lunedì 11 aprile 2022

MASSA E POTERE Elias Canetti

 


MASSA E POTERE 

Elias Canetti 

LA MASSA.....
Con quest’opera Canetti rovescia lo storico processo della cultura occidentale volta a valorizzare l’individuo e rivaluta la massa, da sempre considerata un fenomeno regressivo e irrazionale. Il tentativo di questo pensatore e filosofo del 900 è quello di ribaltare l’assioma che l’individuo sia il solo portatore della ragione e la massa un veicolo di sola irrazionalità. Egli al contrario sostiene la tesi che l’individuo porta in sé la devianza patologica della gerarchia, del dominio e dell’ingiustizia mentre la massa è l’unico luogo dove l’uguaglianza originaria diventa possibile e può agire come antidoto a un individualismo sempre più dominante.

....E
IL POTERE 
Per Canetti il potere vive in una  spirale paranoica. Lo strumento e la tonalità del potere è la dissimulazione, il silenzio sulle proprie reali intenzioni, il segreto indicibile, il moltiplicarsi delle maschere, la finzione. Solo così la parola detta, quando sarà detta, avrà il peso di un’autorità senza limiti, di una sentenza senza appello. Ogni ordine è parte di questa morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Ma anche il potente vive la sua angoscia: essa è il contraccolpo della sorte, il poter perdere l’autorità e dover subire la vendetta di coloro a cui si è comandato: «sapere che tutti coloro cui si sono impartiti comandi, tutti coloro che si sono minacciati di morte vivono e si ricordano (…), questa sensazione profondamente radicata e tuttavia indeterminata, poiché non si sa mai quando i minacciati passeranno dal ricordo all’azione, questa tormentosa, invincibile e indefinita sensazione di pericolo è appunto l’angoscia del comando» 

Massa e potere: l’attualità di un’opera senza tempo

Leonard Mazzone
https://journals.openedition.org/tp/556#ftn33

13[...] Nel colloquio radiofonico con Adorno, Canetti aveva enfatizzato il ruolo svolto dai tragici eventi storici della prima metà del Novecento nella genesi della sua opera: «Le dittature che abbiamo vissuto sono composte completamente di masse, [...] senza la crescita delle masse [...] e senza la consapevole e artificiale sollevazione di masse sempre più grandi, il potere delle dittature sarebbe assolutamente impensabile. Questo è un dato di fatto dal quale sono effettivamente partito per la mia ricerca»(Canetti, Adorno Dialogo sulle masse, la paura e la morte, in Esposito, R., Oltre la politica. Antologia del pensiero «impolitico»). Questo punto di partenza reale impedì a Canetti di inaugurare e proseguire la sua ricerca nel solco di una tradizione intellettuale che aveva interpretato la ragione e il mito come avversari storici e, nel contempo, la prima come motore storico del superamento del secondo.

  • 33 Cfr. Canetti, Adorno, 1996: 150. Per un confronto fra le nozioni di «autoconservazione», «dominio» (...)

14Da questo punto di vista, Massa e potere condivide con la Dialettica dell’illuminismo un’amara consapevolezza. Lo stesso Adorno non aveva potuto fare a meno di notare come l’opera di Canetti avesse approfondito un problema da lui già affrontato in precedenza insieme a Max Horkheimer: il tema della ragione soggettiva che per auto-conservarsi finisce per intraprendere derive auto-distruttive era al centro anche della nozione di sopravvivenza, che Canetti aveva indagato mettendo in luce la natura paradossale dei suoi esiti33. A differenza di Dialektik der Aufklärung, tuttavia, il disincanto che attraversa Massa e potere non prelude a una disperazione aporetica. Pur prendendo commiato dalle speranze illuministiche, Massa e potere intende preservare la possibilità di declinare nel presente istanze emancipative storicamente soffocate dall’isolamento di individui massificati e dalla loro unione in masse complici di forme di sopravvivenza collettiva.

  • 34 Canetti, 2009: 109.

15Proprio il timore indotto dalle possibili trasformazioni avviate da alcune masse critiche, del resto, innesca una duplice reazione preventiva da parte delle strutture del potere: i cosiddetti «divieti di metamorfosi» vigenti all’interno di strutture sociali di tipo gerarchico servono a prevenire la possibile unione di individui massificati in masse critiche, isolandoli gli uni dagli altri; d’altra parte, la possibilità di una trasformazione radicale di queste gerarchie aveva da sempre suggerito ai rispettivi vertici di corrompere le eventuali protagoniste storiche del loro rovesciamento. Al cospetto dell’inedita alleanza fra masse e potere totalitario, «nulla era stato previsto, ogni spiegazione e riflessione, ogni più ardita profezia sembravano acqua fresca a misurarle con la realtà. Ciò che accadeva era inaspettato e nuovo in ogni particolare. La modestia dell’apparato concettuale che serviva da motore contrastava in maniera incredibile con la vastità degli ­effetti» (Canetti, E.(2009). Das Augenspiel. Lebensgeschichte 1931-1937 (1985), München-Wien, Hanser; tr. it., Il gioco degli occhi. Storia di una vita 1931-1937, Milano, Adelphi.)[....]


INTRODUZIONE
Nel 1922, Francoforte, lo studente diciassettenne Elias Canetti si trovò ad assistere a una manifestazione contro l’assassinio di Rathenau. Quel giorno egli sentì che la massa esercita un’attrazione enigmatica, qualcosa di paragonabile al fenomeno della gravitazione. Nel 1927, a Vienna, compiva un ulteriore passo: l’esperienza di essere nella massa, partecipando al grande corteo del 15 luglio, quando fu incendiato il Palazzo di Giustizia. La polizia sparò: novanta morti. Nelle sue memorie Canetti scriverà, a proposito della massa: «È un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l’enigma nondimeno è restato tale». Il «qualcosa» a cui qui si allude è "Massa e potere", che apparve nel 1960, dopo trentotto anni di elaborazione. Già questi elementi, queste date fanno capire quale immensa energia, concentrazione, furia si sia depositata in queste pagine. Alla lunghissima genesi dell’opera corrisponde l’estrema singolarità della sua forma. Qui non ci viene semplicemente offerta una nuova teoria da allineare alle tante già esistenti su queste due parole ossessive: massa, potere. Profondamente avverso alla coazione a spiegare, che opprime la nostra cultura, Canetti è qui riuscito nell’impresa di pensare con il massimo della precisione, ma tenendosi sempre «al margine del mondo dei concetti». Questo libro, che si presenta come una severa trattazione scientifica, è ben più di un racconto frastagliato e sanguinoso: è un vasto mito costellato di tanti altri miti, spesso dissepolti con passione da libri dimenticati nell’oscurità delle biblioteche. Prima di diventare una vistosa caratteristica delle società moderne, la massa è stata, la massa continua ad essere molte altre cose. Per avvicinarci a capirla, bisogna innanzitutto ricordare – come dice un antico testo ebraico – «che non esiste spazio vuoto fra cielo e terra, bensì tutto è pieno di schiere e moltitudini». La massa è qualcosa di esterno, ma può essere anche interna; è visibile, ma può essere anche invisibile; può uccidere, ma attrae. Massa è in primo luogo quella sterminata dei morti. Massa è il fuoco, il grano, la foresta, la pioggia, la sabbia, il vento, il mare, il denaro. Massa è la «scena psichica» dello schizofrenico. La massa, infine, non può esistere se non come contrappeso, cosmica ’paredra’, di un’altra soverchiante entità: il potere. Alla proliferazione della massa deve rispondere la tenebrosa solitudine del potente. Genghiz khan e il presidente Schreber, il sultano di Delhi e Filippo Maria Visconti spiccano nel loro molteplice delirio sul fondo di masse di sudditi, cadaveri, allucinazioni. Con l’asciuttezza vibrante di un annalista cinese, Canetti ha saldato in un tutto questa immane storia che vive in ciascuno di noi, che è iscritta nei nostri gesti elementari: afferrare, fuggire, spiare, ingoiare. La muta dei cacciatori paleolitici convive e si intreccia per sempre con i dimostranti che incendiano il Palazzo di Giustizia, con il rogo della biblioteca di Kien in "Auto da fé". Alla fine riconosciamo come dallo sluagh-ghairm, il grido di battaglia dei morti negli Highlands scozzesi, discenda e si espanda in tutto il mondo un’altra parola: lo slogan.

MASSA E POTERE

Elias Canetti 
LA MASSA
    
    

    Capovolgimento del timore
    d’essere toccati

    Nulla l’uomo teme di più che essere toccato dall’ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l’uomo evita d’essere toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall’essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell’aggredito.

    Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all’improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore. Molto di questo concetto è entrato nel duplice significato della parola angreifen (protendersi per prendere, per toccare). Vi si trovano insieme sia il contatto innocuo sia l’aggressione pericolosa, e qualcosa di quest’ultima è sempre presente anche nel primo. Nel sostantivo Angriff (aggressione) è però rimasto soltanto il significato negativo.

    La ripugnanza d’essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. Anche là dove ci troviamo vicinissimi agli altri, in grado di osservarli e di studiarli bene, evitiamo per quanto ci è possibile di toccarli. Se facciamo l’opposto, vuol dire che abbiamo trovato piacere in qualcuno; nostra è quindi l’iniziativa di avvicinarci a lui.

    La prontezza con cui gli altri si scusano se ci toccano involontariamente, la tensione con cui attendiamo quella giustificazione, la reazione violenta e a volte aggressiva se essa non giunge, il disgusto e l’odio che proviamo per il «malfattore» – anche se non possiamo essere affatto certi che sia stato lui – tutto questo groviglio di reazioni psichiche intorno all’essere toccati da qualcosa di estraneo, nella loro labilità e suscettibilità estreme, ci conferma che si tratta qui di qualcosa di molto profondo, sempre desto e sempre insidioso: di qualcosa che non lascia più l’uomo da quando egli ha stabilito i confini della sua stessa persona. Anche il sonno, durante il quale le difese sono molto minori, può essere disturbato fin troppo facilmente da un timore di questo tipo.

    Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore d’essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. È necessaria per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perché non si bada a chi «ci sta addosso». Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d’esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. Le differenze non contano più, neppure quella di sesso. Chiunque ci venga addosso è uguale a noi. Lo sentiamo come ci sentiamo noi stessi. D’improvviso, poi, sembra che tutto accada all’interno di un unico corpo. Forse è questa una delle ragioni per cui la massa cerca di stringersi così fitta: essa vuole liberarsi il più compiutamente possibile dal timore dei singoli di essere toccati. Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro. Questo capovolgimento del timore d’essere toccati è peculiare della massa. Il sollievo che si estende in essa – e di cui 
     si parlerà in un altro contesto – assume proporzioni vistose nelle masse estremamente dense.

    Massa aperta e chiusa

    Fenomeno enigmatico quanto universale è la massa che d’improvviso c’è là dove prima non c’era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D’improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos’è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza. Nel loro movimento c’è una determinazione che ben si distingue da un’espressione di semplice curiosità. Si direbbe che il movimento degli uni si comunichi agli altri, ma non si tratta solo di questo: tutti hanno una meta. La meta esiste prima che le abbiano trovato un nome ed è là dove il nero è più nero – il luogo dove la maggioranza si è radunata.

    Ci saranno parecchie cose da dire sulla forma estrema della massa spontanea. Ove nasce, nel suo nucleo essenziale, essa non è così genuinamente spontanea come appare; ma per tutto il resto, se si prescinde dalle cinque o dieci o dodici persone da cui ha avuto origine, è spontanea davvero. Da quando esiste, vuol essere di più. La spinta a crescere è la prima e suprema caratteristica della massa. Essa vuole afferrare chiunque le sia raggiungibile. Chiunque si configuri come un essere umano può unirsi a lei. La massa naturale è massa aperta: non c’è limite alla sua crescita. Essa non riconosce case, né porte, né serrature; chiunque si chiuda dinanzi a lei le appare sospetto. «Aperto» dev’essere inteso qui in tutti i sensi: la massa è aperta dovunque e in ogni direzione. La massa aperta esiste fin tanto che cresce. La disgregazione subentra non appena essa cessa di crescere.

    Poiché, infatti, d’improvviso com’è sorta, la massa si disgrega. In questa forma spontanea essa è una struttura vulnerabile. La sua apertura, che le permette di crescere, 
     allo stesso tempo la mette in pericolo. Un presentimento della disgregazione che la minaccia è sempre vivo in lei, ed essa cerca di smentirlo con un rapido incremento. Finché può, la massa accoglie in sé ogni cosa; ma proprio perché accoglie ogni cosa, essa si disgrega.

    In contrasto con la massa aperta, che può crescere all’infinito, si trova dovunque, e perciò appunto pretende interesse universale, si pone la massa chiusa.

    La massa chiusa rinuncia alla crescita e si preoccupa soprattutto della durata. Di essa spicca innanzitutto il confine. La massa chiusa si insedia. Nell’atto in cui si confina, crea la propria sede; lo spazio che riempirà le è stato assegnato, e può paragonarsi a un vaso in cui si versa del liquido e di cui si conosce la capienza. Gli accessi a tale spazio sono contati; non vi si può penetrare in un modo qualunque. Il confine viene rispettato: può essere di pietra, di solida muraglia. Forse è necessaria una cerimonia particolare per essere accolti; forse bisogna versare una certa tassa d’ingresso. Quando lo spazio è stato sufficientemente riempito, non può più entrare nessuno. Anche quando esso trabocca, la massa densa nello spazio chiuso rimane la cosa essenziale, e quelli rimasti fuori non ne fanno parte veramente.

    Il confine impedisce un incremento sregolato, ma in compenso ostacola e ritarda il deflusso. La massa guadagna in durata ciò che sacrifica in possibilità di crescita. Essa è difesa da influenze esterne che potrebbero esserle ostili e pericolose. In particolare però essa conta sulla ripetizione. È sempre nella prospettiva di ricostituirsi che la massa accetta, illudendosi, la propria dispersione. L’edificio la aspetta, è lì per lei, e fintanto che esiste i componenti della massa vi si raduneranno come sempre. Lo spazio appartiene loro anche quando subisce il riflusso, e nel suo vuoto ricorda il tempo dell’alta marea.

    La scarica

    Il principale avvenimento all’interno della massa è la scarica. Prima, non si può dire che la massa davvero esista: essa si costituisce mediante la scarica. All’istante della 
     scarica i componenti della massa si liberano delle loro differenze e si sentono uguali.

    In particolare, dobbiamo intendere le differenze imposte dal di fuori: differenze di rango, di condizione, di proprietà. Gli uomini, in quanto singoli, sono sempre coscienti di queste differenze, che pesano su di loro e li spingono con forza a staccarsi gli uni dagli altri. Ciascun uomo ha un suo posto preciso nel quale si sente sicuro, e con i gesti esprime efficacemente il suo diritto di tener lontano da sé tutto ciò che gli si avvicina. Egli sta come un mulino a vento in un’immensa pianura, pieno d’espressione e mobile: non c’è nulla fino al prossimo mulino. La vita intera, come egli la conosce, è impostata su distanze; la casa in cui egli rinserra se stesso e la sua proprietà, l’incarico che riveste, il rango cui aspira – tutti servono a creare, consolidare, ingrandire distacchi. La libertà di ogni movimento più profondo dall’uno all’altro uomo è impedita a priori. Impulsi e controimpulsi inaridiscono come in un deserto. Nessuno può avvicinarsi o mettersi all’altezza dell’altro. Gerarchie solidamente stabilite in ogni ambito dell’esistenza non permettono a nessuno, se non in apparenza, di toccare chi sta più in alto, di calare verso chi sta più in basso. Entro società diverse, queste distanze sono reciprocamente bilanciate in modo diverso. In alcune l’accento sta sulle differenze d’origine, in altre sulle differenze di occupazione o di proprietà.

    Non è il caso di distinguere singolarmente tali gerarchie. È essenziale notare che esse si trovano dappertutto, che si annidano ovunque nella coscienza degli uomini e determinano il loro comportamento verso gli altri. La soddisfazione di trovarsi più in alto degli altri nella gerarchia non indennizza della perdita di libertà di movimento. Nelle proprie distanze l’uomo si irrigidisce e si oscura. Egli si trascina sotto il peso di questi carichi e non riesce a spostarsi. Ha dimenticato d’esserseli imposti da solo, e vagheggia d’esserne liberato. Ma come potrebbe liberarsene da solo? Qualsiasi cosa facesse e per quanto grande fosse la sua determinazione si troverebbe fra altri uomini che preverrebbero i suoi sforzi. Fino a quando essi tengono alle loro distanze, egli non può avvicinarli.

    Solo tutti insieme gli uomini possono liberarsi dalle loro distanze. È precisamente ciò che avviene nella massa. 
     Nella scarica si gettano le divisioni e tutti si sentono uguali. In quella densità, in cui i corpi si accalcano e fra essi quasi non c’è spazio, ciascuno è vicino all’altro come a se stesso. Enorme è il sollievo che ne deriva. È in virtù di questo istante di felicità, in cui nessuno è di più, nessuno è meglio d’un altro, che gli uomini diventano massa.

    Ma l’istante della scarica, tanto agognato e tanto felice, porta in sé un particolare pericolo. È viziato da un’illusione di fondo: gli uomini che d’improvviso si sentono uguali, non sono divenuti veramente e per sempre uguali. Essi tornano nelle loro case separate, vanno a dormire nei loro letti. Essi conservano la loro proprietà e non abbandonano il loro nome. Non cacciano di casa i loro parenti. Non fuggono dalle loro famiglie. Soltanto con autentiche conversioni gli uomini rinunciano ai loro vecchi vincoli e ne formano di nuovi. Definirei cristalli di massa tali associazioni che per natura possono accogliere soltanto un numero limitato di membri e devono garantire la propria durata con regole ferree. Della loro funzione parleremo esaurientemente più oltre.

    La massa in quanto tale, però, si disgrega. Essa presente la propria disgregazione e la teme. La massa può sopravvivere soltanto se il processo di scarica continua su nuovi uomini che le si aggiungono. Solo l’incremento della massa impedisce ai suoi membri di tornare a strisciare sotto il peso dei loro carichi privati.

    Impulso di distruzione

    Spesso si parla dell’impulso di distruzione della massa: è la sua caratteristica più vistosa, quella che, innegabilmente, si ritrova ovunque, nei paesi e nelle civiltà più diverse. Esso è, sì, individuato e biasimato, ma non è mai chiaramente definito.

    Case e oggetti sono ciò che la massa distrugge più volentieri. Poiché si tratta spesso di cose fragili, come lastre di vetro, specchi, vasi, quadri, vasellame, si è tentati di credere che proprio la fragilità degli oggetti stimoli la massa a distruggerli. Certamente il rumore della distruzione, il frangersi del vasellame, il fracasso dei vetri, contribuiscono 
     considerevolmente ad aumentare il piacere. Sono i forti suoni di vita di una creatura nuova, le grida di un neonato. La facilità con cui si suscitano li rende ancora più graditi; tutti si uniscono nel grido, e il fracasso è l’applauso delle cose. Un particolare bisogno di questo tipo di rumore sembra manifestarsi all’inizio degli avvenimenti, quando la massa non consiste ancora di molte persone e poco o nulla è accaduto. Il rumore promette il rinforzo in cui si spera, ed è un presagio felice per ciò che verrà. Sarebbe però errato credere che l’elemento decisivo sia la facilità di rompere. Si sono aggredite delle statue di dura pietra e non ci si è dati pace finché non sono state sfigurate, rese irriconoscibili. Da cristiani sono state distrutte teste e braccia di divinità greche. Da riformatori e da rivoluzionari sono state abbattute le immagini dei santi, a volte da luoghi altissimi, a rischio della propria vita; e spesso la pietra che si cercava di spezzare era talmente dura da costringere a lasciar l’opera a metà.

    La distruzione di immagini che raffigurino qualcosa è distruzione di una gerarchia che non si riconosce più. Si violano distanze stabilite in generale, che sono evidenti a tutti e valgono ovunque. La loro rigidità era l’espressione della loro permanenza; si crede che esistano da tempo, ritte e inamovibili; ed era impossibile avvicinarle con intenzione ostile. Ora sono travolte e giacciono in rovina. In quest’atto si è compiuta la scarica.

    Ma non sempre essa va così lontano. La distruzione consueta, di cui si è parlato all’inizio, non è altro che un attacco a tutti i confini. Vetri e porte appartengono alle case: sono la parte più vulnerabile dei loro confini verso l’esterno. Quando porte e vetri sono frantumati la casa ha perso la sua individualità. Ognuno ormai può penetrarvi a piacere, e nulla e nessuno vi sono al sicuro. Si ritiene, però, che di solito in quelle case si rintanino gli uomini che cercano di escludersi dalla massa: i suoi nemici. Ma ora è distrutto ciò che li divide. Nulla si frappone più tra essi e la massa. Possono uscir fuori e unirsi a lei. Si possono andare a prendere.

    Ma c’è dell’altro. Lo stesso uomo singolo ha la sensazione di oltrepassare nella massa i confini della propria persona. Egli prova sollievo, poiché sono abolite tutte le distanze che lo rigettavano e lo chiudevano in sé. Tolto 
     il peso della distanza, egli si sente libero e la sua libertà è passar oltre questi confini. Ciò che gli accade dovrà accadere anche agli altri e lui se lo aspetta. È stimolato dal fatto che un vaso di coccio sia soltanto confine, limite. Di una casa lo stimolano le porte chiuse. Si sente minacciato da riti e cerimonie; tutto ciò che mantiene le distanze gli appare minaccioso e insopportabile. Ovunque si cercherà di riportare la massa che si è frantumata in quei recipienti prefabbricati. Essa odia le sue prigioni future, le ha sempre viste come prigioni. Alla massa nuda tutto appare come la Bastiglia.

    Il mezzo di distruzione più impressionante di tutti è il fuoco. Lo si vede da lontano e attira altra gente. Distrugge in maniera irrevocabile. Nulla dopo il fuoco rimane com’era prima. La massa che appicca il fuoco si considera irresistibile. Tutti si uniranno a lei mentre il fuoco divampa. Esso annienterà tutto ciò che le è ostile. Come si vedrà più oltre, è il simbolo
più efficace della massa. Dopo ogni distruzione, massa e fuoco devono estinguersi.

    Lo scoppio

    La massa vera e propria è la massa aperta, che si abbandona liberamente al suo impulso naturale di crescita. Una massa aperta non ha la chiara sensazione né l’immagine di quanto possa diventare grande. Non prende a modello alcun edificio che conosca e che dovrebbe riempire. La sua misura non è stabilita; vuole crescere all’infinito, e perciò le sono indispensabili sempre più uomini. In questo stato nudo la massa è più che mai appariscente. Tuttavia essa conserva qualcosa di insolito e, dal momento che sempre si disgrega, non è considerata del tutto salda. Forse la massa non sarebbe ancora considerata con la serietà che le è dovuta, se l’enorme incremento della popolazione che si riscontra ovunque e il rapido ingrandirsi delle città, tipici della nostra epoca, non avessero fornito alla sua formazione occasioni sempre più frequenti.

    Le masse chiuse del passato, di cui si parlerà più oltre, erano tutte diventate istituzioni con cui si aveva dimestichezza. Lo stato particolare nel quale si trovavano spesso 
     i loro partecipanti sembrava cosa naturale; sempre ci si radunava in vista di uno scopo preciso, religioso, o festivo o guerresco, e lo scopo pareva consacrare lo stato. Chi assisteva a una predica credeva in buona fede d’essere interessato alla predica, e si sarebbe stupito e forse anche indignato se qualcuno gli avesse spiegato che la sua soddisfazione proveniva più dal gran numero dei presenti che non dalla predica stessa. Tutte le cerimonie e tutte le regole di tali istituzioni tendono in fondo a catturare la massa: meglio una chiesa sicura, piena di fedeli, che l’intero mondo infido. Nel frequentare regolarmente la chiesa, nel ripetersi familiare e preciso di certi riti, si assicura alla massa una sorta di esperienza addomesticata di se stessa. Il susseguirsi di queste funzioni in tempi prescritti serve a compensare bisogni più duri e violenti.

    Forse tali istituzioni sarebbero bastate se il numero degli uomini fosse rimasto all’incirca lo stesso. Ma sempre più uomini percorrevano le città e sempre più in fretta è cresciuta la popolazione negli ultimi secoli. Così si manifestarono anche tutti gli impulsi alla formazione di nuove e più grandi masse, e nemmeno la direzione più esperta e raffinata sarebbe stata in grado di bloccarli in tali circostanze.

    Tutte le ribellioni contro il cerimoniale ricevuto in eredità, di cui narra la storia delle religioni, sono rivolte contro la limitazione della massa che finalmente vuole sentirsi crescere una volta di più. Si pensi al Discorso della Montagna nel Nuovo Testamento: esso ha luogo all’aperto, migliaia possono ascoltarlo, ed esso è rivolto – non può esservi dubbio – contro il limitativo affaccendarsi cerimoniale del Tempio ufficiale. Si pensi alla tendenza del cristianesimo paolino di evadere dai limiti nazionali e tribali dell’ebraismo e di diventare una fede universale per tutti gli uomini. Si pensi al disprezzo del buddhismo per l’organizzazione di casta dell’India di allora.

    Anche la storia interna delle singole religioni mondiali è ricca di avvenimenti analoghi. Troppo stretti sono sempre il Tempio, la Casta, la Chiesa. Le crociate portano alla formazione di masse d’una dimensione che nessuna chiesa di allora avrebbe potuto contenere. Più tardi, intere città divengono spettatrici delle manifestazioni dei flagellanti, le quali successivamente dilagano di città 
     in città. Ancora nel secolo XVIII, Wesley fonda il suo movimento su prediche all’aperto. Egli è ben conscio delle enormi masse dei suoi ascoltatori, e ogni tanto calcola nel suo diario quanti in quella circostanza sarebbero convenuti ad ascoltarlo. Lo scoppio fuori dai chiusi luoghi di culto significa ogni volta che la massa vuole ritrovare il suo vecchio gusto di crescita subitanea, rapida e illimitata.

    Direi di chiamare scoppio la trasformazione subitanea di una massa chiusa in massa aperta. Questo processo si ripete di frequente; non va però inteso troppo in senso spaziale. Spesso la massa sembra traboccare da uno spazio in cui si trovava al riparo nella piazza e nelle strade di una città, dove, attraendo tutto a sé ed essendo esposta a tutto, si espande liberamente. Più importante di questo processo esterno è tuttavia quello interno che gli corrisponde: la scontentezza per il numero limitato dei partecipanti, l’improvvisa voglia di attrarre, la determinazione appassionata di raggiungere tutti.

    Dalla rivoluzione francese questi scoppi hanno acquistato una forma che sentiamo moderna. Forse perché la massa si è liberata in modo così ampio del contenuto di religioni tradizionali, riusciamo da allora più facilmente a vederla nuda, si direbbe biologicamente, senza le interpretazioni e i fini trascendenti che in passato essa si faceva inoculare. La storia degli ultimi cinquant’anni si è orientata sempre più verso l’incremento di tali scoppi: le stesse guerre, divenute guerre di massa, sono comprese in esso. La massa non si accontenta più di condizioni e di promesse devote, essa vuole sentirsi sommamente nella sua forza e nella sua passione animalesche, e a questo fine torna sempre a servirsi delle occasioni e delle esigenze sociali che le si offrono.

    Importa innanzitutto stabilire che la massa non si sente mai sazia. Fin quando resta un uomo non ancora catturato da lei, essa mostra il suo appetito. Nessuno può dirlo con sicurezza, ma è molto probabile che la massa manterrebbe il suo appetito anche quando avesse assorbito in sé tutti gli uomini. C’è una qualche impotenza nel suo sforzo di durare. A questo fine, l’unica via promettente è la formazione di doppie masse: processo, in cui l’una massa si commisura sull’altra. Quanto più sono 
     vicine in forza e intensità, ambedue commisurandosi durano in vita.

    Senso di persecuzione

    Fra le vene più salienti nella vita della massa c’è qualcosa che chiameremmo forse senso di persecuzione: una particolare e irosa suscettibilità, eccitabilità, nei confronti di nemici designati come tali una volta per tutte. Essi possono fare tutto ciò che vogliono, possono essere rigidi o disponibili, impegnati o freddi, duri o miti – le loro azioni sono sempre intese come se scaturissero da un’imperturbabile malvagità, da una mentalità negativa contro la massa, da un’intenzione preconcetta di distruggerla apertamente o subdolamente.

    Per spiegare questo senso di inimicizia e di persecuzione si deve nuovamente partire dal fatto di fondo, che la massa – una volta costituita – vuole crescere in fretta. L’immagine che ci si fa della forza e della fermezza con cui essa si espande, è difficilmente esagerata. Fin quando la massa sente di crescere – ad esempio in circostanze rivoluzionarie, che partono da masse piccole ma ad alta tensione –, essa riconosce una costrizione in tutto ciò che si oppone alla sua crescita. La massa può essere dispersa con la violenza dalla polizia, ma ciò ha effetto puramente temporaneo – una mano che si caccia in uno sciame di zanzare. Essa però può anche subire una aggressione dall’interno, da chi venga incontro alle esigenze che hanno determinato la sua formazione. Dei deboli se ne staccano; altri, che stavano per unirvisi, fanno dietrofront a metà strada.

    L’aggressione esterna alla massa può solo renderla più forte. Coloro che sono stati fisicamente dispersi tendono tanto più fortemente a riunirsi. L’aggressione dall’interno, invece, è veramente pericolosa. Uno sciopero che abbia conseguito qualche risultato si sbriciola a vista d’occhio. L’aggressione dall’interno si appella a voglie individuali. Essa è considerata dalla massa un ricatto, un’azione «immorale», poiché contrasta con la sua convinzione di fondo chiara e pulita. Chiunque appartiene a tale 
     massa porta in sé un piccolo traditore, che vuole mangiare, bere, amare e starsene tranquillo. Fin quando adempie a queste funzioni tra parentesi e non ne fa troppo chiasso non glielo si impedisce. Ma da quando il suo comportamento diviene troppo palese, si comincia ad odiarlo e a temerlo. Si sa che egli ha subito le tentazioni del nemico.

    La massa è sempre una sorta di fortezza assediata, ma assediata in senso duplice: essa ha il nemico dinanzi alle mura, e ha il nemico in cantina. Durante lo scontro, la massa attira sempre più persone. Dinanzi a tutte le porte si adunano i suoi nuovi amici e chiedono impetuosamente d’essere accolti. In momenti favorevoli questa richiesta viene soddisfatta; ma essi possono anche scavalcare le mura. La città si riempie sempre più di combattenti; ma ognuno di essi porta con sé un suo piccolo, invisibile traditore, che si rifugia frettolosamente in cantina. L’assedio consiste nel tentativo di catturare le nuove reclute. Per i nemici all’esterno le mura sono più importanti che per gli assediati all’interno. Proprio gli assedianti continuano a costruire e a elevarle. Essi cercano di ricattare le nuove reclute, e se non possono affatto fermarle, fanno sì che il piccolo traditore che le accompagna raccolga sufficiente inimicizia durante il suo cammino in città.

    Il senso di persecuzione della massa non è altro che la sensazione di questa duplice minaccia. La cerchia delle mura viene costruita sempre più stretta e le cantine dall’interno sono sempre più minate. Le attività del nemico sono aperte e controllabili durante la costruzione delle mura, nascoste e subdole nelle cantine.

    Ma tali immagini coincidono solo con un aspetto della verità. Coloro che affluiscono dall’esterno, che vogliono entrare in città, non sono soltanto nuove reclute, rinforzi, appoggi, ma anche il nutrimento della massa. Una massa che non aumenta di peso è in Quaresima. Ci sono mezzi per sopravvivere alla Quaresima; le religioni hanno sviluppato in ciò grande maestria. Mostreremo come le religioni mondiali riescano a tenere con sé le proprie masse, anche senza che esse crescano in modo incisivo e violento.
    

    Domesticazione delle masse
    nelle religioni mondiali

    Religioni con pretese universali, che sono state riconosciute, modificano molto presto l’accento della loro propaganda. Dapprima esse tentano di raggiungere e di convincere tutti coloro che possono essere raggiunti e convinti. La massa che si prefigurano è universale; importa ogni singola anima, e ogni anima dovrebbe divenire loro. Ma la lotta che esse devono sostenere porta a mano a mano ad una specie di celato rispetto per gli avversari, le cui istituzioni già esistono. Esse si rendono conto di quanto sia difficile durare e considerano sempre più importanti le istituzioni che garantiscono loro solidarietà e durata. Stimolate dai loro avversari, fanno di tutto per introdurne esse stesse; e se ciò accade, queste istituzioni divengono col tempo la cosa principale. Il peso proprio delle istituzioni, che acquistano poi vita autonoma, addomestica progressivamente l’impeto della propaganda originaria. Vengono edificate chiese, in modo da accogliere i fedeli già esistenti. Si ingrandiscono con riserva e cautela, se di ciò esiste un vero bisogno. C’è una forte tendenza a raggruppare i fedeli esistenti in unità separate. Proprio perché sono ormai in molti la tendenza a disgregarsi è assai grande e rappresenta un pericolo, contro il quale occorre prendere misure.

    Per così dire, le religioni storiche mondiali portano nel sangue un presentimento delle insidie della massa. Le loro proprie tradizioni, di carattere impegnativo, insegnano loro quanto improvvisamente e inaspettatamente esse siano cresciute. Le storie delle conversioni di massa appaiono loro miracolose, e lo sono. Nei movimenti apostati, che le chiese temono e perseguitano, lo stesso tipo di miracolo si rivolge contro di esse, e le ferite che così subisce il loro corpo sono dolorose e indimenticabili. Ambedue, la rapida crescita dei primordi e le non meno rapide apostasie, mantengono sempre viva la loro sfiducia verso la massa.

    Ciò che esse desiderano è, al contrario, un gregge duttile. È consueto considerare i fedeli come pecore e lodarli per la loro ubbidienza. Essi rinunciano del tutto alla tendenza essenziale della massa, cioè alla rapida crescita. Si 
     accontentano di una passeggera finzione di eguaglianza tra i fedeli, la quale però non è mai realizzata troppo severamente, bensì con una determinata densità, mantenuta entro moderati confini e secondo una direzione ben definita. I fedeli collocano volentieri la meta a grande distanza, in un aldilà nel quale non si debba affatto entrare subito – giacché si è ancora vivi – e che ci si deve meritare con molti sforzi e con molte sottomissioni. La direzione diventa a mano a mano la cosa più importante. Quanto più lontana è la meta, tanto maggiori sono le eventualità che essa duri. Al posto dell’altro, apparentemente indispensabile, principio di crescita, si pone qualcosa di completamente diverso: la ripetizione.

    In determinati spazi, in determinati tempi, i fedeli vengono radunati e, mediante funzioni sempre uguali, posti in uno stato di massa mitigato, che li impressiona senza diventare pericoloso, ed a cui si abituano. La sensazione della loro unità viene ad essi somministrata in dosi prestabilite. Dipende da questo giusto dosaggio la durata della chiesa.

    Ovunque gli uomini si siano abituati a questa esperienza esattamente ripetuta e limitata nelle loro chiese o templi essi non possono più farne a meno. Ne dipendono come dal nutrimento e da tutto ciò che costituisce la loro esistenza. Un improvviso divieto del loro culto, la soppressione della loro religione mediante un decreto di Stato, non possono rimanere senza conseguenze. L’alterazione del loro bilancio di massa accuratamente equilibrato deve, dopo un certo periodo, portare allo scoppio di una massa aperta. Questa ha poi tutte le note caratteristiche elementari. Essa si espande rapidamente. Determina un’eguaglianza vera anziché fittizia. Si appropria di nuove e ora più sostanziose densità. Rinuncia, per il momento, a quella meta lontana e difficilmente raggiungibile, a cui era educata, e se ne pone una qui, nella vicinanza immediata di questa vita concreta.

    Tutte le religioni improvvisamente vietate si vendicano con una sorta di secolarizzazione: in un grande e inatteso scoppio selvaggio il carattere della loro fede cambia completamente, senza che gli stessi fedeli capiscano la natura di questa svolta. Essi vi riconoscono la loro fede di prima, e credono soltanto di restare legati alle loro più profonde convinzioni. Ma in realtà sono improvvisamente 
     diventati del tutto diversi, con una sensazione acuta e singolare della massa aperta che ora formano, e da cui non vorrebbero a nessun costo cader fuori.

    Panico
Il panico in un teatro, come spesso è stato osservato, è un disgregarsi della massa. Tanto più legati erano gli uomini durante la rappresentazione, tanto più chiusa la forma del teatro, esteriormente unificatrice, tanto più violento è il disgregarsi.

    Può darsi però che, per la rappresentazione stessa, non vi sia stata alcuna massa genuina. Spesso il pubblico non si sente affascinato e rimane unito solo perché si trova già lì. Ciò che il pezzo teatrale non ha provocato, lo determina in un istante un fuoco. Esso è non meno pericoloso per l’uomo che per l’animale: è il più forte e il più antico simbolo di massa.

    L’accorgersi del fuoco porta improvvisamente all’eccesso quanto nel pubblico preesisteva del senso di massa. Per il comune e inequivocabile pericolo nasce un timore comune a tutti. Per breve tempo è nel pubblico una vera massa. Se non si fosse in un teatro, si potrebbe fuggire tutti insieme come un branco di animali in pericolo, incrementando l’energia della fuga con movimenti orientati nello stesso senso. Un attivo timore di massa di questo tipo costituisce la grande esperienza collettiva di tutti gli animali che vivono in gruppo e si salvano in quanto buoni corridori.

    Nel teatro, invece, la massa deve disgregarsi nel modo più violento. Le porte lasciano passare solo una o poche persone. L’energia della fuga diventa di per sé un’energia che ricaccia indietro. Tra le file può passare solo un uomo per volta e l’uno è nettamente staccato dall’altro; ognuno siede per conto proprio, ognuno sta in piedi per conto proprio, ognuno ha il proprio posto. La distanza fino alla porta più vicina è diversa per ognuno. Il teatro normale è strutturato in modo da bloccare gli uomini, lasciando loro soltanto la libertà delle mani e delle voci. Il movimento delle gambe è limitato il più possibile.

    L’ordine improvviso di fuggire che gli uomini ricevono dal fuoco, viene così confrontato subito con l’impossibilità di un movimento collettivo. La porta, per cui ognuno deve passare, che gli sta dinanzi, che gli sta intorno, nettamente tagliata da tutto il resto, costituisce la cornice di un quadro al quale ognuno sottostà ben presto. Così la massa, appena giunta all’apice, già deve disgregarsi con la violenza. Il rovescio diviene evidente nelle tendenze individuali più violente: ci si urta, ci si colpisce, ci si calpesta selvaggiamente.

    Tanto più si lotta «per la propria vita», tanto più chiaramente si lotta contro gli altri, che ti ostacolano da ogni parte. Ti stanno davanti come poltrone, balaustre, porte chiuse, ma con la differenza che ti aggrediscono. Ti spingono di qua e di là, a loro piacere, oppure proprio dove vengono spinti essi stessi. Non vengono risparmiati donne, bambini e vecchi: non si fa distinzione tra loro e gli uomini. Ciò fa parte della conformazione della massa, in cui tutti sono uguali; e mentre non ci si sente più massa, si è pur sempre avvolti da essa. Il panico è un disgregarsi della massa nella massa. Il singolo se ne stacca e vuole sfuggire ad essa che, come insieme, è in pericolo. Ma essendo sempre inserito in essa fisicamente, deve aggredirla. Abbandonarsi ora ad essa sarebbe la sua rovina, siccome essa stessa è minacciata dalla rovina. In un momento simile egli non può sottolineare abbastanza la sua individualità. Con urti e spinte egli provoca urti e spinte. Tanto più ne distribuisce, tanto più ne riceve, tanto più sente chiaro se stesso, tanto più nitidi sono nuovamente tracciati anche per lui i confini della sua persona.

    È significativo osservare quanto la massa assuma, per chi lotta in essa, il carattere del fuoco. La massa è nata per l’apparizione inattesa di una fiamma o per il grido «Al fuoco!»; essa gioca come fiamma con chi cerca di sfuggirle. Gli uomini che questi spinge via sono per lui oggetti incendiati, il cui contatto gli è nemico e lo spaventa in ogni parte del suo corpo. Chiunque si trovi coinvolto, è contagiato da questa concezione comunemente ostile del fuoco; il modo in cui esso si espande, in cui a mano a mano si fa strada intorno, infine ti circonda interamente, corrisponde molto al comportamento della massa, che ti minaccia da ogni parte. I movimenti imprevedibili in essa, il levarsi improvviso di un braccio, di un 
     pugno, di una gamba, sono come le fiamme del fuoco che subitaneamente possono divampare da ogni parte. Il fuoco come incendio di foresta o di steppa è una massa nemica: una sensazione violenta di ciò si può ridestare in ogni uomo. Il fuoco come simbolo della massa si è inserito nel bilancio psichico dell’uomo e ne è parte inalterabile. Quell’energico calpestare gli uomini, però, che si può osservare così spesso in momenti di panico, e che sembra così insensato, non è altro che l’estinguere il fuoco calpestandolo.

    Il panico come disgregazione si può prevenire soltanto prolungando lo stato originario di unitario timore di massa. Si può provocare ciò in una chiesa che sia minacciata: si prega nel comune timore un dio comune, nelle cui mani stia la facoltà di estinguere il fuoco con un miracolo.

    La massa come cerchio

    Nell’arena si ha dinanzi una massa doppiamente chiusa. Vale la pena di esaminarla in questa singolare qualità.

    L’arena è ben delimitata dall’esterno. La si vede di lontano. La sua ubicazione nella città, lo spazio che essa occupa, sono comunemente noti. Si sente sempre dove si trova, anche se non ci si pensa. Da essa risuonano grida da lontano. Se è aperta superiormente, parte della vita che vi si svolge si comunica alla città circostante.

    Per quanto eccitanti possano anche essere queste comunicazioni, un afflusso illimitato nell’arena è impossibile. Il numero di posti che essa consente è limitato. C’è un limite alla loro concentrazione. I sedili sono disposti in modo che non ci si spinga troppo. La gente nell’arena dovrebbe star comoda. I presenti dovrebbero poter vedere bene, ciascuno dal proprio posto, senza disturbarsi a vicenda.

    Verso l’esterno, verso la città, l’arena rivolge un muro privo di vita. Verso l’interno, essa costruisce un muro di uomini. Tutti i presenti nell’arena voltano la schiena alla città. Si sono staccati dalla struttura della città, dalle 
     sue mura, dalle sue strade. Per la durata della loro permanenza nell’arena, nulla di ciò che accade in città li preoccupa. Essi si lasciano dietro la vita dei loro rapporti, delle loro regole e abitudini. Il loro stare insieme in gran numero è assicurato per un certo periodo; l’agitazione è stata loro promessa – ma a una condizione davvero determinante: che la massa si scarichi verso l’interno.

    Le file sono poste l’una sopra l’altra, in modo che tutti vedano cosa sta succedendo in basso. Ma la conseguenza di ciò è che la massa sta seduta dinanzi a se stessa. Ognuno ha dinanzi a sé mille uomini e mille teste. Fin quando lui c’è, ci sono tutti. Ciò che lo agita, agita anche loro, ed egli se ne accorge. Essi stanno seduti a una certa distanza da lui; le particolarità che altrimenti li distinguono e li fanno individui, si smussano. Divengono tutti assai simili, e si comportano in modo simile. Egli percepisce in loro solo ciò che ora riempie lui stesso. La loro visibile agitazione accresce la sua.

    La massa che così si mette in mostra di per se stessa, non è interrotta in alcun luogo. L’anello che essa forma è chiuso. Nulla le sfugge. L’anello di volti affascinati gli uni sopra gli altri ha qualcosa di stranamente omogeneo. Esso comprende e contiene tutto ciò che accade in basso. Nessuno lo perde d’occhio, e nessuno vuole andarsene. Ogni vuoto in questo anello potrebbe ricordare il disgregamento, lo scioglimento successivo. Ma non ve n’è alcuno: questa massa è chiusa verso l’esterno e in se stessa, dunque in modo duplice.

    Le qualità della massa

    Conviene riassumere brevemente le qualità della massa, prima di tentare una classificazione. Bisogna mettere in evidenza i seguenti quattro aspetti:

     

    1. La massa vuol sempre crescere. Per la sua stessa natura, non c’è limite alla sua crescita. Dove tali limiti vengono posti artificialmente, cioè in tutte le istituzioni che servono a conservare masse chiuse, uno scoppio della massa è sempre possibile e di volta in volta avviene. Non 
     esistono istituzioni che possano prevenire una volta per tutte l’accrescimento della massa e siano incondizionatamente sicure.

     

    2. All’interno della massa domina l’eguaglianza. Essa è assoluta e indiscutibile, e non è mai posta in questione dalla massa stessa. La sua importanza è talmente fondamentale che lo stato della massa potrebbe essere addirittura definito uno stato di assoluta eguaglianza. Una testa è una testa, un braccio è un braccio: non sussistono differenze fra loro. Per questa eguaglianza si diventa massa. Si ignora qualunque cosa che potrebbe distrarre da ciò. Tutte le pretese di giustizia, tutte le teorie egualitarie, traggono energia in fin dei conti da questa esperienza di eguaglianza che ognuno deriva dalla sua conoscenza della massa.

     

    3. La massa ama la concentrazione. Essa non può mai essere troppo concentrata. Non dovrebbe esserci nulla di mezzo, non dovrebbe essere interrotta da nulla; possibilmente tutto dovrebbe essere essa stessa. Essa ha la sensazione della massima concentrazione all’istante della scarica. Sarà poi possibile determinare e misurare più precisamente questa concentrazione.

     

    4. La massa ha bisogno di una direzione. Essa è in movimento, e muove verso qualcosa. La direzione comune a tutti gli appartenenti rinforza la sensazione di eguaglianza. Una meta, che sta al di fuori di ogni individuo e diventa la stessa per tutti, spinge di sotterra le mete private, dissimili, che sarebbero la morte della massa. Per la sua durata, la direzione è indispensabile. La paura del disgregamento, che sempre vive in essa, rende possibile orientarla verso qualunque meta. La massa esiste fin quando ha una meta non ancora raggiunta. – Ma persiste ancora in essa una oscura tendenza a muoversi che porta a formazioni superiori e nuove. Spesso non è possibile predire la natura di queste formazioni.

     

    Ciascuna delle quattro qualità che abbiamo osservato può esistere in misura maggiore o minore. A seconda che si metta a fuoco l’una o l’altra di esse, si giunge a una classificazione diversa delle masse.

    Abbiamo parlato di masse aperte e chiuse, e abbiamo anche spiegato che questa classificazione si riferisce alla loro crescita. La massa è aperta fin quando la sua crescita non è bloccata, ed è chiusa da quando la sua crescita viene limitata.

    Un’altra differenza, di cui parleremo ancora, esiste fra massa ritmica e massa statica. Essa si riferisce ad ambedue le qualità successive, eguaglianza e concentrazione.

    La massa statica vive nell’attesa della scarica; ma ne ha la sicurezza e la ritarda. Essa desidera un periodo abbastanza lungo di concentrazione, per potersi preparare al momento della scarica. Si direbbe che trovi calore nella sua concentrazione e trattenga indietro finché è possibile la scarica. La genesi della massa, in questo caso, non comincia con l’eguaglianza ma con la concentrazione. L’eguaglianza diviene così meta principale della massa, cui essa infine giunge; ogni grido comune, ogni manifestazione comune, esprime poi validamente questa eguaglianza.

    All’opposto, nella massa ritmica eguaglianza e concentrazione coincidono fin dall’inizio. Tutto, qui, dipende dal movimento. Tutti gli impulsi fisici che devono essere conferiti, sono predeterminati e si trasmettono in una danza. Mediante divergenze e riavvicinamenti la concentrazione si forma coscientemente. Ma l’eguaglianza mette in evidenza se stessa. Simulando concentrazione ed eguaglianza si provoca artificiosamente la sensazione di massa. Queste strutture ritmiche sorgono rapidamente, e solo la fatica fisica mette loro fine.

    La seguente coppia di concetti, massa lenta e massa rapida, si riferisce esclusivamente alla meta perseguita. Le masse salienti, di cui si parla solitamente, che costituiscono una parte così essenziale della nostra vita moderna, le masse politiche, sportive, belliche, che ci stanno dinanzi quotidianamente, sono tutte rapide. Molto diverse da esse sono le masse religiose rivolte all’aldilà o al pellegrinaggio; la loro meta è lontana, la strada è lunga e la vera formazione della massa è spostata in un paese remotissimo o in un regno celeste. Di queste masse lente riusciamo essenzialmente a vedere solo gli affluenti, poiché gli stadi finali cui tendono sono invisibili e irraggiungibili per i non credenti. La massa lenta si raduna lentamente e colloca lontano la propria durata.

    Tutte queste forme, di cui è stata qui solo sfiorata l’essenza, richiedono un esame più approfondito.

    Ritmo

    Il ritmo è originariamente ritmo dei piedi. Ogni uomo cammina, e poiché esso cammina su due gambe toccando alternativamente il suolo con i piedi, poiché avanza soltanto quando tocca ripetutamente il suolo, nasce un suono ritmico indipendentemente dal fatto che sia intenzionale o no. I due piedi non premono mai il suolo con forza esattamente uguale. La differenza può essere più o meno grande a seconda della sizione o dell’umore personale. Ma possiamo anche camminare più rapidamente o più lentamente, possiamo correre, fermarci improvvisamente o saltare.

    L’uomo ha sempre ascoltato i passi altrui, e certo vi prestava più attenzione che ai propri. Anche gli animali avevano il loro passo ben noto. Molti dei loro ritmi erano più ricchi e percepibili di quelli umani. Gli ungulati fuggivano in branchi come reggimenti tambureggianti. La conoscenza degli animali che lo circondavano, lo minacciavano, e ai quali dava la caccia, era il sapere più antico dell’uomo. Nel ritmo del loro movimento imparava a conoscerli. La più antica scrittura che egli imparò a leggere fu quella delle orme: era una sorta di notazione ritmica, che esisteva da sempre; si imprimeva da sola nel terreno morbido, e l’uomo che la lesse vi collegò lo strepito del suo formarsi.

    Molte di quelle impronte si trovarono vicinissime in gran numero. Gli uomini che originariamente vivevano in piccole orde, potevano accorgersi anche mediante l’osservazione tranquilla di tali orme del contrasto fra il loro numero limitato e quello enorme di certi branchi. Erano affamati e sempre in cerca di preda; quanta più preda trovavano, tanto meglio era per loro. Ma volevano anche essere di più loro stessi. Il senso umano del proprio accrescimento è sempre stato molto forte. Ciò non va inteso in alcun modo come spinta alla procreazione (secondo un’espressione inadeguata). Gli uomini vogliono essere 
     di più ora, in questo determinato luogo, in questo momento. Il grande numero di un branco, cui davano la caccia, e il loro numero che avrebbero voluto fosse grande, si intrecciarono in modo particolare nel loro sentire. Essi esprimevano ciò mediante un determinato stato di eccitazione comune, che definirei massa ritmica o sobbalzante.

    Si giungeva a ciò innanzitutto mediante il ritmo dei piedi. Dove molti camminano, altri vanno insieme a loro. Passi che si sommano a passi in rapida ripetizione, danno l’illusione di un maggior numero di uomini. Essi non si allontanano di un passo, durano nella danza sempre nello stesso posto. I loro passi non si estinguono, si ripetono e durano per lungo tempo, sempre con la stessa forza e con la stessa vivacità. Essi sostituiscono con l’intensità ciò che manca loro nel numero. Se pestano il suolo più forte, suonano come se fossero di più. Essi esercitano su tutti gli uomini nelle vicinanze una forza d’attrazione che non diminuisce, fin quando non cessano la danza. Tutto ciò che vive nel loro ambito sonoro si aggiunge a loro e resta con loro. Sarebbe naturale che sempre nuovi uomini si aggiungessero a loro. Ma poiché ben presto non c’è più nessuno che possa aggiungersi a loro, essi devono crearsi l’illusione da soli, con il loro numero limitato. Si muovono come se diventassero sempre di più. La loro eccitazione cresce e degenera in parossismo.

    Ma come sostituiscono ciò che il numero crescente non può dare loro? Da un lato, è importante che ciascuno di loro faccia la stessa cosa. Ognuno pesta il suolo, ed ognuno lo fa nello stesso modo. Ognuno agita le braccia, ognuno muove la testa. L’equivalenza degli appartenenti alla massa procede nell’equivalenza delle loro membra. Tutto ciò che vi è di mobile nell’uomo acquista esistenza propria, ogni gamba, ogni braccio vive autonomo. Le singole membra vengono tutte a coincidere. Sono tra loro vicinissime e spesso posano le une sulle altre. Alla loro equivalenza si aggiunge così la loro concentrazione; concentrazione ed eguaglianza divengono un’identica cosa. Infine ci danza davanti un essere unico, con cinquanta teste, cento gambe, cento braccia, che agiscono tutte precisamente nello stesso modo o con la stessa intenzione. Al colmo della loro eccitazione questi uomini si sentono davvero 
     una sola cosa, e soltanto l’esaurimento fisico li abbatte.

    Tutte le masse sobbalzanti hanno – proprio grazie al ritmo che in esse prevale – qualcosa di simile. La documentazione destinata a mettere in evidenza una simile danza proviene dal primo terzo del secolo scorso. Si tratta della Haka dei Maori della Nuova Zelanda, che originariamente era una danza di guerra.

    «I Maori si disponevano in lunga fila per quattro. La danza, chiamata Haka,1 doveva riempire di terrore e di angoscia chi la vedeva per la prima volta. Tutta la comunità, uomini e donne, liberi e schiavi, erano mescolati fra loro, senza considerazione per il loro rango sociale. Gli uomini erano completamente nudi; si erano solo appesi al corpo la cartuccera. Tutti erano armati di fucili o di baionette che avevano fissato a bastoni o a fusti di lancia. Le donne giovani, compresa la moglie del capo, partecipavano alla danza con la parte superiore del corpo nuda.

    «Il tempo del canto che accompagnava la danza veniva rigorosamente rispettato. L’agilità dei danzatori era impressionante. D’improvviso saltavano in alto perpendicolarmente, tutti insieme, come se fossero animati da una sola volontà. Nello stesso istante agitavano le armi e contraevano i volti: i lunghi capelli di molti di essi, uomini e donne, li facevano assomigliare a un esercito di Gorgoni. Ricadendo a terra, battevano rumorosamente i piedi al suolo, tutti insieme. Questi salti in alto si ripetevano spesso e sempre più in fretta.

    «I lineamenti venivano contorti in ogni modo possibile a un volto umano, ogni nuova smorfia era puntualmente ripresa da tutti i danzatori. Quando uno di essi contrasse il volto tanto da farlo parere stretto da una vite tutti gli altri lo imitarono. Gli occhi venivano roteati qua e là – a volte se ne vedeva solo il bianco –, e sembrava che da un istante all’altro dovessero cadere dalle orbite. Dilatavano la bocca da un orecchio all’altro. Tutti insieme tiravano fuori la lingua quant’era lunga, come un europeo non sarebbe mai riuscito a fare: ne erano capaci, grazie al lungo esercizio precedente. I loro volti presentavano un aspetto terrifico; era un sollievo distoglierne gli occhi.

    «Ogni parte del loro corpo agiva separatamente: dita 
     delle mani e dei piedi, occhi, lingue, braccia e gambe. Con il palmo della mano si colpivano sonoramente sia sul seno sinistro, sia sulla coscia. Il frastuono del canto era assordante: più di trecentocinquanta persone partecipavano alla danza. Ci si può immaginare quale effetto abbia questa danza in tempo di guerra, quanto ecciti gli animi e porti al culmine l’ostilità di un gruppo contro l’altro».

    Il ruotare degli occhi e il tirar fuori la lingua sono segni di sfida e di provocazione. Ma, sebbene la guerra in generale sia cosa dei maschi, e precisamente dei maschi liberi, tutti si abbandonano all’eccitazione della Haka. La massa qui non conosce né sesso né età, né rango: tutti agiscono come uguali. E tuttavia ciò che distingue quella danza da altre con intenzione analoga, è specialmente un estremo procedere dell’eguaglianza. Sembra che ogni corpo si sezioni in tutte le sue singole parti, non soltanto in gambe e braccia – perché ciò capita spesso –, ma anche in dita dei piedi e delle mani, lingue ed occhi: ed ora pare che tutte le lingue si mettano insieme e agiscano all’unisono. Presto tutte le dita dei piedi, tutti gli occhi, si fanno uguali nella stessa azione. Gli uomini in ogni più piccola loro parte sono presi da questa eguaglianza, che sempre manifestano in un’azione dalla crescita violenta. Lo spettacolo di trecentocinquanta uomini che saltano in alto insieme, che insieme sporgono la lingua, insieme ruotano gli occhi, deve dar l’impressione di un’insuperabile unità. La concentrazione non è soltanto delle persone, ma anche delle loro membra separate. Si penserebbe che le dita e le lingue, anche se non appartenessero agli uomini, si metterebbero insieme e lotterebbero da sole. Il ritmo della Haka fa valere singolarmente ciascuna di queste eguaglianze. Nella loro crescita e insieme, esse sono irresistibili.

    Poiché tutto accade in base alla supposizione che sia visibile: il nemico guarda. L’intensità della minaccia comune costituisce la Haka. Ma poiché la danza è esistita una volta, essa si è anche accresciuta sempre più. La danza si pratica fin dall’infanzia, ha molte forme diverse e viene presentata in ogni possibile occasione. A molti viaggiatori è stato dato il benvenuto con una Haka. Dobbiamo la nostra documentazione a un’occasione simile. Se un gruppo amico si unisce ad un altro, ambedue si salutano 
     con una Haka; e la cosa è presa tanto sul serio che uno spettatore ignaro teme che possa scoppiare una battaglia da un momento all’altro. In occasione di riti funebri per un grande capo, dopo tutte le fasi di lamentazione e di mutilazione più violenta, proprie dei Maori, dopo un banchetto festivo molto copioso, tutti d’improvviso si alzano, prendono le armi, e si predispongono per una Haka.

    In questa danza, cui tutti possono partecipare, la tribù si sente massa. I Maori se ne servono ogniqualvolta sentono il bisogno di essere massa e di sembrare tale dinanzi ad altri. Nella perfezione ritmica che ha raggiunto, la Haka adempie con sicurezza al suo scopo. Grazie alla Haka, l’unità della massa non è mai minacciata seriamente dall’interno.

    Staticità

    La massa statica è compatta; un movimento veramente libero non le sarebbe affatto possibile. Il suo movimento ha qualcosa di passivo: la massa statica attende. Attende una testa, che dovrà esserle mostrata; attende parole, oppure assiste a un combattimento. Qui conta soprattutto la densità: la pressione che è sentita da ogni parte potrebbe servire agli interessati anche come misura della forza della struttura di cui ormai fanno parte. Quanti più uomini confluiranno, tanto maggiore sarà la forza di quella pressione. I piedi non hanno scampo, le braccia sono serrate, restano libere solo le teste, per vedere e per sentire; i corpi si passano impulsi direttamente l’un l’altro. Tutt’intorno si partecipa simultaneamente col proprio corpo a diversi uomini. Si sa che si tratta di più uomini; ma poiché essi dipendono anche così strettamente gli uni dagli altri, si sentono una cosa sola. Questo tipo di concentrazione prende tempo: la sua efficacia per una certa durata è costante; essa è amorfa, non soggetta ad alcun ritmo conosciuto e praticato. Per molto tempo non accade nulla, ma la voglia di agire si accumula e cresce per scoppiare finalmente in modo tanto più violento.

    La pazienza delle masse statiche forse non è tanto sorprendente 
     se si valuta correttamente il significato di tale sensazione di concentrazione. La massa quanto più concentrata è, tanti più uomini nuovi attrae. 
Sulla propria concentrazione essa misura la propria grandezza, ma la concentrazione è anche impulso essenziale per ulteriore crescita. La massa concentrata cresce nel modo più rapido. La staticità prima della scarica è un’esibizione di tale concentrazione. Quanto più a lungo essa rimane statica, tanto più sente e dimostra la sua concentrazione.

    Dal punto di vista dei singoli che costituiscono la massa, il tempo di staticità è tempo di accumulo; si mettono da parte armi e punte, di cui ci si è altrimenti muniti gli uni contro gli altri; ci si tocca ma non ci si sente stretti; la presa non è più tale, non si ha più paura gli uni degli altri. Prima della sortita, qualunque sia la direzione, si vuole essere certi di restare insieme. È un crescere insieme, per cui bisogna restare indisturbati. La massa statica non è ancora del tutto sicura della sua unità e si tiene perciò calma il più a lungo possibile.

    Ma questa pazienza ha i suoi limiti. Una scarica è infine indispensabile: senza di essa non si può nemmeno dire se una massa esista davvero. Il grido improvviso, che un tempo era solito nelle esecuzioni pubbliche quando la testa del malfattore era levata in alto dal boia, oppure il grido che oggi conosciamo da manifestazioni sportive, sono la voce della massa. La spontaneità di tali grida è della massima importanza. Grida addestrate e ripetute a distanze regolari non sono ancora segno che la massa abbia raggiunto vita propria. Esse devono, sì, condurvi; ma possono essere esteriori come i movimenti condizionati di un reparto di soldati. Di fronte a ciò il grido spontaneo, non predeterminabile, della massa, è inequivocabile, la sua efficacia è enorme. Tale grido può esprimere reazioni affettive d’ogni genere; spesso conta meno di quali affettività si tratti, che di quanto siano forti e diverse e di quanto sia grande la libertà che le segue. Esse conferiscono alla massa il suo spazio psichico.

    Esse però possono essere così violente e concentrate da lacerare subito la massa. Esecuzioni pubbliche provocano questo effetto: una stessa vittima può essere uccisa una sola volta. Se si tratta addirittura di chi era sempre stato considerato invulnerabile, si dubita fino all’ultimo istante della possibilità di ucciderlo. Il dubbio che così scaturisce 
     dalla situazione rafforza la naturale staticità della massa. Tanto più penetrante e incisiva è la parvenza della testa tagliata. Il grido che seguirà sarà tremendo, ma sarà l’ultimo grido di quella massa ben determinata. Si potrebbe dunque dire che in questo caso la massa paghi con la propria morte subitanea l’eccesso di attesa statica di cui ha goduto nel modo più intenso.

    Le nostre moderne manifestazioni sportive servono più direttamente allo scopo. Gli spettatori possono star seduti: la pazienza di tutti diviene a tutti evidente. Essi hanno i piedi liberi per pestare,2 ma rimangono lo stesso al loro posto. Hanno le mani libere per applaudire. Per la manifestazione è previsto un determinato periodo di tempo; in genere non ci si aspetta che esso venga abbreviato; almeno per quel periodo si rimane di certo insieme. Entro quel periodo, inoltre, tutto potrà accadere. Non si può prevedere se, quando, e da quale parte si farà un goal; e anche oltre simili avvenimenti desiderati, ci sono molte altre cose che provocano scoppi fragorosi. La voce si leva in frequenti e diverse occasioni. Ma al disgregarsi definitivo, al dileguare della massa, la predeterminazione temporale ha tolto qualcosa del suo carattere doloroso. La squadra sconfitta avrà inoltre l’occasione di prendersi la rivincita, e non finirà tutto lì per sempre. Così la massa può veramente espandersi; essa può dapprima accumularsi agli ingressi, poi rimanere statica sui sedili; gridare in vari modi quando si offre il momento giusto; e addirittura sperare quando tutto è trascorso, in analoghe occasioni future.

    Masse statiche di tipo molto più passivo si formano nei teatri. La situazione ideale è che si reciti dinanzi a una sala piena. Il numero desiderato di spettatori è dato fin da principio. Essi si radunano da soli; con l’eccezione di limitati ristagni alle casse, ciascuno raggiunge la sala per conto proprio. Ai singoli posti, però, si è accompagnati. Tutto è prestabilito: il pezzo che verrà rappresentato, gli attori che andranno in scena, l’ora dell’inizio e gli spettatori stessi ai loro posti. I ritardatari sono accolti con leggera ostilità. Come un gregge addestrato, gli uomini restano seduti tranquilli e in infinita pazienza. Ciascuno però è ben cosciente della propria singola esistenza; egli ha pagato e si rende conto esattamente di chi gli siede a fianco. Prima dell’inizio egli osserva tranquillamente 
     la fila di teste radunate: esse risvegliano in lui una sensazione piacevole, ma non troppo pressante, di concentrazione. L’eguaglianza fra gli spettatori consiste essenzialmente nel fatto che essi accolgono tutti passivamente la medesima realtà che giunge dal palcoscenico. Ma le loro reazioni spontanee sono ora limitate a ciò. Lo stesso applauso ha i suoi momenti predeterminati; spesso infatti si applaude solo quando è il momento di applaudire. Dalla sola forza dell’applauso possiamo dedurre quanto una massa si sia costituita; l’applauso è la sola misura di ciò, ed è valutato così dagli stessi attori.

    Lo staticizzarsi in teatro è divenuto rito in tale misura da imporsi come moderata pressione dall’esterno, che tocca non profondamente gli uomini e in ogni caso dà loro difficilmente la sensazione di un’interna unità e omogeneità. Non si deve però dimenticare quanto grande e comune sia l’attesa, mentre gli spettatori restano seduti, e in quale misura continui durante l’intera rappresentazione. Soltanto raramente essi lasciano il teatro prima della fine; anche se sono stati delusi, resistono; ciò presuppone però che fossero legati insieme fino a quel momento.

    Il contrasto fra la quiete degli spettatori e l’attività rumorosa dell’organizzazione cui sottostanno è ancora più evidente nei concerti. In tali casi ciò che conta più di tutto è l’assenza di ogni disturbo. Ogni movimento è escluso, ogni rumore biasimato. Mentre la musica, che viene eseguita, vive per buona parte del proprio ritmo, non si deve avvertire nulla del suo effetto ritmico sugli uditori. Le reazioni affettive suscitate dalla musica in uno scambio continuo, sono del tipo più vario e intenso. Si esclude che esse non vengano percepite dalla maggior parte dei presenti, e si esclude che non vengano percepite simultaneamente da tutti. Vengono però a mancare tutte le reazioni esterne. Gli uomini rimangono seduti immobili, come se riuscissero a non sentire nulla. Evidentemente, in tal caso, è stata necessaria una lunga educazione artistica alla staticità, educazione i cui risultati ci sono divenuti abituali. Osservando con spregiudicatezza, nella nostra vita culturale ci sono pochi eventi così stupefacenti come il pubblico dei concerti. Gli uomini che subiscono la musica in modo naturale, si comportano ben diversamente; e coloro che non avessero mai udito musica, 
     potrebbero cadere nell’eccitazione più sfrenata quando la sperimentassero per la prima volta. Quando i marinai che sbarcavano eseguivano la Marsigliese dinanzi agli indigeni della Tasmania, questi ultimi esprimevano la loro soddisfazione con strane contorsioni e gesti stupefacenti, in modo da costringere i marinai a torcersi dalle risa. Un giovane particolarmente entusiasmato si strappò i capelli, si grattò la testa con ambe le mani e lanciò ripetutamente alte grida.

    Un misero resto di scarica fisica è sopravvissuto anche nei nostri concerti. L’applauso è offerto come ringraziamento agli esecutori: un rumore breve e caotico in cambio di uno lungo e ben organizzato. Se l’applauso manca del tutto ci si allontana quietamente così come si stava seduti; tanto si è già immersi nella sfera del raccoglimento religioso.

    Da quella sfera deriva originariamente la quiete del concerto. Stare comunitariamente dinanzi a Dio è un esercizio diffuso in alcune religioni. Esso si caratterizza per le stesse prerogative di staticità ora riconosciute nelle masse profane, e può condurre a scariche altrettanto subitanee e violente.

    Forse l’esempio più impressionante è la famosa «sosta nell’Arafat»,3 momento culminante del pellegrinaggio alla Mecca. Nella pianura di Arafat si radunano, in un giorno ritualmente determinato, 600.000-700.000 pellegrini. Essi si raggruppano in grande cerchio attorno al «Monte della Grazia», un colle spoglio che sorge in mezzo a quella pianura. Verso le due del pomeriggio, nell’ora più calda, i pellegrini prendono i loro posti, e vi rimangono fino al tramonto. Sono a capo scoperto e indossano tutti lo stesso abito bianco da pellegrino. In appassionata tensione, essi ascoltano le parole del predicatore che si rivolge loro dalla sommità del colle. La sua predica è una lode ininterrotta di Dio. Essi gli rispondono con una formula che si ripete mille volte: «Noi attendiamo i tuoi ordini, Signore, noi attendiamo i tuoi ordini!». Alcuni singhiozzano per l’eccitazione, altri si battono il petto. Alcuni svengono nell’enorme calore. Ma è essenziale che resistano per quelle lunghe ore incandescenti nella sacra pianura. Solo al tramonto giunge loro il segnale della partenza.
I successivi avvenimenti, fra i più enigmatici nell’ambito 
     religioso, saranno affrontati e spiegati più oltre, in altro contesto. Qui ci interessa soltanto il momento di staticità che si prolunga per ore. Centinaia di migliaia di uomini in eccitazione crescente vengono immobilizzati nella pianura di Arafat, e non devono lasciare quella sosta prima di Allah, qualunque cosa succeda loro. Essi sono infiammati dalla predica, e si infiammano essi stessi con grida. L’«attendere» è contenuto nella formula che essi usano e ritorna perennemente come tale. Il sole, che si sposta con impercettibile lentezza, immerge tutto nella stessa luce abbagliante, nello stesso fulgore; si direbbe la incarnazione della staticità.

    Esistono tutte le gradazioni di irrigidimento e di quiete nelle masse religiose; ma il più alto grado di passività che esse possano raggiungere viene loro imposto con la violenza dall’esterno. Nella battaglia si affrontano due masse, ciascuna delle quali vuol essere più forte dell’altra. Con le grida di guerra cercano di dimostrare a sé e al nemico d’essere veramente i più forti. La meta della battaglia è far ammutolire la parte avversa. Quando tutti gli avversari sono schiacciati, la loro voce forte, raccolta in uno, minaccia temuta con ragione, è ammutolita per sempre. La massa più silenziosa è quella dei nemici morti. Quanto più era pericolosa, tanto più si gode di vederla mucchio immobile. Si brama di vedere quell’indifeso gruppo di morti. Perché prima si sono gettati in gruppo contro l’avversario, in gruppo hanno lanciato contro di esso il loro grido. Questa massa resa silenziosa di morti, in passato non era affatto considerata priva di vita. Si credeva che i morti avrebbero continuato a vivere altrove nel modo a loro proprio, tutti di nuovo insieme; e in fondo avrebbe dovuto essere una vita simile a quella che già si era conosciuta in loro. I nemici che giacevano cadaveri rappresentavano così per l’osservatore il caso estremo di una massa statica.

    Ma anche questa immagine è stata superata. Anziché i nemici abbattuti, possono giacere nella terra comune proprio tutti i morti: là attendono la resurrezione. Chiunque muore ed è sepolto accresce il loro numero; chiunque sia mai vissuto vi appartiene, e sono ormai moltitudine infinita. La terra che li unisce li concentra, così che, sebbene giacciano separati, sembrano l’uno a fianco dell’altro. Restano a giacere così, per un tempo infinitamente 
     lungo, fino al giorno dell’ultimo giudizio. La loro vita si arresta fino al momento della resurrezione, e tale istante coincide con quello del loro raduno dinanzi a Dio che li giudicherà. Non c’è nulla di mezzo: giacciono là come massa, come massa si rialzeranno. Questa concezione di resurrezione e di giudizio finale è la maggior prova della realtà e dell’importanza della massa statica.
Lentezza o lontananza della meta

    La lontananza della meta è tipica della massa lenta. Ci si avvicina con grande costanza a una meta inamovibile, e strada facendo si rimane uniti in ogni circostanza. La strada è lunga, gli ostacoli sconosciuti; pericoli minacciano da ogni parte. Una scarica è consentita prima che la meta sia raggiunta.

    La massa lenta ha la forma di un convoglio. Essa fin da principio può consistere di tutti coloro che le appartengono, come nell’esodo dei figli d’Israele dall’Egitto. La loro meta è la terra promessa, ed essi sono una massa fin tanto che sperano in quella meta. La storia della loro peregrinazione è la storia di quella fede. Spesso le difficoltà sono così grandi che essi cominciano a dubitare. Hanno fame o sete, e appena si lamentano sono minacciati dalla disgregazione. L’uomo che li guida si sforza senza sosta di rinfocolare la loro fede. Ogni volta egli ci riesce, e, se non lui, ci riescono i nemici da cui essi si sentono minacciati. La storia di quella peregrinazione, che copre quarant’anni, contiene molte singole formazioni di massa veloce e incisiva, e all’occasione avremo parecchie cose da dire in proposito. Tali formazioni, però, sono tutte subordinate alla concezione di una massa unica, lenta, che si avvicina alla meta garantita, alla terra che è stata promessa. Gli adulti invecchiano e scompaiono, giovani nascono e crescono, ma anche se gli individui cambiano tutti, il convoglio come insieme rimane il medesimo. Non vi affluiscono gruppi nuovi. Fin da principio è stabilito chi vi appartiene, e quindi ha diritto alla terra promessa. Poiché tale massa non può crescere a sbalzi, 
     si pone durante tutto il peregrinare la domanda fondamentale: come fa a non disgregarsi?

    Una seconda forma di massa lenta può essere piuttosto paragonata a un sistema fluviale. Essa comincia con piccoli ruscelli, che a mano a mano confluiscono; nel corso d’acqua che ne nasce, altri sboccano da ogni parte; tutto il complesso, se ha dinanzi a sé abbastanza terra, diventa un grande fiume, e la sua meta è il mare. Il pellegrinaggio annuale alla Mecca è forse l’esempio più impressionante di questa forma di massa lenta. Dai luoghi più remoti del mondo islamico, carovane di pellegrini procedono tutte nella direzione della Mecca. Alcune all’inizio sono forse piccole, altre – equipaggiate con grande fasto da prìncipi – sono fin da principio l’orgoglio dei paesi da cui provengono. Ma tutte, durante il loro peregrinare, incontrano altre carovane che hanno la medesima meta; e così crescono sempre più, per divenire ampi fiumi presso la meta. La Mecca è il mare in cui sboccano.

    È proprio della condizione di tali pellegrini avere molto spazio per esperienze di tipo comune, del tutto estranee al senso del pellegrinaggio. Essi vivono il loro giorno più volte rinnovato, si dibattono fra molti pericoli, sono per la maggior parte poveri e devono preoccuparsi di cibo e bevanda. La vita di questi uomini, svolgendosi in terre straniere che mutano sempre, è molto più esposta a pericoli di quella trascorsa in patria. Non si tratta affatto di pericoli relativi al tipo della loro impresa. Così questi pellegrini in larga misura rimangono individui, che continuano a vivere separati tra loro come ovunque gli uomini. Ma fin quando essi tendono alla loro meta, e questo è il caso dei più, essi continuano sempre a far parte di una massa lenta che – indipendentemente dal loro comportamento nei suoi confronti – continuerà ad esistere finché non avrà raggiunto la meta.

    Si ha una terza forma di massa lenta in tutti i fenomeni che si riferiscono a una meta invisibile e irraggiungibile in questa vita. L’aldilà in cui i beati attendono tutti coloro che vi si saranno meritato un posto, è una meta ben articolata e appartenente ai soli fedeli. Essi la vedono nitida e chiara dinanzi a sé, e non devono accontentarsi di un vago simbolo di essa. La vita è come un pellegrinaggio verso quella meta; tra i pellegrini e l’aldilà sta la morte. Il cammino non è esattamente definito ed è difficile 
     coglierlo in un solo sguardo. Molti deviano dal cammino e si smarriscono lungo la strada. La speranza nell’aldilà, però, colora sempre la vita del fedele, così che si ha ragione di parlare di una massa lenta, cui appartengono tutti insieme i seguaci di una fede. Poiché essi non si conoscono fra loro e vivono sparsi in molte città e paesi, l’anonimato di questa massa è particolarmente impressionante.

    Ci chiediamo però come appaia tale massa all’interno, e che cosa la distingua maggiormente dalle forme veloci.

    Alla massa lenta è negata la scarica. Si potrebbe dire che questo sia il suo principale segno di riconoscimento, e quindi si potrebbe anche parlare di masse senza scarica anziché di masse lente. La prima definizione è però preferibile poiché in realtà non si può completamente fare a meno della scarica. Essa rimane sempre compresa nell’immagine di una condizione definitiva. La scarica è collocata in remota lontananza. Là dove c’è la meta, c’è anche la scarica. Una forte immagine di essa dura sempre: alla fine si verificherà con certezza.

    Nella massa lenta ci si propone con lungimiranza di ritardare il processo che porta alla scarica. Le grandi religioni hanno sviluppato una particolare maestria in queste misure ritardanti. Esse sono interessate a conservare i seguaci che si sono conquistati. Per conservarli e per attirarne altri, devono organizzare dei raduni di tempo in tempo. Se durante questi raduni si sono verificate delle scariche violente, tali scariche devono essere ripetute e possibilmente superate in violenza; almeno una ripetizione regolare di scariche sarebbe indispensabile affinché l’unità dei fedeli non andasse perduta. Ciò che accade durante questo tipo di servizio religioso, che ha luogo all’interno di masse ritmiche, non può essere controllato a grande distanza. Il problema centrale delle religioni universali è la sovranità sui fedeli per vaste regioni della terra. Tale sovranità è possibile soltanto mediante un cosciente ritardo di fenomeni di massa. Le mete remote devono acquistare significato, quelle prossime devono sempre più perdere peso, per apparire infine senza valore. La scarica terrestre non ha durata, ciò che viene collocato nell’aldilà perdura.

    Meta e scarica così coincidono, ma la meta è inattaccabile. La terra promessa, qui in questo mondo, può essere 
     occupata e devastata da nemici, e il popolo cui era stata promessa può esserne cacciato. La Mecca fu conquistata e saccheggiata dai Carmati; la sacra pietra della Kaaba fu da loro asportata. Per molti anni nessun pellegrinaggio poté dirigervisi.

    Ma l’aldilà con i suoi beati è al riparo da tutte le devastazioni di tal genere. Vive di sola fede e può essere incontrato solo in essa. La disgregazione della massa lenta del cristianesimo è iniziata nell’istante in cui la fede in quell’aldilà cominciò a decomporsi.

    Le masse invisibili
Le masse invisibili

    Dovunque ci siano uomini, per tutta la terra, si trova la nozione dell’invisibilità dei morti. Si potrebbe considerarla la più antica nozione dell’umanità. Non ci fu sicuramente alcuna orda, alcuna stirpe, alcun popolo che non possedesse una qualche concezione dei propri morti. L’uomo ne era ossessionato; essi avevano enorme significato per lui; la loro influenza sui vivi costituiva una parte essenziale della vita stessa.

    Si immaginava che i morti fossero tutti insieme, come sono insieme gli uomini, e si tendeva a supporre che fossero in molti. «Gli antichi Beciuana, come gli altri indigeni dell’Africa del Sud, credevano che tutto lo spazio fosse pieno degli spiriti degli antenati. Terra, aria e cielo erano colmi di spiriti, che potevano arbitrariamente esercitare un influsso malvagio sui viventi».4 «I Boloki del Congo si credono circondati da spiriti, che tentano di far loro del male in ogni occasione e di nuocere loro in ogni ora del giorno e della notte. Fiumi e ruscelli sono pieni degli spiriti degli antenati. Anche selva e macchia sono ricolme di spiriti. Essi possono diventare pericolosi per i viaggiatori sulla terra o sull’acqua che si lasciano sorprendere dalla notte. Nessuno è tanto coraggioso da attraversare di notte la selva che divide un villaggio dall’altro, e nemmeno la prospettiva di una larga ricompensa può tentarvi alcuno. La risposta a tali proposte suona sempre: “Ci sono troppi spiriti nella selva”».5

    Si crede generalmente che i morti abitino insieme in 
     un paese lontano, sottoterra, in un’isola o in una casa celeste. Un canto dei Pigmei del Gabon dice:6

    «Le porte della caverna sono chiuse. Le anime dei morti vi si spingono in frotta, come un nugolo di mosche che danzano nella sera. Un nugolo di mosche che danzano nella sera, quando la notte è diventata oscura, quando il sole è scomparso, un nugolo di mosche: roteare di foglie morte in una tempesta ululante».

    Ma non basta che i morti divengano sempre più numerosi e incominci ad affermarsi la sensazione della loro moltitudine. Essi sono anche in movimento e tendono a imprese collettive. I morti rimangono invisibili alle persone comuni; ma vi sono uomini con particolari doti, sciamani, che si intendono di esorcismi e possono soggiogare spiriti destinati a divenire così loro servitori. Presso i Ciukci della Siberia «un buon sciamano dispone di intere legioni di spiriti aiutanti; e quando li chiama tutti, essi giungono in tale quantità da circondare da ogni parte, proprio come se fossero un muro, la piccola tenda in cui avviene l’esorcismo».7

    Gli sciamani dicono ciò che vedono. «Con voce che trema dall’eccitazione, lo sciamano grida dalla sua abitazione di neve:

    «“Lo spazio celeste è colmo di esseri nudi che giungono attraverso l’aria. Creature umane, uomini nudi, donne nude, che vagano e suscitano la tempesta e la tormenta.

    «“Sentite come sibila? Sibila come il battito delle ali di grandi uccelli su nell’aria. È la paura di uomini nudi, è la fuga di uomini nudi! Gli spiriti dell’aria soffiano la tempesta, gli spiriti dell’aria spingono sulla terra la neve volante”».8

    Questa visione grandiosa di spiriti nudi in fuga ci giunge dagli Esquimesi.

    Alcuni popoli immaginano i loro morti o un numero limitato di essi, come eserciti in lotta. Presso i Celti degli Highlands scozzesi9 l’esercito dei morti è designato da una parola particolare: sluagh, che si traduce in inglese con spirit multitude, moltitudine di spiriti. L’esercito dei morti vola di qua e di là in grandi nuvole, come gli storni sopra la faccia della terra. Essi tornano sempre sul luogo delle loro colpe terrestri. Con le loro infallibili frecce avvelenate essi uccidono gatti, cani, pecore e armenti, combattono battaglie per l’aria, così come gli uomini 
     in terra. Nelle notti chiare e gelide si possono sentire e vedere i loro eserciti avanzare l’un contro l’altro e ritirarsi, ritirarsi e avanzare. Dopo una battaglia il loro sangue tinge di rosso rocce e pietre. La parola ghairm significa urlo, grido, e sluagh-ghairm era il grido di battaglia dei morti. Ne è derivata più tardi la parola slogan: la denominazione del grido di guerra delle masse moderne deriva dall’esercito di morti degli Highlands.

    Due popolazioni nordiche, che vivono lontane l’una dall’altra, i Lapponi in Europa e gli indiani Tlinkit in Alaska, hanno la stessa concezione dell’aurora boreale come battaglia.10 «I lapponi Kolta credono di vedere nell’aurora boreale i caduti in guerra, che continuano a combattere fra loro per l’aria come spiriti. I lapponi Russi riconoscono nell’aurora boreale gli spiriti degli uccisi. Quegli spiriti vivono in una casa ove talvolta si radunano: là si trafiggono a morte, e il suolo è pieno di sangue. L’aurora boreale annuncia l’inizio delle battaglie fra le anime degli assassinati. Per i Tlinkit dell’Alaska, tutti coloro che muoiono di malattia e non cadono in guerra, finiscono negli Inferi. Arrivano al cielo soltanto gli eroici combattenti, morti in guerra. Di tanto in tanto il cielo si apre per accogliere nuovi spiriti. Allo sciamano essi si mostrano sempre armati di tutto punto. Le anime dei caduti appaiono spesso come aurora boreale, particolarmente come quelle fiamme dell’aurora boreale che si manifestano come frecce o fasci di raggi e si muovono qua e là, talvolta si oltrepassano, cambiano posto, ricordando da vicino la tecnica di combattimento dei Tlinkit. Una forte aurora boreale annuncia – si crede – un grande spargimento di sangue, poiché in tal caso i morti combattenti vogliono nuovi compagni».

    Un numero enorme di combattenti si raduna nella Walhall, secondo le credenze dei Germani. Tutti gli uomini caduti in guerra fin dal principio del mondo giungono nella Walhall. Il loro numero cresce sempre, poiché le guerre non hanno fine. Là, essi mangiano e bevono a dismisura; sempre si rinnovano per loro i cibi e le bevande. Ogni mattina afferrano le armi e scendono in campo. Si uccidono a vicenda come in torneo, ma poi si rialzano giacché la loro non è vera morte. Attraverso 640 porte tornano nella Walhall, in schiere di ottocento uomini.

    Ma non soltanto gli spiriti dei defunti costituiscono le 
     moltitudini invisibili ai comuni mortali. «L’uomo deve sapere,» dice un antico testo ebraico «l’uomo deve ricordarsi, che non esiste spazio vuoto fra cielo e terra, bensì tutto è pieno di schiere e moltitudini. Una parte di esse è pura, piena di grazia e di dolcezza; ma l’altra parte è composta di creature impure, nocive e tormentatrici. Tutti girano per l’aria: alcuni vogliono la pace, altri cercano la guerra; alcuni fanno il bene, altri il male; alcuni portano la vita, altri la morte».11

    Nella religione degli antichi persiani i demoni formano un esercito particolare, sottoposto a un comando supremo. Per questi innumerevoli demoni si trova nello Zend-Avesta, il libro sacro persiano, la seguente formula: «Migliaia e più di migliaia di demoni, decine di migliaia e più di decine di migliaia, le loro innumerevoli miriadi».12

    Il medioevo cristiano ha meditato seriamente sul numero dei demoni. Nel Dialogo sui miracoli di Cesario von Heisterbach13 si tramanda che un giorno i demoni riempirono il coro di una chiesa in tal numero da disturbare il canto dei monaci, i quali avevano incominciato il terzo salmo, «Quanti sono, o Signore, i miei nemici». I demoni volarono da una parte all’altra del coro e si mescolarono ai monaci. Questi non seppero più cosa stavano cantando, e nella confusione una parte cercò di coprire le voci degli altri. Se tanti demoni si radunano in un posto per disturbare un solo servizio divino – quanti ce ne saranno su tutta la terra! Ma già il Vangelo, opina Cesario, conferma che una legione di essi entrò in un singolo uomo.

    Un cattivo prete disse sul letto di morte a un parente che stava al suo capezzale: «Vedi quel grande pagliaio dinanzi a noi? Sotto il suo tetto si trovano tanti fili di paglia quanti sono i demoni radunati ora intorno a me». Stavano là in agguato della sua anima, per trascinarla alla punizione. Essi però cercano soddisfazione anche al letto di morte dei pii. Al funerale di una buona badessa erano radunati più demoni di quante foglie sono in un gran bosco. Attorno a un abate moribondo ce n’erano più dei granelli di sabbia sulle spiagge del mare. Dobbiamo queste informazioni a un demone che era presente, e a un cavaliere con cui entrò in conversazione, rispondendo alle sue domande. Il demone non nascose la sua 
     delusione per quegli sforzi vani, e confessò d’essere già stato seduto su un braccio della croce alla morte di Cristo.

    Si vede che l’invadenza di quei demoni è smisurata quanto il loro numero. Quando l’abate cistercense Richalm chiuse gli occhi, li vide densi come la polvere intorno a sé. Egli ha fornito censimenti più precisi sul loro numero. Ne conosco due, che però divergono ampiamente. L’uno parla di 44.635.569; l’altro, di undici bilioni.

    In grande e naturale contrasto con tutto ciò è l’immagine che ci si crea degli angeli e dei beati. Qui tutto è quiete, non si vuol più ottenere nulla, si è raggiunta la meta. Ma anch’esse si sono radunate, le schiere celesti, «un numero incalcolabile di angeli, patriarchi, profeti, apostoli, martiri, confessori, vergini e altri giusti».14 Stanno disposti in grandi cerchi attorno al trono di Nostro Signore, volti verso il loro sovrano come i sudditi d’una corte. Testa affianca testa; la loro beatitudine è fondata sulla vicinanza al Signore. Sono stati accolti per sempre presso di lui, e resteranno uniti fra loro non meno di quanto staranno uniti a lui. Sono immersi nella visione di lui, e lo lodano. Fanno soltanto ciò, e lo fanno tutti insieme.

    Di tali concezioni di masse invisibili è pieno lo spirito dei fedeli. Morti, demoni o santi, sono immaginati in grandi schiere concentrate. Si direbbe che le religioni comincino con queste masse invisibili. La loro posizione varia: in ciascuna fede si determina un particolare equilibrio. Una classificazione delle religioni in base al modo in cui adoperano le loro masse invisibili, sarebbe non solo possibile ma molto auspicabile. Le religioni «elevate» – quelle che hanno raggiunto validità generale – dimostrano in ciò una sicurezza e una chiarezza sovrane. Alle masse invisibili, che esse tengono in vita con le prediche, si ricollegano timori e desideri degli uomini. Gli invisibili sono il sangue della fede. Non appena essi sbiadiscono, la fede appare indebolita, e mentre essa tende a svanire altre schiere prendono il posto di quelle impallidite.

    Di una massa di questo tipo – forse la più importante – non si è ancora parlato. È la sola che appare naturale anche a noi, uomini di oggi, nonostante la sua invisibilità: 
     la posterità. Un uomo potrebbe abbracciare con lo sguardo due o forse tre generazioni; di là da ciò i posteri si collocano interamente nel futuro. Proprio perché innumerevoli, i posteri non sono visibili per nessuno. Si sa che essi devono aumentare, dapprima gradualmente, poi con crescente intensità. Stirpi e interi popoli sentono di derivare da un padre comune; e dalle promesse che quest’ultimo aveva ricevuto si comprende quanto eccellenti – ma soprattutto quanti – discendenti egli desiderasse: numerosi come le stelle del cielo e come la sabbia del mare. Nello Shih Ching, il classico libro di canti cinese, si trova una poesia nella quale la posterità è paragonata a uno stormo di cavallette:15

    

    Le ali delle cavallette dicono: spingi, spingi!
    Siamo i tuoi figli e i nipoti
    un esercito innumerevole!

    

    Le ali delle cavallette dicono: lega, lega!
    Si susseguano i tuoi figli e i nipoti
    in linea senza fine!

    

    Le ali delle cavallette dicono: unisci, unisci!
    Siano i tuoi figli e i nipoti
    per sempre una sola cosa!

    

    Gran numero, sequenza ininterrotta – dunque una sorta di densità attraverso il tempo – ed unità, sono i tre desideri espressi in questa poesia per la posterità. Lo stormo di cavallette come simbolo della massa dei posteri è particolarmente significativo, poiché quegli animali non vengono evocati qui per la loro attività nociva, bensì proprio per la loro forza di moltiplicarsi.

    Il senso della posterità è oggi vivo quanto lo fu sempre. Ma l’immagine della propria posterità come massa si è staccata per trasferirsi nel complesso dell’umanità futura. Per la maggior parte di noi gli eserciti dei morti sono diventati mera superstizione. Tuttavia è considerato nobile e non vano sforzo il presentire la massa dei non ancora nati, il voler loro bene, il preparare loro una vita migliore e più giusta. Nella preoccupazione generale per il futuro della terra, questo senso dei non ancora nati ha il maggior significato. Può darsi che l’orrore delle loro 
     mutilazioni, l’immaginarli mentre combattiamo le nostre guerre moderne, portino all’abolizione di tali guerre e della guerra in genere, più di tutti i timori privati che ci riguardano.

    Se inoltre si pensa al destino delle masse invisibili di cui si è parlato, si può dire che alcune di esse sono scomparse in larga misura, e altre interamente. A queste ultime appartengono i demoni che, nella loro immagine consueta, non appaiono più in alcun luogo, sebbene in passato fossero moltitudine. Essi però hanno lasciato tracce. Testimonianze impressionanti della loro piccolezza si sono potute raccogliere al tempo del loro rigoglio, per esempio da Cesario von Heisterbach. Da allora essi hanno perso tutte le caratteristiche che potrebbero ricordare l’aspetto umano, e sono divenuti ancora più piccoli. Sono quindi risorti, molto cambiati e in turbe ancor più numerose, nel XIX secolo come bacilli. La loro aggressione, anziché contro l’anima, punta contro il corpo dell’uomo. Per quest’ultimo possono diventare molto pericolosi. Solo una piccola minoranza di uomini li ha davvero guardati in faccia attraverso un microscopio. Ma chiunque ne abbia sentito parlare è sempre cosciente della loro presenza e si sforza di non venire in contatto con loro: impresa un po’ precaria, data la loro invisibilità. La loro pericolosità e la concentrazione di enormi numeri di essi in uno spazio ristretto, provengono certamente loro dai demoni.

    Una massa invisibile, esistente da sempre, ma riconosciuta come tale solo dall’avvento del microscopio, è quella dello sperma. Duecento milioni di spermatozoi partono insieme. Sono uguali fra loro e si trovano insieme nella massima concentrazione. Hanno tutti una meta, e, tranne uno, periscono tutti strada facendo. Si potrebbe dire che non sono affatto uomini, e quindi che non si dovrebbe parlare propriamente di massa nel senso descritto. Ma questa obiezione non tocca affatto l’essenza della questione. Ogni spermatozoo porta seco tutta l’eredità dei predecessori che potrebbe salvarsi. Esso contiene i predecessori, esso è i predecessori. È una sorpresa sconvolgente ritrovarli qui, fra una generazione e l’altra, con l’aspetto profondamente cambiato: tutti in una creatura minuscola, invisibile, e di tali creature un numero così smisurato.
    

    Suddivisione secondo la dominante affettiva
Le masse che abbiamo considerato sono ricche di forme affettive diversissime. Di quali affetti si tratti, s’è appena accennato. Primo obiettivo dell’indagine è stata la suddivisione secondo princìpi formali. Sapere soltanto che la massa è aperta o chiusa, lenta o veloce, invisibile o visibile, significa conoscere ben poco delle sue sensazioni e del suo contenuto.

    Tale contenuto non si può sempre concepire allo stato puro. Abbiamo già esaminato le circostanze in cui la massa vive tutta una gamma di esperienze affettive che si susseguono veloci. Gli uomini possono trascorrere a teatro ore su ore, e le loro esperienze comuni sono le più svariate. Al concerto le loro sensazioni sono ancora più indipendenti dall’occasione che a teatro; si direbbe che là esse raggiungano la massima varietà. Ma questi avvenimenti sono artificiali; la loro ricchezza è un prodotto finito di alte e complesse culture. La misura del loro effetto è prevista. Gli estremi si annullano. Queste istituzioni servono in genere a mitigare e ridurre le passioni cui gli uomini soli si sentono esposti.

    Le forme affettive principali della massa risalgono, però, molto più indietro. Esse sorgono molto presto; la loro storia è antica quanto l’umanità stessa, e due di queste forme sono ancora più antiche. Ciascuna di esse si distingue per una peculiare colorazione unitaria, una singola passione dominante. Dall’istante in cui vi vediamo chiaro, non è più possibile che le confondiamo tra loro.

    In seguito si distingueranno cinque tipi di masse, a seconda del loro contenuto affettivo. La massa aizzata e la massa in fuga sono le due più antiche. Si trovano fra gli animali così come fra gli uomini, e probabilmente la loro formazione tra gli uomini è sempre tornata a ispirarsi a esempi animali. La «massa del divieto», la «massa del rovesciamento» e la «massa della festa», sono specificamente umane. Una descrizione di queste cinque specie e la loro interpretazione può portare a conoscenze di considerevole ampiezza.
    

    Masse aizzate

    La massa aizzata si forma in vista di una meta velocemente raggiungibile. La meta le è nota, precisamente designata, e vicina. Essa si propone di uccidere, e sa chi ucciderà. Con determinazione senza confronto essa persegue il suo scopo; è impossibile distoglierla. Basta annunciare quello scopo, basta far sapere chi dovrebbe perire, perché una massa si formi. La concentrazione sull’uccidere è del tutto particolare: nessun’altra la supera in intensità. Ognuno vuol parteciparvi, ognuno colpisce. Per poter vibrare il proprio colpo, ciascuno si fa dappresso alla vittima. Se non può colpire, vuole almeno vedere come gli altri colpiscono. Sembra che tutte le braccia siano di una sola creatura. Ma le braccia che colpiscono hanno maggior valore e peso. Lo scopo è tutto. La vittima è lo scopo; ma essa è anche il punto di massima concentrazione: essa riunisce in sé le azioni di tutti. Scopo e concentrazione coincidono.

    Un’importante ragione della rapida crescita della massa aizzata è l’assenza di pericolo nell’impresa. Non c’è pericolo, poiché la superiorità della massa è schiacciante. La vittima non può nuocere. Fugge o è legata. Non può colpire; inerme, è soltanto una vittima. È stata messa a disposizione per essere soppressa. È destinata alla sua sorte; per la sua morte nessuno deve temere sanzioni. L’omicidio autorizzato compensa di tutti gli omicidi cui si deve rinunciare, di tutti quelli che farebbero temere pesanti punizioni. Un omicidio senza pericolo, permesso, raccomandato, e spartito con molti altri, è irresistibile per la maggioranza degli uomini. Si deve aggiungere che la minaccia della morte, cui sottostanno tutti gli uomini e che è sempre viva sotto molteplici maschere, sebbene non stia continuamente dinanzi agli occhi, crea il bisogno di deviare la morte su altri. La formazione di masse aizzate viene incontro a quel bisogno.

    L’impresa è così facile e si svolge così rapidamente che occorre affrettarsi per parteciparvi in tempo. La fretta, lo slancio e la sicurezza della massa aizzata hanno qualcosa di terrificante. È l’eccitazione di ciechi, che sono più ciechi nell’istante in cui credono di vedere. La massa si spinge sulla vittima e sull’esecuzione per liberarsi subitaneamente 
     e per sempre dalla morte di tutti coloro che la compongono. Ciò che poi veramente le accade, è l’opposto. A causa dell’esecuzione, ma solo dopo di essa, la massa si sente più che mai minacciata dalla morte, si scioglie e si disperde in una sorta di fuga. Tanto più alta era la vittima, tanto più grande è l’angoscia della massa. La massa può restare unita solo quando una serie di avvenimenti analoghi si susseguono velocemente.

    La massa aizzata è antichissima; essa risale alla più remota unità dinamica conosciuta fra gli uomini: la muta di caccia. Delle mute più piccole e distinte anche altrimenti dalle masse, si parlerà più tardi dettagliatamente. Qui vogliamo occuparci soltanto di alcune circostanze generali che danno origine alla formazione di masse aizzate.

    Fra le specie di morte decretate contro un singolo da un’orda o da un popolo, possiamo distinguere due forme principali, una delle quali è l’espulsione. Il singolo viene esposto là dove sarà vittima indifesa di animali selvaggi, o morirà di fame. Gli uomini cui prima era simile, non hanno più nulla a che fare con lui; essi non devono più ospitarlo, né fornirgli alcun cibo. Fraternizzare con lui significa contaminarsi e divenire colpevoli. La solitudine, nella forma più rigorosa, è qui la punizione estrema; il distacco dal proprio gruppo è un tormento cui, soprattutto in condizioni primitive, riescono a sopravvivere solo pochissimi. Una variante di quell’isolamento è l’esposizione ai nemici. Trattandosi di uomini, e in assenza di lotta, tale isolamento è considerato particolarmente crudele e umiliante, come una doppia morte.

    L’altra forma è quella dell’uccisione collettiva. Il condannato viene condotto sul luogo dell’esecuzione e lapidato. Ognuno partecipa all’uccisione; colpito dalle pietre di tutti, il colpevole crolla. Nessuno ha l’incarico di fare il boia: tutta la comunità uccide. Le pietre rappresentano la comunità; esse sono il simbolo della sua decisione e del suo gesto. Anche dove la lapidazione non è più in uso, rimane la tendenza all’uccisione collettiva. Vi si può paragonare la morte per fuoco: il fuoco agisce per la folla che ha augurato la morte al condannato. La vittima è raggiunta da ogni parte dalle fiamme; da ogni parte, si direbbe, essa è afferrata e uccisa. Nelle religioni che prevedono un inferno si aggiunge qualcosa d’altro: alla morte collettiva per fuoco, che è un simbolo della 
     massa, si ricollega l’idea dell’espulsione: cioè, l’espulsione nell’inferno, la consegna ai nemici infernali. Le fiamme dell’inferno si protendono sulla terra e catturano l’eretico che loro spetta. – Trafiggere di frecce la vittima, fucilare un condannato mediante un plotone di soldati, sono azioni in cui il gruppo esecutivo è delegato della totalità. Seppellendo gli uomini in formicai – come si fa in Africa e altrove –, si delega la penosa attività alle formiche, che rappresentano una massa numerosa.

    Tutte le forme di esecuzione pubblica dipendono dall’antica pratica dell’uccisione collettiva. Il vero boia è la massa che si raduna intorno al patibolo. Essa approva il dramma; con moto veemente affluisce di lontano per assistervi insieme dal principio alla fine. Vuole che ciò accada, e non si lascia sfuggire facilmente la vittima. L’annuncio della condanna di Cristo coglie questo processo nella sua essenza. Il «Crucifige!» proviene dalla massa. Essa è essenzialmente attiva; in altri tempi avrebbe fatto da sola, lapidando Cristo. Il processo che di solito si celebra dinanzi a un gruppo limitato di uomini, vale per la moltitudine che poi assisterà all’esecuzione. La condanna capitale che, inflitta in nome del diritto, suona astratta e irreale, diventa vera quando è eseguita dinanzi alla moltitudine. Per essa essenzialmente si legifera, e con il diritto pubblico ci si riferisce appunto alla massa.

    Nel medioevo le esecuzioni avvengono con gran pompa, e si compiono il più lentamente possibile. Può accadere che la vittima ammonisca gli spettatori con discorsi edificanti. È preoccupata del loro destino: essi non dovrebbero imitarla. La vittima dimostra agli spettatori dove si giunga con una simile vita. Essi si sentono non poco lusingati dalla sua preoccupazione. La vittima può trovare un’ultima soddisfazione nell’essere ancora una volta uguale fra loro, un buono come loro, che insieme con loro si libera della propria vita precedente e la condanna. Il rimorso dei malfattori o dei miscredenti, cui mirano i sacerdoti con ogni mezzo, rispecchia oltre l’intenzione predeterminata di salvare le anime anche questo significato: esso deve trasformare la massa aizzata nel presentimento di una futura massa festiva. Ognuno deve sentirsi confermato nei propri buoni princìpi, e credere nella ricompensa che quindi gli spetterà nell’aldilà.

    In tempi di rivoluzione, le esecuzioni si accelerano. Il boia parigino Samson si vantava del fatto che i suoi aiutanti non impiegassero più di «un minuto per persona». Molto della febbrile disposizione d’animo in tali tempi deriva dal rapido susseguirsi di innumerevoli esecuzioni. È importante per la massa che il boia le mostri la testa dell’ucciso. Questo e non altro è il momento della scarica. Chiunque fosse il proprietario della testa, è ormai degradato; nell’attimo in cui egli fissa la massa, è una testa come tutte le altre. Può essersi presentata sulle spalle di un re; ma, nel processo fulmineo di degradazione dinanzi agli occhi di tutti, è stata parificata ad ogni altra. La massa, qui costituita da teste che fissano, raggiunge la sensazione della sua eguaglianza nell’istante in cui anche quella testa le rivolge lo sguardo. Tanto più potente era stato il decapitato, tanto più grande la distanza che prima lo separava dagli altri, tanto più grande è l’eccitazione della scarica della massa. Se era un re o un potente di simile stile, s’intreccia inoltre la soddisfazione del rovesciamento. Il diritto di giustizia cruenta di cui per tanto tempo egli dispose, ora è stato rivolto contro di lui. Coloro che egli prima fece uccidere, ora lo hanno ucciso. Il valore di tale rovesciamento è enorme; c’è una forma di massa che si costituisce mediante il solo rovesciamento.

    L’effetto della testa, levata dinanzi alla moltitudine, non si esaurisce per nulla nella scarica. Quando la moltitudine riconosce con grande veemenza nella testa una delle proprie, quando la testa cade fra la moltitudine e non è più superiore ad essa, quando tutti diventano uguali fra loro, ogni individuo vede se stesso in quella testa. La testa tagliata è una minaccia. La moltitudine ha guardato con tale avidità nei suoi occhi morti, che ormai non potrà più liberarsene. Poiché la testa appartiene alla massa, la massa stessa è stata colpita dalla sua morte: ammalata e atterrita segretamente, la massa comincia a disgregarsi. Si disperde ora in una sorta di fuga dinanzi alla testa.

    La massa aizzata che ha avuto la sua vittima si disgrega in modo particolarmente rapido. I potenti minacciati sono ben coscienti di questo fatto. Per fermare la crescita della massa, essi le gettano una vittima. Molte esecuzioni politiche sono state ordinate solo per tale scopo. D’altra parte i portavoce di partiti radicali spesso non sanno affatto 
     di nuocere più a se stessi che al partito avversario raggiungendo la loro meta: l’esecuzione pubblica di un nemico pericoloso. Può accadere che, dopo simili esecuzioni pubbliche, la massa dei loro seguaci si disperda, ed essi non raggiungano più – o almeno per molto tempo – la precedente forza. Si dovrà ancora parlare a lungo di altri motivi di tale rovesciamento, quando ci si occuperà delle mute e in particolare della muta del lamento.

    Il disgusto per l’uccisione collettiva è di recentissima data. Non bisogna sopravvalutarlo. Anche oggi ognuno partecipa alle esecuzioni pubbliche attraverso il giornale. Solo che oggi anche ciò – come tutto – è più agevole. Non è necessario scomodarsi, e fra cento particolari ci si può soffermare su quelli che eccitano in maggior misura. Si applaude soltanto quando tutto è fatto, e neppure la più piccola traccia di complicità guasta il godimento. Non si è responsabili di nulla, né della condanna, né dei testimoni oculari, né della loro deposizione, e neppure del giornale che ha stampato la deposizione. E però se ne sa di più che nei tempi passati, quando bisognava camminare e stare in piedi per ore, e alla fine si vedeva abbastanza poco. Nel pubblico dei lettori di giornali è sopravvissuta una massa aizzata più moderata ma più irresponsabile per la lontananza dagli avvenimenti – si sarebbe tentati di dire: la forma più spregevole e al tempo stesso più stabile. Poiché non deve neppure radunarsi, tale forma di massa può anche evitare la propria disgregazione; il giornale, nella sua ripetizione quotidiana, si prende cura delle sue distrazioni.

    Masse in fuga
Masse in fuga

    La massa in fuga è determinata dalla minaccia. È sua caratteristica che tutto fugga; tutto è trascinato insieme. Il pericolo da cui si è minacciati è per tutti il medesimo; si concentra in un determinato luogo e non fa alcuna distinzione. Esso può minacciare gli abitanti di una città, o tutti coloro che hanno la medesima fede o parlano la medesima lingua.

    Si fugge insieme, poiché così si fugge meglio. L’eccitazione 
     è la stessa: l’energia degli uni accresce quella degli altri, gli uomini si spingono avanti nella stessa direzione. Fin tanto che si resta insieme, si percepisce il pericolo distribuito su tutti. Persiste l’antichissima concezione che il pericolo aggredirà tutti in un solo luogo. Mentre il nemico afferra uno, tutti gli altri possono fuggire. I fianchi della fuga sono scoperti, ma, data la loro estensione, è impensabile che il pericolo possa attaccare tutti insieme. Fra i tanti, nessuno crede d’essere egli stesso la futura vittima. Poiché il movimento unitario serve alla salvezza di tutti, ci si sente profondamente animati dalla raggiungibilità di quella salvezza.

    L’elemento più evidente della fuga di massa è la forza della sua direzione. La massa è divenuta, per così dire, tutta direzione, via dal pericolo. Poiché conta solo la meta presso la quale ci si salva, il percorso che vi porta e null’altro, le distanze che prima separavano gli uomini sono ormai irrilevanti. Le più strane e contrastanti creature che non si erano mai avvicinate le une alle altre, ora d’improvviso possono ritrovarsi insieme. Pur non cancellandosi tutte le differenze fra loro, si aboliscono tutte le distanze. Di tutte le forme di massa, la massa in fuga è la più ampia. L’immagine non uniforme che essa offre, non è però determinata soltanto dalla partecipazione di tutti; essa viene ulteriormente complicata dalle diverse velocità di cui sono capaci gli uomini in fuga. Fra di loro ci sono giovani, vecchi, forti, deboli, più o meno carichi. I molti colori di questa immagine potrebbero confondere uno spettatore che guardasse dall’esterno. Essi sono casuali e – in rapporto con la forza travolgente della direzione – del tutto insignificanti.

    L’energia della fuga si moltiplica finché chiunque vi sia coinvolto tiene conto degli altri: egli può spingerli innanzi ma non cacciarli da parte. Tuttavia, a partire dall’istante in cui si pensa solo a se stessi e si considerano i circostanti unicamente come ostacoli, il carattere della fuga di massa cambia completamente e si tramuta nel suo opposto: diviene panico, lotta di ogni singolo contro tutti gli altri che gli sbarrano la strada. Tale rovesciamento ha luogo soprattutto quando la direzione della fuga viene ripetutamente turbata. Basta tagliare la strada alla massa perché essa dilaghi in un’altra direzione. Se si torna spesso a tagliarle la strada, ben presto la massa 
     non sa più dove dirigersi. Essa comincia a dubitare della propria direzione, e così si altera la sua consistenza. Il pericolo che fino a quel momento esercitava un effetto animatore e unificatore, rende l’uno nemico dell’altro, e ciascuno cerca la salvezza unicamente per sé.

    La fuga di massa, in contrasto col panico, trae la propria energia dalla propria coesione. Fin tanto che essa non si lascia disperdere da nulla e permane nella sua continuità inalterata, vigorosa corrente, che non si divide, rimane anche sopportabile il timore da cui è spinta. Una sorta di elevazione caratterizza la fuga di massa, da quando si mette in moto: l’elevazione del movimento collettivo. Nessuno è meno in pericolo degli altri, e sebbene ognuno corra con tutte le proprie forze o cavalchi, per mettersi in salvo, egli ha pur sempre il posto che riconosce suo, in cui resta in mezzo al turbamento generale.

    Nel corso della fuga, che può durare per giorni e settimane, alcuni rimangono indietro, sia che manchino loro le forze, sia che vengano colpiti dal nemico. Ogni caduto è per gli altri un incitamento a proseguire. Il destino che ha raggiunto il caduto li ha evitati. Il colpito è una vittima sacrificata al pericolo. Per quanto importante fosse stato personalmente come compagno di fuga, tanto più importante egli diviene per tutti come caduto. Il suo aspetto conferisce nuova forza a chi sta per soggiacere alla fatica. Egli era più debole di loro, e il pericolo mirò su di lui. L’isolamento in cui egli rimane indietro, in cui è visto ancora per poco, aumenta agli occhi degli altri il valore del loro tenersi insieme. Non si sottolineerà mai troppo il significato del caduto per la consistenza della fuga.

    La fine naturale della fuga è il raggiungimento della sua meta. Nella sicurezza, quella massa torna a sciogliersi. Il pericolo, tuttavia, può anche essere eliminato alla fonte. Si dichiara una tregua, e la città da cui si è fuggiti non è più minacciata. Si ritorna uno per uno, mentre si era fuggiti insieme; e si è tutti nuovamente divisi, come prima. Ma c’è anche una terza possibilità che si potrebbe definire un disperdersi della fuga nella sabbia. La meta è lontana, l’ambiente ostile, gli uomini hanno fame, e diventano deboli e fiacchi. Crollano non solo pochi individui, ma centinaia, migliaia. Questa disgregazione fisica avviene lentamente, e il moto originario perdura infinitamente 
     a lungo. Gli uomini si trascinano ancora avanti quando ogni prospettiva di salvezza è svanita. Di tutte le forme di massa, quella della fuga è la più tenace: fino all’ultimo istante gli ultimi fuggiaschi rimangono insieme.

    Non mancano affatto esempi di fuga di massa. I nostri tempi ne sono nuovamente ricchi. Fino alle esperienze dell’ultima guerra, si sarebbe pensato innanzitutto alla sorte della Grande Armée di Napoleone durante la ritirata di Russia. Essa costituiva il caso più straordinario: la composizione di quell’armata di uomini di tante e diverse lingue e nazionalità, il tremendo inverno, il lunghissimo percorso che dovette essere compiuto a piedi dalla maggior parte: quella ritirata che degenerò in una fuga di massa, è conosciuta in tutti i particolari. Si è sperimentata per la prima volta davvero nella stessa misura la fuga di una metropoli quando i tedeschi si avvicinarono a Parigi nel 1940. Il famoso «esodo» non durò a lungo, perché sopravvenne presto la tregua. Ma l’intensità e l’estensione di quel movimento furono tali che esso per i francesi divenne il principale ricordo di massa dell’ultima guerra.

    Non vogliamo accumulare qui esempi del tempo più recente. In tutti è ancora fresco il ricordo. Bisogna però sottolineare che la fuga di massa era già nota, da sempre, agli uomini, anche quando vivevano ancora in piccolissimi gruppi. Essa aveva già svolto la sua parte nella loro immaginazione, prima che il loro numero permettesse di realizzarla. Ricordiamo la visione dello sciamano esquimese:

    «Lo spazio celeste è colmo di esseri nudi che giungono attraverso l’aria. Creature umane, uomini nudi, donne nude, che vagano e suscitano la tempesta e la tormenta. Sentite come sibila? Sibila come il battito delle ali di grandi uccelli su nell’aria. È la paura di uomini nudi, è la fuga di uomini nudi!».

    Masse del divieto

    Un tipo particolare di massa si forma mediante un divieto: 
     molte persone riunite insieme vogliono non fare più ciò che fino a quel momento avevano fatto come singoli. Il divieto è improvviso; essi se lo impongono da soli. Può trattarsi di un antico divieto, che era caduto in oblio; oppure di uno che riaffiora di tempo in tempo. Ma può anche trattarsi di un divieto completamente nuovo. In ogni caso esso incide con la massima forza. È categorico come un ordine; per esso è tuttavia decisivo il carattere negativo. Non giunge mai veramente dall’esterno, anche se dovesse dare l’impressione contraria. Esso deriva da un bisogno di coloro che lo subiscono. Appena il divieto è stato espresso, la massa comincia a formarsi. Tutti si rifiutano di fare ciò che un mondo esterno si aspetta da loro. D’improvviso non farebbero più per nessuna ragione ciò che fino a quel momento avevano fatto senza molta ostentazione, come se fosse stato naturale e per nulla difficile. Dalla determinatezza del loro rifiuto si riconosce la loro coesione. La massa dall’istante della sua nascita è conscia dell’aspetto negativo del divieto, il quale – fin tanto che essa persiste – resta la sua caratteristica essenziale. Si potrebbe dunque parlare anche di una massa negativa. È costituita dalla resistenza: il divieto è limite e diga che nulla può oltrepassare, superare. L’uno sorveglia l’altro, per vedere se continua a far parte della diga. Chi cede e trasgredisce al divieto, diviene spregevole agli occhi degli altri.

    L’esempio migliore della massa negativa o massa del divieto è lo sciopero. I lavoratori sono abituati a compiere regolarmente il loro lavoro in tempi determinati. Vi sono molteplici tipi di produzione: ad alcuni spetta una certa attività, ad altri un’attività completamente diversa. Ma essi si accingono a cominciare tutti nello stesso momento, e nello stesso momento tutti lasceranno il posto di lavoro. Essi sono uguali fra loro rispetto al momento comune del principio e della fine del lavoro. La maggioranza compie il proprio lavoro a mano. Essi sono anche uguali dal punto di vista della retribuzione del loro lavoro. Ma, a seconda dell’attività produttiva, le paghe differiscono. Come è evidente, l’uguaglianza dei lavoratori non va molto lontano. Essa sola non è sufficiente per determinare la formazione della massa. Se però è indetto uno sciopero, i lavoratori divengono uguali in modo più impegnativo: nel rifiuto di continuare a lavorare. Questo 
     rifiuto coinvolge l’intero uomo. Il divieto di lavorare crea un atteggiamento che si impone e può resistere.

    Quello della fermata è un grande momento, celebrato nelle canzoni dei lavoratori. Molti elementi contribuiscono alla sensazione di sollievo con cui lo sciopero inizia per i lavoratori. La loro eguaglianza fittizia, di cui si parla loro, ma che in realtà non va oltre la loro comune attività manuale, diviene improvvisamente reale. Finché lavoravano dovevano svolgere compiti diversissimi, e tutto era loro prescritto. Ma nell’interrompere il lavoro fanno tutti la stessa cosa. Sembra che lascino ricadere le mani tutti nello stesso momento, come se ora dovessero impegnarsi tutti a non sollevarle più, indipendentemente da quanto possano essere affamati. La fine del lavoro rende uguali i lavoratori. In rapporto con l’efficacia di tale momento, le loro esigenze concrete non pesano molto. Lo scopo dello sciopero potrebbe essere un aumento salariale, e certamente essi si trovano anche d’accordo a questo proposito. Ma esso da solo non sarebbe sufficiente a farne una massa.

    Le mani che ricadono esercitano un’influenza di contagio su altre mani. Ciò che esse non fanno si comunica all’intera società. Lo sciopero che cresce per «simpatia», impedisce di proseguire l’attività consueta anche a coloro che originariamente non pensavano a una fermata. Il senso dello sciopero è che nessuno dovrebbe fare alcuna cosa finché i lavoratori non fanno nulla; e quanto più tale intenzione si realizza, tanto più grande è la loro prospettiva di riuscire vittoriosi nello sciopero.

    Durante lo sciopero è importante che ciascuno si attenga alla parola del divieto. Sorge spontaneamente un’organizzazione di massa dalla massa stessa. Essa ha la funzione di uno Stato che nasce con piena coscienza della propria breve vita e nel quale valgono soltanto poche leggi; queste però vengono osservate nel modo più rigoroso. Picchetti sorvegliano gli accessi alla fabbrica da cui ha avuto origine l’azione: le officine stesse sono terreno vietato. L’interdetto che grava su di esse le libera dalla loro quotidianità e conferisce loro una dignità del tutto particolare. La responsabilità che si è assunta verso di esse, ne fa una proprietà collettiva. Come tali esse sono protette e arricchite di un significato più alto. Nel loro vuoto e nella loro quiete hanno qualcosa di sacrale. L’atteggiamento 
     di chiunque vi si avvicina viene controllato. Chi vi si avvicina con intenzioni profane, e cioè vuole lavorare, è ritenuto nemico o traditore.

    L’organizzazione si preoccupa di una equa distribuzione di viveri o di denaro. Le scorte esistenti dovranno durare il più possibile. È importante che ciascuno riceva poco quanto gli altri. Non verrà in mente al più forte che dovrebbe avere di più; anche l’avido sarà disposto ad accontentarsi. Siccome di solito c’è pochissimo per tutti e il regolamento è applicato onestamente – cioè in pubblico – questo tipo di distribuzione contribuisce all’orgoglio della massa per la propria eguaglianza. Intorno a una simile organizzazione c’è qualcosa di enormemente serio e degno di stima. Non si può far a meno di pensare alla coscienza responsabile e alla dignità di una simile formazione, nata spontaneamente dalla base, quando si parla della massa selvaggia e avida di distruzione. Analizzare la massa del divieto è indispensabile anche solo per il fatto che essa presenta caratteristiche del tutto diverse, addirittura opposte. Finché rimane fedele alla sua essenza, essa non è disposta ad alcuna distruzione.

    È vero però che non riesce facile mantenerla in tale condizione. Quando le cose vanno male e la penuria raggiunge una misura difficilmente sopportabile, in particolare però quando la massa si sente aggredita o assediata, la massa negativa tende a tramutarsi in una positiva e attiva. Dopo un certo tempo può costare grande sforzo agli scioperanti che hanno d’improvviso vietato alle loro mani l’attività consueta, continuare a non far niente con esse. Appena sentono minacciata l’unità della loro resistenza, essi tendono a distruggere, e prima di tutto a distruzioni nella sfera dell’attività loro peculiare e familiare. Qui inizia il compito principale dell’organizzazione; essa deve mantenere puro il carattere della massa del divieto, e impedire ogni positiva azione singola. Essa deve pure cogliere il momento in cui bisogna abolire il divieto al quale la massa deve la propria esistenza. Se tale percezione coincide con la sensazione della massa, l’organizzazione deve decidere il proprio scioglimento, ritirando il divieto.
    

    Masse di rovesciamento

    «Caro, buon amico, i lupi hanno sempre mangiato le pecore; questa volta saranno le pecore a mangiare i lupi?».16 Questa frase si trova in una lettera che Madame Jullien scrisse al proprio figlio durante la Rivoluzione francese. Essa contiene, in una formula concisa, l’essenza del rovesciamento. Finora pochi lupi hanno affrontato molte pecore. Ormai è giunta l’ora per le molte pecore di volgersi contro i pochi lupi. Si sa che le pecore non sono carnivore. Ma quella frase è significativa proprio nella sua apparente insensatezza. Le rivoluzioni sono i periodi essenziali del rovesciamento. Coloro che tanto a lungo furono indifesi, mettono d’improvviso i denti. Il loro numero deve compensare ciò che manca loro quanto a esperienza di malvagità.

    Il rovesciamento presuppone una società stratificata. L’opposta delimitazione di determinate classi, di cui una ha maggiori diritti dell’altra, dev’essere esistita da molto, dev’essersi fatta sentire nella vita quotidiana degli uomini prima che potesse nascere il bisogno di un rovesciamento. Il gruppo superiore aveva il diritto di impartire ordini a quello inferiore, sia che si trattasse di conquistatori impostisi sugli indigeni, sia che la stratificazione fosse avvenuta mediante processi interni.

    Ogni ordine lascia una penosa spina in chiunque sia stato costretto ad eseguirlo. Parleremo più oltre, dettagliatamente, della natura di tali spine. Gli uomini che ricevono molti ordini e quindi sono pieni di quelle spine, provano un forte impulso a sbarazzarsene. Essi possono liberarsene in due modi. Possono trasmettere verso il basso gli ordini che hanno ricevuto dall’alto; perciò devono esserci degli inferiori, pronti a ricevere ordini da essi. Possono però anche ripagare i superiori delle sofferenze che hanno dovuto accumulare per causa loro. Un singolo, debole e privo d’aiuto, avrà solo raramente la fortuna di farlo. Se però molti si riuniscono in una massa, possono ottenere ciò che sarebbe stato negato ai singoli. Insieme possono volgersi contro coloro che li hanno comandati fino a quel momento. La situazione rivoluzionaria può essere considerata come la condizione di tale rovesciamento. Ma la massa, la cui scarica consiste essenzialmente 
     in una liberazione collettiva da «ordini-spine», dev’essere intesa come massa di rovesciamento.

    La presa della Bastiglia è considerata l’inizio della Rivoluzione francese. Essa era cominciata già prima con un bagno di sangue fra lepri. Nel maggio del 1789 si erano radunati a Versailles gli Stati Generali, per discutere l’abolizione del diritto feudale, entro il quale era compreso il diritto di caccia dei nobili. Il 10 giugno, un mese prima della presa della Bastiglia, Camille Desmoulins che partecipava alle discussioni come delegato riferiva in una lettera al padre: «I brettoni mettono in pratica provvisoriamente alcuni articoli dei loro cahiers de doléance. Essi uccidono le colombe e la selvaggina. Al tempo stesso, cinquanta giovani in questa regione fanno una strage senza paragone di lepri e di conigli. Si dice che abbiano ammazzato sotto gli occhi dei guardiani quattro-cinquemila capi di selvaggina nella pianura di Saint-Germain».17 Prima di osare contro i lupi, le pecore si volgono verso le lepri. Prima del rovesciamento diretto contro i superiori stessi, ci si sfoga sugli inferiori, sugli animali da cacciare.

    L’avvenimento essenziale è, poi, il giorno della Bastiglia. L’intera città si procura armi. La sommossa è diretta contro la giustizia reale, personificata dall’edificio assalito e conquistato. Vengono liberati prigionieri che poi si uniranno alla massa. Vengono giustiziati il governatore, responsabile della difesa della Bastiglia, e i suoi aiutanti. Ma si impiccano anche dei ladri ai lampioni. La Bastiglia è rasa al suolo, viene asportata pietra per pietra. La giustizia passa nelle mani del popolo, nei suoi due aspetti principali, la condanna capitale e la grazia. Così, per il momento, il rovesciamento si è compiuto.

    Masse di tale specie si formano nelle circostanze più svariate; può trattarsi di sommosse di schiavi contro i loro signori, di soldati contro gli ufficiali, di uomini di colore contro i bianchi che vivono in mezzo a loro. In ogni caso gli uni hanno dovuto sottostare a lungo agli ordini degli altri. In ogni caso i ribelli sono mossi dalle loro spine, e sempre trascorre molto tempo prima che agiscano.

    Gran parte di ciò che si osserva alla superficie delle rivoluzioni avviene però entro le masse aizzate. Si va in caccia di singoli uomini e, quando si catturano, si uccidono 
     insieme, con un giudizio formale o anche senza condanna. Ma la rivoluzione non consiste affatto di ciò. Non possono bastare le masse aizzate, che presto hanno naturalmente fine. Una volta iniziato, il rovesciamento non si arresta più. Ognuno cerca di raggiungere una condizione in cui possa sbarazzarsi delle proprie spine, ed ognuno ne ha molte. La massa di rovesciamento è un processo che coinvolge un’intera società, e se forse da principio ha successo, raggiunge però la fine soltanto con lentezza e con difficoltà. Tanto velocemente si esaurisce la massa aizzata, che si trova alla superficie, quanto lentamente si compie il rovesciamento dal basso, in molti scatti successivi.

    Ma il rovesciamento può essere ancora più lento: può essere promesso per l’aldilà. «Gli ultimi saranno i primi». Fra questa e quella condizione, c’è la morte. Nell’altro mondo si tornerà a vivere. Chi è stato qui il più povero, e non ha commesso niente di male, là varrà più di tutti, continuerà ad esistere come uomo nuovo, privilegiato. Al credente viene promessa la liberazione dalle proprie spine. Non ci si pronuncia, però, sulle circostanze precise di tale liberazione; e se anche in futuro tutti staranno insieme nell’aldilà, non si presenta la massa come substrato di rovesciamento.

    Al centro di questo tipo di promessa sta il concetto di resurrezione. I Vangeli riferiscono casi di resurrezione operati da Cristo in questo mondo. I predicatori dei noti Revivals18 nei paesi anglosassoni si sono serviti in tutti i modi dell’efficacia della morte e della resurrezione. I peccatori riuniti furono da loro minacciati delle più tremende punizioni infernali, e caddero in uno stato di angoscia quasi indescrivibile. Videro dinanzi a sé un lago spalancato di fuoco e di zolfo, e la mano dell’Onnipotente che stava per precipitarli nell’abisso terrifico.19 Si dice di un simile predicatore che la violenza e l’efficacia delle sue invettive era accresciuta dalle ripugnanti contrazioni del suo volto e dal tuono della sua voce. Da quaranta, cinquanta, cento miglia, gli uomini affluivano per ascoltare tali predicatori; e portavano con sé le famiglie su carri coperti, rifornendosi di giacigli e di viveri per molti giorni. Verso il 1800 riunioni di questo tipo fecero cadere parte dello Stato del Kentucky in una condizione febbrile. Le riunioni si tenevano all’aperto: nessun edificio, 
     a quei tempi, avrebbe potuto contenere masse così grandi. Al meeting di Cane Ridge, nell’agosto del 1801, si trovarono insieme ventimila uomini.20 Il ricordo di quel convegno non si era spento nel Kentucky neppure dopo cent’anni.

    Gli ascoltatori furono talmente atterriti dai predicatori che crollarono e giacquero come morti. Gli ordini di Dio li minacciavano. Vennero messi in fuga da quegli ordini e cercarono scampo in una forma di morte apparente. Il predicatore aveva l’intenzione ben precisa e dichiarata di «abbatterli». Era come un campo di battaglia: a destra e a sinistra intere file cadevano a terra. Il paragone con il campo di battaglia fu avanzato dai predicatori stessi. Questo terrore supremo e ultimo pareva loro indispensabile per determinare il rivolgimento morale che si proponevano. Il successo della predica fu misurato sul numero degli «abbattuti». Un testimone oculare, che ne fece una cronaca precisa, riferisce che durante quel meeting di molti giorni, tremila uomini caddero a terra svenuti: quasi un sesto dei presenti. Tutti i caduti vennero portati in un locale di riunione adiacente. Più della metà del pavimento era perennemente coperta di uomini in deliquio. Molti, moltissimi, vi giacquero per ore, quieti; incapaci di parlare o di muoversi. Talvolta tornavano in sé per pochi istanti e emettendo un profondo gemito, un grido penetrante o una fervida richiesta di grazia, facevano capire d’essere vivi.

    Alcuni tambureggiavano per terra con i calcagni. Altri gridavano nei tormenti della morte e sobbalzavano intorno come pesci fuor d’acqua. Altri si rotolavano per terra ore ed ore. E c’erano quelli che d’improvviso balzavano selvaggiamente oltre la tribuna e i banchi per precipitarsi nel bosco al grido: «Perduti, perduti!».

    Quando i caduti tornarono in sé erano uomini diversi. Si sollevarono ed esclamarono: «Redenzione!». Erano «neonati» e potevano ora incominciare una vita buona e pura. Avevano lasciato dietro di sé il loro essere di peccatori. Ma la conversione era solo degna di fede se era stata preceduta da una specie di morte.

    C’erano anche fenomeni di tipo meno estremo, che pure agivano nel medesimo senso. Un’intera assemblea scoppiava in pianto. Molti erano assaliti da sussulti irrefrenabili. Alcuni, di solito in gruppi di quattro o cinque, 
     cominciavano ad abbaiare come cani. Dopo alcuni anni l’eccitazione assunse forma più mite e sopravvenne un «riso sacro»,21 dapprima isolato, poi in coro.

    Ma tutto ciò che accadeva, accadeva nella massa. Forme di essa più eccitate ed a più alta tensione sono difficilmente immaginabili.

    Il rivolgimento cui si mira qui è diverso da quello delle rivoluzioni. Si tratta della condizione degli uomini dinanzi ai comandamenti divini. Essi finora li hanno trasgrediti. Ora li ha colti l’angoscia della punizione. Tale angoscia, accresciuta con ogni mezzo dal predicatore, li spinge in uno stato di assenza di coscienza. Essi si fingono morti come gli animali fuggiaschi; ma la loro angoscia è così grande da far loro perdere davvero coscienza. Quando tornano in sé, si dichiarano pronti ad arrendersi agli ordini e ai divieti di Dio. Così si placa l’angoscia giunta al culmine per la propria immediata punizione. Il processo è per così dire una domesticazione: ci si lascia addomesticare dal predicatore come obbedienti servitori di Dio.

    In una rivoluzione – come si è detto in precedenza – si verifica un fenomeno esattamente opposto. Là si compie infatti una liberazione dalle spine, di cui ci si era lentamente riempiti durante la lunga sottomissione a una signoria. Qui, si ha un nuovo assoggettamento sotto i comandamenti di Dio, e si è dunque disposti a ricevere tutte le spine che essi possono produrre. I due fenomeni hanno in comune soltanto la realtà di un mutamento e la scena psichica su cui ambedue si svolgono: nell’uno e nell’altro caso, la massa.

    Masse festive

    Potrei definire un quinto tipo di masse, masse festive. In uno spazio limitato c’è moltissimo, e i molti che si muovono entro quell’area possono tutti parteciparvi. Il rendimento di qualsiasi coltura o allevamento viene offerto alla vista in grandi mucchi. Cento maiali stanno legati in fila. Si sono accatastate montagne di frutta. In enormi recipienti è stata preparata la bevanda più gradita, 
     che ora aspetta l’amatore. C’è più di quanto tutti insieme potrebbero consumare, e allo scopo di consumarlo affluiscono sempre più persone. Finché resta qualcosa, esse ne prendono – e sembra che non possa mai finire. C’è sovrabbondanza di femmine per i maschi, e sovrabbondanza di maschi per le femmine. Nulla e nessuno li minaccia, nulla li mette in fuga; vita e piacere sono assicurati durante la festa. Molti divieti e molte separazioni sono stati aboliti, accostamenti del tutto inconsueti vengono consentiti e favoriti. L’atmosfera per il singolo è di rilassamento e non di scarica. Non c’è una meta comune a tutti, che tutti insieme dovrebbero raggiungere. La festa22 è la meta, ed essa è stata raggiunta. La concentrazione è molto alta, ma l’uguaglianza è per buona parte uguaglianza di arbitrio e di piacere. Ci si spinge avanti caoticamente e non parallelamente. Le cose che stanno là accatastate, cui si partecipa, costituiscono una parte essenziale della concentrazione, il suo nucleo. Dapprima sono state raccolte, e soltanto quando tutte sono state riunite gli uomini cominciano a radunarsi intorno a loro. Possono passare degli anni prima che tutto sia pronto, e si può soffrire una lunga carestia in cambio di questa breve sovrabbondanza. Si vive nella prospettiva del momento di festa e lo si determina coscientemente. Persone che altrimenti si vedono di rado, sono state invitate cerimoniosamente e in gruppi. L’arrivo dei singoli contingenti è fortemente posto in evidenza; esso accresce a scatti la gioia comune.

    In tali circostanze si ha la sensazione di garantire molte feste future, partecipando al piacere comune della festa di oggi. Con danze rituali e rappresentazioni drammatiche si ricordano occasioni simili del passato. La loro tradizione è nel presente della festa attuale. Se si ricordano gli iniziatori primordiali di tali manifestazioni, i promotori mitici di tutte le meraviglie di cui si gode, gli antenati o, come in società più fredde e tardive, solo i ricchi benefattori – la ripetizione futura di simili occasioni sembra garantita in ogni caso. Le feste si chiamano l’un l’altra, e attraverso la concentrazione di cose e persone si moltiplica la vita.
    

    La massa doppia: uomini e donne
    I vivi e i morti

    Per la massa la più sicura e spesso la sola possibilità di conservarsi consiste nell’esistenza di una seconda massa cui riferirsi. Può darsi che si affrontino e si misurino nel gioco; può darsi che si minaccino gravemente l’un l’altra; l’aspetto o l’immagine intensa di una seconda massa non permettono alla prima di disgregarsi. Mentre in una schiera le gambe stanno accostate alle gambe, gli occhi fissano altri occhi di fronte. Mentre le braccia si muovono in cadenza comune, le orecchie si tendono in attesa del grido che giungerà dalla schiera opposta.

    Si sta con la propria gente in vicinanza fisica e si agisce con essa in familiare e naturale unità. All’opposto, ogni curiosità, ogni attesa, ogni angoscia sono rivolte verso un secondo raggruppamento di uomini, separati dagli altri da un’evidente distanza. Non appena li si vede di fronte, si è affascinati dal loro aspetto; e anche se non si vedono, si possono sempre sentire. Tutto ciò che fanno gli uni è condizionato dall’azione o dall’intenzione degli altri. L’opposizione incide sulla contiguità. Il confronto che provoca in ambedue una particolare attenzione modifica il tipo di concentrazione all’interno di ciascun gruppo. Per un gruppo è necessario restare insieme finché i membri del secondo gruppo non si siano separati gli uni dagli altri. La tensione fra i due gruppi determina una pressione sulla propria gente. Se si tratta della tensione di un gioco rituale la pressione sembra acquistare la parvenza del pudore: si fa tutto il possibile per non esporre il proprio fianco all’avversario. Ma se gli avversari sono davvero minacciosi ed è in gioco la vita, quella pressione si trasforma nella corazza di una difesa decisa e unita.

    L’una massa tiene in vita l’altra, supposto che esse siano all’incirca di pari grandezza ed intensità. Per restare massa non si deve avere avversario troppo superiore, o almeno non lo si deve credere tale. Quando domina la sensazione di non poter resistere, si cerca di salvarsi con la fuga di massa, e quando tale fuga si rivela senza speranza la massa cade nel panico: ognuno fugge da solo. Ma questo non è il caso che qui ci interessa. Alla formazione 
     del sistema delle due masse – come si può anche definire – contribuisce da ambedue le parti la sensazione di forze pressoché uguali.

    Se si vuole afferrare la genesi di tale sistema, occorre partire da tre contrapposizioni di fondo. Esse si trovano ovunque siano degli uomini, e ogni società ne è cosciente. La prima e più saliente contrapposizione è fra uomini e donne; la seconda, fra vivi e morti; la terza, forse la sola cui oggi si pensi quando si parla di due masse contrapposte, è quella fra amici e nemici.

    Se si considera la prima ripartizione, fra uomini e donne, non appare subito evidente in qual modo essa abbia a che fare con la formazione di masse particolari. Uomini e donne vivono insieme in famiglia. Essi possono aver predisposizione ad attività diverse, ma difficilmente si potrebbero raffigurare come due gruppi separati ed eccitati, contrapposti l’uno all’altro. Per ottenere un’altra immagine della forma di questa contrapposizione, si deve ancora ricorrere a testimonianze sulle condizioni di vita primordiali.

    Jean de Léry, un giovane ugonotto francese, nel 1557 assistette a una grande festa presso i Tupinambu del Brasile.23

    «Ci ordinarono di restare nella casa in cui si trovavano le donne. Non sapevamo ancora cosa stessero per fare, quando d’improvviso cominciò un rumore molto profondo nella casa in cui si trovavano gli uomini, distante meno di trenta passi da noi e dalle donne. Suonava come un mormorio di preghiere.

    «Appena le donne, circa duecento, lo udirono, balzarono su tutte, tesero le orecchie e si affollarono in gruppo, strette le une alle altre. Poco dopo gli uomini elevarono le voci. Udimmo chiaramente che tutti cantavano insieme e si animavano sempre più ripetendo il grido: “He, he, he, he!”. Eravamo assai stupiti; le donne risposero loro emettendo il medesimo grido: “He, he, he, he!”. Per un quarto d’ora urlarono e strillarono così forte che non sapevamo più che faccia fare.

    «Mentre urlavano, le donne balzavano in aria con gran violenza, i petti vibranti, la bava alla bocca. Alcune caddero a terra prive di conoscenza, come epilettiche. Mi sembrava che il diavolo fosse entrato in loro e ne fossero completamente invasate.

    «Nelle nostre immediate vicinanze udimmo il trambusto e il chiasso dei bambini, che si trovavano nel particolare spazio loro riservato. Sebbene già da più di mezzo anno mi trovassi con i selvaggi e avessi anche familiarizzato con essi, ero – non voglio nascondere nulla – completamente atterrito. Mi chiedevo come la cosa sarebbe finita e mi auguravo di essere di nuovo nel nostro fortino».

    Il sabba delle streghe infine si placa, ammutolite le donne e i bambini, e Jean de Léry ascolta gli uomini cantare in coro così meravigliosamente che egli non riesce più a contenere il desiderio di vederli. Le donne cercano di trattenerlo: conoscono il divieto e sanno che non potranno mai passare dall’altra parte, dagli uomini. Egli tuttavia riesce a penetrare furtivamente dall’altra parte, non gli accade nulla, e con due compagni francesi partecipa alla festa.

    Uomini e donne sono dunque rigorosamente separati gli uni dalle altre, in abitazioni diverse, che però si trovano vicine. Essi non possono vedersi, ma ciascun gruppo tende l’orecchio con grande attenzione ai rumori dell’altro. Ambedue lanciano le stesse grida e partecipano sempre più di una collettiva condizione di eccitazione di massa. Gli avvenimenti essenziali si svolgono presso gli uomini. Anche le donne, però, partecipano allo scatenamento della massa. È notevole che esse, ai primi suoni provenienti dalla casa degli uomini, si stringano in fitto gruppo, e che, alle improvvise grida selvagge che giungono di là, rispondano esse stesse sempre più selvaggiamente. Esse sono piene d’angoscia poiché sono rinchiuse – non possono in alcun caso uscire –, e poiché non possono sapere ciò che accade dagli uomini, la loro eccitazione conserva una colorazione particolare. Esse saltano verso l’alto, così come salterebbero fuori. I moti isterici, notati dall’osservatore, sono caratteristici di fuga di massa impedita. È tendenza naturale delle donne correre a rifugiarsi presso gli uomini; ma poiché su ciò pesa un grave divieto, esse per così dire fuggono restando sul posto.

    Sono notevoli anche le sensazioni dello stesso Jean de Léry. Egli partecipa dell’eccitazione delle donne, per quanto non possa davvero appartenere alla loro massa. È uno straniero, ed è un uomo. In mezzo a loro, ma separato 
     da loro, egli dovette temere di divenire vittima di quella massa.

    Che la partecipazione delle donne non fosse insignificante, si apprende anche in un altro punto della relazione. Gli stregoni delle tribù o «Caraibi» – come li chiama Jean de Léry – vietano alle donne nel modo più severo di lasciare la loro casa. Essi però ordinano loro di fare molta attenzione al canto degli uomini.

    L’influenza delle donne riunite sulla schiera dei loro uomini può essere significativa anche quando esiste fra loro una distanza molto maggiore. In alcuni casi le donne contribuiscono al successo di una spedizione bellica. Si possono citare tre esempi, dall’Asia, dall’America e dall’Africa; esempi tratti da popolazioni che non ebbero mai contatti reciproci e certamente non esercitarono alcun influsso l’una sull’altra.

    Presso i Kafir dell’Hindukush le donne eseguono la danza di guerra mentre gli uomini sono assenti per una spedizione.24 Esse infondono ai guerrieri forza e coraggio e li rendono così vigili che un nemico astuto non possa sorprenderli.

    Fra i Jivaros del Sudamerica, mentre gli uomini sono impegnati in guerra, le donne si radunano ogni notte in una determinata casa e vi eseguono una danza particolare, portando indosso sonagli di conchiglie e cantando scongiuri.25 Questa danza di guerra femminile deve avere un potere peculiare: essa protegge i padri, i mariti e i figli dalle lance e dai proiettili del nemico, culla il nemico in falsa sicurezza così che egli non si accorga del pericolo se non quando è troppo tardi, e gli impedisce poi di vendicare una sconfitta.

    Nel Madagascar si chiama Mirary un’antica danza delle donne che viene ballata solo al momento della battaglia.26 Quando si annuncia un combattimento, le donne ne vengono informate da messi. Esse allora si sciolgono i capelli, cominciano la danza e stabiliscono in questo modo un collegamerito con gli uomini. Quando nel 1914 i tedeschi marciarono su Parigi, a Tananarive le donne ballarono il Mirary per proteggere i soldati francesi. Sembra che avesse successo, nonostante la grande distanza.

    In tutta la terra si celebrano feste nelle quali uomini e donne danzano in gruppi separati, ma reciprocamente 
     visibili e di solito anche contrapposti. Non è il caso di descriverle, poiché sono generalmente note. A ragion veduta mi sono limitato ad alcuni casi estremi, in cui la separazione, la distanza e anche la misura dell’eccitazione sono particolarmente vistose. Su queste basi si può pienamente parlare di massa doppia, profondamente radicata. Ambedue le masse sono reciprocamente ben disposte. L’eccitazione dell’una deve contribuire al benessere e alla prosperità dell’altra. Gli uomini e le donne fanno parte di un popolo e dipendono gli uni dagli altri.

    Invece, nei miti delle Amazzoni, che non sono affatto limitati all’antichità greca ma di cui esistono esempi presso gli stessi indigeni del Sudamerica, le donne si sono staccate per sempre dagli uomini e fan loro guerra come un popolo contro un altro.

    Ma prima di volgerci allo studio della guerra, in cui l’essenza pericolosa e apparentemente inevitabile della massa doppia ha trovato la più forte espressione, è opportuno uno sguardo alla contrapposizione primordiale fra vivi e morti.

    Tutto ciò che accade attorno agli agonizzanti ed ai morti rivela la concezione dell’attività di una più grande schiera di spiriti, nell’aldilà, ove il defunto giungerà infine. Il regno dei vivi non cede volentieri chi gli appartiene. Quella perdita lo indebolisce; e se si tratta di un uomo nel vigore degli anni, la perdita è sentita in modo particolarmente doloroso dalla sua gente. Essi si difendono contro tale sottrazione per quanto possono, ma sanno che la loro difesa non servirà a molto. La massa nell’aldilà è più grande e più forte, e l’uomo viene tratto ad essa. Qualunque cosa si intraprenda, si resta sempre coscienti di quello strapotere presente nell’aldilà. Ogni cosa che possa offenderlo è da evitarsi. La massa nell’aldilà esercita un’influenza sui vivi e può nuocere loro ovunque. Secondo alcuni popoli, la massa dei morti è il vivaio da cui provengono le anime dei neonati. Da essi dunque dipende se le donne avranno figli. Talvolta gli spiriti vagano come nuvole e recano la pioggia. Essi possono negare ai vivi le piante e gli animali di cui l’uomo si nutre. Possono afferrare tra i vivi nuove vittime. Il proprio morto, ceduto soltanto dopo dura resistenza, dev’essere 
     placato ora che fa parte di quell’enorme esercito nell’aldilà.

    Il morire è dunque una lotta: lotta fra nemici di forze disuguali. Le grida che si lanciano, le ferite che ci si infligge nel lutto e nella disperazione, sono forse intese come espressione di tale lotta. Il morto non deve credere d’esser stato ceduto facilmente: per lui si è combattuto.

    È qui in gioco una lotta tutta particolare. È una battaglia sempre perduta, indipendentemente dal coraggio con cui la si conduce. Fin da principio si è in fuga dinanzi al nemico, e in fondo lo si affronta solo apparentemente, nella speranza di staccarsene con scontri di retroguardia. La battaglia è anche simulata come lusinga per il moribondo, che presto accrescerà le fila del nemico. Il morto che passa nell’aldilà dovrebbe essere ben disposto o almeno non ostile verso i vivi. Se infatti egli giungesse irato, potrebbe incitare i potenziali nemici a un nuovo e pericoloso saccheggio.

    Peculiarità di questo particolare tipo di lotta fra morti e vivi è il suo carattere intermittente. Non si sa mai quando accadrà nuovamente qualcosa. Forse non accadrà nulla per molto tempo. Ma non vi si può contare. Ogni nuovo colpo giunge improvvisamente dalle tenebre. Non c’è alcuna dichiarazione di guerra. Dopo una sola morte, tutto potrebbe essere finito. Ma potrebbe anche continuare a lungo, come nei contagi e nelle epidemie. Si è sempre in ritirata, e non è mai davvero la fine.

    Si parlerà più oltre del rapporto fra vivi e morti. Qui si trattava soltanto di configurare ambedue come massa doppia le cui parti si riferiscono continuamente l’una all’altra. La terza forma di massa doppia è la guerra. È quella che oggi ci interessa più da vicino. Si darebbe molto per comprenderla e scioglierla, dopo le esperienze di questo secolo.

    La doppia massa: la guerra