sabato 21 agosto 2021

IL POMERIGGIO DI UN FAUNO James Lasdun


IL POMERIGGIO DI UN FAUNO
James Lasdun 

 Il libro

Marco Rosedale, giornalista televisivo inglese trapiantato a New York, dopo una giovinezza rapace ha avuto un buon successo, ancorché non vistoso, e gode di una meritata, solida reputazione.

Che rischia di essere spazzata via dal lancio imminente del memoir di Julia Gault, ex collega già brillante ma in declino, di cui trapela in anticipo parte del contenuto: un’accusa di stupro che viene dal passato remoto. Marco si confida con il narratore, inglese in America come lui, che si trova combattuto tra gli obblighi di un legame di vecchia data e il desiderio di ricostruire che cosa è successo quarant’anni prima in una camera d’albergo a Belfast, ammesso che sia possibile. Un desiderio che lo fa precipitare nell’orbita della donna al centro del caso, in un terreno ambiguo dove il confine tra difesa e complicità muta e sfuma di continuo. "Il pomeriggio di un fauno" è un breve romanzo tagliente che esplora il significato di verità in un’epoca in cui questo concetto appare più che mai manipolabile e l’esercizio più praticato è la riduzione della realtà ai propri interessi.

Sullo sfondo dell’ascesa al potere di un tronfio, misogino colosso d’oro e d’avorio, una meditazione amara e sottile su ciò che siamo disposti a credere, o pronti a non credere, delle storie che sono le vite degli altri.

L’autore

James Lasdun

Poeta, romanziere e sceneggiatore, ha insegnato poesia e scrittura creativa a Princeton e alla Columbia University. La sua prima raccolta di racconti, The Silver Age (1985), salutata dalla critica come “il più promettente libro di racconti pubblicato in Inghilterra dai tempi di Primi amori, ultimi riti di Ian McEwan”, ha vinto il Dylan Thomas Award. Acclamato come uno dei più dotati e vividi poeti di lingua inglese, Lasdun ha ottenuto la Guggenheim Fellowship for Poetry ed è stato vincitore della Times Literary Supplement Poetry Competition di Londra.

Il suo primo romanzo, The Horned Man (2002), è stato New York Times Notable Book of the Year. Lasdun è stato premiato al Sundance Festival per la sceneggiatura di Sunday. Bompiani ha pubblicato L’assedio (2014), che ha ispirato l’omonimo film di Bernardo Bertolucci, Dammi tutto quello che hai (2014) e Frattura (2017).


L’America, noi, oggi, nel racconto di James Lasdun

di Sandro Veronesi 

James Lasdun in Italia è conosciuto soprattutto per avere scritto "L’assedio", il racconto dal quale Bernardo Bertolucci ha tratto il suo film del 1998. Parla di un amore puro e senza limiti che un pianista inglese prova per una ragazza africana che lavora a casa sua. E, forse — ma se n’è parlato di meno — è ricordato anche per un memoir del 2013 dal titolo "Dammi tutto quello che hai",  nel quale, agli antipodi de "L’assedio", l’amore non comincia nemmeno, e un’iniziale scintilla di desiderio fa nascere un’impressionante progressione di odio. E poiché si tratta di un memoir, il bersaglio di tutto questo odio è James Lasdun stesso, il quale racconta in prima persona la persecuzione di cui è stato vittima per anni a opera di una sua ex allieva che ha cercato in tutti i modi di distruggere la sua vita. Questo per dire come, nel tempo, Lasdun abbia veramente coperto tutta l’escursione consentita quando si affronta il tema dell’altro: dal dare senza condizioni al tormentare senza scrupoli; e certamente, leggendo questo suo ultimo romanzo, "Il pomeriggio di un fauno"  (tradotto da Vincenzo Mantovani per Bompiani), viene da pensare che sia stata per lui più utile la persecuzione subita delle sue esperienze nel campo dell’amore puro.

Diciamolo subito: siamo nel cuore del problema — per problema intendendo il tema oggi così baricentrico della ricaduta sul presente di remoti comportamenti sessuali la cui natura ormai risulta impossibile da stabilire con certezza. Di sicuro di amore, nei dintorni di quei comportamenti, non ce n’è: c’è il sesso, questo sì, ma all’improvviso, dopo venti, venticinque, trent’anni, si rende necessario di stabilire se quel sesso sia stato realmente consensuale o non si sia trattato piuttosto del frutto di una coercizione. Non c’è un tema più attuale di questo: almeno giudicando dall’attenzione che vi viene riservata e dalle conseguenze che produce quasi ogni giorno, pare di gran lunga più attuale questo (delle violenze sessuali perpetrate o subite nel passato, intendo) del tema della violenza sessuale tout court. In certi ambienti — cinema, editoria, giornalismo —, sembra addirittura diventato il tema più importante di tutti, soprattutto in America — anche più del Vietnam, ormai, anche più dell’Olocausto. E l’elemento che lo rende così appassionante, ne siamo tutti consapevoli, rappresenta un’ulteriore violenza ai danni di chi la violenza l’ha subita davvero, ma dinanzi a un simile differimento temporale non può non esserci: è l’incertezza.

Lasdun dunque va dritto al cuore del problema e mette in scena fin dalla prima pagina questo meccanismo appassionante: il narratore, un inglese di mezza età trapiantato in America, insegnante di letteratura e occasionalmente scrittore, viene messo a parte da un suo connazionale amico di lunga data diventato una celebrità del giornalismo d’inchiesta di una rogna enorme che lo ha investito: una sua ex assistente sta cercando di pubblicare un libro autobiografico nel quale racconta di essere stata violentata da lui più di trent’anni prima. Il narratore, che conosce anche la donna, inglese pure lei, e che da essa era addirittura stato attratto in gioventù, quando lei frequentava il salotto di sua madre, non si chiama fuori da questa storia come sarebbe stato saggio fare ma, al contrario, si concede alle confidenze dell’amico, gli dà i consigli che gli vengono chiesti, e questo mette automaticamente in moto la sua coscienza, poiché siamo entrati nel campo di gioco più delicato di tutti, dove le controversie, una volta che diventano pubbliche, portano disgrazia e afflizione certa un po’ a tutti, e nessuna verità. Anzi, una verità c’è, una sola, certa e incontrovertibile, e Lasdun la riporta subito, a pagina 28, in una battuta del narratore durante una delle prime conversazioni con l’amico: «Non ci sono le basi per un giudizio oggettivo, il che significa che l’onere di credere pesa per intero su chi ci crede». L’onere di credere. The onus of belief. Potrebbe essere il titolo del romanzo. Potrebbe essere il titolo di ogni articolo, commento, inchiesta, approfondimento e processo su questo tema, dal MeToo alla cancel culture, dal caso Woody Allen al caso Blake Bailey — casi che esplodendo in pubblico, oggi, dopo tanti anni, hanno prodotto danni enormi alle persone e perfino alle opere che si trovano nei dintorni anche più periferici dell’esplosione. L’equidistanza, principio giuridico basilare negli ordinamenti moderni, non esiste più: qualsiasi cosa si finisca per credere, al termine di qualsiasi percorso, per quanto rigoroso, ci rende complici della violenza o della calunnia.

Basta. Abbiamo detto qual è il campo di gioco. Abbiamo detto dei due contendenti, e abbiamo detto del narratore che si prende il ruolo di arbitro. Lo sviluppo del romanzo è bene lasciarlo tutto alla scoperta del lettore, anche perché Lasdun è un maestro di short stories, oltre che un poeta, e la sua scrittura avanza con una precisione e una trazione veramente esemplari, senza digressioni ma anche senza tralasciare i dettagli, senza manipolazioni e senza reticenze: solo questo «onere di credere» rimandato di pagina in pagina dall’inchiesta privata compiuta dal narratore, che inevitabilmente, dati i legami che intercorrono tra lui e i protagonisti della vicenda, corrode da entrambe le parti la sua terzietà, risucchiandolo nel danno. Osserviamo invece che il ricorso a questa convenzione narrativa, quella dell’amico che racconta, appartiene alla grande tradizione inglese, e ha nello Strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde il proprio punto di massima espressione: un fatto così enorme che per raccontarlo occorre allontanarsi dai suoi protagonisti — quel tanto da poter resistere alla sua onda d’urto ma non abbastanza da non rimanerne profondamente turbati. Ed è proprio Stevenson, in un saggio intitolato A gossip on romance, a tracciare la strada che Lasdun sembra seguire dalla prima all’ultima pagina: «La cosa giusta dovrebbe andare a finire nel luogo giusto; dovrebbe poi seguire un’altra cosa giusta; e […] tutte le circostanze di un racconto dovrebbero rispondersi a vicenda come le note nella musica. I vari fili di una narrazione ogni tanto si uniscono e nell’ordito creano un’immagine; i personaggi incorrono ogni tanto in certi atteggiamenti — tra di loro o rispetto alla natura — che contrassegnano il racconto come un’illustrazione. Crusoe che indietreggia di fronte a un’orma, Achille che grida contro i Troiani, Ulisse che piega il grande arco, sono i momenti culminanti della leggenda, che ognuno si è impresso per sempre nella mente. Altre cose possiamo dimenticarle; possiamo dimenticare le parole, per quanto bellissime; possiamo dimenticare il commento dell’autore, anche se era forse ingegnoso e veritiero; ma queste scene che fanno epoca, imponendo a un racconto il marchio definitivo della verità e colmando, in un colpo solo, la nostra capacità di godimento, le adottiamo nel fondo della nostra mente in modo che né il tempo né gli avvenimenti possono cancellarne o diminuirne l’impressione. Questa è dunque la parte plastica della letteratura: incarnare un personaggio, un pensiero o un’emozione in un atto o in un atteggiamento che colpisca profondamente l’occhio della mente». Lasdun procede esattamente in questo modo, solo che stavolta la parte plastica della letteratura si fa addirittura liquida, gassosa, perché l’immagine indimenticabile, questa scena che «fa epoca», non c’è. C’è, al suo posto un’assenza irrimediabile di verità, un buco nero, la qual cosa rende questo romanzo perturbante e difficile da assimilare quanto il capolavoro di Stevenson grazie alla famosa trasformazione.

Resta da accennare al contesto, quell’ambiente del giornalismo e dell’editoria newyorchese così eccitabile da questi temi, liberal e politicamente corretto, che fluttua sullo sfondo della vicenda. Il romanzo finisce a ridosso delle elezioni presidenziali del 2016, l’ultima scena è ambientata durante un party che ha luogo in occasione del primo confronto televisivo tra Trump e Hillary Clinton. Lo spettacolo al quale si assiste è disgustoso agli occhi dei sinceri Democratici radunati davanti alla tv, poiché comprende una quasi aggressione fisica di Trump ai danni della rivale, e tuttavia — con un colpo di genio finale — Lasdun non li fa precipitare nello sconforto e nella paura che quello spettacolo avrebbe dovuto produrre in loro, bensì, al contrario, li ritrae nel fondo della loro patrizia ottusità, della loro incapacità di sporcarsi lo sguardo fino a vedere quello che sta realmente succedendo nel Paese. Dopo un confronto del genere, questo è l’assunto, Donald Trump non avrebbe più potuto vincere le elezioni, e «l’incubo di una sua possibile presidenza scivolava misericordiosamente nel regno dei proiettili schivati, dei disastri evitati». Malgrado la fine sconvolgente della vicenda legata alle accuse rivolte al suo amico, della quale è appena venuto a conoscenza, il narratore si lascia contagiare dal pensiero rassicurante suggerito a tutti da quanto è appena andato in onda, secondo cui «l’arco della storia vera avrebbe continuato a descrivere, nel suo modo imperfetto, una curva verso la giustizia». Cioè, in un contesto nel quale si andava avanti alla cieca, schiacciati dall’«onere di credere», il credo comune diceva che Hillary Clinton avrebbe vinto le elezioni, e questa — sono le ultime tre parole del romanzo — «era una consolazione».

IL POMERIGGIO DI UN FAUNO

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“Quello che sembra abbia fatto, e ammetto di essere stupita come tutti, è trasformare queste elezioni in un referendum sul quesito se sia giusto considerare le donne come oggetti e, a dirla tutta, molestarle sessualmente. Non posso far a meno di notare con quale spaventosa lucidità illustra un fenomeno descritto da molte donne che sono state molestate, vale a dire la doppia natura dell’aggressione. Prima viene l’aggressione fisica, e poi quella che chiamerei l’aggressione epistemologica, con la qual cosa intendo la spudorata negazione che abbia avuto luogo qualcosa di anomalo. Non basta violare l’autonomia fisica della donna. Si deve possedere e soggiogare anche la sua versione dei fatti. In molti casi è quest’aggressione secondaria, l’impossessarsi della realtà di una donna, per così dire, che alla lunga si rivela la più traumatica…”

L’oratrice, una donna in un tailleur di tweed mauve, stava tenendo la conferenza dell’ora di pranzo alla Irving Foundation, dove mi aveva portato l’amico Marco Rosedale. Il tema era lo stupro, precisamente la relazione tra stupro e memoria. Lei era stata stuprata trent’anni prima (ce lo disse in un tono di studiata neutralità che sembrava inteso a risparmiarci la fatica di sentirci costretti a reagire), e di recente aveva curato una mostra itinerante che consisteva di varie installazioni in cui si ricostruivano le circostanze della sua aggressione e di quelle di altre donne in tutti i dettagli che la memoria era in grado di fornire, e con tutte le distorsioni di scala che la memoria prestava a quei dettagli.

La cosa che colpiva in quasi tutte queste installazioni, a giudicare dalle diapositive, era la loro apparente innocuità. Niente paurose prigioni sotterranee o bozzettistici vicoli fuori mano, niente furgoni con i finestrini oscurati; solo comuni spazi domestici. C’era la camera di un dormitorio studentesco con posaceneri e bicchieri di plastica; una pool house con minuscoli personaggi che nuotavano nella piscina all’aperto; la stanza della posta di un ufficio con una cascata ghiacciata di grosse buste che uscivano da una cassetta. C’era una camera da letto dall’aria confortevole con una camicia e un abito da uomo ben piegati su una sedia. L’uomo era a letto e dormiva, mentre la donna era distesa accanto a lui con gli occhi aperti e fissava una crepa nel soffitto. Avevano fedi uguali all’anulare.

L’oratrice accennò a una tendenza riferita da alcuni terapeuti in un recente articolo di giornale. “È puramente aneddotico,” ci disse, sorridendo amabile, “ma m’interessa molto.” A quanto pareva, un grande numero di pazienti aveva cominciato a parlare con i terapeuti di vecchi episodi di molestie che avevano dimenticato o considerato troppo insignificanti perché valesse la pena di parlarne.

“È una specie di spontaneo impulso collettivo…”

Marco alzò lo sguardo dal piatto, incontrando il mio. Di recente aveva cominciato a interessarsi di questi argomenti – molestie, memoria, le ripercussioni pubbliche di condotte private – da quando era stato coinvolto in un dramma personale in cui questi temi figuravano in modo cospicuo. Il dramma si era concluso prima di fare gravi danni, ma lui era ancora scosso da quell’esperienza, e avido di spiegazioni di ogni genere.

Sapevo cosa significava quello sguardo, più o meno. Un argomento che lo aveva particolarmente interessato era l’imitazione, ed era prevedibile che avrebbe colto al volo l’aneddoto dell’oratrice come prova delle proprie teorie a proposito della propria accusatrice. “Perché se n’è uscita con quella storia solo adesso?” aveva cominciato a chiedersi nelle ultime settimane. “Perché non trent’anni fa? Perché non quaranta, cristo santo, quando è successo, o meglio quando non è successo? È stato solo perché all’improvviso facevano così tutte le altre? È stato solo il fatto di cedere all’effetto incoraggiante di un meme culturale? Pensavo che Julia, proprio lei, avrebbe fatto di tutto per evitare di mostrarsi priva di originalità…”

Borbottai qualcosa che non era né un sì né un no. Non ero tenuto a rispondergli ma solo ad ascoltarlo, e a non irritarlo con commenti dai quali emergesse che forse non si rendeva conto di tutta la gravità dei torti fatti dagli uomini alle donne nel corso dei secoli, perché Marco se ne rendeva conto benissimo; era solo che non si era mai considerato uno di quegli uomini, e anche ora, dopo che in apparenza aveva superato felicemente il suo cimento, reagiva con stizza alla minaccia di essere paragonato a loro quando non aveva fatto nulla per meritarselo.

In ogni modo, l’aneddoto dell’oratrice sulle donne che all’improvviso si mettevano a parlare en masse di molestie con i loro terapeuti giocava chiaramente a favore dei suoi sospetti sul tempismo di Julia, anche se non era questo il punto sul quale l’oratrice cercava di porre l’accento. Lei stava presentando la sua relazione come il segnale di un nuovo forte risveglio femminile (e sono certo che Marco lo capiva quanto me): uno squarcio di sereno nella nube che incombeva sul paese nella forma di un molestatore seriale di donne che aveva ottenuto la nomina repubblicana alle prossime elezioni presidenziali.

A Londra Marco era cresciuto nello stesso mondo in cui ero cresciuto io. Suo padre faceva l’avvocato e la famiglia apparteneva alla stessa cerchia di professionisti e artisti della mia; borghesi anticonformisti di sinistra con grandi case a Islington, Holland Park o Notting Hill Gate. Aveva qualche anno più di me, il che significava che non eravamo amici d’infanzia, ma io ero sempre stato consapevole della sua esistenza: era uno di quei ragazzi dotati di un magico carisma composto di bellezza e amabilità che li segnalava nella coscienza della loro generazione come persone da tener d’occhio. Aveva un viso notevole, grifagno ma epicureo, con le sopracciglia che si univano ad angolo come l’impennaggio di una freccia, conferendo ai suoi occhi il mira fuerte – lo “sguardo magnetico” – dei divi del cinema macho di quell’era lontana, e rughe profonde ai lati di un naso un po’ accorciato, che descrivevano una curva a forma di campana intorno a una bocca ferma ma sensuale. La madre aveva fatto la modella a Milano prima di sposarsi, e la bellezza di Marco veniva soprattutto da lei. Dal padre veniva il colorito rubicondo delle gote, che aggiungeva all’effetto complessivo un’aria seducente di vigore accentuato dal vento. Per un anno o due ci incrociammo nella stessa scuola londinese, dopodiché lui andò a Cambridge ed emerse qualche anno più tardi alla televisione britannica come giovane talento precocemente sicuro di sé. Le prime cose per cui si fece conoscere furono dei servizi di attualità piuttosto lunghi, di solito su battaglie politiche e quasi sempre pervasi da un’atmosfera di pericolo che, intenzionalmente o meno, lo avvolgevano in una luce di fascinosa intrepidezza.

Il primo colpo grosso arrivò quando l’ambasciatore britannico in Uruguay fu sequestrato dai guerriglieri Tupamaros. I genitori di Marco avevano un cottage per i finesettimana nel Sussex vicino alla fattoria dell’ambasciatore, e Marco riuscì a strappare una delle primissime interviste ai famigliari, con gli occhi sbarrati in preda allo choc davanti ai loro essiccatoi per il luppolo poche ore dopo che la notizia del sequestro era arrivata in Inghilterra. Dopodiché fu incaricato di fare un programma sui guerriglieri. I filmati di Héctor Pérez che distribuiva viveri rubati nei bassifondi di Montevideo, insieme a un lungo primo piano del “carcere del popolo” dove proprio in quel momento era forse rinchiuso l’ambasciatore, provocarono spasmi di scandalizzata indignazione nella stampa di destra, assicurando a Marco il successo con la sinistra e fornendo la formula per futuri trionfi.

Dai Tupamaros passò agli insorti e ai paramilitari di mezzo mondo, ai quali si aggregava per lunghi periodi. Nel 1975 era in Irlanda del Nord, a filmare un programma che turbò persino alcuni dei suoi ammiratori, quando si suppose che fossero avvenute le azioni di cui fu accusato alcuni decenni dopo.

Il filmato in questione, una giovane cattolica impeciata e coperta di penne, non aveva alcun collegamento diretto con la scena che ebbe luogo, o non ebbe luogo, in privato nella camera d’albergo di Marco qualche ora dopo il servizio, ma tra le due cose esiste una certa affinità (o almeno esiste nella mia mente), e mi sorpresi a pensare a tutt’e due mentre ascoltavo la donna in tailleur che sul podio parlava di stupro e di memoria, imitazione e ripetizione, mentre Marco annuiva, la fronte aggrottata, giocherellando con gli ossi di pollo sparsi nel piatto, inclinando il viso di qua e di là nel suo solito modo imprudente; sembrava che ogni parola desse il via a qualche riflesso di calorosa approvazione o d’impaziente fastidio.

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Il suo “cimento” (come aveva preso a chiamarlo) iniziò – pensate un po’ – con un messaggio privato su Twitter. Non aveva mai usato Twitter per comunicazioni private. Se è per questo, non aveva mai twittato. L’unica ragione per cui aveva un account di Twitter era leggere i tweet che lo riguardavano (e me lo disse con un sorriso di vago imbarazzo).

“@Marcorosedale,” diceva il messaggio, “ho un bisogno disperato di parlarti. Puoi metterti in contatto con me al più presto?”

Il mittente, un certo Mel Sauer, accludeva il proprio indirizzo e-mail; il server era un giornale nazionale britannico. Lo chiamerò Messenger.

Marco si sentì un po’ depresso al pensiero di essere finito così ai margini che un giornale importante come il Messenger non riuscisse a trovare il suo numero di telefono. Ma il messaggio in sé gli sembrò di buon augurio. Forse aveva qualcosa a che fare col suo progetto del momento, un pilota per una serie che combinava viaggi e cronaca nera, provvisoriamente intitolata Un delitto e un luogo. L’idea – per sua stessa ammissione più fumistica di qualunque altra cosa avesse mai tentato – era di seguire alcuni processi nei tribunali di contea degli Stati Uniti e guardare i delitti attraverso la lente dei problemi culturali locali. “Per il titolo sto pensando a Delitti artigianali,” aveva scherzato, “oppure Marco Rosedale si svende per un ultimo ingaggio…” Con sua grande sorpresa, la prima reazione al premontato di un processo per violenza domestica nel Maine era stata positiva, e lui era già in trattative con stazioni via cavo e finanziatori indipendenti. Possibile, si chiedeva, che il Messenger avesse avuto sentore del progetto e volesse pubblicare una sviolinata? Marco non amava pensare di essere ancora interessato a queste cose, ma ammise di aver provato una leggera eccitazione. Era da molti anni che la stampa non lo degnava di grande attenzione.

Si costrinse ad aspettare un paio di giorni e poi inviò un laconico messaggio col suo numero di Brooklyn.

Il telefono squillò quasi immediatamente.

“Marco? Sono Mel Sauer. Grazie per avermi richiamato. Stiamo per pubblicare un estratto da un memoir di una delle tue vecchie amichette, e volevo scambiare due parole con te sul contenuto. Misurarti la temperatura, per così dire.”

Alla faccia della sviolinata. Il tono dell’uomo – loquace, presuntuoso, un po’ agitato – lo mise in guardia.

“Quale amichetta?”

“Julia Gault.”

Il nome lo sorprese: la loro relazione era stata breve, e Marco non l’aveva mai davvero considerata un’“amichetta”.

“Julia sta pubblicando un memoir?”

“L’ha scritto. Non so se ha un editore, a questo punto, ma noi vogliamo pubblicare l’estratto, comunque. Parla di te, ed è per questo che ti ho contattato.”

“Cosa dice?”

“Be’, è molto schietto, e alquanto… intimo.”

Marco, che aveva già frugato nel proprio lungo passato in cerca di un episodio della sua vita privata che potesse interessare a un giornale inglese, facendo un buco nell’acqua, disse precipitosamente l’unica cosa che gli venne in mente:

“Stai per informarmi che ho un figlio illegittimo segreto: è così? Grande e grosso, dato il tempo che è passato dalla nostra avventuretta…”

Sauer sbottò in una risatina.

“No, niente di simile. Vuoi che ti spedisca per e-mail il brano che ti riguarda, Marco, così lo leggi e poi ne riparliamo?”

“Okay.”

“Può darsi che tu abbia da contestare qualche dettaglio, nel qual caso prenderemmo sicuramente in considerazione la possibilità di pubblicare in tandem qualcosa di tuo. In effetti ci piacerebbe molto.”

“Mandalo,” disse Marco.

L’e-mail arrivò pochi minuti dopo: “Ecco qua. Come dicevo, a questo punto è solo per misurarti la temperatura! Fammi sapere che ne pensi. Sempre amici, Mel.”

Allegato c’era il brano dal memoir di Julia Gault.

Devo dire che il nome Julia Gault mi era familiare, e che lo era quasi da sempre, anche se erano passati anni dall’ultima volta che l’avevo sentito pronunciare. C’era stato addirittura un momento in cui avevo pensato di poter scrivere un lungo romanzo, anzi, una serie di romanzi su quel nostro remoto mondo inglese in cui la ricorrente comparsa di Julia alla periferia della mia vita mentre lei passava attraverso le molte fasi della sua doveva rappresentare un tema significativo. Non posso dire di averla conosciuta in un modo che in effetti mi qualificasse a scrivere di lei. Ero un timido adolescente nel periodo in cui era una presenza regolare in casa nostra, e non credo di avere mai parlato a tu per tu con lei. Però mi fece una grande impressione, e da adulto, qualificato o meno, passai molte ore nel corso di molti anni a prendere appunti e buttare giù abbozzi per quello che, nella grandiosa ambizione che mi consumava, avrebbe dovuto essere un suo ritratto alla maniera monumentale dell’Odette di Proust o della Pamela Flitton di Anthony Powell.

Non mi ero accorto che lei e Marco avessero avuto una storia, anche se apprenderlo non mi stupì. Anche lei era stata per breve tempo una star dei media, la presentatrice di notizie di attualità in uno show televisivo popolare ma serio (una volta questa combinazione esisteva), anche se da ciò che sapevo il suo declino era stato più rapido e rovinoso di quello di Marco. L’ultima volta che avevo sentito parlare di lei, Julia era alle prese con problemi finanziari derivanti da un brutto divorzio e da un periodo di lavoro come custode in casa di amici che era finito male quando si era rifiutata di andarsene.

Il brano del suo memoir che Sauer gli aveva spedito iniziava come una reminiscenza dei costumi sessuali degli anni settanta in generale e del comportamento degli uomini a quei tempi in particolare. Marco lo lesse ad alta voce dal cellulare a me e mia moglie quella primavera, quando venne a trovarci per parlare della situazione. Il succo era che gli uomini allora erano più apertamente sessisti; più sfacciatamente condiscendenti, imperiosi, sicuri dei propri privilegi, aggressivi e vanagloriosamente lussuriosi di oggi, e che le giovani donne come lei erano state indotte con l’inganno a pensare che la riluttanza a stare al gioco fosse la prova di uno spirito puritano. Marco veniva presentato come un tipico esemplare del periodo, che si pavoneggiava in giro per il globo in giacca di pelle e jeans, con un sorriso stampato sulla bella faccia che nascondeva un intento libidinoso e un arsenale di falliche macchine fotografiche a tracolla.

Nonostante la nota di ridicolo, era, a prima vista, un ritratto affettuoso, e pensai che Marco, quando me ne diede una prima lettura, l’avesse trovato abbastanza innocuo. Non capiva perché il Messenger lo considerasse meritevole di pubblicazione, ma la sua reazione fu che se Julia poteva cavarne un po’ di soldi, ebbene, buon per lei. Era vagamente informato che versava in ristrettezze, comprensivo e ben disposto. L’accenno alla giacca di pelle da macho non gli dava fastidio; anzi, mi disse che gli aveva fatto provare un pizzico di nostalgia per l’impertinente giovanotto che era stato una volta.

Stava per rispondere a Sauer che non aveva obiezioni, quando un vago sospetto lo indusse a rileggere il brano. Solo a questa seconda lettura colse appieno la parte potenzialmente dannosa. Era compressa in uno spazio relativamente piccolo; solo qualche frase a due terzi dell’estratto, che era facile lasciarsi sfuggire, o perlomeno fraintendere. Con quelle frasi Julia descriveva un evento successo mentre lavorava come assistente alle ricerche per il suo documentario su Belfast. Avevano bevuto al bar del loro albergo dopo una difficile giornata di riprese. A un certo punto lui l’aveva baciata, e dopo un po’ erano saliti nella camera di lei. Allora lei aveva una relazione seria con un altro: un compagno di università che pensava di sposare. Di sopra con Marco ebbe un soprassalto di fedeltà e gli disse, scusandosi molto, che dopotutto non voleva andare a letto con lui. “Ma lui ci badò?” continuava il testo nel suo stile curiosamente spigliato e scherzoso. “Neanche per sogno! In men che non si dica, tutti i miei bottoni, le fibbie eccetera furono slacciati da quelle che mi parvero cento paia di mani, non soltanto straordinariamente agili e allenate ma anche straordinariamente forti, e mi trovai stesa nuda sul letto sotto di lui. Se la memoria non m’inganna, finì tutto molto in fretta.” Da lì il pezzo faceva ritorno al suo tono affettuosamente canzonatorio, descrivendo con fare scherzoso la lunga fila di appuntiti stivaletti di cuoio allineati in un angolo della camera d’albergo di Marco, con il suo lavabo sporco in un angolo e la luce del soffitto punteggiata di mosche, ma anche elogiando i suoi programmi televisivi e dichiarando che “nonostante tutto” Julia era orgogliosa di aver iniziato la propria carriera nei media lavorando con una persona così dinamica e ricca di talento.

L’accusa che gli era sfuggita alla prima lettura stavolta andò a segno. Julia stava dicendo che Marco l’aveva stuprata. Nonostante il tono allegro, nonostante i decenni passati dalla notte in questione, era una dichiarazione che poteva danneggiarlo seriamente. Era una di quelle cose che, una volta dette di te in pubblico, ti rendono nella migliore delle ipotesi sospetto per sempre.

Rispose a Sauer dicendogli che considerava il pezzo malevolo e diffamatorio, e che lo stupiva che il Messenger potesse anche solo prendere in considerazione l’idea di pubblicarlo. Sauer rispose cercando soavemente di placarlo, gli assicurò che non c’era ancora nulla di scolpito nella pietra, gli ripeté che per il momento l’unica cosa che gli interessava era, come la metteva lui, “misurarti la temperatura,” ma chiese anche se Marco poteva essere più preciso su cosa ci trovava di “diffamatorio”. Con grande riluttanza (poco versato com’era in queste materie, Marco sentiva che ripetere un’accusa, anche se soltanto per difendersi, era il modo più sicuro di accrescerne il peso e la sostanza), puntò l’attenzione di Sauer verso la scena nella camera d’albergo. Sauer replicò: “Stai insinuando che quella notte non sei andato a letto con lei?”

“No,” lo corresse Marco, “probabilmente sono davvero andato a letto con lei quella notte. Abbiamo avuto una storia, non discuto. Ma certo non è andata come la descrive lei.”

Quel “probabilmente” fu un errore; in ogni modo, offrì a Sauer una piccola fessura dove incunearsi. “Per piacere, correggimi se sbaglio,” rispose, sempre per e-mail, “ma si ha l’impressione che nella tua memoria ci sia qualche dubbio sugli avvenimenti di quella notte. È così?” Al che Marco, spazientito, ribatté: “Certo che c’è qualche dubbio su quella notte! È successo quarant’anni fa! Ma sono sicurissimo che qualunque cosa accadde fu pienamente consensuale.” Cominciava già a sentirsi perseguitato, ed era irritatissimo per essersi lasciato trascinare fino a quel punto. “Capisco, naturalmente,” scrisse Sauer conciliante, “i ricordi possono essere incerti, no? Come dicevo, saremmo prontissimi a pubblicare qualcosa di tuo per presentare il tuo lato della storia. La nostra massima preoccupazione è essere equilibrati. Ti prego di farmi sapere se ti va di scrivere una replica. Forse ti andrebbe di ricordare alla gente che tutti i tipi di comportamento che oggi condanniamo erano considerati perfettamente accettabili a quei tempi. Credo che questo sia un punto di vista che molti dei nostri lettori comprenderebbero.”

Infuriato, Marco scrisse: “Va’ a farti fottere, viscido topo di fogna. Tutto quello che ho da dire è che se pubblichi questa cosa vi farò causa, a te e al tuo merdoso aborto di giornale, fino a ridurti in mutande.”

Poi però cancellò queste parole. Non per niente era figlio di un avvocato; conosceva i pericoli rappresentati dall’invio per e-mail d’insulti e minacce a un giornalista che sembrava già deciso a tagliargli la gola. Scrisse invece: “Grazie, ma la mia posizione è che non ho mai tenuto quei ‘comportamenti’: non ho mai voluto, non ne ho mai avuto bisogno, non ho mai pensato che fossero ‘accettabili’ nemmeno ‘a quei tempi’. Come ho scritto nella mia prima e-mail, l’articolo è diffamatorio. Non ho proprio nient’altro da aggiungere.”

Non ci furono risposte immediate, e dopo un po’ Marco cominciò a sentirsi cautamente fiducioso che la sua presa di posizione fosse stata accettata. Le leggi sulla diffamazione sono più rigide in Inghilterra che negli Stati Uniti, e lui sapeva che il Messenger doveva stare attento. Era possibile che questo Sauer fosse sinceramente convinto che l’articolo non gli avrebbe fatto né caldo né freddo, e che Marco lo avesse spaventato mostrandogli che invece era così. La risposta di Sauer, quando finalmente arrivò, non dissipò del tutto il suo ottimismo. “Grazie, Marco, hai tutta la mia stima. Come ho detto, volevo solo misurarti la temperatura. Domani ne parlerò col mio capo. Buonanotte!”

Marco dormì ragionevolmente bene (se lo ricordava perché fu l’ultima buona notte di sonno per parecchie settimane), ma la mattina dopo trovò nella posta un’altra e-mail di Sauer. “Salve, Marco, noi pensiamo che Julia abbia il diritto di dire la sua versione di questa storia importante e per questo siamo dell’idea di andare avanti, ma allo stesso tempo riteniamo che tu debba avere la possibilità di difenderti. Allego la bozza di un profilo su di te, che elenca i tuoi notevoli traguardi in termini che mi sembrano accettabili, ma ti prego di sentirti libero di rivedere il testo come meglio credi, e siamo sempre più che felici di offrirti lo stesso spazio di Julia per commentare come preferisci nei termini della ragionevolezza. Non vediamo l’ora di sapere che ne pensi.”

Il “profilo” lo descriveva in termini ossequiosi, facendolo sembrare più importante di quello che era in realtà. Marco per un attimo si sentì lusingato, ma ben presto si rese conto che nel contesto dell’estratto del memoir che sarebbe stato pubblicato i complimenti avrebbero raggiunto soltanto lo scopo di renderlo ancora più antipatico ai lettori di quanto la lettura dell’articolo potesse aver già fatto. Quello che davvero lo fece uscire dai gangheri però fu l’incipit: “Marco Rosedale, figlio dell’illustre Sir Alec Rosedale, Avvocato della Corona…”

Avendo passato metà della sua vita negli Stati Uniti, Marco a volte dimenticava che figura considerevole era ancora suo padre nei circoli culturali e politici britannici. A più di novant’anni, il vecchio era ancora qualcosa di simile a un personaggio pubblico, prestava il suo nome a causa progressiste e ogni tanto compariva come ospite negli show televisivi, dove i modi semplici e l’atteggiamento dignitoso, i capelli bianchi e lo sguardo mansueto, la mente vivida com’era sempre stata e le simpatie per i diseredati ancora vive gli facevano fare un figurone. Marco lo adorava, ma preferiva non mescolare la propria reputazione con l’illustre figura paterna, e per lui era sempre un po’ una sorpresa quando a farlo erano altre persone. In quest’occasione, oltre alla sorpresa, lo colpì un improvviso sospetto sul motivo per cui il Messenger era tanto interessato alla pubblicazione della storia di Julia. Infangare un nome molto noto e molto rispettato. Proprio il tipo di sordido esercizio in cui amavano indulgere i giornali inglesi per il piacere dei loro lettori; più rispettato il bersaglio, meglio era.

Non sono certo di aver convenuto sul fatto che questo fosse il loro unico motivo. Julia aveva avuto il suo momento di celebrità (anche se breve e lontano nel tempo), e Marco non era un oggetto totalmente sconosciuto, quindi ciascuno dei due poteva a buon diritto essere scelto come protagonista di uno scandalo. Ma il collegamento con Sir Alec sicuramente aiutava. In un modo o nell’altro, per Marco il pensiero che suo padre potesse essere trascinato in tutto questo era sconvolgente per tutta una serie di ragioni. In confronto a suo padre si era sempre considerato un uomo in qualche modo discutibile, addirittura sospetto; generazionalmente inferiore, si potrebbe dire; condannato da forze storiche se non da inclinazione personale a essere più dissoluto e più losco. Quindi le accuse toccavano un nervo scoperto. E poi era anche molto mortificato; si vergognava alla prospettiva che suo padre lo vedesse inghiottito da questo miasma che sembrava muoversi verso di lui, diffondendosi come un cattivo odore dalle e-mail di Sauer.

Si preparò alla battaglia, deciso a non turbare la tranquillità del suo vecchio, anche se i suoi consigli avrebbero potuto fargli comodo.

3

La prima volta che venni a sapere di tutto questo fu nel maggio del 2016, quando Marco mi telefonò (ero nel nord) e si autoinvitò per il finesettimana: “Ti devo parlare di una cosa…”

Quando andai a prenderlo alla stazione era in una delle sue solite tenute che mescolavano il casual con l’inappuntabile: giacca scura sopra un dolcevita color senape, pantaloni di velluto a coste che diventavano sempre più stretti verso le caviglie e stivaletti di pelle granulata. Ma aveva anche l’aria di uno straccione: occhi iniettati di sangue, barba di qualche giorno tra il grigio e il castano che sfocava le linee di solito nitide del mento e degli zigomi.

“Non dormo da un mese,” disse, notando la mia espressione.

“Come mai?”

“Dimmi una cosa. Hai seguito queste storie di molestie sessuali nei mass media?”

“Vuoi dire tipo… Bill Cosby?”

“Cosby, Assange, Dominique Strauss-Kahn, Jian Ghomeshi… Li segui?”

Cominciavo a provare una certa ansia.

“Qualcuno, un po’. Perché?”

“Cos’è che t’interessa di questi casi?”

“Be’, sono tutti molto diversi, no?”

“In che senso?”

“Be’… immagino che per alcuni sia solo il fascino di sentir parlare di comportamenti orribili…”

Annuì con aria cupa. “E gli altri?”

“Forse è più qualcosa che somiglia a un romanzo giallo. Colpevole o innocente? Il mistero di ciò che accade tra due persone in una stanza. Credo di preferire questo genere.”

“Perché?”

“Forse perché non ci sono le basi per un giudizio oggettivo, il che significa che l’onere di credere pesa per intero su chi ci crede.”

Ebbi un presentimento, mentre parlavo, di quello che stava per dirmi: il succo, se non i dettagli. Mi suscitò uno strano miscuglio di reazioni: empatia, ma anche qualcosa di più somigliante all’autodifesa. Certo non volevo mostrare la minima disponibilità a essere reclutato come difensore di qualche defunta prerogativa maschile, se era lì che si stava andando a parare.

“L’onere di credere…” ripeté Marco, pensosamente. “Che significa, ‘l’onere di credere pesa su chi ci crede’?”

Avevo spiattellato quelle parole senza riflettere, ma feci del mio meglio per dare loro un senso: “Be’, che in un modo o nell’altro ti formi un giudizio, perché è così che funziona la mente. È fatta in modo da puntare al giudizio, probabilmente perché la vita esige che si prendano decisioni, di continuo e in fretta. Ma nelle situazioni di questo tipo non esiste una solida base di giudizio diversa dalle tue supposizioni e dai tuoi pregiudizi. Così sei costretto a scontrarti con te stesso, con i tuoi misteri. Sono queste le storie che mi piacciono.”

Per un po’ viaggiammo in silenzio. I versanti boscosi dei monti ai lati dell’autostrada stavano mettendo le foglie: vaporose spruzzate rosa e verde pallido. Avevo sempre pensato che questi colori primaverili, più tenui dei loro equivalenti autunnali ma altrettanto variati, non fossero apprezzati come si deve, ma mi astenni dai commenti. Marco chiaramente non era venuto per parlare del paesaggio.

Voglio essere preciso sulla natura della nostra amicizia. Era iniziata dieci anni prima, quando 
l’avevo riconosciuto a una festa a New York. Avevo ancora qualche ricordo della vecchia immagine che mi ero fatto di lui quando ero un adolescente, una figura eroica verso cui provavo una deferenza che a sua volta sembrava metterlo a suo agio. Comunque andammo subito d’accordo. Il fatto di non aver avuto più successo io nella mia sfera di quanto ne avesse avuto lui nella sua probabilmente contribuì: Marco poteva essere permaloso con la gente che aveva fatto una riuscita migliore della sua. Da parte mia ero sempre felice, nella mia vita piuttosto isolata, di fare nuove amicizie. Più certamente amavo la sua forma mentis, che era curiosa, ma con distacco, e allegramente disillusa. Il fatto che i nostri padri fossero stati ambedue figure illustri della Londra che ci eravamo lasciati alle spalle (il mio era un rinomato architetto) ci offriva abbondante materia di conversazione. Inoltre eravamo stati tutt’e due inglesi in cerca di sesso e quattrini a New York nello stesso momento, e quando stavamo insieme riviveva un po’ del vecchio divertimento di quel gioco. In autunno, quando insegnavo a New York, cominciai a passare a casa sua le notti del mercoledì. Questi incontri settimanali erano una cosa che attendevo con impazienza, e credo che fosse così anche per lui. In cambio dell’ospitalità lo invitavo a pranzo nel suo ristorante preferito di Gates Avenue dove tenevano nel menu un risotto con taleggio e fegatini di pollo ideato apposta per lui (o almeno così gli dicevano), e di solito si chiacchierava fino a molto tempo dopo che avevano chiuso la cucina. In questo modo eravamo buoni amici: compagnoni. Peraltro, avevamo riallacciato i rapporti troppo tardi nella vita per formare quel tipo di legami veramente profondi che trascendono ogni altra considerazione. C’erano dei limiti – non li avevamo mai messi alla prova, ma c’erano di sicuro – a ciò che ciascuno di noi poteva essere disposto a sopportare o sacrificare per l’altro. In altri termini, non era una relazione irrinunciabile, anche se in qualche modo questo la rendeva più interessante. Si acquista il gusto delle cose impure, quando s’invecchia.

“Be’, comunque,” disse mentre lasciavamo l’autostrada, “ho una di quelle storie per te. Le storie del mistero. Con me nel ruolo di protagonista.”

4

Quando arrivammo a casa ne aveva abbozzato le linee generali. Caitlin, mia moglie, era in sala da pranzo a controllare una consegna di vino. Davanti a lei sul tavolo erano schierate file di bottiglie appena sballate, scintillanti al sole. Caitlin amava l’organizzazione, e pure il vino, perciò era di ottimo umore. Amava anche Marco. Alla sua prestanza, e alla sua lieve aria di dissipazione, reagiva con una specie di licenziosità. Era stata una ragazza scatenata, prima di sposarsi, e non le dispiaceva che glielo ricordassero.

“Sto preparando il menu delle bevande per oggi e domani,” disse. “Pensavo di mettere insieme qualcosa di veramente stellare. Magari questo Volnay?”

Marco era sempre lieto di vederla, anche se io mi rendevo conto che si sarebbe ben guardato dal parlare della sua situazione davanti a lei. Non l’aveva detto a Hanan, per esempio, che era la sua compagna da quattro anni. “Non sai come reagisce la gente,” aveva spiegato in macchina. “Hanan in particolar modo. Può spalleggiarmi o può decidere che ha qualche obbligo di solidarietà femminile verso Julia. Non voglio metterla alla prova, se posso farne a meno.”

A pranzo parlammo d’altro, soprattutto di cos’avrebbe fatto Caitlin della sua vita ora che i nostri figli erano andati al college e le richieste della maternità cominciavano a ridursi. Marco, che era sempre apparso sinceramente sconcertato dalla sua decisione di diventare una madre a tempo pieno, partecipava eroicamente alla conversazione. Ma mentre la interrogava sui diversi lavori che aveva fatto da ragazza, Caitlin lo interruppe, posandogli una mano sul braccio:

“Sei gentile, Marco, a interessarti, ma cosa ti succede? Non sembri felice.”

Lui esitò, prima di annuire.

“Hai ragione. Non sono felice. Stanno per rovinarmi la vita.”

Passammo il resto del giorno parlandone tutt’e tre. Quando in cucina cominciò a far freddo ci spostammo nel soggiorno e accendemmo il fuoco. A intervalli Caitlin tornava al tavolo della sala da pranzo e, dopo aver ispezionato attentamente le bottiglie per la seconda volta, ne scelse una che le sembrava adatta al tenore della conversazione e ci riempì di nuovo i bicchieri.

Di fatto quel che era successo dal giorno dell’e-mail di Sauer che invitava Marco a “difendersi” era uno stallo prolungato.

“L’invito mi è sembrato una trappola,” disse, “un modo per avere il mio tacito consenso a pubblicare l’estratto. L’istinto continuava a suggerirmi di dire di no. Sono nervosi perché temono che io gli faccia causa, questo l’ho capito, e non volevo fare niente che li rendesse meno nervosi. E poi non volevo dare alcuna legittimazione all’idea che ci siano veramente due parti in questa storia, perché non ci sono. So che non posso pretendere che la gente, voi compresi, mi creda sulla parola. Non potete nonavere dubbi. Lo capisco. Comunque non chiedo di essere creduto, ma solo dei consigli. E forse un po’ di compassione! Ma io certo non intendevo cedere. D’altro canto ho pensato che dovevo rinviare ogni decisione casomai decidessero di stampare comunque quell’estratto del cazzo…”

Aveva girato intorno al problema, ignorando l’invito di Sauer e limitandosi a dichiarare per la seconda volta che l’articolo era diffamatorio. La sua brusca e-mail aveva generato un altro silenzio promettente. Erano passati due giorni interi, e poi Sauer aveva scritto: “Marco, capisco la tua preoccupazione. Non voglio assolutamente pubblicare nulla di diffamatorio. Passo il pezzo all’ufficio legale e ti richiamo. Grazie mille per la tua pazienza!”

“Ha un po’ l’aria del ruffiano,” disse Caitlin.

Marco annuì.

“In ogni modo, passano altri due giorni e poi mi manda questo.” Lesse sul telefonino:

“Marco, l’ufficio legale ritiene che il pezzo non sia diffamatorio, perciò vogliamo procedere alla pubblicazione. Hai per caso ripensato alla proposta di scrivere qualcosa di tuo? Se contesti la versione dei fatti di Julia vogliamo offrirti la possibilità di dire la tua. I nostri lettori troveranno affascinanti i due punti di vista. Come dicevo, siamo pronti a darti lo stesso spazio, e possiamo assicurarti che non cambieremo nulla (però ricordati che siamo un giornale ‘per famiglie’!!).”

“Possibile che l’ufficio legale abbia deciso unilateralmente che non era diffamatorio?” chiesi io. “Non è che abbiamo modo di provarlo.”

“No di certo,” disse Marco, aggrottando la fronte. “Francamente io credevo che stessero bluffando. Lo credo ancora. È assurdo. Questa è una di quelle cose per le quali le giurie condannano a pagare risarcimenti di milioni di dollari. Potrei uscirne come un reietto, ma ho buone probabilità di diventare un reietto molto ricco.”

“Potresti venire a vivere qui, Marco,” disse Caitlin. “Noi ti riceveremmo lo stesso.”

Lui sorrise. “D’altra parte c’è forse qualcosa che non riesco a vedere. Non sono un avvocato, dopotutto. Avrei chiesto consiglio a mio padre, ma non volevo coinvolgerlo in questa… Invece ho buttato giù una lunga e-mail per questo piccolo studio di Londra che si occupa di cause contro la stampa. Non l’ho ancora mandata perché non voglio che la storia si diffonda, e nemmeno che arrivi fino a loro, se non ci sono costretto. Però ho pensato che non avrebbe fatto male buttare lì il loro nome in una e-mail a Sauer, e così gliel’ho spedita dicendo che avrei chiesto a IPSO – si chiama così: Independent Press eccetera – cosa pensavano della mia risposta, e che lo avrei richiamato.”

“Bella mossa,” dissi io.

“Be’, mi sembra che l’abbia innervosito.”

La risposta di Sauer offriva una piccola concessione: dopo altre consultazioni con l’ufficio legale, aveva chiesto a Julia di togliere la frase in cui diceva di essersi trovata nuda sotto Marco nel letto dell’albergo, e lei aveva accettato. “Così è meno esplicito,” scrisse Sauer, “e speriamo che te lo renda accettabile. Noi contiamo di andare in stampa a fine mese, perciò hai tre settimane in più. Sono molto fiducioso di ricevere qualcosa di tuo per accompagnare questo articolo leggero ma importante. Pensaci su!”

Da allora c’era stata qualche altra mossa nel quadro di una politica del rischio calcolato, ma quel finesettimana le cose stavano più o meno così. Nessun impegno da parte di Marco a scrivere una risposta; nessun’altra concessione da Sauer tranne un tentato allettamento finanziario (“il compenso è trattabile, se questo aiuta”) al quale Marco non si era degnato di rispondere; e un orologio che ticchettava, evidentemente.

Non ho descritto nel modo migliore lo sconforto mostrato da Marco mentre raccontava tutto questo. A dispetto dell’umore sardonico che non l’aveva abbandonato, il suo disagio era chiaramente visibile e profondo; presente nella sua espressione abbattuta, nel tono della voce, nel sussultante, angosciato, improvviso scattare all’indietro delle spalle che ogni tanto lo scuoteva: una specie di atroce passo indietro, come per ritrarsi da una malsana presenza che violava di continuo il suo spazio privato. Si era convinto che Sauer agisse solo per i cinici motivi di un giornalismo scandalistico; che la sua pretesa di giudicare “importante” il pezzo di Julia fosse una stronzata ipocrita; prova ne era la scarsa convinzione con cui Sauer in realtà avanzava questa pretesa. Marco credeva che questa scarsa convinzione fosse intenzionale; un segnale deliberato e beffardo del fatto che Sauer neanche per sogno si chiedeva se il pezzo era “importante” o persino veritiero; che oltre a fregarsi le mani davanti alla prospettiva di una storia piccante e salace, si divertiva a tenerlo sulla graticola. C’era anche il piacere di colpire suo padre, secondo il mio amico, e con questo probabilmente un elemento di guerra di classe, con Sauer, che a giudicare da come scriveva non era di sicuro il beneficiario di un’istruzione privata, che godeva nello stringere tra le sue sporche grinfie un figlio del privilegio. Ancora una volta, non ero certo di condividere ogni aspetto dell’analisi – Marco era sempre un po’ precipitoso nel vedere la lotta di classe nei suoi scambi con altri connazionali – ma capivo molto bene come il rincrescimento untuosamente simulato da Sauer contribuisse alla sua profonda irritazione.

“E peggio di tutto, o quasi,” disse, “a parte il fatto che non riesco a dormire, è che non riesco a pensare ad altro. Come vedete sono diventato un completo monomaniaco. Se anche i miei amici e colleghi non mi eviteranno per il fatto che sono un predatore sessuale, lo faranno perché sono diventato una barba insopportabile. Ehi! Non vi ho nemmeno chiesto dei ragazzi! I figli come stanno?”

“Stanno bene,” dissi io, e trasalii al suono della terribile espressione che aveva usato per definirsi, “predatore sessuale”. Era come se stesse cercando di abituarvisi prima del tempo, e allora provai per lui un moto di vera simpatia. “E non sei una barba.”

“Cristo! Cosa diavolo sono quelli?”

Indicò qualcosa fuori dalla finestra. Guardai.

“Tacchini selvatici.”

Due maschi e una femmina, parte di un grosso branco che usciva spesso dal bosco per venire a saccheggiare le vaschette di becchime per gli uccelli di Caitlin, erano entrati nei campi al di là del nostro prato.

“Sembrano dei dinosauri!”

Mentre si avvicinavano al prato, il più grosso dei maschi drizzò le penne nere della coda e le dispose in un alto semicerchio orlato di bronzo. Restammo a guardare, tutt’e tre, mentre cominciava a muoversi verso la femmina a soavi passettini.

“A proposito di sesso…” dissi io.

La femmina si allontanò di qualche passo, con aria indifferente, mentre il maschio più piccolo restava indietro, in osservazione. Dopo un momento il grosso maschio riprese a scivolare verso la femmina, inclinando ora di qua ora di là l’enorme ventaglio di penne, mentre lei si allontanava di nuovo, becchettando tra l’erba con noncuranza. Il maschio sembrava prepararsi alla mossa seguente. Il suo collo si era tinto di un blu vivo. Allungandolo in avanti emise un verso, un put-put tenero e sommesso. La femmina si fermò, esitante nella propria indifferenza. Il maschio più piccolo guardava dall’uno all’altra con un’aria di studiata fascinazione. Poi la femmina fece qualche passo avanti, e molto prosaicamente si accucciò sull’erba. Il grosso maschio si fece subito avanti, gonfiando le penne sul petto, allargando il ventaglio della coda scura come uno strano, satanico pavone, e le montò sul dorso, con l’arpione ricurvo della barba ondeggiante sotto la gola mentre si accoppiava, la pelle dei bargigli sopra il collo congestionata e rossa, la testa tutta bianca, la lunga appendice di carne sopra il becco stranamente penzolante, tutto il corpo gonfio e immenso, come se si fosse dilatato in una fluttuante, fantastica e irresistibile idea di se stesso. Spostando le penne della coda della femmina da un lato con le sue, si abbassò su di lei e prese a spingere. Dopo pochi secondi si staccò e si allontanò con passo incerto. La femmina si raddrizzò e fece lo stesso.

Un silenzio calò su di noi; eravamo stati colti di sorpresa da un lieve imbarazzo, forse dovuto al nostro voyeurismo, o al collegamento un po’ troppo evidente con ciò di cui avevamo appena parlato. Provai a scherzarci su, citando dall’articolo di Julia:

“‘Tutto finì molto in fretta…’”

Marco rise bonariamente. “Dai…”

Caitlin si alzò per stappare un’altra bottiglia, con espressione pensierosa.

“Ma allora cos’è successo veramente quella notte?” chiese mentre tornava indietro. “Te lo ricordi?”

“Ci ho provato. È successo molto tempo fa, quindi non sarà mai di una chiarezza cristallina. Non era la prima volta che andavamo a letto insieme, questo lo so di certo. Era già successo a Londra, almeno una volta. Lo so perché ricordo che mi disse di avere un ragazzo col quale faceva sul serio, e ci trovammo d’accordo sul fatto che doveva essere una volta e basta. Belfast forse fu un paio di settimane dopo. Avevamo avuto una giornata stressante, avevamo girato con un ex contatto della milizia che ci aveva condotto in un appartamento affacciato su questo vicolo dove una ragazza cattolica doveva essere punita da alcuni Provos per aver amoreggiato con un soldato inglese. Assistere alla scena fu davvero terribile. La spogliarono, e quando fu seminuda la coprirono di pece e di piume, e noi riprendemmo tutto. Poi con Julia e la troupe tornammo in albergo a bere qualcosa per rilassarci. A un certo punto quelli della troupe andarono a mangiare, ma lei e io restammo al bar. Stavamo bevendo whisky, ricordo, e lei ingollava un bicchiere dopo l’altro, come me. Ci sbaciucchiammo un po’ al bar e, come dice lei, la invitai su in camera mia, dove sono sicuro, sapendo com’ero fatto a vent’anni o poco più, che avevo tutte le intenzioni di portarmela a letto. Non ricordo se allora parlò del suo ragazzo. Non dico che non lo fece, ma che senso avrebbe avuto, dal momento che sapevo già di lui? Ma ammettiamo pure che l’abbia fatto, e ammettiamo che abbia mostrato qualche apprensione a proposito di una nuova infedeltà, e anche un’aperta riluttanza, comunque io non l’avrei costretta in nessun caso e, per dirla tutta, in nessun modo lei si sarebbe lasciata costringere. Tu conoscevi Julia a quei tempi…”

Mi guardò, e io annuii.

“Era una forza, giusto?”

“Giusto.”

Si rivolse a Caitlin:

“Cioè, non nel senso che era estroversa o turbolenta… A volte poteva sembrare una donna molto riservata. Ma quando arrivavi a conoscerla bene ti rendevi conto che era una persona che sapeva cavarsela in ogni situazione. Non si sarebbe sottomessa a niente che non volesse fare, non senza lottare. Non avrebbe certo passato tutta la notte con me se le avessi fatto fare qualcosa di lontanamente contrario alla sua volontà, ma questo è ciò che fece. Ricordo molto bene questa parte, perché al mattino stavamo ancora così male tutt’e due per i postumi della sbornia che rischiammo di perdere il taxi per l’aeroporto. L’operatore dovette tirarci giù dal letto.”

“Sei ancora in contatto con lui?” chiesi. “L’operatore?”

Marco rifletté un momento.

“No. Ma forse potrei rintracciarlo… È una buona idea.”

“Non che proverebbe qualcosa anche se si ricordasse,” dissi io.

“Vero, però…”

“A proposito, la parola che hai usato, riluttanza… So che l’hai fatto solo in via ipotetica, ma è una parola pericolosa, almeno nel mio mondo. Se uno studente fosse accusato di violenza e ammettesse che la ragazza era riluttante, sarebbe finito.”

“Ma è ridicolo!” s’intromise Caitlin. “La gente fa sesso con riluttanza di continuo. A me è successo di sicuro.”

La guardai, chiedendomi se dovevo sentirmi offeso, ma decisi di lasciar perdere. Era più che un po’ brilla, come tutti noi.

“Be’, comunque,” disse Marco, “il fatto è che lei non era riluttante e io non l’ho costretta. Non posso provarlo più di quanto lei possa provare il contrario, ma è la natura di queste cose. Come dici tu, l’onere di credere pesa su chi crede…”

“Perché lo fa, secondo te,” chiese Caitlin, “se non è vero?”

“Per denaro, immagino. So che è al verde. La sua carriera non è andata come avrebbe dovuto. Ma chi non si è trovato nella stessa situazione?”

“E quella è stata l’ultima volta che siete andati a letto insieme, quella notte?”

Marco inclinò il capo. “Veramente, sai, non sono sicuro. Non eravamo proprio una coppia, perciò non c’è mai stata una rottura ufficiale. Abbiamo solo smesso a un certo punto. Ma non ho idea se quella è stata l’ultima volta. Forse no!”

“Ma comunque avete continuato a lavorare insieme?” dissi io.

“Assolutamente. Per un altro anno almeno. Questo potrei provarlo, immagino, per quello che vale.”

“E tra voi non è rimasta dell’ostilità?”

“Nessuna, che io sapessi.”

“Hai provato a cercarla?” chiese Caitlin.

“No!”

“Sarebbe un’intimidazione,” dissi io.

“Sul serio?” chiese Caitlin. “Telefonarle per chiedere cosa sta succedendo?”

“È un rischio.”

“Ah.” Caitlin crollò il capo. Mia moglie era, è piuttosto ingenua nei suoi interessi, e di conseguenza il mondo suscita di continuo il suo stupore.

“Ma lei lo sa che ti sta danneggiando con questa storia?”

“Deve saperlo,” disse Marco.

Caitlin guardò corrucciata il suo vino. “Non riesco a farmi un’idea molto chiara di questa persona. Puoi dirmi qualcosa di più di lei?”

Marco annuì gravemente, come prima. Mi sembrava che per lui quella conversazione avesse qualcosa della qualità di una prova: l’informale simulazione di una versione più severa che a un certo punto si sarebbe forse presentata l’occasione di sostenere.

“Be’, era una ragazza tranquilla che veniva dalle Midlands. Cresciuta in una zona residenziale. Nessuna traccia del padre, mentre la madre lavorava per il comune. È andata a Oxford, dove a quanto pare era molto timida e riservata. È venuta a Londra come giornalista freelance e ha cominciato a rendersi conto di avere qualcosa che spingeva la gente a volerla con sé. Ha lavorato nella carta stampata e per la radio un paio d’anni prima di passare alla TV.” Si rivolse a me: “Non è stata tua madre ad aiutarla ad avere quel posto alla TV?”

“Sì, fu proprio lei.”

“Comunque quello è stato il momento in cui l’ho conosciuta. Mi fu assegnata come ricercatrice. In realtà ciò che mi disse fu che si era data da fare per ottenere quel lavoro. Allora io ero un prodotto desiderabile, professionalmente parlando. Lavoravamo a strettissimo contatto, e spesso uscivamo a bere qualcosa alla fine della giornata. All’inizio la trovai un po’ enigmatica, ma poi mostrò di avere opinioni radicate e tra noi cominciò una beffarda relazione tutta amichevoli contrasti che mi costringeva a stare in campana. Mi dava del colonialista a tavolino perché a suo avviso la mia adesione alla politica del Terzo Mondo non era altro che una versione più moderna di quella di Kipling: il fardello dell’uomo bianco eccetera, con i giornalisti al posto dei pukka sahib. Io mi difendevo furiosamente, ma in un certo senso aveva ragione lei, e lo sapevo: questa era la parte di Julia che mi attraeva di più. Ero attratto anche fisicamente, è naturale. Insomma, era bellissima. Sembrava una leonessa, pensavo allora. Aveva questa faccia larga, larga, con una specie di sorriso distante come se stesse sognando qualcosa di piacevole e insieme molto pericoloso. Direi che sapevamo tutt’e due con certezza che saremmo finiti a letto, prima o poi…”

Mentre Marco parlava il sole tramontava dietro i boschi, illuminando i pendii dei colli di fronte. Ascoltavo distrattamente, scivolando nei miei ricordi personali di Julia. Ho già detto che era stata una presenza fissa in casa nostra durante la mia adolescenza, ma per un certo tempo era stata in realtà più qualcosa di simile a un’istituzione. Mia madre aveva fatto amicizia con lei – era la sua protetta, come diceva – e la invitava a pranzo a Londra o nel Sussex per il finesettimana, le faceva conoscere amici influenti, la portava con sé a première e vernissage. Con me era affabile, nel modo divertito con cui le giovani donne di mondo trattano gli adolescenti impacciati. In lei io non vedevo nulla di leonino. Fisicamente mi ricordava la figura di Flora nella Primavera di Botticelli, con quello sguardo espressivo e intimo che era insieme di timidezza e di sensualità, ma che aveva sicuramente una grinta – l’inseguimento di un piacere ricercato in modo intenso ma privato – che mi ha sempre affascinato. E oltre a questo aveva uno splendore che, qualunque ne fosse la vera causa, era per me, nella mia generale confusione di allora, come l’idea di una tregua. Non è esagerato dire che per me Julia incarnava l’idea di gioiosa libertà in cui credevo consistesse la vita una volta usciti dal lungo tunnel dell’adolescenza. Avevo anch’io una cotta per lei.

5

Marco aveva pensato di passare due notti da noi, ma la mattina dopo a colazione mi chiese di portarlo subito alla stazione con la macchina. Aveva deciso di andare a Londra. Aveva già comprato online il biglietto dal JFK, e doveva solo passare a prendere il passaporto a Brooklyn.

Durante la notte gli era venuta un’idea, come risultato della nostra conversazione. Non volle dirmi di che si trattava perché avrebbe portato jella, ma promise di raccontarmi tutto una volta tornato.

Mentre andavamo alla stazione era nervoso e distratto, e parlava saltando da un argomento all’altro: un progetto per Un delitto e un luogo, la nuova compagna di sua figlia, i problemi di Hanan col visto, tutto tranne il suo “cimento”, anche se era ovvio che a furia di pensarci non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Si era sbarbato e spruzzato un po’ della colonia alla cannella che metteva ogni tanto, ma aveva sulle guance il pallore della spossatezza: lo animava una specie di testardo ottimismo venato di paura.

“C’è una carrozza silenziosa sul treno,” gli dissi. “Dovresti dormire un po’.”

“Impossibile.”

Non lo sentii per qualche tempo. La primavera diventò tiepida e piovosa, con ondate di fiori in boccio che attraversavano i boschi, e il canto degli uccelli che ribolliva dappertutto come una sorta di bruma naturale. Ma era anche melanconica: la nostra prima stagione senza figli a casa. Lavoravo a un libro, irregolarmente, e mi interrompevo spesso per ricordare, come se fosse ieri, quando, seduto a quella stessa scrivania, vedevo i nostri figli ridere e battibeccare mentre giocavano con l’altalena ora vuota e penzolante sul prato deserto. Il paradosso della memoria – poter attraversare in un istante il baratro del tempo passato in tutti questi anni, tutte queste migliaia di giorni, per arrivare pian piano alla prima volta – non aveva mai cessato di affascinarmi, e se ero fortunato il fascino soppiantava il senso di tristezza. Caitlin, meno disposta alla metafisica di me, l’aveva presa peggio: o forse nel modo giusto. La vedevo su una soglia, con lo sguardo puntato su un angolo infestato dagli spiriti, gli occhi umidi e un’espressione smarrita come se stesse sforzandosi di ricordare perché mai si era aperta a questa inevitabile desolazione. L’abbracciavo, le ricordavo che ragazzi felici, normali e senza problemi avevano prodotto i loro genitori, e soprattutto lei; che sarebbero sempre tornati da noi, in un modo o nell’altro… Ovvie banalità, che però sembravano consolarla, almeno per il momento, e lei si rasserenava, o fingeva di essersi rasserenata; andava al centro di accoglienza dove prestava servizio come volontaria, o a rinvasare qualche pianta, o a fare una passeggiata col suo binocolo per gli uccelli, o a lavorare sulla proposta di un altro libro di viaggi della serie che avevamo iniziato prima che nascessero i bambini e messo da parte quando erano troppo grandi per essere portati via da scuola e costretti a partire con noi. Eravamo cauti reciprocamente; ognuno dei due capiva la necessità di porre nuove basi per il nostro matrimonio, o di rifondare le basi originarie, ammesso che una cosa simile fosse possibile.

Poi accadde un fatterello che ha una certa rilevanza in questa storia. Il pascolo del vecchio caseificio al di là del nostro prato stava diventando incolto e correva il rischio di tornare alla foresta. Noleggiai un decespugliatore dal negozio di ferramenta e passai una giornata di lavoro piacevolmente dimentico di tutto trascinando col trattore la tozza macchina che divorava ogni cosa avanti e indietro sul terreno coperto di rovi e pini nani, lasciando nella mia scia soddisfacenti nastri di stoppie. A metà del lavoro vidi una femmina di tacchino accovacciata in una macchia di arbusti. Alzò lo sguardo mentre passavo ma non si mosse, e mi resi conto che doveva aver fatto il nido là. Sterzai per aggirarla, lasciando un isolotto di cespugli in modo che restasse nascosta. Quando le spiegai la situazione Caitlin si preoccupò. Aveva il dono d’immergersi nella vita di qualunque creatura, umana o no, si trovasse vicina, e quegli uccelli sgraziati erano andati a ingrossare le file di questo zoo teneramente custodito. Si era messa in testa che, avendo attirato lì la creatura noi per primi col nostro mangime, adesso eravamo responsabili della felice schiusa delle sue uova. A tal fine, e con l’incoraggiamento di un articolo in una delle tante pubblicazioni sulla fauna protetta che leggeva, decise di vegliare nel pascolo tutte le notti, in tenda, per le quattro settimane del periodo d’incubazione, in modo da tenere lontane le volpi.

Io non dormo bene da solo. Provai a dormire in tenda con lei, ma dopo un paio di notti scomode mi rassegnai a un periodo di sonno solitario, e feci del mio meglio per non lamentarmi. Comunque pioveva abbastanza spesso e in quelle notti, se la pioggia era fitta, Caitlin giudicava più sicuro stare in casa. In virtù di qualche miracolosa distribuzione dei poteri che regolano l’armonia coniugale, eravamo entrati in una fase di rapporti sessuali frequenti. L’anniversario del nostro matrimonio cadde in questo intervallo, e andammo a festeggiarlo nel nostro ristorante preferito. Vedi caso, era una sera asciutta, di un caldo fuori stagione, e cenammo a lume di candela sulla terrazza in riva al torrente. Non pensavo alla tacchina mentre tornavamo a casa in macchina, e Caitlin non disse nulla di lei. Andammo a letto, facemmo l’amore e ci addormentammo l’uno nelle braccia dell’altra. La mattina presto udii un grido dal campo del caseificio, e corsi fuori. Caitlin era andata a controllare il nido ed era lì davanti alla macchia di arbusti, terribilmente sconvolta. La tacchina era sparita, e tutte le sue uova erano rotte. Non era da lei dare agli altri la colpa delle cose andate storte, e non mi disse nulla di apertamente accusatorio, ma mentre eravamo là a guardare il nido distrutto con i suoi lucidi gusci d’uovo schiacciati e macchiati di sangue, la sentii borbottare furiosamente tra sé: “Dovevo fare quello che volevo! Non dovevo cedere! Finisco sempre per cedere!”

Mi voltai e rientrai in casa, agitato e confuso. Mi sentivo anche in colpa, pur sapendo di non averla costretta né sottoposta a sottili pressioni per convincerla a dormire con me. Avrei dovuto scoraggiarla apertamente? Toccava a me valutare la situazione dal suo punto di vista oltre che dal mio? Non potei far a meno di ricordare quel suo commento sulle persone che fanno sesso con riluttanza, lei compresa, e naturalmente non potei far a meno di pensare alle accuse di Julia contro Marco, e di chiedermi se ero stato appena accusato – anche se entro i privatissimi confini di casa nostra – della stessa cosa, e in tal caso come dovevo reagire.

L’episodio sbiadì presto e noi andammo avanti, ma immagino che abbia influito sul modo in cui vedevo la difficile situazione di Marco, il suo “cimento,” mentre continuava a evolversi nei mesi che seguirono. Non so se mi rese più comprensivo o meno. Ma riaccese di sicuro il mio interesse.

6

Mi telefonò da Londra dopo il suo ritorno.

“Vittoria!” urlò nel microfono.

Fu un istante di sgomento quello che provai? Non capisco perché avrebbe dovuto essere così, ma la memoria insiste nel notare l’ombra di una frazione di secondo che cadde prima che la risposta più appropriata mi salisse alle labbra.

“È magnifico, Marco!”

Mi raccontò tutta la storia un paio di settimane dopo, quando ebbi un appuntamento in città e decisi di restare per la notte.

Lasciai la mia roba a casa sua, e andammo a piedi al nostro solito ristorante sotto i sicomori, dove il silenzio e l’ombra del quartiere con le sue vecchie case di arenaria decorata e gli sporadici condomini moderni ci ricordavano la Londra in cui eravamo cresciuti, ma con quell’atmosfera più sfrenata che si trova nei quartieri anche più signorili di New York: un senso diffuso di vite più spericolate vissute in condizioni più imprevedibili. Già all’inizio della nostra amicizia avevamo riconosciuto che era proprio questo a dare alla città una marcia in più rispetto a Londra, ed era una delle ragioni per cui ci piaceva abitarvi.

“Stavolta offro io,” disse Marco entrando. “Sono dell’umore giusto per festeggiare.”

Il locale era gremito, con un bel rombo di voci contente che prorompeva dalla porta. Il direttore di sala ci accolse con calore e ci guidò fino a un tavolo d’angolo. I camerieri accorsero, portandoci crostini e acqua ghiacciata come se avessimo attraversato deserti per arrivare lì e avessimo urgente bisogno di essere rianimati. Una cameriera, nuova dall’ultima volta che ero stato in quel ristorante, ci chiese se gradivamo sapere qualcosa dei cocktail speciali del giorno.

Ci piacerebbe moltissimo,” disse Marco con la sua pronta, disinvolta cordialità. Ci fu tra loro un faceto tira e molla a proposito degli assurdi ingredienti di alcuni dei cocktail, e Marco mi convinse a prendere un gin artigianale con salamoia e fragole schiacciate. Ordinò due bottiglie di vino, da stappare lì per lì, mentre inforcava un paio di occhiali da lettura per studiare il menu e li rimetteva in una tasca interna un istante dopo.

Era chiaramente tornato quello di una volta. Il voto a favore della Brexit era passato mentre si trovava a Londra, e mi disse che aveva approfittato del crollo della sterlina per fare man bassa da Selfridges, dove aveva scelto alcuni capi nuovi, compresa l’elegantissima giacca di cashmere color ruggine che indossava. (Non è mia intenzione ritrarlo come un opportunista, ma solo rendere la mancanza di remore con cui ci rilassavamo quando eravamo soli.)

“Guarda…” Aprì la giacca per mostrarmi la fodera di seta tempestata di vivaci esche per la pesca.

“Bellissima.”

Proprio allora tornò la cameriera con gli aperitivi.

“Ted Baker?” chiese.

“Indovinato!”

“Io adoro Ted Baker.” Passò il pollice sul tessuto con pronta, spigliata familiarità.

Ordinammo la cena ed entrammo subito nei dettagli del suo viaggio a Londra. Mi hanno sempre interessato le minuzie di questi racconti, e spinsi Marco a ricordare tutto quello che poteva. Sembrava che gradisse le mie pressioni, anche quando i dettagli non lo mettevano in buona luce. La gente usa l’eccessiva modestia come un modo furbesco per fare bella figura, ma le storie che Marco raccontava di sé, o meglio contro di sé, sembravano sinceramente destinate a metterlo in cattiva luce, e per questa sua abitudine io avevo un certo rispetto.

L’idea che aveva avuto quella sera nella nostra camera degli ospiti gli era stata suggerita dalla conversazione che avevamo avuto lo stesso giorno, qualche ora prima. Riguardava il ragazzo di Julia all’università: la causa manifesta del suo ripensamento nella camera da letto di Marco.

“Mi è tornato in mente il suo nome,” disse Marco. “Gerald Woolley.”

“Conosco questo nome. Non è un critico di architettura?”

“Può darsi. Sì, credo che studiasse quello. Non dirmi che è diventato famoso…”

“È abbastanza noto, in quel mondo.”

“Tuo papà lo conosceva?”

“Sì, ma fu bandito da casa nostra dopo aver lodato una persona di cui non avrebbe dovuto parlar bene. Qualche postmoderno, senza dubbio…”

Marco rise: le vite tormentate degli uomini e delle donne della generazione dei nostri genitori, con i loro nobili princìpi che richiedevano continue sdegnate difese, era una fonte di spasso per entrambi.

“Be’, di colpo mi sono ricordato che mi aveva scritto.”

“Una lettera?”

“Sì, proprio una lettera! Te le ricordi ancora? Me n’ero completamente dimenticato fino a quella sera a casa vostra. Ero a letto, a frugare nel passato per la fantastilionesima volta, in cerca di ogni brandello di testimonianza che potesse aiutarmi a provare la mia versione dei fatti…”

“Io ho pensato che potevi provare a rintracciare quell’operatore.”

“Oh, ci ho provato. È morto. Doveva essere sulla quarantina quando lavorava con me, quindi… Peccato, ma non proprio una sorpresa. In ogni modo mi è venuto in mente il nome del ragazzo, e per qualche ragione mi sembrava di vederlo scritto con l’inchiostro su carta opaca da disegno, e mi sono ricordato di questa lettera che mi aveva spedito. Julia gli aveva detto della nostra storia, e voleva vedermi.”

“Vederti?”

“Sì, vedermi.”

“Per sfidarti a duello?”

Marco ridacchiò, colmando i bicchieri.

“Per parlare della situazione, per vedere che tipo ero, quali erano le mie intenzioni.”

“Dev’essere stato proprio un bell’incontro!”

“Non c’è stato. Credo di non avergli nemmeno risposto. Credo di averlo liquidato dentro di me come uno sciocco che non meritava la fatica di una risposta da parte di una persona indaffarata e importante e insomma superiore come me. Certo, ero ancora più tronfio perché mi stavo scopando la sua ragazza. A quei tempi ero così: molto arrogante, molto sprezzante. Davo anche per scontato che un giorno sarei diventato famoso e che i biografi avrebbero fatto la coda davanti alla mia porta, e perciò conservavo ogni pezzo di carta che avesse qualcosa a che fare con la mia vita o la mia carriera. Ogni ritaglio di giornale, ogni contratto: tutto tranne i biglietti dell’autobus, in sostanza, e probabilmente anche qualcuno di quelli. E di sicuro ogni lettera. Ho smesso dopo essermi trasferito qui, ma quando ho lasciato Londra avevo imballato tutto nel solaio dei miei genitori, e da allora nessuno ha più toccato niente.”

“Bene!” dissi.

Un cameriere portò via gli stuzzichini e la cameriera fece la sua comparsa con i piatti: io avevo preso pasta con salsiccia di maiale, peperoncino e molluschi in un mare arancione di sugo di ricci.

“Com’erano gli antipasti, signori?”

“Molto ricchi,” disse Marco.

Lei parve turbata.

“Ma a noi piacciono ricchi,” le disse lui.

“Oh, bene. Anche a me.”

“Allora prenderemo in considerazione la possibilità d’iscriverla al nostro club.”

Lei scoppiò in una risata con un’increspatura civettuola che sembrava abbastanza genuina, anche tenendo conto dell’aspetto commerciale di questi scambi. Marco la seguì con lo sguardo mentre se ne andava; non era un’occhiata maliziosa, ma una specie d’impassibile riflesso, come un tic di cui non si rendeva conto. Non aveva nulla dell’anziano libertino, tranne, con una certa luce, la vaga tinta anticata dei denti, che erano anche accavallati e irregolari come i miei: piccoli storti monumenti all’odontoiatria inglese anni settanta.

“La lettera, dunque,” dissi.

“Sì.”

“L’hai trovata?”

“Sì. Ecco, leggila.”

La cercò nel telefonino. Era scritta con una calligrafia ordinata e leggibile su carta non rigata, con la data in alto a piccoli caratteri romani. La feci scorrere sullo schermo.

Caro Marco (se permetti), credo tu sappia chi sono. Spero che perdonerai questa intrusione, ma sto cercando di risolvere un problema di grande importanza che riguarda il futuro: il mio, ma anche quello della nostra comune amica Julia Gault, e forse anche il tuo. Come saprai, io e Julia stiamo insieme da vari anni e pensavamo di sposarci quando avrò finito il dottorato. Non occorre che ti dica che Julia è molto attratta da te e forse si è anche un po’ innamorata di te. Ovviamente questa è stata per me una scoperta dolorosa. Doloroso è anche doverne prendere atto. Ma riconosco che queste cose succedono, e ti prego di credere che qui la mia più grande preoccupazione è per la felicità di Julia, non la mia. Voglio soltanto ciò che è meglio per lei, e poiché lei al momento si trova in un certo stato di confusione sui suoi sentimenti, sento di dover provare a fare un po’ di chiarezza. Mi rendo conto che non ho alcun diritto d’interrogarti sulle tue “intenzioni,” e che comunque Julia è libera di fare ciò che vuole, quali che siano queste intenzioni. Ma mi sarebbe enormemente utile incontrarti di persona per ascoltarti su questa materia delicata. Ti assicuro che non nutro alcuna ostilità verso di te: è tutto il contrario. Ammiro da tempo il tuo lavoro in televisione, e sono più che preparato ad accettare la grande stima che Julia ha di te, la stima che mi ha espresso nel corso di una lunga conversazione molto sincera che abbiamo avuto ieri, in cui ti ha descritto come un essere umano eccezionale: “eccezionalmente perbene come pure eccezionalmente ricco di talento.” Spero che questa richiesta non ti sembri troppo strana, e che tu voglia considerare di accettarla. Sarebbe un grande onore. Tuo Gerald Woolley.

“Che lettera!” esclamai.

“Lo so. Ancora meglio di come la ricordavo! ‘Eccezionalmente perbene come pure eccezionalmente ricco di talento.’ E straordinariamente utile, non credi?”

Io alludevo alla sincerità e al candore della lettera, non alla sua utilità pratica, ma lasciai correre.

“Insomma, so che a volte le vittime mandano ai loro aggressori messaggi stranamente affettuosi,” continuò Marco. “Il caso Gomeishi si è sgonfiato per questo. Ma qui è lei che parla a una terza persona, non a me. E guarda la data. È dopo che andò in onda il programma di Belfast, cioè dopo quella notte in albergo. ‘Eccezionalmente perbene’… come dire, non sono un fottuto cavernicolo. Puoi immaginare che sollievo quando l’ho trovata!”

Aveva portato la lettera al Messenger di persona appena l’aveva scovata, attraversando Londra in taxi fino ai loro uffici vicino all’Embankment. Il rigido sistema di sicurezza dell’atrio gli aveva impedito di sorprendere Sauer come avrebbe desiderato. La reception aveva dovuto chiamare dando il suo nome. Un assistente era sceso per verificare che Marco fosse chi diceva di essere. Gli avevano fatto una foto per stamparla su un pass. Ma nessuna di queste operazioni aveva attenuato il piacere d’incontrare la sua nemesi.

“Sapevo di averlo in pugno, quello stronzo!”

“Com’è?”

“Insipido. Tra i quaranta e i quarantacinque, direi. Un tantino sovrappeso. Capelli e sopracciglia rossicce. Faccia gonfia e inespressiva. Ha cominciato con quel suo ridicolo modo di esprimersi fiorito, dicendo che era proprio una piacevole sorpresa incontrarmi di persona. Mi ha fatto persino i complimenti per un mio programma che diceva di aver visto da studente. Gli ho cacciato la lettera sotto il naso. Avresti dovuto vederlo mentre la leggeva. Cercava di fare l’indifferente, ma era tutto un pulsare di segni rivelatori. Deglutiva, tirava fuori la punta della lingua per inumidirsi le labbra, tamburellava con le dita sulla scrivania… Quando ha finito si è raschiato la gola e ha nascosto il mento nel collo, guardandomi con una strana espressione che doveva essere, credo, di affettuosa riprovazione, come se mi avesse sorpreso mentre cercavo di giocargli un brutto tiro. Ha cominciato col mettere in discussione l’autenticità della lettera, dicendo che potevo averla scritta io, o che dopo tutti questi anni Gerald Woolley poteva essere in combutta con me. Non mi sono neanche preso il disturbo di ribattere: gli ho detto solo che poteva pensarla come gli pareva e che se voleva ancora andare avanti e pubblicare il pezzo era una sua scelta, ma che poteva aspettarsi una robusta reazione da parte mia. A questo punto era paonazzo. ‘La mostrerò all’ufficio legale, se questo la fa sentire più a suo agio,’ dice, sempre cercando di mostrarsi convinto che non servirà a niente. Gli ho detto che non gli avrei lasciato l’originale, ma che poteva fare una copia, se voleva. Lui ha risposto che allora non si sarebbe nemmeno preso quella briga, poiché me l’aveva proposto solo nel mio interesse. Mi sono alzato per andarmene, per costringerlo a mettere le carte in tavola. Gli avevo appena voltato le spalle quando l’ho sentito dire con quella sua voce strozzata: ‘D’accordo. Faremo una copia.’ Ed è quello che abbiamo fatto. Dopodiché non ho più avuto sue notizie. In effetti, da allora non ho sentito una parola. Evidentemente è troppo stronzo per dirmi che hanno ritirato il pezzo. Ma è così.”

“Come lo sai?”

“Me l’ha detto Julia.”

“Cosa?”

“Sì. Mi ha telefonato a casa dei miei un paio di giorni dopo: Sauer doveva averla informata della mia visita. L’ho riconosciuta immediatamente anche se dalla voce sembrava che ne avesse passate tante, come senza dubbio dev’essere successo.”

S’interruppe, guardando nel vuoto, come se all’improvviso avesse perso il filo. O forse era soltanto sfinito.

“Cos’ha detto?” chiesi.

“Oh, non ricordo bene. Qualcosa sul fatto che ero vendicativo, che volevo distruggere la sua unica possibilità di tornare in gioco, non so. Non era molto coerente.”

“Avrà saputo che l’articolo non ti piaceva…”

Alzò le spalle.

“Credo che non l’avesse considerato dal mio punto di vista. Forse Sauer non le aveva mai detto che avrei dato battaglia. Anche se l’ha convinta a cambiare quella riga. Be’, chissà. Comunque, è così che ho saputo che avevano ritirato il pezzo.”

“Dev’essere stato strano, parlare con lei dopo tutti questi anni…”

“Stranissimo.”

“Era… era arrabbiata solo perché le hai impedito di essere pubblicata o era ancora per via, insomma, dell’accusa?”

Per un attimo mi sembrò irritato, ma poi annuì con aria cupa come per riconoscere che aveva l’obbligo di soddisfare la mia curiosità. Dopotutto, mi aveva nominato suo revisore dei conti ufficiale.

“Be’, tutte e due le cose,” disse, schiarendosi la voce.

“Quindi ne avete parlato? Dell’accusa?”

“Insomma, niente di nuovo. Ha detto che quello che aveva scritto era vero e che aveva il diritto di pubblicarlo, e io le ho risposto che non era vero e che non ne aveva il diritto. In fondo è tutto qui.” Strinse le labbra, respirando attraverso il naso, e i suoi tratti forti esprimevano la dignità offesa che ero arrivato a riconoscere come il suo modo di mostrare che soffriva. Dopo un momento, soggiunse:

“Ma sentirglielo dire, sentire proprio la sua voce dirmi all’orecchio che le avevo fatto fare una cosa che non voleva fare è stato diverso che leggerlo nell’e-mail di Sauer.”

“Vuoi dire che è stato più… vero?”

“Qualcosa del genere.” Mi guardò con un gelido sorriso. “Ha riattaccato prima che potessimo approfondire.”

La cameriera venne a riempirci i bicchieri, e lui fece una pausa, osservandola con distacco calcolatore mentre mesceva e si ritirava.

“Guarda,” disse, “non mi dà proprio nessuna soddisfazione l’idea che Julia sia così sconvolta, per quanto abbia parlato male di me. Te lo assicuro.”

Gli credevo, e lo dissi.

“D’altra parte,” disse, “battere Sauer dopo il fango che mi ha tirato addosso… è stato un piacere sublime!”

Alzai il bicchiere. Non ero certo di avere colto tutte le sfumature della sua conversazione con Julia, ma sentivo di averlo spinto fin dove era possibile senza rovinare l’atmosfera.

“Be’, alla vittoria,” dissi.

“Alla vittoria!”

Finimmo la bottiglia e Marco ordinò crème brûlée e gorgonzola con vin santo e poi un grappino. Avevo bevuto più di quanto volessi, ma stavo cominciando ad avvertire un ritorno di quell’irrazionale reazione negativa che avevo avuto quando mi aveva dato la notizia, e pensavo che l’alcool potesse aiutarmi a reprimerla. Non capivo questa mia latente animosità. Era stato accusato ingiustamente. Si era difeso: aveva respinto da solo gli attacchi di un giornale a diffusione nazionale, e vinto. Perché dovevo lesinargli il suo senso di trionfo? Non potevo dire di aver motivo di dubitare della sua versione dei fatti. E non ne dubitavo. Sentivo solo qualche resistenza a rallegrarmi della vittoria. Avevo forse fatto mio l’atteggiamento mentale del campus, mi chiedevo, con le sue tediose, interminabili sottigliezze d’ansietà in materia di potere e privilegio? Sospettavo che fosse questo il caso: queste attitudini virtuose hanno un modo d’insinuarsi anche se opponi resistenza, come se l’atto stesso di resistere creasse le strade di cui hanno bisogno per impiantarsi nella tua psiche.

Tornammo a casa sua. Fumò un sigaro nel suo mezzo soggiorno con quei mobili male assortiti da mercatino dell’usato e gli strani resti di preziosi pannelli di legno. (Aveva comprato l’edificio, che era stato tutto diviso in labirinti di stanzette a ogni piano molto tempo prima della riqualificazione del quartiere, ed era deciso a non riportarlo alla sua condizione originaria altoborghese, né a tirarlo a lucido in altri modi.)

Mi scusai appena potei farlo con garbo, e barcollando andai di sopra, dove avevo tutto il piano, spartanamente arredato, a mia disposizione. Passando davanti alla sua camera da letto al primo piano notai parecchie paia di stivaletti di cuoio, tutti con la punta elegantemente affusolata come per trasmettere un’idea di locomozione inseparabile da quella dell’impalamento, allineati a coppie contro il muro, e fui assalito da un piacere meschino, di cui preferii non indagare troppo da vicino l’ostilità. Mi sentivo satollo, gonfio, non soltanto di cibo e bevande, ma di pensieri fitti e incoerenti. Appena a letto cominciò a girarmi la testa. Il soffitto s’inclinava minaccioso. Tornai a vedere con grande chiarezza davanti a me il viscoso sugo arancione sulla mia pasta e pensai per un attimo di stare per vomitare la nostra cena celebrativa. La tenni giù per un pelo, vinto dal ben più forte bisogno di dormire.

7