mercoledì 20 aprile 2022

AMORE Yasushi Inoue

 
           
             

AMORE  

 Yasushi Inoue 

Recensione di Mattia Lo Presti

[...] Devo confessare che, dopo aver letto abbastanza letteratura giapponese, guardando solamente le tre storie, ho avuto la sensazione di un persistente retrogusto di “già visto”. Il punto della questione è un altro: è necessario scovare la poesia nascosta in ciascuna di esse e trarne lezioni che possono mitigare leggermente questa malinconia che, chissà come, ci ha piacevolmente intossicato.[...]

Ascoltando certe canzoni di Chet Baker provo nostalgia per dei momenti che non ho vissuto: a volte, sono delle indecifrabili città piovose sommerse dalla nebbia; altre, invece, una relazione amorosa agrodolce, spenta solamente a metà, come il mozzicone di una sigaretta. Insomma, sono sicuro che capiti anche a voi: sentire malinconia per qualcosa che non è esistito davvero.

Allo stesso modo, si potrebbe interpretare la sensazione che ci danno certi romanzi quando ci affezioniamo ai protagonisti e ci sentiamo svuotati quando li finiamo. In questo caso, però, possiamo aumentare la posta in gioco: parliamo di Ai (愛, Amore) di Yasushi Inoue (井上 靖), tre racconti scritti tra il 1950 e il 1951 e poi raccolti e pubblicati nel 1959.

Quello che colpisce d’immediato dei tre scritti di Yasushi Inoue è l’estrema facilità con cui siamo trascinati dentro alla narrazione. I tre racconti sono brevi, ma in nessun momento sentiamo pressione da parte dell’autore nel dirci «ehi, mancano poche pagine, devi entrare ora nel cuore della storia se vuoi assaporarla davvero», semplicemente perché sin dalle prime frasi siamo già caduti nella sua trappola. Questo contesto ristretto, ma non claustrofobico, appare subito ben decorato: a tratti più che leggere sembra di star osservando un’opera di Ukiyo-e; un tramonto rossastro dipinge le labbra di una ragazza mentre cammina in un universo totalmente ordinato. I colori pastello risaltano in ogni istante l’inesatta imperfezione dei momenti che compongono i tre racconti, suscitandoci una malinconia ancora più fitta e a tratti irreale.

“Giardino di rocce” (石 庭) presenta la vita di Uomi Jiro e Mitsuko: i due sposi decidono di trascorrere la loro luna di miele a Kyōto che, per Uomi, rappresenta una seconda casa, dato che trascorse gli anni da studente universitario proprio lì. In cerca di tranquillità, decidono di andare a vedere il giardino roccioso di Ryōan-ji: il loro percorso (forse più simbolico che fisico) li porta a prendere gradualmente le distanze, fino a separarsi brevemente. Giunto in giardino, Uomi ricorda che proprio lì si sono verificati i due momenti più drammatici della sua vita: lì ha discusso con il suo ex migliore amico Totsuka Actarus e anche lì, anni dopo, ha interrotto la sua relazione con Rumi, la cameriera di cui i due amici si erano innamorati al punto da litigare per lei e poi separarsi.

È importante fermarsi qui per un momento e sottolineare che ciò che sorprende delle tre storie non è la trama. Devo confessare che, dopo aver letto abbastanza letteratura giapponese, guardando solamente le tre storie, ho avuto la sensazione di un persistente retrogusto di “già visto”. Il punto della questione è un altro: è necessario scovare la poesia nascosta in ciascuna di esse e trarne lezioni che possono mitigare leggermente questa malinconia che, chissà come, ci ha piacevolmente intossicato.

In Giardino di rocce dobbiamo estrarre con la prudenza di un chirurgo il primo elemento: la distanza. La misura dello spazio, nella narrazione di Yasushi Inoue, costituisce un elemento quasi fondamentale di connessione tra i personaggi: più vicini sono tra loro, maggiore è l’unità fisica e spirituale. La distanza rappresenta anche la misura del grado di separazione di un’idea dalla sua realizzazione: se un personaggio osserva un panorama lontano in cui progetta qualcosa di utile al suo scopo finale, la distanza tra i due termini condensa in sé il grado di unione e fermezza dell’idea con la sua esecuzione. In questo senso, progettare qualcosa contiene, nei personaggi di Yasushi Inoue, una sorta di riluttanza e apatia a realizzare effettivamente quel concetto.

Questo primo pezzo chiave appare anche nella seconda storia, Anniversario di matrimonio (結婚 記念 日), che consiste in un singolo flashback che racconta l’ultima avventura di una coppia sposata e spiega anche perché Karaki Shunkichi, dopo la morte della moglie Kanako, non si risposerà mai. Shunkichi vince alla lotteria diecimila yen e, insieme alla moglie, decide non senza sforzo (perché estremamente cauti a causa della loro povertà) di risparmiare metà del guadagno e di spendere il resto per una breve vacanza nella città termale di Hakone. Durante il viaggio, poco prima di raggiungere l’albergo, arrivano a un bivio. Pensando che le due strade si uniranno in seguito, decidono di sfidarsi a vicenda chi arriverà per primo alla città. I due sentieri, però, si incontrano in un punto in cui i due, per un malinteso, non arrivano; pertanto si perdono di vista per molto tempo. Dopo un po’ di agitazione e aver ripercorso la strada del ritorno, si ritrovano da dove erano partiti e finalmente decidono tristemente di tornare a casa.

La distanza fisica che li separa fa riaffiorare una sorta di impazienza reciproca, momentaneamente latente nel breve divertimento del viaggio. È rimasto ben poco di ciò che era amore tra loro e la distanza esacerba questa perdita; questo passaggio introduce perfettamente il finale della storia (il migliore delle tre, secondo me) e il secondo tassello chiave del puzzle che stiamo mettendo insieme: il desiderio. Se tutto, nelle storie di Yasushi Inoue, ci regala una sensazione di fragilità come se stesse per spezzarsi, compreso l’amore, è proprio in questo momento che la tenerezza e la nostalgia per quella persona con cui condividiamo piccole parti della nostra esistenza diventa quasi eterna e risplende di luce propria. La lotta quotidiana che portiamo avanti contro chissà cosa ci unisce a chi abbiamo vicino in qualcosa che è più forte dell’amore stesso.

Un’ideologia dell’amore, si direbbe.

La morte, l’amore, le onde (し と こ い と な み) è l’ultima storia e la più lunga delle tre. Le onde scorbutiche sbattono furenti contro una scogliera, sulla cui sommità si trova un piccolo hotel: è la cornice ideale per morire, o almeno così pensa Sugi, mentre l’indaco del mare si rispecchia e lotta nei suoi occhi stanchi. Si è concesso un lusso singolare: tre giorni, il tempo necessario per leggere il racconto del favoloso viaggio che Willem van Ruysbroeck fece nel XIII secolo nell’impero mongolo. Terminata la lettura del libro, non ci sarà nessun’altro legame a trattenerlo in vita. Ma, in un sottile scherzo del destino, anche l’unica altra ospite dell’hotel, la giovane Nami, al momento del check-in ha indicato che “mors” (morte in latino) è il motivo del suo soggiorno.

Qui la distanza diventa millimetrica e, in pochi movimenti, Yasushi Inoue costruisce una rete di connessioni tra parole non dette, lacrime evaporate e una sorta di complicità arcana. La nostalgia è tesa attorno a un gesto estremo sussurrato e condiviso da entrambi i protagonisti, incapaci di allinearsi sulla stessa frequenza d’onda per capirsi, interpretarsi e addirittura disposti a negare l’esistenza stessa dell’amore.

E proprio quando tutto sembra portarci all’epilogo più ovvio e parossistico, Yasushi Inoue inserisce l’ultimo tassello mancante: la speranza. Che è quasi un sussurro flebile, ma percettibile. E forse vale la pena lottare contro la distanza, il dolore, la nostalgia, le sconfitte della vita, il disonore: e se provassimo a vivere per catturare quell’universo oscuro e ingannevole che si apre dietro la parola “amore”?


AMORE

GIARDINO DI ROCCE

Come meta del suo viaggio di nozze, Uomi Jiro aveva scelto Kyoto. Per lui che vi aveva trascorso gli anni dal liceo all’università, Kyoto era una seconda patria, e anche se il luccichio di un tempo si era ridotto a un freddo e lontano barlume, non vi era angolo della città che non fosse impregnato di nostalgia. Aveva pensato che dopo tanti anni gli sarebbe piaciuto passare qualche giorno insieme alla moglie nell’antica, tranquilla capitale dove erano sepolti i ricordi della sua adolescenza. I luoghi che avrebbe voluto mostrare a Mitsuko, che era rimasta a Kyoto solo una notte, quando c’era andata in gita scolastica, erano molti, e non poteva esserci periodo migliore dell’anno. All’inizio di ottobre, la città e la natura che la circondava erano al massimo della loro bellezza.

Aveva organizzato il viaggio in modo che potessero fermarsi a Kyoto almeno cinque giorni, ma furono trattenuti nel paese di lei, nella campagna dello Shikoku, più a lungo del previsto, e quando giunsero alla meta desiderata, non restavano loro che due notti e un giorno. E poiché erano arrivati a Kyoto di sera, di giornate intere avrebbero avuto solo quella successiva, perché il giorno dopo ancora sarebbero partiti la mattina presto. La sera del loro arrivo, una volta che si furono sistemati in un ryokan sulla riva del Ramo, nei pressi del grande ponte di Sanjo, Mitsuko chiese: «Dove pensi di portarmi domani?».

Dal giorno prima il suo modo di parlare con lui aveva acquistato un tono di maggiore intimità.

«Già, dove?» disse Uomi, incapace di rispondere subito.

Ora che il tempo per visitare la città si era ridotto a un solo giorno, era in difficoltà e non sapeva decidere l’itinerario.

«Non c’è bisogno che tu mi faccia vedere tanti posti, basta uno. Portami da qualche parte dove si possa stare un po’ tranquilli» disse Mitsuko.

Anche lui era dello stesso avviso. Gli sarebbe piaciuto trovare un luogo tranquillo, dove passeggiare loro due soli negli splendidi colori autunnali della città, come si addice a una coppia in luna di miele.

Mentre guardava con tenerezza la moglie, che avendo appena compiuto vent’anni era di oltre dieci più giovane di lui, passò mentalmente in rassegna, uno dopo l’altro, i luoghi che pensava le sarebbero potuti piacere. Un’idea poteva essere Ohara, a nord di Kyoto. Già si immaginava come lo sfondo della natura autunnale di quella zona avrebbe fatto risaltare la bellezza di Mitsuko, i movimenti del suo corpo, così agili e ricchi di freschezza. Oppure i dintorni del Ginkakuji, il padiglione d’argento: il morbido profilo delle colline di Higashiyama, le foreste di pini rossi, lo scorrere dei canali, avrebbero fatto brillare gli occhi neri di Mitsuko, che gli aveva rivelato di avere la passione del disegno. Tuttavia il mattino seguente, quando Uomi si disse che era tempo di decidere la meta della loro passeggiata, la scelta si impose da sola con la massima naturalezza. Il posto non rientrava fra quelli a cui aveva pensato la sera prima. Ad attrarlo con forza, ora che tornava a Kyoto dopo tanti anni, era il Ryoanji con i suoi dintorni, a ovest della città, un luogo del quale non si poteva dire niente di particolare se non che era antico e tranquillo. Voleva rifare lo stesso cammino di tanti anni prima. L’itinerario avrebbe compreso una visita al padiglione del tè del Ninnaji. Avrebbero cominciato di lì, e poi camminato per quattro o cinquecento metri fino al Ryoanji. Lì avrebbero visto il giardino di rocce, quindi sarebbero andati a passeggio dentro il recinto del tempio ammirando il grande stagno. Temeva che il programma potesse essere un po’ faticoso per la giovane sposa, la quale sembrava non avere molta inclinazione o interesse per giardini e padiglioni del tè, ma ora che quel piano gli si era affacciato alla mente, Uomi non poteva più rinunciarvi.

Usciti dall’albergo, presero un taxi a Shijo Kawaramachi, e dopo venti minuti arrivarono ai sobborghi a ovest di Kyoto. Ancora una ventina di minuti, e l’auto li lasciò davanti al grande, antico portale del Ninnaji.

Tutto ciò che entrava nel suo sguardo riempiva Uomi di nostalgia. Rispetto a tredici anni prima, niente era cambiato. Soffiava il vento, lo stesso vento di allora. Il biancore del muro di cinta, il modo in cui l’edera vi si avvinghiava, tutto era esattamente come un tempo. All’interno del recinto del Ninnaji non vi era nessuno.

«Adesso andremo a visitare il Ryokakutei».

«Che cos’è il Ryokakutei?».

«Il padiglione del tè del Ninnaji».

«Ah!».

«Poi cammineremo un po’ fino al giardino di rocce del Ryoanji».

«Il giardino di rocce?».

«È un giardino fatto solo di rocce e sabbia».

«Ah!».

Qualsiasi cosa lui dicesse, Mitsuko lanciava piccole esclamazioni di gioia e i suoi occhi splendevano di felicità. Chiesero delle informazioni ai custodi, i quali li guidarono al padiglione del tè che si trovava alle spalle del tempio. Uomi si ricordò l’emozione provata quando era entrato per la prima volta, in punta di piedi, in quel piccolo bellissimo edificio.

Usciti dal Ninnaji, si incamminarono sulla strada per il Ryoanji, piena di ricordi per Uomi che l’aveva percorsa infinite volte. Il sole autunnale spargeva lungo quella strada tranquilla, dove non passava nessuno, la sua luce fredda e limpida. Il vento faceva ondeggiare i boschetti di bambù sul ciglio della strada. Uomi e Mitsuko camminavano fianco a fianco in quel vento e in quella luce, che brillavano come a Tokyo sarebbe stato impensabile.

Tuttavia, dopo che erano entrati nel recinto del Ryoanji, a un certo punto Uomi aveva cominciato a seguire un proprio filo di pensieri, estraniandosi da tutto il resto.

«Sono davvero belli, i sobborghi di Kyoto» disse Mitsuko, guardando incantata il paesaggio, mentre camminava lentamente, qualche passo indietro rispetto a lui. Ma la sua voce sfiorò appena l’orecchio di Uomi, andando a perdersi in lontananza.

Era passata una settimana dalla loro partenza per il viaggio di nozze, e per la prima volta il cuore di Uomi si allontanava dalla sua adorabile sposa.

«Uno stagno tanto grande in un posto così...» disse Mitsuko, raggiungendo il marito con una piccola corsa. Stavano camminando lungo il bordo dell’acqua, diretti all’edificio principale del tempio e al giardino di rocce.

Lui non rispose al suo commento. È qui che Totsuka Daisuke mi ha colpito!, gridò dentro di sé Uomi. Sul suo viso scese una lieve ombra di tristezza e contrasse i muscoli attorno alla bocca come gli succedeva nei momenti di tensione. I ricordi di un passato lontano lo avevano assalito dolorosamente. Ed è anche qui che ho lasciato Rumi!, pensò.

 

Un giorno - anche allora d’autunno - di tredici anni prima, Uomi Jiro e Totsuka Daisuke avevano percorso la stessa strada, ognuno immerso nei propri pensieri. A un tratto si erano fermati, quasi contemporaneamente, e Totsuka, fissandolo in viso con uno sguardo diretto che non lasciava spazio a sotterfugi, gli aveva chiesto deciso: «Ami Rumi o no? Parla chiaramente».

Sia Uomi che Totsuka indossavano divise prive di alcuni bottoni con piccoli asciugamani infilati nella cinta dei pantaloni, e ai piedi avevano geta dai tacchi di legno di magnolia. Tutti e due erano studenti della Scuola superiore di Scienze.

«Pensaci bene e dammi la tua risposta definitiva. Hai capito? Se la ami veramente, io rinuncerò a lei per te. Te la cederò. In questo caso oggi stesso lascerò la scuola e tornerò al paese a fare il contadino. Si dice che un uomo viva cinquant’anni, perciò se mi esercito bene per cinquant’anni, forse le mie ferite riusciranno a guarire».

Uomi non rispose. Sapeva che sarebbe bastata una sua parola e Totsuka Daisuke avrebbe lasciato la scuola. Era uno che, se diceva una cosa, la metteva in pratica a qualsiasi costo.

«Pensaci bene e rispondi. Se mi dici che la ami davvero con tutto te stesso, rinuncerò a lei per te. Ma se il tuo è solo un capriccio, la terrò io. Perché io le voglio bene sul serio».

Uomi non rispose neanche questa volta. Aveva la sensazione di non poter dare una risposta su due piedi, senza riflettere. Uomi amava Rumi. Ma che la amasse più di Totsuka, non si sentiva di dirlo con certezza. Rumi gli piaceva davvero. Perderla sarebbe stato per lui un colpo così terribile che solo a pensarci gli si annebbiava la vista. Eppure non provava, come Totsuka, un sentimento tale da fargli desiderare di metterne a parte i genitori, e di sposarla al più presto. La semplice idea di confessarlo ai suoi, che stavano al paese, gli faceva paura. Quanto poi al matrimonio, gli sembrava un evento che apparteneva a un mondo completamente diverso, lontanissimo, senza alcun rapporto con Rumi. L’idea di parlarne a casa e di sposarsi non lo aveva nemmeno sfiorato, ma sul fatto che la amava non c’erano dubbi. Il pensiero di perderla gli era intollerabile.

«Io la amo» disse Uomi risolutamente, sentendo sulle guance lo sguardo ardente dell’amico.

«Più di me?» lo incalzò Totsuka, con la sua forte voce di basso, scrutandolo in viso.

«Forse» rispose Uomi sentendosi lacerare.

«Forse?! Non ti esprimere come una donnicciuola. Parla chiaro! Tu ami Rumi più di quanto la amo io?».

«L’amo» disse Uomi, e inghiottì di colpo la saliva.

«Hmm».

Per un istante un’ombra cupa oscurò il viso di Totsuka. Si tirò indietro il berretto e trasse un profondo sospiro.

«Bene, se è così te la cedo. Tu sei più intelligente di me, hai le terre, i tuoi sono ricchi, e poi tu non bevi. Come marito per Rumi sicuramente sei molto più adatto. Benissimo. Non la vedrò più. Torno al dormitorio, e preparo la valigia».

«Non c’è nessun bisogno che lasci la scuola» disse Uomi, ma appena lo ebbe detto si rese conto che le sue parole avrebbero fatto infuriare Totsuka. Lanciò una rapida occhiata al suo viso, e vide che in effetti aveva un’espressione adirata.

«Allora non hai capito proprio niente di quello che provo ora» disse.

Un istante dopo, gridandogli un insulto, colpì Uomi alla guancia. Poi continuò a infierire senza pausa su entrambe le guance. Sotto quell’assalto, Uomi barcollava a destra e sinistra, ma si portava le mani al viso nel tentativo di proteggersi gli occhi. Sebbene bersagliato di colpi, manteneva quel grado di lucidità. Si lasciava colpire, quasi passivamente. Sapeva bene che anche se si fosse opposto, contro la violenza di Totsuka non avrebbe avuto la minima chance. Uomi e Totsuka erano completamente diversi anche come carattere, ma sotto alcuni aspetti si intendevano alla perfezione, e negli ultimi due anni e mezzo andavano sempre in giro insieme, sia a scuola che in città. Avevano in comune anche i quaderni, e persino i soldi che ricevevano ogni mese dai rispettivi genitori li consideravano una specie di patrimonio comune, incuranti di cosa appartenesse a chi, e usavano senza dubbi né riserve la somma ricevuta. Totsuka non faceva parte di nessuno dei gruppi sportivi della scuola, ma quando studiava alle medie nel suo paese, in Kyushu, aveva praticato judo e kendo e grazie a questo aveva sviluppato un fisico eccellente. Anche di carattere era forte e audace. Ma da quando era entrato alla Scuola superiore, aveva smesso completamente ogni attività sportiva. I circoli di judo, kendo e atletica, avendo notato il suo fisico vigoroso, lo avevano invitato a entrare ognuno nel proprio gruppo, ma lui aveva respinto con decisione le loro proposte.

«Chi non legge libri diventa uno scemo. A differenza di voi che siete dei geni, io non mi sono riempito di nozioni, quando ero alle medie. Non ho imparato nulla. Adesso devo assolutamente immagazzinare un po’ di conoscenze».

Le sue parole lasciavano perplessi i ragazzi delle associazioni sportive. In questo era diverso dagli altri compagni. Rumi faceva la cameriera in un caffè di Shijo Kawaramachi dall’insolito nome di «Ban». Il primo a scoprirla era stato Totsuka. Una sera era entrato nella stanza di Uomi e lo aveva invitato dicendo: «Seguimi senza fare domande. Ti porterò in un posto interessante».

Quando furono arrivati al Ban, Totsuka ordinò un sake e un caffè, mise il caffè davanti a Uomi e bevve il sake da solo.

«Allora? Niente male, vero?» disse.

Uomi capì al volo che cosa intendesse. In mezzo alle cameriere che fluttuavano nel locale come pesci rossi, solo Rumi spiccava fra tutte.

Ogni tanto si avvicinava a loro due, si tratteneva un po’ a chiacchierare, poi subito si spostava a qualche altro tavolo. Fra tutte le cameriere, abbigliate in vistosi kimono, Rumi era l’unica a indossare abiti occidentali. Quando si avvicinava a loro, Uomi provava una specie di vertigine, e si accendeva una sigaretta dopo l’altra, attento a nascondere a Totsuka che la mano gli tremava. Totsuka non diceva una parola. Non faceva che fissare con insistenza il viso di Rumi, e quando lei si allontanava, lui, continuando a bere il suo sake, fulminava con lo sguardo i clienti con i quali la ragazza si attardava.

Furono conquistati da Rumi tutti e due contemporaneamente. Procurandosi in qualche modo il denaro, presero a frequentare il Ban tutte le sere. Poi, nel giro di due settimane riuscirono a portarla a passeggio, e alla fine del mese erano in termini tali da poter addirittura andarla a trovare nel suo appartamento di Kitano. Erano entrambi innamorati persi di lei.

«Ha gusti più frugali di quanto immaginassi. A pranzo, si nutre solo di un toast» diceva Totsuka.

E Uomi replicava ammirato: «Che bello, trovo che questo la renda ancora più affascinante».

«La cosa che mi piace di più in Rumi è il fatto che in lei ci sia una parte spudorata e una sincera. E queste parti convivono in un modo che io trovo molto seducente».

«A me invece...».

A Totsuka e a Uomi, ogni sfumatura del carattere di Rumi, ogni suo minimo gesto apparivano di una grazia e di una bellezza straordinarie, e sembravano possedere significati reconditi. Fu l’autunno del terzo anno di scuola, circa un anno dopo il loro incontro con lei, e sei mesi prima di quando avrebbero dovuto diplomarsi, che Totsuka e Uomi cominciarono a stancarsi di dividerla tra loro.

Ognuno dei due, di nascosto dall’altro, aveva confessato a Rumi il proprio amore. Ma la risposta era stata la stessa per entrambi: «Se mi chiedessi di sposarti...».

Sembrava che Rumi avesse intenzione di scegliere tra i due quello disposto a sposarla. Questa sua posizione lasciò entrambi insoddisfatti, ma in compenso rivelava chiaramente un aspetto deciso del carattere di lei, contrario a relazioni superficiali e passeggere. A quanto pareva, Rumi nel passato aveva ricevuto diverse ferite a causa di rapporti simili. Poiché lei non era disposta a scegliere, spettava a loro risolvere il problema e decidere chi dei due dovesse averla. Quel giorno Totsuka dopo tanto tempo aveva proposto a Uomi di fare una passeggiata con lui. Scesero dal tram a Kitano, arrivarono a piedi fino al Ryoanji e, senza che nessuno dei due lo avesse proposto, si ritrovarono a guardare il giardino di rocce. Per la prima volta soffiava un vento che sembrava annunciare l’inverno imminente.

Fu dopo aver visto il giardino di rocce, ed essere scesi per l’antica scalinata di pietra davanti all’edificio principale del tempio, che entrarono in argomento. Ripensandoci in seguito, Uomi non riusciva a capacitarsi di come lui, sempre così esitante, avesse potuto affermare con tanta sicurezza che amava Rumi. Fino a quel giorno Uomi aveva pensato che avrebbe dovuto rinunciare a lei. Era impossibile negare che l’attaccamento di Totsuka fosse molto più forte, e che per lei avrebbe dato anche la vita. Inoltre Rumi aspirava al matrimonio, ma Uomi non aveva mai considerato seriamente questa ipotesi, e non avrebbe neanche avuto la possibilità di realizzarla. E poi, anche se erano in contrasto a causa di Rumi, era amico di Totsuka. Provava nei suoi confronti un affetto completamente diverso da quello che sentiva per lei, forse più profondo. Di conseguenza Uomi aveva pensato che alla fine sarebbe stato lui a farsi da parte.

E invece la determinazione con cui era riuscito a respingere il suo amico, con crudele freddezza, lasciava stupefatto lui per primo. Mentre veniva colpito sulle guance, Uomi si diceva che con questo tutto era risolto. Barcollando a destra e sinistra, continuava a ripeterselo. Quella notte Uomi non tornò al dormitorio. Andò a casa di certi parenti che abitavano nei pressi del Gingakuji e si fermò lì tre giorni. Quando, il quarto giorno, provò a tornare al dormitorio, come previsto Totsuka aveva già fatto i bagagli ed era partito per il suo paese. La notizia che Totsuka aveva comunicato alla scuola la sua decisione di ritirarsi fu riportata con versioni diverse, ma Uomi non aprì bocca in proposito. Nemmeno Rumi disse nulla. L’anno seguente, contemporaneamente al suo ingresso all’università, Uomi cominciò a vivere con Rumi.

 

Il Ryoanji era legato per Uomi anche a un altro ricordo.

Erano i primi giorni di marzo, tre anni dall’inizio della sua convivenza con Rumi, e ormai si avvicinava l’esame di laurea.

Rumi gli aveva proposto di fare due passi insieme perché c’era qualcosa di cui voleva parlare con lui, e così erano andati a passeggio nei dintorni del Ryoanji. Entrambi avevano la sensazione che il loro rapporto fosse giunto a un punto critico, e camminavano in silenzio con aria cupa. Anche quel giorno percorsero il corridoio del tempio principale in cui si trovava il giardino di rocce, come se dovessero semplicemente passare del tempo. Poi per circa mezz’ora sedettero sulla veranda a contemplare le rocce disposte su quella bella sabbia bianca, senza scambiarsi una sola parola. Quindi, usciti di lì, girarono senza meta dentro il recinto del tempio, dove ancora i ciliegi non erano in fiore, mantenendo fra loro una distanza di quasi un metro. Ormai i sentimenti di Uomi per Rumi si erano raffreddati in modo irrimediabile. Non ne sopportava più la mancanza di istruzione, e detestava vari aspetti del suo carattere. Anche i suoi grandi occhi gli sembravano privi di finezza, e quel modo di parlare lezioso cominciava a dargli sui nervi. Non riusciva a farsi una ragione di come avesse potuto, in passato, essere tanto invaghito di quella donna. Rumi era consapevole di tali sentimenti in Uomi. Ma nel corso di quei tre anni si era formato in lei, nel corpo e nell’anima, un legame che le impediva di separarsi da lui.

All’inizio della loro vita insieme, Rumi aveva spesso implorato Uomi di sposarla, ma ormai aveva rinunciato. Più del problema formale del matrimonio, un altro, ben più urgente, era per Rumi causa di angoscia costante: la preoccupazione di evitare a tutti i costi che Uomi potesse abbandonarla.

Ma quel giorno Rumi era un po’ diversa dal solito. Aveva pensato che se l’amore di Uomi per lei era definitivamente morto, e non esisteva la possibilità che rinascesse, in quel caso si sarebbe allontanata da lui. Lei stessa non sapeva se sarebbe stata capace di continuare a vivere senza Uomi, ma si proponeva di tentare con tutte le sue forze.

La laurea di Uomi ormai si avvicinava, e se la rottura era inevitabile, lei sentiva che quel momento doloroso, anziché rimandato, andava affrontato al più presto. «Vorrei che mi parlassi con sincerità. Non voglio che tu ti faccia scrupoli nei miei confronti, e non ho bisogno della tua pietà. Vorrei soltanto che mi dicessi quali sono i tuoi veri sentimenti» furono le sue parole. «Allora, parla. Mi ami o non mi ami?».

«...».

Ci risiamo, pensò Uomi, restando in silenzio. Quante volte, in questi tre anni, mi avrà ripetuto la stessa domanda? Decine di volte. Eppure lui non era mai riuscito a dirle chiaramente: «Non ti amo». Per poter pronunciare quelle parole, avrebbe dovuto diventare cattivo. Naturalmente era una debolezza da parte sua, ma il peso di quei tre anni di vita in comune lo legava con una forza a cui era impossibile opporsi.

«Mi ami? Non mi ami? Basta, non te lo chiederò più. Ti farò una domanda molto meno nobile, e più chiara. Mi odi? Non mi odi? Se mi odi, dimmelo. Allora, mi odi? Ce la fai a dirlo, no? Basta un cenno con la testa, in orizzontale o in verticale. Allora, mi odi?».

Uomi notò che il viso di Rumi aveva assunto un pallore e una gravità mai visti. La guardò con un sentimento di rifiuto.

Subito dopo, con un tono tagliente che lasciò stupito lui per primo, esclamò: «Ti odio!».

Dopo averlo detto, provò un immediato sollievo. Le parole gli erano sfuggite di bocca senza che se ne accorgesse.

«Ah, è così».

La voce di Rumi risuonò stranamente calma.

Uomi ebbe la sensazione che qualcosa di una crudeltà atroce, ignota a lui stesso, si avvolgesse in una nera spirale dentro il suo cuore.

Si accorse chiaramente che il sangue era defluito dalle labbra minute di Rumi, lasciandovi un biancore sinistro che ricordava il ventre di un pesce. Pensando che stesse per svenire, con prontezza allungò una mano per sostenerla. Per un attimo tutto il peso di Rumi si concentrò sulla sua mano, ma lei, schiudendo appena gli occhi, disse: «No» ritraendosi un poco dal braccio di Uomi. Poi rimase per qualche istante accovacciata a terra, ma si rialzò e, volgendogli le spalle, prese ad allontanarsi con passo incerto, barcollando, senza girarsi a guardarlo.

È finita, pensò Uomi. C’erano già state molte scene simili, ma questa volta, a differenza delle altre, aveva avvertito un senso di verità che faceva pensare a una conclusione irrevocabile. In ogni caso, con questo è finita!, pensò di nuovo. Ma nella sorpresa per avere proferito quelle parole terribilmente crudeli, insolite per lui, debole com’era, si mescolava una certa soddisfazione. Quel giorno, Uomi non se la sentì di tornare nell’appartamento che divideva con Rumi. Dopo essere stato a trovare due o tre amici, solo a tarda notte salì infine le scale di casa.

La luce era spenta. Quando l’ebbe accesa, vide che la parete a cui erano sempre appesi gli abiti e i kimono di Rumi era vuota. Lei non sarebbe tornata più in quella casa.

Pensieri dal sapore amaro restarono a lungo in lui, ma Uomi non cercò di scoprire dove fosse andata Rumi. Una volta sentì dire da qualcuno che faceva la cameriera a Osaka, a Shinsaibashi, ma quella sera gli bastò qualche bicchiere per dimenticarsene.

Uomi aveva rivissuto gli unici due momenti del suo passato che potevano essere considerati drammatici. Nel ripensare a entrambi aveva avvertito una piccola pena. Di Totsuka Daisuke aveva saputo che era tornato al suo paese nel Kyushu e che, in linea col suo personaggio, aveva fatto fortuna come proprietario di una fabbrica di sake, ma era poi morto di malattia alla fine della guerra. Di Rumi non ebbe nessuna notizia. Dopo tutti quegli anni, Uomi percorreva di nuovo il vecchio corridoio nell’edificio principale del Ryoanji. E, come aveva fatto in passato con Totsuka e con Rumi, si sedette accanto alla moglie in un angolo della veranda.

«Ah, che bel giardino» disse Mitsuko, poi restò a contemplarlo in silenzio. Il cosiddetto giardino era in realtà una distesa uniforme di sabbia bianca al cui centro erano disposte solo alcune rocce, ma si aveva la sensazione che da quella semplice composizione emanasse un’atmosfera severa che colpiva il cuore di chi la guardava. Apparteneva a un mondo spirituale più elevato di quanto potessero esprimere aggettivi come «bello» o «splendido».

«Ce ne andiamo?» disse Mitsuko all’improvviso.

Gli era sembrato che il viso di lei fosse un po’ impallidito, ma poi pensò che a ingannarlo erano stati i suoi occhi troppo a lungo fissi sullo scintillio della sabbia bianca.

Da quando era entrato nel recinto del tempio, lo stato d’animo di Uomi si era fatto cupo e teso a causa dei ricordi. Ma non appena furono usciti dal Ryoanji ed ebbero cominciato a camminare senza fretta per le antiche strade costeggiate da antiche mura, egli ritrovò la sensazione di allegria e felicità che lo aveva accompagnato sino al giorno prima. A pensarci bene, adesso aveva tutto per essere felice. Una sposa giovane e bella camminava al suo fianco. Mitsuko era molto più bella di Rumi, e superiore a lei per cultura ed eleganza. Il loro era stato un matrimonio combinato, ma, a dieci giorni dalle nozze, egli sentiva di essere completamente innamorato della sua giovane moglie. Era un sentimento diverso dalla passione provata un giorno per Rumi, molto più calmo, tranquillo e appagante.

«Sono un po’ stanca» disse a un tratto Mitsuko.

Ogni tanto rimaneva un poco indietro, a due o tre metri da lui. Uomi si girò, e nel vedere il suo modo di camminare, che rifletteva infatti una certa stanchezza, provò per lei un affetto impetuoso che gli sgorgò dritto dal cuore. Probabilmente anche lui, come marito, era responsabile della sua stanchezza. Ogni tanto si fermava e aspettava premuroso quella creatura incantevole che egli aveva affaticato con le sue carezze. Notò che Mitsuko non parlava quasi più.

«Non è che non ti senti bene?» le chiese.

«No» rispose soltanto, ma dalla sua espressione era evidente che nascondeva qualche pena.

L’idea di Uomi era raggiungere a piedi Kitano e di lì salire su un taxi, ma cambiando programma presero un tram alla fermata del Ryoanji, scesero a Kitano e proseguirono in taxi. Quando giunsero all’albergo, Mitsuko sembrava stare già meglio.

«Mi dispiace aver rovinato la nostra passeggiata. Io vorrei restare un po’ in camera, ma tu esci pure» disse Mitsuko.

Uomi, visto che mancava da Kyoto da tanti anni, aveva in mente diversi posti dove gli sarebbe piaciuto andare. Inoltre non aveva voglia di starsene mezza giornata confinato in albergo, quindi quel pomeriggio decise di uscire da solo. Andò a trovare il professor K., che considerava un suo maestro, e che viveva a Higashiyama Shichijo. Il professore, che da giovane lo aveva aiutato in tante occasioni, era così invecchiato da essere irriconoscibile, ma stando seduto di fronte a lui capì che il suo spirito e la sua vitalità erano rimasti quelli di un tempo. Il professore fece due o tre telefonate e invitò S. e M., vecchi compagni di scuola di Uomi. Questi accettò di fermarsi lì a cena e si congedò che erano quasi le nove di sera.

Al suo ritorno in albergo, Mitsuko non c’era. Nel momento in cui entrò in camera, Uomi fu colto da un presentimento angoscioso. Poi si accorse che su un angolo della scrivania era posata una busta, e la aprì in fretta, senza neanche sedersi.

 

«Avevo cominciato un progetto di vita insieme a te come moglie, che speravo felice e duraturo, ma mi sono resa conto che non è possibile.

«In realtà dal giorno del nostro matrimonio fino a ieri pensavo che lo fosse.

Circondata dal tuo amore, il mio cuore si era aperto a te.

«Ma oggi, mentre ammiravo la strana, fredda bellezza del giardino di rocce del Ryoanji che mi avevi portato a vedere, non so perché ho provato disgusto per me stessa e per i miei compromessi. Ho sentito una voce dentro di me che diceva: “Non devi lasciarti trasportare dalla corrente, non devi accettare compromessi”. Quel tranquillo giardino di rocce e sabbia ha portato via la mia debolezza e mi ha resa forte, addirittura spietata. Sarà stato il richiamo spirituale, così elevato e inflessibile, del maestro che ha deciso di creare un giardino utilizzando nient’altro che rocce e sabbia?

«Forse la vita con te sarebbe per me la strada più felice.

«Ma ho capito che devo seguire il mio modo di vivere, dovessi pagarlo con l’infelicità. In questa occasione ti prego anche di perdonarmi per averti nascosto alcuni piccoli incidenti sentimentali che fanno parte del mio passato».

 

La lettera non diceva altro. Naturalmente quella notte Mitsuko non tornò.

ANNIVERSARIO DI MATRIMONIO

Erano due anni che a Karaki Shunkichi era morta la moglie Kanako. E più o meno da quella primavera le persone intorno a lui avevano cominciato a parlargli dell’opportunità che si risposasse. Un uomo di trentasette anni è ancora giovane, gli dicevano, e non vorrai certo restare da solo per il resto dei tuoi giorni. Ma ogni volta Shunkichi dava risposte del tipo: «Mah, ogni cosa a suo tempo».

Egli si sforzava di non deludere le persone che gli facevano quei discorsi spinte da affetto nei suoi confronti, ma per quanto lo riguardava non aveva la minima intenzione di sposarsi una seconda volta. Pensava che forse nemmeno col passare degli anni avrebbe mai più provato il desiderio di prendere di nuovo moglie. Per la defunta Kanako aveva provato qualcosa di simile all’amore. L’espressione «qualcosa di simile all’amore», al posto della semplice parola «amore», è dovuta al fatto che lui stesso non era sicuro che il suo lo fosse stato davvero. A pensarci bene, guardando indietro ai circa cinque anni di vita insieme a Kanako, non gli sembrava di aver provato per lei un amore così forte. Anzi, il più delle volte il suo carattere troppo loquace e prepotente gli aveva ispirato fastidio. Anche il suo viso era molto insignificante e, sebbene Kanako non potesse definirsi esattamente brutta, a Shunkichi non era mai successo di trovarla bella. Ma la cosa che meno gli piaceva era che, a causa delle sue origini modeste, fosse visibilmente priva di qualsiasi eleganza. Del resto nemmeno i suoi parenti l’avevano gradita.

«Povero fratello, dev’essere stata l’esperienza con Kanako a farti passare ogni voglia di risposarti» aveva detto una volta a Shunkichi la sorella più piccola, una che diceva sempre, senza farsi scrupoli, quello che pensava. Ma questo non era solo il punto di vista della sorella: anche i genitori, gli altri fratelli, per non parlare dei parenti e degli amici, erano tutti più o meno della stessa opinione. Che l’esperienza con lei lo avesse segnato poteva anche essere vero. Se Shunkichi però non desiderava risposarsi, non era per questa ragione, ma piuttosto perché agiva su di lui un senso di colpa nei confronti di Kanako, come se si sentisse in debito verso di lei. E tuttavia sapeva bene che nessuno all’infuori di lui poteva capire tale sensazione.

«Questa volta, fratello, scegliti una persona più normale. Altrimenti, considerato che già tu hai abitudini tanto frugali, finirete col dare uno spettacolo pietoso» gli disse la stessa sorella in un’altra occasione. La sua era un’ironia piuttosto pungente.

Shunkichi era assai parco nell’usare il denaro e, pur di non spendere inutilmente neppure un centesimo, correva il rischio di non adempiere ai suoi doveri sociali, e da questo punto di vista Kanako non gli era certo da meno. Era così tirchia da lasciare di stucco lo stesso Shunkichi, e la ragione principale per cui era poco ben vista in famiglia andava probabilmente cercata in questa sua natura oltremodo avara. Tuttavia, era anche vero che, considerata la posizione di Shunkichi come contabile di una piccola azienda di legnami, senza una buona dose di avarizia sarebbe stato difficile far quadrare il bilancio familiare. Nelle loro condizioni, se anche avessero voluto comportarsi con maggiore larghezza, non avrebbero potuto farlo. Perciò, se Shunkichi ripensava ai cinque anni trascorsi insieme alla moglie, era pronto ad ammettere che la loro vita era stata fin troppo austera, e che a volte, come diceva sua sorella, visti dall’esterno avevano forse offerto uno spettacolo pietoso, ma non se la sentiva di darne la colpa a Kanako. Anzi, a voler scavare nei sentimenti di Shunkichi, era proprio perché gli sembrava impossibile trovare una donna avara come lei, che non se la sentiva di dare ascolto a quanti lo spingevano a risposarsi. Se dopo Kanako, che si era data tanta pena per far quadrare i suoi conti, fosse giunta una donna sconsiderata, pronta a spendere senza riguardi con la mentalità che «quel che serve, serve», sarebbe stato un insulto alla memoria della povera Kanako, e il solo pensiero gli risultava intollerabile.

«Sì, amo Kanako» si disse una sera Shunkichi, solo in una stanza del suo appartamento, dopo che un amico, venuto anche lui a parlargli del matrimonio, se ne era andato. Nei cinque anni della loro vita in comune in quella casa, almeno una volta, poco prima della fine, aveva abbracciato il corpo gelido di Kanako con un amore traboccante. Aveva riscaldato col proprio calore quella creatura cara e insostituibile. Che cos’era quello, se non amore?

Poi, con una sensazione fredda e distaccata, come se guardasse il flusso e il riflusso delle maree, ripercorse il ricordo agrodolce di quel viaggio a Hakone.

 

Era stato due anni prima. Quel giorno Karaki Shunkichi era tornato dopo il lavoro nel suo appartamento di periferia con una certa eccitazione. Aperta la porta di casa, nel vedere Kanako, aveva detto, con un tono basso di voce e un’espressione corrucciata: «Ho vinto diecimila yen!».

Dopo aver pronunciato queste parole, si era seduto a gambe incrociate davanti alla tavola della cena, quindi aveva assunto un’espressione ancora più grave, senza più aprir bocca.

Kanako, nel sentire che avevano vinto quella cifra, dapprima s’era messa a guardarlo come se non capisse di cosa parlava, ma quando si rese conto che si trattava dell’estrazione a sorte organizzata dalla Banca M., dove avevano in deposito sei obbligazioni di mille yen ciascuna, cominciò a urlare felice, come se non fosse stata più lei: «Abbiamo vinto! Diecimila yen! È incredibile!».

Queste esclamazioni di meraviglia furono solo l’inizio di un flusso ininterrotto di chiacchiere. Le sembrava che, se avesse smesso di parlare, la fortuna piovutale addosso sarebbe fuggita da qualche altra parte per sempre.

Shunkichi invece, in preda a pensieri malinconici, pareva più cupo del solito. Non riusciva ancora a credere alla fortuna inaspettata che lo aveva colpito, e avvertiva l’angoscioso presentimento che prima o poi si sarebbe dissolta. Aveva controllato con i propri occhi che il numero vincente fosse il suo, e non ancora convinto era andato allo sportello della banca per averne conferma, quindi non c’era più spazio per nessun dubbio, ma sentiva di non potersi abbandonare all’ebbrezza per quella fortuna fino a quando non avesse stretto in pugno i diecimila yen.

Shunkichi, nei suoi trentacinque anni di vita, non aveva mai avuto il minimo rapporto con nulla che rispondesse al nome di fortuna, e non aveva mai nemmeno immaginato che un giorno sarebbe venuta a visitarlo.

«Mettiamo da parte cinquemila yen, e con gli altri facciamo un viaggio! Se ne spendiamo cinquemila, ce ne resteranno altrettanti!» propose Kanako.

Gli fece notare che fra tutti gli abitanti di quel fabbricato loro erano gli unici a non essere andati in viaggio di nozze, e nemmeno in seguito avevano mai fatto altri viaggi che potessero compensare tale mancanza, così ogni volta che veniva fuori il discorso lei si vergognava. Perciò, ora che si erano ritrovati inaspettatamente quella somma di diecimila yen, le sembrava che dovessero utilizzarne la metà per fare finalmente quel viaggio. Riusciva a figurarsi, se loro due fossero andati in gita a Hakone, il chiasso e l’invidia delle vicine. Il pensiero di lasciare a bocca aperta per lo stupore quella gente sempre pronta a sparlare di loro chiamandoli tirchi e spilorci la inebriava.

«Un viaggio? Spendere cinquemila yen per una notte fuori! Ma sei impazzita? Ecco perché non si possono dare soldi alle donne» disse Shunkichi arrabbiato.

Temeva che la leggerezza di Kanako potesse profanare la sacralità della loro fortuna. Gli sembrava che, a formulare un progetto così frivolo, la fortuna sarebbe fuggita dileguandosi. Questa è la natura della fortuna, egli pensava. In ogni caso mantenere un contegno più modesto era d’uopo.

«Finché non ce li avranno dati non possiamo esserne sicuri. Evita di fare questi sogni stupidi».

«Ma li abbiamo vinti, no, questi soldi?».

«Per vincerli li abbiamo vinti».

«Allora ce li daranno, no?».

«Normalmente ce li dovrebbero dare, ma in questi casi, finché i soldi non li hai in mano, è meglio non farci troppo affidamento».

«Mah...».

Kanako era delusa dal marito, che non riusciva a gioire nemmeno un poco. Poi le venne in mente che lui potesse avere intenzione, una volta entrato in possesso del denaro, di metterlo da parte senza fargliene vedere nemmeno un centesimo, e disse: «Finora tutti ti hanno sempre definito avaro, io sola pensavo che non fosse vero. Sapevo che eri costretto a esserlo, Ma se anche in questa circostanza ti comporti come al solito, vuol dire che dovrò ricredermi».

«Senti chi parla!».

Shunkichi pensò a quanto le donne siano stupide. Ma non volle ribattere né tentare di difendersi. In verità, se pensava a quei cinque lunghi giorni che lo separavano dal momento in cui i diecimila yen sarebbero entrati in suo possesso, e a come avrebbe potuto sopportare l’ansia, il suo istinto era di farsi piccolo piccolo e rifugiarsi, come un animale che si nasconda in una buia caverna, in quel complicato stato d’animo dove l’angoscia più profonda si mescola con la speranza.

 

Ma la fortuna arrivò davvero nelle mani di Karaki Shunkichi. Quando allo sportello della banca gli furono consegnati i diecimila yen e poté accertarsi che quella somma era realmente di sua proprietà, cominciò a pensare a come utilizzarla. Subito gli venne in mente il piano suggerito qualche sera prima dalla moglie: mettere da parte cinquemila yen e utilizzare gli altri cinquemila per un viaggio. All’istante gli apparvero le facce dei colleghi di lavoro che lo trattavano sempre con un’aria di superiorità, quelle dei parenti che lo criticavano dicendo che non sapeva comportarsi con loro in modo adeguato, e pensò che finalmente gliel’avrebbe fatta vedere.

In realtà era grazie ai seimila yen risparmiati a prezzo di tanti sacrifici dal suo misero stipendio mensile, lesinando persino sul mangiare, e messi a deposito in banca, che era entrato in possesso di quegli inaspettati diecimila yen. Anche se ne avessero usati cinquemila, gliene sarebbero rimasti altrettanti! Ah, che lezione per tutta quella gente! Per la prima volta tornò a casa di umore assai allegro. Tirò fuori dalla tasca dieci banconote da mille yen e le gettò davanti a Kanako.

«Il 15 di questo mese sarà il nostro anniversario di matrimonio, e siccome capita di domenica, che ne diresti di andare da qualche parte, magari a Hakone, e di restarci fino a lunedì?».

Ma Kanako disse solo «Già» e rimase per un po’ assorta.

Poi divise il mazzetto di banconote in due metà, lo fissò senza un batter di ciglia, e aggiunse: «Mi pare che spendere cinquemila yen per una sola notte sia veramente uno spreco. Pensa al tempo che ci vorrebbe, col tuo stipendio, per risparmiare una cifra come questa. Perché invece non mettiamo tutto da parte?».

Ora che aveva potuto allungare davvero le mani sui diecimila yen, l’eccitazione gioiosa che aveva provato fino al giorno prima si era placata, e un freddo calcolo aveva preso il suo posto.

«Ma se eri stata tu a tirar fuori quest’idea!».

«Lo so, ma se penso a tutti gli sforzi che abbiamo fatto sinora, non me la sento proprio di spendere così questi soldi. Cinquemila yen per una notte!».

«Ma anche se li spendiamo, ce ne resteranno ancora cinquemila».

«E se non li spendiamo, ce ne resteranno diecimila. Pensa, finirebbero in una sola notte. Mi sembra un tale spreco!».

«Non essere così spilorcia, ecco perché tutti ci criticano».

«Se vogliono parlare, parlino pure». Seguì un leggero battibecco.

Ma per quanto si beccassero, uno spirito sereno, diverso da quello di sempre, aleggiava su di loro. E alla fine decisero che avrebbero messo da parte solo cinquemila yen, e avrebbero usato gli altri cinquemila per il viaggio di una notte a Hakone, facendo come se quei soldi non li avessero mai avuti.

Dopo aver cenato, e fino al momento di dormire, non parlarono d’altro.

 

Il 15 novembre era il giorno del loro quinto anniversario di matrimonio. Il mattino Kanako si alzò alle quattro, scese in cucina e cominciò a preparare il pranzo che quel giorno lei e il marito avrebbero consumato a Hakone. Dato che quel viaggio era un evento raro, Shunkichi aveva detto che avrebbero potuto mangiare da qualche parte, ma Kanako aveva insistito che sarebbe stato più intelligente preparare a casa del sushi, così avrebbero evitato di spendere cifre esagerate al ristorante, e con i soldi risparmiati avrebbero potuto concedersi qualche lusso in più la sera, una volta giunti in albergo.

Shunkichi aveva finito col convincersi, e decisero così di portarsi la colazione da casa; ma poiché temevano, facendo i preparativi in cucina la sera prima, di richiamare l’attenzione dei vicini, Kanako si era dovuta alzare la mattina della partenza che era ancora buio. In effetti, il viaggio dei due coniugi a Hakone aveva suscitato tanto interesse tra gli abitanti della casa, che le preoccupazioni di Kanako di non attirare la loro attenzione erano senz’altro giustificate. Poiché Kanako per giorni e giorni ne aveva fatto un gran parlare, il loro viaggio per l’anniversario di nozze era divenuto il più grande avvenimento del fabbricato dopo la fine della guerra, al punto che la stessa Kanako se ne sentiva confusa.

Bastava facesse un passo fuori dal suo appartamento e subito si ritrovava accerchiata dalle vicine che la attendevano al varco con frasi del tipo «Finalmente domani si parte, eh», o «Mi raccomando, divertitevi», in cui si mescolavano invidia, gelosia e derisione. Alle otto salirono sul treno per Numazu. Per fortuna la carrozza era quasi vuota, quindi Shunkichi e Kanako riuscirono a trovare posto accanto al finestrino, sedendosi l’uno di fronte all’altra.

Quando ebbero superato Ofuna, anche il paesaggio di là dal vetro cominciò a cambiare: finalmente si erano allontanati dalla città, e nell’aria limpida, priva di polvere, le case dai colori sobri, le strade, le colline e i campi brillavano ai freddi raggi del sole d’inizio inverno. Alberi di agrumi dai rami piegati sotto il peso dei loro frutti gialli, alberi di kaki carichi di frutti rossi, luminosi boschetti di bambù, tetti di paglia, bambini di campagna in kimono con le braccia incrociate sul petto, scorci di mare blu, scogliere volavano negli occhi di Kanako, per scomparire un attimo dopo alle sue spalle. Ogni volta, nel suo cuore lanciava un grido di gioia. Non riusciva a staccare lo sguardo da tutte quelle immagini che scorrevano dietro il vetro. In una delle fermate intermedie, Shunkichi abbassò il finestrino per comprare dei mandarini e della gassosa, ma Kanako lo fermò: «Lascia perdere, non buttare così i soldi».

Kanako era sufficientemente contenta anche senza mangiare mandarini o bere gassosa. Pensava che nulla potesse aumentare la sensazione di gioia e felicità che provava in quel momento. Ma se abbiamo cinquemila yen!, pensò Shunkichi, però seguì l’opinione di Kanako. In fondo non aveva davvero sete, più che altro voleva provare a spendere un po’ di quei soldi, che non avevano ancora toccato se non per comprare i biglietti del treno.

Marito e moglie scesero alla stazione di Odawara. Kanako provò un misto di disprezzo e compassione per gli altri viaggiatori che restavano sul treno. Poi con quella speciale andatura che hanno solo le persone dirette a una stazione termale per la vacanza di una notte, e che sembrava strana anche a loro, scesero una scala, ne salirono un’altra, e raggiunsero il treno per Hakone. Gli impiegati della ferrovia, i viaggiatori, le bancarelle, i venditori, tutto ciò che entrava nello sguardo di Kanako le sembrava avere un significato speciale e le appariva nuovo e vivace. Finalmente si sentì il tintinnio, che a lei parve incantevole, della campanella che annunciava la partenza, il corpo di Kanako ebbe un fremito di emozione, e il treno, carico di una gloria indescrivibile, si mosse alla volta di Hakone.

Quando scesero a una piccola stazione, vicina al capolinea del trenino per la montagna, era l’una. Poiché mancava circa un’ora alla partenza del primo autobus per Motohakone, pranzarono in una piccola sala da tè di fronte alla stazione. Kanako tirò fuori dal furoshiki rosso di seta Fuji il loro pranzo, contenuto in due scatole. Insieme ai norimaki vi erano fettine di zenzero rosso fresco e frittatine. Quando ebbero finito di mangiare, sbucciarono le uova sode, anch’esse bollite quella mattina da Kanako. Kanako voleva comprare le cartoline illustrate che vendevano in quel negozio, ma Shunkichi disse: «Se proprio vuoi delle cartoline, sarebbe meglio comprarle nell’albergo dove dormiremo stanotte».

«Hai ragione, magari ne avranno anche alcune con le foto dei loro bagni termali, sarebbe l’ideale».

Poiché aveva pensato alle cartoline come souvenir da portare alle vicine di casa, pensò che così avrebbe fatto più colpo, e rinunciò a comprarle lì. Shunkichi notò che negli scaffali del negozio erano allineate delle bottigliette di whisky in miniatura ed espresse il desiderio di comprarne qualcuna, ma Kanako si oppose.

«Non sciupiamo il piacere di questa sera. A cena, berrei volentieri anch’io» disse.

Alla fine in quel negozio si limitarono a pagare il tè, e andarono a prendere l’autobus per Motohakone. Il loro programma era di fermarsi a dormire in una stazione termale lungo la strada, e il giorno seguente vedere il lago di Ashi, il pomeriggio prendere un altro autobus e raggiungere Atami attraversando il passo di Jukkoku.

Dopo essere saliti sull’autobus, si resero conto che continuando così sarebbero arrivati troppo presto all’albergo dove avevano intenzione di passare la notte, perciò decisero di scendere due fermate prima e di andare a piedi fino al villaggio in cui si trovava l’albergo. Scesero in un luogo desolato, alle falde della montagna, dove non c’erano case né altro. Poi camminarono fianco a fianco lungo una strada accidentata, tutta cosparsa di pietre. La strada attraversò un bosco di criptomerie, poi improvvisamente la vista si aprì e la via prese a seguire il pendio di una dolce collina. Il vento era freddo, ma, camminando, il calore che avevano dentro si trasmetteva a tutto il corpo. I dolci raggi del sole illuminavano obliqui la strada bianca e i due viaggiatori che la percorrevano affiancati.

Superato il bosco di criptomerie, raggiunsero un punto dove la strada si biforcava. Shunkichi disse che il sentiero sulla destra, ai piedi della montagna, era la via più breve, mentre secondo Kanako la più breve era quella dell’autobus. In ogni caso le due strade probabilmente avrebbero dovuto riunirsi all’altezza del successivo villaggio.

«Tu fai quella, io prenderò l’altra» propose Shunkichi.

«Va bene, tanto arriverò prima io. La strada principale, anche con un giro un po’ più lungo, deve essere per forza più rapida» rispose Kanako.

Con un’allegra sensazione di euforia, si prepararono a quella piccola e sciocca sfida.

Quando vide la figura di Shunkichi sparire al di là del bosco di criptomerie, Kanako, come una bambina, gli gridò dietro: «Guarda che se corri non vale!». Invece fu lei a mettersi a camminare veloce, quasi di corsa. E quando finalmente giunse al punto in cui le due vie si riunivano, Shunkichi non era ancora arrivato.

Kanako si sedette su una pietra lungo il ciglio della strada e lo aspettò. Ma passarono dieci minuti, poi venti, e lui ancora non si vedeva.

Kanako cominciò a preoccuparsi e, con l’intenzione di andargli incontro, si incamminò per il sentiero da dove sarebbe dovuto arrivare Shunkichi. Proseguì per circa mezzo chilometro, ma la strada, che costeggiava i piedi della montagna, non sembrava portare da nessuna parte. Kanako tornò indietro, fino al punto dove si era fermata prima, e aspettò ancora una decina di minuti. A un tratto si accorse che si era levato un vento freddo che faceva tremare il fogliame del bosco.

«Shunkichi!».

Spaventata, in preda all’ansia, gridò in ogni direzione, la mano accanto alla bocca, con tutta la voce che aveva in gola. Quindi tese le orecchie, ma le giunse solo l’eco lontana della propria voce, e nessuna risposta.

Kanako, colta dal panico, cominciò a ripercorrere la strada da cui era venuta.

Tornò fino al punto in cui si era divisa da Shunkichi, e lo trovò lì, col bavero dell’impermeabile alzato e l’aria infreddolita.

«Si può sapere che hai fatto?» chiese seccata, sentendosi invadere allo stesso tempo dal sollievo e dalla rabbia.

«Tu piuttosto, che hai fatto?».

Anche Shunkichi dal tono della voce sembrava furioso.

Ma quando si spiegarono, Kanako capì che la confluenza delle due vie era alcune centinaia di metri più avanti rispetto a dove pensava, e che lei lo aveva atteso al punto di raccordo con un’altra strada.

«Sciocca che non sei altro! Per colpa tua sono sfinito» disse Shunkichi.

Non avendola vista arrivare, era tornato indietro lungo la strada dell’autobus fino a lì, e quindi aveva fatto un giro di quasi due chilometri.

«Ma se sei stato tu a tirar fuori questa stupida idea per primo. Io sono più sfinita di te!».

Anche Kanako era furiosa. Ma non potevano andare avanti così all’infinito. Una decina di minuti dopo, quell’atmosfera bellicosa si dissipò e i due ripresero il cammino, trascinando i piedi stanchi fino alla successiva fermata dell’autobus. Il pensiero che di lì a poco sarebbero arrivati all’albergo e avrebbero potuto immergersi in una vasca di acqua calda riuscì a sciogliere anche gli ultimi residui di malumore. L’albergo era stato consigliato a Shunkichi da un collega di ufficio, che lo aveva definito conveniente, ma era più lussuoso di come avessero immaginato. Dal momento in cui misero piede nel grande atrio, Kanako sentì di aver perso il suo sangue freddo.

Quando, dopo che ebbero percorso un lungo corridoio, perfettamente pulito e dal pavimento così lucido che a distrarsi si correva il rischio di scivolare, fu mostrata loro la stanza, Kanako restò ferma in piedi, il furoshiki ancora stretto fra le mani, a guardare di là dal vetro della finestra il pendio della montagna che incombeva.

Kanako non riusciva a capire a cosa fosse dovuta quella strana sensazione di inquietudine, le era chiaro solo che non si sentiva assolutamente a proprio agio.

«Qui non sarà troppo caro? Mi sembra un posto molto lussuoso» disse a Shunkichi, che se ne stava anche lui fermo accanto alla finestra.

«Ma se siamo venuti qui perché ci hanno detto che era economico...».

«Bisogna vedere che cosa si intende per economico. È talmente lussuoso».

Il tatami nuovo, lo specchio da toletta laccato, la scrivania in legno di sandalo rosso, i cuscini dalle fantasie troppo vivaci, l’elegante attaccapanni per i kimono... Kanako passò in rassegna ogni dettaglio con occhio sospettoso. Le parevano tutte cose infide, che la spiavano pronte a strapparle dal portafogli un bel po’ di banconote.

Shunkichi, intuendo la preoccupazione della moglie, generosamente disse: «Stai tranquilla, abbiamo cinquemila yen».

«Sì, di questo non mi preoccupo, ma anche se ce ne prendono la metà, è sempre tanto».

«Ma visto che siamo venuti alle terme, dobbiamo essere pronti a spendere una cifra del genere».

A queste parole, Kanako, con un’espressione seria, replicò: «A me è passata la voglia di restare a dormire».

Poi, sollevando improvvisamente il viso, aggiunse: «Senti, andiamocene! Se andiamo via subito, inventando una scusa, siamo ancora in tempo».

Non aveva neanche finito di pronunciare queste parole, che era già nel corridoio. Shunkichi non ebbe il tempo di persuaderla, non riuscì neanche a dire qualcosa.

Furono accompagnati al portone da una cameriera perplessa, e quando si ritrovarono fuori dall’albergo sulla strada, Shunkichi, che era sempre lui, provò un gran sollievo. Non se la sentì di criticare Kanako per il suo comportamento balzano. In ogni caso quei cinquemila yen custoditi nella tasca interna della giacca, che erano stati sul punto di prendere il volo, grazie a lei erano di nuovo fermi e al sicuro.

«A me sembra da stupidi, avendo avuto questa fortuna, buttarla via così per una notte in albergo» disse Kanako.

In effetti, a pensarci adesso, anche a Shunkichi sembrava una vera stupidaggine.

«Però dovremo pur dormire da qualche parte. Proviamo intanto a tornare a Motohakone» propose Shunkichi.

«Visto che non dobbiamo spendere cinquemila yen, cerchiamo qualche albergo più piccolo e grazioso» disse Kanako.

Poiché proprio in quel momento era arrivato l’autobus per Motohakone, lo presero. E una ventina di minuti dopo, il lago di Ashi, con i suoi freddi colori, si spalancava davanti a loro, grande come il mare.

«Ah, che meraviglia! Dormiamo in riva a questo lago! Con un posto così, non abbiamo bisogno di terme» disse Kanako, sgranando gli occhi.

Ma quando furono scesi dall’autobus, Shunkichi si sedette per un po’ nella sala d’aspetto, e guardando gli orari degli autobus si accorse che ce n’era ancora uno. Il pensiero che, se lo avessero preso, avrebbero potuto tornare a Tokyo quella sera stessa gli balenò in un angolo della mente, poi subito lo sentì espandersi, come un banco di nubi che si diffonde rapido nel cielo. La preoccupazione per i cinquemila yen custoditi nella sua tasca, risvegliata da Kanako, si riaffacciava ostinatamente in lui.

«E se invece tornassimo a Tokyo?» propose a Kanako.

«Però mi sembra un peccato. Dopo aver fatto tutta questa strada!».

Sembrava che aver visto il lago avesse mutato l’umore di Kanako, che appariva molto più rilassata.

«Ma in fondo ormai non ci resta che cenare e dormire» disse Shunkichi.

Ormai si era convinto che perdere stupidamente diverse banconote solo per una cena e una notte in un albergo fosse da veri imbecilli.

«In fondo hai ragione» Kanako ci pensò un poco, ma infine anche lei si persuase.

«Possiamo anche tornare» disse.

Riflettendoci, anche a lei cominciava a sembrare uno spreco ingiustificato spendere una grande somma di denaro semplicemente per mangiare e dormire. Con i soldi dell’albergo avrebbe potuto comprare della lana e degli zori. Dopo circa mezz’ora di attesa, l’ultimo autobus li avrebbe portati al treno per Odawara. Lì avrebbero trovato la coincidenza per Tokyo, dove sarebbero giunti intorno alle undici.

Una volta che ebbero deciso questo programma, il cuore di entrambi fu invaso da una sensazione di grande allegria. In un ristorante vicino si scaldarono con due scodelle di udon, quindi si incamminarono lungo il molo, che sporgeva sul lago, dal quale partivano i battelli a vapore.

Sul lago avvolto nell’oscurità non c’era nemmeno una barca, la superficie dell’acqua appariva buia, fredda, e la sua fitta rete di increspature ondeggiava al vento. Il sole era tramontato e l’aria si era fatta gelida. Dopo che avevano deciso di rientrare a Tokyo, Kanako non sembrava saziarsi del paesaggio intorno a loro.

«Ah, che meraviglia!» ripeteva di continuo, volgendo lo sguardo da tutte le parti. A un certo punto disse: «Chissà come sarà la temperatura dell’acqua», scese sulla riva, dove erano ancorate le barche a noleggio, si chinò e immerse la mano nell’acqua. In quell’atteggiamento Kanako sembrò a Shunkichi infantile e graziosa come una studentessa.

Kanako comprò dei panini alla crema che mangiarono insieme sull’autobus, poi, arrivati a Odawara, presero l’ultimo treno per Tokyo. Durante il tragitto, nessuno dei due parlò e si appoggiarono ai finestrini con gli occhi chiusi, i corpi stanchi come carta straccia.

Un leggero respiro accompagnò il sonno di Kanako da Odawara a Yokohama, mentre da Yokohama a Tokyo Shunkichi dormì con un russare sonoro e sfacciato. Arrivarono a casa un po’ prima di mezzanotte. Come avevano concordato, salirono le scale attenti a non fare nessun rumore.

L’appartamento che avevano lasciato la mattina, povero forse ma familiare, sembrò loro incredibilmente caldo e accogliente.

Si riempirono le pance vuote di riso freddo e tsukemono, quindi, esausti, si buttarono a dormire.

Sotto le coperte, Kanako disse a bassa voce: «Scusami per oggi, per l’albergo».

Era rarissimo che chiedesse scusa.

«Però abbiamo risparmiato diecimila yen» aggiunse.

Sembrava davvero stremata, e infatti non era passato nemmeno un istante che già era caduta in un sonno profondo.

A Shunkichi invece, forse per la troppa stanchezza, riusciva difficile addormentarsi. Mentre tentava di prendere sonno, nei suoi occhi si accendevano e si spegnevano a intermittenza solo due immagini: la strada bianca sulle falde della montagna, battuta dal vento pungente, e il colore freddo del lago. A parte quello, non gli veniva in mente nient’altro.

Poi a un tratto si accorse che il corpo di Kanako era diventato freddo come il ghiaccio. Così gelido, quasi non vi fosse più nulla da fare. Shunkichi si accostò a lei e col proprio calore cominciò a riscaldare il corpo della moglie immerso nel sonno. E per quella donna che tutto il giorno, mentre vagabondavano nelle montagne di Hakone, aveva combattuto al suo fianco senza tregua contro chissà cosa, sentì una tenerezza e uno struggimento infiniti, quali mai aveva provato prima di allora.

LA MORTE, L’AMORE, LE ONDE

Quando settembre si annuncia, a Tokyo la mattina e la sera vi è un brusco abbassamento della temperatura, e all’improvviso una fredda aria autunnale penetra nella pelle attraverso lo yukata. Ma per chi si reca nel Kishu con la linea Kiseinishi e giunge nella cittadina di K., una delle ultime stazioni, all’estremità meridionale della penisola di Kii, anche alle sette del mattino sembra di essere in piena estate: il mare che si spalanca davanti agli occhi è una distesa di puro inchiostro blu, e sotto i forti raggi del sole tutta la sua superficie scintilla come fosse cosparsa di scaglie dorate. Sugi aveva la sensazione che la stagione fosse tornata indietro di un mese.

Riconobbe subito l’hotel Nanki, del quale aveva sentito parlare la sera precedente a Katsuura, nella locanda termale dove aveva passato la notte. Prima della guerra la villa era appartenuta a un commerciante di Kobe, poi, passata in altre mani, era stata convertita in albergo, e dalla primavera di quell’anno ne appariva anche la pubblicità sui giornali. Era un’elegante costruzione di stile occidentale, che per la forma poteva a prima vista far pensare a una torta. Sebbene non fosse di dimensioni particolarmente imponenti, dava un’impressione di solidità e magnificenza, forse per la sua posizione in cima a un piccolo altopiano, con alle spalle una famosa scogliera che, secondo la leggenda, era stata in passato dimora di pirati. Da lontano, i suoi pinnacoli anticheggianti e vagamente medioevali, a volte, colpiti dal sole, luccicavano come se vi fossero incastonate delle gemme. Era una vista che non sfigurava rispetto a quella celebre della costa di Kumano, dalle acque vaste e impetuose, che le stava di fronte. Dopo che lo ebbero accompagnato nella sua stanza al primo piano, da cui si vedeva il mare, Sugi Sennosuke posò sul tavolo borsa e cappello, e subito tornò nella hall, anch’essa panoramica. Osservò la scogliera che si innalzava dritta come un paravento a tre o quattrocento metri dall’albergo. Il pendio della collina protesa sull’oceano si interrompeva bruscamente, quasi ad angolo retto, dove si levava quella gigantesca parete di roccia, la cui superficie era stata battuta e lavata per secoli, forse millenni, dal vento e dalle onde.

Nella luce del mattino, il mare era una placida distesa blu, e solo l’orlo di quell’enorme scogliera era colpito dalle raffiche bianche delle onde. Il rumore dei cavalloni che si frangevano contro le rocce arrivava fin lì dov’era Sugi. Ah, ecco il posto giusto, pensò. Il punto su cui si era posato il suo sguardo si trovava all’estrema sinistra della scogliera. Lassù crescevano diversi pini, sui quali svolazzavano dolcemente quattro o cinque piccoli uccelli marini di cui ignorava il nome.

Da lì il suo corpo sarebbe precipitato all’improvviso. Sarebbe caduto in linea retta per qualche decina di metri, poi, più o meno a metà della parete, avrebbe urtato contro alcune rocce sporgenti. Si sarebbe dimenato nel vuoto, quindi, tracciando un morbido arco, sarebbe caduto un po’ più in là, lontano dagli scogli su cui si frangevano bianche le onde, e la corrente lo avrebbe risucchiato nel suo gorgo.

È perfetto, pensò Sugi.

La sensazione di pace, di sollievo, per aver trovato finalmente un luogo dove morire che rispondesse in pieno ai suoi desideri gli diede voglia di fumare. Sugi tornò a fissare lo sguardo sul profilo scosceso di quella scogliera nerastra e, seguendolo, immaginò un piccolo corpo che cadeva, si fermava a mezz’aria, rimbalzava, quindi tornava a cadere, disegnando una curva sottile. Quel corpo sono io, si disse. Ma non provò nessuna paura, nessun brivido lo percorse. Prima di schiantarmi sulla roccia, avrò perso conoscenza. Ci sarà solo la linea descritta da un corpo inanimato, da un oggetto che cade. Il tuffo nella morte possiede la purezza geometrica, la luminosa chiarezza di una gara sportiva. Bene, è deciso, pensò. Tornato in camera, Sugi si guardò intorno per esaminare il luogo in cui avrebbe trascorso i tre giorni che lo separavano dal suicidio. Accanto alla stanza principale ce n’era un’altra più piccola. Nella più grande tutto, dal letto alle lenzuola, al tavolo, alle sedie, appariva pulitissimo, e anche il materasso era comodo. Quella accanto era una sala da bagno. Aveva due grandi finestre, una a sud e una a est, e da entrambe si vedeva il mare. Un avviso informava che vi era acqua calda solo la mattina e la sera a orari stabiliti, ma per lui poteva bastare. Provò ad aprire i rubinetti del lavandino e della doccia: l’acqua era più fredda di quanto immaginasse. Mah, dopo la guerra non si possono pretendere da un albergo giapponese troppe comodità, pensò. Il boy che lo aveva accompagnato nella stanza poco prima ritornò. Aveva ancora l’aria di uno studente. Immaginò che facesse quel lavoro solo durante l’estate, per mantenersi agli studi. Glielo chiese e il ragazzo rispose che in effetti era così: voleva iscriversi all’università a Tokyo, e lavorando si preparava per sostenere gli esami di ammissione.

«Ci sono altri clienti?».

«È arrivata una persona proprio ieri».

«Se avete solo due clienti, gli affari non vanno troppo bene».

«Quattro, cinque anni fa l’albergo era stato aperto con l’idea di attirare soprattutto i turisti stranieri, ma in effetti al momento i clienti non sono molti».

Mentre parlavano, Sugi compilò rapidamente con la stilografica il modulo che il ragazzo gli aveva dato.

 

Cognome e nome:Sugi Sennosuke
Età:37 anni
Professione:Presidente dellaSugi, Società commerciale
Durata prevista del soggiorno:3 giorni
Indirizzo:Omori san’oShinagawa-kuTokyo
Scopo del viaggio:. . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

«Bisogna scrivere anche lo scopo del viaggio?» chiese, fermando la penna.

«No, non è necessario.

C’è questa voce, ma non occorre che la riempia» disse.

Quindi aggiunse: «Sono appena passato dall’altra stanza a portare questo modulo, e anche lì mi hanno chiesto la stessa cosa».

Così dicendo, il ragazzo mostrò a Sugi il foglio che aveva in mano.

«Secondo lei questo è francese? Forse l’altra persona l’avrà scritto in lingua straniera perché non aveva voglia di rispondere alle domande».

«Francese?».

«Be’, inglese non è».

Sugi prese la carta, e osservò la grafia bella e minuta dell’altro cliente dell’albergo. Era la scrittura di una donna.

 

Cognome e nome:Tsujimura Nami
Età:23 anni
Professione:. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Durata prevista del soggiorno:2 giorni
Indirizzo:KoenjiSuginami-kuTokyo
Scopo del viaggio:mors

 

Sugi trasalì, MORS. Questo non è francese, è latino, pensò. E il significato è chiaro: morte. Significa morte. Sugi era turbato. Poiché appena un attimo prima si era sentito in dubbio se scrivere, quale scopo del viaggio, «morte», era come se le sue intenzioni fossero state messe a nudo.

«È una signora molto giovane, no?».

«Già».

«C’è scritto “viaggio”. Significa “viaggio”» spiegò.

Dopo che il ragazzo si fu allontanato, Sugi continuò a riflettere. Gli sembrava evidente che qualcun altro, oltre a lui, aveva scelto quell’albergo ed era arrivato fin lì, avendo come obiettivo la morte. Ma il pensiero non gli procurò nessuna emozione particolare. Non provò nemmeno la curiosità di vedere che tipo fosse quella donna. Il suicidio di un’altra persona era qualcosa che non lo riguardava, simile al formarsi di una nuvoletta o al frangersi di una piccola onda, un evento lontano e staccato da lui, alla pari di un qualsiasi fenomeno della natura. Non aveva nessuna voglia di interessarsi a problemi altrui. Quando era stato bocciato al liceo, alla notizia che anche altri studenti avevano subito la stessa sorte, era rimasto del tutto indifferente. Il suo stato d’animo attuale non era diverso. Se una persona doveva morire, morisse pure. Proprio come toccava a lui. A Sugi ormai non importava più nulla. La sua indifferenza era assoluta. Sugi pranzò nel ristorante a piano terra dell’albergo, un po’ prima dell’orario consueto. Dall’inizio di quel viaggio, la mattina si svegliava stranamente presto. Fino allora era abituato a dormire otto ore a notte, ma da quando aveva lasciato il lavoro e aveva preso la decisione di uccidersi, per qualche ragione gli erano sufficienti cinque ore di sonno per avere la mente abbastanza fresca; e inoltre si svegliava in modo naturale. Così anche quella mattina, nell’albergo di Katsuura, si era alzato alle cinque e, dopo aver fatto colazione, sebbene non ci fosse nessuna ragione di affrettarsi, aveva preso il primo treno. Era arrivato a K. che erano le sette e poi era venuto subito, direttamente, all’albergo. Sentiva una gran fame. Forse perché aveva fatto colazione molto presto, gli sembrava di non poter aspettare oltre per il pranzo. Finito di mangiare, Sugi, bevendo il caffè, guardava in lontananza la scogliera attraverso le porte a vetri. Pensò che più tardi o l’indomani sarebbe andato lì per un sopralluogo. Neanche di ciò aveva gran voglia, ma conservava un ultimo barlume di interesse per quello che sarebbe stato l’ultimo gesto della sua vita. Almeno questo devo farlo, si disse. Rientrato in camera, tirò fuori dall’elegante borsone di pelle un libro scritto in lingua straniera. Era il Viaggio in Oriente di Willem van Ruysbroeck, che aveva preso in prestito da una biblioteca universitaria di Tokyo. Si trattava dell’edizione inglese, tradotta dal latino nel 1900. Vi era un foglietto di carta infilato tra le pagine a un terzo del libro. Fra oggi e domani credo che riuscirò a finirlo, pensò. A lettura conclusa, non ci sarebbe stato più niente da fare in questo mondo per Sugi Sennosuke. Arrivato all’ultima pagina, avrebbe richiuso il libro di scatto. Sarebbe uscito dalla stanza e si sarebbe incamminato in direzione della scogliera. La morte lo attendeva. Per un attimo la propria immagine di spalle in quel frangente attraversò la coscienza di Sugi, ma subito la dimenticò e fu trascinato con forza irresistibile in quello straordinario mondo di cronache storiche, in un vortice dove roteavano croci cristiane del XIII secolo, astrologia, tende mongole, il lago Balchas, tartari, morte, fame, avventura e spiriti nobili.

 

Quando quella sera entrò nella sala ristorante e si sedette al tavolo accanto alla finestra, il boy si avvicinò a lui e disse: «Mi scusi, signore, ma visto che siete solo in due, gradirebbe forse dividere il tavolo con l’altra nostra cliente?».

«Non ho nulla in contrario» rispose Sugi.

Avevano appena finito di apparecchiare di fronte a lui, che arrivò la giovane donna.

«Posso?».

«La prego» disse Sugi, e per la prima volta girò lo sguardo verso colei che come scopo del suo viaggio aveva indicato «morte».

Era certo di ricordare che in quel modulo, accanto all’età, era scritto «23», ma il suo atteggiamento composto e leggermente altezzoso, che non prendeva nota della presenza di lui, la faceva sembrare più vecchia di almeno due o tre anni.

Le sue pupille nere, splendenti, incorniciate da lunghe ciglia, contemplavano il mare dalla finestra alle spalle di Sugi. Non un solo fremito delle palpebre turbava la fissità del suo sguardo, e aveva un’espressione un po’ indisponente, ma era quel che si dice una bella donna, o meglio una bella ragazza. Sugi incominciò a mangiare la minestra che nel frattempo era stata servita. Poco dopo, il suo piatto era vuoto, ma la donna stava ancora fissando il mare. Gli occhi brillavano, ma quando il ragazzo arrivò con la portata successiva, e lei restò immobile, senza neanche accorgersi di lui, Sugi capì che non vedevano nulla. La morte, ecco cosa guarda, soltanto la morte, pensò.

Quando ebbe finito anche il terzo piatto, per la prima volta Sugi rivolse la parola alla sua compagna, che secondo il modulo da lei compilato si chiamava Tsujimura Nami.

«Signorina, il suo piatto si raffredda».

Subito voltò lo sguardo verso di lui fissandolo come stupita. Aveva una fronte ampia. I capelli folti e ondulati le coprivano la nuca. Al collo portava una piccola pietra preziosa dal luccichio freddo. Era un diamante autentico. In quel momento aprì leggermente le labbra ben disegnate come per dire qualcosa, ma le richiuse tornando ad assumere l’espressione sdegnosa di poco prima. Poi guardò per un istante Sugi che stava portando alla bocca un bicchiere di birra, e chiamò il cameriere.

«Anche per me una birra» disse, ma subito si corresse: «No, niente birra, mi porti invece un whisky con soda». Quindi prese il cucchiaio e lo portò alla bocca, con un gesto lento ed elegante.

«È un bel panorama, vero?» disse Sugi.

Non era in vena di galanterie. Ma quella giovane donna gli appariva davvero sofferente, come se persino sollevare il cucchiaio le costasse fatica, perciò uno spirito in cui il cinismo sfumava nella compassione lo spinse ad aiutarla a trascorrere in modo più lieto almeno quel suo ultimo pasto. Infatti, secondo il modulo da lei compilato, la sua permanenza sarebbe stata di due giorni, e lei aveva preso alloggio lì il giorno prima. Nel momento in cui si era accorto che la ragazza stava guardando la propria morte, Sugi aveva fatto un rapido calcolo e aveva concluso: si ucciderà stanotte.

«Sì, davvero bello» rispose la giovane donna, sollevando leggermente il viso.

Quindi posò lo sguardo sul panorama di là dalla finestra, quasi lo stesse guardando per la prima volta. E solo in quel momento, Sugi ne era certo, gli occhi di lei videro realmente la superficie del mare tingersi dei colori del tramonto. Le onde erano cessate del tutto, come se il mare dopo un lungo giorno volesse finalmente concedersi un riposo.

«Però stanotte dovrò andarmene da qui» disse la giovane donna con tono calmo.

Sugi pensò che aveva visto giusto. «Dove va?».

La domanda gli uscì di bocca in modo automatico, senza che se ne rendesse conto, e solo un istante dopo si accorse del suo significato.

«Mi perdoni, sono stato indiscreto» si scusò.

Guardò Nami, che di rimando lo guardò turbata, ma subito il suo bel viso mutò, assumendo un’espressione dura e seccata.

«E perché mai dovrebbe essere indiscreto chiedermi dove vado?».

Era un tono che non ammetteva false scuse. Sugi non rispose. Si domandò perché una persona che stava per darsi la morte dovesse essere così suscettibile, nervosa, mancare di modestia e delicatezza. Io non credo che mi comporterò in questo modo, pensò.

«Lei...» cominciò a dire Nami.

«Sì» disse lui interrompendola, e senza darle il tempo di continuare, aggiunse freddamente, e crudelmente, in un sussurro: «MORS».

Com’era prevedibile, Nami impallidì. Sugi si sentì un po’ a disagio. Arrivato a quel punto, un conflitto emotivo con una persona con la quale non aveva il minimo legame o rapporto era l’ultima cosa di cui avesse bisogno. Voleva separarsi da quella donna il più presto possibile, e rimanere solo. Sugi fece per alzarsi ma Nami, ignorando il suo gesto, gli disse con tono di sfida: «L’ha letto, vero? Il mio modulo». Sugi non rispose neanche questa volta.

Che lei muoia o viva, per me non fa nessuna differenza, ecco quello che avrebbe voluto dirle.

Girò il viso indispettita, e si alzò prima di lui. Si allontanò dalla tavola ma, fatto qualche passo, tornò indietro e gli disse: «Non desidero essere intralciata nei miei progetti».

«Non ho alcuna intenzione di intralciarla. Ognuno è libero. Libero di scegliere persino la propria morte».

«Lo pensa davvero?».

«Certamente».

«La ringrazio».

Nami inchinò un po’ la testa in un saluto formale, e questa volta si allontanò davvero, dirigendosi verso un’altra sala, separata da un paravento di legno, dove c’erano diversi divani.

Sugi, dopo essere rimasto solo, si attardò ancora un po’ a tavola. Seguì con lo sguardo Nami uscire da quella sala per ritornarvi qualche istante più tardi, probabilmente dopo aver lasciato libera la propria stanza, con una piccola borsa. Tutt’a un tratto dalla sala si udì giungere la melodia dolce e appassionata della Cumparsita. Com’era bella!

Sugi la ascoltò ammirato, e in quel mentre ebbe il presentimento che quando la musica fosse finita, la donna, come aveva detto lei stessa, se ne sarebbe andata da lì.

La musica cessò.

E accadde quanto lui aveva previsto. La giovane donna apparve al di là del paravento.

Gli occhi di Sugi, che la seguivano, e quelli di lei casualmente si incontrarono. Nami fece per andarsene, ma sembrò ripensarci e venne verso Sugi.

«La ringrazio di avermi fatto compagnia nella mia ultima cena. È possibile che domani un mio conoscente si presenti qui a chiedere di me. Gli ho mandato un telegramma di addio. Se dovesse venire quando lei è qui le chiederei la cortesia di dargli questa» disse, e porse a Sugi una rosa rossa artificiale.

«E se invece non si facesse vedere?» chiese Sugi.

«In questo caso sia così gentile da gettarla via».

«Se mi autorizza a buttarla, allora va bene».

Sugi prese in mano quella rosa artificiale, la rigirò due o tre volte fra le dita e, con un gesto automatico, se la portò al naso. Poi, rendendosi conto che un fiore artificiale non poteva avere nessun odore, guardò il viso di Nami e suo malgrado gli sfuggì una piccola risata. Nami non lo imitò. Forse interdetta da quella risata, gli volse bruscamente le spalle, dicendo: «Se vuole guardarmi dalla finestra, non ho niente in contrario».

Quindi si avviò subito in direzione della porta, e uscì dalla sala senza più girarsi verso di lui.

Sugi capì che se ne era andata così perché aveva mal interpretato il suo ridere. Probabilmente l’aveva percepito come un segno di disprezzo. Ma riflettendo che una cosa del genere doveva avere poca importanza per una donna in procinto di togliersi la vita, il rimorso che lo aveva assalito si dileguò in fretta. Sugi prese la rosa rossa artificiale e lasciò la sala. Nel giardino interno, al primo chiarore lunare i bianchi fiori d’altea erano sparsi come fogli di carta straccia fra gli arbusti che sembravano scope piantate nel terreno per il manico. Sugi si trattenne un po’ a guardare la scena, poi salì la scala, in bagno si lavò la faccia rossa per la birra, quindi entrò nella sua stanza.

Si ricordò di aver lasciato in bagno la rosa artificiale che aveva appoggiato su una mensola, tornò a prenderla e la mise sul tavolo.

Gli vennero in mente le ultime parole dette dalla donna e allora, accesa una sigaretta, scese nella hall, e da lì guardò il lato della spiaggia illuminato dalla luna. Si vedeva una piccola figura camminare verso la parte a sud est della scogliera. Dal vestito azzurro pallido si capiva che era Nami.

Probabilmente cammina convinta che io le stia guardando la schiena; che cosa sciocca, pensò Sugi.

La spiaggia era immersa in una lieve oscurità. Una tranquilla sera d’estate sulla costa di kumano, quando sembra che niente debba accadere. E invece forse la vita di una giovane donna sta per spegnersi. Nello spazio di pochi istanti... Una sensazione triste, diversa dal sentimentalismo, serrò il cuore di Sugi. Se una persona vuole morire, perché non dovrebbe? Anch’io presto morirò. Sugi tornò nella sua stanza, accese la lampada sulla scrivania e aprì il Viaggio in Oriente che era posato lì. Come aveva fatto la giovane donna poco prima, con la musica della Cumparsita, Sugi si immerse nell’anima di quel viaggiatore di un’epoca lontana. Gli restavano quaranta pagine. Rispetto a un romanzo, si leggeva più lentamente. Ma non erano passati neanche cinque minuti che Sugi era rapito, corpo e anima, dalle strane usanze del popolo mongolo nelle regioni occidentali della Cina durante il XIII secolo.

 

Per Sugi, la vita sembrava essersi consumata nel dissipare l’enorme fortuna che aveva ereditato dal padre, un illustre banchiere la cui abilità era lodata dall’intero mondo finanziario.

Certo, in quei trentasette anni si inseriva la fase di grande sconvolgimento causato dalla sconfitta del Giappone, che aveva sradicato e messo a soqquadro tutti i valori, ma prima della fine della guerra Sugi aveva già quasi sperperato una fortuna grande come una montagna, operazione che si riteneva difficilmente realizzabile perfino da un paio di eredi inetti. Più che stupirsi, c’era da rimanere ammirati che fosse riuscito ad arrivare a tanto.

Eppure non aveva peccato in prodigalità. E del resto non si trattava di un patrimonio tale da potersi distruggere neanche mantenendo dieci o venti concubine, o dandosi a stravaganze da miliardari. Inoltre, Sugi poteva forse avere una o due amanti nascoste nell’ombra, ma non aveva nessuna donna ufficiale. Anzi, non aveva nemmeno moglie e figli.

La sua vita da scapolo non era dovuta a una scelta precisa. Vivere da solo non gli aveva procurato particolari disagi e così, come per inerzia, era arrivato a trentasette anni senza farsi una famiglia. Si era reso conto tardi che i suoi compagni di università, quasi si fossero messi d’accordo fra loro, avevano tutti due o tre figli, mentre lui - chissà come - viveva da solo nella sua grande dimora.

Se in questo modo Sugi era riuscito a dilapidare un grande patrimonio era stato, per dirla in sintesi, a causa della sfortuna. Non si poteva nemmeno affermare che lui fosse di natura poco versato per il lavoro di imprenditore. Soltanto, qualunque cosa facesse, gli andava male: la fortuna gli era stranamente avversa.

Con l’energia della giovinezza, si era cimentato in ogni campo, dalla costruzione delle navi alla produzione di cosmetici all’industria farmaceutica. I magnati della finanza lo tenevano d’occhio: se avesse avuto successo, avrebbe potuto creare un grande scompiglio. Ma tutte le sue imprese, senza eccezione alcuna, fallivano. Tutte le cose a cui si dedicava, grandi o piccole che fossero, si risolvevano in un fiasco. La sfortuna lo accompagnava sempre. La sorte giocava con lui in modo bizzarro.

Poi, quando del suo ingente capitale non vi era ormai quasi più traccia, la guerra finì e portò via anche quegli ultimi brandelli rimasti attaccati all’osso.

Eppure, persino a quel punto qualcosa avanzava: poca roba, ma messa insieme ammontava ancora a una discreta somma. Nessuna ispirazione divina aveva avvertito Sugi che era il momento di investirla tutta al più presto, ma lui volle giocare la sua ultima carta per tentare una rinascita, lanciandosi nel campo delle miniere di carbone. La sua colpa fu di non tener conto dell’ammonimento paterno: «mai avere a che fare con la speculazione», e ancora una volta fu un penoso fallimento.

Per un anno circa si diede da fare alla ricerca di finanziamenti nel tentativo di restituire vigore a quest’impresa, ma ormai il sipario stava per calare sulla vita di continui fallimenti di Sugi Sennosuke.

Ci fu un grande scandalo, legato alla corruzione di un funzionario, e ciò di colpo segnò la fine di ogni sua speranza. Già da tempo in segreto le indagini si erano estese alla sua persona, e nessuno meglio di lui conosceva la gravità della situazione. I giacimenti di carbon fossile nella montagna di sua proprietà non erano di dimensioni ragguardevoli, ma a suscitare le preoccupazioni di Sugi erano altri aspetti nascosti dell’affare. Sebbene non avesse contratto forti debiti, aveva agito da intermediario in alcune transazioni, e in un caso particolare, nel quale era stato costretto ad assumere questo ruolo, vi era materiale sufficiente a riempire le prime pagine dei giornali.

Quando capì che per lui non c’era più via di scampo, optò senza troppa difficoltà per la morte. Sebbene non si potesse definire un genio della finanza, l’onestà e l’integrità di Sugi come giovane imprenditore, insieme alla sua buona educazione, erano altamente apprezzate nel mondo degli affari. Il suo nome evocava un senso di pulizia. Il pensiero che la sua reputazione sarebbe andata in pezzi con estrema facilità, e l’ignominia sarebbe rimasta attaccata al suo nome come un marchio, gli era semplicemente intollerabile.

Una volta presa la decisione di morire, non gli restava molto da sistemare. Non aveva moglie né figli né fratelli del cui futuro doversi preoccupare. Il proprio capitale lo aveva consumato tutto. Al suo arresto, sarebbero venute alla luce le cifre in rosso dell’impresa, nulla di più. Quando aveva deciso di uccidersi, Sugi si era domandato se gli restasse qualche rimpianto, ma l’unico a venirgli in mente era non aver portato a termine, ai tempi del liceo, la lettura di un’opera affascinante come il Viaggio in Oriente di Ruysbroeck.

Lui stesso era stupito, nelle circostanze in cui si trovava, di aver pensato proprio a quel libro, ma una volta che gli fu tornato in mente lo assalì una nostalgia così intensa da indurlo a chiedersi piuttosto perché avesse potuto dimenticarlo tanto a lungo. Era come se la decisione di uccidersi avesse spinto Sugi a mettere totalmente da parte la vita di società vissuta fino ad allora, riportandolo di colpo allo spirito dei suoi vent’anni, quando studiava alla Scuola superiore. Il giorno della sua partenza da Tokyo aveva chiesto a un amico, professore di sociologia all’università, di prendere per lui in prestito il libro dalla biblioteca. Finito di leggerlo, glielo avrebbe rispedito, e questo sarebbe stato l’ultimo atto di una vita che, a pensarci adesso, gli appariva frenetica ma insignificante. A Kyoto vide il giardino di muschio del Saihoji, altra pietra miliare dei suoi ricordi di studente, poi passò per Wakayama, raggiunse Osaka e lì prese il treno della linea Kiseinishi.

L’aver scelto il Kishu come luogo della propria morte non dipendeva da una ragione particolare. Era solo perché ricordava di aver letto su un giornale, o in un libro, che la corrente detta Kuroshio portava lontano, non si sapeva dove, i cadaveri dei suicidi per annegamento. Passò una notte a Shionomisaki e una a Katsuura. A Shionomisaki seppe dal padrone dell’albergo che la maggior parte di coloro che si toglievano la vita gettandosi in mare erano coppie di innamorati, e ciò per qualche ragione gli fece passare la voglia di morire. Gli diede fastidio anche il fatto che sulla spiaggia ci fossero molti scogli. Non gli piaceva immaginare che il suo cadavere andasse a schiantarsi lì.

A Katsuura, dalla finestra al primo piano dell’albergo, si vedevano moltissimi pescherecci che solcavano il mare come barche giocattolo. Il rumore dei motori risuonava nella baia per l’intera giornata. Era un luogo che faceva pensare alla vita, non alla morte.

Arrivato nella cittadina di K, per la prima volta Sugi sentì di aver trovato un posto di suo gradimento dove morire. Sulla lunga spiaggia ricoperta di sassolini non c’era ombra di essere umano. Sul mare agitato non si vedeva nemmeno una barca. E guardando il colore del mare, blu e di una profondità senza limite, gli parve che niente, una volta entrato nel suo abbraccio, sarebbe mai potuto risalire a galla.

 

Sugi posò il Viaggio in Oriente aperto e capovolto, e si alzò.

Aveva sentito un rumore diverso da quello delle onde. Aprì la finestra e infatti vide che pioveva. L’aria della sera, fredda e umida, penetrò nella stanza portando con sé l’odore della spiaggia. Guardò l’orologio: erano le nove e mezza. Richiuse la finestra, si cambiò per la notte, accese una sigaretta, si sedette su una seggiola, e in quel momento ebbe l’impressione che qualcuno avesse bussato.

Tese l’orecchio, ma non sentì nulla. Tuttavia, dopo qualche istante sentì, questa volta con chiarezza, due tre colpi alla porta.

Andò alla porta, chiese: «Chi è?» e al contempo girò la maniglia e aprì.

Lì dietro, fermo nell’ombra, c’era qualcuno che sembrava volersi nascondere.

«Chi è?» ripeté Sugi.

«Sono io» rispose una voce esile. «La prego, non guardi, sono nuda. Ho solo una sottoveste».

Poi scoppiò in lacrime. Continuò a piangere per un po’, e infine disse: «Non ce l’ho fatta a morire».

La sua voce, tremante e priva d’energia, risuonò accusatoria all’orecchio di Sugi. Pur pensando di essere indiscreto, afferrò la donna, ferma dietro la porta, per il braccio. Aveva la pelle bagnata. Sugi sentì sulla mano le gocce che le cadevano dai capelli in disordine e intrisi d’acqua. Con entrambe le braccia le circondò le spalle e la spinse per due o tre passi nel fascio di luce che proveniva dalla stanza.

Com’è ridotta!, pensò.

Indosso aveva solo una sottoveste, inzuppata d’acqua. I capelli erano appiccicati al viso e il corpo tremava tanto che pareva in preda a convulsioni. Il cambiamento era tale che non si poteva più riconoscere in lei la giovane donna vista prima al ristorante. La testa china, le membra irrigidite, si lasciò trascinare inerte da Sugi, ma quando si rese conto di essere esposta alla luce, emise una specie di lamento «Ah!» e tentò di divincolarsi dalla sua presa. In quel momento, la collana le si ruppe e cadde.

«Stia ferma qui» disse Sugi, staccandosi da lei.

Entrato nella stanza, andò in bagno e aprì il rubinetto, ma non usciva più acqua calda. Non potendo fare altro, prese un asciugamano e tornò alla porta.

«Si asciughi con questo» disse, porgendolo alla donna.

Lei lo prese con le sue braccia bianche e sottili. Dopo qualche istante, con voce un po’ più calma, Nami disse: «Potrebbe prestarmi qualcosa da mettere addosso? Va bene tutto».

Sugi rifletté un attimo, poi tirò fuori dal suo borsone dei calzoncini corti e una camicia e glieli porse.

«Grazie» disse con una voce dolce che non sembrava appartenere alla donna del ristorante, e li prese con le sue braccia bianche e sottili.

Nami, quando entrò nella stanza - dopo aver indossato quella camicia troppo grande per lei, a cui aveva rimboccato le maniche, e i pantaloncini, anch’essi fuori misura -, aveva ripreso in parte l’atteggiamento scostante della sera. Forse a causa dei vestiti, aveva l’aria di un ragazzino.

«Non sono riuscita a morire» disse con tono di rabbia.

«Mi sembra evidente. Visto che è qui davanti a me» replicò Sugi, quindi, indicandole una sedia, aggiunse: «Si accomodi».

Lui si sedette sul letto.

Anche dopo essersi seduta, Nami continuò ad asciugarsi i capelli.

«Non è che io sia venuta meno alla mia decisione di morire. Su questo punto la prego di non fraintendermi».

«È libera di fare come crede» disse lui, mentre la tensione nei suoi lineamenti si rilassava.

«Non ho bisogno di ammonimenti o sermoni» ribatté lei.

«Anche se mi chiedesse di fargliene, me ne guarderei bene».

Sugi si sentiva meglio disposto rispetto a prima, quando erano al ristorante, e adesso la voce di lei suscitava in lui una certa tenerezza, come quella di una bambina che fa i capricci. Nami, insieme ai capelli e al viso bagnati, ogni tanto si asciugava furtivamente qualche lacrima. Sugi ne fu stranamente commosso.

«Se non avessi incontrato lei, credo che sarei riuscita a morire. Ma aver conosciuto una persona così fredda e spietata in qualche modo me l’ha impedito» disse con tono di sfida.

«Freddo?».

«Non lo è? Sapendo che stavo per uccidermi, non ha fatto niente per fermarmi, e come se ciò non bastasse, mi ha anche guardato con disprezzo! È raro trovare un uomo di tale malvagità».

Mentre lo guardava dritto negli occhi, il suo sguardo sembrava bruciare d’odio. «Non che io sia una che si lascia fermare. Però...».

«Però cosa?».

«La mia convinzione di poter andare naturalmente incontro alla morte è stata distrutta dal fatto di averla incontrata. Una persona non può morire sapendo che c’è qualcuno lì ad assistere al suo suicidio con freddezza, perfino con disprezzo».

Be’, forse ha ragione, pensò Sugi, ma credo che il mio caso sia diverso.

«Per questo sarò costretta a passare qui un’altra notte. Vorrei chiederle di prestarmi i soldi. Solo per oggi. Glieli farò restituire da mia madre. Le chiedo di lasciarmi anche questi abiti fino a domani. I miei soldi e i vestiti li ho gettati a mare. Volevo escludere ogni possibilità di tornare indietro. Poi sono rimasta due ore sotto la pioggia. Ma non ce l’ho fatta».

A questo punto Nami, incapace di trattenere il pianto, si premette l’asciugamano contro il viso. Sugi osservava quella giovane donna impegnata a soffocare i singhiozzi, come se stesse guardando qualcosa di straordinario. La sua nuca bianca come neve, coperta di un velo di rossore, quasi vi avesse passato un leggero strato di cipria, era incantevole.

«Ma perché deve morire?».

«Ho le mie ragioni per farlo».

«Immagino che ne avrà. Ne ho anch’io».

«Eh?».

Nami sollevò il viso.

Sugi si accorse che era sorta in lui, non sapeva quando, la voglia di consolare quella giovane donna.

«Anch’io morirò. E se muoio è certamente perché ne ho motivo. Ma nel suo caso può darsi che possa farne a meno. Altrimenti, non gliene importerebbe così degli altri».

«Io ho perso l’amore».

«L’amore!».

Sugi non rise, ma fece una specie di smorfia.

«Morire per una cosa simile!».

«Ah sì? E lei, allora, per che cosa muore?».

«Muoio per disonore!».

Dopo averlo detto, Sugi trasalì al suono di questa parola che aveva pronunciato per la prima volta. E pensò che nel suo caso non c’era davvero altra scelta.

«Disonore?». Nami lo guardò come se non avesse compreso bene il significato del termine, quindi disse: «Una persona che non conosce l’amore non può capire il dolore di chi lo ha perso».

Qualcosa che assomigliava a un sorriso affiorò per la prima volta sulle labbra di Nami. Era un sorriso di autoderisione, ma Sugi fu colpito dalla bellezza del suo volto.

«Vado a chiedere di nuovo la stanza. Scusi per il disturbo».

«E i soldi?».

«Me li presterà domani».

«Prestarli! Ma glieli regalo. Tutti quelli che vuole. Morirò anch’io, e non posso certo portarmeli dietro» disse Sugi.

Quando Nami fu uscita, Sugi prese l’asciugamano posato sulla sedia su cui lei si era seduta. Poi andò in bagno e lo appese. Vi era rimasto il lieve odore di un corpo di donna, un po’ troppo fragrante per essere un odore di morte.

 

Il mattino seguente, Sugi si svegliò presto come al solito.

In attesa che fosse ora di colazione, volle andare nel posto dove crescevano i pini, sopra la scogliera da cui aveva deciso di gettarsi. Indossò lo yukata e i geta con il grande marchio dell’albergo, messi a disposizione dei clienti, e calpestando la sabbia pesante, bagnata dalla pioggia della notte, si incamminò verso quel pianoro a picco sul mare. Il mare, forse perché a differenza del giorno prima il cielo era nuvoloso, era freddo e cupo, la sua superficie, densa come olio, solcata da innumerevoli piccole onde. Scegliendo a casaccio, si incamminò per un sentiero che costeggiava un piccolo tempio shintoista. Ma doveva avere imboccato proprio quello per la scogliera: la strada, cosparsa di ciottoli, proseguiva, piuttosto ripida, senza interruzioni. Arrivato in cima, una vista emozionante e grandiosa si spalancò ai suoi piedi. Poi all’improvviso fu assalito dal fragore delle onde che laggiù in basso si frangevano contro quella miriade di scogli. Il precipizio su cui si trovava era molto più impressionante di quanto avesse immaginato vedendolo dalla hall dell’albergo. Il pensiero della brutta foto che sarebbe apparsa sui giornali era il solo a dargli la forza necessaria per gettarsi da lì. Non gli sembrava ce ne fossero altri capaci di spingerlo a far volare il suo corpo da quell’altezza.

Dopo essersi impresso ben in mente la configurazione del luogo, ritornò per la strada da cui era venuto. Arrivato sulla spiaggia, si diresse verso la base della parete di roccia, dove si susseguivano infiniti scogli.

Tra uno scoglio e l’altro, il frangersi delle onde provocava dei gorghi in cui le alghe apparivano e scomparivano. Sugi restò lì per un po’ a guardare incantato la maschera che quei vortici, in un gioco solitario e superbo, disegnavano sull’acqua. Il verde smagliante, ultraterreno, delle alghe, contro la superficie brunita degli scogli, creava un contrasto di singolare bellezza.

Qui... pensò Sugi con un brivido. La visione era di un incanto quale Sugi mai aveva concepito, neppure nella fantasia. Aveva immaginato lì distesa una bella donna nuda, dalla pelle bianchissima.

Sugi non sapeva in che punto Nami intendesse gettarsi, ma in ogni caso il fatto che per darsi la morte avesse scelto proprio quel luogo dipendeva forse dalla presenza di quei letti di schiuma che si formavano tra uno scoglio e l’altro. Doveva aver pensato che fosse il luogo più bello per distendervi il proprio corpo. Sì, era sicuro che quell’angolo segreto dell’oceano avesse esercitato sulla giovane donna un fascino irresistibile. Quando si fece l’ora della prima colazione, Sugi entrò nella sala ristorante ma Nami non c’era. Chiese di lei al cameriere, il quale gli rispose: «La signorina dev’essersi svegliata, perché ha telefonato per dire che avrebbe fatto colazione alle undici, e poi credo che si sia riaddormentata».

Probabilmente gli avvenimenti del giorno prima avevano indotto in lei un sonno lungo e profondo. Sugi mise in una busta una quantità di denaro sufficiente per fermarsi in albergo almeno un mese e vi aggiunse una breve lettera, chiedendo al cameriere di consegnarla alla signorina quando fosse scesa a pranzo.

 

«Accludo il denaro. Non c’è bisogno che lo restituisca.

«Quest’oggi evitiamo di incontrarci, sia per il suo bene che per il mio. «Vorrei restare da solo e dedicarmi tranquillamente alla lettura».

 

Sugi non voleva davvero essere disturbato oltre dalla giovane donna, e l’unica cosa che desiderava, quel giorno e il successivo, era immergersi a suo piacimento in un mondo di sogno, tornando indietro di ottocento anni, in una regione disseminata di piccoli laghi a cavallo fra Oriente e Occidente. Quella sera, mentre cenava in camera, la porta si aprì in modo brusco, senza che nessuno avesse bussato, e Nami entrò di corsa. Era piuttosto pallida e disse: «Vorrei chiederle di nascondermi da lei per un po’. Lui è qui. È venuto a cercarmi».

Si interruppe, come se le mancasse il respiro. Aveva uno sguardo terribilmente vacuo.

Sugi era seccato. Sentiva di non desiderare ulteriori contatti con la donna.

«Non voglio assolutamente vederlo, quell’uomo. È venuto a cercarmi insieme a mia sorella. Non voglio vederlo per nessuna ragione al mondo. L’uomo che mi ha detto in faccia: “Non ti amo più”. Come posso incontrare un individuo del genere?».

«Be’, si sieda» disse Sugi. «Questa persona che dice di non voler incontrare è venuta all’albergo?».

«Sì. Per caso, aprendo la finestra, l’ho visto con il suo borsone blu che entrava nella hall. Subito dopo ho visto mia sorella. In gran fretta ho telefonato alla reception avvisando il portiere di non dire per nessun motivo che ero qui, e poi sono corsa da lei».

Fece una breve pausa, quindi riprese: «Quell’uomo mi ha detto che non mi ama più. Me lo ha detto chiaro e tondo, guardandomi in faccia. Dopo una cosa simile, lui...».

A quel punto Sugi smise di ascoltare. Nami continuò a lungo a parlare in una specie di delirio, ma lui non la sentiva. Sugi, fumando, guardava il mare al crepuscolo. Pensava che l’unica cosa da fare fosse lasciarla continuare, restando in silenzio finché non si fosse calmata. Poi, era trascorsa circa un’ora, Sugi notò un uomo e una donna, tutti e due giovani, scendere il sentiero lastricato di pietra, piuttosto ripido, che dal giardino dell’albergo conduceva alla spiaggia. L’uomo indossava una camicia e dei pantaloni bianchi, la donna un vestito celeste a strisce, ed entrambi avevano geta ai piedi. Vedendo quei due camminare lentamente, a braccetto, sarebbe stato ovvio per chiunque che erano una coppia di innamorati.

Solo una parte dell’ampia distesa del cielo era rossa, a sud ovest. Lì esili nuvole purpuree si susseguivano in una fila così regolare che sembrava tracciata con una riga. Anche nel mare il rosso si concentrava tutto in quel punto. A un tratto Sugi si accorse che la giovane coppia si era seduta in un punto della spiaggia, proprio di fronte alla sua finestra. Guardò meglio e gli sembrò di notare qualcosa di strano nei movimenti di quei due, ma un attimo dopo non ebbe più dubbi: erano avvinti in un abbraccio. Proprio in quel momento, Nami si alzò dalla sedia. Subito, con un gesto automatico, la mano di Sugi abbassò la tenda avvolgibile per coprire la finestra. La tenda calò con uno scatto.

Gli occhi di Nami fissarono Sugi inquisitori. Poi distolse lo sguardo e chiese, con voce pacata: «Perché ha abbassato la tenda?».

Quindi, tornando a guardarlo in viso, aggiunse, questa volta con tono freddo e provocatorio: «Cerca forse di proteggermi?».

«No, non cerco di proteggerla» rispose Sugi.

Era impossibile che Nami avesse visto fuori dalla finestra. Sugi era sbalordito dall’intuito quasi morboso di quella donna giovane e bella.

Ma fai come ti pare... pensò, e lasciò andare la mano. Con uno scatto la tenda ritornò in alto. Questa volta Sugi non guardò fuori. Maliziosamente, puntò gli occhi sul viso di Nami che guardava di là dai vetri.

Nami fissava quel punto fuori dalla finestra senza distogliere lo sguardo e senza battere le palpebre, ma la sua espressione si irrigidì impercettibilmente; poi tutt’a un tratto si portò le mani alle tempie con un gesto innaturale, le sue labbra ebbero un leggero spasmo, e all’improvviso si accasciò all’indietro. Nel contempo la sedia cadde a terra con un rumore secco.

Accidenti, pensò Sugi. Quindi sollevò Nami con entrambe le braccia e la portò sul letto. Doveva essere stata una subitanea riduzione dell’afflusso di sangue al cervello. Il volto era pallido, cereo, ma lui capì che non era niente di grave. Quella sera Sugi, chiuso il suo libro, stese una coperta sul pavimento per passarvi la notte. Prima di dormire, un po’ preoccupato si accostò a Nami per osservarla, ma vide che aveva un respiro calmo e regolare. Su quel bel viso tranquillo, si scorgevano le tracce delle lacrime, ancora umide, tra gli occhi e le orecchie. Si era appena steso sulla coperta che sentì giungere dal ristorante la musica della Cumparsita, suonata da un grammofono. Il salone era proprio sotto la sua stanza. Dalla finestra arrivavano anche le risate della giovane coppia. Sugi guardò Nami stesa sul letto. Adesso aveva gli occhi spalancati, era piegata su un fianco e fissava un angolo della stanza.

 

Durante la mattinata, l’uomo e la donna lasciarono l’albergo. Fino ad allora, Nami rimase nascosta nella stanza di Sugi.

«Quell’uomo è un seduttore. Fa il maestro di danza. Ma io ne ero innamorata. O meglio, il fatto che fosse un seduttore...».

Ora Nami si era calmata. Appariva solo molto triste e distante.

«Vedere quei due, venuti a prendere il mio cadavere, così allegri è stata una vera lezione. Fino a che non lo avranno trovato si godranno la loro gita sulla costa del Kishu. Una cosa come questa né la scuola, né mia madre, né i libri me l’avevano mai insegnata».

Guardandola Sugi capì chiaramente che la determinazione di darsi la morte, fino al giorno prima così salda in lei, adesso vacillava. Sembrava che Nami stessa non sapesse se ridere o piangere per il proprio stupido ruolo in quella vicenda. Una donna giovane e bella deve vivere, pensò Sugi. Ognuno, in qualsiasi circostanza, deve sforzarsi di vivere, solo il mio caso è diverso!

Sugi provava una certa tenerezza per Nami, divenuta docile come se lo spirito che l’aveva posseduta fino ad allora l’avesse abbandonata di colpo. Doveva vivere. Per quella ragazza non poteva esserci nessuna ragione di morire.

«Che ne direbbe se andassimo a Shingu a comprare dei vestiti per lei? Non vorrà tornare a Tokyo così?» disse Sugi.

Nami non mostrò alcuna reazione, positiva o negativa, alla proposta. Si limitò a dire, docilmente: «Le farò compagnia».

In treno fino a Shingu ci volevano circa cinquanta minuti. Sugi decise di sacrificare, in onore della sua giovane compagna d’albergo, il tempo pomeridiano dedicato alla lettura. Del Viaggio in Oriente gli mancava solo una ventina di pagine, e tra la sera e l’indomani sarebbe riuscito a finirlo. Gli sembrava che valesse la pena di dedicare alcune ore dell’ultimo giorno che gli restava prima di morire per aiutare una giovane donna a vivere.

In un negozio di abiti occidentali trovarono un vestito bianco, di qualità non eccelsa, ma che a Nami stava a pennello. Dopo averlo indossato, Nami si trasformò di colpo in una ragazzina che aveva qualcosa di fresco e selvatico. Non incombeva più su di lei l’ombra spettrale della morte, e anche l’atteggiamento ostile, troppo adulto, che aveva durante il loro primo incontro al ristorante, era svanito.

«Compriamo questa cravatta» disse Nami, fermandosi davanti a una vetrina. Sugi guardò: era una cravatta da uomo.

«A me non serve» disse.

«Vuol dire che non le serve fino a domani?».

«Esatto».

«Ma anche se è solo fino a domani, perché trascurare l’eleganza?».

A Sugi queste parole suonarono infinitamente dolci e gioiose. Acquistò la cravatta.

«Vuole che le compri delle scarpe?» le chiese.

«Sì» rispose Nami, con gli occhi che le brillavano.

«E queste calze?».

«Sì, sono belle».

«E questo fazzoletto?».

«Lo accetto».

«Quella cintura?».

«Deliziosa, starebbe bene con il vestito».

Sugi fece un acquisto dopo l’altro. Nami accettava con gioia qualunque cosa lui le offrisse. Il contrasto con il giorno prima era stupefacente.

Nel girare la città, Sugi usò con piacere i suoi soldi per lei. Per quanto spendesse, era comunque una cifra insignificante. Anzi, si sentiva insoddisfatto che quel denaro rimasto in suo possesso faticasse a diminuire.

La sera cenarono nel più grande ristorante di Shingu, e quando arrivarono alla stazione di K. l’orologio segnava le nove. Erano entrambi stanchi. Avvolti dal vento della sera, impregnato di mare, camminavano lungo la strada che costeggiava la spiaggia, diretti verso l’albergo. A un tratto Nami gli chiese: «Davvero domani si ucciderà?».

Il pensiero della morte, che per un poco Sugi aveva dimenticato, all’improvviso fu di nuovo addosso a lui, opprimente. Non rispose. Tentò di fare una risatina, ma gli mancò la voce.

La domanda di Nami coprì quella pausa: «Adesso, non c’è niente che vorrebbe?».

«No».

«L’amore?».

«L’amore poi!».

«Allora mi dica, se non è l’amore, che cos’è che desidererebbe di più?».

Il tono di Nami era quello di un bambino che vuole a tutti i costi un giocattolo. Sugi, spinto dalle sue parole, provò a chiedersi che cosa voleva davvero in quel momento. Non c’era niente in particolare che desiderasse. Se proprio dovessi dire qualcosa, sarebbe il corpo di una donna, pensò restando in silenzio. Ecco, forse l’unica cosa che desiderava era un corpo di donna, una qualunque, purché pulita e sincera, che lo aiutasse a scivolare, stanco ma appagato, in un sonno profondo.

«A che cosa pensa?» gli chiese ancora Nami. «La prego, mi dica sinceramente a che cosa sta pensando!».

Allora Sugi di colpo decise di dirglielo senza tanti giri di parole. Gli pareva che qualunque risposta le avesse dato, anche la più cruda, parlando con lei si sarebbe purificata.

«A un corpo di donna» disse Sugi.

Mentre pronunciava queste parole, gli sembrò di percepire da qualche parte una stella cadente. Con una sensazione di strana malinconia, sollevò lo sguardo verso il cielo disseminato di stelle.

Sugi si separò da Nami nel corridoio al piano terra dell’albergo, dov’era la stanza di lei.

Appena entrato in camera, andò nel bagno e fece la doccia.

Quando tornò nella stanza, la luce che ricordava di aver lasciato accesa era spenta. Sugi fece per premere l’interruttore della lampada sul tavolo, ma Nami, con una voce bassa, in un sussurro lo fermò: «Non accenda!».

Stupito, guardò in direzione della voce, e nell’oscurità, appena rischiarata dalla luce che penetrava dalla finestra dove le tende erano aperte, intravide il letto. Poi, quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, riuscì vagamente a distinguere il busto di Nami lì distesa, il candore della sua pelle.

«Torni in camera sua!» disse Sugi, e si avvicinò rapido al letto, con l’intenzione di rimproverare Nami per quello sciocco scherzo, ma quando fu a due tre passi dal letto si bloccò di colpo.

Nel vederla così, abbandonata senza riserve con i capelli folti e ondulati sparsi sulle lenzuola, con quel viso tranquillo dove non sapeva se leggere lussuria o il candore di un bambino ignaro di tutto, la pienezza candida del seno e il movimento del suo respiro, appena distinguibile nella semioscurità, Sugi, il quale viveva una prolungata astinenza, sentì come una scossa che lo fece fremere in ogni fibra.

Mentre una parte della sua coscienza percepiva con chiarezza il rumore delle onde, posò una mano sulla spalla di Nami. Sugi restò sveglio per un po’ nella fredda luce dell’alba. Nami dormiva tranquilla, non si udiva nemmeno il respiro di lei nel sonno. Ripensare alla sua espressione di poco prima, tranquilla e remota dal desiderio, come quella di una martire, gli dava una stretta al cuore. Ma il ricordo di quelle braccia fresche, bianche e sottili, che a un certo punto gli avevano circondato il collo, lo consolava un poco.

Si riaddormentò, e nel riaprire gli occhi si ritrovò solo nel letto. Nami era sparita. Sul tavolino, un foglio era infilato tra le pagine del Viaggio in Oriente.

«Penso che oggi sia meglio non incontrarci. Per il mio bene e per il suo. «Oggi vorrei riflettere con calma. Quello che le ho dato non è amore. L’ho solo ripagata per tutte le gentilezze che mi ha prodigato».

 

In effetti, Sugi non incontrò Nami per l’intera giornata.

Un’ora dopo la cena, seduto alla scrivania della sua stanza, riuscì a finire l’ultimo capitolo del suo libro, il resoconto del viaggio avventuroso del monaco Ruysbroeck dalla Francia alle lontane rive del lago Balchas, iniziato nel 1246 e durato nove anni.

Sugi, nel ritornare al mondo reale dopo essersi immerso in quel tesoro di conoscenze rivelato da un monaco appartenente a un paese e a un tempo lontani, pensò che ormai non gli restavano altri rimpianti.

La straordinaria avventura negli accampamenti mongoli vissuta insieme a quel viaggiatore che aveva preceduto Marco Polo, fra i tanti lussi che si era concesso nei suoi trentasette anni di vita, era stato l’ultimo e il più prezioso. Sugi scese nell’ufficio a pianterreno, saldò il conto, tornò in camera, posò sul tavolo la sua borsa, in cui aveva messo i circa centomila yen che ancora gli restavano, insieme a una lettera indirizzata a Tsujimura Nami, e il Viaggio in Oriente impacchettato e pronto da spedire al suo amico, professore universitario a Tokyo.

Nella lettera aveva scritto soltanto: «Sono tornato da una spedizione tra i Tartari. Adesso mi preparo a partire per un altro viaggio.

«Disponga del denaro e delle altre cose come ritiene opportuno».

Era una notte buia, ma le stelle erano bellissime. Sugi uscì dal giardino interno, prese la discesa lastricata di pietre e dopo poco si ritrovò sulla spiaggia. Non aveva così tanta paura di morire. Un uomo non può restare fermo in un punto per sempre. Come chi non ha più nessun luogo dove andare, e alla fine si limita a seguire l’unica strada che gli resta, Sugi cominciò a dirigersi verso la cima della scogliera. Dopo aver camminato un tratto si trovò sul sentiero stretto e in salita che passava davanti al tempio shintoista.

Sbucato sul pianoro in cima alla scogliera, accese alcuni fiammiferi e capì d’essere accanto al gruppo di pini che aveva visto qualche giorno prima. Appena cinque o sei passi più avanti doveva esserci una pietra piatta, del diametro di circa trenta centimetri. Se l’avesse usata come trampolino, lanciandosi nello spazio davanti a lui, tutto sarebbe finito per sempre.

Il resto è solo una questione di volontà, si disse Sugi.

Non aveva nessuna intenzione di fermarsi all’infinito lì nel buio. Diventare prigioniero di pensieri cupi e angosciosi, più di quanto già non lo fosse, gli sarebbe stato insopportabile. Avanzò di cinque o sei passi rispetto ai pini, e trovò la pietra. Tenendovi il piede sopra, estrasse dalla tasca della giacca una sigaretta e l’accese. Le sue mani tremavano tanto che non gli era facile portarla alla bocca.

Gettò la sigaretta, e mentre era fermo lì in piedi, gli apparve nella mente il bel viso freddo di Nami, dagli occhi chiusi. Nello stesso istante fu sfiorato dal pensiero che avrebbe dovuto incontrare ancora una volta Nami. Non averlo fatto gli sembrò un errore irreparabile, il più grande sbaglio della sua vita. Sugi restò lì immobile. Nella sua mente fredda e lucida vorticava qualcosa. Non gli ci volle molto ad accorgersi che era amore per Nami.

Non voglio morire!, pensò per la prima volta in quel momento. Ritornò ai pini, e si sedette, quasi accasciandosi, ai loro piedi. E allora ebbe la sensazione che lì vicino ci fosse qualcuno, e pur sapendo che era impossibile, scrutò alla sua destra nell’oscurità.

«Nami! » provò a gridare, chiamandola per la prima volta semplicemente per nome. Fu come un’espressione d’amore, sgorgata naturalmente dalle sue labbra.

Sentì allora, questa volta con chiarezza, dei singhiozzi venire dall’oscurità, quindi qualcuno si avvicinò.

«Non ho fatto niente per fermarti».

Era la voce di Nami. Sugi si alzò e, con le mani tremanti di una commozione che lui stesso non capiva, cercò il corpo di lei che si era avvicinata, e la strinse fra le braccia.

«Che cosa sei venuta a fare qui?» le chiese.

«Se ti fossi gettato, avevo intenzione di gettarmi anch’io. Se tu rinunci, rinuncio anch’io».

«Io devo morire».

«Per me non fa differenza. Ti seguirò. Posso morire, o vivere!» disse Nami in un sussurro, il viso bagnato di lacrime sepolto nel petto di Sugi. «Io devo morire» ripeté Sugi.

«Ho letto di te sul giornale, stamattina!».

«Ah».

Stranamente, quella notizia non procurò a Sugi nessuna scossa.

«Qualcuno ha detto che la fama non è che una somma di malintesi. Non vale lo stesso per il disonore? Ma se a causa del disonore vuoi gettar via la tua vita, per me va bene, non ti fermerò, come tu non hai fermato me!».

In quell’istante un pensiero che non lo aveva mai sfiorato da quando era partito da Tokyo balenò in un punto lontano, infinitamente lontano, della coscienza di Sugi: «E se tentassi di vivere?».