LE RÊVEUR
CASQUÉ
Christian de La Mazière
La divisione Carlo Magno, sezione dei volontari francesi delle Waffen SS, combatté duramente sul fronte russo, al fianco dei tedeschi, prima di essere massacrata nella primavera del 1945 sulle nevi della Pomerania. Nell'agosto del 1944, quando la sconfitta tedesca non era più in dubbio, un giovane francese chiese di arruolarsi a sua volta nella divisione SS. È stato Christian de La Mazière la cui testimonianza è tragicamente impressionante . Nel 1944, settemila uomini avevano condiviso lo stesso impegno. Nel 1969, De la Mazière ammette i suoi trascorsi nazisti nel corso di un documentario. Due anni dopo pubblicaLE RÊVEUR CASQUÉ: è un clamoroso successo di vendite. De la Mazière si presenta come un ingenuo sognatore, attratto dalla purezza ideologica del nazismo, inconsapevole dello scempio dei campi di concentramento, convinto di dover arginare le orde sovietiche in rotta per l'Europa. Per lui, è l'avventura dei suoi vent'anni, e come tale la racconta. Non c'è dissociazione dal passato, semmai la consapevolezza (blanda) di essersi ingannato. Riprovevole? Sì. Lo sarebbe però anche l'ignorare questa testimonianza, importante per capire quale fosse la confusione nelle teste di chi affrontò, a vent'anni, il peggior conflitto della Storia.
Christian de la Mazière esteta armato
Biografia di @barbadilloit
Il 22 agosto 1922. Nasce a Tunisi, Christian de la Mazière. Figlio di un ufficiale di Cavalleria, Clodomir Anatole de la Mazière, che aveva combattuto in Polonia contro i russi al fianco del Maresciallo Jozef Pilsudski nella Guerra sovietico-polacca del 1919-1921 e poi, in Francia era stato nel comando dell’École de Cavalerie de Saumur.
Dal padre il giovane Christian aveva ricevuto un’educazione tradizionale, caratterizzata da un nazionalismo intransigente; in casa la lettura quotidiana era quella dell’Action française che però poco interessava all’adolescente in formazione, a suo dire, più portato ad ascoltare la collera di Léon Daudet che la speculazione intellettuale di Charles Maurras, “j’avais besoin de vibrer et non de philosopher” scriverà, ricomponendo i passaggi fondamentali della sua vita nel suo Le Rêveur casqué. E a 14 anni, come impongono le regole, arrivò il rifiuto dell’educazione paternae la scelta di schierarsi con chi combatteva contro l’ingiustizia sociale.
Fu quindi un giovanissimo giornalista a “Le Pays libre”, pubblicazione del PFNC, piccola formazione guidata da Pierre Clementi nella quale militò assieme ad altri personaggi destinati alla notorietà come Robert Hersant, il grande editore della stampa francese del dopoguerra. Forse renderà meglio l’idea di quale gruppo politico si trattasse, decrittando l’acronimo PFNC: Parti Français National-Communiste, gruppo di tendenze fascio-comuniste fondato nel 1934 che nel 1940 sarà costretto a cambiare leggermente il nome (lasciando inalterata la sigla), in Parti Français National-Collectiviste per poter conservare l’agibilità politica durante l’Occupazione tedesca. A fianco dei sogni rivoluzionari il giovane Christian si dedicava alla passione per il volo civile, attività che si rivelerà utile in seguito, all’inizio della Seconda guerra mondiale quando fu allievo pilota di aerei da caccia nella base di Terrefort.
Dopo il tracollo della Francia e l’armistizio, riprese il suo posto nella redazione di “Le Pays libre”; i suoi slanci rivoluzionari non erano cessati e i suoi articoli proseguirono sulla stessa linea appassionata. Giunse l’ora drammatica nella quale le sorti della Collaborazione francese parevano ormai segnate senza più alcuna speranza, nell’agosto 1944, in una Parigi ormai prossima all’arrivo degli Alleati, un giovane operaio si presentò in redazione per annunciargli che i suoi scritti lo avevano convinto e aveva deciso di arruolarsi nei reparti francesi (ma si potrebbe meglio dire, europei o addirittura internazionali) che combattevano nelle armate del Reich.
Fu la folgorazione per Christian de la Mazière, si sentì improvvisamente investito della sua responsabilità: “Se non avessi fatto la scelta di seguire il suo esempio avrei dovuto vivere per sempre nella vergogna e nel disonore”. Decise quindi di arruolarsi nella Divisione “Charlemagne”, composta da francesi con la divisa delle Waffen-SS.
Restò solo il dramma di dover scrivere al padre per giustificare la scelta, un padre che “secondo le tradizioni della cavalleria non conosceva che una regola, quella della lealtà”; un ufficiale che aveva prestato giuramento e che si era rifiutato di accettare le proposte della Resistenza ma che dal novembre 1942, quando le truppe tedesche avevano invaso la Zona Sud aveva rifiutato anche ogni incarico dal Governo di Vichy.
Finì col rinunciare a scrivere quella lettera che il padre non avrebbe capito, la divisa che Christian stava per indossare per suo padre sarebbe stata comunque la “divisa del nemico” e ai suoi occhi non si sarebbe trattato che del “tradimento di tutta la sua educazione”.
Il giovane giornalista raggiunse quindi Wildflecken, il campo in Baviera dove si stava formando la nuova Divisione “Charlemagne”, alcune migliaia di giovani francesi (età media 19 anni), provenienti da ogni classe sociale, dagli operai agli aristocratici. Dopo la guerra scriverà che nessuno sapeva del “fenomeno concentrazionario”, che la sua scoperta – come per moltissimi altri – lo costringerà “a riflettere”. Un percorso e una riflessione noti, basti pensare al regista Ingmar Bergman.
Dopo la dura e lunga formazione militare della quale La Mazière narrerà che gli pareva di fare il giro d’Europa, tra norvegesi, svedesi, lituani, polacchi, lettoni, estoni, russi, olandesi, valloni e addirittura indiani in turbante, alla fine di febbraio del 1945 la “Charlemagne” fu inviata in zona d’operazioni, ad affrontare i sovietici nel gelo della Pomerania, lui impiegato in un reparto di cacciatori di carri. In tre giorni di combattimenti, la Divisione perse tremila uomini, alla fine si giunse al corpo a corpo. A marzo Christian de la Mazière finì catturato da truppe polacche che lo consegnarono ai sovietici. Cercò di camuffarsi sostenendo di essere un operaio dello STO, il Service du travail obligatoire. Gli andò bene, riportato in Francia però la verità tardò poco a venire a galla.
Fece quindi un grand tour tra campi di concentramento e prigioni per finire nel carcere di Fresnes dal quale fu prelevato nel 1946 – a 24 anni – per uno sbrigativo processo durato solo due giorni al termine del quale fu condannato a cinque anni di carcere e alla perdita dei diritti civili per aver scritto i suoi articoli su “Le Pays libre” e aver indossato la divisa tedesca.
Nel 1948 beneficiò di una amnistia e iniziò una nuova vita occupandosi – come giornalista e poi come imprenditore di successo – di cinema e di spettacoli. Entrò quindi nel circuito di un mondo sempre sotto i riflettori per cui furono noti i suoi legami sentimentali dapprima come compagno di Juliette Greco, poi con Dalida alla quale fu legato per tre anni, un rapporto proseguito come amicizia tra i tanti tormentati amori della cantante dopo la sua giovanile storia con l’ex parà della Légion étrangère Alain Delon.
Nel 1971 l’ennesima svolta nella vita di Christian de la Mazière: l’uscita del film-documentario “Le Chagrin et la Pitié” di Marcel Ophüls e Alain de Sédouy, un coraggioso tentativo di capire attraverso interviste e filmati la storia francese tra 1940 e 1944. Tra gli intervistati, come ex combattente della “Charlemagne”, anche de La Mazière.
Un intervento che pagò caro, con un nuovo e silenzioso ostracismo e la fine del suo lavoro di relazioni pubbliche.
Pubblicò quindi un suo primo libro di memorie dedicato alla sua scelta nella guerra, “Le Rêveur casqué”; libro che ebbe un successo straordinario, varie edizioni (anche de poches) per un totale di vendite di quattro milioni di copie. Un amico, altro autore “maledetto”, Georges Brassen gli dedicò una canzone “Mourir pour des idées”.
Riprese nuovamente l’attività giornalistica, questa volta su giornali come “Figaro Magazine” e “Le Choc du Mois”, pubblicazione della quale per qualche numero negli anni ’90 fu anche nella direzione. Pubblicò quindi nel 2003 un nuovo libro, “Le Rêveur blessé”, dedicato alla seconda parte della sua vita, quella del dopoguerra. Nel frattempo, nel novembre 2001 gli capitò anche di finire – protagonista involontario – in uno dei soliti teatrini italiani. Era stato invitato a Trieste a come membro dell’Association des Amis de Robert Brasillach a tenere una conferenza su tre scrittori francesi, Louis Ferdinand Céline, Pierre Drieu la Rochelle e appunto Robert Brasillach, nel corso di una serata che si sarebbe dovuta tenere nello storico Caffè San Marco (locale frequentato a suo tempo da Saba, Svevo, Joyce e Rilke), con il patrocinio del Comune e presentata dal critico cinematografico Maurizio Cabona.
Venuto a conoscenza del “grave gesto provocatorio” lo scrittore Claudio Magris (peraltro autore caro a chi scrive per i suoi libri come “L’anello di Clarisse”, “Mito asburgico nella letteratura austriaca”, “Illazioni su una sciabola” e “Danubio”, per citarne solo alcuni) fece le bizze, scrivendo un editoriale per il “Corriere della Sera” e minacciando di togliere il suo ritratto dal suddetto caffè. In quella occasione Magris, per dimostrare la sua “equità” di valutazione rivelò che un suo giovanissimo cugino scegliendo la parte sbagliata era stato ucciso dai partigiani, argomento che pareva non entrarci affatto nella questione ma nonostante il quale lui non avrebbe tollerato, etc. etc. etc. La Mazière aristocraticamente abbozzò e non accettò la provocazione consentendo così all’irato Magris di riapporre il suo ritratto alle pareti del locale.
Christian de La Mazière è morto nel febbraio 2006.
LE RÊVEUR
CASQUÉ
Je croyais avoir congédié mon passé mais, un matin, il m’a retrouvé. On préparait un film sur les années d’occupation, ces fameuses années difficiles que l’Histoire avait tant simplifiées. La Résistance et la Collaboration, les purs et les maudits : ce partage allait de soi depuis que la fin de la guerre nous avait révélé, dans toute son horreur, la réalité du nazisme. Mais les Français, brassés par des événements que l’avenir n’avait pas encore sanctionnés, qui avaient dû se décider dans la confusion des temps, que la vie au jour le jour, déjà, mobilisait pour simplement survivre, ces Français-là, comment s’étaient-ils comportés ? La vérité, soudain, devenait innombrable et douloureuse, il fallait la déchiffrer à travers le Chagrin et la Pitié, comme le film, en son titre, allait l’énoncer. La vérité avait cent visages, et moi, j’en incarnais un.
Qui étais-je donc pour avoir à témoigner ? Un ancien de la Waffen SS, un rescapé de cette division française « Charlemagne » qui, au printemps 1945, était allée se faire massacrer dans les neiges de Poméranie. Plus de vingt ans, depuis, s’étaient écoulés. J’avais, peu à peu, repris place dans la vie. L’après-guerre posait des interrogation nouvelles que je souhaitais aborder avec un esprit neuf. De mon passé, je n’avais gardé nulle nostalgie mais un enseignement, seulement : le dégoût du fanatisme et du sang versé.
Et maintenant, il me fallait remuer cette cendre que je croyais froide. J’acceptais pourtant, peut-être parce que le grand jour, seul, sait dissiper les fantômes. Du mieux que je le pouvais, je répondais, dans le film, aux questions qui m’étaient posées. Avais-je tout dit pourtant, avais-je, ne serait-ce qu’à mes propres yeux, suffisamment fait resurgir le personnage que j’avais été ? Je n’en étais point persuadé. Le processus était en marche, il fallait que je le suive, inexorablement. À l’écran, je n’étais qu’un exemple, je n’étais là que pour donner figure à une attitude. Maintenant, je devais savoir pourquoi, à un moment de ma vie, j’avais choisi cette attitude et y étais demeuré fidèle. Je devais parler de moi et pour moi. En somme, écrire un livre.
C’était un peu comme si j’avais rendez-vous avec un frère depuis longtemps disparu. Pour le comprendre, il me fallait lui rendre voix. Où m’attendait-il ? J’ai laissé mon esprit errer. Puis, brusquement, j’ai revu une matinée ensoleillée d’août 44. Je roulais sur la route de Nancy, où s’effilochaient, parfois, des convois allemands en retraite. Paris était derrière moi, où les Alliés bientôt entreraient. J’allais à l’Est, également, afin de rejoindre les volontaires français qui s’assemblaient pour le combat de la dernière chance. C’est ce matin-là que tout commençait.
J’avais pris une décision exaltante et étrange, comme tout engagement. Elle cadrait, certes, avec mes options politiques mais ce n’était pas une issue imposée par les circonstances. J’aurais pu, tout au contraire, disparaître de France ou, mieux encore, rendre à la Résistance quelques services pour lesquels, on le verra, j’avais été sollicité. Ce sont ces facilités mêmes, je crois, qui m’ont conduit au choix extrême, plus encore, peut-être, que mes propres convictions : c’est justement lorsque la maison est en feu, me disais-je, et qu’on pourrait la fuir à la faveur du désastre, qu’il faut la défendre avec plus d’énergie encore. Ce faisant, il me semble, j’agissais moins au nom d’une doctrine que par fidélité à moi-même. Et je vois bien, aujourd’hui, ce qu’il pouvait y avoir de naïvement exemplaire dans un tel comportement. Mais il faut n’avoir jamais eu vingt ans pour ne pas le comprendre.
À ce moment-là, en effet, j’étais encore soulevé par un enthousiasme qui plongeait au plus profond de mon adolescence. Depuis l’âge de quatorze ans, les idées politiques me fascinaient. Mon père, qui était officier, m’avait donné une éducation d’un traditionalisme et d’un nationalisme intransigeants ; et à Saumur, l’École de cavalerie, où il professait, était une sorte de sismographe où venaient s’inscrire, avec une particulière acuité, les remous de la vie politique française – février 1934, le Front populaire…
J’avais été, comme il se doit, formé à la lecture de « L’Action française ». Mais plus que les spéculations de Maurras, où je n’entendais pas grand-chose, les colères de Léon Daudet trouvaient de l’écho en moi. J’avais besoin de vibrer et non de philosopher, semblable en cela à mes camarades de collège ; et je doute que ceux de mes condisciples qui avaient adhéré aux Jeunesses communistes aient connu le marxisme mieux que je ne le connaissais moi-même. Les causes que nous défendions reflétaient, d’abord, notre milieu et notre famille. Notre jeunesse leur ajoutait une sorte de ferveur sacrée qui, à la sortie des classes, nous jetait fréquemment les uns contre les autres, au cours de batailles dont la violence ne le cédait en rien à celle qui se déploie, de nos jours, dans les lycées et les universités.
Cependant, j’en étais venu, assez vite, à me lasser du conservatisme pointilleux des maurrassiens. Je me voulais révolutionnaire en premier lieu, sans doute par ce mouvement de contestation qui nous dresse, à un certain âge, contre notre famille et l’idéologie paternelle. Mais, surtout, je rêvais moins au passé qu’à des lendemains exaltants. Le monde où nous vivions me paraissait asservi à l’argent, entaché d’injustices sociales.
Rien ne me préparait, toutefois, à rallier la révolution communiste : j’avais été élevé dans sa condamnation permanente et, instinctivement, je ressentais le bolchevisme comme une force maléfique. C’est alors qu’à travers les étendards et les projecteurs de Nuremberg, j’avais eu la révélation du national-socialisme. Je me lançais, aussitôt, dans des lectures nombreuses et contradictoires qui, à mes yeux, ne faisaient qu’en renforcer la séduction. Cette doctrine, où, me semblait-il, s’équilibraient les grandes traditions et un socialisme novateur, proposait une issue naturelle à mes sentiments révolutionnaires.
La guerre d’Espagne était alors survenue. Je l’avais suivie dans cette disposition nouvelle et passionnée, y voyant, surtout, un champ clos où fascisme et communisme s’affrontaient. J’en avais retiré la certitude que les démocraties capitalistes étaient condamnées à jamais. Et si j’en avais eu la possibilité, j’aurais été faire mes premières armes à l’ombre des héros de Tolède.
Puis l’Allemagne et la Russie s’étaient alliées sur le dos de la Pologne. Je n’avais pas compris et j’en étais revenu, momentanément, à un nationalisme plus strict. C’est dans cet état d’esprit que je m’étais engagé en 39. Mais lorsque le Reich avait envahi l’U.R.S.S., je m’étais repris à rêver d’un monde nouveau, où l’Europe constituerait le phare du socialisme. Cet espoir avait nourri les éditoriaux que je rédigeais pour un journal parisien à tirage confidentiel.
Et 1944 était arrivé, les événements s’étaient précipités. Je me trouvais, comme je l’ai dit, à ce point critique où un engagement n’a d’autre avenir que le casque et le fusil. J’ai fait le saut, j’ai choisi l’aventure. Et c’est au bout du grand rêve idéologique que j’ai découvert la réalité. La mienne, tout d’abord : j’étais, comme tout homme, un être contradictoire. J’éprouvais, très sincèrement, le besoin de me sacrifier à un idéal ; mais, tout aussi puissant, en moi, il y avait le désir de vivre et d’être heureux. Ce désir, que j’avais refoulé dans les profondeurs de mon esprit, n’avait, en fait, jamais cessé de parler et de m’avertir, dans les moments mêmes de plus grande exaltation. C’est grâce à lui, je le vois bien, que j’ai pu négocier les périls ; et c’est à cause de lui, assurément, que je ne puis jouer ces héros tout d’un bloc qui peuplent les images d’Épinal. Mais je lui dois de survivre. Il serait étrange qu’on me le reprochât.
Plus largement, je découvrais, aussi, ces grandes vérités simples dont m’avait écarté l’espèce de cercle magique où je m’étais tenu enfermé : que la guerre est hideuse, que les fanatismes sont meurtriers, que la mort est le plus grand mal. La jeunesse vit volontiers dans une sorte de théâtre mental et s’y taille des rôles à la mesure de ses élans. C’est dans ce théâtre intime que j’avais projeté la guerre d’Espagne et les messes nationales-socialistes de Nuremberg ; c’est à travers lui encore que j’avais ressenti la guerre de 39-40. En 1944, malgré l’occupation et les options opposées de nombre de mes amis, je savais trop peu de choses sur la réalité concrète du nazisme pour qu’il cesse de m’apparaître comme un espoir recevable. Le désastre de 1945 et, surtout, les révélations de l’après-guerre devaient détruire mes illusions.
Ce fut brutal et assez cruel. Je vis, en partie, se détourner de moi le milieu qui m’avait nourri de son idéologie, une idéologie, pourtant, dont mon aventure, en un sens, constituait l’aboutissement ultime. Restaient mes amis – anciens ou nouveaux – et l’amitié ne connaît pas de patrie doctrinale. Il en allait, d’ailleurs, très bien ainsi. Je laissais s’éloigner ma jeunesse avec les imaginations généreuses qui l’avaient soulevée, jusqu’à ce film, un jour, et à ce livre que voici, où je ne la ressuscite que pour, définitivement, la rendre au passé. Est-ce un reniement ? Cette question, il me semble, est aujourd’hui sans signification. Renierait-on, du reste, le fait d’avoir été passionné, d’avoir eu une foi, d’avoir tenté de mettre ses actes en accord avec ses convictions ? Je ne serai jamais de ces êtres amers qui détournent de leur foi ceux qui ont vingt ans. J’ai simplement, je crois, le droit de leur conseiller la prudence, non dans l’engagement lui-même mais dans le choix qui y conduit.
1
L’HEURE DU CHOIX
En ce jour d’août 1944, Paris était écrasé de soleil. Sur les Champs-Élysées, quelques rares promeneurs déambulaient. Les rues étaient presque vides, on se serait cru en vacances. Mais dans la Normandie toute proche, c’était l’enfer. Le front craquait de partout. En un ultime sursaut, les divisions allemandes tentaient de desserrer l’étau qui se refermait sur elles.
Hier encore, je me trouvais à Rouen. À l’image de sa cathédrale, la ville était cruellement meurtrie. Des convois de réfugiés hagards, des ambulances aux vitres masquées se poussaient avec peine dans les artères jonchées de décombres. J’étais arrivé sous le patronage de la présidence du Conseil et du ministère de l’Intérieur. Ma mission principale était de créer un journal qui serait distribué à la population. Il donnerait des nouvelles rassurantes et lui dispenserait des conseils d’ordre pratique.
Une belle idée, vraiment, mais elle venait un peu tard. D’ailleurs, il n’y avait plus d’imprimerie et l’administration se désagrégeait. Les Allemands avaient prescrit, à ceux qui demeuraient fidèles au gouvernement de Vichy, de se replier sur Paris. Ne s’accrochaient que les forces du Maintien de l’Ordre qui, entre les bombardements et les mitraillages, s’employaient à secourir les nécessiteux, évacuer les blessés, poursuivre les pillards.
Je n’avais plus qu’à rebrousser chemin. Le plein d’essence une fois fait, j’étais remonté dans ma traction avant, avec, en poche, des autorisations de toutes sortes. J’emmenais deux compagnons, Roger Pingeault et François-Charles Bauer. Le premier, un ancien séminariste, travaillait, comme moi, au Pays Libre. Le second, chroniqueur bien connu, avait été dépêché sur le front par Je suis partout. Mais les autorités allemandes lui avaient interdit l’accès d’un champ de bataille qui, d’heure en heure, devenait plus incertain.
Nous étions partis, tard dans la soirée, tous phares éteints, nous mêlant à des files de camions aveugles. Nous avions dû passer la Seine sur un immense bac. Ç’avait été une nuit confuse et angoissante. Les chasseurs bombardiers alliés, sans trêve, nous avaient harcelés. À intervalles réguliers, D.C.A. et projecteurs réveillaient le paysage ; et nous avions, soudain, l’impression de voguer sur une mer de ferraille et de flammes.
Nous n’avions rallié Paris que le lendemain matin. J’avais roulé jusqu’aux Invalides et m’étais arrêté sur l’esplanade. Son calme nous semblait insolite. Nous étions harassés et marqués, moralement, par ce que nous venions de découvrir. Durant le voyage, chacun, à sa manière, avait pris la mesure des événements.
Nous étions descendus. François-Charles nous avait tendu la main :
— Tu nous quittes ?
— Oui, je suis à deux pas de chez moi.
— Que vas-tu faire ?
Il avait eu un petit sourire :
— J’ai pris mes précautions…
Et il s’était éloigné. Pingeault et moi avions poursuivi jusqu’au journal, 34, Champs-Élysées. La rédaction se tenait au premier étage. Pendant les dix-huit derniers mois, nous avions écrit à cinq cet hebdomadaire que lisaient quelques milliers de lecteurs seulement. Sa publication avait permis au directeur-fondateur, Pierre Clementi, de récolter auprès d’industriels de sérieux fonds secrets. Il avait pu, ainsi, payer maigrement ses rédacteurs et son imprimeur lyonnais tout en menant grand train.
Nous montons jusqu’aux bureaux. Ils étaient déserts, un vent de débâcle était passé par là. De nombreux dossiers avaient disparu, le sol était couvert de papiers épars, piétinés. Le téléphone avait été coupé. La concierge, une vieille femme myope, errait d’une pièce à l’autre en gémissant.
Pingeault a pris une chaise et s’est assis dans un coin. Il ricane :
— Tu vas voir, c’est la grande peur des bien-pensants. Mais crois-moi, mon vieux, révolution pour révolution, je saurai choisir celle qui l’emportera.
Je regardais sa tête ronde, couverte d’une épaisse tignasse noire. Les mèches recouvraient son oreille gauche qui était complètement atrophiée, en sorte que ses lunettes se décrochaient sans cesse et lui glissaient le long du nez. Il haïssait les structures établies, et les moyens lui importaient peu qui permettraient de les renverser. Au séminaire, il s’était senti attiré par le marxisme. Il avait rêvé des barricades communardes. Puis il s’était rallié au national-socialisme, mais pour lui, ce n’était qu’une étape.
En l’écoutant, je songeais à mon propre chemin. J’étais moins averti que lui, et mes vingt-quatre ans étaient riches, surtout, d’élans passionnels. Dans mon esprit, les images se bousculaient. Je me revoyais, collégien que le visage sacrifié de Horst Wessel fascinait. Chaque semaine, au cinéma, les actualités me racontaient la marche en avant de tout un peuple qui, surmontant ses humiliations, voulait reconquérir sa dignité et sa grandeur nationale. Et je me revoyais, aussi, dans mon Val de Loire. C’était en septembre 1936 – un automne paisible. Mais ma pensée, alors, était bien loin. Je m’imaginais à Nuremberg, au cœur d’un océan d’étendards, d’emblèmes et de torches. Sous les voûtes de la cathédrale de lumière que les projecteurs inscrivaient dans la nuit, une nouvelle religion était née. Son impulsion dépassait les frontières. Ses chants étaient le vent qui ensemence les cœurs.
Pingeault semblait lire sur mon visage :
— Réveille-toi, mon vieux. Hitler est foutu. Il est temps de laisser tomber.
— Est-ce que tu oublies ceux, venus de toute l’Europe, qui se battent sur le front de l’Est ?
— Crois-moi, on les oubliera bien vite quand la guerre sera finie.
Que répondre ? Et tout à coup, j’ai pensé à un jeune ouvrier. Il était passé dans cette même salle avant d’aller revêtir l’uniforme de la Waffen SS. « C’est en lisant vos articles, m’avait-il dit, que j’ai compris où était le chemin d’un avenir plus propre. » Après avoir suivi mes convictions, il les avait devancées. J’étais lié à son choix. Si je ne voulais pas, un jour, vivre dans la crainte et la honte, je devais rejoindre son exemple. Et je sentis, soudain, qu’en moi, tout était joué. Je me levai :
— Tu veux que je te dépose quelque part ?
Pingeault m’a regardé tristement :
— Tu vas chez Maud ? Alors je te suis.
Nous avons jeté un dernier regard sur le décor dévasté. De ces années de journalisme, il ne me restait, dans mon portefeuille, qu’une carte de presse délavée.
Maud habitait rue du Renard, chez sa mère. Celle-ci nous accueille. Elle est grande, enthousiaste. Elle a débuté en vendant des oranges à la sauvette ; maintenant elle est à la tête d’une des plus grosses affaires des Halles. Elle n’a pu s’empêcher de travailler pour les Allemands et a mis plusieurs de ses camions à la disposition de l’organisation Todt. Mais l’argent que la Kommandantur lui verse, elle en fait surtout profiter des amis.
Fébrile, elle nous entraîne jusqu’au balcon. Devant nous, autour de l’Hôtel de Ville, se déploie une forêt de toits, de façades, de ruelles.
— Gardez cela pour vous. Depuis quelques jours, j’ai un parachutiste anglais. Il est caché dans la chambre du fond. Il est très beau.
Déjà amoureuse ! Pingeault a émis un léger sifflement :
— Eh bien, vous voilà dédouanée…
Elle ne semblait pas comprendre. Sa réussite ne l’avait jamais troublée et c’est sans y attacher d’importance qu’elle avait lu les lettres de menaces que son courrier lui apportait quotidiennement. Aujourd’hui, la chance lui tombait du ciel, mais elle ne pensait pas au parti qu’elle pourrait en tirer.
Les événements, décidément, allaient vite. Coup de sonnette : c’était Maud. Elle était accompagnée de Me Alain Ballot, un Tourangeau comme moi. Mais lui, travaillait pour Londres. Il était agent de liaison et venait pour le parachutiste. Il sourit en me voyant :
— Heureux de te rencontrer. Je vais avoir besoin de toi. Car tu as fait assez de conneries. Alors, maintenant, tu vas m’écouter.
Il était donc si facile de tout effacer, si facile de changer de camp… Maud – boucles brunes, petit visage doré d’Espagnole – me prend le bras, ses grands yeux m’enveloppent.
— Écoute-le, il a raison…
Pingeault se battait avec ses lunettes, tout en me fixant ironiquement. Comme si, en moi, je libérais un être neuf, quelqu’un que je connaîtrais encore mal, je me suis entendu prononcer :
— Non… Je suis venu vous dire adieu.
— Tu es fou !
Ils avaient dit cela tous ensemble. Et j’ai compris qu’il fallait que je m’en aille tout de suite. Pourtant, j’aurais voulu dire tant de choses à Maud… J’ai ouvert la porte, Maud m’a rejoint dans l’escalier, m’a agrippé en criant :
— Reste.
Elle avait dix-sept ans, elle m’aimait, je crois. Que pouvait-elle comprendre ? Entre mes mains, j’ai attiré son visage humide de larmes, comme pour le graver dans ma mémoire. J’aurais voulu, lentement, l’embrasser et l’apaiser. Mais il n’était plus temps.
J’ai retrouvé mon appartement de la rue Chevert – trois pièces dans un immeuble bourgeois, aux locataires cérémonieux et distants, mais bien renseignés les uns sur les autres par la concierge dont le mari est agent de police. Sur le trottoir, quelques enfants jouent. À deux pas, l’esplanade des Invalides est hérissée de canons antiaériens. Les servants, torse nu, se bronzent au soleil.
Un peu de courrier sous la porte, rien d’important. Je tourne en rond, ma décision me tourmente. Il faut que je me change les idées. Je fais couler un bain. Le soir tombe, j’ai faim, j’ouvre le garde-manger mais il est vide. Je parcours chaque pièce, inspecte chaque bibelot, chaque meuble, ma bibliothèque. Je vais laisser tout cela. Le retrouverai-je jamais ? Un moment, j’ai la tentation de retourner chez les Garcia, de revoir Maud. Mais non, c’est trop dangereux, tout risquerait d’être remis en question.
Tout de même, n’ont-ils pas raison, ne suis-je pas devenu fou ? Je sursaute, le téléphone vient de sonner :
— Ici, Jean Chatrousse. Écoute-moi. Il faut que tu te rendes demain à Neuilly, rue de l’Église, à 18 heures précises. Tu demanderas Mme James. C’est important, très important.
Et il raccroche. Chatrousse commandait en second les forces du Maintien de l’Ordre stationnées en Normandie. Je ne l’imaginais pas si vite revenu. Et que voulait dire ce coup de téléphone ? J’allume la radio. À travers les communiqués qui se succèdent, je comprends que les Alliés ont maintenant la situation en main, et qu’ils seraient peut-être déjà là si les Allemands ne résistaient aussi désespérément. Pourtant, tout semblait calme à Paris. Pas une alerte aérienne.
Je suis vraiment à bout. Tant pis, je ne dînerai pas. Je vais prendre mon bain et je me coucherai. Je décrocherai le téléphone pour ne pas devoir répondre à Maud.
C’est le téléphone, pourtant, qui m’a réveillé. Ma chambre était inondée de soleil, j’avais oublié de fermer les persiennes. Je me sentais bien, reposé. Ma montre marquait 8 heures.
— C’est Pingeault. Il faut que je te parle, tu déconnes complètement. Et puis il y a Maud, quand même. Est-ce que je peux venir ?
— Bon. Arrive.
Il ne devait pas être loin car à peine avais-je commencé à me raser qu’on a sonné à la porte. En l’introduisant, je réalisais qu’il appartenait à mon existence plus que je ne le pensais et plus, peut-être, que je ne le souhaitais. Ses jugements incisifs m’impressionnaient, s’ils m’agaçaient parfois. Derrière ses sarcasmes, je sentais une grande fragilité devant la vie. Il n’osait l’affronter qu’à travers moi, et je l’avais toujours vu plus ou moins amoureux des femmes qui m’approchaient. Sans doute portait-il à Maud un sentiment qu’il n’osait s’avouer.
Il m’a développé tout un raisonnement pour me faire comprendre où était mon intérêt et m’inciter à revenir sur ma décision. Il a insisté sur la peine que j’allais causer à mon entourage. Mais plus il parlait, plus ce que je croyais confus et douteux, hier soir, me paraissait, maintenant, clair, évident.
— Non, mon vieux, c’est trop tard. Ma décision est prise, j’irai jusqu’au bout. On verra bien.
Alors, il s’est tu. Je lui ai raconté l’appel de Chatrousse et lui ai demandé de m’accompagner. Mais ça ne lui était plus possible. Il avait viré de bord et allait rejoindre la clandestinité. Nous avons été prendre un café dans un bistrot, place de l’École-Militaire. Nous n’avions plus rien à nous dire, sinon adieu. On s’est quittés et il s’est engouffré dans le métro.
J’avais le cœur un peu lourd. Il me semblait que j’entrais en religion et qu’il me fallait, désormais, me dépouiller de tous les éléments de mon passé. J’avais choisi la solitude, mais elle m’effrayait encore.
Il y avait aussi mon père. Que lui dirais-je ? Tout en revenant rue Chevert, je songeais à la lettre que je pourrais lui écrire. Mais quelles explications donner ? Depuis plus d’un an, il ne savait presque rien de moi ; et avec cette discrétion qui était une des maximes fondamentales de sa vie, il ne m’avait jamais posé de questions.
Je le savais, pourtant, inquiet de mon avenir. Officier exemplaire, façonné selon les vieilles traditions de la cavalerie française, il ne connaissait qu’une règle, la loyauté. Il avait prêté serment au maréchal Pétain et s’était refusé à entrer dans un quelconque réseau de résistance, en dépit des sollicitations qu’il avait reçues. Mais depuis qu’en novembre 1942, les troupes allemandes avaient envahi la zone Sud, il s’était mis à l’écart de toute activité vichyssoise.
Cette réserve m’avait choqué. Quelquefois, j’avais tenté de lui expliquer mon évolution. Nous venions, après tout, du même univers. Au moment de l’armistice, alors que j’étais un jeune élève pilote de l’armée de l’Air, j’avais voulu partir pour l’Angleterre. Il m’en avait dissuadé et ses raisons m’avaient convaincu. Comme lui, j’étais persuadé que la défaite tenait moins aux hommes qu’au régime, et j’avais reporté, alors, mes espoirs sur la Révolution Nationale prônée par le maréchal Pétain. Depuis, je n’avais fait que franchir les étapes d’un itinéraire dont la logique me semblait évidente.
Mon père avait feint de le comprendre, tout en refusant de l’admettre. Cette lettre, si je la rédigeais, devrait être longue, argumentée. Je redoutais un jugement sans appel : pour mon père, l’uniforme allemand, et plus encore celui de la Waffen SS, même s’il habillait un idéal respectable, était avant tout l’uniforme de l’ennemi. J’allais donc, à ses yeux, trahir tout ce pour quoi il m’avait élevé…
Oui, je devais lui écrire. Mais le souffle me manquait pour le faire, tout allait trop vite. Je renonçais. J’avais choisi seul ma galère, et mes décisions ne concernaient plus que moi. Il fallait couper la dernière amarre.
L’après-midi s’achevait. C’était l’heure du rendez-vous indiqué par Chatrousse. Je montai dans ma voiture et, à travers les avenues mortes, filai jusqu’à Neuilly. Je m’arrêtai devant un petit immeuble. Un ascenseur poussif me conduisit au quatrième. Le visage grave, Chatrousse m’attendait. Il était vêtu sobrement, d’un costume de flanelle grise taillé avec soin. Je ne savais rien de lui, sinon qu’il avait fait Saint-Cyr.
— Mme Ellen James.
Un nom qui sentait le pseudonyme. C’était une femme un peu plus âgée que nous. Séduisante, et riche à en juger au cadre où elle vivait. Elle nous offre du whisky – je n’en avais pas bu depuis quatre ans. Je m’assieds, un peu sur mes gardes. Verre en main, Chatrousse se tourne vers moi :
— On m’a rappelé d’urgence de Rouen. La situation ne cesse de se dégrader.
Et il me brosse un tableau complet des événements. Puis il aborde la raison de notre entrevue. Il me parle d’Ellen James. Elle appartient à un réseau de renseignement. Ce qu’il m’explique me semble passablement embrouillé. Se méfie-t-il de moi ou n’est-il pas, lui-même, très bien informé ? Notre hôtesse s’enferme dans son rôle de maîtresse de maison, mais ses yeux ne nous quittent pas.
— Nous attendons deux hommes. C’est Ellen qui leur a conseillé de nous rencontrer. Je ne sais rien d’eux, sinon qu’ils arrivent de Londres.
Je ressentais une sorte de malaise. Alors que j’avais pris une décision sans équivoque, que j’étais, enfin, en règle avec moi-même, on aurait dit que le destin s’ingéniait à tout compliquer. Pas question, en tout cas, de dire à Chatrousse que je venais de faire, à l’instant, les démarches pour rejoindre la Waffen SS française.
Cinq coups de sonnette – un prolongé, trois brefs, un prolongé. Ce doit être le signal. Je me revois, à dix ans, jouant aux conspirateurs avec des copains : la clandestinité, décidément, mêle le tragique et le puéril. Deux hommes font leur entrée. Le premier est brun, avec des cheveux en brosse. L’autre est châtain clair et tient son chapeau à la main. Des gens comme on en croise à chaque coin de rue.
Mme James nous présente, Chatrousse et moi. Ils ne disent pas leur nom et nous observent avec froideur. Puis, après un temps, l’homme aux cheveux en brosse prend la parole. Il s’exprime d’un ton neutre, avec lenteur et précision. Le langage du professionnel qui compte sur vous pour une mission déterminée. Peu importe qui nous sommes et ce que nous pensons.
— Les armées alliées seront bientôt devant Paris. D’après ce que nous savons, les Allemands ont l’intention de transformer la capitale en un nouveau Stalingrad. Ils y parviendront d’autant mieux que les groupes de la Résistance doivent harceler leurs troupes quartier par quartier. Aussi l’État-Major allié est inquiet. Il pense que les F.T.P., d’obédience communiste, commenceront le combat avant que l’ordre leur en soit donné. Un comité révolutionnaire pourrait ainsi se saisir des leviers de commande et proclamer la France république socialiste et soviétique. Or, vous n’ignorez pas que le général de Gaulle est maintenant reconnu par les Alliés. Les Américains ne tiennent pas, en pleine bataille, à affronter un problème politique qui mettrait en question les accords qu’ils ont passés avec l’U.R.S.S. Nous souhaiterions donc grouper des sections du Maintien de l’Ordre en des points que nous vous indiquerions, si nous nous entendons. Elles interviendraient au cas où les forces communistes déclencheraient le plan que nous craignons.
On devait, tout de même, avoir l’air étonné, car il a brièvement souri.
— Notre choix vous surprend sans doute. Mais la police parisienne doit se mettre en grève et elle ne sera donc pas en mesure de s’opposer aux communistes, qu’anime une foi révolutionnaire farouche, qui sont bien encadrés et bien armés. Nous devons leur opposer des anticommunistes convaincus. Lorsque la situation sera éclaircie, on tiendra compte de ce que vous aurez fait.
Un vrai guêpier. J’avais les mains crispées et moites. Lèvres serrées, Chatrousse réfléchissait.
— C’est possible, c’est à envisager…
L’autre, alors, prend un ton sec :
— Il faut faire vite. C’est votre acceptation ou votre refus que nous sommes venus chercher. Vous avez, monsieur Chatrousse, un certain nombre d’hommes venant de la franc-garde milicienne. Ils ont un armement important. Vous exercez beaucoup d’ascendant sur eux. Un mot, et ils vous suivront.
— Je n’en suis pas si sûr…
Il était accablé, tiraillé ; mais prêt, finalement, à basculer, moins par conviction, j’imagine, que pour les beaux yeux de Mme James. Quant à moi, je me taisais. Je ne voulais pas tremper dans cette combine. Nous vidons nos verres. Les deux hommes se lèvent, ils n’ont pas de temps à perdre. Ils prennent Ellen James à part. Après une brève discussion, j’entends la porte claquer.
J’avais envie de rire. Il me semblait que je sortais d’un rêve. Tout se dissolvait dans mon esprit. Quels étaient ces fantômes qui venaient de s’évaporer ?
Notre hôtesse réapparaît.
— Vous auriez tort de refuser. L’Allemagne est perdue, c’est évident. Qu’allez-vous devenir ? C’est là votre chance.
Je prends la parole :
— Ce coup de main qu’on nous demande, c’est tout de même bien léger en regard de notre action passée. Qui croira à ce loyalisme de dernière heure, même s’il se justifie par l’anticommunisme ? Et puis, je ne suis pas du tout persuadé que les hommes de Chatrousse suivront…
Mais celui-ci s’était décidé.
— Tant pis, je tente le coup. J’aimerais ton aide, non pas inconditionnellement, simplement comme agent de liaison. Tu auras, ainsi, encore un peu de temps pour réfléchir.
Puis il m’expose son plan.
— Mes troupes doivent arriver à Paris dans la soirée. Elles cantonneront au lycée Saint-Louis. Il vaut mieux que je n’aille pas les rejoindre. J’irai voir Maréchal, un de mes hommes de confiance. Je lui donnerai des consignes bien précises. À une heure qui restera à déterminer, il réunira les francs-gardes place de la Concorde, par petits groupes, avec armes et bagages. Ils seront chargés dans leurs camions, qui arriveront de la caserne Mortier. Alors, je viendrai reprendre mon commandement et amènerai les francs-gardes au lieu de rendez-vous que les gens de Londres m’auront indiqué. Tu peux te fier à Maréchal qui, lui, saura sur qui s’appuyer.
Tout cela était un peu feuilletonesque. Mais la situation, elle-même, était si trouble que la réussite n’était pas impossible.
— Bon, si tu veux. Mais à une condition : l’opération terminée, je me tire de mon côté.
— D’accord, je comprends tes réserves. Je te téléphone demain très tôt, pour les dernières instructions.
Je lui serre la main. Un dernier coup d’œil sur la silhouette de Mme James, et me voilà dans la rue. Malgré tout, je me sentais un peu écœuré. Il fallait que je secoue cette tristesse qui s’abattait sur moi. Si j’allais chez Maud ? Mais non, ce serait une folie.
Je pense alors à une maison de passe, rue de la Lune. Je m’y étais établi, il y a plusieurs mois, à l’occasion d’un reportage sur la prostitution. La gérante, Janine, était une petite brune appétissante et rieuse. J’avais connu, avec elle, une courte aventure d’où j’étais ressorti sérieusement documenté. J’avais très envie, maintenant, de la retrouver.
Quelques instants après, je débarquai à l’hôtel. Janine semblait tout heureuse. Nous nous sommes rendus dans un bistrot de la rue Saint-Denis qui ne s’était jamais soucié des cartes d’alimentation. L’un contre l’autre, nous nous sommes serrés à une petite table rustique, sous des rideaux rouges et blancs. Ça sentait bon l’encaustique. Sur une étagère, un ventilateur ronronnait. Une bouffée de bonheur et d’insouciance m’envahissait. La première depuis mon retour de Rouen.
Janine était de celles qui savent écouter et comprendre. Elle était née dans une modeste famille du Midi. Venue pour conquérir Paris, elle s’était vite retrouvée sur le trottoir. Comme elle était maligne et volontaire, elle avait su se faire apprécier d’un tôlier qui lui avait confié la gérance de son hôtel. Celui-ci, avant tout, s’employait, sous le patronage de la Kommandantur, à faire oublier les rigueurs du front de l’Est aux soldats de la Wehrmacht.
Elle avait posé sa main sur mon poignet et me le serrait doucement. Par bribes, je lui racontais mon existence depuis que je ne l’avais revue. Elle fixait sur moi ses yeux sombres, tout en me versant à boire. Je lui parlais de mes amours, lui exprimais mes craintes pour l’avenir. « Mon tôlier qui voit loin, m’avait-elle répondu en riant, me fait maintenant apprendre l’anglais. Il m’a expliqué que ça faciliterait le travail. » Et elle m’avait proposé de venir vivre auprès d’elle, dans le petit appartement qu’elle avait au rez-de-chaussée, à côté de la réception et du salon d’accueil. « Mais, avait-elle ajouté, la seule chose importante, c’est que tu fasses ce que tu as envie de faire. »
D’autorité, comme c’est de règle dans son milieu, elle avait payé l’addition. Puis elle s’est tournée vers moi :
— Viens.
Et je me suis retrouvé dans sa chambre. Elle avait des gestes doux, maternels, ceux dont j’avais besoin. Nous avons fait l’amour avec une immense tendresse. Puis elle est sortie discrètement, en laissant la lampe de chevet allumée. J’ai grillé une cigarette, sans penser à rien. Et j’ai fermé les yeux.
Il était 5 heures quand je me suis réveillé. L’aube commençait à poindre. Janine dormait blottie contre moi. Allons, il fallait rentrer, Chatrousse téléphonerait bientôt. Je me suis habillé sans bruit, ai tiré lentement la porte. Le veilleur de nuit était là. Je lui ai demandé du papier et une enveloppe. Je voulais dire adieu à Janine ; et surtout, merci.
Je me dirigeai vers les grands boulevards, où ma voiture était garée. La journée serait encore chaude et belle. Des travailleurs descendaient vers le premier métro. Seuls, quelques convois allemands troublaient le calme du petit matin.
De retour rue Chevert, j’ai entrepris de faire des rangements, en attendant l’appel de Chatrousse. Je brûlai toutes mes lettres personnelles. Puis je feuilletai le dossier où j’avais entassé mes articles. Oui, ce n’était pas mal, sincère en tout cas, un peu exalté, peut-être. Je prenais, soudain, une distance vertigineuse avec tout cela. Curieux comme j’avais vieilli, en deux jours…
Le téléphone m’a arraché à ma rêverie.
— Christian ? Alors, voilà. À 10 heures, tu as rendez-vous à Saint-Louis avec Maréchal. Tu lui transmettras ce qui a été décidé hier. Je l’ai, partiellement, informé de l’affaire. Le rendez-vous est pour cet après-midi à 2 heures, place de la Concorde, devant le bâtiment de la Kriegsmarine. À bientôt.
Je redescends, fonce vers le boulevard Saint-Michel. Le lycée était en proie à une grande agitation. Des camions se relayaient pour décharger les armes et les munitions. Fusils en faisceaux, paquetages encombraient les couloirs. J’allais, à la recherche de Maréchal, de dortoir en dortoir, à travers les miliciens débarqués du Nord, de la Bretagne et de la Normandie.
Finalement, j’ai mis la main sur lui. C’était une sorte de colosse débonnaire et finaud. Visiblement, il ne comprenait guère ce que Chatrousse attendait de lui. Craignant les indiscrétions, je restais évasif, parlais simplement d’une mission particulière. Mais, à vrai dire, toute cette histoire me paraissait bien chanceuse. Impossible qu’une telle concentration de gens armés n’éveille la curiosité. Or, en principe, les compagnies ne devaient faire mouvement que sur un ordre précis du chef de la milice, Joseph Darnand…
Les consignes données, je quittai Maréchal.
— Soyez exact.
Je me suis rangé devant la Chambre des députés. Il n’est pas loin de 14 heures. J’adopte le pas du flâneur pour traverser la Seine et me rendre place de la Concorde. Le soleil est torride. L’asphalte me brûle les pieds.
Bientôt, devant moi, se dresse la masse de l’ancien ministère de la Marine, aujourd’hui siège de la Kriegsmarine. Les drapeaux allemands flottent sur le toit. D’un pas régulier, les sentinelles – casque sur les yeux, mitraillette en travers de la poitrine, d’énormes auréoles de sueur sous les bras – arpentent en se croisant l’étroit couloir entre les chevaux de frise. Sur le trottoir, des francs-gardes attendent, avec leurs armes et leur paquetage.
Un temps s’écoule. Puis un premier GMC stoppe le long du portail des Tuileries. Les francs-gardes montent. Je m’immobilise. Ça va mal tourner, je le sens. Effectivement, deux voitures débouchent. Elles sont pleines de soldats allemands. Un officier sort de la première, se dirige vers le camion. Il parle français. Je l’entends demander aux miliciens ce qu’ils font là. Je me cache, l’œil aux aguets, afin d’intercepter Chatrousse lorsqu’il surgira.
La discussion semble animée. Finalement les francs-gardes descendent, les Allemands les font ranger par deux. D’autres miliciens apparaissent. Au fur et à mesure qu’ils arrivent, ils sont cueillis et regroupés. Personne n’a l’air de comprendre quoi que ce soit. Et Chatrousse, soudain, émerge du métro. Je vais rapidement à son devant. Il s’arrête, voit la situation. Je lui demande ce qui se passe.
— Eh bien, j’arrive trop tard. J’ai reçu tout à l’heure un coup de téléphone. Certains chefs de la milice ont trouvé suspect le remue-ménage de Saint-Louis. Après s’être renseignés, ils ont conclu à un débauchage de la franc-garde par des éléments douteux. Comme ils savaient que le rendez-vous était place de la Concorde, ils ont fait appel aux Allemands. Ne t’inquiète pas. Les gars vont réintégrer le lycée sans dommage. Quant à moi, il ne me reste plus qu’à trouver une explication qui satisfasse Darnand…
En parlant, nous avons remonté vers la Madeleine. Une des dernières occasions de basculer dans la Résistance s’était évanouie. Mais Chatrousse ne songeait plus à l’avenir. Pour le moment, il lui fallait, d’abord, excuser ses hommes devant ses supérieurs. Quant à lui, il écoperait probablement d’une sanction sévère.
Nous avons fait quelques pas, puis nous nous sommes étreints en nous souhaitant bonne chance. Je l’ai regardé s’éloigner. Il était le dernier témoin de ces années parisiennes, actives et fiévreuses. Avec lui, c’est un peu comme si toute la France occupée s’évanouissait à mes yeux. L’aventure, désormais, était à l’Est. Il ne me restait plus qu’à me rendre à l’hôtel Majestic, où se tenait l’État-Major du « Grand Paris », et à y retirer mes papiers d’engagement.
*
Mon dossier était prêt, mais on semblait presque m’avoir oublié. Les Allemands étaient dans la fièvre du déménagement. Finalement on m’a remis les documents qui faisaient de moi un futur Waffen SS, en y joignant des marks et des cartes d’alimentation. Puis j’ai tâché de faire admettre que je ne partirais pas en train mais avec ma traction. La discussion a été laborieuse : je ne pouvais expliquer, tout de même, que je ressentais le besoin de quelques jours de liberté pour mieux larguer mon passé…
C’est alors qu’un des officiers m’a annoncé une nouvelle surprenante : Darnand, le chef milicien, mais aussi le Secrétaire national au Maintien de l’Ordre, avait passé un accord avec Himmler, aux termes duquel les francs-gardes, éléments armés de la milice, rejoindraient la Waffen SS. Avec les rescapés de la Brigade d’Assaut (7e Sturmbrigade), la première unité SS à être composée de Français, ils constitueraient la base d’une nouvelle division. J’avais donc intérêt à faire un saut au ministère de l’Intérieur.
J’étais stupéfait. Ainsi, du jour au lendemain, on pouvait disposer de plusieurs milliers d’hommes ayant prêté serment au Maréchal ! La milice était une formation au nationalisme farouche, encadrée, surtout, par d’anciens officiers. Comment imaginer tous ces gens sous l’uniforme allemand ?
Quant à moi, je ne me sentais pas concerné. Je m’étais décidé seul, je partirais seul. Après bien des palabres, j’ai obtenu des bons d’essence, des laissez-passer de toutes sortes, et une feuille de route pour Sennheim, un petit village alsacien, entre Thann et Mulhouse. Avant-guerre, il s’appelait Sernay. C’est là que se trouvait le camp d’entraînement de la Brigade d’Assaut.
Curieux, pourtant, de m’entendre confirmer ce que je venais d’apprendre, je suis allé place Beauvau et j’ai demandé audience à Max Knipping, chef du cabinet de Darnand. Il a pris un air évasif : non, il n’avait entendu parler de rien, tout ce qu’il savait, c’est que Darnand devait regrouper ses hommes en Alsace. Étrange coïncidence, tout de même ! « Attendez ses directives », a-t-il ajouté. Mais non, décidément, ces histoires ne me disaient rien.
Le lendemain, je prenais la route de Nancy. La campagne était paisible. Sans les convois allemands – certains montaient, d’autres se repliaient –, on se serait cru loin de la guerre. Je partais pour une aventure neuve, et cela créait, en moi, une sorte d’ivresse. Par moments, toutefois, j’étais saisi d’une sourde inquiétude : et si mon choix n’était qu’une fuite en avant, un défi perdu d’avance dont personne ne me saurait gré ? J’avais fait halte à Sézanne et, dans un petit bistrot, avais commandé, pour me remonter, du vin rouge et un sandwich. Les gens étaient nombreux. Ils me regardaient avec un peu de méfiance, j’essayais de deviner ce qu’ils pensaient. Quel effet aurais-je produit si j’avais sorti mes papiers à croix gammée ?
De Nancy, j’ai fait un crochet par Strasbourg. Je voulais voir cette ville, officieusement annexée depuis quatre ans. Je me suis promené dans les petites rues qui entourent la cathédrale. Jambons et saucisses s’étalaient à la devanture des charcuteries : en dépit de la réglementation, le ravitaillement, ici, semblait plus équilibré. Quant aux gens, ils étaient souriants et assez ouverts. Mais ils avaient perdu jusqu’au souvenir de notre langue. Il est vrai que son usage était rigoureusement interdit – ainsi que le port du béret basque, symbole reconnu de l’élégance française.
Tant bien que mal, je m’étais entretenu avec la femme de chambre de l’hôtel où j’étais descendu. À travers ses propos, j’avais deviné les tiraillements de tout un peuple, profondément marqué par la guerre et qui, manifestement, attendait de connaître le vainqueur pour savoir son destin. Juste au moment où elle était ressortie, des chants martiaux s’étaient élevés de la rue. J’avais poussé la fenêtre. Visages tendus, des « Hitlerjugend » défilaient dans un ordre parfait. Pas de doute, j’étais bien en Allemagne…
Le lendemain, j’ai mis le cap sur Sennheim. Il valait mieux ne pas trop s’attarder. À peine étais-je arrivé, la veille, que deux flics du SD [1], vêtus en civil, avaient rappliqué à l’hôtel pour éplucher mes papiers. Courtoisement, mais sans ambiguïté, ils m’avaient fait remarquer que l’heure n’était pas au tourisme.
J’ai encore fait un crochet par Sélestat, me souvenant que c’était dans cette région, aux dires de Knipping, que la milice devait se rassembler. Je n’ai rien vu. Enfin, je suis parvenu au camp d’entraînement de la Brigade d’Assaut.
Je rangeai ma voiture à l’entrée et, à travers les barbelés, regardai les baraquements : tout semblait désert. Je pénétrai, errai un peu, tombai pour finir sur quelques militaires. C’étaient des administratifs, qui n’étaient restés là que pour fermer les lieux. Les derniers éléments de la Brigade avaient été expédiés en Poméranie, à Greifenberg. Mais, sous peu, on allait les rapatrier à Wildflecken. C’est là que tous les Français sous uniforme allemand seraient regroupés pour former la nouvelle division de Waffen SS. Et c’est à ce camp, au nord-est de Francfort-sur-le-Main, qu’il fallait que je me rende.
Du coup, j’enregistrai une formidable baisse de pression. Cette nouvelle division, pour la former, on semblait prendre son temps… Le sort, décidément, me renvoyait à moi-même. J’avais voulu quelques jours de liberté ; il m’en arrivait, maintenant, bien plus que je ne l’avais souhaité.
On m’a fait le plein et je suis reparti en direction du Rhin. J’avais envie de voir à quoi ressemble un empire lorsqu’il est pris à la gorge. On m’avait donné assez d’autorisations et de bons pour durer quelques semaines.
Et c’est ainsi que j’ai entamé un circuit dont je ne sais plus reconstituer les détails. Ce dont je me souviens, en revanche, c’est de l’amitié, de la sollicitude que je trouvais partout. On ne rencontrait guère que des gens âgés. Ils m’accueillaient avec une hospitalité extrême. J’ai couché plus d’une fois dans la chambre de celui qui se battait au front. J’ai partagé plus d’un repas sans qu’on me demande même un ticket d’alimentation. Parce que j’étais volontaire pour lutter contre le bolchevisme, je suscitais un peu d’admiration et beaucoup de surprise.
Je roulais au gré de l’humeur du moment. J’ai sillonné la Rhénanie. Puis je suis descendu à Ulm – c’est là que Darnand et la milice devaient se rendre après leur rassemblement alsacien, mais ils n’étaient pas arrivés. De là, je suis remonté sur Nuremberg. Depuis longtemps je souhaitais connaître ce berceau de l’imagerie nationale-socialiste.
Cette disponibilité avait quelque chose d’étrange et j’étais porté, parfois, à me la reprocher. Mais après tout, j’allais me battre aux côtés de ce pays, j’avais donc le droit de l’apprendre un peu. Alors, l’âme en paix, je reprenais ma route, malgré les contrôles policiers, les alertes aériennes, les convois militaires que je doublais, les points stratégiques, hérissés de canons, que je croisais, et tous ces bombardements qui ravageaient l’Allemagne industrielle et dont, quotidiennement, j’entendais la lugubre énumération.
Un matin, enfin, je suis arrivé à Heidelberg. Lycéen, j’avais souvent rêvé de cette ville universitaire où enseignaient les meilleurs professeurs. Elle était le lieu inspiré de l’Allemagne.
Mais, en septembre 1944, elle ne comptait que peu d’étudiants. C’étaient les vacances. C’était surtout la guerre totale. À partir de dix-sept ans, tous ceux qui pouvaient porter les armes avaient été mobilisés. Ils étaient partis, et beaucoup de filles aussi. Ne restaient que les réformés et les éclopés.
Je me suis longuement promené, admirant les fortifications et les maisons anciennes aux côtés desquelles avaient surgi des facultés très modernes. Et c’est au hasard de ces pérégrinations que j’ai rencontré Inge. C’était tout à fait l’Allemande romantique, aux antipodes de la « Gretchen » dont les Français se gaussaient depuis 14-18 : grande, élancée, avec la souplesse onduleuse du cygne. Elle avait un sourire doux et pudique, de grands yeux bleus, de longs cheveux blonds qui reposaient sagement sur ses épaules.
Elle parlait un peu le français, moi, un peu l’allemand, de quoi former, avec l’aide du regard et du geste, une langue qui ne serait qu’à nous. Elle avait dix-huit ans et faisait ses études. Mais, volontaire pour servir, elle attendait son ordre de départ. En cela, elle ne se distinguait pas des jeunes de ce pays. Je ne sais s’ils étaient véritablement hitlériens. Mais Nuremberg les avait marqués et ils étaient très imprégnés de national-socialisme. Ils avaient une haute conscience de leur communauté et de sa mission européenne. Leur épanouissement coïncidait avec une série ininterrompue de victoires et l’idée de la défaite ne les habitait pas, alors même que le vent tournait. Tous se sentaient entièrement engagés.
Nous avons vécu, Inge et moi, deux jours merveilleux. Entre nous, il ne s’est rien passé que de très gentil. Elle venait me chercher à mon hôtel, mais ne s’y attardait pas. Main dans la main, nous arpentions les ruelles médiévales, qui montaient et descendaient sans répit, et où l’obscurité ne cessait d’alterner avec la lumière. Elle me parlait d’elle, je lui disais ce que j’allais faire. Cela, à la fois, l’enthousiasmait et l’étonnait. Le Français, pour elle, était un être incompréhensible, léger et fascinant comme le péché. Notre conversation était pleine d’éclats de rire, nés de malentendus provisoires que je dissipais en consultant le manuel que j’avais dans ma poche.
Je ne pouvais, pourtant, m’éterniser à Heidelberg, où je commençais à éveiller la curiosité. Ma traction avant, dans ce pays où l’on ne voyait que des Auto-Union, des Volkswagen et des Mercedes, se faisait beaucoup remarquer. Je sais bien que les Allemands nous avaient « pillés » – c’est le propre de tout vainqueur –, qu’ils nous avaient pris nos wagons, par exemple. Mais nos voitures, manifestement, ne les intéressaient pas.
Mon costume à la française, d’autre part, tranchait parmi ces gens dont la mise, dénuée de coquetterie, tendait vers l’uniforme. Aussi les policiers m’arrêtaient fréquemment pour me contrôler. Comme toute nation assiégée – les Alliés, à l’Ouest, approchaient de ses frontières –, l’Allemagne vivait à ce moment dans la phobie des espions. Sur tous les murs s’étalait la phrase : « Feind hör mit », « L’ennemi vous écoute ».
Le moment, pour moi, était venu. Paris, tombé depuis plus d’un mois, se trouvait loin et, dans mon souvenir, le visage de Maud s’estompait. J’étais du côté d’Inge et c’était comme si le long détour que j’avais fait n’avait d’autre but que de me conduire à elle.
Ma conviction, à travers son courage tranquille, s’était retrempée. À vrai dire, je n’étais pas sûr de partager l’optimisme ambiant. Partout, on parlait des V1 et des V2 qui annonçaient, croyait-on, d’autres armes mille fois plus terribles. La presse mentionnait volontiers le nom de von Braun – un homme qui ferait son chemin. Des avions allaient sortir qui dépasseraient la vitesse du son, ce qui me semblait fabuleux.
Cependant, me demandais-je, tout cela vient-il encore à temps ? Mais cette question était dépassée et je la repoussais. Il fallait y aller. Je me séparai d’Inge et, pour la dernière fois, repris la route.
Note 1 : SD – « Sicherheitsdienst » – Service de Sécurité et de Renseignement, un des organismes de la SS.
2
À WILDFLECKEN, DANS LES REMOUS DE LA « CHARLEMAGNE »
Le camp de Wildflecken se trouvait dans une montagne boisée, assez peu élevée. Je grimpai par une route en lacets, goudronnée et bien entretenue, et débouchai devant une sorte de parc naturel. Il était fermé par un grand porche. Sur les deux piliers, une arche où l’on pouvait lire, en allemand : « Mon honneur s’appelle fidélité. » Une très belle phrase, riche de sens et qui frappait l’esprit. C’était la devise de la Waffen SS – et non pas, comme on le croit trop souvent, celle de la SS entière.
Au poste d’entrée, des Waffen SS français se tenaient en faction. Ils me regardent arriver, dans ma tenue bourgeoise. Je sors mon ordre de mission.
— Bien, continuez jusqu’à l’État-Major. C’est à un bon kilomètre, mais, en voiture, vous aurez vite fait.
Je passe sous le porche. La route se poursuivait à travers des bois très nets, entre des taillis soignés comme au jardin. J’étais saisi par la noblesse familière de ce lieu. Le haut de la colline approchait et j’ai vu surgir, tout à coup, un camp militaire de rêve. De part et d’autre de la route, de petits immeubles, auxquels conduisaient des chemins bien tracés, s’échelonnaient dans la verdure. Au bout, se déployait une large étendue, l’« Adolf Hitler Platz », comme l’indiquaient les poteaux. Tout autour, des écuries, des garages, d’autres bâtiments ; et enfin, l’État-Major. J’arrête, je descends en abandonnant ma traction. J’allais complètement l’oublier et ne la retrouverais jamais.
Je n’avais, jusqu’ici, remarqué presque personne. Tout ce que j’avais vu me semblait vide, mort. L’État-Major, en revanche, était assez animé. Des soldats, des sous-officiers, des officiers circulaient, serrés dans leur uniforme SS, certains avec la Croix de fer. C’étaient des éléments de la Brigade d’Assaut arrivés de Greifenberg. Une partie de cette unité avait été décimée en août, dans les durs combats de Galicie. Elle y avait fait preuve d’une valeur guerrière très appréciée par le commandement.
On croisait, également, des gens du premier échelon de la L.V.F., et la différence sautait aux yeux. Les soldats de la Brigade d’Assaut étaient, eux, véritablement assimilés. Ils avaient acquis la tête germanique, échangeaient des saluts à l’allemande. Leurs tenues étaient impeccables et on les sentait rompus à une discipline de fer.
Je me présente. On me détaille avec curiosité. Dans mes vêtements civils – cravate, costume bleu de coupe classique – j’avais presque le sentiment d’être nu, devant ces gens dont le corps musculeux épousait si naturellement la toile de l’uniforme. J’étais à la fois choqué et fasciné.
— Attendez quelques instants.
Comme dans tous les bureaux, il y avait des gars qui tapaient à la machine, échangeaient des mots dont le sens me demeurait étranger, des plaisanteries dont le sel appartenait à un autre monde. J’avais, certes, tenté d’imaginer cet univers que j’abordais, mais je sentais, avec une angoisse diffuse, qu’il m’échappait quand même et que s’y intégrer ne serait pas si facile.
Enfin, un planton s’approche :
— Le Sturmbannführer Zimmermann vous attend.
J’entre dans un bureau très sommairement meublé, comme toujours chez les Allemands. Au mur, des cartes, des « plannings » (on disait alors : « graphiques »), des tableaux d’effectifs. Je me mets dans un garde-à-vous naturel, m’incline légèrement.
— Bonjour.
Je ne savais pas trop comment l’appeler. Sturmbannführer, quel grade était-ce au juste ? Commandant, capitaine ? Je penchais pour capitaine. J’apprendrais plus tard que c’était commandant.
J’avais devant moi un Allemand au regard vif et précis. J’étais impressionné par sa brochette de décorations, le ruban de la Croix de fer de deuxième classe à la boutonnière, la Croix de fer de première classe agrafée à la vareuse. Et toutes ces choses que m’avaient apprises la lecture de Signal, les macarons – celui du combat rapproché, la médaille d’assaut –, les rubans qui renvoyaient aux campagnes, Pologne, France, Crète, Russie…
Il était sanglé dans son uniforme. À son col, au revers droit, ce qu’on appelait les glaces, c’est-à-dire les runes, les SS d’argent sur fond noir ; au revers gauche, ces sortes de clous qui différenciaient les grades. Ses épaulettes tressées étaient unies, grises.
Je lui tends mes papiers. Il commence à me questionner :
— Pourquoi êtes-vous venu ?
Son français était correct, mais il avait un accent très guttural : tout à fait l’allemand comme on l’entend au théâtre ou au cinéma. Son débit était lent. Il cherchait visiblement ses mots.
— Avez-vous déjà été militaire ?
Je lui explique que, durant mon adolescence, j’avais fait de l’aviation populaire et que je m’étais engagé en 1939. J’avais été élève pilote, affecté à la Base 27, à Terrefort, près de Saumur. L’armée de terre était pour moi un monde tout nouveau.
Il hoche la tête, réfléchit.
— Ce sont des cadres comme vous qu’il nous faut. Je vais étudier votre cas avec la Brigadeführer Krukenberg. En attendant, vous porterez les galons d’Oberscharführer.
Ce grade, sans équivalent dans l’armée française, était attribué à ceux qui devaient entrer dans une école d’officiers. Une fois en stage, ils étaient nommés Oberjunker, c’est-à-dire aspirant. L’Oberscharführer avait, pratiquement, les prérogatives d’un adjudant (Hauptscharführer), mais nullement ses fonctions. À la Waffen SS, en fait, il y avait peu d’adjudants, et ils étaient le plus souvent cantonnés dans des tâches administratives.
Du reste, la hiérarchie n’avait pas la même rigidité institutionnelle qu’en France. Chez les Allemands, le grade était, avant tout, une ouverture au grade le plus élevé. C’est la capacité de commandement qui importait, et la formation était toujours supérieure à celle qu’impliquaient les galons portés. Pour devenir sous-lieutenant (Untersturmführer), par exemple, on travaillait, certes, à l’échelon compagnie, mais, en ce qui concerne la tactique, tout se déroulait à l’échelon bataillon et régiment. Il n’y avait pas, ainsi, de problèmes de relève. Les chefs de sections – sous-officiers, normalement – devaient se montrer aptes, d’une minute à l’autre, à prendre la tête d’une compagnie. Et l’on a vu fréquemment des chefs de compagnie devenir, sans difficulté, chefs de bataillon, et des chefs de bataillon, chefs de régiment.
Le commandant Zimmermann remplissait toute une série de paperasses. Puis relevant la tête :
— Attendez une minute. Je vais voir si le général Krukenberg peut vous recevoir.
J’étais un peu étonné. Cela ne correspondait pas à ce que j’avais prévu. Je m’attendais à voir des Français et pensais rencontrer le général Puaud. À l’ancien chef de la L.V.F. devait revenir, en effet, le commandement de cette nouvelle division qui n’avait pas encore été définitivement baptisée. On envisageait la dénomination de « Charlemagne » – « Karl der Grosse » –, je l’avais entendu dire alors que j’attendais pour être reçu, mais, à l’État-Major, on en discutait toujours. Ce terme plaisait autant aux Français, qui considéraient Charlemagne comme leur bien, qu’aux Allemands, qui le tenaient pour un grand empereur germanique. Et dans les deux cas, Charlemagne, c’était le Rhin, un trait d’union lourd de signification.
On m’introduit chez Krukenberg. Il venait d’arriver et s’était assis à son bureau sans prendre le temps de se dévêtir. Il portait son manteau de général, un manteau de cuir aux épaulettes tressées or et aux revers blancs (tandis que, dans la Wehrmacht, les généraux avaient des revers rouges). Il avait rejeté sur la table sa casquette à tête de mort.
C’était un personnage sec, froid, à la mâchoire volontaire. Il en imposait et on le sentait résolu. Derrière lui, un riche passé de militant et de soldat. Il avait fait une belle guerre de 14-18. National-socialiste de la première heure, il avait pris en main la radio allemande. Il n’était que général de brigade, mais son poids était considérable : il avait l’oreille des autorités politiques, Hitler le recevait personnellement.
Comme il parlait assez bien le français, il avait été placé à la tête de notre future division. Il s’agissait de lui forger une âme et ce n’était pas une mince affaire. Pour le moment, déjà, il lui fallait résoudre l’antagonisme larvé qui opposait les soldats de la Brigade d’Assaut à ceux de la L.V.F.
Ceux-ci se considéraient, avant tout, comme des Français ayant occasionnellement revêtu l’uniforme allemand. Ils s’étaient, certes, distingués sur le front de l’Est, auprès des forces de l’Axe, à Tcherkassy, notamment, et dans les combats d’arrière-garde contre les partisans. Mais ils avaient mené la guerre à leur manière, en Français aventuriers et frondeurs. Leur manque de discipline avait fait jaser dans les états-majors.
Il en allait tout autrement, je l’ai dit, avec les rescapés de la Brigade d’Assaut, qui avaient acquis, véritablement, la mentalité allemande, n’utilisaient que les commandements allemands, les grades allemands, les formules allemandes. Ils observaient avec un certain mépris les « garde à vous », les « mes respects, mon capitaine » des gars de la L.V.F., tandis que ceux-ci ricanaient du « Heil Schutzstaffel [1] » par lequel les officiers de la Brigade saluaient leurs hommes, et du « Heil Hitler » que ceux-ci leur balançaient en réponse.
Moi, je tombais en isolé. Cela rendait Krukenberg perplexe.
— Vous êtes journaliste. Voulez-vous faire partie du Propaganda-Kommando ?
— Non. J’aimerais un commandement actif et, si possible, être incorporé dans une compagnie d’élite.
— Bon. On va voir ça.
Il se lève. L’entretien n’avait duré que deux minutes.
— Heil Hitler !
Je tends le bras.
— Heil Hitler !
C’était mon premier salut hitlérien.
*
Ce bras tendu, j’en étais à la fois fier et gêné. Il me semblait que je passais un seuil, et qu’en le franchissant, je congédiais, obscurément, quelque chose de ce dont j’étais venu : ma terre, mon passé, les traditions de mon pays. Mais ces hommes me fascinaient et j’avais envie de m’y incorporer. Je voyais, en eux, une race tout à fait à part, une race invincible. Je les sentais forts, généreux et impitoyables : des êtres sans faiblesse, qui jamais ne pourriraient.
Je connaissais imparfaitement l’idéologie dont ils étaient nés. Mais ses lignes de force, indiscutablement, réveillaient en moi des échos familiers, ressuscitaient un peu, sur un autre mode, le climat où j’avais baigné. L’anticommunisme, d’abord, avec son caractère de croisade. Une partie de ma jeunesse s’était déroulée à Saumur, à l’ombre de l’École de cavalerie où mon père était officier d’active. Il avait, dans les années vingt, lutté contre les Soviétiques aux côtés des Polonais. L’anticommunisme, autour de moi, avait été une cause évidente et sacrée, que la montée du Front populaire avait encore exaltée.
Il y avait aussi l’antisémitisme, problème délicat entre tous. Je ne ressentais et n’ai jamais ressenti de haine raciale. Les Juifs, à mes yeux, avaient valeur symbolique : s’opposer à eux, cela voulait dire lutter contre le capitalisme international. Dans l’univers clos où je me mouvais, ils figuraient les forces du mal. On l’a vu ces dernières années, en Asie, en Afrique, partout, les guerres à caractère idéologique suscitent toujours un mythe qui incarne ce contre quoi elles se dressent. Et qui pourrait nier qu’en Russie, l’antisémitisme stalinien et même poststalinien ne retienne quelque chose de cet amalgame ?
Plus tard, à la fin de la guerre, j’aurais la révélation du phénomène concentrationnaire. En 1944, et durant tout mon passage sous l’uniforme allemand, j’ignorais, non pas qu’il y eût des camps – quelle nation n’en a pas créés ? –, mais le système d’extermination dont ils participaient : la Waffen SS, armée de combat, n’avait rien à voir avec les « SS Totenkopf Verbande », chargés de leur surveillance, et les cloisons étaient rigoureusement étanches. Aussi leur découverte me donna-t-elle à réfléchir. C’est que j’avais traversé, alors, bien des épreuves, vu bien des horreurs. Je savais désormais que la mort n’est pas une abstraction, que l’engagement le plus sincère ne peut en user à la légère, qu’elle a un visage hideux et concret. Je savais également que ce visage est le même pour tous. Des millions d’hommes avaient péri dans les camps d’outre-Rhin. Les Allemands avaient été vaincus, on pouvait leur lancer ces cadavres à la face. Et il y avait aussi, dans les camps sibériens, des millions de morts dont on ne parlait guère puisque les Russes étaient les vainqueurs.
Mais à Wildflecken, cela était encore loin de moi. L’idéologie des Waffen SS m’importait moins, tout compte fait, que la règle de vie qu’ils en retiraient. J’étais sensible à cette exigence vis-à-vis de soi-même, à cette transformation intérieure qu’implique le culte d’un idéal, quel qu’il soit. Si j’étais fier de ce salut hitlérien, c’est qu’il m’apparaissait comme un acte de naissance. À travers lui, j’accédais à un ordre où rien n’était facile, mais où tout était plus pur.
Je puis sourire, maintenant, de cette ferveur. Mais je ne la renie pas. Elle est, elle était surtout, une part de ma vérité. À travers elle, je retrouvais cette émotion qui m’étreignait lorsque, enfant, je lisais l’histoire du petit Spartiate qui cachait, sur lui, le renard qu’il avait dérobé, et plutôt que d’avouer sa faute, laissait l’animal lui dévorer le ventre. La souffrance était dans l’ordre et rétablissait la discipline bafouée. Et c’est bien une même discipline que je pressentais dans la Waffen SS. Elle ne se fondait pas sur la caste et la contrainte, mais, au contraire, sur une sorte de justice interne, naturellement acceptée par chacun, car elle découlait d’un idéal commun devant lequel tous se retrouvaient égaux, par-delà même la hiérarchie.
Un détail, rapidement, me rendit sensible cette justice secrète qui réglait nos rapports. Dans la Waffen SS, jamais on ne disait merci. Un soldat ne remercie jamais un officier ; un officier ne remercie jamais le soldat qui, par exemple, lui tend l’objet qu’il a demandé. Ce que l’on vous donne, c’est ce qui vous revient : « Danke schön », « vielen Dank », ces mots, si vous les prononciez, vous valaient une punition immédiate. Aujourd’hui encore – c’est une des rares choses à me rester de Wildflecken –, je sais mal dire merci et j’aurais l’impression de diminuer celui à qui je fais un don en attendant de lui un remerciement : ce que je lui donne, c’est ce dont il a envie, c’est ce qui lui revient.
Chacun, ainsi, devait recevoir ce à quoi il avait droit, et ne recevoir que cela. Il n’y avait pas de privilèges, ce qui me changeait des traditions militaires françaises au sein desquelles j’avais vécu, à travers mon père, d’abord, dans mon expérience propre, ensuite. Tout le monde, par exemple, mangeait ensemble, et le même menu. Il n’existait pas de mess « officiers », de mess « sous-officiers », et « d’ordinaires ». Et s’il y avait du schnaps, on le distribuait en commençant par les soldats. Les officiers se partageaient ce qui demeurait et, en général, recevaient moins que la troupe. C’était une des lois fondamentales : plus on s’élève en grade, plus on a de devoirs et moins on a de biens.
Cet égalitarisme se manifestait, aussi, au cours de réunions hebdomadaires qu’on appelait « Kamaradschaft ». C’étaient de joyeux dîners de groupe, où le plus modeste soldat avait le droit absolu de mettre en boîte ses supérieurs, d’en faire des imitations parodiques. Il était interdit au gradé de se venger, sous peine de punition. Il y avait là une sorte de socialisme, où la « base » exerçait un contrôle critique sur ceux qui l’encadraient. Les chefs, d’abord, représentaient cette « base », ce qui leur conférait un surcroît de responsabilité.
Aussi étaient-ils ceux, toujours, qui en bavaient les premiers. J’allais très vite m’en rendre compte à l’entraînement. Quand, dans un exercice de l’armée française, il y avait, par exemple, une rivière à traverser, les officiers s’asseyaient sur la berge en regardant s’évertuer leurs hommes : « Faites attention à l’endroit où vous mettez les pieds, attention à votre paquetage. » Après quoi ils montaient en bateau et, sur l’autre rive, attendaient les soldats. Dans la Waffen SS, au contraire, et, d’ailleurs, dans toute l’armée allemande, les gradés – officiers et sous-officiers – descendaient toujours en tête. Les hommes, d’une manière générale, ne passaient que là où passaient leurs chefs, telle était la règle. Cela explique que l’Allemagne, en Occident, soit le pays à compter le plus d’officiers généraux et d’officiers supérieurs tués à la guerre.
Cette volonté d’incarner un type d’homme supérieur, de réaliser une race exemplaire conduisait la Waffen SS à un certain puritanisme moral. L’homosexualité, par exemple, y était brutalement réprimée, alors qu’elle était florissante dans la Wehrmacht. Un adjudant de ma compagnie, un jour, avait surpris deux garçons alors qu’ils s’adonnaient à des jeux proscrits. Il me fallait rédiger un rapport à leur sujet. Mais, je l’apprenais tout à coup, c’était, automatiquement, les faire expédier dans des camps. À l’époque, nous pensions qu’il s’agissait de lieux disciplinaires réservés aux SS. Bien après, j’ai su que c’était, purement et simplement, les camps de déportés. Les homosexuels étaient donc assimilés à des sous-hommes, à des « Untermenschen », et voués à la solution finale.
Je ne nourris, bien sûr, aucune prévention à l’endroit des homosexuels, parmi lesquels j’ai beaucoup d’amis merveilleux, et je ne voulais nullement établir un rapport contre ces deux garçons. Mais j’ai dû intervenir immédiatement. J’ai annoncé que je me chargeais de les punir moi-même et, une partie de la nuit, je leur ai fait exécuter du « debout-couché », du « auf-hinlegen », jusqu’à ce que leurs jambes ne puissent plus les porter. Puis je les ai engueulés en leur rappelant ce qui les menaçait s’ils ne se débrouillaient pas pour dissimuler leurs mœurs. Ils ne m’ont rien dit. Mais ils revenaient de loin et savaient ce qu’ils me devaient.
La discipline, vraiment, était impitoyable et j’aimais, je crois, qu’il en fût ainsi, quand bien même, en mon for intérieur, demeurais-je incapable d’en épouser la totale dureté. La philosophie qu’elle voulait servir, en revanche, ce n’est pas à Wildflecken, ni plus tard, à Janowitz, que j’aurais le loisir de mieux la connaître. Nous étions les derniers venus, arrivés dans les derniers mois de la guerre, et l’enseignement devait céder le pas aux urgences militaires. La mystique SS ne me parviendrait que dans ses lignes les plus générales, les plus exaltées, et c’est surtout par son climat émotionnel que je me sentais conquis.
Il faut dire que le national-socialisme avait un sens étonnant de la propagande. Contrairement aux communistes, où l’endoctrinement, si élémentaire soit-il, est toujours didactique, il s’efforçait d’émouvoir ce grand fond affectif, que chaque homme porte en lui, à travers les thèmes de la communion heureuse avec la terre (le culte et le respect de la nature – déjà – jouaient un grand rôle dans la pensée du IIIe Reich), des pouvoirs de l’individu et de la grandeur de son destin collectif, de la pureté de la race et de son avenir européen. Diverses améliorations sociales au sein des entreprises, quelques réalisations spectaculaires, comme les Jeux olympiques de 1936, avaient achevé de faire basculer un peuple dont l’imprégnation marxiste, à l’apparition de Hitler, était presque aussi forte que celle des Russes.
Les rescapés de la Brigade d’Assaut, à Wildflecken, étaient comme les dépositaires de cette mystique, à la fois prenante et diffuse. Ils étaient revenus couverts de gloire et chargés de morts – en trois semaines, je crois, ils avaient perdu presque 60 % de leurs effectifs. Et ils vous lançaient à la figure leurs sacrifices et leurs héros, Noël de Tissot, par exemple, ancien professeur d’histoire et de géographie à Nice, venu initialement de l’équipe de Joseph Darnand. Quand celui-ci avait voulu donner certains gages à l’Allemagne, il avait quasiment ordonné à plusieurs de ses cadres de s’engager dans la Waffen SS. Ils étaient partis à contrecœur ; mais au camp de Sennheim, en Alsace, ils étaient passés au moule.
Et ce sont des gens éblouis qui s’étaient retrouvés à l’école d’officiers de Tölz, une véritable école religieuse qui remodelait, à la fois, les âmes, les esprits et les corps. Du coup, la France, Darnand, tout cela était devenu bien lointain. Ils avaient le sentiment de renaître à une nouvelle race européenne : non plus des Français ni des Germains – la langue allemande, pour eux, n’était qu’un véhicule de pensée et de commandement –, mais des hommes neufs qui s’opposaient aux superstructures du IIIe Reich, qui revenaient au national-socialisme des premiers temps, celui de l’époque de Röhm.
Cette mutation, il est vrai, devait beaucoup à ce que plus de la moitié de la Waffen SS, alors, provenait de l’extérieur de l’Allemagne. Y avaient convergé des Français, des Belges (Flamands et Wallons), des Hollandais, des Baltes, des gens d’Europe centrale, des Italiens et même des Hindous. Les Nordiques y étaient largement représentés, par les Suédois notamment, en dépit de leur légendaire neutralité. Et de même les Suisses. Je rencontrerai, plus tard, un certain nombre d’officiers alémaniques dont le pays, on le sait, avait été contaminé par la propagande de l’Allemagne voisine.
Les historiens n’ont pas fini d’étudier cette transformation étonnante. L’élan profond du national-socialisme avait été détruit par Hitler lui-même, obligé de transiger avec la Wehrmacht et la grande industrie lors de la « Nuit des longs couteaux » où la SS, paradoxalement, s’était faite son agent d’exécution. Ce compromis l’avait conduit à sacrifier ceux qui étaient le levain de la révolution pour laquelle il avait conquis le pouvoir, et, tout en condamnant le capitalisme international, à composer avec le capitalisme national. Les victoires militaires avaient consacré le triomphe des industriels. Ils pensaient dominer l’Europe, le vieux pangermanisme resurgissait. Au début de la lutte en Russie et jusque dans les prémices de la défaite, l’élément révolutionnaire avait cessé d’être, il fallait le reconstituer.
C’est alors que Himmler avait entrepris, non sans difficulté, de développer la Waffen SS. Le moment était d’autant mieux choisi que la Wehrmacht, usée par plusieurs années de guerre, commençait à lâcher de partout. Ses généraux, initialement, détestaient les divisions SS, car c’étaient des armées marginales. Mais ils ont été heureux de les trouver pour faire front, sans relâche, aux coups durs, qui, de tous côtés, se multipliaient. Et, finalement, les États-Majors se sont arrachés ces troupes incomparables, parce que formées de volontaires et de militants.
Seulement, en cas de victoire, la Waffen SS serait sans doute devenue l’arbitre de la situation. Elle aurait réclamé le pouvoir. Hitler serait peut-être resté, mais une grande partie de son entourage aurait à jamais disparu. Et ç’aurait été l’apparition d’une nouvelle nation européenne, aux frontières abolies et dont la doctrine de la Waffen SS semblait préparer l’avènement. Cette doctrine, il ne faut pas l’oublier, avait été approfondie par des professeurs de Heidelberg et d’ailleurs, qui avaient étudié toutes les plus anciennes traditions de l’Europe.
C’était un rêve immense. J’en sais, aujourd’hui, les illusions et je mesure notre naïveté. Avec le recul des années, toutefois, je vois combien il pouvait séduire un jeune garçon en mal de révolution. Et ce qui était extraordinaire, c’est que ce renouveau surgissait en plein désastre, comme si celui-ci avait réveillé les forces vives. Car, il faut bien le dire, c’est grâce à la Waffen SS que l’Allemagne a pu retarder, d’un an au moins, son effondrement.
Une grande chance, ainsi, semblait nous avoir investis ; mais, dans le même temps, nous nous savions les agents de la dernière chance. C’est à ce partage que se forgeait notre moral. Alors que je me tenais figé, sur le seuil du bureau de Krukenberg, je ne faisais encore qu’entrevoir l’univers où je pénétrais et dont l’attrait était si puissant. Mais je savais déjà que j’avais, tout autant, choisi la mort que la victoire. Les choses étaient ainsi, il n’y aurait pas à y revenir.
*
Zimmermann me guettait au retour :
— Voici vos papiers. Vous allez vous équiper. Je viens de signer votre nomination, qui paraîtra dès demain au Journal officiel de la division. Mais vous pouvez coudre vos galons. On vous précisera ultérieurement votre affectation. Il faut attendre que tout le monde arrive.
Tout le monde : c’est-à-dire, outre les derniers échelons de la L.V.F. et de la Brigade d’Assaut, une part de ces Français qui, jusqu’ici, avaient volontairement servi dans la Kriegsmarine, la Luftwaffe, l’organisation Todt, la NSKK [2], et, surtout, une importante fraction de la milice, sans compter des isolés, venus de diverses rives politiques. Le grand racolage, en somme.
J’ai touché, aussitôt, un paquetage complet : uniforme, casquette norvégienne, casque, bottes, ceinturon, revolver, presque la même tenue qu’un simple homme de troupe, aux revers et épaulettes près. J’avais la bonne fortune d’arriver dans les premiers. Par la suite, l’administration allemande se trouvera quelquefois démunie, en manteaux notamment. Et comme il lui arrivait d’être aussi fantaisiste que n’importe quelle autre administration militaire, on la vit, à l’occasion, distribuer des capotes italiennes. Les gars étaient plutôt furieux…
Après quoi, on m’a affecté une chambre. Je l’ai cherchée patiemment, mon barda sur l’épaule, à travers les rues et les bâtiments numérotés avec une précision toute germanique. Certains avaient une affectation particulière : matériel, ravitaillement, salle d’études, salle de conférences. Les logements se répartissaient dans des immeubles qui pouvaient abriter jusqu’à cent quatre-vingts hommes. Les lavabos, avec douches, étaient somptueux et d’une étincelante propreté. Les soldats partageaient des dortoirs. Les sous-officiers étaient installés à deux ou trois ensemble. Les officiers avaient leur pièce individuelle.
Au bout d’un long chemin, je suis finalement arrivé. Je prends possession de ma chambre qui était impeccablement tenue. Je couds mes épaulettes, mes galons, mon écusson tricolore sur le bras gauche, je m’habille, et d’un seul coup, me voilà Oberscharführer. Je suis ressorti, car j’avais faim. Dans la rue, les soldats me saluaient, je répondais. C’était amusant.
Je me suis mis en quête de l’endroit où l’on pouvait dîner. J’ai eu un peu de mal à le trouver. Comme la division était loin d’avoir fait le plein, il n’y avait que quelques fourneaux qui fonctionnaient. Une fois que j’ai été à table, un gars est venu s’asseoir à mes côtés.
— Le général Puaud sait que vous êtes arrivé. Il s’étonne que vous ne lui ayez pas encore rendu visite.
— Ah ! J’ignorais qu’il était là. Je suis désolé. J’ai été, d’entrée, pris en charge par les Allemands.
— Oui, mais ça ne va pas très bien entre Puaud et eux. Il croyait commander la division et on l’a coiffé avec un général allemand. Lui-même n’a reçu qu’un grade intermédiaire entre colonel et général, celui d’Oberführer. D’autre part, les gars de la Brigade d’Assaut le tiennent à l’écart et il est un peu aigri. Alors, il campe plutôt avec ses gars de la L.V.F. Il serait bon que, demain, vous lui demandiez audience.
Et on a bavardé. Ce gars a commencé à me donner des détails. Il m’a expliqué que Wildflecken était assez exceptionnel en Allemagne, où les casernes, en général, n’étaient pas plus gaies que celles de tous les pays du monde. L’endroit avait été conçu pour l’entraînement de la « Leibstandarte », cette fameuse garde noire du Führer, embryon de la Waffen SS, qu’on voit parader auprès de Hitler sur toutes les photos d’avant-guerre, aux réceptions de Berlin ou de Berchtesgaden, à l’aéroport de Munich quand débarquent Daladier et Chamberlain, et qui ne comprenait que des blonds aux yeux bleus, mesurant entre 1,78 m et 1,80 m.
Mais à partir de 1941, les hommes de la « Leibstandarte » avaient essaimé dans les différentes divisions de la Waffen SS en voie de création. Ils constituaient, en effet, des cadres ou des modèles d’une exceptionnelle valeur. Aussi Wildflecken avait-il, peu à peu, perdu de sa raison initiale. L’endroit, tout d’abord, avait servi à l’entraînement de la brigade « Wallonie » qui, pour le moment, soutenait un dur combat à l’Est et dont le chef, Léon Degrelle, était devenu un véritable héros allemand, l’enfant chéri de Hitler. Puis les Allemands avaient décidé d’affecter le camp à la formation de la division française.
Le lendemain, je demandais audience à Puaud. Il avait ses bureaux à l’État-Major mais un peu en retrait. C’était le type même du vieil officier de cavalerie.
— La Mazière… N’est-ce pas votre père qui commandait l’équipe de France de concours hippique ?
— En effet.
— Oui, oui… Asseyez-vous donc, mon petit.
Ce langage venait d’une autre époque. Puaud appartenait à la tradition, un peu défraîchie, de ceux qui se font tuer en gants blancs. Un grand et fort gaillard, avec un bon visage et un bon regard. Il avait brillamment combattu en 14-18, puis au Levant. En France, il aurait pu finir général de division, dans le style des années trente. Son passage à la L.V.F. ne lui avait pas appris grand-chose. Il s’était efforcé, au contraire, d’y faire survivre la civilisation dont il avait été nourri. Un bel officier, au demeurant, et qui forçait le respect.
Je le sentais un peu désemparé. L’ombre de Krukenberg lui pesait sur les épaules et il se demandait s’il serait vraiment le chef de la future division. Il avait, d’autre part, la hantise des leaders politiques français. Il ne comprenait rien à Déat, se méfiait de Doriot, qui, pourtant, à la Légion, lui avait fourni un bon nombre d’hommes, et, par-dessus tout, redoutait Darnand. Ces personnages, pour lui, étaient autant d’ennemis et, dans de grandes discussions à Berlin, il était parvenu, habilement, à les faire tenir pour indésirables à la Waffen SS.
Il appréhendait particulièrement les miliciens qui, bientôt, allaient débarquer. Ces derniers avaient juré fidélité à Darnand et lui étaient dévoués corps et âme, du plus modeste au plus gradé. À Uriage, dans les camps de formation du S.O.L. [3], puis de la milice, en zone Sud, ils s’étaient soudés à lui au sein d’une mystique politique. Aussi est-ce avec stupeur qu’ils venaient d’apprendre le serment qu’il avait prêté à la Waffen SS. Il avait, en effet, reçu de Hitler le grade de commandant (Sturmbannführer), ce qui avait encore confirmé Puaud dans sa volonté de l’éliminer : avec le poids de ses miliciens, Darnand serait rapidement passé colonel et, peu à peu, aurait pris l’ascendant à l’intérieur de la division.
Mais on imaginait aisément que les miliciens, leur désarroi surmonté, auraient à cœur de réaliser l’engagement de leur chef à travers son absence même, réaffirmant ainsi leur allégeance. Cela tourmentait Puaud, en butte, d’autre part, au dédain larvé des soldats de la Brigade d’Assaut et confronté au mythe SS auquel il ne pouvait s’intégrer, sentant, enfin, que Krukenberg, avec une astuce diabolique, lui laissait le soin de décapiter les factions françaises, comme le souhaitait l’État-Major qui n’avait que faire de l’agitation idéologique, avant d’opérer la synthèse à son profit.
Notre entretien fut assez bref : Puaud, rapidement, avait compris que j’avais opté. Je suis rentré dans ma chambre, que j’ai commencé à arranger. J’ai sorti quelques belles photos de Maud, puis, après avoir hésité à les punaiser au mur, les ai remises dans mon paquetage. J’ai vérifié si j’avais toujours l’adresse de Inge. Je me suis reposé un peu et j’ai été déjeuner. Petit à petit, je commençais à lier connaissance. J’avais avec moi du gros gris et pas mal de paquets de gauloises. Nous discutions à longueur de journée puisque, pour le moment, nous n’avions qu’à attendre l’arrivée des gens qu’on rabattait de partout.
C’était le début octobre et il faisait encore très beau. À travers les arbres, qui commençaient à dorer, l’automne s’infléchissait doucement. Toute cette forêt respirait le calme et la sérénité. Plus qu’au maniement d’armes, on se sentait enclin à la lecture et à la méditation. En instance de commandement, je menais une vie végétative, visitant ce camp admirablement conditionné, déambulant dans les rues, regardant manœuvrer les gars de la Brigade. Eux, ils ne perdaient pas leur temps ! Ils couraient, rampaient, faisaient du « couché-debout », sous l’œil narquois des anciens L.V.F. qui traînaient nonchalamment, comme ils avaient dû le faire dans leurs casernements, à l’arrière du front russe.
C’est à cette époque que l’on a appris la mort du maréchal Rommel. La radio allemande avait annoncé la nouvelle qui nous avait atteints un peu par raccroc – c’est seulement quand arriveront les autres, avec des appareils dans leurs bagages, que nous pourrons prendre nous-mêmes la radio, écouter les postes étrangers, français surtout. Nous ne connaissions donc, de cette disparition, que la version officielle : Rommel avait succombé des suites de la blessure reçue sur le front Ouest, alors qu’il avait été mitraillé dans sa voiture par un avion américain ou anglais, on ne savait pas au juste.
Cet événement, cependant, nous parvenait à travers les derniers remous de la formidable secousse qu’avait été l’attentat contre Hitler. Depuis, Goebbels, dans un discours spectaculaire, avait galvanisé l’opinion, et les conjurés avaient été pendus. Mais des bruits tenaces couraient encore, selon lesquels Rommel aurait été impliqué dans le complot. Les autorités allemandes s’étaient efforcées de les démentir, faisant l’éloge de celui qui était un des plus grands héros de la Wehrmacht, qui avait accédé aux plus hautes fonctions et aux plus hautes distinctions, et dont la silhouette martiale avait abondamment peuplé les illustrés du IIIe Reich. Si la bataille de Normandie n’avait pas été gagnée, laissaient-elles entendre, c’est parce que Rommel avait été blessé et mis dans l’incapacité d’assurer son commandement.
Le Maréchal devait être enterré à Ulm le 18 octobre. Zimmermann me convoque.
— Je vous ai préparé un ordre de mission. Comme vous êtes assez bien habillé, vous allez vous rendre aux obsèques avec une délégation d’officiers.
C’était la première fois que je quittais le camp. Nous sommes arrivés le soir. Je me promenai, à nouveau, dans cette ville ravissante que j’avais visitée, le mois précédent, et qui, bientôt, serait détruite par les bombardements alliés. C’était tout à fait la ville allemande traditionnelle de style gothique, avec un « Rathaus », admirable, décoré de peintures du XVIIe et du XVIIIe siècle.
Le lendemain, je me fondais dans la masse des mille ou quinze cents délégations rassemblées. Sauf quelques initiés, personne ne savait, évidemment, que Rommel avait été mis dans l’obligation de se suicider (la radio anglaise, cependant, avait évoqué la probabilité de sa liquidation). Toutefois, on s’étonnait un peu de ne voir, hormis Rosenberg, aucun dignitaire de l’entourage de Hitler. Mais la délégation de la Wehrmacht, conduite par le maréchal von Rundstedt, avait grande allure.
Devant mes yeux, le parterre était extraordinaire. On remarquait un certain nombre de délégations de la Waffen SS – alors que c’étaient plusieurs de ses officiers, je crois, qui avaient contraint Rommel à la mort. Au milieu des uniformes flambants, je découvrais Degrelle, descendu du front de l’Est pour assister aux funérailles et que je ne connaissais que par la photo ou les actualités cinématographiques. Il était en grande tenue d’Obersturmbannführer (colonel), avec son insigne de chevalier de la Croix de fer. Il y avait, aussi, Darnand. Il étrennait son uniforme de Sturmbannführer, sur lequel il avait étalé, assez cocassement, toutes ses décorations françaises.
Cette journée me frappa profondément. Je revois toujours le cercueil sous la profusion des gerbes puis, à côté, posés sur un coussin, les décorations de Rommel et son bâton de maréchal ; et tout autour, veillant la dépouille, les tankistes en tenue noire. Je me souviens de ce faste, de cette lenteur impressionnante, propre aux grandes cérémonies officielles, et je réentends, encore, ces musiques, à la fois pesantes et envoûtantes, qui faisaient défiler la troupe à un pas décomposé, où le talon traîne presque par terre.
Le lendemain, j’étais de retour à Wildflecken. Et quelques jours après, on nous annonçait l’arrivée des volontaires de la franc-garde.
Il avait été décidé que les milliers d’hommes repliés avec Darnand seraient ventilés dans trois directions, en fonction de leur choix personnel, de leur âge et de leur aptitude physique : certains rejoindraient les travailleurs français, d’autres, des unités chargées de lutter contre les partisans italiens, d’autres, enfin, la Waffen SS, suivant en cela l’exemple de leur chef. C’est à ce choix, et par fidélité à son égard, que s’étaient ralliés la majorité des jeunes francs-gardes et de leur encadrement, ex-officiers français de réserve ou d’active, soit deux mille cinq cents hommes environ. Mais ils avaient appris, peu après, que Darnand leur serait probablement retiré et qu’il avait été appelé à Berlin pour régler les modalités de l’éclatement de sa troupe.
Aussi, le 5 novembre, ont-ils fait un débarquement très contestataire. Ils arrivaient d’Ulm, en camion ou en train, et s’étaient donné rendez-vous sur la grand-route qui conduisait au camp. Ils se sont rassemblés, se sont répartis en colonne et, entonnant Sambre et Meuse et La Madelon, ont débouché sur l’« Adolf Hitler Platz » au pas de chasseur – Darnand venait des chasseurs –, portant armes et bagages, béret tiré sur l’oreille, toutes décorations déployées sur leur tenue kaki ou bleu marine.
Leur esprit était véritablement très anti-allemand, et ils ne craignaient pas de l’afficher. C’était tout de même un peu étonnant lorsqu’on songeait aux combats qu’en France, ils avaient mené contre les maquis, moins activement, il est vrai, que les G.M.R. [4] qui, eux, avaient fait la police du gouvernement après avoir fait celle de la IIIe République, ouvrant le feu et matraquant lorsqu’on leur en donnait l’ordre, comme tous ceux qui travaillent sans problème pour des régimes successifs.
Krukenberg et Puaud, côte à côte, observaient ce défilé avec flegme. Mais ils n’ont pas tardé à prendre les décisions qui s’imposaient. Cela risquait, en effet, de tourner à la foire d’empoigne. Chacun affichait son allégeance au mur des chambres ou des chambrées. L’ex-milicien collait un portrait de Darnand, l’ex-légionnaire agrafait la photo de Doriot ou des badges de la L.V.F. C’étaient, à longueur de journée, des vannes en pleine figure, des échanges de quolibets, sans compter les prises de bec avec les anciens de la Brigade d’Assaut qui, ayant prêté le grand serment à Dodolf, ne connaissaient que lui et rien d’autre.
Aussi Krukenberg, très vite, ordonne qu’on fasse disparaître photos, affiches ou colifichets. Il confirme que Darnand ne viendra jamais : il était invité à rejoindre le gouvernement provisoire de Sigmaringen ; quant à Doriot, il s’était fixé, avec l’État-Major du P.P.F., sur le lac de Constance. Sont confisquées toutes les armes que les francs-gardes avaient apportées avec eux, mitraillettes Sten, mitraillettes anglaises provenant des parachutages, colts américains. Puis le Brigadeführer réunit les cadres de la milice. Il s’était rendu compte qu’il s’agissait d’anciens officiers, dans l’ensemble, tout à fait compétents. Avant leur départ, Darnand avait aboli les grades et les miliciens n’avaient, en arrivant, que les chefs qu’ils s’étaient reconnus. Krukenberg restitue les galons, quitte à ne conférer, à certains sur lesquels il avait des renseignements particuliers, qu’un grade inférieur à celui qu’ils avaient auparavant.
Tous ces cadres – les Victor de Bourmont, Monneuse, Vaugelas, Bassompierre, Boudet-Gheusi, etc. – formaient un noyau éprouvé et de réelle valeur. Ils étaient passés par la Légion, le S.O.L., puis la milice. Ils portaient une admiration fanatique à Darnand, bien que celui-ci n’eût pas leur niveau intellectuel ; mais ils révéraient, en lui, le héros militaire et le meneur d’hommes. Et puis ils se trouvaient le dos au mur. Ils savaient que ceux qui étaient restés en France avaient été arrêtés et sommairement exécutés, parfois pour leur simple appartenance à la milice, que ceux qui n’avaient pas été pris se trouvaient à la merci de la première dénonciation venue. Ils étaient des parias et n’avaient d’autre destin que de se battre. Ils y consentiraient d’autant mieux que Darnand avait formellement obtenu de Himmler que jamais la Waffen SS française ne serait engagée sur le front de l’Ouest, qu’elle ne serait jamais opposée aux Anglais, aux Américains ou aux Français de Londres. Cela, d’ailleurs, avait déjà été tacitement entendu pour tous ceux qui s’étaient engagés.
Après leur avoir rendu des grades, Krukenberg a demandé à ces ex-miliciens de reprendre en main, dans l’intérêt de l’entraînement, une partie des hommes qu’ils avaient eus sous leur commandement. À ceux-ci, il a ajouté, comme un cuisinier qui préparerait une sauce bien liée, des doses égales de Waffen SS et d’anciens de la L.V.F. Le changement d’uniforme aidant, la fusion, ainsi, allait s’opérer inéluctablement. Et l’entraînement sévère, la nourriture frugale, les conditions très strictes d’existence, en unifiant les données de notre vie, achèveraient de nous transformer en un corps homogène.
Les éléments inassimilables, d’ailleurs, allaient se retirer d’eux-mêmes : ainsi le commandant Bridoux, fils du général qui avait été le ministre de la Guerre de Pétain et s’était réfugié auprès de lui, à Sigmaringen. Il venait de la L.V.F. où il s’était brillamment illustré. Initialement, il avait œuvré, aux côtés de Puaud, à l’intégration des ex-légionnaires dans la Waffen SS ; puis, découragé par les difficultés, il s’était violemment heurté à lui. Comme son père, un jour, s’était présenté au camp et, malgré sa tenue civile, s’en était vu refuser l’accès, il avait été le rejoindre et s’était tiré avec lui. On racontait aussi que certains légionnaires, eux, avaient, d’entrée, refusé de passer à la Waffen SS. Ils avaient voulu déserter ; et bien que s’étant battus deux ou trois ans sous l’uniforme allemand, ils avaient été arrêtés et fusillés.
La Brigade d’Assaut, elle-même, avait connu quelques tiraillements. Un de ses chefs les plus connus, le capitaine Cance, l’avait quittée ; et une chambrée entière s’était évanouie pour rejoindre Degrelle, dont le prestige était grand et la troupe, d’une autre cohésion. Enfin plusieurs miliciens, au bout de quelques jours, s’étaient déclarés réfractaires.
Mais on peut dire, cependant, que les esprits, pour la plupart, avaient assez vite consenti à l’amalgame. Dans cet ordre d’idée, le champion, incontestablement, était « Monseigneur » Mayol de Luppé. C’était un des personnages les plus pittoresques de la division. Prélat de Sa Sainteté [5] – et non pas évêque –, aumônier de toutes les guerres où la religion s’était épanouie au milieu des fusils – 14-18 aux Dardanelles, le Levant, 39-40, puis la L.V.F. –, il était certainement l’ecclésiastique qui avait le moins porté la soutane dans l’histoire du catholicisme de l’époque.
Du matin au soir, on le voyait, malgré ses soixante-dix ans, se promener sur un splendide pur-sang alezan qu’il avait ramené je ne sais d’où. Assimilé à un Sturmbannführer, il s’était fait tailler sur mesure, à Berlin, et dans les tissus les plus rares, une tenue d’officier supérieur SS avec des épaulettes toutes dorées. Dessus, il affichait trois rangées de décorations, gagnées sur les fronts les plus divers – Légion d’honneur, médailles françaises, anglaises, turques, égyptiennes… : tous les pays semblaient s’être réunis pour le consteller. Sur sa poitrine, en sautoir, une magnifique croix orientale se balançait au rythme de son cheval.
C’était une sorte de reître, un moine combattant à la manière des évangélisateurs d’autrefois qui brandissaient le crucifix et, si ça ne suffisait pas, dégainaient pour faire voltiger, à larges moulinets, la tête de leurs adversaires. La seule différence était qu’il portait un revolver sur la hanche à la place de l’épée. Il évoquait, en somme, un personnage de la Renaissance, par la vigueur mais aussi le raffinement et la culture. L’ardeur du croisé, chez lui, se doublait de l’onction du « Monsignore ». Un jour que je l’avais salué en lui disant : « Mes respects, Monseigneur », il m’avait répliqué : « Laisse donc là tes respects, mon enfant, et donne-moi plutôt ton affection de fils. » Nous ne pouvions nous empêcher de sourire de ce personnage ambigu et séduisant, qui multipliait les masques avec la virtuosité d’un Fregoli, et dont la sincérité, pourtant, était indéniable. Issu d’une très grande et très ancienne famille, il vivait, à la fois, parmi nous et parmi ses ancêtres, en un décalage plein de saveur.
Il avait tout fait pour que la L.V.F. rejoigne la Waffen SS, et Puaud n’avait pas eu de meilleur auxiliaire. Mais ce qui est bien plus surprenant, c’est qu’il avait réussi à fasciner Himmler et les membres de son État-Major. Hitler avait certes passé une sorte de concordat avec les différentes tendances religieuses, à l’exception, bien sûr, des synagogues ; mais enfin la doctrine SS, en son purisme, constituait une sorte de religion qui excluait le catholicisme, si elle se complaisait à un déisme un peu vague. Je crois que le personnage de Mayol de Luppé étonnait les chefs de la SS et leur en imposait à la fois. Et puis ils avaient compris que sa virtuosité d’illusionniste les aiderait puissamment à intégrer les courants contradictoires dont devait naître la Charlemagne.
Sa pensée, en effet, procédait à d’audacieuses synthèses qui, exposées à Rome, auraient fait dresser, sous leur calotte, les derniers cheveux des papes – le Vatican, du reste, le tenait en légitime suspicion. Il mariait, avec beaucoup de naturel, Hitler et le Christ, sur fond d’anticommunisme. À travers une rhétorique époustouflante, il faisait renaître un christianisme guerrier, où la croix aurait été remplacée par les runes et les « Spiegel » de nos vareuses.
Dans le manège, qu’il avait transformé en chapelle, il faisait passer un grand souffle d’éloquence : « Les démocraties sont mortes, le national-socialisme nous ouvre les portes de l’avenir. Il a les couleurs de notre foi. Qui pourrait le nier ? Dieu est inscrit à nos ceinturons et dans le serment que nous avons prêté à notre Führer germanique et européen. Vous le savez, en cette armée, nous servons Dieu. Soyons le bras qui lui permettra de repousser les forces maléfiques, nées de cette steppe où se perdent à jamais les ombres figées dans le froid et la glace… » Nous n’avions pas de théâtre aux armées, mais Mgr Mayol de Luppé, entre Bossuet et Jean Rigaux, le remplaçait avantageusement.
Krukenberg, personnellement, demeurait admiratif mais perplexe. Il avait toujours été contre les pratiques religieuses. Et puis il craignait qu’avec son latin, Mgr Mayol de Luppé n’entretienne, chez les hommes, la nostalgie des vieilles images françaises, la petite église du village avec le café en face, le clocher qui égrène les heures… Mais il voyait bien, aussi, qu’à travers ses pots-pourris, tout le monde pouvait se rassembler en y trouvant son compte.
Car le manège faisait recette. Œcuménique avant l’heure, Mgr Mayol de Luppé, après la messe, assurait également le service protestant. S’il y avait eu des musulmans, il aurait sûrement converti le manège en mosquée, imposé le ramadan, gravi une estrade et poussé l’appel du muezzin. Il se voulait, parmi nous, témoin du spirituel. Pour l’incarner, il se tenait prêt à endosser les sacerdoces les plus divers.
Et nous venions presque tous. Moi et quelques autres, surtout pour nous amuser, je le confesse : le catholicisme nous paraissait incompatible avec cette nouvelle foi à laquelle nous avions adhéré. Certains de la Brigade passaient devant le manège avec mépris ; mais d’autres, qui avaient la nostalgie des grandes communions collectives, suivaient l’office en pensant aux liturgies de Nuremberg. La messe, pour eux, était une image du sacré. En elle, ils rejoignaient un autre rêve, celui du paganisme germanique.
Il y avait aussi de vrais catholiques, des intégristes militants. C’étaient surtout les hommes de Darnand, qui, autour des feux de camp, avaient rêvé, eux, d’une renaissance nationale, à travers la religion traditionnelle, le retour à l’artisanat et à l’ordre corporatiste qui faisaient, pensaient-ils, la dignité de l’homme. Ils avaient revêtu l’uniforme SS à contrecœur, uniquement pour combattre le communisme dont l’idéologie leur paraissait encore plus nocive que celle du national-socialisme.
Cette diversité d’idéaux, de confessions, de motivations faisait la singularité de la Charlemagne par rapport à toutes les autres divisions. À part une minorité, les Français, finalement – et c’est ce qu’il y a, chez eux, de merveilleux et de désespérant à la fois – s’incorporent très malaisément. Quels que soient les engagements où ils se mettent, ils gardent toujours un quant-à-soi, une sorte d’attachement à leur propre personne, de confiance, même, en leur supériorité individuelle, qui les pousse à contredire et à fronder. Ils ne viennent, bien souvent, aux grandes causes qu’en suivant des itinéraires tout à fait particuliers. Combien d’entre nous, par exemple, se feront tuer sur place sans savoir vraiment pourquoi, simplement parce qu’à travers la Waffen SS, ils revivaient l’épopée des cadets de Saumur ou, plus encore, toute la mythologie héroïque de 14-18 ?
Krukenberg connaissait tout cela. C’est pourquoi, je l’ai dit, ce théoricien rigide du national-socialisme appréciait à leur juste valeur les services que lui rendait Mgr Mayol de Luppé dans ses numéros à transformation. Il l’estimait, d’ailleurs, et savait qu’il pouvait se fier à lui. N’empêche que certains soirs, notre Brigadeführer devait soupirer en pensant à l’étrange potage qu’il lui fallait tourner…
Et plus étrange, même, qu’il ne l’imaginait peut-être. Un jour, un gars se présente à ma compagnie : grande allure avec une légère nonchalance, tempes un peu dégarnies. Il me salue :
— Prince Gengis Khan Eristoff, interprète à l’État-Major.
J’étais un peu étonné. Il m’explique qu’il descendait du dernier Eristoff vivant en France. C’était un nom considérable de l’aristocratie russe en exil.
Mais la vérité était légèrement différente. Il n’était que le fils naturel d’un Eristoff et n’avait jamais porté son nom. Quand il avait voulu s’engager dans la Waffen SS, son père lui avait signé une autorisation tout en lui attribuant son patronyme ; et comme celui-ci était fort connu dans les milieux russes anti-bolcheviques, les Allemands avaient procédé à l’incorporation sans plus faire d’enquête.
En réalité, j’ai appris tout cela après la guerre, ce prince était de mère juive et, à l’état civil français, se trouvait enregistré sous le nom d’Abraham Eisler. C’est ce qui, plus tard, lui a permis de s’en tirer, et fort bien. Il a été jugé à Poitiers où sa mère était réfugiée. Le rabbin a déposé en sa faveur et on a avancé qu’il ne s’était engagé que pour protéger sa famille de la déportation.
C’était, je m’en souviens, un personnage intelligent et sympathique, étonnamment doué pour les langues – il est vrai qu’il avait grandi dans un milieu très cosmopolite de Russes, de Juifs germaniques et polonais. Les Allemands lui témoignaient un grand respect : Prince Gengis Khan Eristoff, cela sonnait bien pour une armée qui n’avait pas renoncé à tout espoir de conquête. Je l’avais présenté autour de moi. Avec sa parfaite connaissance du russe, nous pensions aux services qu’il rendrait lorsqu’il s’agirait d’interroger les prisonniers que nous comptions faire en grand nombre. Mais, en réalité, il ne devait jamais monter sur le front.
Il y avait aussi un sous-officier, arrivé avec la milice, qui s’appelait Lehmann. Je sais bien que c’est un nom qu’on rencontre souvent en Alsace. Mais lui, le pauvre, ressemblait prodigieusement à une de ces caricatures du juif telles qu’on les voyait dans les feuilles nationales-socialistes et, en France, dans Je suis partout. Il avait vraiment le nez en fer à souder, qui rejoignait le menton. En plus, alors qu’il regorgeait de provisions, il gardait tout jalousement pour lui. Chacun, pour le mettre en boîte, lui disait : « Allons, avoue que tu es juif. » Le malheureux se défendait avec énergie.
Je ne sais ce qu’il est devenu – sans doute s’est-il fait tuer bêtement. Il était, je pense, véritablement sémite et s’était engagé pour protéger les siens, sous ce nom de Lehmann qui prêtait à confusion. On s’étonnait un peu qu’il ait passé l’incorporation sans encombre. Mais à cette époque, les Allemands n’étaient plus très regardants et ne se souciaient guère des normes de la charte SS. Ils avaient besoin d’un maximum de gens formés dans un minimum de temps. Il leur fallait mettre les bouchées doubles. On allait s’en apercevoir à l’entraînement.
*
L’effectif enfin réuni, les officiers, sans plus tarder, avaient été convoqués à l’État-Major. Ordre leur avait été donné de s’intégrer à l’esprit de la Waffen SS. Il n’y aurait pas de cours politiques : le temps pressait et Krukenberg craignait un peu l’ironie des Français. Mais on n’utiliserait plus que des commandements en allemand. L’équipement était sommaire. On commencerait néanmoins l’entraînement avec le peu dont on disposait.
J’avais été affecté à la PAK [6], la compagnie antichar de la division. Celle-ci avait le privilège d’être directement rattachée à l’État-Major, avec une compagnie de FLAK [7] et une compagnie de transmission. L’ensemble constituait le bataillon lourd, que commandait le Sturmbannführer Boudet-Gheusi, un ancien avocat niçois. Autour de lui s’articulait la division, avec deux régiments, le 57e et le 58e, trois batteries d’artillerie de campagne, des pionniers et des canons d’assaut.
Enfin, il y avait la compagnie d’honneur, reliée, comme le bataillon lourd, à l’État-Major. Le responsable en était l’Obersturmführer Weber, secondé par l’Oberjunker Jacques Pasquet, un gars assez étonnant qui avait été, à plusieurs reprises, le plus bel athlète d’Europe et, une fois, le plus bel athlète du monde. Cette compagnie, composée en majeure partie de soldats de la Brigade d’Assaut, était appelée à donner le ton en matière de style et de discipline. On la voyait manœuvrer dans tous les coins du camp, sous le regard des autres unités auxquelles elle s’offrait en exemple vivant.
Le commandement de ma compagnie avait été partagé entre moi et un garçon qui s’appelait Vincenot. Celui-ci, toutefois, inscrit pour un stage d’officiers, nous quitterait au bout de quarante-huit heures. Il devait se rendre à Tölz. Mais l’école ayant changé d’attribution, il serait, finalement, dirigé sur Neweklau. Lorsqu’il reviendrait, ce serait à mon tour de partir.
Et le travail a commencé, dans des conditions assez épouvantables. Dès la fin octobre, la neige s’était abattue sur cette région qui est très chaude l’été, et particulièrement froide l’hiver. Notre équipement n’était pas du tout adapté et le matériel manquait. On nous avait affecté quelques canons de 75, mais, faute de munitions, nos possibilités de tir étaient strictement limitées. L’armement, lui-même, faisait défaut et on devait opérer par roulement. On nous avait promis des camions et des voitures tous terrains, mais nous les attendions toujours. Il nous restait, heureusement, quelques braves chevaux que nous attelions à des carrioles. Vraiment, c’était l’entraînement des Marie-Louise.
On se levait à 6 heures du matin, l’extinction des feux avait lieu à 20 heures et un horaire de principe découpait notre journée. En fait, il était continuellement mis sens dessus-dessous. C’est qu’en trois mois, il fallait, à la fois, briser et façonner une troupe à qui, en temps ordinaire, on aurait consacré un an de formation progressive. Nous devions assimiler un minimum d’allemand, pour les commandements et les transmissions notamment, nous familiariser avec nos armes et, plus généralement, nous rompre à une discipline et à un esprit tout à fait particuliers.
L’urgence imposait ce rythme à Krukenberg, qui venait de recevoir des directives secrètes. Les événements, au demeurant, parleraient d’eux-mêmes. Avec l’hiver, l’offensive soviétique allait retrouver souffle. Et l’OKW [8] n’ignorait pas que l’Armée rouge était en train de s’enrichir d’un matériel fantastique que lui livraient les Américains, et que complétait encore une part de celui dont auraient dû bénéficier les forces allemandes : les Russes, en effet, remettaient en marche, peu à peu, les industries lourdes qui se trouvaient sur les territoires tombés entre leurs mains.
Des divisions neuves et fraîches, en outre, affluaient de Russie orientale et de Sibérie. Avec le début de l’année, la compétition pour Berlin s’amorcerait entre les Alliés. L’offensive soviétique serait d’autant plus menaçante que les Allemands, en décembre, auraient prélevé des troupes, des blindés notamment, et les auraient englouties dans l’offensive des Ardennes qui avait, un temps, si vivement inquiété les Alliés et dans laquelle le IIIe Reich avait placé un ultime espoir, vite retombé.
Notre instruction se déroulait donc de manière frénétique et selon un programme imprévisible. Il n’y avait guère de routine qu’au lever. Avant même le petit déjeuner, la compagnie se réunissait avec tout son équipement. L’officier adjoint, ou le sous-officier, la présentait à l’officier qui la commandait. Celui-ci la saluait : « Heil Schutzstaffel ! » Les hommes répondaient : « Heil Hitler. »
Ce salut SS s’effectuait le bras légèrement replié, et cette marque distinctive irritait les autres armes car, en nous, elle signalait des troupes d’élite. Dans la Wehrmacht, et contrairement à ce qu’on croit souvent, le salut militaire, en effet, s’exécutait la main à la hauteur de la tempe. C’est seulement après l’attentat contre Hitler qu’on tentera d’y imposer le bras tendu, qui était le salut politique, celui des civils en uniforme, militant dans le parti national-socialiste.
Après cette cérémonie matinale, nous allions prendre le café. Puis c’était une succession forcenée : exercices, manœuvres, marches accélérées, séances, épuisantes et interminables, de « auf-hinlegen », et, en ce qui concerne ma compagnie, tirs au canon antichar. Le tout était entrecoupé de cours sur la stratégie, l’armement, etc. Ils étaient faits, en général, par des gens issus de la L.V.F. ou de la Brigade d’Assaut, ceux, en somme, qui étaient les mieux qualifiés. C’étaient, le plus souvent, des sous-officiers, ce qui n’avait aucune importance : en matière d’enseignement, seule comptait la compétence, et des soldats pouvaient très bien professer à des officiers.
Quant aux nuits, elles étaient presque toujours bouleversées par des ordres émanant du P.C. En moyenne, nous ne dormions pas plus de quatre heures par jour. À peine avait-on sombré dans le sommeil que des coups de sifflet nous faisaient sursauter. Il fallait se harnacher à la hâte, prendre tout son armement. On se retrouvait au pied du bâtiment, les jambes molles, les yeux bouffis, et on s’enfonçait dans l’obscurité, sans même avoir bu un ersatz de café, fouettés par un petit vent pointu qui nous glaçait les muscles. Je ne sais pas, tout le temps que nous avons passé à Wildeflecken, si nous avons eu deux nuits complètes.
À travers tout cela, nous devenions des hommes nouveaux. Les gars titubaient de fatigue. Mais c’était une fatigue saine, qu’effaçait une nourriture peu abondante mais très précisément dosée, la vraie nourriture du soldat au combat. À l’époque, on ne parlait guère, encore, de calories, mais les Allemands les calculaient déjà, aussi bien pour les civils que pour les militaires. L’alimentation, de la sorte, se réduisait à l’essentiel.
Ce qui se passait outre-Rhin, d’une façon générale, était fort différent de ce qu’on a vu, en France, durant ces mêmes années de guerre. Évidemment, chez nous, là où il n’y avait pas de grandes cultures, à Paris, dans les villes importantes, dans la région méditerranéenne, les privations étaient sévères. Les coins exposés étaient particulièrement déshérités. Un jeune gars, qui était sous mes ordres et avait, auparavant, habité près d’une gare de triage, m’avait dit un jour : « Mon adolescence ne s’est pas nourrie de chocolats, elle s’est nourrie de bombes. » Mais on peut dire que la population française, dans l’ensemble, s’est assez bien débrouillée, grâce au marché noir et, surtout, grâce au troc. Car si les Allemands prélevaient beaucoup de produits naturels, on ne pouvait, en toute bonne foi, parler de pillage.
Dans mon Val de Loire, ainsi, je n’ai jamais manqué de pain. Et quand je remontais sur Paris, la fille de la boulangère, avec qui j’avais eu une aventure, me filait une bonne vingtaine de feuilles de tickets. Cela prouve que sa mère n’en avait pas besoin, qu’un cultivateur, avec la complicité de la nuit, avait conduit du blé au moulin, que ce blé avait été moulu à part et qu’il était arrivé en douce au fournil. La boulangère pouvait faire du bon pain blanc et moi, en échange des tickets, je me procurais des gauloises et toutes sortes de vivres.
On ne voyait rien de semblable en Allemagne où le contrôle était beaucoup plus rigoureux. Certes, le marché noir existait, mais assez peu et presque exclusivement dans les villes bombardées, dont les centres de ravitaillement avaient été détruits. Partout ailleurs, les gens recevaient ce qui leur était nécessaire : personnellement, je n’ai jamais vu un civil crever de faim ou combiner des coups pour se procurer des choses. Cela tient à ce que les besoins avaient été sérieusement étudiés. Les Allemands savaient ce que l’on pouvait manger – le plus comme le moins – et ce que l’on devait manger. La distribution et la composition des vivres étaient organisées en conséquence.
Du coup, c’est à un paysage alimentaire tout neuf que nous avons dû nous adapter. Il nous a fallu renoncer à ces frites sans lesquelles, paraît-il, le soldat français ne saurait se faire tuer. Nos repas consistaient essentiellement en soupes de pommes de terre et de choux, à midi, en saucisses à 5 heures. On nous donnait deux cents grammes de pain par jour, un pain noir, gluant, qui séchait tout de suite et auquel nous avions du mal à nous habituer.
Chaque semaine, nous touchions notre miel synthétique – un miel dur et collant, il fallait méchamment secouer le canif pour en faire tomber un paquet. On racontait qu’il était fabriqué à partir de la résine de sapin. Le sucre, également, était synthétique. Quant à la margarine – il n’était plus question de beurre, on en avait perdu jusqu’au souvenir –, elle était tirée des charbons de la Ruhr, mais ça ne l’empêchait pas d’être délicieuse.
Et nous nous sommes aperçus, en fin de compte, que cette nourriture, extrêmement parcimonieuse, à la saveur souvent étrange, nous reconstituait merveilleusement. Aussi nous assimilions aisément cet entraînement infernal auquel nous étions soumis, qui épuisait toutes nos ressources mais sans jamais les excéder. Au contraire, même, il nous conduisait à une résistance et à une forme physique exceptionnelles. Précieux capital dont nous ne savions pas encore à quel point, dans les mois à venir, il nous faudrait y puiser…
Tout de même, il arrivait que nos estomacs français se rebellent. Au bataillon lourd, dont dépendait ma compagnie, Boudet-Gheusi s’occupait du ravitaillement assez bien. Mais il y eut, ailleurs, quelques moments d’humeur. À plusieurs reprises, des soldats firent irruption dans les cuisines pour tout mettre en l’air. Les officiers étaient en tête, puisque, je l’ai dit, ils partageaient la même nourriture et faisaient corps avec leur troupe.
C’est surtout quand approcha Noël que nous éprouvâmes la nostalgie d’un menu moins austère. On nous avait promis des colis, offerts par notre Führer bien-aimé ; mais pour améliorer l’ordinaire, il nous semblait plus raisonnable de compter sur nous-mêmes… Or, il y avait dans ma compagnie quelques gars démerdards. Ils viennent me trouver :
— Vous savez, pendant les manœuvres, on a poussé jusqu’à une ferme. On est tombé d’accord avec le fermier et on lui a acheté la moitié d’un cochon.
— Mais c’est interdit !
— On pourrait quand même se tirer une nuit pour le prendre. On le confierait à la cuisine du bataillon, et on s’arrangerait avec les cuistots, en leur en laissant un peu. Quelques côtelettes pour le réveillon, ça ne serait pas mal…
Je réfléchis.
— Écoutez, vous faites ce que vous voulez. Vous amenez le cochon, vous vous occupez de le faire cuire, vous le servez. Mais je ne suis pas au courant.
— D’accord.
— Mais attention aux patrouilles !
— Bien sûr.
— Si vous vous faites prendre, je vous préviens, j’appuie la punition. Si vous ne vous faites pas prendre, je profite de la bouffe. Normal ?
— Normal.
Ils réussirent leur coup et ce n’était pas rien. Ça leur faisait pas mal de kilomètres à parcourir dans le froid et le vent, sur ce terrain vallonné où, tout le jour, nous nous étions évertués, avec des canons que la neige ensevelissait sans cesse. À tout moment, ils avaient risqué de se faire surprendre par des patrouilles : les compagnies les fournissaient à tour de rôle et elles exerçaient, autour du camp, une surveillance constante. Après quoi, chargés comme des baudets, il leur avait fallu repasser le poste de garde en douce, puis raser les murs dans ce casernement qui était comme un petit village toujours éclairé.
Et Noël s’est annoncé. Avec lui sont arrivés les fameux colis. On s’est précipité pour les toucher. À les soulever, comme ça, ils ne paraissaient pas bien lourds, s’ils étaient volumineux et fort coquettement empaquetés. On rentre dans nos compagnies respectives, je m’enferme dans ma chambre. J’ouvre le paquet joyeusement et la première chose sur laquelle je tombe, c’est une photo du grand Jules ornée d’une dédicace reproduite à la chaîne. Mon nez s’est tout aussitôt allongé ; et dans les chambrées, ç’a été un beau tollé : « De quoi ? C’est de la bouffe qu’on veut, il nous emmerde, Dodolf ! »
En dessous, il y avait du dentifrice, une brosse à dents, une savonnette, beaucoup de choses, en somme, pour la propreté, qui faisaient du poids, mais presque rien pour le ventre : une toute petite bouteille de schnaps et quelques babioles. Enfin, un paquet de dix cigarettes, de ces cigarettes allemandes qui, à peine allumées, flambent comme du foin. Les gars étaient furieux et, à grands coups de godasses, balançaient les colis dans les coins.
La déception digérée, on s’est préparé pour la nuit. Mgr Mayol de Luppé a dit sa messe. Je m’y suis rendu dans le souvenir des crèches et des bougies, comme si j’allais, ce soir-là, retrouver quelque chose des moments d’autrefois, quelque chose de leur tendresse. Dans le manège, presque deux mille personnes se pressaient. C’étaient, pour la plupart, des ex-miliciens, ces chevaliers de la foi qui venaient des milieux intégristes, qui avaient mêlé le Christ et la répression : un étonnant spectacle, en vérité, que ces Waffen SS communiant et chantant en latin. Krukenberg avait délégué quelques observateurs et ceux-ci, un peu ébahis, admiraient notre Monseigneur dans ses œuvres.
Au retour, je retrouvai mes hommes. En moins de deux, ils avaient donné au réfectoire un petit air de fête de famille. Ils l’avaient décoré avec du houx. Sur les tables, en guise de nappes, ils avaient étendu des draps. Et le repas, un peu amélioré, commence. Il y avait, notamment, des pâtes aux pruneaux, un mets typique de l’armée allemande qui était devenu notre plat de gala ; nous avions, en effet, pris goût à ces nouilles sucrées, et de plus, elles nous calaient un grand coin de l’estomac. Sous l’amas des pâtes, on repère, du bout de la fourchette, nos fameuses côtelettes de porc et on se dispose à faire bombance. Tout à coup, branle-bas :
— Achtung, Achtung. Brigadeführer.
Krukenberg fait son entrée, flanqué de son état-major et de Puaud. Il avait choisi quelques compagnies pour voir comment se passait le réveillon. Tout le monde se met au garde-à-vous, répond d’un seul cœur « Heil Hitler » à son salut. Il arrive jusqu’à moi, je lui présente la compagnie. Il me demande :
— Que mangez-vous là ?
Comme on en avait touché un peu, je lui dis que c’est du veau. Mais il n’a pas l’air de me croire. Il repousse un gars, s’assied, on s’assemble derrière lui, plutôt inquiets, car ça sentait vraiment le graillon de cochon. Il prend un morceau, le mâche, l’avale.
— Et vous me dites que c’est du veau…
— Mais, Brigadeführer, c’est du veau qu’il y a au menu.
— Et moi, je vous dis que c’est du porc !
— Impossible, Brigadeführer, totalement impossible…
— Goûtez, je vous prie.
Il me fait signe de m’asseoir. Je reprends ma place, vraiment très mal à l’aise. Je coupe un petit morceau de viande.
— Évidemment, comme c’est étrange, ça a un peu le goût de porc…
Il me fixe :
— Je veux la vérité.
C’est alors qu’un gars a eu une inspiration absolument incroyable. Il s’avance vers Krukenberg :
— C’est normal, Brigadeführer. Je suis cultivateur et j’ai rapporté de France, dans mes bagages, un morceau de saindoux. Je l’ai donné aux cuisines pour qu’elles fassent cuire les côtelettes de veau dans de la graisse de porc.
Krukenberg nous a regardés sans mot dire. Puis il a eu un petit sourire :
— Je crois qu’on ne changera jamais les Français…
Il nous a balancé un grand « Heil Hitler », et il est reparti avec son entourage. Nous étions en train de devenir de parfaits Waffen SS mais, lui, de son côté, il commençait à s’assimiler à nous…
*
C’est le 12 novembre que les miliciens avaient prêté serment, en présence de Degrelle et Darnand. Pour eux, c’était le grand saut, qui consacrait, non sans réticences et révoltes intérieures parfois, leur entrée à la Charlemagne. Personnellement, j’avais déjà prononcé le serment SS quelques jours auparavant, avec une quinzaine d’officiers et de sous-officiers. Nous avions, en quelque sorte, juré par délégation, pour nos compagnies.
Je garde très vivant, en moi, le souvenir de cette cérémonie, tout empreinte, en sa sobriété, de gravité religieuse. Suivant une vieille coutume germanique, elle s’était déroulée entre deux chênes. On avait croisé des poignards où était inscrite la devise : « Mon honneur s’appelle fidélité. » Puis un officier, au nom de tous, avait prêté serment dessus, prononçant le texte rituel en allemand. Nous le répétions en français : « Je te jure, Adolf Hitler, Führer germanique et réformateur de l’Europe, d’être fidèle et brave. Je te jure de t’obéir à toi et aux chefs que tu m’auras désignés, jusqu’à la mort. Que Dieu me vienne en aide ! »
Pour nous sentir pleinement intégrés à la Waffen SS, il ne nous restait plus qu’à être tatoués. Certains ressentaient cette marque comme une sorte d’affiliation magique. C’était, plus simplement, l’inscription du groupe sanguin auquel on appartenait, renseignement capital dans le cas d’une blessure exigeant une transfusion. Aujourd’hui, tout le monde, pratiquement, connaît son groupe. Il n’en allait pas de même à l’époque, et dans l’armée française notamment. Les soldats de la Wehrmacht en portaient l’indication sur leur plaque, après leur numéro d’immatriculation. Le tatouage était propre aux Waffen SS. L’opération n’était guère compliquée : un toubib analysait votre sang et un gars, avec un appareil à tatouer, vous imprimait, sous l’aisselle, à l’intérieur du bras gauche, la lettre correspondant au résultat. Ce procédé, extrêmement pratique, témoignait que nous étions, par excellence, des êtres à préserver ; mais en même temps, il nous faisait infailliblement repérer.
Tout le monde n’était pas au courant de cette formalité. Le moins qu’on puisse dire, c’est qu’elle ne souleva pas l’enthousiasme. Certains trouvaient ça disgracieux, d’autres, bien primitif. J’écoutais les officiers entre eux : « Non mais, ce sont vraiment des méthodes de barbares. C’est le mariage du sang, comme chez les Indiens, qui se font couler le sang et se le mélangent. »
Moi, je dois avouer que son annonce m’avait fait dresser l’échine. Les tatouages, d’abord, avaient mauvaise presse auprès des miens. Ils étaient à la mode dans certaines armes mais mon père en parlait avec beaucoup de mépris. Chez les gens bien, en France, ça ne se faisait pas, même si ça se pratiquait dans quelques familles royales, celle du Danemark, par exemple, où le roi était tatoué des pieds à la tête.
Mais je me disais surtout que c’était là, tout de même, une marque distinctive incroyable. J’avais entendu les gars de la Brigade d’Assaut. Je n’ignorais pas que les Russes, quand ils capturaient des blessés, examinaient leurs bras et leur filaient une balle dans la nuque s’ils découvraient qu’ils venaient des Waffen SS. Et les soldats qui s’échappaient, qui avaient réussi à arracher leur insigne, ils les faisaient mettre torse nu, une fois rattrapés. Ceux qui avaient un tatouage étaient immédiatement exécutés.
Et puis, en moi, à côté de l’homme de conviction, il y avait celui qui, obscurément, commençait à pressentir le grand désastre ; et je savais que seul pourrait s’en tirer, s’il avait l’étoile au front, l’être solitaire, parfaitement maître de ses pensées et de son physique, capable de se renouveler suffisamment pour ne jamais ressembler au type d’animal tout à coup pourchassé. Or, le tatouage ferait de moi un gibier désigné : les Russes connaissaient trop bien les Waffen SS, ces soldats d’élite étaient leurs pires adversaires, ils ne leur feraient pas de cadeaux. « Non, vraiment non, décidais-je, il faut que j’y coupe. Tant pis si je suis blessé. »
L’opération nous avait été annoncée courant novembre. Mais j’avais réfléchi qu’elle risquait de s’étaler sur un temps assez long : il y avait près de sept mille gars à faire passer, on s’y rendrait compagnie par compagnie et les toubibs n’étaient pas tellement nombreux. Je pouvais voir venir, et, peut-être même, avec un peu de chance, serais-je parti pour l’école d’officiers lorsque mon tour arriverait.
C’est le lendemain de Noël que je reçus l’ordre d’emmener ma compagnie à l’infirmerie. Mais on m’informait, simultanément, que j’étais convoqué à l’État-Major : ça devait être pour mon départ. Je rassemble mes gars :
— On va au tatouage. Prenez vos livrets.
Il y a quelques murmures, quelques grognements. Mais la majorité ne dit rien. On se met en colonne, je prends la tête, on démarre. Une fois arrivé, je salue le médecin dans la plus pure tradition et lui présente ma troupe.
— Voilà la PAK au complet. Vous pouvez y aller.
Il jette un coup d’œil circulaire.
— Très bien. Je vais commencer par vous.
C’est là que je l’attendais.
— Écoutez, je suis demandé d’urgence à l’État-Major. Faites passer la compagnie, si ça ne vous dérange pas. Je reviendrai la prendre. Vous me ferez subir l’examen à mon retour.
Je me dirige ensuite vers un de mes sous-officiers :
— Si je ne suis pas revenu, une fois que tout sera terminé, ramenez les gars au cantonnement. Ne vous inquiétez pas pour moi. Je passerai après.
Et je me suis éloigné. « Bon, pensais-je en marchant, je vais peut-être y échapper. Quand les paperasses parviendront à l’administration et qu’ils s’apercevront que je n’ai pas été tatoué, je dirai qu’il y a eu un contretemps et que je vais m’y rendre. Mais d’ici là, j’ai une chance d’être parti. »
J’arrivai à l’État-Major. On me fit attendre dans l’antichambre de Zimmermann. J’étais un peu honteux, tout de même, et arpentais la pièce en proie à des sentiments contradictoires. « C’est un peu une trahison ce que tu fais là ! Tu aménages ton engagement, tu te défiles, alors que tu as conduit toi-même tes mecs au tatouage. » Mais je me disais aussi : « Eh bien, merde, à quoi bon cette histoire ? Si je prends une bastos ou un obus au bras gauche, est-ce qu’on le retrouvera, mon groupe sanguin, dans la bouillie qui restera ? »
C’est alors que j’ai vu arriver, en uniforme de sous-officier, un grand gars à la fois noueux et dégingandé. Il avait un visage aux méplats accusés, avec des yeux délavés qu’il plissait ironiquement, un long nez aristocratique, une bouche qui s’étirait vers la commissure gauche, en un léger rictus. Une chevelure rousse, plutôt clairsemée, et de très belles mains, aux doigts fins. De l’allure vraiment.
— Georges de La Buharaye.
— Christian de La Mazière.
— Je dois être affecté à un stage d’officiers. Vous aussi, je crois ?
— En effet.
Tout en parlant, je le détaillais. C’était un Breton, un peu fin de race. On sentait, en lui, le militaire de carrière. Il me plaisait bien.
On n’a pas pu se dire grand-chose. Zimmermann, tout de suite, nous a fait appeler.
— Voici vos papiers. Vous allez à Janowitz, près de Prague. C’est une école d’officiers et de sous-officiers spécialisés dans la lutte antichar. Vous verrez, c’est très dur. Mais on a besoin de gens comme vous pour en faire des spécialistes. Il faut que vous vous classiez dans les meilleurs, que vous reveniez brevetés d’État-Major, c’est très important. Je compte sur vous.
Puis nous avons été reçus par Krukenberg. Puaud n’était pas là, on le tenait vraiment à l’écart. Notre Brigadeführer nous a accueillis toujours calme et froid, avec, cependant, un bref sourire en me voyant – le souvenir des côtelettes. Au-dessus de sa tête, le portrait du grand Jules ; devant lui, sa propre photo, durant la guerre de 14-18, alors qu’il était jeune officier. C’était assez drôle.
Il nous a fait un petit speech : « Vous allez suivre un cours de deux mois, donc un cours accéléré. Vous y apprendrez ce qu’est une école allemande. Vous serez au milieu de toutes les nations, y compris l’Allemagne. Vous devez revenir dans les premiers. Je veux qu’on parle de nous. »
Et il a ajouté, faisant allusion aux bandes que les Waffen SS portaient sur leur manche gauche, et où on pouvait lire leur division en caractères gothiques :
— Nous venons d’être approvisionnés et vous allez donc coudre, sur votre uniforme, le nom de la Charlemagne. En sortant, vous irez voir Zimmermann. Je veux qu’à Janowitz, on sache bien d’où vous venez et que vous y établissiez très haut la réputation de notre unité. Heil Hitler !
— Heil Hitler !
Nous avons claqué les talons et sommes repartis. Nous avons été prendre nos papiers. Puis, à l’intendance, nous avons touché un peu de vivres, des bons de transport et, aussi, des bons pour les « Soldatenheim », ces foyers militaires où l’on pouvait manger, lire, assister à des films. Les Waffen SS disposaient de bâtiments spéciaux où, à la différence de la Wehrmacht, tout le monde, du soldat au général, se retrouvait communautairement.
Et nous nous sommes séparés. Comme ma chambre était proche de l’entrée du camp, La Buharaye m’a dit :
— Je vais à ma compagnie plier mes affaires et je vous rejoins. On partira ensemble. Si on ne trouve pas de voiture, on ira à pied. Il n’y a que trois ou quatre kilomètres, ce n’est pas très long. Faisons un paquetage léger.
Puis, me fixant de ses yeux très clairs :
— Je suis vraiment content de partir avec vous. Je crois qu’on s’entendra bien.
Je le savais aussi. Je l’ai regardé s’éloigner, avec ce mélange de nonchalance et d’autorité qui, déjà, me le faisait reconnaître. Puis j’ai été à mon immeuble où j’ai retrouvé mes hommes. Ils étaient tous tatoués et moi, je venais d’y couper. Mais je n’y pensais déjà plus. J’ai dit au revoir aux officiers qui se trouvaient là. Ils connaissaient la nouvelle et attendaient Vincenot, de retour de Neweklau, qui devait me succéder. Après quoi, j’ai gagné ma chambre.
Mon bagage terminé, je me suis immobilisé sur le seuil pour en fixer l’image, avec tous les souvenirs qui, déjà, la peuplaient. Il n’y a pas si longtemps que j’y étais entré pour la première fois. Quel chemin parcouru ! Je n’étais plus le même, et mon destin s’était mis en marche. C’est comme s’il me précédait : où donc le rejoindrais-je, et pour quel réveil ?
Et mon angoisse a pris un visage, celui d’Inge. Elle était venue ici, et, tout à coup, je ne voyais plus qu’elle. Nous étions encore en octobre. Un jour, un message m’était arrivé du poste de garde : « Une jeune fille vous attend. » Les visites féminines étaient strictement interdites. Mais j’étais chef de compagnie et mon bâtiment se trouvait juste à l’arrivée du chemin. On pouvait se risquer à passer outre. « J’y vais. Faites-la attendre », avais-je répondu. J’avais à peine commencé à descendre que je tombais sur elle. Un sous-officier bien intentionné l’avait fait conduire jusqu’à moi. Son trajet soulevait une houle de sifflets admiratifs.
J’étais à la fois étonné et heureux : Dieu qu’elle était belle ! Inquiet aussi. Comme un collégien qui commet une fantastique bêtise, je l’ai entraînée dans ma chambre. Elle avait reçu son ordre de mobilisation pour une unité antiaérienne ; à son tour, la guerre totale l’avait happée. Elle était venue me dire adieu. Elle était venue se donner.
Que se passait-il dans sa tête ? Je le devinais, émerveillé. Il y avait eu, tout d’abord, cette rencontre de Heidelberg, ces promenades main dans la main, alors que la douceur de l’automne semblait défier l’apocalypse qui se préparait ; il y avait eu ce Français, surgi à ses côtés comme d’un de ses livres, et qui s’en allait revêtir l’uniforme des siens, combattre le même ennemi… Et ce Français n’était pas seul, ils étaient par milliers, ces êtres réputés charmants mais légers, par milliers dans ce camp où elle arrivait… À travers moi, c’est peut-être d’eux tous qu’elle était amoureuse.
Elle était venue pour me faire le don le plus grave, celui de sa pureté. C’est une des très rares vierges que j’ai eues dans ma vie et je ne l’oublierai jamais. Dans ma chambre, après que j’eus verrouillé la porte – que de pas ai-je entendu derrière ! –, nous avons fait l’amour – très mal, comme on peut le faire en un cas pareil. Elle n’a pas crié, mais, sans doute, a-t-elle été meurtrie. Il y avait, dans son regard, dans son expression, une telle beauté, un tel désir de me faire comprendre tout ce qu’elle m’offrait que j’ai été bouleversé plus, peut-être, que je ne l’ai jamais été depuis.
On est resté longtemps ensemble, en se parlant et en se tenant par la main. Puis j’ai ouvert la porte et l’ai raccompagnée jusqu’aux marches du bâtiment. Je savais que nous ne nous reverrions plus. D’elle, il ne me restait que cette petite tache de sang, sur mes draps.
Inge à Wildflecken… C’était il y a deux mois, un peu plus peut-être. Ce bonheur me déchirait, tout à coup, d’avoir été arraché au temps impitoyable par lequel je me sentais emporté. Je repoussai la porte, hissai mon paquetage sur l’épaule. En bas, La Buharaye m’attendait.
Note 1 : Schutzstaffel (SS par contraction) : escouade de protection. À l’origine, les SS étaient les gardes du corps des chefs nazis.
Note 2 : NSKK : Nationalsozialistiches Kraftfahrerkorps, section motorisée du parti.
Note 3 : Service d’Ordre Légionnaire – garde prétorienne de la Légion pétainiste, dont allait sortir la milice.
Note 4 : Groupe mobile de réserve, ancêtre des C.R.S.
Note 5 : Titre honorifique décerné par le pape, qui donne droit à l’appellation de « Monsignore ».
Note 6 : Panzerabwehrkanone : artillerie antichar.
Note 7 : FLAK : Flugabwehrkanone : artillerie antiaérienne.
Note 8 : OKW : Oberkommando der Wehrmacht : commandement suprême des forces armées.
3
OÙ J’APPRENDS CE QU’EST UNE ÉCOLE ALLEMANDE
Nous descendions vers la gare de Wildflecken. Le voyage qui nous attendait était assez long. Janowitz se trouvait à environ soixante-dix kilomètres de Prague, dans un de ces territoires qui, après l’assassinat de Heydrich, avaient été annexés par mesure de représailles.
Nous n’avions pas trouvé de voiture et allions à pied. Tout en marchant, nous faisions, La Buharaye et moi, plus ample connaissance. Je racontai par quelles voies je m’étais retrouvé à la Waffen SS. Puis Georges me parla de lui.
Il avait fait Saint-Cyr, sans enthousiasme particulier, parce que c’était, dans son milieu, un choix assez naturel. Une fois sorti, il avait demandé à être affecté aux compagnies sahariennes. Ainsi avait-il vécu, durant quelques années, dans les postes du désert. C’est peut-être là qu’il avait acquis cette espèce de calme, de souplesse silencieuse qui étaient en lui. Son pas semblait effleurer la neige, tandis que mes bottes l’écrasaient. Et j’allais découvrir que la nuit était comme son lieu naturel. Il la traversait tel un chat, furtivement mais les sens en éveil, voyant tout ce qui bougeait.
En 1942, il avait obtenu une permission pour venir en France, dans sa Bretagne natale. Et c’est pendant son séjour que les Alliés avaient débarqué en Afrique de Nord et que les Allemands avaient envahi la zone Sud. Du coup, il s’était retrouvé coincé, pratiquement démobilisé. En tant que sous-lieutenant, il était tenu de se présenter aux gendarmes et aux diverses autorités. Il avait demandé ce qu’il devait faire. On l’avait laissé en instance puis, en 1944, il avait été rappelé et incorporé dans les forces du Maintien de l’Ordre.
Il aurait pu, tout aussi bien, rejoindre le maquis. Ses convictions n’allaient pas dans ce sens. Mais, à vrai dire, pouvait-on, à son sujet, parler de convictions ? C’était un sceptique. Puisqu’il y était, bah, il avait suivi le mouvement, tant et si bien qu’il s’était retrouvé à Wildflecken. Ça l’amusait plutôt. Il ne se départait jamais d’une sorte de distance ironique. Vraiment, il me convenait bien.
On a un peu attendu à la gare. Puis on a pris un premier train, et on a changé pour monter dans celui qui nous conduirait à Prague. Les voyages, à cette époque, n’avaient rien d’une partie de plaisir. Les bombardiers alliés, sans cesse, survolaient le territoire allemand, il y avait tout le temps des alertes. Les vitres des wagons étaient entièrement passées au bleu et dès qu’on quittait une gare, il fallait éteindre la lumière.
L’Allemagne était nerveuse, c’est le moins qu’on puisse dire. Dans les couloirs, les gens de la Feldgendarmerie et des flics en civil circulaient constamment, épluchaient papiers, titres de transport, ordres de mission. On commençait à savoir que certains gars de la Wehrmacht en avaient marre, depuis 1941, et se tiraient en douce.
Dans le compartiment qui nous emmenait vers Prague, il y avait quelques ravissantes petites, de ces femmes mobilisées qu’en France on appelait « souris grises ». Nous leur avons fait aussitôt du gringue et comme elles avaient plein de provisions, ç’a été un joyeux petit repas en commun. C’est même devenu un tel chahut que les gars de la Feldgendarmerie se sont pointés pour vérifier l’identité de ces étranges SS. Quand ils ont vu notre nationalité, ils ont haussé les épaules d’un air résigné.
Le voyage, tout de même, a été long et fatigant. Il était assez tard quand nous sommes parvenus à Prague. Nous avions passé la frontière sans trop nous en apercevoir. Mais à la vérité, il n’y avait plus de frontière à ce moment-là. Tchécoslovaquie, Pologne, Roumanie, Hongrie, Allemagne formaient un seul territoire, celui de l’hégémonie du Reich.
Je ne connaissais Prague qu’à travers La Ville dorée, un film qui avait eu beaucoup de succès durant l’occupation. On la voyait très bien avec ses ponts, ses églises, ses multiples clochers. Une ville merveilleuse. Mais en débarquant, j’étais frappé par son climat paisible : nous n’avions pas l’impression d’arriver dans une capitale.
Nous ne devions repartir que le lendemain à l’aube. Aussi, avec les bons qu’on nous avait donnés, nous nous sommes installés à la maison de la Waffen SS. C’était un grand hôtel réquisitionné, des plus confortables. On nous y a ouvert deux chambres. Nous avons posé nos bagages et avons été dîner. Une séance de cinéma était annoncée. Mais nous avions plutôt envie de flâner.
Nous avons donc replongé dans la nuit. Il régnait un froid vif. De temps en temps, je me disais que je faisais, pour la première fois, figure d’occupant – un occupant, sans doute, terriblement redouté, si l’on songe à toutes les représailles qui avaient suivi l’attentat contre Heydrich. Je dois dire, cependant, qu’autour de nous je ne ressentais guère d’animosité. Les filles étaient jolies et souriantes. Peut-être était-ce leur façon de résister, puisqu’on a appris, par la suite, que la Tchécoslovaquie s’était dressée comme un seul homme…
En tout cas, nous en avons levé deux sans difficulté. Elles rentraient chez elles, après une petite promenade. On les a abordées, on les a fait rire, elles étaient vraiment mignonnes. Le fait qu’on soit français a peut-être joué en notre faveur. Peut-être, aussi, pensaient-elles que nous étions des agents camouflés. Comment savoir ? Avec beaucoup de naturel, elles se sont laissé conduire à l’hôtel de la Waffen SS. Nous les avons prises dans nos chambres et elles n’ont pas tenté de nous tuer pendant notre sommeil. Elles ne nous ont pas demandé d’argent, non plus. Uniforme ou pas, nous leur plaisions et, manifestement, elles n’en étaient pas à leur coup d’essai.
Nous nous sommes éveillés de très bonne heure pour prendre le tortillard de Janowitz. Et, après une marche de trois kilomètres, nous sommes enfin arrivés au camp, dont l’aspect nous a saisis. Des toits, des ruelles, un clocher : nous étions dans un petit village sous la neige. C’était une commune tchèque qui avait été vidée de ses habitants. Le P.C. se tenait à l’école, dont les salles de classe servaient aux cours théoriques ; l’église abritait le magasin d’habillement et le matériel individuel ; le commandant du camp occupait la maison de l’instituteur.
Nous nous présentons aux bureaux administratifs. On nous y attendait. Il y avait quelques jours, déjà, que les cours étaient commencés. Puis on nous introduisit chez le commandant.
C’était un personnage absolument extraordinaire, une vraie force de la nature. Il mesurait plus d’un mètre quatre-vingt-cinq. Une impressionnante cicatrice lui labourait la tête comme si on avait voulu, d’un coup de serpe, lui en arracher la moitié : elle partait de la tempe droite, passait au coin de l’œil, où elle se gonflait en bourrelet, lui creusait la joue, lui coupait une partie des lèvres et venait mourir au menton, entamant la naissance de cou.
Cet Obersturmbannführer était un des héros de la Waffen SS, un homme de guerre avant tout. Personne ne savait s’il était marié, s’il avait des enfants. Il dirigeait l’école parce qu’on lui en avait donné l’ordre. Mais il brûlait de retourner au combat. Son histoire se lisait dans les rubans qu’il portait : la Pologne en 39, la Norvège et la France en 40, la Grèce, la Crète, la Yougoslavie, la Russie. Ses mérites s’inscrivaient dans ses décorations : Croix de fer avec rang de chevalier, médaille d’argent des combats rapprochés, médaille d’or des assauts. Et, cousus sur sa manche, cinq petits chars – les cinq qu’il avait fait sauter.
Il ne parlait pas un mot de français. Un sous-officier lui servait d’interprète, traduisant au garde-à-vous. C’était un Alsacien, roux, curieusement, comme tous ceux que j’ai rencontrés à la Waffen SS. Celui-là était même carrément jaune d’œuf.
Le colonel nous a interrogés très rapidement en compulsant nos papiers. Puis concluant l’entretien :
— Bien. Vous allez être affectés. Vous serez dans une chambre de trois. Vous le verrez, les élèves sont groupés par nationalité. On va vous équiper et vous donner des tenues de combat. Sachez qu’ici on mange peu, qu’on ne dort presque pas, qu’on devient des machines à tuer et à commander. Je n’accepte aucune défaillance. Une seule, et vous êtes renvoyés.
Le grand style, en somme… Une fois sortis – La Buharaye toujours avec son petit sourire en coin –, nous avons entamé notre circuit d’incorporation. Et nous sommes arrivés à l’église pour toucher nos couvertures et nos tenues de combat. Elle était demeurée telle qu’après la dernière messe, avec l’autel, le chemin de croix, les statues. Mais on y avait ajouté des pancartes portant des slogans. Sur l’autel, on lisait : « Il n’est qu’un seul dieu, notre Führer. » Ailleurs « Un homme véritable a besoin de croire en lui, de croire en ses chefs, de croire en son pays, de croire au Führer, pour trouver le bonheur. » Et des formules du type : « La religion est l’opium du peuple », comme en Russie.
La Buharaye qui connaissait assez bien l’allemand, me traduisait tous ces trucs. Il ricanait légèrement, comme à son habitude, mais je le sentais un peu choqué. Non pas qu’il pratiquât. Je ne pense pas qu’il ait jamais usé sur les prie-Dieu les genouillères de ses pantalons. En permission, pour faire plaisir à sa mère, il se montrait à la messe dans la chapelle du château familial ou à l’église du village. Mais, comme il aimait à le dire, « la meilleure église, c’est le bordel, c’est là qu’on risque le moins et qu’on est le mieux accueilli ». Son scepticisme était général et il n’aurait jamais songé à se marier et à fonder, comme on dit, un foyer. Je ressentais, dans son détachement, une forme de maturité qui m’impressionnait d’autant plus qu’âgé de trente-quatre ans, il était largement mon aîné.
Ces maximes, tout de même, heurtaient son vieux fond de traditionalisme breton. Tout en émargeant, il maugréait d’un air un peu hautain : « Qu’est-ce qu’ils nous emmerdent avec leur philosophie ! » Ou bien : « Que voilà une philosophie de cons ! » C’était, il est vrai, la première fois que nous nous trouvions en contact avec une manière d’endoctrinement. À Wildflecken, comme je l’ai dit, il n’avait été question que d’entraînement physique, bien que certains gars de la Brigade d’Assaut eussent été fort capables de faire des cours politiques et idéologiques. Et à Janowitz, finalement, il en ira de même.
Munis de notre équipement, nous sommes partis nous installer. À côté du village, s’étendait tout un ensemble de baraquements disposés de part et d’autre d’une grande place – l’« Adolf Hitler Platz », comme il se doit – où flottait le drapeau, celui de la Waffen SS et non le drapeau allemand. C’est là que se trouvaient les chambrées, les chambres et les réfectoires. La neige recouvrait tout, mais les rues, bien dégagées, apparaissaient soigneusement goudronnées. C’était l’esprit de l’armée allemande : mettre le soldat dans une ambiance, à la fois, de confort et d’extrême rigueur. Tout en marchant, nous remarquions des bâtiments gorgés de matériel, chars, automitrailleuses, canons antichars d’un modèle nouveau.
Les élèves étaient rentrés. Nous avons été nous présenter. Il y avait de tout, sous-officiers, aspirants, officiers même. Certains venaient pour accéder au grade supérieur, d’autres pour recevoir un complément de formation antichar. La majorité des cours était suivie en commun ; mais ceux qui devaient passer officiers – les moins nombreux, en fait – avaient des séances complémentaires. C’était mon cas. Celui, aussi, de La Buharaye, qui à Wildflecken n’avait pas récupéré son grade de l’armée française. Il n’avait même pas été nommé Oberscharführer, comme moi, car la compagnie à laquelle il appartenait disposait déjà d’un encadrement complet. Il était simplement Unterscharführer (sergent).
Nous tombions dans un milieu vraiment cosmopolite, et en parcourant les groupes, nous avions l’impression d’effectuer le tour de l’Europe. Beaucoup d’Allemands, évidemment, des Polonais, des Russes, quelques Lettons, Lituaniens, Estoniens, Norvégiens, Suédois, Hollandais. Deux Belges de Degrelle, seulement, mais les Wallons, au front maintenant, avaient été nombreux dans la promotion précédente. Et il y avait encore un Italien ainsi qu’un Hindou en turban, qui se préparait à passer officier.
On a déjeuné ensemble et ç’a été, tout de suite, la première conférence. Comme dans les baraquements, nous étions par nationalité. Chaque groupe, dans son coin, pouvait disposer d’un interprète. La plupart, toutefois, ceux de l’Est surtout, parlaient l’allemand couramment. Nous deux, seuls Français, faisions un peu tache avec notre Alsacien rouquin. Mais les instructeurs ont senti rapidement que nous avions une formidable bonne volonté.
Ce cours, en effet, était passionnant. Il était question de tout l’éventail de l’armement antichar. Bien sûr, Wildflecken nous avait déjà familiarisés avec la théorie du Panzerfaust et du Panzerschreck [1]. Nous avions déjà travaillé au canon de 75. Mais nous découvrions de nouvelles possibilités, un récent canon de 88, notamment, dont la visée était faite à l’œil électrique.
Puis, au bout de deux heures, nous sommes partis sur le terrain. Démonstrations de tir, de visées. Tour à tour, on est servant de pièces, on apprend comment ça marche, puis on prend le commandement – bref, l’école de deuxième classe et d’officier à la fois. Les deux cents élèves s’essayent à tous les postes, sous la conduite d’instructeurs, officiers et sous-officiers, qui ont, derrière eux, deux ou trois ans de front – des gars qui en veulent terriblement. Dans le froid qui nous cingle, nous nous donnons sans répit. Vraiment une séance fantastique.
À la nuit tombée, nous avons gagné les réfectoires. Nous avons dîné, puis j’ai rejoint ma chambre. Je me suis étendu. J’étais rompu mais je n’ai pas eu le temps de beaucoup y penser. Un coup de sifflet nous a tous mis debout. Allez, on repart en manœuvres nocturnes. Pour une prise de contact, elle était soignée…
*
On est rentrés sur le coup de 2 heures du matin, transis, claquant des dents. Les chambres n’étaient pas chauffées. La Buharaye que rien, pas même un tremblement de terre, ne saurait désorganiser, s’est, d’un pas nonchalant, dirigé vers les lavabos, brosse à dents à la main, serviette autour du cou. Je l’ai imité, mais s’il n’avait pas été là, je m’en serais pas mal moqué, de mes ratiches. Puis on s’est déshabillés en moins de deux, mis en boule sous les draps et les couvertures. Et en moins de deux, on a été réchauffés.
À 6 heures du matin, coup de sifflet : « Raus ! » La Buharaye, paisiblement, remet sa serviette autour du cou, saisit sa trousse et reprend le chemin des lavabos. Mais il ne va pas loin. Un sous-officier allemand lui barre le passage :
— Nein, nein, nein. Laisser tout ça. Dehors ! Tout nu !
Quoi ? Dehors et tout nu ? Mais oui, on voyait les gars, entièrement à poil, se ruer dans la nuit, épaisse encore et creusée par la lumière des lampadaires. Ils ont commencé, entre eux, à se frictionner avec de la neige. J’ai mis, à mon tour, les pieds sur le sol. Telle une décharge, le froid, brutalement, m’est remonté le long des jambes et m’a enveloppé de ses morsures. Je me suis dit que j’allais crever. La Buharaye, à côté, ne cessait de pester : « Non mais, qu’est-ce que c’est que ces procédés de cons ! »
Mais, très vite, on s’est aperçu qu’on était totalement en sueur. Avec ces méthodes finlandaises, notre sang se mettait à bouillonner. On est rentrés à toute allure, on s’est rhabillés, il ne nous restait plus qu’à nous raser – à l’eau glacée bien entendu. Nous nous sentions pleins de forces pour avaler la journée.
Le programme était simple : cours et théorie antichar, le matin ; le reste du temps, entraînement. Il n’était plus question, comme à Wildflecken, de jouer les fantassins et de faire du maniement d’armes. Nous apprenions à nous familiariser avec le nouveau canon de 88 sans recul, dont la visée infrarouge permettait de suivre, en pleine nuit, le déplacement des chars et de les ajuster avec précision. Un riche répertoire de cibles était à notre disposition : T 34 et Joseph Staline russes, Sherman américain. Ces engins étaient désarmés et avaient leurs chenilles bloquées. Des voitures tous terrains les traînaient au bout d’un câble.
Nous subissions, aussi, un entraînement « homme contre blindé » particulièrement corsé. Pour la première fois, je me suis servi du Panzerfaust. On s’approche du char le plus près possible, et pan ! on lui envoie la fusée dans le ventre. Quant aux mines magnétiques, c’était tout un sport. Pour les placer, les Soviétiques, nous avait-on raconté, se servaient de chiens sévèrement conditionnés. Ils les avaient habitués à ne prendre leurs repas que sur des « Tigre » ou des « Panther » allemands. Quand une attaque était en vue, ils attachaient les malheureux en les privant de nourriture. Ils les délivraient à l’apparition des premiers engins, après leur avoir lié une mine autour du cou. Les clébards galopaient sur les tourelles dans l’espoir d’une bonne pâtée.
Cette ruse avait fait long feu, les Allemands ayant pris le parti de détruire tous les chiens qu’ils voyaient sur le champ de bataille. À Janowitz, en tout cas, c’est nous qui galopions. Les engins étaient gros comme des camemberts. Vite, on saisit celui qui vous est tendu, on court de trou en trou jusqu’au char, on tâche de le prendre sur le côté, on bondit au-dessus des chenilles, on colle la mine dans la saignée de la tourelle – elle se plaque toute seule, comme une ventouse –, puis on se rejette en arrière en tirant le détonateur. On boule par terre, il faut prendre ses jambes à son cou, cinq secondes après, ça saute.
Nous répétions inlassablement cette petite aventure, en essayant d’en recréer toutes les conditions. Car, en général, il y a des gens montés sur les blindés, des fantassins qui sont là, justement, pour les protéger des Panzerjäger, des chasseurs de chars. Il fallait d’abord les déloger avec notre Sturmgewehr individuel [2].
On nous faisait construire, aussi, les trous dans lesquels nous devions nous tenir à l’affût. On appelait ça des trous de renard. C’étaient des sortes de cheminées avec une excavation par-dessous, pour se protéger des lance-flammes dont étaient équipés les chars russes. Car ceux-ci, à la hauteur des chenilles notamment, portaient des trappes à partir desquelles ils arrosaient les Panzerjäger lorsqu’ils passaient sur leur cachette.
C’est pourquoi les Allemands faisaient rouler des chars soviétiques sur nos trous. On n’avait pas le droit de les attaquer, car ils étaient, ceux-là, conduits par des soldats. Au passage, on recevait un jet de flammes. Si on était mal camouflé, c’était l’accident – à chaque promotion, il y avait des brûlés. Nous avions donc intérêt à assimiler les cours du matin. On nous y expliquait, en effet, toutes les recettes de ce qu’il faudrait mettre en pratique après le déjeuner : comment se camoufler, comment approcher un char, en dépit de la neige, du terrain tantôt dur, tantôt mou, comment sauter sur un T 34, qui est loin d’être au ras du sol…
Le matin, également, les élèves officiers avaient des leçons sur la « caisse à sable », une grande maquette où se trouvait reproduit un secteur, chaque jour différent, de la région. À tour de rôle, on nous donnait la responsabilité d’un régiment, bien que normalement notre commandement s’exerçât à l’échelon compagnie : nous devions instantanément être aptes à prendre la relève d’un supérieur. À Janowitz, la formation des aspirants s’exerçait, de la sorte, au-dessous et au-dessus de leur niveau hiérarchique, au-dessous par l’entraînement individuel, au-dessus sur le plan tactique.
Les instructeurs, pour ces séances, nommaient un État-Major. Ils disaient, par exemple : « Von La Mazière, c’est vous, aujourd’hui, qui commanderez ce régiment-là. Choisissez vos adjoints. » Je les choisissais, je prenais des gars pour les problèmes de transmission. Et on se dirigeait vers la maquette. D’une enveloppe, les instructeurs sortaient les données du jour.
Il s’agissait, chaque fois, d’une contre-attaque. Le colonel nous en avait avertis non sans humour, et avec ce réalisme qui témoigne d’une tradition militaire sérieuse. Autrefois, nous avait-il dit, on ne traitait que de l’offensive, en partant du principe que l’ennemi craquait toujours et qu’on progressait sans relâche ; mais le sort des armes étant ce qu’il est, il fallait, désormais, repenser l’offensive dans le cadre de la défensive. Les beaux temps de la guerre éclair étaient clos…
Les « rouges » donc attaquaient. Ils avaient tant de chars, ils avançaient dans un type de terrain déterminé : forêt, marais, sol gelé, etc. Les « bleus » avaient tant de régiments, tant de bataillons, tant de forces antichars. Nous devions, vite, établir un plan d’État-Major, donner les ordres pour faire front et conduire la contre-attaque. J’expliquais mes décisions – « C’est là que le terrain est favorable » – et les précisais : « Je place ici cette compagnie, avec les canons de 88 que je dispose comme cela. » Et, à son tour, l’officier de compagnie désigné poursuivait : « Quant à moi, voilà comment je dispose mes sections. » Parfois, on faisait appel à l’aviation ; mais, en principe, elle n’était jamais disponible.
Bref, un jeu passionnant, bien plus drôle que le Monopoly. On perdait un coin, on en regagnait un autre. L’après-midi, on refaisait tout sur le terrain, à un échelon réduit : un canon en représentait quatre, soit une section, quatre canons représentaient une compagnie. On voyait, à ce moment, ceux qui, sur le plan théorique, avaient été bons ; on constatait aussi les erreurs qu’on avait pu commettre : on ne s’était pas rendu compte qu’un char pouvait s’infiltrer à tel endroit, s’embusquer dans ce repli et détruire les pièces.
Durant tous les exercices, les instructeurs nous suivaient à la jumelle et nous notaient. Ils nous observaient dans nos trous de renard ou le Panzerfaust au poing. Ils vérifiaient la qualité des ordres de tir donnés par les chefs de compagnie, la justesse de leurs calculs, la rapidité de leurs décisions. Ils jugeaient, enfin, de la valeur de nos élaborations tactiques.
Et très vite, ils ont vu qu’à la « caisse de sable », nous étions, La Buharaye et moi, particulièrement doués, plus même que les officiers allemands qui étaient venus pour un stage de perfectionnement. Nous ramassions de très bonnes notes et savions que nous étions sur la bonne voie. En revanche, notre enthousiasme était plus modéré lorsqu’il s’agissait de faire les zèbres dans la nature, sauter d’un trou à l’autre, se garer du lance-flammes, « tous ces jeux de cons », comme disait Georges qui n’arrêtait pas de râler.
Les instructeurs, sentant qu’on mordait aux leçons de tactique, s’étaient mis à nous pistonner. Ils nous plaçaient constamment à la tête du gros échelon, de sorte que les autres ont fini par s’insurger contre ces Français, qui la ramenaient un peu trop. Le roulement est devenu plus strict, et pendant quelque temps, on ne nous a distribué que des rôles secondaires.
Nous demeurions, alors, en dehors du coup et observions ce que faisaient les copains. Lorsqu’ils avaient exposé leur affaire – conduite offensive pour les « rouges », et surtout, conduite contre-offensive pour les « bleus » –, les spectateurs étaient interrogés : « Que pensez-vous de ce qu’a fait votre camarade ? » Avec La Buharaye, on se lançait des coups d’œil et on multipliait les remarques, par jeu, en bluffant sans cesse.
« C’est fou, disais-je à Georges, il n’y a rien de plus facile que de devenir un grand général. Il suffit d’avoir des gens à remuer. Pas besoin de plancher des années. » Et lui me répondait : « Tu ne peux pas savoir, en un mois, j’en ai appris plus qu’en deux ans de Saint-Cyr et dix ans d’armée française. Et puis, au moins, qu’est-ce qu’on s’amuse, c’est merveilleux ! »
Il nous arrivait pourtant, les soirs où on nous laissait en paix – en gros, on dormait, tout de même, à peu près sept heures par jour –, de sentir parler notre estomac. C’est que la nourriture était plus mesurée encore qu’à Wildeflecken, pour un entraînement nettement plus sévère. Et puis il faisait un froid terrible, constamment près de moins vingt. Tout gelait, on entendait la forêt craquer.
La Buharaye avait des tas de choses dans son paquetage. Du tabac gris, par exemple. Il ne fumait que modérément et m’en avait donné un paquet. Je pouvais enfin rouler des cigarettes. C’est un bonheur dont je m’étais presque déshabitué. Il était interdit de fumer pendant les cours, interdit de fumer durant les exercices. Ne restait que le soir.
Mais ses réserves, enfin, n’étaient pas inépuisables. Aussi s’était-il mis en tête d’aller repérer les quelques fermes du coin durant les manœuvres. Le village avait été exproprié, mais certaines exploitations subsistaient. C’étaient des sortes d’enclaves bien délimitées, que nos tirs devaient épargner.
Un soir, je le vois revenir des baraquements voisins, un gros ballot sur l’épaule.
— Mais qu’est-ce que tu fais ?
— Chut ! Ne t’inquiète pas.
Et il disparaît dans l’obscurité, avec son agilité de chat – quand nous partions en manœuvres de nuit, je ne le lâchais pas. Le temps a commencé à passer. Je ne me faisais pas de souci. Du moment que nous n’avions pas redémarré après le dîner et qu’ils nous avaient laissé nous mettre au lit, c’est que nous avions au moins quatre heures de tranquillité. On ne nous filerait dehors qu’au petit matin.
Deux heures après, il revient. Je dormais.
— Hé, Christian.
— Ho…
— Tu as faim ?
— Quoi ?
— Regarde.
Il me déballe du lard, du pain fait à la ferme, tout plein de provisions.
— Mais comment as-tu payé ça ?
Il a son petit rire.
— J’ai l’impression que ce soir, il y a des Lettons qui ont dû râler parce qu’ils ne retrouvaient plus leurs couvrantes…
Il a recommencé le coup deux ou trois fois, ce qui nous a permis d’avoir un peu de ravitaillement en douce. On sortait du réfectoire et on venait casser une petite graine complémentaire. C’est pour ça qu’on était nettement plus en forme que les autres.
D’autant que, dans la mesure du possible, on essayait de se ménager. Un après-midi, nous étions à l’entraînement. L’État-Major de la manœuvre, le matin, avait été constitué en dehors de nous et nous n’avions hérité que d’emplois subalternes. La Buharaye s’approche de moi.
— Dis donc, on est agents de liaison. Eh bien, tu sais ce qu’on va faire ? On va rentrer. Le jour tombe, on se fait chier, on en a marre de leurs histoires, ces cons s’endorment et cafouillent. On ne va pas se geler à attendre un pli problématique.
Coup de jumelles. Les autres se trouvaient assez loin et nous avaient sûrement oubliés. On fait demi-tour et on se taille.
À un peu plus de trois kilomètres de nos baraquements, il y avait un camp de concentration. J’avais découvert son existence le premier matin, alors que nous nous frictionnions à la neige : dans le ciel encore tout sombre, ses projecteurs dessinaient comme un lac de lumière. Alors que nos lampadaires ne diffusaient qu’une clarté inégale, là-bas, il ne devait jamais y avoir d’ombre, à aucun moment de la nuit. Par la suite, au cours des exercices, il nous arrivait de voir surgir les miradors et les barbelés. Mais le règlement, accroché dans les chambres et les chambrées, nous interdisait d’approcher. En cas d’infraction, les gardiens avaient ordre de tirer sur nous.
Ces gardiens, bien que portant le sigle SS, n’avaient pas la même tenue que nous. En fait, nous n’avions rien de commun avec eux. J’en avais vu quelques-uns, ils arrivaient avec les prisonniers qu’on amenait pour l’entretien du camp. Ceux-ci déblayaient la neige. Ils étaient vêtus de pyjamas et de manteaux rayés. Ils n’avaient pas de chaussures, simplement des chiffons autour du pied et de grosses semelles de bois attachées avec des ficelles.
Ce détail nous avait choqués, La Buharaye et moi. Puis on s’était dit que c’étaient des tôlards, et on n’avait pas cherché plus loin. De toute façon, comment se renseigner ? Nous n’avions pas le droit de leur adresser la parole, ni, surtout, d’accepter qu’ils nous l’adressent. La diversité des nationalités, à Janowitz, expliquait cette règle absolue. Parmi nous, les détenus auraient sûrement trouvé de leurs compatriotes.
Ce camp, pourtant, nous intriguait tous les deux. Et, alors que nous désertions le champ de manœuvres, voilà qu’il nous apparaît. On s’arrête, on regarde.
— Il ne doit pas y avoir beaucoup de mecs là-dedans. Peut-être deux cents ? Ils doivent venir par roulement. Qu’est-ce que tu crois que c’est ? Des politiques ?
— Oui, sûrement, des politiques.
— Je pense aussi. Des Polonais, ou peut-être des Tchèques. Avec l’histoire de Heydrich, il y en a eu beaucoup d’arrêtés.
Au-dessus de chaque baraque, on voyait une cheminée qui fumait.
— Après tout, ils n’ont pas l’air d’être si mal que ça. Merde ! Tandis que nous, on n’a pas le droit de se chauffer. Dis donc, on irait bien dormir dans leurs chambrées, il doit y faire bon.
Bref, un dialogue qui n’allait pas très loin… Il faut dire que la froidure nous obsédait. La neige sur laquelle nous marchions et qui était incroyablement dure, le paysage qui semblait figé, la végétation, et jusqu’à l’air que nous respirions, tout était comme pétrifié par le gel. Nous avions le sentiment que si nous relâchions, si peu que ce soit, notre activité, nous nous retrouverions, tout à coup, changés en statues de glace. Il n’y avait que l’eau qui ne gelait pas, car les conduites étaient enterrées en profondeur mais quand on y plongeait les mains, c’était, à travers le corps, comme un coup de fouet. Alors, tout à coup, ces baraquements qui fumaient, ces gars qui, au loin, faisaient une corvée de bois…
Au bout de quelques minutes, nous reprenons notre route, en devisant, cigarette aux lèvres. Et juste à l’entrée du cantonnement, nous tombons sur des détenus. Ils déblayaient le chemin, sous la surveillance d’un garde, fusil à l’épaule, l’air indifférent. Un prisonnier semblait commander à tout ce petit groupe.
Nous avançons sans nous attarder, comme nous en avions l’ordre. Et en passant, nous frôlons un gars qui raclait la neige à coups de pelle, accumulant des tas qu’un autre venait ramasser à la brouette. On entend soudain une voix étouffée :
— Vous êtes français ?
Nous sommes saisis. Le gars, évidemment, avait remarqué notre écusson. On s’arrête, La Buharaye se retourne :
— Oui. Et vous ?
— Moi aussi. On ne peut pas parler. Est-ce que vous avez des cigarettes ?
— Oui.
— Écoutez. Faites attention, je risque gros. Si vous en avez, laissez-les tomber par terre tout en marchant. J’irai les prendre.
Je le regardais. Un prisonnier, comme tous les prisonniers. L’air ni heureux ni malheureux. Absent de lui-même. Ne pensant qu’à son envie de fumer. La Buharaye fouille dans sa poche, en retire un paquet de dix cigarettes allemandes. On repart. Le paquet tombe dans la neige.
Cela faisait à peu près une heure que nous étions de retour lorsque nous avons entendu le grondement des chars, le ronflement des moteurs, tout le bruit du matériel qu’on ramène. C’étaient les Waffen SS allemands chargés de l’entretenir, chargés aussi de le mettre en action pour que les élèves s’exercent. Ils rentraient. La journée était finie.
Nous dînons, puis réintégrons notre chambre. La soirée était calme. Nous dormons toute une nuit sans accroc. Et le lendemain, après la petite séance de neige matinale, nous partons pour le cours. Mais, celui-ci à peine commencé, un gars arrive et nous demande.
— L’Obersturmbannführer vous convoque.
L’officier qui faisait la conférence se tourne vers nous :
— Allez-y.
Nous nous levons. Chemin faisant, La Buharaye me dit :
— Tu vas voir. Je te parie qu’on ne va pas terminer le stage, et que la Charlemagne a reçu l’ordre de monter au front.
Les nouvelles qui filtraient, durant notre séjour à Janowitz, n’étaient pas très bonnes en effet. L’offensive russe avait repris depuis le 12 janvier. Au centre, dans le secteur hongrois, il y avait eu de violents combats du côté du lac Balaton. Un moment, il avait été question d’envoyer l’école au feu, échelon par échelon. Nous avions été réunis sur l’« Adolf Hitler Platz ». Notre Obersturmbannführer avait pris la parole, nous annonçant qu’on allait peut-être partir pour la Hongrie sous son commandement. Avec le personnel du camp, on aurait formé, ainsi, une petite brigade. Pendant quelques jours, notre mise en condition s’était accélérée. Les manœuvres étaient devenues encore plus rudes, et nos nuits, encore plus courtes. Puis, peu à peu, les menaces s’étaient dissipées. Mais nous restions sous pression.
Nous arrivons chez le colonel. Il s’était installé une belle pièce, confortable et tapissée de livres : le vrai nid du baroudeur au repos. Cet homme qui n’était heureux qu’au champ de bataille, qui s’était exposé partout, qui avait traversé pas mal d’hôpitaux tant il avait reçu de blessures, s’était sûrement dit que puisqu’il se trouvait à la direction de cette école, le mieux était d’en profiter pour se mettre à l’aise et se détendre.
Dans nos bottes, nous avions notre Alsacien. Il n’avait d’autre emploi que de nous servir d’interprète et nous suivait partout comme un bon chien. Lorsqu’on était sur le terrain et qu’on avait peu à faire, comme la veille, il restait à s’occuper au camp. Mais le lendemain, il nous rejoignait fidèlement pour le cours. Et, en l’occurrence, on avait vraiment besoin de lui. Le colonel, je l’ai dit, ne parlait pas un traître mot de français, et moi, mes connaissances d’allemand demeuraient vagues. Celles de La Buharaye étaient meilleures, quoique son accent tonique laissât singulièrement à désirer…
— Heil Hitler !
Notre Obersturmbannführer était là, au pied d’un magnifique portrait où l’on voyait le grand Jules en tenue de campagne, l’air très martial. Et manifestement, il écumait de fureur. Son visage était cramoisi, sous l’effet de la colère et de l’émotion, de sorte que, par contraste, la cicatrice qui le défigurait dessinait une espèce de sillon blanc.
À peine entrés, un torrent de paroles, de cris et d’insultes nous est tombé dessus – un vrai Niagara. Nous étions pâles comme des linges. Abasourdi et fasciné, à la fois, je ne comprenais que quelques bribes, d’où il ressortait que les « Franzose » étaient des « Schweinereien », des cochons, des salauds…
Puis, d’un seul coup, il s’arrête, se tourne vers l’interprète :
— Traduisez.
Notre rouquin prend la parole d’une voix neutre, tandis que le colonel, à coups de poing, martèle sa table :
— Voici ce qu’a dit l’Obersturmbannführer. « Hier, vous êtes revenus plus tôt de la manœuvre. En chemin vous vous êtes arrêtés. Vous avez bavardé avec un détenu, alors que c’est formellement interdit : vous l’avez lu, on vous l’a dit et redit. En plus, vous lui avez donné un paquet de cigarettes. Inutile de nier. Le kapo a vu toute la scène. En rentrant, il a raconté l’histoire aux gardiens. Ce matin, j’ai reçu un rapport du commandant du camp, qui m’expose l’affaire et me dit que ce sont les deux Français qui sont en faute. »
Notre Alsacien avait un peu résumé les choses et nous avait épargné les injures. Son dernier mot prononcé, La Buharaye, immédiatement, prend la parole sur un ton sec, avec un sourire hautain.
— Je vous prie de bien traduire à l’Obersturmbannführer tout ce que je vais dire. Premièrement, nous sommes peut-être des cochons de Français – ça, vous ne l’avez pas traduit mais j’aimerais que vous le lui disiez. Nous ne savons peut-être pas ce qu’est la discipline. Mais je voudrais que vous lui rappeliez que nous ne sommes pas ici pour enfiler des perles, que nous ne sommes pas ici pour défendre le territoire français, que nous sommes ici pour défendre le territoire allemand. Parce que, comme par hasard, les Allemands ne sont pas foutus de le défendre tout seuls et qu’il faut qu’on vienne leur donner un coup de main. Alors, ça, c’est la première chose, il pourrait avoir, au moins, le respect de notre geste. Deuxièmement, nous connaissons le règlement et savons parfaitement ce qu’il interdit. Mais je voudrais, quand même, rétablir un peu la vérité. À moins que l’Obersturmbannführer ne pense que le rapport d’un kapo, c’est-à-dire d’un type de détenu qu’il a l’air de mépriser particulièrement, a plus de poids que la parole d’un Waffen SS. C’est une question que je vous prie de lui poser. S’il répond « oui », je n’insiste plus.
L’Alsacien, avec un petit sourire, traduisait phrase par phrase. Je pensais : « On est bon. Georges est complètement fou. » Mais il était parti. Droit comme un piquet, sans perdre un centimètre de sa taille. Le colonel était interloqué :
— Continuez !
Alors La Buharaye reprend :
— C’est vrai, nous sommes revenus, on nous a interpellés, on nous a demandé si nous étions français. Instinctivement, on s’est arrêté et on a dit : « Oui », parce que c’était un compatriote. Nous ne voulons pas savoir pourquoi il a été arrêté. Vraisemblablement, pour des raisons politiques. Mais nous sommes ici en Tchécoslovaquie, dans un camp d’entraînement militaire, et si nous rencontrons un Français, il a beau être prisonnier, quand il nous demande des cigarettes, on les lui donne. Maintenant, Obersturmbannführer, vous ferez de nous ce que vous voudrez. Vous pouvez nous envoyer en camp de concentration, puisque c’est la punition, on le sait. Mais ce qu’on tient à vous dire, c’est que pour nous, quel que soit l’uniforme, un Français est d’abord un Français. S’il est malheureux et qu’on peut faire quelque chose pour lui, on le fait, quand bien même aurait-on des idées opposées. C’est ainsi qu’on a été formés.
Je m’apprêtais au pire. « Ils vont donner un exemple, pensais-je, c’est la seule solution à l’armée, il faut frapper les esprits. On va être dégradés, et expédiés au camp d’à côté. » Mais le colonel s’était calmé. Son visage s’éclaircit :
— Je sais qui vous êtes, comment vous suivez les cours, je sais que vous comptez parmi nos plus brillants élèves.
Et il nous fait toutes sortes de compliments sur notre intelligence, nos qualités de techniciens et de tacticiens.
— Effectivement, cette histoire m’a affecté. Maintenant, je crois qu’il faut la traiter par le mépris et par l’oubli. Je ne peux pas mettre en cause l’attitude d’hommes comme vous qui êtes venus vous battre à nos côtés. Vous faites partie de la nouvelle Europe.
La Buharaye l’avait touché au plus vif de son orgueil de Waffen SS. Et sans doute avait-il été séduit par ce Celte, ce blond roux de haute stature. Moi-même, bien que de type méditerranéen, avais une taille respectable. Et il était sensible à l’ardeur que nous mettions à apprendre.
— N’en parlons plus, dit-il pour conclure. Mais je vous demande une chose, c’est de me donner votre parole d’officiers que, même si un détenu, à nouveau, vous adresse la parole, vous ne répondrez pas.
Il nous était difficile de faire autrement. Nous avions déjà marqué un point considérable. Nous avons donné notre parole. Elle nous contraindrait d’autant moins que les événements allaient se précipiter.
*
Notre stage devait durer encore presque un mois. L’entraînement, depuis que nous avions manqué d’être envoyés au front, s’était sensiblement durci. Mais La Buharaye trouvait quand même le loisir de piquer des affaires aux voisins, pour les troquer chez les rares paysans du coin. Le froid n’avait pas faibli d’un degré. On s’y accoutumait et notre peau était toute tannée.
Puis, au bout de quinze jours à peine, vers la mi-février, des télégrammes sont arrivés, provenant de chaque division d’origine, allemande, française, belge, lettonne, etc. Les élèves étaient rappelés d’urgence. Alors l’État-Major a décidé de procéder sans plus tarder au classement, en colligeant les notes et les avis des instructeurs. Auparavant, nous aurions droit à une grande manœuvre de gala, avec tirs à balles et obus réels. C’était une tradition qui avait pour but, en nous soumettant à l’épreuve du feu, de nous aguerrir définitivement. Les gars étaient arrosés par les mitrailleuses MG 42, les Sturmgewehr et les canons. Ils devaient progresser sous la mitraille et faire sauter les chars. À chaque fois, on comptait des blessés, quelquefois même, des morts.
On avait mitonné, la veille, sur la « caisse à sable », un plan de campagne particulièrement étudié. Et le lendemain, durant plusieurs heures, ç’a été un fabuleux feu d’artifice. Il y a eu un blessé grave, un jeune officier allemand qui a ramassé une rafale à travers le corps. Quant à La Buharaye et à moi, si nous avons eu droit à toutes sortes de pruneaux, nous nous en sommes, finalement, sortis sans dommage. Comme nous étions parmi les mieux classés, nous avions, du reste, l’avantage de commander les opérations. Et puis, l’on avait donné l’instruction de ne pas faire feu sur les gars qui se trouvaient à vue, de tirer simplement autour d’eux pour qu’ils apprennent à se cacher. Alors nous préférions, systématiquement, nous présenter à découvert plutôt que de nous amuser à jouer les héros.
La journée suivante a été, tout entière, consacrée au repos et à un grand gueuleton. On se préparait au départ. On se préparait surtout à la cérémonie du lendemain, durant laquelle seraient proclamés les résultats. Nous savions, d’après les renseignements que nous avions eus, que La Buharaye et moi avions gagné nos épaulettes d’officier. Mais nous ignorions encore que nous étions classés dans les cinq premiers, alors que nous en avions fait nettement moins que les autres. Nous avions les meilleures notes à la « caisse à sable ». Nous le devions à un peu de malice et, plus encore, à un goût, qui nous était propre, pour le cinéma dont s’alimentaient ces mises en scène tactiques.
Et le grand jour est arrivé. Sur l’« Adolf Hitler Platz », la neige avait été soigneusement déblayée. Au mât, flottaient les drapeaux de toutes les nations représentées à l’école. Avec émotion, je regardais cette floraison où s’épanouissaient les derniers moments d’un grand rêve. Notre colonel, entouré de son état-major, s’est avancé. Il a appelé les élèves un par un, leur remettant leur diplôme.
— Christian von La Mazière.
— Ja.
— Vous avez gagné vos épaulettes d’Untersturmführer.
Je sortais en deuxième rang : c’était bien la première fois ! La Buharaye avait le numéro trois. Le premier était un Allemand. Ainsi, nous étions officiers de la Waffen SS. Il fallait simplement que les grades soient confirmés dans nos divisions.
Le palmarès terminé, l’Obersturmbannführer nous a tenu un petit discours :
— Vous êtes donc tous rappelés, et c’est pour cela que nous avons réduit le stage. J’espère que notre Führer sera fier de vous et que vous n’oublierez pas votre serment. L’école va être fermée et, moi-même, je reprends un commandement sur le front de l’Est. Peut-être se retrouvera-t-on. Nous vivons un moment difficile mais la victoire est au bout. L’Allemagne est à la pointe des découvertes scientifiques. Je peux vous le dire, sans trahir un secret que je connais : « L’Allemagne est en possession d’armes qui vont stupéfier le monde. »
Les États-Majors de la Waffen SS, en effet, savaient que les chercheurs du Reich étaient sur la voie de la bombe atomique. Churchill aussi, mieux renseigné en cela que la population allemande, qui dit à la Chambre des Communes : « Jamais l’Angleterre n’a été aussi près de sa perte que dans les deux derniers mois de la guerre. » Et ce sont deux mois de retard qui ruineront les espoirs de Hitler.
Après la cérémonie, il y a eu une petite fête. On nous a distribué du schnaps. Ceux qui avaient obtenu les épaulettes d’officier étaient heureux comme tout. D’autres, qui n’étaient que sergents, avaient obtenu le grade d’adjudant. C’était, pour eux, la possibilité de revenir en école – si, du moins, ils ne trouvaient pas la mort d’ici là. Certains, enfin, n’avaient rien gagné. On les voyait mélancoliques et légèrement envieux. Mais l’ambiance générale était joyeuse.
En fin d’après-midi, nous avons fait notre paquetage, La Buharaye et moi. Comme l’école fermait, on nous laissait emporter nos tenues camouflées et notre équipement d’entraînement. Nous avions posé nos nouvelles épaulettes. Avec notre casquette norvégienne bien enfoncée, nous nous sentions d’autres hommes.
Le lendemain, des cars nous ont débarqués à la gare de Janowitz. Nous avons retrouvé les trains camouflés et les petites Allemandes en uniforme toujours prêtes à chahuter. On est repassé par Prague, sans s’attarder, cette fois. Puis, en cours de route, alors qu’on approchait de Munich, La Buharaye me dit :
— On devrait quand même faire un tour à Sigmaringen, avant de rejoindre la Charlemagne et de monter au front. Il y a, paraît-il, un gouvernement provisoire français. Il y a le Maréchal, il y a Laval.
— D’accord.
On change de train, on se renseigne, on repart, on se renseigne à nouveau… Bref, on perd deux jours avec sérénité, sans le moins du monde se rendre compte de la rapidité des événements. Et un matin, sur le coup de 9 heures, nous débarquons à la gare de Sigmaringen.
Nous nous trouvions dans une campagne ravissante, tout empreinte de douceur et de quiétude. La ville était à deux ou trois kilomètres. On se met en marche. Et au long du chemin, nous avons commencé à rencontrer des Français, des gens d’un certain âge, coiffés, pour la plupart, d’un béret basque, style ancien combattant. Ils avaient l’air angoissé et jetaient sur notre écusson un regard morne, dépourvu de sympathie.
Nous sommes arrivés dans la petite ville, que traverse le Danube. La Buharaye s’arrête :
— Allons demander audience au Maréchal. Il faut qu’il nous dise un peu ce qu’il pense de tout ça.
On s’engage sur une route qui grimpait au château. Devant celui-ci, veillaient, à la fois, des gardes français et des gardes allemands. Georges s’avance :
— Nous désirons rencontrer le Maréchal de France, Philippe Pétain, ou à défaut, le président Pierre Laval.
— Vous avez une audience ?
— Comment, une audience ? Nous revenons de Tchécoslovaquie et nous allons partir sur le front de l’Est. Alors, nous avons bien droit à une petite conversation avec le Maréchal…
On envoie des gars. Ils reviennent.
— Le Maréchal ne peut vous recevoir.
— Il ne peut pas nous recevoir alors que nous allons nous faire tuer ? Et le président Laval ?
Une demi-heure se passe en palabres. Vraiment, on ne parlait pas la même langue. Finalement les gars repartent. Dix minutes après, ils sont de retour :
— Le président Laval, non plus, ne peut vous recevoir.
La Buharaye se redresse :
— C’est bien ce que je voulais savoir. Merci, messieurs.
Puis, désignant leur étui à revolver vide :
— Vous avez raison, les risques, ça peut mal tourner. Bien. On s’en va défendre votre tranquillité.
Et s’adressant à moi :
— Allons déjeuner. On reprendra le train après.
Nous sommes redescendus à Sigmaringen. Plusieurs « Gasthaus » étaient ouverts. Des Français s’y agglutinaient de partout : chez nous, l’heure de la bouffe, c’est sacré. C’était à qui arriverait le premier et serait le premier servi. Nous avons vu passer Rebatet, Céline avec sa femme et Le Vigan. J’ai voulu aller leur parler, mais La Buharaye, qui ne décolérait pas, m’a dit de laisser tomber.
Nous sommes entrés dans un restaurant. Il était déjà bondé. Alors nous nous sommes rendus aux cuisines et avons abordé la patronne.
— On reprend le train tout à l’heure pour monter au front. Auparavant, il faudrait qu’on déjeune.
C’était une Allemande et elle savait ce qu’était la guerre. Elle a fait déranger des civils. Ça n’a pas été sans grognements : « Non mais, qu’est-ce qu’ils font avec cet uniforme allemand ! C’est malheureux, quand on est français, de voir des choses pareilles ! » Le désastre se précisant, ces réfugiés politiques commençaient à nous trouver compromettants. Ils n’étaient là que parce qu’ils avaient eu peur pour leur peau, dans leur ville ou leur province. Mais c’étaient, qu’on le sache bien, des Français sans taches et, dans le marécage de la collaboration, ils n’avaient engagé que le bout de l’orteil. Aussi nos uniformes les offensaient-ils.
Quelques personnes, pourtant, des femmes surtout, nous ont approchés en tendant une photo : « Le connaissez-vous ? C’est mon fils, il est à la Charlemagne. » Là, on retrouvait la mère qui n’a rien à faire des nationalités et des partis, qui s’inquiète pour le garçon qu’elle a suivi dans les fourgons de l’occupant. Les autres ne nous adressaient pas la parole, se contentant d’émettre des réflexions à voix haute.
Le ton est encore monté quand ces patriotes se sont aperçus que la patronne nous donnait ce qu’elle avait de meilleur, qu’elle nous servait de la viande alors qu’eux n’en avaient pas. L’envie semblait le commun dénominateur de tout ce petit monde. Ils ne pensaient, en dehors de la bouffe, qu’à leurs querelles de clocher et, sans cesse, se trahissaient entre eux. En quelques heures, de pseudo-gouvernements se faisaient, puis se défaisaient.
Leur dernière ambition, si ça tournait vraiment mal, était de se réfugier en Suisse, pour y attendre que tout s’arrange. Comme par hasard, les Français, avec l’accord des Allemands, avaient choisi de s’établir dans la région de Constance, la plus latine et la plus proche de la frontière helvétique. Ils ne savaient pas, les pauvres, que les Suisses n’acceptent que les riches. Ceux qui avaient beaucoup d’argent, qui trimbalaient un trésor avec eux – qu’il leur appartienne ou qu’ils l’aient volé –, ceux-là ont pu passer. Les autres n’ont eu d’autre ressource que de disparaître ou de se faire cueillir.
C’est complètement écœurés que nous avons, La Buharaye et moi, repris le train dans l’après-midi. Une fois encore, nous avons dû changer. Et le moral en berne, nous avons retrouvé la gare de Wildflecken.
Les bâtiments étaient enfouis sous la neige, on aurait dit, un peu, une station de sports d’hiver. Un train militaire attendait, machine sous pression. Nous nous sommes dirigés vers la sortie avec l’intention de rallier le camp, où nous nous réjouissions de faire admirer nos épaulettes et nos tenues camouflées. Dans le hall, entouré de quelques hommes, il y avait l’Hauptsturmführer Bassompierre. On se présente, au garde-à-vous.
— Heil Hitler !
Il nous dévisage, d’un air un peu distrait, derrière ses lunettes à fine monture d’or :
— Où allez-vous ? D’où venez-vous ?
Je lui explique notre situation. Il a un sourire un peu désabusé.
— Vos compagnies sont déjà parties depuis quatre jours. Vous êtes donc sans commandement, tout comme moi. Vous savez peut-être que Krukenberg n’a jamais supporté mon attachement à Darnand. Il m’en a voulu, aussi, d’être intervenu en faveur de miliciens qui refusaient de prêter serment. Aujourd’hui, j’ai pour mission de conduire le dernier détachement de la Charlemagne – je ne peux pas encore vous dire où. Inutile de remonter au camp, je vous garde avec moi.
On se regarde. Bon, tant pis pour les quelques affaires qu’on avait laissées à Wildflecken. Nous étions déçus. Des gars chargeaient les wagons sans entrain. D’autres s’étaient planqués pour fumer. Du brouhaha, s’élevaient des voix qui réclamaient la nourriture du soir. Elle n’avait pas l’air de vouloir venir. Georges hoche la tête :
— C’est le merdier. Je te l’avais dit qu’on connaîtrait, peut-être, une pagaille comme celle de 40 en France. Le moteur commence à gripper…
Nous patientons dans un coin, battus par des courants glacés. De temps en temps, pour nous réchauffer, nous frappions les pieds, et, sur le carrelage, la neige qui tombait de nos bottes se transformait en une espèce de gadoue noirâtre. Il y a quelques jours encore, nous étions à Janowitz, fiers d’avoir réussi, avec l’espoir d’exercer une vraie responsabilité. C’était déjà loin. Maintenant nous étions à la merci de n’importe quelle décision… Je me tourne vers La Buharaye :
— Et si on se taillait ? Si on rejoignait Degrelle ?
La division « Wallonie », c’était la grande tentation. Elle était formidablement équipée et on y parlait français. Elle s’était illustrée dans plusieurs des principales batailles du front de l’Est. Son entraînement et son moral étaient exemplaires. Presque toujours au feu, elle avait un besoin constant d’effectifs.
Degrelle débauchait volontiers les Français, on l’avait vu à Wildflecken chez les gars de la Brigade d’Assaut. C’est que le chef rexiste, auprès d’une grande partie d’entre nous, avait beaucoup de prestige. L’estime que lui témoignait Hitler avait développé ses ambitions et il pensait devenir un des chefs principaux de la nouvelle Europe nationale-socialiste. Avant-guerre, en Belgique, alors qu’il n’avait que vingt-sept ans, il avait fait ses preuves de leader politique. Le roi le recevait. Il avait pu, grâce aux élections, placer une trentaine de députés à la Chambre et ce chiffre, en cas de dissolution, se serait encore accru. Quand les hostilités ont commencé, il était donc près de prendre le pouvoir et de faire basculer son pays dans le fascisme.
D’autre part, le crochet par Sigmaringen m’avait appris qu’il ne fallait pas compter sur les Français, que chez eux, le pouvoir politique s’était complètement désagrégé. Nous savions que nous ne nous battions plus que pour les Allemands, et pour défendre leur territoire. C’est par eux, et par eux seuls, que passait l’espoir fraternel que nous avions partagé à Janowitz. Plus qu’à Wildflecken encore, là-bas, je m’en apercevais soudain, j’avais fait un saut décisif. Aussi je brûlais de rejoindre ceux qu’animait un esprit semblable au mien.
Mais La Buharaye, d’un naturel plus pessimiste, ne partageait pas mon sentiment :
— Non, mon vieux. Tu es fou. Un choix est un choix, allons jusqu’au bout. Cette histoire de cons, il est intéressant d’en voir la fin. On va y crever, à coup sûr, mais faisons-le avec élégance. Nous irons mourir clandestinement, mais en beauté.
Puis, changeant de ton :
— Et maintenant, occupons-nous du casse-croûte.
Et, les bras ballants, il est, une fois de plus, reparti de son pas élastique. Je pensais, en l’attendant, aux compagnies qu’on ne commanderait pas et à notre acquis dont personne ne profiterait. La nuit tombait. Les lampes et les vitres, toutes passées au bleu, répandaient une lumière crépusculaire. C’était triste à mourir.
Puis Bassompierre, qui dirigeait l’embarquement du matériel et des cent cinquante derniers hommes, est arrivé :
— Avec votre camarade, vous vous installerez dans le wagon de tête qui me sert, à la fois, de P.C. et de dortoir. Nous partirons cette nuit, pour tenter de passer sans encombre les nœuds ferroviaires qui sont continuellement bombardés. J’ai appris hier, par hasard, que le premier convoi de la Charlemagne avait été durement touché à cent kilomètres d’ici. Il stationnait dans un triage, à côté d’un train de carburant. Il y a eu des dégâts et de nombreux morts.
Et après un temps :
— Ce sont les premiers, on ne sait même pas où ils ont été enterrés.
Il parlait comme pour lui-même. Et je me disais que les cadres de la Charlemagne n’avaient pas un moral d’acier. Moi qui m’étais persuadé que, pendant toute notre absence, la division s’était forgé une unité et un souffle…
Bassompierre s’éloigne, Georges revient, un plat fumant à chaque main, deux pains énormes sous les aisselles, la musette pleine à craquer. Je lui dis qu’il faut se rendre au wagon de tête. Je soulève nos deux paquetages et nous partons nous installer dans notre crèche.
C’était un wagon de marchandises douillettement aménagé. Accrochées aux quatre angles, des lampes-tempête dispensaient une lumière sourde. Les armes étaient fixées aux parois et les caisses de munitions servaient de bureau. Par terre, à côté des paquetages bien rangés, de la paille et des couvertures. D’un brasero, fabriqué dans un vieux fût à essence, montait une douce chaleur. L’ordonnance de Bassompierre y faisait réchauffer sa gamelle.
Nous avons pris possession de notre coin. Puis nous avons entamé notre dîner.
— Où diable as-tu trouvé tout ça ?
— Il y avait un restaurant à un kilomètre de la gare. J’ai discuté avec la patronne et sa fille. Elles n’aiment pas spécialement les Français. Mais enfin on va se battre. Le patron est au front et depuis un mois, elles n’ont plus de nouvelles. Alors elles m’ont fait cuire un plat. Et elles m’ont filé des conserves, du miel, du faux café, du sucre et deux paquets de cigarettes. Bref, avec les rations qu’on va avoir, on est parés pour quelques jours.
Le repas terminé, on s’envoie un petit coup de schnaps. Et l’on décide d’aller reconnaître le convoi. Derrière la locomotive, d’un âge avancé, il y avait un wagon plate-forme avec deux canons antiaériens. Les servants, qui crevaient de froid, sautillaient sur place en se claquant les épaules. Puis nous avons longé le train. Les hommes s’entassaient dans des wagons à bestiaux, leurs affaires en vrac. À l’arrière, une nouvelle plate-forme de FLAK, avec des canons en position de tir. On ne voyait aucun matériel d’équipement. Nous accostons Bassompierre, qui arpentait le quai :
— Où est notre armement ? Nous n’avons pas repéré un seul Panzerfaust. Il n’y a rien que du matériel d’entraînement.
— Ne vous faites pas de souci, c’est la méthode allemande. Il ne faut pas alourdir les convois et les rendre vulnérables. Nous allons débarquer dans un camp près du front où sont stockés chars, artillerie, équipement léger et tenues de combat. Comme la Waffen SS est prioritaire, on devrait toucher ce qu’il y a de mieux… Enfin, en principe…
Il regarde sa montre :
— Allez, on part dans dix minutes.
Nous sommes remontés. Sur le quai, les employés de la Reichsbahn s’affairaient en balançant leurs lampes. Un coup de sifflet et l’on s’est ébranlé pour une destination inconnue. Le chauffeur de la locomotive recevait ses directives gare après gare. L’officier responsable, seul, possédait l’itinéraire prévu, dans une enveloppe qu’il ne pourrait ouvrir qu’une fois le train parti.
Appuyé à la porte coulissante, je regardais s’éloigner ce paysage noyé dans la nuit. J’y avais vécu des heures enthousiastes. Maintenant, la grande aventure commençait. Je pensais à la France et à mon père. Il ignorait où je me trouvais et jamais n’aurait imaginé mon engagement. Dans son coin, La Buharaye, aussi, semblait méditer. Puis il s’est mis à constituer nos paillasses. Il avait raison : que faire sinon dormir ? Nous nous sommes allongés, en échangeant quelques bouts de phrase. Notre train progressait sans hâte. Sa cadence ronronnante nous a vite assoupis.
Le froid, le lendemain, m’a éveillé. Ou plutôt un arrêt brusque. Nous sommes en pleine campagne. La neige s’étend à perte de vue. Rien ne bouge, tout semble mort. Il paraît que c’est une alerte aérienne. On tend l’oreille. Rien. Où est-on ? Personne ne sait. Bassompierre demeure muet. On s’équipe, afin de bondir sur le remblai si des bombardiers débouchent. Enfin, dans le lointain, on entend des sirènes.
Derrière une colline, en avant, se niche une petite gare. En sort une voiture tous terrains. Elle remonte la voie, arrive à notre wagon. Dedans, il y a un officier de la Wehrmacht. Il descend, vient jusqu’à Bassompierre pour lui expliquer ce qui se passe. Nous écoutons ce que traduit l’interprète qui est avec nous.
Non, il ne s’agit pas d’une attaque aérienne. Un train va passer, chargé des victimes d’un bombardement de Hambourg. Elles ont été brûlées au phosphore. Le spectacle est si affreux que les sirènes ont été déclenchées pour précipiter la population dans les caves. Ainsi, elle ne verra pas. On nous demande de ne pas bouger.
Et lentement, le train apparaît. À certaines portières, des soldats, mitraillette autour du cou, sont accrochés. Ils ont pour mission de repousser les curieux. Nous guettons, le cœur serré par l’angoisse. Et le convoi a défilé, interminablement. Son bruit ne parvenait pas à couvrir les gémissements et les cris qui montaient des wagons. À travers les fenêtres, qu’obturaient des morceaux de bois disposés en croix, nous avons vu des femmes, des enfants, des vieillards. Le phosphore dont ils avaient été arrosés continuait à les consumer, ils étaient tous devenus des mèches d’amadou vivantes. Je lisais l’horreur sur le visage des infirmières.
Nous étions figés : brutalement, nous faisions connaissance avec la peur. D’un wagon à l’autre, les interrogations fusaient. Mais ceux qui avaient vu se taisaient. Notre convoi avait repris sa marche, les villages succédaient aux villages. Mais dans nos yeux, il n’y avait plus que la vision du train fantôme.
Je ne sentais pas le temps qui s’étirait. En moi, quelque chose s’était bloqué, entre la colère et l’abattement. Et je prenais, tout à coup, conscience de notre solitude. La Buharaye partageait mon inquiétude. À une gare importante, nous sommes descendus nous mêler aux civils. Ils attendaient un train de banlieue pour se rendre au travail. Nous avions besoin de nous sentir un peu aimés, un peu compris. Ils étaient étonnés de voir des Français. Ils nous ont offert à fumer, à manger. Leur gentillesse nous touchait, et leur conviction aussi : eux, ils croyaient que rien n’était perdu.
On est reparti et c’est alors que Bassompierre nous a dit où nous allions. Il a déployé une carte de Poméranie et nous a montré, entourée au crayon rouge, la petite bourgade d’Hammerstein. Nous avions hâte d’arriver, avant qu’il ne soit trop tard. La radio ne donnait pas de bonnes nouvelles et, à travers l’ambiguïté des communiqués, nous devinions que les Russes tentaient de refermer une vaste poche et que c’est là que nous allions nous engouffrer.
Nous sommes arrivés à l’immense pont métallique de Stettin, qui enjambe l’Oder. Quelques bombardiers soviétiques l’attaquaient. Le train a stoppé. La FLAK allemande, sur la rive, déchaînait un feu d’enfer. On voyait, enfouies dans les trous, des jeunes femmes casquées. Obus à la main, elles servaient les pièces. Toute la nation, vraiment, était sur pied de guerre.
Les avions ennemis, enfin, se sont éloignés. Et, descendant du front, un convoi nous a croisés. Il était chargé de chars éventrés. À leurs côtés, des hommes couverts de boue, pas rasés, yeux fiévreux. On a échangé quelques signes, au passage. Puis notre train s’est mis à rouler et s’est engagé sur le pont. En face, c’était la guerre.
Note 1 : Le Panzerfaust était une arme offensive antichar. Il était essentiellement constitué par une charge creuse dont la mise à feu et le principe de propulsion dépendaient d’un tube léger qui, inutilisable après usage, ne servait donc qu’une fois. Le Panzerschreck répondait au même principe que le bazooka et s’utilisait de la même manière. Sa portée était plus grande que celle du Panzerfaust mais les « chasseurs de chars » avaient une nette préférence pour celui-ci qui, plus léger et plus maniable d’une part, imposant le combat rapproché, de l’autre, se révélait beaucoup plus efficace.
Note 2 : Sturmgewehr : fusil d’assaut, intermédiaire entre fusil mitrailleur et pistolet mitrailleur, avec un chargeur en demi-lune.
4
DANS L’ENFER POMÉRANIEN
Nous étions comme des acteurs qui se massent dans la coulisse, tout en ajustant les derniers détails de leur costume. Ce n’était pas encore à nous, mais notre scène approchait. Une gravité nouvelle nous étreignait.
Le paysage, dans sa monotonie, n’avait guère changé mais plus rien n’était pareil. Ces champs et ces bois enneigés respiraient une sorte d’angoisse qui, au fur et à mesure que nous progressions, s’épaississait. Le train marchait au pas, s’arrêtait, repartait, telle une chenille sur une branche que le moindre bout d’écorce freinerait. Nous avions regroupé nos affaires, mis nos papiers en ordre, vérifié le fonctionnement de nos revolvers. C’était notre seule arme. J’étais un officier sans troupe et sans équipement. Vraiment, je n’avais pas imaginé ainsi mon entrée.
Nous avons commencé à percevoir un grondement sourd et continu. À l’horizon, s’élevaient les premières colonnes de fumée. Des avions passaient dans le lointain. Tirs d’artillerie, bombardements : « C’est déjà le front, pensais-je, et les nôtres, qui viennent de toucher leur matériel, sont déjà au combat. Mais où diable est Hammerstein ? » La Buharaye, à mes côtés, avait eu une légère grimace :
— Tout ça vient bien vite. Mon vieux, je crois qu’on est foutus.
Je luttais contre son fatalisme et m’accrochais à l’idée que la Charlemagne, dont les premiers échelons avaient rejoint Hammerstein depuis cinq jours, nous attendait pour nous faire place dans la bataille qu’elle livrait. Le doute, pourtant, s’était installé en moi. Les communiqués affirmaient bien que le front tenait en Poméranie et en Prusse-Orientale. Mais cela demeurait au niveau des généralités optimistes. Ce qu’on découvrait petit à petit cadrait mal avec elles.
Nous nous perdions en conjectures sans recevoir aucun renseignement précis : la situation, manifestement, évoluait très vite ; et plus on est près des combats, plus les informations deviennent fragmentaires. Nous savions, seulement, que le général Joukov, au centre, et le général Rokossovsky, au nord, avaient reçu l’ordre de foncer sur Peenemünde, où se préparaient les armes secrètes, puis sur Berlin, en laissant derrière eux les restes de l’armée allemande qu’ils n’auraient pu réduire. C’était donc contre l’armée Rokossovsky que nous allions être engagés.
Un croisement apparaît, qui annonce une station assez importante. C’est Neu-Stettin ; Hammerstein est un peu plus loin, au sud-est. À peine avons-nous pénétré dans la gare que des explosions nous assourdissent. Nous pensons : « L’aviation russe ». Nous sautons sur les voies. Je suis un des premiers. Devant moi, deux « Ivans » : ils me font lever les bras. Prisonnier. C’étaient des soldats merveilleusement équipés, la mitraillette au poing. Ils me poussent vers un petit appentis, la lampisterie. Je me retrouve contre un mur, figé, abasourdi. Mais les copains, dans le wagon, avaient tout vu. Ils tirent et descendent les deux Russes. Je suis sain et sauf grâce, vraisemblablement, à mes épaulettes d’officier : si les « Ivans » ne m’avaient pas abattu aussitôt, c’est qu’ils voulaient, sans doute, me questionner. Brutalement, nous découvrions la guerre de mouvement. Ce petit détachement, je le comprendrais plus tard, était un élément aventuré, emporté par l’élan de l’offensive soviétique. Notre convoi, pour eux, était une mauvaise surprise. Il leur fallait, maintenant, se camoufler et se tailler au plus vite.
Mais, sur les plates-formes, la FLAK s’est mise en batterie. Les Russes avaient un char. Elle tire, allume le T 34. Planqué, je regardais les gars en queue du train. Eux seuls pouvaient réagir sérieusement. C’était extraordinaire de voir comme des hommes, entraînés un minimum de temps, trouvaient, d’emblée, les gestes qu’il faut pour se défendre, attaquer, donner la mort. Dans le même moment, un Ilyouchine avait surgi. Il appartenait à un groupe qui venait de bombarder la gare. Un grand nombre de réfugiés qui guettaient un train hypothétique avaient été tués, et beaucoup de cadavres jonchaient le quai. L’avion fonce sur nous et balance une bombe qui va se perdre avec une imprécision incroyable. Il veut remettre ça, mais notre FLAK l’atteint de plein fouet : c’est son premier avion. Quant aux Russes survivants, ils s’étaient enfuis à toutes jambes.
Tout cela n’avait duré que quelques minutes, assez pour nous faire comprendre que le front était enfoncé. Attirés par le bruit de ce bref engagement, des gars de la Charlemagne surgissent. Nous leur sautons dessus :
— Qu’est-ce que vous faites là ?
— On est repliés.
— Et Hammerstein ?
— On s’y battait encore en début d’après-midi ; maintenant, ça doit être fini.
— Mais notre matériel ?
— Vous ne le toucherez pas plus que nous. On n’a même pas eu de camions. Quand on a débarqué, les Russes n’étaient qu’à quelques kilomètres et on nous a expédiés au casse-pipe sur-le-champ.
Depuis le 25 février, c’est-à-dire depuis deux jours, la Charlemagne se battait autour de Hammerstein. Mais elle avait croulé sous le nombre. Les survivants avaient reçu l’ordre de se regrouper à Neu-Stettin. Manquait toutefois la compagnie d’honneur. Elle avait percé les lignes ennemies par le nord-est, en direction de Dantzig encerclée. Beaucoup de chars russes avaient été détruits, mais nous comptions peut-être mille morts et mille disparus – presque le tiers de l’effectif. Certaines unités étaient complètement désorganisées. Nous n’avions plus un canon. Notre chef de bataillon, Boudet-Gheusi, était manquant, l’Oberjunker Vincenot, qui à Wildflecken avait repris le commandement de ma compagnie, avait été blessé et évacué.
Que faire ? On a débarqué le matériel. Puis on a attendu. La nuit était tombée. Des courants d’air glacés nous cisaillaient. La Buharaye et moi, nous nous répandions en tous sens, au milieu des civils désemparés. Les rescapés de la Charlemagne affluaient par paquets. Mais je ne retrouvais aucune tête connue, personne de mon unité. Je n’avais d’autre ressource que de m’accrocher à l’État-Major. Mais où se trouvait-il ? Et les Russes, où étaient-ils ? Et la division, existait-elle encore ? On allait, en fin de compte, se faire cueillir bêtement… Bref, la grande pagaille.
Le lendemain matin, tout de même, nous avons vu arriver Zimmermann. Il nous rassemble :
— Ne vous inquiétez pas. Vous allez recevoir des ordres. On va reformer les unités, redistribuer les commandements. Vous aurez bientôt de nouveaux objectifs.
Et l’on a stagné jusqu’en fin d’après-midi. Les gars ont été répartis en compagnies provisoires. La mienne comptait une cinquantaine d’hommes, alors que, théoriquement, elle aurait dû, au moins, en comprendre cent soixante. Avec La Buharaye, nous écoutions, fascinés, ces gens qui venaient du laminoir. Eux, déjà, ils savaient !
Enfin le repli a été ordonné. Ça ressemblait assez à un sauve-qui-peut. Il ne s’agissait rien de moins que de foncer à quatre-vingts kilomètres au nord sans reprendre souffle, afin de rejoindre la ville de Belgard où stationnait une division allemande mécanisée. Là-bas, on se regrouperait pour de bon.
Depuis la nuit, les Russes avaient entrepris d’encercler Neu-Stettin. Aussi un bataillon est-il constitué pour protéger notre retraite au moins une journée. Il sera épaulé par douze canons antiaériens, ceux mêmes du convoi qui m’avait amené. Faute d’engins tractés, on les laisse sur leurs plates-formes. Et le train, wagons vides, repart tout d’un bloc pour se poster au nord de la ville. Nous disons adieu à tous ces gars que nous ne reverrons jamais. Puis nous nous préparons à notre équipée. Il y avait vingt-quatre heures, déjà, que nous étions là.
Nous sommes partis. J’étais avec ma compagnie, La Buharaye un peu plus haut, avec la sienne. Une tempête de neige s’était levée. La nuit venait de tomber. L’expédition pouvait sembler une folie. Mais ces conditions tout au contraire – Krukenberg le savait bien – nous permettaient d’échapper aux chars russes. Dans l’obscurité, les blindés s’immobilisent car on les repère facilement : le bruit de leurs chenilles porte mieux et s’ils allument leurs phares, ils se dénoncent tout de suite. Et puis, quel que soit le temps, nous devions, absolument, profiter du répit qui nous était accordé. Les Russes avaient eu tellement de pertes qu’ils éprouvaient le besoin de souffler. Mais ça ne durerait pas.
Nous étions à pied, chargés, surtout, de munitions. On s’était équipé à la hâte, en puisant dans l’armement qui traînait un peu partout. Ainsi avais-je pu récupérer un Sturmgewehr. Quelques voitures tirées par des chevaux – genre arabat russe – suivaient avec du matériel entassé. Elle était loin la prestigieuse division qui, majestueusement, devait monter au front canons et chars déployés ! Sur la route de Belgard, ce n’était même plus une troupe : un troupeau. Il y a quelques heures, encore, je ne connaissais même pas mes hommes. Et je ne savais toujours pas leur nom.
La route était envahie par des milliers de réfugiés. Je retrouvais la France de 1940 : « C’est incroyable, pensais-je, tout se répète. » Ils fuyaient la zone de combat mais elle les rattrapait impitoyablement : quarante-huit heures, trois jours de gagnés, et puis les événements, qui allaient bien plus vite que leur misérable armada de chevaux et de charrettes, les reprenaient à la gorge. C’étaient tous ceux qui avaient réussi à s’échapper de la Prusse-Orientale et des territoires annexés, des gens âgés, des femmes, des enfants. Comme nous, ils se dirigeaient sur Belgard. De là, certains espéraient atteindre le port de Kolberg, sur la Baltique, afin de s’embarquer ; d’autres tenteraient de rejoindre Stettin par l’ouest.
Ce qui me frappait dans cette procession, interminable et obstinée, c’était son silence, un silence massif, accablé. De temps en temps, seulement, on entendait quelques cris pour diriger les chevaux : ces gens ne parlaient plus, ne se parlaient plus. Ils avançaient le regard fixe, certains portant des enfants dans leurs bras. Ils se nourrissaient très peu. Leurs carrioles, pourtant, débordaient de ravitaillement, car avant de s’enfuir, ils avaient vidé leur ferme. Mais ils n’avaient ni les moyens ni le temps, surtout, de se faire à manger.
Nous les côtoyions sans guère d’échanges : un sourire à un gosse, une caresse, un bout de chocolat si nous en avions. Notre colonne et la leur glissaient l’une contre l’autre, tels deux liquides qui ne se mêleraient pas. Une même pensée, cependant, nous obsédait tous : ne pas se faire prendre, sauver sa peau. Comme ces animaux qui, lorsque la forêt brûle, se retrouvent en une même fuite.
Un temps, nous avons été doublés par des unités allemandes motorisées. Nous regardions leurs camions avec envie : à ce moment, en Allemagne, il y avait une grande pénurie de matériel roulant. L’essence, en revanche, si elle parvenait difficilement au front, ne manquait pas car le plein avait été fait dans les bassins pétroliers russo-roumains. Mais pas question de se faire charger. Il n’y avait pas de place et ces unités avaient leurs propres objectifs. Nous, nous étions condamnés à marcher, comme des touristes qui auraient débarqué après que leurs autocars étaient partis.
Un peu auparavant, nous avions, également, croisé tout un camp de concentration qui se repliait. C’était à la sortie de Neu-Stettin. Un train devait l’attendre quelque part. Ç’avait été une rencontre très brève. Les déportés – ils étaient au moins mille, en pyjama rayé – rigolaient et nous adressaient des gestes goguenards. Ils marchaient avec vivacité et – je dois le dire – semblaient en bonne forme.
Nous avons vu aussi des prisonniers de guerre. C’était sur la route. On les ramenait vers l’intérieur de l’Allemagne. Et, fait assez étrange, certains, alors qu’ils savaient qu’ils seraient rapidement délivrés par les Russes, ont demandé à se joindre à nous. J’en ai vu deux ou trois. Ils ont lâché leurs copains, on les a habillés en vitesse, on les a armés. Manifestement, ils souffraient de bagarres inassouvies : en 1940, les Allemands avaient dû les faire aux pattes sans qu’ils aient le temps de se retourner et ils avaient ruminé, durant toute leur captivité, les combats qu’ils n’avaient pas livrés. J’ai appris qu’une dizaine de gars, environ, s’étaient engagés ainsi.
Par la suite, on m’a raconté que dans d’autres endroits, à Kolberg notamment, des prisonniers avaient fait le coup de feu contre les Russes sans même changer d’uniforme. Beaucoup d’entre eux travaillaient dans les fermes allemandes de Prusse-Orientale. Ils avaient choisi de rester avec les familles où ils vivaient depuis quatre ans. Avec ces réfugiés, ils avaient emprunté de petites routes à travers champs, évitant les grands axes où pouvaient rouler les blindés. Mais, chemin faisant, ils s’étaient, un moment, laissés dépasser par les Russes. Ils avaient vu violer ces femmes qu’ils avaient admirées ou détestées, désirées sans doute, aimées peut-être. Et ils avaient pris le coup de sang.
Mordus par le froid, fouettés par la neige et un vent qui rabattait du grésil, nous poursuivions inexorablement notre marche. Dans la tourmente, nous avions peine à respirer et l’envie d’uriner, sans cesse, nous tenaillait. Et toujours, à nos côtés, en un état second, la foule silencieuse des réfugiés. On n’entendait même pas un enfant pleurer : des fantômes, des automates. Pendant notre progression, nous croisions des débris de la Wehrmacht – des voitures tous terrains, quelques chars Tigre.
Le soleil s’était levé, tout fondait, la boue collait aux pieds. Je regardais la Poméranie. C’est un paysage sans tendresse mais qui a beaucoup de dignité, de droiture. Un grenier à blé, une terre bien labourée, très noire, très charnelle. De grandes plaines ondoyantes, des vallons qui, en plus sévère, évoquent, parfois, le Val de Loire. Des forêts admirables, avec leurs arbres alignés comme les régiments à Nuremberg. Et du sud au nord, appelées, dirait-on, par la mer, moins souvent de l’est à l’ouest, de longues routes bordées de peupliers. Nous traversions des villages à l’extrême propreté, aux maisons bien groupées, avec la gare un peu en retrait. C’était la même tristesse que dans le nord de la France, mais avec plus de beauté et d’ampleur. Une région très riche.
Une région, également, qu’on aurait dite un peu faite pour la guerre. On n’y trouvait guère de richesses artistiques, à part quelques châteaux que s’étaient octroyés les États-Majors – selon les bonnes habitudes – pour se reposer et se donner l’impression d’être en pays conquis, même pendant la défaite. Beaucoup de fermes isolées, veillant jalousement sur leurs hectares. Mais, au fur et à mesure que nous progressions, nous les trouvions abandonnées. Les paysans s’enfuyaient et grossissaient le flot qui déferlait de la Prusse.
De jour, la marche était rendue encore plus pénible par les avions russes qui ne cessaient de nous mitrailler. Heureusement, ils s’y prenaient assez mal, visant la route en enfilade alors qu’elle était légèrement sinueuse et bien protégée par les arbres.
Nous avons atteint Bad-Polzin dans la matinée. Peu avant, j’avais revu La Buharaye – je ne savais pas que c’était pour la dernière fois. Assis sur le talus, il avait enlevé une de ses bottes et raccommodait sa chaussette. Je le retrouvais bien là : il avait sur lui de la laine et son matériel de couture ; et je voyais qu’il venait de se raser, ce qui ne m’était pas arrivé depuis trente-six heures. On s’est regardés. Je lui ai dit : « A tout à l’heure, à Belgard. » Ce fut la dernière vision que j’ai eue de mon ami, de mon grand frère. Il a disparu, il a dû être tué. Il était entré dans ma vie avec un sourire, avec ses yeux bleus et froids de Viking, le Breton de la mauvaise chance ; il en est sorti sur un sourire…
Le long de la colonne, Puaud allait et venait, une parole pour chacun : « C’est moi, disait-il, qui vous ai entraînés là, mais je vous en tirerai, ayez confiance. » Il voyait que beaucoup d’entre nous étaient épuisés. On comptait au moins trois cents éclopés – malades ou sans moral. Ils traînaient la jambe, il faudrait les évacuer. Et Puaud savait que ce qui nous attendait serait terrible. Son attitude, pour admirable qu’elle fût, ne laissait pas d’être inquiétante. Il se comportait en chef de régiment plus qu’en général. On aurait dit qu’il souhaitait se faire tuer.
Krukenberg était d’un autre bois. C’était le vrai patron, celui dont nous avions besoin. Il n’était pas homme à se laisser envahir par des états d’âme. Au contraire, il parlait même de faire fusiller tous les déserteurs. En fait, il n’y en avait guère. Quelques gars qui s’étaient retrouvés plus ou moins isolés. Ils avaient essayé de se planquer en s’incorporant aux réfugiés, ou aux blessés évacués sur Kolberg. Physiquement, ils étaient préparés mais le caractère avait flanché. Ils avaient, tout de même, été soumis à une rude épreuve : une division sans armement, lâchée contre une armée supérieurement équipée. J’imagine que Krukenberg avait dû éprouver les plus grandes craintes et se dire : « Mes joyeux lurons de Waffen SS français, ils vont se retrouver à Aix-la-Chapelle avant que j’aie fait ouf ! » Mais finalement, le bilan parlait en notre faveur : en quarante-huit heures, les blindés russes avaient été stoppés, plus de quarante chars, des T 34 et des Joseph Staline – l’orgueil de l’Armée rouge, des chars de près de 70 tonnes, avec des canons de 126/127 –, avaient été allumés au Panzerfaust ; les « Ivans », d’après les premières estimations, avaient laissé de trois à quatre mille hommes sur le terrain ; le repli s’effectuait avec précipitation, mais sans débâcle.
C’est à la nuit tombante que nous sommes arrivés aux abords de Belgard : nous venions de couvrir quatre-vingts kilomètres en vingt-quatre heures ! On nous donne, enfin, l’ordre de faire halte. Nous étions dans une forêt tout engourdie de froid. Aussitôt, nous nous écroulons sur la neige. Certains avaient encore des tentes ; ils les dressent. Quelques minutes, nous savourons une immobilité absolue. Mais la faim ne tarde pas à nous tirer de notre torpeur.
Nous n’avions que peu de choses avec nous. De même que l’armement, le ravitaillement était demeuré à Hammerstein. Ne nous restaient que des rations individuelles, bien maigres en regard de notre marathon. Il fallait donc se débrouiller. On m’a raconté, ainsi, qu’un gars s’était mis en chasse, devinant que le coin était très giboyeux. Il s’était enfoncé dans les fourrés. Chemin faisant, il avait croisé des panneaux interdisant qu’on s’attaque à la faune. Mais les Français n’ont que faire du « verboten » et d’ailleurs, du train où allait la guerre… Est-ce qu’ils liraient le règlement, les « Ivans » ?
Assez vite, il avait capturé une biche. Krukenberg l’avait appris et avait piqué une violente colère. Il avait fait arrêter le malheureux et ordonné qu’il soit passé par les armes. Mais dans le cantonnement, ç’avait été un immense éclat de rire. Un simulacre avait été mis au point. Une fois Krukenberg reparti, le fusillé s’était relevé et avait dévoré la biche avec le peloton d’exécution.
Accompagné de quelques-uns de mes hommes, je décide, pour ma part, de faire une descente à Belgard. Nous y sommes bien accueillis par les quelques civils qui restent. Mais la ville était à peu près morte. Il n’y avait d’activité que dans la caserne, où stationnaient un régiment motorisé de la Wehrmacht et des éléments terrestres de la Luftwaffe. Ça nous a réconfortés de voir, enfin, des troupes allemandes. Nous avons retrouvé, aussi, des SS lettons qui se regroupaient. C’étaient des soldats extraordinaires, qui en voulaient terriblement. Ils haïssaient la Russie qui, en 1939, avait annexé leur patrie, au moment de l’affaire finlandaise. Ils tenaient les Allemands pour leurs libérateurs. La Lettonie avait donné deux divisions de Waffen SS qui avaient été saignées à blanc.
Nous ne nous sommes pas attardés, cependant. J’étais impatient de recevoir une affectation. De retour à notre forêt, je constate qu’un semblant de vie administrative a repris. De nouveaux commandements sont distribués. Je m’accroche aux basques de Bassompierre. À part deux gars, je n’avais retrouvé personne de ma PAK. J’entreprends donc de faire campagne pour me recruter une troupe, ce qui ne va pas sans mal. L’un connaissait un officier et désirait le rejoindre ; l’autre avait un copain qui, déjà, s’était casé et il ne voulait pas s’en séparer. On se serait cru sous le préau de l’école, au moment d’un grand jeu.
Tout de même, après bien des palabres, je me suis retrouvé à la tête d’une bande assez disparate. Elle se forgera une âme peu à peu, mais, sur le moment, mon moral n’était pas très bon. D’autant que je venais de faire mille recherches vaines pour retrouver Georges.
Et nos objectifs, enfin, nous ont été révélés. Pendant que nous rappliquions de Neu-Stettin, Krukenberg s’était rendu à l’État-Major du général Steiner, qui commandait les forces allemandes de Poméranie. Il nous avait rejoints à Belgard, muni d’instructions rigoureuses. Nous devions participer à la défense d’une ligne qui protégerait le littoral de la Baltique, et interdirait, à l’ennemi, la route des bouches de l’Oder. Il fallait tenir coûte que coûte. Bref, une mission de sacrifice, comme toutes celles qui étaient confiées aux divisions de Waffen SS.
Aussitôt Bassompierre me convoque :
— Je prends la tête d’un bataillon et vous emmène avec moi. Nous allons nous porter sur Körlin, à une vingtaine de kilomètres au nord-ouest de Belgard. C’est la dernière ville avant Kolberg. Nous nous y établirons en profitant de sa situation géographique intéressante, au confluent de la Persante et de la Radüe.
Et peu après, nous avons repris la route. Notre halte aura été brève ! Nous étions quinze cents environ, répartis en deux bataillons, l’un commandé par Bassompierre, l’autre par le capitaine Fenet. Un bataillon de réserve, placé sous le commandement du capitaine de Bourmont, devait se déployer au nord-est de Körlin. Quelques-uns des nôtres étaient demeurés à Belgard, auprès des troupes allemandes qui se préparaient à défendre la ville ; d’autres rejoindraient Kolberg, où les blessés avaient déjà été évacués. Ainsi se poursuivait l’éclatement de la Charlemagne.
Nous emportions un maximum d’armement léger. Les fusils et les Sturmgewehr battaient notre poitrine, nous faisaient ployer le cou. Le plus pesant, c’étaient les mitrailleuses MG 42 qui, avec leurs bandes, faisaient tout de même vingt kilos. Lors de la marche précédente, j’avais vu Puaud prendre celle d’un gars qui trébuchait, et la porter durant plusieurs kilomètres. On s’entraidait, il n’était plus question de grades. Nous n’avions toujours pas de voitures et d’armement lourd. Celui-ci, en grande partie, était aux mains des Russes. Nous n’en toucherions jamais.
*
Au nord-ouest de Belgard, Körlin est un gros bourg d’environ cinq mille habitants, baigné par deux rivières : la Persante, qui se jette dans la Baltique une trentaine de kilomètres plus haut, et son affluent la Radüe. Aussi plusieurs ponts défendent-ils l’accès de la cité. Celle-ci apparaît comme un point stratégique évident puisqu’elle commande la route du port de Kolberg, à l’embouchure de la Persante. C’est une agglomération assez étendue, coquette, sans histoire. Mais, dans cette nuit du 1er mars, nous la trouvions presque entièrement vide de ses habitants. On n’y voyait plus que des réfugiés, dont la masse énorme engorgeait la rue principale.
Krukenberg et son État-Major s’étaient installés dans les environs, au château de Kerstin. À notre tour, nous nous partageons les secteurs et les responsabilités. Bassompierre prend l’est. Il me confie la défense d’un pont, qui, à la sortie de la ville, commande un axe routier important. J’établis mon P.C. dans une maison abandonnée, rassemble mes hommes après avoir tenté d’en obtenir quelques-uns de plus, m’efforce de faire mieux connaissance avec eux.
Mais j’ai à peine le temps ; il faut, tout de suite, organiser le terrain. On choisit les endroits où poster les mitrailleuses. Tandis que des sapeurs allemands minent le pont, nous abattons des arbres afin de dresser, à sa sortie, des barrages antichars. Nous les disposons en chicane pour que la vague des civils, leurs voitures, leurs charrettes, puissent s’écouler. Après quoi, nous essayons de stocker un peu de ravitaillement.
Face à nous, au-delà du pont, la route, durant un kilomètre, file tout droit puis disparaît entre deux collines. Elle est noire de réfugiés pour qui la mer est le seul espoir, comme en 1940 à Dunkerque. Mêlés à leur exode, on découvre, de temps en temps, des soldats allemands. On a ordre de les arrêter, de les interroger, de les utiliser si possible. C’est ainsi que nous avons pu récupérer un char Tigre. Il arrivait tout seul.
Les gars n’ont fait aucune difficulté pour demeurer avec nous. Mais le moral n’y était plus : ne survivait, en eux, que cet esprit de discipline qui, même dans les cas les plus critiques, n’abandonne jamais le soldat allemand. Ils savaient que tout était fini. Ils appartenaient à une armée faite pour l’offensive et la victoire. Pendant quatre ans, elle avait dominé l’Europe, s’était illustrée sur tous les fronts. Quand elle avait effectué des replis stratégiques, c’était en ordre, après avoir infligé des pertes sévères à l’ennemi. Elle n’avait connu qu’une vraie défaite, Stalingrad, et on peut dire qu’avant 1945, la Wehrmacht n’était pas encore atteinte dans ses forces vives. Et, soudain, tout avait basculé. Il avait fallu combattre les Russes, un homme contre dix, un char contre cinquante. Il n’y avait plus de commune mesure.
Des hommes avec des mortiers sont venus, également, nous renforcer. Ils provenaient d’une réserve de la Charlemagne qui stationnait à Greifenberg, une cinquantaine de kilomètres à l’ouest. Un sous-officier, jeune, trapu, se présente à moi :
— Arnaut.
J’ai un moment d’arrêt.
— Mais je connais votre nom, il me dit quelque chose…
— Le vôtre aussi.
Je l’interroge :
— Votre père ?
— Militaire.
— Dans quelle arme ?
— La cavalerie.
Ce fut comme un déclic. Son père avait appartenu à l’armée du Rhin, qu’il avait quittée à la fin de l’occupation. C’est là qu’il avait connu le mien. Ils avaient fait, ensemble, des concours hippiques et étaient restés très liés.
Tout en marchant et en distribuant des ordres, nous avons bavardé. Son père, me disait-il, était un grand résistant, un agent de Londres. Lui, avait passé le concours d’entrée à la police. Mais un jour, à Paris, sa brigade d’inspecteurs avait été versée aux Affaires juives. Ça ne lui avait pas plu et il s’était engagé dans la Waffen SS. Il était arrivé juste après les batailles d’août 44. On l’avait envoyé à Greifenberg, ramené à Wildflecken, réexpédié à Greifenberg. Entre-temps, son père avait été arrêté et incarcéré à Fresnes. Puis vraisemblablement déporté en Allemagne.
Du coup, je me suis senti moins seul. À travers l’amitié de nos pères, une complicité chaleureuse se nouait entre nous. Arnaut dépendait, lui aussi, de Bassompierre, qui lui avait donné des instructions précises pour disposer ses pièces, et nous nous retrouvions souvent.
Toute la journée, nous avons mis le dispositif en place. À la fin de l’après-midi, deux autres militaires sont arrivés de Greifenberg. Ils apportaient des mines magnétiques à placer, le moment venu, dans le barrage antichar : les blindés qui voudraient le bousculer auraient toutes les chances de les attirer avec leurs chenilles. Comme j’avais un soupçon, j’ai appelé le jeune officier responsable et lui ai demandé si ses engins étaient bien désamorcés. Il m’a assuré que oui. Puis il les a rangés au bord de la route, près du pont.
Il n’y avait plus qu’à guetter, jumelles aux yeux. La défense de la ville était prête. C’était un peu du bricolage… Nous n’avions que les moyens du bord. Certains avaient réussi à récupérer un ou deux canons de 75 ; et il y avait le char Tigre. Quant aux nouvelles, elles demeuraient fragmentaires. L’État-Major, du moins nous l’espérions, avait une vue complète de la situation. Mais, lors du « briefing » qui avait rassemblé les chefs de bataillon, les informations avaient été filtrées en fonction des secteurs respectifs.
Et la nuit est tombée. Nous avons pu nous laver, manger. J’ai commencé à savoir quels étaient mes hommes, comment ils s’appelaient, d’où ils venaient. J’ai entrepris de les interroger plus à fond. Combien étaient-ils ? Cinquante peut-être. Je n’avais guère le temps de les dénombrer. Au demeurant, il importait peu. Je savais bien que notre organisation était plutôt fictive. Avant tout, il fallait veiller et se préparer. Nous faisions des bandes de MG 42, entassions les munitions, les mettions à l’abri. Les patrouilles et les relèves de garde se succédaient. On attendait. Pour le moment, tout était calme.
Le jour s’est levé. Et c’est alors que, dans le ciel, dans l’atmosphère, tout a commencé à changer. Au loin roulait un bruit sourd, comme un orage. Le front se rapprochait. Pour lutter contre l’angoisse, nous émettions toutes sortes de suppositions optimistes. Les divisions allemandes, de l’autre côté de Belgard, vont peut-être décrocher sur une deuxième ligne où nous irons les rejoindre… La poche se rétrécit mais on a colmaté les brèches, les Russes nous repoussent, ils n’ont pas rompu nos lignes… Il y a bien ce trou, plus bas… La Wehrmacht finira sûrement par le combler.
Puis d’un seul coup, l’hémorragie de réfugiés s’est arrêtée ; et, dans le paysage, en dépit du grondement intermittent, il y a eu un grand apaisement. Le temps s’était radouci, la neige fondait, le dégel s’amorçait. Cela semblait de bon augure, la plupart des hommes n’étant pas équipés pour le froid qu’ils venaient d’endurer. Comme dans la nature, quelque chose renaissait en nous : une sorte de sérénité, et ce contrôle de soi, soudain recouvré, qui prélude à l’affrontement.
Nous attendions. Et, brusquement, vers midi, les réfugiés ont recommencé à déferler. C’étaient d’autres réfugiés. Ils étaient plus écrasés, encore, par la fatigue, ils venaient de plus loin. Ils sortaient, ceux-là, de l’intérieur du front et les Russes les bousculaient à l’avant de leur marche. Ils nous disent que les premiers accrochages ont débuté à Belgard, que l’ennemi ne va pas tarder. Je vais chez Bassompierre :
— Que faire avec tous ces civils si les chars russes s’infiltrent parmi eux ?
— Faites-en passer le maximum.
— Mais si les chars sont au milieu des civils ?
— Alors, c’est à votre appréciation. Il faut tirer.
Un peu de temps s’écoule. Puis les premiers éléments russes apparaissent. Ils se déploient et viennent se planquer derrière les collines. Juste pour tâter nos lignes, savoir ce qu’on fait. Premiers tirs d’artillerie, premiers tirs automatiques. Rien de grave, ça tombe bien avant Körlin. Mon secteur est net, dégagé, j’ai un kilomètre devant moi, inutile d’envoyer des patrouilles. À droite et à gauche, dans la campagne, Bassompierre a disposé des postes mobiles. Ils fixeront les éléments avancés puis se replieront sur des positions plus importantes.
L’ennemi, désormais, commence à mieux ajuster son tir, à balayer le pont avec ses armes automatiques. C’est le moment que choisit Krukenberg pour faire une tournée d’inspection. Nous le regardions, son chef d’État-Major, Bassompierre, Fenet et moi. Il ne bougeait pas, debout sur le pont, alors que les balles sifflaient. Cela me paraissait un peu ridicule : un obus de plein fouet et tout aurait sauté.
Premiers engagements, sans réelle gravité. Les éléments légers russes, manifestement, attendent des renforts. Ils stationnent en dehors de la route et laissent le flot des réfugiés s’écouler. Visiblement, ils souhaitent qu’il nous tombe le plus possible sur le dos. Dès les premières explosions, en effet, les civils se sont rués vers le bourg. Ils s’y terrent en espérant pouvoir reprendre leur exode sur Kolberg.
Mais les Soviétiques, maintenant, arrivent en force. Ils avaient commencé, à l’est, par tester nos défenses : elles tenaient solidement. On pressent désormais qu’ils attaqueront par le sud-est. Les défenseurs de Belgard, nous venions de l’apprendre, avaient cédé. Les Français, qui y combattaient aux côtés des Allemands, se repliaient vers Stettin, ils ne viendraient pas nous renforcer. Ainsi nous étions isolés ; bientôt, nous serions dans un étau.
À la jumelle nous suivons les premiers blindés. Ils tirent sur la ville mais leur plan semble incertain. Survient alors ce que nous redoutions : ils décident d’attaquer par la route, à travers les civils. Ils foncent littéralement dans leur masse – il en passait encore des milliers. Je suis de l’autre côté du pont, en avancée, devant les barricades. Deux chars se poussent derrière les réfugiés et, par-dessus leur tête, pilonnent le secteur ; pour ouvrir le chemin, les soldats sur les blindés mitraillent la foule. C’est la pagaille. Les civils, affolés, s’éparpillent, basculent dans la rivière.
Ne pas tirer encore, attendre la dernière seconde… On n’avait pas de radio, je me précipite donc chez Bassompierre pour l’informer. Je reviens à toutes jambes. Avec un de mes sous-officiers, j’arrive au pont, m’apprête à le retraverser, quand, à l’autre bout, surgit, suivie d’une Mercedes, une charrette de paysan lourdement chargée. Son brancard heurte des troncs d’arbres en équilibre. Un tronc tombe, roule, écrase les mines qui, j’aurais dû m’en douter, étaient en mise à feu. Elles explosent l’une après l’autre, dans un fracas énorme, creusant un vaste cratère.
La fumée dissipée, c’est un immense désastre. Tout est saccagé, les barrages se sont volatilisés. Les Russes redoublent leur tir et arrosent l’entrée du pont. Les civils se sont égaillés. Seule, devant moi, reste la Mercedes, complètement éventrée. À son côté, gît un corps à moitié déshabillé. Quelque chose bouge dans ses bras.
On bondit. C’était une jeune femme avec un enfant de trois ans. Elle l’avait protégé en tombant, il n’avait rien. Mais elle, en revanche, de minces filets de sang lui ruisselaient de partout. J’enlève l’enfant, deux gars emportent la femme. À mon P.C., on la met à nu, on s’aperçoit qu’elle est criblée de part en part, qu’elle perd tout son sang. Le gars qui servait d’infirmier nous dit qu’elle n’en a plus pour longtemps. Elle parlait encore, voulait sa petite fille. On la lui a donnée. Elle demandait qu’on aille lui chercher ses affaires dans la voiture. J’ai acquiescé, pour le principe. J’ai dit, au P.C., qu’on s’occupe de la gosse, que si la mère mourait, on fasse, dans le jardin, un trou pour l’enterrer. On essaierait de confier la petite à quelqu’un.
Puis, vivement, j’ai regagné mon secteur. La bagarre a continué jusqu’à la tombée de la nuit. Il y a eu, alors, une certaine accalmie. Les chars russes se méfiaient : s’étant trop rapprochés, ils avaient essuyé le feu de nos Panzerfaust et dû se replier à un kilomètre. Ils n’osaient plus se présenter à découvert. L’ennemi, cependant, contournait la ville. Des forces, venant de Körlin, avaient attaqué au nord-est. D’autres, remontant de Belgard, arrivaient par le sud-est. D’autres encore – ç’avait été une mauvaise surprise – débouchaient du sud-ouest, par la route de Stettin. Et les « Ivans », maintenant, se dirigeaient vers le nord, pour couper l’axe Körlin-Kolberg. Vraiment, ça commençait à sentir mauvais. Il ne restait plus qu’un mince couloir, au nord-ouest, du côté de l’État-Major de Krukenberg.
Deuxième nuit. Nous sommes graves, tendus, sans illusions. Nous pensons au choc qui se prépare, aux divisions qui vont déferler. On vérifie les défenses, on les retape. On ne sait déjà plus très bien qui l’on commande, et à qui l’on obéit. J’ai mon petit noyau de cinquante hommes et je m’y tiens.
Les Russes ont amené leur artillerie et commencé le pilonnage. Des maisons s’effondrent. Il ne faut pas que je laisse mon P.C. au rez-de-chaussée. Nous nous installons sous terre, comme les civils ici bloqués. Ils sont entassés dans les caves. Leurs charrettes abandonnées jonchent les rues. Des chevaux errent, on les met à l’abri, ils pourront nous servir.
Avant tout, ne pas perdre contact avec l’infanterie russe : c’est par elle, on le sait, que l’ennemi va essayer de s’infiltrer. Déjà, une patrouille un peu trop avancée a tenté de traverser la rivière. Ç’a été notre premier accrochage. Nous en avons tué la moitié, avons capturé deux prisonniers, dont un, grièvement blessé. On les a emmenés au P.C. de Bassompierre pour les interroger. Le blessé retenait son ventre à pleines mains, il avait le péritoine complètement déchiré. Évidemment, nous n’avions pas d’antenne chirurgicale, nous ne pouvions dispenser que des soins rudimentaires, réservés, en priorité, aux nôtres. Tout de même, près de l’État-Major de Krukenberg, il y avait un toubib et des infirmiers. Quelques lits avaient été rassemblés dans des maisons réquisitionnées, afin d’accueillir les plus gravement atteints avant qu’ils soient évacués. Mais maintenant, nous ne pourrions plus rapatrier les blessés – ce seraient des hommes perdus.
On transfère notre Russe. Il n’avait pas voulu parler. Nous n’avons pas d’ambulance, il faudra qu’il aille à pied se faire recoudre le ventre. Nous interrogeons l’autre. Il parle de forces considérables, de centaines de chars. Et le matin se lève. Quelques moments de calme, puis un renouveau d’activité, mais pas dans mon secteur. Il est trop découvert, les Russes hésitent, ils ne tiennent pas à rééditer leur attaque de la veille. Nous n’essuyons que des tirs d’artillerie et des rafales d’armes automatiques. Il y a quelques blessés. On se tient le mieux possible à l’abri, en économisant les munitions.
C’est alors que survient un curieux incident. Le P.C. de Bassompierre n’était pas loin de l’église. Une estafette sort, fait quelques pas et s’écroule. Ce n’est pas un éclat d’obus. Bizarre. On allait se précipiter vers le corps quand on se fait canarder du haut du clocher. On pense immédiatement que des Russes se sont introduits avec les civils. Des francs-tireurs : on ne l’avait pas prévu. C’était près de mon secteur, Bassompierre se tourne vers moi :
— Allez voir ce qui se passe.
Avec quelques hommes, je vais vers l’église. La porte était fermée, je la fais exploser. Derrière les piliers, on voit des gars courir. Ils s’embusquent dans le chœur, nous tirent dessus. Un coup de Panzerfaust dans l’autel, il saute, tout brûle. À l’intérieur du clocher, des gens s’agitent. Quelques rafales de mitraillette, et un bon coup de Panzer dans l’orgue : il se volatilise en un grand brouhaha. Des corps s’écrasent à nos pieds. C’étaient une dizaine de francs-tireurs. Leurs armes camouflées, ils étaient passés avec les civils et s’étaient embusqués, au risque de recevoir un obus de leurs copains. On comprenait tout à coup pourquoi l’artillerie russe semblait négliger un secteur de la ville. Ils avancent les mains en l’air. Parmi eux, deux Français, des anciens prisonniers. Stupeur.
Je les conduis à Bassompierre qui les interroge. Ce sont deux militants ouvriers. Libérés par les Soviétiques, ils avaient voulu reprendre le combat ; l’un d’eux, même, était depuis longtemps avec les partisans. Je sentais Bassompierre déchiré : deux francs-tireurs, mais aussi deux Français. Les envoyer à Krukenberg, c’était les envoyer au poteau d’exécution. À quoi bon ? De toute façon, nous vivions notre dernière bataille. Mais il y a les soi-disant lois de la guerre : on n’y peut rien, le partisan n’est pas un soldat ; et l’officier qui le fait fusiller ne peut être condamné, c’est reconnu par La Haye. Nous menions un combat impitoyable, les francs-tireurs nous tiraient dans le dos, qu’ils soient allemands, russes, polonais ou français, le problème était le même. L’armée allemande, qui en avait beaucoup souffert, n’avait pas fait de prisonniers. Et les Russes, de même : si des civils allemands les avaient attaqués à l’intérieur de leurs lignes, sans hésiter, ils les auraient fusillés.
— Vous devez être fusillés.
L’un des deux hommes pleurait, calmement. « Quelle connerie, soupirait-il, pourquoi, parce qu’on a loupé notre guerre de 40, s’être fourré dans une pareille histoire ? » Soudain, Bassompierre s’adresse à moi :
— Prenez ces deux gars. Mettez-les dans une des caves qui sert d’abri, sous la garde des réfugiés allemands.
Et se tournant vers eux :
— Si jamais vous avez le malheur de ressortir pour faire les malins, si je vous vois pointer le nez dehors, alors, là, pas de pitié, vous serez fusillés. Je vous laisse la vie. Vous témoignerez, si un jour vous revenez, si vous revoyez la France, si nous sommes vaincus, de ce que nous avons fait. Parce que vous allez sûrement entendre parler de nous, et j’espère que vous aurez le courage de raconter votre histoire.
Et je les ai emmenés dans un abri, où je les ai confiés à de vieux Allemands du « Volksturm ».
Ces derniers avaient surgi d’un seul coup, quand Goebbels avait proclamé la guerre totale. Il y avait des hommes de plus de soixante ans – beaucoup de vieux fonctionnaires considérés jusqu’ici comme irrécupérables. Ils arboraient les uniformes les plus variés avec, sur le bras gauche, le brassard à croix gammée. Comme nous, ils portaient presque tous la casquette norvégienne, bien plus pratique que le casque. Et à leur côté, nous rencontrions des « Hitlerjugend » : des mômes de douze à quatorze ans fiers de leur petit uniforme – la panoplie du parfait enfant de troupe. Dans un dernier élan, les deux extrêmes de la population s’étaient rejoints. On les avait armés tant bien que mal et ils participaient à la défense de la ville.
Sur nous, ainsi, pesaient les responsabilités. Tout autour de Körlin, le front à tenir. À l’intérieur, les partisans possibles – l’histoire de l’église nous avait échaudés –, les gens du « Volksturm » et les gamins. Et puis, cloués dans les caves, les réfugiés qui se demandaient, avec angoisse, s’ils pourraient jamais repartir. Nous ignorions, au juste, combien ils étaient : dans mon secteur, cent cinquante à deux cents. Beaucoup étaient totalement épuisés, certains, très malades. Que faire pour eux ? Comment les ravitailler ? Nous avions déjà fort peu pour nous – mis à part quelques expéditions, très fructueuses à vrai dire, que nous avions pu faire dans ces maisons allemandes si bien équipées, où les occupants, en s’enfuyant, avaient abandonné conserves, poulets et lapins…
Les civils nous regardaient avec des yeux étonnés : toute cette ville allemande dont nous avions la charge, nous qui étions français. Et moi, je regardais ces Prussiens dont on m’avait tant parlé. Lorsqu’il voulait camper des militaires particulièrement rudes, mon père me décrivait leurs officiers. Eh bien, ça y est, je les voyais, ces fameux Prussiens, le plus fier bastion de la race allemande, des gens nantis mais durs, des enfants splendides, des vieillards robustes, des femmes magnifiques. Un peuple, aussi, marqué par le destin. Quand les Russes avaient pénétré dans leur territoire, ou dans le territoire qu’ils occupaient en Pologne, tout de suite, ils avaient su ce qui les attendait.
Et les femmes, surtout, savaient ce qui les attendait. Les « Ivans » victorieux avaient droit à vingt-quatre ou quarante-huit heures de pillage et de viol. C’était une règle et ils en profitaient. Les femmes à Körlin, celles notamment qui avaient des filles de dix-huit à vingt ans, avaient compris rapidement qu’elles se trouvaient à la dernière étape. Alors, de voir des Français, tout à coup, défendre les Marches de l’Est, défendre tout leur passé de grandeur, ç’avait été, vers nous, comme une montée d’admiration, d’amour spontané. Et nous avons assisté à une chose étonnante : elles nous ont offert leurs filles.
Celles-ci, vraisemblablement, étaient presque toutes vierges. Elles étaient terrorisées à la pensée qu’elles seraient déflorées par des Mongols ou des Kalmouks. Quelques-unes, même, ne pouvant supporter cette idée, s’étaient suicidées. Il est vrai que des femmes, qui étaient déjà passées entre les mains des Russes, leur avaient raconté ce qu’on leur avait fait, comment elles avaient été violées par ces gars couverts de graisse et mangés par les poux.
Les frères « Ivans », en effet, n’aimaient guère l’eau. Ils ne se lavaient que par grand soleil et très grosse chaleur. Pour se défendre du froid, beaucoup gardaient le corps graissé tout l’hiver, de sorte qu’ils étaient plutôt faisandés. Et les soldats allemands, souvent, repéraient les patrouilles à l’odeur.
Celles qui n’avaient pas de filles se sont offertes elles-mêmes. On était revenu aux grandes traditions de la cité antique, où la femme est la récompense du guerrier. J’espère qu’il y a eu des garçons pour honorer ces offres. Moi et ceux qui m’entouraient, nous n’étions, hélas, guère dispos. Pourtant il y avait des filles bien ravissantes et les Russes, par la suite, ont dû se régaler – si, du moins, ils ont pris le temps de regarder : en général, ils violaient en bloc, de dix à soixante-dix ans, indifféremment.
Entre-temps, comme il fallait le craindre, la femme que nous avions recueillie près de la Mercedes était morte. Nous l’avions enterrée dans un grand jardin, auprès de quelques-uns des nôtres. Et brutalement, j’ai été envahi par le sentiment que nous étions faits, que les Russes donneraient bientôt l’assaut maison par maison, qu’on ne sortirait pas de ce piège à rats, qu’on allait tous crever. Je me disais : « Personne ne sait que je suis là, perdu dans un coin de Poméranie totalement inconnu en France. Je ne peux disparaître comme ça. Il y a peut-être un signe à donner, un lien à trouver. »
Nous nous sommes rendus à la voiture, y avons récupéré quelques papiers. Trois cadavres gisaient encore, les grands-parents, peut-être, et le chauffeur. Le père, sans doute, se trouvait sur le front, à l’est ou à l’ouest. Nous avons emballé les papiers puis nous avons confié la petite à une Allemande, une femme bien qui avait plusieurs enfants, dont une fille de dix-sept ans. Et à la lueur d’une lampe-tempête – il n’y avait plus d’électricité, l’artillerie russe en avait eu raison –, j’ai écrit rapidement à mon père, une lettre brève, sans m’étendre, d’officier à officier.
Je lui disais : « Si ma lettre vous arrive, sachez que vous ne me reverrez pas, car je ne vois aucune possibilité de réchapper à cet enfer. Cette lettre sera, sans doute, accompagnée d’une petite fille. J’ai demandé à ce qu’elle vous soit confiée – si, du moins, la personne que je charge de ce mot, ainsi que de l’enfant, parvient à sortir de la zone des combats. Je tiens à ce que vous la receviez en attendant qu’elle retrouve son père – si elle le retrouve jamais. J’aimerais qu’elle soit le dernier lien entre nous. Je l’ai choisie pour messager. C’est le plus jeune et le plus petit des messagers, celui, aussi, qui aura peut-être le plus de chance. Je vous prie de la recueillir et de l’élever comme si c’était ma propre fille. »
Lorsque, plus tard, j’ai été rapatrié en France, j’avais de l’angoisse au cœur. Je me demandais si une fille adoptive m’y attendait, si elle était parvenue jusqu’aux miens en suivant la filière que j’avais imaginée. J’ai pu avertir mon père et lui demander des nouvelles. Mais je n’ai jamais su ce que cette gosse était devenue.
Nous sommes le 5 mars. La bataille fait rage. Un certain nombre de chars russes ont réussi à s’infiltrer dans Körlin, mais ils ont été stoppés à coups de Panzerfaust. Sous la mitraille et les bombardements, Krukenberg distribue les premières Croix de fer. Puis il nous quitte pour rejoindre l’État-Major du général Steiner.
En partant, il donne l’ordre d’évacuation. Le bataillon Fenet et celui de Bourmont tenteront de s’échapper en direction de Belgard puis de l’Oder. Le bataillon Bassompierre restera pour bloquer l’ennemi encore un peu de temps. « Vingt-quatre heures », demande Krukenberg. « Deux jours », s’écrie Puaud, qui fait de la surenchère.
Fenet, puis Bourmont s’en vont la nuit tombée. Une partie de leurs hommes réussira à rejoindre les lignes allemandes ; une partie plus grande, encore, disparaîtra à jamais. Quant à nous, définitivement encerclés, nous nous enfermons dans la ville en ruine. À sept cent cinquante, nous devons tenir un front de près de dix kilomètres. Bassompierre rassemble ses officiers et sous-officiers :
— On va tâcher de faire pour le mieux. Et pour commencer, il faut colmater les brèches créées par le départ du bataillon Fenet.
Nous replions les postes avancés que nous avions établis de l’autre côté des rivières. Le lendemain matin, dans mon secteur, les Russes déclenchent une violente attaque. Sur la route que je défends, deux chars s’avancent jusqu’à l’entrée du pont. Nous flambons le premier, puis le second au moment où il s’engage. Enfin, nous faisons sauter l’ouvrage. Au sud et à l’est, les « Ivans » ne disposent plus d’aucun pont pour entrer dans Körlin, sauf celui par où passe le chemin de fer. Mais il est suspendu et les chars ne peuvent s’y aventurer. Pour l’ennemi, pas question, non plus, d’établir des ponts de bateaux : la rivière est trop étroite. Les chars sont donc contraints de s’immobiliser sur la berge opposée. Leurs canons renforcent l’artillerie. C’est un feu roulant auquel nous ne pouvons répondre que par nos derniers mortiers.
Les fantassins, eux, tentent de traverser à la nage. Dans l’obscurité, certains, également, se sont risqués en bateaux pneumatiques. Mais depuis la veille, le plus lourd nous vient des troupes qui attaquent par l’ouest, ayant passé la Persante en amont de la ville. Elles progressent inexorablement, sans cesse freinées par les éléments isolés qui se battent avec acharnement. En nous cisaillant, les Russes, en effet, découpaient des îlots de résistance qui se retrouvaient coincés entre deux vagues, celle qui donne l’assaut, celle, ensuite, qui occupe le terrain. Après avoir harcelé flancs et arrières soviétiques, les nôtres se repliaient en collant à la vague d’assaut. En résultait une totale confusion. La nuit, on ne savait plus démêler les amis des ennemis. Seuls, les bruits des chenilles nous permettaient de reconnaître les « Ivans ».
Six heures, douze heures, vingt-quatre heures… on tenait toujours. Une fête enivrante et désespérée. On se balançait des grenades sur la tête, on se mitraillait à qui mieux mieux. Accrochés aux décombres, nous menions chacun notre propre combat. Il y a beau temps que nous ne formions plus une troupe constituée. Nous étions des gens de toute espèce, dispersés par une bataille trop vaste. Avec un chef, pourtant : Bassompierre. Arrivé le dernier, il partirait le dernier.
Les cadavres russes s’entassaient ; mais des « Ivans », il en renaissait continuellement, plus nombreux encore. Notre obstination devait les étonner. Dans la journée, ils avaient, un moment, cessé le bombardement. Par haut-parleurs, ils nous avaient annoncé que le général de Gaulle avait signé un accord avec Staline. « Français, rendez-vous, disaient-ils, venez rejoindre vos camarades russes, vous retournerez en France, vous ne serez pas considérés comme les SS allemands, vous êtes des camarades. » Ils nous avaient lancé ces appels par deux fois. Mais il n’y en eut pas trois. Nous leur avons répondu à coups de mortiers et de mitrailleuses. Il n’y eut aucune défection. Nous avions juré de mourir, et c’est tout.
Le soir tombé, cependant, nous avons compris que la fin approchait. Les Russes, qui attaquaient de tous les côtés à la fois, nous réduiraient le lendemain. Notre effectif avait subi une lourde saignée : de sept cent cinquante, nous n’étions plus, environ, que trois cent cinquante.
Il fallait tenter la percée.
Chaque responsable fait un relevé de son secteur, on établit la situation d’ensemble. Bassompierre l’étudie, puis décide : « On va faire la sortie cette nuit, à l’heure la plus favorable, vers 2-3 heures du matin, au moment où l’artillerie russe se calme. On ira du nord vers le sud-est, c’est-à-dire au-devant des grands renforts soviétiques, en tournant le dos aux troupes d’assaut. »
Les ordres sont précis : aucune nourriture, rien que des munitions individuelles, en tout, trente à quarante kilos chacun, de matériel. On emmènera les blessés les moins graves.
Nous allons chercher les quelques chevaux qu’on avait réussi à parquer. Nous enveloppons leurs sabots pour qu’ils ne fassent pas de bruit, puis nous leur attachons des brancards rudimentaires sur lesquels on installe les blessés. Enfin, on tire au sort la compagnie qui ouvrira la marche, et celle qui la fermera. Avec la mienne, je fermerai la marche.
5
VINGT JOURS À L’ARRIÈRE DES LIGNES RUSSES
La nuit était calme. Mais la lune brillait et les incendies illuminaient Körlin : on se serait cru en plein jour. « Nous ne passerons jamais », me disais-je. À pas de loup, les hommes des positions les plus avancées commençaient à se replier. Au fur et à mesure, ils recevaient des instructions. J’avais groupé les miens près de notre pont, maintenant presque entièrement détruit. Nous nous préparions à progresser à travers les ruines, pour rejoindre les derniers éléments et assurer la couverture de la percée.
Celle-ci était d’autant plus risquée que nous l’engagions en suivant la ligne de chemin de fer. Or, la voie, durant cent à cent cinquante mètres, empruntait le pont suspendu, puis restait surélevée un kilomètre encore, de sorte qu’on ne pouvait marcher que deux ou trois de front. Nous défilions comme sur un plateau, et ce serait le vrai massacre si les Russes, qui étaient de part et d’autre, nous repéraient.
Mais, pour l’instant, l’accalmie n’était déchirée que par des tirs sporadiques. Mes hommes, au hasard, lâchaient quelques rafales pour faire croire que nous occupions toujours le secteur. Le début de la colonne, avec Bassompierre, avait atteint la gare. Nous, nous avancions furtivement et dans notre sillage, le silence s’épaississait. Des civils étonnés mettaient le nez hors de leurs abris. « Nous profitions du calme pour monter une contre-attaque », leur disions-nous. Mais à leur regard, nous savions bien qu’ils ne nous croyaient pas. Ils avaient compris qu’on les abandonnait et que le lendemain, ils seraient aux mains des Russes.
Quand nous sommes, à notre tour, arrivés à la gare, le ciel commençait à se couvrir. De lourds nuages, venus de l’est, promettaient de la neige pour bientôt. Le froid, à nouveau, se faisait menaçant. « Pourvu qu’il n’y ait pas d’accrochage, pourvu qu’une patrouille russe ne se balade pas dans le coin… » L’endroit était naturellement défendu, aussi les « Ivans » ne s’en occupaient guère : mais ils pouvaient toujours envoyer des soldats en reconnaissance.
Mètre par mètre, nous progressions en épousant les zones d’ombre. Voici le pont. Je vois les derniers échelons qui passent, les chevaux suivent, sans bruit. Ça va être à nous, et j’avoue que je n’attends même pas le délai prévu. Le dernier gars tout juste disparu, je donne l’ordre aux miens d’avancer, par paquets de cinq ou six. Je reste avec un groupe de dix. Et nous avons traversé, nous avons parcouru cet interminable kilomètre sans un coup de feu, sans rien. De temps en temps, les Russes envoyaient un tir sur la ville, un peu au hasard : ils devaient être étonnés de ne pas obtenir de réponse. Mais, de toute évidence, ils se réservaient pour le lever du jour.
Nous sommes arrivés au point de regroupement. C’était la zone où l’ennemi avait réuni ses chars et où il devenait quasiment impossible de l’éviter. De là – tel était le plan de Bassompierre –, nous devions redescendre au sud-est, vers Belgard, repassant ainsi par où nous étions venus quelques jours auparavant ; et c’est seulement de l’autre côté de Belgard que nous bifurquerions, en direction du nord-ouest, vers l’Oder. Mais l’Oder, c’était encore loin…
On se rassemble et on établit un petit front, en éventail. Puis on se déploie, peu à peu. Rien. Il faut y aller. Alors, sans se camoufler, comme à la parade, on fonce. Et assez vite, évidemment, on tombe sur des Russes – des blindés et des fantassins – appartenant aux troupes d’assaut. Ils sont complètement surpris, ainsi que l’a prévu Bassompierre dans une intuition fantastique. Ce sont surtout des Mongols. Beaucoup dorment – il faut bien dormir, même le nez sur la mitraillette… Ils ont dû penser qu’on les prenait à revers, sans imaginer qu’ils avaient affaire à cette garnison de Körlin qui leur tenait tête depuis trois jours. Nous, nous voulions surtout passer le plus vite possible : pas question d’user les munitions et de s’amuser à faire sauter les chars engourdis dans la nuit. On en a eu pour moins d’une demi-heure. Les « Ivans », ébahis, ne savaient trop où tirer et craignaient de se flinguer les uns les autres.
Alors, on y a presque cru. À marche forcée, on a plongé sur Belgard, où toute résistance avait cessé et qui grouillait, désormais, de blindés et de soldats russes. On l’a contourné et on a fait halte dans la forêt. Puis navigant à l’estime – nous n’avions pas de carte d’État-Major, simplement des cartes générales arrachées au calendrier des postes –, nous nous sommes dirigés vers la Persante afin de la retraverser. Il y a eu, en cours de route, quelques brefs engagements. On a tué un certain nombre d’ennemis qui ne s’attendaient pas à nous voir ; pour notre part, nous nous en sommes tirés avec un minimum de pertes. Et on est tombés sur un petit pont qui n’avait pas été endommagé. Mais on se méfiait. Pour plus de sécurité, la moitié des gars s’enfonce dans l’eau glacée (la nuit, le thermomètre descendait encore jusqu’à moins trois) et s’en va à la nage prendre position sur l’autre rive. Les autres empruntent la passerelle après avoir mis en l’air les quelques « Ivans » qui la gardaient. Et on est entrés dans la vaste forêt de Poméranie qui, nous l’imaginions, représentait la sécurité.
Nous étions, à ce moment-là, encore environ trois cents. Déjà, nous avions eu des morts, des prisonniers et des blessés. Nous en aurions bien d’autres au cours de cette période de guérilla qui s’ouvrait devant nous. Car, soudain, nous étions devenus comme des partisans, qui vivent dans l’ombre et se déplacent par bandes. Issus de la plus moderne des armées, nous allions nous battre comme au Moyen Âge.
Du coup, notre troupe prend un visage nouveau. Le seul commandement confirmé est celui de Bassompierre. Derrière lui, la hiérarchie naturelle se substitue à la hiérarchie administrative. Nous avons éclaté en petites cellules où s’imposent, comme chefs, ceux dont l’individualité ressort, ceux qui ont assez d’endurance et d’expérience pour pouvoir prendre la vie des autres en main. Ce sont maintenant les qualités individuelles qui comptent, des qualités qu’a singulièrement développées l’entraînement que nous avons reçu : jamais une autre troupe n’aurait pu tenir et combattre dans les conditions qui nous attendent.
Parmi nous, il y avait un personnage extraordinaire, l’adjudant Walter, un Alsacien très probablement, mais de l’intérieur de la France, car ceux qui étaient demeurés au pays étaient affectés dans des divisions allemandes. C’était déjà un héros de la Brigade d’Assaut. Son audace et son instinct allaient nous être précieux. Il y avait aussi deux autres adjudants, issus, eux, de la L.V.F. Depuis plus de deux ans, sur le front de l’Est, ils avaient, à l’arrière des lignes, lutté contre les partisans qui s’attaquaient aux voies de communications. Aussi savaient-ils utiliser le terrain comme de vrais chiens de chasse.
Notre objectif, je l’ai dit, était de suivre les troupes d’assaut russes pour rejoindre l’Oder où les Allemands, selon nous, stabiliseraient le front. Depuis que nous avions dépassé Belgard, nous nous trouvions, en effet, comme dans une éponge irrégulièrement imbibée d’eau : les Russes n’avaient pas véritablement couvert le territoire tombé entre leurs mains s’ils en exploitaient les principaux axes routiers. Toutes les voies de repli, ainsi, étaient coupées, alors que Dantzig, Koenigsberg et Kolberg résistaient encore, et que la marine allemande, sur la Baltique, embarquait les derniers survivants ; mais de larges zones demeuraient libres entre les routes où s’écoulaient, vers l’ouest, le matériel et les renforts ennemis.
Emportés par leur offensive, les Soviétiques rassemblaient leurs forces à l’avant. C’était notre chance. Notre seul risque, pensions-nous, était de nous heurter aux troupes d’infanterie portée dont la mission était d’occuper progressivement le terrain conquis, village après village. Elles s’y employaient avec méthode et l’esprit démobilisé, en sorte que la surprise avait joué jusqu’ici en notre faveur. Toutes les fois que ces troupes occupaient un patelin qui obstruait notre marche, nous leur étions tombés sur le dos et l’affaire avait été réglée en vitesse. C’était presque de la routine et nous avions l’impression que le plus dur était fait. Nous nous trompions lourdement.
Nous nous étions donc regroupés dans une forêt. On fait le compte du matériel, on attache les quelques chevaux qui nous restent et qui traînaient les blessés. Et puis on se repose un peu. On n’entendait plus de canonnade ni de bombardements : « Le front doit être déjà loin, se disait-on, les “Ivans” ont réussi une percée massive. » C’était l’apaisement des arrières, que troublaient seulement la rumeur des colonnes et, dans la nuit, les faisceaux mouvants de leurs lumières. Le temps lui-même s’était adouci, selon ces brusques écarts propres aux Marches de l’Est. Le dégel s’amorçait.
On se remet en marche, dans l’obscurité. Cette forêt était une véritable cathédrale, avec des arbres bien espacés et, régulièrement, des stères de bois dressés au carré. Puis on s’arrête à nouveau et on établit un campement provisoire. Le sommeil nous prend tandis que, doucement, la neige se remet à tomber. Au petit jour, quand nous nous sommes réveillés, elle nous avait recouverts. Tout était gris et feutré, et dans cette solitude, nous éprouvions un immense sentiment de sécurité, presque une sorte de bonheur. Nous nous sommes mis à faire du feu et, avec de la neige fondue, à préparer un semblant de café – quelques-uns d’entre nous en avaient glissé dans leurs poches.
Soudain, une patrouille russe surgit. Le temps de regretter la quiétude perdue, et la fusillade se déchaîne. Ça n’aurait été qu’un engagement parmi d’autres si le bruit n’avait attiré l’attention de troupes qui progressaient aux abords de la forêt, en direction du front. Elles se renseignent et, manifestement, les informations qu’elles obtiennent leur font croire à un important détachement allemand. Pour elles, c’était une surprise totale ; mais pour nous aussi cette fois, et encore plus que nous le pensions : sans le savoir, nous nous étions installés dans une forêt qui servait de réserve à l’artillerie de la Wehrmacht, et les stères de bois camouflaient, avec un art diabolique, des piles d’obus de 88.
Ce fut un feu d’artifice comme on en voit peu. Les Russes nous attaquaient au mortier, leurs chars ne pouvant pénétrer, et leurs obus, quand ils tombaient sur les cubes de bois, provoquaient des explosions formidables. Ils ont dû s’imaginer qu’ils avaient affaire à toute une armée. Ils n’y comprenaient plus rien et, heureusement, cela les a stoppés. Nous nous défendions énergiquement, tout en décrochant, morceau par morceau, dans le vacarme et la fournaise. Ça éclatait devant, derrière, à droite, à gauche. Complètement sonnés, nous emportions nos blessés en décrivant un slalom à travers ces fichus stères, couverts d’une neige paisible et qui s’allumaient les uns après les autres.
Finalement on s’en est tirés, et on s’est enfoncés plus encore dans les bois. Maintenant, nous sentions les Russes tout autour de nous : leurs patrouilles faisaient mine de nous ignorer pour nous encercler plus sûrement. La neige, qui ne cessait de tomber, amortissait nos pas. Mais elle freinait aussi notre marche et, uniformisant tout, rendait notre orientation de plus en plus malaisée. En fait, on était pratiquement égarés. Nous avions perdu nos dernières cartes et la boussole était notre seul recours. On avançait vers le nord-ouest – l’ouest plus que le nord – en évitant les petites routes qui traversaient la forêt pour s’en tenir aux plus modestes chemins. On a progressé péniblement la journée entière. Puis à la tombée de la nuit, dans le calme, on a refait un bivouac.
Nous avions faim. Nous nous sommes finalement résolus à manger les deux chevaux qui nous restaient. Avec un pistolet enveloppé dans un chiffon, nous les avons abattus et avons dévoré la chair crue. Ainsi il nous faudrait, désormais, abandonner nos derniers blessés graves. Nous les laisserions sur le sol, en déposant une arme auprès d’eux pour qu’ils puissent se suicider. Beaucoup d’ailleurs ne l’utiliseront pas, se souvenant des promesses diffusées par les Soviétiques à Körlin et se reprenant à espérer. Puis le sommeil nous a gagnés.
Nous avions des tentes individuelles ; mais notre fatigue était telle que nous nous sommes écroulés dans la neige. Peut-on rêver meilleure couverture ? Au bout d’un moment, elle vous enveloppe chaudement tandis que se fixe la température du corps ; on s’endort embrassé par elle et la lassitude vous est comme une ivresse légère : on ne se lèverait plus, et c’est pourquoi les vieux de la vieille se méfiaient.
Le lendemain, nous repartions et arrivions à la lisière de la forêt. Une vaste plaine vallonnée s’étendait devant nous, barrée à l’horizon par une route importante. À la jumelle, nous pouvions suivre les convois russes qui circulaient. On décide de ne plus bouger et d’attendre la nuit. Le temps, à nouveau, s’était radouci, la neige fondait. Quand le soir a commencé à tomber, on a repris notre barda sur les épaules et on s’est enfilés dans un petit chemin qui semblait dégagé. On a atteint la route sur le coup de 2 heures du matin. C’était un axe important, à trois voies, qui menait vers Stettin et Francfort-sur-l’Oder. Au-delà, il y avait encore un kilomètre de plaine, puis on retrouvait des vallons boisés. Il fallait absolument traverser.
Nous sommes à cinquante mètres de la grande route. On avance en file indienne, doucement. À droite de notre chemin, de même que sur les deux côtés de la route, une rangée d’arbres imposants. À gauche, un fossé surmonté d’un grillage. Il s’achève à une petite maisonnette qui se dresse au carrefour et d’où filtrent des voix, des bribes de russe. Immédiatement, on se planque dans le fossé, et on attend. Passent deux ou trois convois légers, puis c’est le silence. On se tourne vers Bassompierre. Il s’apprête à donner le signal.
Et c’est soudain, sur la route, la plus fantastique colonne qu’on ait jamais vue, des chars – T 34 et Joseph Staline –, des camions bourrés de fantassins. Elle progresse tous phares allumés et sa rumeur, peu à peu, s’enfle jusqu’au tintamarre, mêlant, dans l’ivresse de la conquête, cris, chants, bruits de chenilles et stridences de l’accordéon. Recouverts par ce tohu-bohu épouvantable, nous nous tassons dans le fossé, les uns sur les autres. Juste avant la maisonnette, il y a un léger virage en sorte que les pinceaux lumineux effleurent les gars accroupis à l’avant, presque au carrefour.
On est comme pétrifiés, le cœur serré par l’angoisse. Combien de temps ça va durer ? Puis petit à petit, on commence à s’habituer. Une demi-heure, trois quarts d’heure… Ça ne finira donc jamais ? Le sommeil pèse par à-coups sur les plus fatigués, les têtes trop lourdes s’affaissent, le casque heurte les armes. Sursaut. L’attente, vraiment, devient de plus en plus dure, on craint de se faire repérer. Par précaution, on fait circuler des Panzerfaust jusqu’à ceux qui sont en tête.
Ça a l’air d’aller, pourtant, ils vont passer sans nous voir… C’est alors que la colonne, tout à coup, stoppe une trentaine de mètres avant la petite maison. Un Joseph Staline se met en travers de la voie tandis que s’écoulent les véhicules qui précèdent. Toutes les lumières s’éteignent, et dans l’obscurité brutalement retrouvée, je distingue sa tourelle qui, lentement, déplace son canon vers nous. Mais l’adjudant Walter a un réflexe formidable : il s’élance, parcourt cinquante mètres sous les rafales – les mitrailleuses antiaériennes, sur les chars à l’arrêt, étaient immédiatement entrées en action, avant même les canons –, arme son Panzerfaust. La tourelle saute juste au moment où elle achevait sa rotation. Son canon s’affaisse, impuissant.
D’un seul élan, nous nous étions redressés. Quelques gars qui s’étaient endormis se relèvent si brusquement qu’ils rebondissent sur le grillage, tels des lapins traqués par des chasseurs. Nous sommes coincés, les blindés balaient notre chemin de leurs terribles balles de 20. Les Russes lancent des fusées éclairantes. La bataille s’engage.
Nous avions été découverts par les « Ivans » de la maisonnette au moment même où, de notre côté, nous les avions entendus. Les Soviétiques n’ignoraient pas qu’il subsistait, çà et là, à travers le terrain conquis, des lambeaux de l’armée allemande qui s’efforçaient de rejoindre l’Oder. Ils avaient donc jalonné les routes importantes de petits postes de guet. Nous avions été tout de suite repérés. Les soldats avaient astucieusement poursuivi leur conversation à haute voix, comme si de rien n’était, tout en donnant l’alerte.
Ceux qui ont des Panzerfaust s’élancent vers les chars. En quelques secondes, il y en a trois qui flambent. Les fantassins russes sautent des tourelles ou des camions et nous tombent dessus. Parmi eux, des femmes très bien équipées, avec la « chapka » et la mitraillette à camembert, de méchants clients. Elles étaient aussi enragées que des hommes, je m’en souviens, et j’ai dû en descendre une sans hésiter. On s’est battus au corps à corps et même à l’arme blanche. La route obstruée par les trois chars qui explosaient en brûlant semblait infranchissable. Je suis devant le premier. Pour traverser, je passe à l’intérieur de la carcasse en feu, après avoir lutté contre plusieurs « Ivans » qui en descendaient.
Les Russes tiraient comme des fous, essayant de reprendre la situation en main. Ce fut un quart d’heure – ou peut-être une demi-heure, comment garder la notion du temps ? – de mêlée à la fois confuse et sauvage. On bénéficiait des fusées éclairantes lancées par l’ennemi, un bon kilomètre de feu d’artifice : tout ce qui bougeait et semblait bien équipé, c’étaient des « Ivans » et on faisait feu. Nous avions dérouillé les gars du poste de guet, fait sauter les chars qui nous gênaient, nous nous étions taillé une voie dans la meute qui nous assaillait. Pourtant nous n’étions pas sortis d’affaire, car les officiers russes, prévoyant notre mouvement, avaient déployé des soldats au-delà de la route, dans la plaine.
Pour notre chance, ils s’étaient dit, manifestement, qu’une centaine d’hommes réussissant à traverser, cela ne comptait guère, que le plus important, c’étaient les trois mille qui devaient être derrière. Nous avons vu, à la façon dont ils réagissaient et dont ils pilonnaient à l’aveuglette un secteur où il n’y avait plus personne, qu’ils nous prenaient pour une simple avant-garde. Aussi ont-ils dû se croire piégés lorsque, après avoir dépassé, non sans mal, les derniers fantassins soviétiques, nous nous sommes, d’un seul coup, retournés pour les canarder dans le dos. Ç’a été, chez eux, une grande confusion qui nous a permis, enfin, d’atteindre la forêt.
L’addition était lourde. Certes, nous avions témoigné, en un minimum de temps, d’une efficacité maximum – d’où la surprise de l’ennemi et son erreur d’appréciation. À force de fixer cette interminable colonne, nous avions fini, en effet, par avoir dans les yeux la topographie des lieux. En moins d’une demi-heure, nous avions flambé trois chars, des camions, toutes sortes de véhicules dont des autos blindées. Tous nos Panzerfaust avaient servi : arme merveilleuse et redoutable quand l’homme se trouve isolé devant des blindés, surtout s’ils sont aveugles et ne peuvent opérer qu’au jugé ! Mais nous n’étions plus que deux cents dont un certain nombre de blessés légers, nous laissions une centaine d’hommes sur le carreau, des morts ou des blessés graves.
Le jour s’est levé. La neige n’était plus qu’une immense pellicule de cristaux finement soudés, qui miroitaient au soleil. Elle fondait par-dessus, ruisselait par-dessous. Nous avons vu l’infanterie russe qui progressait au loin, là d’où nous, nous venions : visiblement, les « Ivans » pensaient avoir isolé un détachement important. Une autre colonne avançait dans notre direction. Les blindés en revanche, cela nous paraissait miraculeux, poursuivaient leur route : jamais nous n’avions assisté à un tel déploiement de matériel, c’était infernal. Ils allaient sur Berlin, mais nous ne le savions pas encore. Nous pensions le front plus près, tout de même, et c’est pour cela que nous avions été étonnés, la nuit précédente, de voir les convois rouler tous phares allumés. Or, nous nous trouvions déjà dans les profondeurs de l’arrière, les troupes que nous rencontrions n’étaient plus chargées que d’opérations de nettoyage tandis que le ravitaillement s’écoulait, avec une inexorable régularité.
Après avoir pansé les blessés et nous être regroupés, il nous a donc fallu repartir et pénétrer plus avant dans cette nouvelle forêt afin de nous mettre à l’abri. Parvenus à une clairière, nous nous sommes accordé un peu de repos. De lourds nuages s’amoncelaient, une neige fine s’était remise à tomber : on n’en finirait jamais, décidément, avec cette alternance de neige et de dégel.
Mais très vite les patrouilles russes nous repèrent et c’est une course-poursuite harassante. On s’accroche au terrain, on se bat, puis on décroche. Nouvelle plaine, nouveaux Russes. Ce sont des chars, maintenant, qui nous tirent à vue, un obus par homme. Nous courons à perdre haleine, avec le sentiment de rester sur place, comme si nos bottes avaient des semelles de plomb : plus nous approchons de la colline salvatrice, plus elle semble reculer. Nouvelle forêt, enfin, nouvelle pause. Nous étions exténués. Notre effectif, qui fondait à vue d’œil, n’était plus que de cent cinquante hommes environ ; Arnaut avait disparu ; et nous nous apercevions maintenant que nous n’avions cessé de tourner en rond, comme dans une nasse, bousculés par le harcèlement des Soviétiques. Ceux-ci ne nous lâchaient pas. Au-dessus de nous croisaient des avions d’observation lancés à notre recherche. Trompé par notre rapidité et notre combativité, l’ennemi croyait traquer des forces infiniment supérieures à ce qu’elles étaient.
Le soleil était réapparu et nous mourions de soif. Certains suçaient la neige qui fondait, mais il fallait les en empêcher : elle brûle l’organisme et la soif en est redoublée. Moi, je résistais assez bien. Nous nous sommes mis, vainement, en quête de cours d’eau. Et c’est ici un de mes plus pénibles souvenirs. Dans une clairière, nous sommes tombés sur des cadavres de SS amassés en tas. Ils étaient gelés quand les premiers de notre colonne les avaient remarqués. Je fermais la marche et au moment où j’arrivais à leur hauteur, ils se sont mis, sous l’effet du dégel, à bouger et à onduler comme des vers. Mais ils étaient bien morts… Il y en avait une vingtaine, tous une balle dans la nuque. Ils avaient été blessés et faits prisonniers ; puis les Russes les avaient descendus. Moins que jamais, il n’était, pour nous, question de se rendre. Nous devions, au contraire, tenir obstinément, et ce spectacle fouettait notre énergie.
Cela faisait quelques jours que nous avions quitté Körlin. La faim nous tenaillait et nous n’avions plus de nourriture. Il fallait faire quelque chose, monter un coup de main : entreprise malaisée puisque nous n’avions plus de cartes. En cheminant, on repère du haut de la colline un tout petit village, un hameau avec quelques fermes. On étudie la configuration du terrain, elle nous est favorable. Manger : avec cet espoir en tête, la vie reprend couleur. On se terre en attendant le soir.
L’ombre s’étend. On progresse doucement, par bonds, en surveillant les avions qui rôdent. Au loin, toujours la rumeur des camions et des chars. Il fait presque nuit lorsque nous sommes en vue du hameau. Il faut maintenant s’installer jusqu’au petit matin. C’est en effet le meilleur moment, celui où la fatigue s’abat sur les gens, qu’ils veillent, travaillent ou montent la garde. Et en attendant, nous pouvons récupérer.
On s’endort, recroquevillés sous la morsure du froid. De temps en temps, lorsque mes yeux s’ouvraient, je jetais un regard sur mes compagnons. Ah, nous n’avions pas fière allure ! Nous ne nous étions pas lavés depuis des jours et les poux commençaient à s’acharner sur nous. Nos yeux étaient cernés, fiévreux, striés de filets rouges, ces yeux qui, le jour, luttaient contre le soleil et l’éclat de la neige, la nuit, s’efforçaient de percer l’obscurité. Nos visages exténués s’étaient figés en masques, nos mains, aux ongles noircis, étaient crasseuses et calleuses : nous devenions des automates, propulsés par la fatigue, et je ne sais quelle force sur laquelle on ne s’interrogeait plus.
Nos armes n’étaient plus graissées, mais elles marchaient, c’était l’essentiel. Nous étions toutefois bien plus vulnérables depuis la bataille contre le convoi russe, où nous avions laissé tous nos Panzerfaust. Certes, nous nous sentions allégés. Tout de même, on se demandait avec angoisse ce qu’on ferait s’il fallait retraverser une grande voie de communication, et qu’on se retrouve nez à nez avec des chars…
Voici l’aube. À travers la végétation toute fraîche de rosée, on se faufile vers le village. Nous avions remarqué deux fermes où des Allemands se trouvaient encore. Mais comme par hasard, nous venions juste d’être devancés : les patrouilles russes qui vadrouillaient dans le coin les avaient également repérées et venaient de les envahir. Les paysans s’enfuyaient vers la forêt. Je garde en mémoire l’image d’un vieil Allemand ployant sous une charge qui avait forme humaine. La couverture s’était tout à coup écartée, deux petites jambes maigres et raides avaient jailli, c’était sûrement une gosse paralysée. Des maisons, s’élevaient les cris des femmes que les soldats violaient.
Alors on décide d’intervenir et, tout aussitôt, s’engage une violente bagarre. C’est à ce moment qu’un jeune gars, qui me suivait depuis le début, s’est écroulé, fauché par une rafale en plein ventre. Il appelait comme un môme. J’ai fait demi-tour et suis revenu vers lui. Il avait vraiment une gueule d’enfant et de grosses larmes creusaient la couche de crasse qui lui collait au visage. Dans ses yeux de titi, je lisais un immense étonnement devant la mort : il ne la connaissait qu’à travers celle des autres et, soudain, c’était son tour. « Reste près de moi », me disait-il. Moi, je voulais comprendre son histoire. « D’où viens-tu ? » lui demandais-je.
Et il m’a expliqué. Il avait dix-neuf ans. Il était apprenti chez Renault où, déjà, travaillait son père, un vieil ouvrier militant communiste. La famille habitait Boulogne-Billancourt, dans un petit pavillon de banlieue comme il y en avait des tas à l’époque. Il y avait été très heureux. Lui aussi avait milité ; depuis son plus jeune âge, il baignait dans le catéchisme marxiste-léniniste. Et puis en 1944, lors d’un bombardement allié, sa maison avait été rasée, ses parents, son frère aîné, sa sœur cadette avaient été tués. Lui, il s’en était tiré ; mais il n’était sorti de l’abri que pour tomber sur les cadavres et les décombres…
Sa voix était hachée par la souffrance et il perdait beaucoup de sang. J’avais mis ma main sur son ventre, elle devenait toute poisseuse et ça coulait tout chaud entre mes doigts. Son pantalon, sa vareuse commençaient à être imbibés et devenaient raides. Ce qui l’avait bouleversé, disait-il, c’était la vue d’un chat qui traînait un bout de cervelle pour le manger dans un coin : était-ce celle de son père, de sa mère, de son frère ? Ça l’avait mis dans une telle rage qu’il avait décidé de se venger. Et c’est comme cela qu’il s’en était venu mourir sur les Marches de l’Est.
Souvent, je m’étais demandé pourquoi il y avait tant d’ouvriers dans la Charlemagne. Un tiers, en fait, avec un tiers d’étudiants et un dernier tiers d’aristocrates, grands bourgeois et aventuriers ; mais pratiquement aucun paysan. Curieux amalgame. La plupart des jeunes ouvriers étaient passés par Doriot, c’est-à-dire le milieu communiste, et leur formation idéologique était bien supérieure à la mienne. Mais quand on s’engage, il n’y a pas que des raisons mûrement réfléchies : il faut compter avec les impulsions et la colère, elles expliquent bien des paradoxes de notre aventure.
Ainsi ce gosse. Il est mort en me suppliant de lui laisser un pétard pour se suicider. Le plus longtemps possible, je suis resté à ses côtés. Puis j’ai pris ses papiers. J’avais depuis quelques jours la charge de récupérer les livrets des tués. Si nous parvenions à rejoindre les lignes allemandes, les familles auraient, de la sorte, une chance d’être averties. J’avais déjà sur moi pas mal de « Soldbuch ».
Les copains, pendant ce temps, avaient investi le hameau. Le vieil Allemand qui fuyait en emportant sa fille avait été tué par une balle perdue, victime d’un règlement de comptes qui n’était qu’une histoire de bouffe et aussi, pour les Russes, une histoire de femmes – mais les Allemands, je crois, avaient fait comme eux en Russie et c’était un prêté pour un rendu. J’ai eu, tout à coup, une sorte de vertige devant tant d’absurdité. À travers la mort du môme, j’ai eu l’impression que tout était fichu et qu’on allait tomber les uns après les autres. Je ne savais plus si j’avais faim, soif ou quoi que ce soit. J’ai déchiré les livrets que j’avais sur moi : à quoi bon transporter tout ça ?
Je suis arrivé complètement harassé. Les gars avaient déjà découvert des bidons de lait. Quelques vaches demeuraient à l’étable, on pouvait les traire. Puis on a trouvé, camouflés, des jambons. Il y a une heure encore, des gens vivaient ici qui avaient cru préserver un semblant de paix. La guerre avait fait rage autour d’eux, les vagues d’occupation s’étaient succédé, eux étaient restés, poursuivant leur vie de paysans, jugeant inutile de s’en aller, prêts à accueillir le nouvel occupant, avec les risques que cela comporte. On s’est jetés sur la nourriture, au point de se rendre malade. Mais, du moins, ça nous a sauvés. On se moquait éperdument d’être sales, noirâtres, de sentir mauvais. On était devenus comme des bêtes.
*
De trois cents au sortir de Körlin, nous n’étions plus que quatre-vingts. Derrière nous, des morts, des blessés, du matériel, de l’armement. Nous nous étions dépouillés de tout ce qui faisait de nous, encore, une troupe de soldats. Ne restait qu’une bande, un agrégat de gens résolus à sauver leur peau, ne possédant plus que leur vie et des munitions pour la défendre.
Bassompierre nous réunit :
— Impossible de rester ensemble. On va se scinder par petits groupes de dix. On rejoindra les lignes comme on pourra.
Alors on s’est séparés et on s’est dit adieu. Je ne devais entrevoir Bassompierre qu’à Fresnes, avant son exécution. Arnaut, mon copain, celui qui, à mes côtés, avait un peu remplacé Georges, avait disparu, je l’ai dit. L’adjudant Walter aussi. Puis on s’est éparpillés dans la nature.
Une nouvelle existence commençait, celle de franc-tireur isolé. Isolé et, finalement, perdu. Nous avions, déjà, médiocrement progressé : en un peu plus d’une semaine, quatre-vingts kilomètres, à peine, vers l’ouest. Je n’avais même plus de boussole, ayant, dans un accrochage, largué ma sacoche afin de m’alléger. Pour nous repérer, nous ne pouvions compter, ma poignée d’hommes et moi, que sur le mouvement des étoiles et, au loin, la poussée de l’Armée rouge, dont l’itinéraire fixait notre direction.
Mais les Russes nous avaient largement dépassés et la vague d’occupation, elle-même, se trouvait, en sa majorité, derrière les troupes qui, sur l’Oder, se préparaient à la grande bataille de Berlin. Nous n’étions cernés que par un ennemi absent et il n’y aura d’autres accrochages que ceux que nous provoquerons : il fallait bien prendre le risque de se ravitailler en vivres et en munitions… Évitant les grands axes routiers, trop bien gardés, nous allions vivre et progresser dans les bois, comme les bandits d’antan.
Le froid était tombé ; d’un seul coup, c’était le printemps. Et dans ce pays, quand le froid disparaît, il commence tout de suite à faire très chaud. La terre était meuble, grasse, et nous collait aux pieds. Complètement assoiffés, nous marchions péniblement à la recherche d’une rivière. On n’en voyait aucune.
Finalement, on s’est arrêtés à un petit étang. Il était plein de cadavres pourrissants. On l’a approché par un endroit à couvert, mais, devant la rive, flottait le corps d’un soldat russe. La chaleur l’avait gonflé comme une outre. On a essayé de le pousser. Il s’est crevé et, lentement, s’est enfoncé en dégageant de grosses bulles. L’eau était devenue rosâtre.
J’ai cru que nous allions vomir. Mais la soif était la plus forte. Quelques-uns d’entre nous avaient encore leur casque. Ils l’ont rempli de cette flotte et on a bu, le cœur au bord des lèvres. Nous n’allions plus guère consommer, désormais, que de l’eau polluée, qui nous collait la chiasse.
Le typhus, également, nous menaçait, à cause des poux qui nous dévoraient. J’en avais sous ma vareuse, sous ma tenue camouflée, j’en étais tout noir. Ils nichent de préférence aux endroits les plus douillets, le cou et la ceinture abdominale. Tant qu’il fait froid, ils vous tiennent chaud. Mais la sueur les gêne et ils deviennent hargneux. Nous avons dû nous dévêtir pour les extirper et les écraser. Ils avaient fini par faire corps avec nous. En me regardant, je pensais aux bœufs couverts de mouches, aux chevaux harcelés par les taons.
C’étaient des poux énormes, des poux pour militaires. Les Allemands prétendaient qu’ils avaient été amenés par les Russes. Mais je crois que toutes les armées en campagne, où l’hygiène est inexistante, sont des terrains à parasites. Lorsque les gens descendaient du front, on les désinfectait et on passait leurs vêtements à la vapeur. Pour nous, il n’était pas question de lavage : on ne trouvait pas d’eau et, dans les forêts où nous vivions, toute la neige, maintenant, avait fondu. On a pu, au début, changer de linge, de sous-vêtements. Puis, très vite, on est tombés dans un état de crasse, de puanteur et de déchéance abominable.
Tout se rétrécissait en nous, le moral comme le physique. Vraisemblablement, nous avions perdu des kilos et des kilos ; et on s’était débarrassés de la plupart des choses qu’on traînait. J’avais jeté mes jumelles dans un fossé : qu’en aurais-je fait ? On n’en était plus à manœuvrer et à étudier le terrain.
Dans les premiers temps de notre marche, on échangeait encore quelques idées : « Les troupes d’assaut russes sont drôlement loin, maintenant », « Si on se fait épingler, on aura peut-être la vie sauve, on ira dans un camp, mais dans un camp, on a de la bouffe ». On vivait sur quelques clichés. Pour nous, les camps de prisonniers en Russie, c’était comme les camps de prisonniers français en Allemagne. Puis on est devenu des sortes de somnambules. « On s’arrête », « Y en a marre », « On n’y arrivera jamais » : notre conversation se limitait à ces pauvres expressions, mécaniques et usées. Et on ne se parlait presque plus.
La chevelure hirsute – j’avais un peigne mais ça faisait quinze jours que je ne l’avais pas sorti –, le visage encrassé de poils, les yeux rouges, fiévreux, méchants, nous ressemblions à des bêtes sanguinaires plutôt qu’à des soldats. Aussi flanquait-on une trouille énorme aux quelques paysans, demeurés dans leur ferme, que nous rançonnions et qui, pour nous, représentaient le garde-manger. Ils prétendaient toujours, en tremblant, que les Russes leur avaient déjà tout pris. Il fallait qu’on leur mette la mitraillette sur le ventre, en leur disant que ce que les frères « Ivans » ne leur avaient pas fait, on allait le leur faire sans tarder.
Mais, malgré les apparences, nous n’avions nulle envie d’en découdre. Le temps était loin où on se disait : « Formidable, on vient d’aligner trois Russes », ou « Ça y est, on a flambé leur bagnole, ça leur apprendra à venir se balader en petits groupes ». Nous étions des bêtes pourchassées qui ne tenaient que par des réflexes de survie.
On progressait, de nuit surtout, en repérant les fermes isolées. On y trouvait très rarement des Allemands mais, souvent, de petits détachements russes qui cantonnaient en attendant de reprendre leur route. Il fallait les déloger. On les prenait par surprise, on en tuait, on piquait leurs armes. À la fin, nous n’avions, sur nous, que des revolvers, des mitraillettes, des munitions soviétiques.
Puis on faisait main basse sur la nourriture – on en emportait un minimum. On ne découvrait plus guère d’œufs, mais presque toujours du lard salé, qui aggravait notre soif. Et du lait parfois, dans quelques fermes où les travaux avaient été achevés. C’est ce qui nous défendait le mieux contre la maladie. Mais au fur et à mesure de notre marche, nous ne rencontrions plus que des bâtiments à l’abandon, déjà saccagés par les Russes, qui, on ne sait pourquoi, avaient la passion de tout foutre en l’air.
Les vaches, souvent, erraient aux champs ou à l’étable. Elles meuglaient désespérément car ça faisait des jours et des jours qu’elles n’avaient été traites et elles souffraient le martyre. Il nous était bien difficile de tirer leur lait et, encore plus, de les abattre. Pas question, d’autre part, d’étrangler une volaille, de la plumer, de la vider et de la faire cuire. Il fallait ramasser les vivres qu’on trouvait. Après quoi, décamper.
Ces coups de main, on les mettait, aussi, à profit, pour chasser les poux, qui se reproduisaient à une vitesse incroyable, et enfiler des chemises de paysans, quand les tiroirs n’étaient pas vides. S’il y avait des draps, même sales, on les déchirait en bandes pour les gars qui étaient blessés. On essayait de les soigner tant bien que mal. Mais nous manquions de médicaments, de ces sulfamides qu’on nous avait donnés lorsque nous étions montés au front et qui, à l’époque, étaient le remède miracle.
L’un de nous avait l’épaule gauche totalement infectée. Elle suppurait sans cesse. Il avait pris une balle qui lui avait vraisemblablement cassé la clavicule. Son pansement, d’une abominable puanteur, était tout noirci. Comme on lui avait mis l’épaule en écharpe, il ne pouvait se servir que de son bras droit. Quand on se bagarrait, il bloquait sa mitraillette sur la hanche et faisait tout d’une seule main.
Moi, j’avais eu une partie du pied gauche gelée, avant l’éclatement de notre troupe, quand le froid était encore intense. On s’était endormis, une fois, aux abords d’un marais, et si grande était ma fatigue que je ne m’étais pas rendu compte que mon corps avait glissé durant mon sommeil, et que mes jambes s’étaient enfoncées dans l’eau. Le marais, pendant la nuit, avait gelé, et j’avais commencé à geler avec lui : quand on est rompu, on ne réagit plus au froid, il vous gagne, au contraire, comme un bien-être, on se laisserait mourir très facilement. Heureusement, un gars m’a réveillé en vitesse.
Ce n’est que plus tard, cependant, la chaleur une fois revenue, que j’ai retiré ma botte et découvert que mon pied gauche avait été pris. Mon gros orteil était complètement noir, gelé au troisième degré. J’ai voulu continuer sans ma botte. Mais un des nôtres, qui connaissait le problème, m’a crié de la remettre aussitôt. Il fallait garder le pied au chaud, et bien maintenu.
Pour cela, rien ne valait la chaussette russe. Ce n’est qu’un carré de tissu. On pose le pied dessus, on recouvre d’abord les orteils, puis on rabat la partie gauche et la partie droite, on tire vigoureusement, enfin, ce qui est derrière. Alors on peut enfiler la botte, en tenant les pans bien croisés entre l’index et le majeur. Ça ne bouge plus, d’autant qu’à l’usage, la chaussette se durcit dans la crasse et la sueur. Le pied est au chaud et admirablement protégé, sans être emprisonné. C’est aussi d’une solidité exemplaire, car on utilise du torchon : on blesse un peu, au début, mais ça ne dure guère. Ce système l’emportait largement sur les chaussettes classiques et nous l’avions définitivement adopté.
S’adapter pour survivre : tout notre instinct jouait en ce sens. De ce côté, les Soviétiques étaient nos maîtres. Et c’est curieux comme, petit à petit, on se russifiait. On utilisait leurs armes, on fumait leur tabac. Dès qu’on avait descendu un « Ivan », on le fouillait pour récupérer son « maorka ». C’est un tabac très grossier, où les feuilles et les nervures sont hachées ensemble. Aucun papier à cigarette ne pourrait l’envelopper, il serait tout de suite crevé. Aussi les Russes emploient du papier journal. On met le tabac au milieu et on roule sans trop serrer, car même le journal risque d’être déchiré. Et avant de coller, il faut mâcher un peu la lisière du papier. Quelques grands coups de salive et on allume. Mais nous étions toujours en quête d’allumettes car il y avait longtemps que nos briquets étaient à sec et on les avait jetés.
Des pillards. Nous étions devenus des pillards, mais des pillards sans joie, des pillards par réflexe, par défense. En nous, c’était comme si un mécanisme fonctionnait qui nous faisait agir. On ne réfléchissait plus, on ne savait plus réfléchir. Ou plutôt, notre esprit n’épousait plus notre corps. Nous étions, par moments, les spectateurs indifférents de notre propre lutte. Quand on sortait des bois et qu’on fonçait sur une ferme, on pensait qu’on serait cueillis, peut-être, et ça nous était égal. « On va se faire descendre, se disait-on, bon, tant pis, ça n’a aucune importance. »
De temps en temps, je sentais qu’il fallait faire un effort, penser à autre chose. Je songeais à mon adolescence, je revoyais la vie de province traditionnelle, je replongeais dans ma famille. Des épisodes de 1936 me revenaient. C’était le Front populaire, on craignait un coup de force. J’avais convoyé une camionnette d’armes pour les paysans des environs de Saumur. Fusils et munitions avaient, comme par hasard, quitté les stocks de l’armée, sous la responsabilité de Madelin, neveu d’académicien et, dans la région, chef des camelots du roi.
On disait que les cheminots de Saint-Pierre-des-Corps allaient remonter sur Saumur et attaquer l’École de cavalerie. Celle-ci était sur pied de guerre. Mon père n’était pas rentré. Les lycéens de droite et de gauche se tenaient en alerte, mais pas pour les mêmes raisons. Je savais que Léon Blum demandait le pouvoir. S’il ne l’obtenait pas, me disait-on, ce serait la révolte rouge.
Je revoyais cette nuit de convoyage, entre Fontevrault et Villebernier, une nuit très courte et dont beaucoup de choses, sans que je m’en doute encore, allaient sortir. Ma première action, ce que j’estimais être mon premier acte révolutionnaire. Et puis je songeais à d’autres souvenirs : aux vacances, à une fille, à la défaite de 40, surtout, qui m’avait jeté en plein désarroi. Et j’essayais de relier ces fils à cet homme hébété que j’étais en train de devenir. En moi, il y avait alors un sursaut : « Non, il n’y a pas de raison, il faut tenir le coup, tu vas t’en sortir. »
On avançait avec une lenteur dérisoire, sous la chaleur, à travers les cadavres et le matériel abandonné. On faisait, au mieux, cinq kilomètres par jour, en s’orientant comme on pouvait. On marchait un kilomètre, on s’arrêtait deux heures, complètement fourbus. Deux ou trois veillaient, les autres dormaient. Une idée fixe : manger pour vivre, c’est-à-dire, tuer pour vivre.
Ça a duré une semaine. Nous étions restés tous les dix ensemble. Et puis un jour, vers 6 heures du soir, alors qu’on s’allongeait pour se reposer, on a entendu, au loin, des bruits de voix. On était complètement épuisés, complètement las, aussi, de coucher dans les bois, à même le sol – on avait, depuis longtemps, abandonné havresacs et tentes individuelles. Des voix : ce sont peut-être des paysans allemands.
On descend sur la ferme et on se trouve nez à nez avec des cuistots russes. Ils bavardaient et se marraient autour de leur roulante. Cela sentait une bonne odeur de cochon mijotant avec des patates. Aussitôt on mitraille les « Ivans » à bout portant, on se rue sur des gamelles qu’on remplit comme des déments, au-dessus des cadavres de ces gars qu’on venait de buter gratuitement, bêtement.
Mais des cris retentissent. On n’avait pas réfléchi une seconde que s’il y avait une roulante avec tant de nourriture, ce n’était pas seulement pour les quelques types qui se trouvaient à côté. Des soldats stationnaient un peu plus loin, en contrebas, toute une colonne que nous n’avions pas vue car le bois nous l’avait camouflée.
Cette fois, nous étions pris au piège. On se démène comme des rats affolés, jetant les gamelles, tiraillant en tous sens, fonçant vers la forêt protectrice. Mais là, à nouveau, comme dans les mauvais rêves, on avait l’impression de ne plus avancer. Ces deux minutes de fuite s’étiraient, devenaient des siècles. Nous étions des animaux apeurés, affaiblis, se débattant contre des gars bien nourris, en pleine forme, dispos, puisqu’ils descendaient de camions.
On a laissé trois des nôtres. Nous nous sommes retrouvés dans les fourrés, le cœur battant à tout rompre, épiant les Russes avec angoisse. Les cris ont duré un moment, puis se sont progressivement éteints. Les « Ivans » n’ont pas insisté. Ils ont dû penser qu’il ne s’agissait que d’isolés. Mais ils étaient certainement furieux des pertes inattendues qu’on venait de leur infliger.
On est restés des heures dans ces fourrés. Totalement prostrés. Alors, en nous, l’idée d’en finir a commencé à faire son chemin : « Ou on se rend, ou on se fait tuer, mais ça ne peut plus durer. » On a quand même essayé de lutter, de se redonner courage. On a continué deux jours, jusqu’à l’extrême de nos forces.
Le troisième jour – c’était un 27 mars, cette date est restée gravée dans ma tête –, nous avons vu apparaître une ferme. « Allez, on y va, s’est-on dit, on s’y installe, on tire nos dernières munitions puis on se fait tuer. » On était persuadés qu’on ne serait jamais gardés prisonniers, qu’on serait automatiquement abattus : on était des Waffen SS, tant de nos copains, déjà, avaient été descendus, et puis les « Ivans » avaient un compte à régler avec nous, on allait payer tout ce qu’on leur avait fait.
On pénètre dans la ferme et on s’établit, bien décidés à n’en plus bouger. Et c’est aussitôt une merveilleuse détente. On emménage dans la maison comme si on devait y rester toute une vie. Elle était intacte, les Russes n’y étaient pas passés. On allume du feu, on met de l’eau à bouillir, on se lave. J’avais trouvé un grand rasoir à main, mais je ne savais pas m’en servir, aussi un gars m’a fait la barbe, avec ce savon à la graisse qu’on fabriquait en Allemagne. On a fouillé pour trouver du linge. On reprenait figure humaine et, en même temps, goût à l’existence.
Cette ferme, nous la visitions, heureux comme des mômes, riant d’un rien : de se voir dans une glace, de découvrir la tête qu’on avait pris. On s’est comptés, on n’était plus que cinq, dont le gars à l’épaule infectée, on en avait perdu deux en route, mais ça n’avait pas d’importance. Nous nous appelions par nos prénoms, il n’y avait plus de grade, on aurait dit une bande d’amis en vacances.
Cette maison semblait attendre qu’on vienne la réveiller et que la vie reprenne. Des poules couraient, des cochons grognaient. Il y avait des lits confortables, on a plongé dedans. Et puis des provisions. On a mangé comme des goinfres, à s’en rendre malades.
C’est dans le courant de l’après-midi – nous étions repus et somnolions au soleil – qu’une voiture tous terrains a surgi à l’horizon. Elle montait vers la ferme. Aussitôt, on saute sur les armes, en maugréant : « Allons bon, ça va recommencer. » On était propres, rassasiés, l’énergie nous était revenue, le moral aussi.
On laisse la voiture s’approcher. Puis nous ouvrons le feu lorsqu’elle n’est plus qu’à cinquante mètres. Immédiatement, elle fait marche arrière. Des hommes descendent et commencent à tirer. J’entends des cris, des commandements. Je me retourne vers les gars :
— Ce sont des Polonais.
La Pologne… Tout un pan de mon enfance, de trois à sept ans. Pour venir y combattre, mon père, volontairement, avait quitté l’armée du Rhin en 1918. C’était l’époque où les Russes de Boudienny tentaient de reconquérir les territoires que leur avait fait perdre la création du jeune État polonais. Mon père, sous l’impulsion de Weygand, était de ceux qui avaient forgé son armée. Il était à l’État-Major du maréchal Pilsudski – avec un autre jeune capitaine, Charles de Gaulle. C’est lui qui avait pris Tarnopol, où un monument, aujourd’hui détruit par les Soviétiques, commémorait son nom.
Il était donc une sorte de héros national. Il portait les plus hautes décorations du pays. Par la suite, il avait professé à l’École de guerre de Varsovie, puisant son enseignement dans sa propre campagne. Ses théories, ainsi, étaient enracinées dans l’histoire militaire. Elles avaient toujours été professées après son départ et le nom de La Mazière était familier aux jeunes officiers.
J’avais baigné dans la langue polonaise. Quand j’étais rentré en France, je la parlais couramment. Cela agaçait ma mère, qui l’avait interdite à la maison. Je croyais l’avoir oubliée. Mais sous la pression des événements, elle resurgissait.
Je me dis : « Il y a une chance, ce ne sont pas des Russes, on va peut-être s’en tirer. » Je crie :
— Êtes-vous des Polonais ?
— Oui.
— Nous sommes des Français.
— Ne tirez plus, ne bougez plus, on ne vous fera pas de mal.
Je traduis le dialogue aux copains :
— Qu’est-ce que vous en pensez ?
— Y en a marre, on n’en veut plus.
— Pas de regret ?
— Pas de regret, on n’en veut plus.
Alors on a laissé tomber les armes, on est sortis de la ferme et on s’est présentés aux soldats. Notre guerre était finie.
6
LES SURPRISES DE LA CAPTIVITÉ
Les Polonais se sont avancés. À leur tête, un officier, jeune et blond. Il parlait un peu le français.
— Qu’est-ce que vous faites là ?
Je lui réponds que nous appartenons à la division Charlemagne. Il nous regarde longuement, réfléchit. Finalement, il nous dit :
— Il faut tout de suite arracher ces insignes SS. Si les Russes vous voient, vous êtes cuits. Le mieux est que vous trouviez des vêtements et disparaissiez. Vous vous ferez passer pour des travailleurs civils.
Puis se tournant vers moi et un sous-officier à mes côtés :
— Mais vous deux, ce n’est pas possible. Je dois vous ramener. Le commissaire politique de notre régiment vous interrogera.
Il nous explique, alors, que l’Allemagne est perdue : c’est le grand assaut sur l’Oder et l’armée soviétique se rue vers Berlin. En ce qui nous concerne, nous ne nous trouvons qu’à quelques kilomètres de Greifenberg.
Greifenberg ! Cette ville était décidément vouée aux Français. C’est là que la L.V.F. et des éléments de la Brigade d’Assaut s’étaient regroupés, qu’avaient été rassemblées, plus tard, les réserves de la Charlemagne ; et c’est là que nous déposions les armes. À l’ouest de Körlin, mais si peu. Vraiment nous avions tourné en rond.
Les Polonais donnent quelques soins aux blessés. Puis les gars fouillent la ferme à la recherche de fringues. Ils ressortent en civil, un peu minables. J’avais arraché mes insignes et mes épaulettes – ces épaulettes dont j’étais si fier. Mais on en voyait toujours l’emplacement et ces précautions me semblaient dérisoires. Cette fois, nous n’avions plus l’air de rien et cela, tout à coup, nous serrait le cœur.
Nous avons déchiré nos livrets. Je n’ai gardé, sur moi, que mes papiers français. Le lieutenant polonais s’est adressé aux trois hommes de troupe :
— Vous allez rester un peu dans cette ferme, puis vous tenterez de rejoindre Greifenberg par vos propres moyens. En cours de route, vous rencontrerez des travailleurs étrangers et des prisonniers français que nous sommes en train de regrouper.
Puis il m’a fait monter dans sa voiture, ainsi que le sous-officier. Durant le chemin, il a commencé à m’interroger, moitié en français, moitié en sa langue. Je lui ai expliqué pourquoi je connaissais la Pologne et ce qu’y avait fait mon père. Il m’a demandé les dates ; et il a hoché la tête, tout en m’offrant une cigarette – elle n’était pas fameuse, mais c’était tout de même mieux que le « maorka » :
— Ce serait trop bête… Normalement, je devrais vous conduire à l’État-Major soviétique. Mais je vais vous emmener à l’État-Major polonais et on va discuter de tout ça.
Nous avions débouché sur la route de Greifenberg. Le partage de l’Allemagne était commencé et la Poméranie allait revenir à la Pologne. Aussi les Russes avaient-ils concédé le secteur à son armée de Libération. Elle s’était constituée en U.R.S.S. et comprenait des Polonais issus des territoires annexés en 1940 – il s’agissait, alors, de faire pièce à l’armée de Sikorski, à l’ouest ; s’étaient ajoutés ceux que les « Ivans » avaient récupérés au fur et à mesure de leur avance. Certains cadres étaient prosoviétiques. Mais la majorité de l’effectif n’avait guère plus de sympathie pour les Russes que pour les Allemands. D’ailleurs, je l’ai appris par la suite, l’Armée rouge n’avait pas fait beaucoup de différence entre les Polonaises et les Prussiennes.
Aux abords de la ville, ce fut, pour moi, le grand choc. Je mesurais, d’un seul coup, toute l’ampleur de notre défaite, tout le poids de cette formidable puissance à laquelle je me trouvais désormais livré. Les Ilyouchine, en escadrilles, croisaient dans l’air. Nous doublions des colonnes de canons tractés, des voitures, et toutes sortes de matériels. Nous passions auprès de camions chargés de soldats russes et polonais ; j’avais l’impression que tout le monde me regardait.
Il y avait aussi de vastes rassemblements : soldats de la Wehrmacht capturés, prisonniers étrangers et travailleurs civils libérés, toute une population composite que les troupes victorieuses avaient soudain sur les bras. J’avais le sentiment d’une organisation à la fois gigantesque et constamment débordée ; et l’angoisse de mon propre sort, au cœur de cet univers accablant.
Nous avons pénétré dans la ville à moitié en ruine, et sommes arrivés à un P.C. polonais. Là, on m’a séparé du sous-officier qui était avec moi. Je ne sais ce qu’il est devenu. Puis on m’a conduit dans une pièce où se tenaient des officiers de l’État-Major. Ils m’ont accueilli avec une correction extrême, m’ont demandé si j’avais faim. Ils m’ont offert de la vodka. Cela faisait du bien.
Et on a parlé. Ils s’intéressaient beaucoup à la division Charlemagne, me posaient mille questions à son sujet. Enfin, un officier supérieur m’a dit :
— Ici, de toute façon, on ne peut vous garder longtemps. Mais quoi faire ? Si on vous donne aux Russes, on ne sait pas ce qui peut arriver. Alors, je vais réfléchir. En attendant, vous resterez dans un de nos cantonnements, tout à côté. Je verrai demain ce que je peux pour vous. Je ne veux pas vous laisser tomber. Votre père s’est battu pour l’indépendance de la Pologne, vous avez vécu chez nous, vous savez combien on aime la France ; pour nous, c’est le pays de la liberté. Et puis, beaucoup de nos frères polonais se sont battus aux côtés des Allemands. Tout ça, c’est très compliqué. Non, je ne peux pas vous livrer aux Russes.
Et, se tournant vers un officier :
— Emmenez-le.
On m’a conduit dans une maison bourrée de soldats. Le climat y était des plus joyeux et ç’a été, très vite, une formidable beuverie comme seuls des Slaves savent l’organiser. Ces Polonais débordaient de bonheur : leur pays était libre, c’était la victoire. J’ai bu, chahuté avec eux, énormément chahuté. Quand la nuit est tombée, ils ont allumé des lampes-tempête pour continuer la fête, chanter et rire encore.
Un moment, j’ai fermé les yeux. Ces voix, cette musique avaient réveillé, en moi, d’autres voix, une autre musique. J’avais cinq ans, j’étais au lit dans ma chambre, à l’ambassade de France à Varsovie. Il faisait nuit. Les échos d’une réception m’empêchaient de m’endormir. Alors je m’étais levé, j’avais descendu l’escalier, poussé la porte du grand salon. La pièce était pleine de monde – des femmes en robe du soir, couronnées de bijoux, des civils, des officiers chamarrés, français ou polonais…
Quelques visages s’étaient retournés pour sourire à cet enfant aux longs cheveux, qui flottait dans sa chemise de nuit, et lui signifier de ne pas faire de bruit. Au centre de la pièce, assis devant un immense piano à queue, un homme à la crinière neigeuse jouait du Chopin. Mon père s’était approché doucement, avait posé sa main sur mon épaule.
— Regarde bien, voilà un des plus grands pianistes et un des plus grands hommes d’État du monde, Paderewski.
Le morceau terminé, il m’avait présenté à lui. J’avais fait un petit tour dans le salon, salué quelques messieurs, baisé la main de quelques dames. Puis on m’avait reconduit dans ma chambre…
J’étais loin, aujourd’hui, de cette atmosphère élégante et ouatée. Mais il y a longtemps que je n’avais ri d’aussi bon cœur. On buvait, on parlait de Paris. J’en avais fini par oublier ma situation…
C’est alors qu’une patrouille russe, alertée par le vacarme, est entrée pour s’inquiéter de ce qui se passait. Elle me repère, le chef demande qui je suis. Il n’y avait plus d’officiers, rien que des hommes de troupe. Embarrassés, et d’une voix mal assurée, ils répondent : « C’est un prisonnier français. »
Les Russes voient ma tenue camouflée. Le chef se dirige vers moi, découvre que mes épaulettes ont été arrachées. Il m’attrape et me soulève :
— SS ?
— Niet.
Il regarde mes bottes :
— Officier ?
— Niet.
Tant et si bien que, de niet en niet, il me fait embarquer. J’étais plein d’alcool et je titubais. Il me pousse dans une jeep américaine. Les Polonais essayaient de discuter, mais sans trop insister. Je me suis dit : « Ils vont me faire la peau. »
On est arrivé devant une énorme bâtisse, avec des gardes à l’extérieur. Un P.C. russe. Sous le regard des sentinelles, les soldats de la patrouille m’ont fait descendre en me bousculant. Je me suis retrouvé au poste de garde et ça a recommencé :
— SS ?
— Niet.
— Fransuski ?
— Fransuski.
— Officier ?
— Niet.
Un officier russe impeccable, portant des épaulettes rouges à étoiles, a dû dire qu’on me laisse, qu’on allait m’interroger. On m’a collé dans un coin, les bras en l’air ; dès qu’ils fléchissaient, les gars se mettaient à hurler et me faisaient danser le canon de leur mitraillette sous le nez. Des femmes soldats allaient et venaient, me regardaient en ricanant. Et ces bras qui pesaient de plus en plus… Et tout cet alcool qui me restait sur l’estomac…
Je pensais : « Qu’ils fassent quelque chose, qu’ils me descendent, ou n’importe quoi. » Ça a duré une heure, peut-être, mais ça m’a paru un siècle. Puis un gradé a surgi.
— Venez.
Il me fait monter un étage. J’entre dans un bureau. Des officiers sont assis.
— Papiers ?
Je les sors. Ils regardent ma carte d’identité et ma carte de presse tricolore. Et c’est en moi, soudainement, l’illumination : « La carte de presse, mais oui, voilà le salut ! Il faut que tu tiennes le coup, mon vieux, tu vas dire que tu appartiens aux “Propaganda Kommandos”, que tu effectuais un reportage sur le front de l’Est. Tiens le coup, tiens le coup… » L’officier me fait asseoir. La séance commence.
Les « Propaganda Kommandos » rassemblaient les journalistes et les photographes qui travaillaient du côté allemand. C’est grâce à eux qu’on a conservé tant de documents de guerre. On y trouvait des Français, Brasillach, par exemple, qui s’était rendu sur le front de l’Est. Cela, d’ailleurs, devait lui coûter la vie : de Gaulle prétendra qu’il avait été fusillé parce qu’il avait porté l’uniforme allemand. Comme si l’on montait au front en complet-veston ! Au Vietnam, aujourd’hui, les journalistes qui sont du côté américain portent l’uniforme américain, ceux qui sont du côté vietcong, l’équipement vietcong.
L’important, c’est que les membres des « Propaganda Kommandos » n’avaient pas d’armes sur eux, mais simplement leur stylo et leur appareil photo. Avec ma carte professionnelle, rien ne m’empêchait de me faire passer pour journaliste : il y en avait eu à la Charlemagne et je me doutais que les Russes ne possédaient ni la liste des correspondants de guerre ni celle des effectifs de la division. Ce statut particulier, en outre, me permettait de justifier ma tenue, plus soignée que celle d’un homme de troupe.
Comme toute administration qui se respecte, militaire ou pas, ils ont commencé par me mettre en fiche. C’est tout juste s’ils ne promenaient pas leur propre anthropométrie avec eux. Puis ç’a été l’interrogatoire.
— Comment êtes-vous arrivés là ?
— Nous avons marché.
— Depuis combien de temps êtes-vous dans la région ?
— Une vingtaine de jours.
— Mais la division Charlemagne a été écrasée entre Hammerstein et Kolberg…
— C’est vrai, nous avons été tronçonnés. Mais dans sa majorité, elle a réussi à passer l’Oder (ça faisait toujours bien).
Ce dialogue se déroulait avec la sécheresse du langage militaire, mais très calmement.
— Vous êtes journaliste ?
— Oui.
— Vous n’avez pas porté les armes contre l’armée russe ?
— Absolument pas. D’ailleurs vous le voyez bien, j’étais dans l’aviation. Ça n’a rien à voir, je ne connais pas l’armée de Terre.
— Vous nous donnez votre parole ?
— Je vous la donne.
Pour un sursis, on est prêt à jurer n’importe quoi.
— Si vous avez menti, vous serez fusillé.
— Je sais.
Mais, dans mon for intérieur, je ne croyais plus qu’ils me fusilleraient, même s’ils découvraient mon mensonge. Sur le champ de bataille, on m’aurait tout de suite flingué. Maintenant, le moment était passé, et puis il y avait les accords avec de Gaulle. Non, ils ne me fusilleraient pas, mais j’allais sûrement ramasser des coups, c’est le sort de l’homme vaincu. Ils voudraient me flanquer une grande trouille, car les SS, vraiment, avaient été, pour eux, de méchants clients, et ils étaient toujours heureux d’en tenir quelques-uns. Ces colères brusques et violentes, suivies tout aussitôt d’une détente, je savais que c’était le procédé favori des Russes, qui sont au fond de bons types.
J’avais bien des chances, en revanche, de me retrouver dans un camp avec des soldats de la Wehrmacht… Mais pour le moment, mon moral était en hausse. Cet officier et son secrétariat étaient persuadés que j’étais journaliste. Quel coup de veine qu’ils m’aient fait sortir mes papiers ! Mon histoire était cohérente. Il fallait s’y tenir. Ça marcherait…
*
Les Russes étaient un peu désorientés. En tant que journaliste, je n’avais plus rien à voir avec l’armée. J’étais un gibier d’un genre particulier et il fallait me soumettre à un interrogatoire en conséquence. Ils m’ont reconduit à travers l’immeuble, tout résonnant d’animation, de cris et de chants joyeux, parcouru sans cesse par des femmes soldats chargées de paperasses. Puis on m’a introduit dans un bureau peuplé d’ombres, et qu’éclairaient seulement quelques lampes-tempête.
J’ai vu d’abord un garde, la mitraillette autour du cou, la « chapka » enfoncée jusqu’aux yeux. Puis, à la table, un homme vêtu sévèrement, sans épaulettes, sans rien, avec une simple blouse russe où, sur le côté gauche, était agrafée l’étoile rouge. Je compris tout de suite qu’il s’agissait d’un commissaire politique – j’en avais souvent entendu parler par des rescapés de la L.V.F… Un personnage important. Après les revers de 1941, Staline leur avait conféré des pouvoirs étendus. Les généraux eux-mêmes les redoutaient, comme nous l’avions appris en interrogeant des prisonniers. Ils faisaient penser, un peu, aux commissaires de la République, en 1790, à l’armée du Rhin.
Il était de taille moyenne, de corpulence moyenne – le genre d’homme qu’on ne remarque pas. Une tête d’intellectuel, des yeux perçants qu’abritaient des lunettes à monture d’acier. Quarante ans, environ. Il parlait un très bon français, teinté d’un léger accent russe. J’apprendrais plus tard qu’il avait fait une partie de ses études en France.
— Asseyez-vous, je vous prie.
C’était d’une courtoisie toute nouvelle, un peu inquiétante. Dans mon dos, je sentais le garde avec sa mitraillette. J’essayais de me concentrer, mais ma tête répondait mal. J’avais, en faisant bombance avec les Polonais, un peu récupéré de cette immense fatigue de trois semaines de combat. Mais la vodka me pesait encore sur les tempes. J’étais obnubilé par ma carte de presse qui s’étalait sur le bureau. Elle incarnait mon salut.
Le commissaire feuilletait les minutes de mon précédent interrogatoire.
— Ainsi vous êtes journaliste ?
— Oui.
— Vous apparteniez à quel journal ?
— Le Pays Libre.
— Celui que dirigeait Pierre Clémenti ?
J’étais stupéfait. Il avait l’air de connaître la presse de la collaboration dans ses moindres détails.
— Et qu’est-ce que vous faisiez avec la division Charlemagne ?
— J’avais été envoyé pour faire un reportage sur la Waffen SS. Et puis les Américains ont occupé la France et je me suis retrouvé coincé.
— On vous a, alors, proposé de travailler pour les journaux français qui paraissaient en Allemagne ?
— Exactement. Et c’est comme cela que j’ai fait partie des « Propaganda Kommandos ».
Brutalement, il relève la tête. Il crie :
— Vous mentez !
— Non, c’est vrai.
— Vous étiez sûrement officier dans la Waffen SS.
— Pas du tout. J’avais l’uniforme parce que, vous le savez très bien, les gars de la PK sont en uniforme. Mais je me suis battu avec un stylo et du papier.
— Vous mentez !
— Non.
Il change soudain de ton. Sa voix est redevenue calme. Il était très adroit, comme un juge d’instruction qui joue avec un inculpé. Il a pris le ton de la conversation familière et abordé un autre sujet.
— Vous aviez des convictions personnelles ? Vous étiez fasciste ? Attention. Nier serait absurde.
— Oui, en effet.
Il s’intéresse alors à ma famille, à mon milieu. Il me pose des tas de questions.
— Votre père était à l’École de cavalerie de Saumur ?
— Oui.
Il adopte, brusquement, un débit impersonnel et sec. Il m’explique que j’appartiens à une classe décadente et pourrie, condamnée par l’Histoire, que j’ai été le valet de l’ordre établi…
— Mais non, le fascisme a constitué, pour moi, un choix révolutionnaire…
Son visage s’empourpre. Il me dit que le fascisme est un produit du capitalisme, que c’est une doctrine contre-révolutionnaire dirigée contre le communisme et le marxisme, que par un juste retour des choses, il a commencé par se retourner contre le capitalisme qui l’avait enfanté, mais que maintenant l’armée russe, après avoir détruit fascisme et nazisme, allait régler son compte au capitalisme et mettre un peu d’ordre en Europe.
Je laisse passer et réponds au minimum. À nouveau, il bifurque :
— Combien étiez-vous dans la division Charlemagne ?
Il prend des notes sur son bloc.
— Sept mille.
— Mais non, vous étiez beaucoup moins, impossible qu’il y ait eu tant de Français…
— Je regrette, nous étions sept mille.
— Mais on vous a anéantis…
— C’est exact.
— Vraiment, je n’arrive pas à vous croire. Vous parlez comme si vous en étiez. Votre carte de presse ne prouve rien. Je suis sûr que vous avez tiré contre des soldats russes.
— Je vous jure que non. Renseignez-vous auprès des Polonais, j’étais sans armes.
— C’est vrai, tout à l’heure je leur ai demandé un rapport et ils me l’ont affirmé. On dirait qu’ils vous sont favorables. Il paraît que votre père est resté longtemps en Pologne ?
— En effet, et lui, d’ailleurs, a combattu contre les troupes soviétiques.
— Ah oui, en 1920, il se battait avec Pilsudski ?
— Exactement.
Il me fixe, détache ses mots :
— Vraiment, des gens comme vous, il faut les écraser, les éliminer comme de la vermine…
Puis, éclatant brusquement :
— Déshabillez-vous.
Je m’exécute.
— Gardez seulement votre chemise.
C’est la situation la plus ridicule. La totale nudité vous défend encore contre les sarcasmes et les brutalités. En chemise, on se sent complètement perdu.
Il donne, en russe, un ordre au garde, qui ouvre la porte et lance un appel dans l’escalier. Deux autres gardes surgissent.
— Vous allez descendre avec eux.
Je descends deux étages. Des femmes me croisaient, rigolaient en soulevant ma chemise. Puis, on s’est enfoncé dans la cave. Des gars me faisaient cortège, munis de torches électriques et de lampes-tempête. On arrive dans une grande salle voûtée. Le commissaire se tourne vers moi :
— On va vous pendre. Vous ne serez même pas fusillé, vous ne l’avez pas mérité. Avez-vous quelque chose de particulier à dire ?
— Rien.
— Absolument rien ?
— Absolument rien.
Il donne des ordres. Les gars s’empressent, reviennent avec une corde, la passent dans un piton, font un nœud coulant qu’ils me mettent autour du cou. Je pensais à ma Touraine natale. Enfants, nous y jouions au western et exécutions des simulacres de pendaisons. Mais cette grosse corde rugueuse qui vous racle la gorge, c’était tout autre chose…
Pourtant, je me trouvais au-delà de la peur, dans ce no man’s land où l’on sait qu’on n’a plus rien à espérer. Je souhaitais simplement qu’ils en finissent vite. Je commençais à craindre de souffrir.
J’étais immobile, les mains liées dans le dos. J’attendais. J’entends le commissaire jeter un ordre. Un gars s’avance et me retire la corde. Je me dis : « C’est un jeu, il s’amuse. Mais ça se terminera mal. »
— Remontez.
Retour au bureau, toujours en chemise, sous les rires et les quolibets. Le commissaire ne me fait plus asseoir. Je reste figé, à côté de la chaise où mes affaires sont en tas. Il m’explique ce qu’est le marxisme, les vérités scientifiques dont il découle, l’espoir qu’il représente. Mais j’étais rompu et l’excitation de l’alcool s’était dissipée. C’était comme une musique qui bruissait à mes oreilles pour s’envoler aussitôt.
« Finalement, disait-il, des gens comme vous sont récupérables, ils ont été trompés, mais il suffit de peu pour qu’ils réintègrent le vrai chemin. » Puis il parlait de Paris, des études qu’il y avait faites ; de beaucoup d’autres choses, aussi, que je ne parvenais pas à fixer et qui résonnaient comme des phrases toutes faites.
Je sentais mes hanches me rentrer dans le corps. Je souffrais de mon mollet gauche qui avait reçu des éclats et que couvrait un pansement noirci, où le sang s’était coagulé, avec la crasse et la sueur, en une sorte de croûte. Sur mon pied gelé, également, le tissu que m’avaient posé les Polonais était devenu tout sale, à cause de la poussière et des gravats qui traînaient dans l’immeuble. Car celui-ci avait reçu plusieurs obus et les Russes n’occupaient que les pièces intactes.
Au bout d’un moment, le commissaire s’est rendu compte qu’il ne parlait qu’à une sorte de chien fourbu. La colère, alors, le reprend :
— Non, décidément, on ne peut rien faire de vous, c’est impossible. Ce coup-là, c’est fini. On va vous fusiller.
On redescend et on pénètre dans la cour. Il me colle contre un mur. Des gars arrivent avec des mitraillettes. « C’est terminé, me dis-je, c’est leurs méthodes, maintenant ils vont me tuer pour de bon. » Autant, tout à l’heure, je me sentais indifférent, autant, maintenant, je me découvrais une immense envie de vivre, c’était incroyable. Et je réalisais, soudain, l’effroyable détresse de l’homme qu’on conduit au poteau. Je tremblais intérieurement, les larmes me montaient aux yeux.
Mais, à nouveau, le commissaire arrête la mise en scène. Je remonte, toujours en chemise, les jambes à l’air. Ce coup-ci, il me fait asseoir et il reprend ses questions. Il m’interroge sur ma jeunesse. Je lui répondais par bouts de phrases, d’une voix éteinte et hachée, tant j’étais épuisé. Je lui ai parlé de mes études au collège de Saumur, je lui ai décrit l’ambiance de l’École de cavalerie. On a évoqué la guerre d’Espagne, et beaucoup d’autres choses. Il était bien plus calme.
À la fin, il a semblé réfléchir. Puis il me dit :
— Je crois que vous êtes récupérable. On peut faire quelque chose pour vous. Mais vous devez, auparavant, subir une épreuve. Êtes-vous prêt à venir de notre côté ?
En fait, j’étais prêt à n’importe quoi, pourvu qu’on en finisse avec ces plaisanteries. On ne m’avait pas véritablement touché, tout juste bousculé. Mais j’aurais mieux tenu tête si on m’avait frappé. J’étais saoulé de mots, usé par eux. Ils avaient absorbé mes dernières ressources.
On descend, encore une fois. Je passe par la grande salle voûtée où on avait fait semblant de me pendre. On s’arrête un peu plus loin, devant une réserve à charbon. Je voyais du poussier qui débordait sous la porte. Sur l’ordre du commissaire, je me penche, je tire le loquet et j’ouvre. Accroupis sur des boulets, il y avait deux officiers supérieurs de la Wehrmacht en grand uniforme, tout sales, tout noirs. Ils jettent sur moi un regard traqué.
Le commissaire me dit :
— Voilà deux criminels de guerre. Ils ont tué beaucoup de soldats russes, torturé des femmes et des enfants. Ils doivent être jugés.
Puis il donne un ordre à un garde, qui arme son revolver et me le tend.
— Ils ne méritent pas d’être jugés. Vous allez les descendre.
J’avais le revolver à plat dans les mains. Sans les bouger, je me tourne vers le commissaire :
— Je ne peux pas tirer sur ces hommes, ils ne m’ont rien fait. Et puis, je ne me suis jamais servi d’une arme.
Alors, il sort son propre revolver. Il le charge, j’entends le déclic.
— Si vous n’exécutez pas ces deux criminels, c’est moi qui vous descends.
Je m’accroche.
— Je ne sais pas me servir d’une arme. Je ne peux pas…
Il donne un nouvel ordre. Le garde reprend le revolver que j’avais laissé à plat, sur mes paumes. On repousse la porte sur les deux officiers figés par la peur. Ils avaient certainement cru leur dernière heure venue en voyant ce gars, hirsute, hagard et à moitié nu, qu’on avait poussé devant eux et à qui on avait remis une arme chargée.
Le commissaire m’a fait remonter. Il était devenu souriant et détendu. Il me dit :
— Si vous aviez tiré, je vous abattais comme un chien. Bien entendu, il n’est pas question de fusiller ces Allemands. On doit les interroger.
Je lui réponds :
— Comment aurais-je tiré, puisque, je vous l’ai dit, je ne sais pas me servir d’un revolver ?
— Je continue à ne pas vous croire. Mais ça ne fait rien. De toute façon, je dois vous faire prisonnier.
Et il m’explique ce que les Russes, déjà, nous avaient fait savoir dans l’enfer de Körlin. Le général de Gaulle, accompagné de Georges Bidault, son ministre des Affaires étrangères, avait signé un accord avec Staline aux termes duquel les prisonniers et les travailleurs délivrés en zone soviétique, mais aussi tous ceux qui avaient collaboré avec l’Allemagne, seraient regroupés et rendus à la France. En échange, les Français livreraient à l’U.R.S.S. les Russes qu’ils détenaient, ceux, notamment, de l’armée Vlassov.
— Donc, vous n’avez rien à craindre, conclut-il, vous serez jugé en France. Cela dit, je vous offre une possibilité. Je vous propose de travailler avec nous. Vous aurez quarante-huit heures pour réfléchir.
Je ressuscitais : « C’est gagné, on va me laisser en paix, c’est fini. »
Il me fait apporter un uniforme de soldat russe. En quelques secondes, je me retrouve en parfait « Ivan » : blouse, ceinturon en toile de corde, calot, une paire de vieilles bottes, un large pantalon, plutôt ridicule. Aucun insigne, bien sûr.
— Je vais vous faire soigner.
Puis, une dernière fois, me fixant de son regard perçant :
— On se reverra demain matin.
*
La nuit s’éclaircissait. Deux gardes m’ont emmené et m’ont conduit un peu plus loin à une infirmerie. Il y avait beaucoup de médecins militaires et d’infirmiers russes portant la croix rouge. Pour la première fois, on a mis des sulfamides sur mon pied gelé, qui avait éclaté comme une grenade. On m’a donné de l’eau afin de me laver, un rasoir mécanique avec une vieille lame, et un énorme savon, plus infâme encore que le savon graisseux qu’on distribuait en France, durant l’occupation. À part mes ongles en deuil, j’étais presque présentable.
Dans un coin, on m’a étendu une paillasse, pour dormir. Puis on m’a apporté une gamelle bien remplie que j’ai tout de suite entamée : j’avais beau m’être gavé avec les Polonais, je recommençais à avoir faim. Et je me suis allongé, en animal repu.
Je regardais autour de moi. Il n’y avait que des blessés légers : manifestement, l’antenne chirurgicale se trouvait plus loin, les blessés graves étaient évacués vers l’intérieur. Ces Russes, on les sentait amicaux et heureux. Ils se savaient victorieux. Le commissaire m’avait fait le point de la situation. À l’exception de quelques poches comme celle de Dantzig, le front avait cédé de partout.
Et je me suis endormi. Le jour filtrait quand je me suis réveillé. On m’a donné un café à base d’orge, aussi mauvais que celui que j’avais bu dans l’armée allemande. J’ai reçu également un pain de seigle noir. Il n’était pas du tout levé et on mordait, à l’intérieur, sur des grains d’orge et de seigle presque entiers. Mais je mangeai avec appétit. J’en avais d’autant plus besoin que mon corps était tout courbatu. La tension de la nuit précédente était retombée, je me sentais vidé.
Une sentinelle est venue me chercher et, en cours de route, m’a offert une cigarette, ma première cigarette. C’est à ce moment que j’ai commencé à apprécier le Russe, quand on est son prisonnier. Entre lui et vous se noue très vite une sorte de complicité, de soldat à soldat. Et puis je portais un uniforme soviétique, je n’étais donc pas un détenu comme les autres. Nous marchions par un beau soleil, à travers les ruines de Greifenberg. Et quand nous sommes arrivés devant l’immeuble qui avait été, pour moi, celui de l’angoisse et de la peur, il m’a paru beaucoup moins sinistre.
On m’a conduit, à nouveau, dans le bureau du commissaire. Celui-ci était déjà au travail et actionnait un téléphone de campagne posé devant lui. Il avait l’air frais, ses gestes étaient précis. Je me demandais quand il dormait, et comment. Un nouveau garde se tenait à l’intérieur de la pièce.
Le commissaire m’a fait asseoir, courtoisement. Il m’a tendu une cigarette, non pas celles que fumait la troupe, une cigarette avec un long bout de carton. Elle dégageait une fumée particulièrement âcre, mais je l’aspirais avec bonheur.
— Comme je suis obligé de me déplacer pour une tournée d’inspection, je vous emmène avec moi.
— Très bien.
— On va vous ramener à l’infirmerie. Nous partirons cet après-midi. Nous irons à Posen.
De retour, je me suis installé tranquillement sur ma paillasse, sans plus en bouger. Des Russes essayaient de lier conversation ; afin de leur répondre, je mobilisais toutes les phrases de polonais qui me revenaient. Les rapports étaient d’une extrême gentillesse. J’ai eu droit, au déjeuner, à la même nourriture que les blessés. Puis une sentinelle est venue me prendre. Devant le bâtiment, une jeep attendait. Un soldat tenait le volant. À ses côtés, il y avait un garde avec une mitraillette ; et derrière, le commissaire politique. Je me suis assis auprès de lui.
Nous avons mis le cap en direction de Küstrin, ce qui représentait un détour assez long. Nous croisions sans arrêt des convois qui montaient vers le front. Là, je mesurais plus encore l’importance de mon commissaire. Il était chargé du contrôle de toutes les forces russes. Quand une colonne stationnait, il faisait arrêter la jeep, descendait, allait voir les officiers supérieurs. Tout le monde l’accueillait au garde-à-vous – on a beau s’appeler « camarades », la discipline, dans l’Armée rouge, est aussi rigoureuse que chez les Allemands. Quant à moi, on me dévisageait avec curiosité.
En fin d’après-midi, on est arrivé à un petit village où l’on devait passer la nuit. Il était envahi de soldats, une véritable marée humaine. Les camions, les convois d’artillerie s’additionnaient à perte de vue, les régiments s’ajoutaient aux régiments, il me semblait être au cœur de la plus grande armée jamais rassemblée.
Nous avons fait halte devant une maison. J’y ai pénétré suivi du garde qui se tenait près du chauffeur – il me surveillait toujours d’un œil, à dix mètres derrière moi. Et je me souviens qu’en entrant, dans la pièce principale, il y avait un soldat – c’était, je crois, un Mongol – qui s’escrimait sur un poste de radio posé à terre, un modèle tout à fait démodé. L’électricité ne fonctionnait plus et l’appareil n’était pas branché. Il le secouait, tournait les boutons dans tous les sens, rien ne sortait et sa mine, progressivement, s’allongeait. Sans doute était-ce le premier poste qu’il avait entre les mains. Et, furieux tout à coup, il lui a lancé de grands coups de botte et l’a piétiné.
La nuit tombée, nous nous sommes mis à table. Le commissaire profitait de ces pauses pour m’expliquer les buts de la révolution russe, les difficultés qu’elle avait dû surmonter, l’avenir qu’elle préparait. Il parlait beaucoup de la dignité de l’homme et, en moi-même, cela me faisait un peu sourire, après tout ce que j’avais vu en Poméranie… Tout au long du repas, des officiers et des soldats entraient, ressortaient, bavardaient entre eux.
Au mur de cette salle à manger, il y avait un coucou. Je l’avais remarqué car je n’avais plus d’heure sur moi. Je n’avais d’ailleurs plus rien, pas même un mouchoir. Les Russes étaient particulièrement friands de briquets, de bagues et de montres – certains soldats superposaient les montres sur leurs bras, elles devaient, à l’époque, être très rares en U.R.S.S. Avec le viol, ces larcins constituaient leurs meilleures récompenses.
Et le coucou, soudain, est sorti de sa guérite pour chanter l’heure. Un homme de troupe passait par là. Il sursaute, s’écrie : « le diable ! » et d’une rafale de mitraillette, il descend le coucou. Le commissaire a dû rassurer le soldat, lui expliquer l’appareil. Ces hommes, visiblement, venaient de très loin. On les avait tirés de leur vie primitive pour en faire des machines à tuer.
Quand on est reparti, le lendemain, le soleil brillait plus fort encore. Le dégel s’accélérait, les champs étaient spongieux, on enfonçait dans la terre humide. Et au bout de quelques kilomètres, encadrée par une vingtaine de gars seulement, dont certains à bicyclette, on a vu surgir une colonne de prisonniers allemands. Ils étaient complètement dépenaillés, les pieds, le plus souvent, uniquement protégés par des chaussettes russes ficelées – les « Ivans » piquaient également les bottes. Le regard fixe et absent, écrasés par la chaleur nouvelle, ils avançaient en traînant leur cauchemar : ils s’étaient battus des mois et des mois, ils étaient entrés triomphalement en Russie, ils en étaient revenus, tout était fini, et voilà qu’ils remettaient ça, qu’ils reprenaient cette route de Russie, une vraie route de misère, désormais.
En les regardant, je pensais à ma chance et bénissais le ciel. J’étais lavé, rasé, je m’étais taillé un petit bout de bois pour me curer les ongles, un vrai confort en somme… On les a doublés lentement – les convois qui descendaient ralentissaient notre route – puis, à une bifurcation, on les a laissés pour continuer plus à l’ouest.
Juste à ce moment, nous avons entendu le bruit d’un convoi blindé. C’étaient des troupes fraîches qui montaient du fin fond de la Russie. Elles étaient dotées d’un matériel flambant neuf, des tanks Sherman en majorité. Quand les fantassins, juchés sur les premiers chars, ont aperçu les prisonniers qu’ils allaient croiser, ils ont armé leur mitraillette et se sont mis à les arroser.
Aux premiers coups de feu, notre jeep fait demi-tour et fonce en cahotant. Les Allemands – il y en avait plus de mille – s’égayaient dans les champs, on en voyait s’écrouler. Pour les poursuivre, les trois premiers blindés avaient quitté la route. Et j’ai vu un char rattraper un prisonnier qui courait tant bien que mal, enfonçant dans la boue parfois jusqu’aux genoux. Il le culbute, l’homme passe sous la chenille, l’engin s’éloigne. Et, petit à petit, la terre s’est mise à bouger, à gonfler, le gars, intact, est réapparu, s’est remis à courir.
Les gardiens tiraient sur leurs compatriotes. Ça hurlait de tous les côtés et le commissaire, qui avait sauté de la jeep, n’était pas celui qui criait le moins. Il a convoqué, aussitôt, les officiers de la colonne, qui se sont pétrifiés d’un seul élan. Ils étaient ivres morts – les Russes avalaient n’importe quoi, l’essence d’avion, l’alcool de résine de pin, de bouleau…
L’ordre s’est rétabli en moins de deux. Les chars descendus dans les champs ont réintégré la route, et les Allemands se sont arrêtés, hébétés. Au loin s’étendait un petit bois : ils auraient certainement pu s’enfuir. Mais ils n’en avaient ni l’idée ni la force. Aux cris de leurs gardiens, ils sont revenus en soulevant des kilos de boue à chaque pied. Le commissaire a vigoureusement apostrophé les officiers, et je ne pense pas qu’il leur ait balancé des compliments. Il y avait une centaine de cadavres allemands. Les Russes les ont laissés là, ainsi, vraisemblablement, que les blessés. Chars et prisonniers ont repris leur chemin ; et nous sommes repartis.
Nous sommes arrivés dans le fameux secteur Küstrin–Francfort-sur-l’Oder. Et devant nos yeux s’est soudainement déployé le plus gigantesque et le plus effroyable champ de bataille que j’aie jamais vu. C’est là que les deux cent mille hommes de l’armée Vlassov avaient été jetés au combat. Durant plusieurs jours, une lutte féroce les avait opposés à leurs frères ennemis. Quand l’artillerie et les blindés s’étaient trouvés à bout, ils s’étaient entr’égorgés à l’arme blanche.
Sur le terrain stagnait une puanteur intenable. Chars défoncés, canons noircis, tordus, s’enchevêtraient, c’était un véritable cimetière à la ferraille. Et, gonflés par le soleil et le dégel, tous inextricablement mêlés, des cadavres à l’infini, qui ne connaîtraient jamais de sépulture. Quelques jours après, les Soviétiques nettoieraient au lance-flammes ce charnier en plein ciel.
Enfin, dans l’après-midi, nous avons débouché sur l’Oder, cet Oder que j’avais tant convoité : j’y étais enfin, mais en uniforme russe ! Nous avons fait étape dans un cantonnement un peu moins sommaire que celui de la veille. Mon ange gardien ne me quittait toujours pas. Je songeais que le moment de vérité approchait et qu’il allait falloir que je donne une réponse.
C’est le lendemain que notre randonnée parvenait à son terme. De bonne heure, nous avons repris la route, vers l’est cette fois, en direction de Posen ; nous avons roulé toute la matinée, jusqu’à un petit village où nous avons fait halte pour déjeuner. Il était, comme il se doit, bourré de troupes. Des multitudes de chars et de camions y stationnaient. Au centre, fumaient plusieurs roulantes. Le commissaire m’a laissé dans la jeep pour s’entretenir avec les divers responsables, convoqués par radio.
Je commençais à avoir faim et attendais qu’il revienne me chercher. Et j’ai vu déboucher, brusquement, une centaine de cavaliers qui, je l’ai su après, arrivaient en droite ligne de Mongolie extérieure. Ils montaient de petits chevaux à longs crins. À la place de selle, ils avaient une couverture posée à même l’animal et, en guise d’étriers, utilisaient des cordes tressées dont l’extrémité faisait boucle pour que le pied s’y loge. En bandoulière, ils portaient des fusils vétustes, qui devaient dater du siècle.
Ils ont voulu manger. Mais ils ne parlaient pas la même langue et parvenaient mal à se faire comprendre. Les cuistots, d’ailleurs, ne les avaient pas prévus, en sorte qu’ils se sont refusé à les servir. C’était un spectacle cocasse, au milieu de cette armée ultra-moderne, que ces gens qui me rappelaient mes albums d’enfance et semblaient tomber d’une autre planète.
Alors les Mongols ont pris leurs fusils et ont tiré sur les cuistots. Les soldats qui étaient là ont sauté sur leur mitraillette et ç’a été la bagarre. En moins de deux, je me suis retrouvé sous la jeep. Le commissaire, qui discutait à l’État-Major, est accouru. Par radio, il a fait rechercher si quelqu’un connaissait la langue des cavaliers. Il a réussi à stopper la fusillade et, progressivement, à calmer tout le monde. Puis il a ordonné que l’on distribue de la nourriture aux arrivants.
Quelques moments plus tard, à table, je me suis autorisé une question :
— Mais quels sont ces gens ? D’où viennent-ils ? Et c’est là que le commissaire m’a fait sa première confidence.
— Il y a eu, m’a-t-il avoué, de graves difficultés dans l’armée russe à cause de la persistance des dialectes. Ainsi, il a été impossible de moderniser certaines troupes, de les mettre sur des chars. Elles n’auraient pas compris les ordres qu’on leur aurait donnés par radio.
Et, me montrant les Mongols, descendus de leurs montures et qui se restauraient :
— Quand les Allemands ont envahi la Russie, nous avons alerté toutes les tribus. Ça, c’est une tribu de Mongolie extérieure qui a été prévenue, en 1941, que la patrie était attaquée. Ils ont bondi sur leurs chevaux et, maintenant, ils arrivent…
Ces cavaliers, ainsi, n’avaient jamais vu la guerre ; mais ils allaient à elle, portés par l’espoir de conquête. Ils avaient parcouru un chemin long et interminable, d’autant que l’hiver, le froid, la neige avaient ralenti leur marche. Les autorités russes les ravitaillaient au passage. Ils approchaient, enfin, du front, mais le front s’était mis à les devancer. Et sans doute allaient-ils arriver aux abords de Berlin quand la guerre serait terminée.
Quelques heures après, nous étions dans Posen dévasté. Le délai avait expiré. Nous descendons à l’État-Major russe. Le commissaire se tourne vers moi :
— Alors, quelle est votre décision ?
Tout au long du voyage, j’avais beaucoup réfléchi. « De toute façon, me disais-je, tu as sauvé ta peau. Pourquoi demeurer en Russie, passer par je ne sais quelle école et, après avoir été un parfait petit Waffen SS, devenir un parfait petit militant ? » Certains, je l’apprendrais, avaient choisi de rester et les Russes avaient récupéré des gars de toutes les nations. Mais j’avais cessé de rêver et, pour moi, le temps des uniformes était clos. Je n’avais d’autre espoir que de revoir la France.
Je m’en suis ouvert très franchement au commissaire. Il m’a écouté avec attention et sans hostilité. Nos rapports avaient évolué. Une espèce de sympathie s’était établie entre nous, comme les situations extrêmes en font souvent naître. Et chez lui, manifestement, les convictions doctrinales n’avaient pas étouffé une réelle ouverture d’esprit.
Je lui ai donc exposé mes raisons, qui étaient purement sentimentales : j’avais la possibilité de revoir bientôt mon pays puisque, une fois la guerre terminée, je serais rapatrié ; je préférais donc être prisonnier. Il a parfaitement compris.
— Bon, m’a-t-il dit, je vais faire le nécessaire pour qu’on vous mette dans un camp.
J’ai attendu quelques instants ; puis une voiture avec un ordre de mission est venue me prendre. J’ai salué le commissaire, qui m’a répondu un peu distraitement. Il avait d’autres choses à faire, je ne l’intéressais déjà plus.
*
On roulait à travers Posen. Les gardes me traitaient avec gentillesse. On est passé à côté de ce qui avait été la gare. C’est là que s’achevaient les rails russes, à espacement plus large, par lesquels les « Ivans », au fur et à mesure de leur avance, remplaçaient le réseau du Reich. Ils avaient récupéré nombre de wagons dont ils avaient écarté les essieux afin de les adapter à leurs voies ; et, sans trêve, ils expédiaient des gens à l’intérieur de la Russie, militaires allemands mais civils aussi, certains convertis au communisme et ralliés au Comité national pour une Allemagne libre que Staline avait installé en U.R.S.S. (les Occidentaux, eux, avaient négligé de créer un organisme symétrique).
Les convois partaient à proximité d’un vaste camp construit vraisemblablement sous Hitler. Il se divisait en deux enclos parallèles où – hommes d’un côté, femmes et enfants de l’autre –, se trouvaient entassés des prisonniers de guerre, des travailleurs étrangers en instance de vérification – les Soviétiques, très pointilleux, craignaient que des suspects ne s’y camouflent –, et des masses de réfugiés comme ceux que nous avions côtoyés, quelque temps auparavant, sur les routes du désastre. La guerre n’était pas encore terminée ; mais l’U.R.S.S., déjà, s’employait à mettre de l’ordre dans les terres conquises. L’ensemble, j’allais m’en apercevoir, fonctionnait comme une immense usine. Dès que le soir tombait, de puissants projecteurs s’allumaient. On y ignorait la nuit.
C’était la première fois que je mettais les pieds dans un endroit de ce genre. Dès l’entrée, j’ai été conduit aux services administratifs, où les formalités traînaient terriblement : les Russes, qui n’ont pas la même écriture que nous, étaient contraints d’utiliser des Allemands pour tenir les registres. De là, je suis allé à l’infirmerie, afin d’être épouillé. J’avais beau porter des vêtements tout neufs, il m’a fallu les donner à l’étuve.
Et puis on m’a passé à la tondeuse. Les « Ivans » avaient la passion de la boule à zéro et portaient presque tous la tête rasée. Ainsi rafraîchi, et avec mes habits russes, les détenus se demandaient ce que je pouvais bien faire dans ce camp. Mais, très vite, ça m’a rendu service.
Il y avait là, en effet, deux prisonniers de guerre français d’origine polonaise, l’un sergent, l’autre caporal. Les Russes – est-ce un hasard ? – les avaient embarqués avec les prisonniers allemands. Ils avaient protesté, tempêté – comme ils parlaient couramment le polonais, ils arrivaient à se faire comprendre. En vain. Malgré toute l’agitation qu’ils se donnaient, ils étaient toujours là, toujours coffrés. Aussi, dès qu’ils ont repéré mon uniforme, ils ont sauté sur moi. Leur stupéfaction a été grande de découvrir que j’étais un Français comme eux. Et moi, j’ai compris tout de suite que j’avais intérêt à ne pas les lâcher : « S’il y a deux gars qui doivent sortir de ce camp, me disais-je, ce sont bien eux. »
Quatre jours se sont écoulés. Je commençais à désespérer. Des trains de marchandises démarraient quotidiennement, chargés de prisonniers qui partaient pour la Russie, vers des camps de travail. Mes Franco-Polonais se répandaient en démarches infructueuses et moi, je leur collais au derrière.
La vie, en cet endroit, était comme dans un chenil : la gamelle de midi, la soupe de 7 heures et c’était tout. Mais il y avait une attraction. Tous les soirs, on entendait hurler chez les femmes d’à côté. Les colonnes qui montaient au front venaient, régulièrement, y faire des ponctions. Les « Ivans » sortaient les filles par paquets de dix ou de vingt – ils avaient l’élégance de ne se les envoyer qu’à l’extérieur –, après quoi ils les remettaient dans leur camp, lequel, en fin de compte, servait de vaste lupanar. Toutes, évidemment, n’étaient pas d’accord. Mais les Russes avaient trouvé un truc imparable. Ils gardaient dans leur poche des petits bâtons épointés à chaque bout qu’ils filaient entre les cuisses des récalcitrantes. Celles-ci serraient les jambes pour se défendre ; comme elles se faisaient très mal, elles les rouvraient instinctivement et la voie était libre. Ç’a été vraiment, pour ces femmes, une époque mouvementée ! Et il serait curieux d’en entendre certaines, qui résident maintenant en Allemagne de l’Est…
Le cinquième jour, enfin, mes deux gars, qui avaient quatre ans de stalag et l’expérience en conséquence, ont réussi à accrocher un gradé. Celui-ci s’occupait de trier les travailleurs étrangers : or, des Français se trouvaient parmi eux et il avait besoin d’interprètes. Les gars ont sauté sur l’occasion, en se disant que c’était toujours un pas de fait.
Aussitôt, je les ai pris à part :
— Dites-moi, je n’ai pas du tout envie de leur recommencer mon histoire. Ils m’ont piqué tous mes papiers, et donc ma carte de journaliste. Ça va être long et compliqué. Mettez-moi simplement sur la liste des travailleurs du S.T.O.
— D’accord.
Le tri a duré une journée. Les travailleurs français étaient assez nombreux. J’ai été inscrit sur la bonne liste. Les « Ivans » m’avaient examiné avec méfiance, mais assez brièvement : une fois de plus, je me félicitais de m’être soustrait au tatouage. Mes deux copains m’ont fait un clin d’œil :
— Ça y est, on est triés, on va s’en sortir.
Les Russes nous ont mis dans un endroit à part, puis rassemblés :
— Vous êtes assimilés à des prisonniers de guerre. On va donc vous conduire à un camp de prisonniers français, qui se trouve à proximité. Vous partirez pour la Russie et vous serez, ensuite, rapatriés par Odessa sur Marseille.
La chance, décidément, tournait en ma faveur. On nous a, sur-le-champ, fait monter dans des camions. Et cinquante kilomètres plus loin, nous nous sommes retrouvés avec les ex-prisonniers français.
Ceux-ci avaient plutôt le sentiment de n’avoir quitté leur stalag que pour être reversés dans un autre, et leur mine était longue. On voyait aussi, avec eux, un certain nombre d’officiers sortis d’un oflag. Et tous ces gars, qui, au bout de trois semaines, avaient levé les bras devant les Allemands, s’étaient déjà bardés de croix de Lorraine. Dans cette floraison patriotique, notre convoi jurait quelque peu, d’autant que les prisonniers – on se demande bien pourquoi – avaient toujours affecté de mépriser les gens du S.T.O.
Mon premier souci a été de faire soigner mon pied, qui continuait à me faire souffrir. Il y avait heureusement une infirmerie, dirigée par un médecin de la marine. Il était arrivé volontairement dans un stalag en 1942, au titre de la Relève, en sorte qu’un médecin prisonnier avait pu rentrer en France. Aussi les autres le considéraient comme un traître et l’avaient mis à l’index. Mais comme c’était le seul à pouvoir dispenser des soins, ils venaient pleurnicher auprès de lui dès qu’ils ne se sentaient pas bien.
Entre nous deux s’est créée une sorte de complicité tacite : il avait senti que j’étais, moi aussi, quelqu’un d’un peu particulier. Le comportement des prisonniers me donnait comme un avant-goût de la justice de mon pays ; et à travers eux, je commençais à redouter ce qui pourrait bien m’attendre.
Au bout de quelques jours, on nous a embarqués dans des wagons à bestiaux, en direction de Moscou. Le voyage était interminable. Le parcours, dans sa plus grande part, s’effectuait sur voie unique, et dès qu’un convoi militaire descendait, on nous laissait moisir sur une voie de garage. Pour tuer le temps, nous mangions. La nourriture distribuée était honorable. Et la plupart des prisonniers transportaient avec eux une petite cantine fermée au cadenas ; dedans, ils avaient serré le chocolat et les conserves des colis qu’ils avaient reçus. Ils y avaient rangé, aussi, leurs paquets de lettres et des photos jaunies, y compris celles des gretchens qu’ils avaient séduites aux champs.
Car c’étaient presque tous des gars de la terre. On a coutume de chanter les vertus des paysans français. Mais il vaut mieux ne pas se trouver prisonnier avec eux. Ils se cachaient pour ouvrir leur petit trésor et grignotaient en douce, la tête sous le couvercle. Il n’y avait, de leur part, aucune générosité à espérer. Ce monde assez médiocre m’écœurait quelque peu.
Mes deux Franco-Polonais, très vite, avaient réintégré cet univers qui leur était familier et je me sentais isolé. Toutefois, j’avais remarqué un type qui, de même que moi, se tenait en dehors. Ses habits avaient quelque chose d’insolite. Moi-même, j’étais habillé en Russe, mais mon kaki finissait par se confondre avec celui des autres ; tandis que les vêtements de ce gars, on voyait vraiment qu’il les avait piqués. J’avais peine à croire qu’il sortait du S.T.O., ainsi qu’il le prétendait. Durant le voyage, je m’étais rapproché de lui et lui avais adressé la parole. Il avait tout juste répondu. Je lui avais demandé de quel endroit il venait. Il m’avait cité un bourg de Poméranie. Cela m’intriguait.
On est arrivé à Moscou, qui m’a frappé par son épouvantable saleté, puis on a bifurqué. On nous a débarqués à soixante kilomètres de là, dans un petit village sur les bords de la Moskova. Et on nous a mis dans un casernement, propre et bien installé, que les Russes réservaient aux prisonniers français. Mais on n’avait pas le droit de sortir : à nouveau, on n’avait fait que quitter un camp pour un autre.
Les gars, pour le coup, commençaient à la juger saumâtre. Ils s’attendaient à des trains spéciaux, voire à des fanfares. Ils ignoraient seulement que les Russes avaient le plus grand mépris des prisonniers. En 1941, trois millions des leurs, environ, s’étaient retrouvés derrière les barbelés. Staline, pratiquement, les avait considérés comme des déserteurs. Une fois délivrés, ils avaient, en bloc, été expédiés en U.R.S.S. pour être repris en main. Parmi eux, il y avait, notamment, beaucoup d’Ukrainiens. Ils n’avaient pas eu le droit de retourner à leur terre natale. On les avait envoyés bien ailleurs, et d’autres gars avaient été mis en Ukraine à leur place. Après ceux qui étaient internés dans des camps de concentration, les prisonniers libérés, chez les Russes, étaient incontestablement ceux qui se trouvaient le plus mal traités.
Nous vivions les premiers jours de mai. Il faisait très beau. Tous les soirs, chants et airs d’accordéon s’élevaient des kolkhozes voisins. La guerre se terminait et je respirais, dans l’air, une douceur de vivre que les barrières du camp rendaient insupportable. « On n’est pas près de sortir, me dis-je, il faut que je me serve de mon pied gelé pour changer, au moins, d’horizon. »
J’allai voir mon médecin de la marine :
— Impossible de marcher, il faudrait faire quelque chose.
Il réfléchit.
— Bon. Demain, il y a une visite des médecins russes. On va leur faire voir ça.
Le lendemain, les médecins m’envoyaient à un hôpital établi dans un village des environs. J’y suis arrivé avec deux autres gars. On m’a fait subir un examen complet – visite minutieuse, radio – puis on m’a mis dans une chambre commune. Elle était très bien tenue. Des infirmières toutes gentilles circulaient à travers les lits, essayant de converser et se laissant lutiner.
Pour les blessés légers, il y avait tous les matins une séance de culture physique. On y participait avec ardeur, y compris les unijambistes. On nous rangeait dans la cour et un accordéoniste encourageait nos mouvements. L’atmosphère n’était que gaieté et cordialité, et je commençais vraiment à me plaire auprès de ces Russes, buvant sec mais toujours désireux de faire plaisir.
Je demeurai là une semaine entière. Mon pied s’était tout de suite cicatrisé et mon hospitalisation avait rapidement cessé de se justifier. Mais on me gardait parce que j’étais français, qu’on m’aimait bien et qu’on me sentait heureux. Là, je me suis refait une santé. Puis il a bien fallu que je revienne au camp. La guerre était finie et les nouvelles les plus contradictoires circulaient : on part demain, la semaine prochaine, des gens de l’ambassade vont venir, ils ont des choses à nous annoncer, etc.
À nouveau, j’essayais de nouer contact avec le gars que j’avais repéré dans le train. J’ai parcouru les baraquements et j’ai fini par le retrouver, toujours solitaire dans son coin. Les autres sentaient bien qu’il n’était pas de leur espèce. Je lui ai dit que je voulais lui parler et l’ai entraîné dans la cour.
— Tu n’es pas du tout du S.T.O. Et, je vais te faire confiance : moi non plus.
Il m’a regardé sans répondre.
— Écoute-moi, tu es en train de te faire repérer. Comme moi, en fin de compte. Les Russes m’ont pris mes vêtements et, en échange, m’ont donné un uniforme à eux. Mais toi, ce sont les vêtements d’un vieil Allemand que tu portes, tu les as trouvés dans une maison et, crois-moi, ça se voit.
Il n’a jamais voulu avouer. Ma curiosité, pourtant, avait été piquée. En général, on se mettait à poil pour se laver. Je faisais exprès de me placer près de lui et de bien lever les bras en l’air. « Si c’est un Waffen SS, pensais-je, il essaiera de regarder sous mon bras gauche pour voir si je suis tatoué, et il sera étonné de ne rien voir. » Quant à lui, il ne se mettait jamais torse nu, ce qui était significatif. Mais il a serré les dents jusqu’au bout et, finalement, je l’ai laissé tomber.
Le temps passait. Et puis un matin, grand branle-bas dans le camp. Les Russes nous rassemblent :
— Vous allez avoir la visite de l’ambassade de France. C’est bon signe, le rapatriement est proche.
Et là, j’ai eu un des plus beaux spectacles de mon existence. Deux voitures débouchent, celle de l’ambassadeur, suivie d’une autre. De la première descend Mme l’ambassadrice, la générale Catroux.
Elle portait toute une panoplie militaire : uniforme avec jupe, calot sur la tête, épaulettes à galons, trois rangées de décorations dont la Croix de guerre française, badges de régiments anglais et australiens. Sur sa cravate, une étoile d’or soviétique. Je la contemple : « Eh bien, me dis-je, avec un personnage pareil, tu devrais t’en tirer. »
Elle nous réunit et commence :
— Mes enfants, vous le savez, la guerre est maintenant terminée. Mon mari, le général Catroux, ambassadeur de France en Union des Républiques socialistes soviétiques, fait activement le nécessaire pour que vous retrouviez bien vite notre cher pays. J’en suis vraiment heureuse car je sais quelles ont été vos souffrances…
Suit un discours à mourir de rire. On croyait entendre, tout à la fois, la dame patronnesse du XVIe, l’ambulancière survoltée qui risque sa vie pour sauver deux blessés coincés sous des décombres, et la joueuse de bridge impénitente qui jacasse entre deux coups. Dans cette bouffée de comique, je retrouvais tout ce qui, pendant des années, avait fait de l’armée française un objet de rigolade.
— … Vite, mes enfants, écrivez des lettres à vos chères familles, elles partiront par le courrier diplomatique.
Toutes ces pauvres cloches se sont ruées sur leur crayon. Moi, je me suis dit que la générale n’allait pas, d’un seul coup, expédier sept cents lettres. Tandis qu’elle attend, je m’approche et m’incline :
— Christian de La Mazière, déporté du S.T.O.
Elle était tout étonnée de voir une tête aussi complètement rasée.
— Ah, mon pauvre petit…
— Le général Catroux, votre mari, a bien connu mon père.
— Mais oui, votre nom me dit quelque chose… Notez-le-moi sur un papier. Avez-vous un problème particulier ?
— Voilà, j’ai tellement envie de rentrer… Or, j’ai l’impression que les départs vont se faire par échelons, les plus anciens d’abord. Et nous, nous resterons à la traîne…
En fait, je souhaitais, surtout, être séparé des S.T.O. et suivre les prisonniers. Je me disais qu’en France, ils seraient particulièrement bien accueillis, avec musique et discours, et que je pourrais profiter des festivités pour me faufiler et me perdre dans la nature. Mes habits russes étaient tout de même voyants, ils dataient d’une période où j’avais le poteau d’exécution en point de mire. Maintenant, j’étais dans un autre circuit et n’avais nulle envie d’éveiller les curiosités. L’idéal, bien sûr, aurait été de troquer mon costume contre celui d’un prisonnier au passé garanti. Mais ces gens n’avaient aucune fantaisie et tenaient à leur uniforme de vaincu.
En vitesse, j’ai écrit mon nom. Les secrétaires d’ambassade et un officier d’ordonnance ramassaient les lettres, qui n’ont jamais dû quitter Moscou. Et devant la porte de sa voiture, la générale nous a adressé un dernier mot :
— Vous savez, mes enfants, je reviendrai peut-être. De toute façon, ne vous tourmentez pas, je m’occupe de vous.
Nous l’avons revue quarante-huit heures après, chargée de colis.
Elle me fait demander. J’arrive à toute allure.
— Mon petit, j’ai l’autorisation de vous emmener à l’ambassade. Vous y verrez mon mari.
« Bon début, pensais-je. Mais il faut, maintenant, se tenir à carreau. Je passe à un échelon supérieur et les risques s’aggravent. »
Dès mon arrivée, j’ai été présenté au général Catroux. Il se souvenait fort bien de mon père.
— Je vous ferai partir le plus rapidement possible, m’a-t-il dit. En attendant, vous resterez ici. Tâchez de vous rendre utile.
Et c’est ainsi que je me suis retrouvé garçon de bureau à l’ambassade de France, mais toujours en uniforme de soldat russe, ce qui était très couleur locale.
On m’a dressé un lit de camp dans un bureau du dernier étage. Je me suis refait un petit paquetage – savon, brosse à dents, rasoir… Et je découvrais les merveilleux produits américains, dentifrice, Nescafé, chewing-gum, chocolat… De temps en temps, j’avais une pensée pour les prisonniers que j’avais laissés : « Ils sont en train de moisir, ces corniauds, et moi, je partirai sûrement avant eux, c’est merveilleux. »
La vie, à l’ambassade, était dénuée de variété. Aucune de ces réceptions qui, en général, émaillent la vie diplomatique. Au terme de cette terrible guerre, l’austérité était de rigueur. C’étaient les militaires qui donnaient le ton. Le personnel civil du quai d’Orsay – dont une partie, durant les hostilités, avait séjourné en Russie – cohabitait avec eux sans entrain. Cela créait une curieuse atmosphère. On avait, en outre, à peine le droit de circuler dans la ville. Quant aux voitures, elles ne pouvaient en sortir sans une autorisation spéciale de Molotov. Maintenant encore, les ambassadeurs étrangers n’ont pas le droit de se mouvoir librement.
J’allais d’un bureau à l’autre, heureux comme tout. Je rencontrais souvent un des rares militaires français qui soit ouvertement communiste, le général Petit. C’était un personnage insaisissable qui m’avait, d’entrée, pris en grippe. Il prétendait être le premier à avoir lancé un appel aux Français, avant le 18 juin ; mais comme il l’avait adressé de la cordillère des Andes, personne ne l’avait entendu. Je voyais souvent, aussi, la générale Catroux. Elle était charmante, prête, sans cesse, à rendre service. Elle papotait intarissablement, racontait ses souvenirs de la campagne de Syrie. Le général la regardait toujours avec un brin d’inquiétude.
L’ambassade – c’était l’essentiel de son activité – avait à charge de rapatrier les Français. Elle se donnait incontestablement beaucoup de mal. Cinq cent mille prisonniers de guerre, peut-être, avaient été délivrés par les Russes, presque autant de travailleurs du S.T.O., plus pas mal d’irréguliers. Il y avait des camps partout. Les Soviétiques s’efforçaient de trier tous les gens tombés sous leur coupe, mais le général Catroux avait les plus grandes difficultés à obtenir des renseignements sur les ressortissants français, souvent mélangés, d’ailleurs, aux prisonniers allemands.
Certains avaient été ventilés aux quatre coins du pays et tremblaient d’être oubliés. Pour signaler leur existence, ainsi, d’ex-prisonniers français, probablement perdus dans les anciens États baltes, avaient usé d’un stratagème désespéré. À l’occasion du 1er mai, ils avaient envoyé un télégramme aux autorités russes : « Félicitations à la grande nation amie. Vive le génial Staline. Vive la glorieuse armée soviétique. » Les Russes, flattés, avaient répercuté le message qui était allé jusque sur le bureau de Molotov ; et celui-ci, en bon administratif, en avait fait tenir copie à Catroux.
Un jour, enfin, la générale me fait appeler :
— Une bonne nouvelle, Christian, ça y est, vous retournez en France. C’est votre père qui va être content, c’est votre famille… Je vous signale, en passant, que votre lettre est bien partie.
À sa demande, en effet, j’avais écrit à mon père, en termes tout à fait neutres, car je me méfiais d’une censure possible : « Je me trouve à l’ambassade de Moscou où le général Catroux me prie de vous transmettre son bon souvenir. Tout va à peu près bien. J’ai réussi à échapper aux bombardements. » Cette lettre, du reste, ne parvint jamais.
Et le matin des adieux est arrivé. À chaque fournée, des gens de l’ambassade venaient, en voiture, saluer ceux qui rentraient. Je suis monté avec eux. Nous avons rejoint une des gares de Moscou et je suis descendu devant un train de marchandises bourré de prisonniers – des officiers pour les deux tiers. Ils dévisageaient, avec une curiosité prudente, ce personnage habillé en Russe qui semblait officiellement patronné. Car je n’avais pu, décidément, troquer mes vêtements. Le général m’avait promis un uniforme mais, à l’ambassade, il n’y avait pas de magasin et on n’avait trouvé personne pour me céder le sien.
On m’a fait place dans un wagon d’officiers. Ils avaient ressorti toute leur devanture, rubans ou médailles, et s’étaient posé des brassards à croix de Lorraine. Eux aussi possédaient leur petite cantine, mais ils préféraient converser en échangeant leurs souvenirs. Ça rappelait La Grande Illusion.
Quand le train a démarré, j’ai revu en pensée le wagon, presque pareil, dans lequel j’avais quitté Wildflecken pour le front de l’Est. Il n’y avait que quelques mois de cela. « C’est fou, me disais-je. Avoir vécu tant de choses en si peu de temps et ne pas savoir encore ce qui va m’arriver. » Notre machine à vapeur ressemblait à celles du Far West, avec, devant, un tablier comme chasse-neige.
Nous progressions avec une lenteur d’omnibus, sous un chaud soleil de juillet. De temps en temps, nous avions la visite d’un des officiers russes chargés de convoyer le train jusqu’aux limites de la zone soviétique. Dans le paysage, on voyait la vie se réorganiser et la paix, tout doucement, renaître. Aux arrêts, des paysans venaient nous proposer leurs produits.
On a roulé presque quatre jours. Certains étaient souffrants et le médecin de la marine, que j’avais retrouvé dans le convoi, n’avait guère moyen de les soigner. Un officier est mort. Il avait, dans la gorge, un abcès formidable qui a soudain crevé, et le pus l’a étouffé. Enfin nous sommes arrivés à la zone anglaise, près de Hanovre. C’est là que s’effectuait la passation des pouvoirs.
Le train s’est immobilisé. Des officiers anglais et français se tenaient sur le quai. Les officiers russes qui nous accompagnaient les ont rejoints, et ils ont commencé à discuter. On nous a donné l’ordre de descendre. Des camions étaient massés pour nous emmener à une autre gare, où nous devions prendre un autre train.
C’est alors que j’ai senti, dans l’air, une sorte de malaise. Nous attendions sur le quai, par petits groupes. Les officiers français se parlaient entre eux, puis nous regardaient. Finalement, ils s’avancent, saluent les officiers libérés avec un peu de froideur. Ils venaient d’Afrique ou de Londres, et cet étalage de croix de Lorraine ne devait pas tellement leur plaire. Un lieutenant prononce mon nom. Je m’avance.
— Voulez-vous me suivre ?
— Mais pourquoi ?
— Ne vous inquiétez pas. On a quelques questions à vous poser.
Les autres avaient tourné la tête et chuchotaient. Ils devaient se dire que j’étais quelqu’un de pas très catholique. Une voiture attendait. Le lieutenant me fait signe.
— Montez. Nous allons à Hanovre.
On a roulé une quarantaine de kilomètres. De temps en temps, l’officier me tendait une cigarette anglaise, sans mot dire. Je sentais l’angoisse m’envahir. On est arrivé en ville et on a continué jusqu’à la prison. Les lourdes portes se sont ouvertes, puis refermées pour de bon.