua. Le trascrizioni mostrano con chiarezza che Churchill e Roosevelt avevano interessi ben precisi, e cacciare l’Unione Sovietica dall’Europa orientale non era fra questi.62 Ai negoziati erano presenti uomini pragmatici. «Jalta non fece altro che riconoscere la realtà dei fatti, com’erano e stavano per essere» ricordava un generale americano. «Per me non c’era alcuna scelta da compiere.»63

Creando forse disorientamento, la situazione rimase la stessa per tutta la guerra fredda. Anche quando la retorica occidentale si fece estremamente aggressiva nei confronti dell’Unione Sovietica, si prestò sempre molta attenzione a non scatenare un altro conflitto europeo. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non vollero mai una guerra con l’URSS, né allora né più tardi. Nel 1953, quando, dopo la morte di Stalin, a Berlino Est scoppiarono scioperi e rivolte, le autorità alleate di Berlino Ovest assunsero un atteggiamento estremamente prudente, fino a dissuadere i tedeschi occidentali dall’attraversare il confine per dare appoggio agli scioperanti.64 E all’epoca della rivoluzione ungherese, nel 1956, il segretario di Stato americano, John Foster Dulles, partigiano dichiarato della guerra fredda, si affrettò a negare ogni coinvolgimento americano negli eventi, e assicurare all’Unione Sovietica che «non consideriamo queste nazioni potenziali alleati militari».65

In verità gli europei dell’Est erano spesso più ingenui degli Alleati occidentali. In Ungheria i politici filobritannici erano fermamente convinti che la Gran Bretagna li avrebbe liberati. Molti, per citare le parole dello storico László Borhi, «nutrivano una fede irrazionale nella presunta importanza geopolitica dell’Ungheria» e s’aspettavano, già nel 1944, un’invasione britannica dei Balcani. Il loro paese era stato un bastione della cristianità occidentale nella lotta contro l’impero ottomano, e pensavano che avrebbe continuato a svolgere questo ruolo nel XX secolo. «Le potenze occidentali non possono permettersi di lasciare alla Russia il dominio della regione geograficamente importante [dell’Ungheria]» dichiarò con sicurezza un diplomatico ungherese.66 Quanto ai polacchi, il cui futuro politico era stato effettivamente oggetto di accese discussioni fra i leader alleati, erano anch’essi convinti che i britannici non avrebbero lasciato a se stesso il paese in nome del quale avevano dichiarato guerra alla Germania, e che neanche gli americani, grazie alla lobby polacca negli Stati Uniti, li avrebbero abbandonati: prima o poi una terza guerra mondiale sarebbe dovuta scoppiare. Più tardi i tedeschi dell’Est avrebbero fatto fatica a credere che l’Occidente potesse accettare la fortificazione della frontiera tra le due Germanie. Come avrebbe potuto permettersi una Germania divisa?

Ma l’Occidente poteva permettersela e accettarla, esattamente come finì per accettare un’Europa divisa. Anche se nessuno all’Ovest – a Washington, Londra o Parigi – immaginava in che misura l’Armata Rossa avrebbe trasformato in termini materiali, psicologici e politici ogni paese che occupava, non si fecero molti sforzi perché tutto ciò non avvenisse.

VINCITORI

Negli ultimi mesi sotto i nazisti eravamo quasi tutti filorussi. Aspettavamo la luce dall’est. Ma troppi ne sono stati bruciati. Sono accadute troppe cose incomprensibili. Le strade buie risuonano ancora ogni notte delle grida lancinanti di donne in preda all’angoscia.

RUTH ANDREAS-FRIEDRICH1

I russi … hanno fatto tabula rasa della popolazione locale come nessun altro dai tempi delle orde asiatiche.

GEORGE KENNAN2

A Budapest John Lukacs vide «un oceano grigioverde di russi tutti provenienti dall’est».3 In un sobborgo orientale di Berlino Lutz Rackow vide «carri armati, carri armati, carri armati, carri armati» e soldati che camminavano loro accanto, fra cui «amazzoni dalle trecce bionde».4 Era l’Armata Rossa: uomini e donne affamati, infuriati, esausti, induriti dalle battaglie, alcuni nelle stesse uniformi che indossavano a Stalingrado o Kursk due anni prima, tutti carichi di ricordi di terribili violenze, abbrutiti da quanto avevano visto, udito e fatto.

L’offensiva finale dei sovietici iniziò nel gennaio 1945, quando l’Armata Rossa varcò la Vistola, il fiume che attraversa il centro della Polonia. Marciando velocemente per l’Ovest del paese e gli Stati baltici devastati, gli «Ivan» conquistarono Budapest dopo un terribile assedio a metà febbraio, la Slesia in marzo. Il loro assalto a Königsberg, nella Prussia orientale, si concluse in aprile. A quella data due immensi eserciti, il Primo fronte bielorusso e il Primo fronte ucraino, erano ormai alla periferia di Berlino, pronti all’attacco finale. Hitler si uccise il 30 aprile. Una settimana più tardi, il 7 maggio, il generale Alfred Jodl, a nome dell’alto comando della Wehrmacht, si arrese incondizionatamente agli Alleati.

Ancora oggi valutare che cosa accadde in Europa orientale nel corso di quegli ultimi cinque mesi di guerra non è facile: degli eventi di quei mesi sanguinosi non tutti conservano gli stessi ricordi. Nella storiografia sovietica l’ultima fase della guerra è sempre descritta senza ambiguità come una serie di liberazioni. Secondo la narrazione classica, Varsavia, Budapest, Praga, Vienna e Berlino furono liberate dal giogo della Germania nazista; trionfo dopo trionfo, i fascisti furono annientati e, fra l’esultanza della popolazione, fu restaurata la libertà.

Altri raccontano la storia diversamente. Per molti decenni i tedeschi, specialmente i berlinesi, hanno parlato ben poco degli eventi del maggio 1945 e successivi. Ora, tuttavia, ricordano benissimo i saccheggi, le violenze arbitrarie e soprattutto gli stupri di massa che fecero seguito all’invasione sovietica. Altrove in Europa orientale l’Armata Rossa è ricordata anche per i suoi attacchi ai partigiani locali che avevano combattuto i tedeschi ma, ahimè, non erano comunisti, e per le ondate di violenza sia casuale sia mirata che seguirono il suo insediarsi. In Polonia, Ungheria, Germania, Cecoslovacchia, Romania e Bulgaria l’arrivo dell’Armata Rossa è raramente ricordato come una pura liberazione. Piuttosto, come il brutale inizio di una nuova occupazione.

Per molti, tuttavia, nessuna di queste due opposte versioni racconta tutta la storia. L’arrivo dell’Armata Rossa annunciò effettivamente la libertà a milioni di persone. Furono soldati sovietici ad aprire i cancelli di Auschwitz-Birkenau, Majdanek, Stuthoff, Sachsenhausen e Ravensbrück e a svuotare le prigioni della Gestapo. Furono essi a rendere possibile agli ebrei lasciare i loro nascondigli in fienili e cantine e fare lentamente ritorno a qualcosa di simile a una vita normale. Genia Zonabend, un’internata ebrea, varcò le porte di un piccolo campo di lavoro della Germania orientale ed entrò nelle prime case tedesche che incontrò, chiedendo da mangiare. Ricevette un rifiuto, finché un russo che passava ascoltò la sua storia e si assicurò che ricevesse cibo e, ricordava Genia, «persino acqua calda per lavarmi».5

Ma gli ebrei non furono i soli a beneficiare dell’aiuto sovietico. L’arrivo dell’Armata Rossa permise ai polacchi dell’Ovest della Polonia di tornare a parlare la loro lingua dopo che, per anni, era stato loro vietato usarla in pubblico. Dai negozi, tram e ristoranti delle città polacche ribattezzate con nomi tedeschi sparirono i cartelli che intimavano Nur für Deutsche («Riservato ai tedeschi»). Nella stessa Germania gli oppositori di Hitler esultarono all’arrivo dei soldati sovietici, come esultarono milioni di cechi e ungheresi. «Corsi in cortile e abbracciai il primo soldato sovietico che vidi» mi ha raccontato una donna ungherese, e non fu la sola.6 Un suo compatriota ha spiegato che cosa l’arrivo dell’Armata Rossa significò per lui e sua moglie:

Sentivamo di essere stati liberati. So che è un luogo comune, e che queste parole non hanno più alcun significato, ma, per quanto mi sprema il cervello, non riesco a pensare a un modo migliore per esprimere quello che provavamo se non dicendo: eravamo liberi. E non eravamo solo noi a sentirci così, seduti lì nel sotterraneo, a piangere e tenerci per mano: tutti provavano lo stesso sentimento, che il mondo sarebbe finalmente stato diverso, e valeva veramente la pena essere nati.7

Un polacco mi ha detto la stessa cosa: «Non provavamo sentimenti contrastanti nei loro confronti. Ci avevano liberato».8 Ma neanche coloro che più esultarono hanno mai negato che l’Armata Rossa lasciò dietro di sé un’incredibile scia di rovine. Nel raccontare ciò che accadde, molti hanno parlato di una «nuova invasione mongola», usando per evocare la scala senza precedenti della violenza un linguaggio tinto di xenofobia. A George Kennan venne da pensare a «orde asiatiche».9 Sándor Márai conservava il ricordo di «una razza umana completamente sconosciuta di cui non si possono prevedere le risposte o le reazioni».10 John Lukacs rammentava «scure, tonde facce mongole dagli occhi stretti, privi di curiosità e ostili».11

Se agli europei dell’Est i soldati sovietici parvero degli stranieri era, in parte, perché essi sembravano tanto diffidenti nei loro confronti e, inoltre, tanto scioccati dalla ricchezza materiale della regione. Fin dalla rivoluzione i russi non avevano sentito parlare che della povertà, della disoccupazione e della miseria imperanti nel mondo capitalista, e della superiorità del loro sistema. Ma, non appena entrati in Polonia orientale, all’epoca fra le regioni più povere d’Europa, videro comuni contadini che possedevano diversi polli, due mucche e più di un cambio di vestiti. Videro piccole città di campagna con chiese in pietra, strade lastricate e gente in bicicletta, mezzo ancora sconosciuto nella maggior parte della Russia. Videro fattorie con solidi fienili e colture piantate in file ordinate. Erano scene d’abbondanza a confronto della disperata povertà, delle strade di fango e delle minuscole baracche di legno delle campagne russe.

Quando poi si trovarono di fronte le chiese di Königsberg, gli appartamenti di Budapest, i mobili antichi di cui traboccavano le case di Berlino, donne «fasciste» che vivevano in quello che a loro sembrava un lusso inimmaginabile, i misteri dei gabinetti a sciacquone e gli apparecchi elettrici, lo shock giunse al massimo: «[I nostri soldati] hanno visto le case a due piani dei sobborghi fornite di elettricità, gas, servizi igienici. Giardini meravigliosamente curati, le ville della borghesia berlinese, lo sfarzo incredibile di castelli, tenute e residenze. Migliaia di soldati qui in Germania si guardano intorno e continuano a chiedersi furiosi: “Perché hanno invaso il nostro paese? Che cosa volevano da noi?”».12

Cercarono spiegazioni. Un commissario politico scrisse a Mosca che «questa è un’agricoltura da kulaki basata sullo sfruttamento del lavoro. Per questo tutto sembra ricco e bello. E quando uno dei nostri soldati dell’Armata Rossa, specie se politicamente immaturo, con una visione piccolo borghese della proprietà privata, paragona involontariamente una fattoria collettiva con una fattoria tedesca, elogia la fattoria tedesca. Persino alcuni dei nostri ufficiali ammirano le cose tedesche…».13 O forse era tutta roba rubata: «È evidente da ogni cosa che vediamo che Hitler ha rapinato tutta l’Europa per compiacere i suoi crucchi sanguinari» scrisse a casa un soldato. «Le loro pecore sono le migliori merino russe, e i loro negozi sono colmi di merci provenienti da tutti i negozi e le fabbriche d’Europa. Molto presto queste mercanzie compariranno nei negozi russi come nostri trofei.»14

Così i soldati sovietici si diedero a loro volta a rubare. Dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dagli Stati baltici e balcanici, nonché dalla Germania, furono portati via liquori e biancheria femminile, mobili e vasellame, biciclette e indumenti intimi. Un significato quasi mitico sembravano avere per i militari russi gli orologi da polso: se potevano, andavano in giro ostentandone al braccio una mezza dozzina. Un’emblematica fotografia di un soldato russo nell’atto di issare la bandiera sovietica sul Reichstag di Berlino dovette essere ritoccata per cancellare gli orologi che cingevano entrambe le braccia del giovane eroe.15 A Budapest questa ossessione entrò nel folklore locale e contribuì probabilmente a plasmare il modo di vedere l’Armata Rossa. Pochi mesi dopo la fine della guerra, un cinema di Budapest proiettò un cinegiornale sulla conferenza di Jalta. Quando il presidente Roosevelt sollevò il braccio rivolgendosi a Stalin, diversi spettatori gridarono: «Attento all’orologio!».16 Lo stesso accadde in Polonia, dove per molti anni i bambini avrebbero «giocato» ai soldati sovietici gridando Davai chasyi, «dammi il tuo orologio».17 Un serial televisivo dei tardi anni Sessanta, molto amato dai bambini, conteneva una scena in cui si vedevano soldati russi e polacchi accampati in tempo di guerra in edifici tedeschi abbandonati, dove avevano accumulato una grande collezione di orologi rubati.18

Per molti, questi furti preannunciarono l’amara delusione che aspettava coloro che avevano atteso con ansia l’arrivo delle truppe sovietiche. Márai racconta di un «vecchio signore … dall’aria patriarcale» che ricevette il suo primo visitatore sovietico con solennità e gli rivelò rispettosamente di essere ebreo:

Il russo sorrise, depose a terra la mitragliatrice, si avvicinò al vecchio e, secondo l’usanza russa, lo baciò su entrambe le guance. Anche lui era ebreo, disse. Poi, in silenzio, tenne strette fra le sue le mani del vecchio in segno d’amicizia.

Ma subito dopo, riappesa al collo la mitragliatrice, intimò all’anziano gentiluomo e al resto dei presenti di mettersi nell’angolo della stanza con la faccia al muro e le mani alzate … E il russo, con imperturbabile lentezza, prese a derubarli di ogni cosa, a proprio agio.19

Anche alcuni militari sovietici rimasero profondamente scossi da tutto ciò. Anni dopo lo scrittore Vasilij Grossman avrebbe raccontato a sua figlia che l’Armata Rossa, varcato il confine sovietico, «era cambiata in peggio». Una notte, ricordò, dormiva in una casa tedesca insieme a diversi altri soldati russi, fra cui un «imponente» colonnello dal «bonario volto russo», così sfinito che sembrava in procinto di crollare: «Per tutta la notte sentiamo dei rumori provenienti dalla stanza dove il colonnello esausto sta riposando. L’indomani mattina se ne è andato, senza salutare. Nella sua stanza regna il caos, il colonnello ha saccheggiato le credenze come un autentico barbaro».20

Quello che non veniva rubato, veniva spesso distrutto. I combattimenti per strada a Berlino e Budapest provocarono una gran quantità di quelli che ora chiameremmo «danni collaterali», ma l’Armata Rossa si diede anche a distruggere alla cieca, per il piacere di farlo, si direbbe. A Gniezno, culla del cristianesimo in Polonia, i carri armati sovietici abbatterono deliberatamente una cattedrale antica di un migliaio d’anni, priva di qualunque valore militare. Fotografie scattate all’epoca (e nascoste per settant’anni) mostrano i carri armati, unica presenza nella piazza, che sparano contro il monumento senza avere subito la minima provocazione.21 Occupata Breslavia, i soldati sovietici diedero deliberatamente alle fiamme gli edifici dell’antico centro cittadino, mandando in cenere l’inestimabile collezione di libri della biblioteca dell’università, oltre al museo della città e a numerose chiese.22

Sia i furti sia le distruzioni sarebbero durati parecchi mesi, facendosi con il tempo più sofisticati, fino ad assumere la forma ufficiale di «riparazioni». Ma per parecchi mesi proseguirono anche i furti che di ufficiale non avevano niente. Ancora nel 1946 funzionari della Germania Est lamentavano che in Sassonia degli ufficiali sovietici s’erano insediati in appartamenti privati e stavano ordinando di trasferire presso di loro dai castelli della regione mobili, dipinti e porcellane appartenenti alle collezioni statali sassoni: «Quando lasciano la zona, li portano con sé». Il proprietario del castello di Friesen, nei pressi di Reichenbach, lamentò la perdita di un tavolo del valore di 4000 Reichsmark (la valuta di prima della guerra), di tre tappeti che ne valevano 11.500, di un cassettone rococò da 18.000 Reichsmark e di una scrivania di mogano del valore di 5000 Reichsmark. Nulla indica che qualcuno di questi oggetti sia mai stato restituito.23

Più raccapriccianti, e in ultima istanza di più profondo significato politico, furono le violente aggressioni ai civili, iniziate ben prima che l’Armata Rossa giungesse a Berlino, quando attraversò la Polonia. Esse si intensificarono in Ungheria e toccarono un livello impressionante non appena le truppe sovietiche entrarono in Germania. A quanti si imbattevano in loro i soldati dell’Armata Rossa, abbrutiti e in preda al furore, sembravano rosi da un desiderio di vendetta. Erano furibondi per la morte di amici, mogli e figli, per i paesi bruciati e le fosse comuni che i tedeschi si erano lasciati alle spalle in Russia. Un giorno Grossman vide una colonna di centinaia di bambini sovietici che, liberati dai campi di prigionia tedeschi, camminavano lungo una strada in direzione est. Sul bordo della strada c’erano, solenni e immobili, soldati e ufficiali dell’Armata Rossa «intenti a studiare in silenzio i volti di quei bambini». Erano padri in cerca di figli e figlie deportati in Germania di cui non avevano più saputo nulla: «Un colonnello era rimasto lì per ore, eretto, irremovibile, lo sguardo tetro e malinconico. Tornò alla sua vettura sul far del crepuscolo: non aveva trovato suo figlio».24 Ma a contribuire a rendere furiosi i soldati sovietici erano probabilmente anche i loro stessi comandanti, le loro tattiche spietate e il loro costante ricorso alle minacce e alle spie politiche, nonché le perdite fra i propri ranghi. La storica Catherine Merridale, che ha intervistato centinaia di veterani, ritiene che la rabbia che essi esprimevano fosse spesso politica: «Consapevolmente o no … i soldati dell’Armata Rossa ben presto avrebbero dato sfogo a una rabbia che si era formata in decenni di oppressione di Stato e violenza endemica».25

A fare le spese di questa furia furono soprattutto, nei territori appena occupati, le donne. Donne di tutte le età subirono stupri di gruppo dopo i quali, a volte, venivano uccise. Benché sia più celebre come cronista del Gulag, lo scrittore Aleksandr Solženicyn entrò anch’egli nel 1945 con l’Armata Rossa in Prussia orientale, dove assistette a scene d’orrore che più tardi avrebbe messo in versi:

Un gemito soffocato accanto al muro:

La madre, ferita, è ancora in vita.

La sua bambina è sul materasso,

Morta. Quanti ne ha avuti addosso?

Un plotone, forse una compagnia?

Una ragazzina è stata trasformata in donna,

Una donna in cadavere.

Tutto si riduce a semplici frasi:

Non dimenticare! Non perdonare!

Sangue per sangue! Dente per dente!26

Questi atti di vendetta erano spesso apolitici, e non prendevano neanche necessariamente di mira soltanto tedeschi o simpatizzanti del nazismo. «Le ragazze sovietiche liberate dai campi» scrisse Grossman «soffrono molto adesso. Stanotte alcune si sono nascoste nella stanza riservata a noi corrispondenti. A un certo punto, nel cuore della notte, delle grida ci risvegliano: un corrispondente non ha saputo resistere alla tentazione.»27 Lev Kopelev, all’epoca commissario politico nell’Armata Rossa, racconta il destino di una ragazza russa che, costretta al lavoro coatto in Germania, fu scambiata per una nemica. Era «bella, giovane, allegra, e i capelli d’oro le cadevano a boccoli sulle spalle. Alcuni soldati, ubriachi immagino, camminavano per la strada e la videro: “Ehi, crucca, ehi, puttana!”. E una raffica di mitragliatrice le attraversò la schiena. Meno di un’ora dopo era morta. Non faceva che piangere: “Perché?”. Aveva appena scritto alla madre che stava tornando a casa».28

A volte le vittime erano lavoratrici coatte polacche che avevano la sfortuna di imbattersi nell’Armata Rossa: «Proprio in quel momento udimmo un urlo forsennato e una ragazza entrò di corsa nel deposito, le lunghe trecce bionde sciolte, il vestito strappato sul petto. Gridava a perdifiato: “Sono polacca! Gesù Maria, polacca!”. Era inseguita da due carristi, entrambi con l’elmetto nero in testa. Uno era ubriaco fradicio».29 Quando Kopelev cercò di intervenire – teoricamente lo stupro era punibile con l’esecuzione sul posto – i suoi compagni protestarono borbottando: «Certi comandanti… Sono capaci di sparare ai loro uomini per una puttana tedesca». Ed egli suscitò le stesse proteste quando rimproverò dei soldati che avevano sparato a una vecchia debole di mente prendendola per una «spia»: «Ti metti contro la tua gente, per una tedesca di merda?».30

Stupri e violenze inorridivano i comunisti locali, che capirono subito quale sarebbe stato il loro impatto politico. Se in pubblico le violenze sessuali erano attribuite a «diversionisti in uniforme sovietica», in privato gli stessi comunisti locali chiedevano alle autorità di aiutarli a controllare il fenomeno. Nel febbraio 1945 un ufficiale della sicurezza polacca scrisse al capo della propaganda dell’esercito polacco lamentando che i soldati dell’Armata Rossa «si comportano verso i miei connazionali in una maniera che danneggia l’amicizia fra Polonia e Unione Sovietica e indebolisce il sentimento di gratitudine che la popolazione di Poznań ha provato nei confronti dei liberatori … Lo stupro delle donne è molto diffuso, e avviene a volte alla presenza di genitori o mariti. Ancora più spesso accade che soldati, in genere giovani ufficiali, costringano delle donne a seguirli nei loro alloggi (a volte con il pretesto di aiutare a curare i feriti) e lì le aggrediscano».31

Altri cercarono di negare quanto stava accadendo. Un giovane ungherese, all’epoca comunista, avrebbe in seguito dichiarato di non avere saputo nulla di violenze carnali: «Nella nostra cerchia familiare si sarebbe detto che si trattava di “sciocchezze naziste” … eravamo ancora convinti che [i sovietici] fossero uomini nuovi». Ma, con il passare del tempo, si scoprì che quegli «uomini nuovi» non corrispondevano alle aspettative. Un giorno gli fu affidata la responsabilità di un gruppo di giovani russi: «Non c’era notte che non saltassero dalla finestra per andare a bere da qualche parte, a tirare su puttane e cose del genere, il che ci creava grande imbarazzo. Ci creavano un grande imbarazzo, quei giovani. Non li denunciavamo, ma sapevamo…».32

Alcuni furono colpiti personalmente. Robert Bialek, fra i pochi comunisti attivi in clandestinità a Breslavia, allora tedesca, tornò a casa dal primo, festoso incontro con i comandanti sovietici che avevano occupato la città – da comunista, aveva voluto offrire loro il suo aiuto – e scoprì che sua moglie era stata violentata. Per lui fu l’inizio della fine: «Gli istinti bestiali di due comuni soldati russi mi avevano fatto crollare il mondo addosso, come non era riuscito a nessun torturatore nazista né alla più sottile opera di persuasione». Avrebbe preferito, scrisse, «essere rimasto sepolto, come tanti miei amici, sotto le macerie della città».33

Si è spesso e giustamente osservato che questa ondata di violenze sessuali non era pianificata, né in Germania né altrove, e che non esiste alcun documento che «ordini» aggressioni del genere.34 Resta tuttavia che ufficiali quali Kopelev e Solženicyn si resero conto di come i loro diretti superiori non avessero grande interesse a fermarle, e di come stupri e uccisioni arbitrarie fossero in tutta evidenza tollerati, almeno nelle prime settimane di occupazione. Se le decisioni erano lasciate ai comandanti locali, tale tolleranza aveva origine al livello più alto. Quando il comunista iugoslavo Milovan Djilas si lamentò con Stalin per il comportamento dell’Armata Rossa, il leader sovietico ignobilmente replicò chiedendogli com’era possibile che lui, uno scrittore, non fosse «capace di capire, di perdonare un soldato che dopo avere attraversato migliaia di chilometri, dopo essere passato in mezzo al sangue, al fuoco, alla morte, scherza con una donna o si impadronisce di qualche piccolo oggetto di nessun valore».35

A dare ulteriore alimento a questa sorta di «comprensione» contribuirono la propaganda sovietica sui tedeschi e la Germania, che nel corso dell’attacco finale a Berlino si fece particolarmente sanguinaria, e il desiderio di umiliare gli uomini tedeschi. «Non contare i giorni, non contare i chilometri. Conta soltanto il numero di tedeschi che hai ucciso» scrisse un corrispondente di guerra in un articolo diffusamente letto e spesso ripubblicato dopo il febbraio 1945. «Uccidi i tedeschi – questa è la preghiera di tua madre. Uccidi i tedeschi – questo è il grido della tua terra russa.»36

Anche se saccheggi, violenze e stupri non rientravano in un piano politico, essi esercitarono di fatto un profondo e duraturo impatto politico su tutti i territori occupati dall’Armata Rossa. Da un lato suscitarono dubbi sul regime sovietico e notevoli sospetti sulla propaganda comunista e l’ideologia marxista; dall’altro la violenza, specie la violenza sessuale, diffuse fra uomini e donne una grande paura. L’Armata Rossa era brutale, era potente e non poteva essere fermata. Gli uomini non potevano proteggere le donne; le donne non potevano proteggere se stesse; né gli uni né le altre potevano proteggere i loro figli e i loro beni. Di quegli orrori non si poteva discutere apertamente, e le risposte ufficiali erano generalmente evasive. In Ungheria, nel febbraio 1945, il Comitato nazionale di Budapest sospese la proibizione dell’aborto, anche se senza spiegare esattamente perché. Nel gennaio 1946 il ministro ungherese alla Protezione sociale emanò un evasivo decreto: «In conseguenza del fronte e del successivo caos è nato un gran numero di bambini di cui le famiglie non vogliono occuparsi … Chiedo quindi all’ufficio degli orfanotrofi … di qualificare come abbandonati tutti i bambini la cui data di nascita si situa fra i nove e i diciotto mesi dopo la liberazione».37

Anche le risposte individuali erano spesso impacciate e superficiali, e lo sarebbero rimaste: cosa c’era da dire? Molti anni dopo un pastore protestante della Germania Est, un uomo in genere dotato di eloquenza e che all’epoca dell’invasione sovietica era un bambino, balbettava e si confondeva ancora nel cercare di raccontare quello che ricordava: «Arrivarono i russi, poi vi furono gli stupri; fu incredibile. Non si può proprio dimenticarlo. Io avevo quindici anni … Alcune donne s’erano nascoste, ne presero altre, mia madre, fu durissimo … Fu orribile, e nello stesso tempo c’era un senso di sollievo, di esserne usciti vivi. C’era una strana tensione dentro di me».38

Degli stupri di massa nell’Europa sotto l’occupazione sovietica si discusse esplicitamente e in pubblico soltanto una volta. Nel novembre 1948 le autorità della Germania Est organizzarono un dibattito sull’argomento nella «Casa della cultura sovietica» di Berlino. A ispirare l’incontro fu il giornalista Rudolf Herrnstadt, allora direttore del quotidiano berlinese «Berliner Zeitung» – e in seguito del quotidiano ufficiale del partito, la «Neues Deutschland» –, che aveva scritto un articolo provocatorio dal titolo I russi e noi. Il dibattito attirò una folla immensa, tanto che la «Neues Deutschland» deplorò che la sala fosse «troppo piccola per discutere di questo tema seriamente».

Ad aprire la discussione fu Herrnstadt stesso, che ribadì provocatoriamente la tesi del suo articolo, uscito sulla «Neues Deutschland» pochi giorni prima. La Germania, dichiarò liquidando la collera e il risentimento del pubblico verso l’Armata Rossa, «non potrà superare le sue attuali difficoltà senza il sostegno incondizionato dell’URSS». Poi attaccò chi, fra i suoi lettori e ascoltatori, parlava del «cognato che stava sul bordo della strada e s’era visto rubare la bicicletta, quando aveva votato comunista tutta la vita». L’Unione Sovietica avrebbe dovuto sapere che era comunista? Perché non lottava con l’Armata Rossa contro i nazisti? Perché l’intera classe operaia tedesca stava sul bordo della strada, per così dire, ad aspettare di essere salvata?

La discussione durò quattro ore e proseguì la sera seguente. Ma, con il passare del tempo, le biciclette rubate furono a poco a poco dimenticate. A un punto cruciale si giunse quando una donna, alzatasi, dichiarò che «molte di noi hanno vissuto cose che condizionano le nostre reazioni quando incontriamo membri dell’esercito sovietico». Sempre usando eufemismi, parlò di «quella paura e quella diffidenza con cui ci avviciniamo a chiunque indossi una certa uniforme». A leggere la trascrizione del dibattito risulta ben chiaro che tutti capirono immediatamente che non si stava parlando di furti, bensì di stupri.

Furono presentate, una dopo l’altra, giustificazioni del comportamento sovietico. I tedeschi dovevano imparare a usare la ragione per andare al di là delle emozioni. Dovevano portare avanti la lotta di classe. Erano stati i tedeschi a dare inizio alla guerra. Era stata la brutalità tedesca a insegnare ai russi a essere brutali. Non mancarono, tuttavia, voci dissonanti. Alcune donne sollevarono obiezioni, altre chiesero come le russe venivano trattate in patria, finché, la seconda sera, un ufficiale russo mise termine al dibattito. «Nessuno» dichiarò «ha sofferto quanto abbiamo sofferto noi: sette milioni di morti, venticinque milioni di persone che hanno perso la loro casa … Che tipo di soldato è venuto a Berlino nel 1945? Era un turista? Era stato invitato? No, era un soldato che aveva dietro di sé in patria migliaia di chilometri di terra bruciata … Forse qui ha ritrovato sua moglie, rapita e portata via come lavoratrice schiava.»

L’intervento pose fine a ogni discussione: che cosa si poteva rispondere a quegli argomenti? Le parole dell’ufficiale ricordarono a tutti non solo la responsabilità tedesca per la guerra e il profondo desiderio di vendetta dell’Armata Rossa, ma come non avesse senso, al riguardo, dire o fare qualunque cosa.39

Seguì il silenzio ufficiale. Ma il ricordo degli stupri, dei saccheggi e delle violenze di massa non si cancellò, né in Germania, né in Ungheria, né in Polonia, né altrove. E non fece che accrescere, per citare le parole della donna a Berlino, «quella paura e quella diffidenza con cui ci avviciniamo a chiunque indossi una certa uniforme», una paura che sopravvisse a lungo alla fine delle violenze.40 Con il tempo divenne chiaro che quella miscela di emozioni di peculiare forza – paura, vergogna, rabbia, silenzio – contribuì a porre le basi psicologiche per l’imposizione di un nuovo regime.

Il risentimento non aveva come unica causa la violenza. Nel giro di pochi anni dalla fine del conflitto l’Unione Sovietica avrebbe promosso la rapida industrializzazione dell’Europa dell’Est, ma, nel frattempo, Stalin esigeva riparazioni di guerra. Questo comportò, in pratica, un vero e proprio smantellamento dell’industria in tutta la regione, a volte con conseguenze di lunghissima durata. Come gli stupri di massa, anche il saccheggio di massa delle fabbriche tedesche fu spesso, sembra, una forma di vendetta. Vennero portati via beni e attrezzature che non potevano essere di alcuna utilità in Unione Sovietica, pezzi di vecchie tubature e macchinari rotti, e così opere d’arte, il contenuto di case private e persino casse di documenti d’archivio, antichi e moderni (del granducato del Liechtenstein, della famiglia Rothschild, dei massoni olandesi), che agli studiosi sovietici potevano servire ben poco. Uomini rastrellati a caso per strada a questo scopo furono obbligati a imballare attrezzature industriali che richiedevano l’opera di specialisti, con il risultato che, indubbiamente, molte furono danneggiate.

A differenza dei furti di orologi e biciclette, queste riparazioni «all’ingrosso» furono accuratamente pianificate già a partire dal 1943, anche se le autorità sovietiche sapevano che avrebbero potuto ritorcersi contro di loro. Quando le sorti della guerra iniziarono a mutare, il capo dell’Istituto sovietico per l’economia e la politica mondiali, Eugene Vargas (un economista di origine magiara noto anche sotto il suo nome ungherese, Jëno Varga), scrisse un articolo prevedendo quelle massicce riparazioni e avvertendo che, se fossero state condotte in modo scorretto, avrebbero rischiato di «alienare la classe operaia» in Germania e altrove. A suo parere i pagamenti in natura erano da preferire a quelli in valuta, che avrebbero potuto implicare banchieri e capitalismo. Egli riteneva inoltre che ogni ex Stato dell’Asse che avesse adottato il comunismo di stile sovietico dovesse essere esentato dal pagamento di qualunque tipo di risarcimento.41 La conclusione cui Vargas e il ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Molotov giunsero fu la proposta di una forma di riparazioni mista: la confisca dei beni tedeschi al di fuori della Germania e, in Germania, una riforma agricola radicale, oltre allo smantellamento delle imprese tedesche, forza lavoro compresa (che avrebbe potuto essere mandata in URSS a svolgere lavoro coatto), e la riduzione del livello di vita tedesco a quello sovietico. Fu questa la politica che sarebbe stata seguita, più o meno conformemente alle idee di Vargas, nella zona sovietica della Germania.42

Gli altri Alleati erano al corrente di questi piani. Stalin ne parlò per la prima volta alla conferenza di Teheran, e a quella di Jalta la delegazione sovietica arrivò addirittura a proporre lo smembramento della Germania – Renania e Baviera sarebbero divenute Stati distinti – nonché lo smantellamento di tre quarti degli impianti industriali tedeschi, l’80 per cento dei quali avrebbe preso la strada dell’Unione Sovietica. Buttando sul tavolo una cifra, Stalin disse che all’URSS erano «dovuti» 10 miliardi di dollari. Vi fu qualche tenue obiezione: Churchill fece notare che le dure sanzioni imposte alla Germania dopo la prima guerra mondiale non avevano esattamente portato alla pace in Europa. Ma Roosevelt era restio a discutere. Anche il suo ministro del Tesoro, Henry Morgenthau jr, stava premendo per lo smembramento e la deindustrializzazione della Germania che, nella sua visione, doveva divenire una società puramente agricola.43 La questione non fu risolta neanche a Potsdam, e le discussioni sulle riparazioni proseguirono per tutto il 1947. Anche se l’Unione Sovietica presentò un conto per il totale delle distruzioni che i nazisti avevano causato al paese, 128 miliardi di dollari per essere precisi, nessun trattato al riguardo fu mai firmato.

In ultima istanza, d’altronde, non aveva molta importanza: nessuna delle altre potenze alleate era in grado di esercitare un’influenza su quanto l’Armata Rossa faceva nella sua zona d’occupazione in Germania né, del resto, altrove. Nel marzo 1945 una commissione sovietica aveva già stilato una lista di beni tedeschi e, nell’estate, circa settantamila «esperti» mandati da Mosca avevano già iniziato a sovrintendere alla loro confisca.44 Secondo dati del ministero degli Esteri sovietico citati da Norman Naimark, fra l’invasione e l’inizio di agosto lasciarono la Germania orientale 1.280.000 tonnellate di «materiali» e 3.600.000 tonnellate di «attrezzature».45 È possibile che si tratti di cifre buttate lì, come i 128 miliardi di dollari di Stalin, ma sappiamo con certezza che delle 17.024 medie e grandi imprese identificate dall’URSS nella sua zona, oltre 4500 furono smantellate e portate via. Altre 50 o 60 grandi industrie rimasero intatte, ma passarono in mani sovietiche. Tra il 1945 e il 1947 scomparve fra un terzo e la metà della capacità industriale della Germania Est.46 Fu, in senso molto concreto, l’inizio della divisione della Germania. Anche se gli altri Alleati, non c’è dubbio, «reclutarono» scienziati ed esperti tedeschi, nelle zone occidentali del paese non si assistette mai a niente di simile. A seguito delle riparazioni sovietiche le economie delle due Germanie iniziarono immediatamente a divergere.

Nemmeno queste cifre, tuttavia, raccontano l’intera storia. Le fabbriche si possono contare, mentre non c’è modo di stabilire la quantità di denaro, oro e persino prodotti alimentari portati via dalla zona orientale, anche se burocrati tedeschi di quella zona cercarono di farlo. Fra i documenti del dipartimento alle Riparazioni si trovano parziali registrazioni: circa sessantacinque schede di venti-trenta voci ognuna. Riportano di tutto, da «sessantotto barili di vernice» a strumenti geodetici e lenti dell’industria ottica Zeiss di Jena. Stando a questi documenti, nell’ottobre 1945 l’Armata Rossa si spinse fino a confiscare il cibo destinato agli animali dello zoo di Lipsia. Poche settimane dopo furono confiscati anche gli animali che, sembra, vennero portati in Russia.47

Oltre a cedere i loro beni, alcune imprese furono costrette anche a pagare le spese di trasporto. Altre dovettero vendere sottocosto: il proprietario di una fabbrica di tappeti di Babelsburg lamentò indignato di essere stato obbligato ad abbassare i prezzi per l’Armata Rossa. Proteste giunsero anche da contadini ai quali era stato chiesto di vendere ai russi al di sotto del prezzo di mercato, a rischio, altrimenti, di non essere pagati per quanto consegnavano.48 Lo smantellamento di una fabbrica era a volte accompagnato dalla deportazione dei suoi operai, che venivano semplicemente caricati su treni con l’assicurazione che, in URSS, li aspettavano nuovi contratti di lavoro.49 Certi proprietari di fabbriche (e il direttore dello zoo di Lipsia) chiesero un risarcimento a Berlino, ma inutilmente. Degli ascoltatori scrissero alla stazione radio Deutsche Rundfunk, una delle poche autorità tedesche visibili all’epoca, ponendo sempre le stesse domande: come li avrebbe rimborsati, l’amministrazione tedesca, per i beni presi dai russi? Quando sarebbe stata pagata la gente che lavorava per i russi?50

Furono fatti scomparire anche beni privati, a volte con il pretesto che appartenevano a nazisti, vero o falso che fosse. I russi sequestrarono case di città e di vacanza, appartamenti e castelli, e lo stesso fecero, sulla loro scia, i comunisti tedeschi, che avevano bisogno di «sedi di partito» e case di villeggiatura e alloggi per i loro nuovi quadri.51 Nessuna auto privata e nessun pezzo di mobilio erano al sicuro. Lo stesso maresciallo Žukov, sembra, ammobiliò sontuosamente diversi appartamenti a Mosca con i suoi personali trofei.

A volte gli operai tedeschi lottarono duramente per salvare le loro fabbriche, spesso appellandosi al Partito comunista, che speravano potesse intervenire presso i russi. Nel 1945 i dirigenti del partito in Sassonia scrissero ai loro leader nazionali per protestare contro lo smantellamento di un’azienda, l’unica in grado di fornire vetro industriale alle fabbriche locali. «Se verrà smantellata» dichiararono «ne saranno colpite molte altre imprese.» L’azienda s’era già appellata ai comandanti sovietici della zona, poi ai dirigenti locali e provinciali del partito, ma senza risultato, e solo a quel punto s’era deciso di rivolgersi, sperando in un intervento, al Partito comunista a Berlino. Il dipartimento economico del suo Comitato centrale ricevette decine di lettere simili nel 1945 e 1946. Nella maggior parte dei casi non poteva fare niente.52

Se le riparazioni toccarono il livello massimo in Germania, non riguardarono solo questo paese. Anche Ungheria, Romania e Finlandia, in quanto ex alleati dei nazisti, dovettero pagare enormi risarcimenti sotto forma di petrolio, navi, impianti industriali, prodotti alimentari e combustibili.53 Il contributo ungherese dovette essere continuamente rivisto, perché l’inflazione galoppante nel paese rendeva difficile calcolare i prezzi di qualunque cosa. Attualmente si stima che da Budapest furono versati 300 milioni di dollari (in dollari americani del 1938) all’URSS, 70 milioni alla Iugoslavia e 30 milioni alla Cecoslovacchia. In altri termini, le riparazioni costarono all’Ungheria nel 1945-46 il 17 per cento circa del suo prodotto interno lordo, e un altro 10 per cento nel 1946-47. In seguito, fino alla conclusione dei pagamenti nel 1952, esse corrisposero annualmente al 7 per cento circa del prodotto interno lordo.54

Ma l’occupazione sovietica ebbe anche altri costi. Nutrire e alloggiare l’Armata Rossa costituì di per sé un enorme peso per gli ungheresi, che nell’estate del 1945 già lamentavano che assorbisse il 10 per cento del bilancio dello Stato e avesse portato al «completo esaurimento delle riserve alimentari». Inoltre, essi dovettero alloggiare e nutrire circa 1600 funzionari non militari alleati – sovietici, americani, britannici e francesi – e neanche in questi casi i costi furono insignificanti. Fra i conti scrupolosamente presentati da funzionari britannici e americani ai padroni di casa magiari, alcuni riguardavano «automobili, cavalli, club, vacanze, ville, campi da golf e da tennis». Un grande scandalo fu suscitato, nel 1946, da un pugno di fatture di fioristi, di cui il quotidiano del Partito comunista, «Szabad Nép» (Popolo libero), pubblicò i dettagli: membri delle delegazioni britannica e americana facevano recapitare grandi quantità di fiori alle loro amichette ungheresi, e si aspettavano che a pagare fosse il governo di Budapest.55

Nessuno scandalo del genere poteva spaventare la delegazione sovietica, i cui funzionari non presentavano conti. Essi trattavano tutto ciò che avevano attorno come un bottino, confiscando prodotti alimentari, vestiti, tesori custoditi in chiese e musei. Era usuale che forzassero casseforti degli uffici e cassette di sicurezza portandosi via fasci di banconote nella valuta ungherese, il pengő, ormai senza valore. Un caso celebre fu quello dello smantellamento da parte di ufficiali sovietici, nonostante le proteste ungheresi, di una fabbrica di lampadine angloamericana, il cui contenuto fu inviato in URSS. In questo periodo di riparazioni «selvagge» venne smantellato in Ungheria circa un centinaio di fabbriche.

Ancora più complicato era il problema dei beni tedeschi nel paese, che, secondo il trattato di Potsdam, dovevano essere ceduti all’Unione Sovietica. Benché venisse stilata una lista iniziale, che dapprima includeva venti grandi fabbriche e miniere cui furono aggiunte in seguito altre cinquanta aziende, non era facile stabilire, in Ungheria, che cosa fosse «tedesco» e che cosa no. In pratica furono sequestrate imprese austriache e ceche e quelle fra i cui azionisti, anche se non in maggioranza, figuravano dei tedeschi. I russi confiscarono anche beni ebraici già confiscati in precedenza dai nazisti. Avevano il diritto morale a entrarne in possesso, sostenevano, perché «quelle aziende facevano parte della macchina da guerra tedesca ed erano servite all’obiettivo di distruggere l’Unione Sovietica».56 Solo nel 1946, con l’inflazione fuori controllo e la stabilità dell’economia del paese in pericolo, le richieste di riparazioni all’Ungheria diminuirono per cessare infine definitivamente.

Le potenze dell’Asse non furono tuttavia le uniche a pagare un alto prezzo per l’occupazione. Benché pochi ne fossero al corrente all’epoca, anche la Polonia, in violazione degli accordi internazionali, fu costretta a riparazioni. Documenti conservati negli archivi militari sovietici attestano lo smantellamento e il trasferimento, fra le altre cose, di una fabbrica di trattori nelle vicinanze di Poznań, di una fabbrica metallurgica di Bydgoszcz e di una tipografia di Toruń, tutte situate in regioni della Polonia non appartenute alla Germania prima della guerra. La giustificazione data a queste confische, cioè che si trattava di proprietà «tedesche», è estremamente dubbia, considerato che gran parte delle proprietà «tedesche» in Polonia era stata a suo tempo (come in Ungheria) confiscata a polacchi o ebrei.57

Grazie a recenti scoperte in archivi è ormai evidente che l’URSS programmò con cura anche lo smantellamento e il trasferimento di proprietà «tedesche» dell’Alta Slesia, che prima della guerra era parte della Polonia (la Bassa Slesia, che, tanto per creare confusione, è a nord, prima della guerra faceva parte del Reich tedesco). Nel febbraio 1945 Stalin ordinò a una speciale commissione di compiere ricerche e stilare un inventario delle proprietà «guadagnate» in guerra, allo scopo di trasferirle in Unione Sovietica. In marzo la commissione aveva già prescritto lo smantellamento e la spedizione dei contenuti di un’acciaieria e di una fabbrica che produceva tubi d’acciaio, oltre che di forni e macchine utensili di altre fabbriche di Gliwice e dintorni, zona appartenente prima della guerra alla Polonia. Una sola acciaieria in Ucraina ricevette 32 treni – 1591 vagoni – di materiali.

Nei mesi successivi l’Armata Rossa procedette a imballare fabbriche situate in località lontane dal confine tedesco come Rzeszów, nel Sudest della Polonia. Furono smantellate diverse centrali elettriche, quasi sempre senza preavvertire le autorità polacche. Henryk Różański, allora viceministro dell’Industria a Varsavia, avrebbe in seguito ricordato che i russi si portarono via, oltre ai treni, anche i binari ferroviari polacchi: «Ebbe inizio una sorta di gioco, consistente nel dipingere e ridipingere i simboli sui treni, un gioco che si trasformò in un serio conflitto fra i lavoratori delle ferrovie polacchi e russi». Un giorno Różański andò a Katowice, dove si sentì dire che l’Armata Rossa stava portando via una fabbrica che produceva ossido di zinco. Vi si recò inaspettato e scoprì che macchinari e forni erano già all’aperto sotto la neve.

Protestò con le autorità sovietiche locali: in fin dei conti si trattava di una fabbrica polacca, in un territorio che prima della guerra era stato polacco. Non aveva mai avuto proprietari tedeschi e nessun trattato relativo alle riparazioni la citava. Fu ignorato. La Polonia poteva anche essere un alleato, ma agli occhi sovietici era ancora un nemico.58

L’ingresso dell’Armata Rossa in Europa orientale nel 1944 e 1945 non era stato ben pianificato, e nulla di ciò che seguì, violenze, furti, riparazioni, stupri, rientrava in un progetto a lungo termine. La presenza dell’Unione Sovietica nella regione fu senza dubbio la conseguenza secondaria dell’invasione hitleriana dell’URSS, delle vittorie dell’Armata Rossa a Stalingrado e Kursk e della decisione degli Alleati occidentali di non avanzare oltre né più velocemente quando ne avevano la possibilità. Ma presumere che le autorità dell’Unione Sovietica non avessero mai contemplato prima un’invasione militare dell’Europa orientale, o che l’occasione di metterla in atto le lasciasse indifferenti, sarebbe un errore. Al contrario, esse avevano già cercato di rovesciare l’ordine politico nella regione più di una volta.

Se i soldati dell’Armata Rossa rimasero scioccati di fronte alla relativa ricchezza dell’Europa orientale, i fondatori dell’Unione Sovietica non se ne sarebbero affatto sorpresi: essi conoscevano benissimo la regione. Lenin aveva vissuto per diversi mesi a Cracovia e nella campagna polacca.59 Trockij aveva passato molti anni a Vienna. Tutti seguivano attentamente la politica tedesca e la consideravano, insieme a quella dell’Europa orientale, di vitale importanza per loro.

Per capirne il motivo è utile sapere qualcosa di filosofia, oltre che di storia, poiché i bolscevichi leggevano le opere di Lenin e Marx non come vengono lette oggi, all’interno di un corso universitario o come una teoria della storia fra le altre, ma come verità scientifica. Nell’opera di Lenin era inclusa una teoria dei rapporti internazionali (sviluppata poi da Trockij) che, chiarissima e non meno «scientifica», diceva approssimativamente: la rivoluzione russa è stata la prima di molte rivoluzioni comuniste; altre seguiranno in breve in Europa orientale, Germania ed Europa occidentale, e infine in tutto il mondo; una volta che il mondo intero sarà governato da regimi comunisti, si potrà finalmente realizzare l’utopia comunista.

Certo di questo roseo futuro, Lenin fece più volte riferimento all’imminenza di tali insurrezioni con convinzione e anche una sorta di incauta leggerezza. «Zinovev, Bucharin e anch’io pensiamo che si dovrebbe incoraggiare subito la rivoluzione in Italia» scrisse a Stalin nel luglio 1920, aggiungendo: «La mia personale opinione è che a questo scopo si debba sovietizzare l’Ungheria e forse anche la Boemia e la Romania. Dobbiamo pensarci attentamente».60 Un anno prima aveva accennato al «crollo a livello mondiale della democrazia borghese e del parlamentarismo borghese» come se fosse ormai prossimo.61

Ora, i bolscevichi non avevano nessuna intenzione di mettersi alla finestra e aspettare che queste rivoluzioni scoppiassero. Da avanguardia rivoluzionaria, speravano di favorire gli sconvolgimenti che si profilavano tramite la propaganda, il sotterfugio e anche la guerra.62 Nella primavera del 1919 avevano fondato l’Internazionale comunista, popolarmente nota come Comintern, organismo ufficialmente inteso a rovesciare i regimi capitalisti secondo le linee direttrici leniniste tracciate in libri quali Che fare? (furiosa denuncia formulata da Lenin nei confronti della socialdemocrazia e del pluralismo di sinistra, pubblicata nel 1902).63 In pratica, come ha osservato Richard Pipes, il Comintern rappresentò una «dichiarazione di guerra nei confronti di tutti i governi esistenti».64

Nel caos che in Europa fece seguito alla prima guerra mondiale, che tutti i governi esistenti potessero crollare non pareva inverosimile. Nei primissimi, tempestosi anni sembrò persino che le profezie di Marx dovessero avverarsi nel suo stesso paese prima che altrove. Il trattato di Versailles, con le sue sanzioni punitive, generò immediatamente scontento in Germania. Uno scontento che i compagni del Partito comunista tedesco, allora il più grande e sofisticato del mondo, cercarono subito di sfruttare a loro vantaggio. Nel 1919 fomentarono una serie di sollevazioni a Berlino. Poche settimane dopo due veterani della rivoluzione russa contribuirono a guidare a Monaco una rivolta che proclamò un’improbabile Repubblica socialista bavarese, destinata a breve durata. Lenin accolse questi eventi con entusiasmo. Emissari ufficiali sovietici furono inviati presso il Soviet degli operai della Baviera, dove giunsero appena prima che crollasse.

Le sollevazioni in Germania non furono casi eccezionali. La fine altrettanto caotica della prima guerra mondiale portò al potere un regime comunista, di durata non meno breve, anche in Ungheria, altro paese severamente punito dagli assetti stabiliti dopo il conflitto, che gli costarono la perdita di due terzi del territorio. Come le rivolte tedesche, anche la breve rivoluzione marxista ungherese aveva stretti rapporti con Mosca. Il suo leader, Béla Kun, aveva preso attivamente parte alla rivoluzione russa, fondato la prima delegazione straniera in seno al Partito comunista sovietico, e persino stretto amicizia con Lenin e la sua famiglia. Su richiesta di Mosca, nel 1919 Kun partì per Budapest. La sua rivoluzione, limitata nel tempo ma estremamente sanguinosa, imitava quella bolscevica sotto molti aspetti. Fra le altre cose, i 133 giorni della Repubblica sovietica ungherese videro la comparsa di tipacci in giacche di cuoio che si autodefinivano «ragazzi di Lenin», la trasformazione della polizia in una «Guardia rossa» e la nazionalizzazione di scuole e fabbriche. Ma Kun, com’era stato un cospiratore quanto meno distratto (una volta aveva dimenticato in un taxi di Vienna una valigetta piena di documenti segreti del partito), si rivelò approssimativo anche come leader politico. La Repubblica sovietica ungherese ebbe una fine ignominiosa, segnata da un’invasione romena e dall’instaurarsi di un regime autoritario guidato dall’ammiraglio Miklós Horthy.65

A Mosca i bolscevichi giudicarono questi rovesci degli incidenti di percorso. Certo, sostenevano, con il crescere del potere della classe operaia si faceva più forte anche la reazione. Certo, imperialisti e capitalisti avrebbero lottato con le unghie e con i denti per salvarsi dall’annientamento. Secondo la teoria marxista-leninista, di meravigliosa flessibilità, il crescente potere della controrivoluzione non faceva che riflettere il vigore dell’ondata rivoluzionaria. Più l’opposizione era forte, più diveniva probabile che il capitalismo avrebbe finito per soccombere. Non poteva non soccombere: l’aveva detto Marx. Zinovev, presidente del Comintern, era così sicuro che l’ondata rivoluzionaria stesse per abbattersi che nel 1919 predisse: «Entro un anno avremo già dimenticato che l’Europa è stata costretta a combattere una guerra per il comunismo, perché in un anno tutta l’Europa sarà comunista».66

Anche Lenin era fiducioso. Nel gennaio 1920, mentre la guerra civile russa giungeva al termine, approvò un piano d’attacco contro la Polonia «borghese» e «capitalista». Se il conflitto aveva ragioni politiche, storiche e imperiali – il nuovo confine fra Polonia e Russia aveva annesso allo Stato polacco terre in precedenza zariste, e truppe polacche stavano già combattendo per impadronirsi di ulteriori zone dell’Ucraina –, il vero casus belli fu ideologico. Lenin era convinto che la guerra avrebbe portato a una rivoluzione comunista in Polonia e, infine, anche in Germania, Italia e altri paesi, per cui ordinò la creazione di un comitato rivoluzionario polacco («PolRevKom»), che doveva iniziare a prepararsi a prendere il potere nella Polonia sovietica. Quell’estate i delegati al II Congresso del Comintern a Mosca applaudirono alle notizie quotidiane delle vittorie bolsceviche, che venivano segnate su una mappa appesa a una parete accanto al trono deserto dei Romanov.67 A Londra Winston Churchill, allora giovane ministro, previde mestamente che «la nazione polacca diverrà un annesso comunista del potere sovietico».68

Con grande sorpresa di tutti, la guerra si concluse con la definitiva sconfitta dei bolscevichi. La svolta si produsse nell’agosto 1920 con la battaglia di Varsavia, ancora ricordata dai polacchi come il «miracolo della Vistola». Non solo i polacchi respinsero l’Armata Rossa, ma fecero prigionieri circa 95.000 suoi soldati. Gli altri fuggirono verso est in quella che divenne rapidamente una rotta disastrosa. In questa avventura destinata al fallimento il giovane Stalin svolse un ruolo secondario: come commissario politico del fronte sudoccidentale organizzò alla bell’e meglio le comunicazioni durante la controffensiva polacca. Stando a tutte le testimonianze, continuò a odiare i «signori polacchi» e gli «aristocratici bianchi», che avevano assestato all’Armata Rossa un simile colpo, per tutta la vita.69

Fu solo dopo questa imbarazzante disfatta che i bolscevichi giunsero alla conclusione che i tempi non erano ancora maturi per la rivoluzione. Gli operai e i contadini della Polonia, osservò amaramente Lenin, non s’erano sollevati contro i loro sfruttatori, anzi, «hanno lasciato patire la fame ai nostri coraggiosi soldati rossi, hanno teso loro delle imboscate e li hanno picchiati a morte».70 Sarebbe toccato a Stalin, il successore di Lenin, spiegare la sconfitta con una nuova interpretazione della teoria marxista. Nel 1924 avrebbe dichiarato, con grande enfasi, che era divenuto ormai possibile realizzare il «socialismo in un solo paese». Per quanto oggi ci possa sembrare banale, si trattava di una grande svolta nel pensiero rivoluzionario, e segnò l’inizio della rottura fra Stalin e il suo irriducibile rivale internazionalista, Lev Trockij.

L’annuncio di Stalin segnò anche l’inizio di una svolta nei rapporti fra l’Unione Sovietica e il mondo esterno. I paesi occidentali iniziarono a intensificare le loro relazioni con Mosca. Nel 1924 il Regno Unito accordò all’URSS il riconoscimento diplomatico. E nove anni dopo anche il nuovo presidente americano, Franklin Roosevelt, decise di stabilire con il paese rapporti diplomatici. A contribuire a convincerlo era stato il corrispondente da Mosca Walter Duranty, ardente filosovietico, tristemente noto per avere deliberatamente mancato di riferire, l’anno prima, della carestia di massa in Ucraina. Egli assicurò a Roosevelt che, come aveva scritto nel «New York Times», «da queste parti il termine “bolscevico” ha perso molto del mistero e del terrore che suscitava un tempo».71 L’URSS stava diventando «normale»: più precisamente, sembrava essersi assestata all’interno delle sue frontiere.

Ma, come si sarebbe visto, la rivoluzione internazionale non era stata messa da parte. Era stata semplicemente rimandata. E nel 1944 l’Unione Sovietica si stava preparando a rilanciarla.

COMUNISTI

Chi ti denigra / vuole oltraggiare noi, / il partito e la classe

… È ora di capirlo, / o farsi trascinare,

stupidi e accecati, / dalla corda dei nemici.

Tu stai / al vertice del nostro partito.

Poesia scritta in onore di Walter Ulbricht1

Un tempo i loro nomi campeggiavano su striscioni rossi, i loro ritratti venivano portati in corteo durante le parate. Nessun ufficio statale era completo senza le loro fotografie appese alle pareti. Nessuna celebrazione nazionale poteva essere tenuta senza di loro. Ispiravano soggezione e paura. Anche i loro amici più intimi erano guardinghi nel parlare, quando essi entravano in una stanza. Eppure in nessuno dei loro paesi gli uomini detti a volte «piccoli Stalin» – Walter Ulbricht in Germania Est, Bolesław Bierut in Polonia, Mátyás Rákosi in Ungheria – ispirano oggi la minima ammirazione. Anche all’apice del potere, nessuno di loro godette mai di un potere totale. Il culto creato attorno a loro non era che una pallida versione di quello creato attorno a Stalin. Questi era spesso acclamato dai suoi compagni come «il grande genio, il continuatore della causa immortale di Lenin»,2 il che non fu mai detto dei suoi imitatori dell’Europa dell’Est. Nello stesso tempo, nessuno studio sull’Europa dell’Est nel dopoguerra può dirsi completo senza un breve esame degli uomini i cui nomi e volti erano un tempo onnipresenti nelle strade dei rispettivi paesi.

Dei tre, Walter Ulbricht era probabilmente, da giovane, il meno promettente. Figlio di un povero sarto, lasciò presto la scuola per divenire un ebanista ed entrò nell’Associazione per l’educazione dei giovani lavoratori, una sorta di club socialista che scoraggiava l’abitudine di bere e giocare a carte per promuovere invece discussioni serie e gite domenicali in campagna. I suoi membri, nelle escursioni sui sentieri, portavano legato al bastone un fazzoletto rosso e intonavano canti marxisti. Da quella precoce esperienza il futuro segretario generale del Partito comunista tedesco derivò una morale sessuale quasi fanaticamente puritana e un assoluto rispetto per i libri voluminosi e pesanti.3

Come tutta la sua generazione, nel 1915 Ulbricht fu chiamato sotto le armi, ma nel 1918 disertò – odiava i militari – e venne profondamente colpito dalla breve rivoluzione operaia cui assistette quell’anno a Lipsia. Più o meno nello stesso periodo scoprì il marxismo. Come ha scritto una sua biografa: «Le formule dell’ideologia marxista, che appaiono così semplici ed evidenti agli impreparati …, lo resero capace di spiegare e di inquadrare tutto ciò che imparava, ascoltava e vedeva. Aveva trovato la “verità”, quella verità che il nemico di classe soffocava con tutti i mezzi e che in nessun modo voleva che venisse a conoscenza del popolo».4

Ulbricht sarebbe rimasto fedele a questo credo tanto semplice e tanto chiaro per tutta la vita. Quando nei tardi anni Trenta ebbero inizio i processi di Mosca, sostenne con fervore la persecuzione staliniana delle «spie trockiste del nazifascismo».5 Non l’inquietò mai vedere tanti suoi compagni tedeschi finire nel Gulag, e forse non per caso. Ulbricht beneficiò direttamente dell’arresto di decine di comunisti di primo piano, uomini più istruiti e più esperti di lui: la loro scomparsa facilitò la sua ascesa al potere. Nel 1938, dopo un’ondata di arresti particolarmente feroce, divenne il rappresentante del Partito comunista tedesco presso il Comintern e si trasferì a Mosca.

Rimase fedele a Stalin anche dopo la firma nel 1939 del patto Hitler-Stalin, che provocò una grave crisi fra i comunisti tedeschi, per la maggior parte accesi e autentici antinazisti. Ulbricht fu tra i pochi a non vacillare. Persino quando Stalin, su richiesta di Hitler, consegnò diverse centinaia di comunisti tedeschi ai campi di concentramento nazisti, continuò a fare propaganda contro l’antifascismo «primitivo», l’antifascismo, cioè, incapace di sfumature come firmare patti con i fascisti. Fu allora forse che si guadagnò la fiducia del dittatore sovietico.

Certo non fu il suo carisma a portarlo al potere. Un ufficiale nazista che l’incontrò in un campo sovietico avrebbe ricordato che, anche se «ci sono comunisti che sanno trattare perfettamente con gli ufficiali … gli uomini dell’apparato di partito, come Ulbricht, con i loro aridi monologhi “dialettici” sono semplicemente insopportabili».6 Elfriede Brüning conobbe Ulbricht prima della guerra alle riunioni di partito che i suoi genitori organizzavano nel retro del loro negozio. «Era sempre di fretta, non scambiava mai una parola sul piano personale con noi» ha scritto nelle sue memorie. «“Veniva freddo solo a guardarlo” diceva mia madre.»7 Ulbricht non era capace di chiacchierare. Più tardi si sarebbe dato a monologhi su temi quali «la felicità della giovinezza» (forse leggermente più piacevoli dei suoi notoriamente lunghi discorsi su argomenti tipo: «I compiti dei dipartimenti politici delle stazioni di macchine e trattori» e «I compiti dei militanti sindacali nella costruzione democratica dell’economia», poi pubblicati in grossi volumi).8 Ma, essendo tacitamente chiaro che Ulbricht era l’uomo dell’URSS in Germania, la sua autorità rimase incontrastata fino alla morte di Stalin.

Nel corso degli anni egli avrebbe ripagato la fiducia che il Cremlino riponeva in lui. Durante il primo periodo dell’occupazione sovietica della Germania non tollerò alcuna discussione sugli stupri e i saccheggi perpetrati dall’Armata Rossa. Secondo uno dei suoi colleghi, «la grande quantità di lavoro che Ulbricht svolgeva strappava l’ammirazione anche dei suoi avversari. Tutti noi, che vivevamo insieme a questo animale da lavoro, continuavamo a chiederci “come fa Ulbricht a resistere?”: dodici-quattordici, talvolta sedici ore al giorno». Lentamente, però, essi iniziarono a rendersi conto che la sua capacità di «resistere» non era «così imponente come sembrava», visto che «di regola, riceveva dai sovietici una direttiva generale per lo svolgimento della politica interna ed estera e la sua abilità consisteva esclusivamente nell’impiegare nei vari campi di lavoro queste direttive sovietiche».9 Verso la fine della vita giunse a imitare Stalin persino nello stile personale, e il suo compleanno era celebrato in pompa magna, con cerimonie e poesie inneggianti alla sua gloria. Se l’imitazione è la più sincera forma di adulazione, Ulbricht fu davvero un grande adulatore.

In confronto a lui Bolesław Bierut era un personaggio molto più oscuro, talmente oscuro che anche il suo luogo di nascita è oggetto di discussione. Probabilmente veniva dalla Polonia orientale, appartenente fino al 1917 all’impero russo, e frequentò, sembra, una scuola in lingua russa. Come i genitori di Stalin, anche i suoi speravano che divenisse un prete. Ma, dopo avere partecipato agli scioperi scoppiati in tutto l’impero russo nel 1905, fu espulso dalla scuola e dovette andare a lavorare. Secondo alcuni aderì alla massoneria, ma altri lo negano. Tutti concordano, invece, nel sostenere che aderì al partito molto presto, e negli anni Venti frequentò a Mosca la Scuola internazionale Lenin del Comintern. Prima della guerra non occupava un posto elevato nel Partito comunista polacco, e nel suo paese era quasi uno sconosciuto. Divenne invece, come Ulbricht, un fidato agente del Comintern e, per conto del Partito comunista sovietico, si recò in Austria, Cecoslovacchia e Bulgaria. Entrò addirittura nella dirigenza del Partito comunista bulgaro. La sua missione a Sofia, come ovunque, consisteva presumibilmente nel vigilare affinché i dirigenti comunisti locali seguissero la linea stalinista. Che fosse un agente al soldo dei sovietici per rafforzare la loro influenza è fuori dubbio.10

Avvolta nel mistero, invece, è la sua attività durante la seconda guerra mondiale. Si sa che nel 1939 era a Varsavia, che dopo l’invasione tedesca fuggì in URSS, e che fino al maggio 1941 visse a Kiev. Era una destinazione insolita per un comunista polacco in quel periodo: per la maggior parte i suoi compatrioti si recarono nelle regioni da poco sovietizzate dell’Ucraina e della Bielorussia occidentali, dove si videro assegnare importanti cariche politiche o culturali, o in altre zone dell’Unione Sovietica. Dopo il 1941 l’oscurità è ancora più fitta. Una sua biografia riservata, compilata dal dipartimento internazionale del Partito comunista sovietico nel 1944, afferma che, dal momento in cui Hitler invase l’URSS, «informazioni su Bierut mancano».11 Anche un comunista polacco che lo incontrò a Varsavia durante la guerra mi ha detto: «Non sapevo nulla del suo passato. Semplicemente, comparve».12

Quando Hitler invase l’Unione Sovietica, nel giugno 1941, Bierut era probabilmente a Białystok, da dove raggiunse probabilmente Minsk. Ma in seguito le sue tracce si perdono. A Minsk intrecciò una relazione con una donna ed ebbe un figlio; la prima moglie e i figli avuti da lei li aveva abbandonati da tempo, com’erano soliti fare tanti rivoluzionari. Inoltre lavorò per l’amministrazione nazista della città, probabilmente, anche se non con certezza, come agente sovietico. A lungo sono circolate voci secondo le quali collaborò con la Gestapo e trascorse persino parte della guerra a Berlino.13 Com’è circolata a lungo la voce che egli non sia stato altro, dall’inizio alla fine della sua carriera, che un dipendente diretto dell’NKVD, la polizia segreta sovietica.14

Le voci potrebbero essere vere entrambe: è possibile che qualche volta Bierut abbia cambiato bandiera. È noto come Stalin favorisse la promozione di persone che avevano qualche segreto o qualche profonda debolezza di carattere: presumibilmente gli piaceva disporre di un mezzo in più per controllare i suoi subordinati. Considerata la sua scarsa fiducia nei comunisti polacchi in generale, non è escluso che preferisse un possibile collaborazionista come Bierut a un vero credente come Ulbricht. Chiunque può perdere la fede nel comunismo, ma il ricatto vale per sempre.

Quale che ne sia la ragione, Bierut godeva di rapporti insolitamente buoni con la dirigenza sovietica, e dell’accesso a linee di comunicazione non sempre aperte o visibili ad altri. Inoltre era e sarebbe sempre rimasto, con Mosca, di una docilità assoluta. Lo statista britannico Anthony Eden fu testimone di un suo incontro con Stalin e definì il suo atteggiamento «servile». Władysław Gomułka, il suo maggiore rivale nel partito e quindi un testimone non del tutto affidabile, ha raccontato che nell’ottobre 1944, quando Bierut, sembra, s’azzardò a suggerire che un attacco a tutto campo contro la resistenza antinazista in Polonia poteva non essere una buona politica, sentì Stalin gridargli: «Che comunisti del cazzo siete» o parole del genere. Certi comunisti polacchi avrebbero voluto cooperare con i partigiani non comunisti, ma l’idea non piaceva affatto al leader sovietico, né, di conseguenza, poteva piacere a Bierut, che perciò acconsentì alla richiesta di Stalin di liquidare la resistenza polacca. Allo stesso modo, nel 1949, avrebbe acconsentito alla sua richiesta di una purga in seno al partito polacco, poi a quella di liquidare il corpo ufficiali della Polonia e di imporre ad artisti e architetti polacchi il realismo socialista. In definitiva, non c’è segno che Bierut abbia mai sfidato Stalin su qualsivoglia argomento.

Mátyás Rákosi, il terzo «piccolo Stalin», ebbe un esordio alquanto diverso da quello degli altri due. Ulbricht era un operaio, Bierut (probabilmente) un contadino, mentre lui era figlio di un piccolo commerciante ebreo. Inoltre ricevette una discreta istruzione. Nato in una contea di lingua magiara di quella che è ora la Serbia, era, secondo la sua autobiografia, il quarto di dodici figli. Quando aveva sei anni, suo padre fece bancarotta, dopo di che la famiglia si trasferì spesso. Preso in giro dai compagni di scuola per la sua povertà, fu attratto dalla sinistra radicale fin dalla più giovane età. Da adolescente, il direttore della sua scuola gli proibì di tenere discorsi politici. Andava inoltre fiero delle sue «terribili maniere». Ricorreva deliberatamente a un linguaggio grossolano per offendere, specie se riteneva di avere a che fare con gente delle classi superiori.15

Dopo un breve periodo di servizio militare e un paio d’anni di prigionia in Russia per motivi politici, nel 1918 contribuì a fondare il Partito comunista ungherese e, nel 1919, fu tra i dirigenti dell’effimera Repubblica sovietica ungherese. Nei tre mesi di vita di quel regime riuscì, in qualche modo, a essere comandante in capo della Guardia Rossa, commissario alla Produzione e vicecommissario al Commercio. Dopo il crollo della Repubblica sovietica ungherese e un passaggio per una prigione austriaca, raggiunse Mosca, dove nel 1921 ebbe un breve incontro con Lenin. Sarebbe bastato, negli anni successivi, a creare il mito di Rákosi «amico e collaboratore» di Lenin.16

Come Bierut e Ulbricht, anche Rákosi operò per tutti gli anni Venti a stretto contatto con il Comintern, per conto del quale, oltre che della polizia segreta sovietica, viaggiò per l’Europa. Nel 1924, rivelando un senso dell’umorismo che espresse raramente in altre occasioni, fece ritorno a Budapest travestito da mercante veneziano. Lì contribuì a riorganizzare il Partito comunista, messo al bando dopo il suo disastroso periodo al potere nel 1919. Arrestato nel 1925, fu al centro di un processo celebre e che ricevette molta pubblicità. Nonostante una campagna internazionale per la sua liberazione, passò i successivi quindici anni in carcere, imparando il russo e insegnando il marxismo agli altri detenuti.

Nel 1940, quando, dopo il patto Hitler-Stalin, il regime autoritario ungherese permise a un certo numero di detenuti comunisti di espatriare in URSS, anch’egli ricevette finalmente il permesso di raggiungere la patria del socialismo. All’arrivo fu accolto come un eroe: gli venne addirittura assegnato un posto accanto a Stalin alla celebrazione della Grande Rivoluzione d’Ottobre. Ben presto divenne uno dei dirigenti di «Radio Kossuth», che diffondeva già propaganda sovietica in Ungheria, e riannodò i suoi stretti legami con i dirigenti del Comintern.17 In URSS si sentiva a casa propria, e giunse persino a sposare un pubblico ministero sovietico, una donna della Jacuzia il cui primo marito era stato un ufficiale dell’Armata Rossa.18

Sotto un altro aspetto la carriera di Rákosi come «piccolo Stalin» dell’Ungheria seguì quella dei dittatori suoi compagni. Egli non tardò a rendersi conto che l’unico modo per andare avanti e restare al vertice era obbedire servilmente ai diktat di Stalin. Per tutto il dopoguerra il Partito comunista ungherese non prese nessuna importante decisione senza l’approvazione sovietica, come Rákosi stesso avrebbe riconosciuto di buon grado. Nelle sue memorie scrisse con franchezza, per esempio, che Stalin gli aveva chiesto di non prendere parte ai negoziati per la formazione nel 1945 del primo governo del dopoguerra, sia perché era troppo strettamente associato al governo del 1919, in altre parole era «troppo» comunista, sia perché era ebreo, cosa che gli avversari politici avrebbero potuto usare contro di lui. Rákosi non aveva sollevato obiezioni su nessuno dei due argomenti.19

Che, per carattere e stile personale, questi tre uomini fossero molto diversi è indubbio. Alla fine della guerra Rákosi, loquace e comunicativo, era nel suo paese un personaggio pubblico ben noto, anche se non propriamente amato, da molti anni. Bierut era un perfetto sconosciuto per la maggior parte dei polacchi, compresa la maggior parte dei comunisti polacchi. Ulbricht era un volto familiare, benché non particolarmente popolare, in seno al Partito comunista tedesco, ma al di fuori di esso ben pochi sapevano chi fosse.

Tuttavia, come rivelano le loro biografie, essi avevano alcune caratteristiche in comune. Tutti avevano lavorato a stretto contatto con il Comintern. Tutti erano sopravvissuti alla guerra o fuggendo a Mosca o grazie all’aiuto di Mosca. Per usare la concisa espressione divenuta più tardi popolare, tutti erano «comunisti di Mosca», cioè formatisi alla scuola sovietica, a differenza dei comunisti che avevano fatto carriera nei propri paesi o avevano passato gli anni di guerra in Europa occidentale o Nord America. Agli occhi sovietici gli appartenenti a questi due ultimi gruppi erano meno affidabili: negli anni passati fuori dall’URSS avrebbero potuto sviluppare opinioni sospette o intrecciare contatti dubbi.

I «comunisti di Mosca» avrebbero svolto un ruolo chiave nella formazione dei primi governi del dopoguerra in tutta Europa. Klement Gottwald, il «piccolo Stalin» cecoslovacco, era un dirigente del Comintern, e così Josip Tito, il capo partigiano iugoslavo destinato a divenire il dittatore del suo paese. Georgi Dimitrov, il «piccolo Stalin» bulgaro, fu presidente del Comintern per quasi un decennio. Sia Maurice Thorez, leader del Partito comunista francese durante e dopo la guerra, sia Palmiro Togliatti, che svolse lo stesso ruolo in Italia, erano «comunisti di Mosca». Entrambi erano strettamente implicati nelle vicende del Comintern e, se mai se ne fosse presentata l’opportunità, sarebbero stati i burattini designati di Stalin in Europa occidentale. Non mancarono una o due eccezioni: capo del Partito comunista romeno nel dopoguerra divenne Gheorghe Gheorghiu-Dej, un comunista «locale», ma anch’egli si prodigò per dimostrare a ogni occasione la sua fedeltà a Stalin.

Anche se a comparire in primissimo piano sui cartelloni e i manifesti dell’epoca erano i loro nomi e volti, i «piccoli Stalin» erano quasi tutti circondati da altri comunisti di Mosca che li rafforzavano nelle loro opinioni e, forse, li tenevano d’occhio per conto del Cremlino. I due più importanti accoliti di Bierut, Jakub Berman e Hilary Minc – il primo responsabile dell’ideologia e della propaganda, il secondo dell’economia –, si sarebbero infine schierati con lui contro i comunisti «di Varsavia» o «dell’interno» quali Gomułka. In Ungheria Rákosi era a capo di una troika di comunisti di Mosca i cui altri due membri erano József Révai e Ernő Gerő – anch’essi incaricati, rispettivamente, dell’ideologia e dell’economia –, e un altro suo importante collaboratore era Mihály Farkas, ministro della Difesa fra il 1948 e il 1953. Anch’essi si sarebbero tutti schierati contro i comunisti «di Budapest».

In Germania il più importante collaboratore di Ulbricht, Wilhelm Pieck, aveva alle spalle una lunga carriera nel Comintern, di cui era stato segretario generale dal 1938 al 1943. Fin dai primissimi giorni dell’occupazione sovietica, i comunisti tedeschi che si affrettarono a tornare a Berlino in aerei decollati direttamente da Mosca o insieme alle truppe dell’Armata Rossa godettero tutti di un rango più elevato di quello dei comunisti tedeschi che avevano trovato rifugio in Francia (dove molti erano stati angariati dalle autorità di Parigi), in Marocco (si aggirano sullo sfondo nel film Casablanca), in Svezia (dove aveva vissuto per un certo periodo Brecht), in Messico (allora molto bendisposto verso i comunisti) e negli Stati Uniti. Il Cremlino li considerava più affidabili persino dei comunisti tedeschi rimasti in Germania a combattere i nazisti. Nemmeno i tedeschi che avevano sofferto come prigionieri politici nei campi di concentramento di Hitler godettero mai della fiducia delle autorità sovietiche di occupazione. Era come se agli occhi di Mosca la loro semplice presenza nella Germania nazista fosse una macchia.

A unire i comunisti di Mosca di tutta l’Europa orientale era non soltanto la comune ideologia, ma l’impegno al servizio dell’obiettivo a lungo termine del Comintern: la rivoluzione in tutto il mondo, cui avrebbe fatto seguito la dittatura internazionale del proletariato. Se la proclamazione di Stalin del «socialismo in un solo paese» aveva posto fine alla guerra aperta fra l’Unione Sovietica e le nazioni dell’Europa occidentale, essa non impedì al generalissimo e ai suoi servizi segreti di complottare per giungere a violenti rivolgimenti, anche se usando spie e sotterfugi invece che l’Armata Rossa. Gli anni Trenta, il «decennio basso e disonesto» di Wystan Auden,20 furono un periodo in cui la politica estera sovietica s’esibì in insidie straordinariamente creative. Nel Regno Unito agenti di Mosca reclutarono Guy Burgess, Kim Philby, Donald Maclean, Anthony Blunt e (probabilmente) John Cairncross, i famigerati «Cinque di Cambridge». Negli Stati Uniti furono reclutati Alger Hiss, Harry Dexter White e Whittaker Chambers.

Sotto almeno un aspetto questi agenti angloamericani avevano qualcosa in comune con i comunisti di Mosca dell’Europa dell’Est: erano tutti più che disposti, ansiosi di operare a stretto contatto con l’NKVD. Come lo era, all’epoca, la maggior parte dei comunisti europei. In questo essi non costituivano un’eccezione. Se oggi i legami che intrattenevano con la polizia segreta sovietica ci appaiono una macchia per i partiti comunisti d’Europa e d’America, i leader di questi ultimi, all’epoca, non se ne preoccupavano affatto. In generale, chi in Occidente giudicava una rivoluzione mondiale auspicabile pensava anche che essa sarebbe stata guidata dal Partito comunista sovietico e, quindi, facilitata dalla polizia segreta sovietica. Persino il Partito comunista americano prendeva soldi dall’URSS, a volte inviati tramite il Comintern.21 Molti intellettuali di sinistra s’incontravano regolarmente allora con persone che sapevano essere agenti dell’NKVD, e non ci trovavano nulla di male.22 Non era vergognoso, come sarebbe divenuto in anni successivi, ricevere «l’oro di Mosca», né fare qualche favore agli agenti locali sotto copertura dell’NKVD o, come sarebbe stato in seguito chiamato, del KGB. Per i devoti alla causa gli obiettivi dell’URSS, del Comintern, delle spie dell’URSS e del Partito comunista del proprio paese erano del tutto intercambiabili.

Gli uomini e le donne destinati a guidare nel dopoguerra i paesi dell’Europa dell’Est non avevano tuttavia in comune soltanto l’ideologia del movimento comunista internazionale, ma anche la sua peculiare cultura e le sue rigide strutture. Quali che fossero le loro origini nazionali, negli anni Quaranta i partiti comunisti europei avevano ormai per la maggior parte copiato l’organizzazione strettamente gerarchica e la nomenclatura dei bolscevichi. Avevano tutti a capo un segretario generale e un gruppo dirigente detto «Ufficio politico», o Politburo, che aveva sotto il suo controllo il Comitato centrale, un più vasto gruppo di apparatchik del partito, molti dei quali finivano per specializzarsi in particolari campi. Il Comitato centrale controllava i comitati regionali, i quali, a loro volta, controllavano le cellule locali. Tutti quelli che stavano alla base riferivano al vertice, e tutti quelli al vertice, in teoria, sapevano che cosa accadeva alla base.

Coloro che vivevano in URSS erano particolarmente sensibili alle regole di questa gerarchia. Per chi era in auge, le ricompense erano grandi. Negli anni Venti e Trenta una «casta privilegiata» era stata quella degli emigranti politici, polit-emigrant nel gergo bolscevico:

Vivevamo nel nostro piccolo mondo, cittadini di uno Stato all’interno di un altro Stato. Non pagavamo per la sistemazione in albergo, avevamo una generosa paga mensile e i vestiti erano gratis. Parlavamo alle riunioni nei club delle fabbriche e nelle scuole, e finita la riunione ci offrivano un banchetto. C’erano feste in teatro e divertimento gratis. Gli emigranti politici con problemi di salute per i patimenti subiti nelle prigioni fasciste capitaliste erano mandati in esclusivi ospedali e sanatori sul Mar Nero. E qui, di nuovo, molte ragazze russe venivano a cercarli per motivi materiali, proprio per la speciale condizione di privilegiati di cui godevano.23

I comunisti stranieri di rango più elevato, alti dirigenti del Comintern, leader dei partiti comunisti nazionali, venivano alloggiati nel ben arredato Hotel Lux, non lontano dal Cremlino, e i loro figli frequentavano scuole speciali. Markus Wolf, destinato a divenire il più famoso dirigente delle attività spionistiche della Germania Est, e Wolfgang Leonhard, in seguito l’esponente di maggiore spicco del regime di Ulbricht a lasciare il paese per l’Occidente, frequentarono a Mosca la stessa scuola superiore per figli di comunisti tedeschi. Quelli di rango un po’ inferiore ottenevano posti in quotidiani in lingua straniera o nel Soccorso rosso internazionale, un organismo che faceva agitazione a favore dei comunisti detenuti nelle prigioni occidentali. Alcuni lavoravano in impianti e fabbriche sparse per tutto il paese.

Ma anche al livello più alto, e anche quando erano in auge, questi stranieri privilegiati erano del tutto alla mercé della benevolenza dei padroni di casa sovietici, e in particolare dei capricci di Stalin. Il diario di Dimitrov, il presidente bulgaro del Comintern, illustra questa mortale dipendenza con una ripetitività quasi comica. Per oltre un decennio egli registrò pedantemente ogni singolo incontro e ogni singola conversazione con Stalin, inclusa la telefonata cui il generalissimo, non appena udì la sua voce, rispose mettendo giù la cornetta.24

Come gli altri, Dimitrov sapeva che il suo status privilegiato poteva non durare, e per alcuni non durò. Sul finire degli anni Trenta, quando Stalin diresse le sue purghe contro i membri d’alto rango del Partito comunista sovietico, anche i comunisti «internazionali» a Mosca soffrirono. E quando la paranoia dell’NKVD giunse all’apice, gli stranieri residenti in URSS divennero bersagli diretti. Il Partito comunista polacco, di cui Stalin, d’altronde, non s’era mai davvero fidato (aveva incaricato un agente speciale dell’NKVD di gestire le sue attività a Mosca), fu quasi completamente distrutto. Dei trentasette membri del suo Comitato centrale, ne furono arrestati nella capitale sovietica almeno trenta, che vennero per la maggior parte giustiziati o morirono nel Gulag. Lo stesso partito fu sciolto con l’accusa di essere «zeppo di spie e provocatori».25

A Mosca furono arrestati anche molti altri comunisti stranieri in vista, fra cui la madre di Leonhard, e ognuno aveva paura che la volta successiva potesse toccare a lui. Nella sua autobiografia, pur redatta con grande attenzione, persino Markus Wolf scrisse che i suoi genitori erano in preda all’«angoscia» per gli arresti: «Una sera, quando il campanello suonò inaspettatamente, mio padre, solitamente tranquillo, balzò in piedi e si mise a imprecare violentemente. Quando saltò fuori che il visitatore era solo un vicino che voleva chiedere in prestito qualcosa, egli recuperò il suo savoir-faire, ma le sue mani continuarono a tremare per una buona mezz’ora».26 Negli alberghi e residenze dove alloggiavano gli stranieri, gli arresti avvennero a ondate: vi furono la «notte polacca», la «notte tedesca», la «notte italiana» e così via. L’atmosfera nei corridoi dell’Hotel Lux, come avrebbe scritto la comunista tedesca Margarete Buber-Neumann, era «soffocante». «Persone prima vicine politicamente ora non osavano più farsi visita. Si poteva entrare all’Hotel Lux soltanto muniti di un lasciapassare. Tutti gli ospiti venivano registrati. La NKVD aveva instaurato un perfetto sistema di sorveglianza. I telefoni di ogni singola camera erano sotto controllo. Quando si chiedeva la comunicazione si percepiva distintamente lo scatto che stabiliva il contatto.»27 Nel 1938, un anno dopo l’arresto e l’esecuzione del marito, la stessa Buber-Neumann fu arrestata e inviata al Gulag.

Se in URSS la loro esistenza era precaria, negli anni Trenta i comunisti ferventi non erano necessariamente più al sicuro in patria. Prima della guerra i comunisti europei erano spesso visti dalle autorità dei vari paesi come nient’altro che agenti di una potenza straniera (cosa che, ovviamente, alcuni di loro in effetti erano). Dopo l’invasione bolscevica della Polonia nel 1920, il Partito comunista polacco fu messo al bando e molti suoi membri trascorsero lunghi periodi nelle carceri polacche: una fortuna per loro, anche se allora non lo sapevano, perché lì erano al sicuro da Stalin. Lo stesso avvenne in Ungheria, dove il regime autoritario anteguerra dell’ammiraglio Miklós Horthy perseguitò il Partito comunista sia per i suoi legami con agenti sovietici, sia per il ricordo del fallito colpo di Stato comunista del 1918, sia per le disastrose politiche della breve dittatura di Béla Kun. Costretti alla clandestinità, a nascondersi alla legge, i comunisti ungheresi svilupparono quella che un veterano definì «una severa, dura organizzazione gerarchica» che tollerava ben poco la democrazia interna e il dissenso. Per di più, «quel tipo di organizzazione era idealizzata e ammirata».28

Il Partito comunista tedesco, invece, dopo il 1918 era un’organizzazione potente e legale: all’apice dell’influenza poteva contare sul voto del 10 per cento circa degli elettori su scala nazionale. Ma, dopo l’ascesa di Hitler al potere nel 1933, anche i comunisti tedeschi, come quelli degli altri paesi, iniziarono a venire arrestati, a subire espropri e a essere perseguitati. Molti trascorsero la guerra in campi di concentramento, e un gran numero di essi non sopravvisse. Ernst Thälmann, leader carismatico del partito, fu arrestato nel 1933 e giustiziato nell’agosto 1944 a Buchenwald. Se fosse sopravvissuto sarebbe stato indubbiamente guardato con sospetto anche dai «comunisti di Mosca». Nel 1941, infatti, Stalin disse a Dimitrov che «lo stanno manipolando in tutti i modi … Le sue lettere rivelano un influsso dell’ideologia fascista»: una sentenza che non avrebbe impedito che divenisse nel dopoguerra uno degli eroi-martiri della Germania Est.29

Nonostante tali ostacoli, negli anni Trenta il movimento comunista internazionale prosperò in gran parte d’Europa, e fu in quel periodo che gli intellettuali della metà orientale del continente iniziarono a aderire in gran numero al partito, anche perché non avevano molte alternative. Per coloro che vivevano nell’Europa dell’Est, quella dell’Ovest non presentava alcuna attrattiva. Essi erano inorriditi dall’ascesa di Hitler e Mussolini e dall’incapacità dei propri dirigenti di tenere loro testa. Erano disgustati dalla debolezza e dalla ristrettezza di vedute di Inghilterra e Francia, entrambe economicamente in depressione e i cui leader erano fautori di una politica di conciliazione con il fascismo. Dopo il 1933, inoltre, il Comintern aveva sollecitato i partiti comunisti legali a entrare in «fronti popolari», movimenti intesi a unire comunisti, socialdemocratici e altre forze di sinistra contro i movimenti di destra che stavano allora prendendo il potere da un capo all’altro d’Europa. La strategia parve avere successo. Una coalizione di fronte popolare governò la Francia dal 1936 al 1938, e un’altra si presentò alle elezioni in Spagna nel 1936. Entrambe, come le loro omologhe in Europa orientale, erano sostenute dall’Unione Sovietica.

Nello stesso tempo molti avevano finito per sentirsi delusi dalla politica, dalle tradizioni e dalla letteratura della propria nazione. La storica Marci Shore ha analizzato il processo che portò un certo numero di poeti polacchi dall’avanguardia artistica alla sinistra politica, o meglio dall’affermazione che «Dio è morto» e «il realismo è finito» alla convinzione che a riempire quel vuoto sarebbe stato il comunismo sovietico. Nel 1929 il poeta Julian Tuwim, già aderente al centrosinistra patriottico, provava ormai una profonda delusione per come il patriottismo veniva sfruttato a vantaggio dell’élite dirigente. Ed esortò i suoi connazionali:

Scagliate il mitra sull’asfalto.

Loro è il petrolio, vostro il sangue.

E da una capitale all’altra

Gridate forte …

«Signori della nobiltà, voi non ci ingannate.»

Non era un cri de coeur marxista: per Tuwim la sua poesia voleva essere una dichiarazione di pacifismo. Ma egli si stava dirigendo in quella direzione, il che contribuisce a spiegare perché dopo la guerra avrebbe collaborato, in una certa misura, con il regime comunista.30 Wanda Wasilewska, che durante il conflitto sarebbe stata una dirigente comunista in Polonia, conobbe più o meno nello stesso periodo un’evoluzione simile. Suo padre era stato ministro in uno dei governi polacchi fra le due guerre e, giovanissima, lei aveva militato in gruppi socialisti classici. Solo più tardi, dopo il crollo della vacillante democrazia polacca e la sua conversione in una mediocre dittatura, divenne veramente radicale. Delusa per il fallimento della politica democratica e centrista, aderì con entusiasmo a uno sciopero degli insegnanti, perse il lavoro e s’unì al movimento.31

Marci Shore, nel tracciare il quadro di questo ambiente, si concentra sulla Polonia, ma la stessa evoluzione si riscontra in numerosi paesi europei, dell’Est e dell’Ovest. Negli anni Trenta furono molti gli europei spinti verso l’estrema sinistra dalla delusione per i fallimenti del capitalismo e della democrazia. In tanti giunsero a pensare di non avere altra scelta che Hitler da una parte o il marxismo dall’altra, una polarizzazione promossa e incoraggiata da uomini di entrambi i fronti. Il comunismo acquisì persino, fra gli intellettuali nichilisti, esistenzialisti o che si sentivano comunque alienati, un certo fascino d’avanguardia. La personalità dominante fra loro all’epoca, Jean-Paul Sartre, era un entusiasta «compagno di strada». Nemmeno lui, tuttavia, poteva nascondersi la brutalità del regime sovietico. «Come te, trovo questi campi intollerabili» disse ad Albert Camus parlando del Gulag. «Ma trovo altrettanto intollerabile l’uso che ne viene fatto ogni giorno sulla stampa borghese.»32

Fino al 1939 gli antifascisti impegnati e vagamente di sinistra di qualunque genere potevano ancora appoggiare l’Unione Sovietica senza pensarci troppo. Ma quell’anno la politica estera di Mosca cambiò di nuovo, drammaticamente, e rese molto più difficile essere compagni di strada a cuor leggero. In agosto Stalin firmò il patto di non aggressione con Hitler. Come s’è detto nell’introduzione, i protocolli segreti a esso allegati spartivano l’Europa orientale fra i due dittatori. A Stalin andarono gli Stati baltici e l’Est della Polonia, oltre che il Nord della Romania (Bessarabia e Bucovina). Hitler ottenne la Polonia occidentale e la possibilità di esercitare la sua influenza su Ungheria, Romania e Austria senza obiezioni da parte sovietica. In seguito a questo patto il 1o settembre 1939 Hitler invase la Polonia, e Inghilterra e Francia dichiararono guerra alla Germania. Meno di tre settimane dopo, il 17 settembre 1939, la Polonia fu invasa anche da Stalin. La Wehrmacht e l’Armata Rossa s’incontrarono sul nuovo confine, si strinsero la mano e convennero di coesistere in pace. Dalla sera alla mattina ai partiti comunisti di tutto il mondo fu data istruzione di attenuare le loro critiche al fascismo. Hitler non era propriamente un alleato, ma non doveva nemmeno essere trattato come un nemico. I compagni dovevano parlare della guerra come di un conflitto «tra due gruppi di paesi capitalistici» che «fanno la guerra per i loro interessi imperialistici». I fronti popolari, che erano soltanto serviti ad «alleviare la posizione degli schiavi nel regime capitalistico», dovevano essere del tutto abbandonati.33

Questa svolta tattica inferse un duro colpo alla solidarietà comunista. Il Partito comunista tedesco era irriducibilmente antifascista, e molti dei suoi membri non potevano neanche lontanamente accettare l’idea di una qualche riconciliazione con Hitler. Il Partito comunista polacco si divise fra quanti esultavano per l’invasione sovietica della Polonia orientale, che creava posti di lavoro e opportunità per molti di essi, e quanti erano inorriditi dal fatto che il loro paese avesse cessato di esistere. Nel resto d’Europa molti comunisti si sentirono profondamente sconcertati dal nuovo linguaggio che si chiedeva loro di adottare in risposta a quegli eventi. Lo stesso Comintern esitò sulla sua dichiarazione, formulando e riformulando le sue nuove «tesi» tante volte che un membro del Politburo lamentò acidamente che «in tutto questo tempo il comp.[agno] Stalin avrebbe scritto un intero libro!».34 A Mosca si fecero grandi sforzi per tenere alto il morale. È accertato che nel febbraio 1941 Ulbricht indisse all’Hotel Lux una riunione del Partito comunista tedesco, nella quale rincuorò i compagni prevedendo, fra le altre cose, che la guerra sarebbe finita con un’ondata di rivoluzioni leniniste. Il compito dei comunisti tedeschi a Mosca, disse, era di prepararsi a questa possibilità.35

Eppure, per ventidue mesi, Unione Sovietica e Germania nazista furono veri alleati. L’URSS vendette alla Germania cereali e petrolio, e la Germania armi all’URSS. Inoltre, Mosca offrì ai tedeschi l’uso di una base per sottomarini a Murmansk. Il patto Hitler-Stalin portò persino a uno scambio di prigionieri. Nel 1940 diverse centinaia di comunisti tedeschi furono fatti uscire dai campi del Gulag dov’erano stati rinchiusi e accompagnati al confine. Fra di essi vi era Margarete Buber-Neumann. Lì, avrebbe scritto, quei duri comunisti tedeschi cercarono di ingraziarsi i vecchi nemici: quando uno dei «capi locali delle SS e della Gestapo» impose loro di intonare «l’inno nazionale facendo il saluto hitleriano», «gli uomini sollevarono il braccio esitanti e solo pochi ebbero l’ardire di non unirsi al coro, seguendo l’esempio dell’ebreo ungherese».36 La maggior parte di questi leali comunisti finì in carceri e campi nazisti. La stessa Buber-Neumann fu mandata direttamente dal confine in un campo di concentramento, Ravensbrück, dove passò il resto della guerra. Divenne così una doppia vittima, condannata sia al Gulag sovietico sia ai lager nazisti. Le storie di questo genere vennero presto dimenticate in Europa occidentale, dove «la guerra» era la guerra contro la Germania. Ma non furono affatto dimenticate in Europa orientale.

Paradossalmente, l’invasione hitleriana dell’Unione Sovietica nel giugno 1941 aprì nuove prospettive per il movimento comunista internazionale. Con Stalin ora nemico giurato di Hitler, i partiti comunisti dell’Europa orientale (e di quella occidentale) avevano di nuovo una causa in comune con Mosca. In URSS rinacque l’entusiasmo per i comunisti stranieri – adesso erano potenziali alleati, quinte colonne nell’Europa occupata dai nazisti – e la tattica di Stalin cambiò per adattarsi alla nuova situazione. Ancora una volta, al movimento comunista internazionale fu data istruzione di unirsi ai socialdemocratici, ai centristi e, in questo caso, persino ai capitalisti borghesi per dare vita a «fronti nazionali» e sconfiggere Hitler.

Si concepirono piani per fare tornare i comunisti leali nei loro paesi d’origine, anche se non tutti i primi sforzi in questo senso ebbero molto successo. Sul finire del 1941 l’Armata Rossa aiutò il primo gruppo di «comunisti di Mosca» a penetrare nella Polonia occupata dai nazisti, dove, con apparecchiature radio e contatti forniti dall’NKVD, essi fondarono nel gennaio 1942 un nuovo Partito operaio polacco (Polska Partia Robotnicza, o PPR).37 Ma ben presto entrarono in conflitto fra loro e con il resto della resistenza, e probabilmente collaborarono con la polizia segreta tedesca nel corso di almeno un’operazione contro l’Esercito interno, il braccio armato della resistenza polacca. In seguito, in un incidente dai contorni sinistramente confusi, uno di essi ne uccise un altro. Infine persero il contatto radio con Mosca.38 Durante il periodo di silenzio radio elessero un nuovo capo, Władysław Gomułka, che non aveva né avrebbe mai avuto la fiducia di Mosca. Il Cremlino, preoccupato, mandò loro un altro leader che, rimasto ferito nel paracadutarsi nel paese, finì per spararsi. Gomułka rimase così di fatto la massima autorità in tempo di guerra del Partito operaio polacco, almeno finché Bierut, alla fine del 1943, non riuscì a entrare nel paese.

Adesso che l’Unione Sovietica aveva urgentemente bisogno di formare nuovi quadri, il Comintern tornò improvvisamente a essere un’istituzione importante. Per ragioni di sicurezza la sua sede fu trasferita nella lontana Ufa, capitale del Baškortostan, o Baschiria, una provincia dell’Asia centrale, dove sarebbe stato possibile formare una nuova generazione di suoi agenti senza paura di bombardamenti o attacchi. A grande distanza dal fronte, l’URSS iniziò a prepararli al mondo del dopoguerra. Non era la prima volta che il Comintern si assumeva un simile compito: nel 1925, a Mosca, uno speciale comitato del Politburo, di cui faceva parte anche Stalin, aveva sovrinteso all’organizzazione del primo centro di formazione del Comintern. Per i primi partecipanti erano stati stabiliti alti standard. Dovevano conoscere l’inglese, il tedesco o il francese, avere letto le più importanti opere di Marx, Engels e Plechanov, e superare un test predisposto dal Comintern. Inoltre veniva passato scrupolosamente al vaglio il loro passato. «È molto importante» avevano osservato all’epoca funzionari del Comintern «perché l’intero valore dell’università andrà perduto se non si selezionano i tipi adatti.»39

I corsi avevano dato fin dall’inizio ampio spazio al marxismo – materialismo dialettico, economia politica, storia del Partito comunista russo – pur cercando di fornire anche una formazione «pratica», a volte con risultati comici. Un tentativo di fare conoscere agli studenti come si viveva nelle fabbriche sovietiche («perché si iniziassero alla dittatura del proletariato dall’interno») era sfociato in un fallimento: la fabbrica scelta, specializzata in metallurgia, non era riuscita a trovare dei posti per quegli studenti, privi di qualunque formazione e che, per la maggior parte, non parlavano russo. Essi erano divenuti così uno «zimbello» e una fonte di distrazione per gli operai.40 Peggio ancora: quasi ogni partito comunista nazionale aveva le sue fratture e divisioni, e c’era sempre qualcuno che obiettava che la situazione specifica del suo paese rendeva impossibile seguire la linea sovietica. I documenti interni del Comintern degli anni Trenta sono pieni di accuse e controaccuse. Alcuni studenti avevano «nascosto aspetti del loro passato», o le loro origini borghesi li rendevano «inadatti a guidare un movimento di operai». Con grande delusione, pochi sembravano rivoluzionari da manuale.41

Nel 1941, tuttavia, il Comintern era ormai un’organizzazione più sperimentata e, in seguito all’invasione tedesca, il reclutamento dei nuovi studenti iniziò a conformarsi a criteri chiari. I dirigenti dei partiti stranieri a Mosca si lanciarono subito nella complessa impresa di rintracciare i loro compagni nei nascondigli, campi profughi e prigioni in cui avevano trovato rifugio dalla guerra, campi e prigioni sovietici compresi. Quelli che erano stati arrestati o avevano passato anni nel Gulag vennero spesso riabilitati da un giorno all’altro senza discussioni, se erano ancora vivi.

Di particolare zelo nel cercare di ritrovare i vecchi compagni sparsi per l’Unione Sovietica, nel Gulag e fuori di esso, diedero prova i dirigenti tedeschi Ulbricht e Pieck. Fra quelli che rintracciarono vi fu il giovane Wolfgang Leonhard che, deportato all’inizio della guerra a Karaganda, nel Kazakistan, insieme a molti altri tedeschi residenti a Mosca, vi languiva soffrendo la fame. Nel luglio 1942, all’improvviso, una lettera lo convocò senza spiegazioni a Ufa e da allora quasi ogni aspetto del suo primo incontro con il Comintern durante la guerra fu avvolto nel più profondo mistero. L’ingresso della sede era fiancheggiato da grandi colonne, ma non c’era nessuna insegna sulla porta, «nulla che indicasse che quello era l’edificio che ospitava il quartier generale del Comintern». Al suo arrivo gli venne immediatamente servito un pasto che divorò in silenzio: sembrava che molti compagni che arrivavano lì non mangiassero da giorni. Seguì un breve incontro con il capo dei quadri che, di nuovo senza spiegazioni, gli comunicò che sarebbe dovuto andare più lontano: «Ti notificherò la tua destinazione».

Nei giorni immediatamente successivi incontrò molti vecchi amici, perlopiù figli, come lui, di comunisti tedeschi, che aveva conosciuto nel corso degli anni nelle scuole di Mosca e alle riunioni del Komsomol, l’organizzazione giovanile del Partito comunista. Nessuno di loro parlava del suo recente passato né dei suoi progetti per il futuro; non usavano neppure i loro veri nomi, che lui conosceva. «A poco a poco scoprii che lì vigevano regole diverse: era chiaro che ciò di cui non si parlava copriva un campo molto più vasto.» Dopo qualche giorno venne informato, sempre di punto in bianco, che doveva partire. Di nuovo senza alcuna spiegazione, fu imbarcato su un battello che risalì il fiume, e poi caricato su un camion, finché gli dissero di scendere e camminare. Giunse a un gruppo di vecchi edifici rurali e scoprì, finalmente, di essere arrivato alla scuola del Comintern. Lì ebbe inizio, nella massima segretezza, la sua formazione.42

Nei mesi seguenti assistette insieme ai compagni di corso alle lezioni standard, sul marxismo e il materialismo storico e dialettico, nonché ad altre, cui venne dato particolare spazio, sulla storia dei partiti comunisti dei paesi da cui gli allievi provenivano e sulla storia del Comintern. Gli studenti avevano accesso a rapporti e documenti segreti inaccessibili ad altri in Unione Sovietica. Inoltre, per l’importanza della loro futura missione, ricevettero pubblicazioni fasciste e naziste che non avevano mai visto e di cui non avevano mai sentito parlare. Dovevano servire, ricordava Leonhard, a permettere loro di capire meglio il nemico: «Spesso a uno di noi veniva chiesto di esporre di fronte al gruppo questa o quella dottrina nazista, mentre altri avevano il compito di attaccarla e confutarne le tesi. Lo studente che doveva esporre gli argomenti nazisti veniva esortato a presentarli bene, nel modo più chiaro e convincente possibile, e, in effetti, meglio esponeva il punto di vista nazista, più era valutato positivamente».43

Se erano autorizzati a leggere pubblicazioni naziste, gli studenti erano tuttavia tenuti ben lontani dagli scritti di comunisti dissidenti o antistalinisti: «Mentre in tutti gli altri seminari si giungeva in genere a un buon livello di discussione, in quello sul trockismo non si sentivano che denunce furiose e faziose».44

C’erano diverse scuole del genere durante la guerra, destinate non solo a comunisti, ma anche agli ufficiali polacchi reclutati nella «Divisione Kościuszko», una divisione di lingua polacca dell’Armata Rossa, e agli ufficiali tedeschi catturati che si volevano «rieducare». In esse studiarono, o vi mandarono i loro figli, molti politici che nel dopoguerra avrebbero svolto un ruolo di primo piano negli Stati comunisti. Fra i compagni di scuola di Leonhard c’erano, per esempio, il figlio di Tito, Zarko, e Amaya Ibárruri, figlia della comunista spagnola Dolores Ibárruri, meglio nota come La Pasionaria, uno dei celebri oratori della guerra civile spagnola.

Anche alcuni insegnanti avevano davanti a sé grandi carriere. Jakub Berman, destinato a divenire il responsabile della sicurezza, dell’ideologia e della propaganda in Polonia, insegnò ai comunisti polacchi a Ufa a partire dal 1942. Allora, come avrebbe fatto anche in seguito, non risparmiava gli sforzi per conformarsi alla linea del partito. Fra l’altro, era in stretto contatto con Zofia Dzeržinskaja, moglie polacca del tristemente celebre fondatore della polizia segreta, Feliks Dzeržinskij (anch’egli polacco). Zofia era una sorta di madrina per i comunisti polacchi in URSS, e Berman conservava con cura copie delle lettere che le inviava. Anche se il loro stile è legnoso e non danno molte informazioni, esse gettano qualche luce su come doveva essere vivere a Ufa durante la guerra. Vi si legge, per esempio, che Berman andava spesso ad ascoltare altre lezioni, fra cui quelle del tedesco Pieck, dell’italiano Togliatti e della Pasionaria. Inoltre seguiva attentamente quanto accadeva a Varsavia («seguiamo con grande entusiasmo le notizie sull’eroica battaglia nel paese»). In occasione del venticinquesimo anniversario dell’URSS, informò solennemente Zofia Dzeržinskaja che l’Unione Sovietica era «per noi il migliore esempio di come organizzare in futuro lo stesso tipo di vita nel nostro paese».45

A Dzeržinskaja, Berman scrisse inoltre che stava tenendo corsi su «la storia della Polonia, la storia del movimento operaio polacco», e iniziando i giovani comunisti polacchi alla politica contemporanea. Non si trattava di argomenti facili, considerato che nel 1938 Stalin aveva sciolto il Partito comunista polacco e fatto uccidere molti suoi dirigenti. (Più tardi, la storia ufficiale del partito avrebbe spiegato che esso era «stato creato sulla base del marxismo-leninismo, ma non era riuscito a liquidare le tendenze di fazione».)46 Il partito che ne aveva preso il posto, il Partito operaio polacco di Gomułka, fondato solo nel 1942, era ancora molto piccolo. In un altro gruppo di lettere, indirizzate al compagno Leon Kasman, Berman fu più esplicito sulle «difficoltà» che quegli eventi creavano a chi cercasse di insegnare la storia del comunismo polacco. È chiaro che occorreva essere estremamente prudenti nel parlare degli anni Trenta: menzionare il ruolo svolto da Stalin nello scioglimento del partito era impossibile, e ancora di più accennare alla sua ostilità verso la Polonia.47

Nulla di tutto ciò impedì a Berman di cercare, come meglio poteva, di indottrinare i giovani polacchi e insegnare loro a difendere l’Unione Sovietica. Un giorno scrisse a Dzeržinskaja di avere chiesto ai suoi allievi di ascoltare le trasmissioni del movimento partigiano antinazista e anticomunista polacco, l’Esercito interno, perché divenissero in grado di «controbattere» i suoi argomenti. Mentre comunisti tedeschi come Wolf e Leonhard insegnavano a controbattere la propaganda nazista, insomma, i comunisti polacchi si stavano preparando alla futura lotta ideologica contro i dirigenti della corrente principale della resistenza polacca. In una delle sue lettere a Dzeržinskaja, Berman si chiese se sarebbe stato possibile trovare «elementi sani», vale a dire futuri collaboratori, tra i leader contadini e persino tra i democratici nazionali d’estrema destra. «Per questa ragione» le spiegò «è assolutamente necessario, credo, proseguire nella tattica del fronte unito.» Il Partito comunista polacco non doveva mostrare il suo autentico volto troppo presto. Prima doveva trovare alleati e collaboratori, e solo in seguito avrebbe potuto promuovere riforme in stile sovietico.

Berman non era l’unico ad avere piani del genere. Più o meno nello stesso periodo anche i leader sovietici si stavano preparando, ancora una volta, a promuovere «fronti uniti», governi di coalizione pronti ad assumere il potere in tutta l’Europa orientale subito dopo la liberazione. Nel suo lungo memorandum del 1944 Ivan Majskij, il viceministro degli Esteri sovietico, scrisse a Molotov che, per vedere scoppiare rivoluzioni proletarie, si sarebbero dovuti aspettare trenta o quarant’anni. Ma nel frattempo, a suo parere, si doveva mantenere la Polonia e l’Ungheria in uno stato di debolezza e forse dividere la Germania – «a lungo termine contribuirà a indebolirla» – e, ultima cosa ma non meno importante, fare in modo che i comunisti locali operassero in tandem con gli altri. «È nell’interesse dell’URSS», era la sua conclusione, che i governi del dopoguerra fossero «basati sul principio di un’ampia democrazia, nello spirito dell’idea dei fronti nazionali».48

La parola «democrazia» va presa qui, ovviamente, con le pinze: Majskij chiariva infatti che quei governi, creati «nello spirito dei fronti nazionali», non avrebbero potuto tollerare l’esistenza di partiti politici in qualche modo ostili al socialismo. In pratica ciò significava che in alcuni paesi (egli menzionò la Germania, l’Ungheria e la Polonia) si sarebbero dovuti impiegare «vari metodi» di influenza esterna per impedire l’accesso di simili partiti al potere. Non spiegò, tuttavia, quali dovessero essere quei metodi.

Perseguitati all’Est come all’Ovest, i comunisti europei di ogni tendenza finirono per acquisire una cultura della cospirazione, della segretezza e dell’esclusività. Nei paesi d’origine operavano in cellule, si conoscevano fra loro con pseudonimi, e comunicavano usando parole d’ordine e messaggi nascosti in luoghi segreti. In URSS tenevano per sé le loro opinioni, si astenevano dal criticare il partito, e perlustravano i loro alloggi alla ricerca di microfoni nascosti.49 Ovunque fossero, osservavano una «rigida etichetta», magnificamente descritta da Arthur Koestler nei suoi romanzi come nelle sue memorie. Koestler, gran parte della cui opera sia narrativa sia saggistica ha per oggetto il suo rapporto con il comunismo, fu attratto dal partito tedesco negli anni Trenta, non da ultimo perché la segretezza, la cospirazione e gli intrighi lo affascinavano: «Anche un contatto superficiale farà sentire al profano che i membri del partito conducono una vita al di fuori della società, avvolta nel mistero, nel pericolo e nel continuo sacrificio. Il gusto dell’emozione e la curiosità di questo mondo segreto non sono trascurabili nemmeno nelle persone adulte e altrimenti refrattarie al romanticismo. Più forte ancora è la lusinga di essere ritenuto degno di una certa fiducia, di essere ammesso a svolgere qualche secondaria incombenza per i perseguitati che vivono in questo pericolo costante».50

Il fascino di un’esistenza da membri di un’élite, con accesso a privilegi e informazioni privilegiate, sarebbe rimasto un elemento importante dell’attrazione esercitata dal comunismo per decenni. Alla scuola speciale del Comintern Wolfgang Leonhard lesse per la prima volta gli stessi telegrammi che circolavano fra i capi del partito, e si rese conto di come contenessero molto di più di ciò che la propaganda propinava alle masse: «Ricordo benissimo la sensazione con cui presi in mano per la prima volta uno di quei bollettini informativi segreti. C’era un senso di gratitudine per la fiducia riposta in me, e di orgoglio per essere uno di quei funzionari abbastanza maturi, politicamente, da vedersi affidata la conoscenza di altri punti di vista».51

Ma anche l’esperienza del terrore, di arresti e purghe di massa accompagnati da rapide svolte tattiche, esercitò un profondo impatto sui comunisti europei. Alla scuola del Comintern di Ufa Leonhard subì l’umiliazione di vedersi costretto a una grottesca autocritica pubblica. Nel riflettere su quell’esperienza e sul comportamento pieno di sufficienza di alcuni suoi compagni – in particolare di una tedesca di nome Emmi, che avrebbe più tardi sposato Markus Wolf – all’improvviso si chiese: «I nostri rapporti a scuola sono quelli che dovrebbero essere i rapporti fra membri del partito? Poi mi tornarono in mente altri pensieri critici che avevo avuto in precedenza nel periodo delle purghe. Mi tornarono in mente conversazioni critiche, ed ebbi paura di me stesso. Se avevo già espresso pensieri critici come quelli, come sarebbe finita? Decisi di essere molto più cauto in futuro nel parlare, e dire soltanto il minimo necessario».52

Questo genere di esperienze avrebbe convinto Leonhard a fuggire dalla Germania Est e poi a lasciare il partito. Ma altri, pur sottoposti a umiliazioni simili, non fuggirono né si ritirarono. E neppure divennero, per le loro traumatiche esperienze, più tolleranti o compassionevoli. Le sofferenze subite in guerra, nei campi di concentramento hitleriani o in prigioni occidentali, non li resero più remissivi; anzi, i comunisti che rimasero nel partito divennero spesso più devoti alla causa, non meno.

Molti di quanti in URSS sopravvissero fisicamente alle purghe, e intellettualmente alle svolte politiche, emersero dalla guerra con un senso più forte non soltanto di lealtà tribale, ma anche di dipendenza dall’Unione Sovietica. E coloro che erano rimasti fedeli membri del partito durante gli arresti, le brusche svolte tattiche e la confusione degli anni Trenta, divennero spesso dei veri fanatici: fedeli in tutto e per tutto a Stalin, pronti a seguire la guida sovietica ovunque li portasse, avrebbero obbedito a ogni ordine loro impartito, se utile alla causa.53

POLIZIOTTI

Fra i dipendenti del ministero per la Sicurezza di Stato s’è sviluppato più o meno il seguente atteggiamento: siamo stati esaminati con particolare cura. Siamo compagni particolarmente bravi. Siamo, per così dire, compagni di prima classe.

WILHELM ZAISSER, ministro della Sicurezza di Stato, DDR1

Mentre la guerra s’avvicinava sanguinosamente al termine, Stalin offrì finalmente ai suoi protetti dell’Europa orientale l’occasione di dare prova di sé. Rimandò uno dopo l’altro i comunisti di Mosca nei loro paesi, man mano che venivano liberati, insieme alle truppe dell’Armata Rossa. Tutti erano ben consapevoli di essere un numero esiguo, e tutti dichiararono pubblicamente l’intenzione di dare vita o aderire a una coalizione di governo comprendente altri partiti, non comunisti. Bolesław Bierut giunse a Varsavia nel dicembre 1943, giusto in tempo per essere nominato presidente del nuovo Consiglio nazionale (Krajowa Rada Narodowa, o KRN). Questo primo tentativo di creare un fronte popolare non riuscì ad attrarre nessuno, tranne il Partito operaio polacco, ancora minuscolo, di Władysław Gomułka, e qualche frangia di socialdemocratici che non avevano aderito alla corrente principale della resistenza. Pochi mesi dopo, tuttavia, il Consiglio nazionale contribuì a formare un gruppo più ampio, il Comitato polacco di liberazione nazionale (Polski Komitet Wyzwolenia Narodowego, o PKWN), il cui nome, approvato di persona da Stalin, echeggiava deliberatamente quello del Comitato francese di liberazione nazionale di De Gaulle.2 Benché avesse sede a Lublino e includesse ora qualche politico autenticamente non comunista, non c’erano molti dubbi su chi ci fosse alle sue spalle. Il suo manifesto del 22 luglio suonava molto liberale: prometteva che «tutte le libertà democratiche saranno ripristinate per tutti i cittadini, senza distinzione di razza, religione e nazionalità; tali libertà saranno: libertà d’associazione in campo politico e professionale, libertà di stampa e d’informazione, libertà di coscienza».3 Ma il documento fu pubblicato a Mosca, non in Polonia, e immediatamente trasmesso dalla radio sovietica.

La creazione di un Comitato di liberazione nazionale pose subito di fronte a un dilemma il governo in esilio a Londra, che aveva rappresentato la Polonia all’estero durante la guerra e continuava a mantenere stretti legami con l’Esercito interno e la corrente principale della resistenza polacca. Esso si batté con tutte le sue forze per restare la voce internazionale del paese, ma perse la battaglia. Quando i tempi furono maturi, il Comitato si trasformò in governo provvisorio di unità nazionale (destinato a divenire noto sotto il nome «i polacchi di Lublino»), e sarebbe stato infine riconosciuto quale legittimo governo della Polonia, al posto di quello in esilio a Londra («i polacchi di Londra»), da tutti gli Alleati. Il governo provvisorio guidò il paese dall’inizio del 1945, e fra i suoi compiti vi era quello di indire le elezioni da cui doveva uscire il governo permanente. Stalin, desideroso di rafforzarne la legittimità, acconsentì a che ne divenisse primo ministro Edward Osóbka-Morawski, tecnicamente membro del Partito socialista, non del Partito comunista (Bierut non avrebbe occupato una carica governativa ufficiale che nel 1947). Cosa ancora più importante, permise al primo ministro in esilio, Stanisław Mikołajczyk, di rientrare nel paese e partecipare al governo provvisorio in qualità di ministro dell’Agricoltura e vice primo ministro. Per un breve periodo al Partito contadino polacco di Mikołajczyk (Polskie Stronnictwo Ludowe, o PSL) sarebbe stato permesso di svolgere il ruolo di autentica opposizione anticomunista. Ufficialmente né i sovietici né gli altri Alleati detenevano alcuna autorità legale in Polonia, ma, di fatto, presso il nuovo governo e le nuove forze di sicurezza fungeva da alto consigliere sovietico un generale dell’NKVD, Ivan Serov. Fu subito chiaro che la sua influenza era grandissima.4

Non molto tempo dopo l’arrivo in Polonia di Bierut, il corso degli eventi conobbe un’accelerazione, e una nuova autorità fu insediata anche in Ungheria. Ai primi di novembre 1944 Mihály Farkas, Ernő Gerő e Imre Nagy, tre «comunisti di Mosca» di primo piano, furono portati da aerei sovietici nella città liberata di Szeged, nell’Est del paese. Lì indissero subito un raduno di massa per celebrare l’anniversario della rivoluzione bolscevica, durante il quale Gerő chiese una «rinascita ungherese».5 Mátyás Rákosi arrivò a Debrecen dopo la liberazione della città, avvenuta in gennaio, anch’egli in aereo da Mosca. I suoi ordini erano di insediarvi un governo provvisorio ungherese e prepararsi alla conquista di Budapest da parte dell’Armata Rossa, cosa che fece in collaborazione con altri politici ungheresi che uscivano allora dai loro nascondigli o stavano rimpatriando dall’estero. Insieme essi negoziarono la creazione di un’assemblea nazionale provvisoria, che nominò un governo nazionale provvisorio. Come in Polonia, quest’ultimo avrebbe dovuto guidare l’Ungheria fino a che non si fossero potute tenere delle elezioni.

Anche in questo caso, come in Polonia, il primo governo provvisorio ungherese fu un governo di coalizione. Esso includeva quattro partiti politici legali: i comunisti (Magyar Kommunista Párt, o MKP), i socialdemocratici (Szociáldemokrata Párt, o SZDP), il Partito dei contadini e il Partito dei piccoli proprietari. Quest’ultimo, un partito anteguerra di piccoli imprenditori e agricoltori, si trasformò rapidamente in un partito d’opposizione anticomunista guadagnando in breve un ampio favore. Tuttavia non doveva dominare né la nuova assemblea nazionale provvisoria né il nuovo governo provvisorio. Benché il Partito comunista ungherese non contasse all’epoca che poche centinaia di membri, ai comunisti andarono più di un terzo dei seggi nell’assemblea nazionale provvisoria e diversi ministeri chiave, fra cui quello dell’Interno. Persino Gerő riconobbe lo squilibrio: «Il numero dei comunisti era un po’ sproporzionato. Questo fu dovuto in parte alla fretta, in parte all’eccessivo zelo dei compagni locali».6 In base ai termini dell’accordo di armistizio, firmato a Mosca nel gennaio 1945, in quella fase interinale il governo ungherese era anche soggetto alla supervisione della Commissione alleata di controllo, organo che, formalmente, includeva rappresentanti americani e britannici, ma era in pratica gestito dal maresciallo Kliment Vorošilov, un alto ufficiale dell’Armata Rossa, che omise regolarmente di consultare gli altri Alleati su qualunque cosa.7

Infine, il 27 aprile 1945 aerei dell’Armata Rossa portarono il «Gruppo Ulbricht», costituito da diverse decine di comunisti sotto la guida di Ulbricht, a unirsi al Primo fronte bielorusso alla periferia di Berlino, da dove essi sarebbero entrati in città. Fra di loro vi era Wolfgang Leonhard. Pochi giorni dopo si preparò a entrare a Berlino da sud, con il Primo fronte ucraino, il «Gruppo Ackermann», composto da altre decine di comunisti. A differenza che in Polonia e in Ungheria, in Germania orientale non vi fu nessun governo interinale o provvisorio. Fino alla creazione nel 1949 della Repubblica democratica tedesca, a governare la zona della Germania occupata dall’Armata Rossa fu un’Amministrazione militare sovietica.8 Essa, tuttavia, al fine di aiutare a dirigere il paese sotto l’egida dell’URSS, creò a poco a poco una burocrazia tedesca che, nel giugno 1947, convertitasi ormai in un governo ombra sotto il controllo di Mosca, ricevette l’innocente nome di Commissione economica tedesca (Deutsche Wirtschaftskommission o DWK). Molti comunisti tedeschi, in particolare «comunisti di Mosca», si videro assegnare subito in questo organismo ruoli di alto livello. Quando, nel 1949, la Repubblica democratica tedesca divenne uno Stato, a servire da base per la formazione del suo governo fu la Commissione economica.

L’Unione Sovietica sovrintendeva inoltre in Germania, come altrove, alle elezioni comunali e locali. Anche se, nella sua zona di occupazione, incoraggiò attivamente la rifondazione del Partito socialdemocratico, dell’Unione cristiano-democratica e del Partito democratico libero, pose membri del Partito comunista in posizioni strategiche nei sindacati, nelle associazioni culturali e in altre nuove istituzioni.9 Ovunque possibile, a non comunisti venivano affidati ruoli pubblici, mentre i comunisti occupavano posti chiave dietro le quinte. Altrove furono ricostituiti altri tipi di raggruppamenti politici e semipolitici, fra cui organizzazioni sioniste e bundiste in Polonia e Ungheria, alcuni dei quali parvero inizialmente godere in qualche misura di un’autentica indipendenza.

Tutti i partiti comunisti della regione mantennero le loro strutture interne, ricalcate sul modello sovietico, e le loro gerarchie, anch’esse in stile sovietico: il Politburo al vertice, sotto di esso il più numeroso Comitato centrale, poi organizzazioni regionali e locali. Tali strutture sarebbero rimaste parallele a quelle governative, ma separate da esse, fino al 1989. A volte membri del Politburo erano anche ministri, ma non sempre. A volte membri del Comitato centrale avevano ruoli anche nell’apparato statale, ma a volte no. Non sempre era chiaro, nemmeno agli uomini al potere, se fossero il partito o il governo ad avere l’ultima parola su questo o quel problema.

Se tutto ciò suona complicato è perché voleva esserlo: la politica, nell’Europa occupata dai sovietici, doveva essere opaca. Verso la fine della guerra i partiti comunisti dell’Europa orientale erano in tutta evidenza le formazioni politiche più influenti nella regione, non per la loro consistenza numerica, ma grazie ai «consiglieri» sovietici dell’NKVD e dell’Armata Rossa. Nello stesso tempo avevano la rigorosa consegna di dissimulare o negare l’affiliazione sovietica, di comportarsi da normali partiti democratici, di creare coalizioni e trovare partner accettabili fra i partiti non comunisti. Con l’eccezione della Germania, dove il controllo fu preso immediatamente dal regime d’occupazione sovietico, l’influenza di Mosca fu accuratamente mascherata.

Per tutto il 1945 e 1946 i governi provvisori di coalizione dell’Europa orientale tentarono quindi, in qualche misura, di dare vita a una politica economica in collaborazione con altri politici. Cercarono, sempre in qualche misura, di tollerare le chiese, qualche quotidiano indipendente e qualche impresa privata, cui fu permesso per un certo periodo di svilupparsi spontaneamente e secondo le loro peculiarità. Ma a questa tolleranza vi fu un’eccezione palese. Ovunque l’Armata Rossa arrivasse, l’Unione Sovietica creò una nuova istituzione la cui forma e il cui carattere si conformavano sempre a un modello sovietico. Per dirla senza mezzi termini, la struttura delle nuove polizie segrete non fu mai lasciata al caso, alle circostanze o alle decisioni dei politici locali. E, anche se con qualche differenza in termini di tempi e stile, la loro creazione seguì un modello molto simile in tutta l’Europa orientale. Nell’organizzazione, nei metodi e nella mentalità, divennero copie fedeli dell’antesignano sovietico tutte le polizie segrete dell’Est europeo: la polizia segreta polacca (Urząd Bezpieczeństwa, o UB), l’Agenzia per la sicurezza dello Stato in Ungheria (Államvédelmi Osztály, o ÁVO), e il ministero per la Sicurezza di Stato in Germania Est (Ministerium für Staatssicherheit, o in seguito Stasi, il nome con cui è ora meglio conosciuto).10 Lo stesso vale per la Sicurezza di Stato cecoslovacca (Státní bezpečnost, o StB), che venne organizzata, nelle parole del leader comunista ceco Klement Gottwald, in modo da «trarre il migliore profitto dall’esperienza dell’Unione Sovietica». Fu così che nacque ogni polizia segreta di ogni paese dell’Europa dell’Est.11

Come la storia dei partiti comunisti dell’Europa orientale, anche quella dei «piccoli KGB» della regione ebbe inizio ben prima della fine della guerra. La polizia segreta polacca iniziò a organizzarsi nel 1939, dopo l’invasione sovietica dell’Est del paese. Entrati nei territori di quelle che ormai chiamavano Ucraina e Bielorussia occidentali, gli ufficiali sovietici incaricati della pacificazione della regione ebbero difficoltà a trovare collaboratori locali fidati. Rendendosi conto della necessità di partner più professionali e affidabili, nell’autunno del 1940 l’NKVD creò nei pressi di Smolensk uno speciale centro di formazione, ai cui corsi furono invitati a partecipare circa 200 polacchi, ucraini e bielorussi dei territori appena occupati. Questi primi studenti giunsero al termine dei loro studi nel marzo 1941, dopo di che alcuni di essi furono mandati a proseguire la formazione nella città di Gorky. Di questa prima generazione di diplomati facevano parte almeno tre uomini, Konrad Świetlik, Józef Czaplicki e Mieczysław Moczar, che sarebbero rimasti influenti dirigenti dei servizi di sicurezza polacchi per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta.12

Con lo scoppio, nel giugno 1941, della guerra sovietico-tedesca, questo programma di formazione fu bruscamente interrotto. Ma pochi mesi più tardi, dopo che l’Unione Sovietica si fu un po’ ripresa dallo shock dell’invasione nazista, i corsi ricominciarono. E dopo la battaglia di Stalingrado, quando improvvisamente parve che la guerra potesse essere vinta, il reclutamento s’intensificò. Inizialmente i candidati furono scelti, attraverso quello che ai selezionati sembrava un processo misterioso, in seno alla «Divisione Kościuszko», di lingua polacca, dell’Armata Rossa, composta perlopiù da uomini che in precedenza avevano vissuto in Polonia orientale. Quando, un «gelido pomeriggio del gennaio 1944», Józef Lobatiuk fu avvicinato dal suo superiore, si sentì ordinare, senza alcuna spiegazione, di recarsi al quartier generale della sua unità per compilare alcuni moduli. Un mese dopo, sempre senza alcuna spiegazione, gli fu detto di prendere con sé «razioni secche per due settimane» e presentarsi per un addestramento speciale a Kujbyšev, città russa ben dietro la linea del fronte.13

Solo all’arrivo a Kujbyšev, Lobatiuk scoprì di essere stato mandato a una scuola di formazione per ufficiali dell’NKVD. Ne fu contentissimo. Anni dopo, raccontando le sue esperienze per gli archivi storici interni della polizia segreta polacca, avrebbe ricordato di essere stato trattato «come un ospite in casa di qualcuno». Dopo le dure condizioni del fronte, la scuola gli parve lussuosa. Gli «studenti» potevano uscire il fine settimana e non avevano turni di guardia. Avevano abbastanza da mangiare. Venivano trattati civilmente. Alla mensa i camerieri servivano il cibo «come al ristorante», versando loro mestolate di zuppa da vere zuppiere.14

Le lezioni non iniziarono subito. Prima di ricevere qualsiasi informazione, le nuove reclute furono interrogate per diversi giorni da una commissione di ufficiali dell’NKVD. Le domande vertevano sulla loro biografia, le loro origini familiari e le loro opinioni politiche. Dovettero ripetere la storia della loro vita più di una volta. Alcuni non superarono il test e vennero rimandati alle loro unità, anche se non seppero mai perché. Alla fine rimasero circa duecento uomini: i Kujbyszewiacy, la banda di Kujbyšev, come sarebbero infine divenuti noti, la prima classe di ufficiali della polizia segreta polacca diplomatisi in URSS. Iniziarono subito a prepararsi ad «attività operative» sotto la diretta tutela dell’NKVD.

A quello stadio della guerra, la primavera del 1944, non esisteva, in quella che era ancora la Polonia occupata dai nazisti, alcun governo polacco, se non quello in esilio a Londra e lo «Stato» clandestino a esso collegato, né alcuna amministrazione polacca alla luce del sole. Non s’era neanche giunti ad alcun accordo internazionale sullo status della Polonia nel dopoguerra: la conferenza di Teheran non era arrivata a nessuna conclusione definitiva sui confini del paese e quella di Jalta, durante la quale Roosevelt e Churchill avrebbero di fatto ceduto il controllo della Polonia ai sovietici, non si sarebbe tenuta che molti mesi dopo. Ma l’NKVD stava già insegnando agli ufficiali polacchi di Kujbyšev a pensare in base a categorie sovietiche, di modo che, giunto il momento, agissero agli ordini dei sovietici.

Quel primo corso fu molto approfondito. Alcune materie erano teoriche: il marxismo-leninismo, la storia del Partito bolscevico, la storia del «movimento operaio» polacco. Ma altre erano pratiche: tecniche di spionaggio e controspionaggio, lavoro investigativo, interrogatori. Nelle belle giornate gli studenti si recavano in un poligono di tiro sul Volga. L’insegnamento era in russo – un solo docente parlava polacco – il che costituiva un problema, specie considerando che pochi allievi avevano alle spalle un’istruzione più che rudimentale. Non c’erano libri di testo, per cui essi si riunivano spesso al di fuori delle lezioni per confrontare i loro appunti. Ogni volta che era possibile, gli studenti che parlavano russo traducevano il materiale per gli altri. Lezioni e seminari impegnavano dieci ore al giorno, sei il sabato.

Gli allievi non ebbero tuttavia molto tempo per riflettere su quanto stavano imparando. Quel primo corso giunse bruscamente al termine nel luglio 1944, quando l’Armata Rossa varcò il fiume Bug, che segnava il nuovo confine orientale della Polonia. Gli ufficiali della sicurezza di fresca nomina furono immediatamente messi all’opera. La maggior parte di quei 200 uomini venne mandata a Lublino, dov’era appena stato istituito il Comitato polacco di liberazione nazionale e stava per essere formato il governo provvisorio. Non vi trovarono molti agi – dormivano sul pavimento usando gli zaini come cuscini – ma furono accolti calorosamente. Stanisław Radkiewicz, il primo ministro alla Sicurezza della Polonia, diede in loro onore una cena cui prese parte anche un consigliere sovietico. I due distribuirono ai nuovi ufficiali stellette da cucire sulle uniformi.

Man mano che l’Armata Rossa avanzata – prima fino a Rzeszów e Białystok, poi a Cracovia e Varsavia – la banda Kujbyšev la seguiva, sempre accompagnata da consiglieri sovietici. In alcune zone, in un primo tempo, gli ufficiali combatterono come partigiani a fianco dell’Armata Rossa. Nell’Est della Polonia e nell’Ovest dell’URSS operavano in quella fase della guerra decine di formazioni partigiane diverse, alcune affiliate all’Esercito interno polacco, altre al movimento indipendentista ucraino, alcune composte da ebrei sfuggiti all’Olocausto, altre che avevano fra i propri membri dei criminali.15 Ma gli ufficiali della banda Kujbyšev, a qualunque nazionalità appartenessero, combattevano in nome dell’Unione Sovietica. E, all’arrivo in una provincia appena liberata, seguivano sempre un piano prestabilito. Si mettevano al lavoro per organizzare la polizia regionale e locale, individuare i nemici, passare informazioni all’NKVD e reclutare collaboratori: «Noi, la banda Kujbyšev, eravamo ritenuti la spina dorsale della nuova forza e gli insegnanti dei futuri quadri» avrebbe ricordato uno di loro con orgoglio.16

Non tutti ebbero successo. Alcuni, accusati di furti o incompetenza, furono scacciati. Qualcuno venne rimandato in Unione Sovietica, presumibilmente per svolgere un lavoro simile nelle repubbliche della Bielorussia o dell’Ucraina, da cui molti provenivano. Almeno uno si ribellò e s’unì all’opposizione anticomunista. Ma molti altri sarebbero giunti a posizioni elevate nei servizi di sicurezza, e altri ancora avrebbero addestrato una nuova generazione di quadri.

Nel dopoguerra Lobatiuk prese parte per un certo periodo alla «lotta contro il banditismo», un eufemismo per dire che partecipò all’azione militare organizzata contro ciò che restava dell’Esercito interno polacco, alcuni dei cui membri continuavano a resistere nelle foreste attorno a Lublino, e contro i partigiani ucraini. Nell’aprile 1945 fu mandato a Łódź, dove gli fu detto, ancora una volta con sua grande sorpresa, che sarebbe divenuto istruttore in una nuova scuola ufficiali della sicurezza polacca. Lui e gli altri veterani di Kujbyšev scelti per questo compito si divisero fra loro le materie a seconda di quella che ognuno ricordava meglio. Quando avevano lasciato l’URSS avevano dovuto consegnare i loro quaderni d’appunti, ma li ricostruirono a memoria. Infine, basandosi sui ricordi di ciò che avevano imparato dall’NKVD, misero insieme un manuale. Esso sarebbe rimasto in uso per parecchi anni: tutta una generazione di agenti segreti polacchi, insomma, sarebbe stata formata secondo metodi sovietici.17

Nei mesi e anni immediatamente successivi il servizio conobbe una crescita esponenziale. Se nel dicembre 1944 i funzionari della sicurezza erano circa 2500, nel novembre 1945 erano già 23.700, e nel 1953 sarebbero divenuti 33.200.18 Ben pochi dei nuovi membri corrispondevano a quello che più tardi, nella Polonia comunista, sarebbe divenuto lo stereotipo del funzionario dell’SB: un fanatico diabolicamente ben addestrato, molto istruito, con ogni probabilità ebreo. Nell’immediato dopoguerra, in realtà, l’SB era composta in misura schiacciante da polacchi, quanto a origine etnica, e quasi tutti cattolici. Nel 1947 essi costituivano il 99,5 per cento dei suoi agenti, mentre gli ebrei erano meno dell’1 per cento, una percentuale minore persino di quella degli agenti di origine bielorussa.19 Dei diciotto membri fondatori della polizia segreta regionale di Lublino, solo uno era ebreo. Gli altri erano polacchi, ucraini e bielorussi.20

Lungi dall’essere diabolicamente ben addestrate, le nuove reclute erano inoltre nella schiacciante maggioranza ben poco istruite. Nel 1945 meno del 20 per cento di esse era andato oltre la scuola elementare. E ancora nel 1953 solo la metà aveva frequentato più di sei anni di scuola. Per la maggior parte si trattava, in tutto quel periodo, di figli di operai e contadini polacchi. Solo un numero esiguo proveniva da famiglie classificate come «borghesi», e quasi nessuno fra le nuove leve poteva essere definito un intellettuale.21 Anche se nel 1947 la maggioranza aveva aderito al Partito comunista, pochissimi avevano alle spalle un qualsivoglia impegno politico.

A motivare quei giovani era probabilmente, non l’ideologia, bensì la possibilità di una rapida ascesa sociale. A illustrarlo molto bene è la storia di Czesław Kiszczak, uno degli agenti segreti più tristemente noti della Polonia. Anche se, molto più tardi, sarebbe divenuto ministro dell’Interno – sarebbe stato lui, nel 1981, a imporre la legge marziale –, era nato nel 1925 in una famiglia povera in una zona depressa del Sud del paese. Suo padre era un operaio di fabbrica che, per tutti gli anni Trenta, era rimasto senza lavoro. Da adolescente, sotto l’occupazione nazista, Kiszczak fu catturato durante un rastrellamento e mandato prima in un campo di lavoro, poi, dopo una serie di avventure, al lavoro coatto in Austria. Fra il 1943 e il 1945, avrebbe raccontato egli stesso, visse a Vienna in una baracca per operai dov’era l’unico polacco fra croati, serbi e uomini di altre nazionalità, molti dei quali comunisti. Lavorò per le ferrovie austriache fino al 7 aprile 1945, quando i russi liberarono i quartieri orientali di Vienna. Poco dopo, sempre secondo le sue parole, «l’Armata Rossa mi prese, mi fece salire su un carro armato, e io li portai in giro per Vienna: conoscevo le strade». Sapeva abbastanza il russo e il tedesco da fungere da interprete. A vent’anni insomma, non avendo frequentato che la scuola elementare, divenne una sorta di mascotte dell’Armata Rossa, con la quale percorse in lungo e in largo la città sconfitta a bordo di un carro armato.22

Infine, con in mano un documento che attestava la sua militanza nel Partito comunista austriaco, tornò in Polonia, dove aderì immediatamente al Partito comunista polacco, il quale lo mandò alla scuola di formazione della polizia segreta di Łódź. In seguito, secondo il suo racconto, fu inviato a proseguire la formazione a Varsavia, dove entrò prima nel nuovo esercito polacco, poi nell’intelligence militare polacca, diretta inizialmente solo da russi, ma che, più tardi, accettò anche alcuni polacchi. Benché egli non l’abbia mai ammesso, molti ritengono che avesse sviluppato un rapporto di qualche tipo anche con l’intelligence militare sovietica.

Pochissimo tempo dopo, nel 1946, Kiszczak venne mandato a Londra. Era, ancora una volta, un’opportunità straordinaria per un giovane di appena ventun anni. La versione che egli ha fornito di questo viaggio è innocente. «Volevamo che quel che restava dell’esercito polacco allora in esilio tornasse in Polonia, con armi e soldati. Sarebbe stato un bel gesto verso la Polonia comunista … All’inizio c’era uno spirito unitario: il governo sosteneva il clero, il clero sosteneva il governo … La Polonia sembrava bendisposta verso tutti, dava la terra ai contadini, prometteva un’istruzione superiore, nuove scuole.» Oltre a questo obiettivo, sempre stando al suo racconto, la sua missione nella capitale britannica aveva quello di svolgere «normale lavoro di intelligence»: raccolta di informazioni sull’esercito britannico, sui polacchi a Londra e, soprattutto, sulle migliaia di soldati polacchi che avevano combattuto con la Royal Air Force o altri corpi britannici durante la guerra.

Molte di queste informazioni biografiche sono impossibili da verificare: a quanto pare Kiszczak, quando era ministro dell’Interno, passò al setaccio gli archivi alla ricerca di tutti i documenti che lo riguardavano, per portarli via o distruggerli. Uno o due, tuttavia, sono stati trovati, fra cui la sintesi di un rapporto che spedì da Londra nel luglio 1947, finita nel dossier di un altro. In un polacco sgrammaticato, in essa si riferisce come l’ambasciata stesse registrando e controllando i membri polacchi delle forze armate britanniche che avevano espresso il desiderio di tornare in patria. Dal documento trapela tutto il disprezzo che a Kiszczak era stato evidentemente insegnato a nutrire per quegli uomini, molti dei quali avevano combattuto fin dal 1939:

La registrazione avviene in una piccola stanza di circa quattro metri per tre in cui vi sono cinque tavoli e cinque sedie e due armadietti contenenti i libri del consolato. La registrazione inizia alle 10 o alle 11, e qualche volta solo alle 14.30, perché gli inglesi ci creano particolari difficoltà, e in questo caso fanno deliberatamente venire in ritardo i soldati per la registrazione … La maggioranza di queste persone farebbe qualunque cosa le venisse detto, accetterebbe qualsiasi cosa, se qualcuno le garantisse un buon tenore di vita in Polonia. Coloro che non ritornano e restano in Inghilterra per ragioni materiali renderebbero probabilmente certi servizi per soldi, perché sono tipici prodotti della Polonia [di prima della guerra], gente senza convinzioni profonde, senza ambizione né onore.23

Nel resto della relazione Kiszczak, che a quel punto aveva ventidue anni, denigrava i diplomatici più anziani dell’ambasciata: l’attaché militare, che non sembrava sufficientemente interessato al controspionaggio, e il colonnello, che cercava di demoralizzare lui e gli altri. In un altro rapporto sopravvissuto si limitò a fornire informazioni sui suoi colleghi in termini più diretti. Un dipendente del consolato non faceva che parlare delle informazioni, che aveva «da fonti ignote», sulla violenza politica in Polonia, mentre altri si lanciavano in accese discussioni politiche e si minacciavano a vicenda.

Era un lavoro esaltante per un giovane, ma Kiszczak non tardò a ripartire. In un’intervista ha affermato che ciò avvenne perché si sentiva solo e aveva nostalgia di casa: «Non riuscivo a mangiare le salsicce inglesi». Ma forse gli era stato detto, e a ragione, che in patria avrebbe avuto opportunità ancora migliori, e decise di coglierle. Nel caos e nella povertà della Polonia del dopoguerra gli agenti segreti, per quanto modeste fossero le loro origini, godevano di una relativa ricchezza e un relativo potere. E, se ne abusavano, nessun altro organo statale poteva arrestarli.

Fin dall’inizio, chiunque in Europa orientale nutrisse l’ambizione di divenire un agente segreto sapeva che gli conveniva avere relazioni sovietiche. Ma non sempre era facile sapere quali fossero quelle giuste. In Ungheria l’organizzazione che sarebbe infine divenuta l’Agenzia per la sicurezza dello Stato non ebbe un solo precedente, ma due, ciascuno diretto da un ungherese con la propria cerchia di amici e mentori sovietici.

Un ramo fu creato dall’alto, a Debrecen nel dicembre 1944, insieme con il governo nazionale provvisorio. In teoria quest’ultimo era una coalizione trasversale. Ma il ministro dell’Interno, Ferenc Erdei, formalmente non comunista, era segretamente fedele al partito, e i suoi primi commenti documentati sui nuovi servizi di sicurezza indicano che sapeva da che parte il vento stesse soffiando. Il 28 dicembre, in un rapporto ai colleghi sul suo «produttivo» incontro con il generale Fëdor I. Kuznecov, capo dell’intelligence militare sovietica in Ungheria, dichiarò che non dovevano preoccuparsi per la sicurezza, perché «le guardie russe ci aiuteranno finché non riusciremo a trovare poliziotti abbastanza degni di fiducia con uniformi dignitose».24 A preoccuparlo, piuttosto, era che il generale Kuznecov non sembrasse sufficientemente interessato a fermare la criminalità e il vandalismo, saliti alle stelle nella parte liberata del paese: «Abbiamo discusso molto di più della polizia politica, sulla quale aveva molti consigli generali e molte proposte».25

Una di queste proposte portò alla nomina a capo dei nuovi servizi di András Tömpe. Veterano della guerra civile spagnola, egli aveva legami di lunga data in seno al movimento comunista internazionale ed era profondamente convinto di essere il solo a godere dell’autorità per divenire il nuovo capo ungherese della polizia segreta. Iniziò subito a organizzare la nuova forza chiedendo armi direttamente all’Armata Rossa, che gliele fornì. Così preparato, partì da Debrecen per Budapest, e arrivò nella zona orientale della città il 28 gennaio, mentre nella periferia occidentale ancora si combatteva.

Sfortunatamente per lui, aveva già un rivale. Solo pochi giorni prima la sezione di Budapest del Partito comunista ungherese aveva costituito anch’essa un dipartimento di polizia politica. Il suo capo era Gábor Péter, membro del Partito comunista ungherese illegale fin dal 1931, che da allora s’era recato frequentemente a Mosca. Lì era stato per tutti gli anni Trenta in stretto contatto con Béla Kun e gli altri veterani della rivoluzione del 1919, fra cui Rákosi, di cui sua moglie, Jolán Simon, sarebbe in seguito divenuta segretaria personale.

Péter aveva legami di vecchia data anche con l’NKVD. Prima della guerra s’era specializzato in logistica clandestina, contribuendo, fra l’altro, a stabilire contatti fra i comunisti in carcere e le loro famiglie a Vienna e a Budapest. Secondo quanto ha raccontato egli stesso, tendendo a darsi un po’ troppa importanza, s’era preparato a lungo a dirigere dopo la guerra la polizia politica e, indubbiamente, dava per scontato che quel posto sarebbe stato assegnato a lui. Qualche ragione per pensarlo forse l’aveva. Se Tömpe, a quanto pare, godeva dell’appoggio degli ufficiali dell’intelligence militare sovietica di stanza a Debrecen, sembra che Péter godesse di quello dei loro capi politici. Quel che è certo è che a metà gennaio, prima dell’arrivo di Tömpe a Debrecen e prima della fine dell’assedio di Budapest, Péter, per riallacciare i suoi rapporti, si recò al quartier generale dell’esercito sovietico nella periferia orientale di Budapest.26 In febbraio, nel presentare una relazione ad alti dirigenti del partito ungherese, cercò di dare l’impressione di avere già in larga misura le cose in mano. Parlò dei suoi novantotto dipendenti («87 operai e 11 intellettuali») e rivendicò di avere già arrestato molti «fascisti». Negli archivi del Partito comunista ungherese, all’originale di questo rapporto è allegata una sua versione in russo, forse un’indicazione che egli si aspettava che avesse lettori russofoni.27

Poche settimane dopo la fine della guerra, Tömpe e Péter si scontrarono. Il primo accusò il secondo di mancare di sufficiente raffinatezza ideologica. Il secondo accusò il primo di avergli fornito arredi da ufficio inadeguati. Inoltre Tömpe era furioso per non essere stato invitato a un evento al quale sarebbe stata presente la stampa.28 Ciascuno dei due avrebbe in seguito sostenuto di essere stato il primo a insediare il quartier generale della polizia politica nel sinistro edificio al numero 60 di via Andrássy, sede nella seconda parte della guerra della polizia fascista ungherese, benché la decisione avrebbe finito per ritorcersi contro il Partito comunista magiaro. (Il fatto che sia la polizia fascista sia quella comunista ne usassero i sotterranei come prigione dava una sgradevole impressione di continuità fra i regimi nazista e sovietico.)29 Nel giro di due anni, questa farsesca disputa si risolse a favore di Péter. Dopo le elezioni del novembre 1945, il ministero dell’Interno venne ufficialmente posto sotto il controllo del Partito comunista e la finzione di una polizia segreta neutrale fu lasciata cadere. Nel 1946 Tömpe «si ritirò» nel servizio diplomatico, e la maggior parte della sua successiva carriera si sarebbe svolta in America Latina.30

Per quanto questo scontro possa sembrare oggi meschino, il successo di Péter nella lotta per il potere rappresentò una prima grave sconfitta per il pluralismo politico in Ungheria. Innanzi tutto quell’importante dibattito sul carattere della nuova forza di polizia si svolse interamente all’interno dei confini del Partito comunista e fu pesantemente influenzato dai funzionari sovietici presenti a Budapest. Né allora né in seguito politici non comunisti, anche quelli all’epoca legalmente attivi, esercitarono mai un qualche influsso sul funzionamento interno della polizia segreta. Importante, inoltre, era il carattere del fronte vittorioso, Péter e la sua «polizia di Budapest»: quest’ultima, infatti, era una struttura extralegale, sotto il controllo non del ministero dell’Interno o del governo, ma del solo Partito comunista. A partire dal 1945, in altre parole, la polizia politica avrebbe riferito direttamente ai vertici del partito, bypassando platealmente il governo di coalizione provvisorio.

Lo status speciale della polizia segreta era abbastanza chiaro a chi lavorava per essa. Se Péter aveva dei vice provenienti dal Partito socialdemocratico e da quello dei piccoli proprietari, non simulava nemmeno di chiedere il loro consiglio, e nessuno nell’agenzia fu mai tratto in inganno dalla loro presenza. Un ufficiale subalterno avrebbe più tardi ricordato che quei non comunisti erano «completamente isolati»: «Tutti finirono per sapere che le loro stanze erano piene di microfoni nascosti, per cui nei contatti con loro dovevo stare molto attento a quello che dicevo».31 Quando nel 1946 Vladimir Farkas, figlio di Mihály, andò a lavorare per l’ÁVO, gli fu espressamente vietato di parlare con i due vice non comunisti di Péter: «Non mi era permesso dare loro alcuna informazione sul mio lavoro, nemmeno dietro ordine esplicito di uno di essi».32

Allo stesso modo, quando politici non comunisti si lamentavano del suo comportamento, la polizia faceva finta di non sentire. Nell’agosto 1945 un viceministro alla Giustizia scrisse al ministero dell’Interno lamentando che la polizia politica «arresta procuratori e giudici senza la mia preventiva approvazione … La pratica di cui sopra nuoce gravemente all’autorità del sistema giudiziario». L’ÁVO non rispose. Un anno dopo, un parlamentare presentò una denuncia simile, ma, quando la sua lettera giunse in discussione al Parlamento, era già fuggito dal paese. Nel 1946 avanzare critiche del genere era ormai considerato molto imprudente.33 Come in Polonia, anche in Ungheria la polizia politica non rendeva conto a nessuno se non a se stessa. Inoltre, come in Polonia, essa conobbe una rapida crescita. Nel febbraio 1946 l’organizzazione di Péter a Budapest impiegava 848 persone. Nel 1953, dopo avere cambiato ancora una volta nome per divenire l’Autorità per la protezione dello Stato (Államvédelmi Hatóság, o ÁVH), contava 5751 dipendenti nel suo quartier generale e un numero di gran lunga maggiore di informatori.34

Fin dall’inizio, a ogni livello dell’organizzazione s’insediarono consiglieri sovietici. «Il consigliere Orlov», che un funzionario del ministero dell’Interno ungherese definì un ufficiale dell’NKVD «vestito in borghese», s’installò al numero 60 di via Andrássy nel febbraio 1945. A sua disposizione c’erano tre poliziotti armati, tutti in divisa dell’NKVD.35 In marzo la catena di comando era al completo. Al vertice c’era il generale Fedor Belkin, ufficialmente membro del Consiglio di controllo alleato, ma, di fatto, alla testa del comando dell’intelligence dell’NKVD in Europa orientale, che aveva sede a Baden, alla periferia di Vienna. A partire dal 1947 l’NKVD insediò inoltre a Budapest un rappresentante permanente, variamente noto come tenente Kremnov o Kamenovic, il cui fraterno aiuto sarebbe stato in seguito essenziale per l’organizzazione dei processi politici farsa in Ungheria. Sotto di loro c’era una schiera di consiglieri semipermanenti. Ancora nel novembre 1952 erano sul libro paga dell’ungherese ÁVH trentatré ufficiali della polizia segreta sovietica più tredici loro familiari. Oltre a ricevere stipendi relativamente elevati, essi avevano diritto ad appartamenti arredati, personale domestico, trasporti gratuiti e a utilizzare, sempre gratuitamente, impianti sportivi, fra cui una piscina, tavoli da ping-pong e sale per giocare a scacchi e domino. Il fine settimana andavano a caccia. Secondo un ex ministro dell’Interno quei «consiglieri» sovietici ricevevano rapporti di intelligence quotidiani e tenevano spesso riunioni con i loro omologhi ungheresi. (Per quanto ne accettassero i consigli, tuttavia, non si convinsero mai, si direbbe, della lealtà della nazione che avevano deciso di servire. La sera del 29 ottobre 1956, quando, per un breve momento, sembrò che la rivoluzione ungherese potesse sfociare in un ritiro sovietico dal paese, tutti, temendo la vendetta della folla, salirono su un aereo e tornarono a Mosca.)36

I capi della polizia segreta ungherese mantenevano stretti rapporti con i loro mentori sovietici. Péter, secondo Farkas, aveva contatti quotidiani con Orlov.37 Ma i russi esercitavano la loro influenza a Budapest anche in un altro modo, tramite una piccola, perlopiù dissimulata, ma potente comunità di ungheresi sovietici o sovietizzati, uomini che erano nati o avevano vissuto la maggior parte della vita in URSS. Uno di essi, János Kovács, un colonnello dell’NKVD di origine magiara, fu il vice di Péter dal gennaio 1945 fino alla morte nel 1948. Un ruolo ancora più significativo sarebbe stato infine svolto da Rudolf Garasin, la cui biografia ufficiale non sembra rendere giustizia alla sua influenza, e la storia della cui vita illustra come per gli ungheresi esistessero anche vie d’accesso nascoste al potere della polizia segreta.

Nato in Ungheria, da adolescente, dopo la prima guerra mondiale, Garasin era stato prigioniero politico in Russia. L’esperienza l’aveva portato su posizioni radicali; s’era unito ai bolscevichi, arruolato nell’Armata Rossa, e aveva preso parte attiva alla rivoluzione e poi alla guerra civile. Dopo di che non aveva fatto ritorno in Ungheria – l’effimera rivoluzione di Béla Kun apparteneva già al passato – ma si era stabilito in Unione Sovietica.38 Secondo il suo stesso racconto, la sua successiva carriera nel paese non ebbe niente di notevole. Stando a una memoria che scrisse per gli storici del partito ungherese, fu attivo nella comunità degli esuli magiari in URSS, studiò ingegneria e poi lavorò per il ministero sovietico dell’Industria leggera. Partecipò alla guerra da ufficiale dell’Armata Rossa, ma, in seguito a una ferita, venne assegnato alle retrovie. Nella primavera del 1944, scrisse, fu all’improvviso chiamato a Mosca, dove venne fatto incontrare con un ufficiale politico dell’Armata Rossa: «Stavo bevendo un tè quando comparve un tenente del ministero dell’Interno, un berretto blu in testa, che, senza dire una parola, mi accompagnò a una macchina che mi portò in piazza Marx-Engels. Lì mi aspettava un altro tenente che m’indicò una porta; entrai e mi lasciò lì. Nell’atrio non c’era nessuno». Alla fine dall’oscurità emersero due figure e il mistero si dissipò: erano Rákosi e Mihály Farkas, le braccia aperte per salutarlo.

Sempre stando al suo racconto, il compagno Rákosi rimproverò giovialmente il compagno Garasin per essersi eclissato così a lungo («ci avevano messo sei mesi a trovarmi»), poi chiese il suo aiuto: voleva che selezionasse dei volontari da una delle «scuole antifasciste» dell’URSS per formare un’unità partigiana che entrasse in Ungheria insieme all’Armata Rossa, proprio come era entrata in Polonia insieme all’Armata Rossa la banda Kujbyšev. «Scuole antifasciste» era un eufemismo: si trattava di campi di rieducazione per prigionieri di guerra, dove ufficiali e soldati ungheresi catturati stavano imparando a divenire dei comunisti. Garasin fece quanto gli era stato detto. Fu presentato agli ungheresi dell’«Istituto 101», il nuovo nome del quartier generale di quello che era stato il Comintern, e, giunto il momento, visitò la «scuola antifascista» di Krasnogorsk, dove fu colpito dall’entusiasmo dei candidati. Erano per la maggior parte così ansiosi di tornare in Ungheria e combattere gli ex alleati tedeschi, scrisse, che si offrirono volontari senza la minima esitazione. Garasin incontrò anche gli «insegnanti» della scuola, molti dei quali avrebbero in seguito ricoperto posti di primo piano nel governo comunista ungherese.

Il suo tentativo di costituire un’unità partigiana progredì piuttosto lentamente: Ungheria e partigiani ungheresi non erano fra le priorità dell’Armata Rossa nell’estate del 1944. I volontari incontrarono difficoltà a raggiungere l’Ucraina, appena dietro la linea del fronte, dove avrebbero dovuto iniziare la loro formazione. Il treno dell’unità partì in ritardo, vi fu confusione sull’abbigliamento e le attrezzature, e i comandanti locali in Ucraina non erano preparati al loro arrivo. Ma, infine, l’addestramento iniziò: impararono a usare esplosivi e ad affrontarsi in finti combattimenti.

Ogni tanto all’unità arrivava la notizia che qualcuno in alto era interessato ai loro progressi. Un giorno videro un aereo sovietico che girava in cerchio sopra di loro, cercando di atterrare, e per fornirgli una pista scacciarono delle mucche. Il motore dell’aereo stava ancora rombando quando, dalla cabina, saltò giù uno dei più noti ideologi comunisti ungheresi, Zoltán Vas, che nella mischia perse subito i suoi occhiali. Nonostante ciò tenne loro una conferenza, forse un po’ lunga, ma molto particolareggiata, descrivendo la situazione promettente al fronte e incoraggiandoli a combattere senza risparmiarsi. Mentre Vas si accingeva a tornare a Mosca, Garasin, scherzando, gli disse che in futuro avrebbe dovuto far sapere in anticipo al gruppo del suo arrivo, «così potremmo addestrarci al tiro all’aereo!». Era presumibilmente quello che passava per humour sul fronte ucraino.

I partigiani, con l’avanzare del fronte, spostarono il campo diverse volte, e ne risultarono varie avventure. Nella sua memoria inedita Garasin confessò che ebbe una relazione con una donna di nome Anna. E ricordò le continue difficoltà per gli approvvigionamenti, risolte quando l’unità s’impadronì di un mulino e, con grande disappunto dei contadini del luogo, ne confiscò i prodotti. Un altro brutto momento ci fu durante un incontro con Rákosi, che attaccò Garasin per avere formato una «compagnia puramente ebraica». Egli ne fu, scrisse, «talmente scioccato che rimasi lì in piedi, immobile; non potevo crederci». Rimuginò su quella strana sortita e, più tardi, si sentì in dovere di dire a Rákosi, il quale, come s’è già detto, era ebreo, che s’era sbagliato di grosso: aveva contato gli uomini dell’unità, e fra di essi c’erano solo sei ebrei.

Infine la liberazione arrivò. All’inizio di febbraio 1945 Garasin e i suoi uomini attraversarono i Carpazi ed egli, per la prima volta dopo trent’anni, entrò in Ungheria. Il 12 febbraio avevano raggiunto Debrecen, la città dell’est divenuta capitale provvisoria del paese. Fu la fine dell’avventura. Garasin, cittadino sovietico, venne subito mandato a lavorare con il Consiglio di controllo alleato. Perse i contatti con i suoi partigiani, iniziò a occuparsi di propaganda e stampa, dopo di che, secondo la versione ufficiale, tornò in Unione Sovietica.39

Il racconto fatto da Garasin della sua vita dipinge, senza volerlo, un quadro vivido e veritiero dei partigiani comunisti ungheresi. Più tardi essi sarebbero stati esaltati dai leader comunisti come eroi di guerra, ma, all’epoca, godevano indubbiamente di ben poca considerazione da parte dell’Armata Rossa. Il racconto di Garasin è importante anche per quanto omette. Non sappiamo che cosa avesse fatto negli anni Venti e Trenta, né dove si trovasse negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, e per tanto tempo in molti hanno nutrito il sospetto che fosse un ufficiale superiore dell’NKVD sovietico.40 Più tardi sarebbe divenuto noto come l’uomo che aveva «importato» in Ungheria le tecniche del Gulag sovietico.

La storia della vita di Garasin illustra inoltre l’importante ruolo svolto in Europa orientale in generale, e in Ungheria in particolare, dai funzionari della polizia segreta, che non erano soltanto collaboratori o reclute locali, come la maggior parte dei membri della banda Kujbyšev, ma, fin dall’inizio, cittadini sovietici e probabilmente agenti segreti sovietici. Garasin era un ungherese di nascita, ma, per sua stessa ammissione, totalmente integrato nella vita sovietica. Aveva una moglie russa, un’educazione russa e, dal 1915 al 1945, aveva vissuto in Russia. Non era semplicemente bendisposto verso l’Unione Sovietica, era un sovietico. Non sorprende quindi che quando, nei primi anni Cinquanta, divenne responsabile dei campi di lavoro ungheresi, li organizzasse deliberatamente sul modello sovietico.41

Come abbiamo visto, l’NKVD aveva già organizzato quadri affidabili fra i comunisti tedeschi ancora prima di entrare a Berlino. E aveva anche scelto, per dirigerli, il loro ufficiale di maggiore esperienza. Nell’aprile 1945 il generale Serov disse addio a Varsavia per recarsi in Germania, dove divise immediatamente Berlino e le altre città della zona sovietica in «settori operativi». Ma inizialmente non concesse ai poliziotti tedeschi alcun reale potere. Per gli ufficiali sovietici i tedeschi, anche se comunisti, avevano bisogno di essere messi sotto tutela ben più degli altri europei dell’Est. Ai normali poliziotti tedeschi non fu concesso di portare armi fino al gennaio 1946. Anche dopo che il controllo della polizia civile passò ad autorità tedesche, ogni decisione sul personale continuò a richiedere l’approvazione dell’Amministrazione militare sovietica.42 Solo nel marzo 1948 il rappresentante del ministero dell’Interno sovietico nella zona orientale avrebbe accettato di informare i vertici del Partito comunista tedesco su chi intendeva arrestare.

Con cautela, e inizialmente solo su piccola scala, gli amministratori sovietici iniziarono a mettere in piedi una polizia politica tedesca nel 1947. Ma, anche allora, non senza contestazioni. A Mosca il ministro dell’Interno, Viktor Abakumov, obiettò che una nuova forza di polizia sarebbe divenuta un bersaglio per la propaganda occidentale: rischiava di essere vista come una «nuova Gestapo». Soprattutto, egli diffidava ancora dei tedeschi: non c’erano, disse, «abbastanza quadri tedeschi che siano stati accuratamente controllati». Nonostante queste obiezioni, il reclutamento ebbe inizio, forse, come sospetta Norman Naimark, perché l’NKVD s’era finalmente resa conto che la scarsa comprensione del tedesco e della Germania da parte dei suoi ufficiali stava suscitando enormi risentimenti. Malgrado ciò, ci volle del tempo perché il nuovo dipartimento, noto come «K5» o, a volte, Dipartimento K, acquisisse un reale potere. Istituito in un primo tempo per tenere sotto controllo le forze di polizia stesse, i suoi dipendenti prendevano ordini direttamente da funzionari del ministero dell’Interno sovietico, bypassando le nascenti strutture del governo regionale e centrale.43 Uno dei pochi documenti del periodo che ci rimangono (per la maggior parte furono portati via dal KGB, o forse distrutti, nel 1989 o prima) menziona una riunione di formazione del dipartimento e ne elenca i partecipanti. In cima alla lista c’è un gruppo di consiglieri sovietici.44

In questo senso il K5 era simile alle polizie politiche degli altri paesi dell’Europa dell’Est: come in Ungheria, in Polonia e nella stessa URSS, esso fu inizialmente una forza extragovernativa, che operava al di fuori del quadro ordinario della legge. Solo nel 1950 il nuovo governo della Germania Est avrebbe emanato con tutti i crismi una «Legge sulla formazione di un ministero per la Sicurezza di Stato».45 Ma, anche allora, i padroni sovietici della Stasi agirono con prudenza. Fecero cadere Erich Mielke, primo capo dell’organizzazione, la cui biografia, avendo trascorso parte della guerra in Francia, presentava lacune sospette, e posero alla testa del nuovo ministero il loro candidato, Wilhelm Zaisser.46

Come l’UB polacca e l’ungherese ÁVO, la Stasi fu strettamente modellata sull’NKVD (che cambiò anch’essa nome dopo la guerra per divenire infine nota come KGB), e le strutture di tutti e tre gli organismi imitavano quelle del KGB. Ma la Stasi spinse l’imitazione a un livello incredibile. Gli agenti segreti tedeschi usarono fino al 1954 metodi di codifica e cifratura sovietici, e impararono persino a cucire i dossier della polizia con il filo come facevano gli impiegati del KGB a Mosca.47 Su materie quali inchiostro segreto e microfotografia si consultavano i compagni sovietici.48 E, cosa ancora più significativa, gli ufficiali della Stasi parlavano di se stessi come di «cekisti», dal nome della primissima polizia segreta bolscevica, fondata nel 1918. Inoltre usavano un simbolo molto simile a quello del KGB, spada e scudo, e nelle loro pubblicazioni rendevano frequentemente omaggio agli «amici» sovietici.49 Un manuale di storia a uso interno della Stasi spiegava che «i cekisti sovietici, sotto la guida di Lenin e del Partito comunista sovietico, hanno creato il modello base degli organi della sicurezza di Stato socialisti». Tutti i tedeschi dell’Est, proseguiva il manuale, sapevano che «imparare dall’Unione Sovietica significa imparare a vincere». In più, i membri dei servizi di sicurezza sapevano che «imparare dai cekisti sovietici significa imparare a disarmare anche il nemico più sofisticato».50

Inizialmente la Stasi attinse, per reclutare i suoi uomini, unicamente dal personale del K5 e dai quadri del Partito comunista. Nonostante ciò l’88 per cento dei primi candidati fu rifiutato, o per avere parenti all’Ovest, o per avere trascorso dei periodi di tempo all’estero, o a causa di una biografia politica per una ragione o per l’altra inaccettabile. Come altrove in Europa dell’Est i reclutatori, su consiglio sovietico, preferivano i giovani senza educazione e senza esperienza ai comunisti più anziani con un’esperienza anteguerra.51 Alcune reclute s’erano «diplomate» nei corsi di formazione e indottrinamento messi in piedi nei campi sovietici per prigionieri di guerra, ma molte, alla fine del conflitto, erano ancora adolescenti, e mancavano di qualunque esperienza. Una di esse ha definito i suoi colleghi, la «nostra generazione», «gente che non era stata coinvolta nel terzo Reich, ma era stata formata dalla guerra».52 Numerose reclute provenivano da classi sfavorite o dal «proletariato» e, se avevano una qualche formazione, era pesantemente ideologica. Nel 1953 si trattava per il 92 per cento di membri del Partito comunista della Germania Est. Di fatto avrebbero avuto bisogno di istruttori e dirigenti sovietici per parecchi anni.53

Wolfgang Schwanitz, giovane studente di legge che iniziò a lavorare per la Stasi nel 1951, era, da questo punto di vista, una recluta tipica. Più di cinquant’anni dopo ha ricordato: «Non sapevo assolutamente niente di organi di sicurezza, non avevo sentito né letto nulla al riguardo, ed ero curioso di ciò che ci si aspettava da me … Ero come una vergine prima di commettere peccato». Convinto che era «necessario proteggere la DDR», accettò il lavoro.54 Nei mesi successivi fu sottoposto a un addestramento intensivo da parte, quasi senza eccezione, di agenti segreti sovietici: «Ci prendevano veramente per mano; il consigliere spiegava per filo e per segno quello che dovevo fare durante il giorno, poi, la sera, ascoltava quello che avevo fatto. Mi diceva ciò in cui avevo sbagliato e, a volte, in cui non avevo sbagliato». Oltre che sulla teoria marxista-leninista e sulla storia del Partito comunista, le lezioni vertevano su tecniche pratiche: come reclutare un informatore, come allestire un appartamento sicuro, come osservare un sospetto e condurre un’indagine. Per altri, la formazione era più sbrigativa: una recluta del primo periodo ricorda che venne «gettata nel lavoro»; messa in una stanza con altre due o tre persone, e un’unica motocicletta da dividere fra quindici uomini, le fu ordinato di andare a organizzare cellule della Stasi in varie città. Dopo di che le cellule avrebbero dovuto «clonarsi».55

Schwanitz era lusingato da tutte le attenzioni che riceveva, e così tanti altri. Günter Tschirschwitz, un giovane poliziotto la cui famiglia aveva lasciato la Slesia alla fine della guerra, aveva solo ventun anni quando, nel 1951, gli fu semplicemente detto di «andare a Berlino» per un colloquio. Lì scoprì di essere andato a un incontro con ufficiali della Stasi. I suoi reclutatori erano uomini più anziani di lui, comunisti da prima della guerra. «Mi raccontarono episodi del loro passato antifascista» mi ha detto. Anch’egli era lusingato di essere stato raccomandato dalla cellula locale del partito, e avrebbe conservato per anni la sua lettera di raccomandazione. Il giovane che essa descrive sembra senza dubbio pieno di promesse: «Ha cognizioni politiche superiori alla media. Si sforza con tenacia di ampliare le sue conoscenze studiando nel tempo libero. Studia assiduamente il Partito comunista tedesco, è una persona che ha coscienza di classe. Il suo atteggiamento verso l’Unione Sovietica e la DDR è sempre positivo. È membro del comitato della quinta cellula del partito, contribuisce attivamente al lavoro del partito e scrive per il bollettino murale».56

La lettera di raccomandazione prosegue definendolo «affidabile» e con un comportamento «da compagno». Fu accettato. Stando alle sue parole, a un certo punto venne preso in considerazione per il compito di svolgere interrogatori, ma finì per divenire una guardia del corpo, il lavoro forse migliore nella polizia segreta. Ne fu contento, mi ha detto, «perché non volevo lavorare al chiuso».

Anni dopo, la comprensione da parte di Tschirschwitz del ruolo svolto dalla Stasi nella creazione della Germania Est non era divenuta molto più profonda, e i suoi sentimenti positivi riguardo alla propria formazione sovietica non erano cambiati. In una lunga conversazione sugli anni passati nel servizio di sicurezza, ricorda perlopiù i viaggi compiuti. A Praga aveva gustato la meravigliosa cucina boema, a Vienna gli avevano dato da spendere 200 scellini, e a Budapest gli agenti della sicurezza ungherese s’erano dimostrati ospitali. Inoltre evoca con nostalgia i viaggi in treno, con destinazione Mosca, insieme a Otto Grotewohl, primo ministro della Germania Est dopo il 1949, e Wilhelm Pieck, e l’eccellente cooperazione con gli agenti della sicurezza della Germania Ovest durante un viaggio a Bonn negli anni Settanta. La carriera nella Stasi aveva rappresentato per lui un’ascesa sociale, offrendogli un certo comfort materiale e un’istruzione: tutto grazie ai fraterni compagni dell’Unione Sovietica.57

Le nuove reclute delle polizie segrete dell’Europa dell’Est impararono dall’NKVD, e più tardi dal KGB, tecniche di spionaggio e combattimento e metodi di sorveglianza. Ma dai loro mentori russi appresero anche a pensare da agenti segreti sovietici. Impararono a identificare nemici anche quando sembravano non essercene: gli agenti segreti sovietici conoscevano i metodi utilizzati dai nemici per mascherarsi. Impararono a mettere in dubbio l’indipendenza di qualunque persona o gruppo si dichiarasse politicamente neutrale: gli agenti segreti sovietici non credevano alla neutralità.

Inoltre esse vennero addestrate a pensare a lungo termine e individuare, oltre agli effettivi avversari del regime, i suoi nemici potenziali. Si trattava di un’ossessione profondamente bolscevica. Nel marzo 1922 Lenin stesso aveva dichiarato che «maggiore sarà il numero di rappresentanti del clero reazionario e della borghesia reazionaria che riusciremo a giustiziare … meglio sarà. Dobbiamo dare subito una lezione a questa gente, perché non osi neanche pensare a una qualche resistenza per decenni e decenni».58 E, in un saggio scritto a beneficio dei futuri quadri, uno storico della Stasi spiegò che, «fin dall’inizio», l’organizzazione «non poteva limitarsi a parare gli attacchi del nemico. Essa era ed è un organo che deve usare tutti i mezzi nella lotta offensiva contro gli avversari del socialismo».59

Nello stesso tempo agli agenti segreti dell’Europa dell’Est veniva insegnato a condividere il disprezzo e l’odio dell’Unione Sovietica per coloro che essa combatteva. A partire dai tardi anni Trenta Stalin aveva iniziato a parlare in pubblico dei nemici dell’URSS in quelli che uno storico ha definito «termini biologico-igienici»: come di parassiti, di fonti di inquinamento e sporcizia contro cui si doveva procedere a una «decontaminazione permanente», di «erbacce velenose».60 Di questo livore si sente l’eco nei rapporti da Londra, già citati, del giovane Czesław Kiszczak: «Coloro che non ritornano e restano in Inghilterra per ragioni materiali renderebbero probabilmente certi servizi per soldi, perché sono tipici prodotti della Polonia [di prima della guerra], gente senza convinzioni profonde, senza ambizione né onore».61

Infine i compagni sovietici insegnarono ai loro protetti che chiunque non era comunista era, per definizione, una sospetta spia straniera. In piena guerra fredda tale convinzione divenne molto forte ovunque nel blocco sovietico, anche grazie a una propaganda in bianco e nero che raffigurava l’Est, amante della pace, costantemente in lotta contro l’Ovest guerrafondaio. Ma in Germania Est essa si trasformò in breve in un’ossessione. La vicinanza della Germania occidentale e la relativa apertura di Berlino negli anni Quaranta e Cinquanta significavano che il nuovo Stato comunista tedesco era realmente circondato, e infiltrato, da un gran numero di occidentali. La mentalità della Stasi sarebbe stata per sempre modellata dalle esperienze di quell’epoca, al punto che i suoi membri avrebbero trovato difficile, più tardi, distinguere fra spie e comuni dissidenti. Uno storico della Stasi ha descritto il dopoguerra come un periodo di lotta contro i partiti politici della Germania Ovest nonché contro il «cosiddetto Comitato dei giuristi liberi», il Gruppo di combattimento contro l’inumanità (Kampfgruppe gegen Unmenschlichkeit, o KGU) e altri gruppi per la difesa dei diritti umani attivi allora a Berlino Ovest. Simili organismi, nella memoria collettiva della Stasi, non avevano per obiettivo di promuovere la libertà di espressione o la democrazia, bensì di «isolare a livello internazionale la DDR» e minare lo Stato. Se essi avevano una «forte base sociale nella DDR», era soltanto per il perdurare di forme di produzione capitalistiche e modi di pensare fascisti, ed era quindi necessario combattere contro di essi e i loro «calunniosi volantini» con grande energia.62

Questa lotta contro potenti, non identificati e accuratamente mascherati rappresentanti di Stati stranieri avrebbe assunto molte forme. Essa richiese fin dall’inizio, non c’è dubbio, la stretta sorveglianza di chiunque avesse un qualche contatto con stranieri, avesse parenti all’estero, o avesse compiuto viaggi all’estero in passato. In Germania Est esistevano liste di tutti coloro che avevano contatti con la stampa occidentale, specie con la Radio nel settore americano (Rundfunk im amerikanischen Sektor, o RIAS), che trasmetteva sotto l’egida delle autorità di occupazione statunitensi. Speciali sforzi furono compiuti inoltre per collocare nella stazione radio informatori e spie.63

Lo stesso accadde in Ungheria, dove tutti gli ungheresi che avevano contatti all’estero erano considerati spie. Quando nel 1948 Ilona ed Endre Marton, entrambi nati in Ungheria, furono nominati corrispondenti delle agenzie di stampa americane Associated Press e United Press, iniziarono a essere seguiti giorno e notte, come ha in seguito documentato la loro figlia, Kati Marton, da poliziotti e informatori. Una sosta al bar, un flirt con un collega, un pomeriggio sugli sci: tutto veniva registrato dall’ÁVO ungherese in un dossier che, nel 1950, aveva già raggiunto le 1600 pagine. Benché essi non fossero spie – al contrario, alcuni diplomatici americani diffidavano fortemente di loro –, quando nel 1955 furono infine arrestati il «Piano per l’interrogatorio della signora Marton» prevedeva domande su «le persone che ha incontrato dal 1945 e che sorta di rapporti ha stretto con esse», nonché su «i suoi legami con gli americani e le sue attività spionistiche» e «il suo amore per lo stile di vita occidentale».64

La lotta contro i nemici richiese inoltre fin dall’inizio che i nuovi agenti della sicurezza padroneggiassero la delicata arte di coltivare amici e informatori. Poiché il nemico si nascondeva, si poteva scoprirlo solo ricorrendo a sotterfugi e alla cauta collaborazione di alleati segreti, nel proprio campo come in quello nemico. Uno dei primi documenti della Stasi concernente la formazione degli agenti spiega con grande precisione quanto questo tipo di reclutamento fosse importante:

Essendo compito specifico del [ministero per la Sicurezza di Stato] scoprire e distruggere in tutti i campi il nemico che usa metodi cospirativi, è necessaria la cooperazione non ufficiale sia con cittadini della nostra repubblica sia con patrioti nel campo del nemico. I cittadini che s’impegnano in questo genere di cooperazione esprimono un grado particolarmente elevato di fiducia nei confronti dell’MfS [Stasi]. Poiché questa forma di cooperazione è di importanza centrale per il nostro lavoro, a tutti i membri dell’MfS si deve insegnare ad amare questo importante compito e a rispettare e apprezzare i combattenti e patrioti sul fronte invisibile.65

In pratica questo significava che gli agenti segreti dovevano essere iniziati alle arti della persuasione, della corruzione, del ricatto e della minaccia. Dovevano convincere le mogli a spiare i mariti, i figli a dare informazioni sui genitori. Dovevano imparare, per esempio, a identificare e sorvegliare persone come Bruno Kunkel, alias Max Kunz, che iniziò a lavorare segretamente per la Stasi nel 1950 e il cui dossier, sopravvissuto intatto, rivela come i membri della polizia segreta avessero bisogno di sapere tutto sui loro stessi collaboratori più stretti, uomini che lavoravano per loro nella clandestinità. Il dossier di Kunkel elenca tutte le sue affiliazioni politiche e professionali (movimento giovanile comunista, apprendistato presso un meccanico di automobili), oltre che tutti i membri della sua famiglia e le loro affiliazioni professionali e politiche.66 Esso include inoltre diversi suoi profili psicologici tracciati da colleghi e superiori, e non tutti lusinghieri («K. manca di volontà. Ha un carattere leggero ed è superficiale … La sua coscienza di classe è poco sviluppata. Ma è bendisposto verso l’Unione Sovietica e il suo ordine democratico antifascista»). Quando fu arruolato, Kunkel era già stato esaminato sotto tutti gli aspetti, ma dovette ugualmente prestare un terribile giuramento:

Io, Bruno Kunkel, dichiaro irrevocabilmente di farmi obbligo di lavorare per l’organo della sicurezza di Stato della DDR. Mi faccio obbligo di scoprire persone le cui attività sono dirette contro la DDR o l’Unione Sovietica e di denunciarle immediatamente. Giuro di eseguire scrupolosamente gli ordini che il mio superiore mi impartirà. Mi è stato spiegato che il mio obbligo verso l’organo della sicurezza di Stato deve rimanere segreto e mi faccio obbligo di non parlarne a seconde persone, compresi i membri della mia famiglia. Per mantenere tutto ciò segreto firmerò i rapporti che consegnerò sotto il nome in codice di Kunz. Se diffonderò questa dichiarazione, da me firmata, sarò severamente punito.67

Egli firmò la dichiarazione sia come «Bruno Kunkel» sia come «Max Kunz», e si dimostrò a quanto pare un dipendente segreto fedele, perché lasciò in breve l’attività cospirativa e andò a lavorare per la Stasi a tempo pieno.

Nel corso degli anni seguenti si dovettero convincere a firmare documenti simili decine di migliaia di altre persone in tutta l’Europa dell’Est. Una volta che esse avevano firmato, dovevano essere attentamente sorvegliate per assicurarsi che tenessero davvero il segreto e che le informazioni che trasmettevano fossero attendibili. Gli informatori tenevano un occhio fisso sulla gente, ma la polizia segreta doveva imparare a tenere un occhio fisso sui suoi informatori. Così, gli agenti segreti dell’Europa dell’Est avrebbero finito per sforzarsi di giungere a un livello di vigilanza impossibile, contro nemici ignoti e spesso non identificabili, all’interno e all’esterno del paese, all’interno e all’esterno del partito, all’interno e all’esterno della loro stessa organizzazione. Non era una forma mentis suscettibile di favorire la cooperazione democratica.

V

VIOLENZA

È chiarissimo: deve sembrare democratico, ma dobbiamo avere tutto sotto il nostro controllo.

WALTER ULBRICHT, 19451

L’Unione Sovietica e i partiti comunisti dell’Est europeo perseguirono i loro obiettivi ricorrendo alla violenza fin dal primo istante. Controllavano i «ministeri della forza», quello dell’Interno e quello della Difesa, in ogni paese, e si servirono a proprio vantaggio sia della polizia sia delle nascenti forze armate. Dopo la fine della guerra la violenza non fu più quella di massa, indiscriminata, del genere impiegato dall’Armata Rossa nella sua marcia su Berlino, ma una forma di violenza politica più selettiva, mirata in modo più attento: arresti, pestaggi, esecuzioni e campi di concentramento. E tutto ciò fu diretto contro un numero relativamente esiguo di nemici veri, presunti, immaginari e futuri dell’Unione Sovietica e dei partiti comunisti. Loro intento ultimo era sia distruggerli fisicamente, sia creare la sensazione che ogni resistenza armata fosse vana.2

Non era questo che dicevano, ovviamente. Almeno all’inizio l’NKVD e le nuove polizie segrete dichiararono a gran voce guerra a ciò che restava del fascismo, mentre i funzionari sovietici e i partiti comunisti locali diressero la loro più veemente propaganda contro i collaboratori e quisling nazisti. In questo non erano diversi dai nuovi governi nazionali della Francia, dei Paesi Bassi e degli altri paesi d’Europa che avevano subito l’occupazione tedesca.3 Ma in ogni paese occupato dall’Armata Rossa la definizione di «fascista» finì per ampliarsi fino a includere non solo i collaboratori dei nazisti, ma chiunque non piacesse agli occupanti sovietici e ai loro alleati locali. Con il tempo, il termine «fascista» sarebbe stato usato, in puro stile orwelliano, per definire quegli antifascisti che erano semplicemente anche anticomunisti. E ogni volta che la definizione venne ampliata, seguirono arresti.

Alcuni di questi «fascisti» erano stati identificati preventivamente. Lo storico Amir Weiner ha rilevato che l’NKVD iniziò a compilare liste di potenziali «nemici» in Europa orientale, in particolare in Polonia e negli Stati baltici, per molti anni prima della fine della guerra (anche se ha distinto fra l’eccellente «conoscenza» che essa aveva della Polonia e la sua scarsa capacità di «comprensione» culturale e storica).4 I nomi venivano reperiti sulla stampa e tramite spie e diplomatici. Quando non ne aveva, l’NKVD preparava liste di tipi di persone che dovevano essere arrestate. Nel maggio 1941 lo stesso Stalin fornì un elenco del genere per i territori appena occupati della Polonia orientale, chiedendo l’arresto e l’esilio non solo dei «membri di organizzazioni controrivoluzionarie polacche», ma anche dei loro familiari, nonché dei familiari di ex ufficiali dell’esercito polacco, ex poliziotti ed ex funzionari pubblici.5

Non tutti gli arresti avvennero subito. In diverse occasioni Stalin ordinò ai comunisti dell’Europa orientale di procedere con cautela nell’instaurazione del nuovo ordine sociale. Nella primavera del 1944 il Partito comunista polacco, allora una forza di dimensioni molto ridotte, ricevette da Mosca un messaggio che ordinava ai suoi dirigenti di collaborare con tutte le forze democratiche («tutte» era sottolineato) e rivolgere la sua propaganda contro i «membri ordinari» degli altri partiti, quelli più «reazionari».6 La politica iniziale di Stalin era di procedere a passi felpati, non mettere in agitazione gli Alleati e conquistare la gente con la persuasione o furtivamente. Fu per questo che in Ungheria si tennero libere elezioni, che altrove furono tollerati alcuni partiti politici indipendenti e che, ancora nel 1948, Stalin invitò i comunisti della Germania Est a seguire una «politica opportunista», che comportava di «avanzare verso il socialismo non in linea retta, ma a zigzag e per vie traverse». E suggerì loro persino, facendoli inorridire, di prendere in considerazione la possibilità di ammettere tra le loro file ex nazisti.7 A tutti i comunisti locali arrivati in aereo da Mosca o al seguito dell’Armata Rossa era stato inculcato il modello del «fronte nazionale»: non usare slogan comunisti, non parlare di dittatura del proletariato, parlare di coalizioni, alleanze e democrazia.

Nonostante tali propositi moderati, la violenza non tardò a intensificarsi, non sempre intenzionalmente. Spesso l’ordine di procedere lentamente non era eseguibile: soldati e ufficiali sovietici erano intellettualmente e psicologicamente impreparati alle conseguenze di una politica del genere. Per un ufficiale sovietico, formatosi in scuole bolsceviche e poi nell’Armata Rossa e nell’NKVD, ogni membro attivo di qualsiasi gruppo politico che non fosse il Partito comunista era sospetto per definizione, probabilmente un sabotatore o una spia. A Mosca il Politburo poteva anche teorizzare sulla creazione di «democrazie socialiste», ma gli amministratori sovietici sul terreno erano spesso incapaci di tollerare qualunque cosa di diverso da uno Stato totalitario. Essi reagirono con un orrore istintivo quando i cittadini appena liberati iniziarono a esercitare la libertà di espressione, di stampa e di associazione che la retorica dei nuovi regimi sembrava promettere.

Ma la violenza s’intensificò anche perché le aspettative tanto dei nuovi amministratori militari sovietici quanto dei comunisti locali andarono rapidamente deluse. Sulla scia di quella che l’Armata Rossa considerava la sua marcia trionfale attraverso l’Europa, i comunisti dei diversi paesi si aspettavano che la classe operaia aderisse alla rivoluzione. Quando questo non accadde, spesso s’infuriarono per «l’incomprensibile spirito di resistenza e l’assoluta ignoranza» dei loro connazionali, come si espresse un funzionario del partito di Varsavia.8 Anche questa frustrazione, unita al profondo shock provocato dall’incontro fra la cultura sovietica e quelle dell’Europa orientale, andò ad alimentare direttamente la violenza politica.

In alcuni paesi l’occupazione non conobbe un momento iniziale «liberale». In Polonia, l’URSS cominciò a mostrare un’accesa ostilità verso l’Esercito interno e soprattutto verso le sue divisioni partigiane nella metà orientale del paese ben prima della fine della guerra. La prima invasione e occupazione sovietica della Polonia orientale, nel 1939, era stata accompagnata da arresti e deportazioni in massa di commercianti, uomini politici, funzionari pubblici e sacerdoti. La violenza culminò nell’infame assassinio di massa di almeno 21.000 ufficiali polacchi nelle foreste della Russia occidentale, tragedia nota, dal nome del paese dove sarebbero state scoperte le prime fosse comuni, come il massacro di Katyń. Tra le sue vittime vi erano molti ufficiali della riserva che, da civili, erano stati medici, avvocati e docenti universitari: ancora una volta, l’élite patriottica e intellettuale della Polonia. L’Esercito interno, gli esuli e i capi della resistenza polacchi conoscevano bene questa storia: la scoperta da parte dei nazisti, nel 1941, di una delle fosse comuni di Katyń portò a una totale rottura delle relazioni diplomatiche fra il governo polacco in esilio e l’URSS.

Nel 1944, tuttavia, all’epoca della seconda invasione sovietica, l’Esercito interno non era un’organizzazione fondamentalmente anticomunista. Costituito nel 1942 come braccio armato della corrente principale del movimento di resistenza – lo Stato clandestino polacco –, esso era per definizione antinazista e antifascista. L’antifascismo, di fatto, era pressoché l’unico sentimento politico che univa i suoi soldati, fra i quali si trovavano membri dei partiti socialista, socialdemocratico, nazionalista e contadino. All’apice della sua forza l’Esercito interno contava circa 300.000 partigiani armati, il che lo rese il secondo movimento di resistenza più grande d’Europa dopo quello dei partigiani iugoslavi, almeno fino all’espandersi della resistenza francese dopo il D-Day. Inoltre, il fatto che fosse legalmente subordinato al governo costituzionale polacco in esilio a Londra gli conferiva legittimità e lo poneva in continuità con la Polonia d’anteguerra, qualcosa che nessuno dei movimenti di resistenza più piccoli del paese poteva rivendicare.9

Lo stesso Esercito interno agiva nell’idea che i suoi dirigenti avrebbero svolto un ruolo di primo piano nella formazione del governo provvisorio del dopoguerra, proprio come i seguaci di Charles De Gaulle in Francia. I suoi soldati si vedevano, giustamente, come Alleati, allo stesso titolo di Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica. In previsione dell’imminente arrivo dell’Armata Rossa, quindi, esso era determinato a mobilitarsi contro i tedeschi in ritirata e impegnarsi in una collaborazione tattica con le forze sovietiche. Le sue unità avevano ricevuto l’ordine esplicito di non combattere contro di esse fin dall’ottobre 1943, quando il suo comandante aveva chiesto al governo in esilio a Londra di prendere al riguardo una decisione «storicamente trasparente».10 Ai capi partigiani dell’Esercito interno era stato ordinato di farsi riconoscere dalle truppe dell’Armata Rossa e aiutare come meglio potevano i soldati sovietici nella lotta contro i tedeschi.11 Inoltre, per avere migliori carte in mano in futuro dal punto di vista politico, dovevano concentrare i loro sforzi nella liberazione delle città.12

Alcuni dei primi incontri si svolsero senza problemi. Nel marzo 1944 gli ufficiali di un’unità avanzata di esploratori dell’Armata Rossa s’incontrarono con i loro omologhi della 27a Divisione di fanteria dell’Esercito interno della Volinia e, insieme, concordarono di collaborare alla liberazione di Kovel, città appartenente prima della guerra alla Polonia, oggi in Ucraina occidentale. I polacchi accettarono di subordinarsi durante la battaglia al comando operativo sovietico, e i sovietici di fornirli di munizioni e riconoscere la loro indipendenza politica. Per tre settimane soldati polacchi e sovietici combatterono fianco a fianco, prendendo diversi paesi e subendo molte perdite.13

Se i sovietici non avessero avuto altri obiettivi politici, l’episodio avrebbe potuto servire da modello per una futura collaborazione. Ma finì male. In luglio il comandante della divisione polacca ribadì la sua volontà di continuare a operare con l’Armata Rossa, ma dichiarò che non avrebbe collaborato con il nuovo Comitato di liberazione nazionale di Lublino, guidato dai comunisti. La cooperazione si concluse. La divisione venne immediatamente circondata dalle truppe sovietiche e disarmata. Alcuni dei suoi membri furono mandati in campi di lavoro, altri arrestati.14 Collaborazione, tradimento, disarmo, arresto: la maggior parte dei successivi incontri fra l’Armata Rossa e l’Esercito interno avrebbe seguito esattamente lo stesso copione.15

Con il procedere della seconda invasione della Polonia da parte dell’Armata Rossa, nella primavera e nell’estate del 1944, i rapporti con l’Esercito interno divennero di grande rilevanza per la dirigenza sovietica. Sulla situazione nel paese Lavrentij Berija, il brutale ed equivoco capo dell’NKVD, presentava quotidiani e circostanziati rapporti a Stalin, usando un linguaggio probabilmente inteso ad allarmare il leader sovietico. Il 29 giugno 1944, per esempio, gli sottopose un elenco di «bande polacche» (il termine «banda» suggeriva qualcosa di vagamente criminale) che si stavano preparando all’azione in «Bielorussia occidentale» (ex Polonia orientale, il territorio occupato dall’URSS dal 1939). Quelle bande, scrisse, erano «organizzate secondo gli stessi principi della Polonia d’anteguerra» (che era capitalista, «aristocratica» e ostile all’Unione Sovietica). E, aggiunse in tono sinistro, avevano «legami diretti con i circoli militari del governo polacco in Inghilterra». In un rapporto successivo sottolineò che a volte esse s’incontravano anche con inviati provenienti da Londra (il che significava che dovevano essere strumenti dell’influenza occidentale). Secondo le sue stime c’erano nella regione fra i 10.000 e i 20.000 uomini armati, ed egli diffidava profondamente di tutti loro.16

Berija riferì inoltre che le «bande» sembravano prepararsi a una grande offensiva contro i tedeschi, il che corrispondeva a verità. Alla fine di giugno i soldati dell’Esercito interno negli ex territori polacchi si stavano effettivamente preparando all’«Operazione Tempesta», una serie di sollevazioni volte a liberare le città polacche dall’occupazione nazista prima dell’arrivo dell’Armata Rossa. La più famosa di esse fu la rivolta di Varsavia, ma sollevazioni minori erano previste anche a Vilnius e L’viv (o Wilno e Lwów, come i polacchi continuavano a chiamarle). Berija aveva ragione anche nel supporre che i dirigenti dell’Esercito interno fossero in contatto con Londra. Per quanto le loro comunicazioni con il mondo esterno fossero rudimentali e irregolari, le unità partigiane in quelle foreste orientali si consideravano parte di un esercito regolare, che operava sotto il comando del governo polacco in esilio nella capitale britannica. Esse, inoltre, davano per scontato che finita la guerra i territori polacchi occupati dall’URSS nel 1939 sarebbero tornati sotto la sovranità di Varsavia, e che sarebbero stati ripristinati i confini anteguerra del paese.

Ma i comunicati di Berija finirono per spingersi oltre. Non contento di avere cupamente suggerito che l’Esercito interno era una forza del capitalismo aristocratico, egli giunse a insinuare che i suoi dirigenti stessero collaborando con i tedeschi. Prendendo a prestito un termine dallo spionaggio, riferì a Stalin che i «centri» dell’Esercito interno di Varsavia e Vilnius «operano al servizio dei tedeschi, si armano a spese [dei tedeschi], e fanno propaganda contro i bolscevichi, i partigiani [comunisti] e i kolchoz, uccidendo i comunisti rimasti nel territorio della Bielorussia occidentale».17 Berija nutriva gravi sospetti sulle motivazioni del comandante dell’Esercito interno in Polonia orientale, il generale Aleksander Krzyżanowski, meglio conosciuto, allora come ora, sotto lo pseudonimo di Wilk («Lupo»). Il generale Wilk, scrisse in luglio, era un personaggio ambiguo arrivato nella regione «illegalmente» da Varsavia durante l’occupazione tedesca. Peggio ancora, uno dei suoi subalterni s’era già presentato all’Armata Rossa e aveva chiesto ai comandanti sovietici la loro collaborazione nella liberazione di Vilnius. Berija considerava la richiesta oltraggiosa – «i polacchi pensano di avere il diritto di prendere Vilnius!» – e lamentò che «questo esercito polacco disorienta la popolazione»: era necessario, spiegò, che la gente della regione sentisse di dovere la propria liberazione all’Unione Sovietica, non alla Polonia.18

Alcune accuse lanciate da Berija nella sua invettiva contro il generale Wilk erano probabilmente fondate. È indubbio che molti gruppi partigiani polacchi nei dintorni di Vilnius, come in Bielorussia e Ucraina occidentali, diffidassero dei comunisti, e per buone ragioni. Quelli erano i territori che l’URSS aveva già occupato, seminandovi il terrore, fra il 1939 e il 1941, i territori da cui erano stati esiliati in Unione Sovietica o deportati in campi di concentramento mezzo milione di polacchi. I sopravvissuti erano pieni di rancore, sapevano del massacro di Katyń e si ritenevano senza dubbio in diritto di riprendere Vilnius, città polacca da molti secoli e i cui abitanti erano ancora in maggioranza polacchi. Inoltre non vedevano nulla di cui vergognarsi nell’usare i depositi di armi che i tedeschi, andandosene, avevano lasciato dietro di sé, se serviva a liberare il loro paese prima dell’arrivo dell’Armata Rossa.

Ma definire i battaglioni dell’Esercito interno «al servizio dei tedeschi» era ridicolo. Nel generale Wilk, che combatteva contro i tedeschi dal 1939, non c’era nulla che avesse neanche lontanamente a che vedere con il fascismo. Né lui né nessun altro in posizione di comando nel suo esercito diede mai ordine, né allora né dopo, di opporre resistenza all’Armata Rossa. L’avversione di Berija per uomini come Wilk era ideologica, e forse anche egotistica. Gli ripugnava l’idea che degli ultimi arrivati, per di più polacchi e non comunisti, potessero sfidare gli ufficiali sovietici.

Tale atteggiamento si rifletteva per tutta la catena di comando sovietica. In luglio, in un rapporto al quartier generale, un comandante del Primo fronte bielorusso riferì di avere incontrato un «partigiano» polacco – come Berija, mise la definizione fra virgolette – che, con suo grande stupore, l’aveva trattato da pari a pari. Egli aveva affermato, scrisse, di essere un «capitano-comandante di divisione», e aveva chiesto armi e assistenza. Pochi giorni dopo un altro rapporto dal fronte descrisse un incontro con un altro gruppo di partigiani polacchi, che s’erano imbattuti in alcuni piloti americani i cui aerei erano stati abbattuti. Quando i sovietici avevano ordinato loro di consegnarglieli, avevano rifiutato. «Questi non sono partigiani,» inveì il colonnello «sono divisioni polacche fedeli al governo polacco di Londra!»19 In realtà erano entrambe le cose. Ma l’orizzonte mentale del colonnello non era abbastanza ampio da potere includere fra i partigiani chi non era un partigiano sovietico.

A metà dell’estate, abbandonata ogni parvenza di collaborazione, l’URSS iniziò apertamente a trattare l’Esercito interno come una forza nemica. Verso la metà di luglio 1944 Berija informò Stalin di avere mandato 12.000 uomini dell’NKVD a «prendere le necessarie misure cekiste», cioè impiegare i metodi della polizia segreta, per sradicare dalle foreste quel che restava dei partigiani dell’Esercito interno e «pacificare» la popolazione che li aveva riforniti di cibo e ospitati.20 Come già detto, a comandarli aveva inviato il generale Ivan Serov. Egli aveva già sovrinteso fra il 1939 e il 1941 alla deportazione dalla Polonia orientale e dagli Stati baltici di «elementi pericolosi», e nel 1944 aveva organizzato la brutale deportazione dalla Crimea dell’intera popolazione tatara. La «pacificazione» di piccole nazioni era la sua specialità.21

Serov non tardò a mettersi in azione. Il 17 luglio i comandanti dell’Armata Rossa invitarono su suo ordine il generale Wilk a un incontro. Non appena arrivò, fu disarmato e arrestato. Nei successivi due giorni vennero allo stesso modo convocati, disarmati e arrestati moltissimi suoi uomini. Al 20 luglio avevano ormai subito questa sorte 6000 partigiani dell’Esercito interno, fra cui 650 ufficiali.22 Allettati dalla promessa di armi migliori e assistenza, quasi tutti erano stati colti di sorpresa. Il 14 luglio, per esempio, a Henryk Sawala, un giovane partigiano, fu comunicato che la sua unità si sarebbe unita a una nuova divisione polacco-sovietica. Avrebbero dovuto sottoporsi, gli disse il suo comandante, a sei settimane di addestramento, dopo di che avrebbero continuato l’avanzata al fianco dell’Armata Rossa, con il sostegno dell’artiglieria e dei carri armati sovietici. Rallegrandosi a questa prospettiva, il 18 luglio Sawala si presentò agli ufficiali sovietici destinati, credeva, a comandare la nuova divisione. Fu messo immediatamente agli arresti.

«Fummo accolti da un gruppo di cinquanta soldati [dell’NKVD] e disarmati» avrebbe ricordato in seguito. Alcuni suoi compagni opposero resistenza all’arresto, preferendo «morire con onore». Ma, vedendosi soverchiati dal numero dei sovietici, gli altri decisero per la maggior parte di evitare un inutile massacro e deposero immediatamente le armi. Tutti, fra cui Sawala, vennero poi fatti marciare, sotto scorta armata e senza cibo, fino a un campo temporaneo a una quarantina di chilometri da Vilnius. Mentre a ovest i combattimenti infuriavano, quei partigiani sperimentati, uomini che sarebbero stati ben felici di combattere contro i tedeschi in ritirata, furono costretti a restare per giorni e giorni ammassati a non fare niente: «Dormivamo uno accanto all’altro, stretti come sardine in scatola» avrebbe ricordato Sawala «senza avere altro da mangiare che pane e aringhe».23

Infine furono convocati a un incontro e venne proposto loro un patto. Un soldato nell’uniforme dell’esercito polacco – Sawala ricordava che era «difficile capirlo, perché usava più parole russe che polacche» – li esortò a unirsi alla divisione polacca dell’Armata Rossa e rinnegare il governo «traditore» di Londra. Il messaggio fu ripetuto da Jerzy Putrament, uno scrittore comunista polacco. La risposta non fu positiva. I partigiani coprirono Putrament di insulti e chiesero il ritorno del loro comandante. Allora l’agitatore dal cattivo polacco abbandonò le buone maniere e iniziò a gridare che, se non si fossero immediatamente uniti all’Armata Rossa, sarebbero finiti tutti a «spaccare pietre» da qualche parte. La maggior parte di loro, ormai furibondi, rifiutò e venne sistematicamente deportata ancora più a est, in campi di lavoro per prigionieri di guerra. Alcuni furono mandati più lontano, nel Gulag. Sawala finì in un campo a Kaluga, a sudovest di Mosca.24 All’attacco all’Esercito interno s’aggiunse il ricorso alla violenza contro chiunque potesse compatire la sorte dei suoi partigiani, fra cui i loro familiari. Negli ex territori orientali della Polonia, fra il 1944 e il 1947, l’NKVD arrestò in totale dalle 35.000 alle 45.000 persone.25

Con il procedere dell’avanzata nel territorio che persino l’URSS riconosceva come polacco, la diffidenza dei comandanti sovietici verso l’Esercito interno e i suoi dirigenti non diminuì. Anzi, penetrando nel cuore della Polonia i russi divennero più crudeli, più determinati e più efficienti. Giunti a Poznań, nell’Ovest del paese, occorse loro appena una settimana per arrestare decine di membri dell’Esercito interno, incarcerarli e sottoporli a brutali interrogatori e torture. Dopo di che l’NKVD procedette, nelle foreste attorno alla città, a esecuzioni in gruppo di migliaia di persone.26 Nello stesso periodo l’Esercito interno smise di trattare l’Armata Rossa in avanzata come un potenziale alleato, e i suoi partigiani smisero di farsi riconoscere dai nuovi invasori. Alcuni deposero le armi e si mescolarono alla popolazione civile. Altri rimasero nascosti nelle foreste in attesa di vedere che cosa sarebbe accaduto.

Notizie su quanto era avvenuto in Polonia orientale non tardarono a giungere a Varsavia. Se i dirigenti dell’Esercito interno nella capitale polacca non avevano che contatti sporadici con Londra e sapevano ben poco sul corso della guerra altrove, erano a conoscenza che l’Armata Rossa stava arrestando e disarmando i loro compagni. Il 1o agosto, in un clima di confusione e panico, nel tentativo di scacciare i nazisti e liberare la città prima che l’Armata Rossa penetrasse nel suo centro, diedero il via alla coraggiosa ma disastrosa rivolta di Varsavia. I tedeschi contrattaccarono ferocemente. Aerei britannici e americani, pilotati perlopiù da polacchi e sudafricani, lanciarono audacemente cibo e munizioni per i ribelli, ma non in quantità sufficiente perché fossero determinanti. L’Armata Rossa, sull’altra sponda del fiume, s’attestò nei sobborghi orientali e non fece nulla. Stalin rifiutò agli aerei alleati che portavano aiuto ai rivoltosi il permesso di atterrare in territorio sovietico.27

Anche se Stalin avrebbe in seguito preteso di non avere saputo nulla della sollevazione, le spie dell’Armata Rossa seguirono con grande attenzione i combattimenti a Varsavia e registrarono i mutamenti dello stato d’animo della popolazione. Ai primi di ottobre, mentre la rivolta si avvicinava alla sua tragica, terribile fine, un colonnello dell’Armata Rossa riferì a Mosca sulla situazione in uno di numerosi e particolareggiati rapporti. Benché fossero morte centinaia di migliaia di persone e la città avesse, in pratica, cessato di esistere – schiacciata la sollevazione, i tedeschi fecero sistematicamente esplodere con la dinamite gli edifici ancora in piedi e deportarono tutti i superstiti in campi di lavoro – la principale preoccupazione del colonnello era il rapporto fra ciò che restava dell’Esercito interno e la molto più esigua Guardia popolare, la Gwardia Ludowa, braccio armato del Partito comunista. Il primo, lamentò, non stava condividendo le sue armi con la seconda. Peggio ancora: i dirigenti dell’Esercito interno diffondevano propaganda negativa sull’URSS:

Nei loro bollettini insistono sull’aiuto insignificante che i rivoltosi hanno ricevuto dai lanci aerei sovietici, ed elogiano invece lo sforzo angloamericano. È quindi chiaro che questa organizzazione si sta preparando a muovere contro l’Armata Rossa … Vengono anche diffuse voci secondo cui l’Armata polacca [le truppe polacche sotto il comando sovietico] è composta di spie sovietiche e non ha nulla a che vedere con gli interessi nazionali polacchi.28

Dopo la fine della sollevazione, quando Varsavia era ormai completamente distrutta dal fuoco, i dirigenti dello Stato clandestino polacco erano morti o in campi di prigionia tedeschi e circa 200.000 persone erano state uccise, il tono dei rapporti inviati dagli ufficiali al fronte al loro quartier generale e di quelli di Berija a Stalin si fece ancora più duro. Il 1o novembre Berija inviò a Stalin un rapporto che descriveva l’«attività antisovietica delle organizzazioni rivoluzionarie dei banditi nazionalisti polacchi bianchi», espressione con cui si riferiva ai dirigenti dell’Esercito interno.29 Più tardi, quello stesso mese, i comandanti sovietici sul campo raccomandarono un «aumento delle misure repressive» contro tutti i membri armati dell’Esercito interno. Furono chiamate spostandole dal fronte truppe dell’Armata Rossa, si fecero giungere altri uomini dell’NKVD e, infine, vennero mobilitate le forze della nuova polizia segreta polacca, tutto per lanciarsi letteralmente in una battaglia contro la resistenza polacca.30 Grazie in particolare ai rinforzi dell’NKVD, la terza settimana di novembre 1944 erano ormai agli arresti 3692 membri dell’Esercito interno. Il 1o dicembre erano 5069.31

L’asprezza dei combattimenti nella capitale radicalizzò la popolazione polacca. Molti di coloro che avevano sperato in una fine romantica, trionfale della guerra sprofondarono nel nichilismo. In anni successivi la rivolta di Varsavia sarebbe stata spesso ricordata come l’ultima eroica battaglia per l’indipendenza della Polonia, e i suoi capi sarebbero divenuti degli eroi, prima del movimento clandestino anticomunista, poi dello Stato postcomunista. Oggi la capitale polacca è piena di monumenti alla rivolta, e a molte delle sue strade e piazze è stato giustamente dato il nome dei suoi capi e combattenti. Ma nell’inverno 1944-45, con Varsavia rasa al suolo e l’Armata Rossa che si faceva sempre più spietata, la sollevazione era vista dai più come un terribile, catastrofico errore. Quando essa era scoppiata Andrzej Panufnik, un musicista e compositore profondamente patriota, era fuori città ad accudire la madre malata. Al ritorno da Varsavia del padre, che aveva raccontato il «coraggioso sacrificio di uomini, donne e bambini», s’era «convinto che la rivolta era stata uno spaventoso errore basato sulla falsa speranza che in loro soccorso sarebbero giunti i russi».32 Szymon Bojko, un polacco che serviva nella Divisione Kościuszko, la divisione polacca dell’Armata Rossa, arrivò a Varsavia negli ultimi giorni della rivolta e la vide bruciare dall’altra riva del fiume. «Avevo dentro di me il sentimento di un disastro» avrebbe ricordato più tardi. «Nulla di politico. Solo un presentimento.»33 Come s’è espresso lo storico Andrzej Friszke, il fallimento generò «un profondo scoramento, una crisi di fiducia nell’Occidente e un’acuta presa di coscienza della dipendenza del paese dalla Russia».34

Lo scoramento si fece ancora più profondo pochi mesi dopo, quando filtrò in Polonia la notizia degli accordi di Jalta. Agli occhi dei polacchi risaltò la vaghezza del loro linguaggio, specie nel chiedere «elezioni libere e senza vincoli», richiesta il cui soddisfacimento non poteva essere controllato né imposto. Jalta fu sentita, allora e dopo, come un tradimento da parte dell’Occidente. Finché la realtà s’impose: gli Alleati occidentali non avrebbero aiutato la Polonia. A est il potere sarebbe rimasto in mano all’Armata Rossa.35

Dopo Jalta i dirigenti dell’Esercito interno non avrebbero più goduto della stessa autorità. All’indomani della rivolta, l’organizzazione aveva ricostruito le sue strutture sotto la guida del generale Leopold Okulicki. Ma senza gli Alleati occidentali, e senza le decine di migliaia di giovani combattenti morti a Varsavia, molti polacchi persero la fiducia nella possibilità di combattere l’URSS. Consapevole della legittimità perduta, in gennaio Okulicki sciolse ufficialmente l’Esercito interno. Nel suo ultimo messaggio, davvero toccante, esortò i suoi soldati a conservare la fede:

Cercate di essere le guide della nazione e i creatori di uno Stato polacco indipendente. In quest’attività ognuno di noi dev’essere il proprio comandante. Nella convinzione che ubbidirete a quest’ordine, che rimarrete fedeli solo alla Polonia, e per rendere il vostro futuro lavoro più facile, su autorizzazione del presidente della Repubblica polacca vi libero dal vostro giuramento e sciolgo i ranghi dell’[Esercito interno].36

Avendo chiesto ai suoi compatrioti di rinunciare a prendere parte alla resistenza, lo stesso Okulicki si ritirò, impegnandosi in un’attività cospirativa. Anche gli altri dirigenti dell’Esercito interno si celarono, in attesa di un futuro migliore. Ma esso non sarebbe mai giunto. Alla fine di febbraio l’NKVD prese contatto con Okulicki e i suoi comandanti e li invitò a un incontro con il generale Serov in un sobborgo di Varsavia. Coscienti che la loro identità era ormai nota alla polizia segreta sovietica, fiduciosi che il trattato di Jalta obbligasse l’URSS a includere nel nuovo governo polacco qualche non comunista, e nella speranza che la situazione potesse avere un esito migliore, essi vi andarono.

Nessuno di loro fece mai ritorno. Com’era accaduto al generale Wilk, quei sedici uomini furono arrestati, portati a Mosca, incarcerati nella Lubjanka, la più famigerata prigione dell’Unione Sovietica, e accusati, in base alla legge sovietica, di «preparare una sollevazione armata contro l’URSS in combutta con i tedeschi». Furono accusati, in altre parole, di simpatie «fasciste». La maggior parte di essi venne condannata a lunghi periodi di detenzione in campi. Tre, fra cui Okulicki, sarebbero morti in prigione.

Gli arresti erano intesi sia a servire da lezione alla resistenza polacca sia a rendere chiare al mondo esterno le intenzioni sovietiche. Ma essi costituivano un messaggio anche per i comunisti polacchi, fra i quali almeno alcuni avevano sperato di vincere sui sostenitori dell’Esercito interno con mezzi legittimi. In appunti messi per iscritto più tardi, Jakub Berman avrebbe ricordato che i suoi compagni erano stati «scioccati e preoccupati» da quegli arresti: il piano che essi avevano concepito era di indebolire i capi dell’Esercito interno ricorrendo a una politica da divide et impera, spingendoli a litigare tra loro fino a fare perdere a Okulicki e agli altri ogni popolarità. Invece l’arresto di quei sedici uomini unì gran parte della società contro i comunisti.37

Il brusco sequestro dei capi della resistenza polacca causò anche la prima importante rottura nell’alleanza fra l’URSS e le potenze anglosassoni. In una lettera a Roosevelt, Churchill definì quegli arresti una svolta: «È il test, fra noi e i russi, del significato che va dato a termini quali democrazia, sovranità, indipendenza, governo rappresentativo ed elezioni libere e senza vincoli».38 Come gli eventi successivi avrebbero dimostrato, Churchill aveva ragione a mettere in dubbio le interpretazioni date dai russi alle parole degli accordi di Jalta, destinate ad apparire ben presto, più che vaghe, prive di significato.

Dopo l’arresto dei dirigenti dell’Esercito interno, parte della popolazione polacca decise che non rimaneva altro da fare che imparare a vivere sotto un regime di tipo sovietico. Ma altri giunsero alla conclusione opposta e decisero che non rimaneva altro da fare che combattere. Nella primavera del 1945 aveva ormai deciso di imboccare questa strada un nutrito gruppo di partigiani antinazisti e anticomunisti, le Forze armate nazionali (Narodowe Siły Zbrojne, o NSZ), formazione nazionalista politicamente a destra della corrente principale della resistenza. Invece di obbedire agli ordini dell’Esercito interno e deporre le armi, i suoi dirigenti decisero di continuare a battersi. Mentre il grosso dell’Armata Rossa proseguiva la sua avanzata verso ovest, verso la Germania, essi si concentrarono nelle foreste della Polonia orientale, specie attorno a Lublino e Rzeszów, dove si consacrarono alla nuova lotta.39 Il loro obiettivo, come lo definisce non a torto un documento della polizia segreta polacca, era «la liquidazione dei lavoratori del dipartimento della Sicurezza pubblica» tramite «scomparse silenziose (per annegamento, rapimento, tortura) o esecuzioni alla luce del sole».40

Nel vuoto aperto dallo scioglimento dell’Esercito interno iniziarono a formarsi nuovi gruppi. Il più famoso fu Wolność i Niezawisłość (Libertà e indipendenza), comunemente noto sotto la sigla WiN. Jan Rzepecki, il suo leader, era un ufficiale dell’Esercito interno. A differenza di quest’ultimo, Rzepecki e i suoi compagni decisero, dopo il fallimento della rivolta di Varsavia, di rimanere nella clandestinità. Mantennero segreta la loro identità, continuarono a osservare le regole della cospirazione e a comunicare usando codici e parole d’ordine. La loro intenzione era di restare un’organizzazione civile, anche se mantenevano contatti con partigiani armati di tutti i tipi. Fino all’ottobre 1946 sovvenzionarono un giornale, «Polska Niezawisła» (Polonia indipendente), il cui direttore sosteneva che i polacchi non dovevano lasciarsi indurre ad accettare uno status quo che egli definiva «terrore sovietico».41 Non molto tempo dopo, in novembre, Rzepecki fu identificato e arrestato dall’NKVD che, sotto interrogatorio, lo costrinse, o convinse, a rivelare i nomi dei suoi compagni. Fu liberato a condizione che chiedesse agli altri uomini nella clandestinità di svelare la propria identità, e alcuni lo fecero.

Partendo da zero, la WiN si ricostituì. Il suo «secondo esecutivo» iniziò a operare nel dicembre 1945 e durò quasi un anno, mantenendo qualche comunicazione con il mondo esterno tramite lunghe catene di corrieri e messaggeri che si passavano l’un l’altro, impiegando a volte più settimane, messaggi indecifrabili. Finché una donna che lavorava per l’organizzazione fu catturata alla frontiera, e si scoprì che portava un messaggio in codice. La catena si disgregò e i nuovi dirigenti della WiN vennero anch’essi catturati e, sotto tortura, costretti a fare i nomi dei compagni. Seguirono un terzo e un quarto esecutivo, entrambi infiltrati fin dall’inizio dalla polizia segreta polacca che, in questo, seguì probabilmente un piano sovietico: negli anni Venti i bolscevichi avevano dato vita, per attirare spie straniere, a una finta «opposizione» russa. Dopo lo smantellamento del quarto esecutivo la polizia segreta creò infatti una propria pseudo-WiN, che rimase in contatto con stranieri e polacchi troppo ingenui per sospettare che l’«organizzazione clandestina» potesse essere un’operazione di polizia. La WiN sopravvisse in questo triste stato fino al 1952, anche se alcuni dei suoi ex membri riuscirono a restare per lunghi periodi nella clandestinità.

La sorte della WiN viene spesso portata come esempio dell’insensatezza, nell’immediato dopoguerra, di ogni resistenza anticomunista, e certamente così venne vista all’epoca. Ma nella triste storia dell’organizzazione è anche possibile vedere una testimonianza del desiderio di resistenza dei polacchi. Circa 10.000 membri della WiN furono arrestati, torturati e incarcerati. Centinaia di loro vennero giustiziati. Ma, nonostante la pressione esercitata sul gruppo, e l’ossessione con cui si perseguitavano i suoi aderenti, all’apice della sua forza esso giunse a contare fra i 20.000 e i 30.000 membri.42

Fra i gruppi della resistenza polacca del dopoguerra la WiN si distingueva, oltre che per il numero degli aderenti, per il fatto di conservare, almeno teoricamente, qualche legame con la catena di comando del vecchio Esercito interno. Gli altri gruppi erano per la maggior parte molto piccoli, spesso costituiti interamente da giovani che s’ispiravano all’idea dell’Esercito interno, del quale, per la loro età, non avevano potuto fare parte, o si definivano NSZ senza realmente sapere che cosa quest’organizzazione fosse o rappresentasse. Dopo il 1945, per esempio, un gruppo partigiano di tredici membri che si autodefinivano «Giovani dell’Esercito interno» iniziò ad ammassare armi nelle foreste a sud di Cracovia addestrandosi in segreto a usarle, finché nel 1950 furono tutti arrestati.43

Con l’avanzare delle truppe sovietiche verso ovest per l’assalto finale a Berlino, la situazione si fece sempre più complicata. Quando l’Armata Rossa lasciava una regione, accadeva spesso che vi penetrassero gruppi partigiani di tutte le tendenze politiche: squadre delle NSZ, ex soldati dell’Esercito interno, partigiani ucraini che si battevano per l’indipendenza del loro paese. Obiettivo comune era combattere l’Armata Rossa e i suoi alleati polacchi, ma a volte essi si combattevano anche l’un l’altro. Nonostante il caos, alcuni rimasero fedeli agli ideali della vecchia resistenza. Altri finirono per affidarsi al furto per sopravvivere e degenerarono in bande semicriminali. Non era raro che fra di essi, in particolare fra polacchi e ucraini, si scatenassero violente battaglie.

Benché l’URSS avesse «pacificato» la Polonia orientale già nell’estate del 1944, nella primavera seguente in essa infuriava quindi quella che si può legittimamente definire una guerra civile. Per i comunisti e i loro alleati i paesi e le foreste attorno a Lublino divennero insicuri, e per un certo periodo persino la città fu per essi pericolosa. Secondo un rapporto del maggio 1945, in quella zona il lavoro di «tutti gli organi del partito e del governo» s’era fermato. In quattro distretti la polizia, disarmata o massacrata dai partigiani, non esisteva più.44 Poco dopo Stalin, che ancora festeggiava la resa tedesca, fu informato nei termini più allarmanti che «in Polonia la resistenza clandestina contro lo Stato rimane ovunque attiva».45 In aiuto, ancora una volta, dell’impotente polizia segreta polacca furono chiamati altri cinque reggimenti dell’NKVD e un battaglione motorizzato.46

Nell’agosto 1945 il ministro della Sicurezza pubblica, Stanisław Radkiewicz, partecipò a Lublino a una riunione regionale del dipartimento della Sicurezza, dove sentì dure verità. Un ufficiale locale stimò che nella sua regione appoggiasse il nuovo regime non più del 20 per cento della popolazione. Un altro spiegò che, se non erano riusciti a infiltrare alcun agente all’interno del movimento partigiano anticomunista armato, era perché «non vogliono collaborare». Secondo altri la situazione sarebbe migliorata: i contadini erano stanchi di sostenere i partigiani, alcuni dei quali li derubavano regolarmente di generi alimentari. Ma tutti concordavano sul fatto che le «bande» continuavano a costituire un grosso problema. Alcune di esse si nascondevano nelle foreste; altri partigiani lavoravano di giorno nelle loro fattorie, ma «a un segnale convenuto si riunivano per sferrare un attacco criminale».47 A essere presi sistematicamente di mira erano gli agenti della sicurezza, i funzionari del Partito comunista e i loro collaboratori.

Ma, mentre combatteva, la resistenza armata sembrava già consapevole della tragica situazione in cui si trovava. I suoi membri erano esausti per la lunga lotta contro i tedeschi. Molti avevano già passato cinque o sei anni nelle foreste. Spesso giovanissimi, avevano perso mesi o anni di scuola. Sapevano che la resa significava la fine del loro sogno di indipendenza nazionale, ma, nello stesso tempo, ora stavano combattendo contro un nemico nuovo, più informe. Per compiere il loro dovere, erano tenuti a uccidere non occupanti tedeschi, ma comunisti polacchi e poliziotti polacchi. Alcuni lo giudicavano un fratricidio, e vollero tirarsene fuori. Altri se la prendevano con chi se ne andava. Nel 1946 una banda armata aggredì e malmenò due maestri di scuola, entrambi ex soldati dell’Esercito interno, accusandoli di «collaborazionismo» per essere tornati alla vita civile.48 Alla fine, in decine di migliaia accettarono una o l’altra di una serie di «amnistie», deposero le armi e ripresero un’esistenza normale.

Per molti quest’esperienza fu amara. Lucjan Grabowski, il giovane della regione di Białystok di cui s’è già parlato, rimase con la sua unità dell’Esercito interno finché non gli fu chiesto di uccidere uno dei suoi membri accusato di tradimento. Sospettando che l’uomo fosse innocente, si rifiutò di eseguire l’ordine. «Erano tempi terribili; il fratello uccideva il fratello per qualsiasi ragione.» Infine, avrebbe detto, «iniziai a prendere coscienza di alcuni fatti cui fino ad allora non avevo prestato attenzione e non avevo pensato granché. Molti miei amici, ex partigiani, erano andati in Occidente. Altri s’erano iscritti all’università o stavano per prendere il diploma di scuola superiore e lavoravano. E io continuavo a combattere, per il quinto anno consecutivo». Grabowski depose le armi insieme ad altri quaranta uomini, perlopiù della WiN. Avevano tutti le lacrime agli occhi: «Uscimmo dal palazzo della polizia segreta senza armi, e non eravamo più gli stessi di poche ore prima».49

Altri continuarono a combattere. Un ridottissimo numero di uomini, una o due decine, sarebbe rimasto nelle foreste per parecchi anni. Un piccolo gruppo di partigiani delle NSZ si consegnò nel 1956, dopo la morte di Bierut. Un combattente solitario, Michał Krupa, rimase nascosto fino al 1959, quando fu infine trovato e arrestato.50 Ma la maggior parte di coloro che continuarono a battersi lo fece sapendo di non avere alcuna speranza.

Fra di loro c’era un capo della resistenza noto sotto lo pseudonimo di «Mewa». Secondo la sicurezza polacca che ricostruì i suoi movimenti, durante la guerra aveva combattuto con l’Esercito interno, ed era tornato alla lotta armata nel 1945 per disperazione e disillusione; un suo profilo psicologico spiegava che aveva tendenze suicide: «Vuole morire». Molti dei 300 membri del suo gruppo, alcuni dei quali erano ex soldati dell’Esercito interno, altri disertori della divisione polacca dell’Armata Rossa, erano nel suo stesso stato d’animo. Provenivano per la maggior parte dal Sudest della Polonia, e il loro morale era basso. Nel maggio 1945, durante una messa all’aperto, essi giurarono fedeltà al governo polacco in esilio a Londra, un governo non più riconosciuto come legittimo né dai suoi alleati né da nessun altro, come tutti i presenti sapevano perfettamente.

Da allora il gruppo di Mewa a poco a poco s’assottigliò. Nei mesi successivi molti dei suoi uomini tornarono alle fattorie delle loro famiglie o decisero di lasciare la regione e trasferirsi nei territori un tempo tedeschi che ora facevano parte della Polonia occidentale, e lì iniziare una nuova vita. Alcuni di coloro che rimasero iniziarono a derubare la popolazione ucraina locale, che a quel tempo costituiva ancora un’alta percentuale degli abitanti della Polonia sudorientale. Più di una volta incendiarono paesi ucraini distruggendoli completamente. I documenti d’archivio sulle imprese cui si diedero la dicono lunga sulla loro disperazione. Nel gennaio 1945 aggredirono il direttore di una fabbrica, un polacco comunista, derubandolo di 100 złoty. In aprile rubarono due cavalli. In luglio uccisero un contadino ucraino e ne gettarono il corpo in un fiume. Alla fine del 1945 la polizia locale stava lavorando duramente per annientare il gruppo, dando però prova di scarsa competenza. Vi infiltrò due agenti solo per scoprire, in seguito, che uno s’era rivoltato contro di essa e l’altro era stato scoperto e ucciso. Anche il suo corpo era stato gettato in un fiume. Nel corso dell’anno e mezzo della sua esistenza il gruppo lanciò 205 attacchi e uccise molti funzionari comunisti locali, finché, nel luglio 1947, Mewa fu catturato. Come doveva aspettarsi, venne condannato a morte.51

Un decennio più tardi l’ambiguità di quel momento sarebbe stata colta perfettamente nel film Cenere e diamanti di Andrzej Wajda, un classico su quel periodo. Esso racconta la storia di un partigiano di fronte a un dilemma: deve scegliere fra una ragazza che ha appena incontrato e un assassinio politico che gli è stato ordinato di compiere. Sceglie l’assassinio, ma nel compierlo rimane egli stesso ucciso. Nella scena finale corre, inciampa e finisce per morire in un campo pieno di rifiuti. La metafora era abbastanza chiara per il pubblico polacco: le vite dei giovani che s’erano uniti alla resistenza erano finite tra i rifiuti della storia.

Anche se giungere a cifre precise è difficile, secondo la stessa NKVD gli arresti da essa compiuti in Polonia, soltanto fra il gennaio e l’aprile 1945, furono circa 215.540. Degli arrestati, 138.000 erano tedeschi o Volksdeutsche, abitanti del posto che avevano dichiarato di essere di origine tedesca. Negli stessi quattro mesi furono arrestati inoltre circa 38.000 polacchi, tutti mandati nei campi in URSS. E 5000 persone circa morirono «nel corso dell’operazione e dell’indagine».52 Tra loro vi erano probabilmente migliaia di uomini di Mewa che combatterono sino alla fine, sapendo che avrebbero perso.

In Germania orientale, finita la guerra, non vi fu alcuna resistenza prolungata o armata all’occupazione sovietica. Hitler aveva sperato che ci sarebbe stata: prima di suicidarsi aveva esortato i tedeschi a combattere fino alla morte, a bruciare le loro città, a sacrificare tutto in un’ultima violenta battaglia. Aveva anche ordinato alla Wehrmacht di formare battaglioni di giovani che, dopo la sua morte, conducessero una lotta partigiana contro l’Armata Rossa.

Quei battaglioni, noti sotto il nome di Werwolf, «Lupo mannaro», trovarono ampia eco nella propaganda nazista e alleata, ma si rivelarono in realtà, come il loro nome suggeriva, un mito. Con la morte di Hitler e la sconfitta della Germania si sciolsero: l’incantesimo era stato rotto. Erich Loest, che sarebbe divenuto uno scrittore in vista in Germania Est, aveva venticinque anni ed era un capo della Gioventù hitleriana e un giovane ufficiale della Wehrmacht quando fu reclutato nel movimento dei Lupi mannari. Il nuovo ruolo gli venne comunicato nelle ultime settimane della guerra, e ricevette anche, in preparazione dell’occupazione russa, un qualche addestramento partigiano. Ma quando i russi entrarono a Mittweida, la sua città natale in Sassonia, la lotta clandestina era la cosa più lontana dalla sua mente. Invece di combattere l’Armata Rossa, la famiglia lo aiutò a fuggire e raggiungere la fattoria di una zia, più a ovest, dove avrebbe potuto arrendersi senza pericolo agli americani.

Negli anni immediatamente successivi alla guerra Loest non parlò mai del suo addestramento da Lupo mannaro – «non sono stupido» mi ha detto – e non venne mai arrestato. Altri furono meno fortunati. Negli ultimi giorni del conflitto le SS avevano ordinato a tutti gli adolescenti di Mittweida di assistere a una conferenza sui Lupi mannari. Non era stato impartito alcun addestramento né erano stati chiesti giuramenti, ma era circolata una lista dei presenti. Dopo la guerra le autorità sovietiche la trovarono. «A parte la conferenza, non era successo nulla, ma furono tutti arrestati. In arresto per un anno» ricordava Loest.53

La base giuridica degli arresti era l’ordine 00315 dell’Amministrazione militare sovietica, emanato il 18 aprile 1945. Esso prescriveva l’internamento immediato, senza indagini preventive, di «spie, sabotatori, terroristi, attivisti del Partito nazista», nonché di chiunque detenesse mezzi di stampa e trasmissione radio «illegali», individui armati ed ex membri dell’amministrazione civile tedesca. L’ordine somigliava ai regolamenti adottati nelle altre zone d’occupazione alleate: anche lì i nazisti «attivi» furono sottoposti a interrogatori su una scala di massa.54 La differenza tra la zona sovietica e le altre era di grado: in pratica, l’ordine sovietico rendeva possibile arrestare quasi chiunque avesse goduto, per la sua posizione, di una qualsiasi autorità, fosse stato o no nazista. Poliziotti, sindaci di città, uomini d’affari e agricoltori benestanti: erano tutti in pericolo, sulla base del presupposto che non avrebbero potuto avere tanto successo se non avessero collaborato con il nazismo.

Alla conferenza di Potsdam, all’inizio di agosto, la definizione di chi poteva essere internato fu ulteriormente ampliata. In un brutto palazzo degli Hohenzollern circondato da un verde parco, gli Alleati, Stalin e ora Harry Truman (dopo la morte di Roosevelt) e Clement Attlee (dopo la sconfitta elettorale di Churchill) rilasciarono una nuova dichiarazione. Essa stabiliva che «dirigenti nazisti, influenti sostenitori del nazismo, alti funzionari di organizzazioni e istituzioni naziste e ogni altra persona pericolosa per l’occupazione o i suoi obiettivi devono essere arrestati e internati».55 Per l’URSS era una formulazione ideale: «Ogni altra persona pericolosa per l’occupazione o i suoi obiettivi» era una categoria davvero molto ampia, e suscettibile di essere ulteriormente estesa per includere chiunque, per qualunque ragione, non piacesse all’NKVD.

L’Armata Rossa non tardò a istituire tribunali militari, corti senza avvocati né testimoni, che avrebbero continuato a operare per diversi anni. La loro attività era completamente separata da quella del tribunale di Norimberga, creato congiuntamente da tutti gli Alleati per giudicare le più alte autorità naziste, e non aveva nulla a che vedere con il diritto internazionale. Le condanne venivano a volte comminate sulla base dell’articolo 58 del codice penale sovietico, quello utilizzato per compiere arresti per motivi politici in Unione Sovietica, che non aveva niente a che vedere neanche con la legge tedesca. Le sentenze erano a volte tradotte in tedesco, ma scritte in cirillico, il che rendeva impossibile agli imputati leggerle. In certi casi i detenuti erano costretti, con violente percosse e altri tipi di torture, a firmare documenti che non potevano capire. Wolfgang Lehmann, allora quindicenne, firmò a sua insaputa un documento in cui dichiarava di avere fatto saltare in aria due camion. Altri processi si svolgevano a Mosca, dove i prigionieri venivano condannati in contumacia da giudici sovietici. L’avrebbero saputo settimane dopo.56

Alcuni degli arrestati erano stati effettivamente dei nazisti, anche se non necessariamente avevano svolto un ruolo di una qualche importanza. Non ci si sforzava molto per distinguere i veri criminali dai piccoli burocrati e dagli opportunisti. Ma, oltre ai nazisti, l’ondata di arresti s’abbatté ben presto su migliaia di persone troppo giovani per avere aderito al nazismo – Manfred Papsdorf fu arrestato a tredici anni – e su molti che, come gli adolescenti di Mittweida, erano colpevoli solo di essersi trovati nel posto sbagliato nel momento sbagliato.57 Qualcuno fu arrestato per avere reagito alla liberazione con troppo entusiasmo. Nel 1945 Gisela Gneist aveva quindici anni ed era affascinata dall’idea di democrazia, una parola che udiva spesso alla radio delle forze armate americane. Viveva a Wittenberg, ed era indignata dal comportamento dei soldati sovietici che occupavano la città: alcuni avevano organizzato un bordello al piano superiore del suo condominio. Voleva qualcosa di meglio e, insieme a qualche altro adolescente, fondò un «partito», completo di dilettanteschi codici segreti. Essi non avevano idea del pericolo che correvano, né avevano un’ideologia di sorta. «La mia idea di libertà» ricordava Gneist «era che ci si doveva poter esprimere liberamente. Non sapevo che cosa fosse il comunismo, non ne avevo mai sentito parlare.»58

Gisela Gneist fu arrestata nel dicembre 1945, non ancora sedicenne, insieme a due decine di suoi compagni «membri del partito», tutti adolescenti, e venne rinchiusa in una «cella senza finestre» con una ventina di altre donne, alcune delle quali erano sue compagne di scuola. Il gabinetto era una bottiglia di latte. C’erano insetti ovunque, e pidocchi. Un ufficiale sovietico l’interrogò in russo per diversi giorni consecutivi, alla presenza di un interprete dalla competenza più che dubbia. Fu anche picchiata sulla schiena e sulle gambe fino a farle sanguinare. Alla fine confessò, ammettendo di avere fatto parte di un’«organizzazione controrivoluzionaria». Nel gennaio 1946 un tribunale militare la giudicò colpevole e la condannò, come un vero criminale di guerra, a essere rinchiusa a Sachsenhausen.59

Per quanto possa parere sorprendente a chi non ha familiarità con queste strane giravolte della storia, Sachsenhausen, famigerato campo di concentramento nazista, subì dopo la guerra una metamorfosi e conobbe una seconda vita, e così anche il campo di concentramento non meno famigerato di Buchenwald. Le truppe americane che liberarono quest’ultimo, nell’aprile 1945, costrinsero i cittadini più eminenti di Weimar a camminare fra le sue baracche, vedere i superstiti affamati, le fosse comuni e i cadaveri accatastati come legna da ardere accanto a esse. Quattro mesi più tardi le truppe sovietiche che presero il controllo della regione di Weimar si servirono ancora una volta di quelle baracche come prigioni e, anch’esse, seppellirono i detenuti che morivano in fosse comuni. Lo stesso fecero in molti altri luoghi. Auschwitz fu uno dei tanti campi di lavoro in Polonia che, dopo la guerra, furono in qualche modo riutilizzati.60

I russi diedero a Buchenwald il nuovo nome di Campo speciale n. 2, e Sachsenhausen divenne il Campo speciale n. 7.61 Nella Germania occupata dai sovietici sarebbero stati costruiti o ricostruiti in totale dieci campi del genere, cui si devono aggiungere diverse prigioni e altri luoghi di detenzione meno formali. Non si trattava di campi comunisti tedeschi, ma di campi sovietici. L’amministrazione centrale del Gulag dell’NKVD li controllava tutti direttamente da Mosca, in alcuni casi fin nei minimi dettagli. Mandava istruzioni, per esempio, su come celebrarvi il 1o maggio, e monitorava con grande attenzione la condizione «politico-morale» delle guardie.62 Tutti gli alti responsabili dei campi erano militari sovietici, benché in alcuni ci fosse anche personale tedesco, e i campi erano strutturati sul modello sovietico. Un detenuto di Kolyma o Vorkuta vi si sarebbe sentito subito a casa propria.

I campi speciali tedeschi, tuttavia, non erano campi di lavoro del tipo di quelli gestiti dall’NKVD in Unione Sovietica. Non erano annessi a fabbriche o cantieri come avveniva di solito per i campi sovietici, e i reclusi non lavoravano. I superstiti, semmai, parlano spesso dell’insopportabile noia derivante dal divieto di lavorare, di lasciare le baracche, di camminare o muoversi. Nel campo di Ketschendorf i detenuti imploravano di essere impiegati nelle cucine, per avere qualche cosa da fare (e, naturalmente, accesso a più cibo).63 A Sachsenhausen c’erano due zone, e solo in una il lavoro era consentito; i reclusi la preferivano di gran lunga all’altra.64

I campi speciali non erano neanche campi di sterminio del genere di quelli nazisti. Non c’erano camere a gas, e i prigionieri non venivano mandati a Sachsenhausen per essere immediatamente uccisi. Ma in essi si moriva ugualmente in gran numero. Fra il 1945 e il 1953, dei circa 150.000 reclusi nei campi dell’NKVD in Germania orientale, di cui 120.000 erano tedeschi e 30.000 cittadini sovietici, un terzo circa vi morì di fame e malattie.65 Ai detenuti veniva dato da mangiare pane nero umido e una zuppa di cavoli così cattiva che Lehmann, mandato in seguito al Gulag, ricordava che «in Siberia il cibo era migliore e più regolare».66 Non c’erano medicine né medici. Pidocchi e parassiti facevano sì che le malattie si diffondessero rapidamente. L’inverno del 1945-46 fu talmente freddo che, nel settore femminile di Sachsenhausen, le recluse bruciarono le doghe dei letti per scaldarsi.67 Come in tanti altri istituti penitenziari sovietici, non si moriva perché si fosse uccisi, ma perché si era trascurati e ignorati, e a volte letteralmente dimenticati.

Obiettivo esplicito dei campi speciali sovietici in Germania orientale non era il lavoro o lo sterminio, ma l’isolamento: essi erano intesi a tagliare fuori gli elementi dubbi dal resto della società, almeno finché i nuovi occupanti sovietici non si fossero assestati. Erano istituzioni preventive piuttosto che punitive, miranti principalmente a mettere in quarantena coloro che avrebbero potuto opporsi al sistema, non quelli che l’avevano già fatto. Nel Gulag sovietico qualche contatto con il mondo esterno era possibile, e i detenuti potevano addirittura, a volte, ricevere visite. Nei campi tedeschi del dopoguerra, invece, per i primi tre anni della loro esistenza, i reclusi non potevano inviare o ricevere lettere, e non avevano notizie di sorta dal mondo esterno. In molti casi le loro famiglie non sapevano che cosa fosse loro successo né dove si trovavano. Erano semplicemente spariti.

Con il tempo, grazie anche a pressioni dall’esterno, le condizioni migliorarono. L’improvvisa scomparsa di tanti giovani gettò nel panico i loro familiari, che tempestarono i funzionari di richieste di informazioni. Le autorità tedesche non erano generalmente di alcun aiuto. Nel 1947 un funzionario della Turingia disse ai familiari di un detenuto che avrebbero potuto «saperne di più dal pubblico ministero russo a Weimar».68 I funzionari sovietici, a loro volta, passavano tali richieste ai superiori lungo tutta la catena di comando e, nel caos generale, le persone si perdevano. Uno studente tedesco, scomparso nel 1945, fu finalmente «trovato» dai genitori soltanto nel 1952,69 cioè quattro anni dopo che l’Amministrazione militare sovietica in Germania aveva acconsentito a permettere ai detenuti di notificare ai loro familiari dove si trovavano.70 Quello stesso anno l’NKVD, per ridurre l’alto tasso di mortalità e rabbonire le autorità della Germania Est, che reclamavano presso quelle sovietiche un cambiamento, aveva anche aumentato le razioni alimentari nei campi.71

Gli arresti, insieme alla lunga detenzione dei soldati della Wehrmacht in Unione Sovietica (qualcuno vi sarebbe rimasto fino a tutti gli anni Cinquanta), divennero una delle principali fonti di attrito fra la popolazione e le nuove autorità. Ma essi contribuirono anche a creare una nuova serie di norme di comportamento pubblico. La maggior parte dei tedeschi appena liberati non era comunista, e non sapeva che cosa doveva aspettarsi dalle forze di occupazione sovietiche. L’arresto e l’incarcerazione di migliaia di giovani al minimo sospetto di qualsivoglia attività politica «antisovietica» fece subito capire come stavano le cose. Fu una prima lezione, per molti, sulla necessità di autocensurarsi in pubblico. Se un’adolescente come Gisela Gneist poteva essere arrestata per avere parlato di democrazia, la pena per un impegno politico più serio sarebbe stata ovviamente molto più severa.

Ancora più spaventati erano gli ex detenuti e i loro familiari. Raramente, dopo il rilascio, essi parlavano di quello che avevano vissuto. Lehmann, che era stato incarcerato nel campo di Ketschendorf in Germania e anche nel Gulag sovietico, non parlò di nessuna delle due esperienze alla moglie che dopo il 1989.72 Il ricorso a una violenza selettiva e la creazione di campi per potenziali nemici del regime facevano parte inoltre di una politica sovietica più ampia. L’Armata Rossa e l’NKVD sapevano che, in società precarie e instabili come quelle dell’Europa orientale nel dopoguerra, gli arresti di massa rischiavano di ritorcersi contro di loro. Prendere di mira soltanto persone che dicevano ad alta voce quel che pensavano, invece, poteva avere un’eco più vasta: l’arresto di una di esse ne avrebbe spaventate dieci.

I russi che arrivarono a Budapest nel gennaio 1945 sapevano ben poco della nazione di cui avevano appena conquistato la capitale. Per la maggior parte pensavano di essere giunti in un paese abitato interamente da collaboratori dei nazisti – l’Ungheria era stata alleata della Germania nell’invasione dell’URSS – e rimasero a volte increduli a vedersi trattati da liberatori. Come in Germania, essi avevano l’ordine di arrestare tutti i fascisti che riuscissero a identificare come tali. Ma, mentre in Germania erano andati alla ricerca di «Lupi mannari» e in Polonia di membri dell’Esercito interno, in Ungheria parvero sorgere in loro dei dubbi su come, esattamente, identificare un fascista.

Di conseguenza i primi arresti furono spesso arbitrari. Si fermavano degli uomini per strada, si diceva che li si portava a fare «un lavoretto» – malenkaja rabota in russo, un’espressione che venne magiarizzata in málenkij robot – e li si caricava su convogli. Dopo di che essi sparivano nel cuore dell’Unione Sovietica, da cui non avrebbero fatto ritorno che molti anni dopo. Nei primissimi tempi pareva quasi che andasse bene chiunque. Un testimone di una città dell’Est dell’Ungheria avrebbe ricordato che i soldati, pochi giorni dopo il loro arrivo, iniziarono a radunare la gente: «Non soltanto gli uomini, ma anche i bambini, ragazzi di sedici-diciassette anni, persino uno di tredici. Avevamo un bel piangere e implorare, quelli non reagivano; le armi in mano, ordinavano a tutti di uscire di casa, a volte senza portarsi dietro niente, né vestiti né cibo, così com’erano … Noi non sapevamo dove li portavano: dicevano soltanto málenkij robot, málenkij robot».73

Alcuni erano considerati sospetti perché sembravano ricchi, o perché possedevano libri. George Bien, che allora aveva sedici anni, fu arrestato insieme al padre perché possedeva una radio a onde corte. Interrogato come spia e costretto a confessare, gli venne fatto firmare un documento in russo di trenta pagine di cui non capì una sola parola. Finì nei campi di Kolyma, e tornò a casa solo nel 1955.74

Le truppe sovietiche, a quanto sembra, avevano ricevuto anche l’ordine di cercare i tedeschi, che, era stato detto loro, erano molto numerosi nel paese. In pratica ciò significò che chi portava un nome dal suono germanico (cosa molto comune negli ex regni degli Asburgo) venne immediatamente trattato come criminale di guerra. József Révai, che sarebbe divenuto una figura tra le più importanti nel Partito comunista ungherese, lamentò ai primi di gennaio, parlando con Rákosi, che i soldati russi sembravano avere «quote fisse» da realizzare, e prendevano per tedeschi «gente che non parlava una parola di tedesco; antifascisti provati sono stati internati».75 Il risultato di queste politiche fu che dopo il 1945 vennero arrestati e deportati in URSS fra i 140.000 e i 200.000 ungheresi che, per la maggior parte, finirono nei campi del Gulag.76

Ma molti restarono in Ungheria. La pratica dell’internamento, vale a dire dell’incarcerazione senza processo, divenuta corrente nel paese alla fine degli anni Trenta, lo divenne ancora di più. Per giudicare, condannare e, in alcuni casi, giustiziare collaboratori nazisti furono istituiti «tribunali del popolo». Di alcuni dei processi, nella speranza di educare gli ungheresi sui crimini del passato, si fecero grandi eventi pubblici. Già all’epoca molti osservarono che i comuni ungheresi liquidavano per la maggior parte tutto ciò come «giustizia dei vincitori». Qualche anno dopo alcune sentenze sarebbero state rovesciate con la motivazione che era ormai tempo di farla finita con il «carattere di rappresaglia delle punizioni».77

Neanche i procedimenti erano considerati giusti. Se le decisioni su internamento e processi erano nominalmente sotto controllo ungherese, era opinione ampiamente diffusa che le corti fossero sotto l’influenza dell’NKVD. A.M. Beljanov, il funzionario sovietico delegato a sovrintendere alle questioni di sicurezza in Ungheria, rimproverò un giorno un politico magiaro per la lentezza dei processi: «Insisteva perché i tribunali del popolo lavorassero più in fretta, li criticava per il fatto di negoziare e parlare troppo. Voleva che annunciassero il verdetto subito dopo l’arringa del pubblico ministero. Gli risposi che avevamo studiato il sistema giudiziario in vigore in Unione Sovietica, e lì, nei casi politici, i testimoni venivano ascoltati pubblicamente in tribunale. Abbozzò un sorriso stentato, mostrandomi i suoi grandi denti gialli, simili a quelli di una tigre».78 Anche l’Armata Rossa teneva propri processi. Essi si svolgevano in un’elegante villa nella località turistica di Baden, nei pressi di Vienna. In quel caso la sovranità ungherese non era nemmeno simulata: esattamente come in Germania, cittadini magiari imputati di reati politici venivano condannati da tribunali militari sovietici ai sensi dell’articolo 58 del codice penale sovietico.79

Il numero degli accusati era altissimo, e la varietà delle accuse molto ampia. Una serie di decreti segreti aveva dato istruzione alle nuove forze di polizia ungheresi di arrestare, fra gli altri, gli ex membri dei movimenti di estrema destra, fra cui il movimento fascista delle Croci Frecciate, che aveva governato l’Ungheria negli ultimi mesi della guerra, dall’ottobre 1944 al marzo 1945; poi gli ufficiali delle forze armate che avevano servito sotto l’ammiraglio Horthy, leader autoritario del paese fra le due guerre, dal 1920 fino alla sua sostituzione da parte delle Croci Frecciate; e infine anche i proprietari di bar, i tabaccai, i barbieri e tutti coloro che, secondo una formula anch’essa sconsolatamente ampia, «per i loro contatti regolari con il pubblico sono stati i principali divulgatori della propaganda fascista». In pratica, la minaccia pendeva su chiunque avesse mai lavorato per uno qualunque dei governi, leader di partito o uomini politici di prima della guerra o ne avesse fatte le lodi. L’NKVD, insieme alle nuove forze di sicurezza, acquisì anche gli elenchi dei giovani che erano stati membri di Levente, organizzazione giovanile paramilitare dell’ammiraglio Horthy, e iniziò a dare loro la caccia, esattamente come aveva fatto in Germania con gli ex membri della Gioventù hitleriana e i presunti Lupi mannari. In totale, la sicurezza magiara e quella sovietica internarono fra il 1945 e il 1949 circa 40.000 ungheresi. Soltanto attorno a Budapest il nuovo regime costruì sedici campi d’internamento capaci di accogliere nel loro complesso fino a 23.000 detenuti.80

Non tutti gli arrestati avevano collaborato con i nazisti. Fin dal momento dell’ingresso dell’Armata Rossa in Ungheria, la nuova polizia segreta magiara, spalleggiata, naturalmente, dal Partito comunista ungherese e dai suoi mentori sovietici, iniziò a ricercare e identificare anche un tipo diverso di «fascista». Benché la resistenza ungherese durante il conflitto non fosse mai stata forte né ben organizzata come quella polacca, c’erano stati nuclei di opposizione antitedesca anche ai livelli più alti della società. Subito dopo la fine della guerra (molto prima di quanto generalmente dica la cronologia ungherese) l’NKVD e la polizia segreta magiara fecero di questi antifascisti un bersaglio. Erano troppo indipendenti, credevano nella sovranità nazionale e sapevano come creare organizzazioni clandestine. Molti di essi sostenevano il Partito dei piccoli proprietari, che svolse un ruolo importante nel governo provvisorio e vinse le elezioni nel 1945.

In un’Europa orientale veramente democratica, nel dopoguerra essi sarebbero divenuti, come l’Esercito interno in Polonia, l’élite politica del paese. Invece, ancora prima che il governo ungherese passasse totalmente sotto il controllo comunista, gli ex membri della resistenza antitedesca capirono di essere sotto sorveglianza. István Szent-Miklósy, appartenente a un raggruppamento segreto del genere, scrisse in seguito che subito dopo la guerra lui e i suoi amici «sentivano in qualche modo che si dava loro la caccia, ma senza poterne dare una ragione tangibile». A differenza dei loro omologhi polacchi, non erano partigiani armati: il suo gruppo, scrisse Szent-Miklósy, era «privo di una struttura formale, non aveva liste di nomi, non prevedeva impegni, simboli o tessere d’identificazione, non aveva regole chiaramente delineate, e neanche una filosofia generale».81 Molti dei suoi membri avevano fatto parte in precedenza di altri gruppi, come la Comunità ungherese, una società segreta antifascista (e anche antisemita) o, durante il conflitto, del Movimento per l’indipendenza ungherese, anch’esso più un circolo di discussione antitedesco che una vera e propria organizzazione di resistenza. Alcuni erano stati nel dopoguerra tra i membri fondatori del Partito dei piccoli proprietari e, in questa veste, stavano cercando di collaborare con un regime che pensavano potesse divenire una democrazia. Erano, in sostanza, poco più di un gruppo di amici vagamente antisovietici che s’incontravano, ora nell’appartamento di uno ora in quello di un altro, per scambiarsi le loro preoccupazioni.

Se alla fine divennero oggetto di particolare interesse non fu per qualcosa che avevano fatto, ma perché la polizia segreta entrò in possesso di una sintesi scritta delle loro attività di resistenza durante la guerra. Fu a quel punto che la sorveglianza cui erano sottoposti si fece ancora più attenta. Come scrisse Szent-Miklósy:

All’inizio dell’autunno [del 1946] il mio vicino subaffittò la stanza adiacente al mio salotto al Dipartimento politico militare. Da lì fecero un buco nella parete e vi collocarono un microfono. Siccome il buco era dietro il mio pesante divano coloniale olandese, il microfono non captava le voci nella stanza molto chiaramente. Allora, per trasmetterle, fu manipolato il mio telefono, e un altro microfono venne nascosto nell’ingresso dove, su un divano Biedermeier, sedeva la figlia adolescente del nostro vicino con il suo corteggiatore, un agente della polizia militare travestito da studente universitario.82

Nel dicembre 1946 Szent-Miklósy fu arrestato e portato al quartier generale della polizia segreta, in via Andrássy, dove venne torturato. Fu costretto a stare in piedi, la fronte contro il muro e le braccia tese, per ore, e a gridare «io sono l’assassino di mia moglie e mia madre», entrambe, gli fu detto, poste in stato d’arresto. Poi, insieme a un folto gruppo di suoi complici nella cospirazione, venne processato. L’accusa era per tutti di avere tentato di rovesciare «lo Stato democratico», e costò loro una condanna a dieci anni di carcere. Al processo Szent-Miklósy «confessò», dilungandosi su crimini che non aveva mai commesso. Il suo arresto fu una sorta di attacco preventivo, tipico di quel tempo: lui e i suoi compagni non avevano fatto nulla di rilevante, ma le autorità temevano che potessero farlo in futuro.

Seguì, poco dopo, un attacco preventivo simile contro il clero di mentalità indipendente. La principale vittima, questa volta, fu un frate francescano carismatico e pieno di energia, padre Szaléz Kiss, che, nella città di Gyöngyös e dintorni, a soli ottanta chilometri a est di Budapest, guidava con successo un nutrito gruppo di giovani cristiani chiamato Kedim. Se, nel corso del 1945, la nuova polizia segreta ungherese iniziò a prestare particolare attenzione a Gyöngyös, fu perché lì, alle elezioni tenutesi quell’anno, i comunisti erano andati particolarmente male, e il Partito dei piccoli proprietari, a base contadina, particolarmente bene.

L’attenzione dei mentori sovietici s’accrebbe ancora di più quando, a partire dal settembre 1945, ignoti armati uccisero diversi soldati dell’Armata Rossa di stanza nella regione. Sotto pressione perché facesse qualcosa, la nuova polizia segreta ungherese avviò una delle sue prime grandi indagini. Furono arrestate e poste in stato di detenzione circa sessanta persone, fra cui membri del Kedim dell’età da studenti di scuola superiore, e tutte furono sottoposte a lunghi interrogatori. L’obiettivo era di stabilire un’elaborata tela di rapporti: fra il Kedim e il Partito dei piccoli proprietari, fra quest’ultimo e le «potenze anglosassoni», fra l’ambasciata degli Stati Uniti e padre Kiss, e fra padre Kiss e i giovani che si presumeva avessero ucciso i soldati russi. Messi insieme, questi collegamenti, si disse, rivelarono un «gruppo cospirativo e terroristico fascista» che, almeno nell’immaginazione degli agenti segreti, mirava al ripristino del vecchio regime.

Il dossier di questi interrogatori, conservato con cura in un archivio di Budapest, non è di facile lettura. Uno dei principali sospetti, un giovane studente di legge di nome József Antal, dapprima negò tutto, poi, probabilmente dopo essere stato torturato, rese una lunga e confusa confessione. Egli, che secondo un amico aveva «partecipato alla resistenza contro l’occupazione tedesca», era un nodo cruciale della rete: lavorava nella sede locale del Partito dei piccoli proprietari e, inoltre, era un conoscente di padre Kiss. Nella sua incoerente dichiarazione, ricordò una conversazione con un uomo politico del suo partito sulla «imminente guerra» fra la Russia e le potenze anglosassoni, e diede l’impressione di avere già iniziato a organizzarsi per quel «conflitto armato» in collaborazione con padre Kiss. Alluse ad armi e granate nascoste negli uffici del Partito dei piccoli proprietari e a un deposito d’armi «in un castello» noto al frate.83

Subito dopo, Antal ritrattò la confessione. Ma una dichiarazione non meno confusa fu ottenuta anche da Otto Kizmann, un ragazzo di diciassette anni membro del Kedim, che non solo confessò di avere assassinato un soldato russo, ma, probabilmente dopo essere stato anch’egli torturato, si spinse molto oltre. Padre Kiss, dichiarò, «ci ha mostrato i biglietti da visita di persone influenti che ci avrebbero portato le armi» e «ci ha detto di procurarci armi per conto nostro, in attesa dell’arrivo dei carichi dall’estero»; infine, aggiunse, il frate aveva loro assicurato che «l’uccisione di un russo non è un peccato». Storie altrettanto stravaganti furono estorte a un amico di Kizmann, László Bodnár, anch’egli diciassettenne, che sostenne che padre Kiss aveva loro promesso che li avrebbe aiutati a fuggire dall’Ungheria in aereo.84

Quanto a padre Kiss, egli non confessò nessuno di questi improbabili crimini. Al contrario, disse a chi l’interrogava: «Ho fatto tutto il possibile per convincere i giovani a nascondere le loro armi, a non rendersi colpevoli di omicidio, perché è il crimine più orrendo». Una volta, proseguì, aveva effettivamente incontrato un rappresentante dell’ambasciata degli Stati Uniti, che gli aveva dato alcuni giornali americani, ma non aveva mai ricevuto, né mai cercato di ottenere, armi americane. Fu ugualmente condannato a morte, come furono condannati a morte Kizmann, Bodnár e un altro ragazzo di sedici anni. Le sentenze furono eseguite nel dicembre 1946. Altri membri della «cospirazione» finirono in carcere o, in alcuni casi, in campi di prigionia in Unione Sovietica.

La «cospirazione di padre Kiss», come l’arresto di Gisela Gneist in Germania e dei sedici dirigenti dell’Esercito interno in Polonia, preannunciava il futuro. L’indagine, come molte delle successive, era stata in tutta evidenza ispirata dalle autorità militari sovietiche. Com’era abituale nelle indagini sovietiche, sulla base di incontri casuali, vaghe conoscenze, o la fantasia degli investigatori, si erano stabiliti collegamenti fra organizzazioni diverse: il Kedim, il Partito dei piccoli proprietari, la Chiesa, l’ambasciata degli Stati Uniti. E su quanti erano rimasti presi nella rete era stata fatta calare l’ombra del «fascismo». Le vittime furono perlopiù adolescenti e giovani sui vent’anni, una fascia d’età che sarebbe rimasta di enorme interesse per gli agenti segreti di tutta l’Europa dell’Est negli anni a venire.

Nella primavera del 1946, al momento delle condanne, il caso ricevette una grande pubblicità. Il 4 maggio il quotidiano del Partito comunista ungherese, «Szabad Nép», pubblicò una fotografia di padre Kiss in manette sotto il titolo: «I cospiratori fascisti hanno confessato e si sono dichiarati colpevoli degli omicidi». L’editoriale che l’accompagnava era intitolato semplicemente: «Impiccateli».85 Della vicenda parlò anche, ma con maggiore cautela, la stampa non comunista. In un primo momento «Kis Újság» («Gazzettino»), organo del Partito dei piccoli proprietari, il più rappresentato allora nel Parlamento ungherese, si limitò a pubblicare il comunicato stampa ufficiale della polizia. Il giorno seguente riportò le parole del leader del suo partito e primo ministro ungherese Ferenc Nagy, che aveva dichiarato: «Se le informazioni pubblicate nei comunicati ufficiali della polizia si dimostrassero anche parzialmente corrispondenti a verità, chiediamo l’indagine più rigorosa e la punizione più severa per i colpevoli».86 Pochi giorni dopo, con meno ambivalenza, Nagy parlò del caso come di una «cospirazione fascista». Dovevano passare molti anni perché qualcuno avanzasse pubblicamente l’ipotesi che, forse, in quella storia non c’era niente di vero.

Altri casi seguirono, ognuno accompagnato da una propaganda altrettanto violenta e corroborato da prove altrettanto ambigue. Gli internamenti si succedettero a ondate, dal 1945 in avanti, senza soluzione di continuità. Prima toccò ai «criminali di guerra», ai fascisti e a chiunque si presumeva lo fosse; poi al personale militare e civile del regime di Horthy; poi a membri di partiti politici legali, in particolare di quello dei piccoli proprietari; poi ai socialdemocratici; e infine agli stessi membri del Partito comunista. Se la definizione di «nemico dello Stato» cambiò nel corso del tempo, i meccanismi per affrontare un simile nemico furono gli stessi fin dall’inizio.87

Teoricamente, nel 1946 l’Ungheria era, come la Cecoslovacchia e la Germania Est, una democrazia. L'esecutivo era diretto dal partito di maggioranza, quello dei piccoli proprietari, non comunista, che governava in coalizione con comunisti, socialdemocratici e altri. Ma a controllare gli organi di sicurezza era il Partito comunista ungherese, non lo Stato ungherese, così come in Cecoslovacchia era il Partito comunista cecoslovacco, in Germania Est sarebbe stato il Partito comunista tedesco, e in Polonia era il Partito comunista polacco. Ovunque, in Europa orientale, il controllo sui servizi segreti dava ai partiti comunisti, minoritari, un’influenza smisurata sugli eventi politici. Tramite l’uso selettivo del terrore, essi potevano inviare chiari messaggi agli avversari, e alla popolazione in generale, su quali tipi di comportamenti e quali tipi di persone non erano più accettabili nel nuovo regime.


PULIZIA ETNICA

Il Partito bolscevico è un modello dell’autentico partito della classe operaia internazionale. Dal giorno in cui è stato creato ha combattuto il nazionalismo in ogni sua forma.

Opuscolo educativo pubblicato a Mosca nel 1950

Sono tornato al mio paese natale per la prima volta nel 1965. Un tempo lì conoscevo ogni sentiero, ogni albero sghembo. Per i primi minuti non capii che cosa stavo guardando. Gli occhi mi si riempirono di lacrime; a lungo non riuscii a dire una parola. Avevano raso al suolo la nostra bella Nietreba e piantato una foresta…

IVAN BIŠKO, un ucraino deportato dal suo paese nel 19461

Uno dei miti propagati dal movimento comunista internazionale è stato quello della sua indifferenza alle distinzioni nazionali ed etniche. I comunisti erano internazionalisti per definizione, «soldati di un unico esercito internazionale», senza divisioni nazionali fra di loro. Raphael Samuel, figlio di un militante comunista britannico e più tardi membro del partito egli stesso, definì una volta il comunismo della sua infanzia «universalista»:

Pur riconoscendo l’esistenza di peculiarità nazionali (cui credevamo solo a metà), pensavamo alla transizione dal capitalismo al socialismo come «identica», nel suo contenuto, ovunque. Il comunismo, come la cristianità medievale, era uno e indivisibile, una comunione di fede internazionale.2

In realtà nessun capo di Stato in tempo di guerra, a eccezione ovviamente di Hitler, mostrò più entusiasmo di Stalin nel manipolare e fomentare conflitti nazionali. Nel 1917 Lenin l’aveva nominato «commissario alle Nazionalità», e il futuro generalissimo sviluppò una competenza e un interesse in materia che non avrebbe mai perduti. A partire dagli anni Trenta lanciò ondate di terrore contro le minoranze etniche dell’Unione Sovietica, fra cui polacchi, ceceni, tatari della Crimea, tedeschi del Volga e, negli ultimi anni prima della morte, ebrei. Dopo l’invasione nazista del 1941, per incitare i cittadini sovietici «internazionalisti» alla lotta contro i tedeschi, sfruttò massicciamente simboli nazionali e nazionalisti russi: uniformi militari tradizionali, Chiesa ortodossa. Era un esperto nell’uso politico del nazionalismo: gli appelli emotivi alla difesa della patria furono d’incitamento per i soldati dell’Armata Rossa ben più di quanto avrebbe mai potuto esserlo un linguaggio marxista e internazionalista.

Il conflitto etnico era anche inscritto nell’accordo firmato dai tre leader alleati a Potsdam nel luglio 1945. Una successiva generazione di statisti europei avrebbe reagito con orrore all’idea di «pulizia etnica», ma Stalin, Truman e Attlee promossero attivamente lo spostamento di massa di popolazioni. L’accordo di Potsdam chiedeva blandamente il «trasferimento in Germania delle popolazioni tedesche … che rimanevano in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria», una frase che si sarebbe ripercossa su milioni di persone.3 Accettando di spostare la frontiera polacca con l’URSS a ovest, inoltre, a Potsdam si accettò tacitamente il trasferimento di milioni di polacchi dall’Ucraina in Polonia e di milioni di ucraini dalla Polonia in Ucraina. E, se gli accordi non parlavano di espulsioni di ungheresi dalla Cecoslovacchia e di slovacchi dall’Ungheria, quando esse avvennero nessuno nella comunità internazionale sollevò molte obiezioni. Da parte sua, l’Unione Sovietica aveva già proceduto nel gennaio 1945, sei mesi prima che quel trattato venisse firmato, alla deportazione in massa di circa 70.000 persone di origine tedesca dalla Romania in URSS.4

L’unica clausola aggiunta alle decisioni prese a Potsdam stabiliva che «ogni trasferimento che abbia luogo dev’essere condotto in maniera ordinata e umana». Ma, quando gli accordi furono firmati, quei trasferimenti «ordinati e umani» erano già degenerati in spostamenti di massa caotici e crudeli. Il conflitto etnico – profondo, aspro, violento, fra molti e diversi tipi di gruppi in numerosi paesi – era l’autentico lascito di Hitler in Europa orientale, tanto che ogni discorso sulle espulsioni dei tedeschi dalla Polonia occidentale, dai Sudeti, dall’Ungheria e dalla Romania dopo il 1945 deve iniziare ricordando quello che era successo nei cinque anni precedenti. Ripetiamolo: obiettivo dell’occupazione tedesca della Polonia era stato distruggere la civiltà polacca, trasformare i polacchi in forza lavoro analfabeta, eliminare la classe colta polacca. C’erano state deportazioni di polacchi da città storicamente polacche come Poznań e Łódź, nonché da Gdynia, la nuova città portuale edificata dallo Stato polacco negli anni Venti. Essi erano stati sostituiti da coloni tedeschi, erano divenuti cittadini di seconda classe, in certe località avevano perso il diritto di parlare polacco per strada o mandare i figli a scuole polacche. In migliaia erano stati costretti al lavoro coatto in Germania, o erano stati rinchiusi in uno delle decine di campi di lavoro forzato costruiti dai tedeschi a questo fine in territorio polacco.

L’occupazione delle terre ceche era stata più mite, anche se altrettanto profondamente degradante. In tutto il paese erano stati rimossi monumenti storici e statue, assassinati i dirigenti locali, e l’idea stessa di nazione era stata derisa. L’occupazione tedesca dell’Ungheria, alla fine della guerra, era stata più breve, ma anch’essa estremamente crudele. E anche i precedenti periodi di scomoda collaborazione fra Ungheria e Germania, come fra Romania e Germania, erano stati umilianti per quelle popolazioni: la collaborazione con i tedeschi non aveva tardato a trasformarsi in dominio da parte dei tedeschi. Ovunque l’Olocausto aveva lasciato una terribile eredità di colpa e odio, fra gli ebrei come fra i non ebrei.

Nel dopoguerra le tensioni furono più forti nelle regioni in cui la popolazione locale di etnia tedesca aveva aiutato i nazisti a mantenere il potere. Il Partito nazista aveva segretamente finanziato il Partito tedesco dei Sudeti, un’organizzazione fascista, che nelle consultazioni ceche del 1938 aveva ottenuto l’85 per cento dei voti degli elettori di etnia tedesca. Dopo la divisione del paese seguita agli accordi firmati pochi mesi più tardi a Monaco, i tedeschi dei Sudeti, riconoscenti, avevano accolto i nuovi governanti nazisti con entusiasmo, suscitando un grande risentimento nei cechi della regione.5 A Bydgoszcz, in Polonia, dove gli abitanti di etnia tedesca rappresentavano prima della guerra circa un quinto della popolazione, parte di essi aveva attivamente collaborato con i nazisti, nel 1939, al massacro dei cittadini più in vista, fra cui sacerdoti, insegnanti e persino boy scout. Anche questo non li rese popolari dopo il conflitto.6

Considerata questa storia recente, il desiderio di vendetta degli europei dell’Est contro i tedeschi che vivevano in mezzo a loro era comprensibile, forse anche giustificabile. Ma non sempre era giusto. Non tutti i tedeschi erano stati nazisti, e non tutti s’erano rivoltati contro i loro vicini. Molti avevano vissuto in pace accanto a cechi e ungheresi, ed erano bravi cittadini della Cecoslovacchia e dell’Ungheria da centinaia di anni. Altri, come gli abitanti della Bassa Slesia e della Prussia orientale, che prima della guerra erano parte indiscussa della Germania e ora erano passate alla Polonia, vivevano in città e paesi appartenenti a Stati germanici da secoli.

Per molti la perdita della casa, dei mobili, del bestiame e dei cimeli di famiglia fu una tragedia da cui non si sarebbero mai più ripresi. Ma i cittadini di etnia tedesca non furono trattati come individui. Furono trattati come tedeschi. Gerhard Gruschka, un giovane della Slesia che s’era rifiutato di aderire alla Gioventù hitleriana perché contrastava con i suoi doveri di chierichetto, venne rinchiuso in un campo di lavoro nei pressi di Katowice, dove fu costretto dai comandanti polacchi a cantare, fra le loro risate, l’Horst Wessel Lied, l’inno nazista.7 In Ungheria i cittadini di etnia tedesca che, alla fine della guerra, erano stati arruolati nella Wehrmacht contro la loro volontà furono arbitrariamente oggetto degli stessi provvedimenti di espulsione che colpirono coloro che avevano volontariamente aderito alle SS nel 1943.8 Herta Kuhrig, figlia di un comunista tedesco dei Sudeti, venne scacciata dalla sua casa insieme alle figlie di fascisti tedeschi.9 Non si fece alcuna distinzione fra veri e propri collaborazionisti e antifascisti impegnati, alcuni dei quali avevano subito le stesse discriminazioni della popolazione locale.

Sapendo quanto fossero odiati, molti tedeschi si affrettarono a lasciare l’Europa orientale ben prima che le espulsioni avessero inizio. In questo movimento di massa di milioni di persone non vi fu nulla di organizzato; tanti scapparono dalle loro case in preda al panico solo per trovarsi in mezzo ai combattimenti o essere sopraffatti dal freddo e dalla fame. Decine di migliaia di persone cercarono di fuggire attraverso il Mar Baltico, per poi annegare quando le loro navi venivano affondate dagli aerei alleati. I 100.000 tedeschi che vivevano a Łódź, dov’erano giunti per la maggior parte di recente come coloni, iniziarono a lasciare precipitosamente la città, a piedi o a cavallo, la mattina del 16 gennaio 1945, attraverso strade e campi coperti di neve. Molti si ritrovarono sotto i bombardamenti sovietici, lanciati su Łódź quello stesso giorno.10 Pochi giorni dopo la contessa Marion Dönhoff iniziò a prepararsi ad abbandonare la sua antica tenuta di famiglia in Prussia orientale. La maggior parte dei suoi vicini non era ancora partita: aspettava un ordine nazista di evacuazione che non sarebbe mai arrivato. Mentre l’Armata Rossa s’avvicinava a una velocità inattesa, i prussiani dell’Est si misero a buttare su carri tutto quello che possedevano e riversarsi per le strade di Preußisch Holland (ora Pasłęk). «La città sembrava un incrocio in mezzo a un traffico impazzito» avrebbe ricordato Marion Dönhoff. «I carri vi erano arrivati da due direzioni e l’intasavano; non c’era modo di andare né avanti né indietro.» Lei decise di portare con sé solo «una bisaccia con articoli da toeletta, il necessario per delle fasciature e il mio vecchio crocifisso spagnolo». Consumò un ultimo pasto, si alzò, lasciò cibi e piatti sul tavolo e uscì di casa. Non si preoccupò di chiudere la porta alle sue spalle. Non sarebbe più tornata.11

Le espulsioni vere e proprie dei tedeschi, che ebbero inizio pochi mesi più tardi, non furono molto più organizzate. I cechi parlano della primavera del 1945 come del momento delle espulsioni «selvagge», un termine che non riesce a esprimere la profondità delle emozioni implicate da quelle deportazioni di massa. Il presidente cecoslovacco di prima della guerra, Edvard Beneš, aveva caldeggiato la cacciata dei cittadini di etnia tedesca dal suo paese fin da quando, nel 1938, era andato in esilio a Londra. Per cercare di fare passare quest’idea, oltre a premere sul governo britannico s’era recato più e più volte, nel corso di sette anni, a Mosca e Washington. E aveva esercitato pressioni perché i tedeschi venissero espulsi anche dall’Ungheria (in parte per fare posto agli ungheresi che sperava di scacciare, anch’essi, dalla Cecoslovacchia). Ma nonostante queste discussioni ad alto livello e questi preparativi, e nonostante l’istruzione – in procinto di essere emanata dal palazzo di Potsdam – di procedere «in maniera ordinata e umana», la prima ondata di espulsioni dai Sudeti avvenne in un vortice di furore, vendetta, nazionalismo e rabbia popolare.

In un discorso trasmesso per radio da Brno il 12 maggio 1945, subito dopo la resa nazista, Beneš dichiarò che durante la guerra i tedeschi avevano cessato di comportarsi da esseri umani, e che, come nazione, «devono pagare per tutto questo, e la punizione dev’essere pesante e severa … Dobbiamo liquidare una volta per tutte il problema tedesco». Dopo tale dichiarazione i cechi si sollevarono e invasero il centro di Brno chiedendo che i tedeschi collaborazionisti fossero consegnati alla polizia. Pochi giorni dopo il Comitato nazionale della città, appena costituito, cacciò con la forza dalle loro case più di 20.000 persone fra uomini, donne e bambini, e le costrinse a dirigersi a piedi verso il confine austriaco con quello che potevano portare con sé.12 In centinaia morirono prima di arrivarvi. Secondo le statistiche ceche, nel 1946 si suicidarono 5558 tedeschi.13

Più o meno nello stesso periodo ebbero inizio nell’Ovest della Polonia, nei pressi di Poznań, anche espulsioni spontanee, innescate dalla carenza di alloggi oltre che dal desiderio di vendetta. Nella regione vivevano ancora molti tedeschi, i polacchi stavano tornando sempre più numerosi, e gli edifici erano in macerie. Nella provincia di Wielkopolskie, dove si trova Poznań, i primi amministratori locali a comparire sulla scena furono agenti della polizia segreta comunista. Essi selezionarono i tedeschi da deportare, li caricarono su camion e li mandarono in campi di transito frettolosamente allestiti, dove rimasero finché non fu possibile organizzare il loro trasferimento in Germania. Non era il momento per sentimenti più delicati. I soldati polacchi e gli agenti della sicurezza avevano istruzione di celebrare «l’espulsione del lerciume tedesco dalle terre polacche … Ogni ufficiale, ogni soldato dev’essere consapevole che oggi compie una missione storica, attesa da generazioni».14

In questo primo periodo, in cui le ferite erano ancora aperte e sanguinanti, spesso la popolazione locale si prese la propria vendetta applicando gli stessi tipi di leggi e restrizioni che le avevano imposto i tedeschi. Nell’estate del 1945 i cechi obbligarono questi ultimi a portare al braccio fasce contrassegnate dalla lettera N, per Nemec, «tedesco» in ceco, dipinsero sulle loro schiene svastiche e vietarono loro di sedersi sulle panchine dei parchi, di camminare sui marciapiedi e di entrare in cinema e ristoranti.15 A Budapest accadde che folle di ebrei sopravvissuti aggredissero e malmenassero ex funzionari fascisti mentre si recavano in tribunale a essere processati per crimini di guerra o ne tornavano, in un paio di casi giungendo fin quasi a linciarli.16

In Polonia vi furono tedeschi costretti al lavoro coatto, cui tanti polacchi erano stati costretti sotto l’occupazione nazista, a volte in ex campi di concentramento nazisti. In alcuni casi ex guardie si ritrovarono alla mercé di ex prigionieri, da cui furono malmenate e torturate come, poco tempo prima, esse avevano malmenato e torturato loro. Come ha scritto uno storico polacco, l’utilizzo nel dopoguerra dei campi del tempo di guerra, per quanto ora sia scioccante per noi, aveva allora un senso: essi erano intatti, quando ben poco d’altro lo era. Quei campi, in effetti, servirono spesso a molteplici usi in rapida successione.17 In un piccolo campo di lavoro nazista a Potulice, un paese nei pressi di Bydgoszcz, per esempio, rimasero rinchiusi fino al gennaio 1945 oltre 11.000 detenuti, per la maggior parte polacchi più qualche prigioniero sovietico, fra cui centinaia di bambini. Subito dopo la liberazione esso venne occupato da soldati russi, che decisero di usare per loro sia le baracche sia quel che restava del cuoio della conceria, in cui i reclusi avevano lavorato, durante la guerra, a riparare stivali. Poche settimane dopo, in febbraio, quando il primo comandante polacco del campo del dopoguerra, Eugeniusz Wasilewski, ne prese possesso, scoprì che esso continuava a essere abitato da un certo numero di soldati sovietici. Chiese loro di lasciare il posto ai tedeschi e ai collaboratori nazisti, fra cui le ex guardie e gli ex comandanti tedeschi del campo stesso, che aveva appena arrestato.

Wasilewski, che prima della guerra aveva lavorato nella marina mercantile e, se aveva aderito al Partito comunista, ne era, sembra, un membro ben poco entusiasta, comandò il campo di Potulice fino a luglio. I suoi sottoposti erano per la maggior parte ex prigionieri, e molti erano in cerca di vendetta. Stando a tutte le testimonianze Wasilewski cercò di impedire i maltrattamenti più crudeli, tanto che un ex detenuto, divenuto una guardia, si lamentò della sua eccessiva indulgenza: «Ai miei tempi le cose andavano peggio». Ma, nei sei mesi in cui egli fu al comando del campo, il numero di reclusi crebbe enormemente, passando da 181 a 3387 persone, e inevitabilmente le condizioni di vita si deteriorarono.18 In novembre, quando Wasilewski aveva ormai lasciato Potulice, scoppiò un’epidemia di tifo, e negli anni successivi i lavoratori del campo sarebbero stati accusati di frode, negligenza e alcolismo.19 Nel corso dei cinque anni della sua esistenza, a Potulice morirono di fame e malattie quasi 3000 tedeschi.

Anche se, per quanto riguarda questo campo, nessun documento d’archivio attesta sevizie del genere, scene di torture e maltrattamenti sono state descritte, in interviste e memorie, da ex guardie ed ex prigionieri sia di Potulice sia di altri campi per deportati tedeschi. Questi ultimi venivano affamati e picchiati, si versavano loro sulla testa escrementi, si strappavano con la forza i loro denti d’oro, si dava fuoco ai loro capelli. Inoltre venivano costretti a ripetere «sono un porco tedesco», e a riesumare i corpi dei prigionieri polacchi e sovietici uccisi di recente. La comandante della prigione di Gliwice, Lola Potok, un’ebrea che, se era sopravvissuta ad Auschwitz, aveva perso la maggior parte della sua famiglia, tra cui la madre, i fratelli e le sorelle e un figlio neonato, interrogava i tedeschi sulla loro adesione al nazismo, frustandoli sia quando confessavano sia quando non confessavano: in quest’ultimo caso, era il suo presupposto, mentivano. Come avrebbe raccontato lei stessa, dopo diversi mesi «guarì», ritrovò il controllo di sé e iniziò a trattare i tedeschi come esseri umani. Non perché li avesse perdonati, disse, ma perché non voleva diventare come loro.20

Con il tempo le espulsioni dei tedeschi dalla Polonia, dall’Ungheria e dalla Cecoslovacchia, e infine anche degli ungheresi dalla Cecoslovacchia, si fecero più ordinate. Il presidente cecoslovacco emanò i cosiddetti decreti Beneš, che diedero una patina legale a quelle che erano state espulsioni spontanee. Essi autorizzavano la confisca dei beni tedeschi e ungheresi in Cecoslovacchia, la cacciata dei residenti tedeschi e ungheresi, l’insediamento sulle terre tedesche e ungheresi di cechi e slovacchi, e la revoca della cittadinanza cecoslovacca a tedeschi e ungheresi. Quando questi decreti acquisirono forza di legge, i trasporti divennero più regolari, agli espulsi si diede da mangiare e si permise loro di portare con sé mobili e vestiti. Per affrontare spinose questioni di proprietà e identità si istituirono apposite commissioni. Il problema dell’identità era particolarmente acuto nelle regioni etnicamente miste della Polonia, dove spesso i tedeschi «polonizzati» sposati a donne polacche volevano rimanere nel paese, e lo stesso valeva per un certo numero di piccoli gruppi etnici quali i casciubi e i masuri, i cui membri erano stati considerati dai nazisti «tedeschi».

I più spinosi erano i casi di coloro che durante la guerra s’erano dichiarati Volksdeutsche, di origine tedesca, una categoria appositamente inventata per gli abitanti germanici, ma non necessariamente tedeschi, dell’Europa occupata dai nazisti. I Volksdeutsche erano romeni, ungheresi, cechi, polacchi o persone di altre nazionalità che portavano cognomi che suonavano tedeschi e avevano forse radici familiari tedesche. Non necessariamente essi sapevano il tedesco e, per la maggior parte, non erano mai stati in Germania. Quando i nazisti avevano chiesto loro di iscriversi negli elenchi dei Volksdeutsche, potevano averlo fatto per orgoglio etnico, ma altrettanto facilmente per paura, o semplicemente per il desiderio di un trattamento migliore. Alcuni avevano ceduto a intimidazioni. In Polonia, nel novembre 1946, una commissione decise di «riabilitarli» e consentire loro di tornare a essere «polacchi», ma solo se potevano dimostrare di essersi iscritti agli elenchi dei Volksdeutsche sotto costrizione, e solo se durante la guerra s’erano comportati «in maniera consona alla loro origine polacca». Ma, nonostante ciò, a volte le forze di sicurezza autorizzarono retate di Volksdeutsche, che venivano allora internati in campi di lavoro insieme a veri tedeschi.21

In Ungheria, dove a portare cognomi che suonavano tedeschi erano in molti, l’unica istituzione che sapesse chi s’era iscritto all’elenco dei Volksdeutsche era l’Ufficio del censimento e, in un primo momento, il suo direttore rifiutò di consegnare quelle liste. I dipendenti dell’ufficio continuarono a opporre resistenza anche dopo una visita della polizia segreta ungherese nell’aprile 1945: non avevano mai fatto uscire dall’ufficio i dati di cui erano in possesso, né per indagini penali né durante la guerra, e nemmeno quando nel 1944 il governo d’occupazione tedesco aveva cercato di identificare gli ebrei del paese. L’ufficio cedette soltanto quando la polizia segreta arrestò dieci suoi dipendenti e gli fu fatto capire che negli arresti c’era la mano delle autorità sovietiche locali, che ne avrebbero ben volentieri visti compiere altri.22

Una volta terminato, il reinsediamento delle popolazioni tedesche dell’Europa orientale si rivelò uno straordinario movimento di massa, probabilmente senza eguali nella storia europea. Alla fine del 1947 avevano lasciato la Polonia, perché espulsi o perché ne erano fuggiti, circa 7,6 milioni di «tedeschi», fra cui abitanti di etnia tedesca, Volksdeutsche e coloni recenti. Circa 400.000 di essi morirono sulla strada del ritorno in Germania, per fame o malattie o per essersi trovati sotto il fuoco incrociato del fronte in avanzata.23 Altri 2,5 milioni avevano lasciato la Cecoslovacchia e 200.000 erano stati espulsi dall’Ungheria.24 Un gran numero di tedeschi fu deportato, o partì volontariamente, anche dall’Ucraina, dagli Stati baltici, dalla Romania e dalla Iugoslavia. In totale, nel dopoguerra lasciarono l’Europa orientale per reinsediarsi in Germania Est o Ovest circa 12 milioni di tedeschi.

Al di là del confine i rifugiati tedeschi non ricevettero una buona accoglienza. Quasi ovunque, nelle zone di occupazione orientale o occidentale della Germania, divennero subito una sottoclasse. Parlavano dialetti dell’Est, avevano maniere e abitudini diverse e, ovviamente, non possedevano beni o capitali di alcun genere. Nel 1945 non c’era stato tempo per preparare strutture per il loro arrivo, e molti finirono per vagare senza meta in cerca di cibo. Fra loro scoppiarono epidemie di tifo e dissenteria che si diffusero anche ai nuovi vicini. Nella zona sovietica il problema si fece così grave che le autorità chiesero ai dirigenti locali di radunare perlomeno gli espulsi in un unico luogo e «impedire alla gente di vagare». I rappresentanti delle zone britannica e americana domandarono che le espulsioni venissero fermate o almeno rallentate.25

In seguito la colpa del caos iniziale e delle migliaia di morti sarebbe stata spesso attribuita ai governi che avevano espulso i tedeschi. Ma le responsabilità furono più ampie. Senza la guerra, senza l’invasione tedesca della regione e senza le angherie inflitte dai tedeschi alle popolazioni dell’Europa orientale, quelle espulsioni, è ovvio, non ci sarebbero mai state. Inoltre il loro numero fu alto anche perché erano stati tanti i «coloni» tedeschi che si erano trasferiti nella regione durante il conflitto: molti, fra quanti vennero espulsi nel 1945, non avevano lì né famiglia né radici. Fra quelli espulsi dalla Polonia c’erano persone di etnia tedesca, a volte provenienti dalla Germania, a volte da altre zone d’Europa, che erano state insediate in case e fattorie polacche o ebree i cui proprietari erano stati uccisi o scacciati. Furono inoltre costretti ad andarsene, con le loro famiglie, funzionari e uomini d’affari tedeschi, molti dei quali avevano tratto profitto dai privilegi di cui godevano nell’Europa occupata dai nazisti. Anche se in seguito alcuni di essi si sarebbero considerati «espulsi», e quindi «vittime», non avevano alcun diritto morale a terre o proprietà polacche. Erika Steinbach, una politica tedesca destinata a divenire la leader del Bund der Vertriebenen, potente e attiva organizzazione degli espatriati, era figlia di un caporale tedesco originario di Hesse che, durante la guerra, era stato casualmente dislocato nella città polacca di Rumia. Egli e la sua famiglia furono «espulsi», o meglio fuggirono, in quanto occupanti, e in effetti tornarono a Hesse, dove Erika Steinbach crebbe.26

La politica di espulsione ricevette inoltre la calorosa approvazione di tutti gli Alleati occidentali, che avevano riflettuto a lungo al riguardo ancora prima della conferenza di Potsdam. Nel 1944 Churchill aveva dichiarato alla Camera dei Comuni che «per quanto è dato vedere, l’espulsione [dei tedeschi] è … la soluzione più soddisfacente e definitiva» per giungere alla pace futura. La politica di pulizia etnica fu approvata anche da Roosevelt, che citò come precedente gli scambi di popolazione fra Turchia e Grecia del 1921-22.27

Ma le espulsioni ebbero anche il pieno appoggio dell’Unione Sovietica. A guerra ancora in corso Stalin, in una conversazione privata, disse ai dirigenti cecoslovacchi: «Cacciateli pure via [i tedeschi dei Sudeti]. Così impareranno di persona cosa significa dominare qualcun altro». Inoltre raccomandò ai polacchi: «Dovreste creare loro [ai tedeschi] condizioni tali da indurli ad andarsene di propria iniziativa».28 Cosa ancora più importante, i poliziotti polacchi, cecoslovacchi, romeni e ungheresi che, nei territori sotto il controllo dell’Armata Rossa, organizzarono le deportazioni, operarono tutti incoraggiati dai sovietici. Stalin sapeva che sia i polacchi sia i cecoslovacchi avevano parlato di espellere i tedeschi già prima che la guerra terminasse, e in questo aveva già aiutato i romeni. Ma la decisione di ridisegnare i confini della Polonia, rimpiazzando i territori orientali occupati dall’Unione Sovietica con territori occidentali in precedenza tedeschi, significò per i polacchi non avere altra scelta che procedere con le espulsioni, e su una scala molto maggiore di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare: in ultima istanza, l’espulsione dei tedeschi fu possibile soltanto grazie all’aiuto sovietico.

L’Armata Rossa fu inoltre direttamente responsabile dell’espulsione e deportazione dei tedeschi dalla Romania e dall’Ungheria. La loro persecuzione in Ungheria prese avvio da un ordine sovietico del 22 dicembre 1944, che prescrisse a tutti i tedeschi presenti nel paese di recarsi al fronte come lavoratori coatti. I preparativi per la deportazione su larga scala ebbero inizio nel febbraio 1945, quando la missione sovietica presso la Commissione alleata di controllo ordinò al ministero dell’Interno magiaro di «preparare un elenco di tutti i tedeschi che vivono in Ungheria» (fu quest’ordine che portò al conflitto con l’Ufficio del censimento e all’arresto dei suoi dipendenti).29 A quella data l’NKVD aveva già presieduto alla deportazione dei tedeschi anche dalla Romania.30

Nello stesso tempo, l’espulsione dei tedeschi fu innegabilmente una misura popolare in ogni paese in cui ebbe luogo, tanto che i partiti comunisti locali ne presero rapidamente il controllo, e avrebbero finito per assumersene il merito, ovunque poterono. Per il suo ruolo dirigente nelle deportazioni guadagnò in credibilità, e ne aveva molto bisogno, il Partito comunista polacco, che ottenne anche qualche cauta approvazione dalla destra politica, da tempo favorevole alla creazione di uno Stato polacco «omogeneo»: l’omogeneità era ovunque allora, in Europa, un obiettivo politico più che accettabile.31 Lo storico Stefan Bottoni ha osservato che anche il Partito comunista romeno fu aiutato a conquistare legittimità dalla sua doppia politica verso le minoranze nel paese, in cui al duro trattamento dei tedeschi s’accompagnarono sforzi per integrare le comunità ungherese, slava ed ebraica.32

Ancora più ben visto, e dalle ripercussioni forse più importanti, fu il ruolo svolto nelle espulsioni dal Partito comunista cecoslovacco: esso diede infatti l’impressione che il partito esprimesse le tendenze dominanti nel paese. Dopotutto, i suoi poliziotti non facevano che applicare con eccezionale vigore una politica di governo che godeva di grande popolarità. Klement Gottwald, suo segretario generale, esortò la nazione a vendicarsi non solo per la recente guerra, ma anche per la battaglia della Montagna Bianca, in cui, nel 1620, la Boemia era stata sconfitta dal Sacro Romano Impero e dai suoi alleati, perlopiù germanici: «È necessario prepararsi al castigo finale per la Montagna Bianca, alla restituzione dei territori cechi al popolo ceco. Espelliamo una volta per sempre tutti i discendenti della nobiltà tedesca straniera».33 Il quotidiano del Partito comunista slovacco ricorse a una retorica nazionalista del genere, cercando a volte di darle un accento marxista, anche contro la minoranza ungherese: «Le ricche regioni produttive della Slovacchia meridionale, da cui i feudatari ungheresi scacciarono i contadini slovacchi costringendoli a vivere sulle montagne, devono essere restituite al popolo».34

Tutte le istituzioni create ad hoc per facilitare la deportazione dei tedeschi dimostrarono ben presto di poter avere anche altri usi. In Polonia, molti dei campi costruiti o adattati per concentrarvi i profughi tedeschi sarebbero stati convertiti in campi o prigioni per gli oppositori del regime. In Cecoslovacchia, il Partito comunista creò, perché contribuisse alle espulsioni, un’organizzazione paramilitare, la stessa che l’avrebbe aiutato a mettere in atto il colpo di Stato del 1948.35 In senso molto letterale, le espulsioni prepararono il terreno istituzionale per l’imposizione un anno o due più tardi del terrore.

Essendo stati i loro poliziotti a organizzare le espulsioni, i partiti comunisti dei vari paesi godettero spesso della fortuna di trovarsi a gestire la ridistribuzione delle proprietà tedesche. Appartamenti, mobilio e altri beni finirono da un giorno all’altro nelle loro mani, e poterono essere suddivisi con profitto fra i sostenitori del partito. Inoltre i tedeschi avevano lasciato dietro di sé fattorie e fabbriche che poterono essere immediatamente nazionalizzate e, fra gli applausi della popolazione, poste sotto il controllo di funzionari polacchi o cechi. Queste confische di massa contribuirono a preparare psicologicamente il terreno alle nazionalizzazioni su più ampia scala che sarebbero seguite di lì a poco, assicurando loro il consenso popolare. Molti avevano visto con soddisfazione i tedeschi perdere le loro case e imprese, ed erano giunti a sentire come qualcosa di «giusto» la confisca dei beni dei nemici della nazione. Perché quindi non doveva essere «giusto» confiscare i beni dei nemici della classe operaia?

Grazie agli sforzi di potenti e rumorose organizzazioni di ex espatriati, l’espulsione dei tedeschi è divenuta, negli ultimi anni, l’esempio più noto e più frequentemente discusso di pulizia etnica nell’Europa del dopoguerra. Ma essa fu solo uno dei numerosi progetti di pulizia etnica di massa messi in atto dopo la fine del conflitto.

Quasi contemporaneamente alla cacciata dei tedeschi dalla Slesia e dai Sudeti, al confine tra la Polonia e l’Ucraina era in corso un altro scambio di popolazioni. Curiosamente, gli accordi che regolavano questo scambio, la seconda serie di deportazioni del dopoguerra in ordine di grandezza, non erano stati firmati dalla Polonia e dall’Unione Sovietica, bensì dalla Polonia e dalla Repubblica sovietica dell’Ucraina, un’entità che all’epoca non aveva alcuna sovranità, specie in materia di relazioni internazionali. Secondo uno storico ucraino, ciò era avvenuto intenzionalmente. Se gli altri Alleati avessero contestato il trasferimento di popolazioni, o se la violenza che l’avrebbe accompagnato fosse sfuggita a ogni controllo, Stalin avrebbe sempre potuto negare la sua responsabilità giuridica: «Non siamo stati noi, sono stati gli ucraini».36

Come Stalin sapeva bene, nel Sudest della Polonia e nell’Ovest dell’Ucraina infuriava allora una vera e propria guerra etnica. Non è questa la sede per parlare a fondo delle ragioni e dei torti in quel conflitto; basti dire che esso affondava le sue radici in una competizione economica, religiosa e politica di vecchia data, esasperata e fuorviata dall’occupazione nazista e dalle invasioni sovietiche del 1939 e del 1943-44. Alla causa della pace e dell’armonia etnica in Polonia orientale e Ucraina occidentale non contribuivano certo, inoltre, i partigiani di tante fedi politiche e tante nazionalità, polacchi, ebrei, ucraini, sovietici, che si disputavano in quel periodo il potere. La violenza raggiunse l’apice di orrore e tragedia nel 1943 in Volinia – regione che, prima appartenente alla Polonia, era passata all’Ucraina – quando i partigiani legati all’Esercito insurrezionale ucraino (Ukraïns’ka povstans’ka armija, o UPA) si resero conto che i tedeschi stavano perdendo e stava arrivando l’Armata Rossa. Il momento per instaurare un loro Stato, pensarono, si stava avvicinando. Il leader locale, Mykola Lebed, esortò i suoi seguaci a «liberare l’intero territorio rivoluzionario dalla popolazione polacca». Nell’estate del 1943 i suoi uomini, molti dei quali erano stati testimoni, quando non vi avevano partecipato, delle deportazioni sovietiche dei polacchi del 1939 e delle stragi degli ebrei nell’Olocausto, massacrarono circa 50.000 polacchi, quasi tutti civili, e ne scacciarono decine di migliaia di altri dalla Volinia.37

Gli autori dei massacri di quell’estate avevano assimilato sia la lezione nazista sia quella sovietica. Ne è una buona illustrazione il racconto, a opera di un’adolescente polacca, di un’esecuzione di massa nel suo paese. Lei, sua sorella, i suoi due fratelli e i suoi vicini furono portati in una foresta dei dintorni, e fu loro ordinato di non muoversi. Quella che seguì fu un’esecuzione di massa tragicamente simile a tante altre avvenute in Volinia solo pochi mesi prima:

Mi stesi come per dormire. Avevo una grande sciarpa e, per non vedere niente, mi coprii la testa. Gli spari si avvicinarono, e rimasi in attesa della morte. Ma poi sentii gli spari tornare a farsi più lontani, senza che fossi stata colpita … [Mia sorella e io] ci alzammo e guardammo i nostri fratelli, di nove e tredici anni: avevano fori di proiettili sulla testa. Sento ancora un peso sulla coscienza per avere detto loro di togliersi il cappello: forse, se l’avessero avuto, sarebbero sopravvissuti … [Ma a quel punto] dove andare? Camminammo nel sottobosco in direzione di Lubomal. Incontrammo una vecchia ucraina con una ragazza. Mia sorella iniziò a chiederle di portarci a casa con lei, ma non volle … Per fortuna la casa più vicina era chiusa e vuota; bevemmo dell’acqua dall’abbeveratoio e continuammo a camminare. Era iniziata la mia vita errante.38

I polacchi si vendicarono. Uno dei loro attacchi di quell’estate è stato ricordato da un partigiano polacco, Waldemar Lotnik: «Due notti prima avevano ucciso sette uomini; quella notte ne uccidemmo sedici dei loro, fra cui uno scolaro di otto anni … Eravamo in tutto in trecento e non incontrammo resistenza né subimmo perdite. La maggior parte di noi conosceva molti di Modryn, quindi sapevamo chi stava con i nazisti e chi era un nazionalista ucraino. Facemmo una selezione». La rappresaglia non si fece attendere. Una settimana dopo gli ucraini bruciarono un paese, violentando tutte le donne e uccidendo tutti coloro che non erano riusciti a scappare. Poi fu la volta di una nuova rappresaglia polacca, cui presero parte uomini «così pieni d’odio per avere perso negli attacchi ucraini intere generazioni delle loro famiglie che giurarono che avrebbero risposto occhio per occhio e dente per dente, e mantennero la parola».39

Considerata questa storia recente, e che occorreva tempo perché la realtà del cambiamento di confine s’imponesse, non sorprende che sia polacchi sia ucraini opponessero resistenza alla deportazione. Inizialmente sovietici e polacchi s’accordarono perché lo scambio di popolazione fosse rigorosamente volontario, e alcuni, da entrambe le parti, salirono in effetti volontariamente sui treni, nell’autunno del 1944, per varcare il confine. Ma arrivò l’inverno, il grosso dell’Armata Rossa si spostò a ovest per la battaglia finale per Berlino, e il numero dei volontari iniziò ad assottigliarsi. I partigiani dell’Esercito interno polacco, convinti che l’URSS sarebbe stata presto costretta a restituire al loro paese i territori che gli erano appartenuti – un’altra guerra mondiale stava indubbiamente per scoppiare – continuarono a cospirare in Ucraina occidentale per tutto il 1945. «L’Unione Sovietica non conserverà il territorio dell’Ucraina occidentale; esso era e sarà un territorio polacco» dichiarò un abitante polacco a un informatore dell’NKVD. «L’America non lo permetterà mai, perché all’inizio della guerra ha dichiarato che la Polonia sarebbe stata la stessa di prima del 1939. Quindi trasferirsi [in Polonia] non ha senso.»40

Di fronte a questo rifiuto, e sapendo del perdurare del conflitto etnico, Stalin indurì la sua politica verso gli abitanti di etnia polacca delle regioni che, già appartenenti alla Polonia, facevano ormai parte della Repubblica sovietica dell’Ucraina. Nikita Chruščëv, allora segretario del Partito comunista ucraino, scrisse nel settembre 1944 a Stalin proponendo di chiudere tutte le scuole e università polacche in Ucraina occidentale, mettere al bando tutti i libri di testo polacchi e iniziare a rastrellare i polacchi per mandarli a lavorare a progetti industriali altrove in URSS.41 In seguito a queste misure (oltre che al mancato soccorso dell’America e al mancato scoppio della terza guerra mondiale) i polacchi iniziarono infine a salire sui trasporti diretti a ovest. Se l’NKVD poté ancora trovare e arrestare membri di organizzazioni «polacche bianche» in territorio sovietico nel febbraio 1946, si trattava apparentemente degli ultimi nuclei di resistenza aperta.42 Nell’ottobre 1946, secondo documenti sovietici, avevano ormai lasciato l’Ucraina sovietica per la Polonia 812.668 polacchi.43 In totale, si sarebbero trasferiti in Polonia dall’URSS, provenienti dalla Lituania e dalla Bielorussia oltre che dall’Ucraina, 1.496.000 polacchi.44

Culturalmente, fu un terremoto: i polacchi che lasciarono la Lituania, la Bielorussia occidentale e l’Ucraina occidentale abbandonarono città che erano di lingua polacca da secoli, e in molti casi per trasferirsi in città che erano da secoli di lingua tedesca. L’antica università Jan Kazimierz di Lwów, chiamata ora L’viv, si lasciò alle spalle i suoi edifici e si trasferì, con quel che restava dei suoi libri e professori, a Breslavia, ora Wrocław, dove s’insediò in quel che restava dell’università altrettanto antica di quella città. Contadini che avevano coltivato la «terra nera» dell’Ucraina, famosa per la sua fertilità, si ritrovarono sul suolo molto più sabbioso della Slesia, che richiedeva macchinari complessi e metodi di coltivazione diversi. A volte polacchi entrarono in case tedesche trovandovi ancora la teiera sulla stufa o i piatti sporchi sul tavolo, perché chi le abitava prima di loro, come nel caso della contessa Dönhoff, non s’era curato di lavarli dopo l’ultimo pasto.

A tempo debito il governo polacco avrebbe sviluppato un’elaborata mitologia su quella «terra recuperata» (ziemie odzyskane, espressione dal suono molto simile in polacco a «terra promessa», ziemia obiecana) e i sovrani slavi che vi avevano regnato nel Medioevo. Ma molti di coloro che arrivarono in quella «terra recuperata» si sentirono degli intrusi. Non avendo familiarità con le nuove condizioni, i loro primi raccolti andarono male. Erano restii a fare investimenti, perché temevano che i tedeschi sarebbero tornati. Il fatto che nel 1945 e 1946 nelle città già tedesche si riversassero da tutta la Polonia polacchi decisi a rubare quello che i tedeschi avevano lasciato dietro di sé è indicativo: non è così che si tratta un posto in cui ci si sente a casa propria.

Gli ucraini che vivevano sul lato occidentale, polacco, del nuovo confine erano, se possibile, ancora più furiosi e più restii a spostarsi. Avendo sentito storie sulla carestia ucraina del 1932-33, in parte provocata da Stalin per schiacciare il nazionalismo ucraino, la maggioranza di essi non si faceva alcuna illusione sul regime sovietico. Non volevano trasferirsi nell’Ucraina sovietica, e alcuni fra quelli che vi andarono cercarono ben presto di tornare indietro. Per tutto il 1945 e 1946 partigiani dell’Esercito insurrezionale ucraino, e anche dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (Orhanizacija ukraïns’kich nacionalistiv, o OUN), attaccarono gli uffici addetti ai rimpatri, danneggiarono le strade e le linee ferroviarie usate per le deportazioni e giunsero addirittura a dare fuoco a paesi in cui gli espatriati dalla Polonia si erano insediati.45

I comunisti polacchi passarono al contrattacco. Nell’aprile 1945 il gruppo operativo speciale di Rzeszów, di cui facevano parte membri della milizia, della polizia, della polizia segreta e dell’esercito polacco, per «ripulire» dagli ucraini cinque contee polacche, diede il via a un piano di deportazioni forzate. Fu un imbarazzante fallimento. Il sostegno di cui l’Esercito insurrezionale ucraino e l’Organizzazione dei nazionalisti ucraini godevano nella regione era così forte che, a un certo punto, i dirigenti di Rzeszów chiesero ai capi della loro polizia segreta «aerei da ricognizione supplementari». Non riuscendo a mettere le mani sugli ucraini a terra, pensarono che sarebbe andata loro meglio se avessero potuto individuarli dal cielo.46

Nel 1947, ormai, il governo polacco non era più interessato a una semplice pulizia etnica della regione. Si trovava di fronte a una crisi molto più profonda: doveva preservare il proprio potere nel Sudest della Polonia. L’amministrazione locale era impossibile, e in alcune zone i partigiani ucraini avevano efficacemente unito le loro forze a quel che restava della WiN, il movimento d’indipendenza polacco.47 In marzo essi provocarono una crisi uccidendo, dopo una battaglia che vide all’opera 150 partigiani armati di artiglieria e mitragliatrici, il viceministro della Difesa di Varsavia, generale Karol Świerczewski. A quel punto i giornali comunisti esplosero in manifestazioni di indignazione etnica in stridente contrasto con l’internazionalismo, parlando degli ucraini come di «boia», «banditi», «macellai» e «mercenari stranieri», e accusandoli di avere ucciso con «pallottole fasciste» un valoroso figlio della nazione polacca48 (anche se Świerczewski era da lunga data un ufficiale dell’Armata Rossa, e uno dei comunicati interni sulla sua morte parla di «informare la sua famiglia a Mosca»).49

Dopo l’uccisione il regime polacco si mobilitò per deportare gli ucraini, non però in Unione Sovietica, dove avrebbero potuto, anche lì, causare problemi, bensì nei territori già tedeschi del Nord e dell’Ovest della Polonia. A fine aprile, urlando ai quattro venti l’intenzione di ripristinare la «sicurezza» nella regione orientale del paese – un obiettivo che, non c’è dubbio, la maggioranza dei polacchi approvava –, esso lanciò l’Akcja Wisła, l’Operazione Vistola, una grande operazione militare che vide l’impiego di cinque divisioni di fanteria, 17.000 soldati, 500 miliziani, genieri, piloti e truppe del ministero dell’Interno. Supporto lungo i confini fu fornito da divisioni militarizzate sovietiche dell’NKVD e dall’esercito cecoslovacco.50 A fine luglio questa enorme forza era infine riuscita a scacciare dalle loro case circa 140.000 ucraini che, caricati su luridi vagoni merci, erano stati trasferiti nella Polonia settentrionale e occidentale. Fu un’operazione sanguinosa e furiosa, non meno sanguinosa e furiosa delle uccisioni in Volinia di tre anni prima. Un ucraino, che all’epoca era un bambino, ha ricordato come i soldati polacchi avessero fatto irruzione alla festa di matrimonio di suo cugino:

Improvvisamente la casa dove si svolgeva la festa fu circondata dai soldati che, con bombe incendiarie, le diedero fuoco. Uccisero lo sposo e diversi invitati che non riuscirono a scappare; poi gettarono i loro corpi insanguinati su un carro in cui si trovavano già quelli che avevano tirato su a Zagrod. Mentre stavano per andarsene, apparve all’improvviso la sposa, in abito bianco, con il velo. Li pregò di lasciarle il corpo del marito, Ivan. I soldati risero, le legarono le mani con una fune che attaccarono al carro, e partirono. La ragazza si mise a correre, poi cadde e venne trascinata nella polvere. I soldati le spararono e, infine, tagliarono la fune e la lasciarono morta sulla strada.51

Senza la loro rete di sostegno fra i contadini ucraini, i partigiani ucraini non potevano più proseguire la resistenza. Quelli che non vennero uccisi furono catturati, interrogati e spesso torturati a Jaworzno, un altro ex campo nazista utilizzato fino ad allora per internarvi i tedeschi (come molti campi nazisti, ebbe una lunga vita e servì a molte funzioni). Gli ucraini vennero dispersi per tutta la Polonia. Negli anni Novanta incontrai un gruppo di loro discendenti che viveva nei pressi di Ełk, nella zona dei laghi Masuri. Non parlavano quasi più ucraino. Poiché le autorità polacche avevano stabilito che nessuna città del paese dovesse contare più del 10 per cento di ucraini, avevano a poco a poco perso la loro lingua, la loro cultura e la loro peculiarità.

Poche settimane dopo la fine dell’Operazione Vistola, l’Unione Sovietica ne lanciò una altrettanto brutale nei territori confinanti dell’Ucraina sovietica. In pochi giorni, nell’ottobre 1947, la polizia segreta sovietica arrestò in Ucraina occidentale 76.192 ucraini, che furono deportati nel Gulag.52 Diversi storici hanno avanzato l’ipotesi che le due operazioni fossero correlate. Entrambe erano intese a distruggere per sempre la comunità dell’Ucraina occidentale che, estremamente fiera e unita, aveva opposto tanta resistenza sia ai polacchi sia ai russi. L’Operazione Vistola garantì che nessun ucraino sovietico scampato all’arresto potesse più utilizzare la Polonia come rifugio sicuro.53 Entrambe le operazioni furono popolari. I contadini polacchi, angariati dai partigiani ucraini, furono felici di vederli andare via, e grati alle truppe sovietiche e polacche che li avevano dispersi.

L’Operazione Vistola fu un esempio particolarmente brutale di scambio di popolazioni all’interno di un singolo paese, ma non fu l’unico. Quando il governo cecoslovacco non riuscì a ottenere dagli Alleati, né a Potsdam né alla successiva Conferenza di pace di Parigi, l’assenso alla deportazione degli ungheresi dalla Slovacchia, ricorse a una soluzione analoga. Sulla carta, non ci sarebbe stata in quel caso nessuna deportazione, solo uno scambio «volontario» di popolazioni. Per incoraggiare queste partenze «volontarie», gli ungheresi della Slovacchia vennero privati della cittadinanza, del diritto di usare la loro lingua in sedi ufficiali e di partecipare a funzioni religiose in ungherese. Fra il 1945 e il 1948 furono così «persuasi» a lasciare la Slovacchia circa 89.000 ungheresi, che s’insediarono nei Sudeti, dove presero il posto dei tedeschi, o attraversarono il confine recandosi in Ungheria. A rimpiazzarli giunsero dall’Ungheria circa 70.000 slovacchi.54

Fuori della regione non s’alzò una parola di protesta. Il motivo, secondo uno storico magiaro, è che «il destino della minoranza ungherese non interessava a nessuno».55 Ma, in verità, il destino di tutte le minoranze colpite non interessava a nessuno. Il mondo s’accorse a malapena della guerra etnica fra la Polonia e l’Ucraina, per non parlare dell’Operazione Vistola. E non s’accorse nemmeno che dopo la guerra 100.000 ungheresi fuggirono o furono espulsi dalla Romania, 50.000 ucraini lasciarono la Cecoslovacchia per l’Ucraina, e 42.000 cechi e slovacchi tornarono dall’Ucraina in Cecoslovacchia.56

Nel 1950 del carattere multietnico dell’Europa orientale non rimaneva più granché. A perdurare sarebbe stata soltanto la nostalgia: nostalgia ucraina, nostalgia polacca, nostalgia ungherese, nostalgia tedesca. Nel 1991 visitai un minuscolo borgo nelle vicinanze di Zablocko, una città dell’Ucraina occidentale. Vi viveva una coppia di ucraini che nel 1945 era stata terrorizzata da visite notturne di partigiani d’ogni genere e sconvolta dai combattimenti. Stanchi di guerra, non desiderando altro che pace, i due avevano deciso di lasciarsi alle spalle il loro amato paese sul fiume San, nella Polonia orientale, e, accatastati tutti i loro averi su un carro, s’erano trascinati in direzione est. Infine s’erano installati in una casa di legno in cima a una collina, fino a poco tempo prima di proprietà di una famiglia polacca, e lì erano rimasti. Mezzo secolo dopo la loro nipote, che non aveva mai visto la Polonia, sognava ancora di andarvi. Era «ricca e bella come dicono?» voleva sapere.

Infine, per la maggior parte, i deportati tedeschi andarono in Germania, i polacchi in Polonia e gli ucraini poterono andare nell’Ucraina sovietica. Ma nel 1945 gli ebrei dell’Europa orientale, già dispersi fra nascondigli, campi di concentramento e l’esilio, non avevano una patria cui fare ritorno. Quelli che tornarono nei loro paesi e nelle loro città vi trovarono rovine materiali, rovine psicologiche e peggio. Non è possibile comprendere il loro destino nel dopoguerra, infatti, se non si tiene presente che essi tornavano in luoghi che erano stati sconvolti, e spesso lo erano ancora, dalla violenza etnica, politica e criminale.

Abituati all’idea che alla liberazione fece seguito la pace, gli europei occidentali trovano perlopiù difficile ricordarlo. Com’è difficile mettere da parte i miti e le emozioni accumulatisi da allora sul tema dell’esperienza ebraica nell’Europa orientale del dopoguerra. Tutti i contenziosi etnici seguiti al conflitto, è vero, sono stati e sono periodicamente infiammati da politici desiderosi, tramite il passato, di influire sul presente. Le associazioni di ex espulsi hanno svolto un ruolo importante e spesso scomodo nella politica della Germania Ovest degli anni Settanta e Ottanta, a volte, anche nel momento critico del 1989, chiedendo a gran voce una modifica del confine polacco-tedesco e la restituzione delle loro case. Di quando in quando, polacchi e ucraini litigano sulla memoria dell’Esercito insurrezionale ucraino, che i primi ricordano come una banda di assassini e i secondi ora venerano come un’armata di combattenti per la libertà. Nel 2008 le tensioni fra Slovacchia e Ungheria si acuirono al punto che gli ungheresi, indignati per l’arresto di attivisti magiari in Slovacchia, bloccarono in segno di protesta diversi valichi di frontiera.

Ma, emotivamente parlando, la storia degli ebrei nell’Europa orientale del dopoguerra, specie in Polonia, rappresenta un grandissimo campo minato. Il rapporto aggrovigliato fra gli ebrei dell’Europa dell’Est e il comunismo dell’Europa dell’Est ne costituisce un aspetto non da poco: nel dopoguerra alcuni ebrei svolsero ruoli di primo piano in diversi partiti comunisti dell’Est europeo, e furono quindi visti come beneficiari dei nuovi regimi, anche se altri ebrei soffrirono a causa di quegli stessi regimi. A volte europei dell’Est ed ebrei hanno anche ingaggiato una sorta di competizione a base di martirologi. I primi lamentano che il mondo sappia tutto dell’Olocausto, ma ignori le sofferenze da essi subite a opera tanto dei nazisti quanto dell’Unione Sovietica. E i secondi, a volte, hanno interpretato ogni discorso sulle sofferenze di chiunque altro, durante la guerra, come una negazione del carattere unico della loro tragica esperienza. Vi sono state discussioni su denaro, beni, colpe e responsabilità.

Un esempio di come tali emozioni agiscano si può vedere in ciò che successe quando, negli anni Novanta, un procuratore di quello che sarebbe divenuto l’Istituto nazionale della memoria polacco volle indagare sull’insolito caso di Salomon Morel, che, tutti concordavano, era un ebreo polacco ed era stato un partigiano comunista. Dal febbraio al settembre 1945, inoltre, Morel era stato il comandante del campo di Zgoda, un campo di lavoro per tedeschi installato nella città di Świętochłowice, in Alta Slesia, sul sito di quello che era stato un campo ausiliario di Auschwitz. Dopo quell’esperienza Morel era rimasto alle dipendenze della polizia segreta polacca, fino a divenire colonnello e il comandante di una prigione a Katowice. Nei primi anni Novanta era emigrato in Israele.

Quasi tutto il resto, su Morel, è oggetto di discussione. Secondo gli inquirenti e i procuratori polacchi, egli entrò subito dopo la guerra nelle forze di sicurezza della Polonia, lavorando in un primo tempo nella prigione del castello di Lublino, dove assistette agli interrogatori dei dirigenti dell’Esercito interno polacco. Poi fu trasferito a Zgoda, divenendo noto per la sua crudeltà verso i prigionieri, perlopiù tedeschi, fra cui donne e bambini. Li privava del cibo, lasciava che l’igiene si deteriorasse, li torturava per il piacere di farlo e, a volte, li picchiava a morte. Per le cattive condizioni del campo, in estate vi scoppiò un’epidemia di tifo in cui morirono circa 1800 detenuti. Secondo documenti d’archivio, il ministero dell’Interno ritenne responsabile dell’epidemia Morel, ordinò che fosse posto agli arresti domiciliari per tre giorni e gli fosse decurtato lo stipendio.

Nel 2005 un procuratore polacco, giunto alla conclusione che Morel era colpevole di crimini di guerra, presentò allo Stato di Israele, dove egli ormai viveva, una richiesta di estradizione, una fra tante. La risposta fu una furibonda lettera del ministero israeliano della Giustizia in cui si dichiarava che Morel non era affatto un criminale di guerra, bensì una vittima della guerra: durante il conflitto aveva assistito all’omicidio dei genitori, del fratello e della cognata a opera di un poliziotto polacco. Suo fratello maggiore era stato assassinato da quello che la lettera definiva «un fascista polacco». Secondo il funzionario del ministero israeliano nel campo di Świętochłowice, quando Morel ne era al comando, non erano rinchiusi più di seicento prigionieri, ed erano tutti ex nazisti. Inoltre le condizioni sanitarie del campo erano soddisfacenti. Il giudizio del funzionario israeliano non si fondava su fatti, ma su emozioni: Morel, sosteneva, aveva sofferto per i «crimini di genocidio commessi dai nazisti e dai loro collaboratori polacchi», all’origine della causa contro di lui era l’antisemitismo polacco, e non sarebbe stato estradato.57

Lo scambio di lettere causò molto malumore da entrambe le parti. Per i polacchi gli israeliani stavano nascondendo un tipico criminale comunista. Per gli israeliani i polacchi stavano attaccando una tipica vittima ebrea. Eppure la storia di Morel non era affatto «tipica». Lungi dal farne un simbolo di ingiustizia verso i polacchi o gli ebrei, la storia della sua vita avrebbe dovuto essere trattata come un’eccezione.

Per cominciare la storia di Morel era insolita perché, a differenza della maggior parte degli ebrei dell’Europa orientale, egli era sopravvissuto all’Olocausto. Dire esattamente quanto casi del genere fossero rari non è possibile, perché riguardo ai sopravvissuti non disponiamo di cifre esatte. Non tutti coloro che erano ebrei si registrarono come tali in Europa dell’Est nel dopoguerra, e non tutti volevano avere contatti con organizzazioni ebraiche. Molti avevano cambiato il proprio nome per passare da «ariani» e poi, semplicemente, l’avevano mantenuto anche dopo il conflitto. Ma, stando alle migliori stime, sembra che dei 3,5 milioni di ebrei che vivevano entro i confini polacchi prima della guerra, dopo il conflitto ne fossero ancora in vita meno del 10 per cento. Nella Polonia sotto l’occupazione nazista ne erano sopravvissuti forse 80.000. Gli altri avevano passato gli anni del conflitto in Unione Sovietica ed erano tornati in patria quando esso era terminato. Nel giugno 1946 vivevano all’interno dei confini polacchi del dopoguerra circa 220.000 ebrei, cifra corrispondente, all’epoca, a meno dell’1 per cento del totale della popolazione della Polonia, che contava circa 24 milioni di abitanti.58

Le stime sono ancora più difficili nel caso dell’Ungheria, dove c’era una lunga tradizione di assimilazione ebraica, matrimoni misti e conversioni. Di conseguenza le cifre che sono state avanzate riguardo agli ebrei che vivevano nel paese nel 1945 variano notevolmente, da 143.000 fino a 260.000. In ogni caso, si trattava di nuovo di una piccola percentuale della popolazione totale, che era di 9 milioni di abitanti. Ma, poiché le deportazioni naziste dell’ultimo periodo della guerra, fra cui il famoso trasporto di massa ad Auschwitz, avevano colpito principalmente gli ebrei delle province, quasi tutti gli ebrei ungheresi superstiti vivevano a Budapest.59 All’interno della città, che contava allora circa 900.000 abitanti, essi costituivano una minoranza molto visibile e rumorosa. Poiché le loro famiglie e reti professionali erano rimaste intatte, gli ebrei ungheresi iniziarono rapidamente a svolgere un ruolo importante nella vita pubblica. Cosa che non avvenne in Polonia, e tanto meno in Germania, dove, nella zona di occupazione sovietica, gli ebrei superstiti erano dopo la guerra soltanto 4500 circa, un’infima frazione della popolazione, che era di 18 milioni di abitanti. Essi erano, e sarebbero rimasti, quasi invisibili.60

Salomon Morel era atipico anche perché, dopo la guerra, continuò a vivere in Europa orientale. Gli ebrei che dopo il conflitto tornarono alle loro case vi restarono, nella stragrande maggioranza, solo il tempo di scoprire se i loro parenti erano vivi e che cosa ne era stato dei loro beni. I più rimasero sconvolti per il poco che trovarono. In una nota del 1946 le autorità ebraiche polacche spiegarono che, se molti ebrei stavano lasciando il paese, era soprattutto perché era impossibile vivere in città o paesi divenuti «i cimiteri dei loro familiari, parenti e amici».61 Alcuni partivano perché avevano parenti all’estero, a volte gli unici loro rimasti. Altri, specie quelli con esperienze in URSS durante la guerra, perché odiavano il comunismo e temevano, giustamente, che in uno Stato comunista per uomini d’affari e commercianti ebrei non ci sarebbe stato alcun futuro.

Ma altri partirono perché avevano paura. La Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Germania orientale, come tutto l’Est europeo, dopo la guerra erano luoghi violenti. Era pericoloso essere funzionari comunisti, pericoloso essere anticomunisti, pericoloso essere tedeschi, pericoloso essere polacchi in un paese ucraino, pericoloso essere ucraini in un paese polacco. E poteva essere pericoloso anche essere ebrei. Alcuni ebrei trovarono una buona accoglienza al loro ritorno dopo il conflitto: si videro trattati con correttezza e amichevolmente. Quando un ebreo polacco che s’era unito all’Armata Rossa ritornò a casa, fu ben accolto dai vicini, che gli procurarono da mangiare e lo protessero dalle unità locali dell’Esercito interno che davano la caccia ai comunisti. Altri ebrei polacchi che godevano di relazioni nel Partito comunista aiutarono partigiani dell’Esercito interno non ebrei a salvarsi dall’NKVD. Emil Sommerstein, un attivista sionista liberato dal Gulag nel 1944 a condizione che entrasse nel governo provvisorio polacco come ministro degli Affari ebraici, cospirò segretamente per mandare a Londra corrieri dell’Esercito interno travestiti da ebrei ortodossi.62

Nello stesso tempo, tuttavia, abbondano le testimonianze aneddotiche e d’archivio sulle brutali e mortali aggressioni subite da ebrei in Ungheria e Polonia, nonché in Cecoslovacchia e Romania, nei mesi e anni immediatamente successivi alla fine della guerra, anche se c’è disaccordo sui numeri. Le cifre avanzate riguardo alle «morti di ebrei» in Polonia in questo periodo variano da 400 a 2500.63 Forse, considerata la mancanza d’accordo sul numero di ebrei sopravvissuti, tali divergenze statistiche non devono sorprendere, ma esse riflettono anche incertezze più profonde. Con poche importanti eccezioni, quelle aggressioni furono isolate e, a differenza di quelle contro i tedeschi in Polonia o gli ungheresi in Slovacchia, non rientravano in una politica di governo ufficiale. Alcune furono causate dal rientro di ebrei in case ormai occupate da altri o da dissensi politici, e non sempre si riesce a distinguere fra una motivazione e l’altra. Gli ebrei che, al ritorno, rivendicarono la restituzione della loro casa e furono uccisi, lo furono per questo o perché ebrei? Gli ebrei che entrarono nei servizi di sicurezza e furono uccisi, lo furono perché erano comunisti o perché erano ebrei? I furti ai danni di ebrei erano atti di antisemitismo o comuni reati?

Meno ambigui, almeno in questo senso stretto, furono i disordini antisemiti, a volte detti «pogrom», che scoppiarono in questo periodo. Dal 1945 in avanti si assistette a esplosioni di violenza antiebraica: in Polonia a Rzeszów, Cracovia, Tarnów, Kalisz, Lublino, Kolbuszowa e Mielec; in Slovacchia a Kolbasov, Svinna, Komarno e Teplicany; in Ungheria a Ózd e Kunmadaras.64 Di queste sommosse, le due di gran lunga più tristemente famose avvennero a Kielce, in Polonia, il 4 luglio 1946, e nella città ungherese di Miskolc poche settimane dopo, fra il 30 luglio e il 1o agosto.

A Kielce la causa apparente dei tumulti, per quanto sia difficile credere che qualcosa del genere fosse ancora possibile nel XX secolo, fu una «calunnia del sangue». Un bambino polacco, probabilmente per evitare di venire punito per essere tornato a casa tardi, raccontò ai genitori di essere stato rapito da degli ebrei che volevano fare di lui la vittima di un sacrificio rituale. Essi l’avevano rinchiuso, disse, nei sotterranei della sede del Comitato ebraico di Kielce, una sorta di dormitorio e centro comunitario in cui vivevano allora diverse decine di sopravvissuti ebrei. Il padre del bambino, fra l’altro un ubriacone, denunciò l’accaduto alla polizia locale che, solennemente, avviò un’indagine. Ma mentre gli occupanti della sede del Comitato spiegavano ai poliziotti che lì non c’era alcun sotterraneo e quindi non avrebbero potuto rinchiudervi nessun bambino, la voce del presunto rapimento iniziò a spargersi per tutta la città.

Davanti alla sede del Comitato ebraico si radunò una folla. A quel punto arrivò un’unità dell’esercito, quaranta soldati del Corpo di sicurezza interna che, gettando nel panico i dirigenti ebrei all’interno dell’edificio, aprirono il fuoco non sulla turba minacciosa, ma sugli ebrei. Dopo di che, invece di disperdere la folla, si unirono a essa, e così fecero poliziotti, membri della milizia cittadina e, al termine del loro turno di lavoro, gli operai di una fabbrica locale. Nel corso della giornata vennero uccisi ebrei in diverse zone della città, in periferia e sui treni i cui passeggeri ebrei ebbero la tragica sfortuna di arrivare a Kielce. Al calare della notte erano morte almeno quarantadue persone, e decine erano rimaste ferite. Fu, e rimane tuttora, la più grave esplosione di violenza antisemita in Europa orientale dopo la guerra.65

Se calunnie del sangue circolarono anche a Miskolc nei giorni precedenti i disordini, e se a Kunmadaras e Teplicany a scatenare la violenza furono sempre storie su bambini ebrei e cristiani, i tumulti di Miskolc furono in realtà causati dall’arresto di tre borsaneristi, due dei quali erano ebrei. La notizia, fatta probabilmente trapelare dalla polizia, fece rapidamente il giro della città e, la mattina del 31 luglio, quando gli arrestati avrebbero dovuto essere trasferiti sotto scorta dal carcere locale a un campo di internamento, ad aspettarli s’era radunata una folla, già armata di cartelli che dicevano «morte agli ebrei», «morte ai borsaneristi». Alla comparsa dei prigionieri, la folla si scagliò contro di essi uccidendone uno e malmenandone un altro a tal punto che dovette essere ricoverato in ospedale. Il terzo, che non era ebreo, riuscì a fuggire.

Quel pomeriggio la polizia, che la mattina aveva brillato per la sua assenza, arrestò per il linciaggio sedici persone. Il giorno seguente un’altra folla inferocita, indignata dagli arresti, attaccò e occupò la stazione di polizia. A essere ucciso, questa volta, fu un poliziotto ebreo.

Questi eventi, che ebbero una larga eco a livello nazionale e, nel caso di Kielce, internazionale, furono un vero e proprio shock e suscitarono sdegno. I pogrom portarono a nuove ondate di emigrazione. Come spiegò un ebreo che viveva all’epoca a Łódź: «Se sentivamo che la nostra esistenza era ancorata a sabbie mobili, non permettevamo a questo sentimento di influenzare la nostra coscienza. Volevamo riprendere a vivere come esseri umani. Il pogrom di Kielce ci svegliò dalla nostra illusione. Non si doveva rimanere lì neanche per un istante».66

Anche i non ebrei rimasero sconvolti. Intellettuali e politici polacchi e ungheresi di tutti i colori scrissero angosciate condanne per deplorare quei residui di antisemitismo, così ripugnanti in paesi in cui il ricordo dell’Olocausto era ancora vivissimo. In Polonia lo Stato ordinò un’indagine giudiziaria, alcuni dei colpevoli finirono sotto processo e furono infine comminate nove condanne a morte. In Ungheria, all’indomani dei tumulti a Miskolc, il Comitato centrale del Partito comunista discusse apertamente, probabilmente per la prima e ultima volta, di antisemitismo.67 Ma i risultati delle successive indagini della polizia e delle inchieste interne non soddisfecero nessuno.

In entrambi i casi fra i responsabili vi erano elementi del regime. A Kielce la polizia e i servizi di sicurezza non solo non riuscirono a impedire la sommossa, ma si unirono alla folla, e così fece l’esercito: anzi, a scatenare la violenza della folla fu il vedere la polizia dalla sua parte. A Miskolc fu probabilmente la polizia locale a fare sapere in anticipo ai manifestanti che avrebbero trovato gli speculatori nel centro cittadino, e certamente, quando ebbero inizio le violenze, essa s’eclissò. Cosa ancora più importante, lo stesso Rákosi, che pure era ebreo, era stato a Miskolc solo una settimana prima, il 23 luglio, e nel corso di un raduno di massa aveva tenuto un discorso in cui aveva denunciato gli speculatori: «Coloro che speculano con il fiorino, che mettono a repentaglio le fondamenta economiche della nostra democrazia, dovrebbero finire sulla forca». Nello stesso tempo, il Partito comunista ungherese aveva affisso manifesti e distribuito opuscoli in cui si vedevano caricature degli «speculatori» che assomigliavano a caricature di ebrei.68 Il partito, si direbbe, sperava di deviare contro gli «speculatori ebrei» la collera popolare per l’iperinflazione e le cattive condizioni economiche, che avrebbe potuto rivolgersi contro di esso.69

Per nessuno dei due casi esistono prove d’archivio di una pianificazione più minuziosa, e tanto meno di un coordinamento internazionale, come alcuni hanno sostenuto. Benché agenti e consiglieri sovietici fossero presenti in entrambe le città – un ufficiale sovietico dell’NKVD assistette persino ai tumulti a Kielce – e benché questi pogrom avvenissero tutti nello stesso periodo, non è possibile, finora, affermare un qualsiasi coinvolgimento sovietico diretto nella loro organizzazione.70 Né è chiaro se i russi o i comunisti locali pensassero di avere tratto beneficio dai disordini. Anche se le autorità ungheresi e polacche ne attribuirono la colpa ai movimenti anticomunisti e alla Chiesa, una calunnia che, al momento, parve fare presa, nei dibattiti interni riconobbero che i tumulti erano un segno della propria debolezza. A Kielce i diversi rami dei servizi di sicurezza erano entrati in conflitto l’uno con l’altro, non avevano obbedito agli ordini e, il 4 luglio, avevano perso il controllo della folla, il che non era certo una dimostrazione di efficienza. In seguito ai disordini molti dirigenti locali del partito persero il posto.71 Anche i comunisti ungheresi rimasero turbati da Miskolc. Rákosi diede la colpa dei tumulti a «infiltrazioni fasciste nel nostro partito» e giurò che avrebbe impedito il loro propagarsi.72

Resta il fatto che entrambe le serie di sommosse godettero innegabilmente di qualche sostegno popolare. In alcune città di provincia dell’Est europeo, come se provenissero dal profondo del Medioevo, voci secondo cui gli ebrei uccidevano bambini cristiani o speculatori ebrei derubavano contadini cristiani all’improvviso presero piede, pur sotto gli occhi inorriditi del resto degli abitanti. Alcuni ritengono che la spiegazione di quel momento di follia sia economica: lo storico polacco Jan Gross fa notare come le uccisioni in massa di ebrei durante la guerra avessero creato «un vuoto sociale che fu prontamente colmato dalla piccola borghesia polacca indigena».73 Insicuri del loro status, timorosi di perdere ciò che avevano così recentemente guadagnato, minacciati dai nuovi regimi comunisti, quegli strati sociali, ha scritto Gross, rivolsero la loro collera contro gli ebrei che tornavano in patria. Qualcosa del genere avvenne certamente, e molti furono testimoni dello stesso fenomeno in altri paesi. Heda Kovály, un’ebrea sopravvissuta ai campi, tornò nella casa della sua famiglia, nella campagna ceca, nel 1945. «Suonai il campanello» ha raccontato «e, dopo un po’, un uomo grasso dalla barba lunga aprì la porta, mi fissò un attimo e poi esclamò: “Così è tornata! Oh no! Non ci mancava che questo!”. Feci dietrofront e m’infilai nel bosco. Passai tre ore, in attesa del treno per tornare a Praga, camminando sotto gli abeti sul terreno coperto di muschio e ascoltando il canto degli uccelli.»74 In Ungheria il Partito comunista, temendo una reazione popolare negativa, rifiutò di schierarsi a favore della restituzione delle proprietà ebraiche. Nel marzo 1945 lo «Szabad Nép» consigliò agli ebrei di mostrare «comprensione» verso i gentili che ora occupavano i loro appartamenti, anche se quei gentili avevano collaborato con il regime fascista. Funzionari del partito a Budapest giunsero a suggerire agli ebrei che tornavano di «arrivare a un accordo» con chi abitava le loro case, cosa che, date le circostanze, era sicuramente impossibile.75

Secondo altri dietro a quell’ostilità c’era qualcosa di più profondo della concorrenza economica. Come ha sottolineato lo storico polacco Dariusz Stola, i polacchi, come i cechi, gli ungheresi, i romeni e i lituani, avevano visto, udito e persino odorato l’Olocausto in misura inimmaginabile in Europa occidentale, Germania compresa:

La reazione psicologica a quel genere di esperienza è complessa e del tutto irrazionale; la memoria è una sorta di convulsione, i sentimenti associati sono intensi e incontrollati, e, soprattutto, non sono necessariamente sentimenti di pietà o compassione … Non sono uno psicologo, ma propendo per questa teoria perché non vedo altra spiegazione a certe orribili forme di comportamento, come, per esempio, lanciare una granata in un orfanotrofio che ospita bambini ebrei.76

Stola fa qui riferimento a un episodio ignobile: la notte del 12 agosto 1945, nel paese di Rabka, in Polonia, uno sconosciuto lanciò effettivamente una granata in un orfanotrofio ebraico, e continuò a sparare contro l’edificio per altre due ore. Sorprendentemente, nessuno rimase ucciso. Ma presto l’orfanotrofio venne chiuso e i bambini trasferiti altrove.77

La spiegazione di Stola, anche se risale al 2005, non è molto lontana dalle opinioni di tanti intellettuali polacchi dell’epoca. Alla stessa conclusione giunse per esempio, nel 1947, Stanisław Ossowski, stimato filosofo e sociologo. «La compassione» scrisse «non è l’unica risposta immaginabile alle disgrazie altrui … Coloro che il destino ha condannato all’annientamento possono facilmente apparire ripugnanti agli altri e venire respinti al di là del campo dei rapporti umani.» Egli osservò inoltre, come altri dopo di lui, che coloro che avevano tratto qualche beneficio materiale dall’annientamento degli ebrei si sentivano spesso a disagio, se non oppressi da sensi di colpa, e si sforzavano quindi di fare apparire le loro azioni legittime: «Se la sciagura di uno porta benefici a un altro, si fa strada il bisogno di convincere se stessi, e gli altri, che quella sciagura era moralmente giustificata».78

Quale che fosse la ragione del perdurare dell’ostilità verso gli ebrei, essa contribuì a convincerli a lasciare l’Europa orientale per emigrare in America, in Europa occidentale e, soprattutto, in Palestina. Nei tre mesi successivi ai tumulti di Kielce lasciarono la Polonia per la Palestina circa 70.000 ebrei, che beneficiarono dell’aiuto e dell’incoraggiamento di un piccolo numero di organizzazioni sioniste fondate o sostenute a questo scopo da gruppi attivi in Palestina o negli Stati Uniti. In conformità agli accordi presi, gli ebrei polacchi dovevano uscire dal paese da valichi di frontiera concordati in Slesia, poi attraversare a piedi e su camion la Cecoslovacchia per giungere, infine, a un porto del Mediterraneo, da dove avrebbero potuto imbarcarsi per la Palestina (anche se alcuni si separarono lungo la strada dai compagni per dirigersi verso altri paesi).79

L’immigrazione in Palestina, paese sotto mandato britannico, era tuttavia ancora illegale, per cui, quando quel movimento di massa iniziò ad attrarre l’attenzione della stampa inglese, il regime polacco si trovò in difficoltà e, per un breve periodo, lo fermò. Ma, dopo la costituzione dello Stato di Israele, l’autorizzazione agli ebrei a partire fu rinnovata, anche perché lo Stato polacco, allora impegnato a imporre la centralizzazione economica, era più che felice di liberarsi dei piccoli uomini d’affari della comunità ebraica. Per incoraggiare l’emigrazione, inoltre, il nuovo governo israeliano negoziò con quello polacco un accordo commerciale vantaggioso per quest’ultimo, garantendo così alla Polonia un afflusso di valuta pregiata. Un accordo analogo fu stipulato con Israele anche dal governo romeno, ed è probabile che dietro a entrambi vi fosse l’attiva approvazione dell’Unione Sovietica.80 Più o meno nello stesso periodo, infine, in Ungheria l’American Jewish Joint Distribution Committee, una delle principali organizzazioni filantropiche sioniste, versò un milione di dollari al governo di Budapest che, in cambio, permise a 3000 ebrei ungheresi di partire immediatamente per Israele.81

Dietro le quinte diversi Stati dell’Europa dell’Est si dimostrarono ancora più favorevoli a questa politica, molto di più di quanto i loro dirigenti avrebbero in seguito ammesso. Tutti, con l’eccezione della Iugoslavia, votarono nel 1947 per la divisione della Palestina: all’epoca l’Unione Sovietica vedeva di buon occhio la nascita dello Stato di Israele, non da ultimo perché Stalin era convinto che esso sarebbe ben presto entrato nel campo comunista. L’entusiasmo per Israele era vivo anche in Europa orientale, tanto che sul finire del 1947 i governi della Polonia, della Cecoslovacchia e dell’Ungheria aprirono campi d’addestramento per l’Haganah, l’organizzazione paramilitare ebraica che costituì il nucleo di quelle che sarebbero più tardi divenute le Forze di difesa israeliane. L’esercito e la polizia segreta ungheresi addestrarono circa 1500 ebrei magiari, e nello stesso periodo circa 7000 ebrei polacchi si recarono a Bolków, una piccola città della Slesia, per essere addestrati da soldati dell’Armata Rossa e dell’esercito polacco e, infine, anche da combattenti dell’Haganah. All’epoca tale programma era visto con favore a livello sia nazionale sia locale. Nel giugno 1948 il Comitato centrale del Partito comunista polacco assegnò al gruppo «un certo quantitativo di armi e un campo d’addestramento militare per esercitarsi». A Bolków le esercitazioni si svolgevano all’aperto, i volontari marciavano per la città cantando e, quando partirono per la Palestina via Praga e Marsiglia, «vi furono», avrebbe raccontato una ex recluta, «fiori e bandiere: persino i polacchi provavano molta simpatia per la loro lotta per la libertà». Il programma durò fino all’inizio del 1949 e, nelle intenzioni, doveva sortire benefici a lungo termine: la polizia segreta polacca compilò elenchi di coloro che avevano seguito i corsi di addestramento e, a quelli che erano membri del Partito comunista, fu chiesto di collaborare come informatori «anche dopo la partenza per Israele».82

Una volta che Israele fu divenuto uno Stato, i viaggi cessarono di essere clandestini. Nel 1948 l’agenzia di viaggi statale polacca, Orbis, organizzò il primo trasferimento in treno regolare, di nuovo via Cecoslovacchia, Austria e Italia. Dopo il buon esito di uno o due viaggi (che convinsero gli ebrei che stavano «veramente andando in Israele e non in Siberia») le domande di emigrazione ripresero a crescere.83 Esse iniziarono di nuovo a diminuire nei primi anni Cinquanta, quasi certamente a causa di pressioni sovietiche: l’iniziale sostegno dato da Stalin a Israele aveva lasciato il posto al sospetto e alla paranoia. Nel 1955, tuttavia, non restavano in Polonia più di 80.000 ebrei: oltre due terzi dei sopravvissuti erano partiti. Negli altri paesi dell’Europa dell’Est le cifre erano simili. Fra il 1945 e il 1957 lasciarono il loro paese il 50 per cento degli ebrei romeni, il 58 per cento di quelli cecoslovacchi e il 90 per cento di quelli bulgari. Anche l’Ungheria vide partire fra un quarto e un terzo dei suoi cittadini ebrei.84

Quelli che decisero di restare lo fecero, nella stragrande maggioranza, perché erano comunisti, perché riponevano grandi speranze nel regime comunista, o perché lavoravano nell’apparato statale comunista. In questo non c’è nulla di strano: in un’epoca in cui gli anticomunisti di tutti i generi venivano arrestati e uccisi, a lasciare l’Europa dell’Est erano gli ebrei anticomunisti. Ed ecco l’ultimo aspetto insolito della storia di Salomon Morel: il suo fu un caso eccezionale perché era ebreo e non solo non partì, ma entrò nei servizi di sicurezza. Malgrado la mitologia popolare est-europea, che pretende il contrario, la maggioranza degli ebrei polacchi non entrò nella polizia segreta. Come avrebbero potuto? Per la massima parte avevano lasciato o si preparavano a lasciare il paese.

Un piccolo numero di ebrei, è vero, occupava posizioni molto elevate e in vista, in Polonia, sia nel Partito comunista sia nell’apparato di sicurezza comunista. Fra loro vi erano Jakub Berman e Hilary Minc, alti consiglieri di Bolesław Bierut in materia, rispettivamente, di ideologia ed economia; Julia Brystiger, che dirigeva il dipartimento della polizia segreta incaricato dell’infiltrazione della Chiesa cattolica; Józef Różański, il perverso alto responsabile degli interrogatori della polizia segreta e il suo vice, Adam Humer; il fratello di Różański, Jerzy Borejsza, uno scrittore che nel dopoguerra finì per prendere il controllo di gran parte dell’editoria; e Józef Światło, un alto dirigente della polizia segreta che avrebbe in seguito defezionato. Ma questo famigerato gruppo non costituì mai, né nel partito né nell’apparato di sicurezza comunisti, una maggioranza. Stando alla migliore delle stime, quella dello storico Andrzej Paczkowski, i suoi membri rappresentavano nell’immediato dopoguerra il 30 per cento dei dirigenti della polizia segreta. E dopo il 1948 il loro numero diminuì ulteriormente. Non c’è dubbio che essi si attirarono comunque il rancore degli anticomunisti in misura sproporzionata.85

In Ungheria la situazione era diversa, perché lì tutti i dirigenti comunisti, da Rákosi a Gerő a Révai, erano di origine ebraica, come lo erano molti dei fondatori della polizia politica e molti dei massimi responsabili del ministero dell’Interno, fra cui Gábor Péter. Nemmeno per l’Ungheria, tuttavia, si può sostenere che gli ebrei appoggiassero i comunisti. Alle elezioni del 1945 votò per il Partito comunista solo un quarto della popolazione ebraica. Inoltre, se il numero degli ebrei fra i dirigenti più in vista del partito nell’immediato dopoguerra rimase alto, la percentuale di ebrei nell’apparato dello Stato iniziò a diminuire dopo il 1948, quando il Partito comunista ungherese, come quelli della Germania Est e della Romania, cominciò a reclutare esponenti di basso livello del vecchio regime, specie poliziotti, nel tentativo dichiarato di rendersi più popolare in quegli ambienti e combattere lo stereotipo che vedeva nei comunisti un’«élite», degli «stranieri» o degli «ebrei». («Non è brutta gente» disse Rákosi a un giornalista americano parlando di ex membri del Partito fascista. «Non vi hanno mai partecipato attivamente. Tutto quello che devono fare è firmare un impegno e li accettiamo.»)86

Cosa più importante, la presenza di ebrei in ruoli dirigenti nei partiti comunisti dell’Est europeo non portò in nessun paese a politiche che si possano ragionevolmente definire «proebraiche». Al contrario, i comunisti, compresi gli ebrei comunisti, diedero prova di un’incredibile ambivalenza nei riguardi della storia e dell’identità ebraiche, persino durante l’Olocausto. A Mosca, nel 1942, Jakub Berman iniziò a sentire racconti agghiaccianti su quanto stava accadendo agli ebrei di Varsavia. E in seguito uno dei suoi fratelli sarebbe morto nelle camere a gas a Treblinka. Ma, nonostante tutto ciò, egli si corazzò contro la pietà: gli autentici comunisti non potevano permettere che fossero i nazisti a determinare la loro politica. In una lettera a Leon Kasman, anch’egli ebreo, consigliò all’amico di non lasciarsi portare fuori rotta né distrarre dalla tragedia in corso. «La situazione degli ebrei in Polonia è terribile» scrisse. «A me sembra, però, che tu non possa dedicarle troppi sforzi … perché, anche se la questione della mobilitazione delle masse ebraiche in Polonia per la lotta attiva contro l’occupante è importante e legittima … sono altre le cose che devono essere al centro della nostra attenzione.»87

Dopo la guerra tale ambivalenza aumentò. Nel 1945 e 1946 Rákosi era preoccupato dal fatto che troppi processi antifascisti prendessero di mira «gente che ha fatto qualcosa agli ebrei»: così si rischiava l’impopolarità.88 Com’è tristemente noto, egli si lasciava facilmente andare a commenti antisemiti nei suoi discorsi, tanto che, una volta, suscitò l’indignazione del presidente del Parlamento, Béla Varga, che ribatté: «Sua madre era ebrea; non rinneghi sua madre». Ma Rákosi non si tirava indietro neanche quando si trattava di negare realtà meno private. Quando, durante una riunione di gabinetto, il primo ministro del Partito dei piccoli proprietari, Ferenc Nagy, fece un’osservazione sull’alto numero di ebrei fra i politici ungheresi del dopoguerra, Rákosi commentò serafico che il Partito comunista non aveva quel problema: «Per fortuna tutti i nostri dirigenti sono cattolici».89 Persino in Germania Est, dove gli ebrei erano quasi inesistenti, si giunse ben presto a distinguere fra gli onori da tributare agli ex «combattenti contro il fascismo», espressione con la quale s’intendevano perlopiù i comunisti, e le ex «vittime del fascismo», cioè, essenzialmente, zingari ed ebrei. Come ha osservato Jeffrey Herf: «Nel discorso comunista tutto muscoli dell’antifascismo sarebbe sopravvissuto fra le righe, in Germania Est, il vecchio stereotipo antisemita dell’ebreo capitalista, passivo e rammollito».90

Questo nauseante rapporto, in Europa dell’Est, fra comunisti ed ebrei potrebbe essere attribuito, in parte, all’antisemitismo di singoli individui, persino di singoli ebrei. Esso rifletteva, in effetti, anche l’antisemitismo di Stalin, che divenne nel tempo sempre più intenso, fino a culminare, appena prima della sua morte, in una purga degli ebrei sovietici in posizioni elevate. Ma, a livello più profondo, il disagio di fronte agli ebrei e all’ebraismo rifletteva l’insicurezza dei partiti comunisti sulla propria popolarità. Sapendo che la loro legittimità non era riconosciuta da molti connazionali, e che, per essere più precisi, essi erano visti come agenti sovietici, i comunisti ricorsero, per guadagnare consensi, a simboli nazionali, religiosi ed etnici tradizionali. Fu così, in particolare, nel 1945 e 1946, quando ancora pensavano di avere la possibilità di prendere il potere tramite elezioni. Mentre Rákosi si esibiva in tirate retoriche antiborsaneriste e antisemite, il Partito comunista ungherese si fece paladino della celebrazione annuale della «rivoluzione borghese» del 1848 e, lasciando costernati alcuni dei suoi vecchi membri, insistette perché i propri seguaci sventolassero, oltre che la bandiera rossa, la bandiera dell’Ungheria. «Abbiamo ancora un problema con il nostro carattere patriottico» spiegò Rákosi. «Molti compagni temono che stiamo deviando dal solco marxista. Va sottolineato con forza che noi abbiamo scelto la bandiera rossa e la bandiera nazionale … La bandiera nazionale è la bandiera della democrazia ungherese.»91

Non diversamente si comportarono i comunisti tedeschi, che a guerra ancora in corso, per conquistare alla loro causa i soldati smobilitati, riportarono in vita la bandiera della Germania imperiale. Essi si impegnarono con tutte le forze, inoltre, per rendere omaggio agli eroi della tradizione tedesca, celebrando per esempio a Weimar, nel 1949, un anno goethiano, e organizzando a Lipsia, ogni quattro anni, un concorso intitolato a Bach. I polacchi, dal canto loro, indissero nel 1949 un anno chopiniano. Nell’agosto 1944 Edward Osóbka-Morawski, alla testa del governo provvisorio di Lublino, fece addirittura celebrare in pubblico una messa per commemorare il «miracolo della Vistola», la sconfitta inferta nel 1920 dai polacchi ai bolscevichi nei dintorni di Varsavia, una festa nazionale dal tono decisamente antirusso. Lo strano evento fu reso ancora più strano dalla presenza del generale Nikolaj Bulganin che, allora rappresentante del Consiglio sovietico dei commissari del popolo, sarebbe in seguito divenuto primo ministro dell’Unione Sovietica.92

L’indulgenza comunista verso l’antisemitismo faceva parte di questo stesso modo di pensare. Molti speravano che ignorando l’antisemitismo, o addirittura flirtando con esso, il loro partito sarebbe parso più «nazionale», più «patriottico», meno sovietico, meno straniero e più legittimo. In Polonia la tesi che l’impopolarità del partito fosse dovuta alla presenza di «troppi ebrei» al suo interno ebbe origine in seno al partito stesso. Nel 1948, ormai caduto in disgrazia, Władysław Gomułka, leader dei comunisti polacchi durante la guerra e grande rivale di Bierut, inviò una lunga nota a Stalin dichiarando che, se il partito incontrava difficoltà ad ampliare la sua base, era per gli ebrei presenti al suo interno: «Alcuni dei compagni ebrei non sentono alcun legame con la nazione polacca o la classe operaia polacca … o hanno assunto una posizione che potrebbe essere definita di “nichilismo nazionale”». Di conseguenza, aggiunse, «ritengo assolutamente necessario non solo fermare ogni ulteriore crescita della percentuale di ebrei nell’apparato dello Stato e del partito, ma anche diminuire gradualmente tale percentuale, specie ai livelli più alti dell’apparato».93

Come i sentimenti antitedeschi nei Sudeti, antiucraini in Polonia e antiungheresi in Slovacchia, anche l’antisemitismo sarebbe infine divenuto uno strumento fra gli altri, un’ulteriore arma nell’arsenale del partito. In questo senso la storia degli ebrei nel dopoguerra rientra nello stesso capitolo cui appartengono forme più energiche di pulizia etnica. In cerca di popolarità, i partiti comunisti non si fecero scrupoli ad alimentare l’odio per i tedeschi, l’odio per gli ungheresi, l’odio per gli ucraini e, persino nella regione più devastata dall’Olocausto, l’odio per gli ebrei. Il Partito comunista polacco sarebbe tornato anche in seguito a questa politica, espellendo nel 1968 la maggior parte dei propri membri ebrei.

E Salomon Morel? In ultima analisi egli fu una figura «tipica» di questo periodo soltanto in un senso: come molti che vissero gli orrori della guerra e la confusione del dopoguerra, interpretò ruoli diversi in narrazioni nazionali diverse in momenti diversi. Fu una vittima dell’Olocausto, un criminale comunista, un figlio che perse tutta la sua famiglia per mano dei nazisti e un uomo divorato da un furore sadico contro tedeschi e polacchi, un furore che poteva avere o non avere origine nella sua condizione di vittima, e poteva essere connesso al suo comunismo oppure no. Egli era un uomo profondamente vendicativo e profondamente violento. Ricevette medaglie dallo Stato comunista polacco, fu perseguito dallo Stato polacco postcomunista e fu difeso dallo Stato di Israele, anche se manifestò un qualche interesse a trasferirsi in Israele solo cinquant’anni dopo la fine della guerra e, anche allora, solo quando iniziò a temere di essere portato di fronte a un giudice. In definitiva, la storia della sua vita non dimostra proprio nulla riguardo a ebrei e polacchi. Dimostra soltanto quanto sia difficile giudicare persone che vissero nella regione più sconvolta d’Europa nei peggiori decenni del XX secolo.

GIOVANI

Il vostro gruppo d’azione antifascista va immediatamente sciolto…! Da voi ci si aspetta che attendiate istruzioni dal Comitato centrale!

WALTER ULBRICHT, 19451

Chi possiede la giovinezza possiede il futuro.

Slogan dei Giovani pionieri tedeschi