LA FINE DEL TITANIC
Hans Magnus Enzensberger
Di questi tempi, prima con la pandemia e poi con la guerra in Ucraina, ci sentiamo forse un po' sul Titanic.
[...] Non è soltanto il Titanic che naufraga, ma l'intera ambizione d'un secolo, che ha creduto incrollabilmente nel progresso e nelle magnifiche sorti[...]
«Sono le undici e quaranta / a bordo. La
pelle d'acciaio / si spalanca sott'acqua, / squarciata, / per duecento metri, / da un impensebile coltello. / L'acqua schizza nella chiglia. /Oltre il lucente scafo, scivola trenta metri i strapiombo, / sul livello del mare, nero / e silenzioso l'iceberg, / e resta indietro nell'oscurità».
È la fine del grande transatlantico Titanic,
una fredda mattina del 1912. Niente sirene,
nessun campanello d'allarme, nessun avvertimento. Solo un discreto battito alle porte delle cabine, un tossicchiare in salotto. Una morte bianca, incruenta, senza sangue; una trage dia che sale poco a poco dal profondo. E nel profondo (« il principio della fine è sempre discreto») che si prepara la tragedia, come in un fornello alchemico; finché un fiotto limaccioso e minaccioso sgorga nella stiva fra i sacchi di posta e s'infiltra sin nelle cucine, guadagnando ogni interstizio.
Urla, disperati centativi di salvataggio, il progredite subdolo della catastrofe: un boato e poi l'improvviso silenzio del terrore. E proprio il rumore sordo, profondo che dà il senso della tragedia. «Fu un gemito, - dice uno spettro, venuto della morte - no, un rombo, un fragore, / un ripetuto rimbombo di colpi, come se in un'unica volta / oggetti pesanti tonnellate, fossero capovolti negli abissi, / e che quelle incommensurabilmente ponderose cose, cadendo / frantumassero tutto. Fu un rumore quale mai alcun essere umano / aveva percepito e che nessuno di noi fintanto che vivrà, / si augura di udire mai piú».
Questo Titanic, modemo poema in trentatre canti, è esplicitamente ispirato alla Divina Commedia di Dante, un poeta che ritorna volentieri fra i fantasmi qui evocati da Enzensberger, in questa tormentata ricostruzione di una catastrofe mentale, «naufragio in una testa». Le voci dei naufraghi, i ricordi nostalgici dei morti, gli inarticolati messaggi dei superstiti; ma anche i frammenti di telegrammi, le ultime informazioni meteorologiche, i messaggi di S.O.S. e poi la descrizione minuziosa dei menu di bordo, della leziosa architettura sprofondata, delle decorazioni ornamentali e leitsch dei saloni da tè, le desuete e importune allegorie della Pace e del Progresso, tutto imbalsamato nel gran vuoto dell'acqua.
«Nero inchiostro i minuti, rappresi come in gelatina», sono gli ultimi istanti di vita fermati da un poeta che vuole capire la morte. E questo Titanic parla soprattutto di lui, del poeta che vuole raccontare la catastrofe magari riflettendosi nei dubbi d'un pittore trecentesco d'Apocalisse («Come si fa / a dipingere la fine del mondo? Questioni tecniche, problemi di composizione. / Distruggere il mondo intero è una faticaccia./ Particolarmente difficile da di.
pingere sono i rumori, / il lacerarsi della corna nel tempio / il mugghio, il tuono. Tutto /infatti deve squarciarsi, essere squarciato, esclusa la tela»); del poeta che s'interroga sul proprio lavoro e trova atroce di star li a cantare il naufragio, come momento di bellezza estetica.
« lo dunque sto qui seduto, avvolto nelle coperte, mentre di fuori nevica e nevica, /e mi diverto a giocare con la fine, / con la fine del Titanic. / Sono padrone del tempo come un dio. / Mi preoccupo dei radiogrammi, dei menú, / dei cadaveri annegati». I dubbi, le crisi: perché per tutti «l'iceberg si fa incontro inesorabilmente, come una Fata Morgana. Non è soltanto il Titanic che naufraga, ma l'intera ambizione d'un secolo, che ha creduto incrollabilmente nel progresso e nelle magnifiche sorti. Elogio del provvisorio e del dubbio, questo poema, ma ci parla di riflesso anche della crisi del militante marxista che ha creduto in Fidel Castro e che ormai non ha piú illusioni. Scritto per la prima volta nel 1969, il manoscritto del Titanic va infatti disperso, e questo è dunque anche il tentativo caparbio di riscrivere una fantasia perduta, di ritrovare nella memoria un confuso paesaggio di scrittura. Una scommessa, quasi, con la lingua, con il senso stesso della poesia, dello scrivere: perché il vero naufragio è quello delle parole: «Rottami, frammenti di frasi, / cassette vuote, grosse buste commerciali, / bruni, fradici, rosicchiati dal sale. / estraggo dai flutti dei versi, / dai cupi, caldi flutti / del mar dei Caraibi, / dove pullulano gli squali, / versi esplosi, salvagenti, / vorticosi souvenirs.
Canto primo
Qualcuno ascolta. Aspetta. Trattiene
il fiato, proprio qui,
accanto. E dice: quello lí che parla sono io.
Mai piú, dice,
sarà tutto cosí quieto,
cosí asciutto e caldo com'è.
Egli si ascolta,
nel brusio del suo cranio.
Altri non vi è se non colui
che dice: devo essere proprio io.
Aspetto, trattengo il fiato,
teso all'ascolto. Quel lontano ronzio
nelle orecchie, nelle mie antenne
di morbida carne, nulla significa.
È solo il sangue
che picchia nelle vene,
Ho atteso a lungo,
col fiato sospeso.
Bianco brusio negli auricolari
della mia macchina del tempo.
Sordo rombo cosmico.
Nessuno bussa. Nessuno invoca.
Tace la radio.
O è già finito,
mi dico, oppure
non è ancora incominciato.
Adesso però! Ecco:
Uno scricchiolío. Uno scalpiccío. Uno squarcio
Ecco cos'è. Un'unghia di ferro
che contro la porta gratta e si arresta.
Qualcosa si squarcia.
Un'interminabile telone,
un'immacolata striscia di schermo
che prima lenta,
poi rapida, sempre piú rapida
e sibilante si squarcia in due.
E il principio
Udite? Non lo udite forse?
Tenetevi forte!
Poi tutto torna tranquillo.
Solo qualcosa nel muro, qualcosa
di smerigliato stride ancora,
un tremito cristallino
che s'affioca
e svanisce.
Ecco com'era.
Era cosí? Sí,
cosí dev'essere stato.
Cosí fu il principio.
Il principio della fine
è sempre discreto.
Sono le undici e quaranta
a bordo. La pelle d'acciaio
si spalanca sott'acqua,
squarciata,
per duecento metri,
da un impensabile coltello.
L'acqua schizza nella chiglia.
Oltre il lucente scafo
scivola, trenta metri a strapiombo
sul livello del mare, nero
e silenzioso l'iceberg
e resta indietro nell'oscurità.
il fiato, proprio qui,
accanto. E dice: quello lí che parla sono io.
Mai piú, dice,
sarà tutto cosí quieto,
cosí asciutto e caldo com'è.
Egli si ascolta,
nel brusio del suo cranio.
Altri non vi è se non colui
che dice: devo essere proprio io.
Aspetto, trattengo il fiato,
teso all'ascolto. Quel lontano ronzio
nelle orecchie, nelle mie antenne
di morbida carne, nulla significa.
È solo il sangue
che picchia nelle vene,
Ho atteso a lungo,
col fiato sospeso.
Bianco brusio negli auricolari
della mia macchina del tempo.
Sordo rombo cosmico.
Nessuno bussa. Nessuno invoca.
Tace la radio.
O è già finito,
mi dico, oppure
non è ancora incominciato.
Adesso però! Ecco:
Uno scricchiolío. Uno scalpiccío. Uno squarcio
Ecco cos'è. Un'unghia di ferro
che contro la porta gratta e si arresta.
Qualcosa si squarcia.
Un'interminabile telone,
un'immacolata striscia di schermo
che prima lenta,
poi rapida, sempre piú rapida
e sibilante si squarcia in due.
E il principio
Udite? Non lo udite forse?
Tenetevi forte!
Poi tutto torna tranquillo.
Solo qualcosa nel muro, qualcosa
di smerigliato stride ancora,
un tremito cristallino
che s'affioca
e svanisce.
Ecco com'era.
Era cosí? Sí,
cosí dev'essere stato.
Cosí fu il principio.
Il principio della fine
è sempre discreto.
Sono le undici e quaranta
a bordo. La pelle d'acciaio
si spalanca sott'acqua,
squarciata,
per duecento metri,
da un impensabile coltello.
L'acqua schizza nella chiglia.
Oltre il lucente scafo
scivola, trenta metri a strapiombo
sul livello del mare, nero
e silenzioso l'iceberg
e resta indietro nell'oscurità.
Canto secondo
L'urto fu lievissimo. Il primo radiogramma: Ore 00.15. Mayday. A culle le navi. Posizione 41"46' Nord 50"14' Ovest. Favoloso quel Marconi!
Un ticchettio nel cranio, nel padiglione auricolare, senza fili e da lontano, da tanto lontano - piú lontano di mezzo secolo!
Niente sirene, niente campanelli d'allarme, solo un discreto battito alla porta della cabina, un tossicchiare in salotto. Mentre sotto l'acqua sale, lo steward aiuta
un anziano signore dolorante, settore macchine utensili e metallurgia, ad allacciarsi le stringhe sul ponte D.
Coraggio! Bando alla fatica, signore mie,
al galop! grida il maestro di ginnastica, Mr. Mc Cawley, impeccabile come sempre nel suo completo di flanella beige,
da un'estremità della palestra in boiserie. Silenziosi dondolano i dromedari meccanici avanti e indietro.
Nessuno sospetta che l'indefesso ha mal di pancia, che non ce la fa a nuotare, che è spaventato.
John Jacob Astor invece squarcia con la limetta un salvagente e fa vedere alla moglie, che nasce Connaught, quel che c'è dentro (presumibilmente del sughero), mentre avanti nella stiva sgorga un fiotto spesso come un braccio, e glaciale gorgoglia sotto i sacchi postali e nelle cucine s'infiltra. Wigl wagl wak, suona l'orchestra in uniforme nivea, my monkey:
un potpourri da «The dollar princess".
Via! Tutti al Metropol! Berlino, com'è viva e vegeta! Solo in basso, là dove, come sempre, si capisce per primi, bauli bebè e federe scarlatte si arraffano in fretta e furia. La terza classe non conosce l'inglese né il tedesco, una sola cosa non gliela deve spiegare nessuno: che tocca prima alla prima classe, che non c'è mai abbastanza latte e mai abbastanza scarpe e mai abbastanza spazio nei battelli per tutti.