martedì 7 ottobre 2025

"MAMMA MIA QUANTE STORIE PER DUE SLOGAN E TRE CARTELLI" Alfonso Lanzieri


"MAMMA MIA QUANTE STORIE PER DUE SLOGAN E TRE CARTELLI"

 Alfonso Lanzieri 

 06/10/2025 

Nelle ultime manifestazioni per Gaza si sono visti cartelli e striscioni che destano sgomento. Uno recitava: “7 ottobre giornata della resistenza palestinese”. Ma il 7 ottobre 2023 non è stato un giorno qualunque: è stato un pogrom spaventoso, una mattanza indiscriminata in cui furono trucidate centinaia di persone in Israele, comprese donne, anziani e bambini piccoli, con modalità così brutali da togliere il sonno.

Un altro cartello invitava a “impiccare un sionista”. Intorno, slogan che chiedevano una Palestina libera “dal fiume al mare”, formula che equivale, nella sua lettera, alla cancellazione di Israele. Molti giovani li ripetevano a gran voce, spesso senza sapere cosa significano davvero. Ma l’ignoranza non è un’attenuante: è un’aggravante.

L’assenza di consapevolezza storica trasforma la piazza in cassa di risonanza per parole d’ordine violente. C’è pure un monumento dedicato a Giovanni Paolo II imbrattato con la scritta “Fascista di merda”. Della guerriglia urbana non ne parliamo neppure.

La sinistra italiana, che per anni ha chiesto (e in qualche caso ottenuto) sanzioni sociali per chi adoperava un linguaggio non conforme al nuovo codice della correttezza lessicale, che ha equiparato la violenza verbale alla violenza fisica, che ha fatto dell’uso dei pronomi una questione decisiva, oggi si mostra indulgente.

Di fronte a slogan che contengono un’evidente carica antisemita, la risposta è che si tratta di frange marginali, casi isolati. La stessa area politica che dopo l’attentato a Charlie Hebdo sottolineava la pericolosità di parole “estreme” — arrivando persino a contestualizzare, se non giustificare, l’omicidio di figure controverse sulla base dei loro discorsi — ora liquida come irrilevanti parole che invitano alla violenza contro gli ebrei. “Mamma mia, quante storie per due slogan”, sembra il commento prevalente.

Il punto, però, non è solo questo. Il problema è che il cosiddetto “campo largo” (Pd-M5S-AVS) sembra aver scelto di lasciarsi trascinare dagli umori della piazza, nella speranza di ritrovare un contatto con la “gente”. Un obiettivo comprensibile in termini elettorali, ma che porta con sé un rischio enorme.

Farsi dettare l’agenda dalle masse, seguire gli slogan senza filtrare, significa rinunciare al compito proprio della politica: costruire coscienza, dare orientamento, proporre visioni che non assecondino semplicemente l’immediato, ma indichino un orizzonte comune. La massa erompe nell’elementarità di un urlo che può essere punto di partenza, non di approdo. C’è una responsabilità a cui la politica non può abdicare: guidare, non farsi guidare.

Significa saper dire di no agli slogan facili anche se traducono istanze giuste, respingere le derive verbali che mascherano l’odio dietro il lessico della resistenza, chiarire che la solidarietà verso il popolo palestinese non può coincidere con la celebrazione del massacro o con l’evocazione di un nuovo sterminio.

Ad aggravare la situazione c’è lo stato del partito di maggioranza del campo largo, il PD, che per decenni si è vantato della propria affidabilità istituzionale: oggi sembra essersi stufato di voler recitare la parte “responsabile”. Qui si situa probabilmente la trasformazione più evidente dei dem. Pur di guadagnare voti, il partito oggi guidato da Schlein ha imboccato la deriva adolescenziale dell’antagonismo movimentista, e nessuno riesce a tirare il freno.

Questo deficit appare ancora più grave se guardiamo al contesto globale. Il mondo sembra essere avviato, infatti, verso una nuova spartizione in zone d’influenza: da un lato Stati predatori, dotati di eserciti potenti, risorse energetiche e supremazia tecnologica; dall’altro Stati preda, costretti a subire logiche imposte dall’esterno.

Stati Uniti, Cina, Russia e forse altre potenze regionali avranno mano libera all’interno delle rispettive sfere, mentre per i popoli più deboli non resterà che piegarsi o soccombere. In questo scenario, che ruolo avrà l’Europa? Riuscirà a salvarsi dal ridursi a terreno di caccia, o a protettorato nelle mani altrui?

Ecco, in un momento così drammatico, la sinistra italiana non riesce a proporre un pensiero all’altezza. Non sa smarcarsi dagli slogan facinorosi che sfruttano Gaza per regolare conti ideologici con l’Occidente liberale; non sa parlare di riarmo e difesa comune se non con formule infantili o nostalgie filosovietiche; non riesce a trasformare l’indignazione in proposta.

Mentre il mondo scivola verso una nuova stagione imperiale, con blocchi contrapposti e popoli sacrificabili, il cosiddetto campo largo sembra vivere in un’altra dimensione. Di fronte alla prospettiva di un’Europa ridotta a protettorato, non osa elaborare una strategia; di fronte all’esigenza di difendere la democrazia liberale, balbetta formule da catechismo pacifista; di fronte alla sfida di dare voce a una piazza che chiede pace, non riesce a separare il grido sincero dalla propaganda dell’odio.

Così facendo, la sinistra italiana riesce a portare in piazza per Gaza forse un milione, due milioni, tre milioni di persone — non lo so — ma in nessuno di questi cortei potrebbero sfilare quanti a Tel Aviv si radunano per ricordare le vittime del 7 ottobre e protestare contro Netanyahu. Ci vuole del talento.

La sinistra, insomma, rischia di non stare né dalla parte giusta né dalla parte sbagliata della storia: rischia di restarne semplicemente fuori.

Commenti

06/10/2025 alle 8:20 pm

Il campo largo organizza e si “aggrappa” a queste manifestazioni per mascherare una debolezza contenutistica. Le politiche estere e i conflitti internazionali come quello in Medio Oriente, generano intense mobilitazioni e spesso vengono strumentalizzati nel dibattito interno per attaccare o difendere l’operato del governo.

Andrea

06/10/2025 alle 6:32 pm

Bellissimo articolo, grazie

Aggiungo una nota, se posso, solo per dare ulteriore misura dei livelli di incoerenza, ipocrisia e confusione mentale raggiunti da questa sinistra

Quando in occasione di precedenti manifestazioni pro Palestina e “pacifiste” qualcuno ha provato a inserirsi con cartelli che dicevano, per esempio, “Gaza libera da Hamas” o che chiedevano la liberazione degli ostaggi, le contestazioni, anche molto forti, di quei cartelli sono state immediate e i cordoni per impedirgli di unirsi al corteo efficientissimi

Per i partecipanti al corteo si trattava di provocatori, e in effetti lo erano rispetto ai messaggi del corteo, che Hamas e gli ostaggi li ignoravano

Evidentemente inneggiare al 7/10 e urlare slogan che implicano la cancellazione di Israele non sono stati considerati provocazioni inaccettabili


QUEL MALEDETTO SABATO DI DUE ANNI FA Michele Magno


QUEL MALEDETTO SABATO DI DUE ANNI FA 

 Michele Magno 

 07/10/2025 


La violenza di quel sabato maledetto di due anni fa ha lasciato molti attoniti per qualche ora, ma ha suscitato ben poca pietas.

Già dal giorno successivo è iniziata una catastrofe morale e spirituale che avrebbe travolto le opinioni pubbliche occidentali. Prima ancora che a Teheran, nelle capitali delle due sponde dell’Atlantico esplodeva l’esultanza per un pogrom considerato una legittima reazione a una lunga vicenda di prevaricazioni.

La bandiera palestinese, la kefiah e altri simboli hanno così invaso — più che le strade e le università arabe — quelle americane ed europee, rappresentando il “controccidente” tornato improvvisamente alla ribalta a ovest di Allah.

Anche se gli ostaggi sono rimasti nelle mani dei rapitori, anche se i razzi hanno continuato a piovere su Israele, anche se era sempre più evidente la ferocia di Hamas verso la propria popolazione ridotta al martirio, il 7 ottobre si è però concluso, in quel giorno, come un assoluto senza luogo e senza tempo.

La storia è proseguita altrove: nelle fabbriche dello sdegno universale per i morti di Gaza.

Uno sdegno veicolato da media compiacenti e amplificato dalla narrazione mainstream, libera dall’onere della ricerca della verità, dello “Stato terrorista”.

È una strana civiltà la nostra, la cui cultura è impegnata da due secoli a denunciare se stessa e a preconizzarne il tramonto.

Con il crollo dell’Urss l’odio antioccidentale sembrava aver perso i suoi riferimenti geopolitici e teorici. Non era così. In realtà aveva solo cambiato natura e direzione.

Oggi li ha trovati nell’astrazione dello “Stato di Palestina”. Del resto, almeno a giudicare dagli odierni movimenti antisionisti e antisemiti — fisici e digitali — nella battaglia contro Israele si saldano gli argomenti dell’anticapitalismo terzomondista tipici del comunismo d’antan con quelli del verbo khomeinista contro la società borghese e liberale.

(Nessuna meraviglia, quindi, se la tragedia dell’Ucraina — Paese che vuole affiliare all’Ue — non rientra nell’orizzonte di protesta di questi movimenti.)

Tutto ciò può spiegare come quell’impasto ideologico che aveva animato le rivolte studentesche degli anni Sessanta sia stato riesumato per demonizzare Israele, il “piccolo Satana”, avamposto dell’imperialismo yankee — il “grande Satana”.

E può anche spiegare come mai l’antisemitismo, che fino a ieri la memoria del nazismo e l’accostamento con le destre rendevano impresentabile, faccia oggi proseliti a sinistra, mentre le destre si intestano la difesa dello Stato ebraico.

Come sappiamo, proviene d’altronde dalla sinistra l’appellativo di “nazista” (Luciano Canfora docet) con cui, utilizzando un lemma stalinista, viene marchiato il “regime” israeliano.

Dal pacifismo aggressivo che univa cattolici e comunisti — da Fanon a Marcuse a don Milani — riemerge oggi una costellazione di temi, autori e testi di una stagione che pareva caduta nell’oblio.

E poi ci sono i mezzi di comunicazione di massa.

La stessa stampa quotidiana, oggi per lo più online, in cui la fedeltà dei lettori è assai labile, deve essere incessantemente confermata da notizie eclatanti, volte non a descrivere i fatti e trasmettere informazioni verificate, ma a confermare i bias cognitivi degli utenti.

In un certo primitivismo della militanza filopalestinese qualcuno potrebbe scorgere anche il segno inconsapevole di un paternalismo coloniale.

Guardando con sospetto i successi della ricerca scientifica, dell’agricoltura e dell’industria israeliana — così come il suo governo democratico, o i suoi traguardi nella tutela dell’ambiente e dei diritti di genere — ci si compiace quasi del sottosviluppo palestinese, in gran parte dovuto alla rapina degli aiuti internazionali operata da Hamas per i propri scopi bellici, come simbolo dell’“innocenza” degli umili e degli oppressi.

In ogni caso, queste sono le ore della speranza.

A giudizio di chi scrive, la strada è ancora in salita, ma è lecito attendersi dai colloqui del Cairo novità promettenti.

Hamas è con le spalle al muro. E non bisogna temere di dire che anche Trump e Netanyahu, per una volta, “hanno fatto cose buone”.

I giovani di “Free Palestine from the river to the sea” — molti dei quali non sanno nemmeno di quale fiume e di quale mare si parli — forse continueranno a mobilitarsi.

I sindacati, confederali e di base, forse continueranno a scioperare. La sinistra parlamentare “astensionista sulla pace” forse continuerà a chiedere il boicottaggio di Israele.

Quella extraparlamentare continuerà ad agitare il fantoccio del genocidio.

Gli intellettuali engagés forse continueranno a denunciare l’impianto “colonialista” di un piano di pace accettato dall’Anp, da numerosi Paesi arabi e islamici, e da quasi tutte le nazioni europee.

Può darsi. Ma se i negoziati andranno a buon fine, nulla sarà come prima.

lunedì 6 ottobre 2025

Hamas dà i primi segni di resa mentre in Italia sfila la solita liturgia rivoluzionaria Filippo Piperno



Hamas dà i primi segni di resa mentre in Italia sfila la solita liturgia rivoluzionaria

 Filippo Piperno  

04/10/2025


C’erano una volta Ho Chi Minh e il generale Giáp: volti sorridenti stampati su magliette, bandiere e poster appesi nelle camere degli studenti occidentali. Erano simboli perfetti: rivoluzionari terzomondisti contro l’imperialismo americano, incarnazioni di una lotta “giusta” e “popolare”.

Oggi la causa è cambiata – la Palestina al posto del Vietnam – ma le mobilitazioni e gli scioperi sono identici o quasi: i soliti “milioni” in piazza – fonte il sindacato landiniano – qualche centinaio di migliaia, secondo la questura ma anche questa disputa sui numeri è una liturgia collaudatissima come la tombola a Natale.

Come negli anni ‘70 sfilano gli operai, che nel frattempo sono andati in pensione ma sono sempre lì a sfilare e sfilano i soliti studenti che senza mobilitazione e slogan che studenti sarebbero? Stessa indignazione, stessa rabbia, stessa retorica, gli immancabili scontri con la polizia. Disagi di ogni tipo a trasporti e viabilità che rinsaldano il già cospicuo serbatoio di voti della destra al governo. E fin qui tutto più o meno già visto.

Eppure, una differenza c’è. Dove sono i volti di Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Ismail Haniyeh, i capi della “resistenza” a Gaza? Perché nessuno riconosce a questi leader di Hamas l’indubbio merito di aver riportato la causa palestinese al centro della resistenza mondiale all’Occidente colonialista e genocida? Perché nessuno li appende in camera su un poster o ne indossa una maglietta? Perché nessuno grida i loro nomi al megafono come accadeva ai tempi di “Giáp, Giáp, Ho Chi Minh”?

Non sarà perché non sono rivoluzionari, con il libretto rosso in tasca, ma leader di un’organizzazione terroristica che massacra civili, usa i propri concittadini come scudi umani, sequestra e ammazza i bambini con le proprie madri e usa gli ospedali come basi militari?

Azzardiamo che questa volta neanche il romanticismo rivoluzionario che tanto piace a Maurizio Landini regge alla realtà. E citare e beatificare apertamente chi guida quella “resistenza” significherebbe ammettere che la lotta di liberazione della Palestina la gestisce Hamas e non si propone di cacciare un invasore per fondare uno stato comunista. 

E così la protesta continua, sventolando bandiere e urlando slogan ma con un curioso vuoto al centro: la causa sì, i suoi protagonisti no. Il Vietnam aveva i suoi eroi, la Palestina no.


***


Mentre questo articolo veniva editato, intorno alle 22 di ieri sera, è arrivata la notizia che tutti aspettavano tranne quelli che vorrebbero veder “fiorire” una Palestina “dal fiume al mare”. Hamas ha annunciato in una dichiarazione di “accettare di rilasciare tutti gli ostaggi israeliani, vivi o cadaveri, in base alla proposta di Trump su Gaza”. Il gruppo ha aggiunto di essere pronto ad avviare immediatamente negoziati di mediazione per discutere i dettagli.

Di seguito il comunicato integrale di Hamas pubblicato sul canale Telegram:


In nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso


Dichiarazione importante

Riguardo alla risposta di Hamas alla proposta del presidente statunitense Donald Trump


Nel tentativo di fermare l’aggressione e la guerra di sterminio condotte contro il nostro saldo e resistente popolo nella Striscia di Gaza, e partendo da un senso di responsabilità nazionale e dalla preoccupazione per i principi fondamentali, i diritti e gli interessi supremi del nostro popolo, il Movimento di Resistenza Islamica (Hamas) ha condotto approfondite consultazioni all’interno delle proprie istituzioni dirigenziali, ampie consultazioni con le forze e le fazioni palestinesi, nonché con mediatori e paesi amici, al fine di raggiungere una posizione responsabile nei confronti del piano presentato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.


Dopo un attento esame, il movimento ha preso la sua decisione e ha presentato la seguente risposta ai fratelli mediatori:


Il Movimento di Resistenza Islamica, Hamas, esprime il proprio apprezzamento per gli sforzi arabi, islamici e internazionali, così come per gli sforzi del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che chiedono la fine della guerra contro la Striscia di Gaza, lo scambio di prigionieri, l’ingresso immediato degli aiuti, il rifiuto dell’occupazione della Striscia e lo spostamento forzato del nostro popolo palestinese da essa.


In questo contesto, e al fine di ottenere la cessazione delle ostilità e il completo ritiro dalla Striscia di Gaza, il movimento annuncia la propria disponibilità a rilasciare tutti i prigionieri israeliani, vivi o morti, secondo la formula di scambio contenuta nella proposta del presidente Trump, a condizione che siano soddisfatte le condizioni sul campo necessarie allo scambio. In tale contesto, il movimento ribadisce la propria disponibilità ad avviare immediatamente negoziati, tramite i mediatori, per discutere i dettagli di tale accordo.

Il movimento rinnova inoltre la propria disponibilità a trasferire l’amministrazione della Striscia di Gaza a un organismo palestinese composto da indipendenti (tecnocrati), basato sul consenso nazionale palestinese e sul sostegno arabo e islamico.

Le altre questioni menzionate nella proposta del presidente Trump, relative al futuro della Striscia di Gaza e ai diritti inalienabili del popolo palestinese, sono legate a una posizione nazionale complessiva e fondata sulle pertinenti leggi e risoluzioni internazionali. Esse saranno discusse all’interno di un quadro nazionale palestinese globale, di cui Hamas farà parte e al quale contribuirà con piena responsabilità.

Movimento di Resistenza Islamica – Hamas

LA BUGIA PIÙ LUNGA DEL MONDO ARABO: "RESISTENZA" CONTRO LA VITA Luigi Giliberti

 

LA BUGIA PIÙ LUNGA DEL MONDO ARABO: "RESISTENZA" CONTRO LA VITA
Luigi Giliberti
@LuigiGiliberti2

Da più di settant’anni il mondo finge di non sapere. Ogni volta che un missile parte da Gaza o una bomba cade su Rafah, si risvegliano improvvisamente esperti, pacifisti, indignati a turno. Ma la verità, quella vera, è che questo conflitto non nasce da una questione di confini: nasce da un rifiuto.
Il rifiuto di accettare che Israele esista.
Tutto comincia con una promessa e un tradimento. 1917, Dichiarazione Balfour: gli inglesi appoggiano una “casa nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. Poi il Mandato britannico, e l’illusione che due popoli potessero convivere sotto la stessa amministrazione. Già allora iniziano gli scontri. Negli anni ’30 gli arabi attaccano gli ebrei in decine di pogrom. La Commissione Peel prova a dividere il territorio: due Stati, ma gli arabi rifiutano. “Meglio niente che uno Stato ebraico accanto a noi.” È tutto lì, già scritto.
Salto al 1947. L’ONU approva la risoluzione 181: due Stati, uno arabo, uno ebraico. Gli ebrei accettano. Gli arabi rispondono con cinque eserciti in marcia. Israele nasce e subito viene attaccato. Da quel momento ogni guerra, ogni intifada, ogni trattato rotto, ripete lo stesso copione: Israele si difende, il mondo lo accusa, i palestinesi vengono usati come arma politica.
La “Nakba”, la catastrofe palestinese, è una tragedia vera. Centinaia di migliaia di persone fuggirono - o furono spinte via - in un caos totale. Ma nessuno racconta l’altra Nakba: 800.000 ebrei cacciati dai Paesi arabi, dalle case di Baghdad, Il Cairo, Damasco, Beirut. Quegli esuli si integrarono in Israele. I palestinesi, no. Furono mantenuti in un limbo eterno, con l’UNRWA, agenzia ONU creata solo per loro, generazione dopo generazione, come se il rifugiato fosse un mestiere. Mantenuti in un dolore programmato, utile a chi vive di propaganda.
Arrivano gli anni ’60: nasce l’OLP, “liberazione” a parole, terrorismo nei fatti. Aerei di linea dirottati, Olimpiadi insanguinate, stragi in Europa. Poi gli anni ’90, la stretta di mano a Oslo: sembrava la svolta. Autonomia in Cisgiordania, autorità palestinese, aiuti miliardari. Ma la corruzione e la violenza restano più forti della diplomazia. Hamas si prepara all’ombra delle moschee, con i dollari del Qatar e l’indifferenza occidentale.
2005: Israele si ritira da Gaza, smantella le colonie, abbandona i campi e i serbatoi. Risultato? In due anni Hamas prende il potere con le armi, elimina Fatah e inizia a costruire tunnel e arsenali sotto scuole e ospedali. La “resistenza” diventa un business. Gaza diventa uno Stato parallelo: niente libertà di stampa, niente elezioni dal 2006, dissidenti torturati, e miliardi di aiuti spariti nel cemento dei bunker.
E arriviamo al 7 ottobre 2023, la data che ha spogliato il mondo dalle sue ipocrisie. Non è stata una “reazione” o una “protesta”: è stato un massacro pianificato. Civili massacrati, bambini bruciati vivi, donne stuprate. E mentre le immagini correvano, la sinistra radicale europea trovava il coraggio di dire “ma”. Quel “ma” è il veleno della nostra epoca.
“Ma Israele occupa”, “ma Gaza è una prigione”, “ma i palestinesi soffrono”.
Sì, soffrono. Ma chi li tiene prigionieri non è Israele: è Hamas, è l’Iran, è chi finanzia la morte al posto della vita.
Oggi, 2025, Gaza è un cimitero e un laboratorio di menzogne. Ogni volta che Israele reagisce, scatta il rituale: risoluzioni ONU, cortei di piazza, foto selezionate ad arte, hashtag e indignazione prêt-à-porter. Nessuno parla delle guerre tra clan interni, dei civili usati come scudi, dei miliziani travestiti da medici. Nessuno parla dei tunnel sotto gli ospedali di Al-Shifa, dove Hamas si nascondeva con gli ostaggi. Nessuno parla dei 300 milioni l’anno finiti in stipendi falsi e fondi neri. Gaza è il paradosso perfetto: la popolazione più aiutata al mondo, governata dai più fanatici del pianeta.
E Israele? Israele non è innocente, ma è uno Stato che risponde a un principio chiaro: esistere. Non per fede, ma per sopravvivenza. Ogni guerra che combatte è una guerra imposta, ogni tregua è un conto alla rovescia verso la prossima.
Dietro la facciata dei diritti umani si nasconde una verità semplice: se Hamas depone le armi, la guerra finisce; se Israele le depone, Israele finisce. Punto.
Eppure, in Europa, nei campus, sui social, la narrazione si è rovesciata. L’aggressore è diventato vittima, la democrazia è vista come tirannia, e il terrorismo è romanticizzato come “lotta di liberazione”. Tutto in nome di una morale selettiva: piangi per Gaza, ignora Sudan, Congo, Yemen. La compassione si è fatta ideologia, e l’odio per Israele è diventato status sociale.
La verità è che la pace non arriverà finché il mondo continuerà a coccolare il vittimismo palestinese e a demonizzare l’esistenza israeliana. Perché non puoi fare la pace con chi ti nega il diritto di vivere.
La bugia più grande non è quella dei media o dei governi. È quella che raccontiamo a noi stessi: che ci importa davvero della giustizia. Non è vero. Ci importa dello spettacolo, del brivido di schierarsi, del gusto di odiare chi sta meglio.
Il conflitto israelo-palestinese non è più solo una guerra di territori. È diventato una guerra morale - e l’Occidente la sta perdendo, pezzo dopo pezzo, perché non sa più distinguere tra chi difende la vita e chi la usa come scudo.
Alla fine, tutto torna a quella scelta del 1947: accettare due Stati o distruggerne uno.
Oggi, come allora, il mondo ha scelto l’ambiguità. E l’ambiguità, in guerra, è solo un altro nome per la codardia.
Finché Hamas terrà in ostaggio il popolo palestinese e l’Occidente continuerà a difendere i carnefici come se fossero vittime, non ci sarà pace, né verità, né redenzione. Solo un eterno replay della stessa menzogna.
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Luigi Giliberti
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domenica 5 ottobre 2025

LA SETTIMANA BIANCA Emmanuel Carrère


 LA SETTIMANA BIANCA

Emmanuel Carrère

Carrère ha una abilità straordinaria nel descrivere le sensazioni e i sentimenti, specie quelli più torbidi e reconditi, giocando sulle paure ataviche, sull'interiorità dei propri personaggi. Così è anche in questo romanzo, un noir  che fa dell'ansia la sua arma di forza, perché tutto giocato all'interno della vittima indiretta. Il male ci viene raccontato tramite gli occhi di un bambino, Nicholas, tramite i suoi turbamenti, le sue pulsioni e fantasie. Ogni pagina scava sempre di più nel suo abisso interiore, dando una forma palpabile all'angoscia e alla percezione del male, contagiandoci a livello psichico e trasportandoci in un'atmosfera ansiogena ma magnetica, da cui è impossibile staccarsi fino alla fine. L'autore è magistrale a farci entrare nella psiche dei personaggi.

LA SETTIMANA BIANCA

1


In seguito Nicolas cercò a lungo, ancora oggi cerca, di ricordarsi le ultime parole che gli aveva rivolto suo padre. L’aveva salutato sulla porta dello chalet, gli aveva nuovamente raccomandato di fare attenzione, ma Nicolas era così imbarazzato dalla sua presenza, così ansioso di vederlo andar via che non era stato a sentire. Non gli perdonava di essere lì, di attirare sguardi che immaginava ironici, e si era sottratto al suo bacio chinando la testa. Nell’intimità familiare non l’avrebbe passata liscia, ma sapeva che così, davanti a tutti, il padre non avrebbe osato rimproverarlo.


Prima, in macchina, dovevano di sicuro aver parlato. Nicolas, seduto dietro, stentava a farsi sentire per via del rumore del riscaldamento, acceso al massimo per disappannare i vetri. La sua unica preoccupazione era sapere se sulla strada avrebbero trovato un distributore Shell. Per nulla al mondo, quell’inverno, avrebbe permesso che si facesse benzina altrove, perché con i buoni della Shell si vinceva un bambolotto di plastica con il torace che si apriva come il coperchio di una scatola, rivelando scheletro e organi: potevi estrarli e rimetterli a posto, cominciando così a prendere confidenza con l’anatomia del corpo umano. L’estate precedente, nelle stazioni di servizio Fina, si vincevano materassini e canotti gonfiabili. In altre ancora certi fumetti di cui Nicolas aveva la collezione completa. Almeno da questo punto di vista si considerava un privilegiato, per via del mestiere di suo padre, che era sempre in macchina e doveva fare il pieno ogni due o tre giorni. Tutte le volte che partiva, Nicolas chiedeva al padre di mostrargli l’itinerario sulla cartina, calcolava il numero di chilometri e lo convertiva in quei buoni che custodiva in una cassaforte grande quanto una scatola di sigari, di cui era l’unico a conoscere la combinazione. Gliel’avevano regalata a Natale i genitori – «per i tuoi piccoli segreti» aveva detto il padre –, e Nicolas aveva insistito per metterla nello zaino. Durante il viaggio avrebbe voluto ricontare i buoni e calcolare quanti gliene mancavano, ma lo zaino era nel bagagliaio e il padre si era rifiutato di fermarsi per aprirlo: avrebbero approfittato di una sosta. Prima dello chalet, però, non ci furono né soste né distributori Shell. Vedendolo deluso, il padre gli promise che entro la fine della settimana bianca avrebbe fatto abbastanza chilometri per vincere lo scorticato anatomico. Se gli dava i buoni, l’avrebbe trovato a casa al suo ritorno.


L’ultima parte del tragitto li portò su strade secondarie non tanto innevate da costringerli a mettere le catene, e per Nicolas fu un’ulteriore delusione. Fin lì avevano viaggiato in autostrada. A un certo punto il traffico rallentò, poi si bloccò per qualche minuto. Il padre di Nicolas tamburellava nervoso sul volante, borbottando che non era normale, in un giorno lavorativo, e per di più a febbraio. Dal sedile posteriore Nicolas lo vedeva solo di tre quarti, la nuca tozza infagottata nel bavero del cappotto. Quel profilo e quella nuca tradivano ansia, e una rabbia amara, tenace. Finalmente il traffico riprese a scorrere. Il padre di Nicolas emise un sospiro e si rilassò: probabilmente era solo un incidente, disse. Nicolas fu colpito da quel tono di sollievo: come se un incidente, dal momento che si limitava a causare un breve ingorgo smaltito con l’arrivo dei soccorsi, potesse essere una cosa da augurarsi. Era colpito, ma anche molto curioso. Con il naso incollato al finestrino, sperava di vedere le macchine accartocciate a fisarmonica, i corpi insanguinati distesi sulle barelle nella luce intermittente dei lampeggianti, e invece non vide niente di niente e suo padre, sorpreso, disse che no, doveva trattarsi di qualcos’altro. Scomparso l’ingorgo, permase il mistero.

2


La partenza per la settimana bianca era avvenuta il giorno precedente, in pullman. Ma dieci giorni prima c’era stata una tragedia, e ne avevano trasmesso le immagini al telegiornale: un camion si era scontrato con uno scuolabus, diversi bambini erano bruciati vivi, una cosa atroce. L’indomani a scuola, nel corso di una riunione preparatoria, i genitori avevano ricevuto le ultime istruzioni riguardanti il bagaglio dei figli, i vestiti da contrassegnare, le buste affrancate per scrivere a casa, le telefonate che invece era meglio evitare, salvo casi di forza maggiore, perché i bambini potessero vivere quell’esperienza in piena autonomia, senza un filo a tenerli legati al loro ambiente familiare. Quest’ultima raccomandazione contrariò diverse madri: erano ancora così piccoli... La maestra ripeté paziente che era nel loro interesse. Obiettivo principale di un soggiorno del genere era che imparassero a camminare con le loro gambe.


A questo punto il padre di Nicolas disse, piuttosto sgarbatamente, che a suo parere l’obiettivo principale della scuola non è staccare i bambini dalla famiglia, e che se ne avesse avuto voglia non si sarebbe fatto scrupoli a telefonare. La maestra aprì la bocca per rispondere, ma lui la interruppe. Era andato alla riunione per sollevare un problema ben più grave: quello della sicurezza sulla strada. Chi poteva garantire che non si sarebbe verificata una disgrazia come quella di cui tutti avevano visto le immaginila sera prima? Già, chi poteva garantirlo? ripeterono altri genitori, che non avevano osato fare la domanda ma evidentemente ci stavano pensando. La maestra riconobbe che nessuno sarebbe stato in grado di garantirlo, purtroppo. Lei poteva solo dire che per quanto riguardava la sicurezza erano molto scrupolosi, che l’autista guidava con prudenza e che un ragionevole margine di rischio fa parte della vita. Per avere la certezza assoluta che i loro figli non sarebbero finiti sotto una macchina, i genitori avrebbero dovuto rinchiuderli in casa; e anche così, non sarebbero stati al riparo dal pericolo degli elettrodomestici, o più semplicemente dalle malattie. Alcuni genitori convennero che l’argomento era sensato, ma molti furono turbati dal fatalismo con cui la maestra lo esponeva. Parlando sorrideva addirittura.


«E certo, perché non sono figli suoi!» sbottò il padre di Nicolas. La maestra smise di sorridere e rispose che anche lei aveva un figlio, e che l’anno precedente l’aveva mandato alla settimana bianca, in pullman. Allora il padre di Nicolas dichiarò che allo chalet suo figlio preferiva accompagnarcelo lui: così almeno avrebbe saputo chi guidava.


La maestra gli fece notare che erano più di quattrocento chilometri.


Pazienza, ormai aveva deciso.


Ma per Nicolas non sarebbe stato un bene, obiettò ancora lei. Per la sua integrazione nel gruppo.


«Si integrerà perfettamente» disse il padre di Nicolas; e sogghignò: «Non vorrà farmi credere che arrivare in macchina con il suo papà farà di lui un emarginato!».


La maestra gli chiese di pensarci su seriamente, lo invitò a consultare la psicologa, che avrebbe senz’altro confermato la sua opinione, ma riconobbe che in ultima istanza la decisione spettava a lui.


Il giorno seguente, a scuola, provò a parlarne con Nicolas, per capire di chi fosse l’idea. Soppesando le parole, come sempre con lui, gli chiese che cosa preferiva. La domanda lo mise a disagio. In cuor suo Nicolas sapeva perfettamente che gli sarebbe piaciuto viaggiare in pullman come tutti gli altri. Ma la decisione ormai era presa, suo padre non avrebbe cambiato idea, e agli occhi della maestra e dei compagni non voleva passare per quello che subisce un’imposizione. Alzò le spalle, disse che non gli importava, che andava bene così. La maestra non insisté: aveva fatto quel che poteva, e siccome era evidente che non sarebbe riuscita a cambiare le cose, era meglio non drammatizzare la situazione.

3


Nicolas e suo padre raggiunsero lo chalet poco prima di sera. Gli altri, arrivati il giorno precedente, avevano fatto la prima lezione di sci la mattina e adesso erano riuniti in una grande sala a pianterreno a vedere un film sulla flora e la fauna alpine. La proiezione fu interrotta per accogliere i nuovi venuti. Mentre nell’ingresso la maestra parlava con il padre di Nicolas e gli presentava i due animatori, nel salone i bambini cominciarono a fare chiasso. Fermo sulla porta, Nicolas li guardava senza avere il coraggio di raggiungerli. Sentì suo padre chiedere come andava il corso di sci, e l’istruttore rispondere ridendo che c’era poca neve, più che altro i bambini imparavano lo sci d’erba, ma era già qualcosa. Suo padre volle anche sapere se alla fine del soggiorno avrebbero ricevuto un diploma. Una stelletta? L’istruttore rise di nuovo e disse: «Magari un fiocco di neve». Nicolas si dondolava da un piede all’altro, imbronciato. Quando finalmente suo padre ripartì, si lasciò baciare controvoglia e non uscì a salutarlo. Dall’ingresso ascoltò con sollievo il motore diesel rombare sullo spiazzo, poi allontanarsi.


La maestra incaricò gli animatori di ristabilire l’ordine e di far ripartire la proiezione mentre lei aiutava Nicolas a sistemarsi. Gli chiese dove fosse il suo zaino, per portarlo su nel dormitorio. Nicolas si guardò intorno ma non lo vide. Non capiva.


«Mi pareva che fosse qui» mormorò.


«Sei sicuro di averlo portato?» chiese la maestra.


Sì, Nicolas si ricordava benissimo che l’avevano messo nel bagagliaio, tra le catene e le valigette con il campionario di suo padre.


«E quando siete arrivati, l’avete tirato fuori dal bagagliaio?».


Nicolas scosse la testa mordendosi le labbra. Non ne era sicuro. Anzi, sì: adesso era sicuro che si erano dimenticati di tirarlo fuori. Erano scesi, poi suo padre era risalito in macchina e il bagagliaio proprio non l’avevano aperto.


«Bella seccatura» disse la maestra, irritata. La macchina era ripartita da cinque minuti, ormai era troppo tardi per raggiungerla. A Nicolas veniva da piangere. Farfugliò che non era colpa sua. «Avresti potuto pensarci anche tu» sospirò la maestra. Vedendolo così avvilito si raddolcì, alzò le spalle e disse che era una seccatura, ma non poi così grave. Si sarebbero arrangiati. E comunque suo padre se ne sarebbe accorto subito. Sì, confermò Nicolas, appena avesse aperto il bagagliaio per prendere le valigette con il campionario. La maestra concluse che presto avrebbe riportato lo zaino. Sì, sì, ripeté Nicolas, combattuto tra il desiderio di riavere le sue cose e il timore di veder tornare il padre.


«Sai dove ha intenzione di fermarsi a dormire?» chiese la maestra.


Nicolas non lo sapeva.


Adesso ormai era buio, ed era poco probabile che suo padre riportasse lo zaino prima dell’indomani mattina. Bisognava trovare una soluzione per la notte. La maestra tornò con Nicolas nel salone, dove il film era finito e i bambini si apprestavano ad apparecchiare per la cena. Varcando la soglia dietro di lei, Nicolas provava la sgradevole sensazione di essere il nuovo arrivato a cui niente è familiare e che gli altri sicuramente prenderanno in giro. Capiva che la maestra faceva del suo meglio per proteggerlo dall’ostilità e dalle canzonature. Dopo aver battuto le mani per chiedere l’attenzione, annunciò in tono scherzoso che Nicolas, sulle nuvole come suo solito, aveva dimenticato lo zaino. Chi si offriva di prestargli un pigiama?


Poiché l’elenco ciclostilato prevedeva che ognuno ne portasse tre, chiunque avrebbe potuto prestarglielo, ma nessuno si fece avanti. Senza avere il coraggio di guardare i compagni in cerchio attorno a loro, Nicolas stava vicino alla maestra, che ripeté il suo appello un po’ spazientita. Nicolas sentì dei risolini, poi una frase di cui non riuscì a identificare la provenienza, ma che fu accolta da una risata generale:


«Ci farà pipì dentro!».


Era una cattiveria gratuita, sicuramente sparata a caso, ma che colpiva nel segno. Anche se di rado, a Nicolas capitava ancora di bagnare il letto, e dormire fuori casa lo metteva in ansia. Da quando si era iniziato a parlare di settimana bianca, quello era uno dei suoi principali motivi di preoccupazione. In un primo momento aveva detto che non ci voleva andare. Sua madre aveva chiesto un appuntamento alla maestra, che l’aveva tranquillizzata: non sarebbe certo stato l’unico, e poi spesso in gruppo i disturbi di quel genere scompaiono; bastava portare un pigiama in più, e una traversa per proteggere il materasso. Nonostante queste parole rassicuranti, Nicolas aveva seguito con apprensione i preparativi dello zaino: visto che avrebbero dormito in una camerata, sarebbe riuscito a mettere la traversa sotto il lenzuolo senza farsi notare? Prima della partenza l’avevano tormentato questa e altre preoccupazioni simili, ma neppure nel peggiore degli incubi avrebbe potuto immaginare quello che gli stava accadendo nella realtà: ritrovarsi senza zaino, senza traversa, senza pigiama, ridotto a mendicarne uno che gli altri gli rifiutavano mettendolo in ridicolo, smascherato fin dal suo arrivo, come se portasse la propria vergogna scritta in fronte.


Alla fine qualcuno disse che il pigiama glielo prestava lui. Era Hodkann. E questo provocò altre risa, perché Hodkann era il più alto della classe e Nicolas uno dei più piccoli, tanto che veniva da chiedersi se la proposta non mirasse a ridicolizzarlo ulteriormente. Ma Hodkann disinnescò le battute dicendo che chi avesse dato noia a Nicolas avrebbe dovuto vedersela con lui, e nessuno osò più aprire bocca. Nicolas gli lanciò un’occhiata di ansiosa gratitudine. La maestra sembrava sollevata ma perplessa, come se temesse una trappola. Sugli altri ragazzi Hodkann aveva un forte ascendente, che esercitava a suo capriccio. In qualsiasi gioco, per esempio, i ruoli si definivano in relazione a lui, e non si poteva sapere in anticipo se avrebbe fatto l’arbitro o il capobanda, se avrebbe applicato la legge o l’avrebbe cinicamente violata. A distanza di pochi secondi poteva mostrarsi straordinariamente gentile o straordinariamente duro. Proteggeva e ricompensava i suoi vassalli, ma allo stesso modo li destituiva senza ragione, rimpiazzandoli con altri che fino a quel momento aveva disdegnato o maltrattato. Con Hodkann non si sapeva mai che pesci pigliare. Era ammirato e temuto. Perfino gli adulti parevano temerlo; del resto era alto quasi quanto un adulto, aveva la voce di un adulto, e niente invece di quella goffaggine tipica dei bambini cresciuti troppo in fretta. Si muoveva e parlava con una disinvoltura quasi fuori luogo. Poteva essere volgare, ma anche esprimersi con un’eleganza, una ricchezza e una precisione di vocabolario sorprendenti per la sua età. Aveva voti ottimi o pessimi, e non sembrava preoccuparsene. Sulla scheda da compilare a inizio anno aveva scritto: «padre: deceduto», e si sapeva che viveva solo con la madre. Il sabato era l’unico giorno in cui lei andava a prenderlo, all’ora di pranzo, a bordo di una piccola decappottabile rossa. Benché non scendesse mai dall’auto, bastava uno sguardo a quella bellezza aggressiva, truccata, a quelle guance scavate, alla criniera di capelli fulvi che parevano un groviglio inestricabile, per capire che non somigliava affatto alle madri degli altri alunni. All’infuori del sabato, Hodkann andava e tornava da scuola da solo, in tram. Abitava lontano, tutti si chiedevano perché non frequentasse una scuola più vicina a casa, ma simili domande, che sarebbe stato facile rivolgere ad altri, con Hodkann erano impensabili. Vedendolo allontanarsi verso la fermata con la cartella buttata su una spalla – era l’unico a non infilarla su entrambe –, tutti, ciascuno per conto proprio dato che nessuno osava parlare di lui in sua assenza, cercavano invano di immaginare il tragitto che avrebbe fatto, il quartiere dove abitava con la madre, il loro appartamento, la sua camera. L’idea che da qualche parte in città esistesse un luogo che era la camera di Hodkann aveva qualcosa di improbabile e insieme di misteriosamente affascinante. Nessuno ne aveva mai varcato la soglia, così come lui non andava a casa degli altri. Una peculiarità che Nicolas condivideva con Hodkann, anche se nel suo caso era più discreta e gli altri, sperava, non l’avevano notato. A nessuno veniva mai in mente di invitarlo, e nessuno si aspettava di essere invitato a casa sua. Nicolas era riservato e fifone quanto Hodkann era audace e autoritario. Fin dall’inizio dell’anno aveva una paura tremenda che Hodkann si accorgesse di lui, che gli chiedesse qualcosa, e aveva più volte avuto incubi in cui Hodkann faceva di lui il proprio zimbello. Perciò si preoccupò non poco quando Hodkann, come un imperatore romano al circo colto da un accesso di clemenza, mise fine al supplizio del pigiama. Così come gli offriva protezione, in seguito avrebbe potuto abbandonarlo, oppure darlo in pasto agli altri dopo averglieli aizzati contro. Nonostante vi aspirassero in molti, tutti sapevano che il favore di Hodkann era pericoloso, e fino a quel momento Nicolas era riuscito a non attirare la sua attenzione. Ma adesso era finita, per colpa di suo padre aveva attirato l’attenzione di tutti, e intuiva che il suo presentimento era fondato: la settimana bianca sarebbe stata una prova terribile.

4


La maggior parte dei bambini solitamente mangiava in mensa, ma non Nicolas. Sua madre passava a prendere lui e il fratello minore, che frequentava la scuola materna, e rincasavano per pranzare insieme. Suo padre diceva che avevano una gran fortuna e che i loro compagni andavano compatiti, costretti com’erano a scendere a mensa, dove mangiavano male e spesso si prendevano a botte. Nicolas la pensava allo stesso modo, e se qualcuno glielo chiedeva si dichiarava felice di potersi risparmiare il cibo cattivo e le scazzottate. E tuttavia si rendeva conto che i legami più forti nascevano soprattutto tra mezzogiorno e le due, in mensa e nel cortile dove i compagni ciondolavano dopo pranzo. Durante la sua assenza si erano presi a formaggini in faccia, erano stati puniti dai bidelli, avevano stretto alleanze, e ogni volta, quando sua madre lo riaccompagnava a scuola, si sentiva come un nuovo arrivato, e gli toccava riprendere da capo i rapporti allacciati la mattina. Nessuno a parte lui se ne ricordava: nelle due ore di mensa erano successe troppe cose.


Sapeva che allo chalet sarebbe stato come in mensa, ma per due settimane di fila, senza alcuna possibilità di tornare a casa se mai si fossero rivelate troppo dure. L’idea lo metteva in apprensione, e metteva in apprensione anche i suoi, tanto che avevano chiesto al medico di firmare un certificato per esonerarlo. Ma il medico si era rifiutato, assicurando che al bambino avrebbe fatto un gran bene andarci.


Oltre alla maestra e all’autista del pullman, incaricato anche della cucina, allo chalet c’erano due animatori, Patrick e Marie-Ange; quando Nicolas raggiunse i compagni, stavano formando i gruppi per apparecchiarei tavoli: alcuni si sarebbero occupati delle posate, altri dei piatti, e così via. Patrick era quello che aveva riso e parlato a suo padre di sci d’erba. Alto, con le spalle larghe, aveva una faccia scarna e abbronzata, occhi azzurrissimi, capelli lunghi raccolti a coda di cavallo. Marie-Ange era rotondetta, e quando sorrideva metteva in mostra un dente rotto sul davanti. Portavano entrambi una tuta verde e viola, e al polso dei braccialettini brasiliani di fili intrecciati, multicolori, di quelli che si annodano esprimendo un desiderio e che poi bisogna tenere finché non si slacciano da soli: a quel punto, in teoria, il desiderio dovrebbe avverarsi. Patrick di quei braccialetti ne aveva un’intera scorta, e li distribuiva come premio ai ragazzini di cui era contento. Subito dopo l’arrivo di Nicolas gliene diede uno, suscitando l’indignazione di quei compagni che ci speravano: Nicolas non aveva fatto niente per meritarselo! Patrick rise, e invece di dire che il povero Nicolas non aveva le sue cose e andava consolato, raccontò che quando lui e sua sorella erano piccoli e uno dei due combinava una sciocchezza, il padre puniva sempre l’altro, perché imparassero da subito che la vita può essere ingiusta. In cuor suo Nicolas lo ringraziò di non averlo fatto passare per il cocco frignone, e mentre girava fra i tavoli distribuendo i cucchiai da minestra che Patrick gli aveva affidato rifletté sul desiderio da esprimere. Prima pensò di chiedere di non fare pipì a letto quella notte, poi di non fare pipì a letto per tutta la settimana bianca, poi si disse che a quel punto tanto valeva chiedere che durante la settimana bianca andasse tutto bene. E perché non che andasse tutto bene per tutta la vita? Perché non esprimere il desiderio che tutti i suoi desideri fossero esauditisempre? Il vantaggio di un desiderio il più generico possibile, che includesse tutti i desideri specifici, a prima vista sembrava così evidente da far sospettare una trappola, un po’ come nella storia dei tre desideri, della quale Nicolas conosceva l’edulcorato adattamento infantile in cui il naso di un contadino si trasforma in salsiccia, ma anche una versione molto più agghiacciante.


A casa, sopra il letto dei suoi genitori, c’era uno scaffale carico di bambole con costumi tradizionali e di libri: perlopiù manuali di bricolage o su come curarsi con le piante, ma ce n’erano due che a Nicolas interessavano. Il primo, un grosso volume verde, era il dizionario medico che, temendo ne notassero l’assenza, non osava portarsi in camera e doveva quindi leggere a spizzichi e bocconi, con il cuore in gola, spiando la porta socchiusa. L’altro si intitolava Storie spaventose. In copertina c’era una donna di spalle che si guardava allo specchio, e nello specchio si vedeva uno scheletro ghignante. Era un tascabile, più maneggevole del dizionario. Senza farne parola, poiché immaginava che gliel’avrebbero tolto di mano dicendo che non era adatto alla sua età, Nicolas l’aveva portato in camera sua e nascosto dietro i pochi libri che possedeva. Quando si immergeva nella lettura, sdraiato a pancia in giù di traverso sul letto, teneva a portata di mano come copertura in caso di bisogno il volume Racconti e leggende dell’antico Egitto, in cui aveva già letto e riletto una decina di volte la vicenda di Iside e di Osiride. Una delle «storie spaventose» raccontava di una coppia di vecchi che scoprono le proprietà di una specie di amuleto, una zampa di scimmia mozzata, nerastra, tutta rinsecchita, capace di esaudire tre desideri espressi dal suo proprietario. Senza riflettere né crederci troppo, l’uomo chiede una certa somma di denaro che gli serve per riparare il tetto. Subito la moglie gli rimprovera la stupidaggine: avrebbe dovuto chiedere molto di più; ha sprecato un desiderio! Qualche ora dopo bussano alla porta. È un operaio della fabbrica dove lavora il figlio della coppia. L’uomo è molto scosso, ha da comunicare una terribile notizia. Un incidente. Il figlio è finito nell’ingranaggio di una macchina che l’ha fatto a pezzi. È morto. Il direttore della fabbrica vorrebbe che accettassero una certa somma, per il funerale: esattamente quella chiesta dal padre! La madre urla per il dolore e a sua volta esprime un desiderio: che le restituiscano il figlio! Ed ecco che, con l’arrivo delle tenebre, davanti alla porta compaiono i pezzi del corpo dilaniato, fagotti di carne sanguinolenta che si agitano sui gradini, mentre una mano mozza cerca di introdursi in casa, dove i genitori si barricano paralizzati dall’orrore. Ai due vecchi ormai resta soltanto un desiderio: che quella cosa abominevole sparisca! Che muoia per davvero!

5


Dormivano in camerate da sei e in quella di Hodkann restava un posto libero; senza chiedere il parere di nessuno, Hodkann dichiarò che quel letto l’avrebbe occupato Nicolas. La maestra approvò: pur diffidando dei suoi repentini mutamenti, le sembrava una buona cosa che il più grande della classe proteggesse il più piccolo, quel Nicolas pauroso e tenuto nella bambagia che un po’ le faceva pena. I dormitori erano dotati di letti a castello. Poiché Hodkann aveva stabilito che avrebbe dormito in alto sopra di lui, Nicolas si arrampicò sulla scaletta, si infilò con mille contorcimenti il pigiama avuto in prestito e rimboccò le maniche e le gambe dei pantaloni. La giacca gli arrivava alle ginocchia, la vita gli ballava sui fianchi. Per andare in bagno fu costretto a reggersi i calzoni con due mani. Non aveva né pantofole né asciugamano, peraltro, e neppure il guanto di spugna o lo spazzolino, accessori che non potevano prestargli dato che tutti ne avevano un solo esemplare. Fortunatamente nessuno ci fece caso, e Nicolas riuscì a scivolare inosservato nel trambusto dei lavaggi serali, e a coricarsi tra i primi. Patrick, responsabile del suo dormitorio, venne ad arruffargli i capelli e gli disse di non preoccuparsi: sarebbe andato tutto bene. E se c’era qualche problema ne avrebbe parlato direttamente con lui, promesso? Nicolas promise, combattuto tra il reale conforto di quelle parole rassicuranti e la sgradevole sensazione che ci si aspettasse che avrebbe avuto qualche problema.


Quando tutti furono a letto Patrick spense la luce, diede la buonanotte e chiuse la porta. La camerata si ritrovò al buio. Nicolas pensava che si sarebbe subito scatenata una gran cagnara, una battaglia di cuscini in cui avrebbe faticato a farsi onore, e invece no. Capì che prima di parlare aspettavano tutti l’autorizzazione di Hodkann. Il quale lasciò durare il silenzio. Gli occhi si abituavano all’oscurità. I respiri si facevano più regolari, ma l’attesa era comunque nell’aria.


«Nicolas» disse infine Hodkann, come se nel dormitorio fossero stati soli, come se gli altri non esistessero.


«Sì?» rispose Nicolas in un sussurro.


«Che lavoro fa tuo padre?».


Nicolas disse che faceva il rappresentante. Era abbastanza fiero di quella professione, gli sembrava che possedesse un certo prestigio, finanche un’aura di mistero.


«Quindi viaggia molto?» chiese Hodkann.


«Sì» rispose Nicolas, e ripetendo un’espressione che aveva sentito spesso in bocca a sua madredisse: «È sempre in macchina».


Stava per farsi forza e parlare dei vantaggi che ciò costituiva, in termini di regali alle stazioni di servizio, ma non ne ebbe il tempo: Hodkann voleva sapere che cosa vendesse suo padre, che genere di roba. Con grande sorpresa di Nicolas, pareva fargli quelle domande non per prenderlo in giro, ma perché il lavoro di suo padre lo incuriosiva davvero. Nicolas disse che faceva il rappresentante di materiale chirurgico.


«Pinze? Bisturi?».


«Sì, e anche protesi».


«Gambe di legno?» s’informò Hodkann divertito, e Nicolas avvertì una specie di segnale d’allarme nella pancia, l’imminenza di una presa in giro.


«No,» disse «di plastica».


«Va in giro con delle gambe di plastica nel bagagliaio?».


«Sì, e anche braccia, mani...».


«Teste?» scoppiò a ridere Lucas, un ragazzino con i capelli rossi e gli occhiali che, come gli altri, sembrava dormire.


«No,» disse Nicolas «niente teste! Fa il rappresentante di materiale chirurgico, mica di maschere di carnevale!».


Hodkann accolse l’uscita con una risatina indulgente, e all’improvviso Nicolas si sentì molto fiero di sé e del tutto a proprio agio: con la protezione di Hodkann anche lui poteva dire cose divertenti, far ridere.


«E te le ha fatte vedere, queste protesi?» lo incalzò Hodkann.


«Certo» assicurò Nicolas, forte di quel primo successo.


«Ne hai mai provata qualcuna?».


«No, non si può. Vanno messe al posto della gamba o del braccio, se hai già la tua vera gamba o il tuo vero braccio non puoi agganciarle da nessuna parte».


«Se io fossi tuo padre,» disse placidamente Hodkann «ti userei per le dimostrazioni. Ti amputerei braccia e gambe, ti metterei le protesi e poi ti esibirei ai clienti. Sarebbe una bella pubblicità».


Gli occupanti dei letti vicini scoppiarono a ridere, Lucas disse qualcosa a proposito di capitan Uncino, quello di Peter Pan, e a un tratto Nicolas ebbe paura, come se Hodkann mostrasse finalmente il suo vero volto, ancora più pericoloso di quanto avesse temuto. Gli scagnozzi, servili, già iniziano a ridere, mentre il tiranno indolente cerca nella propria immaginazione il più raffinato dei supplizi. Ma Hodkann, rendendosi conto che la frase aveva un che di minaccioso, la corresse dicendo, con la sorprendente dolcezza di cui era capace: «Tranquillo, Nicolas. Stavo scherzando». Poi volle sapere se l’indomani, quando suo padre fosse tornato con lo zaino, avrebbero potuto vedere queste famose protesi e gli astucci degli strumenti chirurgici. A quell’idea Nicolas si sentì a disagio.


«Guarda che non sono giocattoli. Li fa vedere soltanto ai clienti...».


«Neanche se glielo chiediamo?» insisté Hodkann. «E se glielo chiedi tu?».


«Non credo» rispose Nicolas con un filo di voce.


«E se gli dici che in cambio non ti picchierà nessuno per tutta la settimana bianca?».


Nicolas non rispose; aveva di nuovo paura.


«Bene,» concluse Hodkann «in tal caso mi arrangerò diversamente». E dopo un istantedisse alla camerata: «Adesso si dorme». Sentirono il suo corpo grande e grosso rigirarsi nel letto, finché non trovò una posizione comoda, e a tutti fu chiaro che non era più il caso di aprire bocca

6


Non si sentiva più nessun rumore, ma Nicolas non era sicuro che gli altri dormissero. Forse facevano finta, temendo di attirarsi le ire di Hodkann, e forse anche Hodkann fingeva, per sorprendere chi avesse osato infrangere gli ordini. Dal canto suo, Nicolas non voleva dormire. Aveva paura di fare pipì a letto e di bagnare il pigiama di Hodkann. O, peggio ancora, di inzuppare il materasso, sprovvisto di traversa, e bagnare addirittura lo stesso Hodkann sotto di lui. Il liquido maleodorante avrebbe cominciato a gocciolare su quel volto di tigre, facendogli storcere il naso; Hodkann si sarebbe svegliato e allora sarebbero stati guai. Per evitare una simile catastrofe, l’unica soluzione era non addormentarsi. Le lancette fosforescenti del suo orologio segnavano le nove e venti, la sveglia era alle sette e mezzo, lo aspettava una lunga notte. Ma non sarebbe stata la prima: Nicolas era allenato.


L’anno precedente suo padre aveva portato lui e il fratello minore al luna park. Data la differenza di età, i due bambini non erano incuriositi dalle stesse attrazioni. Nicolas era affascinato soprattutto dalla casa degli spiriti, dalla galleria degli orrori, dalla ruota panoramica; suo fratello dalle giostre per i più piccoli. Il padre si sforzava di trovare dei compromessi, e si innervosiva se loro li rifiutavano. A un certo punto erano passati davanti a una ruota camuffata da bruco che girava verticalmente a grande velocità. Aggrappati alle sbarre di protezione dei vagoncini, i passeggeri si ritrovavano a testa in giù, catapultati verso il cielo dalla forza centrifuga. La ruota girava veloce, sempre più veloce, li si sentiva gridare, e alla fine scendevano tutti pallidi, con le gambe molli, ma entusiasti dell’esperienza. Un ragazzino dell’età di Nicolas gli aveva gridato che era fantastico, e suo padre, che ci era salito con lui, aveva rivolto al padre di Nicolas un sorrisetto d’intesa, come a dire che in realtà più che fantastico era parecchio stressante. Nicolas voleva provare, ma il padre gli aveva indicato, vicino alla cassa, un cartello su cui era scritto che i bambini al di sotto dei dodici anni dovevano essere accompagnati. «E allora accompagnami» aveva detto Nicolas. «Ti prego, accompagnami!». Il padre, che comunque non sembrava molto propenso a farsi sballottare a testa in giù, aveva rifiutato con la scusa che non potevano né portarsi dietro il fratello più piccolo, che avrebbe avuto paura, né lasciarlo da solo, senza nessuno che stesse con lui. Allora il padre del ragazzino appena sceso dal bruco si era gentilmente offerto di badare al fratello per i tre minuti del giro di giostra. Assomigliava un po’ a Patrick, l’istruttore, ma con qualche anno in più: anziché un pesante loden come il padre di Nicolas, indossava un giubbotto di jeans; e aveva la faccia allegra. Nicolas l’aveva guardato con gratitudine, poi aveva guardato suo padre, speranzoso. Ma il padre aveva risposto seccamente che non era il caso. Quando Nicolas aveva aperto la bocca per cercare di convincerlo, gli aveva lanciato uno sguardo minaccioso e l’aveva afferrato alla nuca per farlo camminare. Si erano allontanati dal bruco in silenzio, e finché erano rimasti in vista del ragazzino e di suo padre Nicolas non aveva osato protestare. Immaginava i loro sguardi stupiti alle sue spalle: perché andarsene così bruscamente di fronte a una proposta gentile? Appena aveva ritenuto che si erano allontanati abbastanza, il padre di Nicolas si era fermato e aveva detto in tono severo che quando diceva no era no, inutile fare scenate in pubblico.


«Ma perché?» si era indignato Nicolas, sull’orlo del pianto. «Cosa c’era di male?».

«Vuoi che ti dica perché?» aveva ribattuto il padre aggrottando la fronte. «Vuoi proprio che te lo dica? Benissimo, sei abbastanza grande perché te lo spieghi. Però non devi raccontarlo a nessuno, né ai tuoi compagni né a nessun altro. È una cosa che ho saputo dal direttore di una clinica, i medici sono tutti al corrente ma non vogliono che se ne parli, per non allarmare la gente. Non molto tempo fa, in un luna park come questo, è scomparso un ragazzino. Così, è bastato un attimo di distrazione dei genitori. È successo molto in fretta: è molto facile sparire, sai. L’hanno cercato per tutto il giorno e finalmente la sera l’hanno trovato, privo di sensi dietro una staccionata. L’hanno portato all’ospedale, hanno visto che aveva un grosso cerotto sulla schiena, da cui fuoriusciva del sangue, e allora i dottori hanno capito, sapevano già cos’avrebbe rivelato la radiografia: il ragazzino era stato operato, gli avevano asportato un rene. C’è gente che fa cose del genere, pensa. Gente cattiva. Si chiama traffico di organi. Hanno dei furgoni con tutta l’attrezzatura per operare, si aggirano nei dintorni dei luna park, o all’uscita delle scuole, e rapiscono i bambini. Il primario mi ha detto che preferivano non divulgare la cosa, ma che capita sempre più spesso. Soltanto nella sua clinica hanno curato un bambino al quale era stata tagliata una mano e un altro a cui avevano cavato gli occhi. Capisci adesso perché non volevo affidare tuo fratello a uno sconosciuto?».

Dopo quel racconto, Nicolas aveva avuto più volte lo stesso incubo. Al mattino non ne ricordava i dettagli, ma conservava la sensazione di essere trascinato verso un orrore indicibile, da cui rischiava di non svegliarsi più. Era al luna park. La carcassa metallica del bruco si alzava al di sopra dei baracconi, e il sogno lo invitava a seguirla. L’orrore si annidava lassù, e lo aspettava per divorarlo. La seconda volta comprese di esserci andato vicino, e che la terza gli sarebbe stata fatale. L’avrebbero ritrovato morto nel suo letto, e nessuno avrebbe capito che cosa gli fosse accaduto. Allora decise di rimanere sveglio. Naturalmente non ci riuscì mai del tutto, il suo sonno smanioso fu visitato da nuovi incubi, dietro i quali temeva si nascondesse quello del luna park e del bruco. Fu in quel periodo che scoprì di aver paura di dormire. 

7


Eppure in famiglia dicevano avesse preso dal padre, che dormiva male ma tanto, con una specie di avidità. Quando stava a casa diversi giorni di seguito, al ritorno da uno dei suoi giri, passava gran parte del tempo a letto. Dopo la scuola, Nicolas faceva i compiti oppure giocava con il fratello più piccolo, stando attento a non fare rumore. Attraversavano il corridoio in punta di piedi, e la madre si portava di continuo l’indice alle labbra. Al crepuscolo il padre usciva dalla sua camera in pigiama, con la barba lunga, la faccia imbronciata e gonfia di sonno, tasche piene di fazzoletti appallottolati e confezioni di medicinali vuote. Sembrava sorpreso, sgradevolmente sorpreso di svegliarsi lì, di camminare tra quei muri troppo vicini e scoprire, aprendo la prima porta che incontrava, una cameretta dove due ragazzini, a quattro zampe sulla moquette, interrompevano il gioco o la lettura per guardarlo con apprensione. Abbozzava un sorriso forzato, borbottava mozziconi di frasi a proposito di stanchezza, orari assurdi, medicine che ti riducono uno straccio. Qualche volta si sedeva sul bordo del letto di Nicolas e restava un momento così, con lo sguardo perso nel vuoto, passandosi una mano sulla barba ispida, tra i capelli spettinati e ancora schiacciati dal cuscino. Sospirava. E poi faceva strane domande, per esempio chiedeva a Nicolas che classe frequentava. Nicolas rispondeva docilmente e lui annuiva, diceva che la faccenda diventava impegnativa e se non voleva essere bocciato doveva darsi da fare. Pareva non ricordare che Nicolas era già stato bocciato una volta, l’anno in cui avevano cambiato casa. Un giorno aveva chiesto a Nicolas di avvicinarsi, di sedersi accanto a lui sul letto. Con una mano gli aveva preso la nuca, stringendola un po’. Era una dimostrazione d’affetto, però faceva male e Nicolas aveva girato piano il collo per liberarsi. Con voce bassa e sorda il padre aveva detto: «Ti voglio bene, Nicolas», e Nicolas era rimasto colpito, non perché ne dubitasse, ma perché gli sembrava uno strano modo di dirlo. Come fosse l’ultima volta prima di una lunga separazione, magari definitiva, come se suo padre avesse voluto che se lo ricordasse per sempre. Eppure, un attimo dopo, lui stesso pareva essersene dimenticato. Aveva lo sguardo confuso, gli tremavano le mani. Si era alzato ansimando, con il pigiama color vinaccia semiaperto, tutto spiegazzato, ed era uscito a tentoni, quasi non sapesse quale porta aprire per imboccare il corridoio, tornare in camera sua, rimettersi a letto.

8


Nicolas stava pensando all’intenzione che Hodkann aveva espresso, e che quantomeno aveva il merito di impedirgli il sonno: vedere con i propri occhi il campionario custodito nel bagagliaio. Come avrebbe fatto? Forse avrebbe trovato il modo di restare allo chalet mentre gli altri scendevano in paese per la lezione di sci. Nascosto dietro un albero, avrebbe spiato l’arrivo della macchina. Il padre di Nicolas sarebbe sceso, avrebbe aperto il bagagliaio per prendere lo zaino e portarlo allo chalet. Non appena avesse voltato le spalle, Hodkann si sarebbe precipitato ad aprire a sua volta il bagagliaio, poi le valigette di plastica nera contenenti le protesi e gli strumenti chirurgici. Probabilmente il suo piano era questo, ma ignorava che il padre di Nicolas dopo aver tirato fuori qualcosa chiudeva sempre il bagagliaio a chiave, anche se sapeva di doverlo riaprire di lì a poco. Tuttavia, l’audacia di Hodkann era tale che avrebbe tranquillamente potuto seguire il padre di Nicolas nello chalet e sfilargli di tasca il mazzo di chiavi mentre lui parlava con la maestra. Nicolas si immaginava Hodkann chino sul bagagliaio aperto, lo vedeva forzare le valigette, saggiare la lama di un bisturi su un polpastrello, giocare con le articolazioni di una gamba di plastica, affascinato al punto di dimenticare il pericolo. Il padre di Nicolas stava già lasciando lo chalet, si dirigeva alla macchina. Qualche secondo e l’avrebbe sorpreso. La sua mano si sarebbe abbattuta sulla spalla di Hodkann – e poi, cosa sarebbe successo? Nicolas non lo sapeva. Il padre in realtà non aveva mai minacciato di punizioni terribili chi avesse toccato il campionario. Eppure non dubitava che perfino uno come Hodkann si sarebbe trovato in una situazione assai incresciosa. Gli frullava in testa l’espressione «vedersela brutta». Sì, se si fosse fatto beccare con le mani nel bagagliaio di suo padre, Hodkann se la sarebbe vista brutta.


L’interesse che Hodkann nutriva nei confronti di suo padre lo turbava. Si chiedeva addirittura se non l’avesse preso sotto la sua protezione per avvicinare suo padre e conquistarne la fiducia. Ricordò che Hodkann il padre non ce l’aveva più. Ma da vivo che faceva, quel padre? A Nicolas, poco prima, non era venuto in mente di chiederglielo, e comunque non avrebbe osato. Ma non poteva fare a meno di pensare che il padre di Hodkann fosse morto di morte violenta, in circostanze poco chiare, drammatiche, e che quella morte fosse la logica conseguenza della vita che aveva condotto. Se lo immaginava come un fuorilegge, pericoloso quanto il figlio, e se Hodkann era diventato così pericoloso forse era solo per far fronte a questo, ai rischi che correva con un padre simile. Adesso Nicolas avrebbe voluto chiederglielo. Di notte, a tu per tu, diventava possibile.


Quella conversazione notturna con Hodkann era un pensiero eccitante, e Nicolas andò avanti per un bel po’ a fantasticare sulle sue possibili circostanze. Sarebbero usciti insieme dal dormitorio, senza svegliare nessuno. Sarebbero andati a parlare sottovoce in corridoio o nei bagni. Immaginò i loro bisbigli, la vicinanza del grande corpo caldo di Hodkann, e gli piaceva pensare che dietro quella forza tirannica ci fosse anche una pena, una fragilità che Hodkann gli avrebbe confessato. Lo udiva parlare con lui come fosse il suo unico amico, l’unica persona di cui potesse fidarsi, dirgli che era triste, che suo padre era morto in modo atroce, fatto a pezzi o gettato in un pozzo, che sua madre viveva nel terrore di veder ricomparire di punto in bianco i suoi complici, smaniosi di vendicarsi su lei e sul figlio. Hodkann, così prepotente, così beffardo, confessava a Nicolas di avere paura, di essere un ragazzino smarrito quanto lui. Con le guance bagnate di lacrime, posava la sua testa fiera sulle ginocchia di Nicolas e Nicolas gli carezzava i capelli, gli sussurrava parole dolci per consolarlo, consolare quel dolore immenso e sempre taciuto che a un tratto prorompeva di fronte a lui, solo per lui, perché solo lui, Nicolas, ne era degno. Tra un singhiozzo e l’altro, Hodkann diceva che gli assassini di suo padre, i nemici di cui sua madre aveva tanta paura, potevano persino venire a prenderlo lì, allo chalet. Sequestrarlo o semplicemente ammazzarlo, per poi abbandonare il suo cadavere nel sottobosco coperto di neve. E Nicolas capiva che toccava a lui proteggerlo, trovargli un nascondiglio dove sarebbe stato al sicuro quando quegli uomini malvagi, chiusi nei loro mantelli scuri e lucenti, avrebbero accerchiato lo chalet, entrando in silenzio da porte diverse perché nessuno potesse fuggire, e avrebbero sfoderato i coltelli e colpito a sangue freddo, con metodo, decisi a non lasciare testimoni. I corpi mezzo nudi dei bambini sorpresi nel sonno si sarebbero ammassati ai piedi dei letti a castello. Il sangue sarebbe colato a fiotti sul pavimento. Ma Nicolas e Hodkann sarebbero rimasti nascosti in un anfratto del muro, dietro un letto. Uno spazio angusto, buio, poco più di un buco. Si sarebbero stretti l’uno all’altro, solo gli occhi avrebbero brillato nella penombra, sgranati per l’orrore. Insieme, oltre al loro respiro, avrebbero udito i suoni agghiaccianti della strage, urla di terrore, rantoli di agonia, tonfi di corpi che cadono, vetri infranti le cui schegge dilaniano ulteriormente le carni mutilate, risatine brevi e secche di carnefici. La testa mozzata di Lucas, il piccoletto con i capelli rossi e gli occhiali, sarebbe rotolata sotto il letto fino al nascondiglio fermandosi ai loro piedi, e li avrebbe fissati con i suoi occhi increduli. Poi i rumori sarebbero cessati, le ore sarebbero passate. Gli assassini se ne sarebbero andati a mani vuote, divisi tra il piacere del massacro e la rabbia per essersi fatti sfuggire la preda. Nello chalet, nient’altro che morti, montagne di bambini morti. Ma loro non sarebbero usciti. Sarebbero rimasti tutta la notte stretti nel loro rifugio, trincerati nel cuore del carnaio, con le guance bagnate da un liquido caldo, forse il sangue di una ferita o le lacrime dell’altro. Sarebbero rimasti lì, tremanti. Nella notte senza fine. Magari per non uscire mai più.

9


L’indomani dopo colazione il padre di Nicolas ancora non si era visto. La maestra guardava l’orologio: era fuori discussione che facessero tardi e saltassero la lezione di sci per aspettarlo. Sentendosi pesare addosso il suo sguardo, per una volta privo di indulgenza, Nicolas disse con un filo di voce che forse la cosa migliore era che lui rimanesse allo chalet. Sperava che Hodkann si sarebbe offerto di fermarsi con lui. «Non ti lasciamo certo qui da solo» obiettò la maestra. Patrick fece notare che non correva nessun pericolo, ma la maestra disse che no, che era una questione di principio. Nell’attesa, chiese a Nicolas di accompagnarla di sopra: voleva telefonare alla madre, per informarla della situazione e sentire se aveva notizie del marito. Raggiunsero il piccolo ufficio rivestito di legno al primo piano, dove si trovava il telefono. Dalla finestra c’era una bella vista sulla valle. Dopo aver composto il numero, la maestra aspettò qualche secondo e poi, con aria seccata, chiese a Nicolas se sua madre la mattina usciva molto presto. Con aria colpevole Nicolas rispose di no, non particolarmente. In realtà era contento che sua madre non rispondesse. Quella telefonata lo metteva a disagio. Ne ricevevano pochissime, e le rare volte in cui il telefono squillava, soprattutto in assenza del padre, sua madre si avvicinava all’apparecchio visibilmente angosciata. Se Nicolas era in casa, chiudeva la porta perché non sentisse, quasi avesse paura e volesse risparmiargli il più a lungo possibile una cattiva notizia. La maestra sospirò e rifece il numero, caso mai si fosse sbagliata. Risposero subito, e Nicolas si chiese cosa fosse successo alla prima chiamata. Immaginava sua madre nella posizione in cui l’aveva sorpresapiù volte: in piedi davanti al telefono che squillava, con i lineamenti contratti, incapace di alzare la cornetta. Quando gli squilli cessavano per un attimo sembrava sollevata, ma se ricominciavano rispondeva subito, afferrando la cornetta come ci si butterebbe in acqua per sottrarsi alle fiamme.


Nicolas scrutava con trepidante curiosità il viso della maestra mentre si presentava e spiegava il motivo della telefonata. Parlando, lei incrociò il suo sguardo e gli fece segno di prendere il secondo ricevitore. Lui obbedì.


«No signora,» spiegò paziente la maestra «niente di grave. Ma non le nego che è seccante. Capisce, non ha lo zaino, niente vestiti di ricambio, niente equipaggiamento da sci, soltanto quello che ha addosso, per cui non sappiamo bene come fare».


Sorrise a Nicolas per attenuare la durezza di quest’ultima affermazione, destinata soprattutto a far reagire la madre, che disse:


«Ma mio marito lo riporterà senz’altro, lo zaino».


«Me lo auguro, signora, ma siccome non si fa vivo, mi chiedevo dove potessimo rintracciarlo».


«Quando è fuori per lavoro non è possibile rintracciarlo».


«Davvero non decide in anticipo in quali alberghi pernotterà? E se lei avesse urgenza di parlargli?».


«Mi dispiace. È così» disse brusca la madre di Nicolas.


«Ma ogni tanto la chiama?».


«Sì, ogni tanto».


«Allora, se la chiama può gentilmente avvertirlo... Il problema è che se non viene oggi poi rischia di allontanarsi... Non ha proprio idea di quale sia il suo itinerario?».


«No, mi dispiace».


«Va bene,» fece la maestra «va bene... Vuole parlare con Nicolas?».


«Sì, grazie».


La maestra passò la cornetta a Nicolas e uscì in corridoio per non metterlo in imbarazzo. Nicolas e la madre non sapevano cosa dirsi. Sullo zaino non c’era niente da aggiungere a quanto già discusso con la maestra: potevano solo aspettare che il padre lo riportasse allo chalet. Nicolas non voleva lamentarsi, mettere in ansia ulteriormente la madre, e lei non voleva fare domande che avrebbero alimentato un’apprensione a cui non aveva modo di rimediare. Quindi si limitò a raccomandargli di essere buono e obbediente come avrebbe fatto in circostanze normali. Nicolas ebbe la penosa sensazione che se anche l’avesse visto scomparire per metà nelle fauci di un coccodrillo avrebbe continuato a ripetere divertiti, fa’ il bravo, non dimenticare di coprirti bene – copriti bene stavolta non poteva dirlo, e sicuramente si stava trattenendo dall’esortarlo a mettersi il maglione con le renne che gli aveva fatto lei.


Tornando con la maestra nel salone a pianterreno dove gli altri sparecchiavano i tavoli della colazione, Nicolas rifletteva su questo mistero: che lo zaino fosse nel bagagliaio era un fatto, l’aveva visto incastrato fra le catene e le valigette con il campionario; aprendo il bagagliaio suo padre non poteva non averlo notato, e doveva per forza averlo aperto la sera prima, o al più tardi quella mattina quando era andato dai clienti. Allora perché non aveva chiamato? Perché non si faceva vivo? Non poteva non immaginare il disagio che causava a Nicolas. Che avesse perso il numero di telefono dello chalet? O le chiavi del bagagliaio? E se gliele avevano rubate? Se gli avevano rubato la macchina? O chissà, magari aveva avuto un incidente... A un tratto quell’ipotesi, che ancora non aveva preso in considerazione, gli parve la più plausibile. Per mollarlo in quel modo, suo padre doveva per forza essersi trovato nell’impossibilità di venire, nell’impossibilità di chiamare. Forse la macchina aveva sbandato su una lastra di ghiaccio, era andata a sbattere contro un albero, e il padre stava agonizzando con il torace sfondato dal volante. Il suo ultimo pensiero cosciente, le parole che aveva balbettato prima di morire, e che i soccorritori non avevano capito, dovevano essere state: «Lo zaino di Nicolas! Riportate lo zaino a Nicolas!».


Immaginando la scena Nicolas aveva voglia di piangere, e provava una grande tenerezza. Naturalmente sperava che non fosse vero, ma al tempo stesso, agli occhi degli altri, gli sarebbe piaciuto incarnare il ruolo dell’orfano, eroe di una tragedia. Tutti avrebbero cercato di consolarlo, Hodkann avrebbe cercato di consolarlo, ma lui sarebbe stato inconsolabile. Si chiese se la maestra avesse fatto lo stesso ragionamento e, finché restava qualche speranza, cercasse di nascondergli la propria angoscia. Probabilmente no. Non ancora. Nicolas visualizzò il momento in cui il telefono avrebbe squillato di nuovo. La maestra sarebbe salita a rispondere, senza sospettare nulla, mentre i bambini avrebbero continuato a giocare nel salone facendo un gran baccano. Soltanto lui sarebbe stato all’erta, in attesa del ritorno della maestra. E alla fine eccola tornare, con la faccia pallida e contratta. Il baccano continuava senza che lei ordinasse di fare silenzio. Sembrava non sentire niente, non accorgersi di niente; vedeva soltanto Nicolas e si dirigeva verso di lui, lo prendeva per mano, lo tirava in disparte, su nell’ufficio. Chiudeva la porta e i rumori del piano di sotto cessavano. Gli prendeva il viso tra le mani, con dolcezza, gli premeva i palmi sulle guance, con le labbra che tremavano visibilmente e balbettava: «Nicolas... Ascolta, Nicolas, dovrai essere molto coraggioso...». E a quel punto si mettevano a piangere insieme, mentre lei lo abbracciava, ed era una cosa dolce, incredibilmente dolce, Nicolas avrebbe voluto che quell’istante durasse per sempre, che nella sua vita non ci fosse altro, nient’altro, nessun altro viso, nessun altro profumo, nessun’altra parola, soltanto il suo nome ripetuto dolcemente, Nicolas, Nicolas, nient’altro.

10


Prima di uscire la maestra e gli animatori fecero un altro caffè, mentre discutevano le misure da prendere. Nicolas era rimasto con loro, lontano dagli altri bambini, definitivamente calato, sembrava, nel ruolo della gatta da pelare.


«Sentite,» disse Patrick «non vorremo mica stare a dannarci per tutta la settimana. Che poi magari suo padre lo zaino se l’è completamente dimenticato e adesso è a duecento chilometri da qui, per cui se aspettiamo che torni finisce che roviniamo la vacanza a Nicolas e pure a tutti gli altri. Io propongo di prendere quanto basta dalla cassa della cooperativa per mettergli insieme un minimo di guardaroba, in modo che possa fare quello che fanno gli altri. Sei d’accordo, giovanotto?» aggiunse voltandosi verso Nicolas.


Nicolas era d’accordo, e anche la maestra approvò.


Dopo mangiato, all’ora in cui tutti leggevano o riposavano, Patrick uscì con Nicolas. L’aria era tiepida, il sole scintillava tra i rami spogli. Poiché sullo spiazzo fangoso davanti allo chalet Nicolas non aveva visto altri mezzi, pensò che sarebbero andati in paese con il pullman della scuola, e che all’autista sarebbe parso strano avere solo due passeggeri a bordo. Ma Patrick superò il pullman, che da fermo pareva un drago inerte, e percorse un centinaio di metri lungo lo sterrato che portava allo chalet. Un po’ discosta dalla strada era parcheggiata una R 4 gialla, che all’andata Nicolas non aveva notato. Patrick aprì la portiera dal lato del guidatore e disse: «In carrozza!». Si sedette e si sfilò dal collo un lungo cordoncino di cuoio cui era appesa la chiavetta dell’accensione. Nicolas fece per salire dietro, ma Patrick si allungò ad aprirgli la portiera davanti.


«No, dico,» scoppiò a ridere «non sono mica il tuo autista!». Nicolas esitò: il sedile davanti gli era sempre stato tassativamente proibito. «Allora, ci muoviamo?». Lui obbedì. «A ogni modo,» aggiunse Patrick «dietro è un casino». Nicolas lanciò una timida occhiata oltre il sedile, come se temesse che un grosso cane nascosto sotto la coperta scozzese a brandelli potesse saltargli alla gola. C’erano uno zaino, alcuni vecchi scatoloni, una valigetta con delle cassette, una corda arrotolata, vari oggetti di metallo, probabilmente attrezzi da arrampicata.


«Però allacciati la cintura» disse Patrick girando la chiavetta. Il motore tossicchiò. Patrick ci riprovò, insisté: niente da fare. Nicolas temette che si arrabbiasse, ma lui si limitò a una smorfia piuttosto buffa, e girandosi verso Nicolas spiegò: «Ci vuole pazienza. È fatta così. Bisogna chiederle le cose gentilmente». Rimise in moto premendo pianissimo l’acceleratore, e sollevando l’altro piede mormorò: «Forza... forza... Brava!». Quando la macchina partì e imboccò la discesa a tornanti, Nicolas non poté trattenere una risatina di eccitazione.


«Ti piace la musica?» chiese Patrick.


Nicolas non sapeva cosa rispondere. Non si era mai posto il problema. A casa non ne ascoltavano mai, non avevano neanche il giradischi, e a scuola l’ora di musica era da tutti considerata un tormento. L’insegnante, il maestro Ribotton, faceva dei dettati musicali, vale a dire che suonava al piano una sequenza di note che loro dovevano scrivere sul pentagramma di un quaderno apposito. Nicolas non ci riusciva mai. Preferiva quando il maestro Ribotton dettava i riassunti sulla vita dei grandi musicisti: almeno quelle erano parole, lettere che sapeva mettere su carta. Ribotton era un uomo molto piccolo con una testa enorme, e tutti, pur temendone i violenti accessi di collera, che secondo la leggenda della scuola l’avevano indotto addirittura a scaraventare uno sgabello addosso a un alunno, lo giudicavano un po’ ridicolo. Intuivano che gli altri insegnanti non ne avevano grande stima; nessuno ne aveva. Suo figlio, Maxime Ribotton, come lui piccolo e deforme, era in classe con Nicolas. Benché quel subdolo scaldabanchi sudaticcio che aspirava a diventare ispettore di polizia non gli fosse per niente simpatico, Nicolas non poteva pensare a lui senza provare una dolorosa compassione. Un giorno un ragazzino della prima fila aveva allungato le gambe sulla pedana e sporcato inavvertitamente con la suola delle scarpe l’orlo dei pantaloni di Ribotton, che era andato su tutte le furie. In quello stato però l’uomo non incuteva né paura né rispetto, ma piuttosto una sprezzante pietà. In preda a una rabbia amara, lamentosa, Ribotton aveva detto che era stufo di andare a scuola a farsi insudiciare un paio di pantaloni che già faticava a comprare, che tutto costava caro e lui guadagnava una miseria, che se i genitori dell’allievo che gli aveva appena sporcato i calzoni potevano permettersi la tintoria tutti i giorni buon per loro, ma lui quei soldi non li aveva. Mentre diceva così gli tremava la voce, pareva quasi che fosse sul punto di piangere. E anche a Nicolas veniva da piangere, per via di Maxime Ribotton, verso il quale non osava dirigere lo sguardo e che era costretto a sopportare lo spettacolo del padre che si umiliava di fronte ai suoi compagni, vomitando con tanta spudoratezza il suo rancore per essere stato a quel modo oltraggiato dalla vita. Più tardi, all’intervallo, si era stupito di sentire Maxime Ribotton che parlava dell’incidente in tono disinvolto e scherzoso, assicurando che quando suo padre andava in bestianon bisognava prendersela: si calmava in fretta. Nicolas si era immaginato che, dopo quella scenata, avrebbe lasciato l’aula senza una parola e a scuola non avrebbe più messo piede. In seguito avrebbero saputo che Maxime Ribotton si era ammalato. Alcuni bambini di buon cuore sarebbero andati a trovarlo. Nicolas si vedeva tra questi, intento a scegliere in mezzo ai propri giocattoli un regalo da portare a Maxime Ribotton senza correre il rischio di ferirlo. Immaginava il suo sguardo riconoscente, il viso e il corpo smagriti, divorati dalla febbre, ma i regali e le parole affettuose non sarebbero serviti a niente, ed ecco che un giorno venivano a sapere che Maxime Ribotton era morto. I bambini di buon cuore andavano al funerale e tutti si ripromettevano di essere gentili e dimostrare la loro bontà con il maestro Ribotton, perduto nel proprio dolore. Ormai non lo provocavano più, non accoglievano più con rime imbecilli i nomi dei grandi musicisti che lui pronunciava con rispetto, come Vivaldi-viva i saldi, o Mozart-va in go-kart.


All’infuori di quei nomi Nicolas di musica non sapeva niente, ma piuttosto che ammetterlo preferì rispondere in modo evasivo che sì, la musica gli piaceva. Già temeva la domanda successiva, che arrivò puntuale: «E che genere di musica ti piace?».


«Be’, Mozart...» disse a caso.


Patrick fece una smorfia che esprimeva rispetto e ironia al tempo stesso e disse che quel genere gli mancava, però aveva del pop. Chiese a Nicolas di scegliere una cassetta: doveva solo prendere la valigetta sul sedile posteriore e leggergli i titoli. Nicolas obbedì. Erano parole inglesi che stentava a decifrare, ma ne compitava le prime sillabe e Patrick provvedeva a completarle: alla terza cassetta, disse che quella poteva andare. La infilò nell’autoradio e la musica esplose, nel bel mezzo di una canzone. La voce era roca, beffarda, le chitarre sferzanti come frustate. Il tutto dava un’impressione di ferocia, ma anche di agilità, come lo scatto di una belva. Era il genere di musica che induceva i suoi ad abbassare contrariati il volume della televisione. Se gli avessero chiesto un parere, normalmente Nicolas avrebbe detto che non gli piaceva, ma quel giorno si lasciò trasportare. Accanto a lui, Patrick tamburellava sul volante per seguire il ritmo, si muoveva a tempo e ogni tanto intonava un verso insieme al cantante, a cui si unì in un breve gemito acuto. La macchina correva in perfetta armonia con la musica, accelerava con lei e quando rallentava faceva ampie virate, tutto vibrava all’unisono, le gomme che mordevano l’asfalto, le curve della strada, i cambiamenti di marcia e soprattutto il corpo di Patrick, il quale, con le mani sul volante, ondeggiava morbido e sorridente, strizzando gli occhi per via del sole che batteva sul parabrezza. Nicolas non aveva mai sentito niente di più bello, partecipava alla canzone con l’intero corpo, e avrebbe voluto che tutta la sua vita fosse così, viaggiare sempre sul sedile davanti ascoltando quel genere di musica, e in futuro assomigliare a Patrick: guidare bene come lui, con la stessa disinvoltura, la stessa sovrana libertà nei movimenti.

11


«Ok,» disse Patrick aprendo la porta del supermercato «adesso tocca esser seri. Di che abbiamo bisogno?».


Solo a quel punto, dopo l’ebbrezza del tragitto in macchina, Nicolas si ricordò che cosa erano venuti a fare, che lo zaino era rimasto nel bagagliaio dell’auto di suo padre e che probabilmente suo padre era morto.


«Ti ricordi cosa c’era nello zaino?» chiese Patrick.


«Be’, dei vestiti di ricambio» disse Nicolas, disorientato dalla domanda: Patrick lo sapeva per forza cosa c’era nello zaino, dato che avevano chiesto a tutti di portare le stesse cose, e ai genitori era stato consegnato un elenco. Poi, certo, ognuno aveva diritto a un paio di cose in più a scelta, un libro o un gioco di società, e nel suo caso c’era anche la traversa raccomandata dalla maestra per eventuali pipì a letto. Nicolas non ebbe il coraggio di parlarne a Patrick.


«E in più» disse dopo averci pensato un attimo «c’era la mia cassaforte».


«La tua cassaforte?» chiese Patrick, sorpreso.


«Sì, una piccola cassaforte che mi hanno regalato per tenerci i miei segreti. Si apre con una combinazione che so soltanto io».


«E cosa succede se te la dimentichi?».


«Non potrò mai più aprirla. Non potrà più aprirla nessuno. Ma io la so a memoria».


«E se ti becchi una botta in testa e perdi la memoria? L’hai scritta da qualche parte, almeno?».


«No. Non devi. In ogni caso, se perdo la memoria, non saprò più neanche dove l’ho scritta».


«Già» riconobbe Patrick. «Sei sveglio, tu».


Nicolas fu sul punto di dire a Patrick che in realtà c’era un problema, con quella cassaforte. Suo padre gliel’aveva regalata insieme a una busta chiusa contenente il foglio con la combinazione. Gli aveva consigliato di distruggerlo dopo averla imparata a memoria, e Nicolas aveva obbedito. In seguito gli era venuto il dubbio che prima di dargli la busta il padre l’avesse aperta, poi abilmente risigillata, e avesse quindi accesso alla cassaforte. Forse ogni tanto dava una controllata, per vedere cosa gli nascondeva Nicolas. Forse gliel’aveva regalata solo per quello. Pur senza esserne certo, Nicolas non si fidava e nella cassaforte non teneva niente di più segreto dei buoni delle stazioni di servizio. Se l’aveva aperta, suo padre doveva essere rimasto deluso. Ma era più probabile che fosse morto. Poiché non era sicuro, Nicolas resistette alla tentazione di dirlo a Patrick e nel frattempo, sforzandosi di assumere un tono distaccato, propose: «Se vuoi posso dirtela, la combinazione».


Patrick scosse la testa: «No. Tu non mi conosci. Chi ti dice che appena me l’hai detta io non ti ammazzi e non vada a fregarti i tuoi segreti?».


«Tanto sono nella macchina di mio padre».


«Non lo voglio sapere, non mi riguarda. Né la combinazione, né quel che c’è nella tua cassaforte».


Patrick sorrise, e fingendo di puntargli addosso una pistola disse: «Che cosa c’è nella tua cassaforte?».


«Niente di interessante» rispose Nicolas imbronciato.


Nel reparto abbigliamento bambini, Patrick prese da una gruccia una pesante camicia di lana e un paio di pantaloni da sci impermeabili che Nicolas andò a provarsi in un camerino mentre lui completava il corredo: due slip, due magliette, due paia di calzettoni, un passamontagna e uno spazzolino da denti. I pantaloni erano della sua misura, solo un po’ troppo lunghi. Patrick glieli arrotolò velocemente e disse che potevano andare, poi volendo sua madre gli avrebbe fatto l’orlo. A Nicolas piaceva molto quel modo di fare acquisti, senza stare delle ore a tentennare fra due modelli, due colori, due taglie, con la fronte corrugata per l’ansia, come i suoi genitori ogni volta che c’era qualcosa da decidere. Avrebbe voluto anche una tuta verde e viola come quella di Patrick, ma naturalmente non osò chiederla.


Mentre pagava, Patrick scambiò qualche battuta con la cassiera. Era una ragazza giovane, allegra, e si vedeva subito che lo trovava attraente, che le piacevano la sua coda di cavallo, il suo viso scarno dagli occhi azzurrissimi, quel suo modo rilassato di muoversi e scherzare. «È suo il giovanotto?» gli chiese indicando Nicolas. Patrick rispose di no, ma che se nessuno lo reclamava di lì a un anno e un giorno se lo sarebbe tenuto volentieri. «Andiamo d’accordo, noi due» aggiunse, e Nicolas si ripeté la frase con orgoglio. Aveva voglia di dire agli altri, con tono noncurante, che lui e Patrick andavano d’accordo. Si guardò il polso con il braccialetto brasiliano che gli aveva regalato Patrick e si ripromise, in futuro, quando si sarebbe liberato dall’autorità dei genitori, di farsi crescere una coda di cavallo.


In macchina Patrick rimise la musica, e mentre guidava ondeggiando a tempo pronunciò un’altra frase memorabile: «Allora, non trovi che siamo i re del petrolio?». Nicolas non capì subito che cosa intendesse: che andava tutto bene, che loro se la godevano, che non bisognava prendersela, e quando ebbe capito provò un’esaltazione gioiosa, quasi fosse una parola d’ordine riservata soltanto a loro due. Temeva che se avesse parlato la sua voce acuta avrebbe stonato tradendo la sua giovane età, tuttavia superò la paura e riuscì a rispondere, come se niente fosse: «È vero. È vero, siamo i re del petrolio».

12


Dopo la merenda si giocava: ai mestieri, ad acqua-fuochino-fuoco, ai mimi. Ma quel giorno Patrick disse che avrebbero fatto qualcos’altro: «Che cosa?» gli chiesero.


«Adesso vedrete».


Ordinò ad alcuni di loro di spingere contro il muro tavoli, panche e tutto quello che ingombrava la sala. Spense le luci ma lasciò accese quelle dell’ingresso, dimodoché ci si vedesse comunque. I bambini erano eccitati da quei misteriosi preparativi. Spostando i mobili scoppiavano in risatine soffocate, azzardavano ipotesi: avrebbero giocato ai fantasmi, o fatto una seduta spiritica. Patrick batté le mani e chiese il silenzio. «Adesso sdraiatevi per terra» disse. «Sulla schiena». Mentre i bambini si sdraiavano ci fu ancora un po’ di disordine, delle risate. Patrick, l’unico a essere rimasto in piedi, aspettava pazientemente che tutti fossero pronti. Con voce calma, senza fretta, diede qualche indicazione perché si mettessero nella posizione più comoda: prima di tutto stirarsi, cercare di non inarcare la schiena, tenerla interamente a contatto con il pavimento; orientare i palmi delle mani verso il soffitto; chiudere gli occhi. «Chiudete gli occhi...» ripeté in tono quasi trasognato, come se li stesse chiudendo anche lui e fosse sul punto di addormentarsi; poi tacque. Seguì un momento di silenzio, rotto da una voce impaziente: «E adesso che facciamo?».


«Non hai capito?» rispose un altro. «Ci ipnotizza!».


La battuta suscitò qualche risata, ma Patrick non la raccolse. Dopo un po’, come se avesse sentito soltanto la prima domanda, rispose: «Non facciamo niente... Siamo sempre impegnati a fare qualcosa, a pensare a qualcosa. Adesso non facciamo niente. Cerchiamo di non pensare a niente. Siamo qui, semplicemente. Ci rilassiamo. Stiamo in compagnia di noi stessi...». La sua voce era sempre più calma e assorta. Camminava lentamente per la stanza, tra i corpi distesi dei bambini. Più che udirlo, Nicolas avvertì che gli passava accanto. Aprì leggermente gli occhi ma li richiuse subito, temendo di essere colto in fallo.


«Respirate senza fretta» disse Patrick. «Con la pancia. Gonfiate e sgonfiate la pancia come un palloncino, ma piano, profondamente...». Ripeté più volte di fila: «Inspirate, espirate...» e Nicolas sentì che tutt’intorno gli altri lo seguivano, entravano nel suo ritmo. Pensò che lui non ci sarebbe mai riuscito. Quando li facevano soffiare nel palloncino, alla visita medica, lui era sempre quello che aveva la capacità toracica più scarsa, e sentiva una specie di morsa nel petto che impediva all’aria di circolare. Inspirava ed espirava più in fretta degli altri, a singhiozzo, ingoiando l’aria, come uno che stia affogando. Ma Patrick continuava, con una voce stranamente sempre più lontana e sempre più presente al tempo stesso. «Inspira... espira» stava dicendo ora, e senza sapere come a un tratto Nicolas si ritrovò immerso in quella respirazione comune, parte di quell’onda che cresceva e poi rifluiva intorno a lui, avvolgendolo. Sentiva il respiro degli altri, e il suo che si fondeva con il loro. La sua pancia si sollevava e si abbassava dolcemente, obbedendo alla voce di Patrick. Dentro di lui si aprivano cavità che le sue inspirazioni riempivano come la marea riempie gli anfratti di uno scoglio.


«Bene» disse Patrick dopo un po’. «Adesso pensate alla vostra lingua». Da qualche parte nella sala ci fu un risolino isolato. Nicolas pensò di sfuggita che se tutti avessero riso avrebbe riso anche lui, e avrebbe trovato ridicolo pensare alla propria lingua, ma seguiva l’onda, pensava alla propria lingua, a contatto con il palato come Patrick diceva che doveva essere, ne percepiva il peso, la consistenza, l’irregolarità della superficie: liscia e umida in alcuni punti, ruvida in altri. Era una sensazione sempre più strana. Nella sua bocca la lingua diventava enorme, un’enorme spugna da cui temeva di essere soffocato, ma Patrick dissipò quella paura nel momento stesso in cui affiorava, dicendo: «Se la lingua diventa troppo grossa e vi dà fastidio, basta che inghiottite la saliva». Nicolas deglutì e la sua lingua tornò alle dimensioni normali. E tuttavia continuava a sentirla, insolitamente presente, come se l’avesse appena scoperta. Dopodiché Patrick li invitò a pensare al naso, a seguire il percorso dell’aria nelle narici. Poi a portare l’attenzione dietro le palpebre, tra le sopracciglia, nella nuca. Da lì passò alle braccia, cominciando dalle dita, che chiese di rilassare a uno a uno, quindi risalendo verso il gomito, poi la spalla. «Le vostre braccia sono pesanti,» diceva «molto pesanti. Talmente pesanti che sprofondano nel pavimento. Anche volendo, non riuscireste a sollevarle...» e Nicolas sentì che in effetti non ci sarebbe riuscito. Si allargava sulle piastrelle come una pozzanghera, mentalmente sospeso sopra il proprio corpo inerte e insieme abitandolo come una casa dalle fondamenta profonde, esplorando i corridoi che si snodavano lungo i suoi arti, aprendo porte di stanze buie e calde, soprattutto calde. Adesso la sensazione di calore era dominante, e non si stupì udendo Patrick descriverla, consigliare di accoglierla, di assaporarla, di lasciarsi invadere da quel calore intenso ma piacevole che scorreva nelle vene e giocava sulla pelle provocando un lieve pizzicore, una voglia di grattarsi cui era meglio non cedere: «Ma se proprio non ce la fate non è grave,» aggiunse «grattatevi pure». Come faceva a saperlo? Com’è che Patrick era in grado di descrivere le sensazioni straordinarie che Nicolas stava provando nel preciso istante in cui le provava? Era così anche per gli altri? Risate non se ne sentivano più, soltanto quei respiri calmi, che obbedivano alla voce di Patrick. Come Nicolas, tutti stavano esplorando il territorio misterioso che si apriva dentro di loro, e ascoltavano la guida con la stessa fiducia. Finché Patrick parlava, diceva dove andare – adesso erano le gambe, le dita dei piedi l’uno dopo l’altro, i polpacci, le ginocchia, le cosce –, niente sarebbe potuto accadere. Erano al sicuro in fondo al loro corpo. E da un bel po’. Da quanto?


A un tratto Nicolas sentì Patrick chinarsi su di lui. Un ginocchio scrocchiò leggermente. Si era accovacciato e le sue mani gli si posarono sul petto, appena sotto le spalle, a palmo aperto, e rimasero immobili. Il cuore di Nicolas si era messo a battere all’impazzata, il suo respiro finalmente placato si agitò. Non osava aprire gli occhi, incontrare quelli di Patrick sopra di lui. «Ssstt...» fece Patrick in un sussurro, come si fa per calmare un animale, e la pressione dei palmi sul petto aumentò, mentre la punta delle dita spingeva verso le spalle per accostarle al pavimento, affondarcele ancora di più. Nicolas aveva l’impressione di ansimare, di correre a perdifiato dentro di sé, sbattendo contro le pareti, e al tempo stesso sapeva che dall’esterno niente di tutto ciò era visibile. Il suo corpo rimaneva immobile, contratto, nonostante gli sforzi di Patrick che, lo intuiva, miravano a rilassarlo ulteriormente. Lo sentiva respirare sopra di sé, con molta calma. Gli tornò in mente il bambolotto scorticato dei distributori Shell, quel torace-coperchio che si poteva togliere per studiare l’interno. Patrick premeva sul coperchio, voleva individuare, addomesticare quello che c’era sotto, ma era tutto un gran disordine, sembrava che gli organi di Nicolas, spaventati, cercassero rifugio il più lontano possibile dalla parete che quelle mani calde e sicure palpavano. Eppure Nicolas avrebbe voluto che rimanessero. Faticò a trattenere un gemito quando allentarono la pressione, poi piano piano interruppero il contatto. Il respiro di Patrick si allontanò, il ginocchio scrocchiò di nuovo mentre si rialzava. Nicolas aprì leggermente gli occhi, voltò un po’ la testa e lo vide chinarsi su un altro bambino, ricominciare daccapo. Richiuse gli occhi e improvvisamente il suo corpo fu percorso da un brivido. Suo padre aveva, sì o no, prelevato i buoni dalla cassaforte? E al momento dell’incidente aveva già preso il bambolotto? Nel tentativo di calmarsi, Nicolas immaginò ancora una volta come sarebbero andate le cose, il telefono che avrebbe forse squillato da un momento all’altro, mentre Patrick premeva in silenzio il petto di un compagno, il normale corso della serata scombussolato dalla atroce notizia, poi la notte, il giorno dopo, e la sua vita da orfano. Al tempo stesso pensava che era sbagliato lasciarsi andare a simili fantasticherie, che poteva portare sfortuna. Cos’avrebbe detto se avesse veramente sentito squillare il telefono, se quello che aveva immaginato per rattristarsi e poi consolarsi fosse realmente accaduto? Sarebbe stato tremendo. Non solo sarebbe rimasto orfano, ma sarebbe stato colpevole, terribilmente colpevole. Come se suo padre l’avesse ucciso lui. Un giorno, per illustrare le solite raccomandazioni di prudenza, il padre gli aveva raccontato la storia di un suo ex compagno di scuola che aveva minacciato il fratello minore con un fucile, per gioco, naturalmente, senza sospettare che il fucile fosse carico. Aveva premuto il grilletto e colpito al cuore il fratello. E dopo che cosa era successo? si chiedeva Nicolas. Che cosa gli avevano fatto, a quel piccolo assassino? Mica potevano punirlo, non era colpa sua, e l’aveva già pagata abbastanza cara. Consolarlo allora? Ma come si consola un bambino che ha fatto una cosa simile? Che cosa si può dirgli? Si potrà mai, potranno mai i suoi genitori abbracciarlo e sussurrargli che è tutto finito, dimenticato, che adesso andrà tutto bene? No. E allora? Cercare di mentirgli perché la sua vita non sia irrimediabilmente distrutta, inventare una versione meno spaventosa dell’incidente e a poco a poco convincerlo che è la verità? Il fucile ha sparato da solo, non era lui ad averlo in mano, lui non c’entra niente... «Molto lentamente» disse Patrick «ricominciate a muovervi... Partite dai piedi. Fate dei piccoli cerchi con le caviglie... Così... Senza fretta».

«Adesso potete aprire gli occhi».

13


Quella notte Nicolas salì sul bruco.


L’adulto che lo accompagnava non era suo padre, ma Patrick. Avevano affidato al padre del ragazzino incontrato al luna park il fratello più piccolo, che indossava la giacca a vento verde, con il cappuccio in testa benché non piovesse, gli stivali di gomma rossi, e li salutava con la mano. Il padre del ragazzino lo teneva per l’altra mano, sempre sorridendo. La sua faccia si distingueva a stento. Patrick si era seduto in fondo al vagoncino e Nicolas si sistemò tra le sue lunghe gambe, le cui ginocchia toccavano le pareti metalliche. L’addetto alla giostra abbassò su di loro la sbarra di protezione e la bloccò. Il bruco si mise in moto. Passò lentamente davanti al fratello che continuava ad agitare la mano, poi si staccò da terra, si sollevò. Adesso erano in cielo. Il bruco si fermò. Si lanciò bruscamente nella discesa. Nicolas si sentì risucchiato da un baratro, un baratro che era anche dentro di lui. Gli sobbalzò lo stomaco, ebbe paura, gli venne da ridere. Ora andavano veloci. Il bruco ripassò rasoterra, fischiando come un treno in corsa, e subito risalì. Stavolta Nicolas fece appena in tempo a vedere la cassa, il fratello, le persone a terra, che di nuovo venivano scagliati verso il cielo, ma più velocemente, con più forza, e di nuovo si fermavano, in quel punto terribile da cui di colpo precipitavano dall’altra parte. Nicolas respingeva con i piedi la terra che saliva in picchiata verso di loro, si aggrappava forte alla sbarra di protezione, e pure Patrick si aggrappava, tenendo i polsi sottili di Nicolas in mezzo alle sue grandi mani abbronzate. Sugli avambracci, le maniche arrotolate del maglione scoprivano un rilievo di vene che si tendevano come funi. Nicolas sentiva contro la schiena il ventre duro di Patrick che, allo stesso ritmo del suo, si contraeva per l’apprensione sull’orlo del vuoto. E ancora di più si contraeva, cercando di resistere, nell’attimo in cui precipitavano davvero, per poi rilassarsi un po’ a bassa quota, ma già si annunciava la risalita, già raggiungevano il punto più alto, e ricominciava il meraviglioso orrore della discesa. Con le cosce tese di Patrick strette intorno alle sue, Nicolas teneva gli occhi chiusi. Ma a un tratto, appena prima di arrivare in cima, li aprì e vide il luna park, lontano sotto di loro. Minuscole figure, formiche umane che trotterellavano, distanti anni luce. Durò un istante, ma il suo sguardo fece in tempo a mettere a fuoco una di quelle figure, anzi due: un uomo che si allontanava tenendo per mano un bambino piccolo. Già il bruco tornava a tuffarsi, non si vedeva più niente, ma Nicolas aveva capito che cosa stava succedendo. Al giro seguente spalancò gli occhi, paralizzato dall’orrore, mentre l’uomo che aveva portato via suo fratello era già lontano. Rituffandosi, il bruco gliel’avrebbe sottratto alla vista, e alla prossima risalita non li avrebbe più ritrovati, ne era certo. Completamente scomparsi. Era l’ultima volta che vedeva, che aveva visto il fratello minore, o quantomeno lo aveva visto intero, con gli occhi, gli arti, tutti gli organi al loro posto. Quelle appena passate sotto il suo sguardo impotente erano le ultime immagini che avrebbe conservato di lui, minuscola figura impacciata con la giacca a vento e gli stivali di gomma rossi tenuta per mano da un uomo in giacca di jeans, e gridare non sarebbe servito a niente. Non l’avrebbe sentito nemmeno Patrick, che pure gli stava incollato addosso, e se anche l’avesse sentito, anche se avesse visto la stessa cosa, non sarebbe comunque servito a niente. Il giro di bruco durava tre minuti, non c’era un pulsante per dare l’allarme, non si poteva scendere in corsa. Per altri due minuti, un minuto e mezzo, avrebbero continuato a girare mentre il fratello spariva dietro la staccionata, mentre l’uomo con la giacca di jeans lo trascinava verso il furgone dove li aspettavano i suoi complici in camice bianco, e alla fine del giro, quando sarebbero scesi a terra con le gambe molli, sarebbe stato troppo tardi. Era l’unico ad avere visto? O aveva visto anche Patrick? No, Patrick non aveva visto niente, ed era meglio così. All’arrivo avrebbe aiutato Nicolas a uscire dalla stretta delle sue gambe, sarebbe sceso dal vagoncino sbuffando, avrebbe sorriso e ripetuto che erano i re del petrolio. Per qualche secondo ancora sarebbe rimasto all’oscuro di quanto era successo, e avrebbe potuto continuare a sorridere. Nicolas lo invidiava, avrebbe dato la vita per non aver aperto gli occhi, per non aver guardato in basso e visto quel che aveva visto, per condividere la beata ignoranza di Patrick, per vivere ancora un minuto, con lui, in un mondo dove il suo fratello minore non fosse scomparso. Avrebbe dato la vita perché quel minuto durasse in eterno, perché il bruco non si fermasse mai più. Quello che era appena accaduto, quello che stava accadendo là sotto non sarebbe esistito. Loro non l’avrebbero mai saputo. Nella vita non ci sarebbe più stato altro, soltanto il bruco che girava sempre più veloce, la forza centrifuga che li sparava in cielo, lontanissimo, che li incollava l’uno all’altro, stretti in una morsa, e quel vuoto che gli si scavava nel ventre, che lo risucchiava dall’interno, che un istante si colmava e poi tornava ad aprirsi, sempre più profondo, e il ventre di Patrick contro la sua schiena, le cosce di Patrick intorno alle sue, l’alito di Patrick sul collo, e il frastuono, e il vuoto, e il cielo.

14


Lo svegliò l’umidità, e l’immediata certezza di una catastrofe. Il lenzuolo era zuppo, così come i pantaloni e la giacca del pigiama. Credendo di essere a casa, fu lì lì per chiamare piangendo, ma fece in tempo a soffocare il grido. Dormivano tutti. Fuori, il vento fischiava tra gli abeti. Sdraiato sulla pancia, Nicolas non osava muoversi. All’inizio sperò che entro l’alba le lenzuola e il pigiama si sarebbero asciugati grazie al calore del suo corpo. L’indomani nessuno si sarebbe accorto di niente, a meno di arrampicarsi lassù per controllare e annusare il lenzuolo. Che però non aveva quel tipico odore di pipì. Era un odore più blando, quasi impercettibile. Anche la consistenza del liquido era diversa, come una colla umida tra il suo corpo e il lenzuolo. Preoccupato, Nicolas infilò cautamente una mano sotto di sé e sentì qualcosa di viscido. Si chiese se non gli si fosse aperta la pancia, e non ne fosse colato fuori quel liquido appiccicoso. Sangue? Era troppo buio per verificare, ma lui si immaginò un’enorme macchia rossa che si allargava sul letto, sul pigiama blu di Hodkann. Al minimo movimento, le sue viscere si sarebbero sparse tutt’intorno. Eppure una ferita gli avrebbe fatto male, mentre lui non aveva male da nessuna parte. Aveva paura. Non osava portarsi la mano alla faccia, accostare alla bocca, alle narici, agli occhi quella sostanza appiccicosa, quella secrezione di medusa che era uscita da lui. Nell’oscurità sentiva il proprio volto contrarsi, gli occhi spalancarsi per il terrore all’idea che gli stesse capitando qualcosa di terrificante mai capitato a nessun altro, qualcosa di soprannaturale.


Nello stesso libro in cui aveva letto La zampa di scimmia c’era un’altra «storia spaventosa», quella di un ragazzo che dopo aver bevuto uno strano elisir vede il proprio corpo decomporsi a poco a poco, liquefarsi, trasformarsi in un magma nerastro e vischioso. Anche se nella storia non è lui a vederlo, bensì la madre, stupita che il figlio rifiuti di uscire dalla propria camera, che non faccia entrare nessuno, che si esprima con una voce sempre più bassa, granulosa, ben presto una specie di sciabordio incomprensibile. Poi il ragazzo smette di parlare, comunicando soltanto per mezzo di bigliettini infilati sotto la porta, messaggi in cui via via la scrittura si deteriora, fino a ridursi a uno scarabocchio nervoso su foglietti coperti di macchie nere e oleose. E quando, al colmo dell’orrore, la madre fa forzare la porta, sulle assi del pavimento rimane soltanto una pozza immonda, sulla cui superficie galleggiano due bolle che un tempo furono occhi.


Nicolas aveva letto quella storia con avidità, ma senza un vero terrore, come se ciò che narrava non costituisse una minaccia per lui, ed ecco che invece gli capitava qualcosa di simile, ecco che dal suo corpo colava quel pus che lo rendeva tutto appiccicoso. Era peggio di una ferita, quella roba stillava da lui. Sarebbe diventata lui.


Che cosa avrebbero visto al mattino gli altri nel suo letto?


Aveva paura, paura di loro, paura di se stesso. Pensò che doveva scappare, nascondersi, liquefarsi in solitudine, lontano da tutti. Per lui era la fine. Nessuno l’avrebbe mai più rivisto.


Con cautela, temendo un rumore di risucchio che gli fu risparmiato, riuscì a sollevare la pancia. Gettò via lenzuola e coperte, strisciò fino alla scaletta e scivolò ai piedi del letto. Hodkann aveva gli occhi chiusi. Nicolas attraversò il dormitorio in punta di piedi, senza svegliare nessuno. Nel corridoio una lucina arancione segnalava l’interruttore a tempo, ma lui non accese la luce. In fondo al corridoio, la finestra senza persiane né tende che dava sul bosco disegnava una chiazza lattiginosa, sufficiente a orientarsi. Scese le scale. I piedi nudi gli si rattrappivano sulle piastrelle. Al primo piano tutte le porte erano chiuse, tranne quella del piccolo ufficio da dove la mattina la maestra aveva chiamato sua madre. Nicolas entrò, scorse il telefono e pensò che volendo avrebbe potuto servirsene. Parlare a voce bassissima, nel cuore della notte, all’insaputa di tutti, ma con chi? In quell’ufficio la maestra e gli animatori custodivano anche i documenti, i registri di classe. Avrebbe potuto sfogliarli, nella speranza di trovare qualcosa che lo riguardasse. Le rare volte in cui i genitori lo lasciavano solo in casa, ne approfittava per frugare tra le loro cose, nel comò di sua madre, nei cassetti della scrivania di suo padre, senza sapere esattamente che cosa stesse cercando, quale segreto, ma con l’oscura certezza che per lui fosse una questione di vita o di morte, e che se l’avesse scoperto i suoi non dovevano assolutamente saperlo. Stava attento a rimettere tutto perfettamente a posto, per non destare sospetti. Temeva di essere colto in flagrante, che rincasassero senza far cigolare la porta e che la mano del padre si abbattesse all’improvviso sulla sua spalla. Aveva paura, il cuore gli batteva per l’eccitazione.


Uscì quasi subito dall’ufficio e scese a pianterreno. Il pigiama gli si incollava alla pancia, alle cosce. La penombra dell’ingresso ospitava una classe fantasma, doposcì allineati lungo la parete, schiere di giacche a vento appese agli attaccapanni. La porta era chiusa, ovvio, ma bastava girare la chiave. Nicolas tirò verso di sé il pesante battente, senza far rumore, e vide che fuori era tutto bianco.

15


La neve ricopriva ogni cosa. I fiocchi continuavano a cadere, volteggiando dolcemente nel vento. Era la prima volta che Nicolas vedeva tanta neve, e dal fondo del suo sconforto provò un senso di meraviglia. L’aria gelida della notte gli investì il petto seminudo, creando un violento contrasto con il calore della casa addormentata alle sue spalle, come un grosso animale satollo dal respiro tiepido e regolare. Rimase un istante sulla soglia, immobile, poi allungò una mano e un fiocco vi si posò delicatamente. Uscì.


Attraversò lo spiazzo affondando i piedi nudi nella neve che nessuno aveva ancora calpestato. Anche il pullman aveva l’aria di un animale addormentato: cucciolo dello chalet, stretto al suo fianco, che dormiva a occhi aperti coi suoi grandi fari spenti. Nicolas lo superò e proseguì lungo lo sterrato fino alla strada, anch’essa coperta di neve. Si girò più volte a guardare le orme dei suoi passi, profonde e soprattutto solitarie, prodigiosamente solitarie: era solo lì fuori quella notte, solo a camminare nella neve, a piedi nudi, con il pigiama bagnato, e nessuno lo sapeva, e nessuno mai lo avrebbe rivisto. Nel giro di pochi minuti le sue orme si sarebbero cancellate.


Passato il primo tornante, all’altezza dell’auto di Patrick, si fermò. Molto lontano, tra i rami degli abeti, intravide una luce gialla che si spostava sotto di lui, poi scompariva: probabilmente i fari di una macchina, sulla statale che attraversava la valle. Chi viaggiava a quell’ora? Chi condivideva con lui, senza saperlo, il silenzio e la solitudine di quella notte?


Uscendo, Nicolas aveva pensato di camminare dritto davanti a sé finché le forze non l’avessero abbandonato, finché non fosse crollato, ma aveva così freddo che, quasi senza rendersene conto, si diresse alla macchina di Patrick come fosse un rifugio. Per raggiungerla dovette sprofondare nella neve fino alle ginocchia. La portiera non era chiusa a chiave. Si arrampicò sul sedile del guidatore e raccolse le gambe sotto di sé, cercando di raggomitolarsi dietro il volante. Al suo contatto, il sedile era già fradicio, gelido. Passò una mano tra la pelle e la vita del pigiama, ma il liquido vischioso si era seccato come una crosta: quella che sgocciolava era soltanto neve. Battendo i denti, si tenne la mano nell’incavo della pancia, tra l’ombelico e quello che non gli piaceva nominare perché nessuno dei suoi nomi gli sembrava vero, né pisello come a volte lo chiamavano i suoi genitori, né verga o pene come aveva letto nel dizionario medico, né cazzo come aveva sentito a scuola. Un giorno, all’intervallo, in un angolo del cortile, un compagno l’aveva tirato fuori e, per farli ridere, aveva mostrato come gli obbediva. Quando lo chiamava dicendo: «Su, Totò, alzati, Totò!» lui si drizzava; allora il compagno lo prendeva con due dita e, tendendolo come un arco, se lo faceva rimbalzare sulla pancia. Eppure un nome, un nome vero, ce l’aveva di sicuro; da grande l’avrebbe scoperto.


A Nicolas tornò in mente la storia della sirenetta, che insieme a Pinocchio era stato uno dei suoi libri preferiti da piccolo. C’era un momento che gli faceva uno strano effetto, quando la sirenetta, innamorata del principe intravisto nella tempesta, sogna di diventare umana per poter essere amata da lui, e ricorre quindi al sortilegio della strega. La strega le dà una pozione che le farà spuntare le gambe al posto della coda di pesce e in cambio si prende la sua voce. La sirenetta dovrà riuscire a farsi amare muta, e se fallirà, se in capo a tre giorni il principe non le avrà dichiarato il proprio amore, morirà. Il momento preferito di Nicolas era la notte che lei trascorreva da sola sulla spiaggia, dopo aver bevuto la pozione. Si era stesa sulla sabbia, con la coda di pesce coperta di foglie, e aspettava in riva al mare, sotto le stelle lucenti e lontane, che si compisse la metamorfosi. Nel libro di Nicolas c’era un disegno che la ritraeva in quel momento, con i lunghi capelli biondi a coprire i seni, e le squame che iniziavano subito sotto l’ombelico. Il disegno non era granché, però si intuiva l’incredibile morbidezza di quella pancia, sopra la coda di pesce. Durante la notte la sirenetta provava dolore, ma non osava guardare sotto le foglie, là dove quello che ancora era lei lottava contro quello che presto sarebbe stata. Provava dolore, molto dolore, gemeva piano, temendo di attirare i pescatori che, poco più in là, chiacchieravano davanti al fuoco riparando le reti. Tra sé e sé, sommessamente, cercava di cantare, per udire un’ultima volta la propria voce. Sorgeva l’alba, e lei sentiva chiaramente che la lotta era giunta al termine, il sortilegio compiuto. Sentiva che sotto le foglie c’era qualcos’altro, che ciò che era stata era diventato altro. Aveva paura, ed era invasa da una terribile tristezza, la voce ormai spenta in fondo al petto. Si passava le mani lungo il corpo, a tentoni, e lì, sotto l’ombelico, dove dacché era al mondo iniziavano le squame, la pelle, quella pelle morbidissima, continuava. Non c’era niente che sconvolgesse Nicolas come quel momento, che nel libro era brevissimo, ma che lui poteva passare ore intere a immaginare, in cui le mani della sirenetta scoprivano le gambe. Rannicchiato su un fianco, con le coperte tirate su fino al mento, prima di addormentarsi giocava alla sirenetta e si esplorava le cosce con le mani, la pelle morbida nella parte interna, così morbida che poteva davvero illudersi di toccare quelle della sirenetta, i polpacci, le caviglie, le caviglie tanto sottili e graziose della sirenetta, e poi di nuovo, come calamitati, risalivano, lui e la sirenetta, all’interno delle cosce, dove le mani stavano al caldo, ed era una sensazione così dolce, così triste che Nicolas avrebbe voluto durasse per sempre e si metteva a piangere.


Adesso non ci riusciva a piangere, aveva troppo freddo, ma era ancora di più come nella storia. Non era sdraiato nel proprio letto, ma fuori, da solo, sotto le stelle gelide e lucenti, circondato dalla neve gelida e lucente, e lontanissimo da tutti, lontanissimo da qualunque aiuto, così come all’alba la sirenetta capiva di non appartenere più al mondo delle creature del mare e che mai sarebbe appartenuta a quello degli uomini. Era sola, assolutamente sola, senza altro riparo se non il suo stesso calore e la morbidezza del proprio ventre intorno al quale si acciambellava, rimaneva acquattata, battendo i denti, singhiozzando per la paura e la tristezza, già sapendo che aveva perso tutto e non avrebbe avuto niente in cambio. Sentire la propria voce l’avrebbe rassicurata, ma non aveva più voce, era svanita anche quella, e Nicolas capì che per lui era lo stesso, che il suo destino sarebbe stato identico. Nessuno più avrebbe sentito la sua voce. Sarebbe morto di freddo durante la notte. Avrebbero ritrovato il suo corpo al mattino, illividito, indurito da un sottile strato di ghiaccio, quasi fragile. Probabilmente sarebbe stato Patrick a scoprirlo. L’avrebbe tirato fuori dalla macchina reggendolo tra le braccia, avrebbe tentato di rianimarlo con la respirazione bocca a bocca, ma invano. E sarebbe stato ancora lui a chiudergli gli occhi, spalancati per la sofferenza e il terrore. Non sarebbe stato facile, le palpebre congelate avrebbero opposto resistenza, tutti gli altri avrebbero avuto paura di affrontare lo sguardo spaventato del ragazzino morto, ma Patrick avrebbe trovato una soluzione. Con la punta delle sue dita abbronzate e accorte sarebbe riuscito ad ammorbidire, ad abbassare delicatamente le palpebre, e le sue dita avrebbero indugiato su quel viso ormai privo di sguardo, placato.


Avrebbero dovuto avvertire i genitori. L’intera scuola avrebbe assistito al suo funerale.


Mentre ne immaginava lo svolgimento ricavandone un po’ di conforto, un ramo strisciò sul finestrino e di nuovo lo invase la paura. Non tanto di un animale, quanto piuttosto di un assassino che si aggirasse nottetempo intorno allo chalet, pronto a squartare i bambini che avessero commesso l’imprudenza di allontanarsene, di abbandonare il confortevole calore dell’animale addormentato. Ripensò alla macchina di cui aveva scorto i fari sulla statale, giù a valle, al viaggiatore solitario che quella notte vegliava con lui, e rimase all’erta in attesa di un rumore, dello scricchiolio ovattato di un passo sulla neve. Con le mani nascoste tra le cosce, scosse da un tremito incontenibile, le dita strette intorno a quella piccola cosa che non aveva un nome, Nicolas non piangeva, ma aveva il viso contratto dall’angoscia, apriva la bocca per gridare senza produrre alcun suono, sgranava gli occhi dando vita a un’atroce maschera di terrore perché chi l’avesse trovato capisse al primo sguardo quel che aveva passato prima di morire, a pochi metri da loro, nella neve e nel buio, mentre tutti dormivano.