lunedì 4 aprile 2022

LA GRANDE CARESTIA LA GUERRA DI STALIN ALL'UCRAINA Anne Applebaum



 LA GRANDE CARESTIA

LA GUERRA DI STALIN ALL'UCRAINA 

Anne Applebaum 

L’omicidio di massa di popoli e nazioni che ha caratterizzato l’avanzata dell’Unione Sovietica in Europa non è una caratteristica nuova della sua politica di espansionismo. … Anzi, è stata una caratteristica a lungo termine anche della politica interna del Cremlino, per la quale gli attuali padroni potevano contare su grandi precedenti nella condotta della Russia zarista. È infatti un passo indispensabile nel processo di «unione» che i leader sovietici sperano ardentemente produrrà l’«Uomo sovietico», la «Nazione sovietica», e, per raggiungere tale obiettivo, tale nazione unificata, i leader del Cremlino distruggeranno allegramente le nazioni e le culture presenti da tanto tempo in Europa orientale.

RAPHAEL LEMKIN, Soviet Genocide in the Ukraine, 19531

[...] L' accanimento contro il popolo ucraino e la rancorosa rivalsa nei confronti di coloro che, durante la guerra civile degli anni 1918-1920, avevano avanzato pretese d’indipendenza proclamando la Repubblica nazionale ucraina, fautrice di una rinascita culturale e linguistica autoctona, tornata minacciosamente in auge nei primi anni Trenta in quella terra da sempre contesa [...].

[...] Questo non significa che la  rivoluzione ucraina, i primi anni dell’Ucraina sovietica, la repressione di massa dell’élite ucraina e il Holodomor non abbiano alcun rapporto con gli eventi attuali. Al contrario, essi costituiscono il cruciale retroterra che li sottende e li spiega. La carestia e le sue conseguenze svolgono un ruolo enorme nei dibattiti contemporanei, russi e ucraini, sull’identità dei rispettivi paesi, la loro relazione e la loro comune esperienza sovietica. Ma prima di rendere conto degli argomenti avanzati al riguardo e soppesarne il valore, è importante comprendere, innanzitutto, che cosa realmente accadde.[...]

[...]Nel gennaio 1919, dopo l’ingresso dell’Armata rossa nella provincia del Don, la leadership bolscevica emise un ordine inteso a farla finita con il problema cosacco. Ai soldati fu data istruzione di «esercitare il terrore di massa contro i cosacchi ricchi, sterminandoli tutti; esercitare un terrore di massa spietato contro tutti i cosacchi che hanno preso parte, direttamente o indirettamente, alla lotta contro il potere sovietico … Confiscare il grano e costringere a depositare tutte le eccedenze in luoghi designati»[...]

[...] I bolscevichi furono cacciati per la seconda volta da Kiev nell’agosto 1919. Sulla scia della loro cacciata, esplose nelle campagne ucraine la più grande e violenta rivolta contadina della storia europea moderna.[...]

LA GRANDE CARESTIA 

Introduzione

LA QUESTIONE UCRAINA

Seppellitemi, quando morrò,

In un alto tumulo

Nell’Ucraina amata

In mezzo all’immensa steppa,

Dove gli sconfinati campi,

Il Dniprò e le rive sue scoscese

Si vedano, e ascoltar si possa

Il ruggente Dniprò ruggire.

TARAS ŠEVČENKOZapovit, 18451

Per secoli il destino dell’Ucraina è stato modellato dalla sua geografia. Se i suoi confini a sudovest sono segnati dai Carpazi, né i dolci campi e le foreste nel Nordovest del paese né la vasta e aperta steppa a est potevano fermare eserciti invasori. Tutte le grandi città dell’Ucraina – Dnipropetrovs’k e Odessa, Donec’k e Charkiv, Poltava e Čerkasy e naturalmente Kiev, l’antica capitale – giacciono nella Pianura europea orientale, che copre la maggior parte del paese. Nikolaj Gogol’, un ucraino che scriveva in russo, ebbe a osservare che il fiume Dnepr (in ucraino, Dnipro) scorre attraverso il centro dell’Ucraina e forma un bacino. Da lì «tutti i fiumi si diramano al centro del paese; nessuno di essi scorreva sul confine e non poté servire da naturale limite ai popoli vicini». Il che aveva conseguenze politiche: «Se almeno da un lato vi fosse stato un confine naturale, di monti o di mare, il popolo che qui era venuto a vivere avrebbe potuto conservare la propria esistenza politica, avrebbe potuto costituire uno stato a sé stante».2

L’assenza di confini naturali contribuisce a spiegare perché, sino alla fine del XX secolo, gli ucraini non siano mai riusciti a fondare uno Stato ucraino sovrano. Nel tardo Medioevo esisteva una lingua ucraina a sé stante, slava, imparentata con il polacco e il russo ma diversa da entrambi, come l’italiano è imparentato con lo spagnolo e il francese, ma da essi diverso. Gli ucraini avevano la loro cucina, i loro costumi e tradizioni locali, i loro eroi negativi e positivi e le loro leggende. Come avvenne in altre nazioni europee, il senso d’identità ucraino si acuì nel XVIII e XIX secolo. Ma, per la maggior parte della sua storia, il territorio che oggi chiamiamo Ucraina è stato, come l’Irlanda o la Slovacchia, una colonia, parte di altri imperi terrestri europei.

Dal XVIII al XX secolo l’Ucraina, parola che sia in russo sia in polacco significa «terra di confine», appartenne all’impero russo. Prima gli stessi territori facevano parte della Polonia, o meglio della Confederazione polacco-lituana, che li aveva ereditati nel 1569 dal granducato di Lituania. Ancora prima, essi costituivano il cuore della Rus’ kieviana, Stato medievale sorto nel IX secolo, formato da tribù slave e una nobiltà vichinga e, nelle memorie della regione, regno semimitico che russi, ucraini e bielorussi rivendicano tutti come loro antenato.

Nel corso dei secoli l’Ucraina vide scontrarsi sul suo territorio più armate imperiali, a volte con truppe di lingua ucraina su entrambi i fronti. Nel 1621 ussari polacchi combatterono giannizzeri turchi per il dominio di quella che è ora la città ucraina di Chotyn. Nel 1914 le truppe dello zar russo si batterono con quelle dell’imperatore austroungarico in Galizia. Fra il 1941 e il 1945 gli eserciti di Hitler si scontrarono con quelli di Stalin a Kiev, L’viv, Odessa e Sebastopoli.

La battaglia per il controllo del territorio ucraino ha sempre avuto anche una componente culturale. Da quando gli europei iniziarono a dibattere sul significato di nazione e nazionalismo, fra storici, scrittori, giornalisti, poeti ed etnografi nacquero discussioni sull’entità ucraina e la natura degli ucraini. Fin dai primi contatti che ebbero con gli ucraini nell’alto Medioevo, i polacchi non mancarono mai di riconoscere che essi erano linguisticamente e culturalmente qualcosa di diverso da loro, anche quando facevano parte del medesimo Stato. Molti degli ucraini che, nel XVI e XVII secolo, accettarono titoli nobiliari polacchi non si convertirono per questo al cattolicesimo romano, ma rimasero cristiani ortodossi; i contadini ucraini parlavano una lingua che i polacchi chiamavano «ruteno», e venivano sempre descritti come persone di costumi diversi, musica diversa, cibi diversi.

Anche i moscoviti, benché all’apice del loro impero fossero più riluttanti a riconoscerlo, sentivano istintivamente che l’Ucraina, che chiamavano a volte «Russia meridionale» o «Piccola Russia», differiva dalla loro patria settentrionale. Nel 1810 uno dei primi viaggiatori russi, il principe Ivan Dolgorukov, raccontò il momento in cui il suo gruppo «varcò i confini dell’Ucraina. I miei pensieri si rivolsero a [Bohdan] Chmel’nyc’kyj e [Ivan] Mazepa» – antichi leader nazionali ucraini – «e i filari di alberi scomparvero … ovunque, senza eccezione, c’erano capanne di argilla, e nessun altro luogo dove alloggiare».3 Lo storico Serhij Bilen’kyj ha osservato che i russi del XIX secolo mostravano spesso verso l’Ucraina lo stesso atteggiamento paternalistico che gli europei del Nord nutrivano allora nei confronti dell’Italia. L’Ucraina era una nazione idealizzata, alternativa, più primitiva e nello stesso tempo più autentica, più poetica, capace di suscitare più emozioni della Russia.4 Quanto ai polacchi, essi continuarono a lungo a nutrire nostalgia per le «loro» terre ucraine, dopo averle perdute, facendone oggetto di poesie e opere di fantasia romantiche.

Ma, pur riconoscendo le differenze fra loro e gli ucraini, sia i polacchi sia i russi cercarono a volte di minare o negare l’esistenza di una nazione ucraina. «La storia della Piccola Russia è come un affluente che s’immette nel fiume principale della storia russa» scrisse Vissarion Belinskij, fra i principali teorici del nazionalismo russo del XIX secolo. «I Piccoli Russi sono sempre stati una tribù, mai un popolo e ancora meno uno Stato.»5 Gli studiosi e i burocrati russi trattavano l’ucraino come «un dialetto, o un mezzo dialetto, o un modo di parlare la lingua panrussa, in una parola un patois, che, come tale, non aveva diritto a un’esistenza indipendente».6 Bandito dall’ufficialità, gli scrittori russi l’usavano per mimare un parlato colloquiale o contadino.7 Gli scrittori polacchi, dal canto loro, tendevano a sottolineare il «vuoto» dei territori a oriente, descrivendo spesso le terre ucraine come una «frontiera non civilizzata, in cui essi portavano cultura e istituzioni statali».8 Per indicare le lande deserte dell’Ucraina orientale, una regione che, nella loro immaginazione nazionale, svolgeva più o meno la funzione del selvaggio West negli Stati Uniti, i polacchi usavano l’espressione dzikie pola, «campi selvaggi».9

Dietro tali atteggiamenti c’erano solide ragioni economiche. Già lo storico greco Erodoto aveva scritto della famosa «terra nera» dell’Ucraina, particolarmente fertile nella parte inferiore del bacino del Dnipro: «Sulle sue rive le messi sono splendide e dove il terreno non è seminato l’erba cresce altissima».10 La regione della terra nera abbraccia circa i due terzi dell’Ucraina di oggi – da dove si estende in Russia e nel Kazakistan – e, grazie anche a un clima relativamente mite, rende possibili in Ucraina due raccolti all’anno. Il «frumento invernale», seminato in autunno, viene mietuto fra luglio e agosto; i cereali primaverili vengono seminati in aprile e maggio e raccolti in ottobre e novembre. Le colture permesse da questa terra estremamente fertile attrassero ben presto l’attenzione di ambiziosi mercanti. Quelli polacchi portarono a nord cereali ucraini lungo le rotte commerciali del mar Baltico fin dal tardo Medioevo. E principi e nobili polacchi istituirono quelle che, in termini moderni, si potrebbero chiamare prime enterprise zones, offrendo esenzioni dalle tasse e dal servizio militare ai contadini disposti a coltivare e sviluppare le terre ucraine.11 Dietro gli argomenti colonialisti c’era spesso il desiderio di tenersi stretto un tesoro così prezioso: né polacchi né russi erano disposti ad ammettere che il loro granaio aveva un’identità indipendente.

Ma, a prescindere da ciò che pensavano i vicini, nelle terre che ora formano l’Ucraina moderna prese forma un’identità ucraina separata e distinta. Il popolo della regione condivideva un senso di sé sin dal tardo Medioevo, definendosi spesso, anche se non sempre, in opposizione agli occupanti stranieri, fossero polacchi o russi. Come i russi e i bielorussi, gli ucraini facevano risalire la loro storia ai re e alle regine della Rus’ kieviana, e molti si sentivano parte di una grande civiltà slava orientale. Altri si vedevano come sfavoriti o ribelli, e guardavano ammirati alle grandi rivolte dei cosacchi zaporoghi guidati da Bohdan Chmel’nyc’kyj contro il governo polacco nel XVII secolo e da Ivan Mazepa contro il dominio russo all’inizio del XVIII. I cosacchi ucraini – comunità semimilitari dotate di autogoverno e proprie leggi interne – furono i primi ucraini a trasformare quel senso di identità e recriminazione in concreti progetti politici, ottenendo dagli zar rari privilegi e un certo grado di autonomia. Evento memorabile (che le successive generazioni di leader russi e sovietici non avrebbero certamente mai dimenticato), cosacchi ucraini si unirono all’esercito polacco nella sua marcia su Mosca nel 1610 e nuovamente nel 1618, prendendo parte all’assedio della città e contribuendo a far sì che quel conflitto russo-polacco si concludesse, almeno per un certo periodo, a vantaggio della Polonia. Più tardi gli zar avrebbero concesso sia ai cosacchi ucraini sia ai cosacchi di lingua russa del Don, per mantenerli fedeli all’impero russo, uno status speciale, che permise loro di preservare la propria identità. Tali privilegi garantivano che non si sarebbero ribellati. Ma Chmel’nyc’kyj e Mazepa lasciarono il segno nella memoria polacca e russa, e anche nella storia e letteratura europee. «L’Ucraine a toujours aspiré à être libre» scrisse Voltaire quando la notizia della ribellione di Mazepa raggiunse la Francia: «L’Ucraina ha sempre aspirato a essere libera».12

Nei secoli di dominazione coloniale le diverse regioni dell’Ucraina acquisirono caratteri diversi. Gli abitanti dell’Ucraina orientale, che rimasero più a lungo sotto il controllo russo, parlavano una versione dell’ucraino leggermente più vicina al russo; inoltre erano più spesso cristiani ortodossi russi, praticavano rituali che affondavano le loro radici a Bisanzio e obbedivano a una gerarchia guidata da Mosca. Gli abitanti della Galizia, invece, nonché quelli della Volinia e della Podolia, vissero più a lungo sotto il dominio polacco e, dopo le partizioni della Polonia alla fine del XVIII secolo, dell’Austria-Ungheria. Essi parlavano un ucraino più «polacco» e aderivano più spesso al cattolicesimo romano o greco, avevano rituali simili a quelli della Chiesa ortodossa, ma riconoscevano l’autorità del pontefice romano.

Tuttavia, poiché i confini fra le potenze della regione mutarono più volte, membri delle due confessioni vivevano, e vivono tuttora, su entrambi i lati della linea di demarcazione fra gli ex territori russi e gli ex territori polacchi. Nel XIX secolo, quando italiani, tedeschi e altri europei iniziarono a identificarsi come popoli di nazioni moderne, gli intellettuali che in Ucraina discutevano di «ucrainicità» erano sia ortodossi sia cattolici, e vivevano tanto nell’Ucraina «orientale» quanto in quella «occidentale». A unificare gli ucraini dell’intera regione era inoltre, nonostante qualche differenza in termini di grammatica e ortografia, la lingua. L’uso dell’alfabeto cirillico distingueva l’ucraino dal polacco, che usa l’alfabeto latino. (A un certo punto gli Asburgo cercarono di imporre l’alfabeto latino anche agli ucraini, ma esso non attecchì.) Quanto al russo, la versione ucraina del cirillico, che contemplava fra l’altro alcune lettere in più, se ne distingueva abbastanza da evitare che le due lingue si avvicinassero troppo.

Per gran parte della storia dell’Ucraina, l’ucraino è stato parlato per lo più in campagna. Sotto la Polonia, e poi la Russia e l’Austria-Ungheria, le principali città della regione – come ebbe a osservare Trockij – divennero centri di dominio coloniale, isole culturali russe, polacche o ebraiche in mezzo a un mare di contadini ucraini. Città e campagne rimasero divise dalla lingua fino a Novecento inoltrato: la maggior parte degli ucraini delle città parlava russo, polacco o yiddish, mentre nelle campagne si parlava ucraino. Gli ebrei, quando non parlavano yiddish, preferivano spesso il russo, la lingua dello Stato e del commercio. I contadini identificavano le città con la ricchezza, il capitalismo e l’influenza «straniera», per lo più russa. E l’Ucraina urbana, dal canto suo, vedeva nelle campagne zone arretrate e primitive.

Tali divisioni significarono anche che la promozione della «ucrainicità» generò un conflitto, oltre che con i dominatori coloniali del paese, con gli abitanti degli shtetl ebraici, insediati nel territorio della vecchia Confederazione polacco-lituana fin dal Medioevo. Durante la rivolta di Chmel’nyc’kyj, un pogrom di massa portò all’assassinio di migliaia, se non decine di migliaia di ebrei. Se all’inizio del XIX secolo gli ucraini vedevano raramente i loro principali rivali in questi ultimi – poeti e intellettuali ucraini riservavano i loro strali per lo più a russi e polacchi – il diffuso antisemitismo dell’impero russo influì inevitabilmente anche sui rapporti fra ucraini ed ebrei.

Inoltre, il legame fra lingua e campagna portò il movimento nazionale ucraino ad avere sempre un sapore decisamente «contadino». Come in altre regioni d’Europa, gli intellettuali alla testa del risveglio nazionale ucraino partirono spesso dalla riscoperta della lingua e dei costumi rurali. Folcloristi e linguisti si diedero a registrare l’arte, la poesia e la lingua parlata dei contadini. Anche se nelle scuole statali non veniva insegnato, l’ucraino divenne la lingua eletta di un certo genere di scrittori e artisti, ribelli e antiestablishment. Scuole private domenicali patriottiche iniziarono a insegnarlo. Se in scambi ufficiali non veniva mai impiegato, esso era usato nella corrispondenza privata e in poesia. Nel 1840 Taras Ševčenko, nato nel 1814 in una famiglia di servi della gleba e rimasto presto orfano, pubblicò Kobzar, termine che significa «menestrello», prima grandissima raccolta di versi ucraini. La sua poesia, in cui un nazionalismo romantico e un’immagine idealizzata della campagna si accompagnavano all’ira per le ingiustizie sociali, diede il tono a gran parte delle prese di posizione a venire. In uno dei suoi poemi più famosi, Zapovit (Testamento), egli chiese di essere sepolto sulle rive del Dnipro:

Seppellitemi e ribellatevi,

Spezzate le catene,

E del sangue dei nemici impuro

Irrorate la libertà…

L’importanza dei contadini significò anche che, fin dall’inizio, il risveglio nazionale ucraino fu sinonimo di opposizione populista e, come si sarebbe detto più tardi, «di sinistra» a mercanti, proprietari terrieri e aristocrazia, che parlavano russo e polacco. Per questo esso acquistò rapidamente forza dopo l’emancipazione nella Russia imperiale sotto lo zar Alessandro II, nel 1861, dei servi della gleba. La libertà per i contadini era, in effetti, libertà per gli ucraini, e un colpo inferto ai loro padroni russi e polacchi. La pressione a favore di una più forte identità ucraina fu già allora, come la classe imperiale dominante ben comprese, una pressione a favore di una maggiore eguaglianza politica ed economica.

Non essendo mai stato legato a istituzioni statali, il risveglio nazionale ucraino si espresse anche, fin dai primi giorni, nella nascita di una grande varietà di organizzazioni filantropiche autonome basate sul volontariato, primi esempi di quella che oggi chiamiamo «società civile». Negli anni immediatamente successivi all’emancipazione dei servi della gleba gli «ucrainofili» ispirarono i giovani ucraini a fondare gruppi di mutuo soccorso e di studio, a curare la pubblicazione di periodici e quotidiani, a organizzare scuole e corsi domenicali e a diffondere l’alfabetizzazione tra i contadini. Le aspirazioni nazionali si manifestavano in appelli per la libertà intellettuale, l’istruzione di massa e la mobilità verso l’alto della popolazione delle campagne. In questo il movimento nazionale ucraino risentì fin dai primissimi tempi dell’influenza di analoghi movimenti in Occidente, venandosi di socialismo nonché di liberalismo e conservatorismo occidentali.

Questo momento ebbe vita breve. Non appena iniziò ad acquistare forza, il movimento nazionale ucraino, come altri movimenti nazionali, iniziò a essere sentito da Mosca come una potenziale minaccia per l’unità della Russia imperiale. Al pari di georgiani, ceceni e altri gruppi etnici che chiedevano autonomia all’interno dell’impero, gli ucraini contestavano la supremazia della lingua russa e l’interpretazione russa della storia, che definiva l’Ucraina «Russia sudoccidentale», una mera provincia senza identità nazionale. Inoltre minacciavano di accrescere ulteriormente il potere dei contadini in un momento in cui essi stavano già guadagnando influenza economica. Una classe contadina ucraina più ricca, più alfabetizzata e meglio organizzata avrebbe potuto pretendere maggiori diritti politici.

Uno dei bersagli principali della repressione fu l’ucraino. Con la prima grande riforma scolastica dell’impero russo, del 1804, lo zar Alessandro I aveva permesso che nelle nuove scuole statali fossero impiegate alcune lingue non russe, ma non l’ucraino, con il pretesto che non si trattava di una «lingua», bensì di un dialetto.13 In realtà i funzionari russi, come più tardi i loro successori sovietici, avevano le idee perfettamente chiare sul motivo politico del bando, che durò fino al 1917, e sulla minaccia che l’ucraino rappresentava per il governo centrale. Il governatore generale di Kiev, della Podolia e della Volinia dichiarò nel 1881 che l’uso della lingua e di libri di testo ucraini nelle scuole avrebbe rischiato di portare all’uso dell’ucraino anche nell’istruzione superiore, e infine nella legislazione, nei tribunali e nell’amministrazione pubblica, creando «numerose complicazioni e cambiamenti pericolosi per lo Stato russo unificato».14

Le restrizioni poste all’impiego dell’ucraino limitarono l’impatto del movimento nazionale. Inoltre, esse contribuirono alla diffusione dell’analfabetismo. Molti contadini, costretti a studiare in russo, una lingua che comprendevano a malapena, facevano scarsi progressi. A Poltava un insegnante, all’inizio del XX secolo, lamentò che gli allievi, se obbligati a studiare in russo, «dimenticavano rapidamente quanto veniva loro insegnato». Altri riferirono che gli studenti ucraini delle scuole in russo erano «demoralizzati», si annoiavano e diventavano «uligani».15 La discriminazione contribuì anche alla russificazione: per chiunque viveva in Ucraina – ebrei, tedeschi e membri di altre minoranze nazionali, oltre agli ucraini – la strada per l’ascesa sociale era aperta solo a chi parlava russo. Fino alla rivoluzione del 1917, per lavorare nell’amministrazione, nelle professioni e negli affari si doveva avere studiato in russo, non in ucraino. In pratica, ciò significava che gli ucraini politicamente, economicamente e intellettualmente ambiziosi dovevano comunicare in russo.

Per impedire la crescita del movimento nazionale ucraino, lo Stato russo mise al bando «dalla società civile e dal corpo politico … come garanzia contro l’instabilità politica» le organizzazioni ucraine.16 Nel 1876 lo zar Alessandro II emanò un decreto che metteva fuori legge libri e periodici in ucraino e vietava l’uso dell’ucraino nei teatri, persino nei libretti musicali. Inoltre, lo zar scoraggiò o proibì le nuove organizzazioni di volontariato, concedendo invece sussidi a giornali e organizzazioni filorussi. La decisa ostilità manifestata in seguito nei confronti dei mezzi di comunicazione ucraini e della società civile ucraina in generale dal regime sovietico e, molto più tardi, anche dal governo russo postsovietico, aveva quindi un chiaro precedente nella seconda metà del XIX secolo.17

A intensificare la pressione a favore della russificazione fu anche il progresso dell’industria: le nuove fabbriche fecero affluire nelle città ucraine lavoratori da altre regioni dell’impero russo. Nel 1917, solo un quinto degli abitanti di Kiev parlava ucraino.18 La scoperta del carbone e il rapido sviluppo dell’industria pesante esercitarono un impatto particolarmente drammatico sul Donbas (Donbass), la regione mineraria e manifatturiera all’estremo est dell’Ucraina. I più importanti industriali del Donbas erano quasi tutti russi, cui si aggiungevano alcuni eminenti stranieri: John Hughes, un gallese, fondò la città che, attualmente nota come Donec’k, fu chiamata in origine in suo onore «Juzovka». La lingua di lavoro nelle fabbriche di Donec’k divenne il russo. Spesso, fra lavoratori russi e ucraini scoppiavano conflitti che, a volte, assumevano «le forme più selvagge di lotte a coltello» e di feroci battaglie.19

Al di là del confine imperiale, in Galizia, provincia mista ucraino-polacca dell’impero austroungarico, il movimento nazionalista incontrò molte meno difficoltà. Lo Stato austriaco lasciava agli ucraini nel suo impero un’autonomia e una libertà molto maggiori della Russia e più tardi dell’URSS, non da ultimo perché vedeva l’utilità della competizione fra ucraini e polacchi. Nel 1868 patrioti ucraini di L’viv fondarono Prosvita, una società culturale che avrebbe finito per contare decine di affiliate in tutto il paese. Dal 1899, inoltre, poté operare liberamente in Galizia il Partito democratico nazionale ucraino, che inviava rappresentanti eletti al parlamento di Vienna. L’ex sede di una società di mutuo soccorso ucraina resta tuttora uno dei più imponenti edifici del XIX secolo di L’viv. Spettacolare esempio di fusione di stili architettonici, essa incorpora decorazioni popolari ucraine stilizzate in una facciata Jugendstil, creando un perfetto ibrido di Vienna e Galizia.

Ma anche all’interno dell’impero russo gli anni immediatamente precedenti la rivoluzione del 1917 furono per molti versi positivi per l’Ucraina. All’inizio del XX secolo i contadini ucraini parteciparono con entusiasmo alla modernizzazione della Russia imperiale. Alla vigilia della prima guerra mondiale stavano rapidamente acquisendo consapevolezza politica e guardavano con scetticismo allo Stato imperiale. Nel 1902 si assistette sia in Ucraina sia in Russia a un’ondata di rivolte contadine, e i contadini giocarono un ruolo importante anche nella rivoluzione del 1905. I disordini che seguirono innescarono una reazione a catena di agitazioni, che allarmarono lo zar Nicola II e portarono all’introduzione in Ucraina di alcuni diritti civili e politici, fra cui quello di usare l’ucraino in pubblico.20

Quando, inaspettatamente, sia l’impero russo sia quello austroungarico crollarono, rispettivamente nel 1917 e 1918, molti ucraini pensarono che avrebbero finalmente potuto fondare un proprio Stato. Nel territorio prima retto dagli Asburgo, tale speranza svanì rapidamente. Dopo un breve ma sanguinoso conflitto militare polacco-ucraino, in cui persero la vita 15.000 ucraini e 10.000 polacchi, il territorio multietnico dell’Ucraina occidentale, compresa la Galizia e L’viv, la sua città più importante, fu integrato nella Polonia moderna. Vi sarebbe rimasto dal 1919 al 1939.

Le conseguenze della rivoluzione del febbraio 1917 a San Pietroburgo furono più complesse. La dissoluzione dell’impero russo mise per breve tempo il potere a Kiev nelle mani del movimento nazionale ucraino, ma in un momento in cui nessuno dei leader civili o militari del paese era pronto ad assumersene la piena responsabilità. Fra i politici che si riunirono nel 1919 a Versailles per stabilire i confini dei nuovi Stati, tra cui la Polonia, l’Austria, la Cecoslovacchia e la Iugoslavia, non vi era alcun ucraino. Eppure, l’occasione non andò interamente perduta. Come ha scritto Richard Pipes, la dichiarazione d’indipendenza dell’Ucraina il 26 gennaio 1918 «segnò non il dénouement del processo di formazione della nazione in Ucraina, bensì il suo serio inizio».21 I pochi tumultuosi mesi di indipendenza e l’acceso dibattito sull’identità nazionale avrebbero cambiato l’Ucraina per sempre.

I

LA RIVOLUZIONE UCRAINA, 1917

Popolo ucraino! Il tuo futuro è nelle tue mani. In quest’ora di prova, di assoluto disordine e di collasso, dimostra con la tua unanimità e la tua saggezza nel governo che tu, nazione di produttori di grano, puoi prendere orgogliosamente e con dignità il tuo posto da eguale di qualsiasi nazione potente e organizzata.

Prima universale della Rada centrale, 19171

Noi non entreremo nel regno del socialismo in guanti bianchi e su un pavimento lucido.

LEV TROCKIJ, 19172

In anni successivi vi sarebbero state manifestazioni più imponenti, oratori più eloquenti, slogan meno dilettanteschi. Ma la marcia che ebbe luogo a Kiev la domenica mattina del 1° aprile 1917 fu straordinaria, perché fu la prima del genere. Mai in precedenza il movimento nazionale ucraino si era mostrato con tanta forza sul territorio di quello che era stato l’impero russo. Solo poche settimane dopo che la rivoluzione di Febbraio ebbe rovesciato lo zar Nicola II, tutto sembrava possibile.

C’erano le bandiere blu e gialle dell’Ucraina e le bandiere rosse della causa socialista. La folla, composta di bambini, soldati, operai, bande musicali e funzionari, innalzava striscioni – «Una libera Ucraina in una libera Russia!» – o, usando un antico titolo militare cosacco, «Ucraina indipendente con un proprio atamano!». Alcuni recavano ritratti del poeta nazionale, Taras Ševčenko. Uno dopo l’altro, gli oratori chiesero alla folla di sostenere la neonata Rada centrale (Consiglio centrale), che, costituitasi pochi giorni prima, ora rivendicava l’autorità per governare l’Ucraina.

Infine salì alla tribuna un uomo con la barba e gli occhiali, appena eletto presidente della Rada centrale. Mychajlo Hruševs’kyj era fra i primi intellettuali che avevano posto l’Ucraina al centro della sua propria storia. Autore di una Storia dell’Ucraina-Rus’ in dieci volumi, nonché di molte altre opere, si era convertito alla militanza politica negli ultimi giorni del XIX secolo, quando nel dicembre 1899, in esilio, aveva contribuito a fondare nella Galizia asburgica il Partito democratico nazionale ucraino. Nel 1905 era tornato a operare nell’impero russo, ma nel 1914 era stato arrestato e, ancora una volta, era partito per l’esilio. Era rientrato a Kiev in trionfo sulla scia della rivoluzione. La folla l’accolse con un’ovazione: Slava bat’kovi Hruševs’komu, «Gloria al padre Hruševs’kyj!».3 Egli rispose nello stesso tono: «Giuriamo tutti in questo grande momento come un sol uomo di assumerci la grande causa all’unanimità, d’unico accordo, e di non concederci tregua né cessare la nostra opera fino a quando non avremo costruito questa libera Ucraina!». La folla rispose gridando: «Lo giuriamo!».4

Oggi l’idea che uno storico divenga leader di un movimento nazionale può stupire. Ma allora non aveva nulla di strano. A partire dal XIX secolo gli storici ucraini, come quelli di molte nazioni minori d’Europa, si erano deliberatamente assunti il compito di recuperare ed elaborare una storia nazionale che, da lungo tempo, era stata inglobata in quella dei grandi imperi. Da lì, il passo verso la militanza politica era breve. Come Ševčenko aveva legato l’«ucrainicità» alla lotta dei contadini contro l’oppressione, le opere di Hruševs’kyj sottolineavano il ruolo del «popolo» nella storia politica dell’Ucraina e la centralità della sua resistenza a varie forme di tirannia. Era pertanto logico che egli volesse stimolare quello stesso popolo ad agire politicamente nel presente, con le parole e i fatti. Gli interessava in particolare scuotere i contadini, e aveva scritto un libro di storia ucraina, Sui vecchi tempi in Ucraina, soprattutto per un pubblico contadino. Nel 1917 fu ristampato tre volte.5

Hruševs’kyj non fu l’unico intellettuale a promuovere con la propria produzione letteraria e culturale la sovranità dell’Ucraina. Anche Heorhij Narbut, un artista grafico, tornò nel 1917 a Kiev, dove contribuì a fondare l’Accademia di belle arti ucraina e disegnò per la nuova nazione lo stemma, banconote e francobolli.6 Volodymyr Vynnyčenko, anch’egli membro della Rada centrale, era romanziere e poeta, oltre che un politico. Senza la sovranità, e senza un vero e proprio Stato alle spalle di politici e burocrati, i sentimenti nazionali potevano trovare espressione solo attraverso la letteratura e l’arte. Questo valeva per tutta l’Europa: prima che si giungesse alla formazione dei rispettivi Stati, a svolgere un ruolo di primo piano nella creazione dell’identità nazionale polacca, italiana e tedesca erano stati poeti, artisti e scrittori. All’interno dell’impero russo si assistette a un risveglio nazionale analogo sia negli Stati baltici, che acquistarono l’indipendenza nel 1918, sia in Georgia e Armenia, le cui aspirazioni indipendentiste rimasero invece frustrate. Della centralità degli intellettuali in tutti questi progetti nazionali si rendevano pienamente conto all’epoca i loro fautori non meno che i loro oppositori. Questo spiega perché la Russia imperiale avesse proibito i libri, le scuole e la cultura ucraini, e perché la loro repressione sarebbe stata in seguito così importante sia per Lenin sia per Stalin.

Se a portavoce della causa nazionale si erano inizialmente solo autonominati, gli intellettuali della Rada centrale non tardarono a cercare una legittimità democratica. Dal bianco, maestoso edificio neoclassico nel centro di Kiev in cui si era insediata – una scelta opportuna, considerando che esso aveva in precedenza ospitato le riunioni del Club ucraino, gruppo di scrittori e attivisti civici nazionalisti – il 19 aprile 1917 la Rada centrale convocò un Congresso nazionale panucraino.7 Oltre millecinquecento persone, tutte in un modo o nell’altro elette da consigli locali e fabbriche, affluirono nella sala concerti della Filarmonica nazionale a Kiev per offrire il loro sostegno al nuovo governo ucraino. Ulteriori congressi di veterani, contadini e operai si tennero nella stessa città durante l’estate.

La Rada centrale cercò inoltre di formare coalizioni con una varietà di gruppi politici, fra cui organizzazioni ebraiche e di altre minoranze. A suo sostegno si schierò persino l’ala sinistra radicale del Partito socialista rivoluzionario ucraino, grande partito contadino populista i cui membri erano noti, dal nome del suo giornale, «Borotba» (Lotta), come borot’bysty. Parecchi contadini fecero lo stesso. Fra il 1914 e il 1918 avevano fatto parte dell’esercito dello zar russo oltre 3 milioni di ucraini, e altri 250.000 avevano combattuto in quello austroungarico. Molti di quei contadini-soldati avevano sparato l’uno contro l’altro dalle rispettive fangose trincee della Galizia.8 Ma, finita la guerra, circa 300.000 uomini che avevano servito nei battaglioni «ucrainizzati», composti da contadini ucraini, dichiararono fedeltà al nuovo Stato. Alcuni avevano portato con sé le armi ed erano entrati a far parte della nuova milizia della Rada centrale. A motivarli era il desiderio di tornare in patria, ma anche la promessa del nuovo governo ucraino di un cambiamento rivoluzionario e un rinnovamento nazionale.9

Nei mesi successivi la Rada centrale godette a livello popolare di un certo successo, non da ultimo per la sua retorica radicale. Sulla scia degli ideali di sinistra del tempo, propose una riforma fondiaria che prevedeva l’esproprio forzato delle terre appartenenti ai latifondisti, fossero monasteri o proprietari privati, e la loro redistribuzione ai contadini. «Nessuno può sapere meglio ciò di cui abbiamo bisogno e quali leggi sono le migliori per noi» dichiarò nel giugno 1917 nella prima di una serie di «universali» rivolte a un vasto pubblico:

Nessuno può sapere meglio dei nostri contadini come amministrare la loro terra. Auspichiamo quindi che, quando tutte le terre dell’intera Russia in mano alla nobiltà, allo Stato, ai monasteri e allo zar saranno state confiscate e saranno divenute proprietà del popolo, e quando l’assemblea costituente panrussa avrà promulgato una legge al riguardo, il diritto di amministrare le terre ucraine appartenga a noi, alla nostra assemblea ucraina. … Ci hanno eletti, noi Rada centrale ucraina, dalle loro file e ci hanno dato istruzione … di creare un nuovo ordine in un’Ucraina libera e autonoma.10

La Terza universale, promulgata in novembre, dichiarò che il paese era ora la Repubblica popolare ucraina all’interno della Federazione russa, e convocò le elezioni per un’assemblea costituente.11 Nel gennaio 1918 la Quarta e ultima universale avrebbe proclamato l’indipendenza dell’Ucraina.

Anche la rinascita della lingua ucraina, nonostante qualche prevedibile opposizione, godette di popolarità, specie fra i contadini. Com’era avvenuto in passato, l’ucraino tornò a essere sinonimo di liberazione economica e politica: quando funzionari e burocrati iniziarono a parlarlo, tribunali e uffici governativi divennero accessibili ai contadini. L’impiego pubblico della lingua madre divenne inoltre motivo di orgoglio, fungendo da «ricca fonte di sostegno emotivo» per il movimento nazionale.12 Il risultato fu un’esplosione di dizionari e manuali di ortografia. Fra il 1917 e il 1919 gli editori ucraini pubblicarono cinquantanove libri sull’ucraino, rispetto agli undici in totale del secolo precedente. Fra di essi vi furono tre dizionari ucraino-russo e quindici russo-ucraino. La forte domanda di questi ultimi era dovuta al gran numero di russofoni che, da un momento all’altro, si trovarono a doversela cavare con l’ucraino, una novità che a non tutti piacque.13

Durante la sua breve esistenza il governo ucraino conseguì anche alcuni successi diplomatici, di molti dei quali si sarebbe in seguito pressoché persa la memoria. Dopo la dichiarazione d’indipendenza del 26 gennaio 1918 il ventottenne ministro degli Esteri della Repubblica ucraina, Oleksandr Šul’hyn (anch’egli storico di formazione), ottenne il riconoscimento de facto del suo Stato da parte di tutte le principali potenze europee, tra cui Francia, Gran Bretagna, Austria-Ungheria, Germania, Bulgaria, Impero Ottomano e anche Russia sovietica. In dicembre gli Stati Uniti inviarono un diplomatico ad aprire un consolato a Kiev.14 Nel febbraio 1918 una delegazione di funzionari ucraini concluse a Brest-Litovsk un trattato di pace con le potenze centrali, un trattato separato da quello più conosciuto firmato dai nuovi dirigenti della Russia sovietica poche settimane più tardi. La giovane delegazione ucraina impressionò tutti. Uno degli interlocutori tedeschi avrebbe ricordato che «si sono comportati con coraggio, e nella loro caparbietà hanno costretto [il negoziatore tedesco] ad accettare tutto ciò che era importante dal loro punto di vista nazionale».15

Ma niente di tutto ciò bastò: né la diffusione della coscienza nazionale, né il riconoscimento estero e neanche il trattato di Brest-Litovsk furono sufficienti a fare realmente nascere uno Stato ucraino. Le riforme proposte dalla Rada centrale, specie il progetto di confiscare le terre ai loro proprietari senza indennizzo, portarono nelle campagne confusione e disordine. Le parate pubbliche, le bandiere e la libertà salutata con tanto ottimismo da Hruševs’kyj e dai suoi seguaci nella primavera del 1917 non condussero allo sviluppo di una burocrazia efficiente, un’amministrazione pubblica in grado di applicare le sue riforme e un esercito abbastanza forte da respingere un’invasione e proteggere i confini. Sul finire del 1917 tutte le potenze militari della regione, fra cui la neonata Armata rossa, Armate bianche del vecchio regime e truppe tedesche e austriache, stavano studiando dei piani d’azione per occupare l’Ucraina. Insieme al suo territorio, ognuno di essi, ancorché in misura diversa, avrebbe attaccato i nazionalisti ucraini, il nazionalismo ucraino e persino la lingua ucraina.

La prima aggressione sovietica all’Ucraina fu autorizzata da Lenin nel gennaio 1918 e portò all’instaurazione per breve tempo a Kiev, in febbraio, di un regime antiucraino di cui parleremo più avanti. Questo primo tentativo sovietico di conquistare il paese durò poche settimane, fino all’arrivo di forze tedesche e austriache decise, dichiararono, a «far rispettare» il trattato di Brest-Litovsk. Invece di salvare i legislatori liberali della Rada centrale, tuttavia, esse accordarono tutto il loro sostegno a Pavlo Skoropads’kyj, un generale ucraino che usava indossare vistose uniformi, complete di spada e copricapo cosacchi.

Per qualche mese Skoropads’kyj diede ai seguaci del vecchio regime un barlume di speranza, preservando nel contempo alcuni degli attributi dell’autonomia ucraina. Fondò la prima Accademia delle scienze del paese e la prima biblioteca nazionale, e usava l’ucraino nei rapporti ufficiali. Egli si vedeva come un ucraino e assunse il titolo di «atamano». Ma, nello stesso tempo, rimise in vigore le leggi zariste, reintegrò i funzionari zaristi e si schierò a favore del ritorno del paese all’interno di un futuro Stato russo. Sotto il regime di Skoropads’kyj, Kiev divenne, per breve tempo, un rifugio per i profughi provenienti da Mosca e San Pietroburgo. Nel romanzo satirico La guardia bianca (1926), Michail Bulgakov, che in quel periodo viveva a Kiev, li avrebbe ricordati:

Fuggivano banchieri brizzolati con le loro mogli, accorrevano abili uomini d’affari, che si erano lasciati alle spalle, a Mosca, i propri fiduciari … Fuggivano giornalisti, di Mosca e Pietroburgo, prezzolati, ingordi, vigliacchi. Cocottes. Dame rispettabili di famiglie aristocratiche. Le loro tenere figlie, le pallide donne dissolute di Pietroburgo, con le labbra dipinte di carminio. Fuggivano i segretari dei direttori di dicasteri, giovani pederasti passivi. Fuggivano principi e accaparratori, poeti e strozzini, gendarmi e attrici dei teatri imperiali.16

Inoltre, Skoropads’kyj rafforzò le vecchie leggi sulla proprietà e ritirò le promesse di riforma agraria. La decisione, come si può immaginare, fu estremamente impopolare fra i contadini, che «odiavano proprio quello stesso pan atamano, come un cane idrofobo» e non volevano sentir parlare di «quella canagliesca riforma del pan».17 L’opposizione a quello che venne ben presto visto come un governo fantoccio dei tedeschi iniziò a organizzarsi in varie forme militanti: «In questa estate rivoluzionaria sbocciarono come rose selvatiche ex colonnelli, sedicenti generali, atamani cosacchi e bat’ky [signori della guerra locali]».18

A metà del 1918 il movimento nazionale si era unito sotto la guida di Symon Petljura, un socialdemocratico estremamente dotato per l’organizzazione paramilitare. Fra i contemporanei, le opinioni a suo riguardo erano radicalmente diverse. Alcuni vedevano in lui un aspirante dittatore, altri un profeta in anticipo sul suo tempo. Bulgakov, cui il nazionalismo ucraino non piaceva affatto, lo liquidò come «una leggenda, un miraggio … nel quale si sono rimescolate la furia insaziabile e la sete di vendetta contadine».19 Da giovane, Petljura aveva colpito il militante Serhij Jefremov per «la spacconeria, il dottrinarismo e la frivolezza», ma in seguito Jefremov aveva cambiato completamente idea a suo riguardo, giungendo a dichiarare che egli era divenuto «l’unica persona indiscutibilmente onesta» prodotta dalla rivoluzione ucraina. Mentre altri si arrendevano o si davano a meschine lotte intestine, scrisse, «solo Petljura ha tenuto duro senza vacillare».20 Petljura stesso avrebbe in seguito scritto che voleva che sulle sue azioni venisse rivelata tutta la verità: «Gli aspetti negativi della mia personalità, delle mie azioni, devono essere messi in luce, non occultati. … Per me, il giudizio della storia è iniziato. Non ne ho paura».21

I giudizi della storia su di lui sono rimasti contrastanti. Di certo fu abbastanza coraggioso da cogliere un’occasione, rendendosi conto che la fine della prima guerra mondiale offriva al movimento nazionale ucraino una possibilità in più. Quando le truppe tedesche si ritirarono dal paese, mise frettolosamente insieme un po’ dei già ricordati «ex colonnelli, sedicenti generali, atamani cosacchi e bat’ky» in una forza proucraina nota come Direttorio e pose l’assedio alla capitale. Se la stampa di lingua russa cercò di diffamare il Direttorio sostenendo che si trattava di «bande di ladri» e definì il colpo di Stato uno «scandalo», le forze di Skoropads’kyj si sgretolarono con incredibile rapidità, quasi senza combattere.22 Il 14 dicembre 1918 le truppe di Petljura marciarono, con grande sorpresa degli abitanti, su Kiev, Odessa e Mykolaïv (Nikolaev), e il potere cambiò ancora una volta di mano.

Il regime del Direttorio sarebbe stato breve e violento, anche perché Petljura non riuscì mai ad acquisire una piena legittimazione e a stabilire uno Stato di diritto. Dal punto di vista economico, il Direttorio, come in precedenza la Rada centrale, prese posizioni di estrema sinistra. Riflettendo le visioni sempre più radicali dei suoi sostenitori, la dirigenza convocò non un parlamento, bensì un «Congresso dei lavoratori» composto da rappresentanti dei contadini, degli operai e dell’intellighenzia attiva. Ma vera fonte dell’autorità di Petljura era la sua armata contadina e, nelle parole di un suo avversario, questo non portò «né a un buon governo né a un buon esercito».23 Molti dei suoi membri erano «avventurieri», indossavano una grande varietà di uniformi e costumi cosacchi e non si facevano il minimo scrupolo, imbattendosi in qualcuno che semplicemente sembrasse ricco, di estrarre le pistole e derubarlo. Gli abitanti della Kiev borghese dovettero stabilire dei turni di guardia attorno ai loro caseggiati.24

A Kiev città, una delle poche misure che il Direttorio «non si limitò a proclamare, ma mise in atto», come si espresse con sarcasmo un memorialista, fu la rimozione delle insegne in russo e la loro sostituzione con insegne in ucraino: «Al russo non fu permesso neanche di restare a fianco dell’ucraino». Presumibilmente, la sostituzione totale fu ordinata perché molti soldati del Direttorio venivano dalla Galizia, parlavano ben poco il russo e si trovavano disorientati in una città russofona. Il risultato fu che, «per qualche allegra giornata, l’intera città si trasformò in un atelier di artisti», e agli abitanti di Kiev fu fatto ben capire, ancora una volta, il profondo legame fra lingua e potere.25

Ma a parte la capitale, il territorio controllato da Petljura era ben poco esteso. Bulgakov descrisse la Kiev di quell’epoca come una città in cui «c’era anche la polizia … e il ministero, e persino l’esercito, e testate di giornali delle più varie, ma ecco che nessuno sapeva quello che stava accadendo attorno, in quella vera Ucraina che per dimensione è più grande della Francia, nella quale ci sono decine di milioni di persone».26 Richard Pipes ha scritto che a Kiev «si emanavano editti, si risolvevano crisi di gabinetto, si svolgevano colloqui diplomatici, ma il resto del paese viveva una propria esistenza in cui l’unico regime efficace era quello della pistola».27

Alla fine del 1919 il movimento nazionale, nuovamente avviato con tanta energia e speranza, era nel caos. Hruševs’kyj, costretto dai combattimenti a lasciare Kiev, si sarebbe presto trasferito all’estero.28 Gli stessi ucraini erano profondamente divisi tra più fronti: c’era chi sosteneva il vecchio ordine e chi gli era contrario; chi avrebbe preferito rimanere legato alla Russia e chi no; chi era a favore della riforma agraria e chi l’avversava. La competizione sulla lingua si era esacerbata divenendo un’aspra lotta senza possibilità di conciliazione. I profughi provenienti da Mosca e da San Pietroburgo stavano già muovendosi verso la Crimea, Odessa e l’esilio.29 Ma la più importante discriminante politica, quella che avrebbe profondamente influito sul corso dei decenni successivi, era fra coloro che condividevano gli ideali del movimento nazionale ucraino e coloro che appoggiavano i bolscevichi, un gruppo rivoluzionario la cui ideologia era del tutto diversa.

All’inizio del 1917 i bolscevichi erano in Russia un piccolo partito di minoranza, la fazione radicale di quello che era stato il Partito operaio socialdemocratico russo, marxista. Ma, per tutto l’anno, essi fecero opera di agitazione per le strade della Russia, usando slogan semplici come «terra, pane e pace», intesi ad attrarre il più ampio numero di soldati, operai e contadini. Il loro colpo di Stato di ottobre (7 novembre, secondo il «nuovo calendario» che avrebbero in seguito adottato) li portò al potere in mezzo al caos più totale. Guidati da Lenin, un uomo paranoico, amante delle cospirazioni e fondamentalmente antidemocratico, i bolscevichi ritenevano di essere «l’avanguardia del proletariato» e avrebbero chiamato il loro regime «dittatura del proletariato». Essi miravano al potere assoluto e, con il terrore, la violenza e aggressive campagne di propaganda, avrebbero finito per abolire tutti gli altri partiti politici e mettere a tacere gli avversari.

In Ucraina, nei primi mesi del 1917, i seguaci dei bolscevichi erano in numero ancora minore. Il partito contava nel paese 22.000 membri, residenti per la maggior parte nelle grandi città e nei centri industriali di Donec’k e Kryvyi Rih (Krivoj Rog). Pochi parlavano ucraino. Oltre la metà si considerava russa. Circa uno su sei era ebreo. Un piccolo numero di essi, fra cui alcuni che avrebbero in seguito svolto ruoli importanti nel governo sovietico ucraino, credeva nella possibilità di un’Ucraina bolscevica autonoma. Ma Heorhij (Georgij) Pjatakov che, pur essendo nato in Ucraina, non si considerava un ucraino, parlò a nome della maggioranza quando, a un incontro dei bolscevichi di Kiev del giugno 1917, solo poche settimane dopo il discorso di Hruševs’kyj, disse che «non dobbiamo sostenere gli ucraini». L’Ucraina, spiegò, non era una «regione economica distinta». Il fatto era che la Russia dipendeva dallo zucchero, dal grano e dal carbone dell’Ucraina e, per Pjatakov, la Russia veniva prima di tutto.30

Non era un sentimento nuovo: il disprezzo per l’idea stessa di uno Stato ucraino era stato parte integrante del pensiero bolscevico anche prima della rivoluzione. Alla sua origine, in larga misura, c’era semplicemente il fatto che tutti i dirigenti bolscevichi, fra cui Lenin e Stalin, Trockij, Pjatakov, Zinov’ev, Kamenev e Bucharin, erano uomini che erano cresciuti e si erano formati nell’impero russo, e l’impero russo, nella provincia conosciuta quale «Russia sudoccidentale», non riconosceva qualcosa come «l’Ucraina». La città di Kiev era, per loro, l’antica capitale della Rus’ kieviana, il regno in cui vedevano l’antenato della Russia. A scuola, tramite la stampa e nella vita quotidiana essi avevano assorbito i pregiudizi russi contro una lingua che veniva diffusamente definita un dialetto russo e contro un popolo generalmente considerato come costituito da ex servi della gleba e primitivo.

Tale disprezzo era condiviso da tutti i partiti politici russi del tempo, dai bolscevichi ai centristi e all’estrema destra. Molti rifiutavano di utilizzare il termine «Ucraina».31 Persino i liberali russi non volevano riconoscere la legittimità del movimento nazionale ucraino. Questi pregiudizi, e il conseguente rifiuto di tutti i gruppi russi di unirsi in una coalizione antibolscevica con gli ucraini, sarebbero stati una delle ragioni della sconfitta delle Armate bianche nella guerra civile.32

Oltre al pregiudizio nazionale, i bolscevichi avevano specifici motivi politici per essere contrari all’idea dell’indipendenza ucraina. L’Ucraina era ancora prevalentemente una nazione contadina e, secondo la teoria marxista che i dirigenti bolscevichi non facevano che studiare e dibattere, i contadini erano nel migliore dei casi una risorsa ambivalente. In un famoso saggio del 1852 Marx aveva spiegato che essi non costituivano una «classe», e non avevano perciò alcuna coscienza di classe: «Sono quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un Parlamento, sia attraverso una Convenzione. Non possono rappresentare se stessi; debbono farsi rappresentare».33

Se Marx credeva che i contadini non potessero svolgere alcun ruolo di rilievo nella rivoluzione a venire, Lenin, più pragmatico, si discostò in una certa misura dalla sua concezione. Egli riteneva i contadini, in realtà, dei potenziali rivoluzionari – approvava il loro desiderio di una radicale riforma agraria – ma pensava che dovessero essere guidati dalla più progressista classe operaia. «Non tutti i contadini che combattono per la terra e la libertà hanno un atteggiamento pienamente consapevole nei confronti di questa lotta» scrisse nel 1905. Dovevano essere gli operai, dotati di coscienza di classe, a insegnare loro che la vera rivoluzione non richiedeva solo la riforma agraria, ma la «lotta contro il dominio del capitale». Lenin nutriva anche il sospetto, destinato a rivelarsi sinistro, che numerosi contadini, fra coloro che possedevano un po’ di terra, avessero, per la proprietà di cui erano padroni, una mentalità da piccoli proprietari terrieri capitalisti. Questo spiegava perché «nelle file dei combattenti per il socialismo non si trovano tutti i piccoli contadini».34 Questa idea che i più piccoli fra i proprietari terrieri, chiamati in seguito «kulak», fossero fondamentalmente una forza controrivoluzionaria, capitalista, avrebbe avuto tragiche conseguenze alcuni anni più tardi.

L’ambivalenza dei bolscevichi riguardo al nazionalismo li portò anche a diffidare dell’aspirazione dell’Ucraina all’indipendenza. Sul nazionalismo Marx aveva espresso opinioni confuse e in costante evoluzione, e così Lenin: se a volte entrambi vi avevano visto una forza rivoluzionaria, in altri casi l’avevano giudicato una distrazione dal vero obiettivo del socialismo universale. Marx si era reso conto che le rivoluzioni democratiche del 1848 erano state in parte ispirate da sentimenti nazionali, ma riteneva quei sentimenti «nazionalistici borghesi» un fenomeno temporaneo, una semplice tappa sulla strada dell’internazionalismo comunista. Come lo Stato sarebbe gradualmente scomparso, così, in qualche modo, sarebbero scomparse le nazioni e i sentimenti nazionali. «Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più.»35

Quanto a Lenin, egli era a favore dell’autonomia culturale e dell’autodeterminazione nazionale, tranne quando non gli convenivano. Ancora prima della rivoluzione aveva criticato le scuole in lingue diverse dal russo, per esempio in yiddish o in ucraino, sostenendo che creavano inutili divisioni all’interno della classe operaia.36 Se teoricamente era favorevole ad accordare il diritto di secessione alle regioni non russe dell’impero russo, fra cui la Georgia, l’Armenia e gli Stati dell’Asia centrale, non credette mai davvero, si direbbe, che esse sarebbero arrivate a tanto. Inoltre, riconoscere il «diritto» alla secessione non significava che fosse disposto ad appoggiare una secessione. Nel caso dell’Ucraina, Lenin si schierò a favore del nazionalismo ucraino quando si oppose allo zar o al governo provvisorio nel 1917, e contro di esso quando pensò che minacciasse l’unità del proletariato russo e ucraino.37

A questo complesso rompicapo ideologico Stalin avrebbe aggiunto le proprie idee. Egli era l’esperto del partito in materia di nazionalità e, inizialmente, fu molto meno flessibile di Lenin. In Il marxismo e la questione nazionale, del 1913, sostenne che il nazionalismo distraeva dalla causa del socialismo ed era «necessario un lavoro concorde e instancabile dei socialdemocratici conseguenti per dissipare le nebbie del nazionalismo, da qualunque parte provengano».38 Nel 1925 le sue posizioni si erano ulteriormente evolute ed egli aveva finito per vedere nel nazionalismo una forza essenzialmente contadina. I movimenti nazionali, dichiarò, avevano bisogno dei contadini per esistere: «La questione contadina costituisce il fondamento, il nocciolo della questione nazionale, il suo nucleo essenziale. Appunto così si spiega il fatto che i contadini rappresentano l’esercito principale del movimento nazionale, che senza l’esercito contadino non esiste e non può esistere un potente movimento nazionale».39

Tale argomentazione, evidente riflesso degli eventi che Stalin aveva visto svolgersi in Ucraina, sarebbe diventata più significativa in seguito. Se senza un esercito contadino non può esistere alcun potente movimento nazionale, infatti, chi vuole distruggere un movimento nazionale può benissimo voler cominciare dallo sterminio dei contadini.

Alla fine, l’ideologia si sarebbe rivelata per i bolscevichi meno importante delle loro personali esperienze in Ucraina, e soprattutto della guerra civile che vi divampò. Per tutti i membri del Partito comunista il periodo della guerra civile fu un autentico spartiacque, dal punto di vista personale e politico. All’inizio del 1917 erano pochi quelli che avevano qualcosa da vantare. Erano oscuri ideologi, falliti in ogni senso. Se riuscivano a guadagnare un po’ di denaro, era scrivendo per giornali illegali; non avevano fatto che entrare e uscire di prigione, avevano vite personali complesse e nessuna esperienza di governo o amministrazione.

Inaspettatamente, la rivoluzione russa li pose al centro di eventi di portata internazionale e, per la prima volta, diede loro fama e potere. Li salvò dall’oscurità e confermò la loro ideologia. Il successo della rivoluzione dimostrava, per i dirigenti bolscevichi come per tanti altri, che Marx e Lenin avevano avuto ragione.

Ma ben presto la rivoluzione li costrinse a difendere il loro potere, a scontrarsi non solo con fautori di ideologie controrivoluzionarie, ma con una vera e sanguinosa controrivoluzione, che doveva essere immediatamente sconfitta. La successiva guerra civile li obbligò a creare un esercito, una polizia politica e una macchina di propaganda. Soprattutto, la guerra civile diede ai bolscevichi lezioni sul nazionalismo, la politica economica, la distribuzione di generi alimentari e la violenza di cui si sarebbero in seguito ricordati. Le loro esperienze in Russia furono molto diverse da quelle che vissero in Ucraina, dove, fra l’altro, subirono una clamorosa sconfitta che rischiò di abbattere il loro Stato nascente. Molti dei loro atteggiamenti successivi nei confronti dell’Ucraina, fra cui la mancanza di fiducia nella fedeltà dei contadini, la diffidenza verso gli intellettuali ucraini e l’avversione che nutrivano per il Partito comunista ucraino, affondavano le radici in quel periodo.

L’esperienza della guerra civile, specie della guerra civile in Ucraina, informò le visioni di Stalin stesso. Alla vigilia della rivoluzione russa era vicino ai quarant’anni e, nella vita, non aveva combinato granché. Era «senza soldi, senza una residenza stabile e senza una professione tranne quella di aggressivo opinionista», come si legge in una recente biografia.40 Nato in Georgia, educato in seminario, la sua fama nel movimento clandestino poggiava sulla sua maestria nel rapinare banche. Era entrato e uscito di prigione più volte. Al momento della rivoluzione del febbraio 1917 era in esilio in un villaggio a nord del Circolo polare artico. Quando lo zar Nicola II fu deposto, tornò a Pietrogrado (il nome San Pietroburgo, la capitale russa, era stato russificato nel 1914, e nel 1924 sarebbe stato cambiato in Leningrado).

Il colpo di Stato bolscevico dell’ottobre 1917 destituì il governo provvisorio e fece assaporare per la prima volta a Stalin il gusto squisito del vero potere politico.41 Come commissario del popolo per le Nazionalità, egli divenne membro del primo governo bolscevico. Per il suo ruolo, spettava a lui negoziare con tutte le nazioni e i popoli non russi che avevano fatto parte dell’impero zarista e, cosa più importante, convincerli, o costringerli, a sottomettersi al regime sovietico. Nei suoi rapporti con l’Ucraina aveva due priorità chiare e urgenti, dettate entrambe dall’estrema gravità della situazione. La prima era indebolire il movimento nazionale, senza alcun dubbio il più importante rivale dei bolscevichi nella Repubblica. La seconda era impossessarsi del grano ucraino. Affrontò entrambi i compiti solo pochi giorni dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi.

Già nel dicembre 1917, sulle pagine della «Pravda», denunciò la Terza universale della Rada centrale, il manifesto che aveva proclamato la Repubblica popolare ucraina e fissato i confini del paese. Chi, chiese retoricamente, sosteneva un’Ucraina indipendente?

I grandi proprietari terrieri in Ucraina, poi Aleksej Kaledin [un generale dell’Armata bianca] e il suo «governo militare» sul Don, cioè i proprietari terrieri cosacchi … dietro a tutti e due i quali si annida la grande borghesia russa, che era una furiosa nemica di tutte le richieste del popolo ucraino, ma ora appoggia la Rada centrale.

Invece, «tutti gli operai ucraini e la parte più povera dei contadini» si opponevano alla Rada centrale, sosteneva. Nessuna delle due affermazioni corrispondeva a verità.42

Alle denunce pubbliche della Rada centrale Stalin fece seguire quelle che più tardi sarebbero state chiamate «misure attive», intese a destabilizzare il governo ucraino. I bolscevichi locali cercarono di instaurare a Donec’k - Kryvyi Rih, Odessa, Tavrija e nella provincia del Don delle cosiddette «repubbliche sovietiche» indipendenti, piccoli mini-Stati sostenuti da Mosca che, ovviamente, indipendenti non erano affatto.43 Inoltre tentarono un colpo di Stato a Kiev e, dopo il suo fallimento, crearono un Comitato esecutivo centrale dell’Ucraina «alternativo» e poi un «governo sovietico» a Charkiv, città russofona più affidabile. Più tardi avrebbero fatto di Charkiv la capitale dell’Ucraina, anche se nel 1918 soltanto un pugno di dirigenti bolscevichi di quella città parlava ucraino.44

Mentre i bolscevichi consolidavano il loro regime in Russia, l’Armata rossa continuava a farsi strada verso il Sud. Infine, il 9 febbraio 1918, mentre i dirigenti della Rada centrale stavano negoziando a Brest-Litovsk, Kiev cadde per la prima volta in mano a forze bolsceviche. Questa prima, breve occupazione portò con sé non solo l’ideologia comunista, ma un programma chiaramente russo. Il generale Michail Murav’ëv, che deteneva il comando, dichiarò che stava riportando il dominio russo dal «lontano Nord» e ordinò l’immediata esecuzione di sospetti nazionalisti. I suoi uomini sparavano a chiunque sentissero parlare ucraino in pubblico e cancellarono ogni traccia del regime ucraino, fra cui le insegne stradali in ucraino che avevano sostituito quelle in russo soltanto poche settimane prima.45 Il bombardamento bolscevico della capitale ucraina nel 1918 prese deliberatamente di mira la casa di Hruševs’kyj, la biblioteca e le raccolte di documenti antichi.46

Se i bolscevichi controllarono Kiev solo per qualche settimana, questa prima occupazione fu per Lenin un assaggio di ciò che l’Ucraina avrebbe potuto offrire al progetto comunista. Nella disperata necessità di dare da mangiare agli operai rivoluzionari che l’avevano portato al potere, egli inviò immediatamente in Ucraina l’Armata rossa accompagnata da «distaccamenti di requisizione», squadre di uomini incaricati di confiscare i cereali ai contadini. Al ruolo di «commissario plenipotenziario straordinario» responsabile delle requisizioni nominò Sergo Ordžonikidze, un bolscevico georgiano di primo piano.47 Il comitato di redazione della «Pravda» sbandierò i successi di queste squadre militarizzate, assicurando ai suoi lettori russi, abitanti per lo più in città, che la dirigenza sovietica aveva già iniziato a prendere «misure straordinarie» per ottenere il grano dai contadini.48

Dietro le quinte, Lenin inviò al fronte ucraino telegrammi che difficilmente avrebbero potuto essere più espliciti. «Prendete, per amor di dio, le misure più energiche e rivoluzionarie al fine di inviare grano, grano e ancora grano!!!» scrisse nel gennaio 1918. «Altrimenti Pietroburgo potrà crepare. Treni e reparti speciali. Ammasso e immagazzinamento. Scortare i treni. Informare quotidianamente. Per amor di dio!»49 La rapida perdita dell’Ucraina per l’arrivo di truppe tedesche e austriache, all’inizio di marzo, fece infuriare Mosca. Stalin, furibondo, se la prese non soltanto con il movimento nazionale ucraino e i suoi recalcitranti sostenitori contadini, ma anche con i bolscevichi ucraini che, fuggiti da Charkiv, avevano instaurato un altro caotico «governo sovietico ucraino in esilio» appena oltre il confine russo, a Rostov. Istintivamente, non gli piaceva l’idea di «bolscevichi ucraini», e pensava che dovessero rinunciare al loro tentativo di creare un partito distinto. Da Mosca, attaccò il gruppo di Rostov: «Basta col giocare al governo e alla Repubblica. È tempo di gettare la maschera. Quel che è troppo, è troppo».50

In risposta, uno dei pochi che a Rostov parlavano ucraino inviò una nota di protesta al Consiglio dei commissari del popolo a Mosca. La dichiarazione di Stalin, scrisse Mykola Skrypnyk, aveva contribuito a «screditare il potere sovietico in Ucraina». Skrypnyk credeva nella possibilità di un «bolscevismo ucraino» e fu tra i primi paladini di quello che in seguito sarebbe stato chiamato «comunismo nazionale», la convinzione che il comunismo potesse assumere in paesi diversi forme diverse e non fosse incompatibile con il sentimento nazionale in Ucraina. Egli sosteneva che il breve regime della Rada centrale aveva creato un vero desiderio di sovranità ucraina e i bolscevichi avrebbero dovuto riconoscerlo e farlo proprio. A suo parere, il governo sovietico non doveva «basare le sue decisioni sul parere di qualche commissario del popolo della federazione russa, ma mettersi in ascolto delle masse, dei lavoratori dell’Ucraina».51

Nel breve periodo Skrypnyk l’avrebbe avuta vinta, ma non perché i bolscevichi avessero deciso di mettersi in ascolto delle masse o dei lavoratori. In seguito alla sua prima sconfitta in Ucraina, Lenin aveva semplicemente deciso di adottare una tattica diversa. Usando i metodi di quella che (molto più tardi, anche se in un contesto simile) sarebbe stata chiamata «guerra ibrida», ordinò alle sue forze di rientrare in Ucraina in incognito. Avrebbero dovuto nascondere di essere forze russe che lottavano per una Russia bolscevica unita. Al fine di confondere i nazionalisti, esse si autodefinirono «movimento di liberazione ucraino sovietico». L’idea era di servirsi cinicamente della retorica nazionalista per convincere il popolo ad accettare il potere sovietico. In un telegramma al comandante dell’Armata rossa sul campo, Lenin spiegò:

Con l’avanzare delle nostre truppe a ovest e in Ucraina, vengono creati governi sovietici regionali provvisori il cui compito è rafforzare i soviet locali. Questo ha il vantaggio di togliere agli sciovinisti dell’Ucraina, della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia la possibilità di considerare l’avanzata dei nostri distaccamenti come un’occupazione e crea un’atmosfera favorevole a un’ulteriore avanzata delle nostre truppe.52

I comandanti militari, in altre parole, avevano la responsabilità di contribuire a creare i governi «nazionali» filosovietici che avrebbero dato loro il benvenuto. L’idea, come spiegò Lenin, era di far sì che la popolazione ucraina li trattasse da «liberatori», non da occupanti stranieri.

Mai nel 1918 né più tardi Lenin, Stalin o chiunque altro dirigente bolscevico pensarono che uno Stato ucraino-sovietico avrebbe potuto godere di un’autentica sovranità. Del Consiglio rivoluzionario ucraino costituito il 17 novembre entrarono a fare parte Pjatakov e Volodymyr Zatons’kyj, entrambi funzionari «ucraini» schierati con Mosca, Volodymyr Antonov-Ovsijenko, comandante dell’Armata rossa in Ucraina, e lo stesso Stalin. Il «governo rivoluzionario provvisorio dell’Ucraina», instaurato il 28 novembre, era guidato da Christian Rakovskij, bulgaro di origine, che dichiarò fra l’altro che ogni richiesta di rendere l’ucraino la lingua ufficiale del paese era «pregiudizievole per la rivoluzione ucraina».53

La conduzione di questa guerra ibrida fu facilitata dal caos generale. L’Armata rossa diede inizio alla sua aggressione alla Repubblica esattamente nello stesso momento in cui i bolscevichi iniziavano a negoziare un accordo con Petljura. Quando i funzionari del Direttorio denunciarono furibondi questa politica bifronte, Georgij Čičerin, commissario del popolo per gli Affari esteri del governo bolscevico, rispose imperturbabile che Mosca non aveva nulla a che vedere con le truppe che si muovevano sul suolo ucraino. La responsabilità delle azioni militari su quel territorio ricadeva, disse, sull’«esercito del governo sovietico ucraino, che è completamente indipendente».54

Il Direttorio protestò che si trattava di una palese menzogna. Era chiarissimo che l’«esercito del governo sovietico ucraino» era in realtà l’Armata rossa. Le sue proteste proseguirono fino al gennaio 1919, quando l’Armata rossa costrinse il governo ucraino a ritirarsi da Kiev.55

La seconda occupazione bolscevica dell’Ucraina ebbe inizio in gennaio e sarebbe durata sei mesi. In questo periodo Mosca non controllò mai tutto il territorio di quella che sarebbe in seguito divenuta la Repubblica ucraina. Anche nelle regioni in cui i bolscevichi esercitavano il potere in città e cittadine, i villaggi rimasero spesso sotto l’influenza di capi partigiani locali, o «atamani», alcuni fedeli a Petljura e altri no. In molte località l’autorità bolscevica superava a malapena i confini delle stazioni ferroviarie. Tuttavia, anche quel breve periodo di dominio parziale diede ai dirigenti bolscevichi della Repubblica sovietica ucraina l’opportunità di mostrarsi per quello che erano veramente. Per quanta indipendenza teorica i dirigenti comunisti ucraini potessero avere sulla carta, in pratica non ne avevano alcuna.

Inoltre, quali che fossero le loro idee sullo sviluppo economico dell’Ucraina, esse furono ben presto messe in secondo piano da un’altra priorità. Nessuna tesi della teoria marxista, nessun argomento relativo al nazionalismo o alla sovranità ebbe per i bolscevichi, quell’anno, tanta importanza quanto la necessità di rifornire di generi alimentari gli operai di Mosca e Pietrogrado. Nel 1919 le parole del telegramma di Lenin – «Prendete, per amor di dio, le misure più energiche e rivoluzionarie al fine di inviare grano, grano e ancora grano!!!» – erano diventate quelle che meglio descrivevano gli atteggiamenti e le pratiche dei bolscevichi in Ucraina.

L’ossessione bolscevica per il cibo non era ingiustificata: l’impero russo si era trovato in difficoltà con i rifornimenti di viveri fin dallo scoppio della prima guerra mondiale. All’inizio del conflitto con la Germania, la Russia imperiale aveva accentrato e nazionalizzato il suo sistema di approvvigionamenti, creando caos amministrativo e penuria. La responsabilità al riguardo era stata assegnata a un Consiglio speciale per discutere e coordinare le misure per la fornitura di generi alimentari, organismo statale che costituì un chiaro precedente per i successivi analoghi organismi sovietici. Invece di migliorare la situazione, la decisione del Consiglio speciale di «eliminare gli intermediari» e creare una forma di distribuzione dei cereali che si presumeva più efficiente e non capitalistica aveva in realtà aggravato la crisi.56

Era stata la conseguente penuria di generi alimentari a scatenare nel 1917 la rivoluzione di Febbraio e, pochi mesi più tardi, portare i bolscevichi al potere. L’atmosfera di quell’anno fu descritta da un giornalista britannico, Morgan Philips Price:

Involontariamente, la conversazione parve scivolare verso l’argomento principale, quello che evidentemente monopolizzava l’attenzione di tutti: pane e pace. … Tutti sapevano che le ferrovie non erano più all’altezza di farsi carico dei trasporti, che i cereali prima esportati in Europa occidentale erano ormai più che assorbiti dall’esercito, che la superficie coltivata era diminuita l’anno precedente del 10 per cento, e non c’era dubbio che sarebbe diminuita ancora di più in primavera, che gli operai di diverse grandi città erano rimasti per più giorni senza pane, mentre i granduchi e i profittatori disponevano di grandi scorte nelle loro case.57

La vista delle donne che facevano la coda per le razioni alimentari indusse Price a osservare: «I loro volti pallidi e i loro sguardi ansiosi tradivano la paura che fosse imminente qualche calamità».58 Dopo aver visitato la caserma di uno dei reggimenti di Mosca, egli raccontò che «si discuteva delle razioni di cibo e qualcuno, con la voce più alta e più iniziativa degli altri, propose di inviare una delegazione di tre persone dal comandante per chiedere il loro immediato aumento». Dalle razioni alimentari, il gruppo passò a discutere della guerra, e poi della proprietà della terra: «Questo soviet di soldati in embrione era divenuto, comunque, un centro di scambio di opinioni su argomenti che fino a ieri erano proibiti per tutti al di fuori della fortunata cerchia della casta al potere. Si era giunti alla fase successiva della rivoluzione».

Più tardi Price osservò che la fame, almeno ai primi stadi, rendeva la gente «più rapace». La mancanza di cibo la portava a mettere in discussione il sistema, a chiedere un cambiamento, anche a invocare la violenza.59

Il legame fra cibo e potere era qualcosa che anche i bolscevichi capivano molto bene. Sia prima, sia durante e dopo la rivoluzione, tutte le parti in lotta si rendevano conto che la costante penuria rendeva i rifornimenti di generi alimentari uno strumento politico di enorme rilievo. Chi aveva il pane aveva seguaci, soldati, amici fedeli. Chi non poteva dare da mangiare ai suoi, ne perdeva presto il sostegno. Nel 1921, mentre si stava negoziando per l’ingresso in Unione Sovietica di una missione di soccorso americana, uno dei suoi rappresentanti disse al negoziatore sovietico (e più tardi ministro degli Esteri) Maksim Litvinov: «Non siamo venuti per combattere la Russia, siamo venuti a dare da mangiare». Secondo un giornalista americano, Litvinov rispose molto succintamente in inglese: «Sì, ma il cibo è un veppon [per weapon, arma]…».60

Anche Lenin ne era convinto. Ma il leader rivoluzionario non giunse per questo alla conclusione che la nazionalizzazione del sistema di distribuzione dei viveri decisa a suo tempo dal Consiglio speciale fosse stata un errore. Ne dedusse, invece, che i metodi del Consiglio non fossero stati abbastanza duri, soprattutto in Ucraina. Nel 1919 Rakovskij, il dirigente bolscevico a capo dell’Ucraina, fece eco a tale sentimento osservando con franchezza a un congresso del partito: «Siamo andati in Ucraina in un momento in cui la Russia sovietica attraversava una gravissima crisi di produzione. Il nostro scopo era di sfruttarla al massimo per alleviare la crisi».61 Fin dall’inizio del loro regime, i bolscevichi videro nello sfruttamento dell’Ucraina il prezzo da pagare per mantenere il controllo della Russia. Come uno di essi avrebbe scritto anni dopo: «Il destino della rivoluzione dipendeva dalla nostra capacità di rifornire affidabilmente il proletariato e l’esercito di pane».62

L’urgente necessità di cereali portò a una serie di politiche estremistiche, note allora e in seguito sotto il nome di «comunismo di guerra». Inaugurato in Russia nel 1918 e introdotto in Ucraina dopo la seconda invasione bolscevica all’inizio del 1919, il comunismo di guerra significò la militarizzazione di tutti i rapporti economici. Nelle campagne il sistema era molto semplice: assumere il controllo dei cereali, a mano armata, e redistribuirli ai soldati, agli operai, ai membri del partito e ad altre categorie giudicate dallo Stato «essenziali».

Nel 1918, a molti questo sistema doveva suonare familiare. Il governo imperiale russo, assillato in tempo di guerra dalla penuria di cibo, aveva iniziato a confiscare i raccolti a mano armata – una politica nota come prodrazvërstka – già nel 1916. Nel marzo 1917, anche il governo provvisorio aveva decretato che i contadini dovevano vendere tutti i cereali allo Stato al prezzo imposto dal governo centrale, tranne la quantità di cui avevano bisogno per la semina e il consumo personale.63 I bolscevichi non si comportarono diversamente. Nel maggio 1918 il Consiglio dei commissari del popolo esacerbò le precedenti politiche istituendo una «dittatura degli approvvigionamenti». Il commissariato per gli Approvvigionamenti creò un «esercito degli approvvigionamenti», destinato a essere dispiegato sul «fronte degli approvvigionamenti».64

Ma, nonostante il linguaggio militarizzato, in pratica il comunismo di guerra significò per la maggior parte della gente la fame. Per trovare qualcosa da mangiare, negli anni fra il 1916 e il 1918 la maggioranza dei russi e degli ucraini si rivolgeva al mercato nero, non alle inesistenti società statali.65 Nel Dottor Živago di Boris Pasternak la moglie del dottore cerca cibo e legna da ardere nella Mosca postrivoluzionaria vagando «per i vicoli adiacenti, dove talvolta passavano i contadini che portavano legumi e patate dai villaggi intorno alla città. Bisognava, però, saperli trovare. Infatti i contadini sorpresi con la roba venivano arrestati». Alla fine trova un uomo che vende pezzi di betulla ancora verdi e li scambia con «un piccolo armadio a specchi», che il contadino prende per regalarlo alla moglie. Dopodiché i due si mettono d’accordo «su certe patate da portare in seguito».66 Erano questi i rapporti fra città e campagna negli anni del comunismo di guerra.

Il baratto città-campagna sarebbe rimasto una caratteristica del sistema economico per molti anni. Ancora nel 1921, quando la guerra civile era in senso stretto finita, una delegazione filantropica americana in visita a Mosca scoprì che i moscoviti si arrangiavano in modo molto simile. In ulica Kuzneckij Most, un tempo importante via commerciale, donne anziane e bambini vendevano frutta tirandola fuori da sporte ricolme davanti a negozi vuoti con le serrande abbassate. Verdure e carne erano introvabili, se non nei mercati all’aperto. La sera gli americani scoprirono da dove provenivano quelle merci. Tornando al vagone ferroviario dove avrebbero trascorso la notte, videro una «vera e propria folla» di uomini, donne e bambini che si accalcavano e si spintonavano a vicenda per riuscire a salire su un treno diretto fuori città. Quella che a essi parve una «visione assolutamente fantastica quasi al crepuscolo» era in realtà la rete di distribuzione di generi alimentari russa: migliaia di commercianti che andavano avanti e indietro dalla città alla campagna.67

In quegli anni quei mercati illegali permisero di accedere al cibo a molti, specie a quanti non erano sulle liste speciali del governo. Ma i bolscevichi non solo rifiutarono di ammettere quei bazar di strada, ma li accusarono di essere la causa del perdurare della crisi. Anno dopo anno, i dirigenti sovietici reagirono con sorpresa alla fame e alla penuria provocate dal loro stesso sistema di «confisca e ridistribuzione». Ma poiché si presumeva che l’intervento statale rendesse la gente più ricca, non più povera, e i bolscevichi non attribuirono mai alcun fallimento alle loro politiche, tantomeno alla loro rigida ideologia, essi presero di mira i piccoli commercianti e quanti praticavano il mercato nero – gli «speculatori» – che si procuravano di che vivere trasportando in prima persona generi alimentari dalle fattorie nelle città. Nel gennaio 1919 Lenin stesso li denunciò come nemici ideologici:

Tutti i discorsi su questo tema [il commercio privato], tutti i tentativi di suffragarli sono la più grave delle sventure, una caduta, un passo indietro in quella edificazione socialista che il commissariato all’approvvigionamento realizza tra difficoltà incredibili, lottando contro i milioni di speculatori lasciatici in eredità dal capitalismo.68

Da qui, era sufficiente un piccolo salto logico per denunciare i contadini che vendevano il grano a quegli «speculatori». Lenin, già diffidente verso i contadini, una classe ai suoi occhi non abbastanza rivoluzionaria, si espresse con assoluta chiarezza sul pericolo del commercio città-campagna:

Il contadino deve scegliere: o il libero commercio del grano, il che significa speculazione sul grano, significa libertà per i ricchi di arricchirsi, libertà per i poveri di andare in rovina e di fare la fame, significa ritorno del potere assoluto dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti, rottura dell’alleanza dei contadini e degli operai; oppure la consegna delle eccedenze di grano a prezzo di calmiere allo Stato.69

Ma le parole non erano sufficienti. Di fronte alla fame che imperversava ovunque, i bolscevichi adottarono misure più estreme. Gli storici attribuiscono in genere la svolta di Lenin verso la violenza nel 1918 – una serie di politiche note come Terrore rosso – alla lotta contro i suoi avversari politici.70 Ma ancora prima che, in settembre, il Terrore rosso venisse ufficialmente dichiarato, e ancora prima che egli ordinasse arresti ed esecuzioni di massa, Lenin, in risposta al disastro economico – il pane per gli operai di Mosca e Pietrogrado si era ridotto a una trentina di grammi al giorno –, stava già ignorando ogni legge e ogni precedente. Price osservò che le autorità sovietiche riuscirono a malapena a dare da mangiare ai delegati durante il Congresso dei soviet dell’inverno 1918: «Nel corso della settimana erano arrivati nelle stazioni ferroviarie di Pietrogrado solo pochissimi vagoni di farina».71 E, ancora peggio, «nei quartieri della classe operaia di Mosca iniziarono a udirsi esplicite recriminazioni. Il regime bolscevico doveva trovare da mangiare o andarsene, si udiva spesso esclamare».72

Nella primavera del 1918 questa situazione ispirò la prima črezvyčajščina di Lenin, espressione che, nella traduzione di uno studioso, indica «una situazione speciale della vita pubblica in cui qualsiasi senso di legalità è perduto e nel potere prevale l’arbitrarietà».73 Per combattere i contadini, che egli accusava di trattenere per sé un surplus di cereali, erano necessarie misure straordinarie, o črezvyčajnye mery. Per costringerli a consegnare il loro grano e per combattere la controrivoluzione, Lenin finì inoltre per istituire la črezvyčajnaja komissija, «commissione straordinaria», nota anche come Če-ka o Čeka. Fu questa la prima denominazione della polizia segreta sovietica, più tardi conosciuta come GPUOGPUNKVD e, infine, KGB.

L’emergenza fece passare in secondo piano tutto il resto. Lenin ordinò che, nella primavera ed estate del 1918, chiunque non fosse direttamente coinvolto nel conflitto militare portasse generi alimentari nella capitale. Delle «questioni degli approvvigionamenti nella Russia meridionale» fu incaricato Stalin, e questo compito divenne improvvisamente molto più importante del suo ruolo di commissario per le Nazionalità. Egli partì per Caricyn, una città sul Volga, accompagnato da due treni blindati e quattrocentocinquanta soldati dell’Armata rossa. La sua missione: ammassare cereali per Mosca. Nel primo telegramma che inviò a Lenin, il 7 luglio, riferì che aveva scoperto un «baccanale di speculazione». Ed espose la sua strategia: «Potete esser certo che non risparmieremo nessuno, né noi se stessi né gli altri, e il grano lo manderemo a ogni costo».74

In anni successivi l’avventura di Stalin a Caricyn sarebbe stata ricordata soprattutto perché condusse al suo primo scontro pubblico con l’uomo che doveva diventare il suo grande rivale, Lev Trockij. Ma, alla luce della successiva politica di Stalin in Ucraina, essa rivestì anche un’importanza d’altro genere: le brutali misure cui ricorse per rastrellare il grano a Caricyn preannunciarono quelle che avrebbe adottato, oltre un decennio più tardi, per procurarsi risorse cerealicole in Ucraina. Nel giro di pochi giorni dal suo arrivo in città, creò un Consiglio militare rivoluzionario, istituì una divisione della Čeka e iniziò a «epurare» Caricyn dai controrivoluzionari. Dopo aver denunciato i generali locali come «specialisti borghesi» e «scialbi impiegatucci, del tutto inadeguati a una guerra civile», li imprigionò insieme ad altri su una chiatta in mezzo al Volga.75 Potendo contare su diverse unità di truppe bolsceviche provenienti da Donec’k, e sull’aiuto di Kliment Vorošilov e Sergo Ordžonikidze, due uomini che sarebbero rimasti suoi stretti sodali, autorizzò arresti e pestaggi su vasta scala, seguiti da esecuzioni di massa. Figuri dell’Armata rossa derubavano commercianti e contadini locali del grano; la Čeka montava contro di loro processi penali – altro presagio di quello che doveva avvenire in seguito – e nei rastrellamenti catturava anche gente a caso.76

Ma alla fine i treni partirono verso nord con i loro carichi di grano, il che significava che, nell’ottica di Stalin, quella forma particolarmente brutale di comunismo di guerra si era rivelata molto efficace. La popolazione di Caricyn pagò un prezzo enorme e, almeno secondo Trockij, lo pagò anche l’esercito.77 Dopo le proteste di quest’ultimo per la condotta di Stalin a Caricyn, Lenin finì per allontanarlo dalla città. Ma il periodo che vi trascorse rimase per Stalin importante, tanto che nel 1925 avrebbe cambiato il nome di Caricyn in Stalingrado.

Durante la seconda occupazione dell’Ucraina, nel 1919, i bolscevichi non giunsero mai a controllarla nella misura in cui Stalin aveva assunto il controllo a Caricyn. Ma nei sei mesi in cui, almeno nominalmente, furono al potere nella Repubblica, si spinsero più avanti che potevano. In Ucraina si manifestarono in pieno tutte le loro ossessioni: l’odio per il commercio, la proprietà privata, il nazionalismo e i contadini. Ma la loro ossessione per il cibo, e l’ammasso di generi alimentari, oscurò quasi ogni altra decisione che presero in Ucraina.

Quando giunsero per la seconda volta a Kiev, i bolscevichi si mossero molto in fretta. Lasciarono immediatamente cadere la pretesa di essere una forza di «liberazione ucraina». Seguirono invece, ancora una volta, il precedente stabilito dagli zar: vietarono i giornali ucraini, posero fine all’uso dell’ucraino nelle scuole e chiusero i teatri ucraini. La Čeka procedette in breve all’arresto di intellettuali ucraini, che furono accusati di «separatismo». Rakovskij, il capo del partito ucraino, si rifiutava di impiegare e addirittura di riconoscere la lingua ucraina. Pavlo Chrystjuk, un socialista rivoluzionario ucraino, avrebbe in seguito ricordato che «le truppe russe», molti dei cui membri provenivano dai ranghi della vecchia polizia imperiale, ancora una volta «sparavano a Kiev a chiunque parlasse ucraino e si considerasse un ucraino». Una retorica d’odio antiucraino divenne in città parte integrante del linguaggio bolscevico: «Le masse di disoccupati, di affamati, di quanti facevano i lavori più pesanti si arruolavano nell’esercito, dove erano pagati bene per il loro servizio e ricevevano “razioni” per le famiglie. Sollevare il “morale” di questo esercito non era difficile. Non occorreva dire altro che i nostri “fratelli” stavano morendo di fame a causa degli ucraini-chochly [«ciuffi», termine spregiativo per ucraini]. Così i nostri “compagni” attizzavano il fuoco dell’odio verso gli ucraini».78

Inoltre, come in Russia, i bolscevichi confiscarono grandi proprietà terriere usando parte delle terre per crearvi fattorie collettive e imprese agricole di proprietà statale, un’altra anticipazione della politica futura. Ma se i bolscevichi di Mosca erano ben contenti di questi esperimenti, quelli ucraini non lo erano. Soprattutto, non lo erano i contadini ucraini. La Russia aveva una tradizione di agricoltura comunitaria e i contadini russi usufruivano per la maggior parte dei terreni congiuntamente in comuni rurali (dette obšcina o mir). Ma, in Ucraina, la stessa usanza era seguita solo da un quarto dei contadini. Gli altri erano agricoltori individuali, o proprietari terrieri o loro dipendenti, che possedevano la propria terra, la propria casa e il proprio bestiame.79

Quando, nel 1919, ai contadini ucraini fu offerta la possibilità di aderire spontaneamente a fattorie collettive, ben pochi accettarono. E anche se, nello stesso anno, il nuovo regime sovietico aprì in Ucraina circa 550 fattorie collettive e statali, esse rimasero per lo più impopolari ed ebbero scarso successo: quasi tutte furono chiuse poco dopo. La maggior parte della terra confiscata venne invece redistribuita. Nell’Ucraina occidentale e centrale i contadini ricevettero lotti più piccoli, nella steppa a sud e a est più grandi. I piccoli proprietari terrieri, che possedevano fra i cinquanta e i cento ettari, conservarono le loro proprietà. Anche se nessuno lo diceva, era tacitamente riconosciuto che i proprietari terrieri privati in Ucraina producevano più cereali e con più efficienza.80

Ma nel 1919 il grano era ancora per Lenin una priorità d’importanza molto maggiore della conversione degli ucraini ai vantaggi dell’agricoltura collettivizzata. Ogni volta che si discuteva della Repubblica, era quella la sua prima preoccupazione: «A ogni menzione dell’Ucraina Lenin chiedeva quanto [grano] c’era, quanto se ne poteva portare via o quanto era già stato portato via».81 Nella sua ossessione egli era incoraggiato da Aleksandr Šlichter, un bolscevico con credenziali rivoluzionarie che, sul finire del 1918, era stato nominato commissario del popolo per gli Approvvigionamenti in Ucraina. All’inizio del 1919 Šlichter aveva già posto ogni persona, istituto e organismo della regione che avesse a che fare con la produzione di generi alimentari sotto il suo personale controllo.82 Nativo di Poltava, nell’Ucraina centrorientale, egli pensava che la potenzialità di produzione di generi alimentari del suo paese natale fosse immensa, ma non ne vedeva come beneficiari gli ucraini: «Abbiamo un obiettivo, procurare cento milioni di pud [1,63 milioni di tonnellate] con la requisizione di cereali …, cento milioni per la Russia affamata, per la Russia ora sotto la minaccia di un intervento internazionale dall’Est. È una cifra colossale, ma la ricca Ucraina, l’Ucraina produttrice di pane, aiuterà…».83

La cifra era campata per aria; più tardi a Šlichter sarebbero stati chiesti cinquanta milioni di pud, ma non ci fu verso: non riuscì nemmeno lontanamente ad avvicinarsi alla quantità richiesta.84 Certamente scoprì che comprare cereali era impossibile. Come avrebbe ricordato un osservatore, i contadini si rifiutavano di consegnare la loro produzione a oziosi cittadini in cambio di «denaro di Kerenskij» [la moneta creata nel febbraio 1917] o karbovanci ucraini: «Non c’era quasi casa in cui non si trovassero mucchi di cartamoneta senza valore».85 I contadini avrebbero barattato ben volentieri il grano con capi d’abbigliamento o attrezzi, ma la Russia non stava producendo quasi nessun manufatto, e Šlichter non aveva nulla da offrire loro.

L’unica soluzione fu nuovamente la forza. Anziché la violenza bruta cui era ricorso Stalin a Caricyn, tuttavia, Šlichter optò per una forma di violenza più sofisticata. Creò nei villaggi un nuovo sistema di classi, prima identificando e denominando nuove categorie di contadini, poi stimolando l’antagonismo fra di esse. In precedenza, nei villaggi ucraini le distinzioni di classe non erano ben definite né granché significative; Trockij stesso scrisse che «la classe contadina è il protoplasma da cui nuove classi erano emerse nel passato».86 Come si è osservato, solo una minoranza di villaggi ucraini seguiva la pratica, maggiormente diffusa in Russia, di detenere la terra in regime comunitario. Nella maggior parte di essi esisteva una grossolana divisione fra coloro che possedevano della terra e venivano considerati gente che lavorava sodo, e coloro che non ne possedevano o che per qualunque ragione – sfortuna, alcolismo – erano ritenuti lavoratori poveri. Ma era una distinzione piuttosto vaga. Membri della stessa famiglia potevano appartenere a gruppi diversi, e i contadini potevano salire o scendere lungo questa corta scala sociale molto rapidamente.87

I bolscevichi, con la loro rigida formazione marxista e la loro visione gerarchizzata del mondo, volevano distinzioni più formali. Alla fine avrebbero definito tre categorie di contadini: i kulak, o contadini ricchi; i serednjak, o contadini medi; e i bednjak, o contadini poveri. Ma a questo punto ciò che cercavano di definire era soprattutto chi doveva essere vittima della loro rivoluzione e chi beneficiarne.

In parte, Šlichter creò una divisione di classe lanciando una lotta ideologica contro i «kulak» o «kurkul» (letteralmente «pugni» in ucraino). Il termine era raramente usato nei villaggi ucraini prima della rivoluzione e, quando lo era, designava semplicemente qualcuno che stava bene, o che poteva permettersi di assumere altri lavoratori, non necessariamente un ricco.88 Se i bolscevichi non smisero mai di discutere su come identificare i kulak – il termine avrebbe finito per assumere un significato meramente politico – non si facevano il minimo scrupolo a diffamarli definendoli il principale intralcio agli ammassi dei cereali, o attaccarli come sfruttatori dei contadini più poveri e nemici del potere sovietico. Molto rapidamente, i kulak divennero fra i più importanti capri espiatori dei bolscevichi, il gruppo più spesso accusato per il fallimento della loro agricoltura e del loro sistema di distribuzione di generi alimentari.

Mentre attaccava i kulak, Šlichter si procurò una nuova classe di alleati attraverso l’istituzione di «comitati dei contadini poveri», komitety nezamožnyh seljan, altrimenti noti come komnezamy (kombedy in russo). Più tardi i komnezamy avrebbero svolto un ruolo nella carestia ucraina, ma le loro origini affondano in quel momento immediatamente successivo alla rivoluzione: nella prima campagna per l’ammasso di grano di Šlichter. Sotto la sua direzione, soldati dell’Armata rossa e agitatori russi si spostavano da un villaggio all’altro reclutando i contadini che avevano avuto meno successo, i meno produttivi e più opportunisti, cui offrivano potere, privilegi e le terre confiscate ai loro vicini. In cambio, quei collaboratori accuratamente selezionati dovevano reperire e confiscare le «eccedenze di grano» di quegli stessi vicini. Questi ammassi obbligatori di cereali, o prodrazvërstka, suscitarono una rabbia e un risentimento smisurati, che non sarebbero mai svaniti del tutto.89

Questi due raggruppamenti rurali di nuova istituzione si definivano a vicenda quali mortali nemici. I kulak capivano benissimo che i komnezamy erano stati creati per distruggerli; e i komnezamy capivano altrettanto bene che il loro status futuro dipendeva dalla loro capacità di distruggere i kulak. Per farlo non esitavano a comminare severe punizioni ai loro vicini. Josyp Nyžnyk, membro leale del comitato dei contadini poveri di Velyke Ustja, nella provincia di Černihiv, entrò a far parte di un komnezam nel gennaio 1918, dopo il ritorno a casa dal fronte. Come avrebbe ricordato in seguito, il comitato locale contava cinquanta membri. Incaricati di confiscare la terra ai vicini più ricchi, essi incontrarono, come c’era da aspettarsi, un’accanita resistenza. Allora un pugno di membri del komnezam formò un «comitato rivoluzionario» armato che, ricordava Nyžnyk, impose immediatamente misure drastiche: «Ai kulak e ai gruppi religiosi fu proibito tenere riunioni senza il permesso del comitato rivoluzionario; ai kulak vennero confiscate le armi; attorno al villaggio furono poste delle guardie e fu avviata anche una sorveglianza segreta dei kulak».90

Non tutti questi provvedimenti erano ordinati o sanciti dall’alto. Ma Šlichter sapeva che, dicendo ai comitati dei contadini poveri che il loro benessere dipendeva dal depredare i kulak, stava istigando a una feroce guerra di classe. Scopo dei komnezamy, avrebbe scritto più tardi, era «portare la rivoluzione socialista nelle campagne» assicurando la «distruzione del regime politico ed economico dei kulak».91 Nel 1918 un altro bolscevico lo affermò chiaramente a una riunione di partito: «Sì, compagni contadini, dovete sapere che qui in Ucraina ci sono adesso molti kulak ricchi, moltissimi, e sono ben organizzati, e quando inizieremo a fondare le nostre comuni in campagna … questi kulak organizzeranno una grande opposizione».92

In uno dei momenti di stanca della guerra civile, nel marzo 1918, Trockij dichiarò a una riunione dei soviet e dei sindacati che si dovevano requisire viveri «per l’Armata rossa a tutti i costi». Inoltre, delle conseguenze di tali requisizioni sembrava solo entusiasta: «Se la requisizione significasse la guerra civile fra i kulak e gli elementi più poveri dei villaggi, allora viva questa guerra civile!».93 Un decennio più tardi Stalin avrebbe fatto ricorso alla stessa retorica. Ma i bolscevichi stavano attivamente cercando di approfondire le divisioni all’interno dei villaggi e sfruttare la rabbia e il risentimento per portare avanti la loro politica già nel 1919.

Questa forma di rivoluzione dal basso non fu un’invenzione di Šlichter: Lenin aveva già tentato di fomentarla in Russia nel 1918, ma aveva fallito. Lì i comitati dei contadini poveri non erano stati solo impopolari – i contadini russi erano ancora meno inclini di quelli ucraini a definirsi in base a rigide divisioni di classe, e preferivano vedere nei loro vicini dei «compaesani» – ma anche corrotti. Essi non tardarono a usare i cereali che confiscavano a proprio vantaggio e, in molti distretti, degenerarono in «reti di corruzione e distorsione».94 Šlichter era consapevole dei rischi politici dell’applicazione di quelle misure anche in Ucraina, dove i contadini avevano meno simpatia per i bolscevichi. Tuttavia, sotto lo slogan «pane per i combattenti, per la salvezza della rivoluzione!», esercitò sui komnezamy un’enorme pressione perché rastrellassero grano utilizzando qualsiasi mezzo.

Ma la sua tattica non si limitò all’uso dei komnezamy: egli offrì anche appalti a gruppi privati o signori della guerra. Secondo documenti ufficiali, nella prima metà del 1919 giunsero in Ucraina dalla Russia ottantasette distinte squadre per l’ammasso di cereali, per un totale di 2500 persone. E il loro numero, contando anche i soldati e altri partecipanti non ufficiali, potrebbe essere stato superiore.95 Altri giunsero dall’Ucraina stessa, dalle città e dalla criminalità organizzata locale. Come i membri delle brigate di collettivizzazione che sarebbero state mandate in campagna dalle città nel 1929, anche molti dei componenti di queste squadre erano seguaci urbani dei bolscevichi e, se non erano russi, erano russofoni. Ma, quale che fosse la loro origine etnica, i contadini guardavano agli uomini di queste squadre militarizzate come a «stranieri», che non meritavano più considerazione dei soldati tedeschi e austriaci che avevano cercato di utilizzare le stesse tattiche un anno prima. Non sorprende che i contadini reagissero, come lo stesso Šlichter dovette ammettere: «In senso figurato, si potrebbe dire che ogni pud di grano requisito è macchiato di gocce di sangue dei lavoratori».96

I contadini non furono gli unici istigatori né le uniche vittime della violenza di classe. In Ucraina la Čeka lanciò una dura campagna anche contro nemici politici. La polizia segreta arrestava non solo nazionalisti, ma anche commercianti, banchieri, capitalisti e borghesi, sia dell’alta sia della piccola borghesia, ex funzionari imperiali, ex impiegati statali imperiali, ex leader politici, gli aristocratici e le loro famiglie, anarchici, socialisti e membri di qualsiasi altro partito di sinistra che non si conformassero alla linea bolscevica. Questi ultimi avevano in Ucraina una particolare importanza. I borot’bysty, aderenti all’ala sinistra radicale del Partito socialista rivoluzionario ucraino, godevano di un forte seguito nelle campagne. Ma, pur essendo ideologicamente molto vicini ai bolscevichi – anch’essi, per esempio, erano favorevoli a una riforma agraria radicale –, furono esclusi dal governo e venivano trattati con sospetto per aver collaborato con la Rada centrale.

Fra i nemici dei bolscevichi c’erano anche i cosacchi del Don e del Kuban’, che abitavano terre limitrofe a cavallo del confine tra Russia e Ucraina e, come i cosacchi zaporoghi in Ucraina meridionale, avevano sempre goduto di un’ampia autonomia. Molte delle loro stanicy, le comunità cosacche dotate di autogoverno, si schierarono durante la rivoluzione con le armate imperiali dei russi bianchi, e alcune reagirono alla situazione prendendo posizioni ancora più radicali. La Rada del Kuban’, l’organismo di governo dei cosacchi di quel territorio, che parlavano per lo più ucraino, si dichiarò nell’aprile 1917 il corpo governativo sovrano nel Kuban’, dopodiché, a partire da ottobre, combatté contro i bolscevichi, spingendosi fino a proclamare, nel gennaio 1918, una Repubblica popolare del Kuban’ indipendente. Al culmine della guerra civile, nel 1918, anche i cosacchi russofoni del Don dichiararono l’indipendenza e fondarono la Repubblica del Don, un gesto romantico che non conquistò loro amici a Mosca. I bolscevichi li definirono ripetutamente «controrivoluzionari istintivi» e «lacchè del regime imperiale».

Nel gennaio 1919, dopo l’ingresso dell’Armata rossa nella provincia del Don, la leadership bolscevica emise un ordine inteso a farla finita con il problema cosacco. Ai soldati fu data istruzione di «esercitare il terrore di massa contro i cosacchi ricchi, sterminandoli tutti; esercitare un terrore di massa spietato contro tutti i cosacchi che hanno preso parte, direttamente o indirettamente, alla lotta contro il potere sovietico … Confiscare il grano e costringere a depositare tutte le eccedenze in luoghi designati».97

Iosif Rejngold, il čekista a capo dell’operazione, la definì eufemisticamente una «decosacchizzazione». In realtà si trattò di un massacro: i tribunali rivoluzionari, costituiti da una trojka di funzionari, un commissario dell’Armata rossa e due membri del partito, emisero raffiche di condanne a morte. Persero così la vita circa 12.000 persone. Al massacro fece seguito una sorta di pulizia etnica: per «diluire» ulteriormente l’identità dei cosacchi del Don vennero importati operai e contadini «affidabili».98 Fu una delle prime volte in cui il potere sovietico fece uso della violenza di massa e del movimento di massa di persone a fini di ingegneria sociale, e costituì un precedente importante per la successiva politica sovietica, specie in Ucraina. Lo stesso termine «decosacchizzazione» potrebbe aver ispirato quello di «dekulakizzazione», destinato a un ruolo tanto centrale nella politica sovietica un decennio più tardi.

Questa politica, però, si ritorse contro i bolscevichi. A metà marzo i cosacchi della stanica di Vëšenskaja, molti dei quali avevano inizialmente collaborato con l’Armata rossa, erano in piena rivolta.99 In tutta l’Ucraina, i comandanti dell’Armata rossa erano estremamente preoccupati. Antonov-Ovsijenko, capo delle forze sovietiche nella regione, scrisse due volte a Lenin e al Comitato centrale per chiedere che la politica sovietica venisse ammorbidita e, in particolare, si cercasse una maggiore cooperazione con i gruppi locali e i leader nazionali ucraini. Egli suggerì che il governo sovietico ucraino venisse allargato per includervi i socialdemocratici e i borot’bysty, i quali, come si è già accennato, godevano fra i contadini di maggiore sostegno che non i bolscevichi. E chiese, inoltre, la fine delle requisizioni di cereali e concessioni ai contadini ucraini che stavano disertando in massa dall’Armata rossa.

Nessuno a Mosca gli diede retta. La retorica proseguì, aspra come prima. La politica di ammasso del grano non fu modificata. Ma fallì: Šlichter riuscì a inviare in Russia solo 8,5 milioni di pud di cereali, 139.000 tonnellate, una piccola frazione di quanto Lenin aveva chiesto.100

I bolscevichi furono cacciati per la seconda volta da Kiev nell’agosto 1919. Sulla scia della loro cacciata, esplose nelle campagne ucraine la più grande e violenta rivolta contadina della storia europea moderna.

II

RIBELLIONE, 1919

Popolo ucraino, prendi il potere nelle tue mani! Non ci siano dittature, né di persone né di partiti! Viva la dittatura dei lavoratori! Viva le mani callose dei contadini e degli operai! Abbasso i politici speculatori! Abbasso la violenza della Destra! Abbasso la violenza della Sinistra!

ATAMANO MATVIJ HRYHOR’JEV, 19191

Grande fu l’anno, e terribile, il 1918 dalla nascita di Cristo, ma il 1919 fu di quell’anno più terribile ancora.

MICHAIL BULGAKOV, 19262

Quando Nestor Machno fu battezzato, la veste del prete, si disse, prese fuoco. Per i contadini era un segno: egli era destinato a diventare un grande bandito. Alla nascita, il suo primo figlio aveva già la bocca piena di denti. Anche questo, dicevano i contadini, era un segno: significava che egli era l’Anticristo.3 Il figlio di Machno morì, e la storia del battesimo finì quasi dimenticata. Ma voci estremamente contraddittorie su Machno, il più potente e probabilmente il più carismatico leader contadino ucraino emerso dal caos del 1919, continuarono a circolare ben dopo la sua morte. È memorabile la descrizione dei suoi seguaci fatta da Trockij: «Predoni kulak [che] gettano polvere negli occhi dei contadini più ignoranti e arretrati».4 Per Pëtr Aršinov, anarchico russo e ammiratore di Machno, egli unificò il «movimento insurrezionale rivoluzionario dei contadini e degli operai ucraini». Quando «per tutto l’immenso bacino dell’Ucraina le masse si agitavano, passavano alla lotta e all’insurrezione», Machno «elaborò il piano di questo attacco, emanò le parole d’ordine che le circostanze richiedevano».5

Farsi largo fra le nebbie e i miti che circondano la rivolta contadina ucraina del 1918-1920 non è facile, non foss’altro che perché un gran numero dei suoi protagonisti, fra cui lo stesso Machno, svolse tanti ruoli e cambiò fronte tante volte. All’inizio, Machno era un militante rivoluzionario originario dell’attuale oblast’ di Zaporižžja, nell’Ucraina sudorientale. Arrestato più volte dalla polizia zarista, passò gli anni dal 1908 al 1917 in prigione a Mosca. Lì strinse amicizia, fra gli altri, con Aršinov, e fu indottrinato nell’ideologia dell’anarchismo. Tale filosofia, benché altrettanto radicale e critica dello status quo, non era e non sarebbe mai stata del tutto in sintonia con quelle dei bolscevichi e dei nazionalisti ucraini: Machno voleva distruggere lo Stato, non dargli più potere. Liberato nel 1917, dopo la rivoluzione di Febbraio, tornò in Ucraina e iniziò a organizzare un’Unione contadina. Essa crebbe rapidamente, trasformandosi in un turbolento esercito contadino che giunse a controllare quello che Trockij definì sprezzantemente lo «Stato scarsamente noto» di Huljajpole (Guljajpole), il territorio attorno al paese natale di Machno, che si rifiutava di riconoscere l’autorità di Kiev.

Chiamati a volte «Armata nera», perché combattevano sotto la bandiera nera anarchica, e altre volte «machnovisti» (machnovščina), gli uomini di Machno presero inizialmente le armi sia contro Pavlo Skoropads’kyj e i suoi alleati tedeschi e austriaci sia contro Symon Petljura e le sue forze nazionaliste ucraine. La loro rabbia aveva in parte un carattere puramente locale: fra l’altro, vedevano nei proprietari terrieri mennoniti dell’Ucraina orientale degli sfruttatori «tedeschi» che meritavano di essere spogliati delle loro proprietà. Ma avevano anche obiettivi più grandiosi. Non nutrendo alcuna simpatia né per i «bianchi» né per la Rada centrale ucraina, gli anarchici di Machno si allearono con i bolscevichi, e all’inizio del 1918 le loro forze li aiutarono a insediare il primo, breve governo bolscevico ucraino.

Ben presto, però, i rapporti fra di loro si guastarono. La cosa non sorprende: l’anarchismo di Machno non poteva andare a genio ai bolscevichi, portati istintivamente al controllo, e al leader ucraino i loro metodi autoritari non piacevano affatto. Nel 1920 egli stava già esortando i soldati dell’Armata rossa alla diserzione:

Abbiamo cacciato gli invasori austro-tedeschi, battuto i boia denikiniani [russi imperiali], lottato contro Petljura; ora combattiamo contro l’autorità dei commissari, contro la dittatura del partito comunista bolscevico: questa dittatura ha messo le sue mani ferree sulla vita del popolo lavoratore: sotto il suo giogo gemono i contadini e gli operai d’Ucraina. … Ma voi, compagni dell’Armata rossa, siete per noi come fratelli, assieme ai quali vorremmo condurre la lotta per una vera liberazione, un vero regime sovietico, senza l’oppressione del partito e dell’autorità.6

Nonostante il disprezzo di Trockij, questi sentimenti si rivelarono popolari ben oltre Huljajpole. Che gli ucraini dovessero schierarsi per «un vero regime sovietico, senza l’oppressione del partito e dell’autorità» – per il socialismo senza il bolscevismo – era un’idea estremamente diffusa e accattivante, che attirava molti che di Machno non sapevano nulla. Come i marinai di Kronstadt e i contadini di Tambov, che si sollevarono anch’essi nel 1920 e 1921, decine di migliaia di contadini ucraini volevano una rivoluzione socialista, ma non il potere centralizzato e la repressione di Mosca. Questo dichiarava succintamente un volantino che, indirizzato ai «compagni dell’Armata rossa», circolò nell’Ucraina centrale:

Siete guidati in Ucraina da commissari comunisti russi ed ebrei che vi dicono di stare combattendo per il potere sovietico in Ucraina, ma, in realtà, stanno conquistando l’Ucraina. Che vi dicono che vi stanno guidando contro i contadini ricchi ucraini, ma, in realtà, stanno combattendo contro i contadini poveri e gli operai ucraini. …

I contadini e gli operai ucraini non possono tollerare la conquista e il saccheggio dell’Ucraina a opera di truppe russe; non possono tollerare l’oppressione della lingua e della cultura ucraine come sotto il regime zarista. …

Fratelli, non puntate le vostre armi contro i contadini e gli operai dell’Ucraina, ma contro i vostri commissari comunisti, che torturano anche il vostro sfortunato popolo.7

Un osservatore che, membro di una missione della Croce Rossa, visitò all’epoca l’Ucraina, parafrasò il modo di pensare ucraino in questi termini:

Si formò una speciale fraseologia contadina: «Noi siamo bolscevichi» dicevano i contadini in Ucraina «ma non comunisti. I bolscevichi ci hanno dato la terra, mentre i comunisti portano via il nostro grano senza darci niente in cambio. Non permetteremo che l’Armata rossa ci stia sul collo con la comune. Abbasso la comune! Viva i bolscevichi!».8

A quei tempi la terminologia era così confusa che queste frasi avrebbero potuto facilmente essere rovesciate: «Abbasso i bolscevichi! Viva la comune!». Ma la sostanza era chiara: i contadini ucraini avevano voluto una forma di rivoluzione, ma ne avevano ottenuta una del tutto diversa.

Un linguaggio analogamente di sinistra e altrettanto rivoluzionario e antibolscevico piaceva anche ai seguaci di Matvij Hryhor’jev, altro leader carismatico emerso dal caos del 1919. In apparenza, Hryhor’jev non avrebbe potuto essere più diverso da Machno. Cosacco ed ex membro dell’esercito imperiale russo, inizialmente aveva appoggiato il regime di Skoropads’kyj, che gli aveva conferito il grado di colonnello. Rimasto deluso, le sue ambizioni crebbero. Raccolse quindi attorno a sé un gruppo di fedeli seguaci – secondo un resoconto, 117 diverse bande partigiane, per un totale che andava dai 6000 agli 8000 soldati –, si alleò con un gruppo di comandanti contadini non meno stravaganti di lui, e trasferì il suo sostegno dal regime fantoccio tedesco a Petljura.9

Il Direttorio, la forza nazionale diretta da Petljura, conferì a Hryhor’jev il titolo di «atamano di Zaporižžja, Oleksandrija, Cherson e Tavrida». Borioso e spaccone, anche Hryhor’jev, come Machno, usava il linguaggio della sinistra radicale. Gli occupanti tedeschi e austriaci erano, per lui, la stessa cosa dell’odiata «borghesia», che aveva tramato per mantenere l’Ucraina nella povertà. In un ultimatum, emesso nell’autunno del 1918, dichiarò:

Io, atamano Hryhor’jev, a nome dei partigiani che comando, sollevandomi contro il giogo della borghesia, vi dichiaro in chiara coscienza che siete comparsi qui in Ucraina quali ciechi strumenti nelle mani della vostra borghesia, che non siete democratici, ma traditori di tutti i democratici europei.10

Quando diventò evidente che il Direttorio sarebbe stato abbattuto dall’Armata rossa, Hryhor’jev si affrettò a cambiare nuovamente bandiera e unì le sue forze a quelle dei bolscevichi. Ma si trattava di un’alleanza ancor più instabile del patto stretto con l’Armata rossa da Machno. Un corrispondente di guerra sovietico che viaggiò con gli uomini di Hryhor’jev osservò con trepidazione la caotica organizzazione di quelle truppe, la loro predilezione per il saccheggio e l’antisemitismo «radicato nella coscienza» dei soldati. Egli raccontò anche come alcuni dei comandanti si lasciassero andare a battute sul giorno in cui avrebbero preso di nuovo le armi contro gli «ebrei-comunisti».11 Questi tipi di discorsi, temeva, non facevano presagire niente di buono per un’alleanza a lungo termine con i bolscevichi.

L’alleanza non funzionò neanche a breve termine. Le comunicazioni fra Hryhor’jev e i comandanti dell’Armata rossa erano frequentemente interrotte da guasti, specie quando egli voleva che s’interrompessero. La collaborazione finì per cessare del tutto, finché, nel maggio 1919, Hryhor’jev chiese ai suoi seguaci di ribellarsi al regime sovietico ancora aggrappato al potere a Kiev. La sua solenne dichiarazione era un guazzabuglio di idee – nazionaliste, anarchiche, socialiste, comuniste – che rifletteva probabilmente in modo abbastanza fedele i sentimenti dei contadini ucraini, che avevano già visto diversi eserciti calpestare il loro suolo:

Non ci siano dittature, né di persone né di partiti! Viva la dittatura dei lavoratori! Viva le mani callose dei contadini e degli operai! Abbasso i politici speculatori! Abbasso la violenza della Destra! Abbasso la violenza della Sinistra!12

I bolscevichi risposero a questa retorica con la loro. Denunciarono la «sollevazione kulak», i «banditi kulak» e i «traditori kulak». Evidentemente la parola «kulak» aveva già acquisito un significato più ampio, che andava ben al di là di quello di «contadino ricco». Già nel 1919 chiunque disponesse di eccedenze di cereali – e chiunque si opponesse al potere sovietico – poteva sentirsela scagliare addosso come una maledizione. Un decennio più tardi Stalin non avrebbe avuto alcun bisogno di inventare un termine nuovo per il medesimo tipo di nemici.13

Ma nel 1919 scagliare insulti non contribuì alla causa sovietica. All’inizio dell’estate sia Hryhor’jev sia Machno avevano ormai rotto con i bolscevichi una volta per tutte, e così avevano fatto molti altri partigiani, atamani e leader locali, d’accordo fra loro soltanto su una cosa: le loro aspirazioni rivoluzionarie alla terra e all’autogoverno erano state frustrate dai nazionalisti ucraini, dai tedeschi e, soprattutto, dai bolscevichi. Attirati dallo slogan «per il potere sovietico, senza comunisti!», i soldati contadini disertarono dall’Armata rossa in gran numero e si unirono ad altri gruppi. Aleksandr Šlichter contò, nel solo mese di aprile, 93 «attacchi controrivoluzionari».14 Secondo un altro conteggio, in giugno si assistette a 328 sollevazioni differenti, attacchi contadini a funzionari sovietici o all’Armata rossa. In luglio Christian Rakovskij contò, in appena venti giorni, oltre duecento ribellioni antibolsceviche.15

La parola «caos» non riesce a spiegare né definire fino in fondo ciò che accadde in seguito. Machno e Hryhor’jev combatterono contro l’Armata rossa, l’Armata bianca, il Direttorio e, infine, fra di loro. In luglio un incontro tra le forze ribelli degenerò in una sparatoria: il vice di Machno estrasse una pistola e uccise Hryhor’jev e diversi suoi aiutanti. Anton Denikin, il generale bianco, diede il via a una nuova campagna, occupando prima Caricyn, tanto cara a Stalin, e avanzando poi in Ucraina, dove, in giugno, s’impossessò di Charkiv ed Ekaterinoslav (Dnipropetrovs’k). Un mese più tardi conquistò anche Poltava. Nel frattempo le forze di Petljura, avanzando da ovest, ripresero possesso di Kiev, ma soltanto per perderla di nuovo subito dopo.

In tutto, Kiev cambiò di mano nel solo 1919 più di una dozzina di volte. Richard Pipes ha definito memorabilmente quell’anno in Ucraina come «un periodo di completa anarchia»:

L’intero territorio si frantumò in innumerevoli regioni isolate le une dalle altre e dal resto del mondo, dominate da bande armate di contadini o predoni che saccheggiavano e uccidevano nella totale impunità. … Nessuna delle autorità che rivendicarono l’Ucraina nell’anno successivo alla deposizione di Skoropads’kyj esercitò mai un’effettiva sovranità. I comunisti, che guardarono fin dall’inizio con ansia agli sviluppi nella regione e fecero tutto quanto era in loro potere per prenderne il controllo, non ebbero più successo dei loro avversari nazionalisti ucraini e russi bianchi.16

Per la gente comune la mancanza di qualunque legge significò essere costantemente depredata. Heinrich Epp, membro della minoranza mennonita dell’Ucraina, avrebbe ricordato che la sua comunità era alla mercé di chiunque passasse:

Per la maggior parte del tempo restammo a tutti gli effetti senza alcun vero governo. Non c’erano leggi né polizia … Durante il giorno erano soprattutto i cittadini russi della regione o giovani a farci ripetutamente visita. Ogni volta prendevano qualcosa che catturava la loro fantasia e se ne impadronivano. … Ma molto più spaventose erano le notti, quando arrivavano i cosiddetti banditi, perché raramente tali visite si concludevano senza il sacrificio di qualche vita.17

A ogni cambiamento di potere si accompagnava un cambiamento di politica. Ogni volta che l’Armata bianca di Denikin conquistava una regione, restituiva i beni confiscati ai proprietari terrieri. Inoltre, seguendo la tradizione zarista, chiudeva le biblioteche, i centri culturali, i giornali e le scuole ucraini. Gli uomini di Denikin parlavano beffardamente non di Ucraina, ma di «Piccola Russia», alienandosi così ogni forza ucraina che avrebbe potuto unirsi a essi.18

Ogni volta che a prevalere era l’Armata rossa i commissari bolscevichi organizzavano un massacro dell’«aristocrazia» e della «borghesia», termini che potevano indicare semplicemente quanti si opponevano al loro regime, e ridavano potere ai comitati dei contadini poveri, aiutandoli a derubare i vicini più ricchi. A Odessa i dirigenti bolscevichi armarono 2400 delinquenti, li posero sotto il comando del più famoso boss della criminalità cittadina, Miška Japončik, «Michi il giapponese», personaggio dei racconti di Isaak Babel’, e permisero loro di saccheggiare la città.19 A Kiev si raccontavano storie su una torturatrice di nome Rosa:

Faceva legare un soldato catturato a chiodi conficcati nel muro, dopodiché, pistola in pugno, si sedeva a pochi passi di distanza e gli faceva sorbire un discorsetto sul proletariato, scandendo ogni dieci minuti le sue osservazioni con una revolverata, fino a fracassargli le articolazioni principali una dopo l’altra.20

Nel frattempo i 10.000 soldati di cavalleria e i 40.000 fanti di Machno, trascinando la loro artiglieria su carri, minacciavano chiunque fosse al potere. In totale la sua Armata nera uccise 18.000 soldati di Denikin, indebolendone gravemente le forze e, probabilmente, impedendo quella che avrebbe potuto essere una sua vittoria contro i bolscevichi.21 Nelle regioni che occupavano, fra cui le colonie tedesche mennonite dell’Ucraina meridionale, alcuni degli uomini di Machno attaccavano anche i civili, e con un furore che sembrava da squilibrati. Nella sua memoria, evocativamente intitolata Il giorno in cui il mondo finì: 7 dicembre 1919, Steinbach, Russia, Epp avrebbe ricordato di essere passato di casa in casa, nel villaggio di Steinbach, scoprendo che tutti gli abitanti erano stati uccisi. In ognuna, aperta la porta, trovò dei cadaveri:

I successivi furono gli Hildebrandt: mia cugina Maria … Lì vidi una scena di indescrivibile orrore che non dimenticherò mai finché vivo. La signora Hildebrandt era distesa completamente nuda nella piccola camera da letto appena al di qua della porta che dava sulla camera d’angolo. Le era stato tagliato un braccio, che giaceva sul pavimento in mezzo alla stanza. Il suo bambino più piccolo era nella culla, morto. Gli avevano tagliato il collo. La donna era una di quelle che erano state stuprate, prima o dopo l’assassinio.

Mentre Epp era lì, a piangere amici e familiari, nel villaggio i contadini iniziarono a radunarsi:

Allora ebbe inizio il saccheggio: tutti i beni, mobili o immobili, morti o vivi, passarono nelle loro mani. In un posto vidi una donna girare un cadavere sulla schiena e sfilargli il cappotto. Lo trattava come se fosse un capo di bestiame.22

Le atrocità commesse dagli uni alimentavano la rabbia degli altri. Quando l’Armata bianca occupò Charkiv, nell’agosto 1919, esumò i corpi degli ufficiali recentemente sepolti in fosse poco profonde in un parco pubblico. Furono così trovate le prove che a quegli uomini, «mentre erano ancora vivi, erano stati inchiodati alla carne i distintivi delle spalline. In alcuni casi avevano infilato a forza nel loro stomaco braci ardenti, e alcuni sembravano essere stati scotennati». Naturalmente rivelazioni del genere non facevano che aizzare quanti cercavano vendetta.23

Non scoppiavano conflitti solo fra eserciti e gruppi etnici, ma anche all’interno dei villaggi. A Velyke Ustja, nella provincia di Černihiv, durante le elezioni del consiglio del villaggio fra il «comitato dei contadini poveri» e i «kulak» esplose la violenza:

I membri del komnezam erano pronti: stavano decidendo chi dovesse nominare i candidati per il presidium, chi dovesse essere nominato, come si dovessero contare i voti e altri dettagli … ma anche i kulak erano pronti, e iniziarono a nominare loro rappresentanti. Vedendo che i contadini poveri e medi facevano fronte comune e stavano avendo la meglio, i kulak, per cercare almeno di interrompere la riunione, scatenarono all’interno dell’edificio una rissa; ma i militanti del komnezam non si tirarono indietro, e si diedero a cercare di sedarla, fino a buttare giù i bulli dalla finestra. La riunione andò avanti come doveva, in piena democrazia.24

Poco dopo i medesimi membri del komnezam aggredirono i kulak per prendere a forza il pane che avevano e «darlo agli organi del potere sovietico». Inoltre parteciparono alla «lotta contro il banditismo», attaccando quelle che definivano «bande di kulak» di vario genere e, a un certo punto, chiamarono in loro aiuto la milizia. Insieme, avrebbe ricordato un testimone, «la milizia e i militanti del komnezam catturarono i banditi vicino al cimitero. Durante la sparatoria i banditi si nascosero, dopodiché non ricomparvero più nel villaggio e presto furono del tutto liquidati».25

A un massacro faceva seguito un altro massacro, in una spirale senza fine. La resistenza dei contadini mandava su tutte le furie i bolscevichi, anche perché contraddiceva il loro determinismo storico: i poveri avrebbero dovuto sostenerli, non combatterli. Consapevoli di essere una minoranza in lotta contro la maggioranza, essi divennero sempre più spietati, fino a chiedere, per un caduto comunista, l’uccisione di centinaia di contadini, o che l’intera popolazione maschile adulta di un villaggio venisse sterminata.26

Le tragedie di quei terribili anni sarebbero rimaste nella memoria locale per decenni, alimentando il desiderio di vendetta di tutte le parti. Ma alcune delle violenze più brutali furono inflitte a un gruppo etnico che cercava di tenersi il più lontano possibile dal conflitto.

Nell’autunno del 1914 un giovane soldato russo di nome Maksim scrisse dal fronte austriaco alla sua famiglia una lettera allegra. Iniziò con espressioni di riverente rispetto per il padre e tutti i familiari, augurandosi che «il Signore Iddio vi conceda una buona salute e tutta la felicità del mondo», ma proseguì esprimendo le sue preoccupazioni. La sua unità aveva subìto una sconfitta che egli imputava a spie ebree. Esse, secondo lui, avevano impiantato una linea telefonica sotterranea per passare informazioni al nemico. Da quel momento, lui e i suoi compagni avevano iniziato a «depredare e picchiare gli ebrei come meritano, perché vogliono solo ingannarci tutti».27

Naturalmente Maksim non era il primo a giungere alla convinzione che gli ebrei fossero dei traditori: l’antisemitismo era estremamente diffuso in tutto l’esercito imperiale nel 1914, come lo era del resto in tutta la società russa, anche ai massimi livelli. Lo zar Nicola II era un antisemita particolarmente fanatico: per lui gli ebrei simboleggiavano tutto ciò che di odioso c’era nel mondo moderno. Una volta definì un giornale un posto in cui «un qualche ebreo sta seduto … a fomentare le passioni dei popoli mettendoli uno contro l’altro».28 Durante il suo regno l’Ochrana, la polizia segreta imperiale, aveva prodotto i «Protocolli dei Savi di Sion», un famigerato falso che descriveva un complotto ebraico per governare il mondo. Lo Stato aveva addirittura avuto un ruolo, nel 1905, nell’ispirare un’ondata di pogrom in tutta la Russia. Considerato tale atteggiamento generale, non sorprende che nel 1914 le autorità militari sospettassero gli ebrei di «essere in combutta con il nemico attraverso l’uso di telefoni sotterranei e aerei» e di fornire alle truppe tedesche oro contrabbandandolo attraverso la linea del fronte nello stomaco di bovini e in uova d’oca.29 Fare vorticosamente circolare teorie del complotto sul tradimento ebraico forniva una spiegazione plausibile a fatti poco gradevoli: la sconfitta di un’unità, la perdita di una divisione, le scarse prestazioni dell’intero esercito.

Fu questa stessa convinzione che gli ebrei fossero dei traditori, alquanto diffusa prima della rivoluzione di Febbraio, ad aprire la strada negli anni seguenti a una serie di terribili massacri. Fra il 1918 e il 1920 i combattenti su tutti i fronti – bianchi, Direttorio, polacchi e bolscevichi – assassinarono in Ucraina in oltre 1300 pogrom, stando agli studi più generalmente accettati, almeno 50.000 ebrei, ma secondo alcuni le vittime furono addirittura 200.000. Inoltre, decine di migliaia di persone furono ferite e violentate. Molti shtetl vennero dati alle fiamme. Molte comunità ebraiche furono ricattate da soldati che, minacciando di uccidere tutti i loro membri se non avessero pagato, le depredarono di ogni loro avere. Nella città di Proskuriv (ora Chmel’nyc’kyj) una sommossa innescata dai bolscevichi provocò la morte, nel corso di due giorni, di 1600 persone. Migliaia di ebrei fuggirono dalle violenze soltanto per morire di fame e malattie a Kiev. Quando le truppe di Denikin lasciarono la città, nel dicembre 1919, furono trovati in improvvisati rifugi di profughi circa 2500 cadaveri di ebrei.30

Una spiegazione esaustiva di questa infame ondata di violenza antisemita va oltre la portata di questo libro, specie perché gran parte delle testimonianze al riguardo è stata da tempo accuratamente selezionata da autori desiderosi di dimostrare proprie tesi a favore o contro i bolscevichi, l’Armata bianca o il Direttorio. Da un’ampia varietà di fonti risulta chiaro, però, che vi furono aguzzini su tutti i fronti. Hryhor’jev dissimulava ben poco il suo virulento antisemitismo; Denikin e i suoi generali si diedero con entusiasmo a pogrom per rappresaglia contro la Čeka «ebraica» e gli «ebrei» bolscevichi. Un giornalista britannico che viaggiò per un certo periodo con Denikin avrebbe scritto che gli ufficiali e gli uomini del generale bianco, in sintonia con la loro educazione zarista, «davano praticamente tutta la colpa dei problemi del loro paese all’ebreo»:

Sostenevano che l’intero cataclisma era stato architettato da qualche grande e misteriosa società segreta internazionale di ebrei che, al soldo e agli ordini della Germania, aveva colto il momento psicologico e preso le redini del governo. … Fra gli ufficiali di Denikin quest’idea era un’ossessione di una tale terribile asprezza e insistenza da indurli alle affermazioni più folli e fantasiose.31

Petljura invece, per quanto ne sappiamo, non usava un linguaggio antisemita. Era un ex membro della Rada centrale, che aveva deliberatamente incluso fra i suoi dirigenti degli ebrei, e più di una volta fece di tutto per scoraggiare l’antisemitismo nelle proprie file: «Poiché Cristo lo comanda, esortiamo tutti ad aiutare gli ebrei sofferenti» dichiarò. Durante la breve permanenza al potere, il suo governo concesse uno status autonomo agli ebrei dell’Ucraina, incoraggiò i partiti politici ebraici e finanziò pubblicazioni in yiddish.32

Ma non tutti i militari del suo Direttorio erano fedeli al loro comandante nella stessa misura, e i risultati sul terreno erano spesso diversi. Nel 1921 un comitato della Croce Rossa incontrò a Berdyčiv un generale di Petljura: «Angariava cinicamente l’intera comunità ebraica, che accusava di sostenere i bolscevichi».33 Lo stesso comitato disse a un altro generale che la dirigenza del Direttorio aveva ordinato di fermare i pogrom. In tutta risposta, egli ribatté che «il Direttorio era una marionetta nelle mani dei diplomatici, che erano per la maggior parte ebrei», e che egli avrebbe fatto quello che voleva.34

Anche la leadership bolscevica era ufficialmente contraria ai pogrom, ma questo non impediva ai soldati dell’Armata rossa di ricattare le comunità ebraiche o depredarle del loro denaro. Nell’ottobre 1920 Lenin fu informato che nella provincia di Žytomyr i soldati dell’Armata rossa stavano «annientando sulla loro strada la popolazione ebraica, saccheggiando e assassinando». Nonostante le smentite di Machno, anche i suoi seguaci si resero responsabili di attacchi agli ebrei, e così alcuni soldati polacchi.35

Ma la violenza antiebraica era maggiore nelle aree non soggette ad alcun controllo politico. I soprusi più gravi erano opera di unità militari in via di disfacimento o banditi che provavano ben poca fedeltà verso chiunque.36 Una testimonianza messa per iscritto da un mercante ebreo, Symon Lejb-Rabynovyč, racconta ciò che accadde nel villaggio di Pisky, presso Radomyšl’, quando fu occupato nel 1919 da venti membri della «banda di Struk». La prima sera gli ebrei del villaggio vennero presi in ostaggio finché non acconsentirono a pagare 1800 rubli. Qualche giorno dopo la maggior parte di loro, in seguito a un attacco bolscevico al villaggio, fuggì. Quando tornarono, scoprirono che le loro case erano state saccheggiate e i loro averi distribuiti fra i vicini. Lejb-Rabynovyč andò da uno di loro e gli chiese di restituirgli il suo materasso imbottito:

S’avventò su di me come una belva feroce; come osavo pretendere qualcosa da lui, il capo del villaggio? Mi avrebbe arrestato e consegnato agli strukisti come comunista. Capii che nel mio vicino era avvenuto un cambiamento. Prima era un uomo pacifico, straordinariamente coscienzioso, ed era stato sempre gentile con me. Mi resi conto che non potevo rimanere più a lungo nel villaggio. Dovevo scappare, se volevo salvarmi la vita.37

Lejb-Rabynovyč scappò. Il giorno successivo la banda di Struk portò l’intera popolazione ebraica del villaggio in un campo, strappò a tutti vestiti e beni e chiese denaro, uccidendo quelli che non potevano pagare.

Scene simili si svolsero a Makariv, un paesone del distretto di Kiev, nel corso del 1919. Il primo attacco fu organizzato da un signore della guerra locale. La sua banda, che un testimone avrebbe descritto come un gruppo di «adolescenti a piedi nudi armati di fucili», fece la sua comparsa in giugno. Gli ebrei si dileguarono «come topi nei loro buchi», e i giovani, «dopo essersi divertiti con le pallottole», iniziarono a distruggere i banchi del mercato. Il loro capo, Matvijenko, invitò i contadini locali a unirsi a loro. Alla fine gli ebrei accettarono di negoziare:

«Cinquantamila» disse Matvijenko.

«Li troveremo.»

«In due ore» aggiunse quegli torvo.

La richiesta fu soddisfatta.38

Qualche giorno dopo Matvijenko tornò con altre richieste e, questa volta, prese anche oggetti di valore e vestiti. Poche settimane più tardi chiese in ostaggio sei ebrei del paese: voleva scambiarli con suo fratello, catturato dai bolscevichi che combattevano nella zona. Quando gli ebrei chiesero perché volesse proprio loro, egli scrollò le spalle: «I comunisti sono dei giudei, e tutti i giudei sono comunisti». I sei ebrei furono portati via; due settimane dopo Matvijenko pretese che la comunità, per riaverli, pagasse altri 150.000 rubli. Poco più tardi gli abitanti del paese decisero di giocare lo stesso gioco e iniziarono a chiedere anch’essi denaro e ostaggi. Poi giunsero con nuove richieste i bolscevichi; dopodiché tornò Matvijenko. Gli ebrei gli mandarono una delegazione e, questa volta, lui fucilò tutti i suoi membri sul posto. Poi i suoi uomini rastrellarono il paese alla ricerca di ebrei, e uccisero tutti quelli che vi trovarono: «In totale fu ucciso un centinaio di persone. Naturalmente, tutti i beni furono rubati».39

La violenza contro gli ebrei lasciò il segno su coloro che ne furono testimoni come su quanti la perpetrarono o la subirono. I pogrom, al pari della guerra civile, contribuirono all’abbrutimento della popolazione, che imparò in breve a conformarsi alla volontà di coloro che impugnavano armi. I metodi usati nei pogrom sarebbero riecheggiati nella campagna per l’ammasso di cereali nel 1921, quando Lenin proporrà di prendere degli ostaggi per costringere i contadini a consegnare le loro scorte. Essi avrebbero infestato anche, un decennio più tardi, la campagna di collettivizzazione, durante la quale i kulak sarebbero stati terrorizzati usando esattamente gli stessi metodi impiegati nel 1919. Come gli ebrei, i kulak sarebbero stati rastrellati, spogliati dei loro indumenti intimi, ricattati per impossessarsi dei loro averi, derisi e umiliati, e talvolta uccisi.

I pogrom preannunciarono eventi successivi anche in un altro senso. Come un giorno i propagandisti sovietici avrebbero utilizzato la storia, il giornalismo e la politica per nascondere la carestia e distorcere la storia ucraina, essi cercarono di utilizzare i pogrom per screditare il movimento nazionale ucraino. Per decenni gli storici sovietici rappresentarono Petljura unicamente come un antisemita. Inoltre negarono il ruolo dei bolscevichi nei pogrom, come negarono che il Direttorio e la Rada centrale prima di esso avessero mai rappresentato un vero movimento nazionale. Essi associarono invece il nazionalismo ucraino a saccheggi, uccisioni e soprattutto ai pogrom. Furono compiuti grandi sforzi per raccogliere «testimonianze» contro Petljura e i generali che gli venivano accostati e pubblicarle in diverse lingue.40 Lo stesso Petljura fu assassinato a Parigi nel 1926 da un ebreo russo, Šolom Švarcbard, che affermò di essersi voluto così vendicare dei pogrom. Anche se Švarcbard non era un agente sovietico, come molti pensarono all’epoca, a ispirare il suo gesto era stata certamente la propaganda sovietica che aveva demonizzato Petljura.

La comunità ucraina a Parigi e altrove contrattaccò pubblicando diversi opuscoli del Direttorio e i proclami del 1919 in cui Petljura aveva chiesto ai soldati ucraini di difendere gli ebrei.41 Nessuno precisò, ovviamente, che a dispetto del loro leader molti generali di Petljura avevano seguito una politica ben diversa. Delle tante cose che andarono perdute nella guerra di propaganda fra l’Unione Sovietica e il nazionalismo ucraino, nessuna scomparve più rapidamente delle sfumature.

L’insurrezione contadina ucraina devastò le campagne e creò divisioni che non sarebbero mai state superate. Inoltre modificò profondamente la visione dell’Ucraina dei bolscevichi. Se prima essi avevano teso a liquidarla come «Russia sudoccidentale», una provincia di nessun vero interesse se non per la fertilità del suolo e l’abbondanza dei suoi frutti, le esperienze del 1919 insegnarono loro a vedere nell’Ucraina una regione potenzialmente pericolosa ed esplosiva, e nei contadini e intellettuali ucraini una minaccia per il potere sovietico.

La ribellione insegnò ai bolscevichi anche a vedere nell’Ucraina una fonte di future minacce militari: fu grazie al caos nella regione, infatti, che l’ultima campagna di Denikin sfiorò il successo. In seguito alla sanguinosa estate del 1919, egli, in agosto, occupò Kiev. Poi, il 20 settembre, prese Kursk, e il 13 ottobre Orël, avanzando fino a giungere a duecento chilometri da Mosca, tanto vicino che avrebbe potuto conquistarla. Se egli avesse stretto un’alleanza con le forze nazionali ucraine, avrebbe potuto rovesciare facilmente il regime bolscevico prima che muovesse i primi autentici passi. Ma l’impopolarità della politica agraria di Denikin, la sua opposizione alle istituzioni ucraine e le tattiche brutali dei suoi ufficiali spinsero i partigiani ucraini ad attaccare le sue linee di rifornimento. Così, la sua presa sul territorio ucraino non tardò a indebolirsi e dovette ritirarsi.

L’offensiva di Denikin spianò comunque la strada a un altro attacco al potere bolscevico. Mentre l’Armata bianca si ritirava, Petljura, di concerto con Józef Piłsudski, il leader nazionale polacco che aveva appena contribuito al ripristino della sovranità del suo paese, preparò un’ultima resistenza. A differenza di Denikin, Piłsudski non tentò di occupare l’Ucraina centrale o orientale. Anche se incorporò nella nuova Repubblica polacca quella che ora è l’Ucraina occidentale, sperava di instaurare un forte Stato ucraino che facesse da contrappeso alla Russia sovietica. L’accordo raggiunto dai due leader iniziava con le parole: «Con la profonda convinzione che ogni nazione abbia il diritto di determinare il proprio destino e decidere dei suoi rapporti con i paesi vicini».42 Piłsudski stesso emanò un proclama che, rivolto agli ucraini, usava un linguaggio che i bolscevichi avrebbero a lungo ricordato:

Gli eserciti della Repubblica polacca, su mio ordine, sono avanzati in profondità in Ucraina. Voglio che gli abitanti di questo paese sappiano che le truppe polacche scacceranno dalle vostre terre l’invasore contro cui vi siete sollevati in armi per difendere le vostre case contro la violenza, la conquista e il saccheggio. Le truppe polacche rimarranno in Ucraina solo finché il legittimo governo ucraino non assumerà il potere.43

Polacchi e ucraini diedero il via alla loro campagna congiunta nella primavera del 1920 e, in un primo momento, incontrarono scarsa resistenza. Il 7 maggio le truppe di Piłsudski occuparono Kiev, così poco difesa che i soldati entrarono in città su vetture tranviarie. Tardivamente, un altro comandante dell’Armata bianca, il generale Pëtr Wrangel, accettò di unirsi a loro dalla sua base in Crimea.

L’occupazione fu breve. Il 13 giugno l’Armata rossa costrinse le truppe polacche a ritirarsi e, ai primi di agosto, giunse alla periferia di Varsavia. Piłsudski, con una battaglia che sarebbe stata ricordata come il «Miracolo della Vistola», la respinse. A quel punto le truppe polacche avanzarono di nuovo in Ucraina, ma non sarebbero mai riuscite a creare uno Stato ucraino indipendente. In ottobre Piłsudski firmò un armistizio e, l’anno seguente, concluse un trattato sui confini fra Polonia e Unione Sovietica.44

Ma anche dopo che i polacchi si furono ritirati e quel che restava dell’Armata bianca, arenata in Crimea, si fu frettolosamente imbarcato per attraversare il mar Nero, il problema dell’Ucraina continuò a ossessionare l’immaginazione bolscevica. Trockij, in una lettera ad alcuni suoi compagni, spiegò che imporre la pace lì sarebbe stato difficile. Anche se l’Armata rossa aveva conseguito una vittoria militare, infatti, in Ucraina non c’era stata alcuna rivoluzione ideologica: «Il potere sovietico in Ucraina ha tenuto finora le sue posizioni (e non le ha tenute bene) soprattutto grazie all’autorità di Mosca, ai comunisti grandi russi e all’Armata rossa russa».45 L’implicazione era chiara: era stata la forza, non la persuasione, a pacificare infine la regione. E un giorno la forza sarebbe potuta essere nuovamente necessaria.

In altre parole, la minaccia per la sicurezza diminuì, ma la minaccia ideologica rimase. Il nazionalismo ucraino era stato sconfitto militarmente, ma continuava ad attirare la classe media e l’intellighenzia di lingua ucraina, nonché gran parte dei contadini. Peggio ancora: esso minacciava l’unità dello Stato sovietico, che stava faticosamente adoperandosi per trovare un modo per riconoscere le differenze nazionali. Infine, cosa più sinistra, il nazionalismo aveva la capacità di attirare alleati stranieri, specie al di là del confine con la Polonia.

Ma la ribellione ucraina costituiva per il progetto bolscevico anche una minaccia di maggiore portata. La retorica radicale, anarchica e antibolscevica usata durante la rivolta contadina rifletteva qualcosa di reale. Milioni di contadini ucraini avevano voluto una rivoluzione socialista, ma non una rivoluzione bolscevica, e di certo non una rivoluzione diretta da Mosca. Se fra i loro leader era rappresentata una gran varietà di posizioni, da anarchiche a monarchiche, gli abitanti delle campagne di tutto il paese esprimevano un insieme di convinzioni coerente. Volevano votare per i propri rappresentanti, non per i comunisti. Volevano che i grandi proprietari terrieri fossero espropriati, ma per coltivare essi stessi le loro terre. Non volevano tornare alla «seconda servitù della gleba» delle fattorie collettive. Volevano che la loro religione, la loro lingua e i loro costumi fossero rispettati. Volevano poter vendere il loro grano ai mercanti e odiavano le requisizioni forzate.46

Questa critica – socialista ma non autoritaria, comunista ma non bolscevica – sarebbe risuonata con forza per tutti gli anni Venti, trovando un portavoce, fra gli altri, nello stesso Trockij. Ma la prima e più temibile comparsa di una «sinistra» antisovietica ebbe luogo in Ucraina. La «crudele lezione del 1919», come la ribellione contadina ucraina sarebbe stata definita, doveva incombere sui bolscevichi ancora per molti anni.47

III

CARESTIA E TREGUA, GLI ANNI VENTI

Dobbiamo dare a questa gente una lezione adesso, di modo che non osino nemmeno pensare a una resistenza nei prossimi decenni.

LENIN, 19221

Perché la nostra letteratura possa finalmente seguire il suo proprio percorso di sviluppo … non dobbiamo, per nessuna ragione, seguire quella russa. … La letteratura russa grava su di noi da secoli, ci ha addestrati a imitarla servilmente.

MYKOLA CHVYL’OVYJ, 19252

La tregua con Piłsudski e la sconfitta di Denikin, del Direttorio e di numerosi gruppi di ribelli permise infine ai bolscevichi di imporre in Ucraina, nel 1920-1921, una parvenza di pace. Lo spargimento di sangue non si arrestò subito: l’Armata nera di Machno continuò a combattere per tutta l’estate del 1921 e, in autunno, una parte delle forze di Petljura stava ancora lottando, anche se Petljura era fuggito. Nella prima metà dell’anno la Čeka uccise in Ucraina 444 leader contadini ribelli, e pensava che migliaia di «banditi» si aggirassero ancora per le campagne.3 Feliks Dzeržinskij, il truce fondatore della Čeka, condusse di persona 1400 uomini in Ucraina per aiutare i suoi alleati locali a liquidarli.4

I nuovi governanti dell’Ucraina, non fidandosi degli umori presenti a Kiev, trasferirono la capitale della Repubblica più a est, a Charkiv, una città più lontana dal confine polacco, più vicina alla Russia e con un numeroso proletariato russofono. Le divisioni dell’Armata rossa di stanza in Ucraina mantennero il loro carattere straniero: la maggior parte dei loro soldati proveniva da remoti distretti russi. In un discorso del 1921, il comandante in capo dell’Armata rossa in Ucraina e Crimea, Michail Frunze, disse che in Ucraina l’Armata rossa era composta per l’85 per cento di russi e solo per il 9 per cento di ucraini. (Il resto apparteneva ad «altre nazionalità», fra cui la polacca e la bielorussa.)5

L’incerta «pace» non portò neanche prosperità. Le ondate di violenza avevano indotto tanti ad abbandonare le loro case e distrutto villaggi, città, strade e ferrovie. La politica e le politiche dei bolscevichi avevano portato l’economia quasi al collasso. La soppressione del commercio, la nazionalizzazione dell’industria, gli esperimenti di collettivizzazione falliti e l’impiego di lavoro forzato avevano chiesto tutti il loro tributo. «L’industria era morta» scrisse un osservatore:

Il commercio esisteva solo in violazione della legge sovietica. L’agricoltura, ancora in corso di comunistizzazione, aveva quasi raggiunto il punto in cui ciò che produceva, se distribuito equamente, sarebbe stato a malapena sufficiente a sostentare il popolo del paese. Il caos amministrativo e il deterioramento materiale dei trasporti ferroviari e fluviali rendevano la distribuzione impossibile. Carestia, fame, malattie erano in aumento.6

Le prospettive per il futuro non erano migliori. Questa volta era ufficialmente in carica un governo ucraino diretto dal Partito comunista ucraino, organismo distinto dal Partito comunista sovietico, con un proprio Politburo e un proprio Comitato centrale. Ma in pratica la politica era decisa a Mosca, ed era molto simile a quella del passato. A livello nazionale, Trockij chiedeva la militarizzazione dell’economia, l’impiego di brigate di lavoro forzato e requisizioni, la medesima tattica adottata nei mesi successivi alla rivoluzione del 1917.7 Nel corso di una visita a Charkiv, Stalin annunciò la creazione di un’«armata del lavoro ucraina». Nel 1920, in un discorso al Partito comunista ucraino, sostenne che all’economia potevano essere applicate le stesse tattiche militari impiegate per vincere la guerra civile: «Ora anche per l’economia dovremo nominare i nostri sottufficiali e ufficiali prendendoli dai ranghi operai, ed essi insegneranno al popolo come lottare contro lo sfacelo e come costruire una nuova economia. … Per questo occorre formare i propri ufficiali del lavoro».8

Ma il rinnovato linguaggio del comunismo di guerra non era suscettibile di attrarre granché i contadini sovietici, e ben difficilmente «ufficiali del lavoro» dediti a fornire lezioni di «nuova economia» potevano essere per loro fonte d’ispirazione. In pratica, la fine della guerra civile riportò in auge in Ucraina l’odiata prodrazvërstka di Šlichter, la requisizione forzata di generi alimentari, e i komnezamy, i comitati dei contadini poveri. Il partito non voleva correre rischi: ancora una volta, era deciso a calcare la mano contro i contadini più benestanti e assicurarsi un qualche controllo sui «soviet di villaggio» (il termine adottato dai bolscevichi per le assemblee di villaggio), molti dei quali erano guidati dagli stessi anziani che li avevano presieduti in passato.

Ai contadini i comitati di requisizione, appena rafforzati, sembravano del tutto privi di scrupoli. I loro membri, ora veterani della violenta insurrezione contadina, operavano in tutta evidenza per ottenere privilegi e protezione in un mondo devastato e affamato. Il loro comportamento fu descritto molto succintamente da un contadino: «Se vogliono, prendono il grano; se vogliono, arrestano; quello che vogliono, lo fanno».9 Un altro avrebbe ricordato che pareva non ci fosse assolutamente nessuno a controllarli: «I komnezamy erano lasciati a se stessi e guidati in tutte le loro azioni dalla loro autocoscienza “rivoluzionaria”». Coloro che erano più in alto nella catena di comando rafforzavano deliberatamente questo senso di impunità. Le autorità del partito dissero a un comitato locale che chiunque mostrasse un qualche segno di «controrivoluzione kulak» doveva essere messo in carcere per quindici giorni e, se questo non funzionava, bisognava «fucilarlo».10

La loro crudeltà non era un segreto. Durante una riunione a porte chiuse dell’estate del 1920 i «commissari per gli Approvvigionamenti» sovietici, gli uomini incaricati di organizzare l’ammasso dei cereali, presero in considerazione «l’impatto delle requisizioni sulla popolazione». Dopo un lungo dibattito, decisero che «per quanto pesanti le requisizioni possano essere per gli abitanti locali … gli interessi dello Stato devono comunque venire prima».11

Tale comportamento brutale suscitò una risposta brutale. Matvij Havryljuk, un contadino che lavorava nel 1921 come requisitore di grano, avrebbe ricordato, in una testimonianza resa un decennio più tardi, le violente emozioni di quel periodo:

Nel 1921, quando lo Stato aveva bisogno di cibo, lavorai nella squadra di approvvigionamento alimentare ammassando pane preso ai kulak nel nostro villaggio e poi in cinque villaggi del distretto di Ružyn e aiutai le squadre dell’esercito, dispiegate al di fuori del villaggio, a catturare coloro che propagavano le agitazioni dei kulak. Nonostante che quel periodo fosse estremamente duro, quando i kulak non volevano consegnare alcuna quantità di grano e minacciavano addirittura di uccidere me e la mia famiglia, perseveravo e rimanevo vigile in nome del potere sovietico. Requisivo il grano sotto la supervisione del plenipotenziario speciale Bredichin [della Čeka], che giudicò molto favorevolmente il mio lavoro. Da quel momento imparai a lavorare nel villaggio, a organizzare le masse dei contadini poveri, a motivarli perché partecipassero alla campagna. Che mi fossi schierato con il potere sovietico fin dall’inizio fece di me un nemico dei kulak nel villaggio. Ho sempre lottato contro i kulak … essi badavano ai loro propri interessi invece che a quelli dello Stato.12

Grazie alla «perseveranza» e «vigilanza» di uomini come Matvij Havryljuk, i grandi conferimenti all’ammasso di grano del 1920 non risparmiarono nessuno. Le istruzioni impartite da Lenin chiedevano esplicitamente la requisizione di tutti i cereali, anche quelli indispensabili ai contadini per il consumo immediato e la semina in vista del raccolto dell’anno successivo, e si erano trovati molti volonterosi disposti a eseguire i suoi ordini.13

La conseguenza fu che lo zelo dei contadini nel seminare, coltivare e immagazzinare il grano conobbe un crollo. La loro capacità produttiva sarebbe stata comunque bassissima: in Ucraina e Russia, fino a un terzo dei giovani era stato mobilitato per combattere nella prima guerra mondiale. Un numero ancora maggiore di loro si era unito alle armate della guerra civile, sull’uno o sull’altro fronte, e centinaia di migliaia non avevano fatto ritorno. Molti villaggi mancavano di un numero sufficiente di uomini in grado di lavorare i campi. Ma anche coloro che erano tornati ed erano in condizioni di lavorare non avevano alcun incentivo a produrre un surplus di cereali che, lo sapevano, sarebbe stato confiscato.

Nella primavera del 1920, perciò, sia in Ucraina sia in Russia i contadini seminarono molti meno campi di quanto avessero mai fatto nel recente passato.14 E, per di più, quella primavera fu «torrida e quasi senza piogge», per cui anche la terra seminata non si rivelò particolarmente feconda. Come scrisse un osservatore, «il terreno al momento della semina primaverile era duro e asciutto». Piovve pochissimo anche d’estate e nell’inverno seguente.15 Il risultato fu che tra un quinto e un quarto dei cereali seminati nell’estate del 1921 seccò sugli steli.16 La siccità giunse a colpire quasi la metà delle aree agricole del paese, e in circa un quinto di esse il raccolto fu un assoluto disastro.17

Il cattivo tempo sarebbe certamente bastato a creare gravi problemi, com’era già avvenuto in passato. Ma, associato alle politiche di requisizione di generi alimentari, alla scarsità di uomini validi e alla mancata semina di ettari ed ettari di terreno, portò alla catastrofe. Prima della rivoluzione le venti province agricole più fertili della Russia imperiale avevano prodotto annualmente 20 milioni di tonnellate di cereali. Nel 1920 ne produssero solo 8,45 milioni, e nel 1921 questa quantità scese a 2,9 milioni.18 Nella provincia di Stavropol’, nel Caucaso settentrionale, andò perduto quasi tutto il raccolto.19 Il crollo della produzione fu particolarmente drammatico in Ucraina meridionale. Nel 1921 la quantità di cereali raccolti nella provincia di Odessa scese al 12,9 per cento dei livelli precedenti. Le province sudorientali di Ekaterinoslav, Zaporižžja e Mykolaïv produssero fra il 3,7 e il 5,1 per cento del solito. In altre parole, venne a mancare il 95 per cento circa del raccolto normale.20

Storicamente i contadini russi e ucraini erano sopravvissuti al periodico cattivo tempo e alle frequenti siccità grazie all’accurata conservazione e immagazzinamento delle eccedenze. Ma nella primavera del 1921 non vi erano eccedenze: erano state tutte confiscate. La scarsità di generi alimentari portò rapidamente alla fame le province russe del Volga – l’ampia fascia di territorio lungo il corso medio e inferiore del grande fiume –, gli Urali e l’Ucraina meridionale. Molti contadini, sempre più affamati, abbandonarono le loro case in cerca di cibo. Dalla sola regione del Volga fuggirono oltre 440.000 persone, alcune prendendo, inconsapevoli della situazione, la strada dell’Ucraina. Accadde persino che funzionari poco informati dirigessero deliberatamente orfani dalla Russia affamata verso l’Ucraina, dove, quando vi giunsero, non trovarono né orfanotrofi né niente da mangiare.21

Come avrebbero fatto un decennio dopo, i contadini iniziarono a mangiare cani, topi e insetti e a bollire erba e foglie; vi furono episodi di cannibalismo.22 Un gruppo di profughi che da Saratov, porto sul Volga nel cuore della zona della carestia, riuscì a salire su un treno per Riga, descrisse la vita nella città:

Vecchi carri per i rifiuti raccoglievano ogni giorno i morti come prima la spazzatura … abbiamo visto molti casi di peste bubbonica nelle strade. Questo non è mai stato detto dalla stampa sovietica: i funzionari cercano di nascondere la notizia della peste al pubblico. …

Il governo sovietico riferisce che i contadini stanno abbandonando i loro figli. Non è vero. È vero che alcuni genitori consegnano i figli allo Stato, che promette di prendersi cura di loro e non lo fa. Altri buttano i loro figli nel Volga, preferendo vederli annegare che crescere nella fede comunista, che ritengono una dottrina anti-Cristo.23

Come sarebbe avvenuto un decennio più tardi, persone alla fame cercavano di fuggire dalle campagne aride per radunarsi in improvvisati campi profughi nelle città e attorno alle stazioni ferroviarie, vivendo in carri merci abbandonati, «accalcati in masse compatte come una colonia di foche, madri e bambini stretti le une agli altri».24 Un giornalista canadese, Frederick A. Mackenzie, raccontò quello che vide alla stazione di Samara:

C’erano ragazzi alti e scarni, magri al di là di ogni idea che un occidentale possa farsi della magrezza, coperti di stracci e sporcizia. C’erano delle vecchie, alcune sedute per terra in stato di semincoscienza, inebetite dalla fame, dalla miseria e dalla disgrazia. … C’erano madri pallide che cercavano di dare da mangiare a neonati moribondi da seni senza latte. Avrebbe dovuto esserci in mezzo a noi un Dante: dopo una visita a una di quelle stazioni ferroviarie avrebbe potuto scrivere un nuovo Inferno.25

Ma questa prima carestia sovietica si differenziò da quella di un decennio dopo per un aspetto estremamente importante: nel 1921 la fame di massa non venne tenuta segreta. Inoltre, cosa ancor più rilevante, il regime cercò di aiutare gli affamati. La stessa «Pravda» annunciò l’esistenza della carestia dichiarando il 21 giugno che, in Unione Sovietica, 25 milioni di persone soffrivano la fame. Poco dopo il regime diede il suo assenso all’istituzione di un «Comitato panrusso per la carestia», composto da esponenti del mondo politico e culturale non bolscevichi. Per assistere gli affamati furono creati comitati di mutuo soccorso locali.26 Seguirono appelli internazionali per chiedere aiuti. Il più celebre portava la firma dello scrittore Maksim Gor’kij che, in nome di quanto vi era di meglio nella cultura russa, condusse una campagna rivolta «a tutte le persone oneste». «Sono arrivati giorni cupi nel paese di Tolstoj, Dostoevskij, Mendeleev, Pavlov, Musorgskij, Glinka» scrisse, e chiese contributi. Nell’elenco di luminari russi di Gor’kij c’era la vistosa omissione dei nomi di Lenin e Trockij.27 Cosa straordinaria, considerando come sarebbe divenuto paranoico riguardo alla diaspora negli anni successivi, anche il Partito comunista ucraino valutò se chiedere aiuto agli ucraini emigrati in Canada e Stati Uniti.28

Questo appello pubblico e internazionale, unico nel suo genere nella storia sovietica, non tardò a dare risultati. Ai soccorsi avrebbero contribuito diverse organizzazioni umanitarie, fra cui la Croce Rossa internazionale e il Jewish Joint Distribution Committee (noto come JDC o, semplicemente, «Joint»), nonché la Missione Nansen, sforzo europeo dovuto all’iniziativa dell’esploratore e attivista umanitario norvegese Fridtjof Nansen. Ma la fonte più importante di aiuti immediati fu l’American Relief Administration (ARA), già attiva in Europa nella primavera del 1921. Fondata dal futuro presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover, essa aveva distribuito con successo più di un miliardo di dollari in generi alimentari e assistenza medica in tutta Europa nei nove mesi successivi all’armistizio del 1918.29 Alla notizia dell’appello di Gor’kij, Hoover, uomo avveduto e conoscitore dell’ideologia bolscevica, colse al volo la possibilità di estendere la propria rete di aiuti alla Russia.

Prima di entrare nel paese, però, chiese il rilascio di tutti gli americani detenuti in prigioni sovietiche, nonché l’immunità da eventuali procedimenti penali per tutti gli americani che lavoravano per l’ARA. Inoltre, nel timore che i viveri potessero essere rubati, si preoccupò che tutto avvenisse sotto il controllo del personale dell’ARA. Lo preoccupava anche, non a torto, che gli americani in Russia potessero venire accusati di spionaggio (e in effetti raccoglievano informazioni, che inviavano in patria usando la posta diplomatica).30 Lenin s’infuriò e definì Hoover, per tali richieste, «impudente e bugiardo». «L’America, Hoover e la Lega delle Nazioni dimostrano una meschinità rara» dichiarò. «Bisogna assolutamente punire Hoover, tirargli uno schiaffo pubblicamente, in modo che tutto il mondo possa vedere.» Una dichiarazione sorprendente, data la grande quantità di aiuti che stava per ricevere. Ma le dimensioni della carestia erano tali che, alla fine, Lenin cedette.31

Nel settembre 1921, soccorritori dell’ARA in avanscoperta raggiunsero la città di Kazan’, sul Volga, dove trovarono un livello di indigenza che non avevano mai incontrato prima, neanche nell’Europa devastata dalla guerra. Videro per le strade «figure dall’aspetto miserando vestite di stracci che mendicavano nel nome di Cristo per un pezzo di pane». Negli orfanotrofi trovarono «piccoli scheletri emaciati, le cui facce smunte e le gambe ridotte a stuzzicadenti … testimoniavano della verità del rapporto secondo cui stavano morendo ogni giorno a decine».32 Nell’estate del 1922 gli americani stavano già provvedendo ad alimentare ogni giorno 11 milioni di persone e a distribuire pacchi di generi alimentari a centinaia di migliaia di altre. Per fermare le epidemie, inoltre, fornirono medicine per un valore di 8 milioni di dollari.33 Quando l’ARA iniziò a operare a pieno regime, il comitato indipendente russo per i soccorsi alle vittime della carestia fu silenziosamente sciolto: Lenin non voleva che nessuna organizzazione russa non direttamente gestita dal Partito comunista acquisisse credibilità partecipando alla distribuzione di viveri. Ma al programma americano di aiuti, potenziato da contributi provenienti da altre organizzazioni straniere, fu consentito di proseguire, salvando la vita di milioni di persone.

Eppure, anche in questa reazione apparentemente vigorosa e genuina, senza remore nel rivolgersi all’estero, non mancarono alcune note stonate. Per tutta la durata della calamità i leader sovietici, come sarebbe avvenuto un decennio dopo, non rinunciarono mai a procurarsi valuta forte. Anche durante l’infuriare della carestia, i bolscevichi vendettero segretamente oro, opere d’arte e gioielli all’estero per acquistare armi, munizioni e macchinari industriali. Nell’autunno del 1922 iniziarono persino a vendere apertamente sui mercati esteri prodotti alimentari, anche se la fame imperversava ancora ovunque e gli aiuti stranieri continuavano ad arrivare.34 La cosa non era un segreto: Hoover si scagliò contro il cinismo di un governo che, pur sapendo che la gente stava morendo di fame, non rinunciava a esportare generi alimentari per «procurarsi macchinari e materiali per il miglioramento economico dei superstiti».35 Pochi mesi dopo l’ARA, proprio per questo motivo, lasciò la Russia.

Come sarebbe accaduto un decennio più tardi, la reazione delle autorità sovietiche alla carestia fu diversa per la Russia e l’Ucraina. Come i loro compagni russi, anche i comunisti ucraini costituirono un Comitato per la carestia. Ma il suo scopo non fu, all’inizio, di aiutare gli abitanti della regione.36 Nella sua risoluzione del settembre 1921 «sulla campagna contro la fame», il Politburo osservò che molti distretti dell’Ucraina settentrionale potevano essere «completamente riforniti grazie alle loro riserve regionali e provinciali». Diede quindi istruzione al Comitato per la carestia ucraino di inviare le eccedenze di cereali della Repubblica – e un po’ ve ne erano, nelle zone settentrionali non colpite dalla carestia – alle province russe ridotte alla fame di Caricyn, Ural’sk, Saratov e Simbirsk, non a chi stava morendo di fame nell’Ucraina meridionale.37 Più o meno nello stesso periodo Lenin scrisse a Rakovskij, allora ancora a capo dei bolscevichi ucraini, per ricordargli che stava aspettando che fossero mandati in Russia da Kiev e Charkiv generi alimentari e bestiame.38

Nel tardo autunno del 1921, con l’aggravarsi della penuria di cibo, le tattiche di Lenin s’inasprirono. Benché egli avesse già fatto bloccare il conferimento ai magazzini locali delle derrate alimentari nelle zone più colpite della Russia, ordinò di esercitare una pressione ancor maggiore sui contadini delle regioni più fortunate; l’Ucraina, nonostante la situazione disastrosa in cui si trovavano le sue province meridionali e orientali, fu considerata una di esse. Lenin chiese frequentemente a Charkiv più cereali.39 Inoltre suggerì nuove misure: coloro che rifiutavano di consegnare il grano dovevano venire multati e incarcerati, se non peggio.

In novembre ordinò specificamente di ricorrere contro i contadini che si rifiutavano di consegnare i loro cereali a «duri metodi rivoluzionari», fra cui la presa di ostaggi. Questa forma di ricatto, utilizzata con tanta efficacia contro gli ebrei durante la guerra civile e i pogrom, venne ora messa in atto per facilitare la raccolta di quel bene prezioso. Lenin diede alle squadre incaricate dell’ammasso del grano e ai komnezamy un chiaro ordine: «Prendete in ogni villaggio fra i quindici e i venti ostaggi e, in caso di quote non realizzate, metteteli tutti al muro». Se tale tattica fosse fallita, gli ostaggi avrebbero dovuto essere fucilati come «nemici dello Stato».40 Alla pressione dall’alto si accompagnava una propaganda in basso. Nella provincia di Mykolaïv, nell’Ucraina meridionale, dove già si stava soffrendo per la carestia, vennero affissi dei manifesti che esortavano: «Lavoratori di Mykolaïv, aiutate gli affamati del Volga».41

Anche gli uomini dell’ARA notarono il diverso trattamento riservato da Lenin all’Ucraina rispetto alla Russia, e lo registrarono nei loro appunti e memorie. Inizialmente le autorità moscovite non dissero una parola agli americani sulla penuria di generi alimentari in Ucraina. L’organizzazione seppe della carestia in Ucraina meridionale dal Joint Distribution Committee, che aveva ricevuto segnalazioni di come lì la fame fosse divenuta di massa e le aveva trasmesse all’ARA e ad altri.

Cosa ancor più singolare, le prime richieste dell’ARA di essere autorizzata a entrare in Ucraina furono respinte perché, fu detto ai suoi rappresentanti, l’Ucraina nordoccidentale produceva ancora una gran quantità di cereali e la Repubblica non aveva bisogno di speciali aiuti. Quando, nel novembre 1921, due funzionari dell’ARA riuscirono finalmente a recarsi a Charkiv, vennero accolti freddamente. A ricevere gli americani fu Mykola Skrypnyk, allora commissario ucraino per gli Affari interni, il quale disse loro che non potevano operare nella Repubblica perché l’Ucraina, a differenza della Russia, non aveva stipulato alcun accordo con l’ARA. Gli uomini ne rimasero «in parte divertiti, in parte irritati», e insistettero sul fatto di essere interessati ai soccorsi per la carestia, non alla politica. Skrypnyk ribatté che l’Ucraina era uno Stato sovrano, non parte della Russia: «Voi vi state intromettendo nella politica, facendo una differenza tra le due Repubbliche; trattando con una e rifiutandovi di farlo con l’altra, considerando una uno Stato sovrano e l’altra uno Stato suddito».42 Dato che l’Ucraina stava in quel momento contribuendo ai soccorsi per la carestia sovietica, era soggetta alle leggi sovietiche e alla politica agraria di confische sovietica, l’insistenza di Skrypnyk sulla sua sovranità in materia di aiuti alle vittime della carestia era particolarmente assurda.

I capi del partito a Mosca e i loro compagni in Ucraina si ammorbidirono solo quando la fame nelle province ucraine meridionali si fece così diffusa da non poter essere ignorata. Nel gennaio 1922 il Politburo ucraino decise finalmente di collaborare con l’ARA, oltre che con altre organizzazioni umanitarie europee e americane. Ma mancava ancora la fiducia: il Politburo incaricò i compagni Rakovskij e Vasilij Mancev di negoziare con i donatori stranieri, ma anche di «prendere misure» contro le organizzazioni umanitarie che si fossero rivelate coperture per attività di spionaggio.43 Anni dopo i cittadini sovietici che avevano lavorato per l’ARA sarebbero divenuti sospetti: nel 1935 una donna di Odessa fu condannata come controrivoluzionaria anche perché aveva lavorato con gli americani che cercavano di alleviare le conseguenze della carestia nella sua città.44 Nonostante la generale cattiva volontà, nell’inverno e nella primavera del 1922 iniziarono a sorgere mense dell’ARA in tutta l’Ucraina meridionale e orientale e in Crimea.45 Allo sforzo contribuirono anche la Croce Rossa ucraina e il JDC, che fornì cibo e altri aiuti alle vittime dei pogrom.46

Com’era inevitabile, l’attività di tutte le organizzazioni straniere fu soggetta a vincoli. La Missione Nansen non poté impiegare il proprio personale e venne costretta a operare tramite le istituzioni sovietiche. Il JDC inviò propri dipendenti, ma essi dovettero impegnarsi ad «astenersi dall’esprimere opinioni sulla politica nazionale o internazionale» e a «non fare nulla che possa aiutare o favorire in alcun modo una qualsiasi parte o componente della popolazione in misura maggiore rispetto a qualsiasi altra sua parte o componente».47 Inoltre, il programma di soccorsi del Joint trovò un ostacolo nell’antisemitismo; manifesti, volantini e altri oggetti che recavano il suo logo vennero spesso rapidamente rimossi o confiscati dalle autorità. L’ARA fu a volte bandita da particolari località quasi senza preavviso. Un giorno ai suoi funzionari venne intimato di non avvicinarsi alla città industriale di Kryvyi Rih, probabilmente perché vi operavano ancora partigiani. Le autorità sovietiche temevano l’influenza degli americani in un territorio non ancora del tutto pacificato.48

Alla fine i soccorsi raggiunsero anche l’Ucraina, la disponibilità di cibo aumentò e i tassi di mortalità calarono. Sul finire del 1923 la crisi sembrava sotto controllo. Ma i ritardi nella consegna degli aiuti avevano causato decine di migliaia di morti che sarebbe stato possibile evitare. Molti, sia all’epoca sia più tardi, si chiesero perché le cose fossero andate così. I membri dell’ARA ne discussero fra loro e ne scrissero anni dopo. La maggior parte di essi riteneva che il motivo dell’iniziale opposizione sovietica al loro programma di aiuti in Ucraina fosse politico. L’Ucraina meridionale, una delle regioni più colpite dalla carestia di tutta l’Unione Sovietica, era stata una roccaforte di Machno e cosacca. Forse le autorità sovietiche, ipotizzavano gli americani, erano «disposte a lasciare che l’Ucraina soffrisse, piuttosto che correre il rischio di nuove sollevazioni che avrebbero potuto fare seguito a contatti con stranieri».49 Consapevoli di essere visti come spie, essi pensavano inoltre che il regime si aspettasse che agissero da provocatori. Non è affatto escluso che i membri dell’ARA avessero ragione.

Più di recente alcuni studiosi ucraini hanno proposto una spiegazione politica ancora più severa: forse le autorità sovietiche usarono effettivamente la carestia in modo strumentale, come avrebbero fatto nel 1932, per porre fine alla ribellione contadina ucraina.50 La tesi è indimostrabile: non esiste alcuna prova di un piano premeditato per fare morire di fame i contadini ucraini nel 1920-1921. È vero, tuttavia, che se Mosca avesse davvero utilizzato la sua politica agraria per schiacciare la ribellione, difficilmente il fine avrebbe potuto essere raggiunto in modo più efficiente. Il sistema delle requisizioni di cereali sgretolò comunità, ruppe relazioni e costrinse i contadini ad abbandonare le loro case in cerca di cibo. La fame indebolì e demoralizzò quanti rimasero, costringendoli a rinunciare alla lotta armata.51 Anche all’epoca, molti notarono che la situazione era particolarmente grave a Huljajpole, la provincia natale di Machno. I territori in cui egli deteneva il potere nel Sud furono tra i più devastati, prima dal fallimento del raccolto, poi dalla mancanza di soccorsi.52

Certamente il regime usò la carestia, come avrebbe fatto un decennio più tardi, per sferrare un duro colpo alla gerarchia religiosa ucraina. In nome del soccorso alle vittime, lo Stato obbligò le chiese ucraine a consegnargli oggetti d’oro, icone e altri beni preziosi. Ma dietro le quinte i dirigenti del partito, fra cui Skrypnyk, che diresse la campagna per la raccolta, speravano di poter utilizzare tale politica per creare tensioni fra la neonata Chiesa ortodossa autocefala ucraina e la sua principale rivale, ancora fedele al patriarcato di Mosca. Il Politburo ucraino discusse per molte settimane delle «donazioni» della Chiesa, condusse indagini al riguardo e s’interessò della vendita degli oggetti preziosi all’estero.53 Nel 1922 Lenin, già malato, inviò a Vjačeslav Molotov, che avrebbe preceduto Stalin alla guida della segreteria del Partito comunista, una lettera in cui affermava che la carestia offriva un’occasione unica per impossessarsi dei beni della Chiesa. La lettera sarebbe stata trasmessa a membri del partito. Il sacrificio di oggetti preziosi da parte della Chiesa avrebbe potuto, scrisse Lenin, avere un importante impatto politico:

È adesso e soltanto adesso, mentre nelle regioni afflitte dalla carestia c’è il cannibalismo e le strade sono ingombre di centinaia se non migliaia di cadaveri, che possiamo (e perciò dobbiamo) cercare di acquisire i preziosi [della Chiesa] con l’energia più brutale e spietata, e sopprimere qualsiasi resistenza senza fermarci dinanzi a nulla. È adesso e soltanto adesso che la stragrande maggioranza dei contadini starà con noi, o comunque non sarà in grado di sostenere in modo decisivo il manipolo di preti [reazionari], e di cittadini borghesi reazionari, i quali possono e vogliono tentare la linea della resistenza militante a un decreto sovietico.54

Era il momento giusto, aggiunse Lenin, per dare ai contadini, al clero e agli altri oppositori politici una lezione «tale che non la dimenticheranno per decenni».55

Ma l’estensione della carestia spaventò i bolscevichi. Se la penuria di cibo contribuì forse a porre fine alle ribellioni contadine in Ucraina, altrove le fomentò. Nella provincia russa di Tambov le requisizioni di generi alimentari innescarono la rivolta di Antonov, una delle più gravi sollevazioni antibolsceviche dell’epoca. La scarsità di cibo contribuì anche all’infame episodio della rivolta di Kronstadt, durante la quale l’Armata rossa sparò proprio su marinai che avevano svolto un ruolo importante nella rivoluzione. Nel corso di tre anni risentirono della carestia o della penuria di cibo circa 33,5 milioni di persone – 26 milioni in Russia, 7,5 milioni in Ucraina – anche se calcolare con precisione i tassi di mortalità è difficile, perché nessuno registrò i numeri.56 In Ucraina le stime ipotetiche più affidabili parlano per il Sud del paese, la regione più duramente colpita, di un numero di morti che va dai 250.000 ai 500.000.57 In tutta l’URSS morirono, secondo l’ARA, 2 milioni di persone; una pubblicazione sovietica uscita subito dopo la carestia giunse alla conclusione che erano rimasti vittime del flagello 5 milioni di cittadini sovietici.58

Questi numeri scossero il senso di sicurezza del regime. I bolscevichi temettero di poter essere incolpati del disastro, e in effetti lo furono. Un superstite della carestia del 1932-1933 avrebbe in seguito ricordato di aver incontrato nel 1922, nella provincia di Dnipropetrovs’k, nell’Ucraina orientale, un contadino, e di aver saputo da lui della carestia che imperversava nella zona. Egli gli raccontò quanto era successo quell’anno in termini che non lasciavano adito a dubbi: «I bolscevichi hanno derubato il popolo, hanno preso cavalli e buoi. Non c’è pane. La gente sta morendo di fame».59

Nel 1922 i bolscevichi ormai sapevano che nelle campagne, specie nelle campagne ucraine, erano impopolari. L’esproprio di generi alimentari aveva portato a penurie, proteste e infine alla fame in ogni parte della nascente URSS. Il loro rifiuto di tutto ciò che sembrava o suonava «ucraino» aveva contribuito a mantenere viva in Ucraina la rabbia nazionalista antibolscevica.

In risposta, il regime cambiò rotta e adottò due politiche radicalmente nuove, intese a riconquistare il sostegno dei recalcitranti contadini sovietici, e specialmente dei recalcitranti contadini ucraini che nutrivano sentimenti nazionalisti. Quella delle due più ricordata è la «Nuova politica economica» di Lenin, che pose fine all’ammasso forzato di cereali e legalizzò temporaneamente il libero commercio. Ma nel 1923 Mosca lanciò anche una nuova politica che privilegiava una sorta di «autoctonismo» (korenizacija), con l’appello alle minoranze non russe dello Stato federale sovietico. Essa accordò uno status ufficiale e persino il primo posto alle loro lingue nazionali, promosse la loro cultura nazionale e offrì quella che era di fatto una politica «antidiscriminatoria», sostituendo i quadri russi provenienti da Mosca con cittadini originari del luogo. La politica divenne nota in Ucraina come «ucrainizzazione», termine coniato in realtà da Hruševs’kyj, che aveva chiesto l’ucrainizzazione dell’apparato statale russofono già nel 1907.60 Hruševs’kyj (che nei primi anni Venti era scomparso da tempo dalla politica) aveva voluto utilizzare la lingua per rafforzare il sostegno all’indipendenza nazionale. L’obiettivo della politica di Lenin nel 1923 era esattamente quello opposto: egli sperava di far apparire il potere sovietico meno straniero agli occhi degli ucraini e ammorbidire così le loro pretese in fatto di sovranità.

Per i puri del partito, entrambe queste strategie rappresentavano un passo «indietro» rispetto agli ideali marxisti-leninisti, e molti si rifiutavano di credere che sarebbero state permanenti. Un bolscevico della prima ora, Grigorij Zinov’ev, definì la Nuova politica economica «una deviazione temporanea» e un’«evacuazione del territorio per un nuovo attacco decisivo dei lavoratori contro il fronte del capitalismo internazionale».61 Lenin stesso, nello spiegarla agli educatori politici nell’ottobre 1921, usò l’espressione «ritirata strategica». Nei suoi discorsi in proposito risuonavano spesso note quasi autogiustificatrici. A un gruppo di educatori disse che fino a quel momento la politica economica sovietica si era basata su un presupposto sbagliato, vale a dire che «i contadini ci avrebbero fornito il pane necessario attraverso il sistema dei prelevamenti, e noi a nostra volta lo avremmo distribuito agli stabilimenti e alle fabbriche, ottenendo così una produzione e una distribuzione a carattere comunista».62 Non avendo i contadini ancora maturato il giusto livello di evoluzione politica, era necessario un passo indietro. Quando si fossero liberati dai loro pregiudizi, si sarebbero potute nuovamente tentare politiche economiche comuniste più avanzate.

Altrettanto frustrante, per quanti avevano creduto in uno Stato dei lavoratori unificato, omogeneo e russofono, era la stessa idea di «ucrainizzazione». Rakovskij, nel 1921 ancora a capo dei commissari del popolo del Consiglio ucraino, dichiarò che l’uso generalizzato della lingua ucraina avrebbe significato un ritorno al «dominio dell’intellighenzia piccolo-borghese ucraina e dei kulak ucraini». Dmytro Lebed’, suo vice, sosteneva con energia ancora maggiore che l’insegnamento dell’ucraino era reazionario, perché si trattava di una lingua inferiore, delle campagne, mentre il russo era la lingua superiore delle città. In un saggio in cui espose la sua «teoria delle due culture», egli ammise che poteva esserci una ragione perché l’insegnamento ai bambini di famiglie contadine avvenisse in ucraino: era la loro lingua madre. In seguito, però, essi avrebbero dovuto tutti studiare il russo, che li avrebbe aiutati a fondersi con il proletariato russo.63

Il timore per il carattere «reazionario» e da «kulak» dell’ucraino celava, in Rakovskij, Lebed’ e altri bolscevichi russofoni in Ucraina, una serie di motivi disparati. Ancora una volta, in tutto il loro modo di pensare c’era un elemento di sciovinismo russo: l’Ucraina era stata una colonia russa ed era difficile per essi immaginarla diversamente. L’ucraino, per molti di loro, era una lingua da «cortile». Come lamentò il comunista ucraino Volodymyr Zatons’kyj, «vedere l’Ucraina come Piccola Russia, parte dell’impero russo, è una vecchia abitudine dei compagni, un’abitudine inculcata in voi dalla millenaria esistenza dell’imperialismo russo».64 Le obiezioni di altri erano più profonde: per loro, l’ucraino era davvero una «lingua controrivoluzionaria». Traumatizzati dalla rivolta contadina, essi nutrivano un timore ben fondato verso il nazionalismo ucraino, che identificavano con la lingua ucraina. «Esattamente nel 1919» avrebbe spiegato Zatons’kyj «c’era una certa diffidenza nei confronti dell’ucraino. Tali sentimenti erano molto diffusi, anche nel proletariato rivoluzionario e nei contadini di innegabile origine proletaria.»65

I loro pregiudizi contro tutto ciò che aveva a che vedere con l’Ucraina avevano, ovviamente, anche una matrice ideologica: i bolscevichi volevano costruire uno Stato rigidamente centralizzato e distruggere le istituzioni indipendenti, che fossero economiche, politiche o culturali. Intuitivamente, si rendevano conto che l’autonomia di una provincia o repubblica sovietica rischiava di diventare un ostacolo sulla strada del potere assoluto. Da guida doveva fungere la solidarietà di classe, non quella nazionale. Come si espresse un altro leader comunista, «se ci preoccupiamo della cultura di ogni singola nazione, otterremo, temo, deleteri cascami nazionali».66

Entrambe le nuove politiche, tuttavia, avevano sostenitori entusiasti ai massimi livelli. La Nuova politica economica trovò un paladino nell’intellettuale bolscevico Nikolaj Bucharin, che giunse a convincersi che l’URSS avrebbe raggiunto gli stadi più alti del socialismo attraverso rapporti di mercato, e si schierò con energia contro le requisizioni di cereali.67 Anche grazie al suo appoggio, e a quello di Lenin nei mesi precedenti la sua morte nel gennaio 1924, la Nuova politica economica, diffusamente nota con l’acronimo NEP, si trasformò in breve in una forma di quello che Lenin aveva definito «capitalismo di Stato». Il nuovo sistema vedeva i mercati operanti, ma soltanto sotto un pesante controllo statale. Lo Stato abolì la prodrazvërstka, la consegna obbligatoria di cereali, e la sostituì con una tassa. I contadini ripresero a vendere i raccolti nel modo tradizionale, cioè in cambio di denaro. E anche i piccoli commercianti, o nepmany, «uomini della NEP», ricominciarono a comprare e vendere cereali, organizzandone così la distribuzione, come facevano da secoli. A questo livello molto elementare l’economia di mercato fu ripristinata e, gradualmente, la carenza di generi alimentari diminuì.

Anche l’ucrainizzazione non mancò di veri sostenitori. Dopo l’esperienza delle rivolte contadine, lo stesso Lenin dichiarò nel 1919 che ignorare il sentimento nazionalista in Ucraina sarebbe stato un «profondo e pericoloso errore».68 Nel febbraio 1920, durante la terza e ultima occupazione bolscevica del paese, inviò un telegramma a Stalin per dirgli di assumere interpreti per l’Armata rossa di stanza in Ucraina e «obbligare incondizionatamente tutti gli ufficiali ad accettare domande e altri documenti in ucraino».69 Lenin non voleva perdere di nuovo l’Ucraina e, se per non perderla occorreva indulgere ai sentimenti nazionali ucraini, era pronto a farlo.

Era giunto, in Ucraina, il momento dei «comunisti nazionali». Essi credevano, ottimisticamente, che i sentimenti nazionali ucraini avrebbero giovato alla rivoluzione, e che ucrainizzazione e sovietizzazione non erano solo compatibili, ma si sarebbero rafforzate a vicenda. Il più entusiasta a questo riguardo era Skrypnyk, lo stesso funzionario ucraino la cui resistenza ai soccorsi americani aveva tanto sorpreso gli uomini dell’ARA. Fin da quando, nel dicembre 1917, era stato l’inviato di Lenin nel paese, aveva sostenuto che l’ostilità fra il proletariato di lingua russa e i contadini di lingua ucraina era controproducente.70 Alle sue idee faceva eco Zatons’kyj, che nel 1921 accusò i compagni bolscevichi di essersi lasciati sfuggire il momento nazionalista: «Quando le oscure masse contadine si sono sollevate e sono divenute coscienti di sé, quando il contadino che prima guardava a se stesso e alla propria lingua con disprezzo ha sollevato la testa e ha iniziato a chiedere di più, noi non abbiamo saputo approfittarne». Questo aveva comportato che la rivoluzione nazionale era stata sequestrata dalla borghesia: «Dobbiamo dirlo con chiarezza: è stato un nostro grande errore».71

Anche Oleksandr Šums’kyj e altri membri del gruppo di estrema sinistra dei borot’bysty, che nel 1917-1918 avevano goduto di tanta popolarità, si unirono dopo il 1920 ai comunisti nazionali.72 Per l’Unione Sovietica dell’epoca la posizione di Šums’kyj era inusuale. Se socialisti, menscevichi, anarchici e socialrivoluzionari erano già sotto indagine o in arresto in tutta l’URSS, in Ucraina Mosca fece un’eccezione per i pochi aderenti al gruppo dei borot’bysty, che furono riportati all’ovile sovietico. Lenin sperava che avrebbero indotto i contadini che li sostenevano a schierarsi con i bolscevichi, conferendo così al nuovo regime un sapore di genuinità locale.

Lo stesso Šums’kyj sospettò di stare servendo da copertura, ma accettò lo scambio di favori e la nomina a commissario per l’Istruzione in Ucraina. Skrypnyk divenne commissario per la Giustizia. Nell’estate del 1923 il Comitato centrale del Partito comunista ucraino, il corpo di dirigenti più numeroso sotto il Politburo, approvò il primo decreto sull’ucrainizzazione. Le autorità di Charkiv riconobbero l’ucraino quale lingua maggioritaria nella Repubblica e chiesero a tutti i dipendenti statali di diventare bilingui entro un anno.73

Tramite tali cambiamenti i comunisti nazionali ucraini nutrivano la speranza di fare apparire il comunismo sovietico non un’imposizione russa, ma qualcosa di più autoctono. Inoltre speravano di indurre l’élite intellettuale ucraina a guardare con occhio più benevolo al nuovo regime, nonché di rendere l’Ucraina sovietica attraente per gli ucraini che vivevano al di là del confine, in Polonia e Cecoslovacchia. L’URSS era sempre attenta all’eventualità di rivoluzioni all’estero che avrebbe potuto appoggiare. Agli occhi della maggior parte della gente era come se Mosca avesse gettato tutto il suo peso a favore di queste politiche e, per un breve periodo, molti credettero sinceramente che esse avrebbero potuto funzionare.

Nel marzo 1924, a quasi sette anni dal suo trionfale discorso a Kiev davanti a una folla sciovinista, Mychajlo Hruševs’kyj tornò in Ucraina. Dopo la fuga dal paese nel 1919 aveva vissuto per un certo periodo a Vienna e, per un paio d’anni, aveva preso in considerazione la possibilità di trasferirsi a Praga o L’viv, se non addirittura a Oxford o Princeton. Ma poi aveva negoziato con i bolscevichi e cercato, sembra, un ruolo politico.

Non l’ottenne, ma decise comunque di tornare in Ucraina da «persona privata» e studioso. Nessuno tuttavia, nemmeno i comunisti ucraini, ebbe dei dubbi sul significato simbolico della sua decisione. Fra il gennaio e il giugno 1921 il Politburo ucraino aveva discusso di Hruševs’kyj e del suo possibile ritorno in non meno di quattro occasioni.74 Molti leader nazionali ucraini rimasti in esilio denunciarono la sua decisione come una «legittimazione» del regime bolscevico; i bolscevichi, per la stessa ragione, la salutarono con entusiasmo. Essa dimostrava che la loro politica stava funzionando. Più tardi avrebbero sostenuto che Hruševs’kyj, pentitosi della sua precedente attività controrivoluzionaria, aveva chiesto insistentemente di poter tornare.75

Ma Hruševs’kyj stesso dichiarò ripetutamente di non avere fatto alcuna concessione. Tornava, disse, perché era convinto che una rinascita politica dell’Ucraina richiedesse innanzitutto una sua rinascita culturale, e pensava che, forse, una tale rinascita fosse finalmente possibile. Nonostante tutti i vincoli cui in Unione Sovietica avrebbe potuto essere sottoposto, non poteva perdere quel momento, così ricco di possibilità per il paese. «Si deve pensare a come evitare che la vita culturale arretri» scrisse a un collega. «Finora sia il governo sia la società stanno tenendo.»76 Non tutti nell’amministrazione ucraina la vedevano allo stesso modo: non appena egli rimise piede in patria, la polizia segreta iniziò a organizzare quella che sarebbe divenuta una massiccia operazione di sorveglianza che impegnava decine di persone affinché riferissero sui suoi movimenti e le sue opinioni.77 Forse Hruševs’kyj non sapeva dell’operazione nei dettagli, ma certamente sospettava qualcosa del genere: prima di tornare aveva chiesto sia al Partito comunista ucraino sia al governo lettere che gli garantissero l’immunità da accuse politiche.78

I bolscevichi, tuttavia, parvero accettare la sua presenza, ed egli accettò i bolscevichi. Con il sostegno dello Stato, Hruševs’kyj fondò a Kiev un nuovo istituto di studi storici sotto l’egida dell’Accademia panucraina delle scienze, la Vseukraïns’ka Akademija Nauk, più nota con il suo acronimo ucraino, VUAN. Inoltre tornò a lavorare ai dieci volumi della sua Storia dell’Ucraina-Rus’, iniziò a pubblicare una rivista e incoraggiò i colleghi più giovani nel loro lavoro.79

Il ritorno di Hruševs’kyj diede il via in Ucraina a un periodo di vero e proprio fermento intellettuale e culturale. In quegli anni troppo brevi i suoi colleghi storici della VUAN produssero monografie sulle rivolte contadine ucraine del XIX secolo e la storia del sentimento nazionalista ucraino.80 Nel 1921 la Chiesa ortodossa autocefala ucraina si dichiarò del tutto indipendente, rifiutò l’autorità del patriarcato di Mosca, decentrò la gerarchia, riportò in vita la liturgia ucraina e consacrò un proprio capo, il metropolita Vasyl’ Lypkivs’kyj. Artisti e architetti di Charkiv fecero esperimenti con il cubismo, il costruttivismo e il futurismo, esattamente come quelli di Mosca e Parigi. Architetti ucraini costruirono il primo complesso di grattacieli d’Europa, un insieme di edifici in cui trovarono posto uffici governativi, una biblioteca e un hotel. Anni dopo Borys Kosarev, artista e scenografo, una delle personalità più in vista del modernismo a Charkiv, avrebbe ricordato che in città «si aprivano regolarmente nuovi teatri, e gli spettacoli erano accompagnati da accesi dibattiti». Kosarev lavorò fra l’altro a uno spettacolo per celebrare l’inaugurazione di un impianto per la produzione di trattori: «L’impianto fu costruito da soldati dell’Armata rossa in congedo e contadini di remoti villaggi: i nostri potenziali spettatori. Si trattava, oltre che di creare uno spettacolo affascinante, di dire loro la verità sulla loro realtà. Ma innanzitutto gli spettatori dovevano essere attirati».81

Nel frattempo, giovani letterati ucraini sognavano di inventare forme interamente nuove di esperienza artistica. Un gruppo letterario, Hart (Tempra), si assunse il compito di «unire gli scrittori proletari dell’Ucraina» per contribuire alla creazione di «un’unica cultura comunista internazionale». Quanto tuttavia alla forma che una cosa del genere avrebbe assunto nella realtà, i suoi leader, ex borot’bysty, non avevano le idee molto chiare:

Non sappiamo se sotto il comunismo le emozioni scompariranno, se l’essere umano cambierà in misura tale da divenire qualcosa come un globo luminoso costituito solo da testa e cervello, o se nasceranno nuove e diverse emozioni. Quindi non sappiamo con precisione che forma l’arte assumerà sotto il comunismo…82

Un’altra organizzazione, Pluh (L’aratro), cercò di coltivare scrittori contadini, nella speranza che potessero contribuire al risveglio della creatività nell’Ucraina rurale. I suoi membri aprirono centri di lettura in campagna e vi mandarono loro rappresentanti a evangelizzarla. Obiettivo del gruppo, proclamava il suo programma letterario, era la «creazione di grandi immagini, opere dai temi universali, che si occupino innanzitutto della vita dei contadini rivoluzionari».83 Essi fondarono inoltre una delle prime colonie di scrittori in Ucraina, un gruppo di appartamenti a Charkiv in cui scrittori e giornalisti potevano vivere insieme.84

Anche l’intellighenzia ucraina si trovò a godere, per la prima volta, delle risorse e dello status giuridico di cui aveva bisogno per standardizzare la sua lingua. L’ucraino, infatti, non era mai stato prima di allora la lingua ufficiale di uno Stato moderno, e non tutti concordavano su quale fosse il suo uso corretto. Gli ucraini della parte occidentale del paese avevano preso a prestito molte parole e abitudini ortografiche dal polacco, mentre nella parte orientale erano state mutuate dal russo. Per la prima volta nella sua storia, l’Accademia ucraina delle scienze istituì, per appianare le differenze, una divisione di ortografia, e iniziò a lavorare a un dizionario russo-ucraino definitivo. Nel 1925, anche il Consiglio ucraino dei commissari del popolo creò, affidandone la guida prima a Šums’kyj e poi a Skrypnyk, una speciale commissione ortografica incaricata di formalizzare e uniformare la lingua ucraina. Dopo molti mesi di dibattiti, il lavoro della commissione culminò in un convegno, tenuto a Charkiv nella primavera del 1927, cui Skrypnyk invitò studiosi di primo piano di L’viv, allora parte della Polonia. L’«ortografia di Charkiv» che ne risultò, esposta nel 1929 in un manuale, si dimostrò accettabile sia per gli ucraini dell’Est sia per quelli dell’Ovest. Il manuale era inteso a fissare uno standard uniforme sia per coloro che vivevano all’interno della Repubblica sia per quanti vivevano al di fuori dei suoi confini.85

Con il consolidarsi della fiducia, alcuni dirigenti ucraini iniziarono anche a cercare di diffondere la cultura ucraina al di là dei confini ufficiali del paese, in parte con l’appoggio di Mosca. La leadership staliniana approvò in particolare gli sforzi di quella di Charkiv per esercitare la propria influenza sugli ucraini che vivevano in Polonia. Da agente di collegamento con il partito comunista dell’Ucraina occidentale, i territori allora appartenenti alla Polonia, funse Šums’kyj. Nel 1925 Stalin ricevette personalmente una delegazione dell’Ucraina occidentale: si sperava, ovviamente, che i comunisti di quella regione potessero contribuire a destabilizzare lo Stato polacco.86 La situazione si fece più complicata quando alcuni comunisti nazionali iniziarono a interessarsi ai quasi 8 milioni di ucrainofoni che vivevano al di là del confine orientale, in Russia, e specialmente ai 915.000 del confinante distretto del Kuban’, nel Caucaso settentrionale. A partire dal 1925 la leadership ucraina si diede a perseguire con crescente zelo il rafforzamento di legami nazionali in Russia, premendo perché vi venissero aperte più scuole in ucraino e cercando addirittura di modificare il confine orientale della Repubblica per includervi una maggior parte del territorio in cui si parlava ucraino.

Se le autorità del Caucaso settentrionale, allarmate, resistettero con successo a correzioni, se non minime, del confine, furono costrette a cedere sulle scuole quando un’inchiesta del Comitato centrale sugli umori politici dei cosacchi rivelò un’«attività controrivoluzionaria di massa» e un generale malcontento. Per placarli, Mosca accordò ai cosacchi d’Ucraina e Russia il riconoscimento di minoranza nazionale. E poiché i cosacchi del Kuban’ parlavano ucraino, anch’essi ottennero il diritto di aprire scuole in ucraino.87

Questo attivismo culturale «alto» fu accompagnato da quella che venne definita una ucrainizzazione «bassa», cioè la promozione della lingua ucraina nella vita quotidiana: nei mezzi di comunicazione di massa, nel dibattito pubblico e, soprattutto, nelle scuole. Nel 1923, appena prima dell’inizio dell’anno scolastico, il governo della Repubblica decretò che tutti gli scolari ucraini dovevano studiare nella propria lingua, in base a un nuovo programma inteso a «coltivare una nuova generazione di leali cittadini».88 L’idea era di alfabetizzare i contadini e farne, contemporaneamente, dei cittadini sovietici: assimilando il pensiero marxista in ucraino, essi avrebbero finito per sentirsi parte integrante dell’Unione Sovietica. Per promuovere più ampiamente e velocemente la lingua ucraina, Skrypnyk giunse a importare 1500 insegnanti dalla Polonia, dove scuole in ucraino esistevano da più tempo e l’insegnamento dell’ucraino era più radicato.89

Tali decisioni ebbero un impatto oltremodo significativo. Fra il 1923 e il 1929 la percentuale di libri pubblicati in ucraino raddoppiò, e crebbe rapidamente anche il numero di quotidiani e periodici nella medesima lingua. Lo stesso può dirsi delle scuole. Nel 1923 si studiava in ucraino soltanto in poco più di metà delle scuole della Repubblica. Un decennio dopo erano l’88 per cento.90

In molte località il cambiamento non si limitò alla lingua, ma andò ancor più in profondità. Petro Hryhorenko (Grigorenko), allora studente – figlio di contadini, sarebbe diventato un generale sovietico e più tardi un dissidente –, avrebbe ricordato quel periodo come realmente illuminato. Due insegnanti del suo paese fondarono una filiale di Prosvita, organizzazione culturale ucraina risalente al XIX secolo, riportata allora in vita: «A casa loro vidi e sentii suonare per la prima volta lo strumento musicale nazionale ucraino, la bandura. Da loro venni a conoscenza del Kobzar, opera del grande poeta ucraino Taras Hryhorovyč Ševčenko. E da loro imparai che appartenevo alla stessa nazione del grande Ševčenko, che ero un ucraino».91 All’epoca Hryhorenko non sentiva alcun conflitto fra la sua identità «ucraina» e gli ideali dei bolscevichi: «L’amore per la mia cultura e il mio popolo si fondevano nella mia mente con il sogno della felicità universale, dell’unità internazionale e dell’illimitato “potere del lavoro”». Alla fine la sua filiale di Prosvita si trasformò in una cellula del Komsomol e lui diventò un attivo militante comunista.92

Altri compirono un percorso simile. L’ucrainizzazione fece diventare di moda la musica popolare, e centinaia di giovani ucraini, delle città come delle campagne, formarono complessi di bandura, esibendosi in canti tradizionali in occasioni pubbliche. A volte simili canti, nei quali echeggiavano sentimenti cristiani e antirussi, dovevano essere annacquati e «secolarizzati». Ma il loro fascino romantico sembrava toccare i giovani, anche quelli che, come Hryhorenko, erano cresciuti ignorandoli.93

Le leggende romantiche del passato furono d’ispirazione a molti. Un direttore di scuola di Kiev era così emozionato all’idea che i suoi scolari studiassero la lingua della poesia ucraina che diede al suo istituto il nome di Scuola di lavoro n. 1 di Kiev Taras Ševčenko, e mise il poeta nazionale ucraino al centro del programma di studi. Egli esortava gli scolari a tenere un diario, a scrivere i loro pensieri e disegnare per esprimere le loro reazioni alla poesia di Ševčenko. Inoltre, essi rappresentarono al locale circolo dei lavoratori quadretti scenici riguardanti il poeta e intervistarono il bidello della scuola, il cui padre lo aveva conosciuto di persona, per il giornale scolastico.94 In tutti questi progetti gli slogan che chiedevano giustizia sociale provenivano da Ševčenko, non da Marx. Che alcuni dei suoi versi contenessero accenti antirussi sembrava, all’epoca, non avere particolare importanza: le sue parole venivano interpretate in opposizione all’impero russo, e non alla nazione russa in quanto tale, e quindi venivano accettate.

Tuttavia, il sistema non tardò a mostrare delle crepe. Non tutte le scuole definite ufficialmente «ucrainofone» insegnavano bene l’ucraino. La lingua madre della maggior parte degli insegnanti era ancora il russo, e pochi di essi non incontrarono difficoltà a cambiare lingua, o lo fecero volentieri. Nelle scuole rurali, poi, maestri che parlavano un cattivo ucraino insegnavano ad allievi che parlavano anch’essi un cattivo ucraino, con il risultato che entrambi rischiavano di finire per parlare una lingua ibrida e sgrammaticata. Inoltre, i tentativi di verificare le competenze degli insegnanti si scontravano con svariate forme di resistenza passiva. Gli insegnanti rifiutavano di essere esaminati, obiettavano di non avere tempo per imparare a parlare l’ucraino fluentemente o lamentavano, senz’altro a ragione, l’inadeguatezza dei libri di testo. Confutare le loro lamentele era difficile: molti membri delle commissioni incaricate di valutare le loro competenze, infatti, non parlavano bene l’ucraino neppure loro.95

Alcuni opposero una resistenza più attiva. Molti non volevano che i loro figli studiassero in ucraino perché, pensavano, si sarebbero trovati in difficoltà nel cercare di accedere all’istruzione superiore, dove la lingua dominante era ancora il russo.96 Agli sforzi per far sì che l’apparato statale usasse l’ucraino opposero resistenza anche i burocrati. Benché ai funzionari del partito fosse in teoria richiesto di saperlo parlare, spesso potevano fare a meno di impararlo senza subire alcuna conseguenza. Nella seconda metà del decennio il comitato regionale del partito di Odessa, città russofona, aveva istituito corsi di ucraino per trecento suoi funzionari, ma gli iscritti furono solo 226 e coloro che li frequentarono regolarmente solo 75. Ancora meno furono coloro che pagarono la quota d’ammissione richiesta. Gli organizzatori dei corsi assillavano gli studenti recalcitranti perché pagassero, il che non li incoraggiava certo a frequentare, e non facevano che lamentarsi di quel lavoro in pura perdita.97

Il fallimento del partito nell’indurre persino i propri funzionari a imparare la lingua ucraina era una spia di qualcosa di più profondo. A metà degli anni Venti l’URSS era già diventata un rigido Stato di polizia, uno Stato che, se solo l’avesse voluto, avrebbe potuto punire severamente i membri del partito che rifiutavano di studiare l’ucraino. Ma quello Stato di polizia stava già silenziosamente perseguendo, in realtà, un’altra serie di politiche. Proprio mentre Hruševs’kyj, Šums’kyj, Skrypnyk e altri sostenitori di un’identità ucraina indipendente raggiungevano incarichi di primo piano nei ministeri riguardanti la cultura e l’istruzione, guadagnava posizioni anche un gruppo di funzionari del tutto diverso. Filosovietici, russofoni e, in gran parte, «etnicamente» russi, ebrei, o anche lettoni o polacchi, i membri della polizia politica ucraina erano molto più spesso devoti a Stalin che a qualunque idea astratta di nazione ucraina. E, nel prosieguo del decennio, la loro fedeltà avrebbe iniziato a farsi più che evidente.

Dei poliziotti ucraini giunti all’età adulta negli anni Venti, il più fedele, e per molti altri versi il più degno di nota, fu Vsevolod Balyc’kyj.98 Nato nel 1892 a Verchnedneprovsk, una cittadina sul Dnipro, Balyc’kyj trascorse gran parte dell’infanzia nella città industriale di Lugansk, dove suo padre era contabile in una fabbrica. Cresciuto nel mondo russofono dell’intellighenzia industriale ucraina – si diceva addirittura che fosse di origine aristocratica – nel 1922 si definì in un documento «russo», ma in seguito cambiò la sua identità nazionale passando a definirsi «ucraino». Soltanto molto più tardi, all’epoca del suo arresto nel corso del Grande Terrore del 1937, tornò a dichiararsi «russo».

In verità, le sue simpatie nazionali furono sempre meno importanti delle sue simpatie politiche. Balyc’kyj abbracciò posizioni radicali fin da adolescente: più tardi avrebbe dichiarato di essere stato «in contatto con il movimento rivoluzionario a Lugansk» dall’età di diciassette anni. Frequentò la facoltà di giurisprudenza a Mosca e nel 1913 aderì al partito menscevico, rivale di quello bolscevico, cosa che successivamente avrebbe cercato di cancellare dalla sua biografia. Cambiò posizione e divenne bolscevico nel 1915, aderendo al partito abbastanza presto da poter essere considerato un vero credente. Alto, biondo, amava i gesti teatrali e le dichiarazioni estremiste. Arruolato nell’esercito per combattere nella prima guerra mondiale, condusse fra i commilitoni «agitazione rivoluzionaria». Quando, nel febbraio 1917, la rivoluzione finalmente scoppiò, diresse uno dei sanguinari «tribunali del popolo» nel Caucaso. Fu lì, forse, che sviluppò un talento per identificare, epurare e uccidere i nemici di classe. La violenza, nella sua retorica, si associava spesso alla pulizia e alla purificazione, alla liberazione del partito da «termiti» e «inquinamento».

La sua fede nel potere di purificazione della violenza politica lo indusse a tornare nel 1919 in Ucraina, dove entrò nella Čeka della Repubblica. Nel febbraio dello stesso anno pubblicò nelle «Izvestija» ucraine una poesia:

Lì, dove ancora ieri la vita era così gioiosa

Scorre un fiume di sangue

E allora? Lì dove scorre

Non vi sarà pietà

Niente vi salverà, niente!99

Balyc’kyj ebbe la possibilità di vedere il «fiume di sangue» che aveva immaginato subito dopo il suo ritorno in Ucraina. Svolse un ruolo attivo nel contrastare la rivolta contadina del 1919 e, combattendo a fianco dell’Armata rossa, prese parte all’assassinio di massa di ostaggi. Ma a un certo punto fu costretto a lasciare la Repubblica e per qualche settimana si fermò a Gomel’, nell’angolo sudorientale della Repubblica di Bielorussia. Dovette sentirla come una dolorosa battuta d’arresto: proprio mentre si preparava a prendere il suo posto fra i leader dell’Ucraina, si ritrovò arenato in una remota città di provincia, a dirigere ancora una volta un tribunale rivoluzionario. Anche ai margini della zona di guerra, tuttavia, rimase fedele ai suoi obiettivi, arrestando e fucilando controrivoluzionari, speculatori e chiunque sembrasse costituire una minaccia per le forze sovietiche.

Infine fece ritorno in Ucraina, dove, dopo la ritirata dell’Armata bianca, aiutò trionfalmente Dzeržinskij nella sua opera di «pulizia». In quel periodo viaggiò in lungo e in largo per la Repubblica e un giorno s’imbatté casualmente in una banda di partigiani di Machno. Stando a quanto dichiarò egli stesso, gli insorti lo arrestarono immediatamente e lo condussero alla periferia del villaggio per fucilarlo. Ma uno dei loro comandanti, apparentemente colpito dal suo aspetto aristocratico, fermò l’esecuzione. Dopo un breve interrogatorio, il capo dei partigiani decise di lasciarlo andare. Balyc’kyj ricambiò il favore pochi anni più tardi. Quando le forze bolsceviche catturarono quel comandante, riuscì, sembra, a farne commutare la condanna a morte.100

Quando i combattimenti si attenuarono, Balyc’kyj fu premiato per la sua fedeltà: nel 1923 divenne comandante della Čeka ucraina. Seguendo l’esempio dei suoi colleghi di Mosca, impegnati allora a reprimere gli oppositori socialisti dei bolscevichi, contribuì a organizzare il primo processo contro i socialrivoluzionari ucraini. In quel periodo i tribunali emettevano sentenze relativamente miti e molti imputati furono graziati.

Silenziosamente, il potere e l’influenza di Balyc’kyj continuarono a crescere. Nel 1925, su sua insistenza, il Politburo ucraino emanò una serie di decreti che rafforzarono la polizia segreta ucraina, il cui nome, in Ucraina come nelle altre repubbliche, fu cambiato prima in GPU, Direttorato politico statale, e poi in OGPU, Direttorato politico statale unificato.101 Fra l’altro, egli convinse il Politburo a proteggere i salari dei dipendenti dei suoi dipartimenti. Mentre l’influenza culturale dell’intellighenzia ucraina era all’apice e il potere dei contadini al massimo, Balyc’kyj, ucraino di nascita ma russofono e di simpatie sovietiche, costruiva la lealtà di un gruppo ben diverso, preparandolo a svolgere un ruolo importante nel futuro dell’Ucraina.

IV

LA DOPPIA CRISI, 1927-1929

Il Glavlit vi ordina di prendere tutte le misure necessarie per proibire senza alcuna eccezione la comparsa sulla stampa di qualsiasi comunicato (articoli, servizi, ecc.) che faccia riferimento a difficoltà o interruzioni nel rifornimento di grano al paese in quanto potrebbero, senza motivazioni sufficienti, generare panico e compromettere le misure adottate dal governo per superare temporanee difficoltà in materia di acquisizione e distribuzione di cereali per il paese.

Telegramma a tutte le unità del dipartimento Informazione dell’OGPU, 19271

Non è possibile che non ci sia pane. Se ci dessero dei fucili, ne troveremmo.

Parole udite da un informatore della polizia segreta, 19272

Il comunismo di guerra aveva fallito. Lo Stato dei lavoratori, nella sua forma più radicale, non aveva portato prosperità ai lavoratori. Ma nella seconda metà degli anni Venti stava fallendo anche la Nuova politica economica di Lenin.

Teoricamente i mercati erano liberi. In pratica, però, lo Stato non si era rassegnato a lasciarli a se stessi. I funzionari, sospettando che i commercianti traessero profitto dalla vendita di cereali, interferivano continuamente, diffondendo un’aggressiva propaganda «antispeculatori» e imponendo gravosi regolamenti. Furono stabiliti prezzi elevati per i prodotti industriali e bassi per quelli agricoli (da qui la denominazione di «crisi della forbice»), il che generò uno squilibrio. Alcuni commercianti si offrivano di comprare cereali ai bassi prezzi «statali», altri agli elevati prezzi «privati». Molti contadini che non potevano ottenere i prezzi più alti non vendevano, preferendo, logicamente, immagazzinare il loro grano, darlo da mangiare al bestiame e aspettare che i prezzi salissero.

La nuova crisi fu uno shock. Dopo la carestia del 1921-1923 gli approvvigionamenti alimentari erano a poco a poco migliorati. Un cattivo raccolto cerealicolo portò di nuovo nel 1924 a una diffusa penuria, ma i contadini potevano ancora contare su bietole, patate e sulle loro mucche e maiali. La moratoria nell’ammasso forzato del grano, ancora in vigore, rese i contadini, la primavera seguente, più propensi a seminare.3

Nel 1927 il sistema parve ancora una volta vacillare. Quell’anno lo Stato riuscì a incamerare (secondo i suoi stessi inaffidabili metodi di conteggio) 5,4 milioni di tonnellate di grano. Ma gli organismi addetti alla distribuzione di generi alimentari, che consegnavano al proletariato urbano e alla burocrazia quantità di pane rigidamente razionate, avevano fatto conto su 7,7 milioni di tonnellate.4 Dopo un’indagine svolta in tutto il paese, l’OGPU riferì che nell’intera Unione Sovietica, nelle code per procurarsi qualcosa da mangiare, si vedevano «folle che si calpestano, scontri e gente che urla». La stessa indagine segreta citava la moglie di un operaio: «Tutta la giornata se ne va per quattro o cinque chili di farina soltanto; tuo marito torna a casa dal lavoro e la cena non è pronta». Alcune delle lamentele avevano un minaccioso tono politico. A Tver’ la polizia scoprì un appello a scioperare: «Non c’è burro, la farina è diventata disponibile solo da poco, non c’è cherosene, la gente è stata ingannata».5 Paul Scheffer, corrispondente da Mosca del «Berliner Tageblatt», raccontò di «code di persone in attesa di fronte ai negozi in tutta l’Unione Sovietica» e prezzi straordinariamente cari. Il che gli suscitò pensieri foschi: «Non si potrebbe dire, a commento di tutto ciò, che è “come l’inverno del 1917” in Germania?».6 Anche Eugene Lyons, da poco inviato a Mosca come corrispondente dell’United Press International, descrisse le code che vide nell’inverno del 1927-1928:

Ovunque queste linee cenciose, di donne principalmente, che si allungavano dalle porte dei negozi, sotto nuvole di fiato, pazienti, bovine, quasi senza mormorii. … Il pane, che costituisce il maggior alimento del popolo russo, divenne un «prodotto in crisi».7

Per il Partito comunista la crisi minacciava di mettere in ombra un anniversario importante: a dieci anni dalla rivoluzione d’Ottobre il livello di vita in Unione Sovietica era ancor più basso che sotto gli zar. I generi alimentari di ogni tipo erano ossessivamente razionati – i lavoratori ricevevano tessere alimentari a seconda del loro status – e scarsissimi. Le informazioni sulla produzione di cereali erano qualcosa di così scottante che cinque mesi prima delle celebrazioni dell’anniversario, nel maggio 1927, l’OGPU proibì a tutti i giornali sovietici di scrivere di «difficoltà o interruzioni nel rifornimento di grano al paese in quanto potrebbero … generare panico».8

La nuova crisi alimentare giunse, inoltre, in un momento critico della lotta per il potere all’interno del Partito comunista. Fin dalla morte di Lenin, nel 1924, Stalin aveva organizzato i suoi sostenitori nel partito, schierando le proprie forze contro Trockij, il suo principale rivale. A tale scopo si era alleato con i «destri», in particolare con Nikolaj Bucharin, che vedeva con favore i princìpi della Nuova politica economica, un limitato libero commercio e la cooperazione con i contadini, contro i «sinistri» di Trockij, i quali ammonivano che quelle politiche avrebbero creato una nuova classe capitalista e arricchito i kulak nelle campagne. Ma nel 1927 Stalin cambiò fronte: essendosi liberato con soddisfazione dei «sinistri» – Trockij era ormai in disgrazia e presto sarebbe partito per l’esilio – iniziò a preparare un attacco contro i «destri», Bucharin e la Nuova politica economica. In altre parole, sfruttò la crisi del grano, nonché il generale malcontento economico, non solo per radicalizzare la politica sovietica, ma anche per togliere definitivamente di mezzo quel gruppo di suoi rivali.

Per il Cremlino il 1927 fu un anno importante anche per la politica estera. Negli anni precedenti l’OGPU era andato espandendo con grande entusiasmo la sua rete spionistica in tutta Europa, ma nel 1927 le sue spie all’estero subirono qualche imbarazzante scacco. Grandi operazioni di spionaggio sovietiche furono scoperte in diversi paesi, in particolare in Polonia, Turchia, Cina e Francia. A Londra il governo britannico, dopo la scoperta di un’operazione definita dal ministro dell’Interno alla Camera dei Comuni «uno dei sistemi spionistici più completi e più efferati che abbia mai avuto la sfortuna di conoscere», ruppe i rapporti diplomatici con l’URSS.9

Nello stesso tempo i servizi di spionaggio sovietici da poco potenziati scoprirono quelle che definirono le mire espansionistiche territoriali giapponesi sull’Estremo Oriente sovietico. Anche la Polonia fu sospettata di portare avanti disegni per impossessarsi di parti dell’URSS, specie dopo che nel 1926 il successo del colpo di Stato del maresciallo Piłsudski ebbe riportato al potere il vincitore della guerra polacco-bolscevica. Ironia della storia, negli anni Venti la Polonia sostenne, con qualche appoggio da parte di diplomatici giapponesi, progetti per incoraggiare il nazionalismo ucraino, ma nulla dimostra che Stalin ne fosse a conoscenza.10 I suoi sospetti si appuntavano, invece, su inesistenti reti spionistiche polacche e giapponesi e su quella che era tutt’al più una collaborazione militare estremamente generica fra Polonia e Giappone.11

Presi insieme, questi incidenti sembravano minacciosi, specie a leader sovietici che ricordavano ancora l’asprezza dei conflitti del decennio precedente. In un articolo sulla «Pravda» del giugno 1927, Stalin mise in guardia sulla «reale e materiale minaccia di una nuova guerra in generale, e in particolare di una guerra contro l’URSS». Vicende senza alcun rapporto fra loro furono presentate in quotidiani e discorsi pubblici come prove di un’incombente cospirazione.12 La campagna di propaganda che accompagnò tutto questo preparava la società sovietica a condizioni da tempo di guerra e a una più severa austerità, cercando nello stesso tempo di suscitare una maggiore lealtà verso il sistema comunista.13

In risposta sia all’apparente minaccia di ostilità sia alla più realistica prospettiva di sollevazioni di massa per la mancanza di cibo, l’OGPU propose nell’ottobre 1927 una serie di nuove, dure misure. Fra le altre cose, la polizia segreta chiese il diritto di «considerare responsabili» i commercianti privati di cereali che stavano «speculando» sulla penuria di generi alimentari e gonfiando i prezzi.14 Il Politburo dispose, inoltre, l’immediata fornitura di prodotti industriali alle campagne (una «carota» fra tanti «bastoni»), l’esazione delle tasse arretrate, il congelamento dei prezzi del grano e il coinvolgimento diretto dei funzionari di partito locali nell’ammasso dei cereali.15

Nessuna di queste misure ebbe un impatto significativo. Ai primi di gennaio 1928 il Comitato centrale sovietico osservò che, nonostante i suoi ordini, nella raccolta di cereali «non era visibile alcuna svolta». Per risolvere il problema, Stalin intimò ai suoi colleghi di «mobilitare rapidamente tutte le migliori forze del partito», rendere i dirigenti locali «personalmente responsabili» della raccolta del grano, organizzare una campagna di propaganda chiaramente rivolta contro quanti fallivano nel loro compito e infliggere «severe punizioni» a coloro che si rifiutavano di pagare le tasse, specialmente se si trattava di kulak.16 Il risultato fu che lo Stato impose ai contadini che non potevano consegnare grano nella quantità prevista un’ammenda corrispondente fino a cinque volte il suo valore. Chi si rifiutava di pagare la multa rischiava di vedere i propri averi confiscati e venduti all’asta.17

Stalin usava ora un linguaggio militaristico. Parlava di «mobilitazione» e «fronti», di «nemici» e «pericolo». Kulak e speculatori, disse, avevano «approfittato della buona volontà e della lentezza con cui operano le nostre organizzazioni e sfondato il fronte nel mercato del pane, alzato i prezzi e creato fra i contadini un clima da “aspettiamo e vedremo” che ha paralizzato ancora di più la raccolta di cereali». Di fronte a questa minaccia, agire con moderazione o lentezza sarebbe stato un terribile errore. Kulak e commercianti dovevano essere separati dagli altri contadini e colpiti duramente con arresti:

Solo grazie a questo tipo di politica i contadini di medio reddito capiranno che la possibilità di prezzi più alti è una bugia inventata da speculatori, che kulak e speculatori sono nemici del potere sovietico, che legare il proprio destino a quello di speculatori e kulak è pericoloso.18

Fu più o meno in questo periodo che Stalin e gli altri leader sovietici tornarono a fare uso di espressioni quali črezvyčajnye mery, «misure straordinarie», e črezvyčajščina, «stato d’emergenza», che riportavano alla mente Caricyn, il Terrore rosso e la guerra civile. E, insieme al linguaggio della guerra civile, tornarono in auge le tattiche della guerra civile: la violenza cui Stalin aveva fatto abbondante ricorso dieci anni prima a Caricyn.

All’inizio di gennaio Genrich Jagoda, ora a capo dell’OGPU, impartì repentinamente l’ordine di arrestare all’istante «i maggiori operatori privati addetti all’acquisizione di cereali e i più inveterati commercianti di grano … che stanno turbando il sistema degli ammassi e i prezzi di mercato». In pratica, chiunque si guadagnasse da vivere con il commercio di cereali rischiava ora di essere definito un criminale. A metà del mese erano già finite in carcere in tutta l’Ucraina oltre cinquecento persone, e altre indagini erano in corso. In molte località, fra cui Čerkasy, Mariupol’ e Charkiv, la polizia scoprì una gran quantità di tonnellate di grano che, ragionevolmente, i contadini avevano tenuto da parte in attesa di un aumento dei prezzi. E si avventò contro questa cospirazione conclamata.19

Nel frattempo l’OGPU giunse alla conclusione che alcuni dei commercianti che nascondevano il grano, al corrente delle operazioni repressive della polizia, facevano il possibile per eluderle. Molti, per evitare di essere arrestati, avevano portato i cereali altrove; altri, nella speranza che l’ondata repressiva si placasse, pagavano i contadini perché conservassero per loro il grano in attesa di tempi migliori.20 L’OGPU pose bruscamente fine a tutte queste attività con un decreto del 19 gennaio: chiunque si rifiutasse di vendere cereali allo Stato al prezzo convenuto sarebbe stato arrestato e processato.21 Quest’ordine segnò di fatto la fine della Nuova politica economica.

I commercianti di grano erano comodi capri espiatori. In realtà, la politica economica sovietica si era basata negli anni Venti su una contraddizione di fondo, di cui poteva accorgersi anche la gente comune. All’inizio del 1929 Semen Ivanisov, contadino di Zaporižžja, inviò a un amico, un funzionario del partito, una lettera in cui lodava Lenin, che una volta aveva scritto dell’«indispensabile legame» fra operai e contadini. Ma i sentimenti di Lenin, temeva Ivanisov, erano stati dimenticati. «Che cosa vediamo adesso? Il corretto rapporto con i contadini, un rapporto fra alleati, non esiste.»

Egli stesso e i contadini come lui si trovavano, scrisse, in una situazione impossibile. Se lavoravano sodo e sviluppavano le loro fattorie, diventavano kulak, «nemici del popolo». Ma se prendevano l’altra strada e restavano bednjak, contadini poveri, stavano peggio dei «contadini americani» con cui avrebbero dovuto competere. Da questa trappola sembrava non esserci via d’uscita. «Che cosa dobbiamo fare?» chiedeva Ivanisov all’amico. «Come vivere?» Anche la sua situazione personale stava peggiorando. «Adesso dobbiamo vendere le nostre mucche, senza le quali non avremo più niente. A casa ci sono soltanto lacrime, urla a non finire, sofferenze, imprecazioni. Se adesso tu andassi a trovare e ascoltare una famiglia contadina, scommetto che diresti: questa non è vita, ma ingrato lavoro, un inferno, peggiore di quello del diavolo. Questo è tutto.»22

Ivanisov, come molti altri, si trovava di fronte a una scelta impossibile: da un lato la povertà ideologicamente approvata, dall’altro una ricchezza pericolosamente inaccettabile. I contadini sapevano che, lavorando male, avrebbero sofferto la fame, ma, lavorando bene, sarebbero stati puniti dallo Stato. Persino Maurice Hindus, giornalista americano che nutriva in genere ammirazione per l’URSS, si rendeva conto del problema: «Perciò quando un uomo è entrato in possesso di due o tre cavalli, altrettante mucche o qualcuna in più, una mezza dozzina di maiali, e quando ha raccolto tre o quattrocento pud di segale o frumento, è caduto nella categoria dei kulak».23 Se un contadino aveva successo e si arricchiva, diventava un nemico. Gli agricoltori troppo bravi o efficienti diventavano immediatamente figure sospette. Anche le ragazze, scrisse Hindus, li tenevano a distanza: «Al giorno d’oggi nessuno vuole sposare un ricco».24 Eugene Lyons a Mosca osservò che «venivano esercitate nuove pressioni sugli elementi più industriosi, più scrupolosi e più agiati».25 Anche lo scrittore Michail Šolochov, nel romanzo Terre vergini, raffigurò un personaggio la cui fattoria era semplicemente prosperata troppo:

Seminavo, fino a farmi venir l’ernia … ecco che cosa facevo! Lavoravo io con mio figlio e mia moglie. Due volte soltanto ho preso un bracciante, nel periodo più caldo dei lavori. Cosa dettava in quegli anni il potere sovietico? Seminare il più possibile! E io seminavo, fino a farmi venir l’ernia, com’è vero Iddio! E ora … ho paura! Ho paura che per questi sette giri di semina mi faranno passare attraverso la cruna di un ago e mi dichiareranno un kulàk!26

Così l’Unione Sovietica aveva eliminato ogni incentivo che potesse indurre i contadini a produrre di più.

Forse non tutti i bolscevichi si resero conto di questa contraddizione. Ma Stalin certamente sì, e nell’inverno del 1928 lui e i suoi compagni in posizioni più elevate decisero di affrontarla di petto. Per scoprire l’origine della penuria alimentare il Politburo inviò uno dei suoi membri, Anastas Mikojan, nel Caucaso settentrionale. Molotov andò in Ucraina e Stalin decise di recarsi di persona in Siberia.

I resoconti delle sue tre settimane di viaggio sono rivelatori. Nei rapporti che egli scrisse in seguito osservò che i suoi compagni di partito sul posto – alcuni dei quali osavano ancora discutere con lui – erano per la maggior parte convinti che la penuria di cereali potesse essere risolta con misure tecniche, per esempio offrendo ai contadini, in cambio del grano, più manufatti. Ma una migliore fornitura di calzature per i loro figli avrebbe davvero risolto il problema a lungo termine? Nel corso di un incontro con i dirigenti del partito siberiani, Stalin, con addosso un cappotto di pelle di pecora nuovo di zecca, si mise inaspettatamente a riflettere ad alta voce sulle tare più profonde dell’agricoltura sovietica. Dopo la rivoluzione, ricordò loro, i contadini avevano occupato le proprietà private di aristocratici e monasteri e se le erano divise, creando così centinaia di migliaia di minuscole fattorie improduttive e altrettanti contadini poveri. Il problema stava proprio lì: i kulak, i contadini ricchi, erano tanto più produttivi dei loro vicini poveri perché si erano accaparrate le proprietà più grandi.

La forza del contadino ricco, concluse, stava «nel fatto che la sua agricoltura è su larga scala». Le aziende agricole più grandi erano più efficienti, più produttive e più adatte alla tecnologia moderna. Ivanisov aveva individuato lo stesso problema: con il tempo i contadini che avevano più successo diventavano più ricchi e accumulavano altra terra, il che accresceva la loro produttività. Ma, così facendo, divenivano kulak, e quindi ideologicamente inaccettabili.

Che cosa si doveva fare? L’ideologia non permetteva a Stalin di concludere che agli agricoltori di successo si dovesse consentire di accumulare più terra e sviluppare grandi proprietà, com’era accaduto in ogni altra società nella storia. Era impossibile, inimmaginabile, che in uno Stato comunista potessero esserci grandi proprietari terrieri o anche soltanto agricoltori ricchi. Ma, d’altro canto, Stalin si rendeva conto che perseguitare i contadini di successo non avrebbe aumentato la produzione di cereali. La sua conclusione: l’unica soluzione stava nelle fattorie collettive. «L’unificazione delle piccole e piccolissime aziende contadine a conduzione familiare in grandi fattorie collettive … è per noi l’unica strada.»27 L’URSS aveva bisogno di grandi aziende agricole di proprietà statale. I contadini dovevano rinunciare alle proprie terre private, mettere in comune le risorse e aderire a esse.

La collettivizzazione, come si è già osservato, era stata tentata su piccola scala e per lo più abbandonata nel 1918-1919. Ma essa era in sintonia con molte altre idee marxiste e contava alcuni sostenitori nel Partito comunista, per cui l’idea era rimasta nell’aria. Alcuni speravano che la creazione di proprietà agricole collettive, i «kolchoz», avrebbe «proletarizzato» i contadini, trasformandoli in salariati che avrebbero iniziato a pensare e comportarsi come operai. Nel 1929, nel corso di una discussione sull’argomento, un fautore della collettivizzazione spiegò che «il grande kolchoz – e questo è assolutamente chiaro a tutti – dev’essere nel suo genere un’economia di produzione come le nostre fabbriche e fattorie statali socialiste».28 Nella propaganda a favore della collettivizzazione si sentiva, inoltre, più che un riflesso del culto sovietico per la scienza e la macchina, della convinzione che la tecnologia moderna, una maggiore efficienza e tecniche di gestione razionalizzate avrebbero risolto tutti i problemi. La terra doveva essere messa in comune, e così le attrezzature agricole. In nome dell’efficienza, trattori e mietitrebbia sarebbero stati controllati da stazioni di macchine e trattori di proprietà statale, che li avrebbero noleggiati a seconda delle esigenze alle fattorie collettive.

La collettivizzazione e la pianificazione centrale dell’agricoltura corrispondevano, inoltre, ai progetti di Stalin per l’industria. Nel 1928 il governo sovietico avrebbe approvato il primo «piano quinquennale», un piano economico che prevedeva un aumento massiccio e senza precedenti, del 20 per cento annuo, della produzione industriale, l’adozione della settimana lavorativa di sette giorni – gli operai avrebbero riposato a turno, così le fabbriche non avrebbero mai dovuto fermarsi – e una nuova etica basata sulla competizione sul posto di lavoro. Capisquadra, operai e dirigenti avrebbero fatto a gara per realizzare, o addirittura superare, gli obiettivi del piano. Il massiccio aumento di investimenti nell’industria avrebbe creato migliaia di nuovi posti di lavoro per la classe operaia, molti dei quali sarebbero stati occupati da contadini costretti ad abbandonare le loro terre. Esso avrebbe prodotto anche un urgente bisogno di carbone, ferro e materie prime d’ogni genere, reperibili in gran parte solo nell’estremo nord o nell’estremo est dell’URSS. Anche queste materie prime sarebbero state estratte da contadini in esubero a causa della collettivizzazione.

I «metodi d’emergenza», la spinta verso la collettivizzazione e la rapida industrializzazione divennero ben presto le politiche con cui Stalin s’identificò. Questa «Grande svolta», come la definì lo stesso Stalin, significò un ritorno ai princìpi del comunismo di guerra e, in pratica, una seconda rivoluzione. Poiché si trattava di un’evidente deviazione rispetto alle idee sostenute da Stalin e altri da diversi anni, e poiché i principali rivali di Stalin all’interno del partito erano accesi oppositori, in particolare, della collettivizzazione, il successo di quelle politiche divenne per Stalin essenziale, sia personalmente sia politicamente. Gli ordini relativi alla collettivizzazione avrebbero finito per essere riformulati da lui in persona, perché venissero applicati il più radicalmente e rapidamente possibile.29

Dopo la visita di Stalin, l’OGPU siberiano capì di dover garantire il successo del leader. Invece di aspettare contributi dai contadini, com’era avvenuto in passato, esso rinunciò a ogni apparenza di legalità e inviò nelle campagne, come all’epoca della guerra civile, squadre di agenti a perquisire e arrestare i contadini e sequestrare il grano. «È stato il compagno Stalin a darci il nostro motto» dichiarò un addetto alle requisizioni: «Premere, battere, spremere».30 I risultati non mancarono. Ancora prima di tornare a Mosca, Stalin inviò ai suoi compagni un telegramma per annunciare il successo: «Salutiamo il Comitato centrale con 80 milioni di pud di grano [1,31 milioni di tonnellate] per gennaio. È una grande vittoria per il Partito». Febbraio, dichiarò, sarebbe stato il «mese di lotta più importante in Siberia».31

Incoraggiato da tali risultati, Stalin intensificò la sua battaglia a favore della collettivizzazione in due tumultuose riunioni del Comitato centrale nella primavera e nell’estate del 1928. Dai discorsi che pronunciò all’epoca è chiaro che, se premeva con forza per quel mutamento di politica, era anche perché a opporvisi erano gli avversari di peso che gli restavano nel partito, in particolare Bucharin, che egli denunciò come «opportunista di destra». Anche a prescindere dalle sue ricadute nelle campagne, la politica di collettivizzazione fu uno strumento ideologico che impose Stalin quale leader indiscusso del partito. L’accettazione della sua politica avrebbe finito per investirlo di autorità e legittimità al suo interno. I suoi oppositori avrebbero ritrattato le loro posizioni di dissenso.32

Nella primavera e nell’estate del 1928, tuttavia, era vero anche il contrario: Stalin sfruttò il conflitto interno al partito per lanciare una battaglia ideologica a favore della spinta verso la collettivizzazione. Nel plenum di luglio sostenne l’ignobile tesi che la chiave dell’industrializzazione dell’URSS stava nello sfruttamento dei contadini: «Sapete che l’Inghilterra ha spremuto per centinaia di anni risorse da tutte le sue colonie, di ogni continente, per poi iniettarle come investimenti extra nella propria industria». L’URSS, proseguì, non poteva seguire la stessa strada, né contare su prestiti esteri. L’unica soluzione che rimaneva era che il paese «colonizzasse» i suoi stessi contadini: che li spremesse ancora di più per investire quell’«accumulazione interna» nell’industria. Per rendere possibile una simile svolta e permettere all’Unione Sovietica «un ulteriore incremento del tasso di crescita industriale», i contadini avrebbero dovuto pagare «un tributo»:

Questa situazione, occorre dirlo, è spiacevole. Ma non saremmo bolscevichi se passassimo sopra al problema e chiudessimo gli occhi di fronte al fatto che, senza questa tassa supplementare sui contadini, purtroppo, la nostra industria e il nostro paese non potranno farcela.

Quanto ai «metodi d’emergenza» che stavano causando tante sofferenze, essi avevano già «salvato il paese da una crisi economica generale … [Senza di essi] ora ci troveremmo in una grave crisi dell’intera economia nazionale, con la fame nelle città, la fame nell’esercito». Coloro che si opponevano a quei metodi erano «gente pericolosa». Lo «stretto legame» fra contadini e classe operaia, un tempo esaltato, non era più necessario: «L’unica classe che detiene il potere è il proletariato».33

Il linguaggio di Stalin aveva profonde radici nella sua concezione marxista dell’economia. Alla «soluzione» della collettivizzazione rapida egli non era arrivato casualmente, ma tramite un attento processo logico. Aveva stabilito che per industrializzare l’URSS era necessario che i contadini si sacrificassero, ed era pronto a costringere milioni di persone ad abbandonare le loro terre. Aveva consapevolmente deciso che esse dovevano pagare un «tributo» allo Stato dei lavoratori, e sapeva quanto ne avrebbero sofferto.

La collettivizzazione forzata, accompagnata dalla violenza, era veramente l’unica soluzione? Naturalmente no. I leader sovietici avevano a disposizione altre opzioni. Bucharin, per esempio, credeva nella collettivizzazione volontaria e nell’aumento del prezzo del pane.34 Ma l’idea che Stalin aveva dell’agricoltura sovietica, il suo fanatismo ideologico e le sue esperienze – soprattutto la sua fede nell’efficacia del terrore – gli facevano apparire la collettivizzazione forzata e di massa qualcosa di ineludibile e ineluttabile. Sul successo di questa politica egli avrebbe giocato la sua reputazione personale.

La Nuova politica economica non fu l’unica politica bolscevica incoerente, né l’unica che entrò in crisi nel 1927. Anche nell’«ucrainizzazione» era insita una contraddizione profonda, che divenne evidente più o meno nello stesso periodo. Da un lato si trattava di una politica essenzialmente strumentale: i bolscevichi a Mosca l’avevano adottata per placare i nazionalisti ucraini, convincerli che l’Ucraina sovietica era veramente uno Stato ucraino e coinvolgerli nelle strutture di potere sovietiche. Ma per avere successo l’ucrainizzazione non doveva apparire strumentale: perché i nazionalisti ucraini divenissero leali cittadini dell’URSS, era necessario che essi credessero che fosse autentica.35

Per conquistare i nazionalisti ucraini, lo Stato sovietico fu quindi obbligato a promuovere a posizioni elevate nel paese persone di etnia ucraina, finanziare l’insegnamento dell’ucraino e permettere lo sviluppo di un’arte e una letteratura nazionali ucraine «autentiche», distinte e differenti da quelle russe o sovietiche. Tali politiche, tuttavia, non placarono i nazionalisti. Anzi, li spinsero a chiedere cambiamenti più rapidi e, infine, a mettere in discussione il primato di Mosca.

Le voci di malcontento più forti si levarono dal mondo letterario, dove le ambizioni stavano rapidamente crescendo. I gruppi Hart e Pluh, come tutta l’avanguardia artistica sovietica, sopravvissero solo per breve tempo. Nel gennaio 1926 furono assorbiti in un organismo più esplicitamente politico, Vil’na Akademija Proletars’koji Literatury (Libera accademia di letteratura proletaria), nota con l’acronimo ucraino VAPLITE. Il leader del gruppo, Mykola Chvyl’ovyj, si era unito ai bolscevichi durante la guerra civile e, per breve tempo, aveva addirittura servito nella Čeka. Ma il suo profondo legame con l’Ucraina gli permetteva una certa distanza dai bolscevichi di Mosca e, a un certo punto, imboccò una strada diversa. Rifuggendo il provincialismo, l’«arretratezza» e il mondo contadino, iniziò a inveire contro la «psicologia servile» dei suoi compatrioti e ad aspirare per l’Ucraina allo sviluppo di una cultura letteraria urbana. L’Ucraina, sottolineava, doveva identificarsi con l’Europa, non con la Russia. Nel 1925 giunse a dichiarare:

Poiché la nostra letteratura può finalmente seguire il proprio percorso di sviluppo, ci troviamo di fronte alla domanda: a quale delle letterature del mondo dobbiamo guardare? Certamente non a quella russa. Questo è chiaro e indiscutibile. La nostra unione politica non va confusa con la letteratura. La poesia ucraina deve allontanarsi il più velocemente possibile dalla letteratura russa e dai suoi stili. … Il fatto è che la letteratura russa grava su di noi da secoli come padrona del campo, ha condizionato la nostra psiche facendo di noi pedissequi imitatori.36

A una conclusione simile giunse nello stesso periodo l’artista ucraino Mychajlo Boičuk, un modernista che aveva fatto parte dell’avanguardia rivoluzionaria. Perché la cultura ucraina avesse una chance di svilupparsi autonomamente, l’Ucraina doveva erigere sul confine con la Russia, sosteneva, una «grande muraglia», come avevano fatto i cinesi, «una barriera anche per gli uccelli».37

Di tale linguaggio si trovavano echi nella stampa ucraina, che stava iniziando a parlare con entusiasmo dei benefici dell’ucrainizzazione al di là delle frontiere del paese. Come abbiamo visto, lo Stato vedeva di buon occhio l’idea che l’Ucraina sovietica iniziasse a esercitare un’influenza sugli ucrainofoni all’estero, specie in Polonia. Ma nel 1927 l’Ucraina sovietica iniziò a cercare di esercitare un’influenza anche sugli ucraini in Russia, e in particolare su quelli del Kuban’, una provincia del Caucaso settentrionale in cui gli ucrainofoni superavano i russofoni nel rapporto di due a uno, e tre a uno in campagna. Il giornale governativo della Repubblica pubblicò una serie di dodici articoli sul Kuban’ e il Caucaso settentrionale, raccontando la storia dell’influenza ucraina nella provincia e parlando dell’attaccamento che gli ucraini del Kuban’ sentivano per i loro fratelli in Ucraina.

Questa serie di articoli, apertamente favorevoli all’ucrainizzazione, mandò su tutte le furie i comunisti russofoni al potere nel Kuban’, che poco tempo dopo fecero arrestare e processare un gruppo di presunti sabotatori accusandoli di mirare al passaggio del Kuban’ all’Ucraina. Uno di essi confessò, o fu indotto a confessare, di essere l’ispiratore degli articoli apparsi sulla stampa ucraina.38 Pochi anni più tardi il timore che la regione potesse «ucrainizzarsi», e divenire quindi per i bolscevichi politicamente inaffidabile, avrebbe avuto conseguenze funeste.

Il malcontento covava anche in seno alla classe politica ucraina, che contestava la perdurante, pesante ingerenza di Mosca negli affari interni dei comunisti della Repubblica. Nell’aprile 1925, meno di due anni dopo il primo decreto sull’ucrainizzazione, il Partito comunista sovietico aveva destituito di punto in bianco il leader del Partito comunista ucraino, Emmanuel Kviring, aperto avversario dell’ucrainizzazione, sostituendolo con Lazar’ Kaganovič, un uomo molto vicino a Stalin. Benché Kaganovič fosse nato nella provincia di Kiev, parlava poco l’ucraino, inoltre era ebreo, aveva trascorso la maggior parte della sua carriera in Russia, e in Ucraina non era visto come un ucraino di nascita, bensì come un sostenitore dei bolscevichi russi.

Apparentemente, Kaganovič giunse al potere con l’idea di accelerare il processo di ucrainizzazione. Durante i tre anni in cui rimase a capo del Partito comunista ucraino (nel 1928 gli sarebbe subentrato Stanislav Kosior) continuò di fatto a promuovere l’ucrainizzazione «bassa», l’eliminazione cioè degli ostacoli burocratici che si opponevano all’uso della lingua ucraina: i bolscevichi pensavano ancora che fosse necessario mantenere gli ucrainofoni fedeli al regime. Ma la sua diffidenza verso l’ucrainizzazione «alta» – la cultura, la letteratura, il teatro – non tardò a mutarsi in vera e propria ostilità, irritando i suoi nuovi colleghi. Poco dopo la sua nomina, Oleksandr Šums’kyj, commissario per l’Istruzione, in un incontro con Stalin si lamentò del nuovo segretario, chiedendo che al suo posto venisse nominato un «vero» ucraino. Pochi mesi più tardi Šums’kyj si lamentò presso il Politburo ucraino anche di certi comunisti ucraini, di cui non fece i nomi, che definì «senza princìpi e ipocriti, servili, opportunisti, adulatori pronti al tradimento», persone che a parole si dichiaravano fedeli all’Ucraina, ma in realtà, per «farsi una posizione», erano disposti a compiacere i russi in tutto e per tutto.

La fiducia che Šums’kyj nutriva in se stesso, nella sua posizione e nell’impegno di Mosca a favore della cultura ucraina era esageratamente alta, tanto più che il terreno iniziava già a franargli sotto i piedi. Kaganovič, nel cercare di orientarsi nelle vicende ucraine, si allarmò sempre di più per ciò che vedeva e udiva. Rimase stupefatto nello scoprire che Hruševs’kyj, un uomo che aveva «servito in una serie di governi», cioè in governi non bolscevichi, camminava ancora libero per le strade di Kiev. Altrove, in URSS, persone del genere erano già da tempo dietro le sbarre. L’inviato di Stalin fu scioccato, inoltre, dagli scritti più aggressivi dei letterati ucraini, specie dall’appello di Chvyl’ovyj affinché la poesia ucraina si allontanasse «il più velocemente possibile dalla letteratura russa e dai suoi stili».39 Come lo sconvolse lo slogan spesso ripetuto dallo scrittore: Het’ vid Moskvy!, «Lontano da Mosca!». Kaganovič inviò quindi qualche citazione scelta di Chvyl’ovyj a Stalin il quale, com’era prevedibile, s’indignò, denunciò quelle «visioni estreme» e inveì contro il compagno Šums’kyj, colpevole di non capire che «solo lottando contro queste enormità si possono trasformare la cultura e la vita sociale ucraina, che si stanno sviluppando, in una cultura e in una vita sociale sovietiche».40

Stalin non aveva bisogno di mettere al corrente delle sue preoccupazioni l’altro suo alleato in Ucraina: Vsevolod Balyc’kyj le condivideva già. Dirigeva l’OGPU ucraino ormai da diversi anni, svolgendo per lo più le sue attività nella massima segretezza. Benché fosse a capo di quello che ufficialmente era un organismo del partito ucraino, aveva sempre mantenuto il silenzio sulla sorveglianza cui sottoponeva personalità politiche e culturali di primo piano, non inviando mai regolari rapporti al Consiglio dei ministri ucraino né agli amministratori locali. Si spinse fino a bloccare un film di propaganda che esaltava l’operato dei suoi stessi agenti perché, secondo lui, avrebbe rivelato troppi segreti. Balyc’kyj era rimasto fedele non alla Repubblica ucraina, ma alla leadership del Partito comunista a Mosca, e lo stesso esigeva dai suoi subalterni: «Se vi venisse dato l’ordine di sparare sulla folla e vi rifiutaste,» li ammonì un giorno «vi fucilerei tutti. Dovete obbedire senza obiezioni ai miei ordini; non ammetterò alcuna protesta». Nello stesso tempo egli si prodigava perché i loro stipendi e privilegi, e i suoi, venissero aumentati. Probabilmente, fu più o meno in questo periodo che sviluppò un gusto per i gioielli e le opere d’arte, beni preziosi che sarebbero stati scoperti fra le sue proprietà al momento della sua morte.41

Nel 1925 Balyc’kyj aveva anche convinto il Politburo ucraino a istituire una commissione per sorvegliare le attività degli «intellettuali ucraini», in particolare di quelli legati all’Accademia delle scienze. Nel 1926 l’OGPU compilò sul «separatismo ucraino» un rapporto in cui si raccomandava di tenere sotto stretta osservazione chiunque avesse avuto in passato legami con qualsivoglia «movimento ucraino antisovietico».42 I nazionalisti avevano smesso di condurre una lotta aperta contro lo Stato sovietico, ma questo «non significa che si siano pienamente riconciliati con la situazione esistente e abbiano sinceramente rinunciato ai loro intenti ostili».43 Forse, pensavano gli estensori del rapporto, i nazionalisti non avevano cambiato ideologia, ma tattica:

La loro speranza di rovesciare il potere sovietico è andata delusa. I nazionalisti sono stati costretti ad accettare il potere sovietico come un fatto inevitabile. Quindi è stata lanciata una nuova battaglia tattica. Essi useranno contro il potere sovietico la nuova arma del «lavoro culturale». … In generale, i rappresentanti del nazionalismo ucraino lavorano senza tregua per instillare nelle masse sentimenti nazionalisti.44

Kaganovič, che dovette leggere questi rapporti, giunse alla conclusione che quei nazionalisti, fra cui gli ex borot’bysty, non fossero «passati dalla nostra parte» perché autentici bolscevichi, ma perché «contavano di farci cambiare posizione». Il programma sovietico di ucrainizzazione, temeva, non era riuscito a sovietizzare l’Ucraina. Anzi, aveva rafforzato i nemici dell’URSS, facendone una «forza ostile» che minacciava la società sovietica dall’interno: permettendo ai nazionalisti ucraini di rimanere al potere, i bolscevichi avevano alimentato una nuova opposizione.45

Balyc’kyj, con l’abilità di un consumato teorico del complotto, credette di scoprire una cospirazione ancora più vasta. I nazionalisti ucraini, sospettava, non erano semplicemente dei nemici: erano anche dei traditori, una «quinta colonna» che si era infiltrata nel sistema sovietico per conto di potenze straniere. In un rapporto intitolato «Sulla forza della controrivoluzione in Ucraina», fece risalire questa forza segreta al colpo di Stato di Piłsudski in Polonia nel maggio 1926. «Elementi antisovietici» in Ucraina, spiegò, avevano «visto nella figura di Piłsudski il vecchio alleato di Petljura», ed erano stati indotti a riprendere ancora una volta la lotta per la causa nazionalista-borghese. Per schiacciare questa complessa cospirazione era necessaria una «vasta operazione volta a strangolare l’attività antisovietica ucraina».46

La vasta operazione fu lanciata tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927. Stalin sferrò un’ondata di attacchi contro Šums’kyj, denunciandolo per nome. Uno dopo l’altro, tutti i membri del Comitato centrale del Partito comunista ucraino si unirono a lui, criticando e insultando Šums’kyj sia nelle riunioni di partito sia sulla stampa. Egli dovette dimettersi da commissario per l’Istruzione, nonché da tutta una serie di altre istituzioni, fra cui la commissione ortografica incaricata di redigere il dizionario della lingua ucraina. Venne attaccato anche Chvyl’ovyj, che fu espulso dalla VAPLITE; l’organismo letterario venne sciolto d’autorità e sostituito con uno più «filosovietico», in altre parole controllato e infiltrato: l’Unione panucraina dei lavoratori della cultura comunista. «Šums’kyjismo» e «chvyl’ovyjismo» divennero termini in voga per indicare pericolose deviazioni nazionaliste. Nei mesi e anni successivi, venire associati a una di esse sarebbe divenuto fatale.

Gli attacchi a Šums’kyj e a Chvyl’ovyj furono solo le manifestazioni più clamorose delle pressioni politiche che iniziarono a subire anche altri intellettuali ucraini. Hruševs’kyj, sotto stretta sorveglianza fin dal suo ritorno a Kiev, iniziò ad avere difficoltà a pubblicare i suoi libri.47 All’improvviso, inoltre, incontrò dei problemi per viaggiare all’estero – gli informatori che lo tenevano d’occhio erano convinti che si stesse preparando a fuggire – e un complotto dell’OGPU gli avrebbe presto impedito di diventare presidente dell’Accademia delle scienze.48

L’OGPU, inoltre, intensificò la sua campagna di sorveglianza. Uno dei suoi informatori udì un professore ucraino prevedere una guerra fra Unione Sovietica e Polonia e sostenere, a quanto disse, che gli ucraini avrebbero dovuto «sfruttare il conflitto per rafforzarsi». Un secondo informatore dichiarò che, per un altro professore, l’«ucrainizzazione» avrebbe accresciuto la coscienza nazionale al punto che di lì a poco, nel giro di due o tre anni, l’Ucraina si sarebbe separata dalla Russia. L’OGPU riferì anche di intellettuali ucraini preoccupati che la Repubblica stesse per cadere in mano a elementi «stranieri», cioè russi ed ebrei.49 Tali accuse trovarono un’eco nel linguaggio della leadership. Nel corso di un plenum speciale, nella primavera del 1927, Skrypnyk, che aveva preso il posto di Šums’kyj come commissario per l’Istruzione, si fece portavoce della generale paranoia sui nemici stranieri e denunciò sia Šums’kyj sia Chvyl’ovyj per avere collaborato con la Polonia «fascista».50

Alla fine del 1927 Balyc’kyj era ormai pronto ad annunciare l’esistenza di un complotto più vasto: in Ucraina il Partito comunista doveva far fronte a un’opposizione di un genere senza precedenti. Agendo sia apertamente sia in modo sovversivo, persone che avevano legami con partiti antibolscevichi operavano all’interno di istituzioni sovietiche per meglio nascondere le loro vere posizioni. Molti erano rimasti in contatto con «stranieri» che, come nel 1919, stavano attivamente cercando di innescare una controrivoluzione.

Questa ondata di accuse coincise, non a caso, con la penuria alimentare e il malcontento del 1927, nonché con il decennale della rivoluzione d’Ottobre. La lentezza della crescita sovietica, dopotutto, doveva essere imputata a qualcuno, e questo qualcuno non poteva certo essere Stalin.

Già nel 1927 l’OGPU aveva iniziato a cercare un «caso» che gli permettesse di lanciare una nuova campagna contro i sabotatori e gli agenti stranieri che, a quanto si asseriva, ostacolavano la crescita dell’URSS. Nella primavera del 1928 lo trovò. Nella città russa di Šachty – appena a est dell’Ucraina, nel Caucaso settentrionale, ai margini del bacino carbonifero del Donbas – «scoprì» una cospirazione di ingegneri che, secondo le accuse, miravano, manipolati da potenze straniere, a distruggere l’industria carbonifera. Qualcuno di essi veniva effettivamente dall’estero e, a tempo debito, più di due dozzine di ingegneri tedeschi, insieme ad altrettanti colleghi sovietici, furono arrestati. La polizia segreta credeva, inoltre, che essi avessero trovato appoggi fra i lavoratori e gli ex proprietari delle fabbriche, che le avevano perse con la rivoluzione e, presumibilmente, cospiravano per rientrarne in possesso, e che avessero legami anche con altre potenze straniere, fra cui la Polonia.

Il risultato fu un elaborato processo dimostrativo, il primo di tanti. Nel tribunale di Šachty affluirono ogni giorno decine di giornalisti stranieri, oltre all’ambasciatore tedesco e ad altri ospiti di rilievo. Il procuratore Nikolaj Krylenko – un fautore della «giustizia socialista», la teoria secondo cui la politica conta più della legge – tenne davanti al pubblico ammaliato una concione sui «vampiri» che avevano succhiato il sangue della classe operaia. «Questa era giustizia rivoluzionaria,» scrisse Eugene Lyons «con fiammeggianti occhi sbarrati e con una spada di fuoco pronta a colpire.»51 Non tutte le testimonianze, però, andarono come previsto. Un teste, tale Nekrasov, non si presentò, e il suo avvocato spiegò che «era affetto da allucinazioni ed era stato messo in una cella imbottita, dove urlava di fucili puntati contro il suo petto e aveva crisi di parossismo».52 Un ingegnere tedesco dichiarò apertamente di avere reso la sua «confessione» sotto costrizione.53 Tuttavia, cinque degli ingegneri accusati di «sabotaggio» vennero condannati a morte e quarantaquattro al carcere. I quotidiani di ogni angolo della Russia seguirono il processo minuto per minuto. Per tutti i funzionari del partito il messaggio fu chiaro: se non obbedite, questo può essere anche il vostro destino. In pratica, «gli ingegneri di Šachty andarono sostanzialmente sotto processo non come individui, ma come membri di una classe».54 Chiunque fosse istruito, competente e avesse esperienza tecnica era ormai sospetto.

Il coinvolgimento di tanti stranieri fece sì che il processo Šachty godesse di enorme notorietà all’estero. Il mondo diplomatico vi vide giustamente un segnale che la Nuova politica economica era stata abbandonata ed erano imminenti importanti svolte. Ma all’interno dell’Unione Sovietica quasi altrettanta attenzione ricevette un secondo processo-spettacolo: quello contro la Spilka Vyzvolennja Ukrajiny (Unione per la liberazione dell’Ucraina) o SVU, un’organizzazione, sembra, del tutto inventata. Un gruppo con un nome analogo era stato fondato a L’viv nel 1914 – successivamente, prima di scomparire, avrebbe sviluppato piccole sezioni a Vienna e Berlino – e aveva propagandato la causa ucraina fra i prigionieri di guerra. Ma la sua versione sovietica fu un parto della fantasia dell’OGPU ucraino di Balyc’kyj. L’obiettivo era chiaro: l’arresto di intellettuali ucraini che avrebbero potuto nutrire segretamente una qualche fede nell’indipendenza ucraina, e la distruzione di tale fede una volta per tutte.55

Il processo SVU fu altrettanto ben fabbricato del processo Šachty, e aveva obiettivi non meno ampi.56 I primi arresti furono eseguiti nella primavera del 1929. Alla fine l’OGPU avrebbe arrestato 30.000 persone – intellettuali, artisti, tecnici, scrittori e scienziati –, quarantacinque dei quali furono sottoposti a un processo pubblico nella primavera del 1930 nel Teatro dell’Opera di Charkiv. L’imputato più in vista era Serhij Jefremov, critico letterario, storico, vicepresidente dell’Accademia ucraina delle scienze ed ex vicepresidente della Rada centrale. Jefremov si trovava già pubblicamente sotto attacco da molti mesi per avere pubblicato un articolo in un quotidiano in lingua ucraina con sede oltre la frontiera polacca, a L’viv. Fra gli altri imputati c’erano professori, conferenzieri, redattori, assistenti di laboratorio, nonché linguisti, medici, avvocati, teologi e ingegneri chimici.57 Anche diversi altri erano stati esponenti politici della Rada centrale; per quasi la metà si trattava di sacerdoti o figli di sacerdoti.58

Particolarmente presi di mira furono insegnanti e studenti. Fra questi c’era il direttore della Scuola di lavoro n. 1 di Kiev intitolata a Taras Ševčenko, che tanto si era prodigato per impostare il programma di studi attorno ai versi del poeta nazionale ucraino. Lui e quattro suoi colleghi furono arrestati con l’accusa di aver escluso dalla scuola figli di ebrei e di operai, essersi preoccupati solo delle esigenze di «nazionalisti borghesi» e aver raccolto fondi per un monumento a Petljura. Vennero arrestati e processati anche leader di organizzazioni studentesche, fra cui alcuni accusati di aver reclutato figli di kulak leggendo loro poesie di Ševčenko. Lo Stato sovietico sembrava temere che la poesia nazionalista potesse sedurre molti ucraini, una paranoia che sarebbe durata fino agli anni Ottanta.59

Un altro bersaglio fu la Chiesa ortodossa autocefala ucraina. Il suo successo – al suo apice giunse a contare 6 milioni di seguaci e 30 vescovi – aveva suscitato sospetti, e la polizia segreta di Balyc’kyj aveva raccolto «indizi» sulla sua reale natura. Degli informatori avevano riferito, per esempio, che i suoi dirigenti esortavano segretamente i contadini a mantenersi fedeli alla causa ucraina.60 Durante il processo SVU lo Stato accusò esplicitamente la Chiesa di preparare una rivolta:

La controrivoluzione ucraina, sconfitta sui campi di battaglia della guerra civile, s’è nascosta nella clandestinità e ha iniziato a organizzare partigiani per minare l’edificazione del potere sovietico e lanciare una sollevazione contro lo Stato operaio-contadino. Uno dei ruoli più importanti in questa sollevazione avrebbe dovuto essere svolto dalla Chiesa autocefala, creata dai leader e ideologi del movimento di Petljura.61

Fra gli imputati nel processo SVU c’erano due alti esponenti della Chiesa, due fratelli, uno dei quali aveva fatto parte della Rada centrale. Migliaia di altri, sacerdoti e comuni credenti, caddero vittima degli arresti di massa che seguirono.

Le professioni degli altri imputati erano quanto mai varie. Chiaramente, lo Stato voleva che il gruppo rappresentasse una vasta fascia dell’intellighenzia nazionale ucraina, per diffamare il maggior numero possibile dei suoi membri. La SVU fu accusata di cospirare per rovesciare il potere sovietico in Ucraina «con l’aiuto di uno Stato borghese straniero», la Polonia, e «ripristinare l’ordine capitalistico nella forma della Repubblica popolare ucraina». Durante il processo, il periodico «Bil’šovyk Ukraïny» (Il bolscevico ucraino) si espresse ancora più schiettamente: «Il tribunale proletario non sta solo esaminando un caso riguardante la feccia petljurista, ma anche giudicando in retrospettiva storica il nazionalismo e i partiti nazionalisti ucraini, le loro politiche traditrici, le loro indegne idee di indipendenza borghese, di indipendenza dell’Ucraina». Uno degli imputati, uno studente di nome Borys Matuševs’kyj, avrebbe in seguito ricordato di aver sentito un linguaggio simile in bocca a chi l’interrogava. «Dobbiamo mettere l’intellighenzia ucraina in ginocchio, questo è il nostro compito, e sarà eseguito; quelli che non metteremo in ginocchio, li fucileremo!»62

A scrivere il canovaccio del processo contribuì Stalin in persona, inviando ai dirigenti ucraini dei promemoria al riguardo. In uno di essi rivelò una particolare paranoia che si sarebbe manifestata di nuovo molti anni dopo, durante le indagini sul «complotto dei medici» dei primi anni Cinquanta. «Noi pensiamo che al processo si debbano prendere accuratamente in esame non solo le attività sovversive e terroristiche degli imputati» scrisse ai leader comunisti ucraini «ma anche le trame dei medici, il cui scopo è l’assassinio di lavoratori responsabili.» Quest’ordine portò all’arresto di Arkadij Barbar, celebre medico e professore di medicina di Kiev. Contro di lui non fu presentata alcuna prova, neanche nel corso delle udienze. Ma a contare era solo il desiderio di Stalin di punire quella «parte controrivoluzionaria di specialisti che cercano di avvelenare e uccidere i pazienti comunisti».63

Il processo in sé fu una farsa. Le accuse a Jefremov si basavano quasi interamente su appunti del suo diario, la cui esistenza fu rivelata alla polizia da un altro imputato. Se esso conteneva qualche rara frecciata contro alcuni dirigenti comunisti ucraini, non vi si trovava alcun cenno a organizzazioni clandestine, né alcuna prova di contatti con l’estero o cospirazioni rivoluzionarie. Tuttavia Jefremov, dopo che gli fu detto che non aveva altro modo per salvare la moglie dall’arresto e dalla tortura, «confessò». Un informatore messo nella sua cella riferì sul suo comportamento:

Jefremov è tornato dall’interrogatorio molto agitato e alla mia domanda, «Come va?», ha risposto: «Non mi sono mai trovato in uno stato così disgustoso, penoso e stupido. Piuttosto di questo tormento quotidiano dei loro interrogatori, sarebbe stato meglio se mi avessero preso e fatto fuori subito. … Se fosse veramente esistita un’organizzazione simile, con tutta quella gente e i dettagli che le attribuiscono oggi, ne sarei molto contento. Direi tutto e sarebbe finita. … Ma qui devo parlare loro di dettagli di cui non so niente…». Va aggiunto che durante questa conversazione Jefremov era estremamente turbato, assolutamente esausto, e parlava con voce tremante e le lacrime agli occhi.64

Alla fine, Jefremov scrisse una confessione dei suoi «crimini» di 120 pagine, in cui ripeté le medesime storie inventate nel corso del processo prefabbricato al Teatro dell’Opera di Charkiv. Altri fecero lo stesso. Uno scrittore ucraino, Borys Antonenko, avrebbe successivamente detto, parlando di un altro imputato, che «anche a credere a tutte le sue dichiarazioni, alle udienze aveva l’aria di un caporione da operetta senza un esercito né nessuno che la pensasse come lui». Un altro definì il processo «teatro nel teatro». Lo scrittore Kost’ Turkalo, forse l’unico imputato che sopravvisse al processo, alla successiva incarcerazione e alla seconda guerra mondiale, avrebbe in seguito descritto la scena in questi termini:

Iniziò con l’interrogatorio degli imputati, a ognuno dei quali il presidente della giuria diede la possibilità di dire se aveva ricevuto una copia dell’atto d’accusa e, in questo caso, se si dichiarava colpevole o no. Quando tutti furono passati attraverso questo calvario, il giudice iniziò a leggere ad alta voce l’atto d’accusa per intero, una lettura che proseguì per oltre due giorni, perché si trattava di un libro di duecentotrenta pagine. A questo libro fu anche dato dagli imputati un nome speciale: lo chiamavano il «libretto della SVU, opera lirica». … Tutti erano perfettamente consapevoli dell’atteggiamento della corte. Era evidente che ogni dettaglio del processo e il suo esito finale erano stati programmati in anticipo, e che esso era necessario soltanto a fini di propaganda all’estero e per i seguaci fanatici del partito e qualche illuso in patria.65

Alla fine, gli imputati vennero tutti riconosciuti colpevoli. La maggior parte finì nel Gulag o in prigione, e più tardi, nel 1938, molti furono fucilati durante un’ondata di esecuzioni nelle carceri. Ma la purga non si fermò. Fra il 1929 e il 1934 l’OGPU avrebbe «scoperto» in Ucraina altre tre cospirazioni nazionaliste: quelle dell’Ukraïns’kyj Nacional’nyj Centr (Centro nazionale ucraino) o UNC, dell’Ukraïns’ka Vijs’kova Orhanizacija (Organizzazione militare ucraina) o UVO, e dell’Orhanizacija Ukraïns’kych Nacionalistiv (Organizzazione dei nazionalisti ucraini) o OUN. L’UVO e l’OUN esistevano realmente – entrambe erano attive al di là del confine, in Polonia, dove opponevano resistenza al dominio polacco in Ucraina occidentale – ma la loro influenza in Ucraina fu notevolmente esagerata. Tutti questi casi continuarono ad assumere nuovi aspetti, e vennero infine manipolati per coinvolgere chiunque la polizia politica volesse arrestare, sino alla fine degli anni Trenta.66

Come l’indagine relativa al caso SVU, anche queste altre godettero di sostegni ai massimi livelli, e l’incentivo a moltiplicarle era forte: gli ufficiali dell’OGPU che «scoprivano» complotti nazionalisti in Ucraina venivano promossi. Nella primavera del 1931 coloro che erano specializzati in casi del genere ottennero all’interno della polizia segreta un proprio speciale dipartimento, il Sekretno-polityčnyj Viddil (Dipartimento politico segreto), o SPV, dell’OGPU in Ucraina. L’SPV aprì poi sezioni speciali per tenere sotto controllo l’Accademia ucraina delle scienze, i 60.000 ucraini che si erano trasferiti in Unione Sovietica dalla Polonia e moltissimi gruppi letterari e editori, professori universitari, insegnanti di scuola superiore e altre categorie «sospette». Nel 1930 l’OGPU giunse addirittura ad annunciare di aver scoperto un complotto di «veterinari e batteriologi controrivoluzionari» dediti, a suo dire, all’avvelenamento di pozzi e all’uccisione di bestiame.67

Ognuno di questi casi fu accompagnato da una grande campagna pubblica di disinformazione. A partire dal 1927 la stampa sovietica si riempì di slogan che denunciavano la «controrivoluzione ucraina» e il «nazionalismo borghese ucraino». Tali campagne erano intese a screditare le loro vittime, e ci riuscivano: la gogna pubblica svolse un ruolo importante nello «spezzare» quanti venivano arrestati e indurli a confessare crimini mai commessi, oltre che, naturalmente, nel tacitare e terrorizzare tutti i loro conoscenti. In quel clima di isterismo e odio, qualsiasi critica al Partito comunista o a una qualunque delle sue politiche, comprese le politiche agrarie, poteva essere usata come prova di nazionalismo, fascismo, tradimento, sabotaggio o spionaggio.68

A grande distanza nello spazio e nel tempo, il problema delle aspirazioni nazionali ucraine potrebbe apparire alquanto diverso da quello della resistenza alle requisizioni sovietiche di cereali. Il primo vedeva coinvolti intellettuali, scrittori e coloro che rimanevano fedeli all’idea dell’Ucraina come Stato indipendente o almeno semindipendente. Il secondo riguardava i contadini che temevano l’impoverimento per mano dell’URSS. Ma esistono schiaccianti testimonianze che dimostrano come, nei tardi anni Venti, i due problemi fossero intrecciati, almeno per Stalin e la polizia segreta che collaborava con lui.

Com’è noto, Stalin aveva esplicitamente legato la «questione nazionale» alla «questione contadina» più di una volta. Nel suo memorabile discorso del 1925 aveva dichiarato che «i contadini rappresentano l’esercito principale del movimento nazionale» e «senza l’esercito contadino non esiste e non può esistere un potente movimento nazionale». Nello stesso discorso aveva anche redarguito un compagno per aver mancato di prendere sul serio quel pericoloso legame, per essersi rifiutato di vedere il «carattere profondamente popolare, profondamente rivoluzionario del movimento nazionale».69 Sebbene egli non avesse fatto esplicita menzione dell’Ucraina, essa era all’epoca, come Stalin ben sapeva, la Repubblica sovietica in cui il movimento nazionale era più forte e la classe contadina più numerosa.

Anche nelle sue osservazioni teoriche, in altre parole, Stalin vedeva il pericolo di «eserciti contadini» uniti dietro una bandiera nazionale. Il bolscevico Michail Kalinin la pensava allo stesso modo, anche se aveva fatto propria una soluzione proposta dai fautori della collettivizzazione: trasformare i contadini in un proletariato. In questo modo essi avrebbero perso il loro attaccamento a un particolare luogo o a una particolare nazione: «La questione nazionale è puramente una questione contadina. … Il modo migliore per eliminare la nazionalità è un’enorme fabbrica con migliaia di operai … che, come una macina, tritura tutte le nazionalità e forgia una nazionalità nuova. Questa nazionalità è il proletariato universale».70

Passando alla pratica, l’OGPU previde come i contadini ucraini potessero divenire per l’Unione Sovietica un pericolo specifico, tutt’altro che teorico. Nel 1918-1920, sotto la pressione economica, essi si erano sollevati. Ora, con il profilarsi della collettivizzazione, le medesime province stavano per essere nuovamente sottoposte a una pressione economica. Non sorprende che l’OGPU temesse un ripetersi degli eventi di quegli anni, tanto che i suoi funzionari, riecheggiando Stalin, iniziarono persino a usare un linguaggio che veniva direttamente dall’epoca della guerra civile.71

In un certo senso i timori dell’OGPU erano fondati. I suoi compiti includevano, fra le altre cose, la regolare raccolta di informazioni sugli «umori politici» e le opinioni della gente comune. Esso era, quindi, ben consapevole di quanto le nuove politiche sull’ammasso di cereali – essenzialmente una ripresa delle vecchie – sarebbero risultate invise a coloro ai quali stavano per essere imposte, specialmente in Ucraina.

L’OGPU era altrettanto consapevole del malcontento che serpeggiava fra gli ucraini istruiti nelle città, e temeva che fra i due gruppi di insoddisfatti potesse stringersi un legame. Nel 1927 riferì che un ex membro del Comitato centrale del Partito comunista ucraino era stato sentito denunciare le politiche «colonialiste» di Mosca nei confronti dell’Ucraina.72 Come se non bastasse, a Odessa, dopo un concerto, si era vista una folla «sciovinista», trascinata da sentimenti «nazional-indipendentisti», offrire fiori gialli e blu – i colori della bandiera ucraina – a due famosi musicisti ucraini.73 Inoltre, attirò l’attenzione dell’OGPU una lettera anonima, inviata a un quotidiano, in cui si parlava dei contadini come di «schiavi» oppressi sotto lo «stivale moscovita-ebraico» e gli «zar della Čeka». La stessa lettera metteva in guardia la redazione dall’attribuire un peso eccessivo al fatto del silenzio della nazione: gli ucraini non avevano «dimenticato nulla».74 A Žytomyr, infine, informatori della polizia udirono degli insegnanti lamentare che il cibo e le risorse ucraine finissero in Russia. Contro tali pratiche, concordavano quegli insegnanti, i contadini si sarebbero sicuramente ribellati: «È necessario soltanto trovare dei leader fra i contadini stessi, dei leader in cui le masse contadine possano credere».75

Ancora più preoccupante fu scoprire che c’erano contadini che, spaventati dal costante martellamento della propaganda di guerra, speravano che un’invasione li salvasse da una nuova tornata di requisizioni di cereali. La voce che presto i polacchi avrebbero varcato il confine indusse i contadini del villaggio di Mychajlivka a iniziare ad accumulare scorte di generi alimentari, svuotando il negozio della cooperativa locale. Un quotidiano della zona pubblicò una lettera che descriveva il panico:

Tutti piangono, e arrivano notizie come per telegrafo: «I polacchi sono già a Velykyj Bobryk!», «Bobryk è già stata presa!», «Stanno avanzando dritti su Mychajlivka!». Nessuno sa cosa fare: fuggire o restare.76

I rapporti della polizia segreta parlavano di contadini che si dicevano l’un l’altro: «In due mesi i polacchi arriveranno in Ucraina e sarà la fine delle requisizioni di grano», o «Non abbiamo più grano perché le autorità lo mandano a Mosca, e ce lo mandano perché sanno che presto perderanno l’Ucraina. Be’, poco male, per loro è venuto il momento di darsela a gambe». Intanto polacchi, tedeschi ed ebrei residenti in Ucraina iniziavano a pensare alla fuga. «I tedeschi in Russia sono emarginati; dobbiamo andare in America» si dicevano i membri di questa minoranza: «Meglio essere bravi agricoltori in America che cattivi in Russia ed essere chiamati kulak». Gli ucraini di etnia polacca, secondo i rapporti, si entusiasmarono alla notizia che l’esercito polacco stava conducendo esercitazioni militari al di là del confine, e provavano «un maligno piacere all’idea di un imminente cambio di governo».77

Sapendo, o almeno immaginando, che cosa sarebbe successo dopo la collettivizzazione, la polizia segreta si aspettava che in Ucraina l’opposizione crescesse, sia nelle città sia nelle campagne. A far prevedere questa resistenza era anche l’ideologia: se la lotta di classe si fosse intensificata, la borghesia avrebbe naturalmente lottato sempre più strenuamente contro la rivoluzione. E l’OGPU sapeva che era suo compito far sì che la rivoluzione trionfasse comunque.

Nell’ottobre 1928 due alti ufficiali dell’OGPU, Terentyj Derybas e A. Austrin, cercarono di delineare la natura del problema in un rapporto ad ampio raggio ai loro superiori dal titolo «Movimenti antisovietici in campagna». Iniziarono rievocando le crudeli esperienze della guerra civile in tutta l’Unione Sovietica, che avevano forgiato la carriera di tanti di loro: «Nella storia della lotta degli organi della Čeka-OGPU contro la controrivoluzione, la lotta contro le manifestazioni controrivoluzionarie nelle campagne ha svolto un ruolo significativo». Poi ricordarono come i «kulak e la borghesia rurale», guidati da partiti antisovietici, avessero combattuto i bolscevichi durante la «sollevazione dei kulak» del 1918-1919, vale a dire le grandi rivolte contadine guidate, fra gli altri, da Petljura, Machno e Hryhor’jev. Questi movimenti contadini, osservarono, avevano perso vigore nei primi anni Venti, ma, sospettavano, stavano di nuovo raccogliendo le forze, assumendo nuove forme e usando nuovi slogan. La vecchia sollevazione contadina, insomma, rischiava di ripresentarsi in una nuova forma.

Gli ufficiali avevano notato, o dicevano di aver notato, un fenomeno nuovo: «L’intellighenzia urbana antisovietica» si stava adoperando più di quanto avesse mai fatto per collegarsi con «i movimenti antisovietici dei kulak». In conseguenza dell’espandersi di tale rapporto fra città e campagna, piccole cellule di opposizione erano emerse in tutto il paese, persino tra le file dell’Armata rossa. A preoccupare particolarmente gli ufficiali erano i periodici appelli a favore di un sindacato dei contadini, o di un partito dei contadini su basi di classe, contrapposto al partito dei lavoratori, che gli informatori dell’OGPU sentivano, o credevano di sentire, con allarmante frequenza in tutta la campagna sovietica. Nel 1925 avevano contato 139 appelli che chiedevano un sindacato dei contadini. Nel 1927 il loro numero era salito a 2312.

Benché Symon Petljura fosse morto, ucciso due anni prima a Parigi dalle pallottole di un assassino, il ricordo di come il suo esercito, appoggiato da forze polacche, avesse un tempo conquistato Kiev era sempre vivo per i due ufficiali:

A risvegliarsi, negli ultimi tempi, sono stati soprattutto i petljuristi, che stanno cercando di fare dell’Ucraina una testa di ponte per una futura campagna imperialista in URSS. Non c’è dubbio che dietro i petljuristi dell’UNR [il movimento per la Repubblica popolare ucraina] vi sia il governo di Piłsudski, ma sarebbe un errore spiegare la rinascita dei petljuristi nella Repubblica ucraina semplicemente come un intrigo del governo polacco e dell’UNR. I petljuristi, promuovendo lo sciovinismo e attirando le masse con slogan antisemiti e l’esistenza di una Repubblica [nazionale ucraina] indipendente, possono divenire un centro organizzativo capace di unire una grande varietà di organizzazioni antisovietiche nei villaggi e fra la piccola borghesia urbana sotto un’unica bandiera nazionale, per sferrare un attacco congiunto al potere sovietico.78

Anche con il senno di poi, giudicare della veridicità di questo rapporto è impossibile. Non è affatto escluso che i legami fra intellettuali antisovietici e contadini antisovietici in Ucraina fossero diventati qualcosa di significativo, e che gli appelli a favore di un sindacato dei contadini si stessero diffondendo sempre di più. Certamente i rapporti della polizia segreta citavano molteplici esempi di fermento politico. Sul finire del 1927 il quotidiano «Vesti» ricevette una lettera anonima del «Sindacato degli agricoltori dell’Ucraina» spedita da un falso indirizzo in «via Petljura, Kiev», in cui si dichiarava che «non possiamo più sopportare il regime dei comunisti». La lettera terminava con un verso dell’inno nazionale ucraino: «L’Ucraina non è ancora morta». Più o meno nello stesso periodo l’OGPU scoprì che circolavano in Ucraina volantini stampati, a quanto pareva, dal «Comitato rivoluzionario ucraino», un organismo che esortava i contadini a prepararsi al «giorno in cui il regime dei bolscevichi di Mosca finirà» e tornerà la Repubblica popolare ucraina.79

Ma simili teorie potrebbero anche essere state fabbricate o gonfiate dall’immaginazione collettiva dell’OGPU. Certi partiti e volantini potrebbero anche essere un parto della creatività della polizia segreta stessa. Una delle sue tecniche, appresa dai predecessori zaristi, consisteva nel creare falsi movimenti e organizzazioni di opposizione intesi a indurre potenziali dissidenti a aderirvi, facendosi così scoprire.

Tuttavia, anche se la convinzione che fosse in atto una cospirazione che vedeva città e campagne unite era frutto di paranoia, non era illogica. L’esperienza della rivoluzione aveva insegnato ai bolscevichi che le rivoluzioni nascono dal collegamento fra intellettuali e lavoratori. Perché, dunque, dal collegamento fra intellettuali nazionalisti e contadini ucraini non poteva ora nascere una nuova rivoluzione? E perché un tale movimento non sarebbe potuto crescere molto rapidamente? Dopotutto era questo che, grosso modo, era successo nel 1919, quando la rivolta contadina, nata apparentemente dal nulla, era esplosa in tutta l’Ucraina. Alcuni leader di quel movimento avevano certamente nutrito aspirazioni nazionali, e l’insurrezione aveva effettivamente aperto la strada all’invasione «imperialista» straniera.

Non c’è dubbio che all’inizio del 1928 i due ufficiali dell’OGPU che scrissero quel ponderoso saggio ricordassero bene quegli eventi, il cui decimo anniversario era così vicino. Armati dei rapporti quotidiani su mugugni «antisovietici», volantini e peggio, dovevano essere giunti alla conclusione che il pericolo di un’altra esplosione in Ucraina fosse reale. Avendo previsto la crescita del nazionalismo urbano-rurale, l’OGPU avviò indagini e si lanciò alla sua ricerca, raccogliendone le prove, vere o false che fossero. Insomma, ancor prima che la campagna per la collettivizzazione iniziasse veramente, la polizia segreta e il gruppo dirigente sovietico vedevano già in ogni resistenza ucraina alla requisizione di cereali la prova di un complotto politico contro l’URSS.

Le previsioni dell’OGPU non tardarono a trovare conferma: in tutta l’URSS i contadini si opposero alle confische delle loro proprietà, agli arresti arbitrari, alla criminalizzazione dell’«incetta di grano» e all’imposizione di multe. Oltre che dall’Ucraina, rapporti su episodi di resistenza affluirono dalla Siberia e dal Caucaso settentrionale: da ogni regione in cui i «metodi d’emergenza» venivano applicati con vigore. «Mosca» avrebbe ricordato Eugene Lyons «era piena di voci di rivolta, nel Kuban’, in Ucraina e in altre località. … Quando la stampa ebbe il permesso di parlare più apertamente, si vide che molte voci erano vere. Da tutti i settori del paese giungevano rapporti di attacchi e di uccisioni di comunisti locali, di agenti in missione per il grano, di esattori fiscali.»80 In alcune località la rabbia portò alla violenza. Nel gennaio 1928 l’OGPU arrestò in una città non lontana da Odessa sei persone per aver malmenato il segretario di una fattoria collettiva. Un altro gruppo di ribelli fu arrestato nell’Ucraina meridionale per aver bastonato un esattore delle tasse.81

Per almeno una parte degli ucraini non si trattava di resistenza, ma di una lotta per la sopravvivenza. I raccolti del 1928-1929 furono scarsi. La variabilità del tempo e la pioggia durante la stagione dei raccolti portarono, per quelli invernali e primaverili, a una produzione di grano ben al di sotto della media. Come nel 1921, le pressioni politiche fecero sì che i contadini avessero scarsissime scorte di cereali. Si assistette di nuovo a una penuria di generi alimentari, specie nella steppa dell’Ucraina sudorientale, ma le requisizioni di grano continuarono allo stesso ritmo. Nella carestia del 1928-1929, quella meno grave e meno ricordata, morirono di fame almeno 23.000 persone, e altre 80.000 di malattie e degli effetti secondari della fame.82

Per molti versi questa carestia meno grave fu una «prova generale», che segnò il punto di passaggio fra il disastro del 1921 e la grande carestia del 1932-1933. L’Unione Sovietica, a differenza di quanto aveva fatto nel 1921, non chiese interventi internazionali, né Mosca fornì cereali o altri aiuti alimentari. La soluzione del problema fu lasciata ai comunisti ucraini. Nel luglio 1928 il governo ucraino istituì una commissione per aiutare le «vittime della carestia». Essa concesse ai contadini prestiti (da rimborsare) per l’acquisto di sementi, assicurò qualche aiuto alimentare (in cambio di lavori di pubblica utilità) e offrì qualche pasto e assistenza medica ai bambini. Ma le notizie sulla carestia furono ridotte al minimo. In circa un terzo dei casi i certificati di morte delle vittime della fame indicavano altre cause. E in nessun momento, nel 1928-1929, qualcuno del gruppo dirigente si chiese se l’origine del problema non potessero essere i «metodi d’emergenza» stessi.83

Per tutto il 1928, invece, l’OGPU continuò a cercare prove di attività controrivoluzionaria. I suoi ufficiali riferirono della scoperta in diverse zone dell’Ucraina rurale di «volantini antisovietici» opera di «circoli vicini a Petljura», nonché di lamentele «antisovietiche». «Meglio bruciarlo, il grano, che darlo ai bolscevichi» avrebbe detto un contadino.84 La leadership sovietica era convinta che molti ucraini si stessero preparando a un’invasione straniera, e l’OGPU ucraina fu ben contenta di fornirgliene le prove. Nell’estate del 1928 Balyc’kyj disse a Kaganovič che il dissenso interno in Ucraina era per definizione in rapporto con agenti stranieri:

Si può considerare stabilita la circostanza che il grado di attività degli elementi sciovinisti interni è in diretto rapporto con la complessità e gravità della situazione internazionale dell’URSS. Essi procedono dalla tesi di fondo che il dissolvimento dell’URSS è inevitabile, e grazie a questa catastrofe l’Ucraina potrà ottenere l’indipendenza.85

Peggio ancora, c’erano prove di malcontento fra i soldati dell’Armata rossa del distretto militare ucraino, in grande maggioranza contadini. Sapendo come la situazione per le loro famiglie fosse difficile, essi parlavano di abbandonare le loro unità, unirsi a gruppi partigiani e, addirittura, combattere per i diritti dei contadini. La storica Ljudmyla Hrynevyč ha compilato un elenco impressionante di lamentele udite nel maggio 1928:

«In caso di guerra, le foreste pulluleranno di banditi» (80a divisione di fanteria).

«Non appena scoppierà la guerra, tutte queste organizzazioni andranno a pezzi, e i contadini entreranno in lotta per i loro diritti» (44a divisione di fanteria).

«In caso di guerra, punteremo le nostre baionette contro coloro che levano la pelle ai contadini» (51a divisione di fanteria).

«Non appena scoppierà la guerra, getteremo via i fucili e torneremo nelle nostre case» (compagnia comunicazioni del 17° corpo di fanteria).86

Giudicando pessimo il «clima politico» in Ucraina, nel 1928 l’OGPU iniziò a mettere sotto stretta sorveglianza chiunque fosse potenzialmente in grado di diventare leader di una sollevazione contadina o di un movimento di liberazione ucraino. Un informatore riferì che Hryhorij Cholodnyj, direttore dell’Istituto della lingua ucraina scientifica, aveva confidato ad alcuni colleghi di pensare che la polizia stesse arrestando chiunque avesse stretti legami con i villaggi o fosse ben visto dai contadini. Tali parole portarono a un’indagine per individuare il tipo di persona descritto da Cholodnyj. Le ipotesi sull’ondata di arresti di una delle vittime divennero così una delle ipotesi di lavoro dell’OGPU. Lo stesso Cholodnyj fu infine arrestato nel corso delle indagini sul caso SVU e trascorse otto anni nel Gulag prima di venire fucilato nel 1938.87

Ma, a questo punto, l’OGPU trovò un altro potenziale capro espiatorio: lo stesso Partito comunista ucraino. Nel 1928, mentre Stalin era in Siberia, Molotov compì un analogo viaggio in Ucraina. Al ritorno a Mosca disse al Politburo che le notizie non erano buone. L’Ucraina – che, osservò Molotov, produceva il 37 per cento di tutto il grano raccolto secondo i piani per l’Unione Sovietica – ne stava già fornendo sempre meno ogni mese, e ne diede la colpa non solo a kulak e speculatori, ma ai comunisti ucraini. Il Partito comunista ucraino, lamentò, aveva sottovalutato il deficit di cereali. Nelle province scarseggiava «la più elementare disciplina». I funzionari locali stabilivano, nell’attività di ammasso del grano, propri obiettivi, senza tenere conto degli obiettivi «di tutta l’Unione» e delle richieste di Kiev. Alcuni di essi, proseguì oltremodo offeso, avevano persino dato l’impressione di non curarsi affatto della sua visita: evidentemente avevano deciso che quelle «misure d’emergenza» non erano che una «piccola tempesta» che sarebbe presto passata.88

L’idea che certi partiti comunisti locali peccassero di qualcosa di più che di mera inefficienza iniziò poco dopo a fare la sua comparsa anche nei rapporti dell’OGPU. Un’altra relazione parlò di «chvostismo» – da chvost, vocabolo russo per «coda», nel significato di accodarsi agli eventi – e «inattività» fra i membri del partito. Inoltre, li accusò di fornire «spiegazioni sbagliate degli obiettivi della campagna» per la raccolta di cereali e di nutrire un’ingiustificata comprensione per i kulak. Certi funzionari di basso livello, affermava la relazione, si spingevano fino a rifiutarsi di requisire il grano o addirittura di eseguire qualunque ordine.89 Informatori dell’OGPU registrarono fra le altre le lamentele di due funzionari locali, Marčenko e Lebedenko. Il primo aveva contestato lo stesso Molotov, un russo che viveva a Mosca, aveva detto, la cui visita dimostrava che la Repubblica ucraina non era che una «finzione» e i comunisti ucraini mere marionette. Lebedenko si era spinto oltre: «I bolscevichi non hanno mai derubato l’Ucraina di tutto e cinicamente come adesso. Ci sarà senza dubbio una carestia».90

Invece di affrontare il problema, il Partito comunista sovietico cercò di liberarsi dei dissidenti. Nel novembre 1928 lo Stato diede il via a una purga nei komnezamy, i comitati dei contadini poveri, espellendone i membri non abbastanza entusiasti. Lo stesso anno ebbero luogo purghe nel Partito comunista ucraino. Non si trattò di purghe omicide, come quelle cui si sarebbe assistito nel 1937-1938; ciò che interessava non era eliminare fisicamente qualcuno, ma togliere di mezzo potenziali piantagrane e creare un clima di insicurezza e tensione che convincesse i membri del partito, nei mesi a venire, a portare avanti il difficile compito della collettivizzazione.91 Ma Mosca stava anche accumulando prove che avrebbero potuto servirle in futuro. La collettivizzazione era imminente e, se in Ucraina fosse fallita, il Cremlino avrebbe potuto costringere il Partito comunista ucraino a addossarsene la colpa.

Per le campagne iniziarono a circolare senza freno voci incoerenti ma allarmanti. Gli ucraini avevano paura di una nuova ondata di requisizioni, di una carestia, di un collasso economico o di una guerra. I contadini dicevano che le requisizioni di grano si erano fatte più dure perché l’Unione Sovietica doveva soldi a governi stranieri. Molti si diedero a nascondere i loro cereali seppellendoli. Alcuni si rifiutarono di vendere qualunque cosa in cambio di cartamoneta. Altri iniziarono a fare incetta di ogni prodotto alimentare che potevano comprare.92 Fu in questa atmosfera – di cospirazione, isteria, incertezza, sospetto – che ebbe inizio la collettivizzazione.

V

COLLETTIVIZZAZIONE: RIVOLUZIONE NELLE CAMPAGNE, 1930

Verdi onde di mais nuovi germogli

Anche se la semina è recente

Il capo della brigata sfoggia stivali nuovi

Mentre noi andiamo a piedi nudi.

Canto di una fattoria collettiva, anni Trenta1

Le parole «liquidazione dei kulaki» non contengono nemmeno un lontano accenno all’agonia umana. Sembrano una formula industriale e hanno un suono metallico e impersonale. Ma, per chi vide da vicino il processo, l’espressione è carica di orrore.

EUGENE LYONS, 19372

Miron Dolot racconta di come nell’inverno del 1929 nel suo villaggio sulle rive del Tjasmyn, in Ucraina centrale, fossero giunti dei forestieri. Per i criteri dell’epoca, era un grande villaggio: vi vivevano circa ottocento famiglie e c’erano una chiesa e una piazza centrale. I suoi abitanti erano padroni della propria casa e della propria terra, ma si trattava per lo più di case dai tetti di paglia e minuscoli appezzamenti. Pochi contadini possedevano più di venti ettari, ma si sentivano, per gli standard del tempo, abbastanza agiati.

Come Dolot ricordava, negli anni Venti la presenza dello Stato sovietico nel suo villaggio era minima. «Eravamo completamente liberi nei movimenti. Facevamo gite di piacere e viaggiavamo liberamente in cerca di lavoro. Andavamo nelle grandi città e nelle cittadine vicine per partecipare a matrimoni, visitare i mercati delle chiese e presenziare a funerali. Nessuno ci chiedeva documenti o dove andavamo.»3 Altri avevano dell’epoca precedente la collettivizzazione lo stesso ricordo. C’era l’Unione Sovietica, ma non tutti gli aspetti della vita erano controllati dallo Stato, e i contadini vivevano più o meno come in passato. Coltivavano la terra, gestivano piccole aziende, commerciavano e barattavano. Una donna di Poltava ricordava che i suoi genitori, «gran lavoratori e religiosi», possedevano dieci ettari di terra e guadagnavano qualcosa anche con qualche lavoro occasionale: «Mio padre era un bravo falegname, e sapeva fare anche molti altri mestieri».4

La politica era ancora decentrata e tutt’altro che rigida. «Negli anni Venti il governo ucraino non prescriveva né diceva che una particolare scuola doveva essere ucraina o russa: la decisione era presa sul posto.»5 I villaggi si autogovernavano, più o meno come avevano sempre fatto. Tensioni fra gli aderenti al bolscevismo e i contadini più tradizionali non mancavano, ma i diversi gruppi cercavano di tollerarsi. Ecco come, a Pylypivka, un gruppo di ragazzi si preparò ai canti natalizi:

I ragazzi fecero una stella [tradizionale per i cantori a Natale] e pensarono a come decorarla. Dopo aver discusso un po’, presero una decisione: su un lato della stella avrebbero messo un’icona della Madre di Dio, sull’altro la stella a cinque punte [sovietica]. Inoltre non impararono solo i vecchi canti natalizi, ma anche canti nuovi. E stabilirono un piano: avvicinandosi a una casa di comunisti, avrebbero mostrato la stella a cinque punte e cantato i canti nuovi, mentre avvicinandosi alla casa di un uomo religioso avrebbero mostrato il lato con l’icona della Madre di Dio e cantato [i vecchi canti].6

Ma i forestieri giunti quel dicembre nel villaggio di Dolot portavano con sé idee diverse su come la vita andasse vissuta. Nell’organizzazione l’elasticità doveva lasciare il passo a un rigoroso controllo. I contadini imprenditori sarebbero diventati dei salariati. All’indipendenza sarebbe subentrata una rigida regolamentazione. Soprattutto, in nome dell’efficienza tutte le fattorie private dovevano lasciare il posto a fattorie collettive, di proprietà della comune o dello Stato. Come Stalin aveva detto in Siberia, «l’unificazione delle piccole e piccolissime aziende contadine a conduzione familiare in grandi fattorie collettive … è per noi l’unica strada».7

Alla fine sarebbero esistiti diversi tipi di fattorie collettive, caratterizzati da gradi diversi di proprietà comune. Ma quasi tutte avrebbero richiesto che i loro membri rinunciassero ai loro beni privati – terra, cavalli, bestiame, altri animali e attrezzi – per cedere tutto al collettivo.8 Parte dei contadini sarebbe rimasta nelle proprie case, ma gli altri avrebbero finito per vivere in case o baracche di proprietà del collettivo e a consumare tutti i loro pasti in una sala da pranzo comune.9 Nessuno avrebbe più posseduto nulla di importante: i trattori sarebbero stati presi a noleggio da stazioni di macchine e trattori centralizzate, di proprietà dello Stato, che si sarebbero occupate del loro acquisto e della loro manutenzione. I contadini non avrebbero più guadagnato in proprio, ma avrebbero ricevuto salari giornalieri (trudodni) e spesso non sarebbero stati pagati in denaro, bensì in generi alimentari e altri beni, e sempre in piccole quantità.

Tutto ciò, si presumeva, doveva avvenire spontaneamente, frutto di una grande ondata di entusiasmo rurale. Nel novembre 1929 Stalin lodò il «movimento» per la collettivizzazione che, dichiarò, stava «dilagando nel paese»:

Voglio parlare della svolta radicale nello sviluppo della nostra agricoltura dalla piccola azienda individuale e arretrata alla grande agricoltura collettiva e progredita, al lavoro in comune della terra … Il nuovo e decisivo [aspetto] nell’attuale movimento colcosiano è che i contadini entrano nei colcos non a gruppi isolati, come avveniva prima, ma a villaggi, distretti, e perfino mandamenti interi.10

Di fatto, invece, quella politica fu energicamente spinta dall’alto. Nella settimana che iniziò il 10 novembre 1929 il Comitato centrale del partito si riunì a Mosca e decise «un’ulteriore accelerazione del processo di collettivizzazione … delle unità familiari contadine» inviando quadri del partito nei villaggi per avviare nuove fattorie comuni e convincere i contadini a aderirvi. La stessa risoluzione condannò coloro che si opponevano alla collettivizzazione ed espulse dal Politburo il loro leader, Nikolaj Bucharin, allora il maggiore rivale politico di Stalin. Poche settimane più tardi il commissariato del popolo per l’Agricoltura dichiarò che tutte le regioni produttrici di cereali dell’URSS sarebbero state collettivizzate entro tre anni.11

Gli uomini e le donne che fecero la loro comparsa nel villaggio di Dolot quell’inverno erano la prima testimonianza tangibile della nuova politica. In un primo momento gli abitanti del villaggio non li presero sul serio: «Il loro aspetto ci faceva ridere. I loro volti pallidi e i loro vestiti erano del tutto fuori posto nel nostro villaggio. Con il loro passo cauto per evitare che la neve bagnasse le loro scarpe lucide erano una presenza aliena fra di noi». Il loro capo, il compagno Zeitlin, trattava i contadini bruscamente e sembrava non sapere nulla del loro modo di vivere. Scambiò, sembra, un vitello per un puledro. Un agricoltore gli fece notare l’errore. «Puledro o vitello» rispose «non importa. La rivoluzione proletaria mondiale non soffrirà per questo.»12

Il compagno Zeitlin era, nel linguaggio del tempo, un «venticinquemila», cioè uno dei circa 25.000 aktivisty cittadini della classe operaia reclutati alla fine del 1929, dopo la risoluzione del Comitato centrale, per aiutare a realizzare la collettivizzazione dell’agricoltura sovietica. Incarnazioni della convinzione marxista-leninista che la classe operaia sarebbe stata un «agente di coscienza storica», quei militanti provenienti dalle città furono indotti ad andare fra i contadini da una campagna propagandistica che aveva il tono di una «campagna di reclutamento militare nelle fasi iniziali di una guerra patriottica».13 I quotidiani pubblicavano fotografie di quei «lavoratori-volontari», e le fabbriche organizzavano assemblee per festeggiarli. La competizione per entrare a farne parte era, almeno secondo le fonti ufficiali, feroce. Un volontario, ex partigiano rosso, avrebbe in seguito paragonato il loro lavoro alle sanguinose battaglie del decennio precedente: «Ora sorge qui davanti a me un’immagine del ’19, quando ero in questo stesso distretto, arrancavo per i cumuli di neve con un fucile in mano e la bufera che infuriava, come ora. Mi sento di nuovo giovane…».14

Le motivazioni che spingevano quegli uomini e donne di città erano eterogenee. Alcuni cercavano un avanzamento, altri contavano su una ricompensa. Molti erano animati da autentico fervore rivoluzionario, alimentato da una propaganda ininterrotta, accanita, ripetitiva. Altri ancora, poiché i giornali non facevano che parlare di una guerra imminente, avevano paura. La penuria di generi alimentari nelle città, fin troppo reale, veniva diffusamente imputata ai contadini, e i «venticinquemila» lo sapevano. Nel 1929 molti cittadini sovietici erano già convinti che i contadini recalcitranti rappresentassero una vera minaccia per loro e per il futuro della loro rivoluzione. Questa forte convinzione permetteva loro di fare cose che la «morale borghese» avrebbe un tempo definito perverse.

Fra coloro che erano in preda a questo fervore rivoluzionario c’era Lev Kopelev, un «venticinquemila» che svolse un ruolo insolito nella storia delle lettere sovietiche. Nato a Kiev in una colta famiglia ebrea, studiò a Charkiv e parlava sia ucraino sia russo, ma si considerava un «sovietico». Molto più tardi, nel 1945, sarebbe stato arrestato e mandato nel Gulag. Sopravvisse, strinse amicizia con lo scrittore Aleksandr Solženicyn, divenne il modello cui ispirò uno dei suoi personaggi, scrisse proprie memorie di grande intensità e divenne un dissidente di primo piano. Ma nel 1929 era un vero credente:

Come tutta la mia generazione, credevo fermamente che i fini giustificassero i mezzi. Il nostro grande obiettivo era il trionfo universale del comunismo e, in nome di questo obiettivo, tutto era permesso: mentire, rubare, distruggere centinaia di migliaia e anche milioni di persone, tutti coloro che ostacolavano il nostro lavoro o avrebbero potuto ostacolarlo, tutti coloro che si opponevano a noi. Ed esitare o dubitare di tutto ciò significava cedere alla «svenevolezza intellettuale» e allo «stupido liberalismo», attributi di persone che «vedevano gli alberi e non la foresta».15

Kopelev non era il solo. Nel 1929 Maurice Hindus, il socialista americano di cui si è già parlato, ricevette una lettera da un’amica russa, Nadja, che ancora non aveva il beneficio del senno di poi di Kopelev. La missiva rifletteva uno stato di estatica eccitazione:

Sono fuori nei villaggi con un gruppo di altri della brigata a organizzare i kolchozy. È un lavoro tremendo, ma stiamo facendo progressi incredibili … Sono sicura che con il tempo non un solo contadino rimarrà sul suo fazzoletto di terra. Dobbiamo ancora fare a pezzi le ultime vestigia del capitalismo, e poi saremo per sempre liberi dallo sfruttamento … L’aria stessa arde qui di un nuovo spirito e una nuova energia.16

Kopelev, Nadja e altri come loro erano dominati dal risentimento. I bolscevichi avevano fatto al popolo promesse straordinarie: ricchezza, felicità, proprietà della terra, potere. Ma la rivoluzione e la guerra civile erano state violente e avevano disorientato tanti, e le promesse non erano state mantenute. A dieci anni dalla rivoluzione, molti erano delusi. Avevano bisogno di una spiegazione del perché il trionfo bolscevico non avesse dato i frutti sperati. Il Partito comunista fornì loro un capro espiatorio, e li esortò a non avere pietà. In Terre vergini, Michail Šolochov dipinse un eloquente ritratto di un fanatico deluso del genere. Davidov è un «venticinquemila» andato a collettivizzare i contadini a qualsiasi costo. Quando, a un certo punto, un agricoltore gli fa notare esitante che forse è stato troppo crudele con i kulak del villaggio, egli ribatte con violenza: «Tu li compiangi… Ti fanno pietà? E loro, hanno avuto forse compassione di noi? I nostri nemici hanno forse pianto per le lagrime dei nostri bambini? Hanno pianto per gli orfani dei nostri caduti?».17

Era con questo tipo di atteggiamento che, dopo un addestramento brevissimo, di solito non più di un paio di settimane, i volontari urbani partivano per i villaggi. Ma se a Leningrado, Mosca o Kiev salivano sui treni ascoltando brani di musica rivoluzionaria e con ancora nelle orecchie l’eco di discorsi patriottici, penetrando nella campagna la musica si affievoliva. Un membro di una brigata avrebbe scritto più tardi: «Alla partenza ci salutavano con una marcia trionfale, all’arrivo ci accoglievano con una marcia funebre».18 Era in quel momento che la retorica staliniana del progresso si scontrava con la realtà della vita contadina ucraina e russa.

A mano a mano che penetravano nelle campagne, i treni diventavano più lenti: non tutti i dirigenti provinciali delle ferrovie erano entusiasti dei nuovi militanti provenienti dalle città. In Ucraina essi parlavano per lo più russo, che venissero dalla Russia o da città ucraine, e, in entrambi i casi, ai contadini che parlavano ucraino sembravano degli stranieri. Quando arrivavano in capitali provinciali, i militanti trovavano a volte un’accoglienza ostile, il che non avrebbe dovuto sorprenderli. Agli occhi dei contadini, che si erano appena ripresi dalla penuria e dalla fame dell’estate del 1929, i nuovi arrivati dovevano sembrare indistinguibili dai soldati e militanti giunti nelle campagne ucraine, un decennio prima, per espropriarli del grano.

Il loro compito, inoltre, non era semplice. Inizialmente la collettivizzazione sarebbe dovuta essere volontaria. I militanti non avrebbero dovuto far altro che discutere e arringare e, in questo modo, convincere. Si tenevano assemblee di villaggio e gli agitatori andavano di casa in casa. Antonina Solov’ëva, militante urbana e membro del Komsomol negli Urali, avrebbe ricordato la campagna per la collettivizzazione con nostalgia:

L’obiettivo era convincere i singoli contadini a unirsi alla fattoria collettiva, assicurare loro che essa era pronta a iniziare la semina e, cosa più importante, scoprire dove e da chi il grano dello Stato veniva nascosto. … Passavamo lunghe serate attorno a un tavolino alla luce fioca e tremolante di una lampada a cherosene nella sede di una qualche fattoria collettiva, o accanto a una stufa ardente in una qualche casupola di contadini poveri.19

Ma se gli obiettivi potevano essere chiari, la linea di comando non lo era. Responsabili di mettere in atto la collettivizzazione erano, in misura diversa, gruppi differenti, fra cui i partiti comunisti locali, il Komsomol (l’organizzazione giovanile comunista), i Giovani pionieri (l’organizzazione dei bambini comunisti), i comitati dei contadini poveri rimasti, la Commissione centrale di controllo, l’Ispettorato degli operai e dei contadini, il Centro fattorie collettive (kolchozcentr), i sindacati e, naturalmente, la polizia segreta. Coinvolti nell’impresa erano anche altri funzionari statali, soprattutto insegnanti: gli educatori della nuova generazione.

Tutte queste autorità locali, che già accusavano il peso di catene di comando caotiche e priorità in conflitto, nutrivano sentimenti contrastanti nei confronti di quei giovani entusiasti senza alcuna esperienza di allevamento, agricoltura e nemmeno vita rurale, e quei giovani entusiasti provenienti dalle città nutrivano a loro volta sentimenti contrastanti verso le autorità locali. Molti documenti dell’epoca citano lamentele sui consigli di villaggio, accusati di ostacolare con la loro indolenza o in altri modi il lavoro dei volontari inviati da fuori. Non c’è dubbio che i consigli di villaggio fossero inefficienti, ma forse volevano anche proteggere i contadini dalle dure conseguenze di ordini impartiti da giovani forestieri fanatici.20

Quanto ai contadini, fossero o no classificati come kulak, essi erano ancora meno entusiasti di quei militanti urbani. Lo storico orale William Noll, che condusse interviste in Ucraina negli anni Ottanta, scoprì che a livello popolare il ricordo dei «venticinquemila» era ancora vivissimo. Come nella descrizione di Dolot, essi erano ricordati per la loro incompetenza: usavano sementi non adatte per certi terreni, davano consigli sbagliati, non sapevano nulla della campagna.21 Inoltre erano ricordati come stranieri, russi o ebrei. Oleksandr Hončarenko, che all’epoca era poco più di un ragazzo, avrebbe in seguito detto che i «venticinquemila» erano «tutti russi», anche se si sbagliava, perché molti di quelli da lui menzionati venivano da città ucraine. Egli ricordava, inoltre, che nel suo villaggio, nella provincia di Čerkasy, il capo della brigata era stato immediatamente respinto: «Era venuto a convincere i contadini di come la vita sotto i Soviet fosse meravigliosa. Ma chi lo ascoltava? Nessuno. Quel bugiardo andava da un capo all’altro del villaggio, ma nessuno voleva avere niente a che fare con lui».22

Ovviamente, i militanti provenienti dalle città non erano impopolari solo perché apparivano «stranieri», ma perché a essere impopolare, e profondamente, come vedremo nel prossimo capitolo, era la loro politica. Se un piccolo numero di contadini finì, come Kopelev, per simpatizzare con le loro idee, la maggior parte ebbe la reazione contraria. L’ostinata opposizione dei contadini rese i militanti, se possibile, ancor più rabbiosi, più inclini alla violenza e più convinti della giustezza della loro causa. Nel gennaio 1930 Genrich Jagoda, allora vicedirettore della polizia segreta, disse ai suoi ufficiali superiori che la resistenza sarebbe stata feroce. Il kulak «capisce perfettamente che con la collettivizzazione per lui sarà finita e la sua resistenza si fa quindi sempre più brutale e feroce, come già vediamo, [andando] da complotti insurrezionali e organizzazioni controrivoluzionarie a incendi e terrorismo».23

Questa idea finì per circolare anche nei villaggi, dove gli emissari della classe operaia iniziarono a vedere nell’ostilità dei contadini le «tendenze controrivoluzionarie kulak» che erano stati avvertiti di doversi aspettare. Gran parte della crudeltà cui si sarebbe assistito può essere spiegata da questo scontro tra ciò che i militanti provenienti dalle città volevano e la ben diversa realtà che essi trovarono nelle campagne.

Quei militanti, inoltre, dovevano dare prova di se stessi e della loro lealtà. «Il vostro compito» disse un comunista del luogo ad Antonina Solov’ëva «è impegnarvi nel lavoro di agitazione fra i giovani del villaggio … e scoprire dove i kulak nascondono il grano e chi danneggia i macchinari agricoli.» Inoltre, «dovrete parlare con questa gente spiegando le politiche del partito e la collettivizzazione». Solov’ëva, allora giovane studentessa, ebbe un momento di dubbio: «Era un compito enorme; ne eravamo all’altezza? Non sapevamo nulla di quelle cose; non sapevamo come iniziare». Decisa a dare prova di se stessa – «non c’era tempo da perdere» – non aveva nessun incentivo a essere gentile.24

Non c’è dubbio che la campagna per la collettivizzazione fu ordinata da Mosca, imposta «dall’alto», e che era la politica personale di Stalin, delineata per la prima volta durante il suo viaggio in Siberia alla fine del 1928. Come non c’è dubbio che la collettivizzazione fu inizialmente portata nelle campagne da forestieri provenienti dalle città culturalmente estranei ai contadini e, nel caso dell’Ucraina, estranei anche per la lingua e, spesso, per l’etnia. Ma la campagna per la collettivizzazione non mancò di trovare qualche sostenitore sia tra i funzionari locali sia tra i contadini. Come subito dopo la rivoluzione Aleksandr Šlichter aveva messo i poveri dei villaggi contro i ricchi, i bolscevichi cercarono di privilegiare un gruppo di contadini e indurli a sfruttare i loro vicini per il bene dello Stato.

Non appena arrivati, gli agitatori provenienti da fuori iniziavano a identificare e promuovere un gruppo di collaboratori locali. Paša Angelina, destinata a diventare una celebre «lavoratrice d’assalto» e una delle prime trattoriste donne dell’URSS, scrisse una memoria estremamente politicizzata sulla collettivizzazione a Starobeševe, il suo villaggio nella provincia di Donec’k. Il testo è notevole per il suo rigido conformarsi al modello del realismo socialista – è un racconto prevedibile del trionfo del Partito comunista su tutti gli ostacoli – oltre che per il vero e proprio odio che la sua prosa stereotipata evoca. Anche se al riguardo Angelina fornisce pochi dettagli, lei e la sua famiglia avevano svolto un ruolo attivo nel costringere i loro vicini a aderire alle nuove fattorie collettive: «Erano giorni difficili, pieni di tensione e feroce lotta di classe. Fu solo dopo avere sconfitto i kulak e averli scacciati dalla terra che noi, i poveri, ci sentimmo veramente al potere». Né lei né i suoi genitori e fratelli provavano alcun rimorso:

Ci scagliammo contro i «kurkul», forti e spietati nel loro odio per tutto ciò che era nuovo. … La nostra famiglia, e tante famiglie come la nostra, lavoravano per i kulak da molte generazioni. Ci rendevamo conto che era impossibile per noi vivere sulla stessa terra di quei succhiasangue. I kulak si frapponevano tra noi e la buona vita e nessun tentativo di persuasione, per quanto insistente, nessuna costrizione o tassazione ordinaria era sufficiente a far sì che si togliessero di mezzo. Ancora una volta, il partito capì le nostre esigenze e ci mostrò la soluzione. Attraverso il compagno Stalin, il partito ci disse: «Passare dal porre limiti ai kulak all’eliminazione dei kulak come classe».25

Lei e i suoi fratelli e sorelle non erano soli. Un rapporto della polizia segreta ucraina del febbraio 1930 descrisse con accenti entusiastici le folle di contadini poveri e contadini cosiddetti «medi», in realtà semplicemente un po’ meno poveri, che, in qualche villaggio, si radunavano con «bandiere rosse e canti rivoluzionari» per sovrintendere alla collettivizzazione.26 Alcuni di questi militanti locali erano ex membri dei comitati dei contadini poveri, esattamente le stesse persone che avevano guidato le campagne per la requisizione del grano nel 1918-1920, e sentivano la stessa lealtà verso il sistema sovietico. Matvij Havryljuk, già in servizio attivo nelle requisizioni del 1921 nonostante che i kulak avessero minacciato «di uccidere me e la mia famiglia», colse al volo l’occasione per unirsi di nuovo alla lotta: «Per tutto il 1930 feci l’agitatore, partecipai alle brigate. Giunsi persino a scoprire i kulak che cercavano di sottrarsi alla dekulakizzazione nascondendosi nei boschi. Li portai personalmente davanti alla giustizia».27

Altri cercarono di sfruttare la nuova situazione rivoluzionaria per migliorare la propria condizione. Come dovette riconoscere lo stesso OGPU, molti «contadini poveri» erano in realtà «elementi criminali» che avevano trovato un modo per trarre profitto dalle disgrazie dei loro vicini.28 Sergo Ordžonikidze, dirigente dell’OGPU che in quel periodo faceva la spola fra l’Ucraina e Mosca, era preoccupato che le autorità si fidassero troppo di persone senza un passato di militanti né esperienza: «Prendiamo un membro del Komsomol, vi aggiungiamo due o tre contadini poveri e lo chiamiamo “aktiv”, e questo aktiv guida gli affari del villaggio».29

Come i «venticinquemila», alcuni di questi collaboratori locali erano attratti dall’ideologia bolscevica. Credevano alle promesse di una «vita migliore», un’espressione che per alcuni significava probabilmente lo stomaco pieno e per altri qualcosa di più mistico, e pensavano che liquidare i «nemici» del partito avrebbe potuto far arrivare quella vita migliore più in fretta. Come nel 1918, la collettivizzazione avrebbe finito per contribuire a creare una nuova élite rurale, sicura del proprio diritto al predominio. I militanti sostenevano, e avrebbero continuato a sostenere anche anni dopo, che, nonostante l’opposizione con cui si scontrava, la collettivizzazione serviva «al bene maggiore».30 Molti, anche se non tutti, sarebbero stati ricompensati con posti di lavoro e migliori razioni. Il rafforzamento di questa nuova élite contribuì inoltre, a sua volta, a intimidire ulteriormente gli avversari della collettivizzazione. Un rapporto dell’OGPU dall’Ucraina del marzo 1930 riferì con soddisfazione che «l’attività delle masse nei villaggi è stata così intensa che per tutto il periodo dell’operazione non c’è stato alcun bisogno di chiamare le forze armate». Grazie all’«entusiasmo» e all’«attività» dei volontari locali, gli avversari della collettivizzazione si erano sentiti abbandonati e soli, il che, secondo l’OGPU, aveva tolto ogni incentivo alla resistenza e demoralizzato quanti erano stati arrestati.31

Dai documenti di cui disponiamo, sapere quanto di questo «entusiasmo e attività» fosse autentico è impossibile. Le memorie esistenti fanno pensare che molti di coloro che si unirono alle brigate per la collettivizzazione, forse addirittura la maggioranza, non fossero né degli entusiasti, né dei cinici, né dei criminali, ma avessero semplicemente paura: sapevano di non avere alternative. Avevano paura di subire torti o venire malmenati, di essere ridotti alla fame, di essere definiti essi stessi «kulak» o nemici. Ai membri del Komsomol veniva ordinato di aderire alle brigate, ed è possibile che essi fossero convinti di non poter rifiutare.32 Uno di loro avrebbe in seguito ricordato: «Una volta a tutti gli studenti e insegnanti che erano membri del Komsomol e del partito fu ordinato di circondare uno dei villaggi per evitare che qualcuno scappasse mentre [i furgoni della polizia segreta] portavano i contadini fuori dal villaggio per caricarli sui carri merci dei treni che li aspettavano per deportarli».33 Un insegnante ricordava che «tutti gli insegnanti erano considerati collaboratori alla socializzazione del villaggio, cosicché venivamo automaticamente reclutati come militanti con il compito di indurre la gente a aderire alle fattorie collettive». Chi rifiutava rischiava di perdere la sua proprietà o essere trasferito in un altro villaggio.34

Per i loro avversari, questi collaboratori erano «fannulloni perdigiorno» o «ladri» che speravano di trarre profitto dalle disgrazie altrui.35 Ma molti aguzzini locali dovevano essere terrorizzati e traumatizzati non meno delle loro vittime, intimiditi dallo stesso clima di violenza e dalle stesse minacce. E, quando la carestia sarebbe scoppiata, alcuni di essi sarebbero diventati a loro volta vittime.

Una mattina di gennaio 1930, non molto tempo dopo l’arrivo dei «venticinquemila» nel villaggio di Dolot, i contadini si svegliarono scoprendo che diversi dei loro concittadini più in vista – un insegnante, un impiegato, il proprietario di un negozio e alcuni agricoltori relativamente ricchi, tutti fra i membri più rispettati della comunità – erano stati arrestati. Subito dopo le mogli degli uomini fermati furono cacciate insieme ai figli dalle loro case. Mentre l’afferravano, una di esse, moglie di un agricoltore noto come Zio Tymiš, cercò di reagire:

Lottava e tirava loro i capelli. Infine fu trascinata fuori di casa e gettata sulla slitta. Mentre due uomini la tenevano ferma, furono portati fuori i bambini. Qualche loro avere venne buttato sulla slitta, che partì. Ancora tenuta stretta dai due ufficiali, la moglie di Zio Tymiš, piangendo e gridando, scomparve insieme ai suoi figli nella foschia invernale.36

Nel giro di pochi giorni dalla deportazione di questo prospero agricoltore e di sua moglie – se in Siberia o in un’altra zona dell’Ucraina nessuno lo seppe mai – gli uomini di Mosca occuparono la casa di Zio Tymiš e l’adibirono a ufficio del distretto.

Ciò di cui Dolot era stato testimone era l’inizio della «dekulakizzazione», brutto termine burocratico che sintetizzava il concetto di «liquidazione dei kulak come classe».37 Ma chi era un kulak? Come si è già osservato, questo termine non era tradizionale ovunque in URSS, e certamente non lo era in Ucraina. Benché diffusamente usato nei quotidiani, dagli agitatori e da autorità d’ogni genere fin dalla caduta dello zar Nicola II, il suo significato era sempre stato vago e mal definito. Nelle sue memorie della rivoluzione russa Ekaterina Olickaja avrebbe scritto che all’epoca della guerra civile

fra i kulak venivano compresi tutti gli scontenti, nonché famiglie contadine che non si erano mai servite di lavoratori salariati. Se una famiglia aveva due mucche, una mucca e un vitello o un paio di cavalli, già la si considerava appartenente ai kulak. Nei villaggi i cui contadini si rifiutavano di consegnare le scorte di grano e non denunciavano i kulak, venivano inviati reparti di punizione. E i contadini sceglievano essi stessi nelle loro assemblee chi dovesse esser denunciato come kulak. Ciò allora mi sconvolse, ma i contadini spiegavano la cosa in questo modo: «C’è l’ordine di denunciare i kulak, non ci possiamo far nulla». … Di solito la scelta cadeva su chi non aveva figli, sugli scapoli, in modo che i bambini non avessero a soffrirne.38

Nel 1929, esattamente come nel 1919, il concetto di contadino «ricco» era relativo. In un villaggio povero, essere «ricco» poteva significare possedere due maiali anziché uno solo. Poteva essere «ricco» anche un contadino che ispirava antipatia o invidia ai suoi vicini, o che si era fatto dei nemici fra i capi o i comunisti del villaggio.

Quando la richiesta dello Stato di «liquidare i kulak come classe» divenne una priorità, le autorità ucraine sentirono il bisogno di trovare una definizione migliore del termine. Nell’agosto 1929 il Consiglio dei commissari del popolo ucraino emanò un decreto che spiegava quali «sintomi» permettessero di qualificare una fattoria come proprietà di kulak: l’impiego regolare di manodopera salariata; la presenza di un mulino, una conceria, una fabbrica di mattoni o altri piccoli impianti «industriali»; la regolare cessione in affitto di edifici o attrezzi agricoli. Anche ogni fattoria i cui proprietari o amministratori praticassero il commercio, l’usura, o qualunque altra attività che producesse «reddito non da lavoro» era certamente diretta da kulak.39

Nel corso del tempo, tale definizione economica avrebbe conosciuto un’evoluzione. Nella necessità di spiegare come fosse possibile che gente che non impiegava manodopera salariata né dava in affitto alcunché potesse tuttavia opporsi alla collettivizzazione, le autorità inventarono un nuovo termine. I podkulačniki, «sottokulak», o, in una traduzione forse migliore, «agenti di kulak», erano contadini poveri in qualche modo sotto l’influenza di un parente, datore di lavoro, vicino di casa o amico kulak. I podkulačniki potevano essere poveri che avevano avuto genitori più ricchi ed ereditato quindi, per così dire, qualcosa dell’essenza kulak. In alternativa, potevano essere stati in qualche modo ingannati o fuorviati e indotti così a opporsi ai bolscevichi e non potevano essere rieducati.40

Altri contadini poveri divenivano kulak semplicemente perché rifiutavano di aderire a una fattoria collettiva. Nel villaggio bielorusso di Bol’šoe Bykovo un membro del partito in visita organizzò una riunione di donne, e Maurice Hindus lo udì arringarle sui cosiddetti benefici dell’adesione a una fattoria collettiva: «Non avrebbero quasi più dovuto preoccuparsi dei loro bambini appena nati, dichiarò, perché li avrebbero accuditi asili nido ben attrezzati. Non avrebbero più dovuto brigare attorno alla stufa perché di tutti i pasti si sarebbero occupate le cucine della comunità».

La risposta a questa tirata fu il silenzio, e poi una «babele di urla». Infine, una donna si mise a inveire: «Qui vedo solo dei maiali, mi sa che mi conviene tornarmene a casa». Un agitatore del posto insorse: «Che cosa dobbiamo vedere, che cosa dobbiamo sentire? Una delle nostre cittadine, una donna povera, ma con qualcosa di decisamente kulak in testa, ci ha appena chiamati maiali!». In altre parole, non era la ricchezza a qualificare quella donna come «kulak» – o meglio come una persona con «qualcosa di decisamente kulak in testa» – ma la sua opposizione alla collettivizzazione.41

La definizione di «kulak», infinitamente adattabile, sembrava suscettibile di ampliarsi con la massima facilità per includere i membri dei gruppi etnici minoritari che vivevano in URSS, fra cui polacchi e tedeschi, presenti entrambi in modo significativo in Ucraina. Nel 1929-1930 molti funzionari ucraini erano convinti che tutti i loro connazionali di etnia tedesca, che risiedevano nel paese dal XVIII secolo, dovessero essere classificati come kulak. Di fatto essi furono dekulakizzati e deportati in una percentuale circa tre volte superiore a quella degli ucraini autoctoni, e spesso erano oggetto di speciali angherie. «Voi insetti infestanti vi siete intrufolati dappertutto nella nostra terra» disse il capo di una fattoria collettiva a un gruppo di abitanti del villaggio di etnia tedesca. «Nessun Dio farà cadere la manna dal cielo per aiutarvi, e da nessuna parte qualcuno ascolterà i vostri miserabili lamenti.»42 Gli ebrei, invece, venivano molto raramente definiti kulak. Se molti di loro furono arrestati come speculatori, ben pochi possedevano terre: l’impero russo aveva limitato la loro possibilità di avere proprietà.

Inizialmente alcuni membri dell’OGPU provarono disagio per la rapidità con cui la definizione di «kulak» si evolveva. In un messaggio a Stalin del marzo 1930, Jagoda scrisse di temere che stessero cadendo in quella categoria «contadini di medio reddito, contadini poveri e persino braccianti e operai». Lo stesso avveniva a ex «partigiani rossi» e a famiglie di soldati dell’Armata rossa. Nella provincia del Volga l’elenco dei «kulak irriducibili» includeva «contadini medi e poveri». In Ucraina, lamentava Jagoda, contadini poveri venivano classificati come kulak solo perché erano dei «chiacchieroni» o dei piantagrane. Nella provincia della Terra nera centrale, uno dei distretti amministrativi russi a nord dell’Ucraina, si scoprirono nella lista dei kulak tre contadini poveri e un lavoratore a giornata, figlio caduto in rovina di un mercante.43

Eppure, responsabile del rapido ampliarsi della definizione di kulak era l’OGPU stesso: il numero di persone classificate come kulak continuava ad aumentare, in gran parte perché Mosca diceva che doveva aumentare. Gli ordini di liquidare i kulak giungevano accompagnati da numeri ed elenchi: quanti dovevano essere allontanati, quanti esiliati, quanti mandati nei campi di concentramento da poco in espansione del Gulag, quanti trasferiti in altri villaggi. La responsabilità di soddisfare le quote era dei poliziotti sul campo, che fossero in grado di identificare dei kulak o no. Se non riuscivano a trovarne, dovevano crearli.

Come i pianificatori centrali della stessa epoca, l’OGPU era estremamente ambizioso. Di tutte le regioni produttrici di cereali dell’URSS, l’Ucraina avrebbe dovuto fornire la maggior parte di kulak: 15.000 dei più «irriducibili e attivi» dovevano essere arrestati, 30-35.000 famiglie di kulak dovevano andare in esilio, e 50.000 kulak dovevano essere deportati nel Krai settentrionale, la regione russa del Nord dove si trova Archangel’sk, sul mar Bianco. Per la Bielorussia, invece, i numeri erano rispettivamente 4000-5000, 6000-7000 e 12.000. Nella provincia della Terra nera centrale vennero arrestati fra i 3000 e i 5000 kulak, fra i 10.000 e i 25.000 sarebbero stati esiliati e 20.000 sarebbero stati deportati. Può darsi che gli alti numeri dell’Ucraina riflettessero la sua più alta percentuale di contadini, ma non è escluso che riflettessero anche l’idea di Mosca che i contadini ucraini continuassero a rappresentare la maggiore minaccia politica.44

La necessità di soddisfare queste quote elevate fece inoltre sì che la retorica antikulak tendesse a diventare nel tempo sempre più accesa, non il contrario. Già nel gennaio 1930 un agente dell’OGPU usò, per definire quanti si opponevano alla collettivizzazione, il termine «kulak-banditi-guardie bianche», stigmatizzando così i kulak non solo come nemici di classe, ma come nemici della nazione – agenti della «Guardia bianca» – e criminali.45 Il linguaggio si fece rapidamente più estremo anche sul campo. Nel villaggio di Dolot un’assemblea obbligatoria terminò nel caos quando gli abitanti si rifiutarono di aderire alla fattoria collettiva. Il «propagandista» della brigata li sollecitò, ma nessuno rispose:

«Avanti! È tardi» ci esortò. «Più presto firmate, più presto andate a casa.» Nessuno si mosse. Tutti restavano seduti in silenzio. Il presidente, sorpreso e nervoso, sussurrò qualcosa all’orecchio del propagandista. … Continuammo a stare in silenzio. Questo irritò i funzionari, specialmente il presidente. Un istante dopo che il propagandista ebbe terminato il suo ammonimento, il presidente si precipitò da dietro il tavolo, afferrò il primo uomo che si trovò davanti e lo scosse violentemente. «Tu… tu, nemico del popolo!» gridò, la voce strozzata dall’ira. «Che cosa aspetti? Forse Petljura?»46

Il subitaneo richiamo a «Petljura», un nome che riportava alla mente la rivolta antisovietica, non fu, ancora una volta, accidentale: per gli agitatori, chiunque non aderisse alle fattorie collettive doveva per definizione essere schierato con la controrivoluzione, con il movimento nazionale ucraino sconfitto o con qualcuno dei tanti «nemici» del regime sovietico.

Non si trattava di semplici insulti. A mano a mano che la dekulakizzazione entrò nel vivo, questo linguaggio aggressivo iniziò ad avere conseguenze pratiche: una volta definito un «kulak», un contadino diventava automaticamente un traditore, un nemico e un non-cittadino. Perdeva i suoi diritti di proprietà, lo status giuridico, la casa e il posto di lavoro. I suoi beni non gli appartenevano più, e spesso ne veniva espropriato. L’aktiv, in combutta con agitatori e polizia, poteva impunemente confiscare ai kulak, e lo faceva, case, attrezzi e bestiame.

In linea di massima, a beneficiare di questi furti di massa erano le nuove fattorie collettive. Un rapporto inviato nel febbraio 1930 alle autorità dal Centro fattorie collettive parlava con soddisfazione dei «metodi decisi» impiegati da quanti erano impegnati nella battaglia contro gli agricoltori ricchi: «Confisca delle proprietà dei kulak … mezzi di produzione, attrezzi, bestiame e foraggio. Le case dei kulak vengono usate per le organizzazioni della comune o come alloggi per gli operai agricoli».47

In pratica, la dekulakizzazione non tardò a diventare un saccheggio. Alcune proprietà di kulak furono confiscate e vendute in aste improvvisate. Vestiti e suppellettili venivano ammucchiati su carri nelle piazze dei villaggi, e i contadini invitati a fare offerte per i beni dei loro vicini:

Ricordo la scena chiaramente, come se stesse avvenendo oggi davanti a me: una ragazza, membro del Komsomol, è in piedi davanti al soviet del villaggio e dirige un’«asta». Tira su dalla pila dei beni confiscati a dei «kulak» qualche povero capo d’abbigliamento, lo sventola in aria e chiede: «Chi fa un’offerta per questa cosa qui?».48

Molti beni venivano semplicemente rubati. In un villaggio nei pressi di Charkiv furono «dekulakizzate» dodici fattorie. Il giorno fissato una folla di quattrocento contadini marciò su di esse sventolando bandiere rosse, dopodiché le casupole vennero abbattute e ognuno si prese quello che voleva. Uno dei capi tolse il cappello di testa a un kulak, gli sfilò il cappotto, li indossò entrambi e si allontanò.49 In un altro villaggio la fattoria collettiva e il suo capo si divisero tutti i beni confiscati.50 Alcuni, in un altro accenno al passato, chiamarono questa forma di furto «comunismo di guerra».51

A volte l’espropriazione era rapida e violenta. Nella provincia di Černihiv la brigata locale gettò una famiglia contadina fuori casa nel cuore dell’inverno. Tutti i suoi membri furono spogliati per strada e portati in un edificio non riscaldato che, si sentirono dire, sarebbe stata la loro nuova casa.52 Nel distretto di Bereznehuvate una bambina di dodici anni fu lasciata con indosso solo una camicetta. Un neonato fu spogliato e gettato per strada insieme a sua madre. Una brigata di militanti tolse a un’adolescente anche la biancheria intima e la lasciò nuda in mezzo alla strada.53

In altri casi la dekulakizzazione si trascinò per molti mesi. Quando un contadino si rifiutò di aderire alla fattoria collettiva locale, le autorità gliela fecero pagare: «Ci tassarono sempre di più. Si portarono via la mucca, e tuttavia ci imposero tasse sul burro, il formaggio e il latte, che non avevamo più!». Quando la famiglia non ebbe più niente da dare, arrivarono i capi della brigata e si portarono via tutto ciò che era rimasto:

Iniziarono a sfondare i contenitori del grano, dove tenevamo le sementi. Arrivavano sui loro carri trainati da cavalli e li caricavano di tutto quello che trovavano. Dopo le sementi iniziarono a prendersi i vestiti. La confisca avvenne per stadi … Si presero tutti i nostri abiti invernali, i cappotti di pelle di pecora e i mantelli, oltre ad altri capi d’abbigliamento. Poi iniziarono a toglierci i vestiti di dosso.

Infine, in inverno, l’aktiv locale gettò la famiglia fuori casa, mandò in esilio il padre e divise i bambini fra i parenti.54

In qualche caso l’espropriazione fu condotta tramite una pesante tassazione retroattiva. Un contadino donò il suo bestiame alla fattoria collettiva, vi lavorò per un anno, ma poi cercò di riprendersi le mucche: i suoi figli soffrivano la fame e aveva bisogno di latte. Gli fu concesso, ma il giorno dopo gli venne chiesto di pagare le pesanti tasse imposte ai contadini «individuali». Per farlo dovette vendere una mucca, due capre e qualche vestito. Ma le tasse continuarono ad aumentare, finché la famiglia dovette vendere la propria casa e trasferirsi in una stalla, dove dormiva sul fieno. Infine scapparono, confondendosi nel paesaggio urbano di Leningrado.55

Con il procedere della collettivizzazione, anche la campagna di propaganda assunse nuove forme. Dove gli sforzi sembravano rallentare, faceva occasionali comparse l’Armata rossa. I soldati marciavano per le strade, conducevano esercitazioni, sparavano in aria. Reparti di cavalleria passavano per le vie del villaggio al galoppo. A volte facevano la loro comparsa anche squadre urbane di agitprop, «qualche centinaio di persone provenienti dalle città vicine [che marciavano] ordinatamente in colonne … comuni operai delle fabbriche, studenti, impiegati». Erano lì a dimostrare il sostegno delle città alla collettivizzazione, e portavano con sé filmati di propaganda, spettacoli teatrali improvvisati e «un chiasso che non lasciava tregua».56 Benché apparentemente intesa a mostrare la solidarietà fra città e campagna, la loro presenza sottolineava anche l’inutilità del dissenso. I contadini dovevano capire che la classe operaia urbana sosteneva la collettivizzazione, e che il dissenso non gli avrebbe conquistato alleati.

Sotto pressione perché le quote venissero soddisfatte, ispirate e terrorizzate dalla macchina della propaganda, le brigate per la collettivizzazione ricorrevano talvolta all’esplicita intimidazione e alla tortura. Sia in memorie sia in documenti d’archivio si trovano numerosi esempi di un’opera di «persuasione» condotta tramite minacce, angherie e violenze fisiche. In un villaggio russo una brigata stuprò due donne kulak e costrinse un vecchio a ballare e cantare prima di malmenarlo. In un altro villaggio russo un vecchio fu obbligato a spogliarsi, togliersi gli stivali e marciare per la stanza, finché svenne. Un rapporto dell’OGPU riferì di altre forme di tortura: «Nel villaggio di Novooleksandrivka il segretario della cellula del Komsomol Erohin ha costretto un contadino medio a tirare l’estremità del cappio che gli era stato gettato attorno al collo. Mentre il contadino annaspava per la mancanza d’aria, il segretario lo scherniva dicendo: “Ecco un po’ d’acqua, bevi”».57

La figlia di un altro kulak della provincia di Poltava ricordava che suo padre era stato chiuso in un ripostiglio gelido e lasciato senza niente da mangiare e da bere. Per tre giorni aveva mangiato solo la neve che penetrava dalle crepe del muro. Il terzo giorno aveva accettato di aderire alla fattoria collettiva.58 Nella provincia di Sumy i capi della brigata locale stabilirono il loro quartier generale in una delle case del villaggio. Alcuni si sedettero in soggiorno, con una pistola posata sul tavolo di fronte a loro. Uno per uno, vennero fatti entrare i contadini riottosi e fu chiesto loro di aderire alla fattoria collettiva. A chi rifiutava veniva mostrata la pistola e, se questo non bastava, gli venivano scritte con il gesso sulla schiena le parole «perfido accaparratore del grano dello Stato» e veniva portato in una cella di isolamento in un altro villaggio.59

Molti atti di crudeltà furono commessi con grande cinismo. In un villaggio ucraino le brigate diedero fuoco alla casa di due sorelle rimaste da poco orfane. La maggiore andò a lavorare alla fattoria collettiva e, quando la più piccola si ammalò gravemente, le venne proibito di prendersene cura. Per nessuna delle due fu mostrata alcuna pietà. Anzi, i vicini andarono a frugare tra i resti carbonizzati della loro casa in cerca di legna da ardere e s’impadronirono dei loro beni sopravvissuti all’incendio.60

Tuttavia, le stesse circostanze estreme che crearono sentimenti di paura e odio, suscitarono a volte nelle persone coraggio, gentilezza e comprensione. Se ne accorse persino l’OGPU. Uno dei suoi funzionari osservò, con una certa preoccupazione, che «a causa della mancanza di un’opera di spiegazione di massa, alcuni contadini poveri e medi hanno trattato i kulak con simpatia o indifferenza e, in alcuni casi isolati, con pietà, aiutandoli per l’alloggio e fornendo loro assistenza fisica e materiale». In un villaggio, riferì l’OGPU, «cinquanta contadini poveri, senza opporre resistenza all’esproprio, hanno pianto insieme ai kulak, li hanno aiutati a portare via quello che avevano in casa e li hanno assistiti anche alloggiandoli».61

Dal punto di vista del funzionario, il fatto che quei contadini avessero «pianto insieme ai kulak» e li avessero invitati a casa loro dimostrava che l’«attività di comunicazione di massa», vale a dire la propaganda aggressiva, era fallita. Ma l’episodio dimostrava anche che persino in un clima di violenza e isteria alcune persone, in qualche luogo, riuscivano a conservare la propria umanità.

Una volta individuati come nemici e derubati dei loro averi, il destino dei kulak poteva prendere diverse strade. Alcuni venivano autorizzati a rimanere nel loro villaggio, ma dovevano lavorare i terreni peggiori e più inaccessibili. Se continuavano a rifiutarsi di aderire alla fattoria collettiva, spesso si vedevano confiscare attrezzi e bestiame. Erano chiamati con nomi quali odnoosibnyk, «singolo», che finirono per diventare insulti.62 Quando, più tardi, sarebbe dilagata la carestia, furono spesso i primi a morire.

Per allontanarli da amici e vicini di casa, ad alcuni kulak venivano assegnati appezzamenti di terreno in altre zone del paese, o magari nello stesso distretto ma distanti dalle loro vecchie fattorie e dove il terreno era peggiore. La famiglia di Henrich Pidvysoc’kyj fu mandata negli Urali: «Abbiamo vissuto lì una sola estate e passato quasi tutto l’autunno nel viaggio di ritorno a piedi».63 Sul finire del 1930 un ordine del governo ucraino prescrisse che i kulak fossero espropriati e trasferiti nelle zone «più lontane e meno confortevoli» della Repubblica.64

Per evitare questo destino molti scappavano. In qualche caso, vicini o funzionari locali li aiutavano a vendere i loro beni o, per rendere il loro viaggio meno disagevole, gliene restituivano di nascosto qualcuno.65 Chi ne aveva la possibilità si recava in qualche città. Fra il 1928 e il 1932 entrarono a far parte della forza lavoro industriale sovietica circa 10 milioni di contadini; molti, una parte considerevole, vi furono costretti o indotti dalla collettivizzazione e dalla dekulakizzazione.66 Se in alcune città, solo uno o due anni prima, la disoccupazione era stata un problema, le fabbriche che nel 1930 stentavano a realizzare gli obiettivi del piano quinquennale avevano ora un disperato bisogno di lavoratori e non si preoccupavano delle loro origini sociali quanto avrebbero dovuto.

Per i kulak provenienti dai villaggi dell’Ucraina la destinazione più ovvia era il distretto carbonifero e industriale del Donbas, nell’angolo sudorientale della Repubblica. Il Donbas era in rapida espansione, e aveva da tempo una reputazione da «selvaggio Est», terra di cosacchi e avventurieri. Nella Russia zarista aveva attirato servi della gleba in fuga, dissidenti religiosi, criminali e persone coinvolte nel mercato nero.67 Nel 1930 sembrava la meta ovvia per chiunque volesse nascondere le proprie origini «kulak». Oleksandr Hončarenko avrebbe più tardi ricordato di essere scampato all’arresto «nascondendosi» nel Donbas: «Tutti sapevano» avrebbe scritto «che nel Donbas non davano la caccia ai kulak». Secondo Hončarenko, la cosa era premeditata: le autorità sovietiche volevano che i bravi lavoratori entrassero nelle fabbriche e la «gentaglia» rimanesse nelle fattorie collettive.68 Anche più tardi, quando le leggi avrebbero richiesto ai contadini permessi di soggiorno, nel Donbas sarebbe rimasto a volte possibile violare le regole. Il lavoro nelle miniere e nell’industria pesante era faticoso e non privo di rischi, e le autorità erano disposte a chiudere un occhio sul passato degli addetti.69

Alcuni funzionari tenevano sott’occhio il fenomeno. Nella provincia di Mykolaïv le autorità registrarono la fuga di 172 famiglie di kulak e il loro arrivo nei centri industriali del Donbas, dove «vivono in appartamenti operai e conducono agitazione antisovietica fra i lavoratori». Nella provincia di Sumy centinaia di kulak furono considerati sospetti perché si erano «rifiutati» di seminare la loro terra, preferendo abbandonarla e andarsene, dopo aver resi inservibili, secondo chi li accusava, i loro macchinari agricoli.70

Ma la stragrande maggioranza dei kulak finiva molto più lontano. Fra il 1930 e il 1933, oltre 2 milioni di contadini furono esiliati in Siberia, nella Russia settentrionale, in Asia centrale e altre regioni sottopopolate dell’Unione Sovietica, dove vivevano da specpereselency, «deportati speciali», cui era proibito lasciare gli insediamenti loro destinati.71 La storia di questo grande movimento di persone è qualcosa di diverso dalla storia della collettivizzazione e della carestia, ma non è meno drammatica. Si trattò della prima di quelle che sarebbero state le diverse deportazioni di massa sovietiche degli anni Trenta e Quaranta, e della più caotica. Intere famiglie furono caricate su carri merci, trasportate per centinaia di chilometri, e spesso lasciate in campi aperti senza niente da mangiare e nessun tetto sotto cui ripararsi, perché il loro arrivo non era stato in alcun modo preparato. Altri vennero abbandonati in villaggi dell’Asia centrale dove stava ai diffidenti kazaki decidere se degnarsi di aiutarli o no. Molti morirono durante il viaggio, o nel corso del primo inverno, in insediamenti privi di qualunque accesso al mondo esterno.

Quasi ovunque le strutture erano primitive e i funzionari locali disorganizzati e negligenti. Nella regione di Archangel’sk, un prigioniero arrivò in quello che sarebbe infine diventato un campo di lavoro scoprendo che non c’erano «né baracche né un villaggio. C’erano tende, da un lato, per le guardie e le attrezzature. Non c’era molta gente, forse un millecinquecento persone. Per la maggior parte erano contadini di mezz’età, ex kulak. E criminali».72 Nel febbraio 1930 lo stesso Politburo discusse con urgenza dell’impreparazione della Siberia a ricevere un numero di deportati così elevato, per non parlare delle loro famiglie. L’OGPU, si decise, avrebbe diviso gli esuli in gruppi di non più di 60.000 unità familiari. A Ucraina, Bielorussia e alle altre regioni che contavano un numero elevato di kulak fu chiesto di coordinare le loro operazioni di conseguenza.73

Con il tempo, il gran numero di kulak deportati avrebbe contribuito alla rapida espansione del sistema sovietico di lavoro forzato, la catena di campi destinata a divenire nota come «Gulag». Fra il 1930 e il 1933 furono inviati direttamente nel Gulag almeno 100.000 kulak, e il sistema si sviluppò anche per ospitarli.74 In quel periodo il gruppo relativamente piccolo di campi «politici» delle isole Solovki si estese in tutto l’estremo nord e l’estremo est. Sotto la direzione dell’OGPU, il Gulag varò una serie di ambiziosi progetti industriali: il canale del mar Bianco, le miniere di carbone di Vorkuta, le miniere d’oro della Kolyma, tutte imprese rese possibili dall’improvvisa e abbondante disponibilità di lavoro forzato.75 In alcune regioni, al contrario, ambiziosi dirigenti locali cercarono di incrementare la disponibilità di lavoro forzato per ampliare i loro progetti industriali. Negli Urali i burocrati locali tentarono probabilmente di accrescere il numero di kulak proprio perché avevano bisogno di uomini che lavorassero nelle miniere di carbone e negli impianti metallurgici locali, tutti tenuti a soddisfare le assurde richieste del piano quinquennale.76

Con il tempo, i kulak sarebbero andati incontro alla stessa ampia varietà di destini degli altri prigionieri del Gulag e dei deportati. Alcuni sarebbero morti di fame, altri uccisi come «nemici» nel corso del Grande Terrore del 1937. Altri ancora sarebbero rimasti nelle città o nei centri industriali in cui erano stati deportati, integrandosi nella cultura della classe operaia sovietica. Alcuni sarebbero finiti nell’Armata rossa a combattere i nazisti. Qualcuno avrebbe riconosciuto che l’esilio l’aveva salvato dalla carestia del 1932-1933: negli anni Ottanta un contadino ucraino disse a uno storico orale che per lui era stata una fortuna la deportazione in Siberia, perché aveva potuto trasferirvi la famiglia quando il cibo aveva iniziato a scarseggiare.77

La maggior parte dei kulak non fece più ritorno nei loro villaggi. Rimasti in Siberia o nel Donbas, smisero di fare i contadini e finirono per fondersi con la classe operaia. Così la politica staliniana riuscì ad allontanare dalla campagna sovietica gli agricoltori più prosperi, più efficienti e più ribelli.

La dekulakizzazione fu il più spettacolare dei tanti strumenti utilizzati per imporre la rivoluzione nelle campagne. Ma essa fu accompagnata da un attacco ideologico non meno energico al «sistema» che si presumeva i kulak rappresentassero e cui le fattorie collettive avrebbero dovuto sostituirsi: la struttura economica del villaggio e il suo ordine sociale e morale, simboleggiato da chiese, sacerdoti e simboli religiosi d’ogni genere. La repressione religiosa in URSS ebbe inizio nel 1917 e proseguì fino al 1991, ma in Ucraina giunse a un violento apice durante la collettivizzazione. Non fu una coincidenza se il decreto sulla collettivizzazione del Politburo del gennaio 1930 ordinò anche che le chiese venissero chiuse e i sacerdoti arrestati: i leader sovietici sapevano che una rivoluzione nella struttura economica e di classe della campagna esigeva anche una rivoluzione nelle sue abitudini, nelle sue tradizioni e nella sua morale.

L’attacco alla religione fu parte della collettivizzazione fin dall’inizio. In tutta l’Ucraina, le stesse brigate che organizzavano la collettivizzazione ordinavano ai contadini di tirare giù le campane delle chiese e renderle inservibili, fondendole per recuperarne il metallo, di dare alle fiamme le proprietà delle chiese e fare a pezzi le icone.78 I sacerdoti venivano derisi e i luoghi sacri profanati. Oleksandr Hončarenko avrebbe descritto un agitatore che, «indossati i paramenti del sacerdote, afferrò un candelabro e iniziò a fare il pagliaccio per l’intera chiesa, calpestando l’iconostasi abbattuta».79 Molti testimoni oculari, fra cui alcuni delle province ucraine di Odessa, Čerkasy e Žytomyr, avrebbero serbato per anni il ricordo di queste profanazioni, specie delle campane messe a tacere.80 La moglie di un sacerdote, nata nella provincia di Poltava, raccontò l’assalto alla torre campanaria del suo villaggio: «Quando un uomo andò su a staccare la campana ed essa cadde a terra e rintoccò, tutti scoppiarono in lacrime. Tutti piangevano e dicevano addio alla campana, perché era l’ultima volta che avrebbe suonato».

Dopodiché l’aktiv fece a pezzi anche le icone della chiesa. Tempo dopo il marito di quella donna venne arrestato insieme a molti altri sacerdoti: «Lo portarono via e restammo soli; mio figlio non aveva più un padre».81 Altri sacerdoti furono cacciati dalle loro parrocchie. Molti vennero deportati insieme ai kulak o costretti a cambiare lavoro: si tolsero la tonaca e divennero braccianti o operai.82

Lo Stato accompagnò la distruzione dei simboli materiali della religione e la repressione dei sacerdoti con un’ondata di furiosa propaganda antireligiosa e attacchi ai riti della religione, oltre che a quelli della vita contadina in generale. Nelle scuole rurali e urbane, ai bambini veniva insegnato a non credere in Dio. Lo Stato mise al bando le feste tradizionali, come il Natale, la Pasqua e Ognissanti, nonché le funzioni domenicali, sostituendole con feste bolsceviche quali il Primo Maggio e l’anniversario della rivoluzione. Inoltre organizzava conferenze sull’ateismo e incontri antireligiosi. Tutto il tradizionale ciclo della vita contadina – battesimi, matrimoni, funerali – fu sconvolto. Al posto del matrimonio le autorità promossero l’«unione», che comportava una visita a un ufficio del registro anziché a una chiesa, e non era seguita da alcuna festa o celebrazione tradizionale.83

In un decennio andarono perdute anche tradizioni musicali. Una di esse vedeva i giovani riunirsi in casa di qualcuno dove, mentre le ragazze nubili aiutavano a cucire o ricamare, i ragazzi cantavano e suonavano. L’usanza di queste feste, dette dosvitky, «fino all’alba», gradualmente cessò, come cessarono i balli domenicali e altri incontri musicali informali. Ai giovani veniva detto di riunirsi nelle sedi del Komsomol, e nei villaggi i concerti formali rimpiazzarono quelli spontanei.84

Nello stesso tempo scomparve l’istituzione del kobzar, il tradizionale menestrello errante suonatore di bandura, prima presenza immancabile nella vita di villaggio in Ucraina, e la scomparsa dei banduristi fu così repentina che molti credettero che fossero stati arrestati in massa. Di questo non esiste alcuna prova documentale (anche se vi accennò Dmitrij Šostakovič nelle sue memorie), ma non è una cosa impensabile. Comunque, anche se non furono deliberatamente eliminati, i kobzari si sarebbero trovati nei guai con le leggi sul passaporto approvate nel 1932; in seguito la carestia ne avrebbe uccisi molti: non dovevano certo avere facile accesso alle tessere del razionamento. Inevitabilmente, essi dovettero anche attirare l’attenzione della polizia. Molti dei loro canti tradizionali narravano leggende cosacche e avevano connotazioni antirusse che, dopo la rivoluzione, erano divenute antisovietiche. Nel 1930 un vigile cittadino di Charkiv scrisse indignato a un quotidiano locale di aver sentito in un mercato un menestrello recitare dei distici in rima contro Lenin (e antisemiti) e intonare un canto antisovietico:

L’inverno chiede al Gelo

Se il kolchoz ha stivali

Non ci sono stivali, solo sandali,

Il kolchoz si svuoterà.85

Il canto (in rima in ucraino) doveva essere popolare, perché due etnografi registrarono un altro uomo, un kobzar cieco, mentre cantava gli stessi versi in un bazar di Kremenčuk. Quando alcuni poliziotti andarono ad arrestarlo, lui intonò un altro canto:

Oh vedete, brava gente,

Che mondo è arrivato:

Il poliziotto è diventato

Una guida per un cieco.86

L’ostilità ufficiale verso i kobzari e la bandura non poteva sorprendere: come i giullari di corte ai tempi di Shakespeare, essi avevano sempre espresso pensieri e idee poco accettabili, cantando a volte ciò che non si poteva dire. Nel clima infuocato della collettivizzazione, quando tutti erano in cerca di nemici, quella forma di umorismo, nonché la nostalgia e le emozioni che la musica popolare suscitava in Ucraina, era intollerabile. Un colonnello dell’Armata rossa se ne lamentò a Kiev con un collega:

Com’è che quando ascolto un concerto per pianoforte, un concerto per violino, un’orchestra sinfonica o un coro, ho sempre notato che il pubblico ascolta educatamente? Mentre quando ascoltano un coro femminile accompagnato dalla bandura, e si mettono a cantare dumy [ballate epiche], vedo lacrime sgorgare dagli occhi dei soldati dell’Armata rossa? Sapete, queste bandure hanno un’anima petljurista.87

La musica popolare ispirava un attaccamento emotivo all’Ucraina ed evocava ricordi della vita di villaggio. Non c’è da meravigliarsi che lo Stato sovietico volesse distruggere l’uno e gli altri.

L’attacco congiunto alle chiese e ai riti di villaggio aveva una giustificazione ideologica. I bolscevichi erano atei militanti, convinti che le chiese fossero parte integrante del vecchio regime. Inoltre erano rivoluzionari che volevano far scomparire persino il ricordo di un altro tipo di società. Le chiese, dove gli abitanti dei villaggi si erano riuniti per tanti decenni o secoli, rimanevano un potente simbolo del legame fra presente e passato. Nella maggior parte delle città russe e in molte ucraine i bolscevichi le avevano subito saccheggiate: fra il 1918 e il 1930 ne chiusero in tutta l’URSS oltre 10.000, trasformandole in magazzini, cinema, musei o garage.88 All’inizio degli anni Trenta, poche chiese cittadine erano ancora aperte come luoghi di culto. Che esse continuassero a esistere in tanti villaggi contribuiva a rendere i contadini sospetti agli occhi dei cittadini, specie agli agitatori che, provenienti dai centri urbani, si recavano nelle campagne per contribuire ad attuare la collettivizzazione.

Le chiese svolgevano anche una funzione di aggregazione sociale, soprattutto nei villaggi più poveri, assai carenti da questo punto di vista. Esse rappresentavano un luogo d’incontro fisico non controllato dallo Stato e, a volte, erano centri di opposizione a esso. Durante una serie di violente rivolte contadine nella provincia di Rjazan’, nei pressi di Mosca, le campane delle chiese erano servite a chiamare alle armi, avvertendo i contadini dell’arrivo degli uomini delle brigate e dei soldati mandati dalla capitale.89 Soprattutto, la chiesa costituiva un ombrello istituzionale sotto il quale la gente poteva organizzarsi a fini filantropici e sociali. Durante la carestia del 1921 i sacerdoti e le istituzioni ecclesiastiche ucraini avevano contribuito a organizzare gli aiuti per gli affamati.

Tolte di mezzo le chiese, nelle campagne non rimase alcun organismo indipendente capace di motivare o organizzare volontari.90 Il loro ruolo nella vita culturale e scolastica dei villaggi fu assunto da istituzioni statali sotto il controllo del Partito comunista: «case della cultura», uffici del registro, scuole sovietiche. Le chiese furono eliminate per impedire che divenissero focolai di opposizione, ma con la loro scomparsa vennero anche a mancare, quando la gente iniziò a morire di fame, le fonti di aiuto o conforto che esse avevano rappresentato.

Che i contadini fossero entrati volontariamente nelle fattorie collettive o vi fossero stati costretti, che avessero aderito o si fossero opposti alla campagna per la collettivizzazione, quest’ultima rappresentò un punto di non ritorno per tutta la popolazione rurale sovietica. Per gli abitanti dei villaggi che avevano partecipato ad atti di violenza fu difficile tornare al vecchio status quo. Amicizie e rapporti sociali di vecchia data erano stati distrutti da azioni imperdonabili. L’atteggiamento verso il villaggio, il lavoro e la vita cambiò per sempre. Petro Hryhorenko rimase sconvolto nello scoprire, durante un viaggio in campagna nel 1930, che i suoi vicini di casa, un tempo infaticabili lavoratori, avevano perso ogni interesse anche per il loro proprio raccolto:

Nel cuore della stagione della mietitura Archanhelka, enorme villaggio della steppa che contava più di duemila fattorie, era morto. Otto uomini manovravano una sola mietitrebbia per un turno di una giornata. Gli altri lavoratori, uomini, donne e giovani, sedevano qua e là o stavano distesi all’ombra. Quando cercai di avviare qualche conversazione, la gente mi rispose lentamente e con assoluta indifferenza. Se dicevo che il grano cadeva dagli steli e sarebbe andato perso, rispondevano: «Naturalmente, andrà perso». La loro sofferenza doveva essere stata terribile perché giungessero al punto di lasciare il grano nei campi.91

Cambiarono anche i rapporti familiari. I padri, privati delle loro proprietà, non potevano più lasciare la terra in eredità ai figli e persero autorità. Prima della collettivizzazione era estremamente raro che dei genitori abbandonassero i loro figli, ma, dopo, madri e padri iniziarono spesso ad andare a cercare lavoro in città, da cui tornavano sporadicamente o non tornavano più.92 Come altrove in URSS, ai bambini veniva chiesto di denunciare i genitori, e a scuola li s’interrogava su quanto avveniva a casa.93 Ebbero bruscamente termine nei villaggi anche le tradizioni di autogestione. Prima della collettivizzazione gli uomini del posto sceglievano i propri capi; dopo la collettivizzazione si continuarono a tenere farsesche «elezioni», con candidati che pronunciavano discorsi esortando i vicini a partecipare al grande progetto sovietico. Ma tutti sapevano che l’esito era predeterminato, garantito dall’onnipresenza della polizia.94

VI

RIVOLTA, 1930

Compagni! Mi appello a voi perché difendiate la vostra proprietà e la proprietà del popolo. Siate pronti per la prima e l’ultima chiamata. I fiumi e i mari si seccheranno e le acque scorreranno verso l’alto Kurgan e il sangue scorrerà nelle correnti e la terra si solleverà in neri vortici. … Mi appello a voi perché vi difendiate l’un l’altro, non andate nei kolchoz, non prestate fede ai chiacchieroni … Compagni, ricordate il passato, quando vivevate liberi, tutti vivevano bene, poveri e ricchi, ora tutti vivono miseramente.

Proclama anonimo, 19301

Se non avessimo immediatamente adottato misure contro le violazioni della linea di partito, avremmo avuto un’ampia ondata di sollevazioni insurrezionali contadine, buona parte dei nostri funzionari di basso rango sarebbe stata massacrata dai contadini.

Memorandum segreto del Comitato centrale, 19302

In soli pochi mesi, nell’inverno del 1929-1930, lo Stato sovietico portò a termine nelle campagne una seconda rivoluzione, a parere di molti più radicale e sconvolgente della stessa rivoluzione bolscevica. In tutta l’URSS dirigenti locali, agricoltori di successo, sacerdoti e anziani dei villaggi vennero deposti, espropriati, arrestati o deportati. Tutti gli abitanti di interi villaggi furono costretti a rinunciare alla loro terra, al loro bestiame e a volte alle loro case per aderire alle fattorie collettive. Si distrussero chiese e si fecero a pezzi icone e campane.

Il risultato fu un’immediata, massiccia resistenza, a volte caotica e spesso violenta. Ma, a rigore, non è corretto dire che la resistenza seguì la collettivizzazione: attività di resistenza di vario genere accompagnarono ogni fase della dekulakizzazione e collettivizzazione, dalle requisizioni di cereali del 1928 alle deportazioni del 1930, proseguendo per tutto il 1931 e il 1932, fino a quando la fame e la repressione resero ogni ulteriore sfida impossibile. Fin dall’inizio, la resistenza contribuì a informare il carattere della collettivizzazione: il rifiuto dei contadini a collaborare rese i giovani agitatori idealisti provenienti da fuori e i loro alleati locali sempre più furiosi, i loro metodi più duri e la loro violenza più estrema. Soprattutto in Ucraina, inoltre, la resistenza fece suonare campanelli d’allarme ai massimi livelli. A chiunque ricordasse la rivolta contadina del 1918-1919, quella del 1930 parve qualcosa di familiare e pericoloso.

La rivolta conobbe varie fasi, in cui assunse forme diverse. Anche il rifiuto iniziale di aderire alle fattorie collettive fu una forma di resistenza. Molti contadini ucraini non si fidavano dello Stato sovietico, contro cui avevano combattuto solo un decennio prima. Certe zone dell’Ucraina si stavano ancora riprendendo dalla carestia e dalla penuria alimentare del 1929; in assenza di qualunque tradizione di proprietà comune della terra, i contadini avevano una buona ragione per credere che i forestieri avrebbero peggiorato anziché migliorato le cose. In tutta l’URSS i contadini si sentivano attaccati alle loro mucche, ai loro cavalli e ai loro attrezzi, e non volevano cederli a una qualche entità incerta. Anche in Russia, dove una tradizione di proprietà comune della terra esisteva, essi diffidavano delle fattorie collettive, il cui futuro era nebuloso e la cui organizzazione era inedita. Lo Stato sovietico aveva già proposto prima di allora rapidi cambiamenti di politica e, a volte, li aveva applicati non meno rapidamente. Alcuni ricordavano che il caos degli anni della guerra civile aveva lasciato il posto alla più «ragionevole» Nuova politica economica, e presumevano che la collettivizzazione si sarebbe rivelata un’altra moda sovietica di breve durata e presto non se ne sarebbe più sentito parlare.

I contadini avevano inoltre ragione di temere che, anche se avessero acconsentito, la situazione sarebbe potuta peggiorare. Nel suo primo rapporto a Mosca per l’anno 1930 Vsevolod Balyc’kyj riferì che molti contadini di medio reddito, che non erano kulak ma nemmeno fra i più poveri, erano stati uditi dire che «dopo i kulak, dekulakizzeranno anche noi».3

Al rifiuto categorico, spesso seguiva subito l’azione. Ricevuto l’ordine di cedere il loro bestiame a fattorie collettive di cui non si fidavano, i contadini iniziarono a macellare mucche, maiali, pecore e persino cavalli, di cui mangiavano la carne o la salavano, la vendevano o la nascondevano: qualunque cosa per impedire che se ne impossessassero le fattorie collettive. In tutta l’Unione Sovietica, in tutti i distretti rurali, i macelli iniziarono all’improvviso a fare gli straordinari. Michail Šolochov descrisse una famosa scena di fantasia di una macellazione:

Appena annottava si sentivano qua e là brevi belati di pecora, oppure l’urlo lacerante, mortale, di un maiale o il muggito di una mucca. Tutti sgozzavano: gli iscritti al kolchoz e quelli che non vi erano iscritti. Macellavano i buoi, le pecore, i maiali, perfino le mucche; sgozzavano tutto il bestiame che era stato lasciato per far razza. … Nel villaggio i cani cominciarono a trascinare in giro budella e frattaglie, le cantine e le rimesse si riempirono di carne. … «Sgozzate, giacché non è più nostro!» «Sgozzate, tanto ve lo porteranno via per gli ammassi!» «Sgozzate, nel kolchoz non vi faranno più mangiar carne!»4

Questa più viscerale e immediata forma di resistenza proseguì per gran parte dell’anno seguente e oltre. Fra il 1928 e il 1933 il numero di capi di bestiame e cavalli diminuì in URSS di circa la metà. I maiali calarono da 26 a 12 milioni, pecore e capre da 146 a 50 milioni.5

Chi non macellò i propri animali, li difese fieramente. In un villaggio l’OGPU vide una folla tentare di malmenare un membro del Komsomol che stava cercando di portare via un cavallo. In un altro un gruppo di venti donne, armate di bastoni, fece irruzione in una fattoria collettiva per riprendersi i propri cavalli. In un altro ancora i contadini diedero alle fiamme una stalla piena di cavalli, preferendo vedere i loro animali morti piuttosto che confiscati.6 Dei contadini furono uditi dichiarare che era «meglio distruggere tutto» che lasciare che le autorità s’impossessassero di ciò che era loro.7

In qualche caso i contadini, pur di non consegnare i loro animali, li liberarono. Nel villaggio di Ekaterinovka, nel Caucaso settentrionale, un agricoltore lasciò la sua giumenta saura libera di vagare per le strade con al collo un cartello che diceva: «Prendete pure, chiunque vuole». Un rapporto su questo episodio parlò con indignazione del cavallo come di un «agitatore kulak»: la giumenta stava «girovagando per il villaggio già da due giorni, suscitando curiosità, risate e panico».8

Sia l’uccisione degli animali sia la resistenza alla loro confisca avevano motivi del tutto personali: i contadini avevano paura di perdere la loro ricchezza, il loro cibo, tutto il loro futuro. Ma le autorità videro nelle macellazioni atti puramente politici: un deliberato «sabotaggio» ispirato da idee controrivoluzionarie, e punivano i sabotatori di conseguenza. Un uomo che si rifiutò di consegnare la sua mucca alla fattoria collettiva e la uccise fu costretto a camminare per il villaggio con la testa della mucca appesa al collo. I capi della brigata locale volevano «mostrare a tutto il villaggio che cosa può succedere, che cosa tutti possono aspettarsi dopo».9 Più spesso, però, chi macellava il proprio bestiame era automaticamente definito, se non lo era già stato, un «kulak», con tutte le conseguenze del caso: perdita della proprietà, arresto, deportazione.

Non sorprende quindi che, quando a dover essere requisito era il grano da semina, le reazioni fossero dello stesso tipo. Il ricordo delle confische di cereali, della penuria e delle carestie del decennio precedente era ancora vivo. Una donna, all’epoca una ragazza, avrebbe ricordato che un giorno suo padre era tornato all’improvviso a casa e l’aveva chiusa dentro a chiave. Allora si era seduta alla finestra e aveva visto decine di persone, in maggioranza donne, correre attraverso il suo cortile verso la stazione ferroviaria. Non molto tempo dopo le aveva viste tornare indietro trascinando sacchi di grano. Più tardi il padre le aveva detto che quelli dei villaggi circostanti avevano preso d’assalto i depositi di grano della stazione ferroviaria della città, depositi che contenevano il loro grano, e avevano iniziato a svuotarli. Gli agenti delle forze di sicurezza locali non erano riusciti a impedire alla folla di entrare nell’area dei magazzini, ma poi erano arrivate da Poltava altre truppe. I «ladri» erano stati calpestati dai cavalli. Qualcuno era riuscito a scappare con un po’ di grano, ma i più erano rimasti a mani vuote.10 L’episodio non aveva nulla di eccezionale: in un rapporto su sedici distretti ucraini l’OGPU riferì che le sommosse seguite alla «collettivizzazione» del grano da semina avevano causato la morte di 35 «dei nostri», cioè poliziotti e autorità. Altri 37 erano rimasti feriti e 314 erano stati malmenati. Fra i rivoltosi, definiti dalla polizia «controrivoluzionari», i caduti erano stati 26.11

Ma se la polizia vedeva nei rivoltosi agenti politici e non gente disperatamente povera che aveva paura di morire di fame, era altrettanto vero che i rivoltosi vedevano nel governo una forza ostile, se non peggio. Per alcuni la politica della collettivizzazione aveva rappresentato il definitivo tradimento della rivoluzione, la prova che i bolscevichi volevano imporre una «seconda servitù della gleba» e governare come gli zar del XIX secolo. Nel 1919, paure simili avevano contribuito a ispirare i sentimenti antibolscevichi della rivolta contadina, sentimenti che ora venivano frequentemente espressi, tanto da giungere alle orecchie degli informatori dell’OGPU. Nel distretto russo della Terra nera centrale essi udirono un contadino dichiarare: «I comunisti ci hanno ingannato nella rivoluzione, tutta la terra era stata concessa liberamente e ora ci tolgono anche l’ultima mucca». Nella provincia del Medio Volga un altro osservò: «Loro mi hanno detto “rivoluzione”. Io non capivo ma adesso so che questa rivoluzione significa prendere tutto ai contadini e lasciarli affamati e nudi». In Ucraina un contadino disse: «Ci spingono nel kolchoz così saremo eternamente schiavi».12 Molti decenni dopo, Michail Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico e nipote di kulak, avrebbe definito le fattorie collettive una «servitù». Perché il loro ricordo come «seconda servitù della gleba» avesse avuto una vita così lunga, doveva essere profondamente radicato.13

Per alcuni, tuttavia, il regime divenne rapidamente ben più che un normale nemico terreno. In passato la paura dell’apocalisse e l’attesa della fine del mondo avevano periodicamente percorso le campagne russe e ucraine, dove sette religiose e pratiche magiche erano vive da secoli. La rivoluzione del 1917 generò un’altra ondata di mania religiosa. Per tutti gli anni Venti si susseguirono profezie di catastrofi, presagi e miracoli. Nella provincia di Voronež vi fu una massiccia affluenza di pellegrini per vedere degli alberi inaspettatamente fioriti: la loro «rigenerazione» era considerata un segno che un cambiamento era imminente.14 In Ucraina una folla si raccolse per vedere sulla strada per Charkiv un’icona deteriorata «tornare alla vita», riprendendo forme e colori.15

Nel 1929-1930 non mancarono i contadini sovietici che, sconvolti dagli attacchi a chiese e sacerdoti, si convinsero ancora una volta che l’Unione Sovietica era l’Anticristo e, quindi, gli amministratori delle fattorie collettive i suoi rappresentanti. C’erano sacerdoti che dicevano ai parrocchiani che l’Anticristo si stava prendendo tutto ciò che avevano da mangiare, o che l’Anticristo cercava di distruggerli.16 In linea con tali credenze, i contadini rifiutavano le fattorie collettive non solo per ragioni materiali o politiche, ma anche spirituali: temevano la dannazione eterna. Lo Stato stava attaccando la Chiesa; le preghiere di gruppo, i canti e le funzioni in chiesa divennero una forma di opposizione. Un funzionario locale annotò le parole di una contadina ucraina: «Se entrerete a far parte del kolchoz, sarete obbligati a lavorare di domenica, vi imprimeranno il marchio dell’Anticristo sulla fronte e sulle braccia. Il regno dell’Anticristo è già iniziato ed entrare nel kolchoz è un grave peccato. Di questo è scritto nella Bibbia».17 Lo stesso spirito animava i membri della minoranza cattolica in Ucraina: nel villaggio di etnia tedesca di Kandel il vescovo, Antonius Zerr, iniziò a offrire consigli e persino, sfidando le leggi antireligiose, a ordinare segretamente dei sacerdoti.18

Resi forti talvolta dalla fede, talvolta dalla rabbia per il furto dei loro beni, i contadini si fecero sempre più audaci. In risposta ai canti di propaganda sovietici che udivano in continuazione, con ritornelli tipo «I nostri pesi si son fatti più leggeri! La nostra vita è diventata più lieta!», oppure: «Ehi, il nostro raccolto non conosce limiti o misura. / Cresce, matura e addirittura trabocca sulla terra, / Sconfinato sui campi … Mentre i pionieri di pattuglia / Escono a guardia delle spighe che maturano»,19 iniziarono a scriverne di propri. Canti e poesie di resistenza passavano di villaggio in villaggio. Secondo un’abitante della provincia di Dnipropetrovs’k, a volte venivano stampati e rilegati in piccoli opuscoli.20 Della cultura della resistenza facevano parte anche i graffiti: un contadino ucraino avrebbe in seguito ricordato che sui muri delle case un giorno erano comparse scritte tipo «Abbasso Stalin», «Abbasso i comunisti». Erano state subito cancellate, ma il giorno dopo ricomparvero. Infine furono arrestati, come membri dell’«organizzazione» che le aveva tracciate, due uomini.21

La protesta prendeva anche la forma della fuga, non solo dalla campagna, ma dalla stessa Unione Sovietica. Già nel gennaio 1930, nella provincia di frontiera di Kam’janec’-Podil’s’kyj, furono catturati tre contadini che cercavano di attraversare il confine ucraino-polacco.22 Un mese dopo, un gruppo di quattrocento contadini provenienti da più villaggi marciò verso la frontiera gridando: «Non vogliamo i collettivi, andiamo in Polonia!». Lungo la strada aggredirono e malmenarono chiunque ostacolasse il loro cammino, finché furono fermati dalle guardie di frontiera. Il giorno successivo marciò verso il confine un’altra folla proveniente dagli stessi villaggi, gridando di voler chiedere aiuto ai polacchi. Anch’essa fu fermata dalle guardie, questa volta a soli quattrocento metri dalla frontiera. La polizia segreta registrò anche diversi tentativi di fare irruzione nei magazzini di grano vicini al confine. A ispirare i contadini che vivevano in prossimità della frontiera era stata, sembra, la vita «normale» dei loro vicini al di là di essa.23

Com’era inevitabile, a queste proteste spontanee, agli incontri nelle chiese e alle marce verso il confine seguirono episodi di violenza organizzata. In tutta l’Unione Sovietica, ma in numero significativamente maggiore in Ucraina, coloro che si rendevano conto di stare per perdere le loro proprietà e forse la vita presero la situazione nelle proprie mani. Negli archivi dell’OGPU si può leggere quanto accadde dopo.

Nella provincia di Sumy, tredici «kulak» presero le armi che avevano conservato dall’epoca della guerra civile, andarono nei boschi e divennero partigiani. Un altro ex partigiano, secondo un rapporto della polizia segreta, si diede a organizzare una banda armata nei pressi di Bila Cerkva, nella provincia di Kiev. Paša Angelina, la trattorista che aveva tanto goduto della rovina dei suoi vicini kulak, fece esperienza di questa resistenza violenta in prima persona:

Nell’estate del 1929, mentre mio fratello Kostja, mia sorella Lelija e io stavamo recandoci a piedi a un incontro del Komsomol nel vicino villaggio di Novobeševe, qualcuno ci sparò con un fucile a canne mozze. … Non dimenticherò mai come ci mettemmo a correre a piedi nudi nell’erba piena di spine, i cuori che battevano all’impazzata per la paura.24

La reazione dell’OGPU a questi primi «episodi terroristici» fu immediata. Il 6 febbraio 1930, solo pochi mesi dopo l’avvio ufficiale della collettivizzazione, avvenuto in novembre, la polizia segreta aveva già arrestato in tutta l’Unione Sovietica, per «attività controrivoluzionaria» nelle campagne, 15.985 persone. Per circa un terzo si trattava di ucraini. Fra il 12 e il 17 febbraio furono eseguiti in tutta l’URSS altri 18.000 arresti. Coloro che vennero incarcerati furono accusati di organizzare sollevazioni armate, «reclutare» ribelli fra i contadini poveri e medi, e persino di cercare di entrare in contatto con soldati dell’Armata rossa di origine contadina per renderli ostili al governo e convertirli alla causa kulak.25

Nessuna di queste notizie fu sufficiente a convincere Stalin ad abbandonare la collettivizzazione o a chiedersi se costringere i contadini a aderire a fattorie collettive che detestavano fosse davvero una buona idea. La situazione sembrava ancora sotto controllo. Tuttavia, quei primi rapporti lo preoccuparono abbastanza da indurlo ad abbassare il tono della retorica sulla collettivizzazione, con esiti imprevisti.

Vertigine dei successi: fu questo il titolo di un articolo scritto da Stalin e pubblicato sulla «Pravda» il 2 marzo 1930. È possibile che l’espressione fosse presa a prestito da Iosif Rejngold: il čekista era ricorso alle stesse identiche parole nel 1919 per fermare la sanguinosa repressione dei cosacchi del Don. Ma, che il titolo contenesse una qualche allusione del genere o no, Stalin non aveva certo in mente di fare dell’ironia. L’articolo iniziava con un lungo omaggio ai grandi successi della collettivizzazione. Essa non solo stava procedendo senza intoppi, ma molto meglio e molto più velocemente del previsto. L’URSS aveva già «superato più di due volte il piano quinquennale»: «Persino i nemici sono costretti a riconoscere l’esistenza di seri successi». Dopo solo un paio di settimane si era già compiuta una «radicale svolta della campagna verso il socialismo». I risultati erano stati così straordinari che, forse, era giunto il momento di rallentare il ritmo del cambiamento.

Anche grandi successi del genere avevano però «le loro ombre», ammoniva Stalin:

Simili successi alimentano talora la presunzione e la superbia. … non di rado inebriano la gente, e allora s’incomincia ad avere la vertigine dei successi, allora si perde il senso della misura, si perde la capacità di comprendere la realtà … si fanno tentativi temerari di risolvere «in quattro e quattr’otto» tutte le questioni dell’edificazione socialista. … Di qui il compito del partito: condurre una lotta decisa contro questi stati d’animo pericolosi e nocivi al lavoro costruttivo, e liberarne il partito.26

La politica di collettivizzazione, ricordava ipocritamente Stalin ai quadri del partito, si fondava «sulla volontarietà». Essa non doveva ricorrere alla forza. E non poteva progredire uniformemente: non tutte le regioni erano in grado di collettivizzarsi allo stesso ritmo. Egli temeva che, a causa dell’enorme entusiasmo, questi princìpi fossero stati dimenticati. Si erano avute delle degenerazioni.

Di queste «degenerazioni», è chiaro, né Stalin né nessun altro dirigente a Mosca si assunse la responsabilità, né allora né in seguito. E Stalin, al riguardo, si guardò bene dall’entrare nei dettagli. Gli omicidi, i pestaggi, i bambini lasciati nella neve senza niente addosso: di tutto ciò egli non fece ovviamente alcuna menzione. Attribuì la colpa di qualunque errore ai membri del partito locali, uomini e donne al livello più basso della gerarchia, ai quali «i successi hanno dato alla testa» e che avevano «per un istante perduto la lucidità dello spirito e la chiara comprensione delle cose». Li derise per l’uso di un linguaggio militaresco, che, naturalmente, non faceva che echeggiare il suo, e condannò i loro «ridicoli» tentativi di raggruppare tipi diversi di fattorie. Se la prese con loro anche per essersi messi a «staccare le campane delle chiese»: «A chi profittano queste degenerazioni, questa collettivizzazione per decreto, queste minacce indegne contro i contadini? A nessuno, eccetto che ai nostri nemici!».27

Perché Stalin scrisse questo articolo? Quando fu pubblicato, egli doveva già conoscere i rapporti della polizia su rivolte, resistenze e attacchi armati contro membri del partito. E forse sapeva anche che alcuni leader del Partito comunista, sia in Russia sia in Ucraina, nutrivano dubbi sulla sua politica. Se quei critici iniziarono a esprimersi apertamente soltanto qualche mese più tardi, è possibile che Stalin già intuisse che il fallimento o il caos nella spinta verso la collettivizzazione avrebbero potuto ritorcersi contro di lui, perciò cercò qualcun altro cui addossare ogni colpa. I funzionari del partito ai livelli meno elevati, dirigenti locali e capivillaggio, erano un bersaglio perfetto: erano lontani, anonimi e privi di alcun potere. L’articolo allontanava opportunamente da lui ogni responsabilità per quella che era chiaramente una politica disastrosa per farla ricadere su un gruppo sociale lontano da Mosca.

In apparenza, l’articolo era anche conciliante. Stalin sembrava cercare di mettere, almeno temporaneamente, un freno ai peggiori eccessi della sua politica. In seguito all’uscita di Vertigine dei successi furono effettivamente accordate alcune concessioni: il Comitato centrale decise, per esempio, di consentire alle famiglie contadine di mantenere per sé una mucca, un po’ di pollame e l’orto.28 Ma se questi gesti erano intesi a fermare la rivolta, sortirono in realtà l’effetto opposto. Lungi dal placare i contadini, l’articolo di Stalin diede il via a una nuova ondata insurrezionale, una lunga serie di atti di resistenza sia armata sia non violenta. Un funzionario chiamò il movimento «febbre di marzo», ma l’espressione era fuorviante: implicava che l’ondata di proteste fosse come una breve malattia, o forse una forma di pazzia temporanea. Quello che iniziò ad accadere fu qualcosa di molto più grave. «Ciò che lo Stato etichettò come febbre» avrebbe scritto Lynne Viola «era in realtà una ribellione di massa contadina, ragionata nei motivi e nei contenuti.»29

L’impatto fu immediato. In tutta l’URSS, funzionari del partito lessero e discussero l’articolo di Stalin in riunioni del partito e fra loro. Nel villaggio di Miron Dolot, come in molti altri, un militante locale lo lesse ad alta voce agli abitanti. Mentre spiegava che erano stati commessi degli sbagli, si erano fatti dei torti, i membri del partito avevano compiuto gravi errori di valutazione, «le persone riunite erano immobili come statue». Poi il militante espresse la propria opinione: la colpa era degli ebrei all’interno del partito, non del partito in sé. La spiegazione sollevava da ogni responsabilità lui stesso e i suoi compagni. «Quello che accadde subito dopo» avrebbe scritto Dolot «fu una rivolta spontanea.» «Andatevene!» gridò un uomo. «Ne abbiamo abbastanza di voi» urlò un altro. «Siamo stati ingannati! Andiamo a portare via i nostri cavalli e le nostre mucche da quella schifosa fattoria collettiva prima che sia troppo tardi!» Una fiumana di abitanti del villaggio, senza alcuna organizzazione, andò a riprendersi il proprio bestiame. Nel buio le persone inciampavano, cadendo le une sulle altre. Nel caos che seguì morirono per colpi d’arma da fuoco una ventina di contadini.30

Nei giorni successivi scoppiarono rivolte analoghe in tutta l’Unione Sovietica, e in qualche località esse divennero più mirate e meno improvvisate. I primi segni di opposizione non episodica che avevano tanto preoccupato Balyc’kyj in gennaio, in marzo, aprile e maggio crebbero in un vero e proprio movimento. I rivoltosi non tardarono a organizzarsi, a volte molto efficacemente, e le sollevazioni assunsero un carattere politico assai più evidente. Nella primavera del 1930 in tutta l’URSS, ma soprattutto e in numero maggiore in Ucraina, uomini e donne aggredirono, malmenarono e uccisero militanti del partito. Organizzarono incursioni nei depositi di generi alimentari e nei magazzini dov’erano stoccati i cereali. Forzate le serrature, rubavano il grano e altri prodotti alimentari e li distribuivano nei villaggi. Furono date alle fiamme proprietà collettive e sovietiche, aggrediti «collaboratori». In un villaggio, coloro che erano «insoddisfatti del regime … bruciarono le case dei militanti [della fattoria collettiva]».31 L’agitatore che, «indossati i paramenti del sacerdote», aveva calpestato le icone fu trovato morto in un fosso il giorno seguente.32

Per le vittime non c’era molta pietà. Un membro di una banda musicale locale avrebbe ricordato che gli fu chiesto di suonare ai funerali di alcuni dei «venticinquemila» uccisi dai contadini. «Per noi era un lieto evento perché, ogni volta che qualcuno veniva ucciso, ci portavano nel villaggio, ci davano qualcosa da mangiare e poi suonavamo al funerale. Aspettavamo ogni volta con impazienza il funerale successivo: significava che avremmo mangiato.»33

Alcune delle proteste più furibonde assunsero la forma di babs’ki bunty, espressione che tradotta alla lettera significa «rivolte o tumulti di donne», ma la parola baba non indica genericamente una donna, bensì una contadina, e implica qualcosa di rozzo e irrazionale. Le donne avevano già organizzato manifestazioni di protesta in URSS prima, nel 1927 e 1928, ma per la penuria alimentare, non per motivi politici. Come scrisse un agente della polizia segreta parlando di quelle prime proteste, «in quel periodo manifestazioni con la partecipazione di donne non avevano, di norma, nessun chiaro carattere antisovietico: folle o gruppi di donne si radunavano davanti a organizzazioni statali o cooperative chiedendo pane».34

Nella primavera del 1930 le caotiche richieste di pane delle contadine si mutarono in aggressioni non meno caotiche contro gli uomini responsabili delle confische. Folle di donne assalirono militanti, funzionari sovietici e dignitari in visita, chiedendo la restituzione di ciò che era loro. Gridavano e intonavano slogan, cantavano e lanciavano minacce. Altre presero in mano la situazione. In un villaggio ucraino una ragazza vide sua madre, insieme ad altre «donne affamate», rompere i lucchetti del magazzino della fattoria collettiva e impossessarsi del grano; i funzionari locali, intimoriti dalla folla, chiesero a funzionari provinciali del partito e membri del Komsomol di aiutarli ad arrestarle e recuperare il grano. Le donne rimasero in prigione due settimane.35 In un altro villaggio ucraino un ragazzo vide dei militanti andare di casa in casa rivendicando attrezzi o animali a nome della fattoria collettiva. In risposta, un gruppo di donne assalì la fattoria chiedendo la restituzione di tutto: «Una donna afferrò il suo aratro, un’altra il suo cavallo, una terza la mucca». Dopodiché dei soldati, o forse reparti della polizia segreta – su questo il memorialista non è chiaro –, «vennero e scacciarono tutte quelle donne … e tutto ciò che era stato confiscato, attrezzi agricoli e cavalli, divenne di nuovo della fattoria collettiva».36 Ai primi di marzo 1930, circa cinquecento donne di etnia tedesca provenienti da tre diversi villaggi manifestarono per un’intera settimana, esigendo dalle fattorie collettive la restituzione dei loro beni e impedendo a esse di funzionare.37

A volte le folle si spingevano ancora oltre. Lo stesso OGPU registrò quello che accadde nella provincia di Mariupol’, nell’Ucraina sudorientale, quando un’«orda» di trecento donne calò sul consiglio del villaggio per farsi consegnare la chiave della chiesa, convertita in un edificio amministrativo. Le donne si misero a gridare contro Naumenko, capo del soviet del villaggio, accusandolo di aver sfondato la porta della casa di un membro del consiglio della chiesa per arrestarlo. Quando Naumenko negò, «le donne l’hanno fatto sedere a forza su un carro [una tačanka] e l’hanno portato alla casa di quell’uomo, dove si è accertato che le cose si erano svolte precisamente come sostenevano loro. L’orda ha deciso di tenere un improvvisato processo».

A questo punto le donne costrinsero Naumenko a firmare un foglio in cui prometteva di liberare il membro del consiglio della chiesa, poi tentarono di arrestare un funzionario locale del partito, Filomynov. Non contente, sbeffeggiarono in pubblico entrambi, sputando loro in faccia e insultando i funzionari comunisti come «banditi, ladri e guardie bianche». I due uomini furono liberati solo grazie all’intervento dell’OGPU. Per diversi giorni, in seguito, folle armate di mazze e bastoni continuarono a radunarsi davanti alle sedi amministrative locali esigendo la restituzione dei loro beni. La rivolta venne infine domata e i contadini «pacificati». Ma nessuno credeva che lo Stato sovietico li avesse convinti.38

Episodi come questo furono assai numerosi. Alla fine di marzo 1930 l’OGPU aveva contato nella sola Ucraina 2000 manifestazioni di protesta «di massa», per la maggior parte esclusivamente di donne.39 Al congresso del Partito comunista ucraino, nell’estate del 1930, diversi propagandisti fecero riferimento al problema. Kaganovič, non più a capo del PCU, ma ancora estremamente interessato alle vicende del paese, dichiarò che le donne avevano svolto il «ruolo più “avanzato” nella reazione contro il kolchoz».40 L’OGPU, com’era da aspettarsi, spiegò il fenomeno quale prova dell’influenza da parte di «elementi kulak-antisovietici» sulle proprie mogli e figlie ignoranti. Un’intensificazione del lavoro di propaganda e agitazione fra le donne contadine avrebbe sicuramente risolto il problema.41

L’OGPU sospettava, inoltre, che le donne protestassero perché sapevano di essere meno esposte al rischio di essere arrestate. Forse non aveva torto: senza mettere di mezzo gli uomini, le donne che aggredivano i funzionari, anche fisicamente, dovevano avere molta meno paura di una ritorsione. Per di più, la loro azione offriva agli uomini un modo «legittimo» di unirsi alla protesta: se a reprimere le donne contadine arrivavano dei militanti, gli uomini del villaggio potevano intervenire in loro aiuto con il pretesto di difendere l’onore delle proprie madri, mogli e figlie.

Ma non tutti avevano bisogno di un pretesto. Era recente il ricordo di tanti uomini ucraini che avevano preso le armi contro gli odiati dominatori. Come avevano fatto durante la guerra civile, alcuni iniziarono a organizzarsi in unità partigiane. Qualcuno avrebbe ricordato: «Quando scendeva la notte si sentivano gli spari dei fucili. Nelle foreste erano attivi gruppi partigiani. Era una tipica rivolta contadina. Il villaggio sovietico fu distrutto. Se i capi del villaggio sovietico non fossero fuggiti, avrebbero corso il rischio di essere uccisi».42 Molti comunisti locali non riuscirono a scappare e vennero ammazzati sul posto.

La violenza era reale ed estremamente diffusa. Documenti sovietici del 1930 registrano 13.794 «atti terroristici» e 13.754 «disordini di massa», avvenuti per la maggior parte in Ucraina e causati, secondo lo stesso OGPU, dalla politica di collettivizzazione e dekulakizzazione.43 I documenti della polizia segreta ucraina sulle rivolte sul suo territorio sono più carichi di emotività e, nello stesso tempo, più precisi. Nonostante i precedenti tentativi di confisca, vi si legge, i contadini disponevano ancora di armi: fucili a canna liscia e rigata, conservati fin dall’epoca della guerra civile, nonché picche e bastoni. Nella primavera del 1930 essi tornarono a usarle in modo coordinato. Balyc’kyj non dubitava di trovarsi di fronte allo stesso tipo di «attività antisovietica» cui si era assistito in Ucraina in passato. «I militanti controrivoluzionari kulak non hanno cessato la lotta» dichiarò. «Anzi, stanno rafforzando le loro posizioni.» Fra il 20 gennaio e il 9 febbraio i suoi uomini arrestarono 11.865 persone, fra cui membri di «organizzazioni e gruppi controrivoluzionari», individui che si stavano preparando a una «rivoluzione armata», nonché persone che di tale rivoluzione sarebbero potuti divenire gli «ideologi». Chiunque avesse legami all’estero, specie in Polonia, era sospetto: dall’estero avrebbe potuto ricevere «assistenza attiva». La polizia segreta si concentrò anche su qualsiasi discorso o azione che potesse caratterizzarsi come indizio di una posizione «sciovinista ucraina» o «petljurista», e scoprì tre notevoli gruppi di militanti del genere nelle province di Dnipropetrovs’k, Charkiv e Kremenčuk, tutti importanti centri di lotta all’epoca della guerra civile.44

Verso la metà di marzo la situazione era peggiorata. Il 9 marzo Balyc’kyj riferì di «sollevazioni di massa» in sedici distretti ucraini. Quando scrisse il rapporto, essi erano stati per la maggior parte «pacificati», ma nel distretto di Šepetivka, nella parte occidentale del paese, «elementi antisovietici e criminali», alcuni riuniti in gruppi giunti a contare da trecento a cinquecento uomini, si erano armati di fucili a canne mozze e da caccia e di asce. I contadini di Šepetivka combattevano fin da febbraio, quando Balyc’kyj era giunto nel distretto. Su suo ordine, l’OGPU aveva fatto intervenire unità di cavalleria armate di mitragliatrici e appoggiate da guardie di frontiera e miliziani.45 Secondo lui, l’OGPU aveva sgominato la banda, ma i rivoltosi avevano ucciso un dirigente del Komsomol e tenevano in ostaggio altri dirigenti comunisti; inoltre, egli temeva che avessero preso contatto con un’altra banda armata di un distretto limitrofo.46 A sole poche settimane dalla pubblicazione di Vertigine dei successi la rivolta sembrava estremamente prossima a finire fuori controllo.

Nel leggere i documenti d’archivio sulle rivolte del 1930 non è sempre facile separare i fatti dalle invenzioni. Quanto era ben organizzato, in realtà, il dissenso? Quanti uomini della polizia segreta inventavano cospirazioni dove non ne esistevano? Quanti erano i movimenti nazionalisti che «scoprivano»? In che misura si stava creando ad arte un problema per poter pretendere in seguito di averlo risolto? Solo un anno prima, dopotutto, l’OGPU aveva inventato l’immaginaria SVU. E pochi anni più tardi, all’epoca del Grande Terrore del 1937-1938, gli agenti della polizia segreta sovietica avrebbero prodotto centinaia di migliaia di false accuse.

I resoconti d’archivio sulla rivolta del 1930 danno l’impressione, a volte, di qualcosa di deliberatamente infiorettato, come se l’OGPU stesse cercando di dimostrare a Mosca che obbediva fedelmente agli ordini. Nel febbraio 1930, per esempio, esso condusse in tutta l’URSS un’operazione contro «elementi controrivoluzionari kulak-guardie bianche e banditi», eseguendo anche in questo caso il maggior numero di arresti in Ucraina, dove scoprì 78 cellule di «militanti antisovietici». Fra le più pericolose c’era la «Petljurivs’ka», composta da banditi che, secondo l’OGPU, stavano organizzando un’insurrezione armata nel distretto di Kremenčuk, nell’Ucraina centrale, destinata a scoppiare nella primavera del 1930. La polizia segreta rivendicò di averne anche individuato il leader, «Manko», nome tanto vicino a «Machno» da suonare sospetto, «ex ufficiale di Petljura» entrato illegalmente in Ucraina nel 1924 attraverso il confine polacco.

Stando al rapporto sull’operazione, Manko avrebbe dichiarato: «Quando le autorità statali avranno portato a termine la collettivizzazione, si saranno assicurata l’influenza sulle masse, i loro occhi saranno ovunque, di conseguenza sarà difficile avvicinarle e i nostri sforzi organizzativi falliranno». Il suo gruppo, sempre stando al rapporto, si sarebbe «prefisso l’obiettivo di dare vita a un’Ucraina indipendente sulla base del diritto alla proprietà privata della terra» e di preservare la classe cosacca. Manko avrebbe avuto l’intenzione di sferrare un attacco contro la città di Kremenčuk appiccando incendi nei dintorni e impadronendosi della stazione ferroviaria e dell’ufficio del telegrafo.47

Obiettivi simili furono attribuiti anche ad altri gruppi. Alcuni avrebbero avuto legami fra loro, altri erano sospettati di seminare i germi della diserzione tra le file dell’Armata rossa. Un altro gruppo ancora avrebbe costituito nei distretti occidentali dell’Ucraina un’organizzazione «petljurista-kulak» dedita all’«agitazione controrivoluzionaria» e alla diffusione di «voci provocatorie». Lo stesso rapporto riferiva dell’arresto nella regione del Caucaso settentrionale, nel corso di soli cinque giorni, di 420 membri di «organizzazioni e gruppi controrivoluzionari», nonché di altri arresti nelle regioni del Volga.48 Balyc’kyj stesso riferì di una sua visita nella primavera del 1930 nel distretto di Tul’čyn, dove aveva scoperto ribelli armati, trincee intorno ai villaggi e contadini che gridavano «Abbasso i soviet» e cantavano L’Ucraina non è ancora morta, inno della Repubblica popolare ucraina all’epoca della Rada centrale.49

Il tono di questi rapporti può sembrare eccessivo e isterico. Ma sia documenti sia memorie dimostrano che non tutti quei movimenti erano inventati. La violenza era reale, ben organizzata e di carattere nazionalista. In alcune località, inoltre, era armata e contagiosa: si propagava da villaggio a villaggio nella misura in cui azioni e slogan dei vicini facevano sentire i contadini più sicuri di sé.

Alla metà di marzo 1930, per esempio, alcuni villaggi del distretto di Tul’čyn inscenarono uno dopo l’altro manifestazioni di protesta. I rapporti d’archivio sono chiari: i contadini gridavano «Non vogliamo dirigenti che derubano i contadini!» e «Abbasso i comunisti, che stanno portando il paese al disastro!». Quando le autorità locali non vennero uccise, furono deposte a forza. In 343 villaggi i contadini elessero propri «starosta», tradizionali anziani del villaggio, e rifiutarono di collaborare con i comunisti.50 In molte località giunsero a licenziare gli insegnanti sovietici, a mettere al bando le cooperative e ad annunciare il ritorno al libero commercio. Alcuni abitanti dei villaggi iniziarono a parlare di organizzare una resistenza armata e qualcuno diffuse volantini nebulosamente definiti dall’OGPU «di carattere antisovietico». Nel corso di un incontro i convenuti chiesero la restituzione ai «kulak» delle loro proprietà e la liquidazione delle fattorie collettive. In più di un’occasione i rivoltosi, si legge nei rapporti, cantarono l’inno nazionale. La vittoria a Tul’čyn fu effimera: l’OGPU accusò i «petljuristi» e chiese «misure operative». La provincia venne suddivisa in settori, e a ogni settore fu assegnata un’unità di cavalleria armata dell’OGPU.51 Balyc’kyj disse a un collega di avere avuto istruzione da Stalin stesso di «non fare discorsi, ma agire con decisione».52

In diverse località le rivolte non avevano solo un carattere decisamente politico, ma erano guidate da persone che avevano svolto un qualche ruolo nelle rivolte contadine, nel movimento nazionale ucraino o nella guerra civile. Fu questo che sicuramente avvenne nel Pavlohrad, un distretto della provincia di Dnipropetrovs’k, la cui ribellione armata è ormai ampiamente documentata.53 Le autorità si aspettavano, ancora prima della «febbre di marzo», esplosioni di violenza a Pavlohrad stessa, città fondata originariamente come base cosacca. Nel XIX secolo uno dei villaggi del distretto aveva preso parte a una rivolta contro l’aristocrazia locale e nel 1919 molti abitanti del distretto avevano appoggiato Machno.54 Prevedendo che la collettivizzazione sarebbe stata seguita da violenze, nel febbraio 1930 la polizia locale aveva arrestato, per avere tramato una rivolta, 79 persone, 21 delle quali furono giustiziate.

Ciononostante, diversi leader della resistenza di Pavlohrad con esperienza militare alle spalle non desistettero. Nel marzo 1930 Kyrylo Šopin, ex soldato dell’armata dell’atamano Skoropads’kyj, sfuggì all’arresto e iniziò a vagare per la regione, passando da un villaggio all’altro per incitare i contadini alla rivolta. Alcuni di coloro che si sarebbero uniti a lui avevano combattuto in passato per Petljura o Machno.

Gli sforzi di Šopin furono ricompensati ai primi di aprile, quando rappresentanti di tutta la regione si riunirono a Bohdanivka e iniziarono a pianificare la rivolta. Molti dei presenti avevano perduto le loro proprietà con la collettivizzazione, ed erano spinti dalla convinzione di poterne rientrare in possesso. Ma avevano anche obiettivi politici e lanciavano slogan politici: «Abbasso il potere sovietico», «Lottiamo per un altro tipo di libertà». Dopo la prima riunione del gruppo, si formarono in modo un po’ caotico nelle campagne circostanti piccole cellule di rivoltosi. Il 4 aprile molti dei loro membri iniziarono a giungere a Osadče, piccolo borgo nei pressi di Bohdanivka, sperando di unirsi alla rivolta e aspettandosi di ricevere armi.

Furono adottate precauzioni: i ribelli si accordarono sul fatto che, se la rivolta fosse fallita, tutti coloro che vi avevano preso parte avrebbero dovuto dichiarare di esservi stati costretti contro la loro volontà. I loro leader cercarono di mettersi in contatto con i soldati della milizia del distretto di Pavlohrad, nella speranza che si unissero a loro. E tracciarono un piano: marciare su Pavlohrad, raccogliere armi, usarle per prendere d’assalto Dnipropetrovs’k e, infine, impadronirsi del resto dell’Ucraina. Dai documenti di cui disponiamo – interrogatori, indagini, memorie, resoconti scritti in seguito – sembra chiaro che i partecipanti alla rivolta di Pavlohrad erano convinti che avrebbero potuto trionfare. I contadini maltrattati, si dicevano l’un l’altro, si sarebbero sollevati e uniti a loro in tutta l’Ucraina.

La rivolta ebbe inizio il 5 aprile a Osadče, dove furono uccisi militanti del partito e del soviet locale; poi i rivoltosi si affrettarono a raggiungere dei villaggi vicini, dove altri si unirono a loro. Arrivati a mezzogiorno a Bohdanivka, suonarono le campane della chiesa, presero il controllo di un ponte chiave e iniziarono a scontrarsi con la milizia locale. Nel corso della giornata gli insorti uccisero diverse decine di esponenti del governo, fra cui membri del partito, del Komsomol e del soviet rurale. Sul finire del giorno riuscirono a tagliare le linee telefoniche, ma era ormai troppo tardi: il capo del consiglio del villaggio aveva già telegrafato a Pavlohrad chiedendo aiuto.

La milizia di Pavlohrad, che non aveva accolto l’invito dei ribelli di unirsi a loro, arrivò in serata. I contadini insorti si ritirarono, ma nel frattempo un altro gruppo di rivoltosi aveva occupato le sedi del consiglio e del partito in un villaggio vicino, Ternivka. Infine, il 6 aprile giunsero a Bohdanivka da Dnipropetrovs’k unità armate dell’OGPU: 200 uomini, 58 dei quali a cavallo. Balyc’kyj aveva dato loro ordini espliciti, usando il linguaggio più duro possibile: «Liquidare queste bande controrivoluzionarie».

In totale, i combattimenti non durarono più di due giorni. Nonostante l’uccisione di tanti funzionari, l’armata contadina non aveva mai avuto una vera chance. I suoi capi, per lo più analfabeti, non disponevano di comunicazioni o logistica, né di armi a sufficienza. Furono facilmente sopraffatti, catturati e uccisi. Ne morirono 13, e qualcun altro rimase gravemente ferito.

Oltre 300 rivoltosi vennero incarcerati e, di essi, 210 furono condannati in un processo che, a differenza di quello SVU, si svolse a porte rigorosamente chiuse: il partito non poteva rischiare di mettere in scena un «processo prefabbricato» per una rivolta autentica. I testimoni non avrebbero potuto essere manipolati tanto facilmente, la storia non avrebbe potuto essere raccontata in modo da nascondere quanto era realmente accaduto: che contadini poveri, guidati da uomini dal passato militare, avevano impugnato le armi contro lo Stato sovietico. Ma non si poteva neanche permettere che i superstiti restassero in vita per raccontare la storia vera. Il 20 maggio, 27 di loro vennero giustiziati.

La rivolta di Pavlohrad fu eccezionale per la sua violenza, ma non fu l’unica. In marzo l’OGPU era stato sorpreso da una rivolta nella provincia di Kryvyi Rih, nell’Ucraina orientale, una regione in cui la collettivizzazione aveva toccato un record di «quasi il cento per cento» e che era considerata docile. Se lì arresti e deportazioni, secondo un rapporto dell’OGPU, erano stati «accompagnati da qualche fenomeno negativo», la dekulakizzazione aveva goduto dell’entusiastico appoggio dei contadini poveri e medi.

Ma all’ordine di confiscare il grano da semina in previsione della seminagione primaverile era seguito un «cambiamento degli umori». Un contadino del posto era stato udito dichiarare che la confisca del grano da semina significava che «tutto il pane sarà portato fuori dall’Ucraina, e all’Ucraina non resterà niente». In un altro villaggio qualcuno aveva espresso il timore che «si prenderanno il nostro ultimo grano e lasceranno i contadini morire di fame». Dopo l’articolo di Stalin Vertigine dei successi, gli uomini dell’OGPU imputarono quei malumori all’eccessivo entusiasmo con cui i funzionari di Kryvyi Rih esercitavano pressioni su contadini che non erano «kulak». Un gruppo di funzionari, era stato riferito, aveva confiscato a un contadino povero della «biancheria sporca» e chiesto latte e lardo per la brigata; altri avevano abbattuto le porte di case contadine e, spogliati coloro che vi abitavano, li avevano gettati sulla strada. Una folla di donne aveva reagito accalcandosi attorno a un militante del partito e gridando che Stalin aveva detto che l’adesione alle fattorie collettive doveva essere «volontaria». Altri avevano organizzato petizioni per chiedere la restituzione dei loro terreni, o erano corsi alle fattorie collettive per reclamare attrezzi e bestiame.

Alcune richieste si spinsero oltre. «Sotto l’influenza dell’agitazione antisovietica e kulak», riferì l’OGPU, alcuni contadini del villaggio di Šyroke presentarono una serie di «richieste politiche controrivoluzionarie». Infine, il 14 marzo, una folla di cinquecento uomini e donne circondò gli uffici governativi locali esigendo lo scioglimento del Komsomol, la restituzione del grano da semina e delle proprietà confiscate o forzatamente «donate» alla fattoria collettiva e il rimborso delle ammende pagate alle autorità locali.55

Ancora una volta, i documenti non lasciano dubbi sul fatto che tutte queste ribellioni, a Tul’čyn, Pavlohrad, Kryvyi Rih e altrove, avvennero effettivamente. Esse costituivano una reazione organizzata a una politica odiatissima, oltre che alla violenza usata per imporla; alcuni di coloro che si misero alla guida delle rivolte erano, cosa che non sorprende, persone che si erano sempre opposte al regime sovietico.

Ma, se le rivolte erano autentiche, credere alla spiegazione data dall’OGPU della loro origine e delle conseguenze è più difficile. Nell’Unione Sovietica di Stalin gli uomini della polizia segreta non potevano far sapere ai superiori che la loro politica stava fallendo, o che onesti cittadini sovietici vi si opponevano per ragioni comprensibili. Dovevano tirare in ballo l’influenza di nemici di classe e stranieri, inventare o esagerare legami e connessioni. Il rapporto su Kryvyi Rih, per esempio, attribuì ogni violenza a «elementi antisovietici, kulak e parenti di kulak»: Karpuk, un «rifugiato dalla Polonia»; Lisohor, fratello di un kulak esiliato; Krasulja, un fabbricante di stivali, quindi un uomo che possedeva una qualche proprietà.56 Tutti appartenevano a categorie sospette: quella, appunto, dei proprietari oppure erano persone che avevano legami all’estero o familiari che erano stati arrestati.

I funzionari cercarono più e più volte spiegazioni della forza delle rivolte anche nella storia delle province, puntando l’attenzione soprattutto su quelle del 1918-1920. A un certo punto l’OGPU assegnò a un gruppo di ufficiali il compito di lavorare su diversi distretti sottolineando il «significato politico particolarmente importante delle zone di frontiera e il passato storico di queste regioni». Fra di essi vi erano i distretti della Volinia, di Berdyčiv, Mogilčv, Vinnycja, Kam’janec’ e Odessa, tutti teatro di grandi scontri nel decennio precedente.57 In un’altra occasione Balyc’kyj osservò che si doveva prestare particolare attenzione a una certa regione perché era il territorio della «banda Zabolotn’ij», una delle unità partigiane durante la guerra civile.58

Tale ossessione per la guerra civile non riguardava solo l’Ucraina, ma anche il Caucaso settentrionale, dove le autorità sovietiche attribuirono analogamente la resistenza violenta alla collettivizzazione all’influenza dei cosacchi e dei nazionalisti ucraini, e persino la Siberia e gli Urali, dove la polizia segreta sovietica prese di mira «ex ufficiali della Guardia bianca». Anche in Asia centrale, Kazakistan, Tatarstan e Baschiria, nella resistenza violenta alla collettivizzazione si vide immediatamente una rivolta antisovietica e controrivoluzionaria e, anche in questo caso, non senza motivo. Nella regione di Fergana, in Asia centrale, truppe dell’Armata rossa furono mandate a combattere il movimento di guerriglia dei basmachi. Sebbene esso fosse stato schiacciato solo pochi anni prima, era stato rivitalizzato dalla rabbia per la collettivizzazione. La collettivizzazione fu seguita da scontri violenti anche nelle repubbliche autonome caucasiche della Cecenia e del Daghestan.59

In Ucraina, tuttavia, la forza del nazionalismo nelle città rendeva la rabbia delle campagne più pericolosa. Nel 1930 gli analisti dell’OGPU tornarono ripetutamente sulla questione dei contatti fra città e campagna e sui collegamenti fra intellettuali e contadini temuti già nel 1929. Alcuni erano forse reali, ma altri erano chiaramente un’invenzione. Il 21 marzo Balyc’kyj inviò a Stanislav Kosior, dal 1928 segretario generale del Partito comunista ucraino, e a Jagoda, allora a capo dell’OGPU, un rapporto: in un villaggio del distretto di Vinnycja aveva scoperto un collegamento fra i capi della rivolta locale e la SVU. Un insorto, riferì, aveva dichiarato che «dopo la liquidazione della SVU è necessario lavorare con altri metodi: spingere le masse ignoranti alla rivolta». Altri membri della SVU furono «scoperti» a Vinnycja nei giorni successivi. Balyc’kyj si congratulava con se stesso per averli individuati, anzi, per aver previsto l’influenza della SVU, un’organizzazione completamente frutto della sua immaginazione. Le cellule, scrisse, «confermano correttamente gli stretti legami della SVU con quadri attivi della controrivoluzione rurale e le aspettative della SVU di un’insurrezione nel 1930-1931». E si diede da solo una pacca sulle spalle: «È stata solo la tempestiva liquidazione della SVU a scompaginare le cellule dell’organizzazione, costringendole ad agire a proprio personale rischio e pericolo». Forse fu così che Balyc’kyj riuscì a sfuggire alle critiche per non essere riuscito a fermare le rivolte rurali: se non avesse liberato l’Ucraina dall’inesistente SVU, secondo lui, esse avrebbero potuto rivelarsi più gravi.60

La polizia proseguì nella ricerca di cospirazioni nuove e non ancora scoperte nei mesi successivi. Anche dopo la presunta liquidazione della SVU, l’OGPU continuava a prevedere il «rafforzamento dei legami fra elementi controrivoluzionari in città e nelle campagne», sostenendo che una gran varietà di organizzazioni rurali aveva il proprio quartier generale in città e controrivoluzionari provenienti dai centri urbani stavano girando per l’intera Ucraina. Nelle province occidentali della Repubblica, «svariate organizzazioni controrivoluzionarie (per lo più petljuriste) liquidate in Ucraina … erano strettamente legate alla Polonia».61

La caccia alla SVU e ai «petljuristi» sarebbe proseguita sino al termine del decennio. Retrospettivamente è chiaro che il 1932 e il 1933 segnarono realmente l’inizio della grande ondata di terrore che avrebbe raggiunto l’apice in tutta l’Unione Sovietica nel 1937 e 1938. Tutti gli elementi del Grande Terrore – il sospetto, una propaganda isterica, arresti di massa eseguiti in base a piani stabiliti a livello centrale – erano già visibili in Ucraina alla vigilia della carestia. La paranoia di Mosca sul potenziale controrivoluzionario dell’Ucraina sarebbe sopravvissuta anche alla seconda guerra mondiale, perdurando fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Essa fu instillata in ogni successiva generazione di agenti della polizia segreta, dall’OGPU all’NKVD e al KGB, come in ogni successiva generazione di leader del partito. E non è escluso che abbia contribuito a informare il pensiero dell’élite postsovietica anche ben dopo la scomparsa dell’URSS.