mercoledì 8 novembre 2017



UN BUE VEDE GLI UOMINI
Di Carlos Drummond de Andrade
Da "Claro enigma”, 1951.

Così delicati (più di un arbusto) e corrono
e corrono da una parte all'altra, hanno sempre scordato
qualcosa. Certamente, gli manca
non so che attributo essenziale, sebbene si presentino nobili
e gravi, a volte. Ah, spaventosamente gravi,
perfino sinistri. Poveretti, si direbbe non ascoltino
né il canto dell'aria né i segreti del fieno,
e nemmeno sembrano accorgersi di ciò che è visibile
e comune a ciascuno di noi, nello spazio. E diventano tristi
e a forza di tristezza arrivano alla crudeltà.
Tutta la loro espressione risiede negli occhi – e si perde
in un semplice abbassare di ciglia, in un'ombra.
Niente nei peli, nelle estremità inconcepibilmente fragili,
e quanta poca montagna c'è in loro,
e che magrezza e che rientranze e che
impossibilità di organizzarsi in forme calme,
permanenti e necessarie. Hanno, forse,
una certa grazia malinconica (un minuto) e con ciò si fanno
perdonare l'agitazione fastidiosa e il traslucido
vuoto interiore che li rende così poveri e bisognosi
di emettere suoni assurdi e agonici: desiderio, amore, gelosia
(che ne sappiamo noi?), suoni che si sbriciolano e cadono nel campo
come pietre afflitte e bruciano l'erba e l'acqua,
e difficile, dopo, è ruminarvi la nostra verità.