QUESTA È L'ACQUA
David Foster Wallace
David Foster Wallace
di Don DeLillo*
L’infinito. Questo l’argomento del libro di David Foster Wallace sulla matematica, la filosofia e la storia di un concetto vasto, bellissimo, astratto. Nel libro ci sono riferimenti alla dicotomia di Zenone e alla congettura di Goldbach, al principio di massimalità di Hausdorff. A fare da arioso contrappunto c’è il canto piano di Dave: Allora OK e una cosa tipo e non scherzoe roba del genere.
La sua opera tende ovunque a conciliare ciò che è difficile e consequenziale con un fraseggio che è giovanile, spontaneo e spesso spiritoso, contrassegnato qua e là da qualche piccola curiosa intromissione dal gergo di strada.
«La sua fotografia ha un sapore amaro per me».
«Un imbarazzo quasi talmudico».
«Il piccolissimo buco della serratura di se stesso».
Persiste una vitalità, un vigore sbigottito di fronte alla complessa umanità che troviamo nella sua narrativa, alla perdita e all’inquietudine, all’offuscarsi della mente, alla mancanza di fiducia in se stessi. Ci sono frasi che sparano raggi di energia in sette direzioni. Ci sono racconti che seguono il tortuoso senso di isolamento di un personaggio.
Tutto, e di piú. Questo il titolo del suo libro sull’infinito. Potrebbe essere anche la descrizione del romanzo Infinite Jest, una serissima beffa sulle forme di dipendenza dell’umanità. Possiamo immaginare i suoi testi narrativi e i suoi saggi come stralci di rotoli da un lontano futuro. L’opera la conosciamo già come notizia di prima mano: dallo scrittore al lettore, intimamente, ossessivamente. Lui non ha incanalato le sue doti entro schemi piú angusti. Voleva reggere l’urto della vasta, farneticante, ingovernabile onda della cultura contemporanea.
Ora lo conosciamo come uno scrittore coraggioso in lotta contro la forza che voleva indurlo a rinunciare a se stesso. A distanza di anni sentiremo ancora il gelo che ha accompagnato la notizia della sua morte. Uno dei suoi racconti recenti si conclude con la perentorietà di questa mezza frase: Non una parola di piú.
Ma c’è sempre una parola di piú. C’è sempre un lettore di piú a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno di pervenirci. Giovinezza e perdita. Questa è la voce di David, americana.
DON DE LILLO
3 novembre 2008.
* Versione rivista dall’autore del discorso tenuto per il Memorial, New York, 23 ottobre 2008.
QUESTA È L'ACQUA
Solomon Silverfish
Solomon
Alle 2:30 del mattino, a letto, Solomon Silverfish, sassone segreto, celta teorico, aveva due notizie per Ira Schoenweiss, all’altro capo del filo. La prima era che a sentire le vicende di quella notte il culo troppo-stupido-e-ciccione-anche-solo-per-commentare-quanto-fosse-stupido-e-ciccione di Ira Schoenweiss era ancora il culo di Ira Schoenweiss solo perché stava dentro una grossa imbracatura giudiziaria che glielo teneva attaccato al corpo. La seconda era che se Silverfish non sbagliava quello era il terzo e peggiore arresto per guida in stato di ebbrezza in due anni, e che si credeva, che Silverfish era un superman? Che faceva miracoli giudiziari? La notizia premio per Ira era che se Ira non teneva la bocca chiusa e questo significava cucita, specie con Zero Kretzman, fino all’arrivo di Silverfish, Silverfish avrebbe ridotto Ira a un colabrodo con le sue mani, risolvendo cosí i problemi di tutti. Solomon disse che Ira lo conosceva troppo bene per non sapere che dicendo che l’avrebbe ridotto a un colabrodo non scherzava. Ira Schoenweiss si disse a un passo dalle lacrime tanto gli dispiaceva dover coinvolgere Silverfish in quella faccenda. Silverfish gli disse di non muoversi, che l’avrebbe raggiunto cosí in fretta da non trovare nemmeno un attimo per vestirsi o mandare giú un boccone. Schoenweiss disse che stava per mettersi a piangere. Silverfish gli disse di non preoccuparsi e di non piangere, non era proprio il caso, poi riattaccò il telefono che teneva sul comodino.
Silverfish si sedette sul letto schiaffeggiando varie volte l’aria a mani aperte, prese a saltellare con il sedere sul materasso per la rabbia, il fastidio e la scocciatura in senso lato. I saltelli servivano anche a far scivolare i pantaloni del pigiama alle caviglie perché Dio non voglia che uno si presenti al Quarantesimo Distretto di Polizia per affrontare Kretzman su una vicenda del genere con i pantaloni del pigiama.
E attraverso le tende bianco diafano della camera da letto di Silverfish, alla vampa color zucca del lampione al sodio giú in strada, si scorgeva la linea drittissima di Sophie Schoenweiss Silverfish che, girata su un fianco, saltellava leggermente anche lei, per effetto dei saltelli di Solomon. Aveva l’ago di una flebo fissato al polso, un tubicino che conduceva alla piantana sul suo lato del letto, una boccia di vetro piena di glucosio, analgesico e antimetabolico, trasparente consommé ora acceso di arancione sporco nella boccia e nel tubicino alla luce filtrata dalle tende diafane della camera da letto e proveniente dal lampione al sodio giú nella strada molto tranquilla e altrettanto rispettabile dove i Silverfish abitavano a Skokie, una certa zona di Chicago. Silverfish, i pantaloni del pigiama ancora ai piedi, guardò per un istante, forse due, l’attutita luce arancione che scendeva goccia a goccia dentro Sophie. Dall’estremità della linea del suo profilo, dal suo cuscino, dove cadeva piú luce, giunse la voce di Sophie.
– È Ira, vero, che chiama a quest’ora? – Silverfish si alzò dal letto con soltanto la giacca del pigiama. Sophie non aveva dormito, si capiva dalla voce. Silverfish scrollò una pila di vestiti su una sedia riconoscendo i pantaloni del giorno prima dal peso nelle tasche. I boxer per fortuna erano ancora dentro i pantaloni. Annusò i boxer che fecero da filtro alla sua voce. – È proprio quell’Ira-sono-un-artista-troppo-importante-e-sensibile-e-neanche-a-dirlo-intellettuale-per-rispettare-le-regole-elementari-del-vivere-civile-che-tutti-dobbiamo-rispettare-e-invece-me-ne-vado-sbevazzando-e-guido-per-la-città-cosí-ubriaco-da-non -reggermi-in-piedi-e-Dio-sa-se-non-poteva-capitare-solo-a-Ira-di-schiantarsi-contro-la-macchina-di-Kretzman-proprio-davanti-al-distretto-di-Dempster-street Schoenweiss, che lo possano appendere al soffitto per le budella mentre Kretzman gliele suona sul culo con la prima cosa appuntita che gli capita a tiro, e piú è appuntita meglio è, fino al mio arrivo –. Silverfish trovò le scarpe e due calzini che chissà se erano uguali.
Sophie si girò con cautela sulla schiena a guardare la sagoma di Silverfish, che si allacciava le scarpe contro il bordo del letto. – La macchina di Zero Kretzman? Parli del signor procuratore distrettuale nonché pubblico ministero Kretzman?
– Parlo di Ira-mi-ficco-sempre-in-qualche-casino-notturno Schoenweiss che a mia moglie è toccato in sorte come fratello! – tuonò Silverfish. Balzò sul letto con l’agilità di una persona molto piú giovane e si mise a cavalcioni su Sophie. Le morse la spalla. Prese la parrucca dal comodino e la lanciò con la scioltezza che viene dall’esercizio sulla boccia di vetro della flebo, che tintinnò oscillando sulla piantana. Silverfish baciò Sophie sullo sterno. Le diede un buffetto sulla pancia. – Cicciona! – sibilò. – La mia oscena cicciona rosa sorella di un giudeo piantagrane, ciccione pure lui.
Sophie rideva forte quanto poteva. Il suono le riecheggiava nel petto come in un impianto elettrico. Con il braccio scollegato sfiorò i bottoni della giacca di Silverfish. – Sei ancora in pigiama, signor imparentato-con-giudeo-piantagrane-e-moglie-cicciona-avvocato-in-missione-umanitaria Silverfish.
– Dovrei mettermi in frac per Ira e Kretzman? Con tanto di code, magari? Fingere che non sia una scocciatura? – Silverfish sentí Sophie sforzarsi in silenzio di respirare sotto il suo peso e si tolse delicatamente, camminò sul materasso con passo lieve e andò a prendere le chiavi sul comò. Vicino alle chiavi trovò una cravatta e se la mise al collo. Sophie respirò guardandolo in quella luce sporca.
Silverfish prese la spazzola e si girò verso il contorno dello scheletro di sua moglie sotto le coperte. – Di’, ti senti in forma? Posso andarmene qualche ora?
– Vattene per sempre, – disse Sophie. – Salva un pittore paffuto da una vita da criminale in prigione. L’infermiera della clinica viene alle dieci ed è a mia completa disposizione tutto il giorno.
– Io non torno molto prima delle dieci, per il tuo Ira sarà dura continuare a vivere dopo che l’avrò ridotto a un colabrodo! – Silverfish schiaffeggiò l’aria.
– Guida come uno che ha la testa sul collo, Solomon.
Silverfish aprí la porta della camera da letto. – Luce accesa, che dici? Un libro da leggere? Televisione?
Sophie sorrise e si passò la mano sul cranio. – Niente luce. Dormivo cosí bene. Un ciocco.
– Un ciocco?
– Un pezzo di legno inanimato, ecco cos’ero, – disse Sophie. – Dormivo come una cosa morta.
– Allora torna a fare il legno inanimato, – bisbigliò Silverfish.
Sophie sorrise. – Cosí mi esercito per quando sarà il momento.
Silverfish strinse gli occhi nella penombra. Sophie lo guardò. Cominciò a scusarsi con bisbigli che solo lui sapeva sentire. Giú in strada, nell’auto in fondo all’isolato, nel buio tra due lampioni, Alan Schoenweiss si puliva l’unghia del pollice con il fermacravatta.
– Sta’ zitta e dormi, in quest’ordine, – disse Silverfish alla moglie. Scese in cucina a mangiare un boccone. Sophie fissò lo spazio della porta socchiusa e il fievole bagliore bianco caldo che ora veniva dal piano di sotto illuminato, mischiandosi al sodio che veniva dalla finestra e creando un arancione verdognolo. Respirò.
Alan
ISTRUZIONI PER UNA PERSONA CHE AMMESSO CHE STIA FACENDO UNA COSA LEGITTIMA E IO PREFERIREI CHE NON FOSSE COSÍ LEGITTIMA POTREBBE VOLER IDENTIFICARE SOLOMON SILVERFISH, L’AVVOCATO, E MAGARI ANCHE SEGUIRLO FINO AL QUARANTESIMO DISTRETTO DEL DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI CHICAGO, ALL’ANGOLO TRA DEMPSTER E PROSPECT STREET, CHICAGO, ILLINOIS, ALLE 3:00 DEL MATTINO DI STAMATTINA.
Tenere gli occhi bene aperti casomai comparisse Ford Thunderbird rossa del 1961, nuova di zecca che mantenerla costa Dio sa quanto, decappottabile, con pneumatici da neve ancora montati il tredici di maggio per via del fatto che il proprietario dell’auto ha una paura mortale di guidare sulla neve d’inverno e se ne infischia del rumore, figuriamoci poi dell’usura del battistrada, pur di risparmiarsi la scocciatura di togliere gli pneumatici solo perché il tempo si è aggiustato un po’, che anche a maggio con la neve non si sa mai, qui a Chicago. Questa Thunderbird di notte gira spesso a fari spenti per via del fatto che il soggetto che è proprietario dell’auto ha la testa tra le nuvole, e comunque saprebbe andare nella Quarantesima a occhi chiusi e a proposito, prima di seguirlo troppo da vicino, date retta a me, probabilmente è proprio quello che sta facendo. Alla voce testa tra le nuvole vedi anche il fatto che il soggetto nella Ford Thunderbird rossa del 1961 indossa i pantaloni di un completo costosissimo e devo ammettere assai elegante preso al reparto chic di Marshall Field, in vendita ogni primavera ma meglio andarci in anticipo, e sopra un pantalone del genere ha una vecchia giacca del pigiama di flanella gialla con macchia blu alla dottor Rorschach sul taschino, dovuta al fatto che una volta il soggetto ha tenuto tutta la notte in tasca una penna che perdeva nel sonno. Una cravatta è legata intorno al colletto di flanella del soggetto, legata come spesso il soggetto lega la cravatta quando ha sonno e si lega le scarpe con un mezzo Scappino: sí, la cravatta è legata come si legherebbe il laccio di una scarpa. Attenzione a pericolose sterzate della Thunderbird rossa mentre il soggetto cerca di aggiustare la cravatta nello specchietto retrovisore. Il soggetto frusta l’aria come un demente con mani aperte da karateka quand’è arrabbiato, come lo si vede fare adesso per via della suddetta cravatta, e ha fama di ripetere minacce come la minaccia di «ridurre a un colabrodo» le persone, e la minaccia che le sue mani sono letali come armi. Tali minacce si disperdono spesso tra le raffiche di vento quando il tettuccio della decappottabile è abbassato, vedi adesso per esempio. Quando il tettuccio è abbassato si vede anche che il soggetto, affetto dal problema maschile della perdita dei capelli a chiazze che non auguri nemmeno al tuo peggiore nemico, si fa crescere i capelli grigi lunghi e prodigiosi su un lato della testa e poi li riporta sopra per nascondere una pelata da fare invidia a quel Kojak della televisione, solo che col vento forte, come in una decappottabile, l’aria li sposta facendoli svolazzare da tutte le parti, spesso drizzandoli di fianco e dietro la persona a mo’ di mezza aureola, come se non fosse ridicolo parlare di aureole in rif. a questo soggetto che stanotte potrebbe andarsene tranquillamente all’inferno. Ma avendo vento o gesti nervosi vanificato l’accurata pettinatura, i capelli lunghi del soggetto penzoleranno su un lato della faccia del soggetto come una specie di velo per il resto del giorno, o della notte, oscurando la visione periferica laterale del soggetto e costringendolo spesso a dare varie angolazioni alla testa quando ti parla, angolazioni cosí strane che spesso ti viene voglia di dire smettila di contorcerti e pettinati quei capelli!
Ma il soggetto Silverfish con comportamento e modo di vestire eccentrici e voce stentorea come un treno ha, a sentire chi sa il fatto suo, un’aria molto distinta per essere un sessantenne che, problemi di capelli a parte, dicono, non ha altri problemi nella vita, Silverfish con una rotondità fisica compensata dal ragguardevole metro e ottantatre di altezza e da un portamento che la signora Nussbaum moglie del suo socio davanti a un vermouth definisce «principesca» e da occhi intensi che la mia bella mogliettina Orly dice chissà di che colore sono perché ti accorgi soltanto che sono penetranti, e da fronte, guance e naso come quelli di tutti, e da un mento che chi se ne importa se non è il mento piú pronunciato mai attaccato a una persona, è raffinatamente coperto da una ragguardevole barbetta, color sale e pepe, che si collega intorno alla bocca a baffi del medesimo colore, un sistema di peli facciali che copre il labbro superiore e poi il mento sfuggente, molto ragguardevole, e piccolo, come quello che vedi agli intellettuali dell’Europa Orientale in dolcevita nera e giacca sportiva marrone, alla televisione pubblica, ma che direbbe Barbara Nussbaum se le raccontassero che certi della facoltà di giurisprudenza a Chicago, tipi che escludono a priori l’esistenza di una facoltà di giurisprudenza migliore in tutto il Paese, che certi compagni di corso e futuri avvocati di questa nazione sostenevano che il piccolo apparato di barba e baffi di Silverfish, da lui ostentato già alla facoltà di giurisprudenza, anche se un po’ meno ragguardevole, ma con lo stesso problema del mento, che il baffetto, la barbetta e la bocca messi assieme sembravano una certa parte dell’anatomia femminile, non so se mi spiego, e sai le risate che un Silverfish ubriaco e forse già allora squilibrato faceva fare a quei tizi quando teneva la testa da un lato e magari increspava pure le labbra dopo averle inumidite, sai le risate per una «somiglianza» che, credetemi sulla parola perché io c’ero, alla fin fine era solo il frutto sporcaccione di giovani menti cosí sporcaccione e luride che dovrebbero vergognarsi e se vi dicessi chi sono alcuni di costoro e quali uffici importanti occupano adesso vi scapicollereste all’ufficio postale per scrivere a un certo membro del Congresso cosí in fretta da stirarvi i legamenti!
Ma una persona che segue il soggetto Silverfish a distanza di sicurezza ma anche di osservazione dovrebbe stare attenta quando fa quei gesti esasperati con le braccia come certe mosse di karate mentre supera gli uffici dello studio legale Baum, Nussbaum, Schneewind e Silverfish sulla sinistra, tra la Clark e Vine, un angolo, dove Silverfish è socio anziano, come lo sono io al mio studio Alan Schoenweiss e Associati. – Allora, dov’è Mr Associati? – mi domanda quel burlone di Solomon Silverfish ogni volta che ha scolato un cocktail in mia presenza. – Quando riuscirò a incontrare Mr Associati? – Il soggetto Silverfish sa essere un vero cafone, e anche se l’ho sopportato per il bene di mia sorella devo dire Dio mi perdoni che non sono poi tanto sconvolto da quello che è saltato fuori come invece è sconvolto mio fratello Ira. Non mi sono mai fidato di Silverfish come si sono fidati gli altri Schoenweiss con loro presente e ora futuro dispiacere, ma per onestà e io desidero essere onesto a questo riguardo devo ammettere che questo Silverfish è una persona che ha davvero dei punti a suo favore, sempre che siano autentici e non messinscene come poi si scopre che quasi tutto quello che fa è una messinscena. Un esempio forse di un buon punto a suo favore è che anche se Silverfish finge in modo esagerato di considerare il suo lavoro di avvocato alla BNSS una scocciatura, di fatto ama quel lavoro con tutto il cuore che ha in corpo, si capisce anche da come agita la testa di capelli svolazzanti e mena fendenti verso gli uffici che gli sfilano accanto perché, e lo dico con orgoglio e affetto di vecchia data talmente mischiati fra loro che manco ve l’immaginate, Solomon Silverfish ha un profondo rispetto per le leggi degli Stati Uniti d’America e ha anche quello che è sempre sembrato un desiderio sincero di aiutare le persone che si trovano costrette a chiedere aiuto. A Solomon piace aiutare gli altri, questo è vero, tutti, senza distinzioni, perfino uno come l’odioso e delinquentissimo Londell «Troppo Carino» Tyson, un giovanotto nero che di mestiere fa il pappa e che Solomon ha cavato dai pasticci con arti e espedienti giudiziari tante di quelle volte che ormai ho perso il conto, e che nel corso dell’ultimo mese ha pure fatto a Silverfish un paio di favori che grazie a Dio non sono quelli che immagino stiate immaginando voi, il che sarebbe stato molto peggio di quello che Silverfish ha fatto alla nostra Sophie e alla nostra famiglia che l’ha accolto sulla base di una montatura ora smontata grazie a un certo ciabattino, che l’ha preso sotto l’ala della nostra famiglia come un componente della famiglia fidato, e guarda ora come tratta la dignità forse agli sgoccioli della nostra Sophie, che possa guarire presto con le sue forze anche se il marito è un goy disonesto che ora non riesce nemmeno ad aspettare che una certa persona Dio mi perdoni magari muoia prima di gettarsi tra le braccia di una donna piú giovane, tanto giovane da poter essere figlia di tutti noi. Però gli piace, devo ammettere, aiutare quasi tutti, e perfino ora che noi della famiglia Schoenweiss lo rinneghiamo per l’eternità e ci piange il cuore a sentir pronunciare anche solo le lettere del suo nome, devo ammettere che ha quello che può essere considerato un animo generoso per alzarsi nel cuore della notte sapendo che ad aspettarlo non c’è una gonnella ma ci sono Zero Kretzman e mio fratello Ira, che all’occorrenza si rivela un discreto attore drammatico anche se come artista mi convince poco. Cosa si può dire di uno che vende quadri che saprebbe fare anche una scimmia tirando un po’ di pittura su una tela, che vende quei quadri in cambio di denaro sonante a persone rispettabili, certe perfino con una laurea in tasca?
Cose da dire al mio ex parente acquisito Mr ––– ––––– ormai non lo voglio nemmeno piú nominare invece ce ne sono eccome, e Kretzman, che mi deve tanti di quei favori per il suo divorzio che non chiedetemi nemmeno di cominciare l’elenco, è pronto come Ira a recitare la sua parte e ad attirare ––––– in un luogo isolato che come –––– sa bene significa giustizia, per non dire verità, una volta tanto, dove non si potrà sottrarre a un confronto con i suoi cognati e dove, Dio m’assista, mani letali o meno, voleranno parole grosse, ci metterei la firma, e anche un solo tentativo di menare fendenti o ridurre a un colabrodo, non parliamo poi di negare, causeranno tanti di quei problemi che non sto nemmeno a dirlo. Allora lasciamolo parcheggiare nella Quarantesima, sono le 3:15 e saranno le 3:25 quando –––– avrà ultimato il suo leggendario parcheggio parallelo alla ––––, che ha mantenuto un esercito di figli di assicuratori fino all’università, lasciamolo parcheggiare nella Quarantesima tra uno svolazzare di capelli, cravatta e camicia, perché è arrivato il momento che un certo signore barbuto getti la maschera davanti a una certa ragazza dal cuore cosí puro e buono che resto senza parole all’idea che il cuore di Sophie possa andare Dio mi perdoni nella tomba con l’anima in pena e ingannata e una lunga vita di bugie ignote a premere su di lei nella fredda terra, e alla sola idea ammazzeresti il colpevole e ti consumeresti gli occhi per chi ha subito il torto, tanta è la bontà di quella sorella. Non c’è niente che Alan Schoenweiss non farebbe per quella sorella. Anche a costo di causare dolore. Un nuovo sole sorgerà forse, ebbene sí, su una scena di dolore, della quale personalmente non mi reputo la causa quanto semmai il compimento. Chi diceva che piú tempo ci mettono i pezzi a comporsi piú risultano compatti? Non quel certo ––––, mi auguro. È il momento di guardare in faccia la realtà e di gettare la maschera.
Sophie
Sophie Silverfish finí di dare di stomaco e si alzò dalle ginocchia tirando il pigro sciacquone. Prima di cambiarsi la camicia da notte guardò nello specchio a dove prima aveva i seni, sopra l’apertura a farfalla della gabbia toracica, e solo di recente si era accorta della saggezza di chi l’aveva chiamata gabbia. Cosí guardò a dove lei non era. Due larghe buche da golf e, sotto, un gran lavorio screziato di rosso simile a un impianto elettrico rosa dietro il tessuto sbiadito delle cicatrici e le fondamenta sintetiche delle protesi che ora non avrebbe usato nemmeno se Solomon non gliel’avesse proibito. Sophie pesava quarantacinque chili, una radiografia di Sophie. Le cavità di ascelle e inguine e le punte di bacino, gomiti, nocche e spina dorsale tendevano lo stretto involucro della pelle malata come le sporgenze delle corna di un cervo. Sentiva che ciò che lei era rimpiccioliva progressivamente dentro un corpo le cui zone piú distanti diventavano remote, esaurite, scollegate, da scaricare in volo come le fasi di un missile. Troppo spesso ormai gli arti sembravano collegati alla persona né piú né meno delle teste autonome e svolazzanti di un’idra, volitive, recalcitranti e fuori sincrono. La sua bellissima testa era un cranio lucido, una spruzzaglia di alghe al posto dei capelli soltanto sopra le orecchie e un melone liscio teso ben bene sopra come involucro lucente, e poi giú lungo la fronte rugosa come un asse da bucato fino ai graziosi occhi verdi incorniciati da cerchi di un nero cosí carico e totale che sembravano sprofondati dentro le orbite. Sophie premette un dito bianco su un cerchio nero sotto l’occhio, inclinò la testa e si sorrise.
Una fusione. Un distillato ottenuto da precipitati e scorie. Stava sprofondando dentro se stessa. Ancor piú del dolore, o della nausea, era quella la sensazione che le dava il cancro: l’impressione di adattarsi alla dura e friabile struttura dentro di lei, una struttura centrale fatta solo di ossa nere e fumose sorrette e collegate da un’esile costellazione di nodosità e nervi bianchi, che il caldo di veleni impronunciabili accendeva di un bagliore malato. Cadendo un pezzetto alla volta dentro un punto nero e immobile che finiva col diventare tutto quello che c’era.
Sophie ricordava i malati di tubercolosi visti da piccola. Adesso la loro sembrava una morte elegante. Dimagrivano e espettoravano sgargianti colori in delicati fazzoletti di seta, impallidivano sempre piú, diventavano quarzosi e traslucidi, quasi sbiadissero davanti agli occhi distolti del loro mondo, trasferendo ciò che erano in un altrove alto, freddo e delicato. Angeli erano sembrati, e le lenzuola del letto di un lontano cugino malato erano bianco inamidato, pulite come dovrebbero esserlo le ali. Ma laddove la tubercolosi era stata delicata, eterea, ultraterrena, il cancro era scuro e tozzo. Umidiccio, rovente e centripeto.
E tecnico! Come non detestare che di questi tempi sembrava volerci una laurea anche per morire? Che ormai accostarsi a quella cosa che non era vita richiedeva l’impiego della vista e dell’udito oltre che dei sensi di una persona. Quando è troppo è troppo. Per quanto tempo lei e il suo Solomon-che-lei-amava si erano inginocchiati poggiando l’orecchio su uno spaventoso binario ferroviario di acciaio disinfettante ad ascoltare un lontano rumorio medico che diventava un boato: ciste, neoplasma, neoplasma sospetto, linfoma, tumore maligno, mastectomia modificata, radiazioni, remittenza, recidiva, neoplasma sospetto, linfoma con ripercussioni Hodgkins, mastectomia radicale, linfectomia inferiore, metastasi, radiazioni, Metotrexate, Cytoxan, reazione contraria alle aspettative. Il treno si chiamava Moribondo, era l’Espresso del Moribondo, era quello che tutti all’infuori dei medici affabili, rosei e sani parevano sapere. Lo sapeva anche Solomon, ma lui non ci credeva. Il treno si chiamava Moribondo e diventando piú rumoroso si rimpiccioliva anche nel tuo campo visivo puntato sulla realtà. Non ti investiva come fossi una monetina su un binario ma si riduceva a semplice boato che emergeva dal tuo profondo, dove c’era solo il calore crescente di una lotta infuocata tra paroloni incomprensibili. E tu ti accorgevi di essere travolto da quel treno solo quando era troppo tardi per liberarti dal coltello lucido del binario, un coltello che ti taglia per dimostrare che l’orecchio ascoltava se stesso, un coltello il cui lato sottile è anche uno specchio dove vedi quello che senti mentre taglia ciò che sei. Mentre sprofondi e bruci. La malattia che aveva lei tutto era fuorché delicata.
E che male. Spesso Sophie sentiva un male cane, chissà cos’avrebbe fatto Solomon se l’avesse saputo. E poi la nausea! I farmaci che le somministravano a casa, sotto il controllo del gentilissimo personale della clinica, non erano cattivi come le vecchie medicine, niente a che vedere con le medicine dell’ospedale, ma ciò non toglie che Sophie avesse una nausea quasi costante tutti i giorni. I muscoli dello stomaco sembravano quelli di un atleta, erano di pietra a furia di allenarli sulla tazza del bagno di cui conosceva ogni curva, macchia e puntino neanche fosse una vecchia amica; avvertiva perfino le pulsazioni a malapena visibili dell’acqua sul fondo quasi fossero gli spasmi del proprio cuore e delle proprie viscere. La malattia era orribile. Solomon si era perfino esposto a rischi legali per procurarle un po’ di marijuana, tanto la faceva penare quella nausea. Gliel’aveva data un giovane cliente, un certo Londell Tyson, che si faceva chiamare anche Troppo Carino, un ragazzo simpatico e educatissimo, ce l’aveva scritto in faccia, anche se portava un cappello viola con una piuma di struzzo rosa e usava un linguaggio che una madre, a sentirlo, si sarebbe strappata il cuore dal petto. E le prime settimane che era tornata a casa la marijuana l’aveva aiutata, conteneva qualcosa che eliminava la nausea, certe volte le stimolava perfino l’appetito e Solomon le si metteva a cavalcioni sul petto con dei dolci e la imboccava mentre lei rideva. E le aveva stimolato anche, Dio solo sa perché dopo tanto che là sotto era come morta, dei desideri sessuali, e sapeva benissimo che per l’ultima volta in vita sua si era accostata al sesso quei pomeriggi in cui Solomon le aveva offerto un dito delicato tenendo l’altra mano sotto il mento barbuto mentre sorrideva guardandola negli occhi rossi e lei gli accarezzava il velo sciolto di capelli spettinati con mano scheletrica e tremante. Ora però la marijuana le fa precipitare gli zuccheri del sangue mandandola quasi in coma quando cerca di fumarla. Sophie preferisce avere lo stomaco in subbuglio piuttosto che andare in coma e dormire tutto il tempo. Il tempo passato a dormire è tempo senza Solomon. E il tempo con Solomon per Sophie e con Sophie per Solomon spiega come mai l’hanno rimandata a casa quell’ultimo mese. Il tempo con Sophie spiega come mai Solomon in ufficio trascura praticamente tutto fuorché le emergenze. Sophie è la vita di Solomon e viceversa, non si discute. Dopo trentadue anni di simile fortuna e felicità, Sophie non sa nemmeno da dove cominciare a ringraziare Dio in ginocchio. Il tempo da malata insieme a Solomon è molto meglio del tempo normale in qualsiasi altro luogo, e viceversa: Solomon considera allo stesso modo il tempo passato con Sophie malata. È tutto vero anche se Solomon in realtà non vuole ammettere che Sophie è malata; o meglio, cosí malata da impedire a una Sophie Silverfish malata di tenere testa a qualunque cosa il mondo possa scagliare addosso a una persona che sta bene, incluso Solomon Silverfish, l’avvocato pazzo che si ritrova per marito. Solomon ha giocato con la malattia della moglie in quel modo frenetico che ha di giocare con tutte le cose che lo toccano nel profondo. La prendeva in giro e la torturava. Accusava una Sophie radiografica di obesità dirompente. Le tirava l’orecchio reggendole la testa sopra il water. Si lamentava a gran voce dell’umidore salato che sentiva in bocca quando di notte le baciava le lacrime silenziose di un dolore silenzioso. Pasticciava con le sue parrucche. Una volta col rossetto le aveva disegnato sul cranio una faccia sorridente con gli occhi storti mentre lei dormiva. Certe volte usava il vuoto lasciato da un seno per poggiare il mezzo melone della colazione a letto, il mattino. Sophie sa che a un estraneo può sembrare poco gentile. Essendo sua moglie da anni sa anche che Solomon riserva la gentilezza a chi secondo lui ne ha bisogno perché è messo male. Diventa gentile con qualcuno quando gli dispiace per lui. E a Sophie Solomon non farebbe mai il torto di dispiacersi per lei. Sophie sa che solo Solomon sa che una Sophie malata è sotto tutti gli aspetti importanti pur sempre una Sophie, non un insieme di bacchette e tubicini da accarezzare e coccolare. Ecco perché, pensò Sophie mettendosi a letto con una camicia da notte pulita e prendendo due salatini da mandar giú perché una persona che vomita deve avere sempre qualcosa nello stomaco altrimenti vomita acido, provateci voi se pensate che sia divertente, e si rimise l’ago della flebo in quella tavoletta da cribbage gialla e piena di lividi che era il suo polso, applicando di nuovo il cerotto con maestria e pratica consumate, sollevando lo sguardo sulla boccia di zucchero e medicina con l’assurda parrucca sbilenca di capelli neri in quella luce al sodio arancione bruciato, ecco perché, pensò Sophie, il suo Solomon era una persona magica ora piú che mai, e perché nel suo animo c’era tanto di quell’amore per lui da salvarla anche ora che era mortalmente malata.
È una cosa difficile da afferrare, il percome delle cose. Durante tutto questo brutto periodo Solomon ha fatto sentire e capire a Sophie che lei è la malata, non la malattia. Lei è quello che è, non quello che ha dentro. Sophie respira molto meglio sapendo che lei per Solomon non morirà mai, e a questo Sophie aggiunge un viceversa ancora migliore riguardo alla vita di Solomon.
Ecco perché Sophie d’ora in poi prenderà solo gli antidolorifici che le evitano di smaniare peggiorando la situazione per tutti quanti. Vuole stare con suo marito e con se stessa. Solomon Silverfish, a parte il favore non da poco di averla amata per trentadue anni rendendola la donna piú felice sulla faccia della terra, ha aiutato Sophie a usare la malattia per capire ciò che lei è e ciò che non è. Non sa di averlo fatto, perché da quando in qua anche il migliore dei maghi sa di usare la magia sulle persone e non la semplice abilità di uno svelto di mano e sciolto di lingua? Sophie crede di avere ormai capito alla sua età che la magia altro non è se non il semplice rapporto tra una persona e le altre persone che la circondano.
Era nel letto, nell’arancione, due cracker mandati giú e innaffiati con la tiepida acqua naturale del bicchiere sul comodino. Respirò abituando a piccole dosi lo sguardo a quella specie di luce, e si sentí meglio. Il braccio si intiepidí per la sostanza che veniva iniettata dall’alto. Lei aspettò il sorgere del sole e Solomon, e fece quello che sempre si fa quando si aspetta. Ricordò.
Ecco Sophie Schoenweiss che conosce Solomon Silverfish nel 1953 al ballo di beneficenza che la facoltà di legge dell’Università di Chicago dà a favore dell’ospedale B’- nai B’rith di Berwyn, dove Sophie studia da infermiera. Ecco Alan Schoenweiss, il fratello magro e dai capelli come spaghetti che presenta Sophie a un tranquillo ragazzo di Vienna, in Virginia, residente nello stesso campus della facoltà di legge dell’Università di Chicago. La cosa buffa del ragazzo è che è uscito dall’infermeria dell’università appena la settimana prima perché si è rotto la mascella, oltre che tutt’e due le braccia e le spalle, nel tentativo di vincere una scommessa che l’aveva visto impegnarsi con Alan e altri studenti a guidare un’auto al centro del campus usando solo il sedere. Il ragazzo che azionava i pedali accovacciato sotto di lui era ancora in trazione. Al ballo Silverfish teneva le braccia di gesso bianco spalancate come uno psicotico che volesse abbracciarti, o come quelle di Gesú sulla croce nel Nuovo Testamento; e gli occhi sopra il pizzetto, il baluginio metallico del filo che gli imbrigliava la mascella, il baffo spelacchiato e il naso, quegli occhi fatti di luce videro qualcosa in Sophie Schoenweiss, qualcosa che di rimando vide anche lei. Sophie socializzò con un invalido temporaneo. Interesse? Cosí, tanto per interesse, provate voi a ballare con uno che ha le braccia rotte e la base della spina dorsale che a detta di tutti non è in perfette condizioni. Come far girare il manichino di un negozio per tutto il negozio, dicono Alan e Ira. Sophie arrossisce e si mette a ridere. Ma provate voi a uscire con uno che per un mese e mezzo anziché parlare mugugna tra i denti serrati! O provate a provare di scoprire com’è una persona che vostro fratello Allie definisce una quantità sconosciuta, un simpatico ragazzo venuto da Tidewater, una regione del Sud, anche se non ha l’accento del Sud, un ragazzo serio e sveglio Dio solo sa quanto con un futuro davanti, benché Alan la avvisi in tutta onestà di stare attenta perché a volte sembra volubile o squilibrato, a volte sbraita per oscuri motivi, guida con il sedere, schiaffeggia l’aria, mena fendenti ai muri e durante la colazione si sfrega gli occhi con le nocche impazzite come una specie di scoiattolo ogni mattina di ogni santo giorno. Chissà qual è la sua confessione, per non dire il suo orientamento; Alan non ha mai visto Silverfish con la kippah in testa ma in questo periodo di confusione e di Corea non si sa mai. Provate voi a essere confusi. Provate voi a innamorarvi di uno mezzo scassato che non sapete nemmeno com’è tutto intero. Ma quando tutto va a meraviglia forse provare è l’ultimo dei problemi.
Sophie, a letto, sonnecchiava, e i brandelli di ricordi affioravano con l’intermittenza stroboscopica che precede i sogni. Ecco una luminosa tempesta di ghiaccio, due sposini nella nuova casetta a schiera di un agglomerato di Cicero. Lo scintillio grigio del ghiaccio su un croccante prato marzolino, altro ghiaccio bagnato che cade da un cielo incolore. Solomon lo guarda da una finestra, Sophie dietro di lui gli circonda la grossa vita con le braccia, i capelli una cascata nera che gli ricade sul braccio, il mento sulla sua spalla, guarda anche lei. Le sporche palline dei cristalli di Cicero colpiscono il prato duro, le perle balzellano e saltano schizzando vivacemente a fior di ghiaccio. La voce di Solomon, pacata, piena di sogni Silverfish, il fiato appanna un cerchio color arcobaleno sulla finestra mentre lui fissa le perle saltellanti, sussurrando fra sé cavalletta, cavalletta, cavalletta. Un uomo giovane che Sophie ama sogna la vita dentro il ghiaccio mentre lei giocherella col suo orecchio.
Ecco Solomon e Sophie insieme a Tata, il dottor Otto Schoenweiss e Mama, la signora Schoenweiss, in una baita del Wisconsin, vicino a un lago, in vacanza. Sophie e Mama nella cucina della baita. La signora Schoenweiss fa mettere a Sophie il grembiule ma poi l’impasto vuole stenderlo lei. Rovente luce prandiale dalla finestra. Dalla finestra si vedono anche il lago e, sulla spiaggia del lago, Solomon e Tata concludono la passeggiata lunga e seria che in vacanza fanno ogni giorno. Tata con le mani dietro la schiena, Solomon che agita le sue in aria, girandosi al suono della propria voce che Sophie sente appena. Dietro i due che passeggiano una brezza insistente trasforma la superficie del lago in pelle di elefante. Odore di madre e di impasto.
Ecco il dolore. Pena e sofferenza fisica e mentale. Ecco Sophie, malata, meno un tumore maligno appena asportato e, a proposito, anche un seno. È malata, imbottita di farmaci, bianca come una radice, gli occhi da procione, e sogna da sveglia. Ecco un animale scatenato che fa il diavolo a quattro intorno al suo letto d’ospedale. In un intorpidimento di dolore e anestetico Sophie vede Solomon Silverfish fare il matto, girare torno torno la stanza, schiaffeggiare mura e mobili, ruotare su se stesso, menare fendenti alle sbarre metalliche del letto simile a una culla, poi incombere su Sophie urlando e smaniando, una bruma colorata a schiumargli dalla bocca sotto l’accecante luce bianca. Schiaffeggia e si strappa la pelata e i capelli sciolti piroettando e sbraitando ripetutamente sulla sagoma di una Sophie malata la parola Finiscila! Finiscila Finiscila! urla Silverfish. La mezza testa di capelli ondeggia furiosamente mentre fa quella danza della rabbia, mentre salta per schiaffeggiare un soffitto troppo alto per le mani letali, mentre sibila rivolto alle infermiere dalle bocche cucite, e poi urla di nuovo a Sophie la parola Finiscila! La lingua di Sophie è una cosa morta e imbottita di farmaci, un ciocco di legno inanimato, lei cerca di dire a Silverfish: Finire che cosa? Dimmi cos’ho cominciato e lo finisco subito ma non viene fuori niente. È in preda al panico sotto la medicina che le agita le palpebre e aromatizza l’aria che respira. È sofferente, abbattuta, malata. Sente venire da Solomon una vampa di rabbia senza precedenti come se l’avesse tradito con la malattia e la mutilazione. Non sente invece le proprie lacrime finché non si fanno roventi. Si fanno roventi quando Sophie in quell’offuscamento capisce che gli schiaffi e le urla del suo Silverfish sono per il cancro, non per lei, che la rabbia e la furia sono dirette non a una Sophie senza seno bianca-come-una-radice, bensí a quella cosa scura, tozza, umidiccia e centripeta che le ha portato via parte del corpo, che l’animale scatenato urla per avvisare la cosa che c’è dentro Sophie di farla finita e di lasciarla in pace altrimenti scatenerà un putiferio! Silverfish con il completo comprato da Field’s, le ciabatte e il velo grigio di capelli alla fine viene portato via dagli inservienti in bianco stanco, tre marcantoni troppo grossi per farsi minacciare dalla minaccia di essere ridotti a un colabrodo. Sophie resta lí e le guance tracciano roventi righe di lacrime scaturite da una cosa che non è gioia né dolore, con in piú un pizzico di medicine. Stavolta, l’unica in cui un Solomon Silverfish abbia alzato la voce con una Sophie Silverfish, Solomon non aveva alzato la voce perché era arrabbiato con Sophie; ce l’aveva con una cosa dentro di lei, il treno il coltello l’orecchio il binario il rimpicciolimento e la fusione, la cosa che le era entrata in corpo senza invito e senza scopo se non l’intento di fare del male. A partire da quel giorno dentro una culla di metallo con le lenzuola bianche inamidate e l’altro seno una bomba a orologeria e il veleno in molti linfonodi del corpo Sophie sa e lo sa per davvero che per il Solomon-chelei-ama lei non è solamente il suo corpo o quello che c’è dentro il suo corpo. Che la malattia è una cosa che hai, non una cosa che sei. Se Sophie andasse a raccontarlo al primo che passa quello forse riderebbe per l’importanza che la donna magra e bianco-radice dà a una semplice stupidaggine come quella. Sarà anche semplice, ma quella cosa salva la vita di Sophie quando ce n’è piú bisogno. Ecco Sophie che dal corridoio sente arrivare dei Finiscila! sempre piú attutiti e ha quasi la sensazione che lei e Solomon, o meglio, lei-e-Solomon, non moriranno mai per davvero, indipendentemente da dove o che cosa sono. Avverte attraverso la promessa di altro dolore e altra nausea una sensazione di pulizia e sicurezza nuove di zecca, come gelo scaldato, avvolto in una coperta bollente sul grembo di una madre che irradia una mite fiamma in toni dolci e minuscoli gesti.
Una cosa che per lei era magica, ricordò Sophie sonnecchiando alla luce arancione che filtrava dalla finestra diafana mentre la medicina le riscaldava il braccio. Sentiva i cracker nello stomaco. Erano le 3:30. Attraverso un sogno madido ecco il suono del campanello di casa Silverfish e qualcuno che entrava subito dopo, usando la chiave. Mary l’infermiera della clinica non arrivava mai presto e non suonava il campanello. Sophie sentí delle voci reali lungo le scale.
Tutti tranne Troppo Carino
I primi, svariati minuti dopo l’arrivo dell’assonnato Solomon Silverfish nella stanza degli interrogatori del Quarantesimo distretto del Dipartimento di Polizia dove Ira Schoenweiss avrebbe dovuto essere trattenuto, interrogato, intimidito e pungolato con oggetti acuminati invocando tra le lacrime l’aiuto e la maestria di Silverfish, quei minuti furono pieni di confusione! Alan Schoenweiss, fratello di Ira e Sophie, avvocato divorzista nonché giocatore di golf dilettante, scivolò silenziosamente con soltanto i calzini e senza scarpe lungo il corridoio della centrale di polizia al seguito di Silverfish, e gli stava ancora silenziosamente dietro quando Silverfish aprí la porta della stanza degli interrogatori entrando alla maniera di ogni avvocato che entra in una stanza in veste di avvocato: guardando l’orologio. Silverfish si aspettava di trovare il cognato e cliente solo soletto in una stanza illuminata e meditava di dedicare come minimo svariati minuti a fare una bella ramanzina a Ira. Invece entrando Silverfish trovò la stanza buia, le sagome indistinte di due persone al tavolo degli interrogatori e una sedia in un angolo con uno strano aggeggio predatore curvato sopra, il tutto a malapena e tra l’altro arcanamente illuminato dal fievole marrone giallognolo di un vecchio lampione giú in strada la cui luce si sforzava di trapassare la finestra e la protezione di ferro. Mentre Silverfish cercava a tentoni di accendere la luce, pensando di avere interrotto qualcosa perché il sergente di turno gli aveva dato delle indicazioni sbagliate, Alan Schoenweiss varcò all’improvviso la soglia alle sue spalle con fare risoluto, nonostante i calzini, e urlò all’orecchio di Silverfish: – È arrivato il momento di gettare la maschera, Solomon Silverfish! – con una tensione drammatica che Zero Kretzman rovinò scattando in piedi dietro il tavolo e urlando nello stesso istante:
– La farsa è finita! – col risultato che Solomon sentí solo un guazzabuglio di stupide metafore teatrali urlate a squarciagola. Ma le urla sorprendenti, che si aggiungevano al buio sorprendente, che si aggiungeva alla precedente sonnolenza e alla scocciatura in senso lato, bastarono a far sí che Silverfish aggredisse e schiaffeggiasse la risoluta figura di Alan, che nella relativa oscurità Silverfish non riconobbe, e Alan si vide costretto a mettersi in salvo usando i calzini per scivolare forsennatamente sul pavimento piastrellato al capo opposto della stanza, e mentre Silverfish restava momentaneamente interdetto a domandarsi cosa stesse succedendo in senso lato, Zero Kretzman corse ad accendere la luce rivelando se stesso, Alan e anche la sagoma di Ira, dopodiché Zero chiuse la porta a chiave e mise la chiave in bocca fingendo di ingoiarla, a fini simbolici. Silverfish guardò prima lui, poi Alan, che si era rimesso le scarpe e le stava allacciando appoggiato al bordo del tavolo, poi Ira, che sbatteva rapidamente e ripetutamente gli occhi dietro gli occhiali spessi un dito tormentandosi la bocca con la grossa mano chiara e lentigginosa. Kretzman finse di tossire e mise la chiave non-ingoiata-per-davvero nel taschino della giacca del completo pied-de-poule. Dopo la tosse ci fu un attimo di silenzio in cui Silverfish si guardò intorno.
– Una spiegazione, Ira? – disse Silverfish, inclinando la testa per guardare attraverso il velo di capelli scompigliati-dalla-Thunderbird-del- 1961 Kretzman, che stava addossato alla porta chiusa a chiave con le braccia conserte e gli occhi cosí stretti che aveva due fessure perlacee al posto degli occhi. – Che c’entrano maschere e farse? Hai conciato l’auto di Zero cosí male da aver bisogno di me e Allie messi assieme, e nonostante questo Kretzman sta qui a guardare di traverso, chiudere la porta a chiave e fingere di tossire?
– Ipocrita, – disse Alan Schoenweiss da dietro il tavolo. Si alzò. – Impostore. Ciarlatano. Falso. Imbroglione. Mistificatore. Blasfemo. Traditore di fiducia e di sorelle.
– Potremmo aggiungere demonio? – domandò Kretzman a Alan.
– Potremmo aggiungerlo senza esitazioni, – disse Alan.
– Demonio, – disse Kretzman a Silverfish.
Solomon Silverfish, sassone sorpreso, celta confuso, tastò la cravatta-ancora-incasinata e guardò Ira Schoenweiss. Ira stava pulendo gli occhiali con la manica della camicia. Alan aveva avviato il rabbioso lavorio di guancia e labbra tipicamente Shoenweiss, preludio fisico a uno scambio di parole grosse. Zero Kretzman si diresse verso la già citata sedia nell’angolo della stanza, l’oggetto predatore curvato sopra che ora rivelava di essere un’enorme lampada di solida fattura presa in prestito dal reparto delle foto segnaletiche. Kretzman accese la lampada e la sedia sottostante s’illuminò di una luce bianca e accecante. Kretzman indicò la sedia a Silverfish con gesto solenne mentre Alan guardava impaziente e Ira giocherellava con il labbro.
– Luce? – disse Silverfish. – Mi strappate dal letto e da mia moglie nel cuore della notte per piazzarmi sotto la luce?
– Non pronunciare quella parola, – disse Alan Schoenweiss.
– Luce?
– Moglie.
– Lasciaglielo dire finché non abbiamo sentito la sua versione, – bisbigliò Ira. Silverfish si tastò la barbetta guardando Ira. – Ho come la sensazione che un certo cognato non abbia distrutto nessuna macchina –. Ira si guardò i pollici. Silverfish diede uno schiaffetto all’aria. – Vedrai che ti riduco a un colabrodo, signor Cicciabugiardo Ira Schoenweiss, – disse.
– E non usare quel tono, – disse Alan senza scomporsi. – Sto usando un tono che non dovrei usare?
– È il tono di uno che cerca di imitare un ebreo, – disse Kretzman dalla sedia e dalla lampada. Guardò Alan. – È appropriato dire imitare?
– Imitare sarà urlato a squarciagola, perciò preparate le orecchie – disse Alan. Squadrò Silverfish indicando la giàvarie-volte-citata sedia sotto il cilindro di luce.
Silverfish rimase lí impalato lasciando che gli Schoenweiss guardassero la sua faccia passare dalla confusione e dal leggero fastidio a una pericolosa rabbia condita forse da una punta di furia. Alan fece di nuovo per indicare la sedia bloccandosi impacciato a metà gesto.
– Drizzate tutti quanti le orecchie, – disse Silverfish. Riportò un po’ di capelli sopra la testa con una mano. – Sono un sessantenne con una professione forense e una Ford Thunderbird nuova di zecca. Deve ancora nascere chi mi piazza sotto la luce.
– Quell’uomo ha vissuto con te nella menzogna per trentadue anni e all’incirca sette mesi, – disse la signora Schoenweiss, seduta sul bordo del letto dei Silverfish, sfiorando la guancia di Sophie. – Quell’uomo ha finto di far parte del nostro retaggio, della nostra storia, religione e fede dal primo momento in cui ha posato gli occhi sulla nostra Sophie. Ha dato per scontata e oltraggiato la fiducia di una famiglia.
– Peggio, – disse il dottor Schoenweiss, e scosse la testa rivolto alla finestra dopo aver aperto le tende bianche. – Peggio, – disse. – Una cultura. Un popolo.
– Peggio ancora, – disse la signora Schoenweiss. Si sporse poggiando l’altra mano su quel bastone protetto dalla coperta che era il ginocchio di Sophie. – Una moglie, – sussurrò con fare teatrale.
– Quell’uomo, a sentire Allie che l’ha sempre visto sbagliarsi di grosso sulle cose che contano, si è rivelato una nullità, – disse il dottor Schoenweiss. – Un perfetto signor Nessuno. Una maschera. Uno che si atteneva a tutte le regole del tempio. Una faccia allegra ogni venerdí a casa nostra. Ma dietro quella faccia, dietro quella maschera, chi c’era?
– Un perfetto Nessuno, – disse la signora Schoenweiss. – Magari un diavolo. Hai presente: «A goy bleibt a goy», un gentile resta pur sempre un gentile. Non è nemmeno piú un gentile. È un chissacché. Il giovane shaygets di un tempo è ormai va’ a sapere da quanto una cosa che non esiste, una bugia con le braccia, le zampe e gli occhi di un animale e una lingua veloce che va’ a sapere quante altre bugie ha detto e vissuto e possa Dio risparmiare alla nostra Sophie il dolore di scoprirlo. Solo a pensarci mi vengono i brividi.
– Capisci perché abbiamo capito che ora che lo sappiamo noi dovevi saperlo anche tu, – disse il dottor Schoenweiss, la faccia sporcata dalla vampa di colore al sodio che filtrava dalla finestra. – Vivere in una menzogna morale per non dire emotiva la bellezza di trent’anni. Essere sposata e congiungersi a una cosa che come unica cosa finge di essere una cosa che non è –. Si girò a guardare Sophie, sospirò passandosi la mano tra i folti capelli bianchi. – Quel diavolo di un goy ha costretto anche te a vivere nella menzogna. Fortuna che grazie a tuo fratello Allie puoi dare un calcio a tutto –. Guardò la signora Schoenweiss, che annuiva rivolta a Sophie. Il dottore si schiarí la gola. – Siamo venuti con tutte le naturali riserve dei genitori.
– Dei genitori preoccupati e amorevoli, – disse la signora Schoenweiss.
– ... una preoccupazione e un amore cosí grandi da convincerli a causare magari un po’ di dolore e di sofferenza pur di salvare una figlia che non ha rinunciato a una vita di bugie e finzioni. Non puoi sapere quanto ci ha fatto penare questa decisione.
La signora Schoenweiss guardava schifata la boccia di medicina con la testa di capelli sbilenchi sulla piantana della flebo. Tolse la parrucca sistemandola delicatamente sulla testa di Sophie.
Sophie si tolse la parrucca con altrettanta delicatezza poggiandola sul letto accanto a sé. Squadrava i genitori. – Vi siete presentati prima dell’alba per dirmi che mio marito è un diavolo di un signor Nessuno non ebreo e non goy?
– Marito è un termine ormai improprio, – disse il dottor Schoenweiss, tornando a girarsi verso la finestra. – Diciamo piuttosto, per essere generosi, persona. E diciamo anche che siamo qui nel momento piú opportuno. Alan e Ira stanno parlando con la persona alla stazione di polizia aiutati dal signor Kretzman –. Si interruppe. – Convinceranno la persona a concedere l’annullamento.
– Annullamento?
Gran parte della confusione e dei problemi derivarono dal fatto che Silverfish si rifiutò di sedere sotto il fiotto bianco di luce sulla già citata sedia, percorrendo invece il perimetro della stanza degli interrogatori della stazione di polizia come un animale pericoloso nella gabbia dello zoo, e dal fatto che Zero Kretzman – che, a voler essere sinceri fino in fondo, era uno zero quanto a cervello oltre che a fascino e perfino a capacità legali, e che non si era mai tolto la soddisfazione di vincere una causa contro Silverfish, e che tra le altre cose aveva stipulato un accordo di divorzio vantaggiosissimo grazie all’inverosimile abilità di Alan Schoenweiss, e che si trovava a voler disperatamente mettere Silverfish in una brutta posizione e al tempo stesso aiutare Alan Schoenweiss, un Alan cosí arrabbiato che in quel momento la pressione sanguigna rappresentava un pericolo – dal fatto che Kretzman continuasse a seguire Silverfish intorno alla stanza con una piccola torcia sfilata dalla tasca del pantalone pied-de-poule, cercando continuamente di puntarla sulla faccia continuamente girata di Silverfish, per sottoporlo a un parziale terzo grado; e quella specie di quadriglia tra chi puntava la luce e chi la evitava andò avanti finché Silverfish, che a dire il vero non aveva mai rivolto la violenza del proprio corpo contro nessuno, si stufò talmente di quell’assortimento di domande, accuse e parole grosse, di Kretzman e della sua luce in faccia, che alla fine strappò di mano a Kretzman la piccola torcia e cercò di ficcargliela nel naso, riuscendo soltanto a cavargli quasi un occhio, e di conseguenza Kretzman lanciò un urlo e cadde con l’abito e tutto il resto in ginocchio con le mani sulla faccia. Tale sviluppo tolse il vento alle vele sorprendentemente sensibili di Silverfish e, dopo essere rimasto qualche istante in piedi accanto alla figura di Zero che, in ginocchio, sembrava pregare in silenzio per salvarsi la vita e l’occhio, dopo qualche istante cosí Silverfish si ritrovò al tavolo degli interrogatori davanti a Alan e Ira Schoenweiss al limitare del rovente getto di luce proveniente dalla speciale sedia. A loro si uní momentaneamente anche Kretzman, con uno sfregio rosso sulla guancia e il labbro inferiore tremante. Silverfish si rivolse a Ira, che aveva uno sguardo fisso e inespressivo negli occhi simili a quelli di una formica, ingigantiti e non umani, tanto erano spessi gli occhiali.
Nel frattempo Alan non aveva staccato un attimo lo sguardo gelido dagli occhi penetranti di Solomon Silverfish. – Delle tante spiegazioni per il tuo comportamento di una vita me ne vengono in mente due, – disse in tono pacato, usando le dita per disegnarsi sotto il mento la guglia di una chiesa. – Una. Hai smaniato e sbavato tanto per la nostra Sophie quel giorno del 1953 al ballo da essere disposto a fingerti in un certo senso ebreo per una vita intera di inganni e finzioni.
– Finzioni?
– Oppure, due, cosa in un certo senso ancora piú sinistra e inquietante, allora come adesso sei cosí... – Alan ruppe la guglia e agitò una mano in aria, come se la parola giusta fosse lassú da qualche parte.
– Privo di identità, – bisbigliò Ira, guardando la macchia d’inchiostro sul taschino del pigiama di Silverfish.
Alan annuí. – Cosí privo di identità nella vita da essertene inventata una ancora prima di venire all’Università di Chicago a insinuare la tua falsa persona nella nostra amicizia e negli affetti di Sophie.
– Mancanza di identità? Insinuare?
– Loro sanno per certo che non sei né sei mai stato ebreo, – disse Kretzman, sorridendo quel tanto che gli concedeva la guancia. Si schiarí la gola. – Sapevi bene che Alan e Orly andavano al Sud a giocare a golf durante le vacanze prima della Pasqua ebraica. Sapevi anche che andavano nella Tidewater County in Virginia. Alan era in bagno a sfogliare l’elenco del telefono. Quand’ecco che ti trova Solomon Silverfish padre. Ciabattino. Scarpaio.
– Ormai quasi in pensione, – disse Silverfish, e annuí sorridendo.
– Oltre che nemmeno lontanamente ebreo, – disse Alan, rifacendo la guglia e usandola per darsi dei colpetti al mento. – Perché il sottoscritto è andato a trovare quel certo ciabattino, come se i privati facessero ancora le scarpe di questi tempi.
– Vedessi però che scarpe, se ricordo bene, – disse Silverfish. – Una vera specialità. Non c’era lavoro né piede troppo grande o troppo piccolo. Che scarpe!
– Non era ebreo, però, e nemmeno deceduto, a proposito, oltre che di una religione troppo inconsistente e superficiale per incantare il sottoscritto, – disse Alan.
– Gli hai parlato di me? Gli hai detto dove siamo io e Sophie? – Silverfish si sporse verso di lui.
– Ero troppo scioccato per dire qualcosa alla persona che mi stava davanti, – disse Alan. – Uno di quei cosiddetti tra virgolette cristiani rinati del Sud che prendono la religione dalla tivú o dalle videocassette arrivate per posta. Sul bavero portava una croce di plastica che luccicava al buio. E aveva una moglie che per decenni ha venduto cosmetici bussando alla porta di estranei e ora guida una Cadillac rosa.
– Una Lincoln, – disse Silverfish. – Della Mercury. Ho seguito un po’ le tracce di mamma e papà.
– Alla famiglia hai fatto credere che quei genitori fossero morti.
– Abbiamo tagliato i ponti quand’ero giovane. Non ci rivolgiamo quasi nemmeno piú la parola. Non ho mai parlato di genitori con voi. Non averne parlato vi ha spinti a credere che fossero morti?
– Non hai parlato del fatto che ti hanno cresciuto da goy amorale senza nemmeno la parvenza di una religione degna di questo nome, che ti sei presentato dalla nostra Sophie con un’identità culturale interessante né piú né meno di un formaggio da ammannirle per tutti gli anni della sua vita? – sibilò Alan, rosso in viso. S’interruppe, dandosi una calmata. – Parlavi come noi. Ci hai portati fuori strada con quel tuo modo di parlare.
– Parlare? Ho per caso letto la Costituzione Americana sbagliata? Non è un Paese dove si può parlare liberamente, questo?
– Qui c’è il dolo, Solomon, – si intromise Kretzman, sorridendo un pochino con un solo lato della faccia. Ignorò lo sguardo inferocito di Alan. – Parlavi con l’intento di imitare e fuorviare.
– Parlavo come parlavano i miei amici. Mi adeguavo. Parlavo come parlava la donna-che-amo-e-che-mi-ha-fatto-felice-per-trent’anni. Parlavo come mia moglie.
– Ti sei presentato al tempio, – bisbigliò Ira Schoenweiss. – Hai accettato gli inviti alla preghiera. Ti sei attenuto ai mitzvah, hai recitato il Mairev. Hai ballato la horah. Ti sei seduto al tavolo del seder. Hai bevuto Mogen David e mangiato pane azzimo.
– Ero compagno e ospite di mia moglie. Non ho detto una sola volta di essere nato ebreo.
– Ti sei convertito? – disse Kretzman. – Sei andato da solo a convertirti da qualche parte? È cosí che è andata?
– Sappiamo tutti che non può essere cosí, – disse Alan con un sospiro. – E poi, convertirti da che cosa? Dall’aver finto di essere chi non sei? Ha fatto una scelta, no? – disse guardando Silverfish. – Ha scelto di fuorviare e fingere fin dall’inizio. È stato abile e attento. Non l’avevano quasi sentito nemmeno parlare prima che gli levassero le ingessature e i fili dell’incidente d’auto, e a quel punto la nostra Sophie era già vittima del suo incantesimo.
– Demonio, – disse Kretzman.
Alan fece altri sospiri, sfregandosi le tempie. – Ti sei servito perfino del tuo stesso nome per ingannare, – disse. – Hai sfruttato anche quello –. Abbassò lo sguardo sul notes e sul dossier che aveva davanti. – Dopo un minimo di ricerche ho scoperto senza grandi difficoltà che il nome Silverfish in realtà deriva dal sassone antico «seolfor-fisc», termine idiomatico che significa grossomodo: «Pastore che ama alcune delle sue pecore oltre i limiti del buon gusto». Kretzman rise sotto i baffi. Alan guardò Silverfish scuotendo la testa. – Un nome non soltanto non ebreo, ma pure ripugnante. E «Solomon», a sentire lo scarpaio, non viene dai testi sacri ma da un certo Arnette Solomon, vice del generale Robert Lee durante la Guerra Civile, schiacciato dal suo cavallo alla Battaglia di Antietam. Una falsità dall’inizio alla fine.
– Mi sono dato il nome da solo? Ora sarei anche responsabile dei nomi? – Silverfish assestò qualche debole fendente al tavolo degli interrogatori. – Che storia è mai questa, Allie? Di che parliamo?
Alan Schoenweiss si sporse verso di lui. – In tutta serietà parliamo dell’annullamento di un matrimonio.
Silverfish guardò Alan come si guarda un pazzo.
– L’annullamento di un matrimonio mai coniugato per davvero perché è stato coniugato con l’inganno, – disse Zero Kretzman.
– Consumato, Zero, – mormorò Ira.
All’improvviso si capí che erano tutti stanchi. Silverfish guardò i suoi accusatori acquisiti. Si sfregò gli occhi. Scosse la testa, agitando i capelli. – Cosí dicendo date per scontata una cosa fondamentale oltre che sbagliata, – disse. – Date per scontato che tra me e Sophie sia come tra me e chiunque altro, nella fattispecie voi. Date per scontato che Sophie proceda alla cieca come voi. Tra me e Sophie ci sono gli stessi segreti che tra Ira e la sua pancia. Vale a dire nessuno.
– Nostra sorella non ingannerebbe né mentirebbe come hai fatto tu.
– Ma quale inganno e inganno, Alan, per l’amor di Dio –. Silverfish alzò la voce svettando sugli altri, la luce del lampione filtrata dalla pesante protezione di ferro alla finestra della stazione di polizia che gli tracciava un accenno di scacchiera sul viso. – E posso chiedervi perché cavolo fare questa cosa nel cuore della notte? Dimmi perché proprio ora, Allie. Perché ora in generale e ora in particolare?
– Ora in generale perché cosí sotto la fredda terra mia sorella non sarà schiacciata dal peso di anni di oltraggi alla sua fiducia e a quella della famiglia, – disse Alan in tono pacato. – Ora in particolare perché volevamo che fosse ora in particolare. Vogliamo veder sorgere un’alba del tutto nuova su Solomon Silverfish. Vogliamo guardarti guardare il sole che sorge sulla tua persona.
– E anche perché non dimentichiamo che con ogni probabilità vorrai andare al cimitero di prima mattina, – disse Kretzman. – Lungi da noi l’idea di trattenerti.
– Zero, per favore, – disse Ira.
Alan si sporse un altro po’. – Parliamo di annullamento sulla base dell’inganno, – disse, – oppure di divorzio sulla base dell’adulterio morboso –. Scosse la testa guardando il dossier. – E saprai senz’altro a cosa mi riferisco.
– Adulterio? Morbosità?
– Fare il cretino nel cimitero della famiglia di tua moglie, – disse un Kretzman dalla guancia gonfia, scuotendo la testa. – Scopazzare di nascosto sulle tombe dei tuoi parenti acquisiti con una fanciulla cosí giovane che potrebbe essere figlia per tutti noi.
Solomon si guardò intorno. – Fermi tutti. Mi sono perso. Di cosa sarei accusato ora?
Alan strinse le labbra e sollevò il dossier. – Ho assunto una persona che seguisse un certo Solomon Silverfish.
Silverfish fece tanto d’occhi. – Mi hai fatto seguire? E perché mai?
– L’investigatore che ho assunto sostiene e giura di averti visto varie volte al Sinai, cimitero degli Schoenweiss da generazioni. Ti vede là la mattina. Nel toupé di una giovincella. Sostiene anche di averti visto con i suoi occhi tra le braccia di una ancora piú giovane. Dice che certe volte balli sulle tombe. Le tombe degli Schoenweiss. Che smani. Cioè che vai scopazzando nei modi piú impensati. Con una ragazza giovane, mentre nostra sorella è malata e si fida di te.
– E voi credete a una cosa simile? – disse Silverfish. – Questo presunto inseguitore avrebbe le prove di quello che dice? Vi ha convinto dicendo di avermi visto con i suoi occhi? Ha delle foto? Mi piacerebbe proprio vederle.
– Ammette di avere dei problemi con la macchina fotografica, – disse Alan. – Sostiene che per procurarsi le foto richieste per un qualsivoglia processo gli basta che tu ti dia per qualche altra mattina ai tuoi bagordi irrispettosi e traditori. Io e Ira, però, non possiamo né desideriamo sopportarlo. Volevamo affrontarti e sentire quello che hai da dire, faccia a faccia.
– Dopo trent’anni di finzioni e menzogne vorresti che credessero a te anziché a una persona che non ha nessun interesse a mentire? – disse Kretzman.
– Kretzman, ti riduco a un colabrodo tale che non te lo scordi mai piú, – bisbigliò Silverfish. Guardò la grata, la finestra. Gli parve di scorgere l’accenno di un’ombra sfocata della prima luce mattutina. Ma non era detto.
Ira Schoenweiss si mise a piangere sommessamente. La mano che non reggeva un lurido fazzoletto a quadretti contro il naso era sul tavolo, una cosa flaccida e lentigginosa vicino al punto dove qualcuno sottoposto in passato a interrogatorio aveva lasciato intendere con un’incisione nel legno del tavolo che Zero Kretzman si facesse da solo una cosa anatomicamente impossibile.
Silverfish mise la mano pelosa sulla mano bianca di Ira. Rimasero cosí. La lampada presa al reparto delle foto segnaletiche emise un acuto, fievole lamento.
– Racconta, – bisbigliò Alan.
– Confessa, – bisbigliò Kretzman.
Qualcuno all’esterno bussò alla porta chiusa a chiave con fare concitato.
Se volete vedere degli ottantenni che magari io e voi ci arrivassimo cosí bene, guardate i genitori di Sophie. Il dottor Otto Schoenweiss e consorte. Il dottor Schoenweiss, dentista in pensione alto, dritto e in carne come un albero ben piantato, i folti capelli bianchi pettinati indietro a sormontare una faccia da uccello da preda di dimensioni maestose, con occhi che hanno visto il dolore e il declino nella bocca degli uomini e conoscono poco la paura e meno ancora la pietà. È un uomo la cui bellezza di uomo è pari alla dignità e all’eleganza. Il suo bavero sembra sempre reclamare un garofano. E la bellezza della signora Schoenweiss consiste nell’essere ben conservata, e fa piú effetto a ottantadue che a quarantadue anni perché che ci crediate o no è rimasta piú o meno uguale. Fisicamente fredda e dura fin dalla nascita, è invecchiata protetta come una mosca nell’ambra, l’interno vistosamente immune al tempo mentre solo l’involucro traslucido diventava via via piú duro e friabile e forse un po’ meno trasparente. I capelli neri duri e vaporosi che non cambiano forma dai tempi di Eisenhower, l’età del viso una questione non tanto di rughe quanto di rigidezza, il corpo sottile, spigoloso e coriaceo che a sbatterci la mano ti faresti male, le unghie di un rosso violento e simili ad artigli che ben si combinano con i suddetti maestosi tratti da uccello del marito dentista. Non un solo tremito nelle mani dei due Schoenweiss. Anziani in forma che dovrebbero essere d’esempio. Hanno sempre fatto sentire Sophie morbida, piccola e leggermente sporca. E, adesso, è in loro presenza che sente piú forte la puzza della propria malattia.
– Annullamento o divorzio, – dice la signora Schoenweiss lisciando la coperta di Sophie. – Preferibilmente l’annullamento sulla base di un matrimonio contratto con l’inganno. È questo che io e Tata, dopo tanto penare fra noi, veniamo a consigliarti.
– Veniamo adesso, caldi di letto, per veder cominciare insieme, tutti e tre, un giorno nuovo e sincero per la nostra unica figlia, – disse il dottor Schoenweiss, alla finestra, controllando l’orologio. – Anche se Mama va a colazione dalla signora Rotner a Hindsdale per il bridge.
– Lascia perdere la colazione, – disse la signora Schoenweiss, perlustrando con gli occhi il viso della figlia. – Io, Tata, Allie e Ira ne abbiamo discusso a lungo. In questo preciso istante Zero Kretzman, il procuratore distrettuale, li sta aiutando a torchiare quel falso per costringerlo a fare quella che secondo gli Schoenweiss è la cosa migliore, anche a costo di usare minacce di ripercussioni legali.
Sophie fece tanto d’occhi. – Dunque Ira ha mentito per far andare Solomon alla stazione di polizia con Allie e Kretzman? Ira Schoenweiss ha mentito nel cuore della notte all’unico vero amico che ha? Mente per contribuire a tendere una trappola che fa leva sulla messinscena, il trauma e l’ingiustizia?
– Ingiustizia è una parola molto lontana dall’ingiustizia quando si parla della persona di cui stiamo parlando, – sibilò la signora Schoenweiss mostrando denti che in sessantun’anni erano stati unicamente motivo di gioia e di orgoglio per il marito. Poi fece un sospiro e si ammorbidí. – Non costringerci a fare una cosa dolorosa. Te lo chiedo come madre. Non costringerci a darti le informazioni che ti daremmo se fossimo costretti a dartele, Sophie.
– No, no, diamole le informazioni, – disse Sophie, spostando lo sguardo dalla madre al padre. – Informiamoci pure –. Respirò toccando la parrucca che aveva accanto. – Che ne dite se vi informo io per un minuto circa? Che succede quando il dottor Prinzmetal scopre che io e Solomon non possiamo avere figli per colpa mia? Ce lo ricordiamo? Come si sente ciascuno di noi? Informiamoci su come ci sentiamo. Ira, Alan e Orly Schoenweiss sono dispiaciuti per Ira, Alan e Orly Schoenweiss, perché non possono diventare zii e zia dei piccoli Silverfish. Il dottor Otto Schoenweiss e signora sono dispiaciuti per il dottor Otto Schoenweiss e signora, perché la famiglia non si allarga oltre i figli di Allie e Orly. Sophie Silverfish è dispiaciuta per Sophie Silverfish, perché non può diventare madre e perché ha deluso la famiglia Schoenweiss e il marito-che-lei-ama –. S’interruppe, respirò e sbatté gli occhi malati e viscosi guardando fuori dalla finestra verso il piccolo cerchio sospeso di luce arancione sempre piú tenue dei lampioni. – E per chi è dispiaciuto Solomon Silverfish? – disse. – Solomon Silverfish è dispiaciuto soltanto per Sophie Silverfish, ecco per chi. Fiori ogni giorno per una settimana, sorprese e calore d’ogni genere e specie. Finge di dire che a pensarci bene lui i bambini non li sopporta, anche se possiamo sempre adottarne uno senza grandi problemi, se io e lui lo vogliamo. Dice che può trasformare la stanzetta dei bambini che avevate fatto costruire voi in uno studio per sé, pieno di peluche e con gli orsacchiotti sulla carta da parati. Mai un pensiero per Solomon Silverfish da parte di Solomon Silverfish. Mai un pensiero che non fosse per sua moglie, benedetta la mia fortuna perché è una vera magia che lui mi ami al punto da anteporre i miei sentimenti ai suoi –. Respirò. – Parliamo delle prestazioni legali gratis per tutti gli Schoenweiss, senza contare i vari Rotner, Kripke e Gupta e tutti quelli a cui basta fare il nome degli Schoenweiss; o se non proprio gratis comunque a prezzi stracciati, mentre Allie si rifiuta bellamente di fare altro che divorzi per tutti quanti, cosa che a me, fossi al posto dell’adorata Orly, darebbe da pensare. Parliamo di Solomon che per vent’anni tira fuori di galera quel piantagrane ubriacone per guida in stato d’ebbrezza nel cuore della notte. Parliamo di me, parliamo del fatto che Solomon ha dimostrato sempre e solo di amare sua moglie, la quale non merita né ha mai meritato un amore e una persona cosí –. Respirò. – Parliamo del cancro. Ricordiamoci che una certa persona si è accampata nella mia stanza al B’nai B’rith per una cosa come ventiquattr’ore al giorno finché i medici non dicono che quel Silverfish ha già penato abbastanza e gli danno il permesso di portarmi a casa. Parliamo di un uomo che trascura un lavoro che ama e che è la sua vita per la moglie che dimostra di amare di piú proprio quando lei ha piú bisogno di saperlo. Parliamo di un uomo con questa moglie che è mutilata...
– Sophie.
– Una moglie priva di importanti attributi femminili, che le pupille di quest’uomo ancora si dilatano quando i suoi occhi mi guardano. Un uomo che mi guarda ridurmi a un mucchietto d’ossa e protuberanze e odora il mio odore e asciuga le mie lacrime e quando serve porta via i miei escrementi come fossero regali e pulisce il mio vomito quando non faccio in tempo ad andare in bagno e non mi fa mai sentire debole, sporca, o meno persona, o meno Sophie del giorno in cui ha ballato insieme a me con le braccia rotte –. Sophie ebbe un violento attacco di tosse. – Potreste anche scoprire che è un marziano venuto dallo spazio, per quanto me ne importa. È mio marito e io e lui siamo uniti da una cosa chiamata amore che, casomai non l’aveste ancora sentita nominare, non è solo un sentimento, è un modo di vivere la vita con una persona, e la vostra Sophie malata è fatta di questo amore, di questa vita e di questo Silverfish, e la mia vita è la sua e tutt’e due siamo quello che siamo grazie all’altro –. Respirò rumorosamente. – Perciò se parlate ancora di divorzio, annullamento e fine del matrimonio mi vedrò costretta con grande rammarico a chiedervi di andarvene da casa mia –. Si appoggiò di nuovo ai cuscini. Quel discorso le aveva fatto diventare la pelle grigia, madida di sudore, e gli occhi verdi erano infossati dentro le orbite rotonde nere e livide, ancora piú nere di prima.
– Ma quell’uomo ha mentito! – urlò il dottor Schoenweiss dalla finestra, dimostrando che forse una cosa in lui era invecchiata: la voce per gridare. – Bugie sistematiche, della peggior specie, per una vita intera. Un popolo e una cultura...
– Un popolo e la sua cultura non valgono una cicca se a tenerli insieme non c’è quello che Dio, e lo ringrazio ogni minuto, ha concesso a me e al mio Solomon di avere insieme, – disse Sophie piú forte che poteva. Respirò e chiuse gli occhi. Deglutí. – E questa è una, la cosa che ho detto. Ecco l’altra. Credete davvero che sia cosí stupida? Solomon non mi ha mai detto una sola bugia, né io ho mai detto a mio marito una cosa che non fosse vera.
– Ti ha detto che la sua era una messinscena?
– Potrei vivere con un uomo trent’anni e non conoscere il suo cuore? Se tu e Mama vi amate, fate la messinscena quando ricordate le vostre origini?
– Dunque ti ha detto: Sophie, ha detto, non sono ebreo ma diamola a bere alla fiduciosa famiglia? Facciamoci due risate?
– Non mi hai capito. No, non l’ha fatto.
– Allora posso chiederti cos’ha fatto?
Sophie guardò i propri capelli sul letto. – Abbiamo semplicemente smesso di essere diversi l’uno dall’altra nelle cose che contano.
– E invece salta fuori che tu sei diversa, ecco perché dopo esserci dati tanta pena siamo venuti.
– Non è cosí, – disse Sophie. Respirò. Deglutí. Sotto il sudore era diventata del colore che hanno le vongole vecchie.
– Ti senti bene, Sophie? – La signora Schoenweiss la guardava.
– Sto per vomitare, temo, – disse Sophie con un filo di voce. Cercò debolmente di uscire dalle coperte. Aveva il polso ancora legato al tubicino. La boccia piena di luce tintinnò sulla piantana.
– Oddio –. La signora Schoenweiss si alzò dal letto e indietreggiò, tastandosi i lati dei capelli, guardando. – Oddio.
Sophie diede di stomaco sul letto. Una volta finito smise di sprofondare dentro se stessa e tornò a sprofondare nei cuscini.
– Troppo tardi, – disse. – Un attacco di nausea –. Tossí.
– Mi sa che il nuovo sole sta per sorgere, – disse il dottor Schoenweiss dalla finestra.
– Lascia perdere il sole! Tua figlia ha appena vomitato sul letto!
– Ora sto bene, credo, – disse Sophie con un filo di voce.
– Viene qualcuno a pulire? – domandò la signora Schoenweiss da diversi metri di distanza. Guardò il letto e la camicia da notte di Sophie.
– Mary, quella della clinica, alle dieci. Sto bene. Scusate.
– Ti senti bene?
– Sono stanca, Mama.
– È colpa nostra che siamo venuti cosí. L’ho detto ad Alan ho detto sole o non sole, signora Rotner o non signora Rotner.
Sophie scosse la testa umida. – Colpa vostra la stanchezza? No. Dare per scontato che vostra figlia non sappia leggere dentro un cuore e che vostro-cognato-che-vivuole-bene-piú-che-a-se-stesso non sia la persona che è, che... – tossí di nuovo, – sia diverso. Gettate discredito su tutti gli Schoenweiss e su due... Silverfish.
– Ti senti bene?
– Sto bene.
– È sangue, quello? Otto, vedo del sangue!
– Sangue?
C’era del sangue.
– Otto!
– Sophie?
– Chiamate mio marito.
– Chiama l’ospedale!
– Chiamate mio marito.
– Chiamo Alan.
– Otto, ma lei sta bene?
– Chiamate Solomon, per favore.
– Otto, sta sanguinando!
– Che ti credi, che sono cieco? Che non vedo il sangue?
– Sophie?
– Sto bene.
Ecco Solomon Silverfish, due mesi fa, a marzo, sessantenne, la sera del giorno in cui i medici avevano riportato Sophie in ospedale dopo che la febbre era schizzata alle stelle arroventando ogni cielo. Recidiva, avevano sentenziato i medici senz’ombra di dubbio, forse anche metastasi. Ora è sera e Silverfish è a casa a lavare i piatti incrostati della colazione, a lavare se stesso e a preparare le cose da portare a Sophie nella stanza d’ospedale al reparto oncologia. È profondamente sconvolto. In questo momento si predispone a lavare i piatti, strizzando le ultime gocce di detersivo liquido dalla bottiglia quasi vuota dentro il lavandino pieno d’acqua tiepida. Guarda il lavandino di schiuma, le bolle tante piccole cupole rifrangenti viola e rosso diafano. Fuori è tutto uno sciogliersi delle nevi di marzo. Le auto passando rombano sulla neve di marzo sciolta. In casa di Silverfish invece è la fine di una lunga estate gialla. La testa di Silverfish è insieme ai piatti dentro l’acqua saponata del lavandino. La braccia schiaffeggiano un pochino l’aria. Sotto l’acqua dei piatti lui lancia un unico lunghissimo urlo. L’urlo di Silverfish riempie le bolle di sapone che lasciano il lavandino. Salgono. Turbinano nell’aria della cucina schiaffeggiata appena da Silverfish, salgono e scoppiano contro il soffitto con piccoli, nitidi friniti avanzati dall’urlo di Silverfish. Ci sono tante di quelle bolle che sembra di essere al Lawrence Welk Show. Il suono invece è quello delle cavallette di tanto tempo prima, un campo di cavallette e insetti tra il friabile tabacco della Virginia, la gramigna e il grano nano, a cuocere e urlare in una canicola tarda e secca che si porta dietro l’odore della propria fine. Vi provocherebbe uno choc fisico scoprire quanto tempo Silverfish riesca a tenere una nota.
Ecco di nuovo Silverfish, di nuovo sessantenne, la mattina prestissimo, stamattina, nella Thunderbird rossa decappottabile, tornare a casa a tutta velocità dalla centrale di polizia dove si trovava. Con lui ci sono Alan e Ira
Schoenweiss. E anche Zero Kretzman. Le parole pronunciate nell’auto sono per l’esattezza nessuna. La nenia di una sirena in lontananza. Il vento colpisce con violenza i capelli di Silverfish. I capelli scagliati da un lato dal vento coprono la faccia di Ira Schoenweiss, compresi gli occhiali assai appannati. Ira non accenna un solo gesto per spostare il velo di capelli. Tutti i semafori vengono ignorati. Il cielo a est, sopra il lago, sta passando dal nero a qualunque sia il colore piú chiaro che viene subito dopo il nero.
Troppo Carino
Se ti va di giocare, lascia perdere l’amico mio S. S. Perché l’amico mio ti fa un culo cosí con quella ventiquattrore, quelle bracciacce che va sparazzando di qua e di là e la voce come il treno soprelevato che t’acchiappa al volo dal binario, c’ha un ruggito che manca poco che t’inghiotte. Meglio girare al largo dall’amico mio. Ti fa un culo cosí, ti fa. Ma a quel figlio di buona donna ci piace il mio karma, va’ a sapere perché. E pure a me mi piace quel bianco di merda. È fuori come un balcone. C’ha la moglie col cancro e cazzi vari. Sembra una specie di morta vivente e cazzi vari. Ma che ti credi che l’amico mio l’ama quella bagascia? L’amico mio fra un po’ muore tanto che l’ama. Sono pappa e ciccia quei due. È sempre a lei che ci va a rompere i coglioni per ogni minima stronzata, come fai con le bagasce quando diventano uguali a te. S. S. ora è un mese che fa? piglia e mi porta a cena al suo country club. Io sono tutto in tiro quella sera e porto il culo in ’sto posto pieno di facce color vomito tirate a lucido e in tenuta da funerale e vestitini scollacciati addosso alle vecchie bagasce piatte come tavole e il luccichio di scintille delle forchette d’argento che è come uno che quando si fa poi dopo è cieco. Uno stronzetto collo smoking non ti prova a levarmi il cappello prima che ci fa sedere? Il muso bianco ha rischiato di brutto, caro mio. Ma l’amico mio S.S. ci pensa lui, e zitto zitto dice al pinguino che o si leva di torno o lo riduce a un colabrodo, e il pinguino schioda senza un fiato. Me ne sto lí che mi mangio ’ste buonezze dei bianchi con la bella argenteria del club e davanti c’ho pure una buonezza di scotch whisky d’annata, mentre l’amico mio non beve e manco tocca quasi cibo, sta solo lí che per un casino di tempo mi guarda che mastico e cazzi vari, mi rende nervoso, e alla fine si guarda attorno e s’avvicina tanto che ci vedo gli spazi fra i capelli lunghi e fini fini che fanno pena e cazzi vari col riportino sopra la zucca. Si guarda attorno e s’avvicina e ci chiede a Troppo Carino un poco d’erba per la sua bagascia, che quella piglia le medicine per il cancro che ci fanno vomitare pure gli occhi che si sente cosí male che vorrebbe morire tanto che c’ha la nausea. L’amico mio ci chiede a Troppo Carino un po’ di marijuana di prima qualità, che è cosí che dice lui, perché alla sua bagascia cosí non ci fa piú male la pancia e cazzi vari. Io piglio m’alzo subito e lo porto alla mia macchina che sta al parcheggio e ci do una bustina di quella proprio buona che Troppo Carino quel giorno ce l’aveva per sé. Non voglio manco che l’amico mio mi paga, non voglio mica. Oh, ci dico, tu tieni il culo mio e quello delle mie bagasce fuori dal gabbio e allo sgobbo cosí Troppo Carino se la passa cosí bene che se ne sbatte assai d’essere pagato e cazzi vari. Ci dico che non voglio sentirci dire stronzate, solo che la sua bagascia si sente meglio prima è meglio è. E quella è roba che t’aggiusta un casino di cose, t’aggiusta. Troppo Carino la dà a Candice, a Monica e a Wardine quando sono cosí ubriache che poco ci manca che vomitano davanti ai clienti e cazzi vari. Una bagascia che vomita davanti al cliente quel cliente poi se lo scorda per sempre. E le bagasce devono stare allo sgobbo. La roba che c’ho dato all’amico mio le rimette al mondo, le rimette.
Ma l’amico mio piglia e dice che la sua bagascia è la vita sua. Dice che la sua bagascia è lui, dice. Sophie si chiama. Che è carina pure, la bagascia. Una volta la vado a trovare all’ospedale del cancro coll’amico mio. Ma quant’è secca ’sta bagascia, oh. Gli occhi tutti pesti attorno al fuori, e il dentro tutto impiastricciato da quello che vede che sta per arrivare. Tutt’impiastricciati dalla morte, oh. Come Brenda quando s’è sparata in vena quella merda tailandese che c’aveva dato Reginald e ha capito subito che proprio no, quella merda non andava e che mo’ ci lasciava le bucce. Gli occhi vedono la morte e s’impiastricciano tutti come quelli della bagascia che veniva. Se a Troppo Carino ci chiedi com’è darci una leccatina là sotto a una bagascia che sa che sta per lasciarci le bucce lui mica te lo sa dire. Ci devi passare per capirlo. Ma l’amico mio dice che la sua bagascia è la vita sua, dice. Chi ci capisce è bravo. M’ha messo in moto le rotelle della capoccia, m’ha messo. Il Carino qui presente non vedeva l’ora di telare da quell’ospedale, caro mio, quel posto tanfava di merda incrostata e tutti gli occhi erano biglie impiastricciate, ma quella bagascia secca e sofferente senza capelli né tette e coi bozzi su tutto il corpo suo bianco è la vitadell’amico mio. Mica scherza, quello. Ci dico S. S., ci dico, io l’amore lo vedo da certe angolazioni che tu manco te le sogni ma mai ho visto un bianco che ama una bagascia come tu ami ’sto stecchino senza tette dentro a ’sto lettino di ferro. Che ti credi, che l’amico mio s’incazza? Non s’incazza mai con Troppo Carino, quello. Guarda solo Troppo Carino in faccia cogl’occhi belli azzurro dopobarba e profondi come tutta quanta la testa e mi domanda se amo me stesso. E quando dico chi cazzo devo amare se non quel culo nero di Troppo Carino, l’amico mio dice te lo dico io, negretto, lui mi chiama cosí, negretto, e mi stende. Mi dice ce l’hai davanti, Londell. La bagascia è la mia vita. La vera lei, per il sottoscritto, non è malata, è solo che al momento non sta proprio una bellezza e cazzi vari. Altro che una bellezza ci dico la bagascia è conciata proprio male con tutti quei bozzi e i tubi che ci spuntano dappertutto. L’amico mio si scalda. Dice che tubi bozzi e cazzi vari sono la malattia e cazzi vari, non la sua Sophie. Che non c’è malattia che può mettere le grinfie sue bianche e congelate su quello che la sua signora è per davvero. L’amico mio lui sí che la sa lunga. E Troppo Carino sa che è per questo che S. S. non sta lí a torcersi le budella e a consumarsi gli occhi e cazzi vari, è tutto serietà di ferro e logica avvocatesca, vuole che la bagascia sua non sente piú male dentro. All’amico mio ci do certa roba di prima qualità giusto lí nel parcheggio. M’ha steso, m’ha, ’sto ebreo. Come se non era manco bianco e cazzi vari. Come se era un casino di cose tutte quante assieme.
Ma questa qui, questa è roba bianca assai. E buona? Louise, Louise. Si capisce che è roba buona perché quando che entra dentro è una goduria. Devi vedere cosa che non provano le bagasce. Che poi è il mestiere di Troppo Carino. È roba che mi sono procurato da DuWayne. DuWayne se la fa dare da un muso giallo che vive colla sorella. Quello conosce certi in Birmania. DuWayne sa come te l’ho conciato Reginald dopo che ci ha dato quella roba a Brenda, e mo’ sta attento che alle bagasce non ci succede niente. Ti scivola dentro che è una bellezza quella roba, oh. Si scioglie e tu senti dentro tanti ghirigori lisci lisci come il ghiaccio che si scioglie dentro al gin d’estate e ti sale bollente e sottile per tutto quanto il corpo finché non arriva alla testa e tu ti stacchi da terra come una mongolfiera, ti stacchi. L’amico mio S.S. dice a Troppo Carino io l’eroina non l’approvo, Londell. Niente eroina, grazie tante. L’eroina è una faccenda legale brutta e rischiosa. Ma a fine serata a Troppo Carino ci piace di mettersi comodo nella macchina sua a contare i guadagni e a fare le prove e cazzi vari per capire che si cacciano in corpo le bagasce. Un capo che non divide l’ago con le sue bagasce è un pappamolla e cazzi vari. Wardines sta lí fatta come una biglia sul sedile posteriore, ci devo togliere il laccio emostatico tanto che è partita, ’sta bagascia. Sto dentro una nebbia birmana calda e rosa e cazzi vari pure io mo’ e c’ho intenzione di rannicchiarmi e farmi un bel viaggetto interiore per un po’ di spazio e tempo, finché non torno coi piedi per terra tutto infoiato che poi una volta a casa mi faccio Wardine e magari pure Monica. Prima però Troppo Carino guarda l’alba dal parabrezza della macchina sua. Volete vivere una cosa bella della vita? Giratevi a est e guardate il sole sorgere sotto l’effetto di certa roba birmana di quella buona. Quel sole ti rivolta come un calzino, ti rivolta. Il posto dove a Troppo Carino piace di piú guardarlo è ’sto bel cimitero antico dei bianchi, il cimitero Sinai, un parco mortifero per ricconi a un tiro di sputo da Pulaski e Fuller. Parcheggi la macchina in ’sta stradina di lapidi vicino al cancello laterale a ovest, ti spari ’sta roba buona di DuWayne, parti e guardi la vita salire in un cerchio di sangue al rallentatore sopra file di morte bianco lapide. Cazzo, ti vengono i brividi per quanto è bello e strano. Quello sorge e tu senti dentro ’sta cosa sciogliersi e guardi quella figata della curva nera del cielo di Dio diventare cenere e poi viola e poi rosso sangue su un oceano di ghiaccio di musi bianchi che sotto le lapidi bianche fanno certi sorrisi freddi e bianchi. Troppo Carino mo’ vede il sole diventare rosso e cazzi vari. Capito? Una mezza moneta rovente che brucia a est tra le sbarre di ’sto cancello di ferro a ovest fa una gabbia di sangue dell’alba e c’è ’sta foschia mattutina che sembrano tanti fiumi di carta sulla terra grigioverde e le lapidi bianche e Troppo Carino non sa se è foschia dell’alba o è lui che è fatto ma è sangue bollente, quella luce, sangue bollente che pompa dietro la gabbia di quel cancello con quelle sbarre belle nuove di ferro chiaro e una stella grande quanto il sole che sta pure lei in cima al cancello, una stella strana ma proprio strana, manco che due triangoli scopassero nel cielo con quella cazzo di nebbia rosso sangue che brucia e li attraversa e si spacca in tante ombre puntute e angoli smangiati di luce sangue.
E io ci provo, caro mio. Sento Wardine fare le fusa come una gatta mentre attraverso il parabrezza pulito guardo il cerchio intero del sole tutto nuovo che comincia a sanguinare attraverso l’erba verde lucida e bagnata, la pietra fredda e due mezze stelle che scopano nel fuoco. E sono cosí fatto che comincio a sclerare e alla luce di quel calore rosso e nuovo attraverso il vetro attraverso il parabrezza mi sembra che vedo l’amico mio S. S. dietro la gabbia di un cancello. È l’amico mio. L’amico mio S. S. è lí, tra le lapidi che girano e girano, e balla pure con una bagascia! E attraverso la foschia birmana che c’ha dentro gli occhi Troppo Carino guarda il fuoco e vedo. Sono l’amico mio e la sua bagascia, la secca, mo’ però mica è secca, caro mio, lei e l’amico mio due ragazzini sembrano, pieni di sogni latte e fotti, e ballano dritti dritti con un’allegria tutta nuova in quella foschia di sangue nuovo, ballano torno torno a un mucchio di lapidi bianche che non c’hanno il nome sul marmo. E il cancello a ovest manda un luccicore ch’è troppo rosso per essere giusto, e l’amico mio e la sua bella giovincella ballano, lei lo tiene per la vita mentre lui c’ha le braccia belle spalancate, come se s’è fatto male, come che sta inchiodato all’aria e cazzi vari. Ballando ballando tornano alla lapide e la bagascia dell’amico mio apre le gambe con ’ste belle calze bianche da infermiera o da suora, mette le gambe attorno alla vita dell’amico mio, che lui sta sulla lapide fredda, e colle mani sue tutto da sola ’sta bella bagascetta toma toma si prende ’ste calze bianche e se le strappa, se l’abbassa, e quelle scendono squarciate ai lati delle gambe che sono due belle gambe bianche, curve lucide di latte, io mi raddrizzo dentro la macchina e lei fa alzare l’amico mio, e si fanno le cosette come i bambini, troppo pulite, troppo felici, l’amico mio sul marmo, e gli unici rumori che senti sono il respiro mio e il respiro di Wardine e ’sto mugolio alto alto e fino fino del cancello in fiamme e le lapidi che sparano un fuoco di luce tutto loro al sole. Troppo Carino comincia a pensare che ’sta roba di DuWayne dev’essere che è un po’ troppo forte quando l’amico mio e la sua signora che c’ha attorno cominciano a venire verso il cancello, verso di me, S. S. che cammina come niente fosse con le braccia inchiodate in un mare di nebbia rossa che s’alza attorno alle gambe biancolatte biancopanna che lei ci tiene attorno, e la bagascia c’ha la testa buttata all’indietro, e l’amico mio c’ha gli occhi negli occhi di Troppo Carino attraverso la luce, la gabbia e il vetro, e io succede che sclero, caro mio. Il sole è piú caldo piú gonfio piú rosso piú nuovo di ogni altro ieri, e una nebbia di sangue che non mi riesco a levare dagli occhi s’alza attorno all’amico mio che poi si vedono solo la faccia e un gira gira di capelli lucidi neri come la notte che poi sono i bei capelli di Sophie la sua signora, e lei ci tiene le braccia intorno al collo e ride cosí felice che Troppo Carino non l’ha mai sentita una cosa cosí. Sono troppo fatto. La nebbia birmana rossa scoppia come atomi di luce e cazzi vari, brucia attraverso la gabbia e la macchina e io e i miei occhi, gli occhi sos di Troppo Carino bruciano ch’è una bellezza, e le ossa sono un forno, e Wardine si lamenta per conto suo. La luce passa attraverso tutti quanti noi, e il rosso che ch’ho dentro ribolle attorno all’amico mio e alla sua signora, e poi il sole brilla di un giallo bello nuovo nuovo ma la gabbia della tomba rimane piena della luce insanguinata di prima, e le lapidi e le stelle vanno a fuoco e poi io mi caco sotto e dalla bocca mi esce il succo del libro degli ebrei perché vedo la faccia biancovomito, biancopanna, biancomorte dell’amico mio alle sbarre della gabbia delle tombe, e la sua signora gli sta combinando qualcosa nel rosso che c’è dietro, e sopra a tutto quel nuovo rumore forte l’amico mio dice negretto zitto zitto e io lo sento che l’amico mio dice negretto, vuoi sapere l’ultima? E da come parla oggi capisco che è sempre l’amico mio. C’ho la bocca piena di paura sporca e l’amico mio fa vieni qui col dito, e io mi chiedo se la sua signora s’è persa nel rosso, e Troppo Carino si ritrova col naso spiaccicato contro il parabrezza e l’amico mio Solomon Silverfish sta lí nel sangue della gabbia infuocata e apre la bocca per dire cazzo nessun bastardo bianco ha il diritto di sapere e io lecco con la lingua secca e sporca il vetro pulito e bollente, e aspetto. E poi dal nuovo sole esce la signora Sophie dell’amico mio che sta dietro all’amico mio alle sbarre e ci attorciglia i bei capelli notte attorno alla faccia e alla barbetta e lo acceca nel sangue e la mia bagascia Wardine là dietro piglia e mi mette le mani sugli occhi e sussurra lenta come la crema emolliente biancomorte indovina chi sono Carino caro, mi copre la visuale, e ride e mi respira dentro l’orecchio come s’è cosí fatta che col cavolo che ci ritorna sulla terra, e c’ha le belle mani scure sopra la mia faccia e gli occhi colla foschia e ride e la signora dell’amico mio grida forte dall’alto e il dentro della mano di Wardine è sangue che mi acceca sangue che vedo arrivare dalla nuova luce e bruciare attraverso le mani sangue che vedo pompare in una gabbia di belle ossa sottili che dall’odore sono bianche come lapidi. E in quella gabbia di ossa il sole rosso va su e giú e su e giú.
Altra matematica
1.
– Nonno?
– Joseph? Entra.
– Posso entrare?
– Entra. Siediti.
– Come ti senti?
– Bene, bene. Bene.
– Sono innamorato di te.
– Come sei arrivato fin qui, figliolo? Non c’è scuola oggi? Che giorno è?
– Sono innamorato di te, nonno.
– Innamorato di me?
– Sí.
– In che senso?
– Nel senso che sono innamorato di te, nonno. Voglio stare solo con te. Con te e basta.
– Che cavolo significa che sei innamorato di me?
– Io...
– Cos’è, uno scherzo? Che giorno è?
– No, nonno.
– Ma insomma, Joe, anch’io ti voglio bene. Io e tua nonna siamo sempre andati molto fieri di te. Anche noi vogliamo stare con te. Vedrai, non appena esco di qui...
– Io non sto parlando di questo, nonno. Sono innamorato di te. Penso soltanto a te. La tua immagine vive e si muove dentro di me. Antepongo i tuoi interessi ai miei. La tua presenza agisce sul mio sistema nervoso, vivo nell’attesa che tu mi tocchi. Voglio stare con te. Sempre.
– Sono sposato. Sono sposato con tua nonna.
– Sí.
– Siamo dello stesso sesso.
– Questo è certo.
– Che giorno è, Joe? Come sei arrivato fin qui?
– ...
– Sono vecchio, ragazzo mio. Sono malato. Ho soltanto mezzo colon. La faccia mi pende dal cranio. Dal sapore che ho in bocca capisco che l’alito mi puzza di uova marce.
– Aspetti marginali. È te che amo.
– Ne hai parlato con tuo padre?
– Non l’ho detto a nessuno. L’ho portato dentro di me. Da solo. Ho pensato che dovevo prima parlarne con te.
– Capisco.
– Bene.
– ...
– ...
– Che classe fai, a scuola, Joseph? La quinta elementare?
– La prima media.
– La prima media.
– Sí.
– E sei innamorato di me.
– Sí.
– Credo di non sapere proprio cosa dire. Non so nemmeno che giorno della settimana è. Come potrei sapere cosa dire?
– Non dire nulla, nonno. Resta lí seduto. Cosí. È perfetto.
2.
– Aspetta un attimo, nonna. Fammi capire bene. Due ragazze e un uomo camminano, e una delle ragazze tiene l’uomo per mano, e questo significa che fra loro c’è del tenero, che lui le piace tanto, a differenza dell’altra, che li accompagna e basta?
– Sí.
– E se si scambiano, se l’uomo prendesse per mano l’altra ragazza, significherebbe che ora c’è del tenero tra l’uomo e l’altra ragazza? Che la prima ragazza li accompagna e basta?
– Sí.
– ...
– Fatti aggiustare la cravatta, Joseph. Il nodo è tutto da una parte.
– E si tengono per mano solo per dimostrare tra chi c’è del tenero? Per dimostrarlo in pubblico? Oppure sentono qualcosa, quando lo fanno?
– Non è chiaro. Non è chiaro se provano qualcosa, o se è solo per fare scena.
– Tu non lo sai?
– No.
– Non hai mai camminato mano nella mano con nessuno?
– No.
– Nemmeno con il nonno?
– Quella di tuo nonno non era una mano. Quella di tuo nonno era una cosa morta, attaccata al polso dalla stessa forza che scagliava tutto verso di lui, morta e marrone, una cosa piatta e squadrata che emanava gelo, una propaggine che non ho mai riconosciuto e che di sicuro non ho mai stretto.
– Capisco.
– Ecco fatto. Impara a tenere il nodo al centro, Joseph. – Sarà per questo che noi non abbiamo pianto? Ho visto che piangevano tutti.
– ...
– ...
– Salvavita?
– Grazie.
3.
– Tuo padre ti ha mai raccontato che, quando studiava medicina, uno dei suoi compagni di corso si era innamorato di un cadavere?
– No.
– Quel tizio, a sentire tuo padre, si era innamorato perdutamente di un cadavere. L’aveva rubato dal reparto dell’università di medicina dove tenevano i cadaveri. Lo portava sempre con sé, ovunque andasse. Perfino in pubblico, a teatro.
– Qui la cosa è completamente diversa, nonno.
– Tuo padre dice che quel tizio gli raccontava di essere perdutamente innamorato del cadavere. Raccontava a tuo padre che per lui andava benissimo che il cadavere fosse sempre tranquillo e passivo, perché il cadavere era gentile, portatile, e sempre disponibile.
– Qui la cosa è diversa, nonno. Non c’è paragone.
– Ora che ci penso tuo padre dice che hanno dovuto rinchiuderlo da qualche parte, quel tizio. Diceva di non poter vivere senza il suo cadavere.
– ...
– Non mi fissare cosí, figliolo, fa’ il favore.
Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta
Prendo gli antidepressivi da, quanto sarà, un anno, e ritengo di avere i numeri per dire come sono. Sono straordinari, davvero, ma sono straordinari come sarebbe straordinario vivere, che so, su un altro pianeta caldo e comodo fornito di cibo e acqua fresca: sarebbe straordinario, ma non sarebbe la cara vecchia Terra. Ormai è quasi un anno che non sto sulla Terra, perché sulla Terra non me la cavavo troppo bene. Diciamo che me la cavo un po’ meglio dove mi trovo adesso, sul pianeta Trillafon, con grande piacere, credo, di tutti gli interessati.
A prescrivermi gli antidepressivi è stato un dottore molto simpatico che si chiama dottor Kablumbus in un ospedale dove mi hanno portato per pochissimo tempo dopo un incidente davvero ridicolo con certe apparecchiature elettriche dentro la vasca da bagno del quale non ho davvero voglia di dire granché. Sono dovuto andare in ospedale per le cure mediche in seguito a quello stupidissimo incidente, e due giorni dopo mi hanno trasferito a un altro piano dell’ospedale, un piano piú alto, piú bianco, dove c’erano il dottor Kablumbus e i suoi colleghi. Hanno discusso un bel po’ dell’eventualità di sottopormi alla TEC, che poi sarebbe l’abbreviazione di «Terapia Elettroconvulsivante», solo che la TEC a volte cancella pezzi di memoria – piccoli particolari trascurabili tipo come ti chiami, dove abiti, ecc. – ed è terrificante anche sotto certi altri aspetti, perciò noi – io e i miei genitori – abbiamo deciso di non farla. Una legge del New Hampshire, che poi sarebbe lo Stato dove vivo, stabilisce che la TEC non può essere praticata senza il consenso dei genitori. A me sembra una gran bella legge. Cosí il dottor Kablumbus, che ha davvero a cuore unicamente il mio interesse, mi ha prescritto invece gli antidepressivi.
Se qualcuno vi racconta di aver fatto un viaggio, vi aspettate come minimo uno straccio di spiegazione sul perché è partito per quel viaggio. Alla luce di questo vi racconterò certe cose che spiegano come mai le cose sulla Terra per me non andavano troppo bene ormai da un pezzo. È stranissimo, ma tre anni fa, quand’ero all’ultimo anno delle superiori, ho cominciato a soffrire di quelle che ora chiamerei allucinazioni. Ero convinto che un’enorme ferita, una ferita davvero enorme e profonda, mi si fosse aperta sulla faccia, sulla guancia vicino al naso... che la pelle si fosse spaccata come un frutto maturo, che uscisse il sangue, scuro e lucido, che si vedessero chiaramente le vene, i pezzetti di grasso facciale giallo e di muscolo grigio-rosso e perfino qualche sfolgorante bagliore d’osso, là dentro. Ogni volta che mi guardavo allo specchio, eccola lí, la ferita, e sentivo la contrazione del muscolo scoperto e il calore del sangue sulla guancia, di continuo. Ma se dicevo a un medico, a mamma o a qualcun altro: – Ehi, guarda questa ferita aperta che ho sulla faccia, dovrei andare in ospedale, – loro dicevano: – Aho, non hai nessuna ferita sulla faccia, sicuro che ci vedi bene? – Eppure ogni volta che mi guardavo allo specchio, eccola lí, e sentivo sempre il calore del sangue sulla guancia, e ogni volta che ci passavo sopra la mano le dita sprofondavano in quella che sembrava gelatina bollente con dentro ossa, tendini e cose varie. E sembrava sempre che la guardassero tutti. Sembrava che mi squadrassero in modo buffo, e io pensavo: «Dio santo, hanno davvero il voltastomaco, la vedono, devo andare a nascondermi, levarmi di torno». Invece forse mi squadravano perché sembravo spaventatissimo e sofferente e mi tenevo la mano sulla faccia e barcollavo ovunque e di continuo come un ubriaco. All’epoca, però, sembrava proprio vera. Strano, strano, strano. Subito prima di diplomarmi – o forse un mese prima, forse – la faccenda si era messa davvero male, nel senso che quando toglievo la mano dalla faccia vedevo sulle dita il sangue, i pezzetti di tessuto e cose varie, e sentivo pure l’odore del sangue, come rame e metallo rovente arrugginito. Cosí una sera che i miei erano usciti ho preso ago e filo e ho cercato di cucirmi la ferita da solo. Ho sentito un male boia perché naturalmente non avevo una goccia di anestetico. È stato brutto anche perché ovviamente, adesso lo so, non c’era davvero nessuna ferita da cucire. Mamma e papà non sono stati per niente contenti quando rientrando a casa mi hanno trovato ricoperto di sangue vero e con una caterva di punti tutti storti e malfatti di filo arancione sgargiante bello spesso sulla faccia. Erano davvero sconvolti. E poi i punti erano troppo profondi – a quanto pare avevo affondato incredibilmente l’ago – e quando in ospedale hanno cercato di tirare via i punti, sotto è rimasto impigliato un po’ di filo che dopo ha fatto infezione, cosí mi è toccato tornare in ospedale dove per togliere tutto, spurgare e ripulire hanno dovuto farmi una ferita vera. Quando si dice l’ironia della sorte. E poi mi sa che facendo i punti cosí profondi devo aver infilato l’ago dentro qualche nervo della guancia mettendolo fuori uso, e adesso certi pezzi di faccia mi si intorpidiscono senza motivo, e la bocca pende un poco sul lato sinistro. So per certo che pende e che ho questa bella cicatrice, qui, perché non si tratta solo di guardarmi allo specchio, vederla e sentire che c’è; gli altri, anche se con estremo tatto, mi dicono che la vedono anche loro.
Fatto sta che secondo me quell’anno se ne sono accorti tutti che ero un soldatino pieno di problemi, me compreso. Dopo tante chiacchiere e consultazioni abbiamo deciso di comune accordo che forse era nel mio interesse rinviare l’ingresso alla Brown University del Rhode Island, dove sarei dovuto andare subito dopo, e frequentare invece un anno post-diploma in un’ottima, prestigiosa e costosissima scuola di specializzazione che si chiama Phillips Exeter Academy opportunamente situata nella mia cittadina. E cosí ho fatto. In apparenza è stato un periodo pieno di soddisfazioni, solo che ero ancora sulla Terra, e le cose andavano sempre meno bene per me sulla Terra in quel periodo, anche se la faccia era guarita e avevo piú o meno smesso di avere l’allucinazione della ferita sanguinolenta, a parte alcuni flash davvero brevi in cui con la coda dell’occhio vedevo specchi e cose varie.
Però, sí, tutto sommato le cose andavano sempre peggio per me in quel periodo, anche se a scuola me la cavavo benissimo con il mio programmino post-diploma e tutti dicevano: – Per la miseria, sei davvero uno studente modello, dovresti andare dritto all’università, che aspetti? – A me era chiarissimo che non dovevo andare dritto all’università, ma non potevo mica dirlo a quelli dalla Exeter, perché i motivi per non andarci non c’entravano niente col far quadrare le equazioni a Chimica o interpretare le poesie di Keats a Letteratura. C’entravano col fatto che ero un soldatino pieno di problemi. A questo punto non è che muoia dalla voglia di fornire un resoconto lungo e sanguinolento di tutte le belle nevrosi che all’incirca in quel periodo cominciarono a spuntarmi dentro al cervello, tipo foruncoli grigi e grinzosi, ma certe cose le dirò. Tanto per cominciare, vomitavo un casino, avevo sempre la nausea, specie la mattina appena sveglio. Ma poteva scattare in ogni momento, bastava solo che ci pensassi; se mi sentivo bene, di punto in bianco pensavo: «Ehi, non ho nemmeno un po’ di nausea». E scattava subito, manco avessi un grosso interruttore di plastica lungo il tubo che collega il cervello alla pancia e all’intestino deboli e infiammati, ed ecco che vomitavo nel piatto della cena o sul banco di scuola o sul sedile della macchina, o nel letto, o dove capitava. Era davvero paradossale per tutti gli altri, e profondamente sgradevole per me, come chiunque abbia avuto davvero problemi di stomaco capirà benissimo. La cosa è andata avanti un pezzo, e io sono dimagrito un casino, il che non era un bene perché ero già magrissimo e senza un filo di forze. E poi ho dovuto fare un casino di accertamenti allo stomaco che contemplavano squisiti beveroni al bario, farsi appendere a testa in giú per le radiografie e via dicendo, e una volta mi hanno prelevato pure il midollo spinale, che è la cosa piú dolorosa che abbia mai fatto in vita mia. Io coi prelievi di midollo ho chiuso per sempre.
Poi c’era quella faccenda di piangere senza motivo, che non era dolorosa ma era molto imbarazzante e anche abbastanza spaventosa perché non riuscivo a controllarla. Succedeva che mi mettevo a piangere senza motivo, dopodiché mi prendeva come la paura di mettermi a piangere o che una volta cominciato a piangere non sarei piú riuscito a smettere, e quello stato di paura aveva la gentilezza di azionare un altro interruttore bianco lungo il tubo tra il cervello foruncoloso e gli occhi infiammati, e giú a piangere ancora peggio, come quando spingi uno skate-board senza mai fermarti. Era molto imbarazzante a scuola, e incredibilmente imbarazzante in famiglia, perché i miei pensavano che fosse colpa loro, che avessero fatto qualcosa di male. Sarebbe stato incredibilmente imbarazzante anche con gli amici, solo che all’epoca in realtà non avevo tutti questi amici. Che era un vantaggio, piú o meno. Ma c’erano anche tutti gli altri. Adottavo tutta una serie di trucchetti per il «problema del pianto». Quand’ero in mezzo agli altri e gli occhi diventavano tutti infiammati e pieni di acqua salata rovente fingevo di starnutire, o ancora piú spesso di sbadigliare, essendo due cose che giustificano le lacrime agli occhi. A scuola dovevano pensare che fossi il piú grande morto di sonno del mondo. Peccato che sbadigliare non giustifica per davvero il fatto che le lacrime scorrano lungo le guance piovendo in grembo o sul banco o facendo delle grinze bagnate come tante stelline sui fogli dei compiti in classe e roba varia, e poi sono pochi quelli che hanno gli occhi superrossi per aver soltanto sbadigliato. Perciò quei trucchetti non dovevano funzionare benissimo. È strano ma anche ora, qui sul pianeta Trillafon, ripensando a tutto questo sento scattare l’interruttore e sento gli occhi riempirsi piú o meno di lacrime, la gola bruciare. Brutta storia. C’era anche il fatto che all’epoca non sopportavo il silenzio, non lo sopportavo davvero. Questo perché quando non c’erano rumori esterni i peletti dei miei timpani o che so io producevano un rumore tutto loro, per tenersi in allenamento o cose simili. Era come un ronzio forte, scintillante, metallico, sfavillante che chissà perché mi metteva davvero una fifa blu e mi faceva quasi impazzire quando lo sentivo, come una zanzara dentro l’orecchio a letto in una notte d’estate ti fa quasi impazzire quando la senti. Avevo cominciato a cercare il rumore piú o meno come una falena cerca la luce. Dormivo con la radio accesa, guardavo una quantità incredibile di televisione a tutto volume, tenevo il fidato Walkman della Sony sempre acceso a scuola e ogni volta che giravo a piedi o in bici (quel Walkman della Sony è stato di gran lunga il miglior regalo di Natale che abbia mai ricevuto). Certe volte parlavo perfino da solo quando non avevo altri rumori a disposizione, il che doveva sembrare una bella mattana a chi mi sentiva, e immagino che fossi davvero matto fradicio, ma non come immaginavano loro. Non è che pensassi di essere due persone che possono avere un dialogo, o che sentissi le voci da Venere o cose simili. Sapevo di essere un’unica persona, ma quella persona unica era un soldatino pieno di problemi che non sopportava né la sostanza né le implicazioni del rumore prodotto dall’interno della sua testa.
Fatto sta che tutta questa roba cosí piacevole andava avanti mentre me la cavavo bene e rendevo i miei genitori, peraltro preoccupatissimi e niente affatto contenti, felici dal punto di vista scolastico durante tutto l’anno e l’estate successiva, quando lavoravo per il Building and Ground Department di Exeter potando cespugli, piangendo e vomitando senza farmi notare, e nel frattempo preparavo i bagagli e ricevevo miliardi di dollari in vestiti e apparecchiature elettriche dai miei nonni, pronto a partire per la Brown Univeristy del Rhode Island a settembre. Mr Film, che era piú o meno il mio capo alla «B and G» mi faceva continuamente un indovinello che lui trovava spassosissimo. Diceva: – Di che colore è il mal di pancia? – E vedendo che non rispondevo, diceva: – Brown1! ah, ah, ah! – Lui rideva, io sorridevo, anche dopo la quattrocentomilionesima volta, perché Mr Film nel complesso era un tipo simpatico, e non si era nemmeno arrabbiato la volta che avevo vomitato nel suo furgone. Gli avevo raccontato che mi ero fatto la cicatrice tagliandomi con un coltello alle superiori, che poi in fondo era vero.
Cosí in autunno vado alla Brown University, che si è rivelata del tutto simile alla «P.G.» di Exeter: doveva essere tanto dura ma in realtà non lo era, perciò avevo tutto il tempo per ottenere buoni risultati e sentirmi dire: «Magnifico» continuando allo stesso tempo a essere nevrotico e strano come pochi, tanto che il mio compagno di stanza, un tipo molto simpatico dell’Illinois che scoppiava di salute, aveva comprensibilmente chiesto una singola e qualche settimana dopo se n’era andato lasciandomi una singola enorme tutta per me. Cosí nella mia stanza sono rimasti soltanto il povero sottoscritto e nove miliardi di dollari circa in rumorosissimo materiale elettronico. È stato subito dopo il trasferimento del mio compagno di stanza che è cominciata la Cosa Brutta. La Cosa Brutta è piú o meno il motivo per cui non sono piú sulla Terra. Il dottor Kablumbus mi ha raccontato, dopo che io gli ho raccontato come meglio potevo della cosa Brutta, che la Cosa Brutta è una «grave depressione clinica». Sono sicuro che un dottore della Brown mi avrebbe detto piú o meno la stessa cosa, ma non ho consultato nessun dottore alla Brown, soprattutto perché avevo paura che se avessi aperto bocca in quel contesto sarebbe venuta fuori roba che mi avrebbe fatto finire dritto in un posto come quello dov’ero finito dopo quella stupida, ridicola faccenda del bagno.
Non so davvero se la Cosa Brutta sia davvero depressione. Prima avevo sempre pensato che la depressione fosse come una tristezza davvero profonda, tipo quella che ti prende quando muore il tuo bravo cagnolino, o quando in Bambi uccidono la madre di Bambi. Pensavo che t’imbronciassi un po’ e magari se eri una femmina versavi qualche lacrimuccia dicendo: – Per la miseria, sono davvero depressa, – ma poi vengono gli amici, se ce li hai, a tirarti su il morale e a rimetterti in sesto e poi al mattino è come un colore sbiadito e dopo un paio di giorni chi se lo ricorda piú. La Cosa Brutta – e mi sa che la depressione è questo e nient’altro – è molto diversa, e indescrivibilmente peggio. Mi sa che dovrei dire piú o menoindescrivibilmente, perché nell’ultimo paio d’anni ho sentito le persone piú disparate cercare di descrivere la «vera» depressione. Uno della televisione con lo scilinguagnolo ha detto che secondo certi è come sott’acqua, sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque direzione prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca né libertà di movimento, solo restrizioni e soffocamento, e niente luce. (Non so quanto sia azzeccato dire che è come essere sott’acqua, ma provate a immaginare il momento in cui vi rendete conto, in cui improvvisamente capite che per voi non c’è superficie, che potete nuotare finché vi pare tanto lí dentro ci affogate; immaginate come vi sentireste in quel preciso istante, come Cartesio all’inizio della sua seconda cosa, poi immaginate quella sensazione in tutta la sua piacevolissima intensità soffocante protrarsi per ore, giorni, mesi... forse questo è piú azzeccato). Una poetessa davvero meravigliosa di nome Sylvia Plath, che purtroppo non è piú in vita, diceva che è come stare sotto una campana di vetro a cui hanno risucchiato tutta l’aria, e tu non puoi respirare nemmeno un briciolo di aria fresca (e immaginate il momento in cui i vostri movimenti sono invisibilmente impediti dal vetro e voi capite di essere sotto vetro...) Certi dicono che è come avere sempre davanti e sotto un enorme buco nero senza fondo, un buco nero, nerissimo, con dentro qualche spunzone, magari, e tu fai parte di quel buco, e cadi anche quando rimani dove sei (... magari quando capisci che il buco sei tu, e nient’altro...)
Io non ho uno scilinguagnolo incredibile, ma voglio raccontarvi com’è secondo me la Cosa Brutta. Per me è come una nausea completa, totale, assoluta. Cercherò di spiegarmi meglio. Immaginate di avere una nausea davvero tremenda che parte dallo stomaco. Quasi tutti hanno avuto una nausea davvero tremenda, perciò tutti sanno come ci si sente: è tutt’altro che divertente. OK. OK. Ma quella è una sensazione circoscritta: si accentra grossomodo intorno allo stomaco. Immaginate che tutto il corpo abbia la nausea: i piedi, i grossi muscoli delle gambe, le clavicole, la testa, i capelli, ogni cosa, tutto nauseato come uno stomaco in subbuglio. Poi, se ci riuscite, vi pregherei di immaginare la stessa sensazione ancora piú diffusa e totale. Immaginate che ogni cellula del vostro corpo, ogni singola cellula del vostro corpo stia male come quello stomaco nauseato. E non solo le cellule, ma anche gli e.coli e i lactobacilli, i mitocondri, i corpi basali, tutti con la nausea a ribollire infiammati come larve nel collo, nel cervello, ovunque, dappertutto, in ogni cosa. E tutti con una nausea da morire. Ora immaginate che ogni singolo atomo di ogni singola cellula del corpo abbia quella stessa nausea, una nausea insopportabile. E ogni protone e neutrone di ogni atomo... gonfio e pulsante, malaticcio, nauseato, senza speranza di vomitare per liberarsi da quella sensazione. Ogni elettrone ha la nausea, perde l’equilibrio e sbarella negli orbitali da luna park inondati da un turbinio screziato di gas velenosi gialli e viola, tutto stordito e sbarellante. Quark e neutrini fuori di testa che schizzano nauseati dappertutto, impazziti. Immaginate questo, immaginate una nausea diffusa capillarmente in ogni vostro minimo frammento, perfino nei frammenti dei frammenti. Di modo che la vostra essenza, la vostra... quintessenza è caratterizzata unicamente dalla nausea; voi e la nausea siete, come si dice, «una cosa sola».
Ecco pressappoco cos’è in sostanza la Cosa Brutta. Tutto in voi è nauseato e paradossale. E siccome l’unica conoscenza che si ha del mondo intero passa attraverso le varie parti del corpo – tipo gli organi sensoriali, la mente, ecc. – e siccome queste parti hanno una nausea da morire, il mondo intero che voi percepite, conoscete e abitate vi arriva filtrato da questa brutta nausea e diventa brutto. E tutto diventa brutto in voi, tutto il bello esce dal mondo come l’aria esce da un pallone rotto. Di questo mondo conoscete solo mefitiche puzze di marcio, visioni tristi e paradossali dai lividi colori pastello, suoni aspri o di una tristezza mortale, situazioni insopportabili e indefinite disposte in un continuum senza fine... Idee incredibilmente stupide, disastrose. E succede proprio come quando ti viene la nausea e sotto sotto hai paura che non passerà mai: la Cosa Brutta ti spaventa allo stesso modo, solo peggio, perché la paura stessa è filtrata dalla brutta malattia e diventa piú grande, peggiore e famelica di quando è cominciata. Ti squarcia, si insinua e ti si agita dentro.
Perché la Cosa Brutta attacca non solo te facendoti sentire male e mettendoti fuori uso, ma attacca in special modo, fa sentire male e mette fuori uso proprio le cose che ti servono a combattere la Cosa Brutta, a sentirti magari meglio, a restare vivo. Non è facile capirlo, ma è davvero cosí. Immaginate una malattia davvero dolorosa che, per dire, colpisca le gambe e la gola provocando dolori davvero fortissimi, paralisi e sofferenza di tutte le zone circostanti. Come se non fosse già abbastanza brutta di per sé, questa malattia è anche indefinita; non riuscite a fare niente per contrastarla. Le gambe sono paralizzate e fanno malissimo... ma non riuscite a correre a cercare aiuto per quelle povere gambe, perché quelle gambe vi fanno troppo male per permettervi di correre. La gola vi brucia da morire manco stesse per esplodere... ma non riuscite a chiamare un dottore o a chiedere aiuto, perché la gola vi fa troppo male per riuscirci. È cosí che funziona la Cosa Brutta: è particolarmente brava ad aggredire i vostri meccanismi difensivi. Il modo per combattere o sfuggire la Cosa Brutta sta chiaramente nel pensare in modo diverso, nel ragionare e discutere con voi stessi, giusto per cambiare il vostro modo di percepire, sentire e elaborare le cose. Ma vi serve la mente per farlo, vi servono le cellule cerebrali e i loro bravi atomi, le facoltà mentali e compagnia bella, vi serve il vostro io, ed è proprio quello che la Cosa Brutta ha fatto ammalare troppo perché funzioni a dovere. Ha fatto ammalare proprio quello. Vi ha fatto ammalare in modo da non permettervi di guarire. E voi cominciate a pensare a questa situazione veramente atroce e vi dite: – Mannaggia, come cavolo è riuscita la Cosa Brutta a fare questo? – Ci pensate su, ci pensate davvero bene perché è nel vostro interesse, e poi tutt’a un tratto avete come un’intuizione... la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta! La Cosa Brutta siete voi. Nient’altro: nessuna infezione batteriologica né colpi di spranga o di martello in testa quando eravate piccoli, né scuse d’altro genere; voi siete la malattia. La malattia vi «definisce», specie dopo che è passato qualche tempo. Vi rendete conto di tutto questo. Ed è allora, mi sa, che se avete lo scilinguagnolo vi rendete conto che l’acqua non ha superficie, oppure sbattete il muso contro il vetro della campana rendendovi conto di essere in trappola, oppure guardate il buco nero e vedete che ha la vostra faccia. È in quel preciso istante che la Cosa Brutta vi divora, o meglio, che voi divorate voi stessi. Che vi uccidete. Facciamo tante storie quando chi ha una «grave depressione» si suicida; diciamo: – Per la miseria, dobbiamo fare qualcosa per impedire che si suicidino! – Errore. Perché, vedete, tutte quelle persone a quel punto si sono già uccise, nel senso che conta per davvero. Quando scolano interi armadietti di medicine, schiacciano un pisolino in garage o che so io, si sono già uccisi da un pezzo. Quando «si suicidano» si dimostrano semplicemente coerenti. Danno semplicemente forma esteriore a un fatto la cui sostanza in loro esiste già da molto tempo. Una volta che ti rendi conto di quello che sta succedendo, il fatto dell’autodistruzione esiste sotto tutti gli aspetti pratici. Rimane ben poco da fare in una situazione simile, a parte «formalizzarla», altrimenti, se non è quello che volete, c’è sempre la TEC o un viaggio che dalla Terra vi porta su altro pianeta.
Ma ho detto piú di quanto volevo sulla Cosa Brutta. Ancora adesso, se ci penso un pochino su, diventando introspettivo, la sento tendere la mano verso di me, cercare di incasinarmi gli elettroni. Ma io non sono piú sulla Terra.
Sono riuscito a finire il primo semestre alla Brown University, rimediando pure un premio come studente modello al corso introduttivo di Economia, duecento dollari, che ho subito speso in marijuana, perché fumare marijuana tiene a bada la nausea e non ti fa vomitare. È vero: la danno ai malati di cancro che fanno la chemioterapia, certe volte. Io avevo cominciato a fumarne tantissima durante l’anno di specializzazione alla «P.G.» per non vomitare, e aveva funzionato un casino di volte. Alla nausea dei miei atomi faceva il solletico, però. La Cosa Brutta si faceva certe risate. Ero un soldatino strapieno di problemi alla fine del semestre. Rimpiangevo i giorni felici in cui mi sanguinava la faccia.
A dicembre io e la Cosa Brutta montiamo su un autobus per andare a trascorrere le vacanze natalizie nel New Hampshire. Era tutto molto allegro. Peccato che uscendo da Providence, Rhode Island, l’autista non ha guardato bene prima di svoltare a sinistra e un pickup che veniva da sinistra si è schiantato contro l’autobus, ha sfondato la fiancata anteriore sinistra e ha sbalzato l’autista dal posto di guida spedendolo dove c’erano le scale per salire e scendere dall’autobus, e quello si è rotto il braccio e secondo me pure la gamba e si è fatto un gran brutto taglio alla testa. Cosí ci è toccato fermarci, aspettare l’ambulanza per l’autista e un altro autobus per noi. L’autista era incredibilmente sconvolto. Era sicuro che ci avrebbe rimesso il posto, perché s’era incasinato con quella svolta a sinistra e aveva provocato l’incidente, e anche perché non aveva la cintura di sicurezza – prova ne sia che era stato sbalzato dal posto di guida finendo sulle scale, cosa che avevano visto tutti e che tutti avrebbero detto di aver visto – che è contro la legge piú o meno in tutti gli Stati dell’Unione se sei un autista di autobus. Per poco non si metteva a piangere, e io pure, perché diceva di avere una settantina di figli e che quel lavoro gli serviva davvero, mentre ora l’avrebbero licenziato. Un paio di passeggeri avevano cercato di rasserenarlo e di farlo stare buono, senza nemmeno avvicinarsi, comprensibilmente, al sottoscritto. Eravamo solo io e la Cosa Brutta. Alla fine l’autista dell’autobus è piú o meno svenuto per via delle ossa rotte e del taglio, l’ambulanza è arrivata e gli hanno messo addosso una coperta color ruggine. Dal tramonto è spuntato un altro autobus e anche una specie di dirigente degli autobus, che si è davvero arrabbiato quando alcuni dei passeggeri incredibilmente solerti gli hanno raccontato com’era andata. Sapevo che l’autista probabilmente avrebbe perso il posto, proprio come temeva. Mi dispiaceva in modo incredibile per lui, e naturalmente la Cosa Brutta è stata cosí gentile da filtrare quella tristezza e da peggiorarla un casino. Era strano e irrazionale ma tutt’a un tratto ho sentito fortissimamente che l’autista ero davvero io. Mi sentivo davvero cosí. Perciò mi sentivo come doveva sentirsi lui, ed era orribile. Non solo mi dispiaceva per lui, mi dispiaceva come a lui, o cose simili. Tutto grazie alla Cosa Brutta. A un tratto dovevo andare da qualche parte, davvero in fretta, cosí sono andato dove c’era la barella dell’autista sull’ambulanza aperta e sono entrato a dargli un’occhiata, lí. Aveva un cartellino di identificazione della compagnia dei trasporti con la sua foto, ma si vedeva davvero poco perché era coperto dalla striscia del sangue che gli colava dalla testa. Ho preso il centinaio di dollari che avevo e una bustina di marijuana «sensimilla» e li ho infilati sotto la coperta color ruggine per aiutarlo a sfamare tutti quei figli e a combattere nausea e vomito, poi me ne sono riandato davvero in fretta, ho preso le mie cose e sono salito sull’altro autobus. È stato solo dopo, quanto sarà, una mezz’ora, in notturna, in autostrada, che mi sono reso conto che trovando quella marijuana vicino all’autista avrebbero pensato che magari ce l’aveva fin dall’inzio e l’avrebbero licenziato davvero, e magari spedito pure in prigione. Era come averlo incastrato, ucciso, solo che lui era anche me, ho pensato, e questo confondeva davvero le acque. Era come se avessi ucciso simbolicamente me stesso, perché sentivo che in un senso profondo lui era me. Credo di non essermi mai sentito male come in quel momento, prelievo di midollo a parte, ed era completamente diverso. Il dottor Kablumbus dice che succede cosí quando la Cosa Brutta mi prende davvero per le palle. Parole testuali. Mi dispiace davvero per quello che ho fatto e per quello che la Cosa Brutta ha fatto all’autista dell’autobus. Intendevo davvero sinceramente soltanto aiutarlo, come se lui fosse me. E l’ho come ammazzato, invece.
Sono arrivato a casa e i miei hanno detto: – Ehi, ciao, ti vogliamo bene, complimenti, – e io ho detto: – Ciao, ciao, grazie, grazie –. Non ero esattamente nello «spirito vacanziero», devo confessare, per via della Cosa Brutta, e per via dell’autista dell’autobus, e per via del fatto che eravamo tutti e tre la stessa cosa sotto gli aspetti che contavano.
La cosa estremamente ridicola è successa la vigilia di Natale. È stata stupidissima, ma credo anche quasi inevitabile visto tutto quello che succedeva all’epoca. Si potrebbe semplicemente dire che mi ero già piú o meno ucciso dentro durante il semestre autunnale, e mi ero ucciso simbolicamente rispetto all’autista dell’autobus, e adesso da bravo soldatino dovevo «formalizzare» il tutto, renderlo chiaro, squadrato ed esteriore; dovevo piegare gli angoli e creare angoli d’ospedale. Mentre mamma, papà, le mie sorelle, nonna, nonnino, zio Michael e zia Sally erano di sotto a bere cocktail e ad ascoltare il disco bellissimo e mortalmente triste che parla di un bambino segnato e di tre re la notte di Natale, io mi sono svestito e sono entrato nella vasca piena d’acqua calda tirandomi appresso una cosa come tremila apparecchiature elettriche dentro la vasca. Peccato che a completare la perfetta idiozia dell’intero episodio c’era il fatto che nel mio stato confusionale non avessi oculatamente inserito la spina di quasi tutte le apparecchiature. Solo un paio erano davvero «vive», ma sono bastate a far saltare la corrente in tutta la casa, a fare un gran fracasso e a darmi una scossa niente male, tanto che hanno dovuto portarmi in ospedale per le cure fisiche. Non so se dovrei dirlo, ma la scossa davvero peggiore se la sono beccata i miei organi riproduttivi. Mi sa che erano come in parte fuori dall’acqua, formando una specie di ponte elettrico tra l’acqua, il corpo e l’aria. Fatto sta che la scossa è stata dolorosissima e a quanto dicono le conseguenze si faranno sentire di piú se mai deciderò di mettere su famiglia. Non che la cosa mi preoccupi piú di tanto. La mia famiglia si è preoccupata per quello che è successo, però; erano a dir poco scontenti. Io ero come mezzo svenuto o addormentato, ma ricordo di aver sentito l’acqua come sfrigolare e loro che entravano dicendo: – Santo Iddio, ehi! – Ricordo che se la sono vista brutta perché il bagno era buio pesto, c’ero solo io a fare un po’ di luce. Hanno dovuto tirarmi fuori dalla vasca con grande cautela perché non volevano prendere la scossa anche loro. Li capisco benissimo.
Dopo un paio di giorni d’ospedale è diventato chiaro che ragazzo e organi riproduttivi sarebbero sopravvissuti. Ho fatto il mio piccolo trasloco verticale su al Piano Bianco. Riguardo al Piano Bianco – il Piano del Soldatino Pieno di Problemi – non ho davvero nessuna voglia di addentrarmi in una quantità gigantesca di particolari. Ma alcune cose le dirò. Il Piano Bianco era bianco, ovviamente, ma un bianco non di quelli accecanti, dannosi, come nel reparto ustionati. Era piú un bianco delicato, quasi grigiognolo, molto tenue e lenitivo. Ora che ci penso, quasi tutto quello che c’era al Piano Bianco era delicato, sottotono e... dimesso, come se si sforzassero di non suscitare impressioni grandi o forti negli ospiti – in termini mentali o sensoriali – perché sapevano che ogni singola vera impressione sulle persone che avevano bisogno di andare al Piano Bianco forse sarebbe stata una brutta impressione, una volta filtrata dalla Cosa Brutta.
Il Piano Bianco aveva le pareti di un bianco delicato e la moquette di un marroncino delicato, e le finestre erano come opache e molto spesse. Tutti gli angoli acuminati di cose tipo cassettiere, comodini e porte erano smussati, scartavetrati e levigati, perciò sembrava tutto un po’ strano. Che io sappia nessuno ha mai cercato di uccidersi con l’angolo acuminato di una porta, ma immagino che sia meglio essere pronti a ogni evenienza. Alla luce di questo, ne sono certo, si assicuravano che tutto quello che ti davano da mangiare fosse mangiabile senza forchetta né coltello. Il budino andava per la maggiore al Piano Bianco. Dovevo indossare una certa cosa durante la mia permanenza al Piano Bianco, ma non ero certo legato al letto, a differenza di certi miei colleghi. La cosa che dovevo indossare non era una camicia di forza o cose simili, ma era decisamente piú stretta di una normale vestaglia, e avevo come la sensazione che l’avrebbero stretta ancora di piú se fosse stato nel mio interesse. Quando qualcuno voleva fumare una sigaretta di tabacco, un’infermiera psichiatrica doveva accenderla, perché a nessun ospite del Piano Bianco era consentito avere fiammiferi. Ricordo anche che il Piano Bianco aveva un odore molto piú buono del resto dell’ospedale, femminile e un po’ onirico, come l’etere.
Il dottor Kablumbus voleva sapere che succedeva, e io gliel’ho raccontato in sei minuti circa. Ero un po’ troppo stanco e a pezzi perché all’epoca la Cosa Brutta era super-brutta, ma avevo un discreto scilinguagnolo. Il dottor Kablumbus mi piaceva abbastanza, anche se succhiava di continuo certe caramelle davvero puzzolenti – lo aiutavano a smettere di fumare, a quanto pare – e dava un po’ sui nervi perché cercava di parlare come un ragazzino – dicendo un mucchio di parolacce, ecc. – quando si vedeva benissimo che non era un ragazzino. Era molto comprensivo, però, ed era incredibilmente bello vedere un dottore che non voleva trafficare sempre con i miei organi riproduttivi. Dopo aver inquadrato la situazione, il dottor Kablumbus ha esposto le alternative prima a me, poi a me e ai miei genitori. Dopo che abbiamo scartato tutti la terapia con le convulsioni elettriche, il dottor Kablumbus si è preparato a farmi lasciare la Terra per mezzo degli antidepressivi.
Prima di aggiungere qualcosa sul dottor Kablumbus o sul mio viaggetto, voglio raccontare brevissimamente l’incontro con una collega del Piano Bianco che purtroppo non è piú in vita, non per colpa sua ma per colpa del suo ragazzo che si è messo al volante ubriaco uccidendola in un incidente d’auto. Incontrare e conoscere quella ragazza, che si chiama May, nel ricordo spicca ancora come piú o meno l’ultima cosa bella che mi sia successa sulla Terra. Ho conosciuto May un giorno nella sala della TV per via del fatto che lei aveva la dolcevita al rovescio. Ricordo che davano Simpatiche canaglie e io ho visto, lí, il retro di una testa bionda appartenente a chissà quale sesso perché i capelli erano davvero corti e spettinati. E sotto quella testa c’erano la targhetta con la taglia e la composizione del tessuto e la cucitura bianca indice del fatto che una dolcevita è al rovescio. Cosí ho detto: – Scusa, lo sapevi che hai la dolcevita al rovescio? – E la persona, che era May, si è girata e ha detto: – Sí, lo sapevo –. Quando si è girata non ho potuto fare a meno di notare che purtroppo era molto carina. Non mi ero accorto che era una ragazza carina, altrimenti è quasi sicuro che avrei fatto scena muta. Ho sempre cercato di evitare di parlare con le ragazze carine, perché le ragazze carine hanno un effetto deleterio su di me nel senso che ogni parte del mio cervello si chiude fuorché la parte che dice cose di una stupidità incredibile e la parte consapevole che dico cose di una stupidità incredibile. Ma a quel punto ero ancora troppo stanco e a pezzi per preoccuparmi piú di tanto, e mi stavo preparando a lasciare la Terra, cosí ho detto quello che pensavo, anche se May era carina in modo allarmante. Ho detto: – Perché la porti al rovescio? – riferendomi alla maglia. E May ha detto: – Perché non mi piace che l’etichetta mi graffi il collo –. Io, comprensibilmente, ho detto: – No, dico, perché non tagli l’etichetta? – Al che ricordo che May ha risposto: – Perché non riconoscerei il davanti della maglia. – Eh? – ho detto, facendo lo spiritoso. May ha detto: – Non ha tasche, scritte né altro. Il davanti è uguale e identico al didietro. Con la differenza che il didietro ha l’etichetta. Perciò non li distinguerei –. Cosí ho detto: – No, dico, se il davanti è uguale e identico al didietro, che differenza fa da che parte la indossi? – A quel punto May mi ha guardato serissima per una cosa come undici anni, quindi ha detto: – Per me fa differenza –. Poi ha sfoderato un grosso sorriso di una bellezza mortale e mi ha chiesto con estremo tatto come mi fossi fatto quella cicatrice. Io le ho detto che avevo una fastidiosa etichetta che mi spuntava dalla guancia...
Cosí piú o meno per caso io e May siamo diventati amici, e abbiamo parlato un po’. Lei voleva guadagnarsi da vivere scrivendo storie inventate. Io ho detto che non sapevo fosse possibile. Il suo fidanzato l’ha uccisa con quella sua macchina ubriaca appena dieci giorni fa. Ieri ho cercato di telefonare ai genitori di May solo per dire che mi dispiaceva incredibilmente, ma la segreteria mi ha informato che il signore e la signora Aculpa erano fuori città per un periodo imprecisato. Li capisco, perché sono «fuori città» anch’io.
Il dottor Kablumbus sapeva un casino di cose sulla psicofarmaceutica. Ha detto a me e ai miei genitori che in linea di massima ci sono due tipi di antidepressivi: quelli triciclici e gli inibitori M.A.O. (non ricordo cosa significano esattamente le iniziali, ma qualche idea sull’argomento ce l’avrei). A quanto pare funzionano bene tutti e due, ma il signor Kablumbus ha detto che con gli inibitori M.A.O. non puoi mangiare e bere certe cose, come la birra, e certi tipi di salsiccia. Mia madre aveva paura che me lo dimenticassi e mi ritrovassi magari a mangiare e bere alcune di quelle cose, cosí ci siamo consultati e abbiamo deciso per i triciclici. Secondo il dottor Kablumbus è stata un’ottima scelta.
Come in un lungo viaggio che non ti porta subito a destinazione, con gli antidepressivi devi «salire» per gradi; cioè, cominci con una dosettina minuscola e procedi verso una dose intera per permettere ai livelli del sangue di abituarsi e compagnia bella. Perciò in un certo senso il mio viaggio verso il pianeta Trillafon ha richiesto piú di una settimana. In un altro senso, però, è stato come lasciare la Terra e salire sul pianeta Trillafon fin dalla mattina in cui ho iniziato. La grande differenza fra la Terra e il pianeta Trillafon è, ovviamente, la distanza: il pianeta Trillafon è lontano, lontanissimo. Ma ci sono altre differenze che sono come piú immediate e intrinseche. Secondo me l’aria sul pianeta Trillafon non dev’essere tanto ricca di ossigeno, nutrimento e quelle cose lí, perché ti stanchi molto di piú molto piú in fretta, lí. Ti basta spalare la neve dal marciapiede, correre per prendere l’autobus, fare un paio di tiri a canestro o scalare un’altura da ridiscendere con lo slittino per sentirti molto, molto stanco. Un’altra scocciatura è che il pianeta Trillafon è appena appena inclinato sull’asse, perciò quando guardi il suolo non è tanto in piano; sbanda un po’ a dritta. Ti ci abitui quasi subito, però, come quando trovi la stabilità in barca.
Un’altra cosa è che il pianeta Trillafon è un pianeta molto sonnolento. Devi prendere gli antidepressivi di sera, e ti conviene assicurarti che ci sia un letto nei paraggi, perché dopo averli presi l’ora di andare a letto arriva incredibilmente presto. Anche durante il giorno il residente del pianeta Trillafon è un soldatino assonnato. Assonnato e stanco, ma troppo lontano per essere superpieno di problemi.
Questo non ha niente a che vedere col ridicolissimo incidente della vasca da bagno la vigila di Natale, ma c’è un che di elettrico riguardo al pianeta Trillafon. Su Trillafon non ho il solito problema della testa che trasforma il silenzio in uno sfavillante scintillio, perché l’antidepressivo triciclico – «Tofranil» – fa come un rumore elettrico tutto suo che soffoca completamente lo scintillio. Il nuovo rumore non è che sia piacevolissimo, ma è meglio dei rumori vecchi, che davvero non sopportavo. Il nuovo rumore sul mio pianeta è una specie di trillo elettrico ad alta tensione. Ecco perché da quasi un anno sbaglio puntualmente il nome del mio antidepressivo se non guardo bene la boccetta: l’ho chiamato «Trillafon» anziché «Trofanil», perché «Trillafon» è piú trillante e elettrico, e somiglia piú a com’è abitarci. Ma l’elettricità del pianeta Trillafon non è solo un rumore. Immagino che ad avere lo scilinguagnolo di May direi che «il pianeta Trillafon è caratterizzato semplicemente da uno stile di vita piú elettrico». Il che è vero, piú o meno. Certe volte sul pianeta Trillafon ti si rizzano i peli sulle braccia, senti un gelo correre lungo i grossi muscoli delle gambe e i denti vibrare quando chiudi la bocca, come se fossi sotto un cavo dell’alta tensione, o vicino a un trasformatore. Certe volte scoppietti senza motivo e vedi le cose blu. E perfino il suono della tua voce cerebrale quando pensi pensieri fra te e te sul pianeta Trillafon è diverso da com’era sulla Terra; ora sembra venire come da un altoparlante collegato a te solo da chilometri e chilometri di filo, come se fossi tornato ad ascoltare il vecchio programma radiofonico «Golden Days of Radio».
È difficilissimo perfino leggere sul pianeta Trillafon, ma non è un grande inconveniente, perché tanto ormai non leggo quasi piú, se si esclude il «Newsweek», di cui mi hanno regalato l’abbonamento per il mio compleanno. Ho ventun’anni.
May aveva diciassette anni. Ora certe volte mi prendo come in giro dicendo che dovrei passare a un inibitore M.A.O. Le iniziali di May sono M.A., e ora quando penso a lei divento cosí triste che faccio: – O! – In un certo senso, mi piacerebbe comprensibilmente inibire il «M. A.: O.» Sono sicuro che il dottor Kablumbus converrebbe che è nel mio interesse. Se l’autista dell’autobus che ho piú o meno ucciso avesse le iniziali M.A., ci sarebbe davvero da ridere.
Le comunicazioni tra la Terra e il pianeta Trillafon sono difficili, ma non costano niente, perciò è sicuro che probabilmente telefonerò agli Aculpa per dire quanto mi dispiace per la loro figlia, aggiungendo magari che piú o meno l’amavo.
La grande domanda è se sul pianeta Trillafon ci sia la Cosa Brutta. Non so se ci sia o no. Magari non se la passa troppo bene in un’atmosfera piú rarefatta e meno nutriente. Io non me la passo bene per niente, sotto certi aspetti. A volte, quando non ci penso, penso di essere ormai completamente sfuggito alla Cosa Brutta, e che sarò in grado di condurre una Vita Normale e Produttiva come avvocato o roba del genere qui sul pianeta Trillafon, non appena riuscirò di nuovo a leggere.
Essere lontani aiuta rispetto alla Cosa Brutta.
Solo che è sommamente idiota se si pensa a quello che dicevo prima riguardo al fatto che la Cosa Brutta è davvero
1 Marrone [N.d.T.].
Crollo del ’69
KARRIER
È fantastico. Mi sbaglio sempre. È fantastico.
Chiedete a chi vi pare tranne che al mio agente se non è fantastico. Lui sarà lí col vestito a quadri e i mocassini Weejuns a puntare il binocolo sui sottili cavalli con la gualdrappa di raso che vengono condotti ai box.
Mr Diggs dirà che è fantastico. Tiene il prospetto delle corse in un certo modo. Piega i lati e li accosta, per confrontare le possibilità.
Dirà: Che ne pensi di Rusty Hull nella Quarta, ragazzo?
E io dirò: Vincente, è cosí sicuro che m’annoio pure a dirlo, denaro sonante sul conto che piú ci piace, Mr Diggs.
Lui accosterà i prospetti toccandosi il quadratino di peli sul mento e dirà: E che ne pensi del Puttaniere-Piattoloso siberiano, Karrier? Secondo te il Puttaniere-Piattoloso siberiano, Karrier, ha qualche speranza con la Quarta?
Io dirò: Mr Diggs, signore, non se ne parla. Nel senso di nessuna speranza. Nel senso che il cuore e lo stomaco mi dicono che il Puttaniere-Piattoloso siberiano non ha manco uno straccio di speranza.
Il prospetto gli trema in un certo modo fra le mani mentre dirige il binocolo su un certo cavallo, da qui una minuscola carcassa sopra le zampe.
Ma ne sei sicuro Karrier.
Me lo sento, Mr D. La sensazione è quella, con la pelle tesa e le labbra di velluto. Quella sicurezza da non se ne parla neppure.
LA DONNA CHE PRESTO SARÀ LA SUA AMANTE
Prenderò il braccio di papà e faremo la nostra passeggiata di salute lungo i corridoi albeggianti della Federal Reserve, scandita dal ticchettio dei miei tacchi e dallo scricchiolio della sua sedia, mentre alla finestra orientale il fuoco ingiallisce. Lui dice: Non possiamo vivere cosí, bambina mia. Una nazione intera non sa piú apprezzare il lato buono delle cose. Ogni mattina come prima cosa sento in bocca il potenziale maligno degli umani.
Il lento tic che ha al collo gli spedisce la testa sopra la spalla. Ha smesso di essere fantastico. L’unico splendore che vede è sopra la sua spalla, ormai.
KARRIER
E siccome è fantastico, finisce in modo fantastico, Mr Diggs come sempre avrà riscosso le nostre vincite, saremo in autostrada di ritorno al sud bevendo liquore attinto al mobile bar dei sedili posteriori e tirando noccioline alla nuca piccola e lontana dello chauffeur, imberrettato.
Come sarà nell’arco di un anno, dirà Mr Diggs, ispezionando, spogliando il corpo di una bottiglia: Tira a indovinare, ragazzo. Verserà, soffiando via la schiuma.
Io tirerò a indovinare.
Un anno terribile. Bleah. Che schifo. Bleah. Puah.
Niente male, dirà lui.
Se io lo detesto, per Mr Diggs sarà niente male. Perché mi sbaglio sempre.
QUELLA DONNA
Mio padre, dietro la pappetta sdentata della colazione e il giornale che è la quinta parete della stanza: Guarda qua: secondo questo ragazzo il peso colossale di quella cosa fantastica che è la verità piega la luce intorno all’intera circonferenza del pianeta, consentendo al suo agente di guardarsi la nuca.
La sua testa di girasole si gira di scatto verso il sole. La nuca di papà ha una strana sporgenza frenologica, come se il teschio cercasse di uscire. Il giornale è finito dentro lo yogurt. Un uomo segaligno, oltre il Termine, nel dubbio, la sua sola bellezza ormai le ossa.
MR DIGGS
Non conosco l’autista che ha parlato con il Journal? Vedi un po’ se ’sto anacardo è della misura giusta, autista. Deng! Dritto sulla capoccia. Visto, Karrier? Deng!
KARRIER
Mio padre si sbagliava sempre. Era fantastico.
Lavorava a Wall Street. Era Wall Street. Analizzava il mercato. Si sbagliava sempre. Si sbagliava sempre per conto di una grossa ditta che lo teneva abbarbicato in un ufficio d’angolo con le imposte chiuse e una lampadina nuda. Era il peggiore.
Era il peggiore, il tuo vecchio, mi diranno gli ex analisti di mercato in pensione, ammirati, senza rancore, le facce ritratte e sporgenti, gli occhi rosso lattiginoso, all’anniversario del Crollo.
Io dissentirò.
Era il peggiore, insisteranno loro, scuotendo le criniere, levando bicchieri di sherry sopraffino.
Yadley qui si ricorda della volta che è andato dal tuo vecchio e ha detto: Karrier, ha detto, ha detto: Karrier, hai già esaminato il materiale di questa nuovissima società Eastman Kodak? e il tuo vecchio fa: macché, Yadley. Nel senso di non ha manco un briciolo di speranza. Come dire potenziale di crescita pari a zero spaccato. Ha implorato Yadley, Yadley, t’ha implorato o t’ha implorato? ha detto: Mi devi credere. Fidati di me stavolta. Un uccello morto. Un aborto. Un fallimento. Una mezza tacca. Un uccello morto, che esce a spirale dal cielo. Ti supplico ha detto. Ha detto: Acchiappa Mr Lynch per il bavero. Fai a Mr Merrill una presa di testa se necessario. Non un centesimo in questa spugna secca. Questo ricettacolo di fondi. Me lo urlano le viscere.
Yadley ha tutto fotografato nella mente, dirà.
Era fantastico, diranno.
Ed era davvero fantastico. Si era sbagliato sulla Coca Cola. Il succo d’arancia surgelato. La Ford. La ITT. La CBS. La AT&T. La radio. La Nabisco. La Xerox. Si era incaponito con il Dumont Network; le assi da bucato, la scuola di buone maniere di Calvin Coolidge; la bambola pubblicizzata da Fatty Arbuckle. Un rompighiaccio automatico prodotto a Sag Harbor. Il futuro della pancetta a cubetti. La Teapot Dome Petroleum. La vernice al piombo. Lo strudel; le focaccine da tè; i fratelli Ritz in contrapposizione ai fratelli Marx.
Lui era Wall Street. Gli bastava aprire la bocca e la sua grande ditta faceva il contrario. E si era ingrandita al punto da diventare Wall Street, per qualche tempo. Si affidava a lui. Lui era la sua arma vincente. Ecco cosa c’era di tanto fantastico: si sbagliava sempre.
AMANTE, FIGLIA, DONNA
Cosí quando papà precipita nei dubbi che circondano quest’intera politica fiscale di aggressione economica, opponendo il burro alle armi, e io lo porto dal fidato Billy G., Billy G. gli dice: Non essere cosí ingenuo, papà, riguardo a questa cosa. Alla democrazia e alla libertà di scelta. Non puoi permettere a quelle persone di tenere un’elezione e poi prendere e eleggere qualcosa che significa basta con le elezioni. Puoi farle votare per dire basta al voto? Puoi avallare la loro libertà di parola per intimare il silenzio? Si unisce all’apostolo che intona, portando a termine il pedicure di Billy, il canto gregoriano che ha finito con l’amare:
Quod fervet tanto circum te, Christe, tumultu
Non hoc ira maris, Christe, sed ambitio est
Haec illa ambitio est hoc tanto te rogat ore,
Possit ut ad monitus, Christe, tacere tuos.
Ma papà vacilla. Vorrebbe fidarsi di qualcuno che non sia semplicemente sincero, ma di chi? Hanno tutti ragione dalla loro prospettiva: la Sinistra, Stato, la Destra, Guerra. Noi ridiamo, all’altro capo del tavolo: Puoi votare per dire basta al voto?
KARRIER
Anche se Mr Diggs, in tutta onestà, non sarà d’accordo:
MR DIGGS
La chiave era sbagliare sempre. Karrier, il vecchio di Karrier, sbagliavano sempre. Infallibilmente. Che poi se andiamo a stringere va bene come azzeccarci. Azzeccarci? Ci ho azzeccato? Karrier mi dà una dritta su una determinata cosa, io so per certo che la dritta è sbagliata – Karrier mi dice fondamentalmente a modo suo qual è la cosa azzeccata. Azzeccata? Lui è un mago. È come un cane da punta che punta con la nuca. Perciò chi se ne frega se la Commissione per la Borsa gli ha sbarrato le porte di Wall Street. Noi lo consultiamo su certi nomi davvero giganteschi nel campo dello spettacolo e del gioco d’azzardo: i casinò di Los Angeles, Atlantic City e Las Vegas. Cavalli e levrieri da corsa. Dà delle dritte per stimare il potenziale di certi elementi dello spettacolo, programmi televisivi pilota, certi interpreti, quali star frutteranno quali dividendi in quale anno, quali sceneggiature e canzoni Sfonderanno, con la S maiuscola. Le antenne ci vengono dai politici. Candidati che se ne fregano se lui sta nell’ombra dietro le quinte. Anche industrie dell’energia alternativa. Carbone. Certi enti governativi stranieri. Commercianti di valuta. Là fuori c’è una galassia di mercati per gli errori infallibili. E noi ci buttiamo a capofitto. Il ragazzo è una miniera, date certe premesse. Io continuo solo a farlo felice: lui continua a sbagliarsi.
QUELLA DONNA CHE PLASMERÀ GLI EVENTI
E, alla maniera di uno sinceramente tormentato, papà ha ragione. Di chi fidarsi? Di chiunque abbia quel minimo di distanza critica dalle proprie convinzioni piú profonde da saperla lunga? Ci spremiamo tutti le meningi.
Billy G. nomina Dio, sorseggiando uno sherry. Ma Allen G. si picchietta rabbiosamente con il tovagliolo. Dio? Nel 1969 Dio sta operando su un margine di utile pari a zero, in termini di fiducia. Billy G. torna ad assestarsi in un sorriso paziente sventolandosi con un gesto consumato della mano. Davvero, domanda, un pezzetto di focaccina da tè a forma di nautilo all’angolo della bocca.
Se Allen G. ci ha azzeccato su questa intuizione, questa predizione-del-presente secondo la quale la realtà pubblica dove tutti affittano uno spazio è fondamentalmente testuale, allora Dio, il grande nom-de-plume, è o un sadico o un dislessico. La sua realtà deve fare perno sulle contraddizioni: le linee dritte diventano curve; io sono al tempo stesso soggetto e oggetto; Billy G. è attraente in un modo che non ha niente di attraente; la migliore speranza di immortalità che ha mio padre è morire entro il Termine; io amo e odio mio padre. Bene. Ma allora perché investirci di schemi mentali in cui le contraddizioni sono lacunose o lunatiche, il positivo oltre il limite del negativo? Perché iscriverci alla voce esseri razionali quando la nostra stessa fiducia nell’efficacia dello scrivano richiede un salto a-razionale? Perché investirci di una coazione all’Amore Romantico e dare poi ai nostri genitali l’aspetto che hanno?
Allen G. si sbaglia. Papà è Rovinato da domande comportamentali diventate piú grandi di tutti noi. Gli servono gli aspetti pratici, le direttive. Rimprovera Allen di trastullarsi mentre il Diem si consuma.
Gli serve Qualcuno in Cui Credere. Billy G., che è diventato suo supplice, supplica le volte a botte della Federal Reserve.
Anche se dopo ci rideremo tutti e due su, insieme, separati da metri a colazione, il Journal: nuovo Nietzsche: Dio è Dislessico, mentre papà esamina il prospetto delle corse.
KARRIER
Sono piuttosto infelice. Vivo in un condominio dei quartieri alti che sembra una torre di controllo ed ero sicuro che l’avrei odiato quando Mr Diggs ha versato la caparra. È all’ultimissima moda, in metallo e vetro liberty, e le finestre di vetro e metallo sono altre opere d’arte; mi fanno sentire vuoto, quando non sono al loro interno. Il prezzo però è piú che equo.
Ho la tendenza a incupirmi. Sono sovrappeso e asmatico. Il petto mi cinguetta quando respiro. Le labbra sono sempre umide. Ho una specie di incavo sulla fronte, come se avessi preso una badilata. Ho il retro del cranio sporgente. Sbando e sudo. Ho eiaculazioni retroattive e l’alito cattivo. Mia moglie è una bellissima ragazza che dubito mi ami per davvero. Vedo l’odio dietro il suo sorriso. Dietro ogni massaggio al collo sento neri istinti tenuti a freno.
E il bambino. Non provate nemmeno a chiedermi del bambino grasso e bianco con il piccolo incavo e il vacuo sorriso alla Halloween.
È fantastico sbagliarsi sempre, però. Grazie a Dio mi sono ritrovato Mr D. accanto quella notte su quel ponte. Mi ha detto di avere accostato quando mi ha visto equilibrare il mio peso tra il peso e la corda. Mi ha domandato: Perché, ragazzo, perché. Dammi qua ha detto. E io ho dato là. Sul ponte passavano le macchine. Sono riuscito a vedergli gli occhi, avevano il colore della pelle alla luce della cravatta fosforescente. Quelle cravatte spopolavano. Mi sono fidato di lui. È stata una cosa istintiva. Ho la tendenza a farmi guidare dall’istinto. Mi sono rifiutato anche solo di considerare l’idea di tornare all’ufficio della sua Agenzia con lui. Nella sua macchina gli ho raccontato diverse bugie.
Negli uffici della sua Agenzia Mr Diggs mi ha messo a lungo alla prova.
La Edsel, ragazzo? ha domandato, mangiando con le dita il tonno preso da una scatoletta sulla scrivania in un ufficio vicino ai dock, a due passi dal ponte.
La Edsel metteva in moto i miei istinti.
Come no. Un fenomeno nazionale. Vendi l’intera baracca. Corri a spron battuto dal piú vicino speculatore della Edsel.
E questo giovanotto, Elvis?
Tutto bocca e bacino. Sporco, scuro, buono solo a scopiazzare, con il destino segnato, secco come un chiodo, squattrinato. In stato d’arresto. Accuse di immoralità.
Ha ripulito l’interno della scatoletta con il dito.
Sento cose cosí, ho detto. Mi sembra di sentirle, dentro.
Lui ha guardato la scatoletta di pesce vuota. È il tuo destino? ha detto.
Ho cominciato a rimpiangere di non poter vedere il capestro intrecciato delle luci sul ponte oltre i dock e il Long Island Sound non illuminato. Cercare di seguire le orme di mio padre, ho detto, e non riuscirci. Mancare ogni orma nella neve.
Ho cominciato a non singhiozzare. Ho ripetuto che papà non c’entrava niente, né c’entravano l’immagine sfocata di panciotto da banchiere e visiera da cassiere, la spirale dell’uccello morto sul marciapiede di Manhattan.
’26. Lui ci aveva azzeccato. Aveva supplicato la sua ditta di non investire nelle proprie azioni. Basta cartacce senza valore aveva urlato a colazione. Il mercato corre per pura fame aveva detto. Usando un muffin a mo’ di confusionaria dimostrazione. Fame ovunque, che dà come risultato il Panico Consumistico. Al pari di un animale in fin di vita, corre. Tutt’a un tratto ci sono solo investimenti, accaparramento di profitti, predizioni e niente produzione né intuizioni né arte di arrangiarsi. Lo sento sprofondare dentro se stesso, aveva detto a Mr Lynch. Nel futuro.
Ma la voce si era diffusa, anche con le imposte chiuse. Erano corsi tutti a investire su se stessi.
E invece ci aveva azzeccato, nel ’26. La ditta franò su se stessa. Lynch colò a picco. Merrill prese papà a schiaffi, sotto la lampadina nuda dell’ufficio. Dal corridoio polveroso Yadley l’analista sentí che papà veniva preso a schiaffi, tacciato di essere un fallibile impostore che secondo Merrill aveva causato la rovina.
Il mercato era un’altalena rabbiosa e famelica.
Papà disse di aver guardato fuori dalla finestra con le imposte chiuse mentre i capitani dell’industria e degli investimenti si turavano il naso buttandosi dalle loro tane lungo tutto il canyon grigio di Wall Street. Piovevano bancari in panciotto blu e capitani d’industria. L’aria era satura di sagome ben vestite che cadevano a piombo. Era stato un giorno seminale. Magritte aveva dipinto le sagome che cadevano a piombo. Un certo Rorschach aveva concepito il test di Rorschach nel suo studiolo di analista che affacciava sul marciapiede.
E il marciapiede. Trovammo un biglietto nella tasca del panciotto di papà, spianato ben bene. C’era scritto che per lui l’imbarazzo della fallibilità del fallibile portatore di squilibrio era insostenibile, anche se era sicuro, sotto sotto, che avrebbe trovato un modo per superarlo emotivamente.
MR DIGGS
A parte che ultimamente mi domando per quanto tempo il ragazzo riuscirà a reggerlo, il fatto di sbagliarsi. Ormai va avanti da, quanto sarà, sei anni? E poi questa convinzione errata che il suo vecchio sia morto nel ’29. Figurati se il suo vecchio lo contraddice. Il ragazzo gli domanda: Sei tu quello morto, e che dovrebbe rispondere uno che si sbaglia sempre? Tocca stare molto attenti a cosa si chiede a certi soggetti. Il vecchio è ancora lassú convinto di essere morto stecchito. Gli hanno pure attrezzato una specie di cripta nell’ufficio. Volete andare in una cripta per chiedere un consiglio finanziario? Con l’aggiunta di interiora di pollo, effluvi terrestri, e magari un goccetto di vino? In che anno siamo?
La faccenda sta diventando meno fantastica, mi sa tanto.
KARRIER
Parlo spesso e volentieri con lo spirito resistente e inestinguibile di papà. Sono piú legato a lui che a chiunque altro. Andiamo a trovare mamma al cimitero. Lui mi dà consigli su Mr Diggs, che io accetto, visto che sono sbagliati. La faccenda butta sullo spirituale, sull’onirico, a un passo dalla tomba.
La faccenda, a dire il vero, è – oltre che tuttora fantastica, naturalmente – onirica. Ogni mattina mi sveglio con in bocca un sapore maligno che va sputato, e mi ritrovo faccia a faccia con il sorriso sorridente di mia moglie e, al di là, le sbarre della culla. E ora ogni mattina mi sembra di preservare questa oniricità di tipo spirituale da una specie di semidisastro.
Al lavoro la faccenda somiglia anche al mutismo di un sogno. All’incapacità di parlare quando le cose da dire sono cosí importanti da diventare un impedimento. Mi sembra di non parlare mai, ora.
CHE LO AMERÀ
Sto per salire su un treno. Washington D.C. si ritrarrà, facendo ciuff ciuff. Il West Virginia sarà lurido e congestionato, la Pennsylvania rigogliosa e olandese, Philadelphia un lume contro il suo ombrello di fuliggine.
Il Bronx sarà riarso, lunare, scabro, recessivo. Quando scenderò sarà pomeriggio, autunno, il sole un minuzzolo sanguinolento oltre il cielo che osserverà riarso. Le strade non avranno nulla dei canyon. La carta svolazza nei tombini col soffice sincronismo delle colombe. Il muso di un furgone porta uno pneumatico di scorta a mo’ di scudo.
Vedo tutto questo.
Prenderò un taxi. L’autista sarà uno di quei tassisti newyorkesi, nati oltre il tempo, che bloccano le serrature e si mettono a chiacchierare. Scandirà ogni sillaba di interesting e pronuncerà especially, expecially. Chiederò di portarmi al quartiere finanziario, termine che nella lingua dei tassisti-senza-tempo-di-New-York, sembra significare: – Mi dica il suo parere su ogni problema che l’uomo medio si trova ad affrontare, facendo tutti i riferimenti possibili alla sua vita e alla sua esperienza personale.
Restringo la richiesta a Wall Street. Ma siamo a Cuba, al Muro di Berlino, e dubito di essere arrivata.
KARRIER
Mi sembra di essere seguito. Mi sembra che sia la ragazza del taxi. Ovunque vado mi ritrovo dietro quel taxi. Il tassista ha la faccia a forma d’asino, porta il berretto regolamentare e parla di continuo nello specchietto alla ragazza eventuale, gesticolando con la mano sinistra. Voglio dirlo a Mr Diggs cosí lui mi assicurerà che sbaglio.
Sono quasi sicuro che sia una ragazza.
Mi segue anche ovunque vado a piedi, con gli occhiali da sole che fanno tanto Jackie O. Cammina lentamente, ma non si apposta né si finge minimamente interessata alle vetrine quando mi giro nel tentativo di affrontarla, nell’eventualità che mi stia alle calcagna.
Quando a me sembra di guardare, lei mi guarda e sorride, masticandosi le labbra. È facile sorridere e masticarsi le labbra allo stesso tempo. Io non ci ho mai provato, ma la ragazza e inseguitrice eventuale si mastica le labbra in un modo che trovo significativo, sembra il modo che ha un elefante di masticare le foglie: lentissimo, totalmente centrato all’interno. Mi ricorda un’elefantessa magra, carina e con gli occhiali da sole che pilucca delicatamente il cibo da un ramo incentrandosi all’interno della bocca, quando sorride accanto alla vetrina. C’è una specie di grazia lenta, elefantesca, inevitabile in quel suo possibile modo di seguirmi. Non ne sono sicuro. E mi piace, in un certo senso.
MR DIGGS
A parte che ora bisogna stare attenti a quello che si chiede al ragazzo. Tutt’a un tratto ci vuole un quadro base del tipo sí-o-no. Ci vuole un quadro che ti permetta di dire: Karrier, ho questa alternativa qui, oppure quell’altra alternativa lí, non posso scegliere altro. 50 e 50 dici. A quel punto se puoi dargli due alternative lui stroncherà quella giusta implorandoti di scegliere l’altra. Ti mostrerà quello che vuoi indicando dalla parte opposta.
Però sí devo ammettere che si prospettano possibili guai sulle alternative piú ampie offerte dal mercato che diventano piú ampie e numerose ogni giorno che passa. La cosa rischia di diventare fuorviante ora. Ora se chiedi al ragazzo quanto fa 2 + 2, lui ti risponderà tutto fuorché 4. Perciò OK, non mi fraintendete, non è un oracolo che vado cercando, lui si sbaglia ancora. Ma: è infallibile? Perché si tratta di arrivare esattamente a 4 a partire magari da 6, o da 19, o da 3000, o da tutte-le-risposte-fuorché-4 che ti darà sempre ora. Capito? Mica è tanto fantastico, ora. Prima lui sapeva dare un nome al tutto-fuorché, sapeva dire tutto-fuorché 4, Mr Diggs, basta che si tiene alla larga dal 4. Ora magari dice 6, o 19. Ora può dire tutto fuorché 4, ma non dice Tutto Fuorché 4.
Gli sta prendendo la paura, oppure sta alzando la cresta. Si ribella alle reclusioni, le protezioni, le imposte chiuse e la pietra arenaria della Terza Strada. Vuole le onde, una famiglia. Dice di voler fare qualcosa di piú che limitarsi a interpretare male quello che c’è oltre la finestra. Va maneggiato con cura. Va manovrato, ora, come una cosa che vuoi pensarci prima di puntarla in una precisa direzione.
Poi zitti e mosca ma vivo nel terrore che un bel giorno qualcuno faccia perdere la fiducia al ragazzo. Sapendo che si sbaglia sempre. Perché se ci crede, se dice mi sbaglio sempre, allora non c’è piú verso di farlo sbagliare infallibilmente. Giusto? Avremmo chiuso. Per lui sarebbe la fine. Sarebbe pari pari la storia del suo vecchio. E L. Dempsey Diggs tornerebbe dritto ai fumetti porno, alle ballerine sado-maso e al pesce in scatola.
LA DONNA DEI SOGNI DI KARRIER
E quando finalmente attraverso, mi apposto e lo ritrovo sul mio cammino, in cima alla strada, quando lo vedo, al tavolo pieghevole, in ufficio, non vedo lui: al bagliore spoglio della lampadina vedo una specie di embrione, raggrinzito e rosa cervice, che galleggia, i pugni contro il viso, a testa in giú in un amnio di sporca luce tungstenica e di pulito errore danzante. Sento, dentro di me, che ciò che è stato detto è vero. Porgo i saluti di papà, accenno a quello che è stato detto lungo tutta la costa, dai cinodromi in Florida ai promotori di musica britannica a Boston.
Mi accomodo sulla sedia pieghevole e mi apro a lui, cosa che si rende necessaria. Perché papà, oltre il Termine, sta morendo dal dubbio.
Esprimo la mia pace.
KARRIER
I suoi capezzoli – mi rende nervoso sapere che è stata lei a pedinarmi, dunque ci avevo azzeccato, anche sul fatto che è una ragazza, con gli arrapanti occhiali neri alla Jackie, è una ragazza perché mentre si spoglia coi modi spicci di una bambina i capezzoli sembrano come esploderle dai seni. (Ha il seno). Capitombolano fuori, davvero, come da quelle cose nel Giorno del Ringraziamento. Una... cornucopia di capezzoli.
UNA DONNA CHE HA IL PADRE VIVO, PER AMORE DEL QUALE AMERÀ KARRIER, CONSENTENDOGLI DI PARTECIPARE AGLI EVENTI, TRAMITE LEI
Aperta, vedo quello che vede lui, mentre fa avanti e indietro con il Webster’s C’s. Ecco cosce da pin-up, la voluta di una pancia nutrita di burro. Un aspide di capelli nell’incavo di ciascuna tempia. Occhi senza occhiali che rompono quello che vedono.
È vero quello che l’autista, lo scrittore e Allen G. dicono di te? È fantastica la realtà, per te?
KARRIER
I capezzoli dei suoi seni sembrano puntare, alla maniera dello zio Sam, ovunque io mi trovi. Lei continua a schermare le pudende e a guardare le imposte aperte. Forse aspetta che io le chiuda. Non chiudo mai le imposte, non sarebbe giusto.
Faccio avanti e indietro davanti alla potente ragazza del governo che probabilmente legge di me sui giornali, mi segue e si mastica delicatamente le labbra, svestita. Mi sorge il dubbio che l’abbia mandata Mr Diggs. Mi tocco il retro del cranio, che sporge.
MISS M. LYNCH, FIGLIA DEL PRIMO PRESIDENTE DELLA FEDERAL RESERVE BANK DEGLI STATI UNITI, OTTOBRE ’69
Sono costretta a ridere vedendolo cosí umidiccio, intimidito dalle donne, la mano sull’incavo della fronte mentre fa avanti e indietro rifiutandosi di guardare con la ferma avversione del Guardone Nato.
Gli domando se ha mai ricevuto proposte in precedenza.
Dio santo, dice, nervoso oltre ogni dire, è la porta quella che vedo laggiú?
Ma la parte di lui su cui ha abbassato gli occhi conosce la verità. Questo non è un bugiardo nato.
KARRIER
Se ci tengono tanto a fidarsi di me, si fidassero. Che succede quando la sua figlia nuda, capezzoluta e masticante fa ruotare gli occhiali intorno a un dito dall’unghia rosa chiedendoti se è fantastico sbagliarsi sempre: ti vedi come lei non può vederti. Gli occhi sulle cosce lucide promettono il conseguimento di cose fantastiche, una rosa dei venti di alternative. Lei ha negli occhi tremiti sismici, strali di infusione monetaria. Mi vede come un uomo vede un’arma. In attesa, nuda, di promettere che cosa fare.
DIGGS
Il resto lo so. Risparmiatemi tutte le stronzate lassiste sui cicli finanziari. Perché in fin dei conti chi ha posto al vecchio la domanda che ha permesso di prendere in pugno la faccenda? Nemmeno lui negherebbe di trovare la faccenda fantastica.
KARRIER
È fantastico. È come una cosa che sento. Lo ammetto.
Ordine e fluttuazione a Northampton
Barry Dingle, fornitore strabico di germogli di fagiolo, nutre per Myrnaloy Trask, fotocopista e reggente della piú autorevole bacheca di annunci al «Collective Copy» nel centro di Northampton, un amore smodato.
Myrnaloy Trask, riproduttrice provetta, nubile, vegetariana, figlia dei fiori un filino sfiorita, responsabile e curatrice di «Annunci e risposte» al mozzo comunicativo tre metri per tre di una vertiginosa ruota di esteti sinistrorsi a basso contenuto di sodio, donna politicamente corretta, attivista nelle relative cause, sciatta ma non priva di sensualità, indossatrice indefessa di gonnelloni lisi e calzettoni di lana, sessualmente problematica, con trascorsi sessuali ambigui, padrona di Nixon, una setter da riporto spettacolarmente incontinente cosí chiamata dall’amico Don Megala per l’infrangibile abitudine di cacare dove mangia: Myrnaloy ha occhi soltanto per Don Megala: Don Megala, progressista di mezz’età, aspirante sbandato, fabbricante di dolcimele antichizzati per vocazione, studente professionista per elezione, frequentatore assiduo di sale laurea, allo sbando, con frazioni di dottorato in ogni cosa, dalla fonetica celtica alla sociobiologia dei fluidi, prese alla University of Massachusetts di Amherst, attualmente impegnato nella sua settima e potenzialmente piú sagace dissertazione incompiuta, uno studio esaustivo della necrofilia edipica sublimata di Stephen Dedalus in relazione a Mrs D. nell’Ulisse, saggio provvisoriamente intitolato: «La modalità ineluttabile dell’ineluttabilmente modale».
Ai suddetti dati sulla Trask si aggiunga il fatto che, nonostante «L’integrale, bottega del mangiar sano», negozio in franchising impeccabilmente diretto, si trovi proprio accanto al «Collective Copy» sulla Great Awakening Avenue, arteria principale di Northampton, Myrnaloy indirizza le sue esigenze nutritive verso «Cose buone da mangiare, Ltd.», concorrente fuori mano con la segatura sul pavimento il cui proprietario, tale Adam Baum, è grande amico di Megala, e si aggiunga anche che «L’integrale» dispone di una sua fotocopiatrice, e la situazione narrativa messa a fuoco è la seguente: Myrnaloy Trask sa a malapena dell’esistenza di Barry Dingle, nel negozio accanto.
Per Barry Dingle, invece, l’amore per Myrnaloy Trask è diventato il campanello emotivo che domina la sua tranquilla esistenza, la condizione di un cuore ormai guidato dalle fluttuazioni, una cosa che per Dingle è vicina e intima almeno quanto Myrnaloy è otticamente piú che mai distante o irreale.
Sospendete l’incredulità e credete che l’amore divorante e appassionato per Myrnaloy Trask di fatto ha assunto le sembianze di una piccola presenza omuncoloide dentro Barry Dingle, un io formato bambola a sé stante, dotato del potere di un muto linguaggio e di esplicite mire all’autonomia di azione. L’amore di Barry Dingle si considera il catalizzatore capace di trasformare Barry Dingle da carica neutra a carica positiva nella delicata equazione della vita. Si considera dotato del potere di rifare, riformare, ricostruire Barry Dingle. Di fatto – perché qui è di fatti che si tratta – l’amore di Barry Dingle per Myrnaloy Trask vuole in senso assoluto essere Barry Dingle, e di recente ha avviato una virulenta campagna per assumere il controllo della vita di Dingle, per distogliere e perfino disgiungere Dingle dalla settennale etichetta di direttore dell’«Integrale», da una tendenza alla passività e alla muta paura acquisita a caro prezzo: in parole povere, per coloro che lo conoscessero, dalla dinglitudine stessa di Barry Dingle.
Si può fissare la nascita dell’amore di Barry Dingle per Myrnaloy Trask grossomodo in un presente di circa due anni prima, quando «L’integrale», come tutta l’industria del cibo salutare, si affanna a sfruttare senza ritegno l’entusiasmo crescente del consumatore americano per la crusca. Il preciso istante vecchio di due anni in cui gli occhi strabici, il cuore sano, il cervello modesto e i trascorsi mansueti di Barry Dingle hanno coronato il bisogno di intersecarsi nel punto della scelta di un oggetto può essere fatto risalire alle 16:30 del 15 giugno 1981 quando Dingle, allestendo con maestria un’allettante esposizione di muffin alla crusca e noci sugli scaffali in alluminio riciclato della vetrina dell’«Integrale», si ritrova a fissare, come solo gli strabici sanno fare, il finestrino nerofumo di un autobus della Public Transit Authority di Northampton, bloccato nella strada di fronte da uno di quegli odiosi semafori di Northampton perennemente rossi. Nel sole che si riverbera dal vetro terra di Siena c’è la muta immagine riflessa di Myrnaloy Trask, del negozio accanto, fuori dal «Collective Copy», in gonnellone e grembiule da fotocopista, che passa al vaglio con fare da curatrice la congerie di foglietti volanti e inserzioni scritte a mano sulla bacheca degli annunci pubblici del «C.C.», pronta a eliminare quelli non pertinenti, non progressisti, irrisolti.
Nel vedere e nel provare qualcosa che somigli a ciò che Barry Dingle prova mentre fissa a bocca aperta da dietro gli occhiali e da dietro la vetrina del negozio il vetro che riflette oscuramente dell’autobus impantanato, lo studioso del fenomeno Barry Dingle deve provarsi a immaginare l’inimmaginabile ricchezza, portata, promessa dei bollettini comunitari di fronte ai quali Myrnaloy si pone come selezionatrice e sentinella, una bacheca di svolazzanti annunci estrosi, sfregi all’Establishment, presentazioni – richieste di attenzione da parte di gruppi di sostegno delle lesbiche cifotiche, bar maoisti, lotti di orti biologici in affitto, dentisti che deprecano mercurio e alluminio, partiti politici dall’orientamento oscuro con nomi piú lunghi delle liste dei candidati, insegnanti di sitar, telefoni amici per anoressici, diffusori orientali e mediorientali della coscienza spirituale, telefoni amici per bulimici, medici che curano con cristalli e grano, troupe di ballerini interpretativi di tip tap, massaggiatori olistici, agopuntori, agopuntori chiropati, mimi marxisti che hanno ricavato una pantomima dal Kapital, dattilografe, medium, specialisti in nutrizionismo, compagnie teatrali che rappresentano solo Brecht, riviste letterarie della Pioneer Valley con diffusione a due cifre, e avanti di questo passo – un aggeggio enorme, piatto, tempestato di graffette e puntine da disegno, con una speciale tenda del «Collective Copy» a proteggerlo dalle apatiche vicissitudini delle condizioni atmosferiche del New England. La bacheca è il ganglio avanguardista della zona, una calamita che con forza centripeta attira dal centro città gli ioni diffratti della vasta notte organizzativa di Northampton, che ogni mattina rampolla rinnovate, rutilanti rivendicazioni di esistenza e efficacia, curate, ordinate, setacciate nel tardo pomeriggio da Myrnaloy Trask che, al momento, riflessa nello scudo grigiastro del vetro dell’autobus, col vento di giugno a tracciarle serpenti tra i capelli, un dito dall’unghia mangiucchiata su uno scintillante volantino di legittimità e valore discutibili, sta lí a decidere se quelle parole abbiano il diritto di esistere; e in questo istante, alle 16:30 del 15 giugno 1981, solleva dietro di sé la gamba sinistra – sul finestrino dell’autobus una distante gamba destra – la piega all’altezza del ginocchio chiaro per favorire l’ascesa della caviglia, tira su un calzettone di lana a fasce orizzontali facendolo aderire bene al polpaccio bianco; e il movimento, quel delicato, inconsapevole sollevare la tozza caviglia, è cosí pudibondo – finisce col ricordare Sandra Dee che solleva con fare pudibondo il robusto polpaccio mentre, nei panni di Gidget, bacia giovanotti emmetropi intercambiabili al culmine di tutti gli intercambiabili film di Gidget che tanto hanno influenzato l’infanzia di Barry Dingle – un movimento cosí giovane, stanco, inconsapevole, triste, giusto, naturale, riflesso, distante, sexy senza essere sexy, di un erotismo sporcaccione...
... cosí e via dicendo, in parole povere, che dalla rifrazione del finestrino dell’autobus e da dietro la vetrina dell’«Integrale» e gli occhiali assai angolati e spessi un dito di Dingle, la parallasse dell’immagine della gamba si lacera, squarciando il senso dell’io e del luogo di Dingle, sprofondando con crepitio d’ozono sessuale dentro la superficie immobile della stagnante pozzanghera ad altezza caviglie che in questo momento caratterizza la dinglitudine di Dingle; e grazie alle miracolose manipolazioni di ontemi umani primari troppo primari e troppo umani per prenderli anche solo in considerazione, probabilmente, partorisce: dal limo rappreso della mancanza d’interesse al centro di Barry Dingle emerge lo zigote salamandrico di una robusta creatura animata, una vita, lo smodato amore omuncoloide di Barry Dingle, concepito dall’epifania rifratta incredibilmente distante di Myrnaloy Trask, pudibonda con quel calzettone ora non piú calato, una Myrnaloy inconsapevole come il carbonio stesso di aver messo in atto la produzione della vita grazie al suo ruolo nell’interazione di forze che probabilmente trascendono la comprensione di tutte le cose e le persone coinvolte.
Northampton si trova sulla frangia settentrionale della Pioneer Valley del Massachusetts, al margine orientale delle Berkshire Mountains. A sud ci sono Amherst, Springfield e Hartford CT. Annessa nel 1698, Northampton è l’ottavo centro urbano dello Stato quanto ad anzianità. È patria dello Smith College for Women. La chiesa congregazionalista del college, tuttora edificata solo in parte, tra il 1711 e il 1717 vide il dentista/teologo Solomon Stoddard tenere le sue geremiadi sul Grande Risveglio in cui il reverendo prediceva la fredda e imminente fine del mondo, indicando tale fine come una specie di lugubre stasi entropica già preannunciata, tra gli altri portenti, da: malnutrizione con conseguente decadenza morale e dentale; aumento dell’infertilità nella donna moderna; ascesa del romanzo; Grande Risveglio stesso.
La città acquisí una preminenza economica sul finire del Settecento, quando si liberò altro spazio per lo sviluppo e gli scambi commerciali. A fare spazio per lo sviluppo e gli scambi commerciali in tutta la Pioneer Valley fu il comandante britannico Lord Jeffrey Amherst, che nel 1783-1784 riportò una significativa vittoria sull’infida popolazione nativa che si spacciava per «amante della pace» regalando alle sue tribú coperte precedentemente infettate ben bene con il vaiolo.
Oggi Northampton vanta il secondo posto dell’intera nazione quanto a omosessuali, calcolato su base pro capite, merito che ha fatto guadagnare alla città la definizione di «San Francisco dell’est». Vanta anche il sesto posto dell’intera nazione quanto a senzatetto, di nuovo pro capite, un’infinità di capiti che ogni inverno si raggruppano intorno allo sfarfallio sbrindellato di un’infinità di fuochi accesi nei bidoni dell’immondizia. Ma vanto superiore a tutti è la piú bassa percentuale di repubblicani tesserati dell’intera nazione con un ulteriore fiore all’occhiello: un totale pari a zero assoluto entro i confini delle aziende1.
Fatto: certi sventurati esistono come giustificazione vivente alle fobie tipiche delle madri. Barry Dingle è tra questi. La sua infanzia, la sua intera esistenza è oscuramente condizionata dall’incapacità della signora Dingle di fare una sola cosa scorretta. Gli esempi costellano tutta la storia del poveretto. La piú piccola trasgressione prima di cena guasta l’appetito del piccolo Barry. La piú breve esposizione delle scarpette senza para di gomma alla pioggia o alla neve assicura, con certezza matematica, un malanno. Il piú smussato degli oggetti affilati ferisce, i piú innocui giochi all’aperto danneggiano, la piú infinitesimale disattenzione all’igiene orale vede l’oscuro fiorire al rallentatore di una carie istantanea.
Il Barry Dingle che detesta bere il latte, lo evita a ogni costo, non cresce grande e robusto come la sorella, un prodigio del campo da hockey.
Altro fatto: certe persone, specie le madri, col tempo finiscono per assomigliare sempre piú alle loro automobili. La signora Dingle è fuori moda, rumorosa, ha la carrozzeria arrugginita e tende a emettere fumi; è spaziosa e va piano e ha un raggio di sterzata limitato; ma è ideale per il trasporto di molti bagagli, e i consumi sono da favola.
Immaginatela, dunque, supplicare il piccolo Barry Dingle di non incrociare mai e poi mai gli occhietti. Crede, con la completa convinzione della madre fobica, che il bambino che incrocia gli occhi resterà cosí per sempre. Blandisce, intima; la manovra di indottrinamento è ampia, lenta e irresistibile come la station wagon dei Dingle. L’orientamento degli occhi diventa per il piccolo Dingle oggetto di sinistra malia. Sogna, nella parte oscura della notte, che gli occhi si incrocino per sbaglio e che le loro strade non divergeranno mai piú. Evita di osservare oggetti che non siano stabili. Resiste alla tentazione naturale nei bambini di guardarsi il naso. Con la signora Dingle a piantonare le loro rispettive nevrosi, Dingle ha a cuore la nitida binocularità della sua vista come fosse una biglia che non sbaglia un colpo. Resiste a quindici anni di deliziose tentazioni senza un fremito retinico.
Fatto da temere: la ribellione del giovane timorato, per quanto momentanea, è cosa che va temuta. Il 15 giugno 1961 a Troy, nello stato di New York, furioso per l’imposizione di una sanzione domestica dimenticata un istante dopo, Barry Dingle si piazza di fronte alla madre nella calda cucina dei Dingle con le piastrelle a scacchi e cede alla terrificante, meravigliosa tentazione della trasgressione suprema alla legge di natura e di madre. L’incrocio è una delizia; gli occhi corrono l’uno verso l’altro con il dolce sollievo della catarsi a lungo procrastinata. Due signore Dingle urlano levando quattro braccia al cielo, invocando un’intercessione che eviti l’inevitabile...
Un Barry strabico viene trascinato da uno specialista all’altro. Come da lacrimose previsioni della signora Dingle, costoro nulla possono. Per sei mesi binari, pieni di verità e smentite, Dingle sterza, sbarella e sbatte procedendo lungo il raddoppiato sistema di peccato e punizione di cui è lui stesso artefice. Alla fine, a dicembre, a Buffalo, un ottico tecnologicamente all’avanguardia fornisce a Dingle un complesso paio di occhiali – lenti spesse un dito e angolate che catturano e riorganizzano la disordinata doppiezza delle cose in un’unità che si fonde in un punto messo a fuoco vari metri davanti all’apparato compromesso di Barry. Il sollievo è ottenuto a caro prezzo: gli occhiali funzionano, uniscono, ma ora al Barry occhialuto gli oggetti sembrano due volte piú lontani di quanto in realtà non siano. Piú piccoli, piú distanti. Perciò per la bellezza di vent’anni Dingle ha scelto in ogni istante tra la doppiezza e la distanza, tra il fatto che per lui ci sia esattamente il doppio o esattamente la metà di quanto esiste nella realtà.
Il punto è che ingrediente chiave del magnetismo che Myrnaloy esercita su Barry Dingle, oltre che costante irriducibile nella mezza equazione sensoria la cui somma dà l’amore smodato che anche in questo istante agisce al fine di controllare il presente e il futuro di Barry Dingle, è il fatto che Myrnaloy deve sempre rimanere o fondamentalmente distante da Dingle, oppure raddoppiata, e perciò irreale, per lui. Nel senso che la «vera» Myrnaloy Trask per Dingle non è nemmeno un’eventualità: lui è nella posizione (non indegna d’invidia?) di chi è in grado di volere senza l’inquietante alternativa di essere davvero mai in grado di avere. Da qui un romanticismo classico, quasi classicamente statico, quale fondamento, elemento primario, requisito indispensabile dell’esperienza stessa di essere B. Dingle.
Fatto aggiuntivo: la signora Dingle predice, molto tempo prima, sorseggiando un vermouth, che un giorno l’amore renderà Barry Dingle mostruosamente infelice. Si è avverato anche questo. Dingle è, per cosí dire, fuori di sé, in uno stato di totale fluttuazione emotiva che rende alto e basso, bene e male indistinguibili quanto destra e sinistra. Qui, però, si rende necessario distinguere tra la felicità di Barry Dingle e la felicità del suo amore omuncoloide interno. L’amore smodato di Barry Dingle è di per sé felice come una pasqua. Prospera, cresce, prende le mosse dall’esistenza di un telos che è al tempo stesso nel negozio accanto e a distanza di orizzonte, al tempo stesso realmente uno e apparentemente due... in parole povere, un oggetto d’amore investito di tutte le ambiguità flesse che rendono possibile una Storia d’Amore.
Un ultimo fatto, però: l’amore di Barry Dingle è pur sempre un amore umano. Con l’illogicità che caratterizza tutti gli omuncoloidi emotivi autonomi ma inumati, l’amore smodato di Dingle è posseduto dal desiderio di raggiungere quello stesso oggetto di amore la cui fondamentale irraggiungibilità è pane, pena e anima di quell’amore. È per natura insoddisfatto; e tale insoddisfazione, che attraversa l’orbita ermeneutica dell’illogicità amorosa, è la sua vita e la sua missione. Ha bisogno che Barry Dingle si appropri di Myrnaloy Trask, che la possieda, la usi e la racchiuda. Cova nel suo cuore di bambola il desiderio di una nuova, robusta corazza per Dingle, simulacro esterno di una smodata forza interna. Immagina Dingle conquistare il cuore di Myrnaloy e forgiare dentro di lei una sua omuncoloide dai polpacci pudibondi, un amore per Barry Dingle che si fonderà, nell’unione tra Dingle e Trask, con gli omuncoloidi stessi rendendoli completi (cioè non piú animati, dentro). Sfera armillare emotiva genuinamente umana, la vita dell’amore smodato di Dingle arranca di continuo verso la morte che la vita dell’amore ama.
Pensala in questi termini, Dingle, dice l’amore di Dingle mentre Dingle fa l’inventario delle tisane un pomeriggio di maggio del 1983. Pensa al tuo amore come a una creatura per natura incompleta, che persegue qualcosa. Io sono nato dentro di te come mezzo amore. Il mio fine è l’unità che mi è negata per definizione.
Dingle tace davanti al ginseng e alla camomilla.
L’omuncoloide batte pazientemente il piede. Il punto, dice, è che devo prestar fede alla mia natura, proprio come te. Una natura che mi impone di passare il mio tempo, e perciò il nostro tempo, a perseguire l’altra mia metà battendomi per lei. Puoi opporti e sbuffare finché vuoi, tanto è cosí. Pensa a me come a un cavaliere, a te come al mio drago. E viceversa. I tormenti di uno sono quelli dell’altro, ma sono anche la nostra salvezza.
Salvezza? dice Dingle. Drago?
Tu hai fatto nascere un amore in Myrnaloy Trask; lei dà forma a un suo mezzo amore omuncoloide, ricurvo, gentile, con la faccia rotonda, gli occhi di bambola che si aprono al solo tirare una corda del cuore, concavo dove io sono convesso. Tu fai questo; Myrnaloy partorisce; io e il suo mezzo amore ci mettiamo insieme; io ti lascio in pace. Ne usciamo tutti vincitori. Verstehen-Sie?
E il problema della punta dei piedi? bisbiglia Dingle, mordendosi il labbro screpolato.
Le punte dei tuoi piedi tornano di proprietà della tua psiche, dice l’amore di Dingle, facendo avvertire la propria presenza con una fitta scherzosa a una delle dita arrossate di Dingle.
Il fatto della questione risalente al maggio ’83 è che l’amore di Dingle ha deciso, all’incirca un mese e mezzo prima, di usare le maniere psichiche forti. È riuscito a consolidare la sua autorità su Barry Dingle concentrando l’attenzione e l’influsso sulle parti piú vulnerabili di Dingle. Parti che si collocano a sud perfino dei pendenti punti deboli piú sensibili di quasi tutte le armature maschili. Parliamo delle torturate unghie incarnite di Barry Dingle. (Vale forse la pena notare che la signora Dingle era ed è una fanatica della cura dei piedi). L’amore di Barry Dingle sta usando i calchi curvi delle unghie di Dingle, uniti al tenero complesso genital-emotivo che ha dato origine allo smodato omuncoloide, per costringere un Dingle intrinsecamente passivo a una decisa azione romantica.
L’amore ha trasformato l’ordine della vita di Barry Dingle in fluttuazione; ora Dingle è in guerra con se stesso; diviso; scismato; irreversibilmente ferito, dietro le linee.
L’accondiscendente e strabico Barry, trentacinque anni, portatore perenne di sandali di cuoio, pantaloni a zampa d’elefante, poncho centroamericano, alto di fronte, lungo di incisivi, spesso di occhiali, possiede 2 (due) piedi al momento afflitti dal regime di rinforzo negativo imposto dal suo amore smodato. Fin dall’adolescenza (momento specifico dell’origine che coincide con quello della trasgressione ottica), le punte dei piedi hanno sminuito la qualità della vita di Dingle: corticate unghie gialle s’incurvano su se stesse sprofondando nella tenera carne delle dita arrossate, dita che a turno si fanno del male, s’ingrossano tra lo scintillare delle infezioni erompenti, per tacere del dolore. Dingle, di norma, prende tutte le precauzioni possibili. Taglia le unghie ogni giorno, pareggiandole ben bene, lasciando perfette bordature di protrudente cartilagine ai cui angoli infila ogni mattina minuscole palline di cotone impregnate di canfora e olio essenziale di chiodi di garofano. I sandali, che consentono il movimento delle punte, l’ossigenazione, la libertà da costrizioni, sono portati regolarmente. Durante le stagioni fredde a Dingle è negato perfino il privilegio di passare per una persona seria: indossa i sandali con i calzini.
Ma ora, è tutto inutile: B. Dingle barcolla letteralmente sotto l’influsso incurvante del suo amore smodato per Myrnaloy Trask. L’amore, dalla sua sede centrale nel cuore rosso e pulito di Dingle, ora viaggia quotidianamente come un pendolare per raggiungere la sede distaccata meridionale nelle unghie simili ad artigli di Dingle, e da lí fa sentire con acutezza la sua presenza, le sue direttive e i suoi desideri. È una campagna sottile e insidiosa, che calibra con cura il dolore per estorcere la collaborazione senza nemmeno ricorrere all’invalidità. L’amore di Barry Dingle prende di punta i piedi nell’aprile del 1983. A giugno, Dingle capisce che bisogna correre ai ripari. Myrnaloy Trask in un modo o nell’altro va espugnata, l’omuncoloide color ciliegia di Dingle va completato, saziato, zittito. L’amore ha ormai sfinito Dingle – due anni di fluttuazioni e ora due mesi di dilagante crescita interna: i piedi torturati, il cuore lamentoso, lo scompiglio e lo sconvolgimento nella neutrale equazione Dingle stanno portando poco a poco Dingle verso un tracollo e una stasi sbilenca.
Si tenga presente che al lavoro non riesce piú a concentrarsi. Lui diventa negligente, i suoi dipendenti demoralizzati, intransigenti, carboidratati. Il proprietario dell’intera catena dell’«Integrale» si reca di persona, il 2 giugno, al negozio in franchising di Northampton. Scocca uno sguardo significativo ai cerchi neri intorno agli occhi strabici di Dingle, al labbro mordicchiato a dovere, ai piedi oscenamente gonfi. Il proprietario si raddrizza il gilè scamosciato e si tasta il medaglione di Scientology. Informa Dingle senza mezzi termini che lui, il proprietario, sa che le cose lí, nella sede di Northampton, hanno preso una brutta piega. Che le vendite sono calate, che la freschezza risulta qua e là compromessa, che i dipendenti dell’«Integrale», per non parlare dei clienti salutisti agguerriti di Northampton, stanno perdendo un punto focale della loro visione nutrizionale. Perfino la crusca, dice in tono caustico, benché non senza un sorriso per la propria spiritosaggine, ultimamente non si muove come dovrebbe. Domanda a Dingle cosa farebbe lui, al posto del proprietario. L’amore, dal profondo di Dingle, decide di dire la sua: una scossa elettrica di dolore podiatrico. Dingle impallidisce e si leva gli occhiali, contrae la mascella. Rassicura le due immagini identiche del proprietario. Le cose si aggiusteranno. Il negozio si rimetterà presto in piedi. Sette anni di attenta gestione; incondizionata dedizione al marketing della salute; quel letamaio di «Cose buone» non è in grado di fare concorrenza: Dingle si abbandona a una breve parentesi di eloquenza, una sincerità aggressiva che sorprende il proprietario e distrae perfino i boriosi dipendenti dalla partita di rummy. Alla fine il proprietario annuisce, acconsente, consulta la sua meridiana e guadagna la porta a vetri, lasciandosi sulla scia aromatizzata alla cannella un complesso di insinuazioni che al tempo stesso ribadiscono e mettono in dubbio la sua fiducia nei confronti di Barry Dingle. In negozio cala il silenzio; si sente il motore di un autobus bloccato al semaforo.
Dingle prende per la prima volta in assoluto due giorni di malattia e rimane a casa a meditare, i piedi nell’acqua bollente con sale e eucalipto. Nigel, il vicedirettore, assume temporaneamente il timone dell’«Integrale». Dingle entra in comunione con il suo amore. Con se stesso.
Il risultato è la già menzionata conclusione che qualcosa deve cambiare, unita a una nuova, solida determinazione a passare veramente, sinceramente, finalmente all’azione. Dopo due giorni (e siamo al 6 giugno 1983), Dingle esce dal bagno, torna alle tante vetrine dell’«Integrale» e decide, con un assetto freddamente febbrile dell’alta fronte, di assestare la vista vacillante sulla lontana Trask e di portarla, con le buone o con le cattive, a nuotare nel suo romantico raggio visivo. Il suo amore omuncoloide sente l’odore metallico della forza nel sangue di Dingle, e approva. Molla appena appena la presa sulle unghie di Dingle. Incoraggia Dingle, esorta, gioca dall’interno allo sbirro buono e allo sbirro cattivo, sostiene di scorgere in lui una novità nascente, un coraggio,
Coraggio! dice l’amore omuncoloide di Dingle, tracciando il termine in caratteri gotici sul cuore di Dingle quale volontà di portare il comodamente distante in una prossimità unificata, di rischiare la stasi come completamento. Le parole montano contro la pelle bianco-pesce del petto incavato di Dingle comparendo sul corpo in una calligrafia rosa pallido. Dingle legge se stesso doppio nel salato bagno serale. Tocca le parole sfocate.
Il neo emotivo è quel Don Megala citato all’inizio, eterno studente, artista del dolcimele, il cui legame con Myrnaloy Trask, visibile attraverso la vetrina del «Collective Copy» tramite il vetro terra d’ombra riflettente dell’autobus di Northampton eternamente bloccato, è innegabile benché ambiguo – essendo Megala al suo apogeo un epico beone e cacciatore di gonnelle, sia i gonnelloni delle femministe sinistrorse convinte di Northampton sia i gonnellini scozzesi della combriccola con propensioni estetiche dello Smith College che organizza reading di poesia, recital di madrigali e mixaggi di sherry e pasticcini frequentati assiduamente da Megala, bollato dalle artiste saputelle dello Smith come Der Döpplebanger – ed essendo Myrnaloy timida, schiva, chiaramente inesperta e, ancor piú chiaramente, profondamente ambivalente rispetto agli uomini.
È il caso di fare presente che Barry Dingle e Don Megala si sono conosciuti di sfuggita alla University of Massachusetts di Amherst, che Megala fingeva di dedicarsi a una malriuscita dissertazione di sociobiologia mentre Dingle completava gli studi in Scienze Digestive, che hanno condiviso un mentore e relatore – tale W. W. Skeat, biologo socio-digestivo meglio conosciuto per la sua tesi secondo la quale la causa vera e basilare del cancro sta semplicemente nella saliva umana – e che tutti e due hanno fatto sostanziali ricerche sotto il mentore e relatore Skeat assistendolo in laboratorio. Va inoltre fatto presente che Megala tratta Dingle con l’allegra condiscendenza riservata agli strabici che hanno i denti sporgenti e i sandali con i calzini, mentre Dingle, ultimamente sotto l’egida emotiva del suo amore omuncoloide, nutre per Megala un muto disprezzo, un desiderio attivo di fargli male, da una certa distanza.
Essendo Megala il neo dell’idillio con Myrnaloy, è comprensibile che Barry Dingle, a ogni occasione buona, faccia in modo di osservare Myrnaloy e Megala insieme – senza mai seguire per davvero M&M, sia chiaro, dati i già riferiti problemi-oculari-e-motori, semmai fa in modo di piazzarsi, senza dare nell’occhio, ovunque è facile che compaiano insieme.
Essendo tali occasioni tutt’altro che rare, Dingle vede Myrnaloy e Megala in vari modi: mentre sorseggiano un espresso da quattro dollari al Leftward Ho Cafe di Northampton; mentre passeggiano mano nella mano in una qualsiasi delle cinquantasei librerie dell’usato della città; mentre agitano insieme la stessa bandiera ai raduni settimanali della Northampton Anti-Nuclear And Non-Aligned Nations’ And Neighbors’ Alliance, avendo Myrnaloy curato i verbali della NANANANANA fin dagli esordi, a metà degli anni Settanta; mentre fanno ginnastica nelle palestre di aerobica pubbliche della città; ecc.; e, naturalmente, mentre parlano, si confidano, si sbaciucchiano, litigano, fanno gli ambigui, il tutto nella vetrina del «Collective Copy» riflessa dall’autobus.
Per non parlare di quando frequentano «Cose buone da mangiare, Ltd.» di Adam Baum, il principale concorrente dell’«Integrale» con servizio ai tavoli, un locale dalla vetrina minuscola che Dingle, correndo grossi rischi professionali, comincia senza dare nell’occhio a frequentare anche lui. Immaginate Dingle, all’inizio dell’83, gobbo, avvolto nel poncho, le palline di cotone insudiciate dalla segatura del pavimento, a un tavolino di «Cose buone» mentre M & M si piazzano davanti a una cena integrale al solito tavolo proprio dietro di lui. Sono intenti a chiacchierare. Barry Dingle e il suo amore smodato ascoltano. Myrnaloy sembra aver appena concluso un ambivalente discorso col cuore in mano in materia di uomini e sesso. Dingle sta con le orecchie tese, mentre il dolce alla carota s’indurisce e il tè pepe e menta si raffredda, entrambi intatti.
Myrnaloy, agli sgoccioli di un corrispondente viaggio narrativo, sta rivelando, debolmente, fra molti balbettii e interruzioni, che il sesso la terrorizza. Completamente. Allude a un vago trauma lontano nel tempo, a un tradimento del quale Megala, a giudicare dai sommessi suoni partecipi e incoraggianti che continua a emettere masticando, conosce già i particolari. L’amore di Barry Dingle digrigna i denti scoprendo che Barry non sa quello che sa Megala. A Myrnaloy trema la voce; sta rivelando che, a trentacinque anni, con i suoi trascorsi di figlia dei fiori e compagnia bella, è ancora tecnicamente vergine. Dichiara che il sesso le incute un grande, ancorché indefinibile, terrore.
Don Megala fa capire a Myrnaloy Trask che la capisce, che rispetta... anzi no, si genuflette davanti al suo atteggiamento considerandolo non solo comprensibile, non so se mi spiego, ma anche profondamente sessual-politicamente corretto. Rivela di aver perso l’innocenza a quindici anni e che da allora è terrorizzato. Che vive nel terrore sessuale. Che il sesso è, per sua natura, terrorizzante.
Dingle, con suo grande orrore, si ritrova significativamente d’accordo con Megala.
Ma quello che Megala sta cercando di fare, si sente dire senza tanti complimenti Barry, è chiaro. Sí, l’amore di Dingle sente puzza di seduzione incombente. Da dietro gli occhiali angolati Dingle cerca nel ristorante una superficie riflettente o qualcos’altro dove poter studiare la reazione facciale di Myrnaloy alle inevitabili discussioni che Megala sta per sollevare. Immagina che lei abbassi lo sguardo, imporporandosi per essere uscita allo scoperto, picchietti il nulla con un tovagliolo riciclato, sorrida esitante, grata che Megala abbia capito, che sia disposto a parlare di quell’aspetto vulnerabile. Ma è la solita tattica della disponibilità-a-parlare. L’omuncoloide si piazza in un’orbita di rabbia impotente intorno al cuore a pezzi di Dingle.
Perché, cosa anche meravigliosa, Megala nel frattempo medita a voce alta. Voce butterata dalle minuscole esitazioni della sincerità calcolata. Sesso, intende Megala. Anche il terrore del sesso è, di fatto, meraviglioso, sotto un certo aspetto terribile.
Dingle immagina le delicate mani bianche di Megala coprire le delicate mani bianche di Myrnaloy. Dingle fissa pallido, inerme, quel fossile distante che è la sua cena.
Perché il sesso è anche, ammettiamolo tutti e due con onestà, una cosa bella grossa in questa vita prevalentemente breve e infelice, aggiunge Megala. Che peccato dipartirsi dal mortale groviglio senza dare, per cosí dire, un’occhiata alla vita, senza vedere come stanno le cose. Di sicuro il sesso è una delle grosse faccende della vita, e un’occhiata la meriterebbe, no? Questo almeno dice a se stesso, dice a lei, ogni volta che il suo giustificatissimo terrore minaccia di prendere il sopravvento.
Dingle immagina un limpido scambio di sguardi binoculare tra M & M.
Ed è difficile pensare a una cosa piú naturale in questa vita, medita Megala a voce alta, dell’intimità tra un uomo e una donna che condividono preoccupazioni, rispetto e correttezza reciproci. Che ci tengono. No? Una cosa naturale, naturalissima. Come il farsi corrusca della flora autunnale. Una giacca col collo a pistagna stesa ad asciugare. Un uccello che volteggia davanti a un’immobile folata di vento. E, ironia delle ineluttabili ironie, nella vita le cose piú naturali non sono spesso anche le piú terrorizzanti? Myrnaloy condivide... è in grado di condividere questa sensazione, questa intuizione? Questa triste, meravigliosa, terrificante ironia?
Dingle sente Myrnaloy fare un verso sommesso indice in senso lato di: accordo, gratitudine, ammirazione, ammissione di una cosa che lei non ha visto ma che qualcuno ha ammesso per lei. L’amore di Dingle fa una piroetta, fissando sinistramente il proprio riflesso sfocato nel cuore limpido e martellante di Dingle dov’è impressa la parola coraggio a caratteri corsivi.
Ma ecco il rumorio violento di Megala che vuota il fondo del bicchiere con la cannuccia. Ciascuno degli occhi di Dingle contempla il proprio riflesso nell’altro.
Un marpione patentato, sibila l’amore di Barry Dingle. Come dici? bisbiglia Barry Dingle.
Quel tizio è un perfetto esempio di marpione, dice l’omuncoloide.
Marpione?
Termine tecnico per certi soggetti che giocano sporco in amore, dice l’amore; «Marpione», sostantivo, indica sostanzialmente uno che fuori fa tanto il carino ma dentro è un bel furbastro.
Un furbastro che fa il carino?
Quello è un marpione all’opera, dice l’amore, e noi ce ne stiamo qui, con le mani in mano. Gli assesta uno smagliante colpetto metatarsico, tra la segatura.
Megala e Myrnaloy escono da «Cose buone». Dingle riesce finalmente a vederli, lontani, attraverso il piccolo vetro rotondo della cassa che ha raggiunto quasi di corsa, zoppicando. Stanno slegando il guinzaglio della Nixon di Myrnaloy dall’apposito gancio di «Cose buone». Spariscono in direzione opposta a quella del «Collective Copy». Si lasciano dietro una sottile traccia dei problemi digestivi di Nixon.
Le seguenti coppie si aggrovigliano nelle ore piccole di questa notte di inizio giugno: Myrnaloy Trask e Don Megala; Barry Dingle e l’amore di Barry Dingle.
Neo o non neo, si ricordi che, giunti al 6 giugno, Barry Dingle ritrova l’orientamento, che l’ago della sua bussola emotiva ora punta, tremolante o meno, verso il polo dell’azione. L’azione numero uno sta avendo luogo proprio in questo istante, la mattina del 6 giugno, mentre Dingle siede alla scrivania in cartone di fibra dell’«Integrale», in assenza degli occhiali spessi un dito, a comporre una pubblicità per una nuova linea di germe di grano mischiato a cocco e polvere di dattero. Scrive a mano un volantino che riporta le proprietà nutritive e gli sconti sul primo acquisto. Finisce il volantino, mette il tappo al pennarello magico, sottopone il volantino a Nigel perché corregga le lettere doppie e le incongruenze nelle dimensioni, e lascia Nigel ad aggiustarlo mentre lui, Dingle, vaga meditabondo per la corsia dei prodotti all’ingrosso, oltrepassando ampie vetrine laterali, oltrepassando bidoni della spazzatura puliti e inondati di sole che traboccano di muesli, oltrepassando noci, frutta secca, proteine in polvere, barili di crusca, palette da giardiniere, sacchetti biodegradabili, bilance, e arriva alla vetrina d’ingresso dell’«Integrale». Nel finestrino dell’autobus in folle si può vedere Myrnaloy a conturbante distanza, al comando della sua fotocopiatrice dietro il bancone del «CC». Si vede per forza di cose la figura a ponte arcuato di Nixon aggirarsi su uno scompiglio di proposte per la bacheca scartate. Al bancone del «CC» è appoggiato Don Megala che, accalorato e lucido, parla con un angolo della bocca a Baum, proprietario di «Cose buone» i cui volantini, grazie all’influenza di Megala, godono di ampio spazio sulla bacheca del «Collective Copy» dove Dingle non ha mai avuto il fegato di chiedere ospitalità.
Nigel legge a voce alta la copia ripulita del volantino. Dingle se la ritrova fra le mani, accenna a un vago problema con la fotocopiatrice che c’è nel magazzino dell’«Integrale» e dice che quasi quasi fa una scappata al «Collective Copy» lí accanto. Nigel prende il timone dell’«Integrale» mentre Dingle s’imbarca in quella che è forse la scappata piú lenta della storia, tre ampi tentativi ellittici di guadagnare l’ingresso della copisteria, virate all’ultimo momento, improvvisi capovolgimenti di rotta imposti dall’omuncoloide, al quale basta simulare un attacco ai sandali di Dingle per farsi valere. La chiusura dell’ellisse numero tre vede Dingle passare sotto la bacheca, armeggiare tra quelli che sembrano i due pomelli della vecchia porta di legno, agguantare finalmente quello vero, sentire il dlindel campanello all’ingresso, e accedere alla tana di M & M. Il locale è caldissimo, saturo dell’arido vento chimico della fotocopiatrice strepitante e della sferragliante inseritrice automatica. Dingle, volantino alla mano, scavalca la sagoma tormentata di Nixon e punta verso il bancone.
All’avvicinarsi dell’«Integrale» Baum ha tolto le tende, lasciando Megala solo soletto, una copia usata della guida all’Ulisse di Stuart Gilbert sottobraccio. Megala saluta Dingle con estremo entusiasmo, tendendo una mano doppia. Dingle si augura vivamente di non ricevere una pacca sulla schiena. Dalla bocca di Megala esalano aromi di sughero e lievito; gli occhi sono rossi come la punta di certi piedi, una guida stradale in filigrana che conduce allo stato di fermentazione postprandiale di cui gode al momento. Le guance tese in un sorriso di Dingle hanno uno spasmo quando le due Myrnaloy lasciano la fotocopiatrice e si avvicinano; Megala l’ha invitata a dare uno sguardo al volantino di Dingle. Myrnaloy Trask è vicina. Due gonnelloni, due camicioni di un azzurro fiaccato dai lavaggi, grembiuli da fotocopista, quattro calzettoni. Occhi e fronte incorniciati da minuscole rughe aride e strizzati in una specie di dolore serrato contro l’arroventata luce di giugno che entra dalla vetrina, ma Dingle vede solo due contorni facciali lattiginosi che resistono alla risoluzione o al ravvicinamento. Entra un cliente, come fa una dose di vento primaverile, portando al bancone l’intenso odore di Nixon. Megala arriccia il naso, tende la mano sul bancone butterato verso quelle che a Dingle sembrano le torri gemelle sulla facciata di una Bass Ale.
Megala, con gesto plateale, presenta Dingle a Myrnaloy. Che ha la mano bianca e delicata, benché non morbidissima. La lingua di Dingle è carne secca dentro la bocca. Myrnaloy scorge in Dingle qualcuno che ha a che fare con l’«Integrale», il negozio accanto. Megala stila il curriculum vitae di Dingle a beneficio di Myrnaloy. Dingle brandisce l’annuncio pubblicitario, richiede le copie. Si stabiliscono i costi, si specificano le specifiche; Myrnaloy torna ai suoi macchinari. Nixon annusa con sinistro interesse i sandali di Dingle.
Megala commenta il tempo, l’autobus, la birra, l’effetto della Curva di Laffer sul commercio dei prodotti integrali e dei dolcimele. Senza quasi punteggiatura. Almeno due dei suoi tre fogli svolazzano. Dingle capisce, stando lí al bancone a tastarsi il colletto del poncho, che Myrnaloy sente ancora quello che dicono, nonostante il frastuono delle fotocopiatrici, lo capisce dal modo inequivocabile in cui Megala indirizza la voce verso l’ampio spazio parquettato che separa Dingle dalla Trask. C’è qui un sottotesto assai contorto di cui Barry non è al corrente: la voce stentorea di Megala fa tendere stranamente le labbra a Myrnaloy; Dingle vede il viso di lei espandersi ai lati. Il suo amore stringe le viti di un dito, urlando in silenzio a Dingle di passare all’azione, di parlare, di rivelare qualcosa di sé davanti a questa donna e a quel marpione del suo ganzo.
Vedo che hai almeno uno Stuart Gilbert lí, sottobraccio, dice Dingle a Megala. Forse dovrei dedurne, dice, che lo Stuart Gilbert che hai lí sottobraccio è il materiale per una dissertazione.
Deduci bene, dice Megala, che puntava molto sulla fonte in questione e ora è deluso, per non dire incazzato, nello scoprire che l’opera di Gilbert su quello che lui continua a chiamare «Il Grande U» è solo una guida, non un’analisi: la cultura originale, in contrapposizione a quella nozionistica, non è il punto forte di Megala.
Deduci bene, dice; inutile, però, l’autore è ampiamente sopravvalutato, tralascia importanti implicazioni, abbozza solo la superficie, non sfiora nemmeno la psiche edipica di Dedalus, ignora bellamente la metamorfosi da giovane artista a erede telemacoide, taglia con l’accetta dell’erudito il suo defunto oggetto d’amore.
Una provocazione, insomma, dice Dingle.
O uno studio sulla futilità, replica Megala con un sorriso meno sarcastico che nelle intenzioni, occhieggiando un triangolo rosso sulla bottiglia della Bass come se si aspettasse chissà che.
A questo punto Dingle si ritrova a fissare le immagini di Myrnaloy Trask riproduttivamente china sullo stroboscopio fotografico della fotocopiatrice. Fa alcune osservazioni – mute, interne, liriche – sui seni, che guarda caso si spostano quasi geologicamente contro il camicione consumato; sui rigonfiamenti del gonnellone indotti dai fianchi; sul lucore ispido delle gambe bianche che spuntano dai calzettoni di lana. Fa appello alle metafore classiche. Ora, con un gesto di cooperazione perfettamente inconsapevole, Myrnaloy solleva la caviglia destra per aggiustare la cima dello stracco calzettone. Dingle suda liberamente. I suoi due occhi si fissano da sopra il setto nasale. Vicino al bordo di un certo poncho spicca una sinistra protrusione. Dingle si porta piú vicino al bancone protettivo. Megala beve dalla sua bottiglia. Nixon si trastulla su una scatola di carta Hammermill.
Megala, librandosi sulle ali dello studio sulla futilità, si fa nostalgico, universitario. Chiede notizie di Skeat. Dingle non vede Skeat da anni, crede che sia andato in malora, che campi con i sussidi. Attraverso il flash della fotocopia Myrnaloy lancia uno sguardo al traffico podale postprandiale del marciapiedi. Megala richiama la sua attenzione, tutto allegro, su un aneddoto relativo a Dingle ambientato nel laboratorio di ricerca dell’università del Massachusetts utilizzato da W. W. Skeat, una vicenda datata 1968. Dice che la vicenda riguarda Dingle. L’amore smodato di Dingle sussurra frasi di incoraggiamento. Gli occhi di Myrnaloy mostrano quello che si potrebbe definire interesse. Dingle si schiarisce la gola. Due Myrnaloy fendono intermittenti brume intercigliari dirigendosi verso il bancone, la fotocopiatrice col pilota automatico inserito. Dingle racconta.
Immaginate la scena. È il 1968. Barry Dingle, che lavora al lume di neon nel laboratorio seminterrato di Skeat, è chino sullo speciale microscopio che a lui, a Dingle, serve per dare un fuoco unitario e scevro da ciglia a un certo vetrino. Ha il camice bianco e le infradito. Usa il microscopio per osservare l’attività di alcuni normalissimi batteri, i parameci, in una goccia di saliva presa dalla bocca di un paziente affetto da melanoma. I batteri nuotano senza meta, impegnati in qualche attività. Dingle li osserva. Poi cosí, per capriccio,
Per capriccio, si badi bene, dice,
toglie il vetrino dal fermo, lo gira, lo infila di nuovo, e di nuovo si china a osservare. Nota qualcosa di strano nei movimenti dei batteri.
Megala rutta, incorrendo nell’empatia di Nixon. Myrnaloy tradisce un certo disgusto, riporta lo sguardo su Dingle, ancora assembrato al bancone.
Dingle, nel passato, nel laboratorio, si entusiasma. Gira di nuovo il vetrino del microscopio. Guarda. Ma certo. I batteri nuotano verso nord. Non senza meta. Non dove capita. A nord. Senza meta solo se li guardi da un’unica angolazione. Giri il vetrino e gli astuti batteri sterzano di botto a destra e a sinistra, puntando di nuovo a nord.
Megala ridacchia. Myrnaloy pianta i quattro occhi su Dingle, confusa. A nord? dice.
Non dove capita, dice Megala. Senza meta solo in apparenza.
A nord, dice Dingle. Nuotano verso nord. Avvertono la trazione effimera di qualche profonda calamita geologica. Seguono il suo richiamo.
A nord per l’estate, dice Megala.
Dingle palpa il cappuccio del poncho. Un’intuizione basata sulla prospettiva e nata per puro capriccio, era questa la cosa entusiasmante, dice. Mi spiego? Guardi da una sola angolazione: le cose sembrano senza meta, disordinate. Domina la fluttuazione. Modifichi l’angolazione: illuminazione. Schema. Ordine.
Il suo amore cala di scatto una bandiera a quadretti.
Guardi una cosa da una varietà di prospettive, dice Dingle; ricevi stimoli anche solo da due angolazioni completamente diverse: vedi le cose sotto una luce del tutto nuova, in potenza.
La spedizione verso nord, rimugina Megala.
È stato entusiasmante, dice Dingle sottovoce.
Peccato che è stato Skeat a metterlo nero su bianco, dice Megala. Ci ha rimediato pure un Guggenheim2. A Dingle, invece, manco uno straccio di riconoscimento. Skeat gli ha rifilato la fregatura accademica. La grande inculata.
Dingle fa un sorriso timido. I riconoscimenti non contano. È l’intuizione che conta. L’epifania sotto le luci fredde. Ero fuori di me dalla gioia, quella notte.
L’omuncoloide solleva il pollice in segno di approvazione, si adagia su uno sfavillante ventricolo, lucidandosi le unghie sulla pettorina della casacca.
Myrnaloy: E ora sei il direttore dell’«Integrale»?
Sí. Problemi con le domande per accedere ai corsi di medicina. Con le finanze. Con la vista.
La tesi Skeat, dice Megala ridendo. Attenta a quello che ti bevi, Myrnamore.
L’opportuna fotocopiatrice cigola spegnendosi in automatico. Myrnaloy recupera l’originale di Dingle, gli dà la pila di redolenti copie calde.
Gran belle fotocopie, dice Dingle scorrendole, costringendosi a non strizzare gli occhi. Myrnaloy batte lo scontrino.
Megala rivolge un gesto alla cassa. Perché non diciamo a Dingle di attaccarne uno in bacheca, Myrnaloy, propone con un largo sorriso. Un des per il suo do.
È davvero un prodotto nuovo di ottima qualità, farfuglia Dingle, la gratitudine e il rancore verso Megala a mulinargli untuosi nel cuore, che batte forte. Mi entusiasma l’idea di farne parte, dice; sarò felice di organizzare una degustazione a mie spese.
Perché no, dice Myrnaloy rigidamente, calcolando l’imposta.
L’amore smodato di Dingle avverte la tensione tra la rigida Myrnaloy e lo scabro Don.
Avverto la tensione, dice. Si occupa della poncho-protrusione potenzialmente disastrosa di Dingle, che finalmente è libero di abbandonare il riparo pelvico del bancone.
Grazie, borbotta Dingle sollevato.
Di niente, dice Megala. Ed ecco calare la temuta pacca sulla schiena; stronca anche il piccolo attacco di tosse di Dingle. Megala e Nixon vanno verso il bagno. Myrnaloy prende alcuni attrezzi da un cassetto chiuso a doppia mandata con su scritto DIREZIONE e va verso la porta con Dingle e l’amore di Dingle al seguito emotivo.
Dingle si piazza sotto il sole davanti alla bacheca dai colori complicati insieme a Myrnaloy Trask. La matura fragranza distintamente femminile che circonda questa donna sciatta non priva di sensualità gli dà alla testa.
Una bacheca davvero ben curata, dice; quante volte l’ho ammirata passandoci davanti.
Myrnaloy non replica. Con un’esperta levapunti amputa il patinato proclama di una maratona di salto sul tappeto elastico organizzata per beneficenza a favore del partito dei separatisti del Quebec, visto che l’ultimo ginnasta si è arreso il 4 giugno. L’avviso sul germe-di-grano-e-polvere di Dingle eredita il suo posto, inchiodato dai punti metallici.
L’attenzione di Dingle è attirata da due avvisi dalla composizione tipografica professionale, in bianco e nero, al centro esatto della fila che arriva all’altezza dell’occhio, quella piú ambita. Le immagini si mettono quasi a fuoco. Lui strizza gli occhi, ne copre uno, legge lentamente, pietrificato dal testo del seguente volantino:
CERCHIAMO: SETTER DA RIPORTO MASCHIO PER
ACCOPPIAMENTO CON SETTER DA RIPORTO FEMMINA
DI UN ANNO.
OGGETTO: CUCCIOLI
IL MIGLIORE DELLA CUCCIOLATA ANDRÀ
A CHI FORNISCE IL MASCHIO.
PROSSIMO PERIODO DI CALORE DELLA CAGNA
STIMATO INTORNO AL 15 GIUGNO 1983.
RIVOLGERSI IN NEGOZIO ALLA SIG.RA M. TRASK,
COLLECTIVE COPY
Va bene cosí? domanda Myrnaloy, allontanandosi con fare critico dal volantino dell’«Integrale».
La ringrazio molto, gracchia Dingle, mezzo strozzato dalla comparsa improvvisa di un ispirato omuncoloide in gola.
Una volta o l’altra provo ad affacciarmi per assaggiare quel germe di grano.
Quando vuole. Offre la ditta.
Myrnaloy va verso le porte. Dingle rimira le bacheche.
Myrnaloy si è fermata davanti a tutti e due i pomelli. Sta guardando Dingle. Dingle la vede. Lei è un’idra, i capelli biondo sporco uno scompiglio di luce smorzata. Le sue facce assumono un’espressione. I batteri sanno davvero dov’è il nord? dice; nuotano in quella direzione?
Il sorriso di Dingle non è forzato, pur avendo motivazioni complesse. A quanto pare sí, dice.
Lo trovo molto interessante.
Anch’io.
Ed è stato un caso.
Un puro capriccio.
Myrnaloy guarda la strada dietro di lui.
Mi auguro di vederla al negozio prima o poi; magari col grano nuovo.
Lei annuisce e sorride distrattamente, sparendo all’interno, mentre Dingle cerca di ringraziarla attraverso il vetro.
La bacheca fruscia al piacevole venticello, un cerchio di quadratini circonda il centro del bersaglio che è un invito all’accoppiamento. L’autobus manda il motore su di giri al semaforo. La sagoma di Myrnaloy ricompare sul lato opposto dei macchinari del «CC». Dingle torna ciabattando all’«Integrale» tra il turbinio dei pantaloni a zampa di elefante. Ha le copie calde strette al petto scritto che palpita per le conseguenze di quello che si è visto scorrere davanti.
Storia in versione ridotta del cane che Dingle sta comprando in questo momento, tardo pomeriggio, 9 giugno 1983:
Il cane, un setter da riporto di tre anni attualmente domiciliato al «Pets And More Pets» di Northampton, è un bell’animale...
È un bell’animale sí o no? dice il commesso con toupet di «Pets And More Pets».
Da qui sembra bello, dice un Barry Dingle occhialuto.
... e potenzialmente di prima categoria; peccato che abbia 2 (due) caratteristiche che reclamano la qualifica di «Pecca». La prima è una forma avanzata di substamus3 venereo oculare, un’atrofia progressiva nella rete muscolare della cavità dell’occhio che fa ruotare caoticamente il bulbo oculare del cane dentro l’orbita dando l’impressione, il piú delle volte, che il cane sia strabico.
Avverto un’affinità tra lei e questo cane, dice il commesso in giacca sportiva a quadri e mocassini di cuoio bianco. Tasta un collare antipulci con fare pensoso. Sono fuori strada? Lei non sente per caso una specie di affinità?
Dingle esamina l’animale distante attraverso le lenti angolate. Il suo amore omuncoloide se ne sta in disparte a mordicchiarsi le nocche.
Forse sí, sta dicendo Dingle. Il cane, veterano di innumerevoli acquisti mancati per un pelo, raspa adorabilmente con zampa esitante le sbarre dell’angusta gabbietta.
La seconda pecca spiega come mai in origine il cane è stato abbandonato all’ora di punta sulla trafficata Route 9 della Pioneer Valley dal padrone originario, studioso di ceramiche funerarie coreane nella vicina università di Amherst. Le informazioni relative a tale pecca vengono celate a Dingle per discrezione professionale dal commesso, che in questo preciso istante armeggia con la serratura del ricettacolo canino, scoccando un sorriso imbarazzato a Dingle mentre il cane, liberato, si lancia subito sbavando su una studentessa dello Smith che bussa lí vicino sulla vasca di vetro di una comatosa tartaruga d’acqua dolce. L’informazione comprensibilmente celata: il setter da riporto di tre anni è affetto da un disastroso entusiasmo per gli speciali afrori tipici delle parti intime della femmina umana; si è dimostrato inaddestrabile e indomabile a tale riguardo; balza senza esitazioni, annusando col muso bagnato, sotto la gonna di qualunque sventurata entri in casa dello sventurato orientalista. (Immaginate l’imbarazzo se aveste invitato, che so, un collega e la moglie a bere un cocktail e foste seduti sul divano a sorseggiare un gin, circondati da cupe tanatografie dinastiche, cercando di fare educatamente conversazione mentre il cane s’inabissa tranquillamente ancor piú tra le parti basse della moglie del collega, e nel frattempo tu, lei e il collega siete troppo mortificati per scacciarlo, perché questo significherebbe riconoscere quello che sta succedendo, mentre quello che sta succedendo significa che la moglie del collega possiede dei genitali, con un afrore, e sopprimere una realtà del genere è imprescindibile se si vuole mantenere una parvenza di civiltà che separa il comportamento, che so, tuo e del tuo collega da quello, che so, del cane). Una versione piú completa dovrebbe condonare le ripetute avances olfattive del cane alla fidanzata femminista-teorica-di-ideogrammi dell’orientalista la quale alla fine scopre, non senza inorridire, che sta finendo col preferire quelle alle carezze dello studioso di ceramiche, e oggi fa parte a dir poco di tre gruppi di sostegno. 1982: il cane è finalmente oggetto di abbandono, viene trovato e salvato, all’ora di punta, da uno che gira in cerca di animali abbandonati per il «Pets And More Pets», negozio di animali un po’ troppo insistente per i gusti di Barry Dingle, ma al momento unico in tutto l’elenco telefonico della Pioneer Valley a possedere un setter da riporto maschio.
È pure allegro, dice il commesso, facendo una presa di testa all’animale scatenato che raspa le piastrelle con le unghie mentre la studentessa dello Smith si sposta verso il reparto dei serpenti velenosi. Non gli manca certo la jiuá de vive, dice il commesso.
Sicuro che è un incrocio tra un setter e un cane da riporto? domanda Barry Dingle. Occhieggia il cane distante, oro spento, contorcersi sotto la presa del minuscolo commesso.
Parola d’onore.
Sessualmente maturo? Intatto? Incline?
Dalla mattina alla sera, signore.
Nome?
Niente nome. Un cane senza nome. Usi la fantasia.
Il cane abbaia.
Prezzo? domanda Dingle.
Molto trattabile. E include tutti gli annessi e connessi canini.
Allora è andata.
Dio ti ringrazio.
Come dice?
Il commesso va nella stanza sul retro tappezzata di gabbie, trascinando il cane per la collottola. Torno subito, assicura. Controlli per le vaccinazioni, scartoffie... Le trattative per il prezzo fra qualche istante. Chiude una porta pesante.
Qualche istante dopo Dingle esce da «Pets And More Pets» con: un collare antipulci; un guinzaglio militare rinforzato; una busta di cibo; un cratere di plastica come ciotola; una serie di certificati di vaccinazione; un cane sorprendentemente economico sedato di nascosto (nella stanza sul retro), che trotterella sorridente, strafatto, accanto a Dingle, un occhio al marciapiede della Great Awakening e uno al padrone. Dingle punta verso casa, tra uno sventolio di sandali e pantaloni.
Bravo, esorta lo smodato amore omuncoloide di Dingle per Myrnaloy Trask.
Grazie a Dio, ripete il commesso a beneficio del cassiere di «Pets And More Pets», che usa gli artigli violetti per togliersi un pelo dal bavero quadrettato.
Carina la bestiola, dice l’amore.
L’acquisto di un cane da parte di Dingle, il 9 giugno, rientra in un ampio piano di ispirazione omuncoloide. Il piano in teoria funziona cosí: un giorno della prossima settimana Myrnaloy Trask, accompagnata da Nixon, esce dal «Collective Copy» all’ora di pranzo, com’è suo solito. Prende a sud per la Great Awakening, verso il parco, dove raccoglie e consuma il pranzo incoraggiando Nixon all’uso completo dei tanti servizi a disposizione. Mentre M. prende a sud per il grande marciapiede di Northampton, Barry Dingle, in fondo alla strada, in teoria sbuca da un buon punto di osservazione e va a nord sullo stesso marciapiede, tenendo al guinzaglio un setter da riporto ben riposato e libidinoso a cui ha fatto una bella ramanzina. Mentre lui e Myrnaloy cominciano a convergere, Dingle escogita qualcosa di ingegnoso – inciampa, urta uno dei tanti passanti coi capelli chiodati – per rendere plausibile l’assenza della mano sul guinzaglio. Il cane di Dingle, spinto alla frenesia erotica dalla prigionia e dalla vicinanza di una setter da riporto in fase premestruale, ingroppa Nixon in un lampo. Ecc., ma in teoria nemmeno tanto ecc., perché ecco piombare all’improvviso sulla scena Barry Dingle che estrae il cane eretto dalla cagna china prima che si commettano imprudenze non richieste.
Il piano ha in teoria un risultato triplice: (a) Dingle riesce a incontrare Myrnaloy Trask e a ristabilire i contatti sociali con la suddetta senza l’opprimente atmosfera da neo che accompagna la presenza di Don Megala, il quale dedica le ore preprandiali all’arte del dolcimele antichizzato; (b) Dingle appare sensibile, coscienzioso, fors’anche cavalleresco nel salvare il cane di Myrnaloy dagli sbavanti assalti amorosi sul marciapiede dell’arteria principale; (c) Myrnaloy si accorge che il sensibile, cavalleresco, ecc. Dingle possiede 1 (uno) cane maschio che quanto a stirpe e a entusiasmo risponde esattamente ai requisiti affissi in bacheca.
I suddetti risultati, dunque, stando ai piani dell’amore omuncoloide di Dingle, conducono con inevitabilità matematica all’accoppiamento dei due animali, il cui simbolismo rispetto a Dingle e a una Myrnaloy Trask sempre piú insoddisfatta di Megala, non sfugge a nessuna delle parti in causa; dunque a un legame privo di Megala tra Dingle e Myrnaloy basato su timori comuni, preoccupazioni dietetiche condivise e sulla prole comune dei loro piú stretti compagni di vita (Dingle si dice che dovrebbe sbrigarsi a trovare un nome: ha acquistato un catalogo per futuri genitori, e la notte ci medita sopra); dunque alla natura che segue il suo naturale, terrorizzante corso. L’accondiscendente Dingle si appropria del cuore, dell’anima, dell’amore moderato di Myrnaloy Trask del «Collective Copy». Megala si becca un calcio emotivo nel sedere. Un nuovo Barry Dingle spunta dalla crisalide incrinata della castità e dei fazzoletti pieni di moccio – completo, rimesso al mondo, appagato, riscattato, ordinato di testa e di cuore, sano di mente e di piedi. Un omuncolo Myrnaloy/- Dingle unificato se ne va, solenne e paffuto, puntando forse a nord, sparendo in un orizzonte blu cadetto che abbuia in un crepuscolo di unità, eternità, buona notte di smodato amore.
Dunque il 9 giugno Dingle indirizza verso casa il suo cane, rintronato dai sedativi, che sbanda appena appena a dritta o a babordo al passaggio di una femmina, senza grandi incidenti. Il cane mangia tre ciotole di crocchette, dorme settantadue ore, e si installa davanti al televisore. L’amore di Dingle prende tempo.
Notte, 14 giugno 1983, Troy, New York, la signora Dingle è stesa accanto al signor Dingle e sogna il seguente sogno:
Notte, 14 giugno 1983 a.C., regno di Itaca, il re di Itaca, interpretato nel sogno da Nelson Eddy, fa un sogno. Sogna che una nave con a bordo una peste virulenta proveniente dal sud del Mar Ionio entra nel porto di Itaca il giorno seguente. Sogna che, subito dopo, la peste scoppia nel regno, devastandolo. Sogna che la peste alla fine si porta via la devota regina sua moglie, interpretata dalla signora Dingle, e il bel principe suo figlio, interpretato da un giovane Barry D. con gli occhi dritti indosso al quale i sandali attici sembravano sciccosissimi.
Il re di Itaca si sveglia il 15 giugno 1983 a.C. ed è talmente sconvolto dal sogno che snobba il consiglio della regina e salta la buona colazione mediterranea. Convoca il Consigliere Reale, interpretato da Don Megala, il che è strano, perché la signora Dingle non ha mai visto Don Megala. Il Consigliere ascolta il sogno del re sconvolto. Si accarezza la barba curata. Al pari del re, al pari di tutti i tipici pagani preistorici, il Consigliere prende i sogni molto sul serio. Riflette. Dopo attenta riflessione, gli spunta sulla testa la torcia accesa di un’ispirazione: consiglia al re semplicemente di fermare, quel giorno, qualunque nave proveniente da sud prima che tale nave entri nel porto di Itaca, per tenere tale nave al largo, a sud, sottovento, e metterla in quarantena, cosí da essere sicuro che qualunque cosa ci sia sulla presunta nave, in termini di peste, rimanga lí, lontano.
Ma certo. All’ora di pranzo una nave, che bordeggia caoticamente esibendo un’infausta vela d’ossidiana, governata da un equipaggio piagnucoloso e tempestato di bubboni, spunta all’orizzonte ionico meridionale. Il re invia la sua piú formidabile nave da guerra a bloccare la nave, la fa mettere in quarantena e poi, tanto per essere sicuri, fa mettere in quarantena anche la nave da guerra, il tutto in mare, lontano lontano, sottovento.
Ma certo. La nave dalle vele nere si rivela una vera capsula Petri di germi pestilenziali. Il consiglio del Consigliere di tenerla fuori dal porto sembra assennato. Il re, la regina e il grande e forte principe emmetrope gioiscono davanti a una lauta cena ad alta intensità lipidica.
Peccato che alcuni giorni dopo (rappresentati nel sogno della signora Dingle dai palinsesti di un’agenda ellenica che volano via) ebbene sí, alcuni giorni dopo la peste scoppia nel regno di Itaca. Devasta perfino i quartieri piú rispettabili della capitale. Alla fine si porta via la devota signora Dingle e il binoculare Barry D. dai raffinati sandali.
Nelson Eddy sprofonda in una disperazione dall’acconciatura impeccabile, per non parlare della rabbia. Convoca Don Megala. I due vanno immaginati l’uno di fronte all’altro, i fazzoletti profumati premuti contro la bocca e il naso, nella stanza di un castello drappeggiata di lino e addobbata con ghirlande di foglie d’ulivo, rose, aglio e vari doni propiziatori erboristici agli dèi dai grossi bicipiti.
Il re illustra a grandi linee al Consigliere la sua disperazione, la sua rabbia. Grazie al consiglio del Consigliere, dice, la nave pestilenziale predetta dal sogno è stata bloccata, isolata, tenuta a eccellente distanza. Eppure lí, a Itaca, come predetto dal sogno, ci sono segni stramaledettamente chiari della peste. Il re chiede una spiegazione, lasciando intendere che il protrarsi del legame tra la testa dalla bella barba e il corpo togato del Consigliere potrebbe dipendere dall’incisività di tale spiegazione.
C’è un lungo silenzio durante il quale sia Nelson Eddy sia Don Megala si avvalgono della pellicola di sole di giugno che filtra dall’ordito di lino alle finestre per offrire il profilo, torturato l’uno e meditabondo l’altro, alla vista onirica della signora Dingle. Un silenzio davvero lungo. Poi il Consigliere cambia espressione sotto la sbrindellata fiamma di torcia di una percezione tardiva ma quasi epifanica. Sfodera un lento sorriso, un sorriso triste come di fronte all’inevitabile, prende il re per il gomito e lo guida con fare confidenziale verso l’angolo della sala, anche se non c’è nessuno. Il re si guarda intorno, schiarendosi la gola con impazienza mentre il Consigliere tasta delicatamente la propria.
Consiglia il re: è stato, purtroppo, proprio il sogno del re a portare la peste a Itaca, il regno.
L’intervallo tra le 11:50 e le 11:57, ora orientale, 15 giugno 1983, trova una minuscola percentuale di abitanti del pianeta alle prese con una minuscola percentuale delle varie e ineluttabili situazioni modali del pianeta.
8:50, ora del Pacifico, il dottor W. W. Skeat, a Fullerton, in California, guidando lungo la Brea Highway diretto a nord verso un negozio Osco dove comprare una marca esoterica di collutorio all’acqua ossigenata, si ritrova, dentro l’auto, tormentato da un’enorme contrazione muscolare alla natica destra. Il muscolo si contrae, facendolo saltare per tutto il sedile. Skeat si lamenta; l’auto comincia a sbandare.
11:50, ora orientale, Myrnaloy Trask, del «Collective Copy», conclude una massacrante discussione infarcita di me-lo-dovevo-aspettare con Don Megala, studente di professione, circa il fatto di essere entrata la sera prima nel suo loft trovando una specializzanda dello Smith nuda (tale Pamela Drax, 25 anni, di Ithaca, New York) a cavalcioni sulla faccia bi-barbuta di Megala. Megala, al tavolo dove lavora ai dolcimele, suda su una piccola foresta marrone di bottiglie smussate di Bass, sostenendo che non è come sembrava. Myrnaloy reagisce con una variante espansa fino allo strillo di «Ah, no?» Megala, guardandosi intorno, attacca un discorso su una certa lente a contatto persa in circostanze cosí assurde che non si aspetta certo di essere creduto da chi non rientra in una cerchia molto speciale dove dominano il dialogo e la fiducia. Myrnaloy ride, piange, insulta. Passandosi la mano tra il ricordo di capelli, Megala allude con ostentata pazienza ai problemi personali ancora-narrativamente-nebulosi riguardo al sesso e agli uomini. A partire da quel momento la situazione precipita come sabbia tra le dita. Myrnaloy riattacca e si accascia sul cassetto che fornisce la carta alla fotocopiatrice. Il cassetto continua freddamente a fornire la carta.
6:51, ora delle montagne, Patricia Dingle di Rock Springs, Wyoming, corrispondente ipoartica della rivista «Geo», svegliandosi da sola in un sacco a pelo a forma di mummia presso un fuoco spento sulla spiaggia settentrionale del golfo Coronation, nei Territori nord - nord occidentali del Canada, scopre che le dita della mano destra sono uscite dalla lampo difettosa del sacco a pelo assiderandosi. Cade una strana neve di giugno a vento, i fiocchi svolazzano come insetti impazziti sulla crosta dura della spiaggia. Lei guarda i resti scuri del fuoco di bivacco e gli sgargianti pallini di sangue congelato nella mano grigiazzurra.
11:51, ora orientale, la signora Dingle, a Troy, New York, davanti al pane di granturco tostato e a un tè alla pesca si sforza di esprimere una paura indicibile al signor Dingle, che intanto dispone esche e mosche nella seconda fila di una valigetta con l’attrezzatura da pesca.
11:51, ora orientale, Barry Dingle, Northampton, Massachusetts, sans occhiali, avec poncho migliore e pantaloni di cotone a tubo, si apposta sulla soglia rientrata del «Leftward Ho Cafe», sulla Great Awakening, poco piú giú dell’«Integale» e del «Collective Copy». Dingle, il cane sinistramente vivace stretto saldamente tra le ginocchia, aspetta la pubblica apparizione di Nixon e della Trask. Il coraggio dai nitidi contorni rifulge vivido lungo il costato, illuminando i vitrei occhi di bambola di un amore smodato che, seduto nella posizione del loto nel cuore di Dingle, guarda dritto davanti a sé sotto l’assidua luce da sessanta watt del compimento di un piano. L’ultima mensola di nembi primaverili si sposta verso est, portando con sé l’essenza drepanoide di un arcobaleno calante.
11:53, ora orientale, K. K. McFadden, stenografa del vice addetto stampa del Presidente degli Stati Uniti, Washington, D. C., commette un errore di stenografia asserendo, in una dichiarazione pre-summit da leggere ai media cirillici dal portavoce dell’addetto stampa, che il Presidente, come ribadito piú volte, è disposto a compiere un ulteriore sforzo diplomatico pur di scongiurare la terribile eventualità di una guerra culneare.
11:54, ora orientale, la signora Dingle prende il telefono e fa il numero dell’«Integrale» di Northampton, il cuore oppresso da un’angoscia senza nome.
11:54, ora orientale, Myrnaloy Trask, automa di dolore, prende il pane alle zucchine, l’acqua minerale e il cane, esce dal «Collective Copy» e va verso sud, unendosi all’ampio spettro di capelli e trucco Kabuki della folla sul marciapiede all’ora di pranzo. Avverte l’umidità, vede il vapore levarsi lungo l’arteria principale, sente il breve fruscio della sua bacheca riparata, annusa l’ozono e il diesel dolce dell’autobus pubblico in folle.
18:45, ora dell’Atlantico, Aristotele Onassis, sul suo yacht, quattro gradi a ovest e sei a nord dell’isola Lord Howe nel mar di Tasmania, rimugina davanti a un succo di sedano nell’angolo bar del suo yacht. È seduto su uno sgabello di teak. Il sedile dello sgabello e la superficie del bancone sono rivestiti di raffinatissima pelle grigiazzurra ricavata dallo scroto di capodoglio sotto la supervisione personale della signora O. Onassis gira i cubetti di ghiaccio con il grosso dito.
8:45, ora del Pacifico, W. W. Skeat evita per un pelo un incidente con un autobus Trailways sulla corsia di sinistra dell’autostrada. Cambia posizione, sollevando la chiappa molesta dal sedile. L’autobus Trailways gli sta alle costole, l’autista strombazza alla sagoma inclinata a babordo di Skeat attraverso due strati di vetro spesso.
11:54, ora orientale, Don Megala rifà il numero del «Collective Copy», sentendosi dire che una signora Trask assai sconvolta è andata a pranzo. Megala toglie l’etichetta triangolare a una bottiglia umida, fissando uno strumento con metà corde.
6:55, ora delle montagne, Patricia Dingle, gli occhi brinati di ghiaccio, il palato che pende per la paura da spazi sconfinati sotto la luce perlacea delle stelle, pratica una maldestra incisione all’anulare della mano congelata con un coltello da campo. È un’incisione profonda appena sotto l’unghia. Strizza il dito con la mano sinistra per spingere verso l’alto il sangue congelato e farlo fuoriuscire dall’incisione. Il sangue abbandona il dito in una massa solida e sgargiante, tracciando un arco nell’aria schizzettata di neve e freddissima. A Patricia Dingle torna in mente la sua passione riposta per i ghiaccioli alla ciliegia di quand’era una poppante e tutt’a un tratto vomita sulla spiaggia in discesa del golfo reale.
11:55, ora orientale, Barry Dingle spunta dalla soglia del «Leftward Ho» e si dirige a nord sull’ampio marciapiede verso la minuscola, divergente immagine duale di Myrnaloy Trask e della sua compagna di vita. Il marciapiede davanti a lui, gremito di donne dalle capigliature moicane, uomini smidollati in abiti di pelle, bambini con i grembiuli tinti, si dirama ai suoi occhi in due vivide colonne. Dingle punta alla distante radice dove le colonne convergono, dove due Myrnaloy e due cani incontinenti si uniranno. I sandali sbatacchiano sull’asfalto bagnato. Dingle sente sulla lingua il sapore della materia di cui è fatto il suo cuore. Le nocche bianche sono puntinate di rosso per quanto stringe il pesante guinzaglio del suo cane; è intorpidito; non sente gli slanci abortiti del cane verso le saffoidi dai capelli a spazzola che passano appena fuori dal campo visivo incrociato verso l’interno di Dingle e ruotano di scatto sugli stivali muniti di speroni, la maggior parte guardando furiose l’animale, e o fanno il saluto romano o assumono pose da arti marziali. Dingle è cieco a quello che passa; guarda dritto davanti a sé; gli occhi dell’amore smodato s’arrovesciano, bianchi sotto il bulbo acceso.
11:55, ora orientale, la signora Dingle ha uno stringato scambio di saluti con Nigel, timoniere temporaneo dell’«Integrale», all’ora di pranzo. Chiede di Dingle.
8:50-8:57, ora delle montagne, i fratelli Eskew, Ronnie e Boone, detenuti in attesa di giudizio nel carcere penale dell’Arizona per una condanna non superiore ai dodici anni, attaccano la foto di una donna nuda sulla schiena appartenente al nuovo detenuto Dean-Paul Doyle, di anni 18, e lo sodomizzano ripetutamente sul pavimento dell’affollato dormitorio nel Braccio D, Arizona, Penitenziario di Stato, Florence, Arizona.
11:56, ora orientale, Myrnaloy Trask si dirige a sud sul marciapiede, vedendo oltre la cortina di roventi lacrime poco piú che un miasma di capelli colorati, pantaloni khaki, lo scintillio del sole che affiora sui mono-orecchini. Passato e presente si uniscono in un vortice cedendo a un tornado di dolore. Nixon le trotterella accanto tutta allegra.
11:56, ora orientale, la signora Dingle, al telefono, si ritrova a piangere senza un buon motivo. Nigel cerca di calmarla con la ricetta del gazpacho.
18:56, ora orientale, Aristotele Onassis, sul suo sgabello, sul suo yacht, vede sul monitor del radar alle sue spalle la faccia al videotape di Cliff Robertson che parla per conto della AT&T, di cui Aristotele è proprietario. Robertson è abbronzato e in forma. Onassis vede tutt’e due le loro facce riflesse nel suo specchio lucido sopra il suo angolo bar, sul suo yacht.
11:56, ora orientale, Don Megala, nell’attesa che la speciale marca di ceralacca Weather-That-Wood si asciughi su un dolcimele che presto sarà antichizzato, fuma una Dunhill, guardando dalla finestra del laboratorio il muro intonacato di mattoni del New England su cui affaccia la finestra.
8:56, ora delle montagne, Shauna Doyle, dieci settimane di vita, a Olney, Arizona, è stesa sulla moquette nella roulotte della madre assente. Vede il rosa pallido del sole rifulgere attraverso l’orecchio drizzato del cucciolo di husky bianco che le fa la guardia mentre Barry Dingle avanza verso la convergenza. Il suo amore dagli occhi bianchi intona preghiere per i vivi. Le squadre si avvicinano. Nixon, da poco in calore, tira il guinzaglio all’approssimarsi del maschio in vincoli di Dingle. Le nuvole, cupo flagello orientale in un cielo azzurro smodato, rombano mentre un abbozzo di arcobaleno rimane sospeso come una virgola, indeciso. Myrnaloy è cieca. Dingle sorride senza freni raggiungendo l’unione delle colonne, sorridendo, simulando malamente lo shock nell’incontrare una persona conosciuta. Inciampa con ideale sorpresa preparata in precedenza – stavolta, però, sbattendo tutt’altro che idealmente la punta gonfia del piede contro l’alto palo alla fermata dell’autobus – perdendo la presa sulla catena del guinzaglio. Il cane di Dingle non è interessato a Nixon: gli occhi ruotanti si fissano su un punto poco sotto il giro vita del gonnellone di Myrnaloy Trask, sopravento. Dingle si dedica con eccessiva convinzione al piede dolorante, urlando, il piede destro sollevato e stretto fra le mani bianche; il cane da riporto viene liberato, la catena militare il gioiello di un corteggiatore. Scavalca con balzo arrapato una lucente pozzanghera. Dal basso, la pozzanghera riflette verso l’alto la non bella eccitazione rosso acceso di un cane. Myrnaloy si blocca. Dingle si blocca. Il cane di Dingle è sospeso a mezz’aria, inumato nel colore, fissato e fuso in un’indicibile messa a fuoco.
1 Per saperne molto di piú vedi W. Deldrick Sperber, La comunità sensibile: ambiguità nutritive, sessuali e politiche a Northampton (Mass.), in «Journal of American Studies in Sensitivity», v. IX, numeri 2-3, 1983.
2 Vedi W.W. Skeat, L’intrinseco orientamento settentrionale dei parameci nella saliva umana neoplastica, Principium Salivato, v.2, numeri 2-3, 1970.
3 Vedi, per esempio, le fotografie di E. Dickinson, B. Streisand, J. C. Oates.
Questa è l’acqua*
Saluti, ringraziamenti e congratulazioni ai laureandi dell’anno accademico 2005. Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: – Che cavolo è l’acqua?
Negli Stati Uniti un discorso per il conferimento delle lauree non può prescindere dall’impiego di storielle d’impianto parabolico a scopo didascalico. Tra le convenzioni imposte dal genere, questa storiella è una delle migliori e con meno fronzoli... ma non temete: non sono qui nella veste del pesce piú anziano e saggio che spiega cos’è l’acqua ai pesci piú giovani. Non io sono l’anziano pesce saggio. Il succo della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà piú ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le piú difficili da capire e da discutere. Detta cosí sembrerà una banalità bella e buona, ma il fatto è che nelle trincee quotidiane dell’esistenza da adulti le banalità belle e buone possono diventare questione di vita o di morte, ed è su questo che vorrei soffermarmi in questa splendida mattinata tersa.
Certo, un discorso come questo presuppone che vi parli in primo luogo del significato della vostra cultura umanistica, che cerchi di spiegarvi perché la laurea che state per prendere ha un effettivo valore umano e non solo un tornaconto materiale. Vediamo perciò di affrontare il cliché in assoluto piú diffuso in questo genere di discorsi, e cioè che scopo di una cultura umanistica non è tanto rimpinzarvi di erudizione quanto «insegnarvi a pensare». Se siete com’ero io ai tempi dell’università, sentirvi dire una cosa del genere non vi sarà mai piaciuto, e anzi troverete un po’ offensivo che qualcuno pretenda di insegnarvi come si pensa, visto che il solo fatto di essere entrati in un’università cosí prestigiosa dimostra che ne siete capaci. Ma partirò dal presupposto che il cliché degli studi umanistici non ha niente di offensivo, perché la vera, fondamentale educazione a pensare che dovremmo ricevere in un luogo come questo non riguarda tanto la capacità di pensare, quanto semmai la facoltà di scegliere a cosa pensare. Se la vostra totale libertà di scegliere a cosa pensare sembra fin troppo ovvia per sprecare il fiato a parlarne, vi chiederei di pensare ai pesci e all’acqua mettendo da parte, solo per qualche istante, ogni scetticismo sul valore delle perfette ovvietà.
Eccovi un’altra storiella didascalica. Ci sono due tizi seduti a un bar nel cuore selvaggio dell’Alaska. Uno è credente, l’altro è ateo, e stanno discutendo l’esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che viene fuori dopo la quarta birra. L’ateo dice: – Guarda che ho le mie buone ragioni per non credere in Dio. Ne so qualcosa anch’io di Dio e della preghiera. Appena un mese fa mi sono lasciato sorprendere da quella spaventosa tormenta di neve lontano dall’accampamento, non vedevo niente, non sapevo piú dov’ero, c’erano quarantacinque gradi sottozero e cosí ho fatto un tentativo: mi sono inginocchiato nella neve e ho urlato: «Dio, sempre ammesso che Tu esista, mi sono perso nella tormenta e morirò se non mi aiuti!» – A quel punto il credente guarda l’ateo confuso: – Allora non hai piú scuse per non credere, – dice. – Sei qui vivo e vegeto –. L’ateo sbuffa come se il credente fosse uno scemo integrale: – Non è successo un bel niente, a parte il fatto che due eschimesi di passaggio mi hanno indicato la strada per l’accampamento.
È facile analizzare questa storiella secondo i criteri classici delle scienze umanistiche: la stessa identica esperienza può significare due cose completamente diverse per due persone diverse che abbiano due diverse impostazioni ideologiche e due diversi modi di attribuire un significato all’esperienza. Siccome diamo grande valore alla tolleranza e alla diversità ideologica, la nostra analisi di stampo umanistico non ci consente nel modo piú assoluto di dire che l’interpretazione dell’uno è vera e quella dell’altro è falsa o disdicevole. Il che va benissimo, solo che cosí facendo trascuriamo puntualmente l’origine di tali impostazioni e credenze individuali, la loro origine, cioè, all’interno di quei due tizi. Quasi che l’orientamento di fondo di una persona rispetto al mondo e al significato della sua esperienza fosse cablato in automatico, come l’altezza o il numero di scarpe, o assorbito dalla cultura come la lingua. Quasi che il nostro modo di attribuire un significato non fosse questione di scelta personale e deliberata, di decisione consapevole.
C’è poi la questione dell’arroganza. Il non credente liquida con estrema petulanza e sicumera l’eventualità che gli eschimesi avessero qualcosa a che fare con la sua preghiera di aiuto. D’altro canto i credenti che mostrano un’arrogante sicurezza nelle loro interpretazioni non si contano nemmeno. E forse sono anche peggio degli atei, almeno per la maggior parte di noi qui riuniti, ma il fatto è che il problema dei dogmatici religiosi è identico a quello dell’ateo della storiella: arroganza, convinzione cieca, una ristrettezza di idee che si traduce in una prigionia completa al punto che il prigioniero non sa nemmeno di essere sotto chiave. Il punto secondo me è che il mantra delle scienze umanistiche – «insegnami a pensare» – in parte dovrebbe significare proprio questo: essere appena un po’ meno arrogante, avere un minimo di «consapevolezza critica» riguardo a me stesso e alle mie certezze... perché un’enorme percentuale delle cose di cui tendo a essere automaticamente certo risultano, a ben vedere, del tutto erronee e illusorie. Io l’ho imparato a mie spese e altrettanto, ho il sospetto, toccherà a voi.
Ecco un esempio dell’erroneità assoluta di una cosa di cui tendo a essere automaticamente certo. Tutto nella mia esperienza diretta corrobora la convinzione profonda che io sono il centro esatto dell’universo, la persona piú reale, concreta e importante che esista. Affrontiamo raramente questa forma di naturale e basilare egocentrismo perché socialmente parlando è disgustosa anche se, sotto sotto, ci accomuna tutti. È la nostra modalità predefinita, inserita nei circuiti fin dalla nascita. Pensateci: non avete vissuto una sola esperienza che non vi vedesse al suo centro esatto. Per voi il mondo è una cosa che vi sta davanti o dietro, a sinistra o a destra, sullo schermo del televisore o su quello del computer. I pensieri e i sentimenti degli altri devono esservi comunque comunicati, i vostri invece sono cosí vicini, pressanti, reali. Insomma, ci siamo capiti. Ma state tranquilli, non mi preparo a tenervi una predica sulla compassione, l’eterodirezione o tutte le altre cosiddette «virtú». Non è questione di virtú quanto della scelta di impegnarmi a modificare o a tenere a freno la mia naturale modalità predefinita, che è per forza di cose profondamente e letteralmente egocentrica, e vede e interpreta tutto attraverso la lente dell’io. Le persone capaci di adattare a tal punto la loro modalità predefinita sono spesso considerate l’esatto opposto dei «disadattati», termine che, vi posso assicurare, non ha niente di casuale.
Dato il contesto accademico è naturale domandarsi fino a che punto questo adattamento della modalità predefinita coinvolga il sapere o l’intelletto. La risposta, com’è prevedibile, è che dipende da che cosa intendiamo con sapere. La conseguenza forse piú pericolosa di una cultura accademica, almeno nel mio caso, è che legittima la mia tendenza a essere cerebrale, a perdermi nelle astrazioni anziché prestare semplicemente attenzione a quello che mi succede davanti agli occhi. Anziché prestare attenzione a quello che mi succede dentro. Sono sicuro che ormai saprete quanto sia difficile tenere alta la soglia di attenzione e non farsi ipnotizzare dall’ininterrotto monologo che si svolge dentro la testa. Quello che ancora non sapete è quanto sia alta la posta in gioco.
Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel frattempo ho capito poco alla volta che il cliché secondo il quale le scienze umanistiche «insegnano a pensare» in realtà sintetizza una verità molto profonda e importante. «Imparare a pensare» di fatto significa imparare a esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati. Un vecchio cliché vuole che la mente sia un ottimo servo ma un pessimo padrone. Questo, come molti altri cliché in apparenza fiacchi e banali, in realtà esprime una grande, terribile verità. Non è certo un caso che gli adulti che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre... alla testa. E la verità è che erano quasi tutti già morti da un pezzo quando hanno premuto il grilletto. E date retta a me, il valore reale e schietto della vostra cultura umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedirvi di trascorrere la vostra comoda, agiata, rispettabile vita da adulti come morti, inconsapevoli, schiavi della vostra testa e della vostra naturale modalità predefinita che vi impone una solitudine unica, completa e imperiale giorno dopo giorno.
Potrà sembrare un’iperbole, o un’astrazione priva di senso. Perciò mettiamola sul piano pratico. Il fatto è che voi laureandi non avete ancora ben chiaro cosa significhi realmente «giorno dopo giorno». Ci sono interi aspetti della vita americana da adulti che vengono bellamente ignorati da chi tiene discorsi come questo. I genitori e le persone di una certa età qui presenti sanno benissimo a cosa mi riferisco. Mettiamo, per dire, che sia una normale giornata nella vostra vita da adulti: la mattina vi alzate, andate al vostro impegnativo lavoro impiegatizio da laureati, sgobbate per nove o dieci ore e alla fine della giornata siete stanchi, siete stressati e volete solo tornare a casa, fare una bella cenetta, magari rilassarvi un paio d’ore e poi andare a letto presto perché il giorno dopo dovete alzarvi e ripartire daccapo. Ma a quel punto vi ricordate che a casa non c’è niente da mangiare – questa settimana il vostro lavoro impegnativo vi ha impedito di fare la spesa – e cosí dopo il lavoro vi tocca prendere la macchina e andare al supermercato. A quell’ora escono tutti dal lavoro, c’è un traffico mostruoso e il tragitto richiede molto piú del necessario e, quando finalmente arrivate, scoprite che il supermercato è strapieno di gente perché a quell’ora tutti gli altri che come voi lavorano cercano di ficcarsi nei negozi di alimentari, e il supermercato è orribile, illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e canzoncine capaci solo di abbrutire, e voi dareste qualsiasi cosa per non essere lí, ma non potete limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi, iperilluminati e caotici per trovare quello che vi serve, manovrare il carrello scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col carrello, e ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini iperattivi che bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi di chiedere permesso in tono gentile ma poi, quando finalmente avete tutto l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo e vi manda in bestia, ma non potete prendervela con la cassiera isterica, oberata com’è quotidianamente da un lavoro cosí noioso e insensato che tutti noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo immaginiamo... fatto sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate il vostro cibo, aspettate che una macchinetta autentichi il vostro assegno o la vostra carta di credito e vi sentite augurare «buona giornata» con una voce che è esattamente la voce della morte, dopodiché mettete quelle raccapriccianti buste di plastica sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita che tira a sinistra, attraversate tutto il parcheggio intasato, pieno di buche e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che non esca dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al traffico lento, congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera, eccetera. Ci siamo passati tutti, certo: ma non rientra ancora nella routine di voi laureati, giorno dopo settimana dopo mese dopo anno. Però finirà col rientrarci, insieme a tante altre squallide, fastidiose routine apparentemente inutili...
Ma non è questo il punto. Il punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco conto come questa. Perché il traffico congestionato, i reparti affollati e le lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, sarò incazzato e giú di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perché la mia modalità predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino davvero esclusivamente me. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di tornare a casa, e avrò la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino. E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti schifo mentre se ne stanno in fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con l’occhio smorto e niente di umano; e che odiosi poi quei cafoni che parlano forte al cellulare in mezzo alla fila. Certo che è proprio un’ingiustizia: ho sgobbato tutto il santo giorno, muoio di fame, sono stanco e non posso nemmeno andare a casa a mangiare un boccone e a distendermi un po’ per colpa di tutte queste stupide, stramaledette persone. Oppure, se gli studi umanistici fanno propendere la mia modalità predefinita verso una maggiore coscienza sociale, posso trascorrere il tempo imbottigliato nel traffico di fine giornata a inorridire per tutti gli enormi, stupidi Suv, Hummer e pickup con motore da 12 valvole che bloccano la corsia bruciando tutti e centottanta i litri di benzina che hanno in quei loro serbatoi spreconi e egoisti, posso riflettere sul fatto che gli adesivi patriottici o religiosi sembrano sempre appiccicati sui veicoli piú grossi e schifosamente egoisti, guidati dagli autisti piú osceni, spericolati e aggressivi, che di norma parlano al cellulare mentre ti tagliano la strada per guadagnare sei stupidi metri nel traffico congestionato, e posso pensare che i figli dei nostri figli ci disprezzeranno per aver sperperato tutto il carburante del futuro, mandando in malora il clima, e a quanto siamo viziati, stupidi, egoisti e ripugnanti, e a come fa tutto veramente schifo e chi piú ne ha piú ne metta...
Guardate che se scegliete di pensarla cosí non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla cosí diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla cosí è la mia modalità predefinita naturale. È il modo automatico e inconsapevole di affrontare le parti noiose, frustranti e caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione automatica e inconsapevole che sono io il centro del mondo, e che sono le mie sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire l’ordine di importanza delle cose. Il fatto è che in frangenti come questo si può pensare in tanti modi diversi. Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi intralciano, non è da escludere che a bordo dei Suv ci sia qualcuno che in passato ha avuto uno spaventoso incidente e ora ha un tale terrore di guidare che il suo analista gli ha ordinato di farsi un Suv mastodontico per sentirsi piú sicuro alla guida; o che al volante dell’Hummer che mi ha appena tagliato la strada ci sia un padre che cerca di portare di corsa in ospedale il figlioletto ferito o malato che gli siede accanto, e la sua fretta è maggiore e piú legittima della mia: anzi, sono io a intralciarlo. Oppure posso scegliere di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e che qualcuno magari abbia una vita nel complesso piú difficile, tediosa e sofferta della mia. Vi prego ancora una volta di non pensare che voglia darvi dei consigli morali, o che vi stia dicendo che «dovreste» pensarla cosí, o che qualcuno si aspetta che lo facciate automaticamente, perché è difficile, richiede forza di volontà e impegno mentale e, se siete come me, certi giorni non ci riuscirete proprio, o semplicemente non ne avrete nessuna voglia. Ma quasi tutti gli altri giorni, se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una scelta, potrete scegliere di guardare in modo diverso quella signora grassa con l’occhio smorto e il trucco pesante in fila alla cassa che ha appena sgridato il figlio: forse non è sempre cosí; forse è stata sveglia tre notti di seguito a stringere la mano al marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è quella stessa impiegata assunta alla Motorizzazione col minimo salariale che soltanto ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un problema burocratico da incubo facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa volete prendere in considerazione. Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero importanti – se volete operare in modalità predefinita – allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla. Questa, a mio avviso, è la libertà che viene dalla vera cultura, dall’aver imparato a non essere disadattati; riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che cosa no. Riuscire a decidere che cosa venerare...
Ecco un’altra cosa vera. Nelle trincee quotidiane della vita da adulti l’ateismo non esiste. Non venerare è impossibile. Tutti venerano qualcosa. L’unica scelta che abbiamo è che cosa venerare. E un motivo importantissimo per scegliere di venerare un certo dio o una cosa di tipo spirituale – che sia Gesú Cristo o Allah, che sia YHWH o la dea madre della religione Wicca, le Quattro Nobili Verità o una serie di principi etici inviolabili – è che qualunque altra cosa veneriate vi mangerà vivi. Se venerate il denaro e le cose, se è a loro che attribuite il vero significato della vita, non vi basteranno mai. Non avrete mai la sensazione che vi bastino. È questa la verità. Venerate il vostro corpo, la vostra bellezza e la vostra carica erotica e vi sentirete sempre brutti, e quando compariranno i primi segni del tempo e dell’età, morirete un milione di volte prima che vi sotterrino in via definitiva. Sotto un certo aspetto lo sappiamo già tutti benissimo: è codificato nei miti, nei proverbi, nei cliché, nei luoghi comuni, negli epigrammi, nelle parabole; è la struttura portante di tutte le grandi storie. Il segreto consiste nel dare un ruolo di primo piano alla verità nella consapevolezza quotidiana. Venerate il potere e finirete col sentirvi deboli e spaventati, e vi servirà sempre piú potere sugli altri per tenere a bada la paura. Venerate l’intelletto, spacciatevi per persone in gamba, e finirete col sentirvi stupidi, impostori, sempre sul punto di essere smascherati. E cosí via.
Guardate che l’aspetto insidioso di queste forme di venerazione non è che sono malvagie o peccaminose, è che sono inconsapevoli. Sono modalità predefinite. Sono il genere di venerazione in cui scivolate per gradi, giorno dopo giorno, diventando sempre piú selettivi su quello che vedete e sul metro che usate per giudicare senza rendervi nemmeno bene conto di farlo. E il cosiddetto «mondo reale» non vi dissuaderà dall’operare in modalità predefinita, perché il cosiddetto «mondo reale» degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità e libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi. Ciò non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere piú prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, conquiste e ostentazione. Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito.
So che questa roba forse non vi sembrerà divertente, leggera o altamente ispirata come invece dovrebbe essere nella sostanza un discorso per il conferimento delle lauree. Per come la vedo io è la verità sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche. Ovvio che potete prenderla come vi pare. Ma vi pregherei di non liquidarlo come uno di quei sermoni che la dottoressa Laura impartisce agitando il dito. Qui la morale, la religione, il dogma o le grandi domande stravaganti sulla vita dopo la morte non c’entrano. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è cosí reale e essenziale, cosí nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: «Questa è l’acqua, questa è l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto piú di quello che sembra». Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia... adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.
* Trascrizione del discorso per il conferimento delle lauree tenuto al Kenyon College – 21 maggio 2005.