IL MARE COLORE DEL VINO
Leonardo Sciascia
Il treno che nell'estate parte da Roma alle 20,50 - diretto per Reggio Calabria e Sicilia, annuncia dall'altoparlante una voce femminile che, nel rivolo dei viaggiatori che si muove verso quel treno, un rivolo che trascina valige legate con la cordicella e mappate di tela, evoca e sospende tra i fili della stazione Termini, verso il cielo della sera, un volto femminile di appena sfiorita bellezza - porta una vettura di prima classe Roma-Agrigento: enorme privilegio sollecitato e mantenuto da tre o quattro deputati della Sicilia occiden-tale. In verità, dei treni diretti al sud, questo è il meno affollato: in seconda classe sono pochi i viaggiatori che non trovano posto a sedere; e in prima, specialmente nella vettura per Agrigento, è possibile avere uno scompartimento tutto per sé - basta spegnere la luce, tirare le tendme e distribuire bagagli e giornali sui sedili: almeno fino a Napoli, e se volete essere prudenti fino a Salerno. Superata Salerno, potete mettervi a dormire, magari in canottiera o addirittura in pigiama, che nessuno verrà a cercar posto proprio nello scompartimento vostro. Ma questa comodità relativamente ai posti la si sconta ad usura sugli orafi: perciò i siciliani preferiscono il direttissimo che partendo due ore prima arriva ad Agrigento, estrema stazione, con un vantaggio sul diretto di almeno sette ore.
Ma all'ingegnere Bianchi, che per la prima volta si trovava a fare un viaggio in Sicilia - a Gela precisamente: e non per turismo - e non era riuscito a trovar posto nell'aereo, consigliarono il diretto e la vettura Roma-Agrigento: e di prenotare il posto, che c'era il rischio di passare una notte nel corridoio. Consigli uno peggio dell'altro, e particolarmente quello della prenotazione: che in uno scompartimento di posti prenotati si trovano sempre tante persone quanti sono i posti, mentre in altri scompartimenti, senza prenotazione, c'è tutta la possibilità di restar soli. Grazie ai consigli, come sempre accade, l'ingegner Bianchi si trovò a fare un viaggio scomodo in compagnia di cinque persone, tre adulti e due bambini, gli adulti loquacissimi, e maleducati i bambini
Dei tre adulti, due erano padre e madre dei maleducati bambini; e aggregata alla famigliola, per parentela o per amicizia o per casuale conoscenza, era una ragazza di una ventina d'anni, a prima vista scialba e vestita di un mona-cale nero profilato di bianco. I bambini le stavano addosso: il più grande appoggiandosi come pieno di sonno Il più piccolo arrampicandosi fino ad abbracciarle il collo e a strapparle i capelli e poi ridiscendendo a terra, ad ac-cularsl, In movimento continuo. Il grande si chiamava Lulù e il piccolo Nenè: diminutivi, apprendeva l'ingegner Bianchi un po' prima di arrivare.a Formia, rispettivamente di Luigi ed Emanuele. Ma prima di arrivare a Formia l'ingegnere sapeva quasi tutto sui quattro della famiglia e sulla ragazza che a loro si accompagnava. Erano di Nisima, un paese in provincia di Agrigento: un grosso paese contadino ricco cli territorio e con ricchi proprietari; arioso; amministrato dai socialcomunisti, patria di un pezzo grosso del regime fascista; senza stazione ferrovia-ria; con un antico castello. Marito e moglie insegnavano alle elementari; ed anche la ragazza, ma non ancora da ti-tolare, per incarico. Era venuta a Roma, la famiglia, perché un fratello della moglie, una potenza nel ramo pensioni, si era sposato con una di Roma: ragazza seria, di ottima famiglia, il padre, Grazia e Giustizia, gruppo A - la sposa laureata in lettere, insegnante in una scuola privata; bella ragazza, alta, bionda. Si erano sposati proprio quel giorno, a San Lorenzo in Lucina: bella chiesa; non quanto quella di Sant'Ignazio, ma bella. Testimoni di gruppo A. La ragazza che era stata loro affidata per il viaggio di ritorno -
da un fratello, Ministero Grazia e Giustizia, gruppo A -
era invece venuta a Roma per svagarsi: aveva superata una grave malattia, il vestito nero profilato di bianco lo portava per voto a san Calogero, che era protettore di Nisima, miracolosissimo Santo. A Roma, con tante chiese che c'erano, non una dedicata a san Calogero: "e come è possibile" si chiedeva la moglie; "non una chiesa, non un altare. Ed era un gran Santo".
Il marito un po' di san Calogero scetticamente sorrideva. La ragazza disse che, da bambina, lei di san Calogero aveva paura: nero di faccia, nero di barba, nero il manto, e, per la verità, il voto al Santo non era stata lei a farlo ma sua madre, come se l'avesse fatto lei, però: ancora per un mese, ed era il sesto, doveva portare il vestito nero profilato di bianco.
"Nel crogiolo dell'anno: con questo caldo che fonde le pietre" disse il marito.
"E che voto sarebbe, allora?" si risentì la moglie.
"Senza un po' di sofferenza il voto non può andare."
"E non basta che tutta Roma si voltava a guardarmi?"
disse la ragazza.
"Non basta: mortificazione e sofferenza, queste due cose ci vogliono a sciogliere un voto" disse con sicurezza la signora.
La ragazza fece una lieve smorfia di irrisione. E di colpo l'ingegnere la vide diversa. Aveva un bel seno sotto quel tetro vestito, un bel corpo. Ed occhi luminosi.
"Sciolgo un voto" disse il bambino più piccolo scio-gliendosi le scarpe e calciando per lanciarle in aria. Una scarpa gli rimase attaccata, l'altra colpì al petto l'ingegnere.
"Nenè!" urlarono padre e madre per ammonizione e minaccia. Domandarono scusa all'ingegnere, l'ingegnere restituendo la scarpa disse "ma di niente: i bambini, si sa..." ed era stato davvero niente, non sapeva quel che Nenè e Lulù gli riserbavano per il lungo viaggio: da Na-poll, dove del tutto si scatenarono, a Canicattì
"Questa storia dei voti!" disse il marito continuando il discorso mentre rimetteva la scarpa a Nenè. "Roba vecchia quanto il cucco: superstizione, ignoranza. ."
"Ma tu la Scala Santa te la sei fatta" polemizzò acre la moglle.
"Che c'entra?" disse il marito: colpito a morte, si vedeva.
"C'entra: lasciamo giudicare il signore se c'entra o non c'entra" disse implacabile la moglie. L'ingegnere fece un mezzo sorriso e un timido gesto di rinuncia.
"No" disse la signora "deve dirglielo lei se c'entra o non c'entra che lui va a farsi la Scala Santa e poi ride dei voti che si fanno ai Santi."
"Me lo dica pure" incoraggiò il marito: con la gracile speranza di un'assoluzione.
"Che vuol dire farsi la Scala Santa?" chiese l'ingegnere: ma per prender tempo.
"Non lo sa?" si meravigliò la signora.
"Ne ho una vaga idea, forse un ricordo" disse l'ingegnere.
"Una vaga idea, un ricordo... Ma scusi: lei è o non è cattolico?"
"Sono cattolico, ma..."
"La pensa come me" scattò trionfante il marito.
"Tu la Scala Santa te la sei fatta" disse, a fulminarlo ancora, la moglie.
"Per farti compagnia" azzardò il marito.
"Voglio mangiare!" gridò Nenè. "Voglio mortadella voglio banane."
"E io voglio un'aranciata" disse Lulù.
"Mortadella niente, ti fa venire l'orticaria" disse la madre. Indicò macchioline rosse sulle braccia di Nenè
"Mortadella: o faccio come l'asino di don Pietro" disse Nenè con una faccia che prometteva immediata attua-zione.
"Come fa l'asino di don Pietro?" gli chiese la ragazza: divertita, ché evidentemente lo sapeva.
Nenè scivolò dal sedile per dare una risposta figurata.
"Per carità!" gridarono padre e madre agguantandolo.
L'asino di don Pietro, spiegarono all'ingegnere, usava strusciarsi a terra a gambe per aria, furiosamente. Nenè riusciva a farne una perfetta imitazione.
Gli diedero mortadella.
"L'aranciata" gemette Lulù "l'aranciata l'aranciata..."
"A Napoli" promisero tutti, compreso l'ingegnere. Ad ottenere quel che voleva, Lulù si serviva di irresistibili lamenti, mentre Nenè usava la minaccia e il ricatto. L'ingegnere preferiva i modi diretti e sbrigativi di Nenè, il lamento di Lulù gli arpeggiava maledettamente i nervi.
Sbaciucchiato da padre e madre Lulù si placò. L'inter-mezzo era stato provvidenziale: lo scabroso argomento della Scala Santa era caduto.
"Lei non è sposato" affermò la signora dopo una ra-pida occhiata alla mano sinistra dell'ingegnere.
"La gente con la testa sulle spalle non si sposa" scherzò il marito.
"Questo è vero, se tu ti sei sposato" disse la moglie.
"Io invece penso" disse l'ingegnere "che la gente con la testa sulle spalle, presto o tardi, sposa: io lo farò un po'
tardi, ma lo farò."
"Lo senti?" disse la moglie, in rimprovero al marito.
"Così parla la gente che ha senso."
"Ma io scherzo... Però a voler parlare sul serio, in generale, oggettivamente, ii matrimonio è un errore... Sog-gettivamente, personalmente, non ho ragione di lamen-tarmene: mia moglie, non dico per dire o perché lei è presente, è veramente un angelo" la signora chinò, improvvisamente radioso, il volto "e poi ci sono questi due anglo-letti..." accarezzò la testa di Nenè, che gli era vicino: e per ricambiare Nenè gli strofinò il musetto, lucido del grasso della mortadella, sulla camicia di seta cruda: camicia da cerimonia, che non aveva fatto a tempo a cambiarsi dopo il matrimonio del cognato.
"La camicia!" gridò la si~nora. Era ormai troppo tardi fioriva di un grasso geroglifico.
"Gioia mia" disse il padre "la camicia a papà hai rovi-nato. "
"Voglio ancora mortadella" disse Nenè.
"Nomina ancora mortadella: e viene il maresciallo ad arrestarti" minacciò il padre.
"Non la nomino: la voglio" disse Nenè prontamente aggirando il veto.
"E intelligente quanto un diavolo" disse il padre con orgoglio.
"La voglio" ribadì Nenè.
"No no e no" disse il padre.
"Appena arriviamo a casa" disse Nenè "a zia Teresina racconterò che l'avete sparlata con zio Totò."
"Noi l'abbiamo sparlata?" disse la madre mettendosi la mano sul petto, preoccupata ed accorata.
"Tu e papà: avete detto a zio Totò che la zia è avara, che non si lava, che fa azioni maligne..." precisò Nenè con feroce memoria.
"Gli do la mortadella" disse il padre.
"Dagliela" approvò la madre "e quando sarà tutto rosso d'orticaria, tutto prurito, andrà a farsi grattare da zia Teresina."
"Mi gratto contro il muro" disse Nenè vittoriosamente afferrando la mortadella che il padre gli porgeva.
L'ingegnere vide, nel velo di silenziosa apprensione che scese sui genitori di Nenè, acuto e mobile come quello di un furetto il volto di zia Teresina. Per distoglierli dall'am-bascia disse "Siamo già a Napoli" che le luci della città già punteggiavano la notte.
L'annuncio scosse Lulù, che se ne stava come in dormi-veglia languldamente appoggiato al fianco della ragazza: gridò che voleva l'aranciata.
Mentre il treno scivolava lungo il marciapiede il grido
"sfogliate sfogliate" incuriosì Nenè. Il padre gii spiegò che si trattava di un dolce di pasta a sfoglia e di crema, Nenè con entusiasmo, e col solito garbo, ne chiese uno.
L'ingegnere offrì l'aranciata a Lulù e la sfogliata a Nenè.
Tanta gentilezza verso i bambini provocò un'ondata di ringraziamenti e una formale presentazione: professor Miccichè, ingegnere Bianchi.
Nenè, che già al primo morso aveva mostrato invincibile disgusto, come la bottiglia di spumante al varo di una nave, sulla festa della presentazione lanciò la sfogliata: evidentemente mirando alla testa di suo padre e per poco mancandola.
"Facchino" dissero padre e madre insieme.
"E una porcheria" disse Nenè "voglio un cannolo."
"Un cannolo?" disse il professor Miccichè. "E come lo trovo, alla stazione di Napoli, un cannolo?"
"Me ne fotto: io voglio un cannolo" disse Nenè sve-lando una inclinazione al linguaggio forte fino a quel momento, dall'ingegnere, insospettata.
La ragazza rise. Il professor Miccichè e signora smania-rono di disperazione, minacciarono l'immediato arrivo del maresciallo con frusta e catene, pregarono l'ingegnere di guardare nel corridoio: ché il maresciallo, richiamato dal turpe linguaggio di Nenè, sicuramente stava per arrivare.
L'ingegnere guardò nel corridoio, certificò la presenza del maresciallo.
"Il maresciallo è un cornutaccio" disse Nenè a bassa voce: aveva paura, ma non voleva cedere.
Una disputa si accese tra marito e moglie per stabilire dove e da chi Nenè avesse appreso le parolacce. Il circolo, dove di solito il padre lo conduceva nelle ore pomeri-diane, era, secondo la signora, la bolgia del turpiloquio; e certi Calogero Mancuso e Luigi Finisterra i più diretti responsabili della corruzione linguistica di Nenè: giovani che non avevano niente da fare e pigliavano a passatempo l'innocenza di un bambino. "Lei non immagina nemmeno" disse la signora rivolta all'ingegnere "le cose che gli insegnano: cose d'inferno, persino sui Santi, persino sul Papa... Fortuna che il bambino le dimentica."
La smentita di Nenè fu immediata: "Il Papa è..." ma due mani, una della madre e una del padre, corsero a tam-ponargli la bocca, da dove la terribile definizione, come acqua dallo squarcio di una conduttura tappato con mezzi di fortuna, sibilò non del tutto indecifrabile.
"Ha visto?" disse la signora all'ingegnere. "E io credevo che avesse dimenticato... Cose di questo genere gli msegnano."
Naturalmente, sempre secondo la signora, ciò non si sarebbe mai verificato se il padre, invece di giocare al circolo la partita a quaranta, avesse fatto attenzione al bambino: il professor Miccichè sul quaranta ci perdeva il senno.
Ma secondo il professore le cose stavano in tutt'altro modo: non al circolo, palestra di elevati senrimenti e di ca-stigato linguaggio, si dovevano le vivaci espressioni di Nenè, ma al cortile, abitato da gente zotica, sul quale dava un balcone della loro casa: ed era da ascrivere a colpa della signora se Nenè a quel balcone stava per ore affacciato.
Nenè si pronunciò a metter fine alla disputa: "Al circolo" lapidariamente. Il professore si afflosciò, ma la signora non abusò del trionfo: cambiò discorso anzi, lan-ciandosi a ricordare, poiché il treno ripartiva, ii loro viaggio di nozze che a Napoli, dopo Taormina, aveva avuto la seconda tappa.
Era già mezzanotte. 'Qui non si dorme' pensò l'ingegnere: e se non gli conveniva cambiare scompartimento che ce n'erano quasi vuoti. Ma in verità non aveva sonno e all'irritazione per esser capitato tra persone di così incontenibile loquacità, e con quei due terribili bambini per giunta, era subentrato il divertimento e ora, sul punto di decidersi a lasciare lo scompartimento, qualcosa di vago e di indefinito che non si poteva dire affezione, ma all'affezione somigliava. Non aveva mai avuto dimestichezza coi bambini e aveva sempre creduto di non poter sopportarne la compagnia, sempre nei viaggi aveva osservato la regola di non prender posto negli scompartimenti in cui c'erano bambini; ma Nenè decisamente gli piaceva. E gli piaceva la ragazza: ad ogni gesto che faceva, ad ogni parola che diceva, si faceva più viva e desiderabile. 'Il fatto è' pensava l'ingegnere 'che un viaggio è come una rappresentazione dell'esistenza, per sintesi, per contrazione di spazio e tempo, un po' come il teatro, insomma: e vi si ricreano intensamente, con un fondo di finzione inavvertito, tutti gli elementi, le ragioni e i rapporti della nostra vita.' Si decise a comunicare al professore il suo proposito di trasferirsi ad altro scompartimento: per lasciarli più liberi, disse, per dare un po' più di spazio ai bambini.
"Nemmeno per sogno" disse il professore "lei non deve scomodarsi: se mai, ce ne andiamo noi."
Si scambiarono complimenti e gentilissime proteste: e infine decisero che dallo scompartimento non si sarebbe mosso nessuno.
Lulù disse che aveva sonno, e voleva spenta la luce.
"Niente scuro: io debbo guardarmi dal maresciallo"
disse Nenè che non aveva, nei riguardi del maresciallo, tranquilla coscienza.
"Spegnete la luce!" gridò Lulù. "Voglio dormire."
Fulmineo Nenè passò, per dirla col linguaggio di un maresciallo, a vie di fatto: scivolò dal suo posto e si abbatté su Lulù con un morso al di sopra del ginocchio.
Lulù gridò, furiosamente si afferrò ai capelli del fratello.
Li separarono stringendo il naso a Nenè, a fargli lasciare la presa del morso, ed aprendo una ad una le dita di Lulù.
Nenè ebbe dal padre un leggero schiaffo e Lulù una leggera ammonizione.
"Ma chi è questo maresciallo?" sorridendo chiese l'ingegnere a Nenè.
"E un figlio di..." nuovo, rapido tamponamento della bocca di Nenè, ma senza apprezzabile risultato.
"Gesù Bambino piange: ogni volta che tu dici cose cattive, piange" disse la madre.
"Dov'è Gesù Bambino?" domandò Nenè.
"E in cielo ed è qui: è in ogni luogo."
"Non l'ho mai visto" disse freddamente Nenè.
"Non si vede, ma c'è."
"Se non si vede, non c'è."
"Scomunicato!" disse la madre.
"Andrai all'inferno" postillò Lulù.
"All'inferno ci vanno i marescialli" disse Nenè.
Risero tutti, anche sua madre.
"Diavolo, diavolo che sei" disse suo padre dolcemente accarezzandolo. E all'ingegnere: "Ma lo sente? Ha mai co-noscluto un bambino come questo?" con gli occhi lucenti di orgoglio.
L'ingegnere disse "Mai" ed era vero.
"Non è cattivo" disse la madre "è soltanto nenoso...
Se lel vedesse quanto è generoso: non può avere una cosa nuova, un giocattolo, un libro illustrato, che subito la regala; e ai poveri darebbe la casa con tutto quello che c'è dentro; appena viene un povero a chiedere l'elemosina lui perde la testa: mamma, diamogli un vestito; diamogli un materasso; diamogli dei piatti... E convinto che la po-verta sla mancanza di materassi e di piatti, è ossessionato dall'idea che i poveri dormano per terra e mangino la mi-nestra nelle scatole di latta che buttiamo via..."
"Dormono davanti la chiesa" disse Nenè "e mangiano nelle buatte del pomodoro: l'ho visto io. E muoiono."
"No che non muoiono" disse il padre.
"Muoiono" disse Nenè con un tono che non ammet-teva replica. E aggiunse-"Ma io mi faccio povero: e i poveri non muoiono più."
"Vuol farsi povero!" irrise Lulù. "Getino, te l'ho detto mille volte: uno può farsi dottore, può farsi prete, non può farsi povero."
"Vero che uno può farsi povero?" domandò Nenè al padre.
"Certo, certo: può farsi povero... Come no?" rispose precipitosamente il professor Miccichè.
"Lo vedi?" disse Nenè a Lulù. "Tu sei un cretino, non sai che uno può anche farsi povero."
"E io mi faccio maresciallo" disse Lulù "e così arresto te e tutti i poveri."
Il colpo era forte. Nenè si mosse.
"Mi morde!" gridò Lulù alzando i piedi in posizione da respingerlo.
"Non ti mordo: mi sono alzato perché voglio farmi quattro passi. E che sempre seduto debbo stare?" disse Nenè con un tono che trasudava falsità e rivolgendosi a tutti per avere approvazione. Ma un momento dopo era di nuovo seduto, assorto, si vedeva, in malinconici pensieri. E così, lentamente, il sonno lo colse.
Fu spenta la luce, abbassati di qualche centimetro i vetri e chiuse le tendine. "Speriamo di prendere un po' di sonno, ché abbiamo ancora quindici ore di viaggio: buonanotte" disse il professor Miccichè. Tutti dissero buonanotte, anche Lulù già impastato di sonno. Erano le due.
L'ingegnere aveva a lato la ragazza e accanto alla ragazza stava dall'altro lato Lulù; i posti di fronte erano oc-cupati dal professore, da Nenè e dalla signora. Nenè dormiva agitato, forse il maresciallo appariva sulla soglia del suo sonno facendo fischiare il nerbo di bue e tintinnare le manette. Era un bambino non propriamente bello, più bello era indubbiamente Lulù; ma era straordinario, apriva una dimensione di affetti, di pensieri, di rapporti che l'ingegnere Bianchi non aveva mai considerato. Lo guardava con un sentimento quasi struggente: come un significato dell'esistenza che fino a quel momento gli era sfuggito. La vita, anche la sua vita di tecnico, soprattutto la sua vita di tecnico, consisteva in definitiva nel fatto che Nenè aveva quattro anni contro i trentotto suoi. 'Non si può aver fede nella tecnica senza aver fede nella vita: non si può andare in orbita intorno alla terra se non per il fatto che ci sono bambini che hanno quattro anni, bambini che nascono, bambini che nasceranno. Ma la nostra società comincia a vedere i bambini come problema, come già negli Stati Uniti, con tutto lo studio di pedago-gia e di medicina che si svolge sul problema della loro libertà.' 'Il punto è questo: i bambini non sono un problema. Una società che se li pone come problema li distacca da sé, provoca una soluzione di continuità. Lulù e Nenè non sono problemi per il professore Miccichè e per la signora: e sì che sono maestri, e ad un concorso saranno andati a ripetere tutte le teorie, di americani e di svizzeri, sull'educazione.' 'A proposito di svizzeri: da una società come quella svizzera, che pare disinfestata dei germl della tragedia e della storia, vien fuori quell'inge-gner Faber di Max Frisch. La tragedia greca e il politec-nico di Zurigo. La tragedia dell'uomo tecnico. E va a esplodere nell'antica terra di Grecia, dove la fatalità è ancora in agguato.' 'Un momento: stavi pensando ai bambini, l'ingegner Faber non c'entra.' 'C'entra: ma bisogna pensarci su con più chiarezza, ora il sonno ti sta prendendo.' 'Ecco: la Grecia, la Sicilia, forse è questo il punto.' 'Il liceo classico! Ad ogni cosa tiriamo fuori la Grecia.' 'Ma sì, è un fatto: in Svizzera in ogni bambino tu vedi lo svizzero che diventerà, in Grecia l'individuo l'uomo... Ed anche in Sicilia, immagino: questi due bam-bml...' 'Sono luoghi in cui non c'è l'educazione: non ci sono regole, tecniche, abitudini educative; ci sono gli af-fettl: e credono, i greci, i siciliani, che non ci sia problema nella vita che l'affetto non possa risolvere.' 'Risolvono così anche la morte' pensò mentre lievi ondate di sonno attraversavano la sua mente.
Il caldo lo svegliò. Nel sonno la testa della ragazza era scivolata dalla spalliera sul suo petto: dormiva un sonno duro, senza respiro. L'ingegnere ne ebbe tenerezza, indefi-mblle giQIa: per quei capelli che quasi sfioravano la sua bocca, per il seno che premeva il dorso della sua mano. Il suo corpo, ormai sciolto dal sonno, si fece intento.
Dormivano tutti, il professore addirittura ronfava.
Erano già nelle Calabrie; alle fermate, nell'improvviso di-lagare del sllenzlo notturno, si sentivano frasi in dialetto.
Ad un momento il treno si fermò in riva al mare, il suono del mare Sl fece immagine, come nelle illusioni del cinéma, una di quelle dissolvenze in cui le figure umane appunto si dissolvono nell'avanzare delle onde, l'ingegnere se ne sentì penetrato, disciolto: ed era, indecifrato, il suo sentimento di accordo col mondo, con la natura, con l'amore.
Quando il treno si mosse, l'ingegnere sentì Lulù agi-tarsl: qualche momento dopo, improvvisamente, se lo vide di fronte. Il bambino lo guardava di muto stupore e rimprovero: poi prese tra le mani il volto della ragazza e con sforzo lo sollevò, lo raddrizzò verso la spalliera. 'E geloso' pensò l'ingegnere 'è geloso: si è attaccato alla ra-
gazza come un innamorato, perciò se ne è stato quieto, sempre accanto a lei.' La ragazza si svegliò, capì. "Mi scusi" disse all'ingegnere, e a Lulù: "Rimettiti a dormire, gioia, è ancora notte, ora ti do il mio posto, così ti distendi e dormi tranquillamente".
Lo sistemò sui due posti, gli accarezzò i capelli. Lulù non parlò: lauardava con risentimento e Insleme con implorazione, forse cuocendosi in una pena senza nome.
La ragazza uscì nel corridoio.
A seguirla, l'ingegnere aspettò che Lulù si fosse riaddormentato. Stava in fondo al corridoio, premendo di profllo il volto contro il vetro, ancora come abbandonata allo spec-chio del sonno. L'ingegnere le si avvicinò dicendo "Si è riaddormentato" e poi, dopo una lunga pausa "E geloso."
Mi vuol bene" disse la ragazza.
"Non è come Nenè: è più chiuso, più malinconico...
Nenè è straordinario?' disse l'ingegnere.
"E terribile, Nenè: lei ancora non ha visto tutto quello che è capace di fare... La povera Lucia ci perde la testa."
"La signora si chiama Lucia? Mi pare che il manto la chiami diversamente."
"La chiama Etta, Lucietta... Io mi chiamo Gerlanda, ma mi dicono Dina, Gerlandina... Non c'è uno in Sicilia che sia chiamato col suo nome netto, anche se è un bel nome."
"Gerlanda è un bel nome."
"Non è un bel nome: è pesante, c'è una gerla dentro..."
"Non l'ho mai sentito in altre parti d'Italia."
"Si trova solo in provincia di Agrigento: san Gerlando è il protettore della città, il primo vescovo."
"E san Calogero era vescovo?"
"No san Calogero era eremita... Erano sette fratelli, dice la ieggenda, tutti e sette di nome Calogero: uno è venuto nella campagna di Nisima. Sette bei vecchi: Calogero in greco vuol dire bel vecchio. Ma io non conosco il greco. E lei ?"
"L'ho studiato, ma non posso dire di conoscerlo."
"Avrei voluto studiarlo: ma una ragazza che fa il liceo dicevano i miei, poi deve andare all'università; e come si fa a mandare sola una ragazza, in una città come Palermo ?"
"In Sicilia tutte le famiglie pensano così~"
"Oh no, non tutte."
"La sua è una famiglia particolarmente severa~"
"Non particolarmente: in Sicilia ce ne sono ancora tante che vedono la vita in un certo modo che diffi-dano..."
"Di che?"
"Del mondo, di se stessi... E non è che abbiano del tutto torto... Io prima della malattia ero più insofferente, plU Impazlente: avrel voluto fare un concorso per il continente, andarmene... Ora vedo le cose un po' diversamente: mi pare che la vita abbia perduto di serietà, che ognuno sia disposto a tradire gli altri, tutti gli altri.. Non riesco a spiegarmi, vero?"
"Lei si spiega benissimo."
"A Roma, ad Ostia, seduta ad un caffè, vedendo scor-rere una fiumana di persone, ho pensato che nessuno stesse con gli altri, anche se parlavano, scherzavano, andavano a braccetto: dietro alla vita come dietro un carro funebre, quando ognuno pensa 'sono vivo, è toccata a quell'altro, io non muoio' e che tutti gli altri, e il mondo stesso, sarebbero morti prima... E mai stato ad un accom-pagnamento funebre?"
"Qualche volta."
"Io un paio di volte... E dunque capisce quel che voglio dire, anche se lo dico con confusione: si va appresso alla gioia così..."
"Lei sta dicendo cose profondamente vere."
"Forse sono pensieri così, di una che esce da una malattia. Ma a lei non pare che la vita abbia perduto di serietà?"
"Non in tutto il mondo" disse l'ingegnere.
"Oh no, non in tutto il mondo: io credo che al mio paese la vita sia ancora seria... Ma le apparenze sono grette, intollerabili... Lei sta pensando che sono gretta anch'io, all'antica: e poi vestita così..."
"No no" protestò l'ingegnere "sto pensando tutt'altro."
"A me la vita piace: mi piacciono le belle cose, i bei vestiti... E mi piacerebbe darmi il rosso alle labbra, e provare a fumare."
"Lei è la ragazza più incantevole che io abbia conosciuto: anche vestita del voto a san Calogero, e senza il rosso alle labbra."
Lei abbassò gli occhi, cominciò a muovere l'indice sul vetro come scrivendo. "Sta scrivendo qualcosa?" domandò l'ingegnere.
"Come?"
"Voglio dire sul vetro: mi pareva lei scrivesse qualcosa."
"Oh sì, il mio nome: quando sono m confuslone m trovo a scrivere il mio nome."
"Lei non deve sentirsi confusa se le dico che è una bella ragazza, e che mi piace parlare con lei: perché è la verità."
"Oh" disse la ragazza: e congiunse le mani, come per impedirsi di scrivere ancora il suo nome sul vetro.
"Forse non è saggio tentare di portare un incontro come il nostro oltre la destinazione del viaggio, ma voglio dirle che mi piacerebbe rivederla."
La testa del professor Miccichè si affacciò nel corridoio: pareva decollata tra le tendine incrociate, grondava, come di sangue quella del Battista, di sonno e di diffidenza. "E
perché ve ne siete andati?" disse, con una certa lrntazione La ragazza disse all'ingegnere "Anche a me" con sem-plicità; e si avviò a placare la diffidenza del professore.
Il treno entrava nella stazione di Paola: e appena spento lo stridio dei freni si accesero le grida "fragole, fragole" che il professor Miccichè aspettava con seicento lire in mano: un bicchiere di fragole per ciascuno, compreso l'ingegnere.
I bambini si svegliarono: ancora con gli occhi chiusi tesero le mani verso le fragole.
"Tu e le tue fragole!" disse la signora. "Li hai sve-
"Non sono stato io: si sono svegliati per le grida dei venditori" Sl scusò il professore.
"Tu ti sei mosso prima delle grida" disse la signora.
"Mi sono mosso" spiegò il professore "perché..." s'in-terruppe, confuso: e con gli occhi, impercettibilmente ammlccò verso la ragazza e l'ingegnere. Ma in lei affiorò, mvece che la tutoria preoccupazione del marito, la vocazione di ogni donna sposata ad avviare altre donne verso il matrimonio: nel caso particolare alimentata dal roman-zesco di un viaggio in treno, di un ingegnere continentale, di una buona ragazza di paese.
Nenè, che aveva appena cominciato le sue, disse "Voglio ancora fragole."
"Ci sono le mie: io non le mangio" disse la signora.
"E o non è maleducato?" disse il professore chiedendo a tutti approvazione.
"Non finirà nemmeno il suo bicchiere: parla perché ha la bocca, come te" disse la signora: e intendeva rimprove-rare al marito la piccola gaffe di un momento prima, quando Sl era mterrotto.
"Mangerò il mio e il tuo: e altri dieci, altri cento bicchieri di fragole" disse Nenè.
"Mangerò cento bicchieri di fragole!" caricaturò Lulù.
"Duecento, mille" si intestardì Nenè: ma già stracca-mente dava fondo al suo bicchiere. Un momento dopo lo porse alla madre dicendo "Le mangerò più tardi."
"Uh uh uh" burlò Lulù.
"Non mi rompere le scatole" ammonì Nenè.
"Non parla perché ha la bocca" si rivalse il professore
"parla perché è un facchino... Ma ti metto a sesto io: ti chiudo in un collegio ti chiudo."
"In mezzo agli orfanelli?" si informò accademicamente Nenè.
"Proprio: in mezzo agli orfanelli."
"Se tu non muori non mi prendono: tu muori e io me ne vado con gli orfanelli."
Il professore brancicò sulla parete in cerca di ferro, si attaccò al portacenere. Così immunizzato dalla morte, col solito orgoglio disse all'ingegnere "Sente che logica?" E a Nenè "Non ti illudere: ti prendono anche con me vivo, basta che io dica una parolina a padre Ferraro."
Ma giustamente prevedendo la reazione di Nenè scattò in piedi e chinandosi minaccioso disse "Non ti azzardare a dire quello che stavi per dire su padre Ferraro: che ti do una pestata da fartene ricordare per cent'anni."
"Non lo dico: lo penso" disse Nenè per niente sconvolto.
Nervosamente il professore si passò più volte la mano sulla faccia, poi rise. Risero tutti. E mentre ridevano il controllore apparve a chiedere i biglietti: glieli diedero, il professore si informò sugli orari. E appena se ne fu andato, Nenè comunicò "Sto pensando ancora a padre Ferraro."
"Gesù!" si accorò la signora. Ma il professore, l'inge gnere e la ragazza stavano ridendo fino alle lacrime.
Giunsero a Villa San Giovanni dopo aver variamentc commentato la vivacità di Nenè e dopo aver sedato un paio di zuffe repentinamente esplose tra Nenè e Lulù: e ricordo degli interventi pacificatori, le camicie del profes sore e dell'ingegnere erano punteggiate del colore delle fragole.
Il professore, euforico, propose che si andasse tutti in coperta, sul traghetto, a prendere 11 caffe.
"E le valige?" disse la signora.
"Già, le valige..." si costernò il professore. E con la vo-luttà autodenigratoria del siciliano spiegò all'ingegnere che, avvicinandosi alla Sicilia, era buona regola non lasciare mai incustodite le valige: che era tutt'altra cosa che al nord, dove, a immaginazione del professore, le valige si 1288 Il mare colore del vino
muovono soltanto, come cani, coi loro legittimi proprietari.
La signora, che aveva in mente un suo disegno, propose una soluzione: che andassero su prima Dina e l'ingegnere e poi, al loro ritorno, ma che facessero con comodo sarebbero andati lei e il marito, coi bambini, a prendere ii caffe.
Le proteste dei bambini, che erano impazienti di salire in coperta, furono autorevolmente represse. Il professore per la verità, non sembrava persuaso: era dilacerato tra la responsabilità assunta col fratello della ragazza e il piacere di agevolare un idillio. Ma la decisione della signora lo travolse.
Così si ritrovarono soli, la ragazza e l'ingegnere, sullo stretto di Messina sfolgorante del primo sole. Presero di fretta un caffè e poi sedettero, in silenzio, di fronte a Messina: candida, nitida.
Dalla notte insonne alla luce del mattino sul mare, i loro pensieri erano come abbagliati. Quando il traghetto cominciò a muoversi la ragazza disse "Scendiamo: i bambini saranno impazienti di venir su."
Erano più che impazienti: Lulù frignava e Nenè era disteso, in silenziosa protesta, sul pavimento della vettura.
Il professore lo additò al ludibrio della ragazza e dell'ingegnere: "Guardatelo: c'è differenza tra lui e un cane?" ma Nenè era già balzato fuori, seguito da Lulù e dalla signora.
Il professore era già nel corridoio quando il pensiero che stava per lasciare la ragazza con un uomo, in una vettura quasi deserta, lo trafisse: tornò indietro e, a togliersi scrupolo se non preoccupazione, chiese alla ragazza se voleva tornar su, in loro compagnia. La ragazza disse di no, che era stanca.
"Il professore diffida" disse l'ingegnere.
"Vuole riportarmi a casa sana e salva" sorrise la ragazza.
"Spero che non ci riesca" disse l'ingegnere "spero che lei..." non trovava più le parole.
"Sì" disse la ragazza arrossendo.
Non dissero più niente. Trovandoli così silenziosi il professore precipitò in un dubbio: o che l'ingegnere era stato tanto gentiluomo da non aver nemmeno osato di parlare, in sua assenza; o che, al contrario, lo fosse stato tanto poco da tentar qualcosa ed essere respinto. Col muto linguaggio degli occhi, delle palpebre, la signora glielo risolse: l'idillio continuava, ma niente di men che corretto, bastava guardarli in faccia.
Il professore si rasserenò: ma gli pareva fosse venuto il momento di sapere, poiché la signora gli assicurava che l'idillio c'era, con chi aveva a che fare: ingegnere, va bene; scapolo, almeno così si dichiarava; età, ad occhio e croce, trentacinque; simpatico; apparentemente di buon carattere... Ma bisognava andare un po' più a fondo. Domandò "Lei è veneto, vero?" che a Marostica il professore aveva fatto il corso ufficiali.
"Vicenza" rispose l'ingegnere.
"Città bella, città civile" disse il professore.
"Vicenza, Vincenza, Vincenzina: zia Vincenzina" giocò Lulù.
"Il panedispagna di zia Vincenzina" disse Nenè succhiando dalle dita i resti di una tavoletta di cioccolato.
"E lei risiede a Vicenza?" continuò ad inquisire il professore.
"Così, anagraficamente, diciamo; ma raramente mi caPita di fare una scappata: c'è mia madre, ci sono i miei fratelli... Sono stato per molto tempo fuori d'Italia: in America, in Persia... Ora in Sicilia, a Gela."
"Petrolio?"
"Petrolio."
"Anic?"
"Anic."
"E allora mi dica, in confidenza: c'è o non c'è a Gela il petrolio?" domandò il professore abbassando la voce ad un sussurro.
"Ma certo che c'è."
"Perché, vede, corre voce che sia, come dire?, tutta una montatura: che petrolio ce n'è tanto poco che il gioco non vale la candela."
"Ma è pazzesco!" disse l'ingegnere.
"E quello che dico anch'io. Ma a volte, sa com'è?, mi viene il dubbio che questo Mattei faccia le cose per gettare polvere negli occhi... Ma intendiamoci: per essere un genio è un genio, non si discute... Anche se Gela è tutto un imbroglio, ad armare un imbroglio simile ci vuole un genio."
"Non è un imbroglio" assicurò l'ingegnere.
"Se lo dice lei..." disse il professore, alzando le mani come ad arrendersi. E lasciando la pista dell'Anic tornò a quella, di più immediato interesse, dell'ingegnere Bianchi. "E a Gela ci resterà per molto?"
"Credo di sì: se non propriamente a Gela, in Sicilia... A Troina, a Gagliano..."
"La Sicilia le piace?"
"Credo che mi piacerà molto: non ci sono mai stato"
disse l'ingegnere guardando la ragazza.
"Lo sentite?" disse il professore rivolto alla moglie e alla ragazza. "Ha girato mezzo mondo e non conosce la Sicilia! Cristo di Dio, tutti così questi continentali!"
"Ma ho sempre desiderato fare un viaggio in Sicilia" si scusò l'ingegnere.
"Certo certo: la terra dove splendono sovra cupo fo-gliame arance d'oro" citò il professore con ironia, con amarezza.
"Succede sempre così" disse la signora, in soccorso all'ingegnere e a smorzare il risentimento del marito "che si rimanda da un anno all'altro: e le cose che più deside-riamo vedere finisce che non le vediamo mai, o soltanto per un caso... Noi, per esempio, non siamo ancora stati a Piazza Armerina: ed è da quando siamo sposati che mio marito va dicendo che dobbiamo andarci."
"E vero" approvò il marito "succede sempre così. Ma io, quando sento che uno, all'età dell'ingegnere... Mi scusi, quanti anni ha lei?..." che non perdeva di vista lo scopo di apprendere tutte le possibili notizie sul compagno di viagglo.
"Trentotto."
"...Che uno, a trentotto anni, non conosce la Sicilia: ebbene, non lo faccio apposta, ma mi viene una certa rabbia... Perché poi (si capisce che parlo in generale), senza conoscere, senza sapere, dall'alto del loro bum o come si chiama, del loro miracolo economico, insomma, tagliano e arrostono questa povera Sicilia come pare e piace a loro... E io allora dico: bum un corno, questo bum voi lo fate sulla nostra pelle, voi ci state friggendo con lo stesso olio nostro... Per carità, cambiamo discorso."
Lulù e Nenè, fingendo di impugnare un'arma, a vicenda si mitragliarono di bum bum bum. "E stato separa-tista" disse la signora, a spiegare la passione del marito.
"Indipendentista" corresse il professore "e lo sono ancora."
"Ora avete il petrolio" disse l'ingegnere, a consolarlo.
"Il petrolio?... Mi creda: se lo succhiano" disse il professore "se lo succhiano... Si ricorda di Musco nel San Giovanni di Martoglio? Teneva una lampada ad olio davanti all'immagine del Santo: veniva un vicino e si asciu-ava l'olio: 'veni qualche divotu, o qualche divota, con
~arso inganno, e s'asciuca l'ogghiu d' 'a lampa...' E così finisce col petrolio: una canna lunga da Milano a Gela, e se lo succhiano... I devoti, si capisce, quelli che per la Sicilia si preoccupano, si accorano... Meglio non parlarne."
"Ma se questo accade, o accadrà, non crede che la colpa sia anche dei siciliani?"
"Certamente: siamo fatti così, aspettiamo che il frutto ci cada in bocca, dall'albero, quand'è maturo."
"Ma, mi scusi, se siete fatti così, io non vedo cosa ab-biate da guadagnare a far da soli."
"Non siamo fatti così" disse la ragazza. "E che ci piace far credere di noi le cose peggiori: come quelli che imma-ginano di avere tutte le malattie, e provano sollievo a parlarne."
"E vero" disse il professore, un po' abbattuto. Ma subito trovò da esaltarsi di fronte al mare di Taormina.
"Che mare! E dove c'è un mare così?"
Il mare colore del vino 1293
"Sembra vino" disse Nenè.
"Vino?" fece il professore perplesso. "Io non so questo bambino come veda i colori: come se ancora non li cono-scesse. A voi sembra colore di vino, questo mare?"
"Non so: ma mi pare ci sia qualche vena rossastra"
disse la ragazza.
"L'ho sentito dire, o l'ho letto da qualche parte: il mare colore del vino" disse l'ingegnere.
"Qualche poeta l'avrà magari scritto, ma io un mare colore del vino non l'ho mai visto" disse il professore, e a Nenè spiegò "Vedi: qui sotto, vicino agli scogli, il mare è verde, più lontano è azzurro, azzurro cupo "
"A me sembra vino" disse il bambino, con sicurezza.
"E daltonico" sentenziò il professore.
"Ma che daltonico?" si rivoltò la signora. "E testardo."
Si provò anche lei a convincerlo del verde e dell'az-zurro del mare.
"E vino" disse Nenè.
"Vedi che è testardo?" disse la madre. "Ora addirittura afferma che è vlno. '
"Un momento" disse il professore. Tirò giù dalla reti-cella la sua cravatta, verde a strisce nere, e mostrandola domandò al bambino "Che colori ha questa cravatta?"
"Di vino" rispose implacabile Nenè: e sorrideva di malizia.
Il professore buttò la cravatta per aria
"E meglio lasciar perdere: è testardo" disse la signora.
"Forse è anche daltonico" insistette, ma ormai senza convinzione, il marito.
'Il mare colore del vino: ma dove l'ho sentito?' si chiedeva l'ingegnere. 'Il mare non è colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest'ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l'effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza.' 'I dialoghi di Platone dovrebbe reci-tarli Eduardo De Filippo: in napoletano.' 'Ma qui siamo in Sicilia, forse non è la stessa cosa.'
Il treno correva lungo il più splendido mare che avesse mai visto: a momenti pareva assumere l'inclinazione dell'aereo quando decolla, il paesaggio rovesciato da un lato, a filo del volo.
"E o non è bello?" domandò il professore, che usava sempre porre alternative estreme: e indicava la costa e il mare di Aci come un quadro che avesse appena fimto.
"Bellissimo" assentirono tutti: tranne Nenè, intento com'era a cavare dai sedili gli spilloni che assicurano le strisce bianche che fanno da testiera.
"Nisima è sul mare?" domandò l'ingegnere.
"Eh no!" disse con malinconia il professore. "Sicilia interna, Sicilia arida... Ma, intendiamoci, ha una sua bellezza non come questa, che toglie il respiro; una bellezza che ti prende lentamente, o più quando se ne è lontani, nel ricordo... Qui ci vuol poco a dire che è bello, anche un cretino se ne abbaglia subito; ma a Nisima ci vuole tempo, ci vuole intelligenza... E un'altra cosa, insomma."
"C'è mafia?" domandò l'ingegnere.
"Mafia?" fece il professore, stupito come se gli avessero chiesto se al suo paese si mangiasse polenta e si be-vesse grappa. "Che mafia? Fesserie!"
"E queste cose?" domandò l'ingegnere mostrando sul giornale del giorno avanti un titolo a quattro colonne che diceva La mafa non vtwle le dighe.
"Fesserie" di nuovo tagliò il professore.
L'ingegnere pensò 'Un uomo istruito, gentile, buon padre di famiglia: e non vuol parlare della mafia, si meraviglia anzi che se ne parli, come se parlandone si desse importanza a cosa di piccolo conto; ragazzate, fesserie. Co-mincio a capire la mafia, è davvero un dramma.'
Erano alla stazione di Catania. "Catania" annunciò il professore. "Per questo treno, una tomba: non Sl muove
"Scendo: ho bisogno di fare quattro passi" disse Nenè.
"Ora spostano la vettura ad altro binario, scendere non conviene" disse il padre.
"Voglio una granita: granita e biscotti" disse Nenè.
c io: granita e briosce disse Lulù. nieri corpulento, enorme, di una grinta resa più feroce dal
g ita, biscotti e briosce. caldo, dal sudore che gli colava, si stagliò alla porta dello
E che granita è?" fece Nenè, disgustato: ma dopo aver scompartimento. Nenè, al disopra del giornale, guatava
scolato, in parte sul vestito, l'ultimo sorso squagliato.La ; Il maresciallo domandò se era la vettura glusta per Agri-granita è quella di don Pasqualino: appena arrivo a Ni- gento, ringraziò, passò oltre. Nenè abbassò il giornale,
p erò un pozzetto pieno. venne fuori come da un sipario al dileggio di Lulù, alle ri-
"E meglio di quella di don Pasqualino" disse Lulù: per sate di tutti. Pianse di mortificazione, di rabbia; morse
se za convinzione Lulù, si morse le mani, scalciò; poi lentamente, singul-
"Non capisci niente: questa è fatta di acqua, limonina tando, cadde nel sonno.
e zucchero; don Pasqualino la fa invece col limone, e ci La conversazione si accese sull'educazione dei bambini,
mette anche il bianco d'uovospiegò Nenè con compe- e di un bambino come Nenè in particolare. Padre e madre
sostenevano che Nenè era un maleducato, e se ne face-Sa tutto ' disse la madre. "E curioso di ogni cosa: sem- vano colpa, e ne facevano colpa alla società meridionale:
P che nel continente i bambini crescevano più a modo, più ioso: curiosa è zia Teresina. educati. La ragazza e l'ingegnere sostenevano invece che
"Ecco che la stai sparlandotrionfò il padre. Nenè aveva sì un linguaggio non edificante e delle reaLo dici sempre tu: 'è curiosa, la vecchia strega'." zioni violente: ma la sua intelligenza era indubbiamente
Il professore, battuto, minacciò un formidabile manro- pronta e vivace, i suoi sentimenti generosi. La signora e il
vescio. Per niente impressionato Nenè spiegò ai due professore resistettero nel loro punto di vista, ma come
estranei "Zia Teresina è ricca, ci lascerà le sue terre ma io per civetteria e infine la piena del loro affetto dilagò sul
delle sue terre me ne.." sonno di Nenè.
Gli arrivò, dalla madre, uno schiaffo. Mentre il treno attraversava un paesaggio fulminato di
"Le terre zia Teresina le lascerà a me" disse Lulù. sole, desertò intorno al sonno del bambino erano come
ola gridò il professore personaggi ia presepe coi loro buoni sentimenti, con la
"~ia Teresina con la parrucca, zia Teresina con l'occhio loro fede nella vita, e che tutto dovesse durare, amicizia
ë ò Nenè ed amore, al di là dell'incontro fortuito, del viaggio. L'ing g se la madre gegnere pensava di aver finalmente toccato il giusto della
"~ia Teresina non ti darà più le ciambelle" disse Lulù. vita e di dovere, con tutte le buone regole della famiglia
"Le ciambelle con la muffa: mi viene il vomito a pen- meridionale prolungare per la vita l'incontro con quella
sarci" e COSì perfettamente simulò il vomito da buscarsi ragazza serena ed attenta, di poche parole, di intensi sentimenti, e che bisognava dire qualcosa di definitivo prima Per consolarlo, la ragazza lo invitò a fare una passeggiata
. di separarsi, magari accompagnarla al paese, parlare coi
giata nel corridoio. Nenè accettò dicendo "E meglio che i genitori. Ma quando il professore cominciò a tirar giù I
q on Sl ragiona balJa~li, che stavano per arrivare a Canicattì, si disse 'Non Ma un momento dopo rientrò solo, di corsa, come se sei più un ragazzo' e che c'è un tempo per ogni cosa e che
inseguito voltandosi indietro: sedette al suo posto e si la sua prima giornata di libertà l'avrebbe dedicata ad un
mise un giornale davanti, spiegato; pareva leggesse, solo . breve viaggio a Nisima.
che 1l giornale era a rovescio. Un maresciallo dei carabi- A lungo si salutarono, ancora prima di scendere dal
treno; e poi di nuovo sul marciapiedi della stazione dove l'automotrice per Campobello-Licata-Gela era in attesa.
Erano tutti commossi; tranne Lulù, che faceva di tutto per distrarre la ragazza dai saluti. Nenè invitò l'ingegnere ad andare con loro, a Nisima; gli promise la granita di don Pasqualino e una serata al circolo. L'ingegnere, guardando la ragazza, promise a Nenè che presto sarebbe venuto a fargli visita. Il bambino volle abbracciarlo. Il professore gli diede il biglietto da visita.
Dall'automotrice, dove prese posto accanto al fine-strino, l'ingegnere li guardo: un grappolo di valige e di borse che si muoveva verso l'uscita. Prima di sparire la ragazza si voltò a guardarlo.
'Andrò a Nisima domenica' decise l'ingegnere.
Ma mentre l'automotrice partiva i suoi sentimenti, la sua malinconia e il suo amore, di colpo si rappresero nel sonno. Sulla visione baluginante di colui che gli aveva consigliato quel treno, quella vettura, una faccia soddisfatta, sadica, il suo ultimo pensiero si spense. 'Accidenti che viaggio.'