LA SOVRANA LETTRICE
Alan Bennett
Adelphi
A Windsor quella sera c'era il banchetto ufficiale, e mentre il presidente francese si affiancava a Sua Maestà la famiglia reale si schierò alle loro spalle, e la processione si avviò lentamente verso la sala Waterloo.
«Adesso che possiamo parlarle a quattrocchi,» disse la regina sorridendo a destra e a sinistra mentre avanzavano fra gli ospiti sfolgoranti «vorremmo tanto chiederle la sua opinione sullo scrittore Jean Genet».
«Ah» disse il presidente. «Oui».
La Marsigliese e l'inno nazionale li costrinsero a interrompersi, ma una volta seduti Sua Maestà riprese da dove era rimasta.
«Omosessuale e avanzo di galera... ma era davvero come l'hanno dipinto? E il suo talento» e sollevò il cucchiaio da consommé «era davvero così straordinario?».
Non essendo stato ragguagliato sul glabro drammaturgo e romanziere, il presidente si guardò attorno stravolto in cerca del ministro della Cultura. Ma costei era immersa in conversari con l'arcivescovo di Canterbury.
«Jean Genet,» ripetè premurosa la regina «vous le connaissez ?».
«Bien sûr» disse il presidente.
«Il nous intéresse» ribadì Sua Maestà.
«Vraiment?».
Il presidente posò il cucchiaio. Lo attendeva una lunga serata.
Fu tutta colpa dei cani. Di norma, dopo aver scorrazzato in giardino salivano da veri snob i gradini dell'ingresso principale, e generalmente li faceva entrare un valletto in livrea.
E invece quel giorno, per qualche ragione, si precipitarono di nuovo giù dai gradini, girarono l'angolo e la regina li sentì abbaiare a squarciagola in uno dei cortili.
La biblioteca circolante del distretto di Westminster, un grande furgone come quelli dei traslochi, era parcheggiata davanti alle cucine. Era un'ala del palazzo che a Sua Maestà non era molto familiare, e certo non aveva mai visto la biblioteca parcheggiata lì, vicino ai bidoni della spazzatura, e neppure l'avevano mai vista i cani, il che spiegava tutto quel baccano; così la regina, non essendo riuscita a zittirli, salì gli scalini del furgone per andare a scusarsi.
L'autista, seduto di spalle, stava attaccando un'etichetta su un libro, e sembrava che l'unico frequentatore della biblioteca fosse un ragazzo magrolino coi capelli rossi e un grembiule bianco, che leggeva rannicchiato nel passaggio. Poiché nessuno dei due aveva notato la nuova arrivata, lei tossicchiò e disse:
«Mi spiace per questo tremendo chiasso». Al che l'autista si alzò di scatto e batté la testa contro lo scaffale dei Dizionari, mentre il ragazzo balzò a sua volta in piedi ribaltando Fotografia & Moda.
La regina si affacciò allo sportello. «Zitte, sciocche creature» disse; una mossa mirata a dare all'autista-bibliotecario il tempo di ricomporsi e al ragazzo di raccogliere i libri, come puntualmente accadde. Poi aggiunse:
«Non l'abbiamo mai vista da queste partì, signor...».
«Hutchings, Maestà. Tutti i mercoledì, signora».
«Davvero? Ne eravamo all'oscuro. Viene da lontano?».
«Solo da Westminster, Maestà».
«E lei...?» domandò rivolta al ragazzo.
«Norman, Maestà. Seakins».
«E dove lavora?».
«Nelle cucine, Maestà».
«Oh. Lei ha molto tempo per leggere?».
«Non proprio, Maestà».
«Nemmeno noi, sa. Anche se adesso che siamo qui, immaginiamo sia il caso di prendere in prestito un libro».
Il signor Hutchings sorrise con aria premurosa.
«Ci saprebbe dare un consiglio?» disse la regina.
«Cosa le piace, Maestà?».
La regina esitò, perché a dire il vero non lo sapeva. Non aveva mai avuto molto interesse per la lettura. Leggeva, naturalmente, ma la passione per i libri la lasciava agli altri. Era un hobby e la natura del suo mandato non prevedeva hobby. Il jogging, il giardinaggio, gli scacchi, l'alpinismo, l'aeromodellismo, la decorazione delle torte... No. Gli hobby implicavano predilezioni e le predilezioni andavano evitate; prediligere significava anche escludere. Quindi lei non prediligeva. Il suo mandato le richiedeva di manifestare interesse, non di provarlo. Inoltre, leggere non era agire, e lei era una donna d'azione. Così perlustrò con lo sguardo il furgone tappezzato di libri e temporeggiò. «Occorre una tessera per prendere libri in prestito?».
«Non c'è problema» disse il signor Hutchings.
«Noi siamo in pensione» dichiarò la regina, non sapendo bene se facesse differenza. «Può prendere in prestito fino a sei libri, Maestà».
«Sei? Oh, santo cielo!».
Intanto il ragazzo coi capelli rossi aveva fatto la sua scelta e diede il libro al bibliotecario perché timbrasse le schede all'interno. Sempre per prendere tempo, la regina guardò il volume.
«Cos'ha scelto, signor Seakins?» aspettandosi, be', non sapeva cosa - ma non quello. «Oh. Cecil Beaton. L'ha conosciuto?».
«No, Maestà».
«Già, certo, lei è troppo giovane. Veniva sempre qui a fare foto. Un po' prepotente. Si metta lì, si metta là. Clic, clic. E adesso c'è un libro su di lui?».
«Diversi, Maestà».
«Davvero? Si vede che prima o poi scrivono un libro su tutti quanti».
Lo sfogliò. «Ci sarà un mio ritratto da qualche parte. Eccolo qui. Però lui non faceva solo il fotografo, disegnava anche scenografie. Oklahoma, cose del genere».
«Penso che fosse My Fair Lady, Maestà».
«Ah sì?» disse la regina, poco avvezza a esser contraddetta.
«Dove ha detto che lavora, lei?». Rimise il libro nelle manone arrossate del ragazzo.
«Nelle cucine, Maestà».
La regina non aveva ancora risolto il suo problema; andandosene a mani vuote, temeva di dare al signor Hutchings l'impressione che la biblioteca fosse in qualche modo carente. Poi, su uno scaffale di volumi piuttosto consunti, vide un nome che ricordava. «Ivy Compton-Burnett! Posso leggere questo». Prese il libro e lo diede al bibliotecario perché lo timbrasse.
«Che bellezza!». Prima di aprirlo lo tenne in mano senza convinzione. «Oh. L'ultimo prestito risale al 1989».
«Non è un'autrice popolare, Maestà».
«E come mai? L'ho nominata Dama».
Il signor Hutchings si trattenne dal dire che non era necessariamente quella la via per arrivare al cuore del pubblico.
La regina guardò la foto sulla quarta di copertina. «Sì. Mi ricordo quella pettinatura, come la crosta di una torta che le cingeva la testa». Sorrise e il signor Hutchings capì che la visita era terminata. «Arrivederci».
Il bibliotecario chinò il capo come gli avevano detto di fare nel caso si fosse presentata una simile evenienza, e la regina si diresse verso il giardino mentre i cani riprendevano ad abbaiare furiosamente. Norman, Cecil Beaton alla mano, aggirò qualcuno che stava fumando una sigaretta vicino ai bidoni e rientrò nelle cucine.
Mentre chiudeva il furgone e si allontanava, il signor Hutchings rifletté che un romanzo di Ivy Compton-Burnett era una lettura piuttosto difficile. Lui si era sempre arenato, e pensò, a ragione, che prendere in prestito un suo libro fosse stata una sorta di gentilezza. La apprezzò: il Comune minacciava sempre di tagliare i fondi alla biblioteca, e la visita di una cliente così illustre (o utente, come dicevano loro) non gli avrebbe certo nuociuto.
«Abbiamo una biblioteca circolante» disse la regina al marito quella sera. «Viene tutti i mercoledì».
«Ma che bellezza».
«Ti ricordi Oklahoma?».
«Sì. L'abbiamo visto quando eravamo fidanzati» disse lui. Era incredibile, pensò, che bel ragazzo biondo era a quei tempi.
«Le scene erano di Cecil Beaton, o sbaglio?» disse la regina.
«Non ho idea. Mi è sempre stato antipatico. Con quelle scarpe verdi».
«Sapeva di buono».
«Cos'è quello?».
«Un libro. L'ho preso in prestito».
«Morto, immagino».
«Chi?».
«Quel Beaton».
«Eh sì. Sono morti tutti».
«Bel musical, però».
E il marito se ne andò a letto cantando mestamente «Oh, what a beautiful morning» mentre la regina apriva il libro.
La settimana successiva Sua Maestà pensava di far restituire il libro da una dama di compagnia, ma si trovò nelle grinfie del segretario privato, che la costringeva a esaminare l'ordine del giorno molto più in dettaglio di quanto le sembrasse necessario; così troncò la discussione di una visita a un centro studi sulla viabilità e dichiarò di punto in bianco che era mercoledì e doveva andare a cambiare il libro alla biblioteca circolante. Il segretario privato, Sir Kevin Scatchard, un diligentissimo neozelandese dal quale ci si aspettavano grandi cose, rimase a raccogliere le sue carte chiedendosi perché mai a Sua Maestà servisse una biblioteca circolante quando ne possedeva già tante di stanziali.
Senza i cani quella visita fu molto più tranquilla, ma Norman era di nuovo l'unico utente.
«Come l'ha trovata, Maestà?» chiese il signor Hutchings.
«Dama Ivy? Un po' noiosa. E parlano tutti nello stesso modo, ci ha fatto caso?».
«A esser sincero, non ho mai superato le prime pagine. Lei dov'è arrivata, Maestà?».
«Oh, fino in fondo. Quando cominciamo un libro lo finiamo. Ci hanno educate così. Libri, purè, pane e burro: bisogna finire quello che c'è nel piatto. È la nostra filosofia da sempre».
«Non occorreva restituire il libro, Maestà. Siamo in fase di ridimensionamento e tutti i libri su quello scaffale si possono prendere gratis».
«Intende dire che possiamo tenerlo?». La regina si strinse il volume al petto. «Abbiamo fatto proprio bene a venire. Buongiorno, signor Seakins. Sempre Cecil Beaton?».
Norman le mostrò il libro che stava consultando, questa volta era David Hockney. Sua Maestà lo scorse, fissando impassibile i sederi di giovanotti che escono da piscine californiane o stanno distesi insieme su letti sfatti.
«Ce n'è qualcuno» disse la regina «che sembra incompiuto. Questo per esempio è proprio sbavato».
«Penso che fosse il suo stile di quel periodo, Maestà» disse Norman. «E un disegnatore eccellente».
La regina guardò di nuovo Norman. «Lei lavora nelle cucine?».
«Sì, Maestà».
La regina non aveva intenzione di prendere in prestito un altro libro, ma trovandosi lì decise che era più semplice farlo, anche se non aveva le idee più chiare della settimana precedente. La verità è che non aveva nessuna voglia di leggerne un altro, e certo non uno di Ivy Compton-Burnett, che era davvero troppo impegnativa.
Fu quindi una fortuna che quel giorno le cadesse l'occhio su una ristampa di Inseguendo l'amore di Nancy Mitford. La regina lo sfilò dallo scaffale. «Vediamo. Ma era sua sorella che aveva sposato quel fascista?».
Il signor Hutchings disse che pensava di sì.
«L'altra sorella invece era la mia guardarobiera personale».
«Questo non lo sapevo, Maestà».
«Oh, sì. E anche damigella d'onore al mio matrimonio».
«Nancy Mitford?».
«No, no. La sorella».
Era raro imbattersi in romanzi così ben introdotti in società, e la regina si sentì rassicurata; così allungò fiduciosa il libro al signor Hutchings per il timbro.
Inseguendo l'amore si rivelò un'ottima scelta, a suo modo determinante. Se Sua Maestà si fosse orientata su un altro macigno, per esempio un romanzo giovanile di George Eliot o uno degli ultimi di Henry James, nella sua qualità di novizia avrebbe potuto scoraggiarsi per sempre e la faccenda si sarebbe chiusa lì. Avrebbe pensato che leggere era un lavoro.
Invece fin dalle prime pagine il romanzo della Mitford la coinvolse tanto che quella sera il duca, passando davanti alla sua stanza con la borsa dell'acqua calda, la sentì sbellicarsi dal ridere, e pensò bene di affacciarsi alla porta.
«Tutto bene, vecchia mia?».
«Certo. Sto leggendo».
«Di nuovo?». E il duca se ne andò scuotendo la testa.
La mattina dopo Sua Maestà aveva il naso chiuso ed essendo libera da impegni disse che rimaneva a letto perché sentiva i primi sintomi dell'influenza. Non era da lei e non era neanche vero; ma così poteva continuare a leggere il suo libro.
«La regina ha un leggero raffreddore» fu la notizia ufficiale comunicata alla nazione. Non lo sapeva nemmeno Sua Maestà, ma quello fu il primo di una serie di compromessi, non sempre di poco conto, che la lettura avrebbe comportato.
Il giorno dopo la regina tenne una delle consuete sedute con il suo segretario privato. L'argomento erano quelle che oggi si chiamano risorse umane.
«Ai miei tempi» la regina aveva una volta informato il segretario «si chiamava il personale». Ma non era vero: si chiamava «la servitù». Stavolta glielo disse, sapendo che avrebbe avuto da eccepire.
«L'uso di quella parola potrebbe venire frainteso, Maestà» disse Sir Kevin. «È bene non recare offesa al popolo. "Servitù" trasmette un messaggio sbagliato».
«Risorse umane» disse la regina «non trasmette proprio niente. Perlomeno a me. E comunque, già che siamo in argomento, vorrei promuovere una risorsa umana attualmente di servizio nelle cucine, o comunque portarla ai piani superiori».
Sir Kevin non aveva idea di chi fosse Seakins ma, dopo aver consultato diversi sottoposti, alla fine lo individuò.
«Innanzitutto» aveva detto Sua Maestà «non capisco cosa ci faccia uno come lui in cucina. Si vede subito che è un ragazzo intelligente».
«Non è abbastanza carino» disse poi l'attendente, ma al segretario privato, non alla regina.
«Mingherlino e pel di carota. Per carità!».
«Se piace a Sua Maestà...» disse Sir Kevin. «Lo vuole al suo piano».
E fu così che Norman si trovò affrancato dal lavaggio dei piatti per ricoprire il ruolo di cameriere personale della regina. Dopo che gli fu adattata (con qualche difficoltà) un'uniforme da paggio, ricevette l'incombenza, com'era prevedibile, di occuparsi della biblioteca.
Il mercoledì successivo la regina aveva un impegno (esibizione ginnica a Nuneaton), e diede a Norman la sua Nancy Mitford da restituire. Le pareva che ci fosse un seguito, e voleva leggerlo; inoltre, gli disse di sceglierle lui un altro volume.
Quell'incarico mise Norman un po' in apprensione. Leggeva, sì, ma era sostanzialmente un autodidatta, e di solito si orientava verso autori gay. È vero che il campo era piuttosto vasto, ma come criterio era un po' limitativo, soprattutto se si trattava di scegliere un libro per qualcun altro; figurarsi per la regina.
Nemmeno il signor Hutchings seppe aiutarlo molto; ma quale possibile argomento di interesse gli suggerì i cani. A Norman venne in mente un libro che aveva letto e poteva fare al caso suo: La mia cagna Tulip di J.R. Ackerley. Il signor Hutchings era titubante, e osservò che l'autore era gay.
«Ah sì?» disse Norman con aria innocente. «Non me n'ero accorto. Ma la regina penserà solo alla storia del cane».
Norman portò su i libri al piano della regina e, poiché era stato invitato a farsi vedere il meno possibile, all'arrivo del duca si nascose dietro una vetrinetta stile boulle.
«Oggi pomeriggio ho visto un essere straordinario» riferì in seguito il duca alla regina. «Uno stecco rosso di cameriere».
«Si chiama Norman» tenne a precisare la regina. «L'ho incontrato alla biblioteca circolante. Prima lavorava nelle cucine».
«Non mi stupisce».
«È molto intelligente» disse Sua Maestà.
«Per forza. Brutto com'è».
«Tulip» disse più tardi la regina a Norman. «Che strano nome per una cagna».
«La storia è romanzata, Maestà, ma l'autore una cagna ce l'aveva veramente, un pastore tedesco».
(Non le disse che si chiamava Reginetta). «Quindi fuor di finzione è un libro autobiografico».
«Oh,» disse la regina «ma perché fingere?».
Norman penso che 1 avrebbe scoperto leggendo il libro, ma lo tenne per sé.
«Tutti i suoi amici detestavano quella cagna, Maestà».
«Ci siamo passati tutti» disse lei, e Norman annuì con aria solenne, perché anche i cani reali erano generalmente invisi. La regina sorrise. Che fortuna aver trovato Norman! Sapeva di incutere soggezione; pochi domestici riuscivano a essere spontanei con lei. Ma Norman, per quanto strambo, era solo e soltanto se stesso. Una vera rarità.
Sua Maestà avrebbe moderato l'entusiasmo se avesse saputo che Norman non era intimidito perché la vedeva talmente decrepita che il suo status finiva per essere cancellato dal peso degli anni. Sarà anche stata la regina, ma era pur sempre una vecchietta, e dato che la prima esperienza lavorativa di Norman era stata in un ospizio di Tyneside, gli anziani gli apparivano ben poco temibili. La regina era la sua principale, ma per lui era quasi una paziente, e andava blandita sia come paziente sia come regina. Salvo poi ricredersi quando si rese conto di quant'era sveglia, e quanto sprecata.
Ma Sua Maestà era anche molto convenzionale, e quando aveva cominciato a leggere aveva ritenuto di doverlo fare, almeno in parte, nel luogo deputato, vale a dire la biblioteca. Ma anche se si chiamava così e le pareti erano tappezzate di libri, era rarissimo che qualcuno vi andasse a leggere. Lì si proclamavano ultimatum, si disegnavano confini, si compilavano libri di preghiere e si decidevano matrimoni, ma per chi volesse raccogliersi a leggere un libro, la biblioteca non era il posto giusto. Non era facile allungare la mano e prendere un libro, nemmeno dai cosiddetti scaffali aperti, che in realtà erano sequestrati dietro grate dorate chiuse a chiave. Il fatto che molti di essi fossero di valore inestimabile costituiva un ulteriore deterrente. No, se proprio si voleva leggere, meglio farlo in un posto non allestito allo scopo. Così la regina si sentì legittimata a tornarsene ai piani superiori.
Dopo aver finito anche il seguito di Nancy Mitford, Amore in climi freddi, la regina esultò nell'apprendere che ce n'erano altri; alcuni sembravano un po' datati, ma li inserì ugualmente nella lista di letture (appena iniziata) che teneva nello scrittoio. Nel frattempo andò avanti con il libro che le aveva preso Norman, La mia cagna Tulip di J.R. Ackerley. (Chissà se aveva mai incontrato l'autore? Le pareva di no). Il libro le piacque, se non altro perché, come le aveva detto Norman, il cane di cui si narrava era ancora più pestifero dei cani reali e quasi altrettanto inviso. Vedendo che Ackerley aveva scritto anche un'autobiografia, la regina chiese a Norman di andarla a prendere in prestito alla London Library. Sua Maestà patrocinava la biblioteca, ma non ci aveva quasi mai messo piede; figurarsi Norman, che però tornò pieno di meraviglia e di entusiasmo. Quel luogo era un pezzo d'antiquariato, il tipo di biblioteca di cui aveva letto sui libri e che si era immaginato relegata al passato. Aveva vagato in quel labirinto di scaffalature senza capacitarsi che tutti quei libri fossero lì perché lui (o piuttosto Lei) potessero prenderli in prestito a proprio piacimento. Il suo entusiasmo fu talmente contagioso che Sua Maestà meditò di accompagnarlo la volta successiva.
La regina lesse il racconto della vita di Ackerley; provò una modica sorpresa nell'apprendere che, pur lavorando per la BBC, era omosessuale; le pareva che nell'insieme la sua vita doveva esser stata triste. Il suo cane la incuriosiva, anche se la sconcertavano le intimità quasi veterinarie che l'autore elargiva alla creatura. Si stupì anche che le guardie reali si concedessero così di buon grado come rivelava il libro, e a prezzi davvero ragionevoli. A corte ce ne erano parecchie, di guardie reali, e le sarebbe piaciuto saperne di più, ma nonostante la curiosità non si sentì di far domande.
Nel libro compariva anche E.M. Forster, con cui la regina ricordava di aver passato un'impacciata mezzora conferendogli il titolo di Companion of Honour. Timido e con la faccia da topo, aveva detto due parole in tutto e con una vocina talmente sommessa che le era stato quasi impossibile comunicare con lui. Ma quell'uomo riservava delle sorprese. Seduto con le dita intrecciate come un personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie, non lasciò trapelare cosa gli passasse per la testa: così Sua Maestà, leggendo la sua biografia, fu piacevolmente sorpresa nello scoprire che, molto tempo dopo, Forster aveva dichiarato che se la regina fosse stata un ragazzo si sarebbe innamorato di lei.
Naturalmente Forster non avrebbe potuto dirglielo di persona, questo la regina lo capiva, ma più leggeva più le rincresceva intimidire tanto le persone; le sarebbe piaciuto che gli scrittori, in particolare, avessero il coraggio di dirle quello che poi avrebbero scritto. Stava anche scoprendo che un libro tira l'altro; ovunque si voltava si aprivano nuove porte e le giornate erano sempre troppo corte per leggere quanto avrebbe voluto.
Ma era dispiaciuta, e anche mortificata, al pensiero di tutte le occasioni che si era lasciata sfuggire. Da bambina aveva incontrato Masefield e Walter de la Mare; era ovvio che allora non potesse avere molto da dirgli, ma si era trovata davanti anche T.S. Eliot, oltre a Priestley, Philip Larkin e perfino Ted Hughes. Per Hughes si era presa una piccola cotta, anche se lui non era riuscito a spiccicare una parola in sua presenza. Ed era andata così perché all'epoca aveva letto talmente poco di quello che avevano scritto da non avere argomenti; e loro del resto non avevano detto molto che avesse suscitato il suo interesse. Che spreco!
La regina fece l'errore di lamentarsene con Sir Kevin.
«Ma qualcuno l'avrà pure ragguagliata, Maestà?».
«Certamente,» disse la regina «ma ragguagliare non è leggere. Anzi, è l'esatto contrario. Il ragguaglio è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante.
Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre».
«Se mi consente, sarebbe il caso di tornare alla visita al calzaturificio, Maestà» disse Sir Kevin. «La prossima volta» tagliò corto la regina. «Dove ho messo il mio libro?».
Adesso che aveva scoperto le gioie della lettura, Sua Maestà era impaziente di trasmetterle agli altri.
«Lei legge, Summers?» chiese all'autista sulla strada per Northampton.
«Se leggo, Maestà?».
«Libri».
«Quando posso, Maestà. Non è che abbia molto tempo».
«Dicono tutti così. Ma il tempo bisogna ritagliarselo. Prenda stamattina: dovrà star seduto ad aspettarmi fuori dal municipio. Potrebbe approfittarne per leggere».
«Devo sorvegliare l'auto, Maestà. Quelle sono le Midlands. Il vandalismo è all'ordine del giorno».
Non appena la regina fu consegnata incolume nelle mani del rappresentante della Corona, Summers fece un giro precauzionale attorno all'auto prima di accomodarsi sul sedile. Leggere? Certo che leggeva. Tutti leggono. Aprì il vano portaoggetti e prese la sua copia del «Sun».
Altri, specialmente Norman, erano più disponibili, e la regina non gli nascondeva l'inadeguatezza del proprio bagaglio culturale.
«Lo sa,» gli disse un pomeriggio mentre leggevano nel suo studio «lo sa dov'è che potrei veramente eccellere?».
«No, Maestà».
«Nei quiz a premi dei pub. Sono stata ovunque, ho visto tutto e anche se posso avere delle lacune nella musica pop e in certi sport, quando si tratta della capitale dello Zimbabwe, per esempio, o delle principali esportazioni del New South Wales, non ne sbaglio una».
«E al pop potrei pensarci io» disse Norman.
«Sì. Saremmo una bella squadra. Vediamo un po'. La strada non presa. Chi era?».
«Chi, Maestà?».
«La strada non presa. Vada a vedere».
Norman consultò il Dizionario delle citazioni e scoprì che era Robert Frost. «Adesso so come definire la sua figura professionale» disse la regina.
«Maestà?».
«Lei fa le commissioni, va a cambiare i miei libri in biblioteca, cerca le parole difficili sul dizionario e mi trova le citazioni. Lo sa cos'è?».
«Io ero uno sguattero, Maestà».
«Be', adesso non lo è più. Lei è il mio factotum».
Norman cercò la parola sul dizionario che adesso la regina teneva sempre sullo scrittoio. «Persona che svolge varie mansioni godendo della piena fiducia del datore di lavoro».
Il nuovo factotum aveva una sedia in corridoio, vicino all'ufficio di Sua Maestà, e quando non era di servizio o in giro per commissioni, passava il tempo a leggere. Il che lo mise in cattiva luce con gli altri paggi, che lo consideravano uno scansafatiche non abbastanza bello per quel ruolo così ambito. Ogni tanto un attendente di passaggio si fermava a chiedergli se non avesse niente di meglio da fare, e le prime volte Norman rimase interdetto. Poi però si mise a dire che leggeva dei libri per Sua Maestà; spesso era vero, ma anche abbastanza irritante da lasciare l'attendente di umor nero.
Con il fatto che leggeva sempre di più, la regina ora prendeva in prestito i libri da varie biblioteche, comprese alcune delle sue, ma per ragioni sentimentali e per simpatia nei confronti del signor Hutchings, saltuariamente si avventurava ancora nel cortile delle cucine per visitare la biblioteca circolante.
E tuttavia un mercoledì pomeriggio vide che non c'era, e lo stesso accadde anche la settimana successiva. Norman fu subito incaricato di informarsi, e venne a sapere che la sosta a palazzo era stata annullata per via dei tagli. Alla fine riuscì a rintracciare il furgone nel cortile di una scuola di Pimlico, dove l'imperterrito Hutchings stava attaccando etichette sui libri. Fu lui a informare Norman di aver segnalato all'Assessorato che Sua Maestà era annoverata fra gli utenti, ma in Comune la notizia non aveva fatto né caldo né freddo; del resto, prima di cancellare le visite avevano negato di avere un qualsivoglia interesse per quel servizio.
Quando Norman, molto scandalizzato, raccontò questa storia alla regina, lei non fece una piega. Non disse niente, ma questo confermava i suoi sospetti: cioè che a palazzo leggere libri, perlomeno se lo faceva lei, non era ben visto.
La perdita della biblioteca circolante fu un piccolo incidente di percorso, che comunque condusse a un lieto fine: il signor Hutchings si vide incluso nel successivo elenco di destinatari di onorificenze, a dire il vero in una posizione un po' marginale, ma pur sempre enumerato fra coloro che avevano reso uno speciale servigio a Sua Maestà. Nemmeno questo fu ben visto, in particolare da parte di Sir Kevin.
Era inevitabile che Sir Kevin Scatchard, neozelandese di nascita, fin dal momento della nomina - di per sé eccentrica - fosse stato acclamato dalla stampa come una ventata d'aria nuova, un tipo giovan(il)e che avrebbe spazzato via un po' dell'atmosfera ingessata e dei ridicoli salamelecchi che caratterizzavano la monarchia. A questo proposito la Corona veniva descritta come il banchetto di nozze della signorina Havisham in Grandi speranze: i lampadari coperti di ragnatele, la torta infestata dai topi, e Sir Kevin nel ruolo del signor Pip che strappa via le tende marce per far entrare la luce. La regina, essendo stata anche lei, a suo tempo, una boccata d'aria fresca, non la vedeva così, e sospettava che quell'uragano degli antipodi si sarebbe presto placato da sé. I segretari privati, come i primi ministri, andavano e venivano; quanto a Sir Kevin, Sua Maestà aveva la sensazione di rappresentare un mero trampolino di lancio verso le vette aziendali cui era palesemente orientato. Si era laureato alla Harvard Business School e uno degli obiettivi che aveva pubblicamente dichiarato era di rendere la monarchia più accessibile («esporre la nostra merce» diceva lui).
L'apertura di Buckingham Palace ai visitatori era stato un passo in quella direzione, così come l'uso del giardino per qualche concerto di musica classica, pop e altro. La lettura, però, lo innervosiva.
«Sono del parere, Maestà, che sebbene leggere non sia propriamente un fatto elitario, trasmetta il messaggio sbagliato. Direi di esclusione».
«Di esclusione? Ma non sanno leggere quasi tutti?».
«Che sappiano leggere non c'è dubbio, Maestà, ma non sono sicuro che lo facciano».
«Benissimo, Sir Kevin, allora diciamo che sto dando il buon esempio».
La regina sorrise con dolcezza, notando che ultimamente Sir Kevin era molto meno neozelandese di quand'era fresco di nomina. Adesso nel suo accento c'era solo una vaga traccia di quelle origini che Sua Maestà sapeva di non dovergli rammentare per non urtare la sua suscettibilità (glielo aveva detto Norman).
Un altro tasto delicato era il suo nome di battesimo. Il segretario privato lo viveva come un fardello: fosse dipeso da lui, Kevin non era certo il nome che si sarebbe scelto e il fatto di detestarlo lo rendeva molto più conscio del numero di volte che lo usava Sua Maestà, anche se lei non poteva sapere quanto fosse degradante per lui. Cioè, lo sapeva benissimo (sempre per via di Norman), ma il nome di chiunque per lei non aveva la minima importanza, come tutto il resto: l'abbigliamento, la voce, la classe sociale. La regina era un'autentica democratica, forse l'unica del paese.
Sir Kevin invece pensava che lei non avesse motivo di usare il suo nome così spesso, e certe volte aveva la netta impressione che Sua Maestà lo pronunciasse alitandovi un soffio di Nuova Zelanda, terra di pecore e di domeniche pomeriggio. Del resto la regina, in qualità di capo del Commonwealth, l'aveva visitata diverse volte dichiarandosene entusiasta.
«È importante» disse Sir Kevin «che Sua Maestà non perda di vista gli obiettivi».
«Quando dice "non perdere di vista gli obiettivi", Sir Kevin, immagino intenda stare sulla palla. Be', dopo esserci stata per sessant'anni, penso di potermi guardare un po' intorno». La regina si accorse di aver un po' stiracchiato la metafora, ma tanto Sir Kevin non se ne era accorto.
«Capisco» disse lui. «Sua Maestà deve passare il tempo».
«Passare il tempo?» esclamò la regina. «I libri non sono un passatempo. Parlano di altre vite. Di altri mondi. Altro che far passare il tempo, Sir Kevin; non so cosa darei per averne di più. Per passare il tempo si può sempre andare in Nuova Zelanda».
Sentendo tirare in ballo due volte il proprio nome, e una volta la Nuova Zelanda, il segretario si ritirò offeso. In ogni caso aveva detto quello che pensava, e magari si sarebbe fregato le mani se avesse saputo che la regina ne era rimasta turbata: non capiva come mai, proprio in quella fase della sua vita, all'improvviso avesse sentito il richiamo dei libri. Da dove le veniva quella smania?
In fondo erano in pochi ad aver girato il mondo come lei. Si contavano sulle dita di una mano i paesi che non aveva visitato, le personalità che non aveva incontrato. Perché mai lei, che faceva parte del Gotha del mondo, adesso era allettata dai libri, che del mondo erano solo un riflesso, o una riproduzione? I libri? Lei aveva già visto le cose dal vero.
«Forse» disse a Norman «leggo perché sento di dover indagare la natura degli esseri umani», un'osservazione piuttosto trita che Norman non degnò di particolare attenzione; lui si sentiva esentato da quell'obbligo e leggeva per puro piacere e non per trarne una rivelazione. Parte del piacere, è vero, era la rivelazione, ma non aveva niente a che fare con il dovere.
Tuttavia, per una persona come la regina, il piacere era sempre venuto dopo il dovere. Se si sentiva in obbligo di leggere, poteva farlo con la coscienza pulita, col piacere, se ne provava, come valore aggiunto. Ma perché adesso la lettura la assorbiva così tanto? Non sottopose la questione a Norman, perché era evidente che c'entrava con chi era lei e con la posizione che ricopriva.
L'attrattiva della letteratura, rifletté, consisteva nella sua indifferenza, nella sua totale mancanza di deferenza. I libri se ne infischiavano di chi li leggeva; se nessuno li apriva, loro stavano bene lo stesso. Un lettore valeva l'altro e lei non faceva eccezione. La letteratura, pensò, è un commonwealth; le lettere sono una repubblica. In realtà quell'espressione, la repubblica delle lettere, l'aveva già sentita nei discorsi dei rettori, alle lauree ad honorem e simili, senza aver mai capito bene cosa significasse. All'epoca aveva ritenuto leggermente offensivo qualsiasi riferimento a una qualunque repubblica; se poi il riferimento avveniva in sua presenza, come minimo lo considerava una mancanza di tatto. Solo adesso afferrava il senso di quell'espressione. I libri non sono per nulla ossequiosi. Tutti i lettori sono uguali, e questo le risvegliò un ricordo di quand'era bambina.
Uno dei momenti più elettrizzanti della sua infanzia era stata la Notte della Vittoria, quando lei e sua sorella erano sgattaiolate fuori dai cancelli e si erano mescolate alla folla in incognito. Leggere le dava una sensazione simile: la gioia dell'anonimato; della condivisione; della normalità. Lei, che aveva vissuto una vita diversa dalle altre, scopriva di avere un estremo bisogno di tutto questo. Fra le pagine e dentro le copertine poteva passare inosservata.
Questi dubbi e interrogativi, però, se li pose solo all'inizio. Una volta preso l'avvio, la voglia di leggere non le sembrò più strana e i libri, a cui si era accostata con tanta cautela, a poco a poco divennero il suo elemento.
Una delle regali incombenze di Sua Maestà era l'apertura del Parlamento, un impegno che prima non le era mai sembrato gravoso; anzi, anche dopo cinquant'anni trovava piuttosto piacevole percorrere il Mall in landò un chiaro mattino d'autunno. Ma adesso non più. Paventava le due ore dedicate all'evento, anche se per fortuna stavolta si andava in carrozza e non in landò, così poteva portarsi il suo libro. Era diventata piuttosto brava a leggere e salutare contemporaneamente: il segreto era tenere il libro nascosto sotto il finestrino e concentrarsi sulle pagine e non sulla folla. Il duca naturalmente disapprovava, ma per lei - caspiterina! - era indispensabile.
E fin lì nessun problema, non fosse che appena salita in carrozza, con il corteo già schierato sulla spianata del palazzo e pronto a partire, Sua Maestà inforcando gli occhiali si rese conto di essersi dimenticata il libro. E mentre il duca si stizziva nel suo angolo, i postiglioni fremevano, e le bardature tintinnavano sui cavalli scalpitanti, Norman sentì squillare il telefonino. La Guardia reale rimase in riposo e la processione attese. Il maestro di parata guardò l'orologio. Due minuti di ritardo. Non si poteva fare peggior torto alla regina e costui non sapendo nulla del libro, temeva già ripercussioni. Ma ecco che arrivò Norman, zampettando sulla ghiaia con il libro saggiamente nascosto in uno scialle, e via che partirono.
Lungo il Mall, comunque, la coppia reale era di pessimo umore. Il duca salutava astioso da una parte, e la regina flemmatica dall'altra, e per giunta andando a velocità spedita, dato che la processione stava cercando di recuperare i due minuti.
Appena arrivarono a Westminster, Sua Maestà ficcò il libro clandestino dietro un cuscino della carrozza, pronto per il viaggio di ritorno, e mentre si sedeva sul trono e si imbarcava nel suo discorso, fece caso a quant'erano noiose le sciocchezze che era tenuta a propinare nell'unica occasione che aveva di leggere a voce alta alla nazione.
«Il mio governo farà questo... il mio governo farà quell'altro...»; era proprio scritto coi piedi, e talmente privo di stile o di interesse che le sembrava di sminuire l'atto stesso della lettura; senza contare che quell'anno la sua esibizione fu ancora più confusa del solito, tesa com'era anche lei a recuperare i due minuti.
Fu dunque con un certo sollievo che Sua Maestà risalì in carrozza e allungò una mano dietro il cuscino per prendere il suo libro. Non c'era. Salutando risoluta mentre si rimettevano fragorosamente in marcia, la regina tastò furtiva dietro gli altri cuscini.
«Non ti ci sei seduto sopra?».
«Sopra cosa?».
«Il mio libro».
«No. Guarda che ci sono i volontari con le sedie a rotelle. Saluta, per l'amor di Dio».
Quando arrivarono a palazzo la regina interpellò Grant, un giovane valletto che aveva seguito la parata, e venne a sapere che mentre Sua Maestà era alla Camera dei Lord la sicurezza aveva sguinzagliato i cani poliziotto e le aveva confiscato il libro. Grant riteneva che l'avessero fatto esplodere.
«Esplodere?» disse la regina. «Ma era Anita Brookner!».
Il giovane, decisamente poco ossequioso, disse che magari la sicurezza l'aveva scambiato per un ordigno.
E la regina: «Ma certamente. Perché lo è. Un libro è un ordigno per infiammare l'immaginazione».
«Sì, Maestà» fece l'altro.
Era come se parlasse con sua nonna, e ancora una volta la regina dovette prendere atto dell'ostilità che sembravano suscitare le sue letture.
«Benissimo» disse. «Allora mi faccia il piacere di informare la sicurezza che domani mattina mi aspetto di trovare sul mio scrittoio un'altra copia del libro, non brillata». Fece per andarsene ma si voltò. «In più, i cuscini della carrozza sono luridi. Guardi i miei guanti». «Porca puttana» disse il valletto, tirando fuori il libro dal davanti dei pantaloni dove gli avevano detto di nasconderlo. Con grande sorpresa generale, però, non venne rilasciata alcuna dichiarazione ufficiale sul ritardo del corteo.
L'avversione per le letture della regina non era circoscritta al personale di corte. Prima, quando portava i cani nel parco, li lasciava ruzzare sfrenatamente; ma di questi tempi Sua Maestà, non appena era nascosta alla vista dei suoi, si buttava a sedere dove le capitava e tirava fuori il suo libro. Di tanto in tanto gettava svogliatamente un biscotto ai cani, ma niente più lanci della palla o del bastone; fine della rituale frenesia che non mancava mai di allietare le loro scorrazzate. Seppur viziati e bisbetici, i cani non erano stupidi, perciò non stupì vederli, da quei bravi guastafeste che erano (da sempre), sviluppare un odio sviscerato per i libri.
Se capitava che alla regina cadesse un libro sul tappeto, ecco che arrivava subito un cane ansioso di balzarci sopra, scrollarlo come un topo e portarlo in un remoto angolo del palazzo, dove si potesse felicemente farlo a pezzi. Aveva fatto quella fine Ian McEwan, benché avesse vinto il premio James Tait Black, e perfino A.S. Byatt. Anche se la London Library era sotto il suo alto patrocinio, la regina si trovò diverse volte a scusarsi telefonicamente con il personale per la perdita dell'ennesimo volume.
I cani detestavano anche Norman, e, nella misura in cui il giovane era da ritenersi in parte responsabile dell'entusiasmo letterario della regina, nemmeno Sir Kevin ci teneva particolarmente a averlo intorno. Era anche irritato dalla sua costante prossimità: se da un lato Norman non era mai presente quando lui parlava con la regina, era sempre reperibile.
Da lì a due settimane era in programma una visita nel Galles. Stavano rivedendo ogni singolo punto (corsa in supertram, concerto di ukulele, visita al caseificio) quando Sua Maestà si alzò all'improvviso e andò a aprire la porta.
«Norman».
Sir Kevin sentì raschiare una sedia mentre il cameriere si alzava.
«Fra qualche settimana andiamo nel Galles».
«Che scalogna, Maestà».
La regina si voltò per sorridere a Sir Kevin che non sorrideva affatto.
«Norman è proprio sfacciato. Be', abbiamo letto Dylan Thomas, vero, e qualcosa di John Cowper Powys. E anche Jan Morris. Chi altro ci resta?».
«Potrebbe provare Kilvert, Maestà» disse Norman.
«Chi è?».
«Un vicario, Maestà. Dell'Ottocento. Viveva al confine con il Galles e ha scritto un diario. Gli piacevano le bambine».
«Oh,» disse la regina «come a Lewis Carroll».
«Peggio, Maestà».
«Cielo. Può procurarmi i diari?».
«Li aggiungo alla nostra lista, Maestà».
La regina chiuse la porta e tornò al suo scrittoio. «Vede, non può dire che non faccia i compiti, Sir Kevin».
Il segretario, che non aveva mai sentito nominare Kilvert, rimase impassibile. «Il caseificio è in una nuova zona industriale, l'hanno costruito su un terreno recuperato dalle miniere di carbone. Ha rivitalizzato l'intera zona».
«Oh, non ne dubito» disse la regina. «Ma deve ammettere che anche in questo caso la letteratura ha il suo peso».
«Non direi» ribatté Sir Kevin. «La fabbrica di fianco a quella dove Sua Maestà dovrà inaugurare la mensa produce componenti di computer». «Si canterà un po', vero?» disse la regina.
«Ci sarà un coro, Maestà».
«In genere non manca».
Sir Kevin aveva un viso nerboruto, pensò la regina. Sembrava che avesse dei muscoli anche nelle guance, quando aggrottava la fronte si increspavano. Sua Maestà rifletté che, se fosse stata una scrittrice, magari se lo sarebbe appuntato.
«Dovremmo cercare, Maestà, di cantare nella stessa lingua».
«Eh, nel Galles per forza. Tutto bene a casa? Tosatura in corso?».
«Non in questa stagione, Maestà».
«Già. Le greggi saranno al pascolo».
La regina sgranò il sorriso che segnalava la fine del colloquio e quando Sir Kevin, arrivato sulla porta, si voltò per fare l'inchino, lei era già sprofondata nel suo libro e senza alzare gli occhi si limitò a mormorare «Sir Kevin» prima di voltare pagina.
E così a tempo debito Sua Maestà andò nel Galles, in Scozia, nel Lancashire e in Cornovaglia: l'incessante tour su scala nazionale che è destino della monarchia. La regina deve incontrare il suo popolo, indipendentemente da quanto goffe si rivelino quelle occasioni. Era proprio lì che il suo staff poteva rendersi utile.
Per togliere dall'imbarazzo certi sudditi che ammutolivano al cospetto della sovrana, a volte gli attendenti offrivano spunti per avviare la conversazione.
«Sua Maestà potrebbe chiederle se viene da lontano. Si tenga una risposta pronta e poi possibilmente dica se è arrivato in treno o in auto. Allora la regina potrebbe chiederle dove ha lasciato l'auto e se c'era più traffico qui o a - da dove ha detto che viene? - ah, Andover. Vede, alla regina interessano tutti gli aspetti della vita nazionale, quindi a volte parla di com'è difficile oggi trovare parcheggio a Londra, e da lì lei potrebbe discutere i problemi di parcheggio che si riscontrano a Basingstoke».
«Andover. Ma comunque anche Basingstoke è un incubo».
«Certo. Ma ha afferrato il concetto? Convenevoli, insomma».
Queste conversazioni erano effettivamente un po' terra terra, ma avevano il merito di essere prevedibili e soprattutto brevi; e offrivano a Sua Maestà varie opportunità per tagliar corto. Così gli incontri andavano lisci e finivano in orario, la regina sembrava interessata e raramente i suoi sudditi si sentivano a disagio; poco importava se poi il colloquio più atteso della loro vita si era ridotto a qualche commento sugli imbottigliamenti dovuti ai lavori in corso. Avevano incontrato la regina, lei aveva parlato con loro e tutti se n'erano andati puntuali.
Simili scambi erano diventati talmente di routine che gli attendenti ormai non li sorvegliavano più, ronzando sempre ai margini delle adunate con un sorriso premuroso quanto paternalistico. Solo quando fu evidente che i silenzi erano in aumento e che sempre più sudditi facevano scena muta, cominciarono a origliare quello che veniva (o non veniva) detto.
Così si resero conto che, senza notificarlo preventivamente al personale, la regina aveva abbandonato le sue domande collaudate - anzianità di lavoro, distanza percorsa, luogo di provenienza -e si era lanciata in un numero nuovo, e cioè: «Che cosa sta leggendo al momento?». Pochissimi dei suoi devoti sudditi avevano la risposta pronta (anche se uno azzardò: «La Bibbia?»). Da lì le goffe pause che la regina riempiva con una frase del tipo: «Io sto leggendo...», a volte addirittura frugando nella borsetta e mostrando di sfuggita il fortunato volume. Non c'era da stupirsi se le udienze si facevano man mano più lunghe e stentate, e un crescente numero di sudditi affezionati se ne andava col rammarico di non aver fatto una degna figura e l'impressione che la sovrana gli avesse giocato un brutto tiro.
Piers, Tristram, Giles e Elspeth, tutti fedeli servitori della regina, appena staccavano dal turno si confrontavano: «Cosa sta leggendo? Ma che razza di domanda è? La maggior parte di questi poveretti non sta leggendo niente. E se lo dicono, lei pesca fuori dalla borsetta un volume che ha appena finito e glielo regala».
«E loro lo vendono subito su eBay».
«Proprio così. E di recente non vi è capitato di starle al seguito in una visita reale?» si intromise una dama di compagnia. «Perché ormai si è sparsa la voce. Mentre una volta la gente arrivava con un narciso o un mazzolino di primule spampanate che poi Sua Maestà passava a noi nelle retrovie, adesso si portano i libri che stanno leggendo, o addirittura scrivendo, e se hai la sfortuna di essere di servizio, praticamente ti serve un carrello. Se avessi voglia di scarrozzare libri in giro mi sarei trovata un lavoro da Hatchard. Sua Maestà sta diventando proprio ingestibile».
Gli attendenti si adattarono anche a questo e, per quanto poco entusiasti di variare il loro tran tran, alla luce delle predilezioni della regina si rassegnarono a cambiare tattica: negli incontri preparatori con i sudditi, ora ventilavano che Sua Maestà, oltre a indagare sulle distanze percorse e i mezzi di trasporto usati, avrebbe potuto chieder loro cosa stavano leggendo.
La maggior parte dei convenuti sbarrava gli occhi, e gli attendenti snocciolavano una lista di suggerimenti. Poi la regina si faceva un'idea spropositata della popolarità di Andy McNab e Joanna Trollope, ma pazienza; almeno nessuno si era trovato in difficoltà. E le udienze finivano spaccando il minuto come un tempo. I rari intoppi accadevano quando uno dei sudditi confessava di avere un debole per Virginia Woolf o per Dickens, perché in entrambi i casi iniziava un'accesa (nonché prolissa) conversazione. Molti auspicavano un analogo scambio di idee menzionando Harry Potter, ma in quel caso la regina (che non aveva tempo per quel genere letterario) subito replicava: «Sì. Sto aspettando il momento giusto per leggerlo» e sorvolava in fretta.
Dato il loro rapporto quasi quotidiano, Sir Kevin poteva pungolare la regina rispetto a quella che ormai era diventata quasi un'ossessione. «Mi chiedevo, Maestà, se non potremmo trovare il modo di ottimizzare le sue letture». Una volta, sentendo un'espressione simile, la regina avrebbe fatto finta di niente, ma uno degli effetti della lettura era stato proprio quello di diminuire la sua (già bassa) tolleranza per certe espressioni gergali.
«Ottimizzare? In che senso?».
«È un'ipotesi che sto giusto testando, Maestà, ma sarebbe forse il caso di rilasciare un comunicato stampa in cui si dice che Vostra Maestà, a parte la letteratura inglese, sta anche leggendo i classici etnici».
«A quali si riferisce in particolare, Sir Kevin? Al Kamasutra?».
Sir Kevin sospirò.
«Adesso sto leggendo Vikram Seth. Potrebbe andare?».
Il segretario non l'aveva mai sentito nominare, ma pensò che suonava bene.
«Salman Rushdie?».
«Meglio di no, Maestà».
«Non vedo proprio la necessità di un comunicato stampa. Perché al pubblico dovrebbe interessare che cosa sto leggendo? La regina legge, tanto basta. Mi immagino già la reazione generale: "E allora?"».
«Leggere vuol dire sottrarsi. Rendersi irreperibili. Sarebbe già diverso» disse Sir Kevin «se come passatempo fosse meno... egoistico».
«Egoistico?».
«Forse dovrei dire solipsistico».
«E allora lo dica».
Al che Sir Kevin si lanciò. «Se potessimo veicolare le sue letture per uno scopo più ampio: acculturare il paese, ad esempio, per promuovere la lettura fra i giovani».
«Noi leggiamo per nostro piacere» disse la regina. «Non è un dovere pubblico».
«Forse dovrebbe esserlo» ribatté Sir Kevin.
«Gran faccia tosta» fu il commento del duca quella sera, quando la regina gli riferì l'accaduto.
A proposito del duca, che ne era dei familiari in tutto questo? In che misura le letture della regina si ripercuotevano su di loro?
Se Sua Maestà avesse dovuto cucinare, fare la spesa o, sfiorando l'inaudito, passare l'aspirapolvere sui suoi numerosi pavimenti, si sarebbe notata subito una certa sciatteria. Ma naturalmente a lei non toccava niente di tutto questo. È vero che studiava i documenti ufficiali con minor dedizione, ma il marito e i figli non ne risentivano in alcun modo. Ne risentiva invece la sfera pubblica (dove questo «impattava negativamente», stando a Kevin). Era evidente che Sua Maestà aveva cominciato ad adempiere malvolentieri ai suoi doveri: posava le prime pietre con meno slancio e se doveva varare una nave la mandava a scorrere giù per lo scalo senza tante cerimonie, come una barchetta su uno stagno; e intanto pensava al libro che l'aspettava.
Se questo poteva preoccupare lo staff, i familiari in realtà tiravano un bel sospiro di sollievo. La regina aveva sempre preteso il massimo da loro, e invecchiando non era certo diventata più indulgente. La lettura però l'aveva cambiata. Adesso li lasciava in pace e li vessava raramente, e loro se la passavano molto meglio. Viva i libri, pensavano, tranne quando la nonna pretendeva che li leggessero o voleva parlarne a tutti i costi; allora li interrogava o, nel peggiore dei casi, ficcava loro in mano un volume e poi controllava se lo avevano letto.
Ormai non si stupivano più di vedere la nonna in qualche angolino tranquillo delle sue dimore, con gli occhiali sul naso, quaderno e matita accanto a sé. Alzava gli occhi un attimo e faceva un vago cenno con la mano. «Contenta tu» diceva il duca percorrendo a grandi passi il corridoio. Ed era vero: lei era contentissima. Si godeva la lettura come nient'altro al mondo e divorava libri a velocità sbalorditiva; non che ci fosse qualcuno da sbalordire, a parte Norman.
Del resto la regina non parlava con nessuno dei libri che leggeva, ben sapendo che un entusiasmo così tardivo, per quanto lodevole, poteva esporla al ridicolo. Se le fosse venuta la fissa di Dio, o delle dalie, rifletté, sarebbe stata la stessa cosa. Alla sua età, pensava la gente, perché scaldarsi tanto? Ma per lei non c'era niente di più serio e nutriva per la lettura gli stessi sentimenti che certi hanno per la scrittura: era impossibile rinunciarvi e per lei, in quella fase della sua vita, era come una missione.
È vero che all'inizio leggeva con trepidazione e un certo nervosismo. Si perdeva di fronte all'infinita quantità dei libri e non aveva idea di come procedere; leggeva senza metodo, un libro portava a un altro e spesso ne iniziava due o tre contemporaneamente. Gli appunti erano venuti dopo; leggeva sempre con una matita a portata di mano, non per riassumere quello che leggeva ma solo per trascrivere i passaggi che l'avevano colpita. Fu solo dopo un anno di letture e di appunti che Sua Maestà si azzardò ad annotare un pensiero tutto suo. «La letteratura» scrisse «mi appare come un vasto paese dai confini remoti, verso i quali mi sono diretta ma che non mi sarà mai dato raggiungere. E ho cominciato troppo tardi. Non potrò mai recuperare». Poi (un pensiero a parte): «L'etichetta sarà una cosa scomoda, ma l'imbarazzo è peggio».
Leggere le metteva anche tristezza; per la prima volta in vita sua le vennero dei rimpianti. Aveva finito una delle tante biografie di Sylvia Plath e in realtà era contenta di aver avuto una vita meno travagliata; ma leggendo l'autobiografia di Lauren Bacall non potè fare a meno di pensare che la Bacall si era divertita di più, e con sua sorpresa si trovò a invidiarla.
Qualche settimana dopo la regina alzò gli occhi dal libro che stava leggendo e disse a Norman: «Si ricorda quando le ho detto che lei è il mio factotum? Bene. Ho scoperto cosa sono io: una tardodiscente».
Con il dizionario sempre alla mano, Norman lesse ad alta voce: «Tardodiscente: chi impara solo in età avanzata».
Era quella necessità di dover recuperare il tempo perduto a farla leggere con tale rapidità, e ultimamente a commentare sempre più spesso e con meno incertezza. Cominciò quindi ad affrontare quella che a tutti gli effetti era critica letteraria con la stessa schiettezza che destinava ad altri settori della sua vita. La regina non era una lettrice clemente e spesso avrebbe voluto averceli lì, gli autori, per poterli rampognare.
«Sono l'unica» scrisse «a voler dare una bella lavata di capo a Henry James?».
«Capisco l'ammirazione per il dottor Johnson, ma non ha scritto anche una quantità di pompose stupidaggini?».
Un giorno, all'ora del tè, stava leggendo Henry James quando sbottò: «E muoviti]».
La cameriera, che stava portando via il carrello del tè, disse: «Chiedo scusa, Maestà», e nel giro di due secondi era già schizzata fuori dalla stanza.
«Ma no, non tu, Alice» le gridò dietro la regina, addirittura rincorrendola sulla porta. «Non tu!».
Una volta Sua Maestà non si sarebbe preoccupata di quello che pensava la cameriera, o di aver ferito i suoi sentimenti; adesso però le dispiaceva, e tornando a sedersi si chiese come mai. Al momento non la sfiorò l'idea che quello slancio potesse avere un nesso con i libri e perfino con quell'irritantissimo Henry James. A tempo debito però se ne accorse, e in uno dei suoi appuntì successivi scrisse: «È possibile che io mi stia trasformando in un essere umano. Non sono convinta che si tratti di un cambiamento auspicabile». E stavolta pensò bene di aggiungere la data.
Oltre al senso di non potersi mai mettere in pari, aveva anche altri rimpianti. Se si fosse appassionata alla lettura vent'anni prima, avrebbe potuto conoscere tanti autori famosi che invece non aveva incontrato o, peggio ancora, che aveva incontrato senza sapere cosa dirgli. Almeno a questo però poteva porre rimedio e così, anche su consiglio di Norman, decise che sarebbe stato interessante, e magari divertente, invitare un po' di scrittori che avevano letto entrambi. A palazzo si diede dunque un ricevimento, o una soirée, come insisteva a dire Norman.
Gli attendenti ovviamente pensavano di dover seguire la procedura delle feste in giardino e degli altri ricevimenti in grande, preparando gli ospiti con cui probabilmente Sua Maestà si sarebbe fermata a parlare. La regina però ritenne che un'occasione del genere non richiedesse tante formalità (dopotutto erano artisti) e decise di lasciar fare al caso. Ma non si rivelò una buona idea.
Anche se, presi uno per uno, gli autori le erano sembrati quasi sempre timidi, se non schivi, riuniti insieme erano chiassosi, pettegoli e, per quanto ridanciani, non li trovò particolarmente spiritosi. Sua Maestà prese a ronzare a margine dei vari gruppetti senza che nessuno facesse grandi sforzi per coinvolgerla, e finì per sentirsi un'invitata alla sua stessa festa. E non appena provava a dire qualcosa la conversazione languiva, o precipitava in un atroce silenzio; oppure gli autori, forse per atteggiarsi a snob, la ignoravano continuando a parlare come se niente fosse.
Era emozionante trovarsi in presenza degli scrittori che ormai considerava suoi amici e che aveva tanta voglia di conoscere, ma proprio adesso che non vedeva l'ora di dichiarare la sua sintonia con gli autori dei libri che aveva letto e ammirato, si rese conto di non aver nulla da dire. Proprio lei, che raramente si era fatta intimidire da qualcuno in vita sua, adesso stava lì, impacciata, senza riuscire a spiccicare parola. Una frase come «Il suo libro mi è piaciuto da morire» avrebbe reso l'idea, ma cinquant'anni di contegno e understatement le impedivano di pronunciarla. Così provò a riciclare un po' del suo solito repertorio. Non tanto il classico «Viene da lontano?», bensì l'equivalente letterario: «Dove prende le idee? Lavora a orari regolari? Scrive direttamente al computer?». Sapeva benissimo che erano luoghi comuni e la imbarazzavano, ma quel silenzio teso era peggio.
Uno scrittore scozzese si rivelò particolarmente temibile. Alla domanda su come venga l'ispirazione rispose con ferocia: «Non viene, Maestà. Bisogna andarsela a prendere».
Quando le riuscì di esprimere - quasi balbettando - la sua ammirazione, nella speranza che quel certo autore (in questo gli uomini, decise, erano molto peggio delle donne) le dicesse come era arrivato a scrivere quel certo libro, il suo entusiasmo venne ignorato: l'autore preferiva parlare non del bestseller che aveva appena scritto ma di quello a cui stava lavorando ora. E il lavoro procedeva così lentamente, come lamentava lui sorseggiando champagne, da renderlo l'uomo più infelice del mondo.
Presto la regina decise che probabilmente era meglio incontrare gli autori dentro le pagine dei romanzi, creature dell'immaginazione del lettore come i personaggi. Non sembravano neppure grati a chi aveva letto i loro libri; erano loro ad averci fatto la cortesia di scriverli.
In un primo tempo la regina aveva pensato di organizzare simili ritrovi a cadenza regolare, ma quella serata bastò a scoraggiarla. Una era più che sufficiente. La sua decisione fu accolta con sollievo da Sir Kevin, che non era stato entusiasta dell'iniziativa, perché - come non aveva mancato di far presente - se Sua Maestà organizzava una serata per gli scrittori, avrebbe dovuto dedicarne un'altra ai pittori, e a quel punto anche gli scienziati si sarebbero aspettati una loro serata. «Sua Maestà non deve dare l'impressione di essere parziale».
Be', non c'era più pericolo.
Sir Kevin non ebbe tutti i torti a biasimare Norman per lo squallore di quella serata letteraria, perché era stato lui a incoraggiare la regina quando lei aveva ventilato l'iniziativa. Tanto più che neanche Norman si era divertito tanto. Per ragioni statistiche, la percentuale di gay fra gli invitati era piuttosto alta; del resto alcuni nomi li aveva suggeriti personalmente Norman. Però la cosa non era andata a suo vantaggio. Anche se doveva solo servire bevande e stuzzichini come gli altri paggi, Norman, diversamente da loro, conosceva la fama e l'importanza dei personaggi a cui si avvicinava saltellante con il vassoio in mano; aveva anche letto i loro libri. Ma non era attorno a lui che si assembravano gli scrittori, bensì ai paggi più avvenenti e agli attendenti più altezzosi che, come disse Norman con acredine (ma non con la regina) , non avrebbero riconosciuto un gigante della letteratura neanche andando a sbatterci contro.
Insomma, nel complesso invitare il Verbo Incarnato fu un'esperienza infausta, ma contrariamente alle speranze di Sir Kevin questo non distolse Sua Maestà dalla lettura. Le fece solo passare la voglia di incontrare gli autori viventi: così potè dedicare più tempo ai classici, come Dickens, Thackeray, George Eliot e le sorelle Brontè.
Ogni martedì pomeriggio la regina incontrava il primo ministro, che la indottrinava. La stampa però amava descrivere gli appuntamenti come quelli di una sovrana saggia ed esperta che metteva in guardia il primo ministro contro ogni possibile insidia, attingendo dal suo incomparabile bagaglio cinquantennale. Era un mito che il palazzo concorreva a creare; ma la verità era che i primi ministri in carica ascoltavano sempre meno e parlavano sempre di più, mentre la regina annuiva o forse crollava il capo.
Inizialmente volevano che lei li tenesse per mano, e andavano a trovarla per avere una carezza, come i bambini che vogliono far vedere alla mamma le loro prodezze. Anche perché quello che si voleva da lei, come sempre, era un'esibizione: di interesse, o di approvazione. Per gli uomini (quindi Thatcher inclusa) quello era l'importante. Quand'erano freschi di nomina, i primi ministri la ascoltavano e le chiedevano perfino consigli, ma poi, con allarmante omogeneità, finivano invariabilmente per assumere un tono saccente; non volevano più essere incoraggiati e trattavano la regina come un pubblico. Ascoltarla non era più all'ordine del giorno. Gladstone non è stato certo l'unico a rivolgersi alla regina come se stesse tenendo un comizio.
Quel martedì l'udienza si era svolta seguendo il solito iter, e solo verso la fine la regina riuscì a infilare una parola su un argomento che le premeva veramente. «Il mio discorso di Natale in televisione».
«Sì, Maestà?» disse il primo ministro.
«Pensavo che quest'anno potremmo fare qualcosa di diverso».
«Di diverso, Maestà?».
«Sì. Per esempio potrei stare allo scrittoio a leggere o, in modo ancora più informale, seduta comodamente sul divano con un libro in mano; la telecamera potrebbe avvicinarsi finché non sono in piano medio - è così che si dice? -, dopodiché potrei alzare gli occhi e dire: "Sto leggendo un libro che parla di questo e di quest'altro". E proseguire da lì».
«E che libro sarebbe, Maestà?». Il primo ministro aveva l'aria afflitta.
«Dovrei pensarci».
«Magari sullo stato del pianeta?» si illuminò l'altro.
«Anche, ma di quelle cose ce n'è già abbastanza sui giornali. No. Pensavo piuttosto alla poesia».
«Alla poesia, Maestà». Il primo ministro si sforzò di sorridere.
«Thomas Hardy, per esempio. L'altro giorno ho letto una sua poesia fantastica su come il Titanio ha incontrato l'iceberg che lo ha affondato. Si chiama La convergenza dei due. La conosce?». «No, Maestà. Ma in che modo potrebbe servire?».
«Servire a chi?».
«Be',» e il primo ministro sembrò un po' imbarazzato a doverlo dire espressamente: «al popolo».
«Oh, certo,» disse la regina «dimostrerebbe -non crede? - che siamo tutti soggetti al destino».
Sua Maestà fissò il primo ministro sorridendo con aria rassicurante. Lui si guardò le mani.
«Non sono sicuro che il governo sia nella posizione di avallare un simile messaggio». La gente non doveva essere indotta a ritenere che il mondo fosse ingovernabile. Da lì al caos - o alla sconfitta alle urne, che era la stessa cosa - il passo era breve.
«Mi risulta» e questa volta fu il primo ministro a fare un sorriso rassicurante «che c'è un ottimo filmato sulla visita di Sua Maestà in Sudafrica».
La regina sospirò e suonò il campanello. «Ci penseremo».
Il suo interlocutore capì che l'udienza era conclusa nel momento in cui Norman aprì la porta e rimase in attesa. «E questo» pensò il primo ministro «sarebbe il famoso Norman».
«Oh, Norman,» disse la regina «a quanto pare il primo ministro non ha letto Hardy. Le dispiacerebbe cercargli uno dei nostri vecchi tascabili?».
Con sua leggera sorpresa la regina alla fine riuscì a fare di testa sua, e anche se non era comodamente seduta sul divano ma allo scrittoio e non leggeva la poesia di Hardy (scartata perché poco «progettuale») cominciò il suo discorso di Natale con il paragrafo iniziale di Le due città («Erano i giorni migliori. Erano i giorni peggiori»), che fu di grande effetto. E poiché aveva scelto di leggere non dal gobbo ma direttamente dal libro, agli spettatori più anziani (ovvero la maggioranza) ricordò quel genere di maestra che leggeva in classe a voce alta.
Incoraggiata dall'entusiasmo con cui venne accolto il discorso di Natale, Sua Maestà rimase dell'idea di leggere in pubblico, e una sera tardi, nel chiudere il libro sulla pacificazione religiosa di Elisabetta I, le saltò in mente di telefonare all'arcivescovo di Canterbury.
Si sentì una pausa mentre lui andava ad abbassare la TV.
«Arcivescovo. Perché io non faccio mai la lettura?».
«Chiedo scusa, Maestà?».
«In chiesa. Vanno tutti a leggere tranne me. Non sta scritto da nessuna parte, vero? Non è mica proibito?».
«Non che io sappia, Maestà».
«Perfetto. Be', allora comincerò a farlo. A noi due, Levitico! Buonanotte».
L'arcivescovo scosse il capo e tornò alla sua puntata di Ballando con le stelle.
Da lì in poi, specialmente in Scozia o nel Norfolk, Sua Maestà fece sempre il suo numero al microfono. E non si limitò a quello: in una scuola elementare nel Norfolk, si mise a sedere su una seggiolina e lesse ai bambini una storia di Babar. In occasione di un pranzo ufficiale in un Municipio, elargì agli astanti una poesia di Betjeman: tutte impreviste deroghe al programma che suscitavano l'ammirazione generale ma non quella di Sir Kevin, del quale non si preoccupava di chiedere il via libera.
Anche la cerimonia della piantatura di un albero si concluse con un fuori programma. Dopo aver conficcato leggermente un querciolo nel terreno bonificato di una brulla fattoria urbana sopra il Medway, Sua Maestà si appoggiò al badile di rito e recitò a memoria la strofa finale della poesia Gli alberi di Philip Larkin:
Eppure, infaticabili, quei castelli insistono a infoltirsi a ogni maggio. Un altro anno è morto, sembrano dire, si ricomincia da capo, da capo, da capo.
E mentre l'inconfondibile, limpida voce si propagava sull'erba spelacchiata battuta dal vento, fu come se la regina non si rivolgesse solo alla delegazione dei funzionari comunali ma anche a se stessa: era alla sua vita che stava facendo appello, era lei a ricominciare da capo.
Per quanto la lettura l'assorbisse, Sua Maestà non si sarebbe mai aspettata che la svuotasse di entusiasmo per tutto il resto. La prospettiva di inaugurare l'ennesima piscina coperta non le aveva mai fatto fare salti di gioia, ma non per questo ci andava malvolentieri. Nonostante il tedio delle sue incombenze - presiedi questo, conferisci quell'altro -, non si era mai annoiata. Quello era il suo dovere e non c'era stata mattina in cui non avesse aperto l'agenda con interesse o curiosità.
Ma era acqua passata. Ora la regina scorreva con terrore l'incalzante serie di viaggi e impegni che riempivano gli anni a venire. Riusciva a stento ad avere una giornata tutta per sé; due, mai. Improvvisamente tutto era diventato un peso. «Sua Maestà è stanca» diceva la cameriera, sentendola gemere davanti allo scrittoio. «Ogni tanto dovrebbe concedersi un po' di relax».
Non era tanto quello. Era colpa dei libri, e a volte lei si pentiva di aver cominciato a leggerli, a entrare in altre vite. Era come un tarlo, un tarlo nella testa.
Intanto andavano e venivano i visitatori più illustri, fra cui il presidente francese che si era dimostrato così scarso al riguardo di Jean Genet. Sua Maestà lo riferì al ministro degli Esteri nel corso dei colloqui che di solito seguivano le visite, ma nemmeno lui ne aveva mai sentito parlare. Certo, continuò la regina, tralasciando i commenti del presidente sugli accordi monetari anglofrancesi, sì, era stato nullo sul versante di Genet («un habitué della sala da biliardo») ma si era rivelato una miniera riguardo a Proust, che per la regina era sempre stato solo un nome. Il ministro degli Esteri non conosceva nemmeno quello, e così Sua Maestà potè metterlo un po' al corrente.
«Poveretto, una vita infame. Un martire dell'asma. Il tipo di persona a cui viene da dire: "Insomma, tirati un po' su!". Ma la letteratura è piena di gente così. La cosa strana era che quando ha intinto un pezzo di dolce nel tè (pessima abitudine) gli è tornato in mente tutto il suo passato. Sa, ci ho provato anch'io e non mi ha fatto nessun effetto».
«Magari non era il dolce giusto, Maestà» disse il ministro degli Esteri prima di tornare agli accordi monetari.
La lacuna della regina su Proust, a differenza di quella del ministro degli Esteri, era destinata a essere presto colmata: Norman andò subito a cercarlo su internet e, dato che il suo romanzo si componeva di 13 volumi, pensò che sarebbe stato la lettura ideale per le vacanze estive di Sua Maestà a Balmoral. Si poteva anche aggiungere la biografia di Proust di George Painter. La regina, vedendo allineati sul suo scrittoio i volumi con la sovraccoperta azzurra e rosa, pensò che avevano quasi un'aria commestibile, neanche provenissero dalla vetrina di una pasticceria.
Fu un'estate bruttissima, fredda, piovosa e inutile: la sera i cacciatori brontolavano perché i carnieri erano vuoti. Ma per la regina (e per Norman) fu idilliaca. Raramente l'universo di quel libro e il luogo in cui veniva letto erano stati in maggiore contrasto: mentre quei due erano immersi nelle sofferenze di Swann, nella volgarità piccina di Madame Verdurin e nelle assurdità del Barone de Charlus, le colline fradicie riecheggiavano di vacue fucilate mentre il povero cervo di turno, stecchito e zuppo, veniva trascinato nell'atrio.
Era dovere del primo ministro partecipare per qualche giorno, insieme alla moglie, al ritiro fuori città; non era un gran tiratore, ma si riprometteva almeno di accompagnare la regina in qualche passeggiata per la brughiera dove, come diceva lui, «sperava di far due chiacchiere». Ma conosceva Proust ancor meno di Thomas Hardy, e così restò deluso: per i tète-à-tète, nessuna occasione.
Subito dopo colazione Sua Maestà si ritirava nello studio con Norman, gli uomini partivano sulle Land Rover per un'altra frustrante giornata e il primo ministro e la moglie restavano abbandonati a se stessi. Magari si trascinavano con i cacciatori fra l'erica della brughiera, facendo uno scomodo picnic bagnaticcio con loro, ma nel pomeriggio, esaurito lo shopping locale con un plaid di tweed e una scatola di biscotti al burro scozzesi, si mettevano in un remoto angolo del salotto a giocare tristemente a Monopoli.
Quattro giorni del genere furono sufficienti e con un pretesto («disordini in Medio Oriente») primo ministro e signora decisero di partire anzitempo. Come commiato si organizzò in fretta e furia una serata di sciarade; la scelta delle parole da mimare è una delle prerogative meno note della regina, e ancora meno note si rivelarono le frasi da indovinare, che rimasero un enigma per tutti, primo ministro incluso.
Costui non aveva mai sopportato di perdere, neanche con la regina, e non lo consolò apprendere da uno dei principi che nessuno poteva sperare di vincere se non la regina, dato che le sciarade (molte delle quali riferite a Proust) erano state pensate da Norman sulla base delle loro letture.
Il primo ministro era seccatissimo, molto più che se Sua Maestà avesse riesumato una quantità di privilegi decaduti da un pezzo; e non appena rientrò a Londra, ancora prima di disfare i bagagli chiese al suo consigliere speciale di contattare Sir Kevin, il quale gli espresse la sua solidarietà, sottolineando che Norman era diventato un peso per tutti. Il consigliere speciale rimase impassibile.
«Ma questo Norman è una checca?».
Sir Kevin non era sicuro, ma pensava di sì.
«E lei lo sa?».
«Sua Maestà? Probabilmente».
«E la stampa?».
«Credo che la stampa» disse Sir Kevin contraendo le guance «sia meglio tenerla fuori».
«Appunto. Quindi posso contare che se la sbrighi lei?».
Il programma prevedeva un'imminente visita di stato in Canada, un onore che Norman aveva pensato bene di saltare, preferendo tornare a Stockton on Tees per fare le ferie a casa. Comunque si occupò lui di tutti i preparativi, e imballò con cura una cassa di libri destinati a tenere impegnata Sua Maestà durante il tragitto da una costa all'altra. Per quel che ne sapeva Norman, i canadesi non erano un popolo di lettori e il programma era così fitto che difficilmente la regina sarebbe riuscita a entrare in una libreria. Lei non vedeva l'ora di partire, per via dei lunghi spostamenti in treno: si figurava mentre attraversava il continente assorta nella lettura di Pepys, autore che stava leggendo per la prima volta.
Però quel tour, perlomeno all'inizio, si rivelò un disastro. La regina era annoiata, cupa e poco collaborativa; il suo seguito ne avrebbe prontamente dato la colpa alla lettura, non fosse che Sua Maestà non aveva libri con sé, perché quelli imballati da Norman erano andati perduti. Spediti da Heathrow insieme alla comitiva reale, mesi dopo comparvero a Calgary, dove offrirono lo spunto per una insolita mostra nella biblioteca locale. Nel frattempo però Sua Maestà non sapeva come occupare la mente e invece di focalizzarsi sul target, come aveva sperato Sir Kevin quando aveva dirottato i libri, diventò solo impaziente e scorbutica.
All'estremo nord, i pochi orsi polari che gli organizzatori erano riusciti a radunare ciondolarono a lungo in attesa di Sua Maestà; ma lei non si fece vedere, e pensarono bene di spostarsi verso una banchisa più allettante. Né i lastroni di ghiaccio che scivolavano nelle acque gelide né i tronchi che intasavano il passaggio suscitarono la curiosità della visitatrice reale, che si guardò bene dal lasciare la cabina.
«Non vuoi venire a vedere la via marittima del San Lorenzo?» le chiese il marito.
«L'ho inaugurata cinquant'anni fa. Dubito che sia cambiata».
Anche le Montagne Rocciose ricevettero solo un'occhiata distratta e le cascate del Niagara non furono nemmeno degnate di uno sguardo ( «le ho già viste tre volte»), così il duca ci andò da solo.
Il caso volle, però, che a un ricevimento di personalità canadesi appartenenti al mondo della cultura la regina si trovasse a parlare con Alice Munro e, una volta saputo che scriveva romanzi e racconti, le chiedesse un suo libro, che le piacque moltissimo. E la cosa non finì lì, perché scoprì che ne erano usciti parecchi altri, così l'autrice glieli fece avere prontamente.
«Non conosco piacere più grande» confidò la regina al suo vicino, il ministro canadese per il Commercio con l'estero «che trovare un autore che amo e poi scoprire che non ha scritto solo un paio di libri, ma almeno una dozzina».
E tutti, ma questo lo tenne per sé, in edizione economica - quindi facili da nascondere in borsetta. Venne subito imbucata una cartolina indirizzata a Norman dove gli veniva richiesto di procurarsi i pochi volumi esauriti della Munro affinché la regina li trovasse al suo ritorno. Che bellezza! Ma Norman non era più a palazzo.
Il giorno prima di partire per le delizie di Stockton on Tees, Norman venne convocato nell'ufficio di Sir Kevin. Il consigliere speciale del primo ministro aveva detto di licenziarlo; Sir Kevin detestava il consigliere speciale; nemmeno Norman gli stava simpatico, ma sempre più dell'altro, e fu così che il cameriere della regina cascò in piedi. Inoltre per Sir Kevin il licenziamento era una cosa volgare. C'era una soluzione migliore.
«A Sua Maestà sta molto a cuore che i membri del personale migliorino la propria posizione» disse il segretario privato con aria benevola. «E più che soddisfatta del suo lavoro, ma si chiede se lei abbia mai pensato all'università».
«All'università?» esclamò Norman, cadendo dalle nuvole.
«Nello specifico, l'Università dell'East Anglia. Hanno un ottimo dipartimento di inglese, e anche un corso di Scrittura creativa. Solo per farle qualche nome (Sir Kevin abbassò lo sguardo sul suo notes): Ian McEwan, Rose Tremain e Kazuo Ishiguro...».
«Sì» disse Norman. «Li abbiamo letti».
Il segretario trasalì a quel «noi», e disse che secondo lui quell'università era proprio quello che ci voleva.
«E come dovrei pagarmela?» chiese Norman. «Non ho soldi».
«Non si preoccupi di quello. Vede, Sua Maestà tiene a che le sue capacità vengano valorizzate appieno».
«Io preferisco restare qui» disse Norman. «È sempre un modo per farmi una cultura».
«S-sì» annuì il segretario privato. «Ma non è possibile. Sua Maestà ha in mente qualcun altro. Volendo, però,» sorrise con aria rassicurante «può sempre tornare a lavorare nelle cucine».
E fu così che la regina, al rientro dal Canada, non trovò Norman seduto come sempre in corridoio. Non solo la sua sedia era vuota, ma era scomparsa insieme a quella deliziosa pila di libri che ormai si era abituata ad avere sul comodino.
E soprattutto non c'era nessuno con cui discorrere dei meriti di Alice Munro.
«Non era benvoluto, Maestà» lo informò Sir Kevin.
«Era benvoluto da me» disse la regina. «Dov'è andato?».
«Non ne ho idea, Maestà».
Norman, da ragazzo sensibile qual era, scrisse alla regina una lunga lettera confidenziale sui corsi che stava seguendo e sulle letture che doveva fare, ma quando ricevette una risposta che esordiva con «La ringrazio delle notizie che Sua Maestà ha appreso con estremo interesse» capì di essere stato fatto fuori, solo non sapeva se dalla regina o dal segretario privato.
Sua Maestà invece non aveva dubbi su chi avesse architettato la sua partenza. A Norman era toccata la stessa sorte della biblioteca circolante e della cassa finita a Calgary. Come il libro nascosto dietro il cuscino nella carrozza, era già tanto che non lo avessero brillato. Norman le mancava, questo era indubbio, ma non ricevendo da lui né una lettera né un biglietto, non potè far altro che proseguire per la sua strada. La sua assenza non l'avrebbe comunque distolta dalla lettura.
Può sembrare strano che la regina non fosse più addolorata dall'improvvisa partenza di Norman, ma non per questo bisogna giudicarla male: la sua vita era sempre stata costellata da assenze improvvise e partenze inaspettate. Per esempio, se qualcuno si ammalava, era raro che ne venisse informata; si riteneva di doverla esonerare, in quanto regina, da sentimenti quali angoscia e compassione - o perlomeno i cortigiani la pensavano così. Quando poi la morte, come purtroppo accade, si portava via un domestico o anche un amico, spesso la regina scopriva solo allora che c'era un problema. «Non dobbiamo preoccupare Sua Maestà» era il principio osservato da tutta la servitù.
Norman, naturalmente, non era morto, era solo andato all'Università dell'East Anglia, ma dal punto di vista degli attendenti era un po' la stessa cosa, perché una volta svanito dalla vita di Sua Maestà cessava di esistere: né lei né nessun altro lo nominavano più. Non che Sua Maestà andasse biasimata, su questo gli attendenti erano tutti d'accordo; la regina non andava mai biasimata. C'è gente che muore, gente che se ne va e (sempre più spesso) gente che rilascia interviste ai giornali. In un modo o nell'altro erano sempre dipartite. Loro se ne andavano, e lei restava.
A onor del vero la regina, prima della misteriosa partenza di Norman, aveva cominciato a chiedersi se non lo stava superando. Nei primi tempi lui era stato una guida umile e diretta nel mondo dei libri. L'aveva consigliata, senza esitare a dirle quando riteneva che non fosse ancora pronta per un libro. Per un bel pezzo, per esempio, l'aveva tenuta lontana da Beckett e da Nabokov, e solo pian piano l'aveva iniziata a Philip Roth (rimandando il più possibile Il lamento di Portnoy).
Con il passare del tempo, però, Sua Maestà aveva cominciato a leggere quello che le andava e Norman faceva lo stesso. Parlavano di quello che leggevano, ma la regina capiva che la sua vita e la sua esperienza la mettevano in una condizione di superiorità; i libri da soli servono fino a un certo punto. Aveva anche imparato che le predilezioni di Norman potevano essere sospette. A parità di merito, lui tendeva comunque a preferire autori gay, motivo per cui la regina conosceva Genet. Certi le piacevano anche - per esempio era affascinata dai romanzi di Mary Renault -, ma non era entusiasta del filone più deviante: Denton Welch, per dirne uno (tra i preferiti di Norman), le sembrava piuttosto morboso; Isherwood (troppe elucubrazioni, manca il tempo). Come lettrice Sua Maestà era spedita e diretta; non voleva crogiolarsi in nulla.
Adesso che era sola, però, intratteneva lunghe conversazioni con se stessa e trascriveva sempre più i suoi pensieri; i quaderni si moltiplicavano e il loro campo di indagine si allargava. «La chiave di volta della felicità è non sentirsi investiti di alcun diritto». Aggiunse un asterisco e annotò a fondo pagina: «Una lezione che non ho mai avuto l'opportunità di apprendere».
«Una volta stavo conferendo il titolo di Companion of Honour a Anthony Powell, se non sbaglio, e si parlava di comportamenti incivili. Proprio lui, così ammodo, anzi convenzionalista, osservò che uno scrittore resta pur sempre un essere umano. Lo stesso non vale per la regina (ma questo non gliel'ho detto). Io devo sempre sembrare un essere umano, ma non per forza esserlo. A quello sono preposte altre persone».
La regina si trovò anche ad annotare descrizioni di persone che incontrava, non necessariamente famose: i loro comportamenti, il modo di parlare, le storie che le raccontavano, spesso in via confidenziale. Quando i giornali pubblicavano l'ennesimo scoop sulla famiglia reale, registrava sul suo taccuino com'erano veramente andate le cose. Se qualche scandalo sfuggiva all'attenzione pubblica, veniva annotato anche quello, il tutto reso con quel tono giudizioso e pratico in cui ormai la regina si compiaceva di riconoscere uno stile suo.
Senza più Norman, Sua Maestà prese nuove direzioni. Ordinava sempre i libri alla London Library e in libreria, ma adesso non era più un segreto fra lei e il suo assistente. Adesso doveva fare richiesta a una dama di compagnia, che doveva fare richiesta al direttore amministrativo e così via. Era un iter sfinente e ogni tanto la regina lo aggirava incaricando i nipoti meno in vista. I ragazzi erano felici che almeno lei si ricordasse di loro, dato che di solito venivano completamente ignorati dal pubblico. Ma sempre più spesso la regina prendeva i libri dalle sue biblioteche, in particolare da quella di Windsor dove, pur non essendoci una gran scelta di autori moderni, gli scaffali traboccavano di edizioni dei classici, alcune delle quali ovviamente autografate - per esempio da Thackeray, Balzac, Turgenev, Dickens, Trollope, George Eliot, Thomas Hardy -, libri che un tempo avrebbe ritenuto al di là delle sue capacità ma che adesso leggeva con scioltezza, matita alla mano, scrivendo sui suoi taccuini ordinati. Era dai tempi di Giorgio III che quegli antichi scaffali non vedevano un lettore così assiduo, rifletté il bibliotecario.
Costui era stato uno dei tanti a menzionare alla regina le attrattive di Jane Austen, ma l'insistenza generale le creava delle resistenze. Inoltre, rispetto a quell'autrice, era frenata da un impedimento unico nel suo genere: c'era un tale divario tra la regina e qualunque suddito, sia pure il più illustre, che le differenze sociali non le erano percepibili. Dal momento che l'essenza di Jane Austen stava proprio nella sottigliezza delle sfumature sociali, e che agli occhi della regina esse avevano ancora meno importanza che per il lettore comune, la lettura le riusciva particolarmente faticosa. I libri di Jane Austen erano praticamente dei trattati di entomologia; i personaggi non erano proprio formiche, ma alla regina apparivano così simili fra loro che ci sarebbe voluto un microscopio. Fu solo con l'approfondirsi della sua comprensione sia della letteratura sia della natura umana che essi acquistarono individualità e fascino.
Per la stessa ragione, perlomeno all'inizio, nemmeno il femminismo le parve degno di nota, poiché le differenze di genere, come le distinzioni di classe, erano nulla in confronto all'abisso che separava la regina dal resto dell'umanità.
Ma che si trattasse di Jane Austen, del femminismo o anche di Dostoevskij, la regina alla fine trovava modo di colmare queste e altre lacune; però le veniva sempre qualche rimpianto. Anni prima, a Oxford, si era trovata a pranzo accanto a Lord David Cecil e non aveva saputo cosa dirgli. Solo adesso aveva scoperto che costui aveva scritto dei libri su Jane Austen oltre che su tanti altri, e adesso sì che avrebbe apprezzato quell'incontro. Ma Lord David era morto e quindi era troppo tardi. Troppo tardi. Era sempre troppo tardi. Ma lei andava avanti, più decisa che mai a fare il possibile per mettersi al passo.
Intanto a palazzo tutto procedeva liscio come sempre; gli spostamenti da Londra a Windsor, nel Norfolk o in Scozia non comportavano grande impegno, perlomeno da parte della regina, che a volte finiva per sentirsi superflua, come se in quelle continue traslazioni non ci fosse alcuna considerazione per la persona che ne era al centro. Era un rituale di partenze e di arrivi in cui lei era solo un bagaglio; il più importante, nessuno lo negava, ma sempre e comunque un bagaglio.
Comunque quelle peregrinazioni andavano meglio che in passato, perché lei era sempre sprofondata in un libro. Sua Maestà saliva in auto a Buckingham Palace e scendeva a Windsor senza abbandonare un attimo il Capitano Crouchback nell'evacuazione di Creta. Volava in Scozia felicemente accompagnata da Tristram Shandy (che a tratti la esasperava) e se si annoiava c'era sempre Trollope a portata di mano. A furia di leggere, la regina era diventata una viaggiatrice remissiva e per nulla esigente. Certo, non spaccava più il minuto come un tempo, e l'auto in attesa sotto il baldacchino in cortile, con il duca sempre più stizzito sul sedile di dietro, era ormai uno spettacolo familiare. La regina invece, quando alla fine si decideva a salire in auto, non era mai stizzita; dopotutto aveva il suo libro.
A palazzo, però, non avevano quel conforto, e gli attendenti diventavano sempre più critici e spazientiti. L'attendente, per quanto squisitamente educato, resta in sostanza un direttore di scena; sempre pronto a porgere i suoi ossequi, sa che si tratta di una recita: lui (raramente una lei) si occupa della regia e Sua Maestà interpreta il ruolo principale.
Anche gli spettatori - e quando si tratta della regina sono tutti spettatori - sanno che è una recita, ma cercano di convincersi che non lo sia fino in fondo, e di pensare che, al di là della finzione, ogni tanto sia dato sorprendere un comportamento più «naturale», più «reale», per esempio cogliendo casualmente una frase («Muoio dalla voglia di un gin tonic» detto dalla regina madre, o «Maledetti cagnacci» dal duca di Edimburgo) o intravedendo Sua Maestà che si siede a una festa in giardino e si toglie le scarpe con grande soddisfazione. Anche se, a ben vedere, quei momenti in apparenza più spontanei sono pur sempre una messinscena, come quella della famiglia reale nella sua veste più ieratica. Questo spettacolo, o meglio teatrino, si potrebbe chiamare la simulazione della normalità, ed è artefatto quanto la più solenne apparizione pubblica, anche se chi vi assiste o capta qualche discorso crede di vedere la regina nella sua versione più umana e genuina. Formalità e informalità, tutto rientra in quella rappresentazione allestita dagli attendenti e che, tranne i momenti che paiono fuori dal copione, agli occhi del pubblico è di fatto impeccabile.
A poco a poco però gli attendenti notarono che gli scorci di «verità» erano sempre più rari. Pur essendo ligia ai suoi doveri, Sua Maestà a quello si limitava: non fingeva più, per così dire, di uscire dai ranghi e ormai di rado si lasciava andare ai suoi commenti estemporanei («Attento,» diceva magari appuntando una medaglia sul petto di un giovanotto «non vorrei infilzarle il cuore»), tutte frasi di cui far tesoro, insieme al biglietto d'invito, al permesso speciale di parcheggio e alla cartina del palazzo.
Ultimamente la regina era formale e sorridente, ma evitava le sortite pseudospigliate con cui era solita animare gli eventi. «Brutto spettacolo» pensavano gli attendenti in senso letterale, un «brutto spettacolo» in cui Sua Maestà aveva recitato male. Ma non potevano certo farglielo notare, perché complici nella finzione che quei momenti fossero genuini sprazzi d'umorismo da parte di Sua Maestà.
Un giorno fu la volta di un'investitura.
«È stata meno spontanea, stamattina, Maestà» si azzardò a dire uno degli attendenti più audaci.
«Davvero?» si stupì lei, che un tempo non avrebbe nemmeno accettato una critica così blanda, mentre adesso non le faceva né caldo né freddo. «Credo di sapere perché. Vede, Gerald, quando sono inginocchiati e vedo le loro teste chine, non posso non trovare commoventi anche i personaggi più sgradevoli: un accenno di pelata, i capelli sul colletto. Vengono quasi dei sentimenti materni».
L'attendente, col quale la regina non si era mai confidata in quel modo e che avrebbe dovuto sentirsene lusingato, provò solo disagio e imbarazzo. Era un lato davvero umano della sovrana di cui non si era mai reso conto e che (a differenza delle versioni contraffatte) non gradiva molto. E se da parte sua la regina riteneva che potessero essere le letture a suscitarle quei sentimenti, il giovanotto sospettò che fosse il passare degli anni, e fu così che i primi cedimenti emotivi vennero scambiati per un principio di senilità.
Da sempre refrattaria all'imbarazzo, anche a quello che poteva suscitare negli altri, la regina una volta non avrebbe fatto caso alla confusione dell'attendente. Ma adesso la notò, e decise che in futuro si sarebbe guardata dall'esprimere i suoi pensieri in maniera così intima - anche se era un peccato, perché era quello che gran parte della nazione voleva da lei. Decise invece di affidare le sue confidenze ai taccuini, dove non potevano nuocere a nessuno.
La regina non era mai stata espansiva; l'avevano educata a non esserlo, ma negli ultimi anni, in particolare dopo la morte della principessa Diana, sempre più spesso le veniva chiesto di esternare dei sentimenti che avrebbe preferito tenere per sé. All'epoca, però, non aveva ancora cominciato a leggere, e solo ora si rendeva conto di condividere con altri quelle difficoltà; per esempio con Cordelia. La regina scrisse sul taccuino: «Anche se Shakespeare non lo capisco sempre, quando Cordelia dice "non riesco a trarre il cuore in bocca" condivido appieno il suo sentimento. Il suo problema è il mio».
La regina cercava di non farsi notare quando scriveva sul taccuino, ma questo non bastò a rassicurare il suo attendente. Un paio di volte l'aveva sorpresa a prendere appunti, e aveva pensato che anche questo fosse indice di turbe psichiche. Cos'aveva da scrivere Sua Maestà? Non si era mai comportata così, e il cambiamento venne attribuito all'età.
«Avrà l'Alzheimer» disse un altro giovanotto.
«È quando bisogna scrivergli tutte le cose che devono fare, vero?». Fu questo che, insieme al crescente disinteresse della regina per le apparenze, fece temere il peggio ai cortigiani.
Che la sovrana potesse soffrire del morbo di Alzheimer era sconvolgente nel senso più ovvio, quello «umano» e pietoso, ma per Gerald e gli altri attendenti era più sottilmente deplorevole che Sua Maestà, abituata da sempre a condurre vita appartata, lasciasse intuire a così tanti sudditi il suo umiliante declino. L'attendente riteneva più appropriata una regale clausura, dove alla regina (e ai monarchi in generale) fosse garantita maggiore libertà e perfino stravaganza di comportamento, prima che le toccasse una diagnosi plebea come il morbo di Alzheimer. Sarebbe potuto essere un sillogismo, se Gerald avesse saputo cos'era un sillogismo: l'Alzheimer è plebeo; la regina non è plebea; dunque la regina non ha l'Alzheimer.
E infatti non lo aveva, anzi: non era mai stata così padrona delle sue facoltà, e a differenza del suo attendente avrebbe certo saputo cos'è un sillogismo.
E poi, a parte il taccuino e i ritardi ormai cronici, in cosa sarebbe consistito il suo declino? Una spilla sfoggiata più di una volta, per esempio, o un paio di scarpe scollate indossate per due giorni di seguito: la verità era che a Sua Maestà queste cose non importavano, o non importavano più come prima, e così anche i suoi collaboratori, non certo ineccepibili, cominciarono a infischiarsene, lasciando correre laddove la regina un tempo non l'avrebbe mai consentito. Ci aveva sempre tenuto molto al vestire. Aveva una conoscenza enciclopedica del proprio guardaroba e degli accessori combinati e si era sempre premurata di variare le sue mises. Ora non più: nessuno avrebbe ritenuto trascurata una donna normale che indossasse due volte lo stesso vestito nel giro di quindici giorni. Trattandosi però della regina, i cui cambi di vestiario venivano accuratamente studiati fino all'ultima fibbia, quelle repliche segnalavano una drastica caduta del decoro che si era sempre imposta di rispettare.
«Ma non ci tiene, Maestà?» le chiese audacemente la cameriera.
«Non ci tengo a cosa?» fu la poco rassicurante risposta. La cameriera si convinse che avesse davvero qualche rotella fuori posto. E fu così che anche i domestici, al pari degli attendenti, cominciarono a prepararsi a un lungo declino.
Anche se vedeva la regina tutte le settimane, il primo ministro non si accorgeva certo se Sua Maestà mancava di variare l'abbigliamento o aveva sempre gli stessi orecchini.
Non era sempre stato così, e all'inizio del suo mandato si era spesso complimentato con la regina per quello che indossava e per i gioielli sempre discreti. Allora lui era più giovane, certo, e gli sembrava una galanteria, ma era anche un modo di sfogare la tensione. Lei invece non era mai tesa e sapeva per esperienza che i primi ministri (a eccezione di Heath e della Thatcher) attraversavano quella fase ma poi, passata la novità degli incontri settimanali, la galanteria svaniva di conseguenza.
Un'altra sfaccettatura del leggendario legame tra la regina e il suo primo ministro era dunque il calo d'attenzione di quest'ultimo per l'aspetto di Sua Maestà, che andava di pari passo col minor interesse per quello che lei aveva da dire. Come vestiva e quel che pensava importavano sempre meno e, orecchini o non orecchini, quando la regina faceva un commento si sentiva come un'assistente di volo che illustra le procedure di sicurezza: il primo ministro aveva l'espressione benevola e distratta del passeggero che sente quella solfa per l'ennesima volta.
La noia e la disattenzione, però, non erano solo di lui; anche la regina, col fatto che leggeva di più, provava insofferenza per quei colloqui, così pensò bene di vivacizzarli collegandoli ai suoi studi e alle recenti nozioni di storia.
Non fu una buona idea. Il primo ministro non credeva davvero nel passato, né nelle lezioni che se ne potevano trarre. Una sera stavano parlando del Medio Oriente, quando lei si azzardò a dire: «È la culla della civiltà, sa».
«E lo sarà di nuovo, Maestà,» ribatté lui «a patto che possiamo continuare col nostro impegno», dopodiché svicolò mettendosi a elogiare il nuovo sistema fognario e la fornitura di cabine di trasformazione.
Lei lo interruppe di nuovo. «Speriamo che non vada a detrimento dei reperti archeologici. La sa la storia di Ur?».
Il primo ministro non la sapeva e più tardi la regina scrisse sul suo taccuino: «Prendere decisioni ottenebra la mente».
Quel giorno, quando il primo ministro fece per andarsene, lei mandò a cercare un paio di libri che potevano essergli utili. La settimana successiva gli chiese se li aveva letti (ovviamente no).
«Li ho trovati di grande interesse, Maestà».
«Bene, allora dobbiamo procurargliene altri. Mi sembra una buona cosa».
Poi fu la volta dell'Iran e la regina chiese al primo ministro se conosceva la storia della Persia, o dell'Iran (per lui l'associazione non era così ovvia), e gli diede anche un libro sull'argomento. Sua Maestà ci stava prendendo gusto. Dopo due o tre sessioni del genere, il martedì pomeriggio, che fino allora il primo ministro aveva aspettato come un'oasi di pace nella sua settimana di lavoro, divenne per lui motivo di ansia. La regina lo interrogava come se lui dovesse fare i compiti. Se poi scopriva che non aveva letto i libri, sorrideva con indulgenza.
«La mia esperienza di primi ministri, caro primo ministro, mi ha insegnato che, ad eccezione di Mr Macmillan, preferiscono incaricare qualcun altro di leggere al loro posto».
«C'è molto da fare, Maestà».
«Questo sì» disse Sua Maestà tornando al suo libro. «Ci vediamo la prossima settimana».
Alla fine Sir Kevin ricevette una telefonata dal consigliere speciale. «Il tuo capo sta rendendo la vita impossibile al mio».
«Sì?».
«Sì. Gli dà dei libri da leggere. Roba da matti».
«A Sua Maestà piace leggere».
«E a me piace farmi ciucciare il cazzo. Ma non lo chiedo al primo ministro. Come la mettiamo, Kevin?».
«Parlerò a Sua Maestà».
«Bravo, Kev. E dille di darci un taglio».
Sir Kevin non parlò a Sua Maestà, e men che meno le disse di darci un taglio. Abbassò la cresta e andò a trovare Sir Claude.
Nel giardinetto del suo incantevole cottage secentesco di Hampton Court, graziosamente concessogli dalla corona, Sir Claude Pollington era assorto nella lettura. O perlomeno così sembrava; in realtà sonnecchiava davanti a un fascicolo di documenti riservati che gli avevano spedito dalla biblioteca di Windsor, un privilegio ottenuto in qualità di anziano servitore reale, ormai più che novantenne ma sempre impegnato nella stesura della sua autobiografia, dal titolo provvisorio di Una sovrumana sfacchinata.
Uscito da Harrow a diciott'anni, Sir Claude era passato al servizio reale come paggio di Giorgio V, e non mancava mai di ricordare che una delle sue prime mansioni consisteva nel leccare le linguelle per i francobolli che il sovrano irascibile e meticoloso incollava sui suoi svariati album. «Nel caso fosse necessario individuare il mio DNA,» aveva detto una volta Sir Claude in un talk show «basterebbe guardare dietro i francobolli di decine e decine di album reali; ricordo in particolare quelli della repubblica di Tuva, che Sua Maestà trovava di pessimo gusto, ma si sentiva tenuto a collezionarli. Tipico di Sua Maestà... scrupoloso all'eccesso». E al momento di scegliere la canzone, optò per la voce bianca di Ernest Lough che cantava Oh far the Wings of a Dove.
Nel suo salottino ogni superficie pullulava di fotografie incorniciate dei vari reali che Sir Claude aveva servito così fedelmente. Eccolo ad Ascot che regge il binocolo del Re; accovacciato nella brughiera mentre Sua Maestà prende di mira un cervo lontano. In un'altra seguiva la regina Maria che usciva da un negozio di antiquariato di Harrogate. Il viso del giovane Pollington era nascosto dietro un pacco contenente un vaso Wedgwood che lo sventurato commerciante aveva regalato controvoglia a Sua Maestà. E in un'altra ancora indossava una maglia a righe, e aiutava a equipaggiare la Nahlin in quella fatale crociera nel Mediterraneo dove c'era anche una certa signora Simpson con il berretto da yacht... una foto che spariva dalla vista quando, come accadeva spesso, la regina madre andava a prendere il tè da lui.
La famiglia reale non aveva mai avuto molti segreti per Sir Claude. Dopo esser stato al servizio di Giorgio V, era passato per un breve periodo a Edoardo VIII e quindi si era spostato senza intoppi alla corte di suo fratello Giorgio VI. Aveva svolto diverse mansioni in molti uffici del palazzo, per ricoprire infine il ruolo di segretario privato della regina. Anche quando era già in pensione da un pezzo, gli chiedevano spesso consiglio; lui incarnava la «persona fidata», l'elogio più ambito nel milieu.
Adesso però le mani gli tremavano parecchio e non badava più all'igiene personale come un tempo; e Sir Kevin, pur essendosi seduto con lui nel fragrante giardino, si trovò a trattenere il respiro.
«Perché non andiamo dentro?» chiese Sir Claude. «Magari c'è del tè».
«No, no» si affrettò a dire Sir Kevin. «Preferisco qui».
Spiegò il suo problema.
«Sua Maestà legge?» disse Sir Claude. «E che male può farle? Sua Maestà ha preso dalla sua omonima, la prima Elisabetta. Anche lei era un'accanita lettrice. Naturalmente allora c'erano meno libri. E anche alla regina madre non dispiaceva leggere. La regina Maria invece ne faceva volentieri a meno. Come Giorgio V Lui era un grande collezionista di francobolli. È così che ho cominciato, sa. Leccando linguelle».
Un domestico ancora più vecchio di Sir Claude portò fuori il tè, che Sir Kevin si versò con circospezione.
«Sua Maestà è molto legata a lei, Sir Claude».
«Ed è reciproco» disse il vecchio. «Stravedo per Sua Maestà da quando era bambina. Una vita».
E una vita emerita, con una bella guerra in cui il giovane Pollington si era guadagnato medaglie ed encomi, per poi approdare allo Stato maggiore.
«Ho servito tre regine» gli piaceva dire «e andavo d'accordo con tutte. La sola reginetta con cui non mi sono mai trovato era il generale Montgomery».
«Sua Maestà tiene in gran conto i suoi consigli» disse Sir Kevin, chiedendosi se il pandispagna fosse commestibile.
«Me lo auguro davvero» fece Sir Claude. «Che dire? La regina legge. Proprio una cosa curiosa. Prego, favorisca».
Sir Kevin fece appena in tempo ad accorgersi che quella che aveva scambiato per glassa in realtà era muffa, e infilò di nascosto la torta nella ventiquattrore.
«Forse lei potrebbe richiamarla al dovere?».
«Oh, Sua Maestà non ne ha mai avuto bisogno. Il senso del dovere ce l'ha anche troppo. Mi faccia pensare...».
E mentre Sir Kevin aspettava, il vecchio meditò.
Solo dopo un pezzo Sir Kevin si accorse che Sir Claude si era addormentato. Si alzò facendo rumore.
«Verrò senz'altro» disse Sir Claude. «E da un po' che non esco. Mi fa mandare un'auto?».
«Naturalmente» disse Sir Kevin stringendogli la mano. «Stia comodo».
E mentre se ne andava Sir Claude gli urlò dietro:
«È lei il neozelandese, vero?».
«Sarebbe opportuno» disse l'attendente «che Sua Maestà vedesse Sir Claude in giardino».
«In giardino?».
«All'aperto, Maestà. All'aria fresca».
La regina lo guardò.
«Intende dire che puzza?».
«Così sembra, Maestà».
«Poverino». A volte la regina si chiedeva se non pensavano che vivesse anche lei su questa terra.
«No. Deve salire qui».
Quando però l'attendente si offrì di aprire la finestra, lei non obiettò.
«Per quale motivo vuole vedermi?».
«Non ne ho idea, Maestà».
Sir Claude entrò con i suoi due bastoni, chinando il capo sull'uscio e di nuovo quando Sua Maestà gli diede la mano facendogli cenno di sedersi. Anche se la regina continuò a sorridere imperterrita, l'attendente non aveva esagerato.
«Come sta, Sir Claude?».
«Benissimo. E lei, Maestà?».
«Benissimo».
La regina rimase in attesa, e Sir Claude, che da autentico cortigiano non avrebbe mai introdotto per primo un argomento, fece lo stesso.
«Per quale motivo voleva vedermi?».
Mentre Sir Claude cercava di far mente locale, la regina ebbe modo di osservare la sottile barriera di forfora che gli si era raccolta sotto il colletto del cappotto, le macchie d'uovo sulla cravatta e lo strato di sebo accumulatosi nel grande orecchio pendulo. Se una volta Sua Maestà sarebbe stata superiore a simili debolezze, che non avrebbe neanche notato, adesso le si imponevano alla vista, minando la sua compostezza e addirittura addolorandola. Pover'uomo. Pensare che aveva combattuto a Tobruk! Questo doveva annotarlo.
«Lei legge, Maestà».
«Chiedo scusa?».
«Sua Maestà ha cominciato a leggere».
«No, Sir Claude. Noi abbiamo sempre letto. Solo che ultimamente leggiamo di più».
Ma certo, adesso aveva capito perché Sir Claude era venuto, e chi l'aveva mandato; e se all'inizio aveva provato solo compassione per quel testimone della sua esistenza, lo annoverò subito tra le fila dei suoi persecutori e si ricompose.
«Trovo che la lettura di per sé non sia affatto nociva, Maestà».
«Ci fa piacere sentirglielo dire».
«A patto che non venga portata agli estremi. È lì il pericolo».
«Vorrebbe dire che dovremmo limitarci?».
«Sua Maestà ha condotto una vita talmente esemplare... Il fatto che sia la lettura ad averla attratta è marginale. Se si fosse dedicata a qualsiasi altro passatempo con altrettanto fervore avrebbe suscitato molta disapprovazione».
«Può darsi. Ma aver passato la vita a essere irreprensibile non ci sembra un gran vanto».
«A Sua Maestà sono sempre piaciute le corse dei cavalli».
«Vero. Solo che adesso non ci dicono più molto».
«Oh» disse Sir Claude. «Che peccato».
Poi però intravide un possibile punto d'incontro fra corse e letture.
«Sua Maestà la regina madre era una grande ammiratrice di Dick Francis».
«Sì» disse la regina. «Ho letto un paio di libri suoi, ma mi è bastato. Swift, invece, ha scritto delle cose stupende sui cavalli».
Sir Claude annuì con aria solenne, non avendo letto Swift ed essendogli ormai evidente che non stava andando a parare da nessuna parte.
Rimasero seduti in silenzio per un attimo, abbastanza lungo perché Sir Claude si addormentasse.
Questo era capitato raramente a Sua Maestà, e quelle volte (un ministro le si era appisolato di fianco durante una cerimonia, ad esempio) aveva reagito con fastidio. Anche a lei veniva spesso sonno, e a chi non sarebbe venuto col lavoro che faceva, ma adesso, invece di svegliare il vecchio, rimase ad ascoltare il suo respiro difficoltoso, e a chiedersi quanto tempo le restava prima di essere colpita da simili infermità. Sir Claude era venuto con un messaggio, lei l'aveva capito e gliene aveva voluto per questo, ma forse il messaggio era lui stesso, un presagio del futuro ingrato che la aspettava.
La regina prese il taccuino dallo scrittoio e lo fece cadere per terra. Sir Claude si svegliò annuendo e sorridendo come se stesse approvando qualcosa che lei aveva appena detto.
«Come procede la sua autobiografia?» chiese la regina.
Sir Claude stava scrivendo le sue memorie da tanto di quel tempo che erano diventate la barzelletta del palazzo. «A che punto è arrivato?».
«Oh, non è in ordine cronologico, Maestà. Faccio un pochino tutti i giorni».
Non era vero, e fu solo per prevenire l'ennesima domanda inquisitoria della regina che Sir Claude a quel punto chiese: «Sua Maestà non ha mai pensato di scrivere?».
«No» disse lei, mentendo. «Non ho il tempo».
«Ma Sua Maestà per leggere l'ha trovato».
Questo era un rimprovero, e come tale le giunse abbastanza sgradito, ma per il momento lasciò correre.
«Che cosa dovrei scrivere?».
«Sua Maestà ha avuto una vita interessante».
«Sì» disse lei. «Certo».
Sir Claude a dire il vero non aveva idea di cosa avrebbe dovuto scrivere la regina, né se fosse davvero il caso che lo facesse; gliel'aveva suggerito solo per distoglierla dalla lettura e perché, stando alla sua esperienza, raramente si concludeva qualcosa con la scrittura. Era un vicolo cieco. Lui aveva cominciato da vent'anni e non aveva ancora messo insieme cinquanta pagine.
«Sì» disse Sir Claude con determinazione. «Sua Maestà deve scrivere. Ma se posso darle un consiglio, Maestà, non cominci dall'inizio. È l'errore che ho fatto io. Parta da metà. La cronologia è un gran deterrente».
«Aveva nient'altro da dirmi, Sir Claude?».
La regina fece il suo sorriso ampio. Il colloquio era finito. Come Sua Maestà riuscisse a trasmettere quel segnale era sempre stato un mistero per Sir Claude, eppure era chiaro come se suonasse la campanella. Mentre l'attendente apriva la porta, Sir Claude si tirò in piedi a fatica, si inchinò, e non appena raggiunse la porta si voltò e chinò di nuovo il capo. Poi si trascinò per il corridoio con i suoi due bastoni, uno dei quali gli era stato regalato dalla regina madre.
Rientrata nella stanza, la regina spalancò la finestra per arieggiare un po'. Tornò l'attendente e lei, con un'occhiata di disapprovazione, indicò la sedia dove si era seduto Sir Claude. Sulla fodera di raso c'era una chiazza umida. Il giovanotto portò via la sedia in silenzio, mentre la regina prendeva il libro e il cardigan accingendosi ad andare in giardino.
Quando l'attendente fu di ritorno con un'altra sedia lei era già uscita. Con l'abilità derivata dalla lunga pratica rassettò velocemente la stanza, notando subito che il taccuino della regina era rimasto per terra. Lo raccolse e per un attimo, prima di rimetterlo sullo scrittoio, si domandò se in assenza di Sua Maestà non potesse dargli una sbirciatina. Senonché proprio in quel momento lei ricomparve sulla porta.
«Grazie, Gerald» disse tendendo la mano.
Lui le porse il taccuino e la regina uscì.
«Merda» disse Gerald. «Merda, merda, merda».
Aveva le sue buone ragioni per imprecare, perché nel giro di qualche giorno non sarebbe più stato a servizio di Sua Maestà e anzi nemmeno a palazzo, ma sarebbe tornato al suo reggimento ormai dimenticato, col quale avrebbe arrancato sotto la pioggia per la brughiera del Northumberland. La velocità e la spietatezza della sua cacciata quasi Tudor trasmisero il messaggio giusto, come avrebbe detto Sir Kevin, e soffocarono sul nascere ulteriori dicerie sulla demenza senile di Sua Maestà. La regina era tornata in sé.
Niente di quello che aveva detto Sir Claude sortì alcun effetto, ma quella sera la regina si ritrovò a pensarci nella Royal Albert Hall dove si teneva un concerto per il suo ottantesimo compleanno. In passato la musica non era mai stata uno svago per lei, l'aveva sempre sentita un po' come un obbligo e di fatto conosceva solo il repertorio dei concerti cui aveva dovuto presenziare.
Quella era una voce, pensò la regina sentendo un ragazzo suonare il clarinetto: Mozart, una voce che tutti in sala conoscevano e distinguevano nonostante il compositore fosse morto da duecento anni. E si ricordò di quel personaggio di Casa Howard che nella sua testa metteva le figure a Beethoven durante il concerto nella Queen's Hall descritto da Forster; Beethoven, un'altra voce che conoscevano tutti.
Il ragazzo finì, il pubblico applaudì fragorosamente, e la regina si protese verso una persona del suo seguito come a condividere l'entusiasmo. Ma quello che voleva dire era che lei aveva ottant'anni e nessuno conosceva la sua voce. In auto sulla via di casa, tutt'a un tratto, senza rivolgersi a nessuno in particolare, la regina disse: «Io non ho voce».
«Per forza» disse il duca. «Si crepava. Sarà la gola».
Era una notte afosa e la regina, contrariamente alle sue abitudini, si svegliò presto e non riuscì a riprendere sonno.
Vedendo accendersi la luce nella sua stanza, il poliziotto in giardino per precauzione aprì il telefonino.
La regina stava leggendo un libro sulle sorelle Bronté e la loro triste infanzia, ma capì che non le avrebbe conciliato il sonno e cercando qualcos'altro, in un angolo della libreria vide il libro di Ivy Compton-Burnett che aveva preso in prestito dalla biblioteca circolante e che il signor Hutchings le aveva regalato tanto tempo prima. Allora le era parso un po' ostico: si ricordò che per poco non si era addormentata, quindi adesso forse avrebbe fatto al caso suo.
Neanche a parlarne: il romanzo che ai tempi aveva trovato lento adesso sembrava piacevolmente spedito, sempre asciutto ma in modo pungente, e la regina trovò rassicurante il tono sobrio di Dama Ivy, così vicino al suo. La sfiorò il pensiero (di cui prese nota il giorno dopo) che la lettura, fra l'altro, era un muscolo, e a quanto pare lei era riuscita a svilupparlo. Adesso leggeva il romanzo agilmente e con grande piacere, ridendo di frecciatine, neanche battute, che prima non aveva notato. E riga per riga sentiva la voce di Ivy Compton-Burnett, piana, severa e saggia. La avvertiva nitida come quella sera le era giunta la voce di Mozart. Sua Maestà chiuse il libro. E di nuovo disse forte: «Io non ho voce».
Nella zona a ovest di Londra dove vengono registrate queste cose, un'impassibile dattilografa la trovò una frase strana e disse ad alta voce: «Be', se non ce l'hai tu, bella, non vedo proprio chi altro possa averla».
Intanto, a Buckingham Palace, la regina dopo un po' spense la luce, e sotto l'albero di catalpa il poliziotto richiuse il telefonino.
Al buio, la regina rifletté che una volta morta sarebbe esistita solo nei ricordi della gente. Lei, che non era mai stata al di sotto di nessuno, sarebbe diventata pari a chiunque altro. Leggere non avrebbe cambiato le cose... Scrivere magari sì.
Dovendo rispondere alla domanda se la lettura le avesse arricchito la vita, avrebbe risposto di sì, salvo aggiungere con altrettanta certezza che l'aveva anche vuotata di qualsiasi scopo. In passato era stata una donna risoluta che conosceva i suoi doveri e intendeva compierli fin quando possibile. Adesso si sentiva troppo spesso scissa in due. Leggere non era agire, quello era il problema. Anche a ottant'anni, lei era una donna d'azione.
Riaccese la luce, prese il taccuino e annotò: «Non si mette la vita nei libri. La si trova». Poi si addormentò.
Nelle settimane successive la regina fu vista leggere di meno, sempre che lo facesse. Era assorta, quasi distratta, ma non perché stesse pensando alle sue letture. Non si portava più dietro un libro ovunque andasse, e i volumi che si erano accumulati sul suo scrittoio vennero rispediti alle biblioteche, rimessi sugli scaffali o sparirono in altri modi.
Però trascorreva ancora lunghe ore allo scrittoio, a volte guardando i taccuini e ogni tanto annotandovi qualcosa, pur sapendo, sotto sotto, che la scrittura sarebbe stata ancora più malvista della lettura. Così, se qualcuno bussava alla porta, prima di dire «Avanti» nascondeva subito i taccuini nel cassetto.
Scoprì tuttavia che, quando scriveva qualcosa, anche se era solo un appunto, era felice come lo era stata leggendo. Ancora una volta si rese conto che leggere non le bastava più. Un lettore non è molto diverso da uno spettatore, mentre scrivere per lei era agire, e agire era il suo dovere.
Intanto passava molto tempo in biblioteca, specialmente a Windsor, a sfogliare le vecchie agende, gli album delle sue innumerevoli visite di Stato, il suo archivio, insomma.
«Sua Maestà cerca qualcosa in particolare?» chiese il bibliotecario dopo averle portato l'ennesima pila di materiale.
«No» disse la regina. «Sto solo cercando di ricordare com'era. Anche se non saprei nemmeno dire cosa».
«Be', nel caso dovesse rammentarsene, mi auguro che vorrà dirmelo, Maestà. O meglio ancora metterlo per iscritto. Sua Maestà è un archivio vivente».
Anche se la regina pensò che avrebbe potuto dirlo in modo più elegante, aveva capito cosa intendeva, e rifletté che il bibliotecario era un altro che la spingeva a scrivere. Lo sentiva quasi come un dovere, e lei in questo senso non aveva quasi mai sgarrato, almeno finché non aveva cominciato a leggere. Ma un conto era essere incoraggiati a scrivere, un altro a pubblicare, e fino a quel momento nessuno l'aveva incoraggiata nella seconda direzione.
La notizia che i libri fossero spariti dallo scrittoio della regina e che un nuovo interesse catturasse la sua attenzione giunse assai gradita a Sir Kevin e a palazzo in generale. È vero che la puntualità della regina non migliorò, e che il suo guardaroba restava imprevedibile ( «Quel cardigan lo proibirei per legge» disse la cameriera), ma Sir Kevin condivideva l'impressione comune che, nonostante il perdurare di tutte quelle manchevolezze, Sua Maestà avesse superato l'infatuazione per i libri e fosse tornata grosso modo se stessa.
Quell'autunno la regina rimase a Sandringham per qualche giorno, essendo prevista una visita reale nella città di Norwich. Ci fu una funzione alla cattedrale, una passeggiata nell'isola pedonale e, prima del pranzo all'università, la regina inaugurò una nuova caserma dei vigili del fuoco.
Seduta fra il prorettore e il professore di scrittura creativa, la regina rimase leggermente sorpresa vedendo comparire accanto a sé un polso scarno e una mano arrossata a lei ben noti, che porgevano un cocktail di scampi.
«Ciao, Norman».
«Maestà» disse lui educatamente, e senza interrompersi servì il cocktail di scampi anche al prorettore, prima di procedere con il resto della tavolata.
«Dunque conosce Seakins, Maestà?» le chiese il professore di Scrittura creativa.
«Lo conoscevo» rispose lei, un po' dispiaciuta che Norman non avesse fatto strada; evidentemente era tornato in una cucina, anche se non la sua.
«Abbiamo ritenuto» disse il prorettore «che servire a tavola oggi sarebbe stata una bella occasione per gli studenti. Verranno pagati, naturalmente, e per loro è tutta esperienza».
«Seakins» disse il professore «è molto promettente. Si è appena laureato ed è uno dei nostri fiori all'occhiello».
La regina era un po' contrariata dal fatto che, nonostante il suo sorriso smagliante, Norman, nel servirle il boeuf en croûte, sembrasse deciso a non guardarla negli occhi, e lo stesso accadde con le poires Belle-Hélène. E la sfiorò il pensiero che per qualche ragione le tenesse il muso, un comportamento che le era stato riservato raramente, tranne che da parte di qualche bambino o, a volte, di un ministro. I sudditi in genere non tenevano il muso alla regina, non rientrava nei loro diritti; un tempo sarebbero stati rinchiusi nella Torre.
Ma le venne anche in mente che qualche anno prima non avrebbe notato affatto cosa faceva Norman o chiunque altro, e che se adesso ci badava era perché ne sapeva di più dei sentimenti delle persone e riusciva a mettersi nei panni degli altri. Detto questo, non si spiegava comunque perché Norman fosse così arrabbiato.
«I libri sono una cosa fantastica, vero?» disse Sua Maestà al prorettore, che ne convenne.
«Alla lunga rendono più teneri,» aggiunse «anche se non vorrei parlare come una bistecca!».
Il prorettore concordò di nuovo, pur non avendo capito la battuta.
Dopodiché mandò a chiamare Norman, e la regina, il cui proverbiale ritardo era ormai inglobato nel programma, spese una buona mezzora a farsi aggiornare sulla sua carriera universitaria, comprese le circostanze che l'avevano portato all'Università dell'East Anglia. La regina richiese la sua presenza a Sandringham il giorno successivo, perché ora che Norman aveva cominciato a scrivere poteva esserle nuovamente d'aiuto.
In compenso, così su due piedi, la regina licenziò qualcun altro: entrando in ufficio, Sir Kevin scoprì che la sua scrivania era stata sgombrata. Anche se far studiare Norman era tornato utile, a Sua Maestà non piaceva essere ingannata, e per quanto il vero responsabile fosse il consigliere speciale del primo ministro, fu Sir Kevin a pagare il fio. Un tempo sarebbe finito sul patibolo; oggi si vide consegnare un biglietto per la Nuova Zelanda, con una nomina di presidente onorario dell'Università dell'Otago. Sempre patibolo era, solo più lento.
La notizia si diffuse a palazzo e tutti pensarono bene di darsi una regolata. Il richiamo all'ordine aveva funzionato.
Con sua leggera sorpresa, quell'anno la regina compì ottant'anni. Il compleanno non passò precisamente inosservato: venne celebrato con varie iniziative - alcune a lei più gradite di altre -, dato che i suoi consiglieri vedevano quella ricorrenza come l'ennesima opportunità per mettere in buona luce la monarchia davanti al volubile popolo.
Non stupì quindi che la regina decidesse di dare un ricevimento suo, per radunare tutti coloro che avevano avuto il privilegio di consigliarla nel corso degli anni. Di fatto si trattò di una festa per il Consiglio della Corona: i suoi membri nominati a vita lo rendono un corpaccione ingombrante che di rado si riunisce al completo e comunque solo in occasioni di una certa gravità. Ma nulla vietava, pensò la regina, di invitarli tutti per il tè, e che tè: prosciutto, lingua, senape e crescione, focaccine, torte e perfino zuppa inglese. Molto meglio di una cena, pensò, e anche più intimo.
L'abito elegante non era stato espressamente richiesto, però Sua Maestà era linda e impeccabile come ai vecchi tempi. Quanti consigli aveva ricevuto negli anni, pensò contemplando la stanza gremita; gli invitati erano accorsi così numerosi che avevano dovuto farli accomodare in una delle stanze più maestose del palazzo, con il lauto tè allestito in due saloni adiacenti. La regina si aggirava felice tra i suoi ospiti, e senza familiari al seguito perché loro, pur facendo parte del Consiglio della Corona, non erano stati invitati. «Li vedo già abbastanza,» disse la regina «mentre è difficile che veda tutti voi insieme, e non vorrei che la prima occasione fosse il mio funerale. Provate la zuppa inglese, è una cannonata!». Era raro che la regina fosse così di buonumore.
La prospettiva di un tè come si deve aveva attirato molti più consiglieri del previsto: la cena sarebbe stata una seccatura, mentre il tè era un piacere. Il risultato fu però che le sedie scarseggiavano; ci fu un gran viavai di camerieri per trovare un posto a tutti, anche se quello contribuì al divertimento. Alcuni vennero fatti accomodare sulle classiche sedie dorate da ricevimento, altri si videro assegnare un'inestimabile bergère Luigi XV o una poltrona con monogramma presa dall'ingresso, mentre un ex presidente della Camera dei Lord finì appollaiato su uno sgabellino col sedile di sughero portato giù da un bagno.
La regina osservò placida tutto quell'andirivieni, non proprio da un trono ma certamente da una poltrona più grande di quella di chiunque altro. Si era portata dietro il tè e continuò a sorseggiarlo e a chiacchierare finché non si furono seduti tutti.
«Ho sempre saputo di avere dei buoni consiglieri, ma non mi ero resa conto di quanti foste. Che folla!».
«Forse, Maestà, dovremmo cantarle in coro "Tanti auguri"!» disse il primo ministro, naturalmente seduto in prima fila.
«Non esageriamo» disse Sua Maestà. «È vero che compio ottant'anni e che questa è una specie di festa di compleanno, ma non so bene cosa ci sia da festeggiare. Mi sento solo di dire che è un'età a cui poter morire senza che sia una tragedia nazionale».
Qualcuno ridacchiò educatamente e anche la regina sorrise.
«Riterrei più appropriato» disse Sua Maestà «che reagiste con un coro di "no"».
Fu assecondata con altre risate mentre le personalità più eminenti del paese provavano il brivido di scherzare con la più illustre.
«Come tutti sapete, sono regina da molto tempo. In più di cinquant'anni ho visto passare, se non trapassare (risate dal pubblico), nove primi ministri, sei arcivescovi di Canterbury, otto presidenti della Camera dei Comuni e, per quanto possa sembrarvi fuori tema, cinquantatré cagnolini corgi... una vita, come dice Lady Bracknell, costellata di eventi».
Sorrisi compiacenti dalla platea, qualche risatina qua e là. Era un po' come essere a scuola, e non più in là delle elementari.
«E naturalmente non è finita,» disse la regina «non passa settimana senza che succeda qualcosa di nuovo: uno scandalo, un insabbiamento, perfino una guerra. E dato che è il mio compleanno, vedete di non fare l'aria seccata - (il primo ministro stava studiando il soffitto e il ministro degli Interni il tappeto). Io guardo le cose in prospettiva, come del resto ho sempre fatto. A ottant'anni le cose non succedono, si ripetono.
«Comunque, come alcuni di voi sapranno, ho sempre detestato gli sprechi. Narra la leggenda che io faccia il giro di tutto Buckingham Palace per spegnere le luci, il che sarebbe sintomo di tirchieria - ma oggigiorno la chiamerei preoccupazione per l'effetto serra. Ma proprio perché non sopporto gli sprechi, penso a tutte le esperienze uniche che ho vissuto, molte delle quali messe effettivamente a verbale (conversazioni con capi di Stato, per esempio, annotate e riassunte); ma tante altre no, una vita intensa in cui sono stata sì, solo una spettatrice, però molto partecipe, soprattutto...» Sua Maestà si picchiettò la testa fresca di parrucchiere «soprattutto qui dentro. La domanda è: che ne sarà di tutte queste cose?».
Il primo ministro aprì la bocca come per dire qualcosa e fece anche per alzarsi dalla sedia. «Era una domanda retorica» disse la regina.
Il ministro ricadde a sedere.
«Come alcuni di voi sapranno, negli ultimi anni sono diventata un'accanita lettrice. Non mi sarei mai aspettata che i libri arricchissero tanto la mia vita. Ma la lettura mi ha dato quel che poteva; ora per me è venuto il momento di diventare, o provare a diventare, una scrittrice».
Il primo ministro aveva ricominciato ad agitarsi e la regina, notando che con i primi ministri succedeva di solito così, gli cedette educatamente il campo.
«Un libro, Maestà. Ah sì! I ricordi della sua infanzia, e la guerra, il bombardamento del palazzo, il suo ruolo nell'Aviazione Ausiliaria Femminile».
«Milizia Territoriale Ausiliaria» corresse la regina.
«Sì, le forze armate, quello che è» disse in fretta il primo ministro. «Poi il matrimonio, le circostanze drammatiche in cui ha saputo di essere diventata regina. Creerà molto scalpore. E non ho dubbi,» concluse ridacchiando «sarà un bestseller...».
«In cima alle classifiche di tutto il mondo» strombazzò il ministro degli Interni.
«S-sì,» disse la regina «se non fosse» - e assaporò il momento - «che non è proprio il tipo di libro a cui pensavo. Quello è un libro che chiunque è in grado di scrivere, e molti l'hanno già scritto... secondo me con risultati tediosissimi. No, io avevo in mente un libro di altro genere».
Il primo ministro, tetragono, alzò le sopracciglia in segno di cortese interesse. Forse la vecchia intendeva un libro di viaggi. Vendevano sempre bene.
La regina si mise comoda. «Pensavo a qualcosa di più radicale» disse. «Di più impegnativo».
Dato che «radicale» e «impegnativo» erano due parole che il primo ministro pronunciava spesso e volentieri, non lo misero in allarme.
«Qualcuno di voi ha letto Proust?» domandò la regina agli astanti.
«Chi?» bisbigliò uno che era sordo e altri alzarono la mano, ma il primo ministro no. Così un giovane membro del governo che l'aveva letto e stava per alzarla si guardò bene dal farlo.
La regina contò. «Otto, nove... dieci» e notò che erano quasi tutti relitti di governi molto più vecchi. «Be', è già qualcosa, ma non sono tanto sorpresa. Se avessi fatto la stessa domanda ai membri di qualche governo fa sono certa che avrei visto alzarsi una dozzina di mani, inclusa quella di Macmillan. Ma non posso certo infierire, dato che anch'io ho letto Proust solo di recente».
«Io ho letto Trollope» esclamò un ex ministro degli Esteri.
«Questo mi fa molto piacere,» disse la regina «ma Trollope non è Proust». Il ministro degli Interni, che non aveva letto nessuno dei due, annuì con aria saggia.
«Il romanzo di Proust è lungo, ma volendo ce la fareste a leggerlo tutto durante la pausa estiva, sci d'acqua permettendo. Alla fine il narratore, Marcel, ripensa alla sua vita che in realtà non è stata granché, e decide di riscattarla scrivendo appunto il romanzo che ho appena letto, dove svela qualche segreto della memoria e dei meccanismi del ricordo.
«Io invece non posso negare che la mia vita, a differenza di quella di Marcel, sia stata ricchissima, eppure anch'io sento di doverla riscattare con l'analisi e la riflessione».
«Con l'analisi?» fece il primo ministro.
«E la riflessione» ribadì la regina.
Il ministro degli Interni azzardò una battuta che avrebbe avuto molto successo alla Camera dei Comuni: «Dobbiamo dedurre che Sua Maestà ha deciso di scrivere questo resoconto per effetto di un libro, e per giunta di un libro francese? Ah ah ah».
Seguirono un paio di risolini, ma la regina non sembrò neanche accorgersi della battuta (che in effetti lasciava un po' a desiderare). «No, ministro. Del resto i libri, come certo saprà, è raro che inducano ad agire. In genere confermano solo quello che, magari inconsapevolmente, si è già deciso di fare. Si ricorre a un libro per avere conferma delle proprie convinzioni. In altri termini, per chiudere un capitolo».
Alcuni consiglieri, che da un bel po' erano fuori dal governo, si resero conto di avere davanti una donna diversa da quella che ricordavano, e di conseguenza ne furono affascinati. Ma il resto degli astanti sedeva in un silenzio imbarazzato, perché pochi di loro capivano quello che stava dicendo. E lei se n'era accorta. «Vi vedo perplessi,» disse tranquilla «ma vi posso assicurare che è capitato anche a voi».
Erano di nuovo a scuola, e lei era la maestra.
«Cercare delle giustificazioni per un'azione già decisa in partenza è la premessa inconfessata di ogni pubblico accertamento, vi pare?».
Il ministro più giovane rise e subito se ne pentì. Il primo ministro non rideva affatto: se questo era il tono di ciò che la regina si apprestava a scrivere, non c'era modo di prevedere quel che avrebbe detto. «Continuo a pensare che farebbe meglio a raccontare la sua vita, Maestà» ribadì il primo ministro stremato.
«No» ribatté la regina. «Non mi interessano le facili reminiscenze. Spero che sarà qualcosa di più ponderato. Anche se quando dico ponderato non intendo riguardoso. Scherzo...».
Nel silenzio generale, il sorriso stampato sulla faccia del primo ministro era diventato un ghigno orrendo.
«Chissà,» disse la regina allegramente «magari il mio libro potrebbe sconfinare nella letteratura». «Avrei detto» fece l'altro «che Sua Maestà fosse al di sopra della letteratura».
«Al di sopra della letteratura?» esclamò lei. «Chi mai può essere al di sopra della letteratura? Sarebbe come essere al di sopra dell'umanità. Ma, ripeto, non ho ambizioni letterarie, mi interessano l'analisi e la riflessione. Ci sono quei dieci primi ministri». Fece un sorriso smagliante. «C'è molto su cui riflettere. Ho visto il paese entrare in guerra più volte di quanto ami ricordare. Anche lì c'è da pensarci su».
Sua Maestà sorrideva ancora, ma la imitarono solo i più anziani, che non avevano niente da perdere.
«Ho incontrato e anche ospitato molti capi di Stato in visita ufficiale. Certi erano dei farabutti fatti e finiti, con mogli della stessa risma». Qui almeno ci fu qualche mesto cenno d'assenso.
«Ho teso la mano guantata di bianco a mani grondanti di sangue e conversato amabilmente con uomini che avevano trucidato dei bambini. Mi sono fatta strada tra escrementi e sangue rappreso, e spesso ho pensato che l'equipaggiamento essenziale per una regina è un paio di stivaloni di gomma.
«Su richiesta dei miei vari governi sono stata costretta a acconsentire, seppure passivamente, a decisioni a mio parere avventate e spesso ignobili. A volte mi sono sentita come una candela mangiafumo mandata qua e là per profumare delle dittature: al giorno d'oggi la monarchia è solo un deodorante governativo.
«Io sono la regina d'Inghilterra, ma negli ultimi cinquant'anni me ne sono vergognata spesso. Tuttavia» e si alzò «non dobbiamo perdere di vista le priorità e dopotutto questa è una festa, quindi, che ne dite di un po' di champagne prima di continuare?».
Lo champagne era eccellente, ma vedendo che uno dei paggi che lo serviva era Norman, il primo ministro non lo gradì più tanto e sgattaiolò nel corridoio per raggiungere il bagno, da dove chiamò col cellulare il consulente legale del governo. Questi fece il possibile per rassicurarlo e il primo ministro, rinvigorito dal suo parere, trasmise il messaggio ai vari membri del governo, così la regina al suo rientro nella stanza si trovò davanti un gruppo molto più saldo.
«Abbiamo discusso di quello che ha detto, Maestà» attaccò il primo ministro.
«Ogni cosa a suo tempo» disse lei. «Non ho ancora finito. A scanso di equivoci: il libro che ho in mente - e anzi, ho già iniziato a scriverlo -, non è uno di quegli sproloqui sulla vera vita a corte tanto amati dai tabloid. No. Non ho mai scritto un libro, ma spero che» e si interruppe «si eleverà al di sopra delle circostanze e vivrà di vita propria. Saranno digressioni sulla nostra epoca, e magari vi tranquillizzerà sapere che non sarà incentrato sulla politica o i fatti della mia vita: vorrei parlare anche di libri, e di persone. Ma niente pettegolezzi. Quelli non mi interessano. Un libro che la prende da lontano. Qualcuno, mi pare E.M. Forster, ha scritto: "Dite tutta la verità, ma ditela insinuandola: l'importante è girarci attorno". O era Emily Dickinson?» chiese all'assemblea.
Com'era da prevedere, nessuno rispose.
«Ma devo smettere di parlarne, altrimenti va a finire che non lo scrivo».
Non bastò a tranquillizzare il primo ministro il pensiero che spesso chi vuole scrivere un libro poi non ci riesce: alla fine la regina, con il suo irriducibile senso del dovere, l'avrebbe scritto di sicuro.
«E quindi, primo ministro, diceva?» si voltò gaia verso di lui.
Il primo ministro si alzò. «Pur nell'assoluto rispetto delle sue intenzioni» disse con un tono cordiale e rilassato «tengo a ricordarle che lei si trova in una posizione unica, Maestà».
«È raro che me ne dimentichi» disse la regina. «Vada avanti».
«Nessun nostro monarca, mi corregga se sbaglio, ha mai pubblicato un libro».
La regina gli fece di no con il dito, un gesto che le ricordò all'istante un vezzo di Noël Coward.
«Questo non è esatto, primo ministro. Per esempio il mio avo Enrico VIII un libro l'ha scritto. Contro l'eresia. Per questo io vengo ancora chiamata Difensore della Fede. E anche la mia omonima Elisabetta I ha scritto un libro».
Il primo ministro fece per protestare.
«Sì, lo so che non è la stessa cosa, ma la mia bisnonna, la regina Vittoria, ha scritto a sua volta un libro, Pagine da un diario scozzese, anche piuttosto noioso, e talmente innocuo che quasi non lo si può leggere. Non è un modello che intendo seguire. E poi» e qui la regina guardò fisso il primo ministro «mio zio, il duca di Windsor, ha scritto La storia di un re, dove racconta del suo matrimonio e delle successive avventure. Non basterebbe anche solo questo come precedente?».
A quel punto, provvisto del parere del consulente legale, il primo ministro gonfiò visibilmente il petto e con apparente rammarico sollevò la sua obiezione. «Sì, Maestà, ma c'è una differenza: Sua Altezza Reale ha scritto il libro come duca di Windsor. Potè farlo solo perché aveva abdicato».
«Ah, ma non ve l'avevo detto?» disse ridendo la regina. «Perché pensate che vi abbia convocati tutti qui?».