lunedì 16 agosto 2021

SOLARIS Stanislaw Lem

 


SOLARIS

Stanislaw Lem

Recensione (Alex Aled) 

Ho sempre avuto uno stupido pregiudizio sulle opere di fantascienza, ma se ne esistono altre che sfiorino le altezze di questo libro stupefacente, penso che diventerà uno dei miei generi preferiti. Descrizioni che tolgono il fiato, un'atmosfera aliena resa tangibile attraverso suggestioni e suggerimenti che restano sul filo del non detto, riflessioni filosofiche e psicologiche di altissimo valore. L'oceano, alieno e impenetrabile, si staglia sullo sfondo restando tuttavia una presenza immanente e di impossibile decifrazione, al di là del bene e del male. Niente che avessi letto prima mi ha lasciato questa sensazione di essere di fronte all'inconoscibile, al limite estremo delle umane categorie di interpretazione della realtà. Uno dei libri più belli letti quest'anno.

L’oceano pensante e l’assenza del caso

Recensione di “Solaris” di Stanislaw Lem

“Lem, che professionalmente fu un esperto di intelligenza artificiale e insegnante di Cibernetica, è stato il massimo rappresentante di una fantascienza filosofica, poco interessata agli effetti speciali. Considerava i suoi colleghi americani troppo trash e ignoranti in campo tecnologico. Con l’eccezione di Philip K. Dick […]. Con la metà degli anni Sessanta, Lem iniziò a pensare che la fantascienza mettesse piuttosto in luce i limiti della conoscenza umana, mostrandola spesso come una «vana zavorra» per scienziati e astronauti.

Un genere letterario che è una specie di pietra di paragone delle fragili capacità umane, rese ancora più fragili dalla separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica: il frutto avvelenato di una decadenza culturale che comincia, in Occidente, nel XIX secolo. Invece, per gli antichi, per gli uomini rinascimentali, per gli artefici dell’Enciclopedia, la cultura era una sola: i pittori erano scienziati; i filosofi biologi; i matematici poeti; gli architetti scrittori. La forza del sapere sta infatti nella capacità di connettere e tenere assieme tutte le conoscenze, senza divisioni disciplinari né ideologiche campagne contro la scienza in nome delle ragioni del cuore e della metafisica”. Nella postfazione all’edizione italiana di Solaris (Sellerio Editore), capolavoro dello scrittore polacco Stanislaw LemFrancesco M. Cataluccio sottolinea quanto il tema centrale di questo romanzo ne trascenda il magistrale impianto narrativo e si collochi in tutti quei momenti (che dell’opera sono la sostanza) nei quali il racconto appare come sospeso, messo tra parentesi, verrebbe quasi da dire dimenticato. La fantascienza, intesa come genere, come scelta, come adozione di un ben preciso canone (non solo stilistico), nel lavoro di Lem è uno sfondo, una quinta teatrale, un ambiente, uno spazio necessario agli attori per muoversi e agire; è insomma lo specchio di ciò che è l’inesplicabile e suggestivo pianeta Solaris per i protagonisti del libro, tre scienziati terrestri impegnati in una missione (l’ennesima) di studio e raccolta di dati e informazioni.

Dal punto di vista letterario, dunque, Solaris è molto più di un’opera sui generis, e sarebbe un errore giudicarla semplicemente in base alla sua originalità, alla sua evidente diversità. Perché Solaris, in ultima analisi, altro non è se non un enigma, un mistero, un quesito che ossessivamente torna a porsi e per il quale, forse, non è possibile trovare nessuna risposta che sia realmente soddisfacente. E la domanda, anzi le domande (le molte, moltissime domande che sorgono da quella fondamentale, relativa alle “nostre fragili capacità”) che Lem con impressionante chiarezza pone tanto a se stesso quanto ai lettori sono le seguenti: che cosa davvero siamo in grado di conoscere? Quali sono i limiti del nostro sapere? E come possiamo (sempre che si possa) superarli? È possibile per l’uomo comprendere qualcosa – una qualsiasi cosa, la realtà di un pianeta, la più piccola forma di vita, l’esistenza di un colore che non abiti lo spettro visibile, quella di una materia che non possa essere percepita e identificata dai sensi – che esista oltre i confini della sua ragione e della sua immaginazione? Quanto lontano possono spingersi le ipotesi prima di evaporare nell’inverosimiglianza, di appassire in un fantasticare in nulla diverso da quello dei bambini? Esiste, e se è se esiste è raggiungibile dall’uomo, dalla sua psiche e dal suo cervello, dal suo equilibrio fisico-chimico, dagli slanci improvvisi della sua intuizione, dall’applicazione severa dei suoi studi, dal suo sperimentare, dalle ferree concatenazioni della sua logica, un luogo in cui realtà e possibilità possano non solo incontrarsi ma mescolarsi, contaminarsi, divenire, mutare in qualcosa di ancora diverso, in altro?

Pagina dopo pagina, i tre scienziati alloggiati nella stazione di ricerca costruita su Solaris – Kelvin, l’ultimo arrivato, Snaut e Sartorius – si trovano ad affrontare non solo la recente morte di un altro loro collega, suicidatosi, ma l’inestricabile mistero rappresentato da quel mondo alieno, un pianeta quasi interamente ricoperto da qualcosa di molto simile a un oceano che a intervalli irregolari, forse in risposta a “stimoli” che gli giungono dagli apparecchi e dai dispositivi umani, o forse per il semplice fatto di pensare, fa emergere dalle proprie profondità gigantesche, immense costruzioni che innumerevoli, goffi tentativi di spiegazione hanno rubricato con nomi “umanoidi” quali “mimoidi”, “simmetriadi” e “asimettriadi” senza che quei suoni apparentemente razionali permettessero di fare un qualunque passo in avanti nella comprensione dei fenomeni osservati, e soprattutto interagisce con gli uomini (o cerca di farlo) materializzando accanto ai ricercatori copie esatte (o proiezioni mentali “incarnate”) di persone che hanno rivestito un ruolo importante nelle loro vite.

Ed è nel rapporto, conflittuale, tormentato, tragico e (ed è quel che più conta) ineludibile con queste “copie”, con questi esseri che non possono essere distrutti nello stesso modo in cui non possono venire compresi, che esistono senza essere nati, avendo e non avendo coscienza di quel che sono stati e che sono, avendo e non avendo memoria di ciò che hanno rappresentato e vissuto, comportandosi loro malgrado come simbionti o parassiti di coloro che inconsapevolmente li hanno evocati giungendo su Solaris, che l’essere umano mette alla prova se stesso. A un tempo entusiasmante scoperta e tragico scacco, Solaris è stato studiato e analizzato sotto tutti i punti di vista, e nel corso di decenni la sua semplice presenza, la sua impenetrabilità, ha dato vita a una letteratura sterminata e inconcludente. Perché la “soluzione” del problema Solaris, sempre che una soluzione ci sia, può trovarsi solo nel suo sterminato e silenzioso oceano e nelle creature che forma; creature, scrive ancora Cataluccio riprendendo alcune conclusioni cui nel romanzo è giunto Kelvin, fatte di “neutrini pensanti che prendono la forma dei nostri incubi e desideri […]. L’oceano di neutrini, che interagisce con la psiche umana, può essere spiegato solo con una visione spregiudicata delle leggi fisiche, associata a una profonda conoscenza delle dinamiche della psiche singola e collettiva, proprio ciò che auspicava il fisico austriaco Wolfgang Ernst Pauli […]. Il neutrino è una particella elementare di massa piccolissima e priva di carica elettrica […]. Nel 1927, Pauli […] cadde preda dell’alcolismo e di una profonda depressione. Nel 1931 […] si rivolse al dottor Carl Gustav Jung […]. Tra il padre della psicologia analitica e il fisico teorico nacque […] una reciproca collaborazione […] della quale sono testimonianza un ricco epistolario e vari scritti, dai quali si comprende quanto i due si influenzarono a vicenda. In particolare sul tema, attinente anche a Solaris, della sincronicità. Jung […] spiega che la sincronicità è un principio per cui un certo evento psichico trova un parallelo in qualche evento esterno non psichico, pur non esistendo tra i due fatti alcun nesso causale, ma solo un parallelismo di significato […]. Pauli riuscì […] a traslare questo concetto […] in qualche cosa di perfettamente dimostrabile tramite la fisica quantistica e il suo principio di esclusione [che spiega] come nulla sia casuale ma che tutto attorno a noi sia sempre significativamente connesso, anche se da fili invisibili”.

Romanzo-capolavoro, Solaris è un’opera che si legge d’un fiato, è una vertiginosa, indimenticabile avventura, è un viaggio fino alle radici ultime di ciò che siamo. Un viaggio dal quale non c’è ritorno ma che non possiamo rifiutarci di intraprendere.


SOLARIS

L’arrivo

Alle diciannove, ora di bordo, mi feci strada tra gli uomini schierati intorno al pozzo e lungo i gradini metallici mi calai nell’abitacolo. C’era appena lo spazio per sollevare i gomiti. Appena ebbi avvitata la bocchetta nella presa sporgente dalla parete lo scafandro si gonfiò e da quel momento non potei più fare il minimo movimento. Stavo o, per meglio dire, penzolavo dentro un letto d’aria incorporato in un tutto unico con la corazza metallica.

Alzai gli occhi: attraverso il vetro convesso vidi le pareti del pozzo e, più sopra, la faccia di Moddard china su di esso. Moddard sparì e subito calarono le tenebre: dall’alto era stata fatta scendere la pesante calotta di protezione. I motori elettrici che avvitavano i bulloni fischiarono otto volte, poi negli ammortizzatori risuonò il sibilo dell’aria compressa. I miei occhi, abituatisi all’oscurità, cominciavano a intravedere il contorno verde pallido dell’unico pannello di controllo dell’abitacolo.

– Sei pronto, Kelvin? – disse una voce nelle cuffie.

– Pronto, Moddard – risposi.

– Tu non pensare a niente. Provvederà la Stazione a recuperarti. Buon viaggio!

– Tra quant’è la partenza? – chiesi, mentre mi arrivava quello che sembrava il suono di minuscoli frammenti di sabbia rimbalzanti su una membrana.

– Sei già in volo, Kelvin. Buon viaggio! – rispose vicina la voce di Moddard.

Prima che riuscissi a capacitarmi, davanti ai miei occhi si aprì un ampio spiraglio attraverso il quale si vedevano le stelle. Invano cercai di rintracciare l’Alfa dell’Acquario alla cui volta si dirigeva il Prometeo. Quel settore del cielo della Galassia non mi diceva niente, non conoscevo neanche una delle sue costellazioni. Nell’esiguo vetro dell’oblò continuava a scorrere un pulviscolo luminoso. Lo seguii con gli occhi in attesa di riconoscere la prima stella, ma non ci riuscii. Gli astri impallidivano dissolvendosi contro uno sfondo sempre più sbiadito: ero già negli strati superiori dell’atmosfera. Immobile, chiuso come in un bozzolo tra i cuscini pneumatici, potevo guardare solo davanti a me. Ancora non si vedeva un orizzonte. Continuavo a volare senza avvertire alcun effetto, se non un senso di calore che a ondate progressive mi inondava il corpo. Dall’esterno mi giunse un lieve e penetrante stridore come di metallo raschiato sul vetro bagnato. Non fosse stato per le cifre che scorrevano sul quadro del pannello, non mi sarei reso conto della violenza della caduta. Le stelle erano sparite, oltre l’oblò si stendeva un chiarore rossastro. Avvertivo il battito pesante del polso, la faccia mi scottava, sentivo sulla nuca il soffio freddo del condizionatore; rimpiangevo di non essere riuscito a vedere il Prometeo: evidentemente era già uscito dal campo visivo quando il sistema automatico aveva aperto la saracinesca dell’oblò.

La capsula ebbe un sussulto, poi un secondo e infine fu scossa da insopportabili vibrazioni che attraverso gli strati isolanti e i cuscini d’aria mi penetrarono il corpo da cima a fondo. Il contorno verde pallido del pannello indicatore svanì. L’osservai senza timore: non ero venuto da così lontano per morire una volta raggiunta la meta.

– Stazione Solaris – chiamai. – Stazione Solaris, Stazione Solaris! Fate qualcosa, sto perdendo stabilità. Stazione Solaris, qui visitatore in arrivo. Passo.

Avevo perso un altro momento importante, quello della prima apparizione del pianeta. Mi si stendeva davanti nella sua piatta immensità; la dimensione dei solchi sulla sua superficie mi faceva capire di esserne ancora lontano o, piuttosto, di essere alto, avendo oltrepassato l’inafferrabile confine oltre il quale la distanza da un corpo celeste era l’altezza. Cadevo, continuavo a cadere: adesso lo percepivo anche ad occhi chiusi. Ma subito li riaprii, volevo vedere il più possibile.

Lasciai trascorrere qualche secondo e ripetei l’appello. Neanche stavolta ottenni risposta. Nelle cuffie crepitavano salve di scariche atmosferiche accompagnate in sottofondo da un brusio talmente basso e cupo da parere la voce del pianeta. Nell’oblò il cielo arancione si ricoprì di un velo e il vetro si oscurò: istintivamente mi rattrappii per quanto me lo consentiva l’involucro pneumatico, ma nel giro di un secondo mi resi conto che era solo un banco di nuvole che, come aspirato dall’alto, subito si dileguò. Continuavo a planare ora nel sole ora nell’ombra, la capsula girava intorno al suo asse verticale e l’immenso, turgido disco solare mi passava davanti spuntando da sinistra e sparendo da destra. A un tratto, accompagnata da crepitii e da un ronzio di fondo, mi giunse all’orecchio una voce lontana:

– Stazione Solaris a volo in arrivo, Stazione Solaris a volo in arrivo. Tutto a posto, siete sotto il controllo della Stazione. Stazione Solaris a volo in arrivo, prepararsi ad atterrare all’ora zero, ripeto prepararsi ad atterrare all’ora zero. Attenzione, inizio del conto alla rovescia. Duecentocinquanta, duecentoquarantanove, duecentoquarantotto…

Gli sporadici mugolii che inframmezzavano le parole rivelavano che a parlare non era una persona in carne ed ossa. La cosa era a dir poco strana. Di solito ogni volta che arrivava un nuovo visitatore, e per di più dalla Terra, tutti si precipitavano all’aeroporto. Non ebbi comunque il tempo di pensarci su perché l’immenso cerchio tracciatomi intorno dal sole si impennò insieme alla distesa verso la quale mi dirigevo; a questo sbandamento in una direzione ne seguì un altro nella direzione opposta, facendomi oscillare come un grosso pendolo d’orologio. Lottando contro il capogiro avvistai sulla superficie del pianeta, ritta come una muraglia e striata da solchi nero-violacei, una piccola scacchiera bianca e verde, segno di riconoscimento della Stazione. Nello stesso momento qualcosa si staccò con uno schianto dalla parte superiore della capsula: la lunga collana del paracadute ad anello schioccò con violenza producendo il suono, straordinariamente terrestre, di un colpo di vento – il primo vero vento che udissi da mesi.

Le cose si misero ad andare in fretta. Se fino a quel momento ero solo consapevole di stare cadendo, adesso potevo constatarlo visivamente. La scacchiera bianco-verde cresceva a vista d’occhio, ormai mi ero reso conto che era dipinta su una lunga argentea scintillante carena a forma di balena, dai fianchi irti di antenne di rilevatori radar e con scure file di finestre, e che quel colosso metallico, anziché posare sulla superficie del pianeta, ci stava sospeso sopra proiettando sul fondo color inchiostro la sua ellittica ombra di un nero ancora più intenso. Stavo notando i solchi violacei dell’oceano agitati da un lieve movimento quando, all’improvviso, le nubi orlate di abbaglianti bordi scarlatti balzarono verso l’alto, il cielo tra loro ristette piatto, lontano, color arancio cupo e tutto si confuse: stavo cadendo a vite. Prima che riuscissi a dire una parola, una rapida scossa restituì alla capsula l’assetto normale, dietro l’oblò l’oceano, agitato fino al fumoso orizzonte, risplendette come argento vivo; i cavi schioccanti e gli anelli del paracadute si staccarono di colpo e volarono via, trascinati dal vento sopra le onde. La capsula dondolò dolcemente con il tipico moto rallentato indotto dal campo magnetico artificiale e scivolò verso il basso. L’ultima cosa che riuscii a vedere furono le incastellature delle basi di lancio e le torri traforate dei due specchi parabolici, alti vari piani, dei radiotelescopi. Con uno spaventoso fragore di metallo contro metallo la capsula si immobilizzo; poi qualcosa sotto di me cedette e, con un lungo affannoso sospiro, il guscio metallico nel quale mi trovavo confitto all’impiedi terminò la sua caduta di centottanta e passa chilometri.

– Stazione Solaris. Zero più zero. Atterraggio compiuto. Fine – articolò l’inespressiva voce del sistema di controllo. Avvertendo una vaga oppressione al petto e uno spiacevole senso di peso agli organi interni afferrai a due mani le impugnature all’altezza delle spalle e staccai i contatti. Apparve la scritta verde TERRA e la parete della capsula si aprì. L’involucro pneumatico mi premette leggermente sulla schiena costringendomi, per non cadere, a fare un passo in avanti.

Con un lieve sibilo simile a un sospiro di rassegnazione l’aria fuoriuscì dallo scafandro. Ero libero.

Mi trovavo sotto un imbuto argenteo alto come una navata. Lungo le pareti scendevano fasci di tubi colorati che sparivano in pozzetti circolari. Mi voltai. I condotti di ventilazione rombavano aspirando i resti della venefica atmosfera planetaria penetrata all’interno durante l’atterraggio. Aperto come un bozzolo vuoto, il sigaro della capsula si ergeva in un calice montato su un basamento di acciaio. Le sue pareti esterne avevano assunto un color marrone sporco. Scesi lungo una piccola rampa di metallo: a partire da un certo punto vi era stato spalmato un ruvido strato plastico che, nei solchi lasciati dalle ruote dei carrelli trasportanti i razzi, si era usurato fino a scoprire l’acciaio sottostante. All’improvviso i compressori dei ventilatori tacquero e seguì un completo silenzio. Mi guardai intorno, vagamente sconcertato: mi aspettavo di vedere qualcuno, ma non c’era anima viva. Solo una freccia fluorescente risplendeva indicando un silenzioso tappeto mobile. L’imboccai. Scendendo verso il basso con un’elegante linea parabolica il soffitto del capannone si inseriva in un corridoio nelle cui rientranze si ammucchiavano alla rinfusa e in grande disordine bombole di gas compresso, recipienti, paracadute ad anello e casse. Anche questo mi dette da pensare. Il tappeto mobile finiva in uno slargo circolare dove regnava un disordine anche maggiore del precedente. Sotto una catasta di bidoni metallici si allargava una pozza di liquido oleoso che diffondeva un penetrante e spiacevole odore. Orme di scarpe, evidentemente passate sull’untuosa poltiglia, si allontanavano in tutte le direzioni. Tra le latte, come rifiuti estromessi dalle cabine, si ammucchiavano bianchi rotoli di nastro telegrafico, fogli strappati e spazzatura varia. Si accese una nuova segnalazione verde, stavolta indicante la porta di mezzo. Ne partiva un corridoio talmente stretto da permettere a fatica il passaggio simultaneo di due persone. La luce scendeva dall’alto attraverso degli oblò dai vetri lenticolari, puntati contro il cielo. Mi trovai davanti a una porta dipinta a scacchi bianchi e verdi. Era socchiusa. Entrai. La cabina semicircolare aveva un’unica grande finestra panoramica: fuori splendeva un cielo lievemente velato di nebbia sotto il quale si rincorrevano silenziosi cavalloni nerastri. Le pareti erano coperte di armadi spalancati, pieni di strumenti, di libri, di bicchieri dal fondo incrostato e di thermos polverosi. Sul pavimento sporco poggiavano cinque o sei tavolini a rotelle e tra loro alcune poltrone che, prive d’aria, penzolavano flosce. Solo una di esse appariva gonfiata a dovere e con lo schienale inclinato all’indietro. Vi sedeva un ometto sparuto, la faccia bruciata dal sole. Larghe falde di pelle gli si squamavano sul naso e sugli zigomi. Pur non avendolo mai incontrato di persona, lo conoscevo: era Snaut, il cibernetico assistente di Gibarian, autore a suo tempo di alcuni originalissimi articoli apparsi sull’almanacco di Solaristica. Indossava una maglietta a rete dalle cui maglie sfuggiva la rada peluria bianca del petto infossato, e un paio di pantaloni di tela a più tasche da meccanico, un tempo bianchi e ora macchiati sulle ginocchia e bucati dai reagenti chimici. Stringeva tra le dita una peretta di plastica, di quelle usate per bere sulle navi prive di gravità artificiale. Mi guardò come abbagliato da una luce accecante. Le dita allentarono la presa e la peretta rimbalzò a terra come una palla, spandendo qualche goccia di un liquido incolore. Lentamente il sangue gli defluì dal viso. Troppo sorpreso per dire qualcosa tacqui, mentre il protrarsi di quella scena muta riusciva stranamente a comunicarmi lo spavento dell’uomo. Feci un passo in avanti. Si raggomitolò nella poltrona.

– Snaut… – mormorai. Sussultò come se l’avessi colpito. Guardandomi con indescrivibile ribrezzo, gracchiò:

– Io non ti conosco, non ti conosco! Che vuoi?

Il liquido sparso a terra stava rapidamente evaporando. Avvertii un odore di alcol. Beveva? Era ubriaco? Ma perché tutta quella paura? Stavo al centro della cabina, le ginocchia molli, le orecchie che sembravano imbottite di cotone, ancora non ben saldo sul pavimento. Dietro al vetro bombato della finestra l’oceano ondeggiava ritmicamente. Snaut non mi staccava di dosso gli occhi arrossati. La paura gli stava lentamente sparendo dal viso, ma non l’espressione di indicibile ripugnanza.

– Che hai? – chiesi sottovoce. – Sei malato?

– Quanta premura… – disse con voce sorda. – Preoccupato, eh? E come mai proprio per me? Io non ti conosco.

– Dov’è Gibarian? – chiesi. Il respiro gli si fermò e negli occhi nuovamente sbarrati passò un lampo fugace.

– Gi… Giba… – balbettò. – No! No!

Fu scosso da un ebete riso silenzioso che di colpo svanì.

– Sei venuto per Gibarian? – chiese, quasi calmo. Per Gibarian? Che vuoi farne?

Mi guardava come se all’improvviso non rappresentassi più una minaccia; nelle sue parole, e soprattutto nel loro tono, c’era qualcosa di insopportabilmente offensivo.

– Ma che dici… – balbettai sconcertato. – Dov’è?

Sembrò sbalordito.

– Non lo sai?

«Dev’essere ubriaco – pensai. – Ubriaco fradicio». Mi sentivo invadere da una rabbia crescente. Invece di uscire dalla stanza, come avrei dovuto, cedetti all’impazienza.

– Snaut, torna in te! – urlai. – Come faccio a sapere dov’è, se sono appena arrivato! Si può sapere che ti prende?

La mandibola gli ricadde. Era rimasto di nuovo senza fiato, ma stavolta in modo diverso: un rapido lampo gli aveva attraversato gli occhi. Afferrati i braccioli della poltrona con mani tremanti si alzò a fatica, facendo scricchiolare le articolazioni.

– Che cosa? – disse, quasi perfettamente lucido. Appena arrivato? E da dove?

– Dalla Terra! – risposi con rabbia. – Ne hai mai sentito parlare? Non si direbbe!

– Dalla Te… Santo cielo! Ma allora tu sei… Kelvin?

– Sì. Che hai da guardarmi così? Che c’è di tanto strano?

– Niente – rispose, sbattendo in fretta le palpebre. Niente.

Si passò la mano sulla fronte.

– Scusa, Kelvin… Non è niente, è stata la sorpresa. Non ti aspettavo.

– Ma come non mi aspettavi? Sono mesi che avete ricevuto la notizia e oggi stesso Moddard vi ha telegrafato da bordo del Prometeo

– Sì, sì, certo… Il fatto è che in questo momento qui siamo un po’… disorganizzati.

– Già – risposi seccamente. – Pare anche a me.

Snaut mi girò attorno come per controllare il mio scafandro che peraltro era del tipo più semplice, con i soliti attacchi delle condutture e dei cavi sul petto. Tossì un paio di volte e si toccò il naso ossuto.

– Vuoi fare un bagno? Ti farà bene. La porta azzurra qui davanti.

– Grazie, conosco la pianta della Stazione.

– Hai fame?

– No. Dov’è Gibarian?

Si diresse alla finestra come se non avesse udito la domanda. Di schiena sembrava molto più vecchio: i capelli tagliati corti erano bianchi, la nuca bruciata dal sole appariva solcata da rughe profonde come tagli. Fuori della finestra balenavano le creste delle onde che si alzavano e ricadevano con tale lentezza da far pensare che l’oceano si stesse coagulando. Guardandolo si aveva l’impressione che la Stazione, poggiata su un invisibile sostegno, si piegasse leggermente da una parte. Poi tornava in equilibrio e con lo stesso pigro sbandamento si inclinava dalla parte opposta. Ma doveva trattarsi di un’illusione. Falde di mucillaginosa schiuma color osso si raccoglievano negli avvallamenti tra le onde. Per un attimo fui pervaso da un senso di nausea. Ripensai al rigoroso ordine regnante a bordo del Prometeocome a un bene prezioso perduto per sempre.

– Senti… – disse inaspettatamente Snaut. – Ora come ora, non ci sono che io… – Si voltò verso di me sfregandosi nervosamente le mani. – Per il momento dovrai accontentarti della mia compagnia. Mi conosci solo dalle fotografie, ma non importa: chiamami pure Sorcio, come fanno tutti qui dentro. Per uno che, come me, ha avuto dei genitori con ambizioni cosmiche, Sorcio non è proprio il massimo… Ma che vuoi farci…

– Dov’è Gibarian? – tornai ad insistere. Sbatté le palpebre.

– Mi dispiace di averti accolto in quel modo. Non è… solo colpa mia. Me n’ero completamente scordato ma sai, con tutto quello che ci è capitato…

– Va bene, va bene… – replicai. – Lasciamo perdere. Allora, che ne è di Gibarian? Non è nella Stazione? È uscito in volo?

– No – rispose Snaut, fissando un rotolo di cavo abbandonato in un angolo. – Non è andato da nessuna parte, né mai ci andrà. È appunto una delle ragioni di cui ti dicevo… tra le tante…

– Come? – chiesi. Avevo ancora le orecchie tappate e temetti di aver udito male. – Che vuoi dire? Dov’è?

– Hai capito benissimo – rispose in tono completamente mutato, fissandomi freddamente con uno sguardo che mi fece rabbrividire. Anche ammesso che fosse ubriaco, sembrava sapere perfettamente quello che diceva.

– Non sarà mica…

– Sì.

– Un incidente?

Annuì con quello che voleva essere un «sì» e, nello stesso tempo, l’assenso alla mia reazione.

– Quando?

– Stamattina all’alba.

Stranamente, la concretezza di quell’asciutto scambio di monosillabi non solo non mi sconvolse, ma mi rese più calmo. Adesso mi sembrava di capire il suo incomprensibile atteggiamento di prima.

– Com’è stato?

– Senti: ora va’ a cambiarti, sistema le tue cose e torna qui diciamo… tra un’ora.

Esitai un attimo.

– D’accordo.

– Aspetta un momento… – aggiunse mentre mi dirigevo alla porta. Mi guardava in modo strano. Capii che quello che stava per dire faticava a uscirgli di bocca.

– Eravamo in tre. Adesso, con te, siamo di nuovo in tre. Conosci Sartorius?

– Come conoscevo te, ossia dalle fotografie.

– In questo momento è nel laboratorio di sopra e dubito che ne esca prima di notte… Comunque, se lo incontrassi lo riconosceresti. Se per caso dovessi vedere qualcun altro, voglio dire oltre me e Sartorius… allora…

– Che cosa?

Mi pareva di sognare. Seduto sulla poltrona contro lo sfondo delle nere onde riflettenti i bagliori sanguigni del sole ormai basso sull’orizzonte, Snaut fissava nuovamente a testa china il cavo arrotolato nell’angolo.

– … non fare assolutamente niente.

– Ma chi dovrei vedere? Un fantasma? – sbottai.

– Capisco: credi che sia diventato matto. No, non sono impazzito, ma per adesso… non so come altro spiegartelo. Potrebbe anche non succedere nulla ma, nel caso, ricorda che ti ho avvisato.

– Avvisato di che? Di che stai parlando?

– Cerca di non perdere il controllo – continuò lui imperterrito. – Tieniti… pronto a tutto. Lo so che è impossibile, ma tu provaci lo stesso. Non c’è altro rimedio o, comunque, io non ne conosco altri.

– Ma cos’è che dovrei vedere? – chiesi, quasi urlando. Mi trattenevo a stento dall’afferrare per le spalle e scrollare di santa ragione quell’uomo che con la sua faccia stanca e bruciata dal sole sedeva fissando un angolo della stanza e spremendo a fatica le parole.

– Non lo so… Vedi, il fatto è che, in un certo senso, dipende anche da te.

– Allucinazioni?

– No, sono cose reali. Non le… aggredire. Ricorda quello che ti ho detto…

– Ma di che diavolo parli? – dissi con una voce che non mi pareva la mia.

– Non siamo sulla Terra.

– I politeri? Ma quelli non hanno niente di umano! esclamai. Non sapevo come strapparlo a quella fissità in cui sembrava leggere qualcosa di talmente assurdo da gelare il sangue nelle vene.

– Proprio per questo sono così spaventosi – disse piano. – Ricorda quello che ti ho detto: sta’ in guardia!

– Che cosa è successo a Gibarian?

Non rispose.

– Che sta facendo Sartorius?

– Torna tra un’ora.

Mi girai e uscii. Aprendo la porta gli lanciai un’ultima occhiata: sedeva con la faccia tra le mani, piccolo, rannicchiato, i pantaloni sporchi. Solo allora notai che sulle nocche aveva del sangue rappreso.

 

I solaristi

Il corridoio tubolare era vuoto. Rimasi un attimo in ascolto davanti alla porta chiusa. Le pareti dovevano essere molto sottili perché dall’esterno giungeva il gemito del vento. Sul pannello della porta vidi appiccicato di sghembo, alla meglio, un rettangolo di nastro adesivo con scarabocchiato a matita: «Uomo». Rimasi un attimo a fissarlo. Ero quasi tentato di rientrare da Snaut, ma capii che era impossibile.

I suoi pazzeschi avvertimenti mi risuonavano ancora nelle orecchie. Le spalle oppresse dall’insopportabile peso dello scafandro, mi voltai e a passi felpati, come sfuggendo a un invisibile osservatore, raggiunsi nuovamente lo slargo con le cinque porte. Su tre di esse apparivano delle targhette con scritto: dr. Gibarian, dr. Snaut, dr. Sartorius. Sulla quarta non c’era nulla. Esitai, poi premetti la maniglia e l’aprii lentamente. Schiudendola provai l’impressione, confinante con la certezza, che dentro ci fosse qualcuno. Entrai.

Non c’era nessuno. Una finestra ugualmente bombata, anche se lievemente più piccola, sovrastava l’oceano che qui riluceva untuoso quasi che le onde secernessero un olio rossastro. Il riflesso scarlatto riempiva la stanza simile alla cabina di una nave. Su una parete, tra gli scaffali coperti di libri, un letto rialzabile si ergeva in verticale sui giunti cardanici; sull’altra, tra i piccoli armadi erano appese cornici nichelate con foto aeree giuntate con pezzi di nastro adesivo e rastrelliere metalliche contenenti becchi Bunsen e provette tappate con il cotone; sotto la finestra due file di contenitori smaltati di bianco, una di fronte all’altra, permettevano a malapena il passaggio. I coperchi sollevati di alcuni di essi lasciavano vedere un assortimento di strumenti e di tubi in plastica. Ai due angoli si trovavano dei rubinetti, una cappa aspirante e un apparecchio di refrigerazione. Il microscopio, per il quale non c’era più posto sul grande tavolo accanto alla finestra, era posato per terra. Voltandomi vidi accanto alla porta un armadio a muro socchiuso, alto fino al soffitto, dalle cui grucce pendevano tute, camici da lavoro e grembiuli isolanti, mentre sui ripiani stava allineata la biancheria; tra gli stivali antiradiazioni luccicava l’alluminio delle bombole di ossigeno portatili. Due di queste, complete di maschera, pendevano dalla maniglia del letto a parete. Anche qui regnava lo stesso caos che altrove, camuffato alla meglio da una vaga parvenza di ordine. Fiutai l’aria: tra l’effluvio dei reagenti chimici aleggiava un sentore più acre. Cloro? Alzai istintivamente gli occhi verso le grate delle bocchette attaccate al soffitto: i nastrini di carta appesi alle cornici ondeggiavano dolcemente, segno che i compressori funzionavano mantenendo il normale flusso di aerazione. Presi i libri, gli apparecchi e gli strumenti posati sulle due seggiole e li ammucchiai alla meglio negli angoli in modo che, tra le mensole da una parte e l’armadio dall’altra, si creasse uno spazio vuoto intorno al letto. Tirai verso di me un supporto per lo scafandro e presi tra le dita la linguetta della chiusura lampo, ma subito la lasciai: non riuscivo a decidermi ad abbandonarlo, quasi che, senza, dovessi ritrovarmi indifeso. Perlustrai ancora una volta la stanza con lo sguardo controllando che la porta fosse ben chiusa; vedendo che non aveva serratura, dopo una breve esitazione vi spinsi contro i due contenitori più grossi. Protetto da quella provvisoria barricata, mi liberai rapidamente del pesante involucro che scricchiolava a ogni mossa. A un tratto trasalii: con la coda dell’occhio avevo visto muoversi qualcosa nello stretto specchio sul fondo dell’armadio, ma si trattava del mio stesso riflesso. La maglia sotto lo scafandro era fradicia di sudore. La tolsi e feci scorrere a fondo l’anta dell’armadio dietro alla quale apparvero le lucenti pareti di un minuscolo bagno. Sul pavimento sotto la doccia giaceva una grande cassetta piatta che trasportai agevolmente nella stanza. Mentre la posavo per terra, il coperchio, come spinto da una molla, si aprì rivelando una serie di scomparti pieni di strani oggetti: strumenti deformati o grossolanamente sbozzati in metallo scuro, alcuni dei quali uguali a quelli riposti negli armadi. Erano tutti inutilizzabili: monchi, smussati e fusi, sembravano usciti da una fornace. La cosa più strana era che lo stesso tipo di deformazione si notava anche sui manici in ceramica, di solito indistruttibili: nessun forno da laboratorio, a parte forse una pila atomica, poteva raggiungere la temperatura necessaria a fonderli. Estrassi dalla tasca dello scafandro un piccolo contatore Geiger, ma quando l’avvicinai ai relitti il beccuccio nero rimase muto.

Avevo addosso soltanto gli slip e una maglietta a rete. Me ne sbarazzai gettandoli a terra come stracci e, nudo, corsi sotto la doccia. Il contatto con l’acqua mi dette un senso di sollievo. Mi rigirai sotto il getto forte e bollente, mi frizionai il corpo sbuffando con esagerata energia come per scrollarmi di dosso ed espellere la malsana incertezza e l’atmosfera di sospetto che contagiavano la Stazione.

Frugando nell’armadio trovai una leggera tuta da allenamento, indossabile anche sotto lo scafandro, e trasferii nelle sue tasche i miei magri possessi. Tra le pagine del taccuino avvertii qualcosa di duro: era la chiave del mio appartamento sulla Terra, capitata lì in mezzo Dio solo sa come. Me la rigirai un po’ tra le dita non sapendo che farne. Alla fine la posai sul tavolo. A un tratto pensai che forse avrei potuto avere bisogno di un’arma: il mio temperino multiuso non era il massimo in quel senso. Ma ero troppo stanco e non mi trovavo nell’umore giusto per andare a cercare un lanciaraggi o roba del genere.

Mi sedetti su una sedia metallica al centro dello spazio vuoto, il più possibile lontano dagli oggetti che gremivano la stanza. Avevo bisogno di sentirmi solo. Constatai con piacere che all’appuntamento con Snaut mancava più di mezz’ora: ero sempre stato estremamente scrupoloso nel mantenere gli impegni presi, anche quelli meno importanti. Sul quadrante dell’orologio, diviso in ventiquattro ore, le lancette indicavano le sette. Il sole stava tramontando. Le sette lì corrispondevano alle venti a bordo del Prometeo. Ormai sugli schermi di Moddard Solaris doveva essersi ridotta alla dimensioni di una scintilla non distinguibile dalle altre stelle. Ma che mi importava del Prometeo? Chiusi gli occhi. A parte il cadenzato lamento prodotto dalle tubazioni, regnava il più completo silenzio. Il rubinetto del lavandino gocciolava sommessamente.

Gibarian era morto. Se avevo correttamente interpretato le parole di Snaut, dalla sua morte erano passate appena poche ore. Che ne avevano fatto del corpo? L’avevano sotterrato? No, su quel pianeta non si poteva. Passai in rassegna le varie possibilità quasi che la sorte di un morto fosse la cosa più importante del momento finché, resomi conto dell’assurdità di quei pensieri, mi alzai e cominciai a percorrere in diagonale la stanza. Passando urtai con il piede uno zainetto che sporgeva da sotto una pila di libri: mi chinai e lo raccolsi. Non era vuoto: conteneva una fiaschetta di vetro bruno soffiato, talmente sottile da sembrare di carta. La puntai verso la finestra e guardai in trasparenza il cupo rosseggiare del tramonto striato di nere fasce caliginose. Che diavolo mi prendeva? Perché mi perdevo in simili inezie e in questioni senza importanza?

Trasalii: all’improvviso si era accesa la luce. Non era altro che la cellula fotoelettrica sensibile al calare della sera. Il senso di attesa da cui ero pervaso mi metteva addosso una tale tensione che non sopportavo di sentirmi le spalle scoperte. Decisi di reagire. Avvicinai la sedia agli scaffali ed estrassi il secondo volume, a me fin troppo noto, della vecchia monografia di Hughes e Eugel, Historia Solaris. Appoggiai sulle ginocchia la rigida costola rilegata e cominciai a sfogliarlo.

La scoperta di Solaris risaliva a circa cento anni prima della mia nascita. Il pianeta girava intorno a due soli, uno rosso e uno blu. Per i successivi quarant’anni e passa nessuna nave spaziale gli si era avvicinata. A quei tempi la teoria di Gamow-Shapley sul fatto che sui pianeti satelliti di due corpi solari non potesse esserci vita era considerata una certezza assoluta: le orbite di quei pianeti subivano continue modificazioni per effetto del gioco gravitazionale in atto durante il reciproco girarsi intorno dei due soli.

Le perturbazioni che ne derivavano contraevano e dilatavano alternativamente l’orbita del pianeta per cui ogni eventuale principio di vita sarebbe stato distrutto dall’intenso calore o dal freddo glaciale. Tali cambiamenti si producevano nello spazio di milioni di anni e quindi, sia alla luce della scala astronomica che di quella biologica, in un tempo brevissimo visto che l’evoluzione richiedeva centinaia di milioni (se non un miliardo) di anni.

Secondo i primi calcoli, in cinquecentomila anni Solaris avrebbe dovuto arrivare a una mezza unità astronomica di distanza dal suo sole rosso e, dopo un altro milione di anni, finire ingoiato nel suo abisso incandescente.

In capo a una quindicina di anni ci si era tuttavia resi conto che la sua orbita non rivelava affatto le variazioni previste, quasi fosse altrettanto stabile di quella del nostro sistema solare.

I calcoli e le osservazioni nuovamente ripetuti, e stavolta con particolare precisione, si erano tuttavia limitati a confermare quanto già si sapeva e cioè che l’orbita di Solaris era instabile.

Da uno tra le centinaia di modesti pianeti scoperti ogni anno e di cui le statistiche si limitavano a citare in poche righe le caratteristiche orbitali, Solaris era di colpo passato al rango di un corpo celeste degno di particolare attenzione.

Quattro anni dopo questa promozione, Solaris era stato sorvolato dalla spedizione Ottenskjöld che, con il Laocoonte e due navi ausiliarie, ne aveva intrapreso lo studio. La spedizione, che tra l’altro non era provvista dei mezzi per sbarcarvi, non era andata oltre a una preliminare e quasi improvvisata ricognizione. Ottenskjöld aveva piazzato nelle orbite equatoriali e polari una grande quantità di satelliti-osservatori automatici il cui compito principale era di misurarne l’attrazione gravitazionale. Era stata anche esaminata la superficie del pianeta composta per la maggior parte da un oceano e da pochi altipiani innalzantisi al di sopra di esso; la loro superficie totale non uguagliava quella dell’Europa malgrado il fatto che Solaris avesse un diametro del venti per cento maggiore di quello della Terra. Questi frammenti di terreno roccioso e desertico, irregolarmente disseminati, si concentravano principalmente nell’emisfero sud. Erano state analizzate anche la composizione dell’atmosfera, priva di ossigeno, e misurate con la massima precisione la densità del pianeta, l’albedo e altre caratteristiche astronomiche. Come prevedibile, né sulle terre né nell’oceano erano state scoperte tracce di vita.

Nel corso dei successivi dieci anni Solaris, adesso al centro dell’attenzione di tutti gli osservatorii di quella zona spaziale, aveva manifestato una sorprendente tendenza a mantenere costante un’orbita che, al di là di ogni possibile dubbio, avrebbe dovuto essere instabile in seguito a una gravitazione variabile. Per qualche tempo la cosa aveva suscitato vivaci polemiche visto che (ovviamente per il bene della scienza) si era tentato di imputare quel risultato alle persone che se ne occupavano oppure ai computer di cui si servivano.

La mancanza di fondi aveva ritardato di oltre tre anni l’invio di una vera e propria spedizione su Solaris fino al momento in cui Shannahan, completata la sua squadra, aveva ottenuto dall’Istituto tre unità di tonnellaggio C, classe cosmodromica. Un anno e mezzo prima dell’arrivo della spedizione, partita dalla regione dell’Alfa dell’Acquario, una seconda flotta esplorativa aveva messo in orbita intorno a Solaris il satelloide automatico Luna 247 che, dopo tre successive ricostruzioni, a distanza di qualche decina di anni l’una dall’altra, era tuttora in funzione. I dati da esso raccolti avevano confermato senza possibilità di dubbio le osservazioni della spedizione Ottenskjöld circa la natura attiva dei movimenti dell’oceano.

Una delle navi di Shannahan era rimasta in orbita mentre le altre due, dopo alcuni preparativi preliminari, erano sbarcate su una zona di territorio roccioso che occupava circa seicento miglia quadrate nell’emisfero sud di Solaris. I lavori della spedizione, durati diciotto mesi, erano andati bene, a parte un malaugurato incidente causato da un malfunzionamento degli apparecchi. Nel frattempo, tuttavia, il gruppo degli scienziati si era diviso in due opposte fazioni. L’oggetto del contendere era l’oceano. In base alle analisi si era convenuto di considerarlo una formazione organica (nessuno, all’epoca, aveva osato definirla vivente). Ma mentre i biologi vi vedevano una formazione primitiva una sorta di gigantesco insieme, un’unica fluida cellula assurta a proporzioni mostruose (da loro tuttavia definita «formazione prebiologica») che circondava il globo di un involucro colloidale qua e là profondo varie miglia -, gli astronomi e i fisici affermavano che doveva trattarsi di un insieme organizzato in modo estremamente evoluto e, per complessità di struttura, superiore agli organismi terrestri, essendo in grado di influire attivamente sul percorso dell’orbita planetaria. In effetti non era venuta alla luce nessun’altra causa capace di spiegare il comportamento di Solaris; per giunta i fisici planetari avevano scoperto una relazione tra certi processi dell’oceano plasmatico e il potenziale gravitazionale, misurato in loco, che mutava a seconda delle oceaniche «trasformazioni di materia».

Erano quindi stati i fisici, e non i biologi, a formulare la paradossale ipotesi di una «macchina plasmatica», intendendo con ciò una formazione che secondo i nostri parametri poteva anche essere priva di vita ma che tuttavia era capace di intraprendere attività utili, diciamolo fin da ora, su scala astronomica.

La querelle, che nel giro di poche settimane aveva coinvolto nel suo vortice le massime autorità del settore, aveva fatto vacillare per la prima volta in ottant’anni la teoria Gamow-Shapley.

Per qualche tempo si era tentato di difendere il suo assunto secondo il quale l’oceano, non avente niente a che vedere con la vita, non era una formazione né «para» né «pre» biologica ma una formazione geologica, di certo estremamente rara, capace soltanto di stabilizzare l’orbita di Solaris attraverso una variazione delle forze di attrazione; a sostegno di tale tesi ci si richiamava alla legge di Le Chatelier.

All’opposto di questa posizione conservatrice vennero avanzate ipotesi – e tra le meglio elaborate citiamo quella di Civita-Vitta – affermanti che l’oceano era il risultato di uno sviluppo dialettico: partendo dalla sua primitiva forma di oceano primordiale, soluzione di corpi chimici a lenta reazione, per effetto delle circostanze (le variazioni di orbita minaccianti la sua esistenza), esso era riuscito a raggiungere in un sol colpo lo stadio di «oceano omeostatico» senza passare attraverso le varie fasi dello sviluppo terrestre, saltando quindi a piè pari lo stadio mono e pluricellulare, l’evoluzione vegetale e animale e il formarsi di un sistema nervoso e cerebrale. In altre parole invece di impiegare, come gli organismi terrestri, centinaia di milioni di anni per adattarsi all’ambiente e poi dare inizio ad una razza dotata di ragione, aveva di colpo dominato l’ambiente.

Per quanto estremamente originale, quel punto di vista continuava a non spiegare in che modo una gelatina vischiosa fosse in grado di stabilizzare l’orbita di un corpo celeste. Da quasi un secolo si conoscevano i gravitatori, dispositivi capaci di creare artificiali campi magnetici e gravitazionali; nessuno però riusciva lontanamente a immaginare in che modo una mucillagine informe riuscisse a ottenere un effetto che i gravitatori provocavano mediante complicate reazioni nucleari ed elevatissime temperature. I giornali che, con grande gioia dei lettori e con scandalo degli scienziati, pubblicizzavano le più inverosimili fole sul «mistero Solaris», arrivarono perfino a diffondere l’ipotesi che l’oceano planetario fosse un lontano parente delle terrestri anguille elettriche.

Quando si riuscì a districare almeno in parte il problema, risultò che la spiegazione – come in seguito sarebbe spesso accaduto con Solaris – non faceva che sostituire un enigma con un nuovo e forse più sconcertante problema.

Le osservazioni dimostrarono che l’oceano non agiva secondo gli stessi principi dei nostri gravitatori (cosa peraltro impossibile) ma riusciva a modellare direttamente la metrica spazio-temporale con il risultato, tra l’altro, di provocare delle discrepanze nella misurazione del tempo su un medesimo meridiano di Solaris. L’oceano, quindi, non solo in un certo senso conosceva la teoria di Einstein-Boevia ma (al contrario di noi) era anche capace di sfruttarne le conseguenze.

L’enunciazione di questa ipotesi aveva scatenato nel mondo scientifico una delle più violente tempeste del nostro secolo. Teorie riverite e universalmente accettate crollavano a pezzi, la stampa scientifica era invasa di articoli blasfemi e le menti vacillavano affascinate tra l’alternativa dell’«oceano geniale» e quella della «gelatina gravitazionale».

Tutto questo accadeva una quindicina di anni prima della mia nascita. Al tempo in cui ero studente, Solaris – sulla base di dati nel frattempo raccolti – era universalmente considerato un pianeta dotato di vita, ma in possesso di un solo abitante…

Il secondo volume di Hughes e Eugel, che continuavo macchinalmente a sfogliare, iniziava con una sistematizzazione ingegnosa quanto divertente. La tavola classificatoria presentava tre definizioni: Tipo – Polytheria, Ordine – Syncytialia, Classe – Metamorpha. Proprio come se conoscessimo chissà quanti esemplari della specie, mentre in realtà continuava ad essercene uno solo, sia pure di una massa di diciassette bilioni di tonnellate.

Sotto le mie dita sfilavano diagrammi colorati, grafici variopinti, analisi e spettrografie illustranti il tipo e il ritmo della trasformazione fondamentale e le sue reazioni chimiche. Più procedevo nell’esame del grosso volume e più le sue pagine si coprivano di elementi matematici: c’era da credere che avessimo ormai una completa conoscenza di quel rappresentante della classe Metamorpha che, avvolto nelle tenebre di una notte della durata di quattro ore, giaceva a qualche centinaio di metri sotto lo scafo metallico della Stazione.

In realtà non tutti erano d’accordo sul fatto che si trattasse di una «creatura» e meno ancora sulla possibilità di attribuire a un oceano l’epiteto di «pensante». Rimisi a posto il grosso tomo e presi il successivo. Si divideva in due parti: la prima riportava i rapporti di tutti gli innumerevoli tentativi di stabilire un contatto con l’oceano. Ricordavo fin troppo bene di come, al tempo dei miei studi, quei tentativi fossero fonte di aneddoti, scherzi e barzellette a non finire; in confronto al caos suscitato da quell’enigma, la scolastica medioevale sembrava un modello di chiarezza. La seconda parte, di quasi milletrecento pagine, comprendeva unicamente la bibliografia sull’argomento. La stanza in cui mi trovavo non sarebbe bastata a contenere tutti i testi citati.

I primi tentativi di contatto erano avvenuti mediante speciali apparecchi elettronici che trasformavano gli impulsi emessi da entrambe le parti: l’oceano, infatti, aveva attivamente partecipato a modellare gli strumenti. Il che non impediva al lettore di annaspare nel buio: che cosa significava: «attivamente partecipato»? Che l’oceano modificava certi elementi delle apparecchiature in esso sommerse, per cui la normale frequenza delle scariche cambiava e i sensori registravano una profusione di segnali, come frammenti di colossali operazioni di analisi superiore… Ma di che cosa si trattava? Di dati riguardanti un momentaneo stato di eccitazione dell’oceano, o di impulsi connessi a gigantesche strutture che l’oceano stava creando agli antipodi della zona studiata? Ci trovavamo di fronte al riflesso delle eterne verità dell’oceano riversate in impenetrabili strutture elettroniche, o alle sue opere d’arte? Chi poteva dirlo, visto che non si era mai riusciti ad ottenere due volte la stessa reazione al medesimo stimolo, visto che la risposta consisteva ora in un’esplosione di impulsi che quasi sfasciava gli apparecchi, ora in un sordo silenzio, e visto che era impossibile ripetere due volte il medesimo esperimento? Sembrava sempre di essere a un passo dal decifrare quella crescente massa di indizi: non era stato appunto a questo scopo che si erano progettati cervelli elettronici dalla capacità informatica virtualmente illimitata e finora mai richiesta da nessun altro problema? In effetti un qualche risultato era stato raggiunto. L’oceano – fonte di impulsi elettrici, magnetici e gravitazionali – sembrava parlare un linguaggio matematico; certe sequenze delle sue scariche di corrente erano state classificate ricorrendo alle più astruse branche dell’analisi terrestre, ossia la legge dei grandi numeri; vi si notavano analogie strutturali già osservate nel campo della fisica che studiava il reciproco rapporto tra energia e massa, tra grandezze finite e infinite, tra particelle e campi. Tutto questo aveva indotto gli scienziati a credere di trovarsi in presenza di un mostro pensante, di un protoplasmatico oceano-cervello ingrandito milioni di volte, che avviluppava l’intero pianeta e trascorreva il tempo in incredibilmente vaste cogitazioni teoriche sulla natura dell’universo; e che tutto quello che veniva captato dai nostri apparecchi non fossero che i minuti, casuali frammenti di un gigantesco monologo eternamente in atto nelle sue profondità e largamente superiore alle nostre capacità di comprensione.

Questo per quanto riguardava i matematici. Secondo certe persone, le loro ipotesi erano un atto di sfiducia nelle possibilità umane, un accettare supinamente un qualcosa che per il momento era incomprensibile ma che andava considerato come un riesumare dalla tomba la vecchia dottrina dell’ignoramus et ignorabimus. Altri ritenevano invece che si trattasse di sterili e pericolose fole e che in quelle ipotesi dei matematici si manifestasse una mitologia dei nostri tempi ravvisante in quell’immenso cervello – poco importa se elettronico o plasmatico – il fine ultimo della vita, la summaesistenziale.

Altri ancora… Ma gli studiosi e le opinioni si contavano a schiere. Il settore riguardante i tentativi di «stabilire un contatto» era uno scherzo in confronto alle altre branche della Solaristica: durante l’ultimo quarto di secolo queste si erano talmente specializzate che un solarista-cibernetico aveva forti difficoltà a intendersi con un solarista-simmetriologo. «Come potete sperare di intendervi con l’oceano, se non riuscite neanche a intendervi tra di voi?» aveva scherzosamente chiesto Veubeke, direttore dell’Istituto al tempo dei miei studi. La battuta conteneva una buona parte di verità.

Non per niente la decisione di catalogare l’oceano nella classe Metamorpha non era stata affatto casuale. La sua superficie ondeggiante poteva dare origine a forme totalmente diverse da se stessa, nonché da tutto ciò che esisteva sulla Terra, senza peraltro che si riuscisse a capire se quelle talvolta violente eruzioni di «creatività» plasmatica avessero per scopo un processo di adattamento cognitivo o di altro genere.

Riponendo sulla mensola il volume, pesante al punto che dovetti sollevarlo con entrambe le mani, pensai che tutta la nostra conoscenza di Solaris accumulata nelle biblioteche non era che inutile zavorra, una palude di fatti, e che ci trovavamo esattamente allo stesso punto in cui, settantotto anni prima, avevamo cominciato a raccoglierla; anzi la situazione era molto peggiore, visto che la fatica di tutti quegli anni si era rivelata vana.

Le uniche conoscenze sicure che avevamo a suo riguardo erano negative. L’oceano non si serviva di macchine né le costruiva, per quanto sembrasse che in determinate circostanze ne fosse capace: aveva infatti riprodotto alcune parti degli apparecchi sommersi, ma questo solo durante il primo e il secondo anno dell’esplorazione, dopo di che aveva ignorato tutti i tentativi ripetuti con certosina pazienza, quasi che avesse perso ogni interesse per i nostri strumenti e le nostre attività (e quindi, si sarebbe detto, anche per noi…). Non possedeva (continuo l’elenco delle nostre conoscenze negative) un sistema nervoso, né cellule, né una struttura simile in qualche modo a quella proteinica; non sempre reagiva agli stimoli, neanche a quelli più intensi (per esempio aveva totalmente «ignorato» la catastrofe del razzo ausiliario che durante la seconda spedizione di Giese era precipitato da un’altezza di trecento chilometri sulla superficie del pianeta e che con l’esplosione nucleare delle sue pile atomiche aveva distrutto il plasma per un raggio di un miglio e mezzo).

A poco a poco nelle cerchie scientifiche 1’«affare Solaris» aveva cominciato a essere considerato una causa persa, specie nel settore amministrativo dell’Istituto dove negli ultimi anni già si erano levate voci in favore di una riduzione dei fondi per ulteriori ricerche. Per il momento non si parlava ancora di una definitiva liquidazione della Stazione: sarebbe stata una troppo esplicita ammissione di sconfitta. Ma nel corso di conversazioni ufficiose varie persone sostenevano che l’unica soluzione fosse di trovare il modo più possibilmente «onorevole» per recedere dall’«affare Solaris».

Per molti tuttavia, soprattutto tra i giovani, 1’«affare» cominciava lentamente a diventare una specie di pietra di paragone delle capacità umane: «In realtà si diceva – qui è in gioco una posta ben più alta dell’approfondimento della civiltà solariana: qui si tratta dell’uomo e dei limiti della conoscenza umana».

Per un certo tempo aveva prevalso l’opinione (fervidamente caldeggiata dai quotidiani) che l’oceano pensante che circondava Solaris fosse un gigantesco cervello dallo sviluppo in anticipo di milioni di anni sulla nostra civiltà: una sorta di «yogi cosmico», di grande saggio, personificazione dell’onniscienza che, avendo da tempo capito l’inutilità di ogni azione, manteneva nei nostri confronti un rigoroso silenzio. Ovviamente non era vero niente. L’oceano vivente agiva, eccome, solo che lo faceva secondo categorie diverse da quelle umane: invece di costruire città, ponti o macchine volanti, invece di aspirare a conquistare lo spazio o ad attraversarlo (cosa che i difensori a spada tratta della superiorità dell’uomo consideravano un nostro inestimabile atout) si dedicava a un’interminabile attività di trasformazioni, all’«autometamorfosi ontologica» (la storia delle attività solaristiche non mancava certo di termini dotti!). D’altra parte, poiché chiunque si immergesse nel corpus della Solaristica ne traeva l’inconfutabile impressione di trovarsi davanti a frammenti di strutture intelligenti e forse addirittura geniali, mescolati ai prodotti di un’idiozia rasentante il delirio, ecco che in contrapposizione al concetto di un «oceano yogi» si formò l’idea di un «oceano ottuso».

Tali ipotesi fecero risorgere e ravvivarono uno dei più antichi problemi filosofici, ossia quello del rapporto tra materia e spirito, tra spirito e coscienza. Occorreva non poco coraggio per azzardarsi, come per primo fece Du Haart, ad attribuire all’oceano una coscienza. Il problema, che i metodologi si affrettarono a definire metafisico, covava alla base di quasi tutte le dispute e discussioni. Era possibile il pensiero senza la coscienza? Ma, d’altro canto, era possibile definire «pensiero» i processi che avvenivano nell’oceano? Una montagna era un grosso sasso? Un pianeta era un’enorme montagna? Si potevano anche applicare definizioni del genere, ma la nuova scala di grandezze introduceva nuove norme e nuovi fenomeni.

Il problema divenne la quadratura del cerchio dei nostri tempi. Ogni pensatore indipendente si sforzava di portare il proprio contributo all’arca della scienza solarista. Si moltiplicavano teorie secondo le quali ci trovavamo in presenza del prodotto di una degenerazione, di una regressione succeduta a una fase di «fioritura intellettuale» dell’oceano; anzi l’oceano era sostanzialmente un glioma che, formatosi nei corpi degli antichi abitanti del pianeta, li aveva tutti divorati e inghiottiti fondendone i residui in un elemento eterno, autorigenerantesi e sovracellulare.

Alla bianca luce, simile a quella terrestre, dei tubi fluorescenti sbarazzai il tavolo dagli apparecchi e dai libri che lo ingombravano e, distesa sul piano di plastica la mappa di Solaris, appoggiai le mani al bordo metallico e mi chinai a guardarla. L’oceano vivente possedeva le sue secche e le sue fosse; le sue isole, come testimoniavano gli strati di minerali erosi che le ricoprivano, un tempo ne avevano costituito il letto. L’oceano regolava per caso anche l’emergere e lo sprofondare delle formazioni rocciose sepolte nei suoi abissi? La cosa era oscura. Fissando le due enormi semisfere colorate in vari toni di azzurro e di viola fui colto per l’ennesima volta dall’intenso stupore provato quando, da ragazzo, avevo appreso l’esistenza di Solaris.

Perso nella contemplazione di quella mappa inquietante, non pensavo più a niente: l’ambiente circostante, l’enigma della morte di Gibarian e perfino il mio incerto futuro mi apparivano improvvisamente senza importanza.

Le diverse zone dell’entità vivente recavano i nomi degli studiosi dedicatisi alla sua esplorazione. Stavo osservando la massa di Texhall circondante gli arcipelaghi equatoriali, quando ebbi l’impressione che qualcuno mi fissasse.

Continuavo a stare chino sulla mappa ma, paralizzato dallo spavento, neanche più la vedevo. La porta di fronte a me era sbarrata dai contenitori, rinforzati da un piccolo armadio. «Sarà un robot» mi dissi, anche se entrando in camera non ne avevo notato nessuno e nessuno sarebbe potuto entrarvi senza che me ne accorgessi. Avevo la pelle d’oca sulla nuca e sulla schiena, mentre la sensazione di un pesante sguardo fisso su di me diventava insopportabile. Incassando sempre di più la testa tra le spalle, senza rendermene conto mi appoggiai con maggior forza al tavolo che cominciò lentamente a spostarsi sul pavimento. Quel movimento mi sbloccò: mi voltai di scatto.

La stanza era vuota. Di fronte a me non c’era che il nero vano della grande finestra emisferica. Ma la sensazione persisteva. L’immensa, informe, cieca e sconfinata oscurità mi stava fissando. Non una stella rischiarava il buio oltre i vetri. Tirai le tende oscuranti. Mi trovavo alla Stazione da appena un’ora e già cominciavo a capire come mai vi si fossero verificati episodi di mania di persecuzione. Pensai istintivamente alla morte di Gibarian. Conoscendolo come lo conoscevo, ero sempre stato convinto che niente potesse turbarne la mente. Adesso non ne ero più tanto sicuro.

Stavo al centro della stanza, in piedi davanti al tavolo. Il respiro mi si andava calmando e il sudore sulla fronte si raffrescava. A che cosa stavo pensando un momento prima? Ah, ecco: ai robot. Il fatto che non ne avessi incontrato nessuno nel corridoio o nelle camere era molto strano. Dov’erano andati a finire? L’unico che avessi intravisto a distanza faceva parte del servizio meccanico dell’aeroporto. E gli altri?

Guardai l’orologio. Era l’ora di andare da Snaut.

Uscii. Il corridoio era debolmente rischiarato da file di tubi fluorescenti che correvano lungo il soffitto. Oltrepassate due porte raggiunsi quella con il nome di Gibarian. V’indugiai a lungo davanti. La Stazione era immersa nel silenzio. Afferrai la maniglia. In realtà non avevo nessuna intenzione di entrare. La maniglia si abbassò, la porta si schiuse lasciando trasparire uno spiraglio buio, dopo di che all’interno si accese la luce. Potevo essere visto da chiunque passasse dal corridoio. Varcai rapidamente la soglia. Senza fare rumore chiusi con forza il battente e mi voltai.

Ristetti, le spalle quasi appoggiate alla porta. La stanza, più grande della mia, aveva anch’essa una finestra panoramica velata per tre quarti da una tenda a fiorellini rosa e celesti di chiara provenienza terrestre e non certo in dotazione alla Stazione. Le pareti erano coperte da scaffalature per libri e da piccoli armadi, smaltati sia gli uni che gli altri di un verde chiaro dai riflessi argentei, il cui contenuto, gettato sul pavimento, si ammucchiava tra sgabelli e poltrone. Due tavoli a rotelle, rovesciati e per metà incastrati tra mucchi di riviste sparse fuori dai contenitori sfasciati, mi sbarravano il passo. Libri dalle pagine aperte a ventaglio erano macchiati da liquidi fuoriusciti da ritorte e da flaconi dai tappi corrosi, per la maggior parte di un vetro talmente spesso che una semplice caduta, anche da una notevole altezza, non sarebbe riuscita a romperli. Davanti alla finestra giaceva sul fianco una scrivania con la lampada a braccio fracassata; due zampe dello sgabello rovesciato affondavano nei cassetti semiaperti. Una marea di fogli, di pagine scritte a mano e di carte di ogni genere si stendeva su tutto il pavimento. Riconobbi la calligrafia di Gibarian e mi chinai. Sollevando le pagine sfuse notai che la mia mano proiettava un’ombra non più singola, ma doppia.

Mi voltai. Come incendiata dall’alto, la tenda rosa fiammeggiava attraversata da un’incandescente linea di fuoco bluastro dilagante a vista d’occhio. Scostai la stoffa e un insostenibile bagliore, esteso su un terzo dell’orizzonte, mi ferì la vista. Negli avvallamenti tra le onde un ammasso di lunghe ombre spettrali correva verso la Stazione. Era l’alba. Dopo una notte della durata di un’ora, nella zona in cui si trovava la Stazione stava sorgendo il secondo sole del pianeta, quello azzurro. Quando tornai alle carte sparpagliate, il dispositivo automatico spense la luce sul soffitto. Il foglio che avevo raccolto conteneva la sommaria descrizione di un esperimento progettato tre settimane prima: Gibarian intendeva sottoporre il plasma a un intenso bombardamento di raggi X. Leggendo mi resi conto che l’appunto era destinato a Sartorius, incaricato di organizzare l’esperimento: quella che avevo in mano era una copia.

Il biancore dei fogli cominciava ad abbagliarmi. Il giorno sorgente differiva dal precedente: dopo la fase rossa in cui, sotto il cielo arancione di un sole via via meno accecante, l’oceano si velava di una nebbia rosa sporco che fondeva in un tutto unico nuvole e onde, il panorama cambiava radicalmente. Per quanto filtrata dalla tenda, la luce ardeva come una potente lampada al quarzo tanto da rendere quasi grigie le mie mani abbronzate. La stanza si era completamente trasformata: i rossi sbiadivano virando al bruno mentre gli oggetti bianchi, verdi e gialli, ravvivati, sembravano brillare di luce propria. Socchiudendo gli occhi sbirciai attraverso la fessura della tenda: il cielo era un bianco mare di fuoco sotto il quale palpitava una distesa di metallo liquido. Abbassai le palpebre sui cerchi rossi che progressivamente mi invadevano il campo visivo. Sulla mensola del lavandino dal bordo sbrecciato scoprii un paio di occhiali scuri che mi nascondevano mezza faccia. Adesso la tenda ardeva come una luce al sodio. Proseguii la lettura sollevando i fogli da terra e posandoli via via sull’unico tavolino rimasto in piedi. Una parte del testo mancava.

Seguivano le relazioni sugli esperimenti già effettuati: vi lessi che per quattro giorni l’oceano era stato irradiato in un punto situato a quattrocento miglia a nordovest dalla posizione attuale. La cosa mi sorprese: l’impiego dei raggi X era proibito da una convenzione dell’Onu per via dei suoi effetti nocivi ed ero assolutamente certo che nessuno avesse chiesto alla Terra un permesso in quel senso. Sollevando di colpo la testa scorsi nello specchio lasciato scoperto dall’anta socchiusa dell’armadio la mia faccia mortalmente pallida, seminascosta dagli occhiali scuri. La stanza, tutta ardente di bianco e di azzurro, aveva assunto un aspetto fantastico; ma pochi minuti dopo risuonò un prolungato stridore e le ermetiche saracinesche esterne scivolarono davanti alle finestre; nell’interno, divenuto buio, si accese la luce artificiale che adesso pareva stranamente smorta. Il caldo continuava ad aumentare e il regolare ronzio dei condizionatori aveva raggiunto l’intensità di un lamento. Benché gli impianti di raffreddamento della Stazione lavorassero a pieno ritmo, il calore opprimente non faceva che crescere.

Udii dei passi: qualcuno avanzava nel corridoio. In due balzi raggiunsi silenziosamente la porta. I passi rallentarono e cessarono. Il nuovo arrivato era fermo dall’altra parte. La maniglia si abbassò leggermente: d’istinto l’afferrai e la trattenni. La pressione non aumentava, ma neanche diminuiva. L’ignoto personaggio, forse sorpreso, manteneva a sua volta il silenzio. Per un lungo momento continuammo entrambi a premere finché a un certo punto la maniglia mi si sollevò lentamente sotto le dita e un lieve fruscio indicò che l’altro se ne stava andando. Rimasi ancora in ascolto, ma non udii più nulla.

I visitatori

Piegai rapidamente in quattro gli appunti di Gibarian e li infilai in tasca. Mi avvicinai lentamente all’armadio e guardai dentro: tute e vestiti erano stati accostati e fatti scivolare di lato come se dietro vi si nascondesse qualcuno. Da sotto le carte ammucchiate sul pavimento spuntava l’angolo di una busta. La sollevai. Era indirizzata a me. Con la gola improvvisamente chiusa strappai l’involucro, ma dovetti farmi forza per aprire il foglietto contenuto all’interno.

Con la sua regolare, minutissima e tuttavia decifrabile calligrafia Gibarian aveva scritto:

 

Suppl. Ann. Solar. Vol. 1.

v. anche: Vot. Separat. di Messenger nell’affare F.

e:

Ravintzer: Il piccolo apocrifo.

 

Tutto qui: non una parola di più. La calligrafia denotava una certa fretta. Si trattava di un’informazione importante? Quando l’aveva scritta? Pensai di dovermi recare al più presto in biblioteca. Quel supplemento al primo Annuario di Solaristica lo conoscevo, nel senso che sapevo della sua esistenza, ma non l’avevo mai preso in mano: rivestiva un valore puramente storico. Quanto a quel Ravintzer e al suo Piccolo apocrifo, non ne avevo mai sentito parlare.

Che fare?

Ero già in ritardo di un quarto d’ora. Già sulla porta, lanciai alla stanza un’ultima occhiata esplorativa. Solo adesso scoprii, appoggiato alla parete, il letto rialzabile che una grande mappa di Solaris spiegata davanti mi aveva nascosto. Dietro alla mappa spuntava qualcosa: un registratore tascabile chiuso nel suo astuccio. Lo estrassi, me lo misi in tasca e riappesi l’astuccio al suo posto. Controllai le cifre sul contatore: il nastro era registrato quasi per intero.

Chiusi gli occhi e rimasi un attimo in ascolto del silenzio regnante all’esterno. Niente. Aprii la porta: il corridoio era un antro nero; tolsi gli occhiali scuri e vidi le deboli luci sul soffitto. Mi chiusi la porta alle spalle e mi diressi a sinistra, verso la stazione radio.

Stavo quasi per arrivare alla rotonda dalla quale, come i raggi di una ruota, si diramavano i corridoi quando, superando uno stretto passaggio laterale che presumibilmente portava ai bagni, vidi una grande sagoma indistinta quasi confusa con la penombra.

Mi fermai impietrito. Dal fondo della diramazione avanzava senza fretta, con passo dondolante, una gigantesca donna nera. Vedevo luccicare il bianco degli occhi e udivo il morbido schiocco dei piedi nudi. Indossava solo un lucido gonnellino giallastro, come di paglia intrecciata; gli enormi seni dondolavano e le braccia nere erano grosse come le cosce di un uomo normale. Mi passò davanti alla distanza di un metro senza nemmeno guardare dalla mia parte e se ne andò dondolando le elefantesche masse carnose, simile alle sculture steatopigie del Paleolitico esposte nei musei di antropologia. Giunta alla curva del corridoio si girò di fianco e sparì nella cabina di Gibarian. Nell’aprirla fu momentaneamente investita dalla luce più intensa che rischiarava la stanza. La porta si richiuse silenziosamente e rimasi solo. Con la mano destra mi afferrai il polso della sinistra e strinsi con tutte le forze fino a farmi scricchiolare le ossa. Mi guardai intorno con aria smarrita. Che cosa era successo? Che cosa era stato? Di colpo, come per l’effetto di una scossa elettrica, mi tornarono in mente gli avvertimenti di Snaut. Che significava? Chi era quella mostruosa Afrodite? Di dove veniva? Feci un passo, uno solo, verso la cabina di Gibarian e subito mi fermai. Sapevo fin troppo bene che non ci sarei entrato. Dilatai le narici fiutando l’aria: avvertivo qualcosa di sbagliato, qualcosa che non quadrava con l’insieme… ah sì, ecco cos’era! Alla vista della donna mi ero istintivamente aspettato di sentirne lo sgradevole, intenso afrore di pelle sudata, ma neanche quando mi aveva incrociato a un passo di distanza me ne era arrivata la minima traccia.

Non so per quanto tempo rimasi appoggiato alla fredda parete metallica. La Stazione era silenziosa e l’unico rumore percepibile era il lontano brusio dei compressori dell’aria condizionata. Mi schiaffeggiai leggermente le guance e a passo lento mi avviai verso la stazione radio. Mentre premevo la maniglia udii una voce stridula:

– Chi è?

– Sono io, Kelvin.

Sedeva davanti a un tavolo incastrato tra una catasta di casse di alluminio e il quadro di comando della trasmittente e mangiava della carne in scatola direttamente dal barattolo. Non so come mai si fosse scelto per abitazione proprio la stazione radio. Rimasi sulla porta in contemplazione del moto cadenzato delle sue mascelle quando, a un tratto, mi resi conto di essere affamato. Avvicinatomi a un ripiano, estrassi dalla pila il piatto meno polveroso e mi sedetti di fronte a Snaut. Per un po’ mangiammo in silenzio, poi lui si alzò, prese un thermos da uno scaffale a muro e versò un boccale di brodo caldo per uno. Posando il thermos sul pavimento – sul tavolo non c’era più posto – chiese:

– Hai visto Sartorius?

– No. Dov’è?

– Di sopra.

Di sopra c’era il laboratorio. Continuammo a mangiare in silenzio finché le forchette non stridettero contro il fondo del barattolo vuoto. La finestra della stazione radio era tappata dall’esterno e l’oscurità della stanza era rischiarata da quattro globi rotondi fissati al soffitto che si riflettevano sul coperchio plastificato dell’emittente.

Piccole vene rosse affioravano sotto la pelle tesa degli zigomi di Snaut, che adesso indossava un’ampia maglia nera sfilacciata.

– Che hai? – chiese.

– Niente. Perché?

– Sei tutto sudato.

Mi asciugai la fronte con la mano. In effetti stavo grondando: probabilmente la reazione allo choc di poco prima. Snaut mi puntava addosso uno sguardo inquisitore. Dovevo dirglielo? Avrei preferito che fosse lui a dimostrarmi una maggiore fiducia. A che strano gioco stavamo giocando, e chi era nemico di chi?

– Fa caldo – dissi. – Credevo che il condizionamento funzionasse meglio.

– Tra un’oretta si stabilizzerà. Sei sicuro che si tratti solo del caldo? – chiese, alzandomi gli occhi in faccia. Feci finta di non accorgermene e continuai a masticare con cura.

– Che cosa hai intenzione di fare? – chiese finalmente quando finimmo di mangiare. Gettò stoviglie e scatolette vuote nel lavandino attaccato alla parete e tornò alla poltrona.

– Quello che fate voi – replicai con flemma. – Avrete senz’altro in programma delle nuove ricerche, no? Qualche nuovo stimolo… tipo raggi X, o roba del genere.

– Raggi X? – Sollevò le sopracciglia. – Come lo sai?

– Non so… Ne avrò sentito parlare da qualcuno. Magari sul Prometeo. Allora? Avete già cominciato?

– Non conosco i particolari. È stata un’idea di Gibarian che l’ha organizzata insieme a Sartorius… Ma tu come fai a saperlo?

Alzai le spalle.

– Non conosci i particolari? Eppure dovresti esserne al corrente, dopotutto è il tuo campo… – replicai senza terminare la frase.

Non rispose. Il mugolio proveniente dai condizionatori era cessato e la temperatura si manteneva a un livello accettabile. Nell’aria persisteva solo una nota acuta, come il ronzio di una mosca agonizzante. Snaut si alzò, andò al quadro di comando e cominciò a giocherellare con i tasti per puro passatempo, visto che l’interruttore dell’accensione era abbassato. Continuò ancora qualche momento dopo di che, senza voltare la testa, osservò:

– Bisognerà espletare le formalità per la… sai.

– Ah, sì?

Si voltò e mi guardò come sul punto di infuriarsi. Non ero affatto intenzionato a fargli perdere la calma ma, visto che non riuscivo a capire a che gioco si giocasse, preferivo tenermi sulle mie. L’ossuto pomo di Adamo gli spuntava dallo scollo della maglia.

– Sei stato da Gibarian – disse all’improvviso. Non era una domanda. Alzai le sopracciglia e lo guardai tranquillamente in faccia.

– Sei stato nella sua stanza – ripeté. Feci un leggero cenno della testa come a dire: «E anche se fosse?».

Volevo che continuasse a parlare.

– Chi c’era? – chiese.

Sapeva di lei!

– Nessuno. Perché, chi avrebbe dovuto esserci? chiesi.

– E allora perché non mi hai lasciato entrare?

Sorrisi.

– Ho avuto paura. Quando, dopo i tuoi avvertimenti, ho visto abbassarsi la maniglia, l’ho istintivamente trattenuta. Perché non mi hai detto che eri tu? Ti avrei aperto.

– Pensavo che ci fosse Sartorius – disse con voce incerta.

– E allora?

Rispose alla domanda con un’altra domanda.

– Che ne pensi di… quello che è successo nella camera?

Esitai.

– Dovresti saperlo meglio di me. Dov’è?

– Nella cella frigorifera – rispose prontamente. – Ce l’abbiamo portato stamattina stessa… per via del caldo.

– Dove l’hai trovato?

– Nell’armadio.

– Nell’armadio? Già morto?

– Il cuore continuava a battere, ma non respirava più. Stava agonizzando.

– Hai cercato di rianimarlo?

– No.

– Perché?

Esitò.

– Non ho fatto in tempo. È morto prima che arrivassi a metterlo giù.

– Ma perché, stava in piedi nell’armadio? Tra le tute?

– Sì.

Andò a prendere un foglio sulla piccola scrivania nell’angolo e me lo posò davanti.

– Ho steso un verbale provvisorio – disse. – In fondo è bene che tu abbia visto la camera. Morte avvenuta per… iniezione di una dose letale di Pernostal. Sta scritto qui…

Percorsi rapidamente con gli occhi il breve testo.

– Suicidio… – ripetei piano. – E il movente?

– Esaurimento… depressione… chiamalo come ti pare. Dopotutto te ne intendi più di me.

– Io mi intendo solo di quello che vedo di persona risposi guardandolo di sotto in su, visto che mi stava in piedi davanti.

– Che cosa vorresti dire? – chiese con calma.

– Prima si è iniettato il Pernostal e poi è andato a nascondersi nell’armadio, giusto? Se è così, non si tratta né di esaurimento né di depressione, ma di psicosi acuta. Di paranoia… Avrà creduto di vedere qualcosa… – dissi sempre più lentamente, fissandolo negli occhi.

Tornò al quadro di comando e ricominciò a giocherellare con gli interruttori.

– Qui c’è la tua firma – dissi dopo un momento di silenzio. – E quella di Sartorius?

– Te l’ho già detto, è nel laboratorio. Non si fa vedere, suppongo che…

– Che cosa?

– Che si sia chiuso dentro.

– Chiuso dentro? Guarda, guarda: chiuso dentro. Magari ci si è anche barricato?

– Può darsi.

– Snaut… – dissi – nella Stazione c’è qualcuno…

– Hai visto?

Mi guardava, leggermente chino in avanti.

– Contro che cosa mi hai messo in guardia? Un’allucinazione?

– Che cosa hai visto?

– È un essere umano, vero?

Senza rispondere, si voltò verso la parete come per nascondere il viso. Tamburellava con le dita sul tramezzo metallico. Gli guardai le mani: il sangue sulle nocche era sparito. All’improvviso mi si fece luce.

– È una persona reale… – dissi piano, quasi in un sussurro, come confidando un segreto che poteva venire spiato. – Vero? La si può… toccare… ferire… E oggi che l’hai vista per l’ultima volta.

– Come lo sai? – chiese senza voltarsi, il petto appoggiato alla parete nella stessa posizione in cui l’avevano colto le mie parole.

– Subito prima del mio atterraggio… Poco prima…?

Si rattrappì come per effetto di un colpo. All’improvviso vidi i suoi occhi impazziti.

– Tu! – esclamò con voce strozzata. – Chi sei tu?

Sembrava sul punto di saltarmi addosso. Non me l’aspettavo. La situazione si era improvvisamente capovolta: non credeva che fossi quello che dicevo di essere. Ma che significava? Mi stava fissando terrorizzato. Pazzia? Intossicazione? Nessuna possibilità era esclusa. Ma se quell’essere mostruoso l’avevo visto anch’io voleva dire che… io pure…?

– Chi è? – chiesi. Quelle parole parvero calmarlo. Mi scrutò ancora un momento, quasi non riuscisse a credermi. Prima che aprisse bocca avevo già capito che si trattava di una mossa strategica e che non mi avrebbe risposto a tono.

Si sedette lentamente sulla poltrona e si prese la testa tra le mani.

– Guarda… – disse piano, – siamo in pieno delirio…

– Chi è? – chiesi ancora.

– Se non lo sai tu… – mormorò.

– Ebbene?

– Niente.

– Per favore, Snaut – dissi. – Siamo un bel po’ lontani da casa, giochiamo a carte scoperte. Le cose sono già abbastanza complicate.

– Che vuoi?

– Che tu mi dica quello che hai visto.

– E tu…? – buttò lì con diffidenza.

– D’accordo: io lo dico a te e tu lo dici a me. Sta’ tranquillo, non ti prendo per matto, lo so che…

– Per matto! Dio mio! – esclamò, sforzandosi di spremere una risata. – Ma tu non hai proprio capito… La pazzia sarebbe una liberazione! Se lui avesse lontanamente pensato di stare delirando non l’avrebbe mai fatto, sarebbe ancora vivo…

– Quindi la storia dell’esaurimento che hai messo nel verbale è una bugia?

– Ma certo!

– E perché non dire la verità?

– Perché…? – ripeté.

Calò un silenzio. Per un attimo avevo creduto di poterlo convincere e di potere unire i nostri sforzi per risolvere l’enigma; ma ora brancolavo di nuovo nel buio e non capivo più niente. Ma perché si rifiutava di parlare?

– Dove sono i robot? – chiesi.

– Nei magazzini. Li abbiamo chiusi tutti, tranne quelli di servizio all’aeroporto.

– Perché?

Nuovo silenzio.

– Non vuoi dirlo?

– Non posso.

In tutta quella faccenda c’era qualcosa che mi sfuggiva. Forse era il caso di andare di sopra, da Sartorius. A un tratto mi ricordai della lettera e la cosa mi parve della massima importanza.

– Credi che sia possibile continuare a lavorare in queste condizioni? – chiesi.

Alzò sprezzantemente le spalle.

– Che importanza vuoi che abbia?

– Ah sì? E quindi, che cosa pensi di fare?

Non rispose. Nel silenzio risuonò lontano un lieve scalpiccio di piedi nudi. Tra gli apparecchi cromati e plastificati, gli alti scaffali degli impianti elettronici, i vetri e gli strumenti di precisione, la neghittosa andatura strascicata sembrava la burla di un pazzoide. I passi si avvicinavano. Mi alzai osservando fissamente Snaut. Gli occhi stretti a fessura, rimaneva in ascolto ma non sembrava spaventato. Quindi non era di lei che aveva paura…

– Da dove viene? – chiesi. Visto che tardava a rispondere, aggiunsi: – Non me lo vuoi dire?

– Non lo so.

– D’accordo.

I passi si allontanarono e svanirono.

– Non mi credi? – disse. – Ti do la mia parola d’onore che non lo so.

Senza rispondere aprii l’armadio degli scafandri e scansai i pesanti involucri vuoti. Come immaginavo, dai ganci sul fondo pendevano le pistole a gas usate per spostarsi in assenza di gravità. Non valevano granché, ma erano pur sempre un’arma: meglio quelle che niente. Controllai il caricatore e misi a tracolla la cinghia della fondina. Snaut mi osservava con attenzione. Mentre regolavo la lunghezza della cinghia, un sorriso sarcastico gli scoprì i denti giallastri.

– Buona caccia! – augurò.

– Grazie di tutto – replicai dirigendomi verso la porta. Si alzò di scatto dalla poltrona.

– Kelvin!

Lo guardai. Il sorriso era sparito. Non avevo mai visto un viso così affranto.

– Kelvin, non è che… io… Davvero, non posso… – balbettò. Aspettai che concludesse il discorso, ma lui si limitò a muovere le labbra nel tentativo di spremerne fuori qualcosa.

Mi voltai e uscii senza una parola.

 

Sartorius

Il corridoio era vuoto. Per un po’ proseguiva a diritto e poi svoltava a destra. Non ero mai stato nella Stazione ma durante l’addestramento sulla Terra avevo trascorso sei settimane nella sua copia conforme riprodotta all’interno dell’Istituto. Sapevo dove portava la scaletta dai gradini di alluminio. In biblioteca la luce era spenta. Cercai a tastoni l’interruttore. Quando, dopo aver trovato nello schedario il primo volume Annuario di Solaristica e il suo supplemento, pigiai la tastiera, si accese una luce rossa. Controllai nel registro: il libro era stato preso in prestito da Gibarian insieme al Piccolo apocrifo. Spensi la luce e tornai di sotto. Benché avessi sentito i passi allontanarsi, avevo paura di entrare nella sua cabina: la donna poteva anche essere tornata. Indugiai per un po’ davanti alla porta; poi, stringendo i denti, mi feci forza ed entrai.

La stanza illuminata era vuota. Cominciai a passare in rassegna i libri sparpagliati sul pavimento davanti alla finestra. A un certo punto andai all’armadio e lo chiusi: non ce la facevo a guardare quello spazio vuoto tra le tute. Sotto la finestra il supplemento non c’era. Mi misi a sollevare metodicamente un volume dopo l’altro: finalmente nell’ultimo mucchio, tra il letto e l’armadio, trovai il testo cercato.

Speravo di scoprirvi una qualche indicazione, e così fu: dall’indice spuntava un segnalibro. Sulla pagina, sottolineato in rosso, appariva un nome che non mi diceva niente: André Berton. I numeri che l’accompagnavano rimandavano a due brani. Consultando il primo appresi che Berton era un pilota di riserva della nave spaziale di Shannahan. Il secondo si trovava un centinaio di pagine più avanti. Subito dopo l’atterraggio la spedizione si era mossa con la massima prudenza; ma quando, in capo a sedici giorni, si era visto che l’oceano non solo non manifestava il minimo segno di aggressività ma che addirittura si ritraeva davanti a qualsiasi oggetto si avvicinasse alla sua superficie ed evitava per quanto possibile il diretto contatto con gli uomini e gli apparecchi, Shannahan e il suo vice, Timolis, avevano abolito parte delle precauzioni dettate dalla prudenza che, oltretutto, intralciavano e rallentavano i lavori.

A quel punto la spedizione si era divisa in gruppetti di due o tre uomini che effettuavano dei voli sopra l’oceano, talvolta anche per un raggio di qualche centinaio di miglia: i lanciafiamme, precedentemente piazzati come protezione intorno alla zona di lavoro, erano stati rimossi e trasportati alla base. I primi quattro giorni dopo questo cambiamento di metodo trascorsero senza incidenti, a parte i continui guasti al sistema di ossigenazione degli scafandri: la tossicità atmosferica corrodeva le valvole di uscita che andavano praticamente sostituite un giorno sì e uno no.

Il quinto giorno, ossia il ventunesimo a partire dal momento dell’arrivo, due scienziati, Carucci e Fechner (radiologo il primo, fisico il secondo) avevano effettuato un volo esplorativo sull’oceano a bordo di un aeromobile a due posti. Non si trattava di un vero e proprio aereo ma di un aeroscivolante che si spostava su un cuscino di aria compressa.

Dopo sei ore, non vedendoli tornare, Timolis, che dirigeva la base in assenza di Shannahan, aveva dato l’allarme e mandato alla loro ricerca tutti gli uomini disponibili.

Quello stesso giorno, per un fatale concorso di circostanze, circa un’ora dopo la partenza dei gruppi di esplorazione il contatto radio si era guastato per colpa di una grande macchia del sole rosso che bombardava di raggi corpuscolari gli strati superiori dell’atmosfera. Gli unici a funzionare erano gli apparecchi a onde ultracorte che permettevano di comunicare a una distanza di poco più di venti miglia. Per colmo di sfortuna, prima del tramonto la nebbia si era infittita al punto che si erano dovute sospendere le ricerche.

Le squadre di soccorso stavano già rientrando alla base quando una di esse aveva scoperto l’aeromobile a una distanza di appena 80 miglia dalla costa. Il motore era ancora in funzione e l’apparecchio, apparentemente intatto, si manteneva sopra le onde. Nella cabina trasparente era stato trovato, in stato di semincoscienza, un solo uomo: Carucci.

L’aeromobile era stato riportato alla base. Carucci, sottoposto a cure mediche, aveva ripreso conoscenza la sera stessa. Non era stato in grado di dire niente circa la sorte di Fechner: ricordava solo che al momento in cui avevano deciso di rientrare aveva cominciato ad avvertire dei sintomi di asfissia. La valvola di uscita della sua attrezzatura si era guastata e ogni inspirazione immetteva nello scafandro una piccola quantità di gas tossici.

L’ultimo ricordo di Carucci era che, nel tentativo di riparare il guasto, Fechner aveva sganciato la cintura e si era alzato in piedi. Secondo la ricostruzione degli esperti le cose dovevano essere andate così: per riparare il guasto di Carucci, Fechner doveva avere aperto il tetto della cabina, probabilmente perché la sua cupola bassa gli impediva di muoversi liberamente. La cosa era verosimile: la cabina di quelle macchine non era ermetica e serviva solo come protezione dagli agenti atmosferici e dal vento. Nel corso di quelle manovre doveva essersi rotto il rifornitore di ossigeno dello stesso Fechner il quale, ottenebrato, si era issato all’esterno della cupola ed era scivolato nell’oceano.

Questa la storia della prima vittima dell’oceano. Le ricerche del corpo – lo scafandro avrebbe dovuto farlo galleggiare sulle onde – erano risultate vane. Poteva anche darsi che stesse fluttuando da qualche parte ma una capillare perlustrazione di migliaia di miglia quadrate di un ondoso deserto quasi perennemente coperto di nebbia superava le possibilità della spedizione.

Al crepuscolo – riprendo la cronistoria di quella giornata – tutti i mezzi di soccorso erano rientrati alla base, eccetto il grosso elicottero da rifornimento sul quale si era alzato in volo Berton.

Quasi un’ora dopo il calar delle tenebre, quando già si cominciava a preoccuparsi per la sua sorte, l’elicottero era ricomparso alla base. Berton, in stato di choc, era uscito dall’apparecchio con i propri mezzi solo per darsi alla fuga; trattenuto a forza, si era messo a piangere e a gridare. Per un uomo che vantava diciassette anni di navigazione spaziale, spesso in condizioni estremamente difficili, la cosa era quanto mai strana.

I medici avevano diagnosticato un’intossicazione. Due giorni dopo Berton, che pur avendo apparentemente ricuperato l’equilibrio si era categoricamente rifiutato di uscire dal razzo principale della spedizione nonché di avvicinarsi all’oblò da cui si vedeva l’oceano, aveva dichiarato di voler stendere un rapporto sul suo volo, insistendo a dire che si trattava di una cosa della massima importanza. Il rapporto, sottoposto al consiglio della spedizione, era stato giudicato il prodotto alterato di una mente intossicata dai gas e, in quanto tale, anziché venire allegato alla storia della spedizione, era stato accluso alla cartella clinica di Berton. La cosa era finita lì.

Il supplemento non diceva altro. Immaginando che la chiave di tutto – ossia il perché del crollo nervoso di un veterano dello spazio – andasse cercata nel rapporto dello stesso Berton, ripresi a rovistare tra i libri, ma Il piccolo apocrifo restava introvabile. Sentendomi sempre più stanco, rimandai all’indomani la continuazione delle ricerche e uscii dalla stanza. Passando accanto alla scala di alluminio scorsi sui gradini delle macchie di luce provenienti dall’alto. Malgrado l’ora, Sartorius era quindi ancora al lavoro! Decisi di andare a trovarlo.

Al piano di sopra faceva più caldo. Nel largo corridoio dal soffitto ribassato spirava una lieve corrente d’aria. I nastri di carta davanti alle bocchette di ventilazione frusciavano a tutto spiano. Una grossa lastra di vetro rugoso riquadrata da una cornice metallica portava al laboratorio. Una tenda scura velava la porta dall’interno; la luce entrava solo da alcune strette finestre subito sotto il soffitto. Premetti il maniglione metallico: come immaginavo, la porta non cedette. Dall’interno non giungeva alcun rumore tranne, ogni tanto, quello che sembrava il fischio sommesso di un bruciatore a gas. Bussai. Silenzio.

– Sartorius! – chiamai. – Dottor Sartorius! Sono Kelvin, il nuovo arrivato! Devo vederla! Per favore, mi apra!

Un debole fruscio, come di carta calpestata, poi di nuovo silenzio.

– Sono Kelvin! Avrà sentito parlare di me! Sono arrivato qualche ora fa con il Prometeo! – esclamai accostando la bocca al punto in cui il riquadro della porta toccava il montante metallico. – Dottor Sartorius, sono solo, non c’è nessun altro! La prego, mi apra!

Silenzio. Poi un altro lieve fruscio, seguito da un secco tintinnio, come se qualcuno posasse degli strumenti di acciaio su un vassoio metallico. Rimasi di stucco: adesso dietro la porta risuonavano passettini rapidi e minuti come lo scalpicciare di un bimbo. O forse qualcuno lo imitava abilmente tamburellando sul coperchio di una scatola, usata come cassa di risonanza?

– Dottor Sartorius! – urlai. – Vuole aprirmi, sì o no?

Nessuna risposta: solo, di nuovo, lo scalpiccio infantile e nello stesso tempo il rapido, sommesso passo di qualcuno che camminasse in punta dei piedi. Ma se camminava, come faceva a imitare l’andatura di un bambino? «Dopotutto, che me ne importa?» pensai, e senza più controllare la rabbia che mi invadeva gridai:

– Dottor Sartorius! Non ho fatto un viaggio di sedici mesi per lasciarmi intrappolare nei vostri giochetti. Conto fino a dieci e sfondo la porta!

In realtà non ero affatto sicuro di riuscirci. La scarica della pistola a gas non era molto potente, ma ormai ero deciso a mettere in atto la mia minaccia anche a costo di andare a cercare dell’esplosivo nel magazzino che certo ne era provvisto. Non potevo permettermi di cedere: mi rifiutavo di continuare a giocare a quel folle gioco con le carte truccate che la situazione mi metteva in mano.

Si udì un rumore di lotta o di un peso spinto a forza; al centro della tenda si aprì uno spiraglio di circa mezzo metro, un’ombra sottile si stagliò contro la lastra opaca e rugosa del vetro e una voce fessa, leggermente arrochita, disse:

– Apro. Prima però mi prometta di non entrare all’interno.

– E allora, che mi apre a fare? – gridai.

– Esco io.

– D’accordo. Lo giuro.

Si udì il lieve scatto di una chiave girata nella serratura, poi la sagoma scura che copriva metà porta richiuse accuratamente la tenda; seguirono complesse operazioni, udii quello che sembrava lo scricchiolio di un tavolino spostato, infine la lastra si dischiuse quel tanto che bastò a Sartorius per sgusciare nel corridoio. In piedi davanti a me, copriva la porta con la persona. Era altissimo e magro, al punto che sotto la maglia color crema il corpo sembrava fatto di sole ossa. Intorno al collo portava un foulard nero e dal braccio gli pendeva, piegato in due, un camice da laboratorio bruciacchiato dai reagenti chimici. La testa, straordinariamente stretta, era inclinata da un lato e la faccia appariva per metà coperta da un paio di occhiali neri che mi impedivano di vederne gli occhi. Aveva la mandibola allungata, le labbra bluastre e due enormi orecchie, anch’esse bluastre come se fossero congelate. Non si era fatto la barba. Dai lacci legati ai polsi penzolavano i guanti antiradiazioni di gomma rossa. Rimanemmo un momento a guardarci con malcelata avversione. Quel poco di capelli che gli rimaneva (sembrava che se li fosse tagliati a spazzola con la macchinetta) era color piombo, mentre la ricrescita della barba era completamente bianca. L’abbronzatura del volto, a differenza di quella di Snaut, si fermava di netto a metà fronte: probabilmente si riparava dal sole con un berretto.

– L’ascolto – disse finalmente. Ebbi l’impressione che, più che ascoltare quello che avevo da dirgli, spiasse spasmodicamente quel che accadeva dietro la porta contro la quale continuava a tenersi appoggiato. Timoroso di dire una sciocchezza, rimasi momentaneamente in silenzio.

– Mi chiamo Kelvin… penso che mi abbia sentito nominare – cominciai. – Sono… voglio dire, ero il collaboratore di Gibarian.

Il suo viso magro, tutto a rughe verticali – era così che mi ero sempre immaginato Don Chisciotte – rimase inespressivo. Le nere lenti bombate degli occhiali puntate su di me non mi facilitavano certo il discorso.

– Ho saputo della morte di… Gibarian… – dissi e mi interruppi.

– Ebbene?

Cominciavo a spazientirmi.

– È stato un suicidio? Chi ha trovato il corpo: lei o Snaut?

– Perché viene à chiederlo a me? Snaut non l’ha già informata?

– Desideravo conoscere la sua opinione personale…

– Dottor Kelvin, lei è uno psicologo?

– Sì. Perché?

– Uno scienziato?

– Certo. Ma che c’entra con…

– Be’, da come parla sembra un ispettore o un poliziotto. Sono le due e quaranta e invece di cercare, come giusto, di inserirsi nei lavori condotti nella Stazione, non contento di voler introdursi brutalmente nel mio laboratorio, mi sottopone a un terzo grado neanche fossi un sospetto!

Lo sforzo impiegato a controllarmi mi imperlò di sudore la fronte.

– Ma lei è un sospetto, Sartorius! – risposi con voce sorda.

E, desideroso com’ero di ferirlo a qualsiasi costo, aggiunsi con rabbia:

– E lo sa perfettamente!

– Kelvin! Se non ritira quanto ha detto e non mi chiede scusa, la denuncio con un rapporto via radio.

– E di che cosa dovrei scusarmi? Del fatto che invece di ricevermi e di mettermi francamente al corrente di quanto accade qui dentro, si chiude a chiave e si barrica nel laboratorio? Ha per caso perso la testa? È uno scienziato, o un miserabile vigliacco? Mi risponda!

Non so che altro gli gridai, sta di fatto che non fece una piega. Grosse gocce di sudore gli scorrevano sulla pallida pelle porosa. Improvvisamente mi resi conto che non mi stava neanche a sentire. Le mani dietro la schiena, respingeva con tutte le forze la porta che si schiudeva leggermente come se qualcuno la spingesse dall’interno.

– Se ne… vada… – gemette a un tratto con una voce stranamente chioccia. – La supplico… Per amor del cielo, se ne vada! Torni giù, poi la raggiungo di sotto e faccio tutto quello che vuole, ma ora se ne vada!

La sua voce era pervasa da una tale sofferenza che, stupefatto, alzai macchinalmente un braccio per aiutarlo a respingere la porta contro la quale stava evidentemente lottando; ma lui cacciò un urlo terrorizzato neanche gli avessi puntato contro un coltello. Arretrai lentamente mentre, con la sua voce in falsetto, gridava: «Vattene, vattene!» e poi: «Vengo, vengo, vengo! No! No!».

Socchiuse la porta e si precipitò all’interno; mi parve di intravedere all’altezza del suo petto qualcosa di dorato, una specie di disco lucente. Adesso dal laboratorio giungeva un rumore sordo, la tenda venne spinta di lato, una grande ombra passò dietro lo schermo di vetro, poi la tenda tornò al suo posto e non vidi altro. Che succedeva lì dentro? Risuonò uno scalpiccio di passi, la folle rincorsa fu interrotta da uno spaventoso fracasso di vetri infranti e udii una squillante risata infantile…

Le gambe tremanti, mi guardai intorno. Ora tutto taceva. Mi sedetti sul basso parapetto plastificato di una finestra. Rimasi così per circa un quarto d’ora: non so se in attesa che succedesse qualcosa oppure perché ero troppo sfinito per alzarmi. La testa mi scoppiava. Da qualche parte, in alto, risuonò un prolungato stridore mentre l’ambiente circostante si rischiarava.

Da dove mi trovavo vedevo solo una parte del corridoio circolare che correva intorno al laboratorio. Trovandosi alla sommità della Stazione, subito sotto lo scudo superiore, le pareti erano concave e inclinate, con finestre simili a feritoie poste a qualche metro l’una dall’altra; le paratie che le tappavano dall’esterno si stavano appunto sollevando: la giornata di sole azzurro giungeva alla fine. Dagli spessi vetri penetrava un bagliore accecante. Ogni lastra cromata, ogni maniglia splendeva come un piccolo sole. La porta del laboratorio – la grande lastra di vetro rugoso – ardeva come la bocca di una fornace. Mi guardai le mani posate sulle ginocchia: in quella luce spettrale erano diventate grigie. Nella destra stringevo la pistola a gas, ma non ricordavo quando né come l’avessi estratta dalla fondina. La rinfoderai. Ormai sapevo che non mi sarebbe stato utile neanche un lanciarazzi atomico: che cosa avrei potuto farci? Sfondare la porta? Assaltare il laboratorio?

Mi alzai. Il disco che, simile a un’esplosione nucleare, calava nell’oceano, mi inseguì con un fascio di raggi quasi tangibili: quando, mentre scendevo la scala, mi toccarono la guancia avvertii come un marchio rovente.

Giunto a metà scala ci ripensai e tornai di sopra. Feci il giro completo del laboratorio. Come ho detto, il corridoio gli correva intorno e dopo un centinaio di passi mi trovai dalla parte opposta, di fronte ad una porta di vetro in tutto e per tutto simile alla precedente. Non provai neanche ad aprirla: sapevo già che era chiusa.

Scrutai la parete plastificata alla ricerca di un finestrino o almeno di una fessura: l’idea di spiare Sartorius non mi sembrava affatto sconveniente. Ne avevo abbastanza di ipotesi: a quel punto volevo sapere la verità, anche se non ero affatto sicuro di riuscire a capirla.

Mi venne in mente che le sale del laboratorio prendevano luce da finestre poste sulla corazza superiore e che se fossi uscito all’esterno avrei forse potuto dare un’occhiata all’interno. Per farlo dovevo tornare di sotto e prendere lo scafandro e la bombola dell’ossigeno. Rimasi davanti alla scala chiedendomi se il gioco valesse la candela: era molto probabile che i vetri fossero opachi, ma che alternativa mi restava? Scesi al livello intermedio, dove si trovava la stazione radio.

Passandoci davanti vidi che la porta era spalancata. Snaut era in poltrona, esattamente come l’avevo lasciato. Dormiva. Al suono dei miei passi trasalì e aprì gli occhi.

– Ehilà, Kelvin! – disse con voce rauca. Rimasi in silenzio.

– Allora… hai saputo qualcosa?

– Sì – risposi lentamente. – Non è solo.

Storse le labbra.

– Ma senti. È già qualcosa. Vuoi dire che ha ospiti?

– Non capisco perché non mi vogliate dire di che cosa si tratti – osservai con finta noncuranza. – Stando qui, prima o poi lo verrò comunque a sapere… E allora perché tutti questi segreti?

– Lo capirai da solo quando avrai degli ospiti a tua volta – disse. Mi sembrò che stesse aspettando qualcosa e che non gli andasse di parlare.

– Dove vai? – chiese quando mi girai. Uscii senza rispondere. L’hangar dell’aeroporto era come l’avevo lasciato. La mia capsula annerita si ergeva spalancata sul suo supporto. Mi diressi alla fila dei portascafandri ma a un tratto mi accorsi di non avere più voglia di avventurarmi sull’involucro esterno della Stazione. Feci dietrofront e lungo la scala a chiocciola scesi giù, nei magazzini. Lo stretto corridoio appariva ingombro di bombole e di casse impilate una sull’altra. Illuminate dall’alto, le nude pareti metalliche emanavano un bagliore bluastro. Dopo una decina di passi sul soffitto apparvero le tubazioni imbiancate di brina dell’impianto refrigeratore. Le seguii. Finivano in un manicotto dalla robusta guarnizione di plastica attraverso il quale si immettevano in un locale ermeticamente chiuso. Aprendo la pesante porta spessa due palmi e riquadrata di gomma fui investito da un gelo che schiantava le ossa. Rabbrividii. Dal groviglio di serpentine brinate pendevano stalattiti di ghiaccio. Anche qui apparivano casse e contenitori velati di neve; sulle mensole alle pareti si ammucchiavano le pile di conserve alimentari e i blocchi giallastri, avvolti nella plastica trasparente, di una non meglio identificata materia grassa. Sul fondo, là dove il soffitto a botte si abbassava, era appeso uno spesso tendone scintillante di aghi di ghiaccio. Lo scostai leggermente. Su una griglia di alluminio giaceva una grossa forma oblunga coperta da un telo grigio. Ne sollevai un lembo e guardai il volto congelato di Gibarian. I capelli neri dalla ciocca bianca sulla fronte aderivano piatti sul cranio. Le cartilagini della laringe sporgevano spezzando la linea del collo. Gli occhi asciutti fissavano il soffitto: nell’angolo di una palpebra si era raccolta un’opaca lacrima di ghiaccio. Ero talmente intirizzito che a malapena controllavo il battito dei denti. Continuai a tener sollevato il telo con una mano e con l’altra gli sfiorai la guancia: fu come toccare un pezzo di legno gelato. La pelle, resa scabrosa da un inizio di barba, appariva trafitta da piccoli aculei neri. La piega delle labbra conservava un’espressione di infinita e sprezzante pazienza. Mentre lasciavo ricadere il lembo del telo, notai che lì accanto, da sotto le pieghe spuntavano una decina di grossi chicchi, o di acini, allungati e scalati in ordine di grandezza. Mi irrigidii.

Erano le dita, dai polpastrelli ovali leggermente divaricati, di due piedi nudi rivolti con la pianta verso l’alto: sotto lo spiegazzato sudario giaceva bocconi la donna nera.

Distesa a faccia in giù, sembrava immersa in un sonno profondo. Un pezzo alla volta scostai il pesante tessuto. La testa coperta dai capelli attorcigliati in piccoli ciuffi bluastri poggiava sulla piega di un braccio massiccio e altrettanto scuro. Sotto la pelle lucente della schiena spuntava il rilievo delle vertebre. Il corpo colossale non tradiva il minimo segno di vita. Guardai nuovamente le piante nude e vidi una cosa strana e cioè che non apparivano appiattite o schiacciate dal peso che dovevano sostenere, e neanche incallite dal camminare senza scarpe: la loro pelle era altrettanto sottile di quella delle spalle e delle braccia.

Volli verificare con mano l’impressione e, con più riluttanza di quanta ne avessi provata nel toccare il cadavere di Gibarian, le sfiorai il piede. Incredibile a dirsi, il corpo esposto a una temperatura di venti gradi sotto zero risuscitò e si mosse, ritraendo il piede come un cane addormentato tirato per la zampa.

«Finirà per congelarsi» pensai, ma il corpo era calmo e non eccessivamente freddo. Avvertivo ancora sui polpastrelli la morbidezza del suo contatto. Riattraversai la tenda, la lasciai ricadere e tornai nel corridoio. Mi sembrò che ci facesse un caldo insopportabile. Le scale mi riportarono alla rimessa dell’aeroporto. Mi sedetti sul rotolo di un paracadute ad anello e affondai la testa tra le mani. Ero distrutto, non capivo che cosa mi stesse succedendo: cercavo invano di raccogliere pensieri che scivolavano lungo un piano inclinato minacciando di precipitare, e la perdita di coscienza, l’annientamento mi parvero un’indicibile, insperabile grazia.

Non c’era motivo di tornare da Snaut o da Sartorius: non era possibile che qualcuno riuscisse a dare un senso a quello che avevo visto e toccato con mano. L’unica spiegazione, l’unica via di uscita era la follia: dovevo essere impazzito subito dopo l’atterraggio. L’oceano mi aveva alterato la mente, soffrivo di continue allucinazioni: se era così, invece di sprecare le forze in vani tentativi di districare degli enigmi che in realtà non esistevano, tanto valeva chiedere un aiuto medico, chiamare via radio il Prometeo o qualche altra nave spaziale, lanciare un S.O.S.

A quel punto accadde la cosa che meno mi sarei aspettata: l’idea di essere impazzito mi restituì la calma.

Adesso capivo fin troppo chiaramente le parole di Snaut, sempre che uno Snaut esistesse e che ci avessi realmente parlato. Le allucinazioni potevano essere cominciate molto prima: forse mi trovavo ancora a bordo del Prometeo in preda a un disturbo psichico, e tutto quello che avevo vissuto non era che il frutto della mia mente alterata… Ma se davvero ero malato, avrei potuto guarire, il che se non altro mi concedeva quella vaga speranza di salvezza che in nessun modo riuscivo a intravedere negli ingarbugliati incubi delle poche ore vissute in quel posto.

La prima cosa da fare era quindi di sottopormi a un esperimento logico – l’experimentum crucis – che mi dicesse se ero impazzito, e quindi vittima di miraggi della mia immaginazione, o se, malgrado la loro assurdità e inverosimiglianza, le mie esperienze fossero reali.

Così riflettendo fissavo il supporto metallico che sosteneva la struttura dell’aeroporto. Era un pilone di acciaio, verniciato di verde pallido e fasciato di placche metalliche ricurve, che saliva dal pavimento. In alcuni punti, a circa un metro da terra, la vernice appariva scrostata, probabilmente raschiata via dai carrelli portarazzi che vi passavano accanto. Toccai l’acciaio,  lo scaldai un attimo con la mano, battei le dita contro la lamina di protezione. Poteva un miraggio raggiungere un simile grado di realtà? Forse sì, mi risposi. Dopo tutto quello era il mio campo, sapevo di che cosa parlavo…

Ma era possibile inventare un esperimento cruciale? Inizialmente propendevo per il no: la mia mente malata (ammesso che lo fosse davvero) avrebbe prodotto qualsiasi chimera le avessi chiesto. Dopotutto non solo nelle malattie mentali, ma anche nel più banale dei sogni ci capita di discorrere con persone che nella vita non conosciamo, di porre loro delle domande e udirne le risposte; e sebbene quelle persone siano soltanto il frutto della nostra attività psichica, parti isolate e momentaneamente pseudo-autonome della nostra stessa psiche, fino al momento in cui (nel sogno) quelle persone non ci parlano ignoriamo le parole che usciranno loro di bocca. E invece avremmo dovuto conoscerle, visto che erano state elaborate da quella parte isolata della nostra mente e che le avevamo inventate noi stessi per metterle in bocca di quei personaggi fittizi. Per cui, qualunque cosa avessi progettato e messo in atto, avrei sempre potuto dirmi di avere agito come appunto si agisce nei sogni. Se in realtà Snaut e Sartorius non esistevano, sarebbe stato vano porre loro delle domande.

Mi venne in mente che avrei potuto assumere un farmaco, una droga potente come il peyotl o qualche altro preparato capace di provocare allucinazioni e realistici miraggi. Sperimentarne l’effetto avrebbe dimostrato che le sostanze assunte esistevano veramente e che facevano parte della realtà circostante. Ma neanche quello – continuavo a pensare – avrebbe costituito un esperimento cruciale: se il farmaco l’avevo scelto io stesso, sapevo anche in che modo agiva, per cui sia la sua assunzione, sia i suoi effetti potevano essere un frutto della mia immaginazione.

Mi stavo già convincendo che non esistesse un modo di uscire da quel circolo chiuso di pazzia: dopotutto non si poteva pensare che con il proprio cervello e non lo si poteva guardare dall’esterno per controllare il corretto funzionamento dei suoi processi interni… Quando, all’improvviso, fui colpito da un’idea semplice quanto efficace.

Mi alzai di scatto dai rotoli di paracadute e mi precipitai verso la stazione radio. Era vuota. Gettai involontariamente un’occhiata all’orologio elettrico sulla parete. Erano quasi le quattro di notte, la notte convenzionalmente stabilita nella Stazione: fuori stava già sorgendo l’alba rossa. Accesi rapidamente l’apparecchio per i collegamenti a lunga distanza e in attesa che le valvole si scaldassero ripassai mentalmente le successive tappe dell’esperimento.

Non ricordavo quale fosse il segnale di chiamata al quale rispondeva la stazione automatica del satelloide in orbita intorno al sole, ma lo trovai su una tabella appesa sopra il principale quadro di comando. Chiamai usando l’alfabeto Morse e in capo a otto secondi mi giunse la risposta. Il satelloide, o piuttosto il suo cervello elettronico, rispose con un segnale ripetuto ritmicamente.

Chiesi che mi comunicasse quali meridiani della calotta stellare galattica attraversasse a intervalli di ventidue secondi, girando intorno a Solaris, specificando le cifre fino al quinto decimale.

Mi sedetti e aspettai la risposta. Arrivò dopo dieci minuti. Strappai il nastro di carta con impresso il risultato e badando a non posarci gli occhi lo nascosi in un cassetto. Portai dalla biblioteca le grandi mappe del cielo, le tavole logaritmiche, l’almanacco del moto giornaliero del satellite, qualche libro di consultazione e presi a cercare la risposta alla stessa domanda di prima. Mi ci volle quasi un’ora per impostare le equazioni. Erano secoli, forse dall’esame di astronomia pratica all’università, che non facevo dei calcoli così complicati.

Effettuai le operazioni sul grosso calcolatore della Stazione. Il mio ragionamento era il seguente: dalla carta del cielo avrei dovuto ottenere delle cifre leggermente diverse dai dati forniti dal satelloide. La differenza era dovuta al fatto che il satelloide era sottoposto a complicate perturbazioni per effetto delle forze gravitazionali di Solaris, dei suoi due soli orbitanti uno intorno all’altro e dei cambiamenti di gravitazione provocati dall’oceano. Una volta ottenute le due serie di cifre (quella fornita dal satelloide e quella calcolata teoricamente in base alla carta del cielo) avrei rettificato le mie operazioni; a quel punto i due gruppi di risultati avrebbero dovuto coincidere fino alla quarta cifra decimale: le differenze, dovute all’imprevedibile azione dell’oceano, sarebbero apparse soltanto nella quinta.

Se perfino le cifre fornite dal satelloide non erano realtà ma il frutto della mia mente alterata, non avrebbero potuto coincidere con i dati numerici della seconda serie. Per quanto alterata fosse la mia mente, in nessun caso sarebbe stata in grado di effettuare i conti eseguiti dal grosso calcolatore, in quanto la cosa avrebbe richiesto mesi e mesi di tempo. Per cui, se le cifre coincidevano, significava dire che il grosso calcolatore della Stazione esisteva davvero e che me n’ero servito nella realtà e non nella fantasia.

Con mani tremanti presi dal cassetto il nastro telegrafico e lo distesi accanto all’altro, più largo, uscito dal calcolatore. Come previsto, le due serie di cifre coincidevano fino al quarto decimale. Le differenze apparivano soltanto nel quinto.

Rimisi i fogli nel cassetto. Dunque il calcolatore esisteva indipendentemente da me. Di conseguenza erano reali anche la Stazione e tutto quello che c’era dentro.

Stavo già per chiudere il cassetto quando notai un pacco di fogli coperti di calcoli tracciati con mano febbrile. Li tirai fuori: mi bastò un’occhiata per vedere che qualcuno aveva condotto il mio stesso esperimento: la sola differenza era che, invece dei dati relativi alla calotta stellare, aveva chiesto le misure dell’albedo di Solaris a intervalli di quaranta secondi.

Non ero pazzo. L’ultimo filo di speranza era svanito. Spensi l’emittente, bevvi il brodo rimasto nel thermos e andai a dormire.

 

Harey

Il muto accanimento nell’eseguire i calcoli che fino ad allora mi aveva sorretto era svanito. Intontito dalla stanchezza, non fui nemmeno capace di abbassare il letto liberandolo dai ganci superiori: mi attaccai direttamente alla maniglia con il risultato di farlo piombare giù di schianto. Riuscito che fui a sistemarlo, gettai sul pavimento vestiti e biancheria e, mezzo morto, mi lasciai cadere sul cuscino trascurando di gonfiarlo a dovere. Senza rendermi conto di niente, piombai nel sonno con la luce accesa.

Aprii gli occhi con l’impressione di avere dormito solo pochi minuti. La stanza era immersa in una fresca penombra rossastra. Mi sentivo bene. Giacevo nudo, senza coperte. La tenda era scostata per metà: davanti alla finestra, nella luce del sole rosso, c’era una figura seduta. Era Harey. Indossava un prendisole bianco: il sottile tessuto si tendeva sui seni, le gambe erano accavallate, i piedi nudi. Teneva abbassate le braccia abbronzate fino ai gomiti e mi fissava immobile da sotto le ciglia scure. La guardai a lungo, con calma. Il mio primo pensiero fu: «Che belli questi sogni in cui si sa di sognare». Ciò nonostante avrei preferito che sparisse. Chiusi gli occhi augurandomi con tutte le forze che così fosse, ma quando li riaprii era sempre lì, seduta come prima. Teneva come al solito le labbra appuntite, come per fischiare, ma gli occhi non sorridevano.

Mi ricordai di tutto quello che la sera prima avevo pensato dei sogni. Era identica all’ultima volta che l’avevo vista viva e diciannovenne: adesso avrebbe dovuto avere ventinove anni ma, naturalmente, non era cambiata – i morti non invecchiano. Mi fissava con quei suoi occhi eternamente stupiti. «Ora le tiro contro qualcosa» pensai; ma sia pure in sogno mi riusciva difficile colpire una morta.

– Povera piccola – dissi. – Sei venuta a trovarmi, eh?

Avvertii una punta di paura: la mia voce era risuonata stranamente vera e la stanza, Harey e tutto il resto apparivano assolutamente reali.

«Che sogno realistico… – pensai. – Non solo è a colori, ma per terra vedo un sacco di cose di cui ieri sera non mi ero neanche accorto. Quando mi sveglio devo controllare se ci sono davvero o se, al pari di Harey, fanno parte del sogno…».

– Hai intenzione di restare a lungo seduta così? chiesi.

Mi accorsi di parlare sottovoce come se temessi di essere udito, come se in sogno qualcuno ci potesse spiare…

Il sole intanto si era levato sopra l’orizzonte. «Buon segno» pensai. Ero andato a letto in un giorno di sole rosso al quale avrebbe dovuto seguire uno di sole azzurro e poi di nuovo uno rosso. Poiché era escluso che avessi dormito quindici ore di seguito, doveva per forza trattarsi di un sogno.

Tranquillizzato, osservai Harey con attenzione. Stava in controluce: il raggio che entrava dall’apertura della tenda le dorava la peluria vellutata della guancia sinistra e le ciglia le gettavano sul viso un’ombra allungata. Era bellissima. «Ma guarda come sono preciso perfino nei sogni: riesco a notare lo spostamento del sole e quella fossetta tutta sua, un po’ sotto l’angolo delle labbra dall’espressione stupita… Comunque preferirei che il sogno finisse, è ora che mi metta al lavoro». Così dicendo strinsi le palpebre cercando di svegliarmi, quando udii uno scricchiolio. Di colpo aprii gli occhi. Mi sedeva accanto sul letto fissandomi con aria grave. Le sorrisi: lei mi sorrise e mi si chinò sopra. Il primo bacio fu lieve come quello tra due bambini. La baciai a lungo. «È possibile che un sogno trasmetta sensazioni così intense? pensai. – Non tradisco neanche il suo ricordo, visto che sogno lei, e non un’altra». Non mi era mai successo… Continuavamo a tacere. Giacevo sulla schiena: quando sollevava la faccia potevo vedere, attraversate dal sole proveniente dalla finestra, le delicate narici che erano sempre state un barometro dei suoi sentimenti; con la punta delle dita le sfiorai le orecchie dai lobi arrossati per i miei baci. Non so se fu questo a insinuarmi una punta di inquietudine; pur continuando a ripetermi che si trattava di un sogno, avvertivo una stretta al cuore.

Contrassi i muscoli per saltare giù dal letto. Pur essendo preparato al fatto di non riuscirci (molto spesso in sogno non si controlla il proprio corpo che sembra come paralizzato o assente) contavo sul fatto che quel tentativo mi svegliasse; ma invece di svegliarmi rimasi seduto con le gambe penzoloni sul pavimento. «Niente da fare – pensai – devo sognare il sogno fino in fondo»… ma il buonumore era svanito. Avevo paura.

– Che cosa vuoi? – chiesi. La voce mi uscì rauca, dovetti schiarirmi la gola.

Cercai istintivamente con i piedi le pantofole, ma prima di rendermi conto che lì non ne avevo, sbattei con forza le dita ed emisi un gemito soffocato. «Be’, questa almeno sarà la fine» pensai con sollievo.

E invece non accadde niente. Quando mi ero seduto sul letto Harey si era tirata all’indietro appoggiando la schiena alla testata. Il vestito, sollevato dal battito del cuore, le palpitava delicatamente sotto il seno sinistro. Mi osservava con tranquillo interesse. Pensai che la cosa migliore fosse di fare una doccia, ma subito mi dissi che una doccia fatta in sogno non aveva il potere di svegliarmi.

– Da dove vieni? – chiesi.

Mi sollevò una mano e con un gesto che ben conoscevo prese a farla rimbalzare spingendola da sotto con le dita e riafferrandola al volo.

– Non lo so – rispose. – Non va bene?

Anche la voce era sempre la stessa, bassa e come svagata. Come al solito parlava con l’aria di non badare alle parole, quasi stesse già pensando ad altro: il suo sguardo aveva quell’espressione di blando stupore che talvolta la faceva sembrare indifferente o addirittura insolente.

– Ti… ha vista qualcuno?

– Non lo so. Sono venuta e basta. Ma perché, Chris? È importante?

Continuava a giocherellare con la mia mano ma il volto non partecipava più al gioco. Si era rabbuiato.

– Harey…

– Sì, caro?

– Come sapevi dov’ero?

La cosa sembrò farla riflettere. Sorrise – aveva le labbra talmente scure che anche se per caso mangiava delle ciliegie non ve ne restava traccia – scoprendo la punta dei denti.

– Non ne ho idea. Buffo, vero? Quando sono entrata dormivi, ma non ti ho svegliato, altrimenti ti arrabbi. Ti arrabbi e diventi noioso – aggiunse, lanciandomi energicamente la mano per aria.

– Sei stata di sotto?

– Sì, ma sono scappata… faceva freddo.

Mi lasciò andare la mano. Sdraiandosi di fianco gettò la testa all’indietro in modo che i capelli le ricadessero tutti da una parte e mi guardò con quel mezzo sorriso che aveva smesso di irritarmi solo quando avevo cominciato ad amarla.

– Ma… Harey… ma… – balbettai.

Mi chinai su di lei e sollevai la breve manica del vestito. Subito sopra alla cicatrice, simile a un piccolo fiore, della vaccinazione antivaiolosa appariva il puntino rosso di un’iniezione. Per quanto me l’aspettassi (continuavo infatti, in modo puramente istintivo, a cercare dei brandelli di logica nell’impossibile), fui colto da un senso di nausea. Sfiorai con il dito la piccola ferita dell’iniezione che per anni avevo continuato a sognare, svegliandomi ogni volta con un gemito tra le lenzuola spiegazzate e sempre nella stessa posizione: ripiegato in due come giaceva lei quando l’avevo trovata già quasi fredda. In sogno cercavo infatti di rivivere quello che aveva provato lei, quasi per impetrarne il perdono o per starle vicino in quegli ultimi istanti quando, avvertendo l’effetto dell’iniezione, doveva avere avuto paura. Lei che aveva il terrore della minima ferita, che non sopportava il dolore né la vista del sangue, aveva improvvisamente commesso quel terribile gesto lasciando scritte due parole su un biglietto con il mio nome. Me lo portavo sempre addosso tra i documenti, sgualcito, lacero nelle piegature, senza il coraggio di separarmene, e mille volte ero tornato al momento in cui l’aveva scritto e a ciò che doveva avere provato. Continuavo a ripetermi che in realtà aveva solo voluto fare una finta per spaventarmi e che, per sbaglio, la dose era risultata troppo forte; tutti cercavano di convincermi che doveva essere andata così, oppure che si era trattato di un gesto impulsivo dettato da un’improvvisa crisi di depressione. Non sapevano però quello che le avevo detto cinque giorni prima né che, per ferirla più crudelmente, mi ero portato via la mia roba. Non sapevano che mentre facevo le valigie lei mi aveva detto con la massima calma: «Lo sai, vero, che cosa significa. ..?» e che io avevo fatto finta di non capire, mentre invece avevo capito benissimo; ma poiché pensavo che non ne avrebbe avuto il coraggio, le avevo risposto che era troppo vigliacca per farlo… E adesso stava sdraiata sul letto e mi guardava con attenzione, quasi ignorasse che ero stato io ad ucciderla.

– È tutto quello che sai dire? – chiese. La stanza era arrossata dal sole e i suoi capelli ne riflettevano il bagliore. Si contemplò il braccio, divenuto improvvisamente importante per il fatto che l’avessi guardato così a lungo e quando abbassai la mano vi posò sopra la guancia liscia e fresca.

– Harey – dissi con voce rauca – non è possibile…

– Smettila!

Teneva gli occhi chiusi, ne distinguevo i movimenti sotto le palpebre contratte, le ciglia nere toccavano le guance.

– Harey, dove siamo?

– A casa.

– E dov’è?

L’occhio si aprì un attimo e subito si richiuse. Le ciglia mi solleticarono la mano.

– Chris!

– Sì?

– Sto bene.

Le sedevo accanto immobile. Alzai la testa: riflessi nello specchio sopra al lavandino mi apparvero una parte del letto, i capelli scompigliati di Harey e le mie ginocchia nude. Allungai una gamba, con il piede tirai verso di me uno dei distorti strumenti sparsi sul pavimento e con la mano libera lo sollevai. La punta era acuminata. Me l’appoggiai sulla pelle, proprio sopra il punto in cui appariva una semisferica cicatrice rosa, e me la conficcai nella carne. Sentii un dolore acuto. Guardai il sangue scendere a grosse gocce lungo l’interno della coscia e gocciolare silenzioso sul pavimento.

Era inutile. Gli spaventosi pensieri che mi agitavano la mente diventavano sempre più chiari: ormai non mi dicevo più «è un sogno»: avevo smesso di crederci da un pezzo. Adesso mi dicevo solo che dovevo difendermi. Guardai le sue spalle che sotto la stoffa bianca scendevano verso la curva dei fianchi, i piedi nudi sospesi fuori del letto. Allungai la mano, afferrai delicatamente il tallone roseo e sfiorai con le dita la pianta del piede.

Era morbida come quella di un neonato.

Ormai sapevo con assoluta certezza che quella non era Harey e che, quasi sicuramente, lei non lo sapeva.

Il tallone nudo si mosse nella mia mano e una risata silenziosa le gonfiò le labbra rosso scure.

– Smettila… – sussurrò.

Liberai dolcemente la mano da sotto la sua guancia e mi alzai. Ero ancora nudo. Vestendomi in fretta, la vidi sedersi sul letto e guardarmi.

– Dov’è la tua roba? – chiesi, e subito me ne pentii.

– La mia roba?

– Vuoi dire che hai solo quel vestito?

Avevo iniziato a recitare: cercavo di comportarmi con la massima naturalezza, come se ci fossimo lasciati il giorno prima, anzi come se non ci fossimo mai lasciati. Si alzò e con un lieve ma energico gesto che ben conoscevo dette qualche colpetto alla gonna per rassettarla. Non mi rispose, ma si vedeva che la mia domanda l’aveva colpita. Per la prima volta scrutò la stanza con occhio intento e indagatore e mi guardò con aria stupita.

– Non so… – disse perplessa. – Forse lì dentro? aggiunse, spostando l’anta dell’armadio.

– No – replicai. – Lì ci sono solo le tute.

Con un rasoio elettrico trovato accanto al lavandino cominciai a radermi. Chiunque fosse quella ragazza, preferivo non voltarle del tutto le spalle.

Andò in su e in giù per la cabina, perlustrò tutti gli angoli, guardò fuori della finestra. Infine mi si avvicinò e disse:

– Chris, ho come l’impressione che sia successo qualcosa…

Si interruppe. Con in mano l’apparecchio spento aspettai che continuasse.

– È come se avessi dimenticato qualcosa… anzi, come se avessi dimenticato quasi tutto. So… ricordo solo te… e basta.

L’ascoltai cercando di controllare l’espressione del viso.

– Per caso sono stata… malata?

– Be’… in un certo senso, sì. Sì, per qualche tempo sei stata un po’ malata.

– Ah, ecco. Sarà per questo.

Sembrò rasserenarsi. Non potrò mai descrivere quello che provavo. Quando taceva, camminava, si sedeva e sorrideva, il mio terrore cedeva alla convinzione di trovarmi in presenza di Harey; in altri momenti, come appunto quello, avevo l’impressione che davanti a me ci fosse una Harey semplificata, ridotta a qualcuno dei suoi caratteristici gesti, movimenti o modi di dire. Mi si strinse contro e ponendomi sul petto, proprio sotto al collo, le mani chiuse a pugno, chiese:

– E le cose tra noi, come vanno? Bene o male?

– Nel migliore dei modi – risposi.

Sorrise debolmente:

– Quando rispondi così, di solito è perché vanno male.

– Ma che dici! Senti cara, ora devo uscire – aggiunsi in fretta. – Aspettami qui, va bene? O forse… hai fame? – aggiunsi, accorgendomi di essere io stesso sempre più affamato.

– Fame? No.

Scrollò la testa facendo ondeggiare i capelli.

– Devo aspettarti qui? Per molto?

– Un’oretta… – iniziai, ma lei mi interruppe.

– Vengo con te.

– Non è possibile, devo lavorare.

– Vengo con te.

Era una Harey completamente diversa: l’altra non si era mai sognata di impormi la sua presenza. Mai.

– Bambina, non è possibile…

Guardandomi da sotto in su, mi afferrò una mano. Le sfiorai il braccio verso l’alto, la spalla era piena e calda e per quanto non ne avessi l’intenzione, fu quasi una carezza. Il mio corpo riconosceva il suo, la voleva, mi attirava verso di lei al di là di ogni ragionamento e paura.

Cercando a tutti i costi di mantenere la calma, ripetei:

– Harey, non è possibile: devi restare qui.

– No.

Come l’aveva detto!

– Perché?

– N… non lo so.

Si guardò intorno e di nuovo mi alzò gli occhi in faccia.

– Non posso… – disse in un soffio.

– Ma perché?

– Non lo so. Non posso. Ho come la sensazione… la sensazione…

Esitò, alla ricerca di una risposta. Quando la trovò, sembrò esserne lei stessa sorpresa.

– Di doverti avere sempre sotto gli occhi…

Il tono fermo con cui l’aveva detto aveva poco a che fare con una dichiarazione d’amore: si trattava di qualcosa di completamente diverso. Quell’impressione mutò radicalmente di segno l’abbraccio con cui la cingevo, anche se non lo detti a vedere in nessun modo. Fissandola negli occhi cominciai a spingerle le braccia all’indietro e quel gesto, iniziato senza un’idea precisa, strada facendo si definì e trovò il proprio scopo: stavo già cercando con lo sguardo qualcosa con cui legarla.

I suoi gomiti, respinti all’indietro, sbatterono leggermente l’uno contro l’altro e immediatamente si tesero con una forza che rese inutile la mia presa. Non riuscii a lottare più di un secondo. Nemmeno un atleta, piegato all’indietro come Harey e con le punte dei piedi che a malapena toccavano il suolo, sarebbe riuscito a liberarsi: ma lei, con un viso che non sembrava partecipare agli eventi e un debole, incerto sorriso, spezzò la mia stretta, si raddrizzò e riabbassò le braccia.

I suoi occhi mi osservavano con lo stesso tranquillo interesse dimostrato al mio risveglio, come se non si rendesse conto del disperato sforzo, dettato da una crisi di panico, che avevo appena sostenuto. In piedi davanti a me, se ne stava passiva, come in attesa di qualcosa, insieme indifferente, raccolta e vagamente stupita.

Le braccia mi ricaddero. La lasciai in mezzo alla stanza e mi diressi verso la mensola che sovrastava il lavandino. Mi sentivo preso in una trappola assurda e andavo rimuginando soluzioni sempre più radicali. Se qualcuno mi avesse chiesto che cosa mi stesse accadendo e che cosa significassero quegli eventi non sarei stato capace di dire una parola; e tuttavia sentivo che quanto accadeva nella Stazione faceva parte di un unico spaventoso e incomprensibile insieme. Ma più che di questo, in quel momento mi preoccupavo di escogitare un espediente, una mossa capace di liberarmi. Anche senza vedere Harey mi sentivo addosso il suo sguardo. In una nicchia sopra la mensola c’era la cassetta del pronto soccorso. Ne esplorai rapidamente il contenuto. Trovato un flacone di sonnifero, gettai quattro pasticche la dose massima – in un bicchiere. Non cercavo neanche di nascondere più di tanto a Harey quello che stavo facendo. Difficile dirne il perché, sta di fatto che in quel momento non me lo chiesi. Versai dell’acqua calda nel bicchiere, attesi che le pasticche si sciogliessero e mi avvicinai a Harey, ferma in mezzo alla stanza.

– Sei arrabbiato? – chiese piano.

– No. Bevi.

Non so perché, prevedevo che mi avrebbe ubbidito. In effetti prese senza una parola il bicchiere dalle mie mani e ne buttò giù d’un fiato il contenuto. Posai il bicchiere vuoto su uno sgabello e mi sedetti nell’angolo tra l’armadio e lo scaffale dei libri. Harey mi si avvicinò lentamente e si sedette sul pavimento accanto alla poltrona, ripiegando le gambe sotto di sé come era solita fare e gettando con gesto altrettanto familiare i capelli all’indietro. Per quanto fossi ormai convinto che non fosse lei, ogni volta che la riconoscevo in una di quelle sue piccole abitudini mi si chiudeva la gola. Era una cosa inconcepibile e spaventosa: ma il più terribile era il dover simulare e fingere di prenderla per Harey mentre lei, considerandosi Harey, agiva in buona fede. Non so dire come fossi giunto a quella conclusione, so solo che ne ero certo, sempre che esistesse ancora qualcosa di certo.

Mi si appoggiò alle ginocchia con i capelli che mi solleticavano la mano immobile, e restammo così senza un gesto. Di tanto in tanto sbirciavo l’orologio. Era passata mezz’ora e il sonnifero avrebbe già dovuto fare effetto. Harey mormorò piano qualcosa.

– Che hai detto? – chiesi, ma non rispose. Lo interpretai come il sintomo di un torpore già in atto, per quanto in cuor mio non fossi per nulla convinto che la medicina le facesse effetto. Perché? Un’altra domanda alla quale non trovo risposta: probabilmente perché, date le circostanze, mi sembrava di avere messo in atto un sotterfugio fin troppo ingenuo.

La sua testa nascosta dai capelli scuri mi scivolò sulle ginocchia e avvertii il respiro regolare del sonno. Mi chinai per sollevarla e portarla sul letto quando, senza aprire gli occhi, mi afferrò leggermente per i capelli e scoppiò in una squillante risata.

Rimasi impietrito, mentre lei sembrava in preda a una folle allegria. Le palpebre strette a fessura, mi fissava con un’espressione tra l’ingenuo e il malizioso. Ristetti rigido, sbigottito, smarrito. Harey fece un’altra risatina, poi accostò il viso alla mia mano e tacque.

– Perché ridi? – chiesi con voce inespressiva. Sul suo viso tornò a dipingersi un’attenzione venata di inquietudine. Vidi che si sforzava di concentrarsi. Si batté un dito sul piccolo naso e infine, con un sospiro, disse:

– Non lo so neanch’io.

Sembrava sinceramente sorpresa.

– Mi sto comportando come una cretina, vero? – riprese. – Mi ha preso così, all’improvviso… Anche tu, però… con quell’aria immusonita… sembri Pelvis…

– Sembro chi?

– Pelvis… sai, quel grassone…

Era categoricamente escluso che Harey avesse fatto la sua conoscenza o che ne avesse sentito parlare, per la semplice ragione che Pelvis era rientrato dalla sua spedizione tre anni dopo la sua morte. Io stesso l’avevo conosciuto soltanto allora e ignoravo che, presiedendo le riunioni dell’Istituto, avesse l’insopportabile abitudine di prolungarle all’infinito. Il suo vero nome, Pelle Villis, aveva dato origine a quel nomignolo contratto di cui peraltro avevo ignorato l’esistenza fino al suo ritorno.

I gomiti poggiati sulle mie ginocchia, Harey mi fissava in volto. Le posai le mani sulle braccia e risalii lentamente verso le spalle, fin quasi a chiuderle intorno alla nuda pulsante base del collo. Poteva anche sembrare una carezza e dal suo sguardo capivo che la stava interpretando in quel senso. Mi andavo convincendo di stare posando le mani su un normale, caldo corpo umano sotto i cui muscoli si nascondevano ossa e giunture. Guardandola tranquillamente negli occhi, provai l’orribile tentazione di stringerle con forza le dita intorno alla gola.

Stavo già per serrarle quando, all’improvviso, mi tornarono in mente le mani insanguinate di Snaut. Lasciai la presa.

– Come mi guardi… – disse calma.

Il cuore mi batteva con una tale violenza che non fui in grado di dire una parola. Chiusi un attimo gli occhi.

All’improvviso mi apparve, nei minimi particolari e completo in ogni sua parte, un piano d’azione. Senza perdere un istante mi alzai dalla poltrona.

– Harey, adesso devo andare – dissi. – Se proprio lo vuoi, vieni con me.

– Va bene.

Balzò in piedi.

– Come mai senza scarpe? – chiesi, dirigendomi verso l’armadio con le tute colorate e scegliendone una per me e una per lei.

– Non so… le avrò buttate da qualche parte… – rispose poco convinta. Finsi di non avere sentito.

– Guarda che prima di infilarla devi levarti il vestito.

– Una tuta…? E perché? – chiese. Fece per spogliarsi ma, inaspettatamente, la cosa risultò impossibile: il vestito non aveva aperture. I bottoni rossi sul davanti erano puramente decorativi e non si vedevano ganci né chiusure lampo. Harey sorrideva confusa. Fingendo che fosse la cosa più naturale del mondo, sollevai da terra una specie di scalpello e lacerai la stoffa al centro della schiena. Adesso se lo poteva sfilare dalla testa. La tuta le stava un po’ grande.

– Partiamo in volo?… Anche tu, vero? – chiese mentre, ormai bardati, lasciavamo la stanza. Mi limitai ad assentire con un cenno della testa. Avevo una gran paura di incontrare Snaut, ma nel corridoio che portava all’aeroporto non c’era nessuno e la porta della stazione radio davanti alla quale dovevamo passare era chiusa.

La Stazione era sempre immersa in un silenzio di tomba. Harey mi osservò mentre, per mezzo di un carrello elettrico, spingevo un razzo fuori dal box centrale immettendolo su un binario vuoto. Verificai uno dopo l’altro lo stato del microreattore, i timoni e gli ugelli telecomandati; poi, rimossa la capsula vuota dalla rotonda superficie a rulli della base di lancio sotto la cupola centrale a imbuto, feci scivolare al suo posto il carrello con il razzo in partenza.

Era una navicella destinata a mantenere i contatti tra la Stazione e il satelloide: non essendo apribile dall’interno, veniva prevalentemente usata per il trasporto di materiali e solo in casi eccezionali per quello delle persone. Era questo, appunto, il particolare del piano che più mi interessava. Naturalmente non avevo la minima intenzione di lanciarla nello spazio, ma continuavo a fare i preparativi di una vera partenza: Harey, che tante volte mi aveva accompagnato nei miei viaggi, era in grado di rendersene conto. Controllai ancora il condizionamento dell’aria e l’ossigenazione interna, li misi entrambi in funzione e inserii il circuito centrale: appena si accesero le spie di controllo, uscii dallo stretto abitacolo e lo indicai a Harey, ferma ai piedi della scaletta.

– Entra.

– E tu?

– Ti seguo a ruota. Devo chiudermi il portello alle spalle.

Mi sembrava improbabile che subodorasse l’inganno prima del tempo. Quando fu all’interno, mi affacciai subito all’apertura chiedendole se si fosse sistemata comodamente. Udito un sordo «sì» attutito dalla mancanza di spazio, mi tirai indietro e sbattei con forza il portello. In due mosse abbassai le leve di sicurezza e con la chiave che mi ero portata dietro presi a serrare i cinque bulloni che lo univano all’involucro esterno.

L’aguzzo sigaro si ergeva verticale come in attesa del lancio. Sapevo che alla persona chiusa lì dentro non sarebbe successo niente di male: il razzo conteneva ossigeno a sufficienza nonché un po’ di cibo, e d’altronde non intendevo lasciarcela all’infinito.

Avevo assolutamente bisogno di un paio d’ore di libertà per studiare un progetto per il futuro e parlare finalmente con Snaut da pari a pari.

Stavo avvitando il penultimo bullone quando mi accorsi di un lieve tremolio dei supporti metallici su cui,  sospeso in tre punti, posava il razzo. Sul momento pensai di averlo involontariamente fatto dondolare manovrando la chiave con troppa energia; ma, allontanatomi di qualche passo, vidi qualcosa che mi auguro di non rivedere mai più.

Scosso dall’interno da una serie di colpi – e che colpi! – il razzo tremava da cima a fondo. Un robot di acciaio non sarebbe riuscito a scrollare con altrettanta violenza quella massa di otto tonnellate, e invece lì dentro c’era soltanto una sottile ragazza bruna. Sulla lucida superficie balenavano le luci riflesse dell’aeroporto. Non sentivo alcun rumore: all’interno del missile regnava il più assoluto silenzio, ma le zampe largamente divaricate della rampa su cui poggiava vibravano come corde, perdendo la nitidezza del tratto. La frequenza delle vibrazioni aumentava al punto che cominciai a temere per l’integrità dell’involucro esterno. Con mani tremanti strinsi l’ultimo bullone, gettai la chiave e saltai giù dalla scala. Arretrando lentamente vidi che i pistoni degli ammortizzatori, progettati per una pressione costante, ballavano nei loro alloggiamenti e che l’involucro esterno pareva avere perso la sua lucida compattezza. Mi precipitai come un pazzo al quadro del comando a distanza e con entrambe le mani sollevai le leve di lancio e del collegamento: nell’altoparlante, entrato in contatto con l’interno dell’abitacolo, esplose un suono tra il sibilo e il mugolio che non aveva niente di umano e nel quale tuttavia si distingueva un urlo: «Chris! Chris! Chris!».

Ma le mie orecchie non percepivano i suoni con esattezza. Il sangue mi colava dalle nocche scorticate dai violenti e disordinati tentativi di azionare i comandi. Una luce azzurrina inondò le pareti, il fumo esploso dagli ugelli di uscirà si trasformò in una fascia di venefiche scintille e i singoli rumori furono coperti da un alto, ininterrotto boato. Il razzo si sollevò emettendo tre fiamme che subito si fusero in un’unica colonna di fuoco e, lasciandosi dietro una scia di tremolanti falde infuocate, schizzò attraverso la cupola aperta. Subito le saracinesche la richiusero e i compressori automatici presero a ventilare l’hangar pervaso da un fumo acre. Di tutto questo, in realtà, mi resi conto solo più tardi. Aggrappato al quadro di comando, il viso bruciacchiato, i capelli aggrovigliati e abbrustoliti dal colpo di calore, aspiravo spasmodicamente l’aria in cui l’afrore di bruciato si mescolava agli effluvi di ozono della ionizzazione. Sebbene al momento del lancio avessi istintivamente chiuso gli occhi, il gesto non era bastato a proteggerli. Per un lungo momento continuai a non vedere che spirali nere, rosse e dorate che a poco a poco svanirono. Il fumo, la polvere e la nebbia, aspirati con gemito lamentoso dai canali di ventilazione, cominciavano a dissiparsi. La prima cosa che riuscii a distinguere fu il bagliore verdastro dello schermo-radar. Cominciai a cercare il razzo manovrando l’antenna orientabile. Quando finalmente riuscii a localizzarlo, era già al di sopra dell’atmosfera. Mai prima di allora avevo lanciato un missile così alla cieca e in modo così aberrante, senza la minima idea di dove mandarlo né dell’accelerazione da imprimergli. Pensai che la soluzione più semplice fosse di inserirlo in un’orbita circolare intorno a Solaris, più o meno all’altezza di mille chilometri e, a quel punto, staccare i motori: se per caso erano già consunti da anni di lavoro, poteva verificarsi una catastrofe di incalcolabili conseguenze. Un’orbita di mille chilometri – come avevo desunto dalla tabella – era stazionaria. Non che questo garantisse granché, ma era l’unica via di uscita che riuscissi a vedere.

Subito dopo il lancio avevo spento l’altoparlante: non ebbi il coraggio di reinserirlo. Avrei fatto qualunque cosa pur di non tornare a sentire quella spaventosa voce che non aveva più nulla di umano. Sapevo solo che ormai le apparenze erano svanite e che sotto il simulacro di Harey traspariva il suo vero volto, un volto di fronte al quale l’alternativa della pazzia appariva effettivamente una liberazione.

Lasciai l’aeroporto che era l’una.

 

 

«Il piccolo apocrifo»

Avevo la pelle del viso e delle mani ustionata. Mi ricordai che cercando nella cassetta dei medicinali il sonnifero per Harey (se solo potessi, oggi riderei della mia ingenuità) avevo notato un unguento rosa contro le bruciature e tornai in camera. Aprii la porta: nella rossa luce del tramonto, sulla poltrona ai piedi della quale si era poco prima inginocchiata Harey, sedeva una persona. In preda al terrore mi tirai bruscamente indietro, pronto a darmi alla fuga: durò una frazione di secondo. La figura seduta sollevò la testa: era Snaut. Voltato di schiena, le gambe accavallate (indossava sempre i soliti pantaloni di tela bruciacchiati dagli acidi), sfogliava delle carte prendendole da un fascio posato accanto a lui sul tavolino. Vedendomi le depose e rimase qualche istante ad osservarmi con aria accigliata da sopra gli occhiali calati sulla punta del naso.

Senza una parola andai al lavandino, presi dalla cassetta l’unguento semiliquido e lo spalmai sui punti più ustionati della fronte e delle guance. Per fortuna non ero molto gonfio e, grazie al fatto di aver stretto con forza le palpebre, gli occhi si erano salvati. Con un ago sterile da iniezioni bucai le vesciche più grosse sulla tempia e su una guancia facendone uscire il liquido sieroso. Poi applicai sul viso due falde di garza umida. Per tutto quel tempo Snaut aveva continuato ad osservarmi con attenzione. Quando ebbi finito, con la faccia che mi bruciava sempre di più mi sedetti sull’altra poltrona dopo averne tolto il vestito di Harey. Un vestito che non aveva niente di diverso dagli altri, a parte l’impossibilità di aprirsi.

Le mani conserte sul ginocchio puntuto, Snaut seguiva con aria critica i miei movimenti.

– Allora, vogliamo fare due chiacchiere? – disse quando mi fui seduto.

Senza rispondere, trattenni la garza che cominciava a scivolarmi lungo la guancia.

– E così, abbiamo avuto visite, eh?

– Sì – risposi asciutto. Non avevo nessuna intenzione di seguirlo su quel tono.

– E ce ne siamo subito sbarazzati. Direi… anche con una certa impetuosità…

Si toccò la fronte che continuava a squamarsi scoprendo rosee falde di epidermide nuova. Lo fissai sbalordito. Come mai fino a quel momento la presunta abbronzatura di Snaut e Sartorius non mi aveva dato da pensare? Lì per lì avevo creduto che dipendesse dal sole: ma su Solaris non ci si abbronzava…

– All’inizio, però, ci sei andato piano, vero? – disse, senza accorgersi dell’improvviso lampo che mi aveva illuminato lo sguardo. – Sonnifero, veleno, lotta americana… eh?

– Che vuoi da me? Se è per parlare da pari a pari, d’accordo; se invece è per fare il buffone puoi anche andartene.

– Certe volte si è dei buffoni senza volerlo – disse. Mi guardò con gli occhi socchiusi. – Vuoi dire che non ci hai provato con una corda o un martello, che non hai scaraventato il calamaio come Lutero? No? Caspita! – aggiunse con una smorfia – sei proprio bravo. Non spacchi il lavandino, non tenti di fracassarti la testa contro il muro, non sfasci la stanza… Arrivi, decidi, la metti in un razzo e chi si è visto si è visto!

Guardò l’orologio.

– Direi che abbiamo a disposizione un paio d’ore, forse anche tre – concluse. Continuando a guardarmi con un sorrisetto irritante riprese:

– Mi consideri un porco?

– Un porco fatto e finito – ribadii con convinzione.

– Ah sì? Scusa, ma se te l’avessi detto ci avresti creduto? Avresti creduto a una sola parola?

Tacqui.

– Per primo è successo a Gibarian – continuò, sempre con quel suo finto sorriso. – Si era chiuso nella cabina e parlava solo attraverso la porta. Secondo te, che cosa dovevamo pensare?

Lo sapevo, ma preferii tacere.

– Ovviamente pensammo che fosse impazzito. Attraverso la porta ci aveva detto qualcosa, ma non tutto. Forse ti rendi conto di come mai non ci volesse rivelare chi c’era lì con lui… Ormai lo sai: suum cuique. Ma essendo un vero scienziato, voleva che gli concedessimo una possibilità.

– E quale?

– Be’, suppongo che volesse tentare di inquadrare il problema, venirne a capo, risolverlo… Lavorava di notte. Lo sai che cosa faceva? Ma sì che lo sai…

– Quei calcoli – dissi – nel cassetto della stazione radio… Sono suoi?

– Sì. Ma allora non ne sapevo nulla.

– Quanto è durato?

– La visita? Circa una settimana. I discorsi attraverso la porta, tutto quello che succedeva lì dentro… Pensammo che soffrisse di allucinazioni, di una specie di eccitazione motoria. Gli detti della scopolamina.

– Ma come?… A lui?

– Sì. Non era per lui, gli serviva per degli esperimenti. Andò avanti così.

– E voi…?

– Noi? Il terzo giorno decidemmo di entrare, fosse pure a costo di sfondare la porta… volevamo davvero aiutarlo.

– Ah… allora è per questo – mi scappò detto.

– Sì.

– È lì… nell’armadio…

– Sì, caro. Sì. Ignorava che nel frattempo anche noi avevamo avuto i nostri visitatori. Non potevamo più occuparci di lui… ma lui non lo sapeva. Adesso è quasi diventata una… routine.

Lo disse talmente piano che l’ultima parola, più che udirla, la intuii.

– Un momento, non capisco – dissi. – Avreste dovuto sentire qualcosa, no? Mi hai appena detto che origliavate alla sua porta. Avreste dovuto sentire due voci, e quindi…

– No, solo la sua. Se c’era qualche brusio incomprensibile attribuivamo a lui anche quello, capisci, no?

– Solo la sua…? Ma… perché?

– Non lo so. Una teoria in proposito ce l’avrei, ma per il momento la lascio dov’è, tanto più che spiegare questo o quel dettaglio serve a poco. Sì. Tu però devi aver visto qualcosa già ieri, altrimenti ci avresti presi per pazzi…

– Ho pensato di essere diventato matto.

– Ah sì? E non hai visto nessuno?

– Sì.

– E chi?

Il sorriso si era trasformato in una smorfia. Lo fissai a lungo prima di rispondergli.

– La… donna nera…

Non rispose, ma il corpo contratto e proteso in avanti si rilassò leggermente.

– Avresti potuto avvertirmi – dissi, ormai con minor convinzione.

– Sì che ti ho avvertito.

– Già, ma in che modo!

– L’unico possibile. Vuoi capire che non potevo sapere di chi si sarebbe trattato? Non lo sa nessuno, non lo si può mai sapere…

– Dimmi una cosa, Snaut. Tu questo… fatto lo conosci ormai da qualche tempo. Che ne sarà di quel… di quella…

– Vuoi sapere se torna?

– Sì.

– Sì e no…

– Come sarebbe a dire?

– Torna come era all’inizio… alla prima visita che ti ha fatto. Senza sapere niente o, più esattamente, comportandosi come se tutto quello che hai fatto per sbarazzartene non fosse mai esistito. Se non ce li costringi con il tuo comportamento, non diventano aggressivi…

– Quale comportamento?

– Dipende dalle circostanze.

– Snaut!

– Che c’è?

– Non possiamo permetterci il lusso di fare misteri!

– Non è un lusso – replicò seccamente. – Ho l’impressione, Kelvin, che tu continui a non capire… Ma aspetta…

Gli brillarono gli occhi.

– Posso chiedere chi è venuto a trovarti?

Deglutii. Abbassai la testa: non mi andava di guardarlo in faccia. Avrei preferito che si trattasse di un altro invece che di lui, ma non avevo scelta. La garza si staccò e mi scivolò su una mano. Il contatto viscido mi dette un brivido.

– La donna che… – cominciai e mi interruppi. – Si è uccisa. Con… un’iniezione…

Aspettò che continuassi. Vedendo che tacevo, chiese:

– Si è suicidata?

– Sì.

– Tutto qui?

Non risposi.

– Non può essere tutto…

Alzai di scatto la testa. Guardava da un’altra parte.

– Come fai a saperlo?

Non rispose.

– E va bene – dissi. Mi passai la lingua sulle labbra. Avevamo litigato. Anzi, no: fui io a dirle… sai, le cose che si dicono per rabbia. Presi la mia roba e me ne andai. Lei mi fece capire… non che me l’abbia detto chiaramente, ma quando vivi con una persona da tanti anni, la intuisci al volo… Ero convinto che dicesse tanto per fare, che non ne avrebbe avuto il coraggio e infatti… le dissi proprio così. Il giorno dopo mi ricordai di avere lasciato nel cassetto… certe fiale, e che lei lo sapeva perché quando, per ragioni mie, le avevo portate lì dal laboratorio, le avevo spiegato come funzionassero. Ebbi paura e mi dissi che avrei dovuto rimuoverle, ma poi pensai che le avrei dato l’impressione di prendere sul serio le sue parole e così… le lasciai al loro posto. Ma siccome, sotto sotto, non stavo tranquillo, il terzo giorno andai a vedere. Quando arrivai… era già morta.

– Eh, povero innocente…

Sussultai, ma guardandolo mi resi conto che non mi stava prendendo in giro. Mi sembrava di vederlo per la prima volta: la faccia grigia, le profonde rughe lungo le guance da cui emanava una sconfinata stanchezza davano l’impressione di un uomo gravemente malato.

– Perché dici così? – chiesi, stranamente intimidito.

– Perché è una storia tragica. No, no… – si affrettò ad aggiungere vedendomi trasalire – continui a non capire. Per te, ovviamente, è un peso terribile, probabilmente ti consideri un assassino, ma credimi… non è il peggio che possa capitare.

– Ah, no? – ribattei con ironia.

– In un certo senso sono contento che tu non mi creda. Per quanto spaventoso possa essere ciò che è successo, il più terribile è quello che… non è successo. Mai.

– Non capisco… – mormorai. In effetti non ci capivo niente. Lui annuì.

– Prendiamo un uomo normale – disse. – Che cos’è un uomo normale? Uno che non ha commesso niente di orribile? Ma siamo sicuri che non ci abbia mai pensato? Magari a pensarci potrebbe non essere stato lui, ma un qualcosa affiorato dentro di lui dieci o trent’anni prima; un qualcosa che lui aveva combattuto e che aveva smesso di temere sapendo che tanto non l’avrebbe mai messo in atto… Mi segui? E, adesso, immagina che a un tratto, in pieno giorno, quell’uomo incontri tra la gente quel qualcosa incarnato, inscindibile dalla sua persona, indistruttibile. E allora… sai che succede allora?

Tacqui.

– Succede la Stazione – disse piano. – Succede la Stazione Solaris.

– Ma insomma… che potrà mai essere? – chiesi incerto. – Né tu né Sartorius siete dei criminali…

– Sbaglio, o sei uno psicologo? – mi interruppe con impazienza. – Chi di noi non ha mai avuto un sogno o una fantasticheria del genere? Pensa per esempio al… al feticista che si innamora, che so io, di un capo di biancheria sporco e che a rischio della pelle, a forza di preghiere e minacce, ottiene finalmente l’adorato, schifoso pezzo di stoffa… Divertente, no? Uno che da un lato prova ribrezzo per l’oggetto del suo desiderio e dall’altro lo ama alla follia e non esita a sacrificargli la vita, con un’intensità di sentimenti pari a quelli di Romeo per Giulietta… Sono cose che capitano. Però, capisci, capitano anche cose… situazioni… che nessuno osa realizzare fuorché nella propria mente, in un attimo di smarrimento, di raptus, di follia… chiamalo come ti pare. Dopo di che il verbo diventa carne. Tutto qui.

– Tutto qui… – ripetei macchinalmente con voce inespressiva. La testa mi ronzava. – E la Stazione? Che c’entra la Stazione?

– Stai facendo finta di non capire… – mormorò, scrutandomi con attenzione. – Sto parlando precisamente di Solaris, solo di Solaris, di nient’altro che di Solaris. Non è colpa mia se diverge così drasticamente dalle tue aspettative. Del resto, ormai ne hai viste abbastanza per potermi ascoltare fino in fondo. Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto: alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte. Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce, spesso siamo convinti di essere persone straordinarie. In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo, ma estendere la Terra fino alle sue frontiere. Certi pianeti saranno desertici come il Sahara, altri glaciali come il polo o tropicali come la giungla brasiliana. Siamo nobili e umanitari, non vogliamo asservire altre razze ma solo trasmettere loro i nostri valori e, in cambio, impadronirci del loro patrimonio. Ci consideriamo i cavalieri del Santo Contatto, e questa è la menzogna numero due: la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi. Degli altri mondi non sappiamo che farcene, quello che abbiamo ci basta e ci avanza. In alcuni pianeti speriamo di trovarne il modello ideale e civiltà migliori della nostra, in altri speriamo di scoprire l’immagine del nostro passato primigenio. Tuttavia, di quel mondo, c’è anche qualcosa che rifiutiamo, da cui ci difendiamo… Il fatto è che non arriviamo dalla Terra come campioni di virtù o come monumenti dell’eroismo umano: ci portiamo dietro esattamente quello che siamo e quando l’altra parte ci svela la nostra verità – il lato che ne teniamo nascosto – non riusciamo ad accettarla!

– E cioè, che cosa? – chiesi dopo averlo pazientemente ascoltato.

– Quello che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. E adesso che ce l’abbiamo, vediamo che si tratta solo della nostra mostruosa bruttezza, della nostra follia e della nostra vergogna ingrandite al microscopio!

La voce gli vibrava di rabbia.

– Ma tu pensi che sia… l’oceano? Pensi davvero che sia lui? Ma perché? Lasciamo pure perdere il come; ma perché, in nome del cielo? Credi davvero che voglia giocare con noi? O forse punirci? Ma qui si sconfina nella più bieca demonologia primitiva: un pianeta dominato da un enorme diavolo che soddisfa il suo satanico umorismo spedendo dei succubi ai membri di una spedizione scientifica! Non crederai mica a una scemenza del genere?

– Questo diavolo non è così stupido – mormorò Snaut tra i denti.

Lo guardai sorpreso. Anche ammettendo che quanto accadeva nella Stazione non fosse dovuto alla pazzia, Snaut poteva ugualmente avere avuto un crollo nervoso. «Una psicosi reattiva…?» mi dissi, vedendolo ridere silenziosamente tra sé e sé.

– Cos’è, mi fai la diagnosi? Aspetta, aspetta… In fondo lo hai sperimentato in forma talmente leggera che praticamente non ne sai ancora nulla!

– Capisco: il diavolo ha avuto pietà di me – buttai lì. Quella conversazione cominciava a stancarmi.

– E che cosa vorresti? Che ti dicessi per filo e per segno quali piani stanno tramando contro di noi questi x miliardi di plasma metamorfico? Magari nessuno.

– Come, nessuno? – chiesi sbalordito. Snaut continuava a sorridere.

– Dovresti sapere che la scienza si occupa esclusivamente del come avvengano certi processi, e non del perché. Come? La cosa è cominciata un otto o nove giorni dopo l’esperimento con i raggi X. Forse l’oceano ha risposto all’irradiazione con un’altra irradiazione che gli ha permesso di sondare i nostri cervelli ed enuclearne certi incistamenti psichici.

– Incistamenti?

La cosa cominciava a interessarmi.

– Sì: dei processi a sé stanti, isolati da tutto il resto, sepolti, scintille di memoria che covano sotto la cenere… e li ha usati come una ricetta o un progetto operativo… Lo sai, vero, quanto si assomiglino i cristalli asimmetrici dei cromosomi e le strutture nucleiniche di cerebrosidi che stanno alla base dei processi di memorizzazione… Il plasma ereditario è un plasma «memorizzante». Lui ce li ha carpiti, li ha memorizzati e poi è successo quel che è successo. A che scopo, dici? E chi lo sa? Non certo per distruggerci, cosa che gli sarebbe costata molta meno fatica. Con l’onnipotenza tecnologica che si ritrova, avrebbe potuto fare praticamente qualunque cosa, perfino duplicarci con dei sosia,

– Ah! – esclamai. – Ecco perché ti sei così spaventato nel vedermi la prima sera!

– Sì. Del resto – aggiunse – potrebbe anche averlo fatto. Chi ti dice che io sia davvero il buon vecchio Sorcio sbarcato qui due anni fa…?

Riprese a ridere silenziosamente come se il mio sbalordimento gli desse Dio sa quale soddisfazione, ma smise subito.

– No, no – mormorò. – Quello che è successo basta e avanza… Non escludo che tra noi e loro esistano anche altre differenze, ma a me ne risulta una sola, e cioè che tu ed io possiamo essere uccisi.

– E loro no?

– Non ti consiglio di provarci. È uno spettacolo spaventoso.

– Con nessun mezzo?

– Non lo so. Certo non con il veleno, il coltello o il cappio…

– E il lanciafiamme atomico?

– Vuoi provarci?

– Non so. Visto che non sono umani…

– E invece, in un certo senso, lo sono. Soggettivamente, lo sono: loro non si rendono minimamente conto di dove… provengano. Te ne sarai accorto, no…?

– Sì. E allora? Che cosa succede?

– Si rigenerano con una rapidità impressionante. Una cosa inaudita, ti dico, praticamente a vista di occhio… dopo di che ricominciano a comportarsi come… come…

– Come che cosa?

– Come l’immagine che abbiamo di loro, come gli appunti impressi nella nostra memoria, secondo i quali…

– Sì. È vero – confermai. La pomata cominciava a colarmi lungo le guance ustionate gocciolandomi sulle mani, ma non ci feci caso.

– Gibarian lo sapeva? – chiesi a un tratto. Mi guardò con attenzione.

– Se sapeva quello che sappiamo noi?

– Sì.

– Quasi sicuramente.

– Come lo sai? Te l’ha detto lui?

– No. Però in camera sua ho trovato un libro…

– Il piccolo apocrifo? – esclamai balzando in piedi.

– Sì. Come fai a saperlo? – chiese, improvvisamente inquieto, scrutandomi negli occhi.

– Tranquillo – dissi. – Non vedi che ho la pelle ustionata e che non mi si sta affatto rigenerando? Nella cabina c’era una lettera per me.

– Che cosa? Una lettera? E che diceva?

– Non molto. Più che una lettera, era un appunto di certi dati bibliografici riguardanti l’Apocrifo, contenuti nel supplemento dell’Annuario. Che roba è?

– Roba vecchia. Ma potrebbe anche avere qualcosa a che fare con questa faccenda. Tieni.

Estrasse da una tasca un libriccino rilegato in pelle, dagli angoli consunti, e me lo porse. Lo posai da una parte.

– E Sartorius…? – gettai lì.

– Sartorius… che cosa? In una situazione del genere ognuno fa… quello che può. Lui si sforza di mantenersi normale il che, nel suo caso, significa formalmente ineccepibile.

– Vuoi scherzare?

– Giuro. Una volta ci trovammo in una situazione… Tralascio i particolari: ti basti sapere che, in otto, c’erano rimasti cinquecento chilogrammi di ossigeno. Uno dopo l’altro cominciammo a lasciarci andare: trascuravamo le occupazioni quotidiane, giravamo con la barba lunga… Lui è stato l’unico che ha continuato a radersi e a lucidarsi le scarpe. È fatto così. Adesso, ovviamente, non avrà altra scelta che fingere, fare la commedia oppure ricorrere al delitto.

– Un delitto?

– Va bene, ritiro la parola delitto. Troviamone una più adatta… «divorzio a reazione» ti suona meglio?

– Molto spiritoso – dissi.

– Preferisci che mi metta a piangere? Proponi qualcosa tu.

– Lasciami in pace.

– No, dico sul serio: a questo punto ne sai più o meno quanto me. Hai qualche progetto?

– Figurati! Non ho la minima idea di che cosa fare quando ritornerà… Perché ritornerà, vero?

– È probabile.

– Ma come fanno a entrare, se la Stazione è ermetica? Forse la corazza esterna…

Fece segno di no con la testa.

– La corazza è in perfetto stato. Non ho idea da dove entrino i visitatori… Il più delle volte ce li troviamo davanti al nostro risveglio. Che vuoi, di tanto in tanto bisogna pure dormire…

– E un modo per barricarsi?

– Funziona per poco. Non restano che i sistemi… sai bene quali.

Si alzò. Feci altrettanto.

– Di’ un po’, Snaut… Non è che hai in mente di liquidare la Stazione, ma vorresti che la cosa partisse da me?

Scosse la testa.

– Non è così semplice. È chiaro che ci resta sempre la possibilità di scappare, rifugiandoci magari sul satelloide, e da lì spedire un S.O.S alla Terra. Quelli, ovviamente, ci prendono per matti e ci schiaffano in una clinica per malattie mentali… Trascorso qualche tempo, ci rimangiamo ogni cosa: in avamposti isolati come il nostro si verificano spesso casi di follia collettiva… Tutto sommato potrebbe non essere tanto male: un bel giardino, la tranquillità, la cameretta bianca, le passeggiate con le infermiere…

Lo diceva seriamente, le mani in tasca, gli occhi che fissavano, senza vederlo, un angolo della stanza. Il sole rosso era già sparito sotto l’orizzonte e i cavalloni criniti si erano fusi in un deserto color inchiostro. Il cielo fiammeggiava. Sullo sfondo rosso-nero di quel cupo paesaggio scorrevano nuvole orlate di viola.

– Insomma, vuoi scappare sì, o no? O non ancora?

Sorrise.

– Sentitelo, l’indomito conquistatore! Si vede che non ci sei ancora passato, altrimenti non saresti così perentorio. Non è questione di quello che voglio fare, ma di quello che è possibile fare.

– E cioè?

– Magari lo sapessi.

– Quindi restiamo? Intendi provare a scoprire un mezzo per…

Girò verso di me lo smunto viso rugoso dalla pelle squamata.

– Chissà. Potrebbe valerne la pena – disse finalmente. – Non tanto per scoprire qualcosa su di lui… quanto, forse, su noi stessi…

Si voltò, raccolse le sue carte e se ne andò. Feci per trattenerlo, ma dalle labbra non mi uscì alcun suono. Non c’era niente da fare se non aspettare. Andai alla finestra guardando senza vederlo il nero oceano dai riflessi sanguigni. Mi venne in mente che avrei potuto chiudermi in uno dei razzi dell’aeroporto, ma subito abbandonai un’idea tanto stupida: prima o poi ne sarei comunque dovuto uscire. Mi sedetti accanto alla finestra e presi il libro datomi da Snaut. La luce del crepuscolo che arrossava la stanza tingeva di rosa la pagina, permettendomi di leggere. Conteneva una serie di articoli e di lavori, quasi tutti di indubbio valore, compilata da un dottore in filosofia di nome Otto Ravintzer. Ogni scienza genera di solito la propria pseudoscienza, una sua fantasiosa sottospecie, frutto di menti balzane: l’astronomia aveva la sua caricatura nell’astrologia, la chimica l’aveva avuta a suo tempo nell’alchimia… Era quindi comprensibile che la nascita della Solaristica fosse stata accompagnata da una vera e propria esplosione di strampalate elucubrazioni. Il libro di Ravintzer conteneva appunto quel tipo di nutrimenti spirituali, premettendovi – a onor del vero – un’introduzione in cui l’autore prendeva onestamente le distanze da quel panopticum, pur ritenendo non senza ragione che la raccolta potesse costituire un prezioso documento dei tempi, utile sia allo storico sia allo psicologo della scienza.

Il rapporto di Berton, che nel libro occupava un posto d’onore, si componeva di varie parti. La prima era la trascrizione del laconico diario di bordo.

Dalle 14 alle 16.40, ora locale convenuta per la spedizione, le annotazioni apparivano sintetiche e negative.

 

«Quota 1.000, 1.200 e 800 metri: niente da segnalare, oceano deserto.

Ore 16.40: Si alza una nebbia rossa. Visibilità: 700 metri. Oceano deserto.

Ore 17: La nebbia infittisce, silenzio, visibilità 400 metri con qualche schiarita. Scendo a quota 200.

Ore 17.20: Sono nella nebbia. Quota 200. Visibilità 20-40 metri. Silenzio. Salgo a 400.

Ore 17.45: Quota 500. Un mare di nebbia fino all’orizzonte. La nebbia è forata da aperture imbutiformi attraverso le quali traspare la superficie dell’oceano. Laggiù sta succedendo qualcosa. Provo a infilarmi in uno degli imbuti.

Ore 17.52: Vedo una specie di vortice da cui esce una schiuma giallastra. Sono circondato da un muro di nebbia. Quota 100. Scendo a quota 20».

 

Qui finiva la trascrizione del diario di bordo di Berton. Il seguito del cosiddetto rapporto consisteva in un estratto della storia della sua malattia o, più esattamente, nella deposizione di Berton inframmezzata dalle domande dei membri della commissione.

 

«Berton: Una volta sceso a trenta metri diventò molto difficile mantenermi in quota perché nello spazio cilindrico privo di nebbia soffiavano venti impetuosi. Per qualche tempo – un dieci o quindici minuti – ero dovuto restare attaccato ai comandi senza guardare fuori dalla cabina e una ventata più forte delle altre mi aveva inavvertitamente sospinto nella nebbia. Non si trattava di nebbia normale, ma di una specie di sospensione colloidale che si spalmava sui vetri. Era tenace e appiccicosa e feci molta fatica a ripulirli. Inoltre, a causa della resistenza opposta al rotore da quella strana sostanza, i giri si ridussero di circa il trenta per cento e cominciai a perdere quota. Trovandomi molto in basso e temendo di cappottare sulle onde, spinsi a fondo la manetta. L’apparecchio si mantenne in quota ma non si sollevò. Avevo ancora quattro razzi acceleratori ma non li usai, pensando che fosse più prudente tenerli di riserva casomai la situazione peggiorasse. Ora che il rotore girava al massimo avvertii delle vibrazioni sempre più forti e pensai che la materia collosa si stesse appiccicando alle pale; ma dato che l’indicatore di sollevamento continuava a restare sullo zero non potevo farci niente. Da quando ero entrato nella nebbia non avevo più visto il sole, tranne che per una fosforescenza rossastra che si intravedeva nella sua direzione. Continuai a girare nella speranza di imbroccare un punto senza nebbia e dopo circa mezz’ora finalmente ci riuscii. Ero sbucato in uno spazio vuoto, quasi perfettamente circolare, del diametro di qualche centinaio di metri, delimitato all’intorno da un nebbione che vorticava impetuosamente come sollevato da forti correnti ascensionali. Cercavo di mantenermi il più possibile al centro del ‘buco’, dove l’aria era più ferma, quando mi accorsi che la superficie dell’oceano era cambiata: le onde erano quasi completamente sparite e lo strato superficiale del fluido – ossia della sostanza che componeva l’oceano – si era fatto semitrasparente, con delle scie fumose che si diradavano, finché in breve la zona si schiarì e potei guardare giù per una profondità di vari metri. Vi si accumulava una sorta di melma gialla che saliva verso l’alto in sottili filamenti verticali e che, una volta venuta a galla, acquistava una lucentezza vetrosa, prendeva ad agitarsi, a schiumare e a rapprendersi assumendo l’aspetto di un denso zucchero caramellato. Questa melma, o fango che fosse, si coagulava in grumi nodosi ed emergeva sopra la superficie creando delle protuberanze bitorzolute che un po’ alla volta assumevano forme di vario genere. Accorgendomi che l’apparecchio tendeva a spostarsi verso la parete di nebbia, fui costretto a correggerne il movimento con rotore e timone; quando finalmente potei tornare a guardare in basso, vidi qualcosa che sembrava un giardino. Proprio così: un giardino. C’erano alberi nani, siepi, sentieri, ma finti, tutti fatti di quella stessa sostanza che ora si era solidificata ed era simile a gesso giallastro. Appariva così. La superficie brillava intensamente e mi abbassai il più possibile per vedere tutto con precisione.

Domanda: Gli alberi e le piante che hai visto avevano le foglie?

Risposta di Berton: No. Era una specie di modello stilizzato, come il plastico di un giardino. Ecco, sì: sembrava proprio un plastico, però a grandezza naturale. Dopo un attimo il plastico prese a spaccarsi, a fendersi e dalle fessure nere cominciò a uscire a fiotti e a rapprendersi una densa poltiglia che in parte colava via e in parte restava lì. Poi tutto prese a ribollire sempre più forte, si coprì di schiuma e non vidi più niente. Accorgendomi che nel frattempo la nebbia mi stava avviluppando da tutte le parti, aumentai i giri e risalii a quota 300.

Domanda: Sei assolutamente sicuro che quello che hai visto ricordasse un giardino e nient’altro?

Risposta di Berton: Sì, perché ho notato anche altri dettagli: per esempio, ricordo che in un punto c’era una fila di forme quadrate, tipo scatole, e che solo dopo mi venne in mente che poteva trattarsi di arnie.

Domanda: Ti è venuto in mente solo dopo? Non nel momento in cui le hai viste?

Risposta di Berton: No, perché anche quelle sembravano fatte della stessa materia gessosa. Ho visto anche altre cose.

Domanda: Quali?

Risposta di Berton: Non posso dirlo con esattezza perché non ho fatto in tempo ad osservarle attentamente, però ho avuto l’impressione di intravedere degli attrezzi riposti sotto i cespugli. Erano forme allungate, con denti sporgenti… come i calchi in gesso di piccoli macchinari da giardinaggio. Di questi ultimi comunque non sono proprio sicuro, mentre delle altre, sì.

Domanda: Non hai pensato che potesse trattarsi di un’allucinazione?

Risposta di Berton: No. Più che a un’allucinazione ho pensato a un miraggio, innanzitutto perché mi sentivo benissimo e poi perché non avevo mai visto niente del genere in vita mia. Quando sbucai a trecento metri di altezza la nebbia sotto di me era tutta buchi, proprio come un formaggio. Alcuni di essi erano vuoti e vi si intravedeva l’ondeggiare dell’oceano, mentre negli altri ribolliva qualcosa. Addentratomi in uno di quelli vuoti e sceso a quaranta metri, vidi che a poca profondità,  subito sotto la superficie dell’oceano si stendeva un muro, come quello di un immenso edificio; traspariva chiaramente tra le onde e aveva delle file di aperture rettangolari, tipo finestre; anzi mi parve perfino che dietro alcune di esse si muovesse qualcosa, ma non potrei giurarci. Il muro cominciò lentamente a sollevarsi e ad emergere dall’oceano. Ne grondavano cascate di liquido mucillaginoso e delle forme vischiose, come dei grumi solcati di venature. All’improvviso questo muro si spaccò in due e sprofondò a grande velocità, scomparendo all’istante. Ripresi nuovamente quota e volai proprio sopra la nebbia, quasi sfiorandola con il carrello. Scoprii un altro imbuto vuoto, circa dieci volte più grande del precedente.

Già da lontano vidi galleggiare qualcosa: essendo chiaro, quasi bianco, mi parve lo scafandro di Fechner, tanto più che la sua forma ricordava quella di un uomo. Virai bruscamente temendo di oltrepassare il punto e di non riuscire più a trovarlo: la forma si sollevava leggermente dando l’impressione di nuotare o di essere immersa nelle onde fino alla vita. Per la fretta scesi talmente in basso che sentii il carrello sbattere contro qualcosa di morbido, probabilmente la cresta di una grossa onda sottostante. L’essere umano, perché era un essere umano, non indossava lo scafandro e tuttavia si muoveva.

Domanda: L’hai visto in faccia?

Risposta di Berton: Sì.

Domanda: Chi era?

Risposta di Berton: Un bambino.

Domanda: Un bambino? L’avevi mai visto prima in vita tua?

Risposta di Berton: No, mai… comunque non che mi ricordi. Ma non appena mi avvicinai – sarà stato a una distanza di quaranta metri, forse qualcosa di più – mi accorsi subito che qualcosa non andava.

Domanda: In che senso?

Risposta di Berton: Mi spiego subito. Alla prima non mi resi conto in che cosa consistesse l’anomalia e mi ci volle un momento per capirlo: era di una grandezza spropositata. Dire enorme è dir poco: sarà stato lungo quattro metri. Ricordo distintamente che quando sbattei contro l’onda il suo viso si trovava un po’ al di sopra del mio: eppure, seduto com’ero nella cabina, sovrastavo sicuramente l’oceano di almeno tre metri.

Domanda: Se era così grande, come facevi a sapere che era un bambino?

Risposta di Berton: Perché era un bambino piccolo.

Domanda: Non ti pare che la tua risposta manchi di logica?

Risposta di Berton: No, per niente. Intanto l’avevo visto in faccia, e poi anche le proporzioni del corpo erano quelle di un bambino. Sembrava quasi… un neonato. Forse neonato è dire troppo: avrà avuto due o tre anni. Aveva i capelli neri, due enormi occhi azzurri ed era nudo, completamente nudo, appunto come un neonato. La pelle, più che bagnata, appariva lustra e scivolosa. Mi fece un effetto spaventoso. Ormai avevo smesso di credere a un miraggio, l’avevo visto troppo distintamente. Oltre a sollevarsi e ad abbassarsi al ritmo delle onde, aveva anche dei movimenti propri… una cosa orribile!

Domanda: Perché, che cosa faceva?

Risposta di Berton: Sembrava una bambola da museo, ma una bambola vivente. Apriva e chiudeva la bocca, eseguiva dei gesti ripugnanti… nel senso che non sembravano i suoi.

Domanda: Che cosa vuoi dire?

Risposta di Berton: Non mi ci avvicinai più di una quindicina di metri, diciamo venti per essere più esatti. Ma, come ho già detto, era talmente grande che lo vedevo distintamente. Gli brillavano gli occhi e lo si sarebbe davvero potuto prendere per un bambino vivo se non fosse stato per quei movimenti… come se qualcuno stesse facendo delle prove… lo sperimentasse…

Domanda: Cerca di spiegarti meglio.

Risposta di Berton: Non so se ne sarò capace. Dopotutto si è trattato di un’impressione, di un’intuizione e non di un vero e proprio ragionamento. Erano dei movimenti innaturali.

Domanda: Vuoi dire che, per esempio, le sue braccia eseguivano dei movimenti che le braccia umane, più limitate nelle articolazioni, non potrebbero eseguire?

Risposta di Berton: No, per niente. Voglio dire che si trattava di movimenti… senza senso. Di solito ogni movimento ha un suo significato, mira a uno scopo…

Domanda: Ne sei proprio sicuro? I gesti di un neonato non devono per forza significare qualcosa…

Risposta di Berton: Lo so. Ma i gesti di un neonato sono scomposti, scoordinati, casuali. Questi invece erano… Ecco, sì: erano metodici. Venivano eseguiti per gruppi, per serie successive, quasi che qualcuno volesse verificare quali gesti il bambino fosse in grado di compiere con le mani, con il busto, con la bocca… Il più terribile era il viso, suppongo per via dell’espressività. Come definirlo? Un viso vivo, ma nello stesso tempo non umano. Cioè: i tratti, gli occhi e l’incarnato erano assolutamente umani, ma l’espressione e la mimica, no.

Domanda: Faceva delle smorfie? Hai mai visto la faccia di un uomo in preda a una crisi epilettica?

Risposta di Berton: Sì, l’ho visto e capisco quello che intende dire. No, era una cosa completamente diversa. L’epilessia provoca spasmi, contrazioni; questi invece erano movimenti fluidi, continui, e come dire… armoniosi: non saprei come altro definirli. Lo stesso per quanto riguarda la faccia. Un viso non può essere per metà allegro e per metà triste, per metà timoroso e per metà trionfante… e invece quello era così. Inoltre tutti quei gesti e quei mutamenti di espressione si succedevano con inaudita rapidità. Ci rimasi per un tempo brevissimo… una decina di secondi, forse anche meno.

Domanda: E sostieni di avere visto tutte queste cose in un tempo così breve? E poi, come fai a sapere quanto sia durato? Hai guardato l’orologio?

Risposta di Berton: No, non l’ho guardato, ma volo da sedici anni e in questa professione si acquista la capacità di valutare il tempo al secondo. Diventa un riflesso istintivo indispensabile soprattutto negli atterraggi. Un pilota che in qualunque circostanza non sia capace di stabilire se un fenomeno dura cinque oppure dieci secondi, non varrà mai un granché, e lo stesso dicasi per la capacità di osservazione. Con gli anni uno si abitua ad afferrare le cose in un lampo.

Domanda: È tutto quello che hai visto?

Risposta di Berton: No, ma il resto non lo ricordo con altrettanta esattezza. Avevo già avuto delle impressioni molto forti e può darsi che il mio cervello non fosse in grado di registrare altro. Nel frattempo la nebbia si andava addensando e fui costretto a risalire. Ovviamente l’ho fatto, però non saprei dire né come, né quando. Per la prima volta in via mia ho rischiato di cappottare, le mani mi tremavano al punto che quasi non riuscivo a tenere i comandi. Mi sembra di avere gridato qualcosa e di avere chiamato la base, pur sapendo che non eravamo collegati.

Domanda: A quel punto hai tentato di rientrare?

Risposta di Berton: No. Arrivato in cima pensai che forse in fondo a uno di quei buchi potesse esserci Fechner. Lo so che sembra assurdo, ma sul momento mi parve una buona idea. Se accadevano cose del genere, forse avrei anche potuto ritrovare Fechner. Per cui decisi di entrare in tutti i buchi che avessi incontrato. Ma risalendo dopo il terzo tentativo e con quello che avevo visto, capii che non ce l’avrei fatta. Come già sapete, fui preso dalla nausea e vomitai all’interno della cabina. E stata la prima volta che mi è successo.

Domanda: Erano i sintomi di un’intossicazione, Berton.

Risposta di Berton: Non so, può darsi. Ma quello che ho visto la terza volta non me lo sono inventato e non è stato l’effetto di un’intossicazione.

Domanda: Come fai a saperlo?

Risposta di Berton: Non è stata un’allucinazione. Un’allucinazione è un qualcosa creato dal mio cervello, giusto?

Domanda: Sì.

Risposta di Berton: Appunto. E il mio cervello una cosa così non se la sarebbe mai inventata. Mi rifiuto di crederlo. Non ne sarebbe stato capace.

Domanda: Dicci piuttosto di che cosa si era trattato.

Risposta di Berton: Prima devo sapere come verranno interpretate le dichiarazioni che ho fatto fino a questo momento.

Domanda: Che importanza può avere?

Risposta di Berton: Per me, fondamentale. Ho dichiarato di avere visto delle cose che non potrò mai dimenticare. Se la commissione riconosce alle mie dichiarazioni una sia pur minima percentuale di verosimiglianza, tanto da ritenere opportuno di studiare l’oceano, allora dirò tutto. Se invece la commissione le interpreta come un mio delirio, non dirò più niente.

Domanda: Perché?

Risposta di Berton: Perché il contenuto delle mie allucinazioni, anche se dovesse gridare vendetta, riguarda soltanto me e non sono tenuto a renderne conto. Mentre delle osservazioni riguardanti Solaris, sì.

Domanda: Significa che ti rifiuti di rispondere ad altre domande finché gli organi competenti della spedizione non abbiano preso una decisione? Presumo che tu ti renda conto che la commissione non è tenuta a prendere una decisione immediata.

Risposta di Berton: Sì».

 

Qui terminava il primo verbale. Seguiva un frammento del secondo, redatto undici giorni dopo.

 

«Presidente: Preso atto di quanto sopra, la commissione – composta da tre medici, tre biologi, un fisico, un ingegnere meccanico e dal vice capo della spedizione – ha concluso che i fatti esposti da Berton siano da considerarsi un insieme di allucinazioni causato dalla tossicità atmosferica del pianeta, con disturbi percettivi accompagnati da eccitazione delle sfere associative della corteccia cerebrale, e che tali fatti non corrispondono a niente, o a quasi niente, di reale.

Berton: Chiedo scusa… Che cosa vorrebbe dire: ‘niente, o quasi niente’? A che cosa corrisponde un ‘quasi niente’? Quanto è grande?

Presidente: Non ho ancora finito. La commissione ha fatto mettere a verbale il votum separatum del dottore in fisica Archibald Messenger il quale ritiene che i fatti esposti da Berton possano rispondere a verità e meritino un esame approfondito.

Berton: Ripeto la mia domanda.

Presidente: È semplice. ‘Quasi niente’ significa che le tue allucinazioni possono essere state causate da uno spunto reale. Qualsiasi persona sana di mente può essere indotta, in una notte ventosa, a scambiare un cespuglio agitato dal vento per un essere vivente, fenomeno a più forte ragione possibile nel caso di un osservatore che si trovi su un pianeta sconosciuto e con la mente alterata da effluvi tossici. La cosa non ti reca alcun pregiudizio, Berton. Quindi, che cosa decidi?

Berton: Posso sapere quali saranno le conseguenze del votum separatum del dottor Messenger?

Presidente: Praticamente nessuna. Vale a dire che non verrà intrapresa alcuna ricerca in tal senso.

Berton: Le nostre parole vengono messe a verbale?

Presidente: Sì.

Berton: Allora desidero dichiarare che a mio avviso la commissione sta recando pregiudizio non a me – che non conto niente – ma allo spirito stesso della spedizione. Quindi, come ho già detto, non intendo rispondere ad altre domande.

Presidente: È tutto?

Berton: Sì. Gradirei incontrare il dottor Messenger. È possibile?

Presidente: Naturalmente».

 

Qui finiva il secondo verbale. A piè di pagina appariva una nota a minuti caratteri in cui si diceva che il giorno seguente il dottor Messenger aveva avuto una conversazione confidenziale di tre ore con Berton, in seguito alla quale si era nuovamente rivolto al Consiglio della Spedizione esortandolo a verificare le dichiarazioni del pilota. Secondo lui la cosa era giustificata dai nuovi e ulteriori dati fornitigli da Berton, dati che tuttavia avrebbe potuto rendere noti solo dopo che il Consiglio avesse preso un decisione favorevole. Il Consiglio, nelle persone di Shannahan, Timolis e Trahier, aveva respinto la mozione e la faccenda era stata archiviata.

Il libro conteneva anche la fotocopia dell’ultima pagina di una lettera rinvenuta tra le carte di Messenger dopo la sua morte. Sembrava una minuta. Ravintzer non era riuscito a stabilire se la lettera fosse stata spedita e, se sì, quali conseguenze avesse prodotto.

 

«… della sua madornale ottusità – così iniziava il testo. – Preoccupato di tutelare la propria autorità il Consiglio, vale a dire Shannahan e Timolis (il voto di Trahier non conta) ha respinto le mie richieste. Mi rivolgerò direttamente all’Istituto, ma avrai già capito che si tratta di una protesta destinata a restare lettera morta. Purtroppo, legato come sono dalla parola data, non posso svelarti quanto mi ha detto Berton. Sulla decisione del Consiglio ha ovviamente influito il fatto che le rivelazioni provenissero da una persona di scarsa istruzione, anche se fior di scienziati potrebbero invidiare la lucidità mentale e la capacità di osservazione di questo pilota. Ti chiederei di spedirmi a giro di posta i seguenti dati:

1) la biografia di Fechner, compresi i particolari riguardanti la sua infanzia;

2) tutto quello che sai della sua famiglia e delle questioni che la riguardano: pare che sia rimasto orfano in tenera età;

3) la topografia della località in cui è cresciuto.

Desidero anche confidarti la mia opinione sulla faccenda.

Come ben sai, qualche tempo dopo la partenza di Fechner e Carucci, al centro del sole rosso apparve una macchia che con le sue radiazioni corpuscolari interruppe il collegamento radio: secondo i dati del satelloide ciò si produsse soprattutto nell’emisfero meridionale, dove appunto si trovava la nostra base. Di tutte le squadre di ricognizione, Fechner e Carucci furono quelli che più si allontanarono dalla base.

Mai, dal nostro arrivo sul pianeta fino al giorno della catastrofe, avevamo osservato una nebbia così fitta e costante, né un tale silenzio.

Ritengo che Berton abbia assistito a una fase dell’’operazione uomo’ compiuta da quel mostro vischioso. La vera fonte di tutte le creazioni viste da Berton è stato Fechner, o meglio il suo cervello sottoposto a un inaudita e sperimentaledissezione psichica’ per ricreare e ricostruire alcune tracce (le più durevoli, suppongo) della sua memoria.

Lo so che sembra una cosa fantastica e che posso sbagliarmi, per cui ti chiedo di aiutarmi. Attualmente mi trovo sull’Alarico dove aspetto la tua risposta.

Tuo A».

 

Si era fatto buio e ormai decifravo a stento i caratteri; alla fine si confusero del tutto, ma dallo spazio bianco in fondo al foglio avevo capito di essere giunto alla fine di quella storia che, alla luce della mie stesse esperienze, mi sembrava quanto mai verosimile. Mi voltai verso la finestra. Vi appariva una distesa viola scuro, all’orizzonte qualche nuvola riluceva ancora come brace morente. L’oceano, immerso nelle tenebre, era invisibile. Udii il debole fruscio dei nastri di carta sulle griglie dei ventilatori. Nell’aria calda e immobile aleggiava un lieve sentore di ozono. Nella Stazione regnava il più assoluto silenzio. Pensai che la nostra decisione di rimanerci non avesse niente di particolarmente coraggioso. Il periodo delle eroiche conquiste planetarie, delle audaci spedizioni e delle funeste perdite – non fosse che quella di Fechner, prima vittima dell’oceano si era concluso da tempo. Ormai non mi interessava quasi più sapere chi fossero i «visitatori» di Snaut e di Sartorius. Mi dissi che presto avremmo smesso di vergognarcene e di isolarci: se non fossimo riusciti a sbarazzarcene, ci saremmo abituati alla loro presenza e ci avremmo convissuto. Se poi il loro creatore avesse cambiato le regole del gioco, ci saremmo adattati alle nuove: dopo qualche ripulsa, qualche iniziale agitazione e magari qualche sporadico suicidio, anche il nuovo assetto avrebbe finito per raggiungere un suo equilibrio. Un’oscurità sempre più simile a quella terrestre stava invadendo la stanza, ormai rischiarata solo dal biancore del lavandino e dello specchio. Mi alzai, trovai a tastoni sulla mensola il cotone idrofilo, mi passai un tampone umido sulla faccia e mi sdraiai supino sul letto. Da qualche parte sopra di me, simile al battito d’ali di una falena, andava e veniva l’alterno ronzio del ventilatore. L’oscurità aveva ingoiato anche la finestra; solo un sottile filo di luce di origine non meglio identificata mi si stagliava davanti, non so se sul muro o nell’oscurità esterna. Mi ricordai quanto mi avesse spaventato, la sera prima, il vuoto sguardo dello spazio solariano e per poco non sorrisi della mia paura. Non lo temevo più, non temevo più niente. Sollevai il polso all’altezza degli occhi e vidi brillare il cerchio fosforescente dell’orologio: tra un’ora sarebbe sorto il sole azzurro. Svuotato, libero da ogni pensiero, tirai un profondo respiro godendomi l’oscurità circostante.

A un certo punto, nel muovermi avvertii contro il fianco il piatto rettangolo del registratore. Ah già: Gibarian. La sua voce immortalata sulla bobina. Avevo dimenticato di risuscitarlo e di ascoltarlo – l’unica cosa che potessi ancora fare per lui. Udii un fruscio e il lieve cigolare della porta che si apriva.

– Chris…? – sussurrò piano una voce. – Chris, ci sei? C’è un buio…

– Non fa niente – risposi. – Non avere paura. Vieni qui.

 

La conferenza

Giacevo sulla schiena, la testa di lei sulla mia spalla, senza pensare a nulla. L’oscurità che pervadeva la stanza si andava popolando. Udivo dei passi. Le pareti svanivano. Qualcosa mi si ammucchiava addosso con strati sempre più alti, all’infinito… Trapassato da parte a parte, avviluppato da mani invisibili giacevo immobile nell’oscurità avvertendone la tagliente trasparenza che sostituiva l’aria. Lontano, molto lontano udivo i battiti del mio cuore. Racimolando il resto delle mie forze mi concentrai sull’agonia imminente, ma l’agonia non venne. Continuavo a rimpiccolire mentre un invisibile cielo, invisibili orizzonti e uno spazio privo di forme, di nuvole e di stelle arretrava e si ingigantiva attorno me, che ne ero il centro. Cercai di insinuarmi nel giaciglio su cui giacevo ma sotto di me c’era il nulla e l’oscurità non ricopriva più niente. Strinsi le mani e vi nascosi il viso, ma il viso non c’era più e le dita passarono da parte a parte, volevo gridare, urlare…

La stanza era grigio-azzurra. Dei mobili, delle mensole e degli spigoli delle pareti tratteggiati a pennellate sommarie emergevano solo i contorni opachi e scoloriti. Fuori della finestra nient’altro che un luminoso,  silente chiarore madreperlaceo. Ero fradicio di sudore. Mi girai di lato. Lei mi guardava.

– Ti si è intorpidito il braccio?

– Come?

Sollevò la testa. Gli occhi, grigi e luminosi sotto le ciglia scure, avevano lo stesso colore della stanza. Il suo mormorio mi era arrivato come una carezza e solo dopo ne avevo individuato le parole.

– No… anzi, sì.

Le posai la mano sulla spalla. Avevo le dita informicolite. Con l’altro braccio l’attirai lentamente contro di me.

– Hai fatto un brutto sogno.

– Un sogno? Ah sì, un sogno. E tu non hai dormito?

– Non lo so. Forse no. Non ho sonno, ma tu dormi pure. Perché mi guardi così?

Chiusi gli occhi. Sentivo il lieve regolare battito del suo cuore poggiato contro il mio, che pulsava più lento. Il suo cuore? Un accessorio di scena, pensai. Ma ormai non mi stupivo più di niente, neanche della mia indifferenza. Paura e disperazione mi stavano alle spalle, ero andato lontano, più lontano di chiunque altro. Le mie labbra le sfiorarono il collo e scesero, nelle piccole cavità tra i tendini, lisce come l’interno di una conchiglia. Anche qui sentivo il sangue pulsare.

Mi sollevai su un gomito. Invece che dall’aurora e da una pallida alba, l’orizzonte era pervaso da un bagliore blu elettrico. Il primo raggio attraversò la stanza come una freccia, tutto si illuminò di riflessi; arcobaleni esplosero sullo specchio, sulle maniglie, sulle tubazioni cromate; sembrava che la luce colpisse ogni superficie come per liberarsi facendo esplodere la piccola stanza. Mi girai. Le pupille di Harey si erano ristrette. Le iridi grigie si sollevarono verso il mio viso.

– È già giorno? – chiese con voce opaca, a metà tra sonno e veglia.

– Cara, qui è sempre così.

– E noi?

– Noi che cosa?

– Ci resteremo per molto?

Mi venne quasi da ridere, ma l’incerto suono che mi uscì dalle labbra non somigliava per niente a una risata.

– Sì, abbastanza. Non ti va?

Mi fissò con attenzione senza sbattere le palpebre. Le aveva sbattute? Non ne ero sicuro. Tirò su la coperta scoprendo il piccolo triangolo rosa sul braccio.

– Perché mi guardi così?

– Perché sei bella.

Sorrise. Un sorriso di cortesia per ringraziarmi del complimento.

– Davvero? Mi guardi come se tu… come se io…

– Che cosa?

– Come se cercassi qualcosa.

– Ma che dici?

– No… Come se pensassi che ho qualcosa… o che c’è qualcosa che non ti ho detto.

– Ma figurati!

– Se neghi in questo modo, vuol dire che ho ragione. Ma fa’ pure come vuoi.

Dietro ai vetri in fiamme sorgeva una smorta calura azzurra. Parandomi gli occhi con la mano cercai gli occhiali. Erano sul tavolo. Mi inginocchiai sul letto, me li misi e vidi il suo riflesso nello specchio. Sembrava che aspettasse qualcosa. Quando mi sdraiai nuovamente al suo fianco, sorrise.

– E a me?

All’improvviso capii.

– Gli occhiali?

Mi alzai e cominciai a frugare nei cassetti e sul tavolo davanti alla finestra. Ne trovai due paia, tutti e due troppo grandi. Glieli detti. Li provò uno dopo l’altro: le scendevano entrambi fino a metà naso.

Con un prolungato cigolio le saracinesche cominciarono a scivolare davanti alle finestre. In capo a un momento all’interno della Stazione, rientrata nel guscio come una tartaruga, si fece notte. Alla cieca cercai i suoi occhiali, glieli tolsi e li posai per terra accanto ai miei.

– Che facciamo? – chiese.

– Quello che si fa di notte: dormiamo.

– Chris…

– Sì?

– Vuoi che ti faccia un altro impacco?

– No, non importa. Non importa… cara.

Dicendolo non sapevo io stesso se stessi fingendo, ma all’improvviso, al buio, le abbracciai alla cieca le fragili spalle e avvertendone il tremito credetti in lei. Non so come dire: all’improvviso mi parve di essere io a ingannare lei, e non lei me. Lei era solo se stessa.

Mi assopii a più riprese, svegliandomi ogni volta di soprassalto. Il martellio del cuore lentamente si placava mentre, sfinito di stanchezza, me la stringevo contro e lei mi tastava delicatamente la faccia, la fronte, per controllare se avessi la febbre. Quella era Harey. L’unica, la sola, l’autentica.

Quel pensiero produsse un cambiamento. Smisi di lottare e quasi all’istante mi addormentai.

Fui svegliato da un tocco leggero. Avvertivo sulla fronte una piacevole frescura. Giacevo con la faccia coperta da qualcosa di morbido e bagnato che lentamente si sollevò: scorsi il volto di Harey chino su di me. Con entrambe le mani strizzava la garza facendo colare l’eccesso di liquido in una ciotola di porcellana. Accanto c’era il flacone della lozione contro le ustioni. Mi sorrise.

– Che sonno pesante – disse, applicandomi di nuovo l’impacco. – Ti fa male?

– No.

Aggrottai la fronte: in effetti la bruciatura non mi doleva più come prima. Harey sedeva sul bordo del letto, avvolta in un accappatoio da uomo bianco a righe arancioni, i capelli sciolti sul colletto. Si era rimboccata le maniche sopra il gomito perché non la intralciassero. Avevo una fame da lupi, erano venti ore che non toccavo cibo. Quando Harey ebbe finito di curarmi la faccia, mi alzai. A un tratto lo sguardo mi cadde su due vestiti posati uno accanto all’altro, assolutamente identici, bianchi con i bottoni rossi: il primo era quello che l’avevo aiutata a levarsi tagliandolo alla scollatura, l’altro quello con cui era tornata. Stavolta se l’era scucito da sola con le forbici. Disse che doveva essersi incastrata la cerniera.

Quei due vestiti identici erano la cosa più spaventosa di quante ne avessi passate fino a quel momento. Harey si aggirava davanti all’armadietto dei medicinali facendovi ordine. Le volsi furtivamente le spalle e mi morsi a sangue la mano stretta a pugno. Gli occhi fissi su quei due vestiti o, meglio, su quell’unico vestito ripetuto due volte, cominciai a retrocedere verso l’uscita. L’acqua continuava a scorrere rumorosamente dal rubinetto. Aprii la porta, scivolai nel corridoio e la richiusi senza rumore. Udivo attutito il mormorio dell’acqua e il tintinnio delle bottiglie: a un tratto i rumori cessarono. Le lunghe lampade sul soffitto del corridoio erano accese, un’indistinta macchia di luce si rifletteva sulla superficie della porta davanti alla quale, le mandibole serrate, stavo in attesa. Stringevo la maniglia senza grande speranza di riuscire a trattenerla. Un violento strattone quasi me la strappò di mano ma la porta non si aprì, limitandosi a vibrare e a scricchiolare paurosamente. Stupefatto, mollai la presa e arretrai. Guardavo senza credere ai miei occhi: la liscia superficie di plastica si incurvava come spinta dall’esterno verso l’interno della stanza. Frammenti di smalto schizzavano da tutte le parti scoprendo l’acciaio dell’intelaiatura che sempre più si incurvava. All’improvviso capii: invece di spingere la porta, che si apriva verso il corridoio, cercava di aprirla tirandola a sé. La macchia di luce riflessa si distorse sulla superficie bianca come in uno specchio concavo, si udì un terribile schianto e il pannello, teso all’estremo, si spezzò mentre la maniglia, strappata dal suo alloggio, volava all’interno della stanza. Due mani insanguinate sbucarono fuori dell’apertura e si protesero in avanti striando lo smalto di rosso: la porta si divise in due parti che penzolarono sbieche dai cardini mentre una creatura bianco-arancione dal livido volto inespressivo mi si gettava sul petto singhiozzando.

Se quella vista non mi avesse paralizzato, probabilmente avrei cercato di fuggire. Harey riprendeva convulsamente fiato martellandomi la spalla con la testa e agitando in qua e in là i capelli scarmigliati. Quando l’afferrai, mi crollò tra le braccia. Infilandomi tra i brandelli distrutti la portai nella stanza e l’adagiai sul letto. Aveva le unghie spezzate e piene di sangue. Quando voltò la mano, ne vidi il palmo squarciato fino alla carne viva. La guardai in viso: gli occhi spalancati mi fissavano senza espressione.

– Harey!

Mi rispose un mormorio inarticolato.

Le avvicinai un dito all’occhio: la palpebra si chiuse. Andai all’armadietto dei medicinali. Il letto scricchiolò. Sedeva dritta guardandosi con spavento le mani insanguinate.

– Chris – gemette – io… io… che mi è successo?

– Ti sei ferita sfasciando la porta – risposi asciutto. Sentivo qualcosa di strano alle labbra, soprattutto a quello inferiore, come se fosse intorpidito. Lo strinsi tra i denti.

Harey lanciò una rapida occhiata ai frammenti di plastica scheggiata penzolanti dall’intelaiatura e tornò a guardarmi. Il mento le tremò, vidi lo sforzo che faceva per dominare la paura.

Ritagliai alcuni pezzi di garza, presi dall’armadietto la polvere antisettica per le ferite e tornai verso il letto. Gli oggetti che avevo in mano scivolarono a terra e il barattolo di vetro si ruppe. Non mi chinai a raccoglierlo: non serviva più.

Le sollevai la mano. Intorno alle unghie appariva ancora un filo di sangue rappreso, ma le ferite erano scomparse e l’interno del palmo era coperto da uno strato di pelle rosea, più chiara dell’altra. Ma anche quella cicatrice andava svanendo quasi a vista d’occhio.

Mi sedetti e le accarezzai il viso cercando, senza troppo successo, di sorriderle.

– Perché l’hai fatto, Harey?

– Ma perché… sono stata io? – chiese, indicando la porta con gli occhi.

– Sì. Non ricordi?

– No. Cioè… quando ho visto che non c’eri più mi sono spaventata a morte e…

– E che cosa?

– Ho cominciato a cercarti. Pensavo che fossi in bagno…

Solo ora mi accorsi che l’anta dell’armadio, scostata, rivelava l’ingresso del bagno.

– E poi?

– Non ricordo. Dev’essere successo qualcosa.

– Che cosa?

– Non lo so.

– Ma che cosa ricordi? Che è successo dopo?

– Ero seduta qui, sul letto.

– Non ricordi che ti ho portata in braccio?

Esitò. Aveva gli angoli della bocca piegati all’ingiù,  il viso teso.

– Vagamente. Forse. Non so.

Posò i piedi a terra e si alzò. Si avvicinò alla porta distrutta.

– Chris!

La presi per le spalle, da dietro. Tremava. Si girò di colpo cercando il mio sguardo.

– Chris – mormorò. – Chris.

– Calmati.

– Chris, ma se sono stata io… Non sarà mica epilessia?

Epilessia? Questa sì che era buona. Mi venne quasi

da ridere.

– Ma che dici, cara! È che qui le porte sono fatte in un modo…

Mentre lasciavamo la stanza, le saracinesche esterne scoprivano cigolando la finestra: il disco solare si tuffava nell’oceano.

Mi diressi verso la piccola cucina al capo opposto del corridoio. Perlustrammo i pensili e il frigorifero. Mi accorsi quasi subito che cucinare non era il suo forte e che, come me, era pratica soprattutto di cibi in scatola. Divorai il contenuto di due scatolette e bevvi non so quante tazze di caffè. Anche Harey mangiava, ma lo faceva come una bambina che non volesse dispiacere a un adulto: senza sforzo, ma in modo meccanico e indifferente.

Poi andammo nella piccola sala operatoria accanto alla stazione radio: avevo un piano. Con la scusa di volerla, per ogni evenienza, visitare, la feci sdraiare su una poltrona reclinabile e presi dallo sterilizzatore ago e siringa. Conoscevo quasi a memoria la collocazione di ogni cosa: durante l’addestramento nel duplicato terrestre della Stazione non era stato trascurato il minimo particolare. Le prelevai dal dito una goccia di sangue, feci un vetrino, l’essiccai nell’aspiratore e sotto vuoto lo bombardai di ioni d’argento.

La concretezza di quelle operazioni pratiche mi trasmise un senso di calma. Sdraiata sui cuscini della poltrona Harey osservava la fitta distesa di apparecchi della saletta operatoria.

Il ronzio dell’interfono interruppe il silenzio. Sollevai il ricevitore.

– Kelvin – risposi, senza perdere d’occhio Harey che appariva apatica, come sfinita dagli ultimi avvenimenti.

– Ah, sei in sala operatoria? Finalmente! – Mi parve di udire un sospiro di sollievo.

Era Snaut. Aspettai, la cornetta premuta contro l’orecchio.

– Hai un visitatore, eh?

– Sì.

– Sei occupato?

– Sì.

– Stiamo facendo un piccolo controllo?

– Perché? Volevi fare una partita a scacchi?

– Piantala, Kelvin. Sartorius vuole vederti. Anzi vuole vederci entrambi.

– È una novità – replicai sorpreso. – Che ne è del…

Feci una pausa e ripresi:

– È solo?

– No. Mi sono spiegato male: intende solo parlarci. Ci colleghiamo tutti e tre sull’interfono, ma con il video oscurato.

– Ah sì? E come mai non me l’ha detto di persona? Cos’è, si vergogna?

– Qualcosa del genere – borbottò Snaut tra i denti. Allora?

– Vuoi sapere quando? Ti andrebbe bene tra un’ora?

– D’accordo.

Il piccolo schermo mi permetteva di vederne solo la faccia, non più grande di una mano. Mi fissò attentamente negli occhi, si udiva solo il debole ronzio della corrente.

– Come te la cavi? – chiese infine in tono esitante.

– Non c’è male. E tu?

– Un po’ peggio di te, suppongo. Non è che potrei…

– Vuoi venire qui? – chiesi, interpretando il suo pensiero. Da sopra la spalla lanciai un’occhiata a Harey. La testa reclinata sul cuscino, le gambe accavallate una sull’altra, giocherellava assente e annoiata con la sfera argentata che chiudeva la catenella fissata al bracciolo della poltrona.

– Lascia, hai capito! Lascialo, ti dico! – gridò la voce concitata di Snaut. Sullo schermo appariva il suo profilo, ma non udii altro. Vedevo solo le labbra muoversi senza suono: aveva coperto il microfono con la mano.

– Ora non posso… Forse più tardi. Facciamo tra un’ora – disse in fretta e lo schermo si spense. Riagganciai la cornetta.

– Chi era? – chiese Harey con aria indifferente.

– Snaut, un cibernetico della Stazione. Non lo conosci.

– Ne hai ancora per molto?

– Perché, ti annoi? – chiesi. Posi il primo preparato della serie nella cassetta del microscopio a neutrini e uno dopo l’altro premetti gli interruttori colorati. I campi di forza ronzarono sordamente.

– Non è che qui ci siano molti svaghi… Se la mia modesta compagnia non ti basta… è un guaio… – dissi prolungando con noncuranza gli intervalli tra le frasi. Così dicendo, afferrai con entrambe le mani la grande testata nera in cui riluceva l’oculare del microscopio, l’attirai verso di me e poggiai la fronte sul morbido alloggio di gomma. Udii la voce di Harey senza capire che cosa dicesse. Sovrastavo in ripido scorcio un immenso deserto inondato di luce argentea sul quale sgretolate, erose e avvolte in un informe velo di bruma giacevano rotonde placche rocciose. Erano i globuli rossi. Misi ulteriormente a fuoco e, senza staccare la faccia dagli oculari, mi addentrai sempre più a fondo nell’argenteo campo visivo. Con la mano sinistra giravo intanto la manopola di regolazione del piano e appena un solitario eritrocita, simile a un masso erratico, si trovò all’incrocio dei fili neri, aumentai l’ingrandimento. L’obiettivo sembrava sovrastare un globulo deformato e scavato al centro, simile ormai al cerchio di un cratere roccioso con nette ombre nere stagliate sull’anello esterno. Il suo ciglio, irto di strati di ioni d’argento, sparì dal campo visivo. Nebulosi e come visti attraverso un’acqua opalescente apparvero i contorni di catene di aminoacidi per metà atrofizzate e distorte. Tenendo al centro dell’incrocio un groviglio di albumina guasta continuai a girare lentamente la manopola di ingrandimento: da un momento all’altro sarei dovuto arrivare al termine di quel viaggio nell’abisso. L’ombra appiattita di una molecola invase l’intero campo visivo e all’improvviso si dissolse.

Ma non accadde niente. Invece di vedere la nebbiolina degli atomi vibrante in un tremolio gelatinoso, non vidi niente. Il campo visivo era di un argento immacolato. Girai a fondo la vite. Il brusio crebbe rabbiosamente ma non apparve niente. Un ripetuto segnale di allarme indicava che il circuito era sovraccarico. Contemplai ancora una volta il deserto argentato e staccai la corrente.

Guardai Harey. Stava aprendo la bocca in un incipiente sbadiglio che abilmente dissimulò in un sorriso.

– Salute buona? – chiese.

– Ottima – risposi. – Non potresti stare meglio.

Continuai a guardarla. Avvertii di nuovo un intorpidimento al labbro inferiore. Che cosa era successo? Che voleva dire? Quel corpo apparentemente così fragile e sottile, in realtà indistruttibile, si rivelava sostanzialmente fatto di niente? Battei il pugno contro il cilindro del microscopio. Un difetto? Cattiva concentrazione dei campi? No, ero certo che l’apparecchio funzionasse alla perfezione. Una per una avevo percorso tutte le fasi – le cellule, il conglomerato albuminico, le molecole – e tutte corrispondevano perfettamente a quanto avevo osservato in migliaia di preparati. Ma l’ultimo passo nel cuore della materia non portava a niente.

Le prelevai un po’ di sangue dalla vena e lo travasai in un contenitore graduato. Lo suddivisi in varie provette e cominciai ad analizzarlo. Mi ci volle più tempo di quanto pensassi, avevo un po’ perso la mano. Le reazioni erano nella norma. Tutte. A meno che…

Lasciai cadere un po’ di acido concentrato su una goccia rossa. Si levò un filo di fumo, la goccia divenne grigia e si coprì di uno strato di schiuma sporca. Disgregazione. Snaturamento. Bisognava spingersi oltre! Mi girai a prendere un’altra provetta. Quando tornai nella posizione di prima, per poco non mi sfuggì di mano.

Sul fondo del contenitore, sotto il velo di schiuma sporca si andava formando uno strato rosso scuro. Il sangue bruciato dall’acido si riformava! Era una cosa assurda, impossibile!

– Chris – udii come da molto lontano. – Chris, il telefono!

– Come? Ah sì, grazie.

Il telefono squillava da un pezzo, ma non l’avevo sentito.

– Kelvin – risposi, alzando il ricevitore.

– Sono Snaut. Ho collegato le linee in modo che possiamo parlare in tre.

– Buongiorno, dottor Kelvin – disse l’acuta voce nasale di Sartorius. Sembrava quella di un conferenziere che sospettoso, vigile ed esternamente controllato, si avventurasse su un podio traballante.

– I miei rispetti, dottore – risposi. Mi veniva da ridere, ma non ero del tutto convinto di potermi abbandonare a un’allegria le cui cause non mi apparivano ancora del tutto chiare. Di chi dovevo ridere, in fin dei conti? Avevo in mano la provetta con il sangue. La scossi: si era già coagulato. Forse poco prima ero stato vittima di un’illusione, di una mia impressione?

– Cari colleghi, vorrei esporvi certe questioni riguardanti. .. ehm… i fantasmi -. Udivo la sua voce e al tempo stesso non la udivo: era come se cercasse di imporsi alla mia percezione e io mi sottraessi continuando a concentrarmi sulla provetta di sangue rappreso.

– Chiamiamoli pure creazioni F – si affrettò a suggerire Snaut.

– Molto bene.

Una linea verticale divideva in due lo schermo indicando che ero collegato con due canali: di qua e di là si sarebbero dovute vedere le facce dei miei interlocutori. Ma il vetro era buio e solo la sottile cornice luminosa testimoniava che l’apparecchio era in funzione a schermi oscurati.

– Ognuno di noi ha condotto determinati esperimenti… – Sempre quella stessa prudenza nella voce nasale. Una pausa. – Suggerirei di cominciare con il confrontare le nostre esperienze, dopo di che passerei a esporre le mie personali conclusioni… Vuole iniziare lei, dottor Kelvin?

– Io? – dissi. All’improvviso mi sentii addosso lo sguardo di Harey. Posai sul tavolo la provetta che rotolò sotto la rastrelliera dei recipienti in vetro e, dopo avere avvicinato con il piede un alto sgabello a tre zampe, mi ci inerpicai. Stavo per rifiutare, quando con stupore udii la mia voce che diceva:

– D’accordo. Una piccola conversazione privata? Va bene. Sono ancora indietro, ma posso esporre il poco che ho fatto: un preparato istologico e alcune reazioni. Microreazioni. Ho avuto l’impressione che…

Fino a quel momento non avevo la minima idea di che cosa dire. All’improvviso mi sbloccai e partii in quarta.

– È tutto nella norma, ma si tratta di un puro simulacro, di una maschera. In un certo senso è una supercopia, una riproduzione più perfetta dell’originale. Vale a dire che, mentre nell’uomo troviamo un limite di granularità, un limite di divisibilità strutturale, qui il limite è spostato molto più avanti grazie all’uso di materiale subatomico!

– Un momento, un momento… Che cosa intende, esattamente? – chiese Sartorius. Snaut taceva. O quella che sentivo nel ricevitore era la sua respirazione affannosa? Harey si volse a guardarmi. Mi resi conto che, nell’eccitazione, avevo quasi gridato le ultime parole. Mi calmai e, curvo sul mio scomodo trespolo, chiusi gli occhi. Come spiegare?

– L’estremo elemento strutturale dei nostri corpi è l’atomo. Penso che le creazioni F siano costituite da unità minori dei soliti atomi. Molto minori.

– Da mesoni…? – suggerì Sartorius. Non sembrava per niente sorpreso.

– No, non da mesoni… I mesoni si vedrebbero. La potenza del microscopio che ho quaggiù va da un decimo a un ventesimo di angstrom, e tuttavia non appare niente. Quindi non si tratta di mesoni. Casomai di neutrini.

– Un momento, un momento… Che cosa vuol dire?

I conglomerati neutrinici non sono stabili…

– Non lo so. Non sono un fisico e non me ne intendo. Potrebbero essere stabilizzati da un qualche campo di forza… Comunque, se è come dico io, il materiale costitutivo è fatto di particelle circa diecimila volte più piccole degli atomi. E non è tutto! Se le molecole di albumina e le cellule fossero direttamente costituite da questi «micro-atomi», dovrebbero essere proporzionalmente più piccole, come pure i globuli rossi, i fermenti e tutto il resto, cosa che invece non è. Ne risulta che albumina, cellule e nuclei cellulari sono solo una mascherai La struttura realmente responsabile del funzionamento del «visitatore» sta nascosta più in fondo.

– Ma, Kelvin! – gridò quasi Snaut. Mi interruppi spaventato. Avevo detto «visitatore»? Sì, ma Harey non aveva sentito, a parte il fatto che non avrebbe capito. La testa appoggiata al cavo della mano guardava la finestra e il suo breve, puro profilo si stagliava contro l’aurora scarlatta. I miei interlocutori telefonici tacevano, ne sentivo solo il respiro lontano.

– Potrebbe esserci qualcosa di vero – mormorò Snaut.

– Sì, è possibile – aggiunse Sartorius. – Tranne che l’oceano non è fatto delle ipotetiche particelle di Kelvin, ma di particelle normali.

– Magari è capace di sintetizzare anche quelle – osservai. All’improvviso avvertii un senso di noia. Oltre a non essere divertente, quella conversazione era anche inutile.

– Il che spiegherebbe la loro straordinaria resistenza – mormorò Snaut, – nonché la velocità nel rigenerarsi. Forse contengono già in sé la loro stessa fonte energetica… infatti non hanno bisogno di mangiare…

– Chiedo la parola – disse Sartorius. Quel suo attenersi alla parte che si era attribuita era insopportabile.

– Vorrei sollevare la questione del movente. Il movente della comparsa delle creazioni F. Lo imposterei come segue: che cosa sono le creazioni F? Non sono persone e neanche copie di determinate persone, ma solo una proiezione materializzata del contenuto del nostro cervello circa una determinata persona.

Fui colpito dall’esattezza della sua definizione. Per antipatico che fosse, non era certo un cretino.

– D’accordo – mi intromisi. – Questo spiegherebbe anche come mai ci appaiano pers… creazioni di un certo tipo e non di un altro. Sono state scelte le tracce di memoria più durevoli e di maggiore spicco; ma poiché, ovviamente, nessuna di queste tracce può venire isolata in modo completo, nella fase di «copiatura» sono stati, o possono essere stati compresi anche i resti di tracce contigue; per cui può anche succedere che il visitatore disponga di conoscenze superiori a quelle della persona di cui dovrebbe essere la copia…

– Kelvin! – esclamò di nuovo Snaut. Fui colpito dal fatto che Snaut fosse l’unico a protestare contro i miei lapsus. Sartorius non sembrava preoccuparsene affatto. Significava per caso che il suo visitatore era di natura meno perspicace del visitatore di Snaut? Per un attimo mi balenò l’immagine dello scienziato Sartorius affiancato da un nanerottolo semideficiente.

– Sì, l’abbiamo notato – rispose lo stesso Sartorius. Ora, per quanto riguarda il motivo della comparsa delle creazioni F… la prima cosa che viene da pensare è, ovviamente, che noi siamo l’oggetto di un esperimento. Di un esperimento, comunque, piuttosto… imperfetto. Quando si conduce un esperimento si trae profitto dai risultati ottenuti e, in particolar modo, dagli errori commessi, tant’è vero che, prima di ripeterlo, vi si apportano delle correzioni… In questo caso, invece, non si vede ombra di correzione. Le creazioni F si ripresentano identiche a prima… senza nessuna ulteriore difesa contro i nostri… tentativi di sbarazzarcene…

– Insomma, un colpo di ritorno senza l’opportuna correzione di tiro, come direbbe il dottor Snaut – osservai. – E che cosa se ne deduce?

– Semplicemente che, come esperimento, si tratterebbe di… un’abborracciatura, cosa in questo caso abbastanza sorprendente, perché di solito l’oceano è molto… preciso. Prova ne sia, se non altro, la duplice struttura delle creazioni F. Fino a un certo punto si comportano come si comporterebbero… le vere… i veri…

Non riusciva a cavarne le gambe.

– … originali – si affrettò a suggerire Snaut.

– Sì, gli originali. Ma appena la situazione oltrepassa le normali facoltà, ehm… dell’originale, nella creazione F si verifica una specie di «sospensione di coscienza» seguita all’istante da un comportamento di tutt’altro genere e, per così dire, inumano…

– È vero – dissi. – Ma così non facciamo che compilare un catalogo dei comportamenti di queste… creazioni, il che non ci è di nessuna utilità.

– Non ne sarei poi tanto sicuro – protestò Sartorius. All’improvviso capii come mai mi irritasse tanto: invece di parlare, doveva sempre pontificare come durante una seduta dell’Istituto. Evidentemente non riusciva a esprimersi diversamente.

– Qui entra in gioco la questione della singola individualità, concetto di cui a mio avviso l’oceano è totalmente privo. Ho l’impressione, cari colleghi, che il lato per noi più… ehm… scabroso e spiacevole dell’esperimento gli sfugga completamente, nel senso che rimane estraneo alla sua sfera di comprensione.

– Ritiene quindi che il suo non sia un comportamento intenzionale…? – chiesi. Quell’idea mi aveva un po’ stupito ma, ripensandoci, mi parve che non fosse del tutto da escludere.

– Sì. Contrariamente al collega Snaut, non credo ad alcuna forma di cattiveria, malvagità o desiderio di colpire nel modo più doloroso…

– Io non gli attribuisco affatto dei sentimenti umani – replicò Snaut, prendendo per la prima volta la parola. – Ti dispiacerebbe dirmi come spieghi questi continui ritorni?

– Forse mettendo in moto un dispositivo che gira in continuazione, come un disco – dissi, con il segreto desiderio di irritare Sartorius.

– Per cortesia, colleghi, cerchiamo di non uscire dal seminato – disse la voce nasale del dottore. – Non ho ancora finito. In condizioni normali riterrei prematuro anticipare un rapporto, sia pure provvisorio, sullo stato dei miei lavori ma, tenuto conto della specifica situazione, farò un’eccezione. Per ora ho l’impressione, ripeto, soltanto l’impressione che l’idea del dottor Kelvin sia abbastanza giusta. Mi riferisco alla sua ipotesi della struttura neutrinica… Le nostre conoscenze in materia sono puramente teoriche, ignoravamo che tali strutture si potessero stabilizzare. A questo punto si prospetterebbe una possibilità precisa, ossia quella di neutralizzare il campo di forza che assicura la stabilità della struttura…

Da qualche istante avevo notato che la copertura che oscurava lo schermo dal lato di Sartorius si stava schiudendo: in alto si apriva una fessura luminosa lungo la quale si spostava lentamente qualcosa di rosa. A un tratto l’oscuramento svanì.

– Via! Via! – risuonò l’urlo lacerante di Sartorius. Sullo schermo improvvisamente illuminato, tra gli avambracci del dottore coperti dalle mezze maniche usate nei laboratori e annaspanti in tutte le direzioni, balenò un grande oggetto dorato, simile a un disco; poi tutto si spense. Solo allora mi resi conto che il disco dorato era una paglietta…

Respirai a fondo.

– Snaut? – dissi.

– Sì, Kelvin – rispose il cibernetico con voce stanca. All’improvviso sentii di volergli bene. Preferivo non sapere chi ci fosse lì con lui. – Non credi – proseguì che per oggi possa bastare?

– Pare anche a me – risposi e, prima che potesse riattaccare, mi affrettai ad aggiungere: – Senti, appena puoi, passa a trovarmi qui o nella mia cabina. Va bene?

– D’accordo – disse. – Però non so dirti quando.

La problematica conferenza era finita.

 

I mostri

A metà notte fui svegliato dalla luce. Mi sollevai su un gomito parandomi gli occhi con l’altra mano. Avvolta nel lenzuolo, Harey sedeva rannicchiata ai piedi del letto, il viso nascosto dai capelli. Le spalle le sussultavano. Piangeva silenziosamente.

– Harey!

Si raggomitolò più stretta.

– Che ti succede?… Harey…

Sveglio a metà, mi sedetti sul letto emergendo poco alla volta dall’incubo che mi stava attanagliando. La ragazza tremava. La abbracciai. Mi respinse con il gomito, nascondendo la faccia.

– Cara.

– Non parlare così.

– Harey, ma che succede?

Vidi il suo viso bagnato, contratto dal pianto. Grosse lacrime infantili le rotolavano sulle guance, luccicavano nell’incavo del mento, gocciolavano sul lenzuolo.

– Tu non mi vuoi.

– Ma che ti salta in mente!

– Ti ho sentito.

Il viso mi si contrasse.

– Sentito che cosa? Guarda che non hai capito, era solo…

– No, no. Hai detto che non sono io. Che me ne devo andare. Ma io me ne andrei… Dio, se me ne andrei, solo che non posso. Non so che cosa sia: ci ho provato, ma non ci riesco. Sono così vile, così vile!

– Piccola!

L’afferrai e la strinsi a me con quanta forza avevo. Tutto il resto svaniva: le baciavo le mani, le baciavo le dita bagnate e salate, mormoravo suppliche, giuramenti, scuse, le dicevo che si era trattato solo di uno stupido, orribile sogno. Un po’ alla volta si calmò. Smise di piangere. Alzò su di me due occhi immensi, da sonnambula. Erano asciutti. Girò la testa dall’altra parte.

– No, non dire così. Non devi. Tu non sei più lo stesso nei miei confronti.

– Io non sono lo stesso? – gemetti.

– Sì. Tu non mi vuoi. L’ho sempre sentito: facevo finta di non accorgermene, pensavo che fosse solo una mia impressione, o che so io. E invece no. Ti comporti… in modo diverso. Non mi prendi sul serio. È vero che era un sogno, però sognavi me. Mi chiamavi per nome. Mi detestavi. Perché? Perché?

Mi inginocchiai davanti a lei e le abbracciai le gambe.

– Bambina…

– Non parlarmi così. Non voglio, hai capito? Non sono una bambina. Sono…

Scoppiò in singhiozzi e ricadde col viso sul letto. Mi alzai. Dalle bocchette di ventilazione usciva con un lieve ronzio l’aria climatizzata. Sentii freddo. Mi misi sulle spalle l’accappatoio, mi sedetti sul letto e le toccai una spalla.

– Ascolta, Harey. Devo dirti una cosa. Voglio dirti la verità…

Si tirò su appoggiandosi lentamente alle mani. Vedevo le vene palpitare sotto la pelle sottile del collo. La faccia mi si era nuovamente contratta e sentivo sempre più freddo. Avevo la testa completamente vuota.

– La verità? – disse. – Parola d’onore?

Non riuscii a rispondere subito, mi si era chiusa la gola. Era una nostra vecchia formula di giuramento, una volta pronunciata la quale nessuno dei due osava non solo mentire, ma neanche tacere qualcosa. C’era stato un tempo in cui ci tormentavamo con un eccesso di sincerità nell’ingenua speranza che questo potesse salvarci.

– Parola d’onore – dissi gravemente. – Harey…

Rimase in attesa.

– Anche tu sei cambiata. Tutti cambiamo… ma non era questo che volevo dire. Per una ragione che nessuno di noi due conosce veramente, sembra che… tu non possa lasciarmi. Ma questo mi sta bene, perché neanch’io posso lasciarti…

– Chris!

La sollevai avvolta com’era nel lenzuolo. Un lembo zuppo di lacrime mi si incollò sulla nuca. Andai in su e giù per la stanza cullandola. Mi accarezzò le guance.

– No. Tu non sei cambiato. Quella diversa sono io mi sussurrò all’orecchio. – In me c’è qualcosa che non va. Quello? – chiese guardando il nero e vuoto rettangolo della porta sfondata di cui la sera prima avevo portato i rottami in magazzino. La deposi sul letto.

– Ma tu non dormi mai? – chiesi standole accanto, le braccia abbandonate lungo i fianchi.

– Non lo so.

– Ma come, non lo sai… Pensaci, tesoro.

– Non credo che sia un vero e proprio sonno. Forse sono malata. Resto lì sdraiata e…

Rabbrividì.

– E che cosa? – chiesi in un soffio, temendo che la voce mi tradisse.

– Non so da dove mi vengano, però ho dei pensieri così strani…

– Per esempio?

«Devo restare calmo, qualunque cosa mi dica» pensai, preparandomi alla risposta come ci si prepara a ricevere un colpo. Scosse la testa con aria smarrita.

– Pensieri così… esterni…

– Non capisco…

– Come se non fossero miei, ma venissero da fuori, da lontano… Non riesco a spiegarmi. Non esistono le parole per dirlo…

– Saranno sicuramente dei sogni – dissi con noncuranza tirando un sospiro di sollievo. – E adesso spegniamo la luce e, fino a domattina, bando alle tristezze! Domani, se vuoi, ce ne inventiamo di nuove. D’accordo?

Allungò la mano verso l’interruttore; si fece buio. Mi stesi sul letto ormai freddo e avvertii il calore del suo respiro che si avvicinava.

La presi tra le braccia.

– Più forte – sussurrò. E, dopo un lungo momento: Chris!

– Che cosa?

– Ti amo.

Avevo voglia di urlare.

 

La mattina era rossa. Il turgido disco solare pendeva basso sull’orizzonte. Sulla soglia della porta giaceva una lettera. Strappai la busta. Harey era in bagno, la sentivo canticchiare. Di tanto in tanto tirava fuori la testa coperta di ciocche bagnate. Mi avvicinai alla finestra e lessi:

 

Chris, siamo arenati. Sartorius ha optato per un trattamento intensivo. Crede di riuscire a destabilizzare le strutture neutriniche, ma per gli esperimenti ha bisogno di una certa quantità di plasma come campione del materiale di partenza F. Propone che tu vada in ricognizione e prelevi del plasma nella capsula. Fai come meglio credi, ma informami della tua decisione. Personalmente non ho opinioni, anzi credo di non avere più niente. Comunque preferirei che accettassi, così almeno ci sembrerà di avere fatto un passo avanti, anche se solo apparente. Altrimenti non ci resta che invidiare G.

SORCIO

 

P. S. Se vuoi fare qualcosa per me, non entrare nella stazione radio. Casomai telefona.

 

Nel leggere quella lettera mi si strinse il cuore. La rilessi attentamente una seconda volta, la stracciai e ne gettai i frammenti nell’acquaio. Poi cercai una tuta per Harey. Mi accorsi con raccapriccio che stavo ripetendo gli stessi gesti dell’altra volta. Ma lei non sapeva niente, altrimenti non si sarebbe tanto rallegrata nel sapere che dovevo partire per una piccola ricognizione all’esterno della Stazione e che l’avrei portata con me. Facemmo colazione nella piccola cucina (anche stavolta Harey mandò giù solo qualche boccone) e andammo in biblioteca.

Prima di compiere la missione richiesta da Sartorius volevo dare un’occhiata alla letteratura sui campi magnetici e sulla struttura dei neutrini. Non sapevo ancora bene come fare, però avevo deciso di controllare il suo lavoro. Mi era venuto in mente che quell’annientatore di neutrini, per il momento ancora inesistente, avrebbe potuto liberare Snaut e Sartorius mentre io e Harey avremmo aspettato insieme da qualche parte, per esempio su un aeroplano, la fine dell’«operazione». Consultai a lungo il vasto catalogo elettronico ponendogli delle domande alle quali quello rispondeva espellendo una scheda con la laconica scritta «Non presente nella bibliografia», oppure proponendomi di consultare una caterva di opere di fisica specialistica che mi lasciava perplesso. E tuttavia non desideravo ancora abbandonare la vasta sala circolare dalle lisce pareti coperte di cassettiere zeppe di microfilm e di registrazioni elettroniche. Situata nel cuore della Stazione, la biblioteca non aveva finestre ed era il punto meglio isolato di tutta la corazza d’acciaio. Forse per questo mi ci sentivo a mio agio malgrado l’evidente fiasco delle mie ricerche. Gironzolando per l’immensa sala mi fermai davanti a un enorme scaffale alto fino al soffitto, pieno zeppo di libri. Non si trattava tanto di un lusso, quanto mai incongruo in quella sede, quanto di un omaggio alla memoria dei pionieri delle esplorazioni solaristiche: i ripiani, contenenti all’incirca seicento volumi, presentavano tutti i classici sull’argomento a cominciare dalla monumentale e già relativamente superata monografia in nove volumi di Giese. Seduto sul bracciolo di una poltrona, estrassi i volumi che mi facevano spiombare il braccio e li sfogliai distrattamente uno dopo l’altro. Anche Harey aveva trovato qualcosa da leggere. Decifrai qualche riga da sopra la sua spalla: era Il cuoco interplanetario, uno dei pochi libri arrivati qui con la prima spedizione e forse addirittura appartenuto allo stesso Giese. Vedendo l’attenzione con cui Harey studiava le ricette culinarie adattate alle severe condizioni della cosmonautica, non dissi niente e tornai al venerando testo che tenevo sulle ginocchia. Solaris, dieci anni di esplorazionicorrispondeva ai volumi 4-13 della collana «Solariana», mentre i volumi odierni avevano ormai una numerazione di quattro cifre.

Giese non brillava certo per il suo estro, ma per uno studioso solariano l’estro era una dote altamente nociva. In nessun altro luogo la fantasia e la capacità di formulare ipotesi affrettate risultavano nefaste come su un pianeta dove, in fondo, tutto era possibile. Le inverosimili descrizioni delle strutture create dal plasma erano probabilmente autentiche, anche se non verificabili, in quanto era raro che l’oceano replicasse le proprie evoluzioni. Chi le osservava per la prima volta rimaneva sbigottito soprattutto dal loro carattere insolito e dalla loro vastità; se si fossero manifestate su scala minore, magari in un acquitrino, sarebbero state considerate uno dei tanti «scherzi della natura», l’accidentale manifestazione di forze cieche. Il fatto che sia le menti mediocri sia quelle geniali restassero ugualmente interdette di fronte all’inesauribile varietà delle forme solaristiche non facilitava i rapporti con l’oceano vivente. Giese non era né un mediocre né un genio, ma uno di quei pedanti classificatori che tutelavano la loro pace interiore con un’accanita e indefessa dedizione al lavoro. Finché poteva si serviva del linguaggio descrittivo; quando gli mancavano le parole si arrangiava inventandone di nuove, spesso infelici e inadatte ai fenomeni descritti. D’altronde c’era anche da dire che non esistevano parole capaci di descrivere quanto accadeva su Solaris. Per quanto cervellotici potessero apparire i suoi «montalberi», «longoidi», «fungoidi», «mimoidi», «simmetriadi», «asimmetriadi», «vertebroidi» e «agiloidi», quei nomi riuscivano comunque a trasmettere una vaga idea di Solaris a chi non ne avesse visto che delle immagini sfocate e dei filmati tutt’altro che perfetti. Ovviamente anche quello scrupoloso classificatore aveva commesso le sue imprudenze. L’uomo formula sempre delle ipotesi, anche quando sta in guardia, anche quando non sa di farlo. Giese riteneva che i longoidi costituissero una forma basilare e li paragonava alle onde, più volte ingrandite e accavallate, delle maree terrestri. Del resto chiunque avesse spulciato la prima edizione della sua opera sapeva che in un primo momento Giese li aveva appunto chiamati «maree», ispirato da un geocentrismo che sarebbe risultato comico se sotto di esso non si fosse intuito l’imbarazzo dello studioso. Se proprio si volevano trovare delle similitudini con il mondo terrestre, i longoidi erano formazioni maggiori, per dimensioni, del Grand Canyon del Colorado, modellate in una materia che in superficie aveva una consistenza gelatino-schiumosa (la schiuma si solidificava in enormi e fragili festoni, in trine dai trafori larghissimi che certi studiosi avevano addirittura definito «escrescenze scheletriche»), mentre alla base si trasformava in una sostanza sempre più compatta, come un muscolo teso, ma un muscolo che a una quindicina di metri di profondità assumeva la durezza della roccia pur conservando la propria elasticità. Tra pareti tese come membrane sul dorso del mostro e alle quali si aggrappavano le «escrescenze scheletriche» si stendeva per chilometri il vero e proprio longoide, creazione apparentemente indipendente, come un colossale pitone che avesse divorato intere montagne e ora le digerisse in silenzio imprimendo di tanto in tanto una lenta vibrazione al suo corpo allungato. Ma il longoide presentava quell’aspetto soltanto se lo si guardava dall’alto di un velivolo. Appena si scendeva di qualche centinaio di metri sotto le «pareti del burrone», il «torso del pitone» appariva una specie di cilindro gonfiato a forza e al quale l’aria immessa imprimesse un vertiginoso movimento rotatorio dilagante a spirale fino all’orizzonte. Di primo acchito non si vedeva che una rotante, scivolosa mota grigioverde le cui masse riflettevano intensamente i raggi solari; ma appena l’apparecchio scendeva fin quasi a toccarne la superficie (mentre le pareti del «burrone» che racchiudevano il longoide diventavano simili alle creste laterali di un avvallamento geologico) ci si accorgeva che il movimento era molto più complesso. Presentava vortici concentrici, vi si incrociavano rivoli più scuri, a tratti il «manto» esterno diventava una lucida superficie riflettente il cielo e le nuvole, perforata dalle tonanti eruzioni dei gas provenienti dal suo semiliquido interno. A poco a poco appariva evidente che il centro delle forze che mantenevano divaricati ed eretti verso il cielo i due versanti di gelatina in lenta coagulazione risiedeva lì sotto; ma la scienza non accettava sic et simpliciter ciò che all’occhio appariva evidente. Per anni si erano svolte accanite discussioni su che cosa accadesse realmente all’interno dei longoidi che solcavano a milioni le immensità dell’oceano vivente. Furono considerati degli organi del mostro, si disse che vi avvenissero delle trasformazioni della materia, che fossero dei processi respiratori, che servissero per il trasporto di sostanze alimentari e chi più ne ha più ne metta, in una serie di ipotesi di cui ormai solo la polvere delle biblioteche serba la traccia. Ogni teoria finiva immancabilmente sbaragliata da migliaia di faticosi e talvolta pericolosi esperimenti. E questo solo per quanto riguardava i longoidi che, tutto sommato, erano le forme più semplici e stabili, visto che la loro esistenza si misurava in settimane, cosa qui assolutamente eccezionale.

Ben più complessa e capricciosa appariva la forma dei mimoidi, che oltretutto suscitava nell’osservatore una violenta reazione – di tipo, ovviamente, del tutto emotivo. Si può dire senza esagerare che Giese se n’era innamorato al punto da dedicarsi fino all’ultimo al loro studio, alla loro descrizione e alla scoperta della loro natura. Il nome con cui li aveva battezzati era un tentativo di esprimerne la loro caratteristica più impressionante per l’uomo, ossia la tendenza a copiare le forme circostanti vicine o lontane che fossero.

Nelle profondità dell’oceano cominciava improvvisamente a profilarsi la macchia scura di un grande cerchio piatto dagli orli sfrangiati e dalla superficie apparentemente bituminosa. Dopo alcune ore cominciava a sfogliarsi, a presentare divisioni sempre più nette e nello stesso tempo a salire verso l’alto. Un eventuale spettatore avrebbe allora assistito a quella che si sarebbe detta una lotta furibonda: da ogni parte convergevano file compatte di concentriche onde circolari che, come labbra appuntite in avanti, come vivi e muscolosi crateri in atto di chiudersi, si accumulavano sull’ondeggiante e nerastra lamina sbrindellata e, impennatesi verso l’alto, precipitavano sul fondo. Ognuna di quelle cadute di centinaia di migliaia di tonnellate era accompagnata per qualche secondo da una sorta di lungo risucchio vischioso sonoro come un tuono: qui tutto avveniva sempre ai massimi livelli. La forma scura era respinta verso il basso, ogni colpo sembrava spiaccicarla e smembrarla; dai singoli strati che ne penzolavano come ali bagnate si staccavano grappoli oblunghi che, affusolandosi in lunghe collane, si fondevano insieme e salivano verso l’alto tirandosi dietro il grumoso disco originario al quale sembravano saldati, mentre dall’alto successive ondate concentriche continuavano a precipitare nel sempre più vasto cratere. Il gioco poteva durare un giorno oppure un mese, e certe volte finiva lì. Si aveva allora quello che lo scrupoloso Giese aveva battezzato un «mimoide abortito», quasi che, chissà come, sapesse esattamente che lo scopo finale di ognuno di quei cataclismi era il «mimoide maturo», ossia quella colonia di pallide polipiacee escrescenze (di solito più vasta di una città terrestre) destinata a duplicare le forme esterne… Naturalmente non era mancato un altro solarista, di nome Uyvens, per il quale quell’ultima fase era una degenerazione, una perversione, una necrosi, e la selva delle forme create un chiaro segno del distacco delle creature dalla matrice originaria.

Ma Giese, che nel descrivere le altre formazioni solariane si muoveva con la prudenza di una formica su una lastra di ghiaccio inclinata, senza permettere che niente alterasse il ritmo cadenzato del suo asciutto periodare, era talmente certo del fatto suo da attribuire le successive fasi dell’emersione del mimoide a un processo di continuo perfezionamento.

Visto dall’alto il mimoide somigliava a una città: ma si trattava solo di un’illusione dovuta all’istintiva ricerca di una qualche analogia con le cose conosciute dall’uomo. Quando il cielo era limpido, tutte le stratificazioni a più piani e i pinnacoli che le sormontavano erano avvolti da uno strato di aria calda che creava un apparente dondolio e un flettersi di quelle forme già di per sé difficili da definire. La prima nuvola che attraversava l’azzurro (parlo di azzurro per forza di abitudine, visto che qui «l’azzurro» era color ruggine nei giorni rossi e sinistramente bianco nei giorni azzurri) provocava un’immediata reazione. Aveva inizio una violenta gemmazione; verso l’alto veniva lanciato un tegumento, quasi completamente staccato dalla base, elastico, cosparso di protuberanze come un cavolfiore, che via via sbiadiva e in capo a qualche minuto imitava alla perfezione le volute di una nube. L’enorme oggetto gettava un’ombra rossastra, certi vertici del mimoide sembravano quasi passarselo l’un l’altro e il movimento avveniva sempre in senso contrario a quello della vera nuvola. Ero certo che Giese avrebbe dato volentieri il suo braccio destro per sapere il perché di almeno quel fenomeno. Ma quelle «isolate» produzioni del mimoide erano niente in confronto alla scatenata attività che riusciva a manifestare quando veniva «stuzzicato» dalla presenza di oggetti e di forme comparsi con l’arrivo dei visitatori terrestri.

La riproduzione di forme si estendeva a tutto ciò che si trovava in un raggio non superiore alle otto-dieci miglia. Il più delle volte il mimoide produceva copie ingrandite e talvolta deformate, creando caricature o semplificazioni grottesche, soprattutto quando si trattava di macchine. Naturalmente il materiale di partenza era sempre quella stessa massa che rapidamente scoloriva e che, lanciata in alto, invece di ricadere restava sospesa per aria, collegata alla base soltanto da cordoni ombelicali facilmente lacerabili; e continuando a strisciare su questa base, contraendosi, assottigliandosi o gonfiandosi assumeva fluidamente le forme più complicate. Un aereo, un traliccio, un palo venivano riprodotti con la stessa velocità; l’unica cosa alla quale il mimoide non reagiva erano gli esseri umani o, per essere esatti, gli esseri viventi in generale, piante comprese, visto che, a fini sperimentali, gli infaticabili ricercatori avevano portato su Solaris anche quelle. In compenso un manichino, una bambola a forma umana, la statuetta di un cane o di un albero scolpiti in qualsivoglia materiale venivano istantaneamente riprodotti.

A questo punto occorre purtroppo segnalare che questa «obbedienza» del mimoide nei confronti degli sperimentatori, così eccezionale su Solaris, conosceva anche fasi di pausa. Il mimoide maturo aveva delle «giornate pigre» durante le quali pulsava con grande lentezza. Una pulsazione, la sua, comunque non percepibile dall’occhio umano: tra un «battito» e l’altro passavano circa due ore, tanto che per scoprirlo erano occorse speciali riprese cinematografiche.

Stando così le cose il mimoide, specie se vecchio, poteva venir visitato senza pericolo: sia il disco di sostegno immerso nell’oceano, sia le protuberanze che se ne innalzavano fornivano al piede un appoggio fin troppo sicuro.

Naturalmente si poteva soggiornare su un mimoide anche nei suoi giorni «lavorativi»; solo che allora la visibilità rasentava lo zero per effetto della piumosa sospensione colloidale, bianca come neve macinata, che in continuazione si spandeva dalle lacerazioni del tegumento in atto di copiare le forme. Forme che peraltro era impossibile distinguere da vicino per via delle loro esorbitanti e gigantesche dimensioni, fatte a misura delle montagne. Inoltre la base del mimoide «al lavoro» diventava scivolosa per colpa della pioggia collosa che solo in capo a qualche ora si solidificava in una crosta molto più leggera della pietra pomice. Infine, senza un appropriato equipaggiamento ci si poteva anche smarrire in quel labirinto di panciuti peduncoli simili a bitorzolute colonne o a geyser semipietrificati, e questo anche in pieno sole, poiché i suoi raggi non arrivavano a penetrare gli strati proiettati a getto continuo nell’atmosfera dalle «esplosioni mimetiche».

L’osservazione di un mimoide nei suoi giorni buoni (buoni soprattutto per lo studioso che vi si trovava sopra) poteva lasciare un’impressione indimenticabile. Un mimoide in preda a una eccezionale fase di iperproduzione aveva i suoi «estri creativi». Inventava varianti personali delle forme esterne, le complicava a piacere, le sviluppava in «prolungamenti formali» continuando a divertircisi per ore con somma gioia del pittore astratto e disperazione dello studioso che tentava invano di capirci qualcosa. A volte il mimoide si abbandonava a semplificazioni addirittura puerili, altre invece si lanciava in «impennate barocche» e tutto ciò che creava era caratterizzato da una sfrenata elefantiasi. Soprattutto i vecchi mimoidi fabbricavano forme capaci di suscitare una franca risata, anche se, personalmente, non ero mai stato capace di riderne, impressionato com’ero dal mistero di quello spettacolo.

Nei primi anni di esplorazione gli scienziati si erano letteralmente avventati sui mimoidi come sui centri nevralgici dell’oceano solariano e sui luoghi dove sarebbe avvenuto l’incontro tra due civiltà. Fin troppo presto era apparso chiaro che non ci sarebbe stato alcun contatto e che tutto cominciava e finiva con un’imitazione di forme che non portava da nessuna parte.

L’antropomorfismo o lo zoomorfismo, ostinatamente ricorrenti nelle disperate ricerche degli studiosi, avevano creduto di individuare in questa o in quella formazione dell’oceano vivente degli «organi sensoriali» o addirittura degli «arti»; era stato così infatti che alcuni studiosi (come Maartens ed Ekkonai) avevano interpretato i vertebroidi e gli agiloidi di Giese. Ma chiamare «arti» quelle protuberanze dell’oceano vivente, proiettate nell’atmosfera talvolta a un’altezza di due miglia, era come sostenere che i terremoti fossero la «ginnastica» della crosta terrestre.

Il catalogo delle formazioni, ricorrenti in modo relativamente continuo e generate dall’oceano vivente con tale frequenza che nel giro di ventiquattr’ore sulla sua superficie se ne potevano osservare da qualche decina a qualche centinaio, comprendeva circa trecento voci. Secondo la scuola di Giese, le meno «umane» di tutte, in quanto non ricordavano niente di ciò che l’uomo poteva vedere sulla Terra, erano i simmetriadi. Già allora si sapeva perfettamente che l’oceano non si comportava in modo aggressivo e che nei suoi abissi plasmatici poteva perdercisi solo chi se la fosse andata a cercare per effetto della propria imprudenza e disattenzione (non mi riferisco, ovviamente, agli incidenti causati da un guasto al sistema di ossigenazione o a quello di climatizzazione), e che perfino i cilindrici fiumi dei longoidi e le mostruose colonne fallacemente oscillanti tra le nuvole potevano venire tranquillamente attraversati da parte a parte da un aereo o da un altro apparecchio volante: di fronte a un corpo estraneo incontrato nell’atmosfera il plasma infatti si apriva e gli lasciava via libera con la velocità del suono; se poi vi era costretto, scavava perfino profondi tunnel sotto la superficie dell’oceano (l’energia istantaneamente investita a questo scopo era immensa: la sua punta massima era stata calcolata da Skriabin sui 1019 erg!). Allo studio dei simmetriadi ci si era accinti con estrema prudenza, con continui passi indietro e una serie di, spesso inutili, precauzioni: ormai non c’era bambino della Terra che non conoscesse i nomi degli uomini avventuratisi per primi nei loro abissi.

La minacciosità di quelle gigantesche formazioni non stava nel loro aspetto, per quanto anch’esso fosse capace di dare gli incubi. Proveniva piuttosto dal fatto che al loro interno non esisteva niente di stabile e sicuro e che in essi perfino le leggi fisiche subivano delle sospensioni. Non per niente erano soprattutto gli studiosi dei simmetriadi a proclamare a gran voce che l’oceano vivente era intelligente.

I simmetriadi emergevano all’improvviso. La loro nascita somigliava a un’eruzione. Circa un’ora prima, l’oceano cominciava a brillare intensamente come se la sua superficie si vetrificasse per una ventina di chilometri quadrati, senza per questo modificare la sua fluidità e il suo moto ondoso. A volte, ma non di regola, i simmetriadi sgorgavano nell’imbuto di un agiloide risucchiato nell’oceano. Dopo circa un’ora, lo strato vetrificato si sollevava nell’aria formando una mostruosa bolla dove, cangiando e rifrangendosi, si rifletteva l’intera volta celeste con il sole, le nubi e tutto l’orizzonte. I raggi luminosi, rifratti e spezzati, creavano un lampeggiante e impareggiabile gioco di colori.

I simmetriadi che producevano gli effetti di luce più spettacolari erano quelli che sorgevano nelle giornate blu, oppure subito prima del tramonto. Si aveva allora l’impressione che il pianeta desse origine a una sua copia che, d’istante in istante, raddoppiava il proprio volume. Appena eruttato dalle profondità il globo fiammeggiante di raggi si fendeva sulla sommità in spicchi verticali, ma ciò non preludeva a una disgregazione. Quello stadio, poco felicemente battezzato «del calice floreale», durava solo qualche secondo. Gli archi membranosi puntati verso il cielo si ripiegavano all’indentro e si fondevano nell’invisibile interno, cominciando a formare una sorta di tarchiato torace in seno al quale si producevano simultaneamente centinaia di fenomeni. Nel suo centro, studiato per la prima volta dai settanta membri dell’équipe di Hamalei, un gigantesco processo di policristallizzazione faceva sorgere un pilastro di sostegno detto talvolta «colonna vertebrale», termine sul quale personalmente non concordavo. Nella sua fase nascente la vertiginosa architettura di questo pilastro centrale veniva sorretta da una serie di sostegni verticali, fatti di una gelatina rarefatta al punto da essere quasi acquosa, sprizzanti a getto continuo dal fondo di chilometrici crepacci. Durante questo processo il colosso, circondato da una fascia di grosse bolle di schiuma nevosa svolazzanti con violenza, emetteva un sordo e continuo ruggito. Seguivano poi, dal centro verso la periferia, complicate rotazioni di ruvidi piani sui quali si accumulavano strati di un duttile materiale che saliva dalle profondità; simultaneamente gli abissali geyser di cui ho già detto si ingrossavano, trasformandosi in mobili colonne provviste di tentacoli i cui fasci, simili alle smisurate branchie di un embrione che crescesse a velocità vertiginosa, percorsi da rivoli di sangue rosa nonché da un’acqua di un verde così scuro da sembrare nero, si dirigevano verso i punti della struttura rigorosamente determinati dalla dinamica dell’insieme. A partire da quel momento il simmetriade cominciava a manifestare la sua caratteristica più straordinaria: la facoltà di modellare o, addirittura, di sospendere certe leggi fisiche. Diciamo intanto che non esisteva un simmetriade uguale all’altro e che la geometria di ognuno di essi rappresentava ogni volta un’«invenzione» dell’oceano vivente. Arrivato a quel punto il simmetriade produceva nel suo interno quelle che correntemente si definivano «macchine momentanee», sebbene tali creazioni non ricordassero affatto le macchine costruite dagli uomini: si trattava di un’attività dalla finalità relativamente ristretta e quindi, in un certo senso, «meccanica».

Una volta che i geyser sgorganti dall’abisso si erano rappresi oppure dilatati in gallerie dalle grosse mura e in corridoi rivolti in tutte le direzioni, e una volta che le «membrane» avevano creato un sistema di piani, pendenze e solai, il simmetriade giustificava il proprio nome nel senso che ad ogni tortuoso passaggio sospeso, ad ogni percorso, ad ogni rampa nell’ambito di un polo corrispondeva una copia, identica in ogni particolare, al polo opposto.

Trascorsi venti o trenta minuti, il gigante cominciava lentamente a inabissarsi, talvolta dopo che il suo asse verticale si era inclinato dagli otto ai dodici gradi. Esistevano simmetriadi più o meno grandi; ma anche i più piccoli, dopo che la loro base si era immersa, torreggiavano oltre ottocento metri sopra l’orizzonte ed erano visibili a varie miglia di distanza. Il momento più sicuro per penetrarvi era dopo che si era ristabilito l’equilibrio, quando l’insieme smetteva di affondare nell’oceano vivente e contemporaneamente l’asse ritornava in verticale; il punto migliore per entrarvi era la parte subito sotto la sommità.

La «calotta» polare, relativamente liscia, era circondata da una zona crivellata dagli sbocchi a imbuto delle celle e dei condotti interni. Questa formazione rappresentava nel suo insieme lo sviluppo tridimensionale di un’equazione di grado superiore.

Com’è noto, ogni equazione può venire espressa tramite il linguaggio figurato della geometria superiore e dare origine a un solido che ne sia il corrispondente. Sotto questo aspetto il simmetriade era un parente dei coni di Lobačevskij e delle curve negative di Riemann, ma un parente molto alla lontana per via della sua incredibile complessità. Rappresentava, nell’ambito di qualche miglio cubo, lo sviluppo di tutto il sistema matematico: uno sviluppo a quattro dimensioni, poiché i coefficienti fondamentali delle equazioni si esprimevano anche nel tempo e nei cambiamenti che v’intercorrevano.

L’idea più semplice, ovviamente, era che ci si trovasse in presenza né più e né meno che della «macchina matematica» dell’oceano vivente, ossia del modello, costruito a sua misura, dei calcoli ad esso occorrenti per uno scopo a noi ignoto; ma oggi nessuno condivideva più questa ipotesi di Fermont. Per quanto fosse allettante, l’idea che per mezzo di quelle titaniche eruzioni (ogni particella delle quali soggiaceva alle sempre più complicate formule dell’analisi superiore) l’oceano vivente analizzasse i problemi della materia, del cosmo e dell’esistenza non era sostenibile. Erano troppi, all’interno del gigante, i fenomeni inconciliabili con questo quadro sostanzialmente semplice e, secondo alcuni, di un’ingenuità addirittura puerile.

Non erano mancati i tentativi di inventare un modo per divulgare e rendere comprensibile il funzionamento del simmetriade. Tra di essi aveva ottenuto un discreto successo l’esempio di Averian che aveva presentato le cose come segue: immaginiamo, aveva detto Averian, un antico edificio terrestre ai tempi dello splendore di Babilonia, ma costruito in una sostanza vivente, reattiva e capace di evolversi. La sua architettura passa fluidamente attraverso una serie di fasi assumendo sotto i nostri occhi le tipologie costruttive greche, quindi quelle romaniche; poi le colonne cominciano ad allungarsi come steli, la volta perde la sua pesantezza, si innalza, si appuntisce, gli archi descrivono ripide parabole e infine si chiudono ad angolo acuto. Il gotico nato da questo processo comincia a maturare, a invecchiare e a sfociare in forme successive: la severità della tensione verticale e dello slancio verso l’alto sono sostituite da eruzioni di orgiastica esuberanza e sotto i nostri occhi esplodono gli eccessi del barocco. Andando avanti nella progressione e sempre considerando le successive mutazioni come le tappe evolutive di un essere vivente, finiremo per giungere all’architettura dell’epoca cosmodromica e forse ci avvicineremo a comprendere che cosa sia un simmetriade.

Ma per quanto sviluppato e arricchito (c’erano anche stati dei tentativi di visualizzarlo per mezzo di modellini e di filmati), il paragone di Averian nel migliore dei casi non reggeva e, a voler essere severi, era da considerarsi un semplice espediente, se non una menzogna bella e buona, poiché il simmetriade non somigliava a niente di terrestre…

L’essere umano riesce ad afferrare solo poche cose alla volta: vede solo quello che gli succede davanti qui e adesso, mentre la rappresentazione di un insieme di processi simultanei, sia pure tra loro collegati e complementari, supera le nostre possibilità. E questo anche nei confronti di fenomeni relativamente semplici. La sorte di un singolo uomo può significare molto, quella di qualche centinaio di uomini era già difficile da afferrare, mentre quella di mille o di un milione non ha sostanzialmente alcun significato. Il simmetriade rappresentava appunto quel milione, anzi, quel miliardo esponenziale: era per definizione «l’inimmaginabile». Il fatto che, sul fondo di una delle sue navate grande ciascuna dieci volte uno spazio di Kronecker, stessimo come formiche aggrappate agli anfratti della volta che respirava; che alla luce dei nostri razzi luminosi vedessimo come grigie opalescenze l’innalzarsi di gigantesche superfici, il loro compenetrarsi, la morbidezza e l’infallibile perfezione del risultato (anch’esso momentaneo, poiché qui tutto scorreva e l’essenza di quell’architettura era il movimento concentrato e orientato verso uno scopo preciso)… tutto questo non cambiava niente, perché in realtà stavamo osservando solo un frammento del processo, la vibrazione di un’unica corda di una gigantesca orchestra sinfonica. Come se non bastasse, sapevamo – lo sapevamo senza comprenderlo – che sopra e sotto di noi, negli svettanti abissi al di là dello sguardo e dell’immaginazione, erano simultaneamente in atto migliaia e milioni di trasformazioni legate tra loro come lo sono le note da un contrappunto matematico. Non per niente qualcuno l’aveva definita una sinfonia geometrica: ma era un tipo di musica che le nostre orecchie non potevano percepire.

Per vedere realmente qualcosa sarebbe stato necessario allontanarsi, arretrare a enorme distanza; ma nel simmetriade tutto era interno, tutto era un proliferare, un’esplosione a valanga di parti, una continua creazione in cui il creato era anche il creante; nessuna mimosa sensitiva era sensibile al minimo tocco quanto la parte del simmetriade, lontana miglia dal punto in cui ci trovavamo e divisa da esso da centinaia di piani, lo era ai cambiamenti in atto nel nostro settore. Qui ognuna di quelle monumentali costruzioni, di una bellezza il cui compimento avveniva oltre il limite del nostro sguardo, era il co-esecutore e insieme il direttore di tutti gli altri edifici co-producentisi e che a loro volta contribuivano a modellare il primo. Sì, era una sinfonia, ma una sinfonia che si autocreava e si autodistruggeva. La fine del simmetriade era orrenda. Nessuno che l’avesse vista riusciva a sottrarsi alla sensazione di assistere a una tragedia, se non a un assassinio. Dopo due, al massimo tre ore (quella crescita esplosiva, quel riprodursi, quella generazione spontanea non duravano mai più di così) l’oceano vivente partiva all’attacco. La liscia superficie si increspava, il moto ondoso, finora calmo e coperto di schiuma secca, cominciava a ribollire; dai quattro capi dell’orizzonte accorrevano masse di onde concentriche e di crateri carnosi uguali a quelli presenti alla nascita del mimoide, ma stavolta di dimensioni incomparabilmente maggiori. La parte sommersa del simmetriade veniva compressa,  il colosso si innalzava lentamente come se stesse per essere espulso fuori dall’ambito del pianeta; gli strati superiori dell’oceano cominciavano ad attivarsi, lambivano sempre più in su le pareti laterali, le avvolgevano, si rapprendevano, ostruivano gli orifizi; ma tutto questo era nulla in confronto a quello che contemporaneamente succedeva all’interno. I processi formativi – l’emissione dall’interno di successive architetture – segnavano una battuta di arresto, dopo di che subivano una violenta accelerazione. I movimenti finora fluidi, il reciproco compenetrarsi, l’incurvarsi, il dispiegarsi di piani e di volte, fin qui sicuri come se dovessero durare secoli, cominciavano a correre all’impazzata. Si aveva l’angosciosa sensazione che di fronte al pericolo che lo minacciava il colosso cercasse di affrettare il proprio compimento. Ma quanto più aumentava la velocità delle trasformazioni, tanto più forti diventavano l’orrore e il disgusto suscitati dalla metamorfosi del materiale costruttivo stesso e della sua dinamica. Le superfici, finora splendidamente malleabili, si afflosciavano, appassivano, penzolavano; cominciavano a prodursi sfalsamenti, forme monche, grottesche, distorte; dalle invisibili profondità saliva un brontolio, un muggito crescente; l’aria, esalata come in un rantolo di agonia, sfregando contro i canali ristretti, sbuffando e tuonando nei passaggi faceva ansimare i crollanti solai come mostruose gole irte di stalattiti di muco, come morte corde vocali; e malgrado la violenza dell’attività in atto – l’attività distruttiva – lo spettatore cadeva preda di un invincibile torpore. Ormai solo l’uragano che ruggiva dall’abisso e lo perforava con migliaia di cunicoli sosteneva, gonfiandola, l’alta struttura che cominciava a calare verso il basso e a crollare come un favo lambito dalle fiamme. Qua e là si notava qualche ultimo soprassalto disordinato, indipendente dal resto del movimento, sempre più debole finché, attaccato ed eroso senza sosta dall’esterno, il colosso crollava con la lentezza di una montagna e si inabissava in un turbine di schiuma uguale a quella che ne aveva accompagnato la titanica nascita.

Ma che cosa significava tutto questo? Già: che cosa significava…

Mi ricordai che una volta, al tempo in cui ero l’assistente di Gibarian, una classe era venuta in gita scolastica a visitare l’Istituto di Solaristica di Aden. Attraversata una stanza laterale della biblioteca, i ragazzi erano stati fatti passare nella sala principale quasi interamente occupata dalle cassette dei microfilm. Vi erano raccolte immagini sparse di frammenti interni dei simmetriadi, ovviamente spariti da tempo, non sotto forma di singole foto, ma di oltre novantamila bobine cinematografiche. A un certo punto un’occhialuta ragazzina sui quindici anni, grassottella, dallo sguardo risoluto e intelligente, aveva chiesto:

– Ma tutto questo a che serve…?

Nell’imbarazzato silenzio che ne era seguito, l’insegnante si era limitata a lanciare un’occhiata severa all’indisciplinata scolara; nessuno dei solaristi che accompagnavano la scolaresca (e dei quali facevo parte) era stato capace di risponderle. In effetti i simmetriadi erano irripetibili come, di solito, erano irripetibili i fenomeni che vi avvenivano. Certe volte l’aria cessava di rumoreggiare nelle loro cavità; certe altre l’indice di rifrazione aumentava o diminuiva; ogni tanto si manifestavano dei locali, ritmici cambiamenti di gravitazione, quasi che il simmetriade avesse un pulsante cuore gravitazionale. A volte le bussole giroscopiche degli studiosi cominciavano a impazzire, apparivano e scomparivano strati intensificati di ionizzazione… La lista si prolungava all’infinito. E se mai un giorno si fosse arrivati a decifrare il segreto dei simmetriadi, restavano pur sempre gli asimmetriadi…

Gli asimmetriadi nascevano allo stesso modo, ma la loro fine era diversa e in essi non si distinguevano altro che fremiti, lampeggiamenti e scintillii; sapevamo soltanto che erano sede di processi vertiginosi, al limite della velocità fisicamente possibile, e che venivano anche considerati dei «fenomeni quantici ingigantiti». Questa loro somiglianza matematica con certi modelli dell’atomo era tuttavia talmente instabile e fugace che certuni la consideravano una caratteristica secondaria o addirittura casuale. Vivevano incomparabilmente meno a lungo dei simmetriadi, una ventina di minuti in tutto, e la loro fine era ancora più orrenda. Al seguito dell’uragano che li invadeva schiantandoli con il suo aspro soffio ululante, vi si raccoglieva con diabolica celerità un liquido ribollente sotto lo strato di schiuma sporca e che, con orrendi gorgoglii, li sommergeva; poi avveniva l’esplosione. Simile a una vulcanica eruzione fangosa, espelleva una disordinata colonna di relitti che sotto forma di pioggia macerata continuavano lungamente a ricadere sull’agitata superficie oceanica. Alcuni di essi trasportati dal vento, risecchiti come schegge, giallastri, appiattiti come ossa membranose o cartilagini, venivano avvistati mentre andavano alla deriva sulle onde a molte decine di chilometri dal focolaio dell’esplosione.

Un gruppo a parte, molto più raro e più difficile da osservare, era costituito dalle creazioni che, per un periodo più o meno breve, recidevano ogni legame con l’oceano vivente. I primi resti rinvenuti erano stati identificati – a torto, come poi si sarebbe dimostrato – come le spoglie di creature viventi nelle profondità dell’oceano. A volte sembravano uccelli dalle molte ali fuggiti di fronte alle proboscidi degli agiloidi che li inseguivano: ma questo concetto, di puro stampo terrestre, non aiutava a penetrarne il mistero.

A volte, ma molto di rado, sulle coste rocciose di un’isola si vedevano riposare al sole, sparpagliati qua e là come foche, o scivolare pigramente verso il mare e fondersi con esso.

Si continuava insomma a restare nell’ambito di nozioni mutuate dalla vita terrestre. Quanto al primo contatto…

Le spedizioni avevano perlustrato centinaia di chilometri nelle profondità dei simmetriadi, avevano piazzato apparecchi di registrazione e cineprese automatiche; gli occhi televisivi dei satelliti artificiali avevano registrato il fiorire, l’espandersi e il morire di agiloidi e mimoidi. Le biblioteche si riempivano, gli archivi ingrossavano e il prezzo da pagare per tutto ciò era spesso pesante. Settecentodiciotto persone erano morte nel corso di cataclismi per non essersi ritirate in tempo dai colossi ormai condannati a morte, e centosei di esse in una sola catastrofe rimasta famosa perché vi era perito lo stesso Giese, allora settantenne: una formazione che presentava tutte le caratteristiche del simmetriade aveva incontrato la fine di solito riservata agli asimmetriadi. Nel giro di pochi secondi un’eruzione di fango colloso aveva inghiottito settantanove persone protette da tute corazzate, con macchine e apparecchi, tirandone giù con le sue scariche altre ventisette che pilotavano gli aerei e gli elicotteri sorvolanti la zona. Il luogo, all’intersezione del quarantaduesimo parallelo con l’ottantanovesimo meridiano, era segnato sulle mappe con il nome di Eruzione dei Centosei. Ma il punto esisteva solo sulle carte e la superficie dell’oceano non differiva in nulla dalle altre sue zone.

Per la prima volta nella storia degli studi solaristici si erano levate voci auspicanti il ricorso a un attacco termonucleare. Quell’iniziativa era peggio di una vendetta: si voleva distruggere ciò che non si riusciva a capire. Informato di questa possibile decisione, Tsanken, il capo della squadra di riserva di Giese salvatosi soltanto grazie a un errore (il suo trasmettitore automatico aveva fornito una falsa segnalazione del luogo in cui gli altri studiavano il simmetriade, per cui aveva vagato sopra l’oceano ed aveva raggiunto il luogo pochi minuti dopo l’esplosione, in tempo per vederne il fungo nero) aveva minacciato di far saltare la Stazione con dentro se stesso e i diciotto uomini che vi erano rimasti. Sebbene la cosa non fosse mai stata resa ufficiale, era molto probabile che quel suicidano ultimatum avesse influito sull’esito delle votazioni.

Ormai i tempi in cui il pianeta veniva visitato da spedizioni così numerose erano passati. La Stazione in sé la cui costruzione, condotta dai satelliti, era un’impresa ingegneristica di cui, non fosse stato per il fatto che l’oceano era in grado di innalzare nel giro di pochi secondi edifici un milione di volte più grandi, avremmo anche potuto gloriarci – era stata progettata come un disco di duecento metri di diametro, con quattro piani al centro e due sul bordo. Sospesa tra i cinquecento e i millecinquecento metri sopra l’oceano per mezzo di gravitatori incaricati di compensare la forza di attrazione, oltre alle solite attrezzature presenti nelle normali Stazioni e nei grandi satelloidi degli altri pianeti era stata dotata di speciali sensori radar pronti, al primo cambiamento della superficie oceanica, a produrre un’energia supplementare: ai primi accenni di una nuova creazione vivente il disco di acciaio si sarebbe elevato nella stratosfera.

Adesso la Stazione era praticamente deserta. Da quando – per ragioni che ancora ignoravo – i robot erano stati chiusi nei magazzini sul fondo, si poteva girare per i corridoi senza incontrare nessuno, come in un relitto vagante alla deriva i cui motori fossero sopravvissuti all’equipaggio.

Mentre rimettevo al suo posto il nono volume della monografia di Giese, mi parve che il pavimento di acciaio rivestito di soffice schiuma plastica mi tremasse sotto i piedi. Mi immobilizzai, ma la vibrazione non si ripeté. La biblioteca era perfettamente isolata dal resto dell’edificio, per cui le vibrazioni potevano avere una sola origine: dalla Stazione doveva essere partito un razzo. Questo pensiero mi riportò alla realtà. Non avevo ancora deciso se sarei andato in ricognizione secondo il desiderio di Sartorius. Fingendo di accettare il suo piano avrei potuto ritardare la crisi: ma visto che avevo deciso di fare tutto il possibile per salvare Harey, prima o poi lo scontro era inevitabile. Il punto era di sapere se il piano di Sartorius avesse qualche possibilità di successo. Oltre a essermi infinitamente superiore, come fisico conosceva il problema dieci volte meglio di me mentre io, paradossalmente, potevo soltanto contare sulla perfezione delle soluzioni inventate dall’oceano. Trascorsi l’ora successiva a dannarmi sui microfilm, cercando di decifrare l’infernale linguaggio matematico in cui si esprimeva la fisica dei processi neutrinici. Inizialmente mi parve un’impresa disperata, tanto più che di quelle super-astruse teorie sul campo neutrinico ce n’erano addirittura cinque, segno evidente che nessuna di esse era perfetta. Alla fine, però, mi parve di intravedere un barlume di speranza. Stavo appunto trascrivendo alcune formule, quando udii un lieve bussare.

Andai rapidamente alla porta e l’aprii leggermente, coprendo la fessura con il mio corpo. Mi apparve la faccia di Snaut, lucida di sudore. Il corridoio dietro di lui era vuoto.

– Ah, sei tu – dissi, aprendo per farlo passare. Vieni pure.

– Sì, sono io – rispose. Aveva la voce roca e le palpebre inferiori gonfie sotto gli occhi arrossati. Indossava un lucente grembiule di gomma antiradiazioni sostenuto da bretelle elastiche, sotto il quale spuntavano le gambe, macchiate qua e là, dei soliti pantaloni. Il suo sguardo percorse la sala circolare, uniformemente illuminata, e si immobilizzo alla vista di Harey in piedi accanto alla poltrona. Riportò gli occhi su di me. Abbassai le palpebre, lui fece un leggero inchino e io dissi in tono mondano:

– Harey, ti presento il dottor Snaut… Snaut, mia moglie!

– Sono… sono un membro dell’equipaggio poco in vista, per cui… – la pausa si prolungò pericolosamente – non ho ancora avuto il piacere di conoscerla…

Harey sorrise e gli tese la mano che lui strinse, mi parve, con un certo stupore; sbatté più volte le palpebre e rimase a guardarla in silenzio finché non lo presi per un braccio.

– Mi scusi – disse allora, rivolto a Harey. – Ero venuto per parlare con Kelvin…

– Ma certo! – replicai in tono disinvolto. Mi sembrava di recitare una misera commedia, ma non c’era altro da fare. – Harey, cara, non ti disturbare. Il dottore e io dobbiamo parlare delle nostre noiose faccende di lavoro.

Così dicendo e tenendolo per il gomito lo guidai verso una poltroncina dall’altro lato della sala. Harey si sedette sulla poltrona dove fino a poco prima ero stato io, ma la spostò in modo che, sollevando la testa dal libro, potesse vederci.

– Che succede? – chiesi piano.

– Ho divorziato – rispose, anche lui in un sussurro, ma più sibilante del mio. Se qualche tempo prima qualcuno mi avesse raccontato quella storia e quell’inizio di conversazione probabilmente mi sarebbe venuto da ridere; ma da quando stavo nella Stazione il mio senso dell’umorismo era alquanto in ribasso. – Sai, da ieri mi sembra di avere vissuto degli anni – aggiunse. Anni indimenticabili. E tu?

– Niente… – risposi dopo una pausa: non sapevo che dire. Gli volevo bene, ma qualcosa mi suggeriva di stare in guardia, non tanto da lui, quanto dal motivo della sua visita.

– Niente? – ripeté. – Senti, senti… Sei già a questo punto?

– Che vuoi dire? – chiesi, fingendo di non capire. Socchiuse gli occhi arrossati e venendomi vicino fino a farmi sentire il calore del suo respiro, sussurrò:

– Kelvin, siamo arenati. Con Sartorius non riesco più a comunicare, so solo quello che ti ho scritto dopo quella nostra simpatica riunione…

– Ma perché, ha staccato il videotelefono? – chiesi.

– No, c’è stato un cortocircuito. Può anche darsi che l’abbia fatto apposta, oppure… – fece il gesto di rompere qualcosa con il pugno. Lo guardai in silenzio. Un sorriso maligno gli sollevò l’angolo sinistro della bocca.

– Kelvin, sono venuto per… – non terminò la frase. Che hai deciso di fare?

– Ti riferisci alla tua lettera? – risposi lentamente. Perché no? Non vedo motivo di rifiutare. Anzi, ero venuto qui proprio per rendermi un po’ conto…

– No – mi interruppe. – Non intendevo questo…

– Ah, no…? – risposi, fingendomi stupito. – Dimmi.

– Sartorius – mormorò dopo un attimo. – È convinto di avere trovato il modo di… sai…

Non mi toglieva gli occhi di dosso. Rimasi tranquillamente seduto, cercando di assumere un’aria indifferente.

– Il punto di partenza è sempre il progetto dei raggi X. Quello organizzato con Gibarian, ricordi? Potremmo modificarlo…

– Quale?

– Loro spedivano semplicemente un fascio di raggi contro l’oceano limitandosi a modularne l’intensità secondo alcuni programmi.

– Sì, lo so. Lo aveva già fatuo Nilin, e poi tanti altri.

– Sì, ma quelli usavano radiazioni leggere. Queste qui invece erano ad alta intensità, lo bombardavano con tutta l’energia a disposizione.

– Potrebbe comportare conseguenze antipatiche – osservai. – Violazione della Convenzione dei Quattro e anche dell’Onu.

– E dai, Kelvin! Ora che Gibarian è morto, che importanza vuoi che abbia…

– Ah… Quindi Sartorius intende scaricare tutto sulle sue spalle?

– Non lo so, non ne abbiamo parlato. Comunque non importa. Visto che i «visitatori» appaiono sempre e soltanto al nostro risveglio, Sartorius ritiene che l’oceano ci carpisca la ricetta di riproduzione durante il sonno. L’oceano ha deciso che il sonno è il nostro stato più importante e si comporta di conseguenza. Quindi Sartorius vuole inviargli il nostro stato di veglia… i nostri pensieri da svegli, capisci?

– E come? Per posta?

– Risparmiami le tue spiritosaggini. Il fascio di radiazioni verrà modulato dalle correnti cerebrali di uno di noi.

Improvvisamente capii.

– Ah – dissi, – e quel qualcuno sarei io. È così?

– Infatti… avrebbe pensato a te.

– Grazie del pensiero.

– Che ne dici?

Non risposi. In silenzio Snaut volse lentamente lo sguardo su Harey immersa nella lettura e tornò a posarlo su di me. Sentii che impallidivo, ma quello purtroppo era un riflesso incontrollabile.

– Allora? – chiese. Alzai le spalle.

– L’idea di trasmettere con i raggi X questo inno alla magnificenza dell’uomo mi sembra una buffonata… e anche a te.

– Ah sì?

– Sì.

– Molto bene – disse e sorrise, quasi avessi appagato un suo desiderio segreto. – Quindi sei contrario all’idea di Sartorius?

Non capivo bene come avesse fatto, ma dal suo sguardo capivo che mi aveva portato dove voleva lui. Tacqui: che altro avrei potuto dire?

– Benissimo – disse. – Perché ci sarebbe anche un secondo progetto: costruire un apparecchio di Roche.

– Un annientatore di neutrini?

– Sì. Sartorius ha già iniziato i calcoli preliminari. E fattibile e non richiede neanche un eccessivo dispendio di energia. Può restare in funzione ventiquattrore su ventiquattro, o anche a tempo indeterminato, creando degli anticampi.

– Un momento…! E come funzionerebbe?

– Semplicissimo. Sarà un anticampo neutrinico. La materia ordinaria non subirà alcuna trasformazione, verranno annientate soltanto… le strutture neutriniche. Capisci?

Sorrise con aria soddisfatta. Rimasi immobile, la bocca semiaperta. Lentamente smise di sorridere. La fronte corrugata, mi scrutava con attenzione, in attesa.

– Per cui – riprese – l’operazione «Pensiero» verrebbe accantonata e sostituita da questa. Sartorius se ne sta già occupando. Potremmo chiamarla «Liberazione».

Chiusi un attimo gli occhi. All’improvviso decisi. Snaut non era un fisico e Sartorius aveva staccato, oppure distrutto il videotelefono. Perfetto.

– Io la chiamerei piuttosto «Operazione Mattatoio» dissi lentamente.

– Correggimi se sbaglio, ma mi pare che il macellaio l’abbia fatto anche tu. Questa sarà una cosa completamente diversa. Niente più «visitatori», niente più creazioni F: niente di niente. Vengono annientati appena si materializzano.

– Scusa, Snaut, ma non mi sono spiegato – replicai scuotendo la testa con un sorriso che speravo di rendere il più possibile naturale. – Qui non si tratta di scrupoli morali, ma di puro e semplice istinto di conservazione. Non è che mi attiri tanto l’idea di morire.

– Che c’entra…?

Era sorpreso. Mi guardava con diffidenza. Estrassi di tasca il foglio con le formule.

– Ci avevo pensato anch’io. Ti stupisce? Se ben ricordi, sono stato il primo a suggerire l’ipotesi dei neutrini! Guarda qui: è vero che si possono creare degli anticampi ed è anche vero che la cosa non reca danno alla materia ordinaria. Ma al momento della destabilizzazione, quando la struttura neutrinica si disgrega, si libera anche, come un surplus, l’energia dei legami che la tenevano insieme. Considerando IO8 erg per un chilo di massa a riposo, per una creazione F otterremo da cinque a sette volte IO8 erg. Lo sai che cosa significa? L’equivalente di una piccola carica di uranio che si disintegra all’interno della Stazione.

– Ma che diavolo dici? Sartorius ne avrà senz’altro tenuto conto, no?

– Non necessariamente – ribattei con un sorriso maligno. – Il fatto è che Sartorius proviene dalla scuola di Frazer e Cajolli, i quali sostengono che al momento della disgregazione l’energia dei legami si libera sotto forma di radiazione luminosa: un lampo violento, magari non del tutto inoffensivo, ma comunque non distruttivo. Ma sui campi neutrinici esistono anche altre ipotesi e altre teorie. Secondo Cayatte, secondo Avalov e secondo Sion lo spettro di emissione è notevolmente più ampio: al suo massimo, l’energia liberata diventa una potente emissione di raggi gamma. Il fatto, caro Snaut, che Sartorius creda ciecamente ai suoi maestri e alle loro teorie è altamente encomiabile, però ne esistono anche altre. E sai che ti dico? – continuai, accorgendomi che le mie parole l’avevano colpito. – Che bisogna anche tenere conto dell’oceano. Se ha fatto quello che ha fatto, sicuramente avrà anche scelto il metodo più efficace e migliore. In altre parole, la sua azione mi sembra un argomento più a favore della scuola opposta a quella di Sartorius.

– Dammi quel foglio…

Glielo porsi. Storse la testa da un lato cercando di decifrare i miei scarabocchi.

– Che cos’è? – chiese, indicando un punto con il dito. Ripresi il pezzo di carta.

– Questo? Il tensore di trasformazione di campo.

– Dammelo…

– Per farne che? – chiesi. Conoscevo già la risposta.

– Devo mostrarlo a Sartorius.

– Come vuoi – risposi con indifferenza. – Potrei anche dartelo. Solo che, vedi, nessuno l’ha ancora verificato sperimentalmente, a quel tempo non si conoscevano quelle strutture. Lui si fida della teoria di Frazer e io, invece, ho seguito quella di Sion. Ti risponderà che io non sono un fisico e che non lo è neanche Sion, perlomeno non secondo il suo modo di vedere. Inizierebbe una polemica e non ho nessuna voglia di impelagarmi in una discussione che può concludersi con la mia sconfitta e il trionfo di Sartorius. Te, posso anche convincerti, lui no. E neanche intendo provarci.

– E allora che intendi fare? Lui ci sta già lavorando sopra – disse Snaut con voce incolore. Si era ingobbito, tutta la sua vivacità era svanita. Ignoravo se si fidasse di me, ma ormai la cosa mi era indifferente.

– Faccio quello che farebbe chiunque vedendo che stanno cercando di ucciderlo – risposi sottovoce.

– Proverò a contattarlo. Forse sta studiando qualche sistema di sicurezza – mormorò Snaut. Alzò gli occhi su di me: – Senti… tornando a quel primo progetto… non ci staresti proprio? Sartorius sarebbe certamente d’accordo. Tutto sommato… è pur sempre una chance, non ti pare?

– Tu ci credi?

– No – rispose senza esitare. – Ma che ci rimettiamo?

Non volevo accettare troppo in fretta. Mi premeva guadagnare tempo e Snaut poteva aiutarmi a prolungare l’indugio.

– Ci penserò – dissi.

– Be’, io vado – borbottò alzandosi. Le ossa gli scricchiolarono mentre si sollevava dalla poltrona. – Ti lascerai fare l’encefalogramma? – chiese, strusciando con le dita la superficie del grembiule come se cercasse di cancellarne un’invisibile macchia.

– Va bene – risposi. Senza badare a Harey che in silenzio, il libro sulle ginocchia, osservava la scena, andò alla porta. Quando gli si fu richiusa dietro, mi alzai. Spianai il foglio che avevo in mano. Le formule erano esatte. Non le avevo falsate. Quello che non sapevo era se Sion avrebbe approvato gli sviluppi che ne avevo tratto. Probabilmente no.

Trasalii. Harey, avvicinatasi da dietro, mi toccava la spalla.

– Chris!

– Sì, cara?

– Chi era?

– Te l’ho detto: il dottor Snaut.

– Che tipo è?

– Lo conosco poco. Perché?

– Mi guardava in un modo…

– Si vede che gli piaci.

– No – rispose, scuotendo la testa. – Non era quel genere di sguardo. Mi guardava come… come se…

Rabbrividì, mi alzò gli occhi in faccia e subito li riabbassò.

– Andiamo via di qui…

 

L’ossigeno liquido

Giacevo nella camera immersa nell’oscurità. Intorpidito, fissavo – non so da quanto tempo – il quadrante luminoso dell’orologio da polso. Sentivo la mia respirazione e provavo un vago senso di stupore, ma sia l’osservazione della corona verdastra di cifre fosforescenti, sia lo stupore erano pervasi da un’indifferenza che attribuivo alla stanchezza. Mi girai su un fianco:  il letto era stranamente largo, mancava qualcosa. Trattenni il respiro: nessun rumore turbava il silenzio. Mi irrigidii. Non si udiva il minimo fruscio. Harey? Come mai non ne sentivo il respiro? Tastai con le braccia la superficie del letto: ero solo.

Stavo per chiamare Harey, quando udii dei passi. Si stava avvicinando qualcuno, una figura alta e pesante, come…

– Gibarian? – chiesi con calma.

– Sono io. Non accendere la luce.

– No?

– Non occorre. È meglio per entrambi.

– Ma sei morto?

– Non importa. La voce almeno la riconosci, no?

– Sì. Perché l’hai fatto?

– Ho dovuto. Sei arrivato con quattro giorni di ritardo. Se fossi venuto prima, forse non sarebbe stato necessario… ma non farti scrupoli per questo. Non sto male.

– Sei davvero qui?

– Perché? Credi che sia un sogno, come quando credevi di sognare Harey?

– Ma lei dov’è?

– E perché dovrei saperlo?

– Ho l’impressione che tu lo sappia.

– Tienitela per te. Diciamo che sono qui al posto suo.

– Ma io voglio che ci sia anche lei.

– È impossibile.

– Perché? Lo sai, vero, che non sei veramente tu, che qui ci sono solo io?

– No. Sono davvero io. A voler essere pignoli, potrei dire che sono «di nuovo» io. Ma non perdiamoci in dettagli.

– Te ne andrai?

– Sì.

– E tornerà lei?

– Ci tieni tanto? Che cos’è per te?

– Sono affari miei.

– Ma se ti fa paura!

– Non è vero.

– E ti disgusta…

– Che vuoi da me?

– Se proprio vuoi impietosirti per qualcuno, fallo per te stesso, non per lei. Lei avrà sempre vent’anni. Non fingere di non saperlo!

All’improvviso, senza una ragione precisa, mi tranquillizzai. Lo ascoltavo con calma. Adesso mi sembrava che si fosse avvicinato e che stesse ai piedi del letto, ma nel buio non si vedeva niente.

– Che cosa vuoi? – chiesi piano. Il mio tono sembrò sorprenderlo. Restò un attimo in silenzio.

– Sartorius ha spiegato a Snaut che lo hai imbrogliato e adesso loro due ti stanno a loro volta imbrogliando. Con la scusa di montare un apparecchio a raggi X, costruiscono un annientatore di campo.

– Dov’è lei? – chiesi.

– Hai sentito quello che ti ho detto? Sono venuto ad avvisarti!

– Dov’è lei?

– Non lo so. Stai attento: avrai bisogno di un’arma. Non hai nessuno su cui contare.

– Ho sempre Harey – dissi. Udii un breve suono soffocato. Stava ridendo.

– Certo, almeno fino a un certo punto. E se dovesse andare male, puoi sempre fare come ho fatto io.

– Tu non sei Gibarian.

– Ah, no? E chi sarei? Un tuo sogno?

– No. Il loro burattino. Solo che non lo sai.

– E tu, come fai a sapere chi sei?

La cosa mi indusse a riflettere. Feci per alzarmi, ma non ci riuscii. Gibarian stava dicendo qualcosa. Non capivo le parole, sentivo soltanto il suono della sua voce. Lottando contro la debolezza che mi pervadeva feci un ultimo sforzo disperato per tirarmi su… e mi svegliai. Aspirai l’aria boccheggiando come un pesce semiasfissiato. La stanza era immersa nel buio: avevo sognato, era stato un incubo. Nel buio però continuavo a sentire una lontana voce cadenzata che diceva: «… un dilemma che non riusciamo a risolvere. Perseguitiamo noi stessi. I politeri si servono unicamente di una specie di amplificatore selettivo dei nostri pensieri. Cercare una motivazione di questo fenomeno epuro antropomorfismo: dove non esistono uomini non possono neanche esistere motivi accessibili agli uomini. Per continuare il piano di ricerche bisogna o annientare i nostri pensieri, oppure annientare la loro realizzazione materiale. La prima cosa non siamo in grado di farla, la seconda somiglia troppo a un assassinio».

Riconobbi subito la voce di Gibarian. Allungai un braccio e tastai il letto: non c’era nessuno. «Devo essermi svegliato e poi riaddormentato», pensai.

– Gibarian…? – chiamai, ma la voce mi si spezzò a metà frase. Avvertii un leggero tintinnio e un debole soffio mi alitò sul viso.

– Che fai, Gibarian – borbottai sbadigliando, – mi insegui da un sogno all’altro…

Qualcosa mi frusciò accanto.

– Gibarian! – ripetei più forte. Le molle del letto scricchiolarono.

– Chris… sono io… – sussurrò una voce al mio orecchio.

– Harey, sei tu… E Gibarian?

– Ma Chris… non mi avevi detto che era morto?

– Può rivivere in sogno – bofonchiai con voce strascicata. In realtà non ero più tanto sicuro che si trattasse di un sogno. – Mi ha parlato. È stato qui – aggiunsi. Avevo un sonno da morire. «Se ho sonno – pensai semplicisticamente – tanto vale dormire». Sfiorai con le labbra il fresco braccio di Harey e mi sistemai più comodo. Rispose qualcosa, ma stavo già sprofondando nell’oblio.

La mattina dopo, nella stanza illuminata di rosso, ricordai gli avvenimenti della notte. La conversazione con Gibarian l’avevo sognata: ma il resto? Potevo giurare di avere udito la sua voce, solo che non ricordavo esattamente che cosa avesse detto. Più che di una conversazione, aveva l’aria di una conferenza. Una conferenza?…

Sentii scorrere l’acqua nel bagno: Harey si stava lavando. Sbirciai sotto il letto dove qualche giorno prima avevo infilato il registratore. Non c’era più.

– Harey! – chiamai. Da dietro l’armadio spuntò il suo viso gocciolante d’acqua.

– Hai visto per caso un registratore sotto il letto? Un modello piccolo, tascabile…

– C’erano varie cose. Le ho messe tutte lì – rispose, indicando la mensola accanto all’armadietto dei medicinali e sparì nel bagno. Saltai giù dal letto, ma le mie ricerche restarono vane.

– Non puoi non averlo visto – dissi quando rientrò nella stanza. Continuò a pettinarsi davanti allo specchio senza rispondere. Solo allora mi accorsi che era pallida e che il suo sguardo, quando l’incontrai nello specchio, mi osservava con aria indagatrice.

– Harey – ricominciai stolidamente – sulla mensola non c’è.

– Non hai niente di più importante da dirmi…?

– Scusa – borbottai. – Hai ragione, è una sciocchezza.

Ci mancava solo che ci mettessimo a litigare.

Andammo a fare colazione. Quel giorno Harey faceva tutto in modo diverso dal solito, ma non riuscivo a individuare la differenza. Continuava a guardarsi intorno e a più riprese, colta da un pensiero improvviso, non sentì quello che le dicevo. E una volta, quando alzò la testa, vidi che aveva gli occhi lucidi.

– Che fai? – sussurrai. – Piangi?

– Lasciami stare… Non sono vere lacrime – farfugliò. Probabilmente non avrei dovuto accontentarmi di quella risposta, ma in quel momento niente mi faceva più paura dei cosiddetti «discorsi a cuore aperto». Inoltre avevo altre cose per la testa: per quanto gli intrighi di Snaut e di Sartorius li avessi soltanto sognati, cominciavo a chiedermi se nella Stazione ci fossero delle armi a mano. Per il momento non sapevo ancora che cosa ne avrei fatto, mi bastava semplicemente averne una. Dissi a Harey che volevo dare un’occhiata al deposito e ai magazzini. Mi seguì in silenzio. Perlustrai le casse, rovistai nei contenitori e quando giunsi in basso non riuscii a resistere alla tentazione di passare dalla cella frigorifera. Non volendo che Harey vi entrasse, mi limitai a socchiudere la porta e a dare un’occhiata circolare all’intorno. Intravidi la forma rialzata dello scuro sudario sopra una massa allungata, ma dal mio punto di osservazione non riuscii a vedere se la donna nera giacesse nello stesso posto dell’altra volta. Ebbi comunque l’impressione che il suo posto fosse vuoto.

Non avendo trovato niente che facesse al mio caso, continuai a girare in qua e in là sempre più di cattivo umore quando, a un tratto, notai l’assenza di Harey. Riapparve quasi subito – era rimasta nel corridoio – ma il fatto stesso che avesse provato ad allontanarsi da me, cosa che le riusciva difficile anche per un solo attimo, avrebbe dovuto darmi da pensare. Continuavo comunque a ostentare un’aria offesa – chissà poi con chi – e a comportarmi come uno stupido. Mi faceva male la testa. Furioso, frugai da cima a fondo il contenuto della piccola farmacia senza riuscire a trovare un antinevralgico, ma non avevo voglia di tornare in sala operatoria: quel giorno non mi andava bene niente. Harey si aggirava nella camera come un’ombra e di tanto in tanto spariva per un attimo. Nel pomeriggio, dopo aver pranzato (in realtà lei non aveva mangiato niente e io, senza appetito per colpa del lancinante mal di testa, non avevo neanche tentato di incoraggiarla a mandare giù qualcosa) venne improvvisamente a sedersi accanto a me e cominciò a grattare con un dito la manica della mia maglietta.

– Sì? Che c’è? – borbottai macchinalmente. Stavo pensando di andare di sopra: mi era parso di cogliere nelle tubazioni una debole eco di colpi, prova che Sartorius stava armeggiando con l’impianto dell’alta tensione. Ma al pensiero che avrei dovuto portarmi dietro Harey la cui presenza, già difficile da spiegare in biblioteca, nel laboratorio avrebbe potuto offrire a Snaut il destro per qualche inopportuno commento, me n’era già passata la voglia.

– Chris… – mormorò. – Come vanno le cose tra noi…?

Mi lasciai sfuggire un involontario sospiro: decisamente non era il mio giorno fortunato.

– Benissimo. Perché?

– Vorrei parlarti.

– Avanti, ti ascolto.

– Ma non così.

– E come? Te l’ho già detto: mi fa male la testa e ho un sacco di pensieri…

– Ti prego Chris, un po’ di buona volontà.

Mi sforzai di spremere un sorriso. Non doveva valere un granché.

– Sì, cara. Dimmi.

– Ma mi dirai la verità?

Sollevai le sopracciglia. Come preambolo mi piaceva poco.

– Perché dovrei mentirti?

– Potresti avere le tue ragioni, ragioni gravi. Ma se vuoi che… insomma… non raccontarmi delle storie.

Tacqui.

– Adesso ti dico una cosa, dopo di che tu mi dici la tua, va bene? La verità, indipendentemente da tutto il resto.

Il suo sguardo cercava il mio: feci finta di non accorgermene ed evitai di guardarla negli occhi.

– Ti ho già detto che non so come sono arrivata qui. Tu, invece, magari lo sai. Aspetta, tocca ancora a me. Forse non lo sai neanche tu, ma se per caso lo sai e ora non me lo puoi dire… più tardi, in futuro me lo dirai? Andrebbe già bene. Almeno mi daresti una chance.

Sentii una corrente gelata attraversarmi dalla testa ai piedi.

– Bambina, ma che dici? Di quale chance parli…? balbettai.

– Senti Chris: chiunque io sia, di certo non sono una bambina. Hai promesso. Ora parla tu.

Quel «chiunque io sia» mi aveva talmente preso alla gola che riuscivo solo a guardarla scuotendo negativamente la testa, come rifiutandomi di sentire altro.

– Ti sto dicendo che non sei obbligato a spiegarmi niente. Basta che tu mi dica che non puoi.

– Non ti sto nascondendo niente – risposi con voce rauca.

– Benissimo – replicò alzandosi. Avrei voluto dirle qualcosa, sentivo che non potevo lasciarla così, ma le parole non mi venivano fuori.

– Harey…

Stava davanti alla finestra voltandomi le spalle. Il vuoto oceano blu scuro si stendeva sotto il cielo nudo.

– Harey, se pensi che… Harey, lo sai che ti amo…

– Me?

Le andai vicino e feci per abbracciarla. Si liberò e mi respinse la mano.

– Sei così buono – disse. – Mi ami? Preferirei che tu mi picchiassi!

– Harey, tesoro!

– No! No. È meglio se stai zitto.

Si avvicinò al tavolo e cominciò a raccogliere i piatti. Fissai il deserto blu. Il sole declinava e la grande ombra della Stazione si muoveva ritmicamente sulle onde. Un piatto sfuggì dalle mani di Harey e cadde a terra. L’acqua gorgogliava nell’acquaio. Lungo l’orizzonte, ai limiti della volta celeste, il color ruggine sfumava in oro vecchio. Se solo avessi saputo che fare… Se solo l’avessi saputo. All’improvviso si fece silenzio. Harey si era fermata alle mie spalle.

– No. Non voltarti – disse in un soffio. – Tu non hai colpa di niente, Chris. Lo so. Non tormentarti.

Allungai una mano nella sua direzione. Si rifugiò sul fondo della cabina e sollevò una pila di piatti.

– Peccato che siano infrangibili – disse. – Altrimenti li romperei dal primo all’ultimo!

Per un attimo credetti che stesse davvero per scaraventarli a terra, ma si limitò a lanciarmi una rapida occhiata e sorrise.

– Sta’ tranquillo, niente scenate.

 

Mi svegliai nel cuore della notte, subito vigile e teso, e mi sedetti sul letto: la stanza era buia e dalla porta socchiusa filtrava la pallida luce del corridoio. Un sibilo sinistro andava aumentando, accompagnato da colpi sordi come se al di là della parete qualcosa di voluminoso si frantumasse con violenza. «Una meteora! pensai. – Deve aver perforato la corazza». Di là c’era qualcuno. Sentivo un rantolo prolungato.

Mi riscossi del tutto dal sonno. Quella era la Stazione, non un razzo, e quell’orribile suono…

Mi precipitai nel corridoio. La porta del piccolo laboratorio era spalancata e l’interno era illuminato. Entrai.

Fui subito avvolto da una folata glaciale. La cabina era pervasa da un vapore che trasformava il fiato in nevischio. Una massa di fiocchi bianchi volteggiava su un corpo avvolto in un accappatoio che si dibatteva debolmente sul pavimento. Avvolto dalla nube di ghiaccio, riuscivo a malapena a distinguerla: le corsi accanto, l’afferrai per la vita e la sollevai mentre l’accappatoio mi bruciava le dita. Rantolava. Mi precipitai nel corridoio oltrepassando la serie di porte; ormai non avvertivo quasi più il freddo, sentivo solo il respiro che, come uno sbuffo di vapore, le usciva di bocca ustionandomi le spalle come il fuoco.

La distesi sul tavolo, le strappai l’accappatoio sul petto e per un attimo contemplai il suo viso congelato e tremante: il sangue rappreso sulla bocca aperta aveva coperto le labbra di uno strato nerastro, sulla lingua scintillavano piccoli cristalli di ghiaccio…

L’ossigeno liquido. I vasi di Dewar nel laboratorio contenevano ossigeno liquido. Sollevandola avevo sentito scricchiolare sotto i piedi dei sottili frammenti di vetro. Quanto poteva averne bevuto? Poco importava: l’ossigeno liquido bruciava la trachea, la gola, i polmoni peggio degli acidi concentrati. Il suo respiro sibilante, secco come un suono di carta lacerata si faceva sempre più debole. Gli occhi erano chiusi. L’agonia.

Guardai i grandi armadi a vetri pieni di strumenti e di medicine. Tracheotomia? Intubazione? Ma ormai i suoi polmoni non esistevano più, era tutto bruciato. Una medicina? Ce n’erano a bizzeffe. Sui ripiani si allineavano file di scatole e di bottiglie colorate. Il rantolo pervadeva la stanza e dalle labbra aperte continuava a uscire un filo di nebbia.

I termofori…

Cominciai a cercarli, ma prima di averli trovati passai a un altro armadio e buttai all’aria le scatole di fiale. Presto, la siringa: ma dov’era? Nello sterilizzatore. Le mani irrigidite dal freddo non riuscivano a infilare lo stantuffo, le dita rifiutavano di piegarsi. Presi a sbatterle furiosamente contro il coperchio dello sterilizzatore, ma non sentivo niente: l’unica reazione era un lieve intorpidimento. Il rantolo si fece più forte. Mi precipitai su di lei. Aveva gli occhi aperti.

– Harey!

Fu meno di un sussurro: non riuscivo a tirare fuori la voce. Il mio viso si rifiutava di obbedirmi, sembrava diventato di gesso. Le sue costole palpitavano sotto la pelle bianca, i capelli, intrisi di neve sciolta, erano sparsi sul poggiatesta. Mi guardava.

– Harey!

Non riuscivo a dire altro. Stavo lì, rigido come un ceppo, con mani di legno estranee al mio corpo; i piedi, le labbra, le palpebre mi bruciavano sempre più forte, ma quasi non me ne accorgevo. Un rivolo di sangue, liquefatto dal caldo, le colò sulla guancia rigandola obliquamente. La lingua si rattrappì e scomparve. Il rantolo continuava.

Le presi il polso, non batteva. Scostai i lembi dell’accappatoio e premetti l’orecchio contro il corpo orribilmente freddo, subito sotto il seno. Attraverso il crepitante frastuono di quello che sembrava un incendio udii un galoppo di battiti, troppo veloci per poterli contare. Mentre stavo chino ad occhi chiusi, qualcosa mi toccò la testa: mi aveva infilato le dita tra i capelli. La guardai negli occhi.

– Chris – ansimò. Le afferrai una mano: mi rispose con una stretta che per poco non mi stritolò le ossa; ogni barlume di coscienza le sparì dal viso orribilmente contorto, il bianco degli occhi balenò tra le palpebre, la gola emise un suono rauco e l’intero corpo fu scosso dalle convulsioni. Riuscivo a stento a mantenerla di traverso contro il bordo del tavolo. La testa le sbatteva contro l’orlo di un imbuto di porcellana: la trattenevo premendola contro il tavolo, ma ogni nuova convulsione me la strappava dalle mani. Ero fradicio di sudore, le gambe mi si piegavano sotto. Appena le convulsioni diminuirono, cercai di farla sdraiare. Sollevò il torace aspirando l’aria. All’improvviso, nello spaventoso volto insanguinato brillarono gli occhi di Harey.

– Chris – rantolò. – Quanto… quanto ci vuole ancora, Chris?

Cominciò a soffocare, la bocca le si riempì di schiuma e fu ripresa dalle convulsioni. La trattenni con quante forze mi restavano. Ricadde sulla schiena con un colpo che le fece sbattere i denti. Ansimava.

– No, no, no – ripeteva veloce a ogni espirazione, ognuna delle quali sembrava l’ultima. Ma le convulsioni ricominciarono e di nuovo mi si dibatté tra le braccia inalando con fatica, a brevi pause, una boccata d’aria che le faceva sporgere le costole. Infine le palpebre calarono a metà sugli occhi spenti. Si irrigidì. Stavolta era la fine. Senza neanche tentare di pulirle la bocca dalla schiuma rosata restai chino su di lei (da qualche parte, in lontananza, arrivava il suono di una grossa campana) in attesa della fine, per poi lasciarmi cadere a terra; ma il suo respiro si fece sempre più silenzioso, quasi senza traccia di rantoli, e la punta del seno, non più scossa dai fremiti, cominciò ad andare su e giù al ritmo veloce dei battiti cardiaci. Curvo su di lei, vidi il suo volto riprendere colore. Ancora non capivo, sentivo solo le mani fradice di sudore e le orecchie tappate da qualcosa di morbido e spugnoso che mi toglieva l’udito; e tuttavia continuavo a udire quel rintocco di campana, adesso fesso e come prodotto da un batacchio incrinato.

Sollevò le palpebre e i nostri occhi si incontrarono.

Tentai di dire: «Harey…» ma era come se non avessi più bocca: il mio viso era un’immota greve maschera capace solo di guardare.

I suoi occhi percorsero la stanza, la testa si mosse. C’era un silenzio assoluto. Da qualche parte dietro di me, in un altro mondo, l’acqua gocciolava da un rubinetto mal chiuso. Si sollevò sul letto e si mise a sedere. Mi tirai indietro. Mi osservava.

– Che cosa… – disse, – che cosa è stato… Non… ci sono riuscita? Perché…? Perché mi guardi così?

Poi, di colpo, con un grido atroce:

– Perché mi guardi così?

Seguì un silenzio. Si guardò le mani. Mosse le dita.

– Sono io? – chiese.

– Harey… – articolai senza voce, muovendo solo le labbra. Sollevò la testa.

– Harey? – ripeté. Abbassò lentamente i piedi sul pavimento. Vacillò, ritrovò l’equilibrio, fece qualche passo. Si muoveva in una sorta di sbalordimento, guardandomi come se non mi vedesse.

– Harey? – ripeté lentamente ancora una volta. – Io… io non sono Harey. Ma chi… chi sono? E tu? Tu?

A un tratto gli occhi le si dilatarono, brillarono di stupore e un lieve sorriso le illuminò il volto.

– Chris, ma forse anche tu… Chris! Anche tu?

Le spalle appoggiate all’armadio contro il quale ero finito per lo spavento, non risposi. Lasciò cadere le braccia.

– No – disse. – No: tu hai paura. Ma io così non ce la faccio. Non è possibile. Io non sapevo niente e anche adesso continuo a non capire. Non è possibile! Io… – strinse contro il petto i pugni sbiancati, – io non so niente all’infuori di Harey! Pensi che stia fingendo? Non fingo, parola d’onore che non fingo!

Le ultime parole le vennero fuori in un gemito, poi ricadde sul pavimento singhiozzando. A quel grido sentii spezzarmisi dentro qualcosa. In un balzo le fui vicino e le afferrai le braccia. Lottava, mi respingeva singhiozzando senza lacrime e gridando:

– Lasciami! Lasciami! Ti disgusto, lo so! Ma io così non posso, non posso! Lo vedi anche tu che non sono io, non sono io, non sono io…

– Taci! – gridai scrollandola. Inginocchiati l’uno davanti all’altra urlavamo come forsennati. La testa di Harey sbatteva freneticamente contro la mia spalla. La strinsi a me con quanta forza avevo. All’improvviso ci fermammo ansimando con violenza. L’acqua gocciolava ritmicamente dal rubinetto.

– Chris – balbettò affondandomi il viso nella spalla, – dimmi che cosa devo fare per non esserci più, Chris…

– Smettila! – gridai. Sollevò il viso e mi guardò.

– Non dirmi che… non lo sai neanche tu? Non ci si può fare niente? Proprio niente?

– Harey… per pietà…

– Io ci ho provato… l’hai visto, no? No, no, lasciami! Non voglio che mi tocchi! Ti disgusto!

– Non è vero!

– Stai mentendo. Non è possibile che non ti faccia ribrezzo: lo faccio perfino a me stessa. Se potessi, se solo potessi…

– Ti uccideresti?

– Sì.

– Ma io non voglio, capisci? Non voglio che ti uccida, voglio solo che tu stia qui con me, non ho bisogno d’altro!

I grandi occhi grigi mi divoravano.

– Che bugiardo… – disse in un soffio. La lasciai e mi alzai. Si sedette sul pavimento.

– Dimmi che cosa devo fare per convincerti che sto dicendo la verità, la sola, l’unica…

– Non è possibile che tu dica la verità. Non sono Harey.

– E chi sei?

Rimase un momento in silenzio. Il mento le tremò più volte; poi, abbassò la testa e mormorò:

– Harey… Però… so che non è vero. Non sono la stessa che un tempo hai amata laggiù…

– Sì – risposi. – Quel che è stato non c’è più. È morto. Ma qui e adesso, io amo te. Capisci?

Scosse la testa.

– Sei buono. Non credere che non apprezzi quello che hai fatto. Hai fatto tutto quello che potevi, ma non c’è rimedio. Quando, la mattina di tre giorni fa, sedevo accanto al tuo letto aspettando che ti svegliassi, non sapevo niente. È stato solo tre giorni fa, ma mi sembra che sia passato tanto di quel tempo. Ero come svanita: avevo la testa annebbiata, non ricordavo il prima e il dopo, non mi stupivo di niente, un po’ come dopo un’anestesia, o dopo una lunga malattia. Ho perfino creduto di essere stata malata e che tu non volessi dirmelo. Ma poi sempre più cose mi hanno dato da pensare. Sai che intendo dire. Qualche dubbio ho cominciato ad averlo già dopo la tua conversazione con quell’uomo, come si chiama… quello Snaut. E siccome tu non hai voluto dirmi niente, la notte mi sono alzata e ho ascoltato il registratore. È l’unica bugia che ti abbia detto, Chris, perché poi l’ho nascosto. Come si chiama l’uomo che ha registrato il nastro?

– Gibarian.

– Sì, Gibarian. A quel punto ho capito tutto, anche se, in realtà, continuo a non capirci nulla. Ignoravo soltanto di non potere… di non essere… insomma, non sapevo che tutto dovesse andare avanti così, senza fine. Non è che lui abbia detto qualcosa di esplicito a questo riguardo… Chissà, forse l’avrà anche detto, ma tu ti sei svegliato, per cui ho fermato il nastro. Comunque avevo sentito abbastanza per capire che non sono un essere umano, ma uno strumento.

– Ma che dici?

– Sì. Uno strumento per studiare le tue reazioni, o qualcosa del genere. Ognuno di voi ne ha uno come me. Proveniamo dalle vostre fantasie o dai vostri desideri rimossi… o almeno così credo. Ma che te lo dico a fare, lo saprai certo molto meglio di me. Diceva delle cose talmente tremende e inverosimili che se non avessero coinciso con tutto il resto, non ci avrei creduto!

– Coinciso con che cosa?

– Be’, per esempio con il fatto che non ho bisogno di dormire e che devo starti sempre vicina. Ieri mattina pensavo ancora che tu mi odiassi e questo mi rendeva terribilmente infelice. Dio, che stupida! Ma come potevo immaginare la verità? Lui, Gibarian, non odiava quella sua… creatura, però ne parlava in un modo! Soltanto allora ho capito che, volente o nolente e qualunque cosa facessi, non cambiava niente: per te sarei stata comunque una tortura. Anzi, peggio: perché uno strumento di tortura è inanimato e non ha colpa, come una pietra che ti cade sulla testa e ti manda all’altro mondo. Quello che non riuscivo a capire era come potessi essere il tuo strumento di tortura pur amandoti e desiderando il tuo bene… Volevo almeno spiegarti quello che mi era successo dopo avere sentito il nastro e avere capito. Potrebbe esserti utile. Ho anche cercato di mettertelo per iscritto…

– È per questo che hai acceso la luce? – chiesi con voce strozzata.

– Sì. Ma non ne è venuto fuori niente. Perché quel qualcosa, quella differenza, la cercavo al mio interno… Ero come impazzita, ti dico. In un primo momento ho creduto che sotto la mia pelle non ci fosse un corpo, ma qualcosa di diverso, come se fossi un involucro esterno fatto per trarti in inganno. Capisci?

– Sì.

– Sai… quando si passa la notte a rimuginare, il pensiero può spingersi molto lontano e prendere le direzioni più strane…

– Lo so…

– Però sentivo il battito del mio cuore e inoltre ricordavo che mi avevi fatto l’analisi del sangue. Com’è il mio sangue? Dimmi la verità… Adesso puoi dirmela.

– Identico al mio.

– Davvero?

– Te lo giuro.

– Che vorrà dire? Poi ho pensato che quel qualcosa fosse nascosto dentro di me e che potesse anche essere… piccolissimo, solo che non sapevo dove fosse. Ora mi rendo conto che si trattava di una scusa, perché avevo molta paura di quello che intendevo fare e speravo di trovare un’altra via d’uscita. Chris, se davvero abbiamo il sangue uguale… se è davvero come dici tu, forse… Ma no, è impossibile… Se così fosse, adesso non sarei più viva, ti pare? Quindi quel qualcosa esiste, ma dove? Nella mia testa? Ma la mia testa funziona come quella di tutti… e io non sono consapevole di niente di particolare… Se pensassi per mezzo di quella cosa avrei dovuto sapere tutto fin dal principio e non amarti, ma fare finta, e sapere che stavo facendo finta… Ti prego Chris, dimmi tutto quello che sai… Chissà che non riusciamo a trovare una soluzione?

– Quale soluzione?

Non rispose.

– Vorresti morire?

– Credo di sì.

Seguì un nuovo silenzio. In piedi davanti a lei, rimasta rannicchiata per terra, guardavo l’interno vuoto della stanza, i mobili smaltati di bianco, i lucidi strumenti disposti qua e là come se cercassi qualcosa di estremamente necessario senza riuscire a trovarlo.

– Harey, posso dire qualcosa anch’io?

Restò in attesa.

– Hai ragione: tu non sei esattamente uguale a me. Ma questo non significa che tu sia qualcosa di peggio, anzi. Vedila pure come ti pare, però è proprio grazie a questo che… non sei morta.

Un pallido, doloroso sorriso da bambina le si dipinse sul viso.

– Intendi dire che sarei… immortale?

– Non lo so. Comunque molto meno mortale di me.

– È spaventoso – mormorò.

– Forse meno di quanto tu creda.

– Sì… però tu non mi invidi…

– Harey, qui si tratta piuttosto di quello che chiamerei il tuo… destino. Guarda che qui nella Stazione il tuo destino non è meno oscuro del mio e di quello di tutti gli altri. Quelli là intendono portare avanti l’esperimento di Gibarian e può succedere di tutto…

– O anche niente.

– O anche niente. E ti dirò che, personalmente, preferirei che andasse così. Non tanto perché abbia paura (per quanto ci sia anche una parte di paura), ma perché so che non servirà a niente. Ne sono assolutamente certo.

– Niente in che senso? Ti riferisci a quel… all’oceano?

Rabbrividì.

– Sì. Al contatto. Penso che in realtà il problema sia molto semplice. Un contatto significa lo scambio di certe esperienze, di certi concetti o, per lo meno, di certi risultati o stati di fatto. Ma se non c’è niente da scambiare? Allo stesso modo che l’elefante non è un microbo gigantesco, così l’oceano non può essere un gigantesco cervello. Naturalmente da entrambe le parti possono intervenire determinate azioni. Per effetto di una di esse in questo momento sono qui a guardarti e a cercare di convincerti che mi sei più cara di tutti i dodici anni che ho dedicato a Solaris, e che desidero continuare a stare con te. Non so perché tu mi sia stata mandata: se come una tortura, come un favore o forse solo come una specie di microscopio per esaminarmi… Non so se tu sia una manifestazione di amicizia, un colpo basso o magari una beffa. Forse tutte queste cose insieme, oppure – il che mi sembra più probabile qualcosa di completamente diverso. Ma perché dovremmo preoccuparci delle intenzioni dei nostri genitori, per quanto diversi possano essere gli uni dagli altri? Potresti rispondere che ne dipende il nostro avvenire, e in questo sono d’accordo con te. Ma non posso prevedere l’avvenire più di quanto possa farlo tu e neanche posso giurare di amarti per sempre: dopo quello che è successo, può capitare di tutto. Domani potrei anche diventare una medusa verde: sono cose indipendenti dalla mia volontà. Ma per quello che dipende da noi, decidiamo di restare insieme. Ti pare poco?

– Senti – disse, – c’è un’altra cosa. Le… somiglio molto?

– Sì, le somigliavi molto – risposi. – Ma ora non so più.

– Che vuoi dire?

Si era alzata e mi fissava con gli occhi spalancati.

– Ormai l’hai… offuscata.

– E sei sicuro di non volere lei, ma me e soltanto me? Solo me?

– Sì, te. Non so… ho quasi l’impressione che se fossi davvero lei, non potrei amarti.

– Perché?

– Perché ho fatto una cosa orribile.

– A lei?

– Sì. Quando eravamo…

– Non dirlo.

– Perché?

– Perché voglio che tu sappia che non sono lei.

 

Il colloquio

Il giorno dopo, di ritorno dal pranzo, trovai sul tavolo sotto la finestra un biglietto di Snaut. Mi informava che per il momento Sartorius aveva rimandato la costruzione dell’annientatore e che, come ultimo tentativo, si apprestava a lanciare un potente fascio di raggi contro l’oceano.

– Cara – dissi, – devo andare da Snaut.

L’alba rossa fiammeggiava dietro ai vetri dividendo la stanza in due parti. Noi ci trovavamo nella zona bluastra, oltre la quale tutto sembrava fatto di rame, al punto da dare l’impressione che un libro caduto dalla mensola avrebbe prodotto un tintinnio metallico.

– È per via di quell’esperimento. Solo che non so come fare. Preferirei, capisci… – mi interruppi lasciando la frase in sospeso.

– Non occorre che ti giustifichi. Lo vorrei tanto anch’io… purché non duri troppo a lungo.

– Un po’ durerà per forza – risposi. – Senti: che ne diresti di venire con me e di aspettarmi nel corridoio?

– D’accordo. E se non ce la facessi?

– Ma cos’è che ti succede, esattamente? – chiesi, e subito aggiunsi: – Credimi, non è per curiosità… È che se riuscissimo a chiarire la questione forse troveresti anche il modo di controllarti.

– Mi viene paura – rispose. Era lievemente impallidita. – Non so neanch’io di che cosa, perché in realtà non è nemmeno paura… È che mi sento perduta. All’ultimo provo anche un orribile, insopportabile senso di vergogna. Poi più nulla. Ecco perché ho anche pensato che fosse una malattia… – concluse in un soffio e rabbrividì.

– Può anche darsi che succeda soltanto qui, in questa maledetta Stazione – dissi. – Personalmente farò il possibile perché ce ne andiamo al più presto.

– Lo credi possibile? – chiese spalancando gli occhi.

– Perché no? Dopotutto non sono mica prigioniero… Comunque dipenderà anche da quello che decideremo con Snaut. Quanto tempo pensi di resistere da sola?

– Dipende… – disse lentamente. Chinò la testa. Se sento la tua voce, può anche darsi che ce la faccia.

– Preferirei che non sentissi quello che diciamo. Non per nasconderti qualcosa, ma perché non so, non posso sapere quello che dirà Snaut.

– Basta così, ho capito. Vuol dire che mi metterò abbastanza vicina per sentire il suono della tua voce, ma non abbastanza da distinguere le parole. Sarà sufficiente.

– Vado a chiamarlo dal laboratorio. Lascio la porta aperta.

Fece segno di sì con la testa.

Attraverso la rossa parete di raggi solari uscii nel corridoio che per contrasto, e malgrado l’illuminazione artificiale, sembrava quasi nero. La porta del piccolo laboratorio era aperta. Sul pavimento, sotto la fila dei grandi serbatoi di ossigeno liquido, giacevano i frammenti di specchio del thermos di Dewar, ultima traccia degli avvenimenti di quella notte. Quando staccai la cornetta e composi il numero della stazione radio il piccolo schermo si illuminò. La pellicola di luce azzurrina che sembrava rivestire il vetro opaco dall’interno si aprì: sporgendosi di fianco contro il bracciolo di un’alta seggiola, Snaut mi guardava dritto negli occhi.

– Salve – disse.

– Ho letto il biglietto. Vorrei parlarti. Posso venire?

– Certo. Subito?

– Sì.

– Prego. Vieni… in compagnia?

– No.

La sua magra faccia abbronzata dalla fronte solcata di grosse rughe, inclinata di sghembo nel vetro convesso come uno strano pesce che curiosasse attraverso un acquario, assunse un’espressione ambigua.

– Bene, bene. Ti aspetto.

– Possiamo andare, cara… – annunciai con finta vivacità, entrando nella cabina attraverso i rossi fasci luminosi oltre i quali vedevo balenare la sagoma di Harey. La voce mi venne meno. Sedeva rannicchiata nella poltrona, le braccia intrecciate sotto i braccioli. Sia che avesse sentito troppo tardi i miei passi, o che non avesse fatto in tempo a snodare quella terribile contrazione per assumere una posizione normale, fatto sta che per un attimo la vidi lottare contro l’incomprensibile forza che l’abitava, e un’ira cieca e furibonda, mista a pietà, mi strinse il cuore. Percorremmo in silenzio il lungo corridoio oltrepassando le parti rivestite di smalti multicolori destinati, nell’intenzione degli architetti, a conferire un po’ di varietà al soggiorno nel guscio corazzato. Scorsi da lontano la porta socchiusa della stazione radio dalla quale – il sole arrivava anche qui – usciva una lunga fascia rossa che invadeva il corridoio. Guardai Harey. Non tentò neanche di sorridere: per tutto il percorso si era preparata a una lotta contro se stessa e lo sforzo imminente le aveva già cambiato la faccia che appariva pallida e come rimpiccolita. A una quindicina di passi dalla porta si fermò. Mi girai a guardarla: con la punta delle dita mi sospinse leggermente, incitandomi a continuare. Di colpo i miei progetti, Snaut, l’esperimento, l’intera Stazione e tutto il resto mi parvero ben poca cosa in confronto alla tortura che si preparava ad affrontare. Mi sentii un carnefice: stavo già per tornare indietro, quando la vasta fascia di sole proiettata sulla parete del corridoio fu oscurata dall’ombra di un uomo. Affrettai il passo ed entrai nella cabina. Snaut era sulla porta, quasi si preparasse a venirmi incontro. Il sole rosso gli stava alle spalle e l’aurora purpurea pareva irradiare dai suoi capelli bianchi. Ci fissammo per un po’ senza dire parola. Sembrava studiare la mia faccia ma, abbagliato com’ero dalla luce della finestra, non riuscivo a vedere la sua espressione. Lo oltrepassai e mi fermai accanto a un quadro di comando dal quale spuntavano gli steli flessibili dei microfoni. Snaut ruotò lentamente su se stesso seguendomi tranquillamente con quelle sue labbra perennemente storte che, a seconda dei casi, davano l’impressione di un sorriso o di una smorfia di stanchezza. Senza perdermi di vista andò verso il grande armadio metallico a parete ai lati del quale, gettati alla rinfusa, si ammucchiavano pezzi di ricambio per radio, accumulatori termici e strumenti vari, avvicinò una seggiola e vi si sedette appoggiando la schiena allo sportello smaltato.

Il silenzio mantenuto da entrambi fino a quel momento stava diventando abbastanza strano. Tesi l’orecchio concentrando l’attenzione sul corridoio dov’era rimasta Harey: non ne proveniva il minimo fruscio.

– Quand’è che sarete pronti? – chiesi.

– Potremmo cominciare oggi stesso, ma prima bisognerà fare la registrazione.

– La registrazione? Vuoi dire l’encefalogramma?

– Be’, sì… Avevi detto che eri d’accordo. Perché…? chiese, aspettando che continuassi.

– No, niente.

– Parla pure – riprese Snaut, visto che il silenzio tornava a prolungarsi.

– Lei sa tutto… sul proprio conto – dissi quasi in un sussurro. Sollevò le sopracciglia.

– Ah sì?

Ebbi l’impressione che in realtà non fosse sorpreso. Ma in tal caso, perché fingere? La voglia di parlare mi era passata di colpo, ma cercai di farmi forza. «Quando tutto va in malora – pensai – cerchiamo almeno di essere leali».

– Credo che abbia cominciato a intuire qualcosa dopo la nostra conversazione in biblioteca. Mi ha osservato, ha sommato gli indizi e infine ha trovato il registratore di Gibarian… e ha sentito il nastro…

Snaut, immobile, continuava a tenere la schiena appoggiata all’armadio, ma nei suoi occhi era passato un fuggevole lampo. Stavo in piedi davanti al quadro di comando, di fronte c’era la porta socchiusa del corridoio. Abbassai ulteriormente la voce:

– Stanotte, mentre dormivo, ha tentato di uccidersi. L’ossigeno liquido…

Si udì un fruscio, come di fogli smossi da una corrente d’aria. Mi immobilizzai tendendo l’orecchio verso il corridoio, ma la fonte del rumore era più vicina. Sembrava il leggero raspare di un topo… Un topo? Assurdo. Alla Stazione non c’erano topi. Osservai con la coda dell’occhio la figura seduta.

– Ti ascolto – disse tranquillamente.

– Naturalmente non c’è riuscita… Comunque, ormai sa chi è.

– Perché mi dici tutto questo? – chiese improvvisamente.

– Per informarti… per tenerti al corrente di quello che succede – mormorai.

– Ti avevo avvisato.

– Dì piuttosto che lo sapevi – replicai alzando involontariamente la voce.

– No. Certo che no. Ti ho semplicemente spiegato come stavano le cose. A parte una confusa mescolanza di ricordi e di immagini attinti dal suo… Adamo,  all’inizio il «visitatore» è solo un fantasma vuoto. Più sta con te e più diventa umano e, fino a un certo punto, acquista autonomia. Per questo più si va avanti e più diventa difficile…

Si interruppe. Mi guardò di sotto in su e aggiunse con noncuranza:

– Sa tutto?

– Sì, te l’ho detto.

– Tutto? Anche che è già stata qui e che tu…

– No!

Sorrise.

– Senti Kelvin, al punto in cui sei… che cosa intendi fare? Lasciare la Stazione?

– Sì.

– Insieme a lei?

– Sì.

Tacque. Sembrava riflettere alla risposta da darmi, e tuttavia nel suo silenzio c’era anche dell’altro… Ma che cosa? L’impercettibile corrente frusciò di nuovo, vicinissima, come dietro a un sottile tramezzo. Snaut cambiò posizione sulla sedia.

– Molto bene – disse. – Perché mi guardi così? Credevi che te l’avrei impedito? Mio caro, sei libero di fare quello che vuoi. Con tutti i guai che abbiamo, ci mancherebbe solo che ci imponessimo delle costrizioni! Non per farti cambiare idea, però ti dico una cosa: stai cercando di comportarti da essere umano in una situazione che di umano non ha proprio niente. Sarà anche bello, però è inutile. A parte il fatto che anche sulla bellezza della cosa ci sarebbe da ridire: vorrei sapere come può essere bella una cosa stupida… Comunque, non è questo il punto. Se ho ben capito, hai deciso di rinunciare a continuare gli esperimenti, di partire e di portarla con te. Dico bene?

– Sì.

– Ma anche questo è un esperimento… Non credi?

– Che vuoi dire? Che lei potrebbe… non…? Dal momento che è con me, non vedo…

Parlavo sempre più lentamente e infine mi interruppi. Snaut emise un lieve sospiro.

– Mio caro Kelvin, tutti noi pratichiamo la politica dello struzzo, ma almeno lo sappiamo e non ci diamo arie da anime nobili.

– Io non mi do nessuna aria.

– Va bene, va bene, non intendevo offenderti. Ritiro l’anima nobile, ma mantengo la politica dello struzzo. E tu la stai praticando in una forma particolarmente pericolosa. Inganni te, lei, e poi di nuovo te stesso. Conosci le condizioni di stabilità di una struttura neutrinica?

– No, e neanche tu. Non le sa nessuno.

– Infatti. Una cosa però la sappiamo, e cioè che si tratta di una struttura instabile, che si mantiene soltanto grazie a un ininterrotto afflusso di energia che crea un campo rotante di stabilizzazione. Me l’ha detto Sartorius. Il punto è: la fonte di questo campo è esterna rispetto al «visitatore», oppure sta all’interno del suo corpo? Afferri la differenza?

– Sì – dissi lentamente. – Se viene da fuori, vuol dire che… lei…

– Allontanandosi da Solaris la struttura si disintegra – concluse al posto mio. – Non è che possiamo prevederlo con assoluta certezza, però tu l’esperimento l’hai già fatto. Ricordi quel piccolo razzo che hai messo in orbita? Be’, sta ancora girando. In un momento di libertà ho perfino calcolato i dati del suo moto. Potresti alzarti in volo, entrare in orbita, avvicinarti e constatare con i tuoi occhi che cosa ne sia stato della… passeggera.

– Sei impazzito? – sibilai.

– Credi davvero? Vuoi che riportiamo il razzo alla base? Non ci vuole nulla, è teleguidato: lo deviamo dall’orbita e…

– Piantala!

– Non ti sta bene neanche questo? E allora c’è un mezzo semplicissimo, senza neanche bisogno di farlo atterrare sulla Stazione. Lasciamolo pure girare. Basta chiamarla via radio: se è ancora viva, ti risponde e…

– Ma lì dentro l’ossigeno è finito da un pezzo! – risposi con voce strozzata.

– Forse può farne a meno. Vogliamo provare?

– Snaut… Snaut…

– Kelvin… Kelvin… – mi fece il verso, incollerito. Pensaci un attimo: ma che uomo sei? Chi vuoi rendere felice, chi vuoi salvare? Te stesso? Lei? Ma quale delle due: questa qui, o quell’altra? Non hai abbastanza coraggio per entrambe? Vedi da solo dove porta tutto questo. Te lo ripeto per l’ultima volta: ci troviamo in una situazione totalmente al di fuori della morale.

Il rumore di prima, di qualcuno che con le unghie raspasse la parete, si ripeté. Non so perché, fui invaso da una passiva, ottusa tranquillità. Era come se vedessi tutta la situazione da molto lontano, attraverso un binocolo rovesciato: piccola, insignificante e vagamente comica.

– D’accordo – dissi. – Per cui, secondo te, che cosa dovrei fare? Eliminarla? Il giorno dopo si ripresenterebbe esattamente come prima, no? E allora, che fare? Ricominciare ogni volta da capo, giorno dopo giorno? Per quanto tempo, e perché, poi? Che cosa me ne verrebbe? E a te, a Sartorius, alla Stazione?

– No, prima rispondi tu. Dopo che sarete partiti insieme, sarai testimone di una, diciamo così, ulteriore trasformazione. In capo a qualche minuto avrai davanti…

– Che cosa? – dissi con scherno. – Un mostro? Un demone?

– No: una pura e semplice agonia. Credevi davvero che fossero immortali? Posso assicurarti che muoiono anche loro… E a quel punto, che farai? Tornerai indietro a prenderti la copia di riserva?

– Smettila! – urlai stringendo i pugni.

Mi osservava con indulgente ironia attraverso le palpebre socchiuse.

– Ah, sarei io a doverla smettere? Secondo me, sei tu che dovresti smetterla con questi discorsi. Sfogati in qualche altro modo, rifattela con l’oceano prendendolo a frustate, o che so io… Qual è il tuo problema? Che se fai tanto di… – e fece ciao con la mano sollevando gli occhi al soffitto come se salutasse un mezzo in partenza ti senti un mascalzone? Ma perché, ora non lo sei? Sorridere quando avresti voglia di piangere, fingerti calmo e felice quando vorresti morderti le mani non significa forse essere un mascalzone? E se qui fosse impossibile non esserlo? Che cosa pensi di fare? Prendertela con Snaut come se fosse tutta colpa sua? Allora, mio caro, vuol dire che oltretutto sei anche stupido.

– Parla per te – dissi a testa bassa. – Io… la amo.

– Ami chi? Il tuo ricordo.

– No. Lei. Ti ho detto quello che ha cercato di fare. Sono pochi i cosiddetti «veri» esseri umani capaci di fare altrettanto.

– Lo vedi che mi dai ragione?

– Non cavillare sulle parole.

– Va bene. Quindi lei ti ama, e tu vuoi amarla. Non è la stessa cosa.

– Ti sbagli.

– Scusa, Kelvin, ma sei stato tu a tirare fuori i tuoi problemi personali. Prima non l’ami. Poi l’ami. Lei è disposta a sacrificarti la vita e tu lo stesso per lei. Molto commovente, stupendo, sublime, tutto quello che vuoi… solo che qui non c’è posto per queste cose. Non c’è posto, capisci? Ma no, tu non vuoi capirlo. Forze sconosciute, indipendenti dalla nostra volontà ti stanno trascinando in un processo circolare di cui lei è una parte, una fase, un dato ripetitivo. Se tu fossi perseguitato da un’orrenda megera che spasimasse di dedicarsi a te anima e corpo, non ci penseresti due volte a eliminarla, no?

– Certo.

– Ragion per cui lei non è una megera! Questo ti lega le mani, ma lo scopo è proprio che tu ti senta le mani legate!

– Un’ennesima ipotesi da aggiungere all’altro milione che sta in biblioteca. Lascia perdere, Snaut: lei è… No. Non mi va di parlartene.

– Va bene. Sei stato tu a cominciare. Ma non dimenticare che, sostanzialmente, lei è uno specchio dove si riflette una parte del tuo cervello. Se è meravigliosa, è perché tu ne hai un ricordo meraviglioso. Sei tu che ne hai fornito la ricetta. È un processo circolare, non dimenticarlo!

– Ma che dovrei fare, secondo te? Eliminarla? Ti ho già chiesto di spiegarmi a che scopo, ma non mi hai risposto.

– Ti rispondo subito. Non sono stato io a volere questa conversazione né a immischiarmi nei fatti tuoi. Non ti impongo né ti proibisco niente, e non lo farei neanche se potessi. Sei stato tu a venire qua, a spiattellarmi i tuoi problemi. E sai perché? Per scaricarteli di dosso, per toglierti il peso. Eh, caro mio… so ben io che razza di peso sia! Sì, sì: non interrompermi! Io non ti proibisco un bel niente, mentre tu vorresti che lo facessi. Se ti sbarrassi la strada forse mi spaccheresti la faccia, però avresti a che fare con un essere della tua stessa razza, del tuo stesso sangue e questo ti farebbe sentire a tua volta un uomo. Mentre così… non ce la fai, e quindi vieni a discutere con me… ossia, sostanzialmente, con te stesso! Manca solo che tu mi dica che se sparisse impazziresti dal dolore… No, guarda: non dire niente.

– Ma insomma! Ero venuto semplicemente a informarti, per pura lealtà, che intendo partire con lei dalla Stazione – replicai controbattendo il suo attacco, ma le mie parole mi suonarono poco convincenti. Snaut alzò le spalle.

– Capisco che tu voglia mantenere le tue posizioni. Ti ho espresso la mia opinione sulla faccenda solo perché stai salendo sempre più in alto, e sai com’è: più folle l’ascesa, più dura la caduta… Troviamoci da Sartorius domattina verso le nove… Ci verrai?

– Da Sartorius? – chiesi stupito. – Ma se non lascia entrare nessuno. Mi hai detto che non gli si può neanche telefonare.

– Sembra che in qualche modo se la sia cavata. Tra noi non parliamo mai di queste cose. Con te… è diverso. Verrai domattina?

– D’accordo – mormorai.

Lo guardai. Il suo braccio sinistro si era inavvertitamente insinuato nella porta dell’armadio. In che momento si era aperta? Probabilmente da vari minuti ma, agitato com’ero da quella spaventosa conversazione, non ci avevo fatto caso. Stava in una posizione innaturale, come se nascondesse qualcosa… o tenesse per mano qualcuno. Mi passai la lingua sulle labbra.

– Snaut, ma che diavolo…?

– Esci – disse piano, calmissimo. – Esci.

Uscii negli ultimi sprazzi del bagliore rosso, chiudendomi dietro la porta. Harey stava seduta sul pavimento, incollata alla parete una decina di passi più avanti. Alla mia vista balzò in piedi.

– Hai visto, Chris? – disse guardandomi con occhi splendenti. – Ce l’ho fatta… Sono così felice. Forse… forse andrà sempre meglio…

– Ma certo – risposi distrattamente. Tornammo in camera mia. Continuavo a scervellarmi su quello stupido armadio. Dunque era lì che nascondeva il…? E tutta quella conversazione…? Le guance mi bruciavano a tal punto che istintivamente mi ci passai sopra una mano. Dio, che follia. E per arrivare a che cosa? A niente? Ah sì: l’indomani mattina…

All’improvviso fui assalito dalla stessa paura provata la notte prima. L’encefalogramma! La registrazione integrale dei miei processi cerebrali trasformati nelle oscillazioni di un fascio di raggi sarebbe stata scaraventata giù, nelle sconfinate profondità di quell’incredibile mostro. Come aveva detto Snaut? Che se lei fosse sparita, avrei orribilmente sofferto… L’encefalogramma era una registrazione completa sia dei processi coscienti che di quelli inconsci. E se invece il mio vero desiderio fosse che lei se ne andasse, che sparisse per sempre? Altrimenti, come spiegare il mio terrore nel vederla sopravvivere a quello spaventoso suicidio? Come potevo essere responsabile del mio inconscio? E se non lo ero io, chi altri…? Che idiozia! Ma perché diavolo avevo accettato di farlo, perché proprio il mio, il mio… Naturalmente avrei potuto esaminare la registrazione, ma non decifrarla: nessuno era in grado di farlo. Gli specialisti arrivavano a stabilire a che cosa stesse pensando il soggetto esaminato, ma solo in senso generale: potevano per esempio affermare che stava elaborando un problema matematico, ma senza precisare quale. Secondo loro la cosa era impossibile: il cervello era un miscuglio casuale di processi simultanei, solo alcuni dei quali possedevano un «substrato» psichico… E i processi inconsci? Di quelli non volevano neanche parlare, quindi figurarsi se potevano interpretare i ricordi, repressi o non repressi che fossero… Ma allora, come spiegare la mia paura? Io stesso, quella mattina, avevo detto a Harey che quell’esperimento non sarebbe servito a niente. Se i nostri neurofisiologi non erano capaci di decifrare la registrazione, come poteva riuscirci quell’essere, quel fluido gigante nero totalmente estraneo alla mia persona? Estraneo, sì, ma per quanto estraneo, mi era entrato dentro a mia insaputa per sondare da cima a fondo la mia memoria e scoprirne l’atomo più doloroso. Come dubitarne? Senza nessun aiuto, senza nessuna «trasmissione di raggi» aveva attraversato la doppia corazza ermetica, il guscio blindato della Stazione, aveva cercato al suo interno il mio corpo ed era ripartito con il bottino…

– Chris…? – sussurrò Harey.

In piedi davanti alla finestra, fissavo con sguardo perso l’inizio della notte. A quella latitudine un tenue biancore velava le stelle: era un sottile ma uniforme strato di nubi talmente alte che il sole, già sprofondato sotto l’orizzonte, le sfumava di un impalpabile bagliore rosa-argento. Se dopo l’esperimento lei fosse sparita, voleva dire che in fondo lo desideravo. Che l’avevo uccisa. E se non fossi andato da Sartorius? Non poteva mica costringermi. Ma che cosa gli avrei detto? Quello no, quello non glielo potevo dire. Dovevo continuare a fingere, a mentire ancora e sempre, perché forse dentro di me c’erano pensieri, intenzioni e crudeli fantasie omicide di cui ero all’oscuro. L’uomo era andato incontro ad altri mondi e ad altre civiltà senza conoscere fino in fondo i propri anfratti, i propri vicoli ciechi, le proprie voragini e le proprie nere porte sbarrate. Dovevo abbandonarla nelle loro mani… per vergogna? Solo perché non avevo abbastanza coraggio?

– Chris… – sussurrò Harey ancora più piano. Più che udirla, percepii il suo silenzioso avvicinarsi. Feci finta di non accorgermene. In quel momento volevo stare solo, dovevo stare solo. Non avevo ancora risolto niente, non avevo preso nessuna decisione. Immobile, continuai a fissare il cielo che scuriva e le stelle, spettrali ombre degli astri terrestri. Nel vuoto subentrato alla ridda di pensieri di poco prima si insinuava lentamente la tacita, apatica certezza che, in una zona di me stesso alla quale non avevo accesso, avevo già fatto la mia scelta; e, fingendo che niente fosse successo, non avevo neanche la forza di disprezzarmi.

 

I pensatori

– Chris… è per via dell’esperimento?

Il suono della sua voce mi fece trasalire. Da ore giacevo insonne, gli occhi fissi nell’oscurità come se fossi solo. Non udivo neanche il suo respiro: perso negli ingarbugliati labirinti dei deliranti pensieri notturni che per la loro stessa infondatezza assumevano nuove dimensioni e significati, l’avevo del tutto dimenticata.

– Eh? Come fai a sapere che non dormo? – chiesi. Nella mia voce era risuonata una nota di paura.

– Da come respiri – disse piano, quasi scusandosi. Non volevo disturbarti… Se non puoi rispondermi, non dire niente…

– E perché non dovrei? Sì, hai indovinato: è per l’esperimento.

– Che cosa si aspettano che succeda?

– Non lo sanno neanche loro. Qualcosa… una cosa qualunque. Più che «Operazione Pensiero», la chiamerei «Disperazione». Ci vorrebbe qualcuno che avesse il coraggio di assumersi la responsabilità di decidere, ma è un genere di coraggio che la gente considera una vigliaccheria perché sembra una ritirata, capisci? Una rinuncia, una fuga indegna dell’uomo. Come se invece fosse degno dell’uomo arrancare, impantanarsi e affondare in qualcosa che non capisce e mai capirà.

Mi interruppi, ma prima ancora che il respiro accelerato fosse tornato normale, un’altra ondata di rabbia mi fece salire alle labbra nuove parole:

– Naturalmente ci sono anche quelli che vedono l’aspetto pratico delle cose. Secondo loro, anche se non riuscissimo a stabilire un contatto, studiando il plasma con le sue pazzesche città viventi che sbucano fuori per un giorno e poi spariscono – riusciremmo almeno a scoprire il segreto della materia… Come se non sapessero che è solo un modo di ingannare se stessi, di aggirarsi in una biblioteca di libri scritti in una lingua incomprensibile, di cui distingueremmo soltanto i colori delle rilegature…

– Ma non esistono altri pianeti come questo?

– E chi lo sa? Potrebbero anche esistere, ma noi conosciamo solo questo. In ogni caso è qualcosa di estremamente raro, non come la Terra. Noi siamo merce corrente, siamo l’erba dell’universo e di questa nostra universalità ce ne vantiamo, convinti che sia un modello applicabile a tutto l’esistente. Armati di questa convinzione, siamo trionfalmente partiti verso altri mondi… Gli altri mondi? Ai nostri occhi i casi erano solo due: o dominarli o esserne dominati… Quei loro maledetti cervelli non riuscivano a vedere niente altro… Ma che parlo a fare, è tutto fiato sprecato.

Mi alzai e a tastoni cercai nella farmacia il flacone piatto del sonnifero.

– Adesso dormo, tesoro – dissi rivolto all’oscurità pervasa dal sonoro ronzio del ventilatore. – Bisogna che dorma, altrimenti non so proprio…

Mi sedetti sul letto. Lei mi toccò la mano. La presi tra le braccia alla cieca e me la tenni contro finché il sonno non sciolse la forza della stretta.

La mattina, svegliandomi fresco e riposato, l’esperimento mi parve una sciocchezza: non capivo come avessi potuto attribuirgli tanta importanza. Anche il fatto di dover portare con me Harey nel laboratorio non mi sembrava un problema. Per quanti sforzi facesse, dopo qualche minuto della mia assenza non riusciva a resistere, per cui rinunciai a chiederle di dominarsi (si era perfino detta disposta a lasciarsi chiudere da qualche parte) e le dissi semplicemente di portarsi un libro da leggere.

Più che l’intervento in sé, mi interessava soprattutto ciò che avrei trovato nel laboratorio. La grande stanza bianco-azzurra non presentava niente di particolare, a parte numerosi vuoti negli scaffali con le storte e le provette, alcune vetrine rotte e il pannello di una di esse incrinato a raggiera, quasi che lì si fosse svolta una lotta le cui tracce fossero state frettolosamente, ma abbastanza accuratamente, cancellate. Snaut, affaccendato intorno all’apparecchio, si comportò con la massima correttezza reagendo alla comparsa di Harey come a un fatto normale e salutandola a distanza con un lieve inchino. Mi stava inumidendo di liquido fisiologico le tempie e la fronte quando apparve Sartorius. Sopra il nero grembiule antiradiazioni indossava un camice bianco che gli arrivava alle caviglie. Mi salutò con aria asciutta e decisa come se fossimo due colleghi di un grande istituto terrestre che si fossero lasciati il giorno prima. Solo ora notai che il suo sguardo inespressivo era dovuto alle lenti a contatto con cui aveva sostituito gli occhiali scuri.

Le braccia incrociate sul petto, osservò Snaut avvolgere una benda intorno agli elettrodi sulla mia testa fino a formare una specie di calotta bianca. A più riprese percorse con gli occhi la stanza senza mostrare di vedere Harey che, rannicchiata e infelice, sedeva su uno sgabello appoggiato alla parete fingendo di leggere un libro. Quando Snaut si scostò dalla mia poltrona, girai la testa appesantita dai dischi metallici e dai cavi per vederlo mentre li collegava all’apparecchio; ma Sartorius, sollevando inaspettatamente la mano, disse con aria solenne:

– Dottor Kelvin, le chiedo un attimo di attenzione e di concentrazione. Non intendo imporle niente, perché sarebbe contrario allo scopo; tuttavia bisogna che lei smetta di pensare a se stesso, a me, al collega Snaut e a qualunque altra persona, in modo da eliminare l’intrusione casuale di personalità a lei note e concentrarsi sulla questione che ci riguarda. La Terra e Solaris; le generazioni di scienziati considerate nel loro insieme, anche se i singoli individui hanno un inizio e una fine; la nostra perseveranza nel cercare di stabilire un contatto intellettuale; il lungo cammino storico percorso dall’umanità; la certezza di proseguirlo in futuro; la determinazione ad affrontare ogni sacrificio e difficoltà,  a dedicare tutti i nostri sentimenti personali a questa missione: ecco gli argomenti che in questo momento dovrebbero pervadere la sua coscienza. È vero che l’associazione di idee non dipende interamente dalla nostra volontà, ma il fatto stesso che lei si trovi qui garantisce l’autenticità della successione che le ho presentato. Se le sembrerà di non aver svolto in modo corretto il suo compito, lo dica pure e il collega Snaut ripeterà la registrazione. Il tempo non ci manca…

Pronunciò le ultime parole con un pallido e stentato sorriso che non dissipò l’ostinata fissità dei suoi occhi. Cercavo di sottrarmi alla pomposità di quella serie di frasi fatte, enunciate con la massima serietà quando, per fortuna, Snaut ruppe il silenzio che si prolungava.

– Allora, Chris, posso andare? – chiese, il gomito poggiato sull’alta consolle dell’apparecchio per l’encefalogramma in una posa trascurata e insieme confidenziale, come se si sostenesse a una sedia. Gli fui grato di avermi chiamato per nome.

– Vai pure – risposi, abbassando le palpebre.

Il timore che mi aveva svuotato la mente quando Snaut aveva finito di fissare gli elettrodi e aveva appoggiato le dita sull’interruttore svanì di colpo. Attraverso le ciglia socchiuse intravidi il bagliore rosso delle luci di controllo sul quadro nero dell’apparecchio. Lo sgradevole senso di freddo e di umidità trasmesso dagli elettrodi che mi cingevano la testa come una gelida corona di monete andava sparendo. Ero una grigia arena senza luce. Ero un vuoto circondato da ogni parte da una folla disposta ad anfiteatro intorno a un silenzio, il mio, dal quale emanava un sarcastico disprezzo per Sartorius e la missione. La tensione degli spettatori dentro di me, desiderosi di assistere a un happening improvvisato diminuì. – Harey… – provai a pensare con un’inquietudine prossima alla nausea, pronto a fare subito marcia indietro. Ma la mia vigile e cieca platea non protestò. Per un momento fui un concentrato di tenerezza e di sincero dolore, pronto a lunghi e pazienti sacrifici. Harey, priva di forma e di volto, mi colmava da cima a fondo. All’improvviso, attraverso l’impersonale immagine di lei pervasa di disperata dolcezza, dalla penombra grigia emerse in tutta la sua gravità professorale Giese, il padre della Solaristica e dei solaristi. Ma invece dell’eruzione fangosa che ne aveva inghiottito gli occhiali d’oro e i ben curati baffi bianchi vedevo solo l’incisione sul frontespizio della monografia, i fitti tratteggi dello sfondo con cui l’artista ne aveva circondato la testa quasi a mo’ di aureola; una testa talmente simile, non per i tratti ma per la sua aria ponderata e all’antica, a quella di mio padre, che non sapevo quale dei due mi stesse guardando. Nessuno di loro aveva avuto una sepoltura, cosa ai nostri tempi talmente normale e frequente da non suscitare una particolare commozione.

L’immagine stava svanendo e per un momento, non so quanto lungo, dimenticai la Stazione, l’esperimento, Harey, l’oceano nero e tutto il resto. Ero pervaso dalla certezza, fugace come un lampo, che quei due uomini morti da tempo, infinitamente piccoli e tornati alla polvere, avessero fatto fronte a tutti gli eventi della loro esistenza; e la tranquillità proveniente da quella scoperta annullò l’informe folla assiepata intorno alla grigia arena in tacita attesa della mia disfatta. Udii un doppio scatto di interruttori e la luce artificiale mi ferì gli occhi. Abbassai le palpebre. Sartorius, senza cambiare posizione, mi osservava attentamente; Snaut, volgendomi le spalle, si affaccendava intorno all’apparecchio e sembrava fare apposta a strascicare gli zoccoli che gli scivolavano dai piedi.

– Come le sembra che sia andata, dottor Kelvin? chiese l’antipatica voce nasale di Sartorius.

– Benissimo – risposi.

– Ne è proprio certo? – insisté lui con un’ombra di stupore e quasi di incredulità.

– Sì.

La perentorietà e l’asciuttezza della mia risposta ne scossero per un attimo la rigida seriosità.

– Ah… bene – borbottò, guardandosi intorno come incerto sul da farsi. Snaut si avvicinò alla poltrona e prese a srotolare la benda.

Mi alzai e feci due passi nella stanza mentre Sartorius, sparito per un attimo nell’oscurità, tornava con in mano la pellicola sviluppata e asciutta. Dentellate linee biancastre si snodavano come una muffa, o una ragnatela, lungo il lucido nastro di celluloide di una quindicina di metri.

La mia parte lì dentro era finita, ma non uscii. I due inserirono il film nella testa ossidata del modulatore. Sartorius ne osservò ancora la parte finale con occhio cupo e diffidente, come cercando di decifrare il contenuto nascosto nelle linee tremolanti.

Il seguito dell’esperimento rimase invisibile. Vedevo soltanto i due uomini, seduti davanti ai quadri di comando attaccati alla parete, azionare gli opportuni congegni. La corrente ronzò sordamente negli avvolgimenti delle bobine sotto il pavimento blindato; poi le lucette scesero verso il basso nei condotti vetrati degli indicatori, segnalando che il grosso tubo del cannone a raggi X stava calando nel pozzo verticale per piazzarsi davanti all’orifizio aperto. A un certo punto le luci si immobilizzarono al livello più basso e Snaut cominciò ad aumentare la tensione finché le lancette, o meglio i trattini bianchi che le sostituivano, eseguirono oscillando un mezzo giro a destra. Il ronzio della corrente era appena percettibile. Non accadde niente: la bobina con il film, anch’essa invisibile, girava sotto il coperchio e il contaminuti della pellicola avanzava con un lieve ticchettio di orologio.

Da sopra il libro Harey sbirciava ora me, ora loro. Le andai vicino. Mi lanciò un’occhiata interrogativa. L’esperimento era terminato. Sartorius si diresse lentamente verso la grossa testa conica dell’apparecchio.

– Andiamo…? – chiese Harey muovendo silenziosamente le labbra. Feci segno di sì con la testa. Si alzò. Passai accanto a Sartorius senza salutare nessuno – la cosa mi sembrava troppo assurda.

Le alte finestre del corridoio superiore erano invase da un tramonto di particolare bellezza. Invece del solito turgido rosso, sfoderava tutte le sfumature di un rosa luminosamente velato e quasi tempestato da un minuto pulviscolo argenteo. I grevi e informi avvallamenti neri dell’immenso oceano sembravano rispondere a quel dolce chiarore spandendo un morbido riflesso bruno-violaceo. Solo allo zenit il cielo era ancora intensamente tinto di ruggine.

Giunto nel corridoio inferiore, mi fermai di colpo. L’idea di tornare a rinchiuderci come in una cella nella cabina prospiciente l’oceano mi appariva insopportabile.

– Harey – dissi, – ti dispiace se passiamo un attimo in biblioteca…?

– Volentieri, così mi cerco qualcosa da leggere – rispose con una vivacità leggermente forzata.

Sentivo che dal giorno prima tra noi si era aperto un fossato e che avrei dovuto mostrarmi più affettuoso nei suoi confronti: ma ero caduto preda di una totale apatia e non sapevo come uscirne. Ripercorremmo all’indietro il corridoio e lungo una rampa scendemmo fino a una piccola anticamera con tre porte, divise da bacheche di cristallo contenenti dei fiori.

La porta centrale, che immetteva nella biblioteca, era rivestita su entrambi i lati da un’imbottitura di finta pelle che ogni volta evitavo di toccare. All’interno della grande sala circolare dall’argenteo soffitto dipinto a dischi solari stilizzati faceva un po’ meno caldo.

Sfiorai con la mano le costole dei classici della Solaristica; stavo già per estrarre il primo volume di Giese con sul frontespizio l’incisione coperta di carta velina, quando all’improvviso scoprii il panciuto tomo in ottavo di Gravinsky che prima mi era sfuggito.

Mi accomodai su una sedia imbottita. Nel profondo silenzio circostante sentivo Harey, un passo dietro di me, sfogliare le pagine di un libro. Il compendio di Gravinsky, di solito usato dagli studenti come una specie di bignamino, era una raccolta per ordine alfabetico (dalla a di «Abiologica» alla d di «Degenerativa» e poi, giù giù, fino alla z) di tutte le ipotesi solariane. Il compilatore, che non aveva mai visto Solaris in vita sua, aveva accuratamente spulciato le monografie, i verbali delle spedizioni, gli esposti sommari e i resoconti provvisori, andando perfino a ripescare le citazioni contenute nelle opere dei planetologi che studiavano altri globi astrali. Ne era venuto fuori un catalogo inquietante per la lapidarietà delle sue formulazioni, che riduceva e banalizzava fortemente la finezza del loro pensiero originario. Tutto quell’insieme, concepito con intenti enciclopedici, ormai rappresentava più che altro una curiosità: il volume era apparso una ventina di anni prima e nel frattempo si era accumulata una nuova caterva di ipotesi che un solo libro non sarebbe bastato a contenere. Percorsi l’indice alfabetico degli autori come si legge un elenco di defunti: pochi di essi erano ancora in vita e nessuno dei superstiti lavorava attivamente nel campo della Solaristica. Di fronte a quel patrimonio intellettuale applicato a trecentosessanta gradi veniva da pensare che qualcuna di quelle teorie dovesse per forza essere giusta e che la realtà non potesse avere in serbo ulteriori novità rispetto alla miriade di ipotesi già prospettate. Nella sua introduzione Gravinsky aveva diviso i quasi sessant’anni di studi solaristici preesistenti in vari periodi. Nel primo, iniziante dalla ricognizione preliminare di Solaris, nessuno scienziato aveva formulato consapevolmente una vera e propria ipotesi. In modo intuitivo, in base al cosiddetto «buon senso», si riteneva che l’oceano fosse un conglomerato chimico privo di vita, una mostruosa massa gelatinosa attorniarne il globo che, grazie alla sua «quasi vulcanica» attività, produceva stupefacenti creazioni e, per mezzo di un innato meccanismo automatico, stabilizzava la sua orbita instabile allo stesso modo che un pendolo messo in moto mantiene immutato il suo piano di oscillazione. A dire il vero, già dopo tre anni Magenon aveva espresso l’opinione che la «macchina colloidale» fosse vivente: e tuttavia Gravinsky faceva partire il periodo delle ipotesi biologiche solo nove anni dopo, quando il parere di Magenon, inizialmente isolato, cominciava già ad annoverare numerosi fautori. Negli anni successivi c’era stata una vera e propria fioritura di astruse teorie, suffragate dall’analisi biomatematica, circa l’oceano vivente. Il terzo periodo era stato quello di una diaspora nell’opinione, finora monolitica, degli scienziati, che aveva visto sorgere una moltitudine di scuole spesso in accanito contrasto tra loro: l’epoca di Panmaller, Strobel, Freyhouss, Le Greuille e Osipovič, in cui l’intera eredità di Giese era stata sottoposta a una critica spietata. Erano arrivati i primi atlanti, i cataloghi e le stereofotografie degli asimmetriadi finora considerati inesplorabili: la svolta si era prodotta per merito delle nuove apparecchiature teleguidate, introdotte nei tempestosi anfratti dei colossi minacciati ad ogni istante da un’esplosione. Era stato allora che, in margine alle imperversanti discussioni, avevano iniziato a manifestarsi, isolate e sdegnosamente ignorate, le ipotesi minimalistiche secondo le quali, anche se non si fosse riusciti a stabilire il famoso «contatto» con il «mostro pensante», lo studio delle fossilizzate città mimoidee e delle panciute montagne che l’oceano eruttava per poi subito riassorbirle avrebbe sicuramente apportato preziose conoscenze chimiche e fisiochimiche, nonché nuove esperienze, nel campo della struttura delle molecole giganti. Ma i sostenitori di quelle tesi non erano neanche considerati degni di un contraddittorio. Quell’epoca aveva anche visto la nascita dei cataloghi, tuttora attuali, delle principali tipologie metamorfiche, nonché della teoria bioplasmatica dei mimoidi di Franck: sebbene respinta come erronea, restava pur sempre un superbo esempio di ardimento intellettuale e di costruzione logica.

Questi «periodi di Gravinsky», comprendenti complessivamente trenta e più anni, corrispondevano rispettivamente alle tre principali fasi della Solaristica: l’innocente gioventù, lo spontaneismo romantico e, infine, l’età matura, venata da qualche accenno di scetticismo. Già allo scadere dei primi venticinque anni si erano fatte strada – tardiva discendenza delle precedenti teorie colloido-meccanicistiche – alcune ipotesi circa la natura apsichica dell’oceano. Ogni tentativo di dimostrare gli indizi di una volontà cosciente, di processi teleologici, di un’attività motivata da una qualche necessità interna dell’oceano era stato quasi unanimemente giudicato l’aberrazione di un’intera generazione di scienziati. Il furore pubblicistico con cui le loro tesi erano state negate aveva preparato il terreno alle lucide speculazioni, impostate su basi analitiche e concentrate sulla minuziosa raccolta dei fatti, del gruppo di Holden, Eonides e Stoliva. Si era prodotta una vera e propria proliferazione di archivi, di cineteche per microfilm, di spedizioni, queste ultime equipaggiate di tutti i possibili apparecchi, registratori automatici, sensori e sonde reperibili sulla Terra. In certi periodi alle ricerche avevano preso parte oltre mille persone alla volta; ma mentre i materiali incessantemente raccolti si accumulavano con ritmo sempre più intenso, lo spirito che animava gli studiosi si isteriliva dando inizio a un periodo di declino, difficile da datare con precisione, di quella fase dell’esplorazione solariana, nonostante tutto ancora pervasa di ottimismo.

Una fase, quella, caratterizzata soprattutto da grandi personalità audaci sia nell’immaginare sia nel negare le concezioni teoriche, quali Giese, Strobel o Sevada. Sevada – ultimo dei grandi solaristi – era morto in oscure circostanze nei pressi del polo sud del pianeta, vittima di un’imprudenza che neanche un principiante avrebbe commesso. Planando a bassa quota sull’oceano sotto gli occhi di centinaia di osservatori, si era infilato con l’apparecchio all’interno di un agiloide che gli stava visibilmente cedendo il passo. Era stata ventilata l’ipotesi di un malore, di uno svenimento o di un difetto dei comandi: in realtà, a mio avviso, si era trattato del primo suicidio, della prima, improvvisa e manifesta crisi di disperazione.

La prima e non certo l’ultima. Ma il volume di Gravinsky non menzionava questo genere di dati: ero io che, sfogliando le pagine ingiallite e fittamente coperte di caratteri, completavo date, fatti e particolari.

Di siffatti patetici attentati contro la propria vita non ce n’erano più stati, ma è anche vero che tra gli scienziati si incontravano sempre più raramente personalità di quel calibro. La scelta di questo o quel ramo della planetologia da parte degli studiosi era un fenomeno su cui nessuno si era curato di indagare. Gli individui dotati di grandi capacità e di grande forza di carattere nascevano più o meno sempre con la stessa frequenza: quelle che differivano erano le loro scelte. La loro presenza o assenza in un determinato settore della ricerca potevano anche spiegarsi con le prospettive offerte dal settore stesso. Comunque si giudicassero i classici della Solaristica, non se ne poteva certo negare la grandezza e, non di rado, la genialità. Per interi decenni il muto gigante solariano aveva attratto i più brillanti elementi della matematica e della fisica, nonché eminenti specialisti della biofisica, della teoria dell’informazione e dell’elettrofisiologia. Poi, un anno dopo l’altro, i capi di quell’esercito si erano diradati fino a sparire. Era rimasta la grigia anonima folla di pazienti raccoglitori e compilatori, autori peraltro di alcuni esperimenti originali; ma mancavano sia le massicce spedizioni organizzate su scala globale, sia le audaci teorie capaci di armonizzare i vari elementi in un unico insieme…

La Solaristica sembrava perdere colpi e, in concomitanza con il suo declino, si moltiplicavano le ipotesi (divergenti tra loro solo per qualche dettaglio di secondo piano) della degenerazione, della regressione e dell’involuzione dei mari solariani.

Di tanto in tanto spuntava qualche teoria più audace e interessante: tutte però, in un certo senso, condannavano l’oceano considerandolo il prodotto finale di uno sviluppo che già millenni prima aveva vissuto la sua più perfetta fase organizzativa e che adesso, per quanto fisicamente coeso, si disgregava in una miriade di inutili e insensati soprassalti agonici. Una monumentale agonia in atto da secoli: ecco come era visto Solaris. I longoidi e i mimoidi venivano interpretati come altrettanti sintomi di neoplasie, e i processi che percorrevano la fluida massa come manifestazioni del caos e dell’anarchia regnanti al suo interno. Questa tendenza interpretativa era divenuta una vera e propria ossessione, tanto che tutta la letteratura scientifica dei successivi sette od otto anni (anche se, ovviamente, gli autori non esprimevano a chiare note il loro pensiero) era in sostanza un cumulo di ingiurie: una vendetta delle grigie schiere dei solaristi, sole e prive di capi, contro l’oggetto delle loro assidue ricerche che si ostinava a restare indifferente e a ignorare la loro presenza.

Conoscevo alcuni originali lavori di una quindicina di psicologi europei, a mio avviso ingiustamente esclusi da quella raccolta di classici della Solaristica. Costoro avevano in comune con quegli studi soltanto il fatto di avere registrato per lungo tempo le reazioni dell’opinione pubblica: collezionando le dichiarazioni dell’uomo della strada e di gente profana, avevano messo in luce una sorprendente analogia tra i loro cambiamenti di opinione e i processi che al contempo si svolgevano in seno agli ambienti scientifici.

Anche in seno alla commissione coordinatrice dell’Istituto di Planetologia, dove si decidevano gli aiuti materiali destinati alle ricerche, era in atto un cambiamento che si manifestava in una continua, anche se graduale, restrizione delle sovvenzioni agli istituti e ai centri di Solaristica, nonché alle squadre in partenza per il pianeta.

Le voci circa la necessità di ridurre le ricerche si intrecciavano alle dichiarazioni di coloro che reclamavano mezzi di azione più energici. In questo senso nessuno aveva superato il direttore amministrativo dell’Istituto Cosmologico Universale il quale sosteneva ostinatamente che l’oceano vivente non disdegnava affatto gli uomini, ma semplicemente non li vedeva, allo stesso modo che un elefante non vedeva le formiche che gli camminavano sul dorso. Per richiamare la sua attenzione e concentrarla su di noi bisognava ricorrere a stimoli potenti e a gigantesche macchine adeguate alle dimensioni dell’intero pianeta. Il particolare più divertente di tutta la faccenda, e che la stampa non aveva mancato di sottolineare, era che quelle costose iniziative venivano richieste non dal direttore dell’Istituto di Planetologia, che finanziava l’esplorazione di Solaris, ma da quello dell’Istituto di Cosmologia che, in un certo senso, faceva il generoso con i soldi degli altri.

Intanto la ridda delle ipotesi, delle vecchie teorie rivedute e corrette, delle modifiche insignificanti, delle puntualizzazioni o, al contrario, dell’estensione a più significati aveva iniziato a trasformare la Solaristica, finora relativamente chiara malgrado la sua vastità, in un labirinto sempre più intricato e disseminato di vicoli ciechi. In un clima di generale indifferenza, di stagnazione e di scoraggiamento, l’oceano di Solaris era stato sommerso da un secondo, sterile oceano di carta stampata.

Circa due anni prima, quando non ero ancora entrato a far parte del laboratorio di Gibarian in veste di giovane laureato, era sorta la fondazione Mett-Irving che destinava alte ricompense a chi fosse riuscito a trovare il mezzo di sfruttare a vantaggio dell’umanità le energie del plasma oceanico. Già in precedenza erano stati fatti tentativi in tal senso e le navi cosmiche avevano portato sulla Terra numerosi carichi di gelatina plasmatica. Si erano fatte lunghe e pazienti ricerche sul modo di conservarla: applicazioni di temperature molto alte oppure molto basse, creazione di microatmosfere e di microclimi simili a quelli solariani, radiazioni stabilizzanti, migliaia di ricette chimiche… il tutto per assistere a un più o meno lento processo di decomposizione che, come tutto il resto, altri avevano già abbondantemente descritto stadio per stadio: autolisi, macerazione, liquefazione di primo grado, o primaria, liquefazione di secondo grado, o secondaria. Analoga sorte toccava anche ai campioni prelevati da tutte le escrescenze e creazioni plasmatiche: l’unica differenza tra loro stava nel processo con cui, prima o poi, giungevano sempre alla stessa fine: si diradavano per autofermentazione in una lieve cenere dai riflessi metallici di cui qualsiasi solarista avrebbe potuto riconoscere ad occhi chiusi la composizione, il rapporto tra gli elementi e le caratteristiche chimiche.

Il totale fallimento di ogni tentativo di mantenere in vita – o almeno in uno stato di vegetazione sospesa, di ibernazione – un frammento piccolo o grande del mostro al di fuori del suo organismo planetario aveva incrementato la convinzione (sviluppata dalla scuola di Meunier e Proroch) che ci fosse da risolvere un unico mistero e che, una volta trovata la giusta chiave interpretativa, tutto sarebbe apparso improvvisamente chiaro…

Alla ricerca di questa chiave, di questa pietra filosofale di Solaris avevano sprecato tempo ed energie persone che spesso non avevano niente a che vedere con la scienza: nella quarta decade della Solaristica la quantità di ciarlatani e maniaci estranei all’ambiente scientifico, di ossessi superanti per zelo i loro predecessori, profeti del perpetuum mobile o della quadratura del cerchio, aveva assunto le dimensioni di un’epidemia, tanto da mettere addirittura in allarme alcuni psicologi. In capo a qualche anno, tuttavia, l’ossessione era diminuita e quando mi preparavo a partire per Solaris nei giornali e nelle conversazioni non se ne faceva più parola, come peraltro di tutta la faccenda dell’oceano.

Riponendo il volume di Gravinsky notai lì accanto (i libri erano disposti per ordine alfabetico), seminascosto dalle grosse costole adiacenti, un sottile opuscolo di Grattenstrom, uno dei più singolari prodotti della letteratura solariana. Si trattava di un’opera diretta – nell’ambito della comprensione dell’extraumano – contro l’individuo e gli uomini in generale; di un libello sui generiscontro la nostra specie; del lavoro astioso, nella sua aridità matematica, di un autodidatta che, dopo una serie di curiosi contributi a certi campi marginali ed estremamente specialistici della fisica quantistica, in quel suo originalissimo opus magnum (anche se composto di poche pagine) aveva cercato di dimostrare che perfino le più astratte e più sublimi conquiste della scienza e della matematica in realtà si erano allontanate solo di pochi passi dalla nostra preistorica, grossolana e antropomorfica concezione del mondo circostante. Nelle formule della teoria della relatività, nel teorema dei campi di forze, nella parastatica e nelle ipotesi di un unico campo cosmico Grattenstrom aveva cercato delle corrispondenze con il corpo umano (le derivate e gli effetti dell’esistenza dei nostri sensi, della struttura del nostro organismo, le restrizioni e le imperfezioni della fisiologia animale dell’uomo), giungendo alla conclusione che non si poteva, né mai si sarebbe potuto, parlare di un «contatto» dell’uomo con una civiltà non antropomorfica e non umana. In questo pamphlet contro l’intera specie non veniva fatta parola dell’oceano pensante: ma la sua presenza, per quanto negata da uno sprezzante e trionfale silenzio, si avvertiva in ogni singola frase. Quella,  per lo meno, era stata la mia impressione nel leggere per la prima volta l’opuscolo di Grattenstrom, che in realtà rappresentava più un curiosum che un vero e proprio solarianum: a inserirlo nella raccolta dei classici era stato lo stesso Gibarian che, a suo tempo, me l’aveva dato da leggere.

Con uno strano sentimento, simile al rispetto, rimisi con cura al suo posto tra i volumi allineati sul ripiano il sottile opuscolo privo di rilegatura e con la punta delle dita sfiorai la costola verdastra dell’Almanacco di Solaristica. Malgrado il caos e l’impotenza che oggi ci circondavano, non potevo negare che in una decina di giorni fossimo entrati in possesso di certezze su questioni fondamentali che avevano fatto versare fiumi di inchiostro e alimentato diatribe sterili per la loro indecifrabilità.

Uno spirito amante dei paradossi e sufficientemente caparbio era libero di continuare a dubitare che l’oceano fosse una creatura vivente. Ma, al punto in cui eravamo, sarebbe stato difficile negare l’esistenza delle sue funzioni psichiche, qualunque cosa si intendesse con quel termine. Ormai era chiaro che l’oceano percepiva fin troppo bene la nostra presenza sopra di sé… Una constatazione, questa, sufficiente a cancellare con un frego quel vasto settore della Solaristica secondo il quale l’oceano era «un mondo in sé», «un essere in sé» che in una fase secondaria del suo sviluppo era stato privato degli organi sensoriali in suo possesso, completamente ignaro dell’esistenza di fenomeni o di oggetti esterni e chiuso in un mulinello di gigantesche correnti mentali, la cui sede e il cui creatore risiedevano nell’abisso volteggiante sotto due soli.

Ma non bastava. Avevamo anche scoperto che l’oceano era capace di una cosa che a noi non riusciva, ossia di sintetizzare artificialmente il corpo umano e addirittura di perfezionarlo introducendo nella sua struttura subatomica degli incomprensibili cambiamenti, sicuramente connessi con gli scopi ai quali tendeva.

Quindi l’oceano esisteva, viveva, pensava, agiva; l’eventualità che il «problema Solaris» venisse ridotto all’assurdo o al nulla, nonché l’ipotesi che quella con cui avevamo a che fare non fosse una creatura, cadevano per sempre. La partita non era affatto perduta: ormai, volenti o nolenti, gli uomini dovevano prendere atto di quel vicino più inafferrabile di tutto il rimanente universo che, sia pure al di là di bilioni di chilometri e di uno spazio di anni luce, giaceva sulla via della loro espansione.

Forse eravamo arrivati a una svolta cruciale della storia, pensai. Non era da escludersi che, a un certo punto, in alto loco prevalesse l’idea di rinunciare e, prima o poi, di abbandonare Solaris o addirittura di liquidare la Stazione: ma secondo me non sarebbe stato un rimedio. L’esistenza di quel colosso pensante non avrebbe più dato pace agli uomini. Per quanto esplorassero la Galassia, per quanti contatti stabilissero con civiltà di esseri simili a noi, Solaris avrebbe continuato a rappresentare un’eterna sfida lanciata all’uomo.

Tra le annate dell’Almanacco si era infilato un altro volume rilegato in pelle. Prima di aprirlo indugiai un attimo a osservare la copertina scurita dalle frequenti consultazioni. Era un vecchio libro: 1’Introduzione alla Solaristica di Muntius. Ricordavo ancora la notte che ci avevo passato sopra, il sorriso di Gibarian nel porgermi il proprio esemplare e Falba terrestre che spuntava dietro la finestra mentre arrivavo alla parola «Fine». La Solaristica, scriveva Muntius, era il surrogato della religione nell’era cosmica, era la Fede indossante i panni della scienza; il Contatto, scopo al quale essa tendeva, non era meno nebuloso e oscuro della Comunione dei Santi o dell’avvento del Messia. L’esplorazione era una liturgia espressa in formule metodologiche e l’umile lavoro degli scienziati era l’attesa del compimento, dell’Annunciazione, poiché tra Solaris e la Terra non c’erano né potevano esserci ponti. Questa evidenza, al pari di tante altre (la mancanza di esperienze comuni o di concetti trasmissibili), veniva respinta dai solaristi allo stesso modo in cui i credenti respingevano gli argomenti che minavano i fondamenti della loro fede. E del resto che mai potevano aspettarsi gli uomini, che mai potevano sperare di ottenere da un «contatto informativo» con i mari pensanti? Un catalogo di vicissitudini aventi a che fare con un’esistenza infinita nel tempo, e così antica da non ricordare le proprie origini? Una descrizione di desideri, di passioni, di speranze e di sofferenze liberate nei parti improvvisi di montagne viventi? La trasmutazione della matematica in esistenza, della solitudine e della rassegnazione in pienezza? Tutte cose che rappresentavano una conoscenza intrasmissibile: a tentare di trasporla in un qualunque linguaggio terreno, tutti i valori e i significati ricercati andavano perduti, restavano dall’altro lato della barricata. Ma non era questo il genere di illuminazione, peraltro più attinente alla poetica che alla scienza, sperata dai «fedeli». No: senza rendersene conto quelli aspettavano la Rivelazione che spiegasse loro il senso dell’uomo! La Solaristica era quindi la figlia postuma di miti morti da tempo, di mistiche nostalgie che gli uomini non osavano più esprimere apertamente; e la sua pietra angolare, profondamente sepolta nelle fondamenta del suo edificio, era la speranza della Redenzione…

Secondo Muntius i solaristi, incapaci di ammettere questa verità, evitavano scrupolosamente ogni interpretazione del Contatto, presentato nei loro scritti come il Fine Ultimo; e invece, secondo il lucido assunto iniziale, esso avrebbe dovuto rappresentare l’inizio, la premessa, l’introduzione a una nuova tra le tante possibili strade. Con il passare degli anni avevano santificato il Contatto, facendone il loro cielo e la loro eternità…

Semplice e amara era l’analisi di Muntius, questo eretico della planetologia, folgorante nel suo negare e distruggere il mito solariano o, piuttosto, la Missione dell’Uomo. La sua voce, la prima azzardatasi a levarsi fin dalla prima fase della Solaristica, tutta fiducia e romanticismo, era stata accolta da un totale e sdegnoso silenzio: una reazione più che comprensibile, visto che l’accettazione del verbo di Muntius equivaleva a cancellare la Solaristica qual essa era al momento. Invano si era atteso che qualcuno ne creasse una variante più lucida e dimessa. Cinque anni dopo la morte di Muntius,  quando il suo libro era ormai diventato una rarità bibliografica, una mosca bianca introvabile sia nelle collezioni di «Solariana» che nelle raccolte filosofiche, era sorta una scuola intitolata al suo nome: un circolo norvegese dove il suo sereno pensiero, scisso nelle personalità dei suoi eredi, si era trasformato nella mordace, aggressiva ironia di Erle Ennesson e, in versione banalizzata, nella Solaristica Utilitaria, ossia nell’«utilitarismo» di Phaelang. Costui raccomandava di badare soprattutto ai vantaggi pratici ricavabili dalle ricerche, senza preoccuparsi dell’utopica aspirazione, nata da false speranze, di raggiungere un contatto tra civiltà e una comunione intellettuale tra culture. Paragonati alla spietata analisi di Muntius, gli scritti dei suoi discepoli spirituali (ad eccezione delle opere di Ennesson e, forse, di Takata) restavano comunque dei contributi marginali, se non una pura e semplice divulgazione. In realtà Muntius aveva già fatto tutto, definendo la prima fase della Solaristica come il periodo dei «profeti» (tra i quali annoverava Giese, Holden e Sevada), e la seconda come «il grande scisma», ossia la disgregazione dell’unica Chiesa solariana in una folla di confessioni in lotta tra loro. Ne aveva preannunciato anche una terza: quella del dogmatismo e della fossilizzazione scolastica che sarebbe sopraggiunta quando tutto quello che c’era da studiare fosse stato studiato. Ma non era andata così. Gibarian – pensai – non aveva tutti i torti nel considerare il ragionamento di Muntius come una monumentale semplificazione che non aveva tenuto conto delle voci contrarie a una visione fideistica: in realtà nella Solaristica prevalevano opere la cui ostinata temporalità non prometteva niente all’infuori di un concreto globo materiale ruotante intorno a due globi solari.

Piegata in due dentro il libro di Muntius trovai una copia ingiallita, tratta dalla rivista trimestrale Parerga Solariana, di uno degli articoli scritti da Gibarian prima ancora di diventare direttore dell’Istituto. Sotto al titolo Perché sono solarista seguiva, succinto quasi come un promemoria, l’elenco di tutti i fenomeni concreti a favore della reale possibilità di un contatto. Gibarian apparteneva infatti a quell’ultima generazione di studiosi che avevano avuto il coraggio di riallacciarsi agli anni d’oro dello splendore e dell’ottimismo e che non rinnegavano una certa forma di fede oltrepassante le frontiere tracciate dalla scienza: una fede comunque quanto mai materiale, visto che confidava nel successo di sforzi sufficientemente tenaci e perseveranti.

Iniziava dai classici e ben noti studi di bioelettronica, di marca eurasiatica, di Cho-En-Min, Ngyalla e Kavakadze, nei quali venivano esposte le somiglianze tra l’attività elettrica del cervello e certe scariche prodotte in seno al plasma che precedevano l’insorgere di creazioni quali i polimorfi al primo stadio e i solaridi gemelli. Scartava le interpretazioni troppo antropomorfiche, tutte le mistificatorie teorie delle scuole psicoanalitiche, psichiatriche e neurofisiologiche che cercavano di discernere nell’oceano colloidale l’equivalente di certe malattie umane quali, per esempio, l’epilessia (alla quale avrebbero dovuto corrispondere le spasmodiche eruzioni degli asimmetriadi): di tutti i fautori del Contatto, Gibarian era stato uno dei più lucidi e cauti e niente gli dava più fastidio del sensazionalismo che a dire il vero sempre più di rado – accompagnava questa o quella scoperta. Un’ondata di questo interesse a buon mercato l’aveva sollevata a suo tempo anche la mia tesi di laurea che, ovviamente mai pubblicata, doveva trovarsi pure lei nella biblioteca, probabilmente riposta tra i microfilm. In essa mi ero basato sugli illuminanti studi di Bergmann e Reynolds che dal mosaico dei processi corticali erano riusciti a isolare e a «filtrare» le componenti che accompagnavano le emozioni più intense – disperazione, dolore, piacere. Partendo da lì avevo paragonato quei dati con le scariche delle correnti oceaniche e avevo scoperto oscillazioni (su certe parti della calotta dei simmetriadi) e profili di curve (alla base dei mimoidi in formazione) rivelanti analogie degne di nota. Tanto era bastato perché il mio nome finisse rapidamente sulla stampa scandalistica accompagnato da assurdi titoli tipo: La gelatina in delirio o: Il pianeta in orgasmo. Alla fine, comunque, la cosa si era risolta a mio vantaggio (o così almeno avevo ritenuto fino a poco tempo prima) poiché Gibarian che, come gli altri solaristi, non leggeva tutte le migliaia di lavori che uscivano, specie se di principianti, mi aveva notato e mi aveva scritto una lettera. Quella lettera aveva concluso una fase della mia vita e segnato l’inizio di un nuovo capitolo.

 

I sogni

Dopo sei giorni, non essendosi prodotta la minima reazione, decidemmo di ripetere l’esperimento. La Stazione, che fino a quel momento era rimasta immobile all’intersezione tra il quarantatreesimo parallelo e il centosedicesimo meridiano si spostò, sempre mantenendosi a quattrocento metri sopra l’oceano, verso sud dove, secondo i sensori radar e i radiogrammi del satelloide, l’attività del plasma era sensibilmente aumentata.

Per quarantotto ore un invisibile fascio di raggi X, modulato dal mio encefalogramma, colpì a regolari intervalli di qualche ora la superficie quasi completamente liscia dell’oceano.

Verso la fine del secondo giorno ci trovavamo talmente vicini al polo che, mentre il disco del sole azzurro spariva quasi interamente sotto l’orizzonte, dal lato opposto un turgore di nubi scarlatte annunciava già il levarsi del sole rosso. Nella nera immensità dell’oceano e nel cielo deserto sopra di esso dilagava una lotta, accecante per la sua intensità, tra violenti colori dagli infuocati riflessi metallici luccicanti di un verde velenoso, e cupe, smorzate fiamme sanguigne; e l’oceano stesso era striato dai violenti incendi dei due dischi contrapposti, l’uno mercuriale e l’altro scarlatto. Bastava una minuscola nuvola allo zenit perché le luci, che insieme a pesanti rotoli di schiuma, scivolavano sui fianchi delle onde, si accendessero di incredibili bagliori iridati. Subito dopo il tramonto del sole azzurro, sull’orizzonte nord-occidentale apparve un simmetriade, prontamente segnalato dagli avvistatori, annegato nella bruma rugginosa, distinguibile solo da intermittenti luccichii di specchi e simile a un gigantesco fiore di vetro spuntato tra cielo e plasma. La Stazione non modificò la propria traiettoria e dopo circa un quarto d’ora il colosso, palpitante di rosso come una moribonda lampada di rubini, tornò a dissimularsi dietro l’orizzonte. Qualche minuto più tardi una sottile colonna, la cui base ci era nascosta dalla curvatura del pianeta, emerse e si innalzò silenziosamente per alcuni chilometri nell’atmosfera. Quel chiaro segno della fine del simmetriade, per metà rosso sangue e per metà splendente come una colonna di mercurio, si dilatò in un albero bicolore; poi le cime sempre più rigogliose dei suoi rami si fusero in una nube a forma di fungo che, nel riverbero dei due globi solari, se ne volò via per un lungo viaggio sulle ali del vento, mentre la parte inferiore, sparpagliata a grossi grappoli su circa un terzo dell’orizzonte, ricadeva con estrema lentezza. In capo a un’ora, dello spettacolo era sparita ogni traccia.

Trascorsero altri due giorni, dopo di che l’esperimento venne ripetuto per l’ultima volta: le nostre irradiazioni avevano ormai coperto una vasta distesa dell’oceano colloidale; a sud apparvero, perfettamente visibili malgrado i trecento chilometri di distanza, le Arrenidi, catena rocciosa a sei picchi apparentemente congelati in un involucro di neve: in realtà si trattava di depositi di origine organica testimonianti che un tempo quella formazione era stata il fondo dell’oceano.

A quel punto cambiammo rotta dirigendoci a sud-est e per un certo tempo avanzammo parallelamente alla barriera montuosa circondata dalle tipiche nuvole delle giornate di sole rosso, finché anche quella scomparve. Dal primo esperimento erano ormai trascorsi dieci giorni.

Per tutto quel tempo alla Stazione non accadde niente di speciale: l’esperimento, impostato una volta per tutte da Sartorius, veniva ripetuto in modo automatico da un dispositivo e non ero neanche certo che qualcuno ne controllasse il funzionamento. In realtà alla Stazione accadevano più cose di quante se ne potessero desiderare, ma non nei rapporti tra le persone. Temevo che Sartorius volesse riprendere a lavorare sull’annientatore di neutrini; inoltre mi chiedevo come avrebbe reagito Snaut quando l’altro gli avesse detto che in un certo senso l’avevo ingannato esagerando il pericolo derivante dall’annientamento della materia neutrinica. Ma, per motivi che sul momento non capii, non accadde niente del genere. Poiché sospettavo che mi nascondessero qualcosa e che a mia insaputa portassero avanti qualche loro segreta iniziativa, andavo ogni giorno a dare un’occhiata al locale senza finestre, subito sotto il pavimento del laboratorio principale, dove era riposto l’annientatore. Non vi trovai mai nessuno e lo strato di polvere che copriva l’armatura e i cavi dell’apparecchio dimostrava chiaramente che niente vi era stato toccato da parecchie settimane.

In quel periodo Snaut fu altrettanto invisibile di Sartorius e molto più inafferrabile di lui, visto che ormai il videotelefono della stazione radio non rispondeva alle chiamate. Gli spostamenti della Stazione dovevano certo essere diretti da qualcuno, ma non sapevo da chi e, per strano che possa parere, la cosa non mi interessava. Anche la mancanza di reazioni da parte dell’oceano mi lasciava indifferente, tanto che in capo a due o tre giorni avevo smesso sia di aspettarle che di temerle, dimenticandomi addirittura dell’esperimento. Passavo intere giornate in biblioteca oppure nella cabina, in compagnia di Harey che mi si aggirava intorno come un’ombra. Mi rendevo conto che tra noi le cose non andavano bene e che quel mio stato di apatia, quel mio rifiuto ad affrontare il problema non poteva protrarsi all’infinito. Avrei dovuto mettervi fine e fare qualcosa per migliorare i nostri rapporti, ma ero incapace di prendere una decisione e l’idea di alterare lo stato esistente mi faceva paura. Non so come spiegarlo, ma avevo l’impressione che nella Stazione tutto, e in particolare la situazione tra me e Harey, si trovasse in uno stato di equilibrio instabile e che la minima mossa potesse far precipitare le cose. Perché? Non saprei dirlo, ma la cosa più strana era che, in una certa misura, anche lei avvertiva qualcosa del genere. Ripensandoci adesso mi sembra che quella sensazione di incertezza, di sospensione, di catastrofe incombente fosse dovuta a una presenza, altrimenti inavvertibile, impossessatasi di tutti i livelli e di tutti i locali della Stazione. L’unico altro modo di percepirla erano i sogni. Non avendo mai avuto prima di allora (come peraltro non ne ebbi in seguito) visioni del genere, decisi di annotarne il contenuto ed è solo grazie a ciò che oggi posso descriverle in modo più o meno approssimativo; ma si tratta di frammenti incompleti e scevri della loro sconvolgente sovrabbondanza. In circostanze praticamente inesprimibili, in spazi privi di cielo, di terra, di pavimenti, soffitti e pareti, mi trovavo rattrappito o, forse, imprigionato in una sostanza estranea, quasi che il mio corpo fosse interamente rivestito di una massa inerte e informe, o come se quella massa fosse il mio stesso corpo. Ero circondato da macchie rosate, a prima vista indefinite e sospese in un elemento dalle proprietà ottiche diverse dall’aria, cosicché soltanto da molto vicino le cose diventavano nette, anzi di una nettezza esorbitante e sovrannaturale: ciò che mi circondava in quei sogni superava infatti, per evidenza e concretezza, le impressioni della veglia. Svegliandomi provavo la paradossale impressione che la vera realtà fosse quella lì, e che quanto vedevo dopo il risveglio non ne fosse che l’ombra sfocata.

Tale dunque era l’immagine iniziale, il punto di partenza da cui prendeva a snodarsi il sogno. Tutt’intorno qualcosa sembrava attendere un mio consenso, il mio accordo, un mio cenno interiore; sapevo, o meglio qualcosa dentro di me sapeva che non dovevo cedere all’incomprensibile tentazione e che quanto più avessi concesso tacendo, tanto più spaventosa sarebbe stata la fine. Non che me ne rendessi conto chiaramente: se così fosse stato avrei avuto paura, e invece non ne provavo affatto. Stavo lì e aspettavo. Dalla rosea nebbia che mi attorniava spuntava il primo tocco e io, inerte come un ciocco, sprofondato nella materia che sembrava imprigionarmi, non potevo né tirarmi indietro né muovermi, mentre la cosa palpava la mia prigione con dita cieche e insieme vedenti, e quella cosa era la mano che mi creava. Fino allora privo di vista, adesso vedevo: sotto le dita che mi tastavano la faccia emergevano dal nulla le mie labbra e le mie guance e, via via che quel tocco infinitesimale si estendeva, mi ritrovavo un volto e un torso animato di respiro, chiamati in vita da quel simmetrico atto creativo: simmetrico, sì, poiché io, creato, ero a mia volta creatore e facevo apparire una faccia ancora mai vista, estranea e insieme conosciuta. Mi sforzavo di guardarla negli occhi, ma le proporzioni alterate e l’impossibilità di dirigere lo sguardo in una qualsiasi direzione me lo impedivano, di modo che in un assorto religioso silenzio io e lei ci scoprivamo e insieme divenivamo. Ero già il me stesso vivente, ma potenziato al di là di ogni limite, mentre l’altro essere – una donna? – mi restava accanto immoto. Pervasi dalla stessa pulsazione, eravamo una cosa sola finché, all’improvviso, nel ralenti di questa scena oltre la quale niente esisteva né pareva poter esistere, si insinuava qualcosa di indicibilmente crudele, di impossibile e di contronatura. Quello stesso tocco che ci aveva creati, aderendo ai nostri corpi come un invisibile manto dorato, diventava un formicolare di dita.

I nostri corpi, nudi e bianchi, cominciavano a liquefarsi in un nero brulichio di vermi che uscivano fuori di noi come l’aria: ero – eravamo – una luccicante massa verminosa agitata da un febbrile aggrovigliarsi e snodarsi interminabile, infinito e in quell’infinità… anzi no: quell’infinità ero io, io che urlavo silenziosamente invocando l’estinzione e la fine. Simultaneamente mi sparpagliavo in tutte le direzioni e mi gonfiavo di un dolore più intenso di qualsiasi sofferenza provata in stato di veglia, una sofferenza centuplicata, ora addensata in nere e rosse lontananze, ora coagulata in roccia, ora picco di dolore sotto i raggi di un altro sole o di un altro mondo.

Tra tutti i sogni quello era il più semplice: gli altri non saprei descriverli perché il terrore che li pervadeva non trovava una adeguata corrispondenza nello stato di veglia. In quei sogni ignoravo l’esistenza di Harey, né vi ritrovavo ricordi o esperienze del giorno precedente.

Ce n’erano altri ancora dove, sprofondato in un coagulo buio e senza vita, venivo fatto oggetto di lente e laboriose indagini, eseguite peraltro senza strumenti materiali, che mi penetravano, mi sezionavano annientandomi fino a svuotarmi; e l’ultimo stadio di quelle silenziose e distruttive crocifissioni era lo spavento, uno spavento il cui solo ricordo durante il giorno bastava ad accelerarmi i battiti del cuore.

E i giorni tutti uguali, incolori, pervasi di avversione per qualsiasi attività, scorrevano torpidi nella più totale indifferenza; solo le notti mi facevano paura, né sapevo come difendermene. Restavo sveglio accanto a Harey che non aveva bisogno di dormire, la baciavo e la coccolavo, ben sapendo che non lo facevo né per lei né per me, ma solo per timore del sonno… Benché non le avessi fatto parola di quegli incubi terrificanti, doveva avere intuito qualcosa, perché nella sua apatia avvertivo un senso di umiliazione al quale non sapevo come porre rimedio. Ho detto prima che con Snaut e Sartorius non Aeravamo più visti; Snaut tuttavia ogni tanto si faceva vivo con un biglietto o, di preferenza, con una telefonata, per chiedermi se avessi notato qualcosa di nuovo, un cambiamento o un fenomeno interpretabile come una reazione all’ormai più volte ripetuto esperimento. Rispondevo di no, girandogli a mia volta la domanda: ma dal fondo del piccolo schermo Snaut si limitava a scuotere negativamente la testa.

Il quindicesimo giorno dopo la cessazione dell’esperimento mi svegliai più presto del solito: l’incubo notturno mi aveva talmente sfinito che mi sembrò di emergere dal torpore di una profonda narcosi. La finestra non era velata dalla tenda: ai primi raggi del sole rosso che, come un fiume di fuoco, solcavano la superficie dell’oceano, vidi che l’immensa distesa, finora immota, si stava impercettibilmente offuscando. Il suo nero intenso si era improvvisamente stemperato, come velato da un sottile strato di nebbia che, per essere una nebbia, appariva un po’ troppo consistente. Qua e là si manifestavano punti di turbolenza, finché un moto di imprecisata natura pervase tutta la distesa visibile.

Il nero scomparve sotto una membrana, rosa chiaro sulle parti convesse e bruno madreperlacea in quelle concave. Queste sfumature, inizialmente alternate, che modellavano la strana cortina oceanica in lunghe striature di onde colte al volo nel loro fluttuare, si confusero insieme e l’oceano si ricoprì di bolle spumose che a larghe falde si sollevavano sia fin sotto la Stazione, sia intorno ad essa. Da ogni parte nembi schiumosi dagli orli rigonfi, completamente diversi dalle nuvole, si innalzavano con ali membranose nel cielo rossastro. Quelli che, a strie orizzontali, nascondevano il disco solare basso sull’orizzonte apparivano per contrasto neri come il carbone; altri invece, in prossimità del sole e a seconda dell’angolo con cui venivano colpiti dai suoi raggi nascenti, si accendevano di sfumature ciliegia e amaranto. Il fenomeno si protraeva come se l’oceano si stesse squamando in scaglie sanguigne, ora rivelando la nera superficie sottostante, ora coprendosi di un nuovo strato di schiuma solidificata. Alcune di quelle formazioni planavano all’insù, vicinissime alle finestre ed evitandole di pochi metri: a un certo punto una di esse sfiorò il vetro con la sua superficie apparentemente setosa, mentre gli sciami levatisi per primi nello spazio scomparivano nelle profondità del cielo come uccelli sparpagliati e i loro residui trasparenti si dissolvevano allo zenit.

La Stazione si fermò e rimase immobile circa tre ore, ma lo spettacolo non cessava. Quando finalmente il sole calò sotto l’orizzonte e l’ombra ricoprì l’oceano sottostante, interminabili file di forme allungate e tinte di rosso salivano sempre più alte nel cielo, scorrendo lievi e immote come lungo invisibili corde. E la maestosa ascensione di ali sfilacciate si protrasse finché le tenebre non l’inghiottirono.

Quella visione, impressionante nella sua mostruosa e tranquilla immensità, aveva spaventato Harey; ma, per quanto fossi un solarista, non ero stato in grado di dirle niente al riguardo: quel fenomeno mi era parso non meno nuovo e incomprensibile che a lei. Ma, su Solaris, forme e creazioni ancora non catalogate apparivano più o meno due o tre volte all’anno e, con un po’ di fortuna, anche più spesso.

La notte seguente, circa un’ora prima del sorgere del sole azzurro fummo testimoni di un altro fenomeno: l’oceano divenne fosforescente. Sulla superficie invisibile nell’oscurità, qua e là apparvero all’improvviso delle macchie di luce o meglio, di un chiarore biancastro e sbavato, dondolanti al ritmo delle onde. Confluirono e si sparpagliarono finché la spettrale luminescenza si estese fino all’orizzonte. L’intensità luminosa aumentò progressivamente per circa quindici minuti, dopo di che il fenomeno si concluse nel modo più strano: l’oceano cominciò a spegnersi. Da ovest avanzò, su un fronte di centinaia di miglia, una zona d’ombra: quando ebbe raggiunto e oltrepassato la Stazione, la parte dell’oceano ancora fosforescente apparve come un bagliore alto nell’oscurità e sempre più in fuga verso est. Giunta a toccare l’orizzonte, divenne simile a un’immensa aurora boreale e sparì di colpo. Quando,  poco dopo, sorse il sole, la vuota superficie si stendeva nuovamente calma in tutte le direzioni, solo lievemente increspata da onde che rinviavano mercuriali saette contro le finestre della Stazione. La fosforescenza dell’oceano era un fenomeno conosciuto e descritto; in una certa percentuale di casi lo si era osservato prima dell’eruzione di un simmetriade e, comunque, era considerato il tipico indizio di un’aumentata attività locale del plasma. Ma nel corso delle successive due settimane non accadde niente né all’esterno né all’interno della Stazione. Una sola volta, nel cuore della notte, udii un grido lontano che sembrava venire da tutte le parti e da nessun punto preciso: era straordinariamente alto, acuto, prolungato, simile a un piagnucolio elevato all’ennesima potenza. Uscito bruscamente da un incubo, ero rimasto per lungo tempo ad ascoltarlo domandandomi se anch’esso non facesse parte di un sogno. Il giorno prima dal laboratorio, in parte situato sopra la nostra cabina, mi erano giunti rumori soffocati, come di grossi pesi o di apparecchi spostati; e ora mi sembrava che anche quel grido venisse da sopra, pur chiedendomi come fosse possibile, visto che i due piani erano separati da un solaio insonorizzato. L’agonico lamento si protrasse per quasi mezz’ora: mi dava talmente ai nervi che, fradicio di sudore e sul punto di impazzire, stavo già per precipitarmi di sopra, quando improvvisamente cessò e di nuovo si sentì soltanto il rumore di pesanti oggetti spostati.

Due giorni dopo, mentre di sera sedevo con Harey nella piccola cucina, inaspettatamente entrò Snaut. Indossava un completo da città, di quelli che si usano sulla Terra, che lo faceva apparire mutato. Sembrava più alto e anche più vecchio. Senza quasi guardarci si avvicinò al tavolo, ci si chinò sopra e, in piedi com’era, prese a mangiare la carne fredda direttamente dalla scatoletta, accompagnandola con un pezzo di pane. La manica della giacca strusciava contro il bordo del barattolo ungendosi di grasso.

– Ti stai sporcando – dissi.

– Hm? – grugnì a bocca piena. Mangiava come se non avesse toccato cibo da giorni. Si versò mezzo bicchiere di vino, lo vuotò d’un fiato, si asciugò la bocca e, tirato un sospiro, girò intorno gli occhi arrossati. Mi guardò e borbottò:

– Che fai, ti lasci crescere la barba? Ma guarda…

Harey gettava rumorosamente le stoviglie nell’acquaio. Snaut prese a dondolarsi leggermente sui talloni storcendo la faccia e succhiandosi rumorosamente i denti. Ebbi l’impressione che lo facesse apposta.

– Cos’è, non ti va più di raderti? – chiese, fissandomi con insistenza. Non risposi.

– Bada! – aggiunse dopo un momento. – Anche lui ha cominciato col non radersi.

– Va’ a dormire – mormorai.

– Non trattarmi come un cretino. Non ti andrebbe di fare due chiacchiere? Stammi a sentire, Kelvin… Può anche darsi che lui voglia il nostro bene, che desideri farci felici ma che non abbia ancora scoperto come farlo. Quello lì ci legge i desideri direttamente dal cervello, e dato che solo il due per cento dei nostri processi nervosi è cosciente, ci conosce meglio di noi stessi. Per cui… secondo me, bisogna dargli retta. Accettarlo, capisci? Non vuoi? Ma perché… – la voce gli si incrinò in un piagnucolio, – perché non ti radi?

– E piantala! – ringhiai. – Sei ubriaco.

– Che cosa? Ubriaco, io? Secondo te, uno che si è sbattuto ai quattro angoli della Galassia per scoprire quanto valeva, non ha il diritto di ubriacarsi? E perché, poi? Tu, Kelvin, credi nella missione dell’uomo, vero? Gibarian mi parlava di te prima di cominciare a farsi crescere la barba… Sei esattamente come ti ha descritto… Be’, se non vuoi perdere la tua fede, evita di entrare nel laboratorio… È il regno di Sartorius, il nostro Faust à rebours…. Lo sai che ora sta cercando un rimedio contro l’immortalità? Sartorius è l’ultimo cavaliere del Santo Contatto, un cavaliere a nostra misura, ovviamente. .. Niente male, la sua ultima trovata: un’agonia protratta. Buona, eh? La perpetua agonia… della paglietta… del cappello a paglietta… Ma come fai a non bere, Kelvin?

I suoi occhi, quasi invisibili tra le palpebre enfiate, si posarono su Harey, immobile contro la parete. – O bianca Afrodite generata dall’oceano, la tua mano colpita dal dio… – prese a declamare, subito strozzato da uno scoppio di risa.

– Calza quasi a pennello… eh, Kelvin? – borbottò tossendo.

Continuavo a controllarmi, ma la mia calma andava trasformandosi in una gelida rabbia.

– Smettila! – sibilai. – Smettila e vattene!

– Ma come? Mi butti fuori? Anche tu ti lasci crescere la barba e mi butti fuori? Non vuoi più che ti metta in guardia, che ti consigli come si fa tra bravi compagni interstellari? Dammi retta, Kelvin: apriamo i portelli inferiori e chiamiamolo! Può darsi che ci senta! Chissà qual è il suo nome… Ti rendi conto che abbiamo dato un nome a tutte le stelle e pianeti, e che quelli un nome magari ce l’avevano già? Che usurpazione! Dai, vieni con me. Lo chiamiamo… gli gridiamo quello che ci ha fatto… finché non si spaventa e si costruisce dei simmetriadi d’argento, e prega per noi in quella sua strana matematica, e ci ricopre di angeli insanguinati, e il suo tormento diventa il nostro tormento e la sua paura la nostra paura e, infine… ci supplica di distruggerlo perché tutto quello che lui è, tutto quello che lui fa non è altro che un’invocazione della fine. Non ridi? Scherzavo. Se la nostra razza avesse un po’ più di senso dell’umorismo, forse tutto questo non sarebbe successo. Lo sai che cosa intende fare Sartorius? Vuole punire l’oceano, vuole ridurlo a ululare per bocca di tutte le montagne che ha… Pensi che non avrà il coraggio di sottoporre il suo progetto all’approvazione dello sclerotico areopago che ci ha mandato qui a redimere colpe non nostre? Hai ragione… Si prenderà paura… ma solo per via della paglietta. Della paglietta non dirà una parola a nessuno: il nostro Faust non è così coraggioso…

Tacqui. Snaut vacillava sempre di più sulle gambe. Le lacrime gli scorrevano sul viso colando sul vestito.

– Chi è il responsabile di tutto questo? Chi ci ha ridotti in questo stato? Gibarian? Giese? Einstein? Platone? Criminali dal primo all’ultimo. Ti rendi conto che un uomo dentro a un razzo può esplodere come una bolla, coagularsi, ridursi in poltiglia, farsi uscire tutto il sangue che ha in corpo prima di poter dire «amen», dopo di che non resta che una manciata di ossicini tintinnanti contro le pareti, che continuano a girare nelle orbite di Newton rivedute e corrette da Einstein… queste nostre raganelle del progresso? E noi subito dietro, subito a seguire la via della gloria… Guardaci, adesso, in queste celle, su questi piatti infrangibili, tra schiere di lavandini immortali, di armadi fedeli e di devoti gabinetti: eccola qua, Kelvin, la nostra missione. Se non fossi ubriaco non lo direi, ma prima o poi qualcuno dovrebbe dirlo. O no? Te ne stai qui come un bimbo in mezzo a un mattatoio, e ti lasci crescere la barba… Ma di chi è la colpa? Prova a risponderti da solo…

Si girò lentamente e uscì; sulla soglia si afferrò allo stipite della porta per non cadere. Dal corridoio ci tornò indietro l’eco dei suoi passi. Cercai di evitare lo sguardo di Harey, ma all’improvviso i nostri occhi si incontrarono. Avrei voluto avvicinarmi, prenderla tra le braccia, carezzarle i capelli, ma non potevo. Non potevo.

 

Vittoria

Le successive tre settimane furono un seguito di giornate tutte uguali: le serrande delle finestre s’abbassavano e si sollevavano, la notte mi trascinavo da un incubo all’altro, la mattina ci alzavamo e ricominciavamo a recitare: ma era davvero una recita? Simulavo la calma, e così pure Harey: quella tacita intesa, la consapevolezza del reciproco inganno erano diventati la nostra ultima spiaggia. Parlavamo continuamente di come avremmo vissuto sulla Terra, di come ci saremmo stabiliti nei dintorni di una grande città senza più abbandonare il cielo azzurro e gli alberi verdi; immaginavamo insieme l’interno della nostra futura casa e del giardino, arrivando addirittura a litigare per certi particolari come una siepe o una panchina… Ci avevo mai davvero creduto, sia pure per un solo istante? No. Sapevo che era impossibile. Lo sapevo. Anche se Harey avesse potuto lasciare la Stazione e sopravvivere, la Terra accoglieva soltanto gli esseri umani, e gli esseri umani erano i loro documenti. Al primo controllo, la fuga sarebbe finita. Nel tentativo di identificarla avrebbero cominciato con il dividerci, e questo l’avrebbe immediatamente tradita. La Stazione era l’unico posto dove potessimo vivere insieme. Ma lei se ne rendeva conto? Senza dubbio. Glielo aveva detto qualcuno? Alla luce di quello che accadde, direi proprio di sì.

Una notte, attraverso il sonno, la sentii alzarsi silenziosamente. Feci per trattenerla: ormai solo nel silenzio e nell’oscurità potevamo godere di un attimo di libertà, in un oblio che la disperazione da cui eravamo assediati riduceva a una fugace sospensione della tortura. Non doveva essersi accorta che mi ero svegliato. Prima che facessi in tempo ad allungare la mano era già scesa dal letto. Sempre nel dormiveglia udii uno scalpiccio di piedi nudi sul pavimento. Fui pervaso da un oscuro timore.

– Harey? – sussurrai. Volevo gridare, ma non osai. Mi sedetti sul letto. La porta del corridoio era socchiusa, una sottile lama di luce tagliava di sbieco la cabina. Mi parve di udire delle voci soffocate. Stava parlando con qualcuno? Con chi?

Saltai giù, ma ero in preda a un tale terrore che le gambe si rifiutarono di obbedirmi. Rimasi un attimo in ascolto: tutto taceva. Lentamente mi lasciai ricadere sul letto. Il sangue mi martellava le tempie. Cominciai a contare. Ero arrivato a mille quando la porta s’aprì senza rumore. Harey entrò e ristette immobile, come in ascolto del mio respiro. Cercai di renderlo regolare.

– Chris…? – sussurrò pianissimo.

Non risposi. Si infilò velocemente nel letto. La sentivo giacere dritta e le rimasi accanto, inerte, non so per quanto tempo. Formulavo mentalmente delle domande, ma più il tempo passava e più mi rendevo conto che non avrei parlato per primo. Dopo qualche tempo, forse un’ora, mi addormentai.

La mattina fu come tutte le altre. Osservavo Harey di soppiatto solo quando non poteva accorgersene. Dopo pranzo ci sedemmo l’uno accanto all’altra di fronte alla finestra convessa oltre la quale scorrevano basse nuvole rossastre. La Stazione ci navigava in mezzo come una nave. Harey leggeva un libro mentre io mi abbandonavo a uno di quegli stati di fissità che ormai erano il mio unico sollievo. Notai che inclinando la testa in un certo modo potevo scorgere le nostre due sagome, in trasparenza ma chiare, riflesse nel vetro. Tolsi la mano dal bracciolo. Harey – la vedevo nel vetro – assicuratasi con una rapida occhiata che stessi fissando l’oceano, si chinò sul bracciolo e sfiorò con le labbra il punto dove avevo posato la mano. Continuai a sedere innaturalmente rigido, mentre lei tornava a chinare la testa sul libro.

– Harey – dissi piano – dove sei andata stanotte?

– Stanotte?

– Sì.

– Avrai sognato, Chris. Non sono andata da nessuna parte.

– Non sei uscita?

– No… sarà stato un sogno.

– Può darsi – risposi. – Sarà così…

La sera, al momento di andare a letto, ricominciai a parlare del nostro viaggio e del ritorno sulla Terra.

– Chris, basta con questi discorsi – disse. – Smettila. Tanto lo sai…

– Che cosa?

– No, niente.

Dopo che ci fummo coricati, disse che aveva sete.

– Sul tavolo c’è un bicchiere di succo di frutta. Ti dispiace darmelo?

Lo vuotò per metà e me lo porse. Non mi andava.

– Mandalo giù alla mia salute – disse con un sorriso. Lo bevvi: mi parve di avvertire un lieve sapore di sale, ma lasciai correre.

– Se la Terra non ti va, parliamo d’altro. Scegli tu l’argomento – dissi quando ebbe spento la luce.

– Se io non ci fossi, ti risposeresti?

– No.

– Mai?

– Mai.

– Perché?

– Non lo so. Sono rimasto solo per dieci anni e non mi sono sposato. Lasciamo perdere questo argomento, tesoro…

La testa mi ronzava come se avessi bevuto una bottiglia di vino.

– No, no, parliamone invece. E se te lo chiedessi io?

– Di sposarmi? Ma che assurdità vai dicendo? Non ho bisogno di nessuno all’infuori di te.

Mi si chinò sopra. Il suo respiro mi sfiorava le labbra; mi abbracciò talmente stretto che l’invincibile sonnolenza che mi invadeva svanì per un attimo.

– Dillo in un altro modo.

– Ti amo.

Mi appoggiò la testa sulla spalla. Avvertii lo sbattere delle ciglia e l’umidore delle lacrime.

– Harey, che c’è?

– Niente. Niente. Niente – ripeté sempre più piano. Mi sforzavo di tenere gli occhi aperti, ma mi si chiudevano da soli. Piombai nel sonno senza accorgermene.

Mi svegliò l’alba rossa. Avevo la testa di piombo, il collo rigido come se le vertebre si fossero saldate l’una all’altra. La lingua ruvida e spessa si spostava a fatica nella bocca. «Sarà un’intossicazione da cibo» pensai, sollevando a fatica la testa. Allungai il braccio in direzione di Harey. La mia mano incontrò il freddo del lenzuolo.

Mi sollevai di scatto.

Il letto era vuoto e nella cabina non c’era nessuno. Il vetro ricurvo rifletteva una fila di dischi solari rossi. Balzai a terra. Chissà come dovevo essere buffo, barcollante come un ubriaco. Afferrandomi ai mobili raggiunsi l’armadio: il bagno era vuoto. Il corridoio, lo stesso. Nel laboratorio non c’era nessuno.

– Harey! – gridai in mezzo al corridoio, agitando le braccia come un pazzo. – Harey… – dissi ancora con voce strozzata… Ma avevo già capito.

Non ricordo con esattezza quello che accadde dopo. Credo di avere corso mezzo nudo per tutta la Stazione: ricordo solo di essere entrato perfino nella cella frigorifera e poi nel magazzino sul fondo battendo i pugni contro le porte chiuse. Probabilmente ci tornai più volte. Le scale rimbombavano, caddi, mi rialzai, ripresi a correre finché non raggiunsi la barriera trasparente oltre la quale si trovava la doppia porta blindata dell’uscita esterna. La spinsi con tutte le mie forze, urlando che era solo un sogno. A un certo momento mi parve che qualcuno accanto a me mi strattonasse, trascinandomi da qualche parte. Mi ritrovai nel piccolo laboratorio, semisdraiato su una fredda superficie metallica: ansimavo, avevo la camicia zuppa di acqua gelata, i capelli appiccicati alla testa, le narici e la lingua irritati dall’alcol. Snaut, con addosso gli eterni calzoni di tela pieni di macchie, rovistava nell’armadietto dei medicinali spostando rumorosamente vetri e strumenti.

All’improvviso me lo vidi davanti: chino su di me, mi fissava attentamente negli occhi.

– Dov’è?

– Non c’è.

– Ma, Harey…

– Harey non c’è più – disse lentamente, scandendo le parole e avvicinando la faccia alla mia come se mi avesse inferto un colpo e volesse osservarne gli effetti.

– Tornerà… – mormorai, chiudendo gli occhi. Per la prima volta la cosa non mi spaventava. Non solo non ne temevo la spettrale riapparizione, ma non capivo come avessi potuto averne tanta paura.

– Tieni, bevi questo.

Mi porse un bicchiere con un liquido caldo. Ne osservai il contenuto e glielo gettai in faccia. Si tirò indietro asciugandosi gli occhi. Quando li riaprì gli stavo davanti, sovrastandolo con la mia persona. Era così piccolo.

– Sei stato tu!

– Che vuoi dire?

– Non mentire, lo sai benissimo. Era con te che parlava ieri notte, vero? Sei stato tu a dirle di darmi un sonnifero per… Che cosa le hai fatto? Rispondi!

Si frugò la camicia sul petto. Tirò fuori una busta sgualcita. Gliela strappai di mano. Era chiusa e non recava alcuna scritta. Lacerai l’involucro. Ne scivolò fuori un foglietto piegato in quattro. Riconobbi la grande calligrafia a caratteri irregolari e vagamente infantili.

 

Caro, sono stata io a chiederglielo. Lui è buono. È stato brutto doverti raccontare tante bugie, ma non avevo altra scelta. Se vuoi fare qualcosa per me, ascoltalo e non farti del male. Sei stato meraviglioso.

 

Sotto appariva una parola cancellata. Era un «Harey», poi biffato e sostituito con una H o una K, ridotta a una macchia. La rilessi di nuovo e poi un’altra volta. Ormai ero troppo lucido per abbandonarmi a manifestazioni isteriche: non avevo più la forza di emettere un gemito, di tirare fuori la voce.

– Ma come è stato? – sussurrai infine. – Come?

– Più tardi, Kelvin. Fatti forza.

– Sono forte. Rispondi: come?

– Per annientamento.

– Ma se… l’apparecchio… – scattai mio malgrado.

– L’apparecchio di Roche non era adatto. Sartorius ne ha costruito uno nuovo, un destabilizzatore speciale. Piccolo, con un raggio d’azione di pochi metri.

– Che ne è stato di lei?

– È sparita. Un lampo di luce, un soffio… Un piccolo soffio d’aria. Tutto qui.

– A breve raggio, hai detto?

– Sì. Non avevamo abbastanza materiale per costruirne uno più grande.

Mi parve che le pareti mi crollassero addosso. Chiusi gli occhi.

– Oh, Dio… ma ritornerà… Ritornerà, vero?

– No.

– Come, no?

– No, Kelvin. Ricordi quelle schiume che salivano verso l’alto? Da allora non ritornano più.

– Mai più?

– No.

– L’hai uccisa – dissi piano.

– Sì. Tu al mio posto non l’avresti fatto?

Presi a camminare per la stanza a passo sempre più svelto. Dalla parete fino all’angolo opposto e ritorno. Nove passi in un senso, dietrofront, nove passi nell’altro.

Mi fermai davanti a Snaut.

– Ascolta. Adesso noi due stendiamo un rapporto e chiediamo che ci colleghino direttamente con il Consiglio. Si può fare. Accetteranno, dovranno accettare per forza. Il pianeta verrà escluso dalla Convenzione dei Quattro, dopo di che ogni mezzo sarà lecito. Faremo venire un generatore di antimateria. Secondo te esiste qualcosa capace di resistere all’antimateria? No, niente resiste all’antimateria! – gridai trionfalmente, accecato dalle lacrime.

– Vuoi distruggerlo? – disse. – Perché?

– Vattene. Lasciami solo!

– No.

– Snaut!

Lo fissai negli occhi. Scosse la testa negativamente.

– Che vuoi? Che vuoi da me?

Indietreggiò fino al tavolo.

– D’accordo. Scriviamo pure questo rapporto.

Mi voltai e ripresi a camminare.

– Siediti.

– E lasciami in pace.

– Ci sono due punti ben distinti da tenere presenti. Il primo riguarda i fatti. Il secondo, le nostre richieste.

– Dobbiamo parlarne proprio adesso?

– Sì, adesso.

– Non voglio. Hai capito? Non me ne importa un accidente.

– L’ultimo comunicato l’abbiamo spedito prima della morte di Gibarian, ormai più di due mesi fa. Bisognerà stabilire l’esatto succedersi delle apparizioni…

L’afferrai per un braccio:

– La vuoi piantare?

– Picchiami pure – rispose, – tanto non la smetto.

Lasciai la presa:

– Fa’ come ti pare.

– Il punto è che Sartorius farà di tutto per nascondere certi fatti. Ne sono quasi sicuro.

– Perché, tu no?

– No. Non al punto in cui siamo. Ormai non si tratta più di una faccenda personale, e lo sai anche tu… Ha dimostrato di agire in modo intelligente; di possedere una capacità di sintesi organica superiore, a livelli che noi neanche ci sogniamo; di conoscere la struttura, la microstruttura, il metabolismo dei nostri corpi…

– D’accordo… – dissi. – Perché non dici anche che ha condotto su di noi una serie… una serie… di esperimenti: una sorta di vivisezione psichica basata su conoscenze sottratte alle nostre menti, ma senza tenere conto dei nostri desideri?

– Ma Kelvin, questi non sono più fatti, e neanche deduzioni: queste sono pure ipotesi. In un certo senso, si è basato su desideri segreti nascosti nei recessi delle nostre menti. Forse aveva l’intenzione di farci un regalo…

– Un regalo! Ma per amor del cielo!

Mi misi a ridere.

– Smettila! – gridò, afferrandomi la mano. Gli strinsi le dita sempre più forte, fino a fargli scricchiolare le giunture. Impassibile, continuò a fissarmi tra le palpebre socchiuse. Lo lasciai e mi rifugiai in un angolo della stanza. Con la faccia contro la parete, dissi:

– Cercherò di controllarmi.

– Non fa niente… non importa. Allora: quali richieste vogliamo avanzare?

– Dimmelo tu. Adesso non sono in grado. Ha detto qualcosa prima di…?

– No. Niente. Se vuoi il mio parere, secondo me adesso abbiamo una chance.

– Una chance? E di che? Ah… – aggiunsi più piano, fissandolo negli occhi: avevo capito. – Il Contatto? Ancora il Contatto? Non ne abbiamo passate abbastanza, io, te e tutta questa casa di matti…? Il Contatto? Eh no, mio caro. Non ci sto.

– Ma perché? – chiese, perfettamente calmo. – Tu, d’istinto l’hai sempre trattato, e ora più che mai, come se fosse un essere umano. Tu lo odi.

– Perché, tu no? – replicai.

– Ma no, Kelvin: lui è cieco…

– Cieco? – ripetei, temendo di avere udito male.

– Sì: cieco rispetto al nostro modo di ragionare. Lui non ci vede come noi ci vediamo gli uni con gli altri. Le superfici dei volti e dei corpi che a noi permettono di riconoscere un individuo dall’altro, per lui sono come vetri trasparenti. Lui accede direttamente ai nostri cervelli.

– D’accordo. E con questo? Dove vuoi arrivare? Se è riuscito a ricreare un essere umano che esisteva soltanto nella mia memoria, con i suoi occhi, i suoi gesti, la sua voce… la sua voce…

– Continua…! Va’ avanti, ti dico!

– Sì, appunto, la sua voce… Significa che può leggerci dentro come in un libro. Capisci che voglio dire?

– Sì: che, volendo, potrebbe comunicare con noi?

– Certo. Non ti pare evidente?

– Per niente. Non è affatto detto che la ricetta operativa che ci ha carpito sia formulata in parole. In quanto registrazione impressa nella memoria, il ricordo è una struttura proteica, come la testa di uno spermatozoo, o come un ovulo. Nel nostro cervello non esistono parole e sentimenti: i nostri ricordi sono immagini redatte nel linguaggio degli acidi nucleici su cristalli asincronici a grandi molecole. Potrebbe avere preso la nostra parte più profondamente impressa, più inastata e segreta, senza necessariamente sapere quale significato abbia per noi. È un po’ come se noialtri fossimo riusciti a creare un simmetriade e l’avessimo gettato nell’oceano conoscendone l’architettura e i materiali costruttivi, ma ignorandone il perché e il significato che ha per lui…

– Potrebbe essere – dissi. – Sì, in effetti… In tal caso potrebbe anche darsi che lui non intendesse… calpestarci e schiacciarci in quel modo. È possibile. Che l’abbia fatto senza volerlo…

Mi tremavano le labbra.

– Kelvin!

– Va bene, va bene, è passata… Tu sei buono, lui è buono, sono tutti buoni. Ma a che scopo? Vuoi spiegarmi il perché? Perché l’hai fatto? Che cosa le hai detto?

– La verità.

– La verità, la verità! Ma quale?

– Sai bene quale. Dai, vieni in camera mia e scriviamo il rapporto. Vieni.

– Aspetta un minuto. Che cosa vuoi, di preciso? Non intenderai per caso restare nella Stazione…?

– Sì. Voglio restare qui.

 

Il vecchio mimoide

Seduto di fronte alla grande finestra guardavo l’oceano. Non avevo niente da fare. Il rapporto, redatto in cinque giorni, era attualmente un fascio di onde galoppanti nel vuoto da qualche parte oltre la costellazione di Orione. Raggiunta l’oscura nebulosa pulviscolare che, estesa su uno spazio di otto trilioni di miglia cubiche, assorbiva ogni segnale e ogni raggio di luce, si sarebbe imbattuto nella prima catena di trasmettitori. Da lì, da una radioboa all’altra, a balzi di miliardi di chilometri avrebbe percorso la curva di un immenso arco finché l’ultimo trasmettitore, blocco metallico fitto di strumenti di precisione, l’avesse captato e concentrato con il lungo becco dell’antenna direzionale, rilanciandolo nuovamente nello spazio verso la Terra. Poi, dopo mesi, un analogo fascio di energia trasmesso dalla Terra, con al suo seguito una scia di perturbazioni nel campo gravitazionale della Galassia, avrebbe raggiunto il fronte della nube cosmica; di lì, amplificato, sarebbe scivolato lungo la collana di boe in lenta deriva e, con immutata velocità, sarebbe filato verso i due globi di Solaris.

Sotto l’alto sole scarlatto l’oceano appariva più nero del solito. Una bruma rossiccia stemperava la linea di contatto con il cielo; la giornata, particolarmente afosa, sembrava annunciare una delle rare e violentissime tempeste che due o tre volte l’anno visitavano il pianeta. C’erano fondati motivi di credere che sia il clima, sia le tempeste, fossero controllate dal suo unico abitante.

Avevo davanti a me ancora alcuni mesi per contemplare dall’alto di quella finestra albe alternativamente color oro pallido oppure rosso spento, di tanto in tanto riflesse in qualche fluida eruzione o nell’argentea bolla di un simmetriade; per seguire il vagare dei sottili agiloidi piegati dal vento e per imbattermi in mimoidi semierosi e frananti. Un bel giorno gli schermi di tutti i videotelefoni avrebbero cominciato a lampeggiare, l’intera segnaletica elettronica, da tempo inattiva, sarebbe stata riportata in vita da un impulso spedito da centinaia di migliaia di chilometri e annunciante l’arrivo di un colosso metallico che, in mezzo a un boato di gravitatori, si sarebbe calato sopra l’oceano. Sarebbe stato l’Ulisse, il Prometeo o un altro dei grandi incrociatori a lunga percorrenza. Quando dal tetto della Stazione fossi salito lungo la scaletta mobile avrei visto, allineate sui ponti, file di massicci robot corazzati di bianco, creature immuni dal peccato originale e talmente innocenti da eseguire qualsiasi comando fino alla completa distruzione di se stessi o dell’ostacolo frappostosi sul loro cammino, se così fosse stata programmata la loro memoria. Poi, più rapida del suono, la nave sarebbe silenziosamente partita sparando sopra l’oceano una salva di profondi boati, e per un attimo i volti della gente si sarebbero illuminati all’idea di stare tornando casa.

Ma io, una casa, non ce l’avevo. La Terra? Pensavo alle sue grandi città affollate e rumorose dove mi sarei smarrito o addirittura perso, come se avessi fatto quello che volevo fare la seconda o la terza notte: gettarmi nell’oceano pesantemente ondeggiante nelle tenebre. Sarei annegato tra la gente. Sarei stato silenzioso e attento, e quindi un compagno apprezzato. Avrei avuto numerosi conoscenti, amici, donne, forse anche una sola donna. Per un certo tempo avrei dovuto fare uno sforzo per sorridere, salutare, alzarmi in piedi, eseguire le migliaia di piccoli gesti di cui si componeva la vita sulla Terra, finché non fossero divenuti automatici. Mi sarei trovato nuovi interessi e nuove occupazioni, ma senza dedicarmici anima e corpo: mai più avrei consacrato tutto me stesso a niente e a nessuno. E forse, di notte, avrei guardato il cielo, là dove l’oscurità della coltre pulviscolare velava come una tenda il bagliore dei due soli, ricordandomi di tutto, anche di ciò che pensavo in quel momento; e con un sorriso indulgente, pervaso da un briciolo di rimpianto ma anche di superiorità, avrei rievocato le follie e le speranze di allora. Quel Kelvin futuro non sarebbe stato in alcun modo inferiore al Kelvin del passato, pronto a tutto in nome dell’ambizioso progetto chiamato Contatto. E nessuno avrebbe avuto il diritto di giudicarmi.

Snaut entrò nella cabina. Gettò un’occhiata all’intorno, poi mi guardò. Mi alzai e mi avvicinai al tavolo.

– Volevi qualcosa?

– Sbaglio, o non hai niente da fare…? – chiese sbattendo le palpebre. – Avrei qualcosa da darti… sai, certi calcoli… Niente di urgente, comunque…

– Ti ringrazio – risposi con un sorriso, – ma non occorre.

– Ne sei sicuro? – chiese, guardando verso la finestra.

– Sì. Ho riflettuto a lungo e…

– Preferirei che non pensassi tanto.

– Ma se non sai neanche di che si tratta! Senti… Tu credi in Dio?

Mi lanciò una rapida occhiata.

– Che ti prende? Oggigiorno chi vuoi che ci creda… rispose, con una punta di inquietudine negli occhi.

– Non è così semplice – replicai in tono volutamente disinvolto. – Non sto parlando del Dio tradizionale delle religioni terrene. Non sono un esperto in storia delle religioni e magari non dico niente di nuovo… ma sai per caso se sia mai esistita una fede in un Dio… imperfetto?

– Imperfetto? – ripeté Snaut, sollevando le sopracciglia. – Che vuoi dire? In un certo senso gli dèi delle varie religioni sono sempre stati imperfetti, nel senso che avevano gli stessi attributi umani, anche se amplificati. Il Dio dell’Antico Testamento, per dirne uno, era violento, avido d’obbedienza e di vittime, geloso degli altri dèi… Le divinità greche con la loro litigiosità e le loro beghe familiari erano altrettanto imperfette degli uomini…

– No – l’interruppi. – Mi riferisco a un Dio la cui imperfezione non derivi dall’ingenuità degli uomini che l’hanno creato, ma rappresenti una sua fondamentale caratteristica immanente. Un Dio dall’onniscienza e dall’onnipotenza limitate, fallibile nel prevedere le conseguenze dei suoi atti, autore di fenomeni il cui corso generi spavento. Un Dio… minorato, che non si rende conto di volere più di quanto possa. Uno che ha costruito gli orologi, ma non il tempo da essi misurato. Che, in vista di certi fini, ha creato dei sistemi o dei meccanismi i quali, però, questi fini li hanno oltrepassati e traditi. Un Dio che ha creato un’eternità: ma questa eternità, da misura della sua presunta potenza si è trasformata nella misura della sua sconfinata disfatta.

– Il manicheismo, una volta… – cominciò Snaut, esitando. La diffidente riserva con la quale mi trattava in quegli ultimi tempi era svanita.

– No: quello che intendo non ha niente a che fare con il principio del bene e del male – l’interruppi all’istante. – Il mio è un Dio che esiste solo nella materia e che non riesce a liberarsene, mentre in realtà non vorrebbe altro…

– Non conosco nessuna religione del genere – disse Snaut dopo una pausa. – Una religione così non è mai stata… necessaria. Se ho ben capito, e temo di sì, stai pensando a un Dio in evoluzione, che nel tempo si sviluppi e cresca, continuando ad aumentare la sua potenza fino a rendersi conto della propria impotenza. Questo tuo Dio è una creatura entrata nella divinità come in un vicolo cieco e che, quando se ne rende conto, piomba nella disperazione. Ma, caro Kelvin, questo Dio disperato è l’uomo. Tu stai parlando dell’uomo… La tua non è solo una filosofia da strapazzo, ma anche una mistica da strapazzo.

– No – insistei. – Non si tratta dell’uomo. Può darsi che questa mia definizione provvisoria si adatti per certi aspetti anche all’uomo, ma solo perché è ancora piena di lacune. Malgrado le apparenze, l’uomo non crea i propri fini. È il tempo in cui è nato a imporglieli: lui può mettersi al loro servizio oppure ribellarvisi; ma l’oggetto della sua dedizione o della sua ribellione proviene dall’esterno. Per essere veramente libero di crearsi i propri scopi dovrebbe essere solo: ma questo è impossibile, perché un uomo che non sia stato allevato tra gli umani non può diventare un uomo. Il mio… La creatura di cui sto parlando non può esistere al plurale, capisci?

– Ah… – disse Snaut, – che scemo a non avere capito subito… – e puntò la mano verso la finestra.

– No, neanche lui. Lui, al massimo, è qualcosa che nel corso del suo sviluppo si è lasciato sfuggire la chance della divinità per essersi ripiegato troppo presto su se stesso. Quello è un anacoreta, un eremita del cosmo, non il suo Dio… Lui si ripete, Snaut, mentre quello a cui penso io non lo farebbe mai. Forse sta già nascendo in qualche anfratto della Galassia e presto, in un accesso di giovanile ardore, si metterà a spegnere certe stelle e ad accenderne altre… Ce ne accorgeremo solo tra qualche tempo…

– Se è per questo, ce ne siamo già accorti – osservò Snaut in tono acido. – Le Novae e le Supernovae… Secondo te sarebbero i ceri del suo altare?

– Se insisti a prendere tutto così alla lettera…

– E magari Solaris è la culla del tuo divino neonato aggiunse. Un sorriso sempre più ampio gli disegnò intorno agli occhi una rete di piccole rughe. – Secondo il tuo ragionamento, Solaris potrebbe essere l’esordio, il germe del Dio della disperazione… forse la sua vitalità infantile supera di gran lunga la sua intelligenza, e tutte le opere delle nostre biblioteche di Solaristica non sono che un catalogo dei suoi riflessi neonatali…

– … e noi, per un certo tempo, siamo stati i suoi giocattoli – conclusi. – Sì, potrebbe essere. Ti rendi conto di quello che hai fatto? Accidenti, hai appena creato un’ipotesi nuova di zecca sul conto di Solaris! Spiegherebbe tutto: l’impossibilità di stabilire il Contatto; la mancanza di risposte; certe sue, chiamiamole così, stravaganze nei nostri confronti… La psicologia di un bambino…

– È una paternità alla quale rinuncio volentieri – mormorò Snaut, in piedi davanti alla finestra. Per un lungo momento restammo a osservare le nere ondulazioni. Tra le brume che ad oriente velavano l’orizzonte traspariva una pallida macchia allungata.

– E come ti è venuta, questa idea di un Dio imperfetto? – chiese all’improvviso, senza staccare gli occhi dal deserto inondato di luce.

– Non lo so, ma mi è sembrata molto, molto verosimile. È l’unico Dio in cui sarei disposto a credere: un Dio non condannato a redimere niente, che non salva niente, che non serve a niente e che semplicemente è.

– Un mimoide… – osservò piano Snaut, con voce mutata.

– Come? Ah, sì: l’avevo già notato poco fa. Deve essere vecchissimo.

Fissammo l’orizzonte velato di nebbia rossastra.

– Vado a dargli un’occhiata – dissi di punto in bianco. – Finora non ho mai lasciato la Stazione e questa mi sembra la volta buona. Torno tra mezz’ora…

– Che cosa? – chiese Snaut spalancando gli occhi di colpo. – Esci in volo? Per andare dove?

– Laggiù – e indicai la macchia color carne balenante tra la nebbia. – Che male c’è? Prendo un elicottero piccolo. Che figura ci farei, come solarista, se un giorno sulla Terra dovessi confessare di non avere mai messo piede sul suolo di Solaris…

Andai all’armadio e presi a frugare tra le tute. Snaut mi osservava in silenzio.

– Non mi piace – disse infine.

– Che cosa? – chiesi, girandomi nella sua direzione con la tuta tra le mani. Ero in preda a un’eccitazione che non provavo da tempo. – Che c’è che non va? Parla chiaro! Hai paura che io… Ma è assurdo! Ti do la mia parola d’onore che non è così. Non ci ho lontanamente pensato. No, te l’assicuro… no.

– Vengo con te.

– Ti ringrazio, ma preferisco andare da solo. Sai, per me è un’esperienza completamente nuova… – dissi in fretta, infilandomi la tuta. Snaut aggiunse qualcosa ma, occupato com’ero a cercare gli accessori necessari, non feci caso alle sue parole.

Mi accompagnò all’aeroporto e mi aiutò a spingere l’apparecchio dal box fino al centro del disco di partenza. Stavo indossando lo scafandro quando, all’improvviso, mi chiese:

– Per te la parola d’onore significa ancora qualcosa?

– Santo cielo, Snaut… ricominci? Certo che sì, e te l’ho appena data. Dove sono le bombole di riserva?

Non disse altro. Abbassai la calotta trasparente e gli feci segno con la mano. Azionò l’elevatore ed emersi lentamente sul tetto della Stazione. Il motore si svegliò, ronzò lungamente, il rotore a tre pale cominciò a girare e l’apparecchio si sollevò, stranamente leggero, lasciando sotto di sé l’argenteo disco della Stazione che rimpiccoliva a vista d’occhio.

Era la prima volta che sorvolavo l’oceano da solo. Faceva un effetto completamente diverso da quando lo si contemplava da dietro le finestre. Forse c’entrava anche il fatto che mi tenevo basso, a poche decine di metri dalle onde. Solo adesso sapevo, anzi sentivo, che le lucenti creste oleose e gli avvallamenti dell’abisso non si alternavano come un flusso e riflusso marino o come una nuvola, ma come i movimenti di un animale. Sembravano le incessanti, seppur lentissime, contrazioni di una carcassa muscolosa: rovesciandosi pigramente, il dorso di ogni onda si accendeva di schiuma purpurea. Quando virai per immettermi sull’esatta rotta del mimoide che con estrema lentezza galleggiava alla deriva, il sole mi colpì dritto negli occhi, sui vetri convessi balenarono lampi sanguigni e l’oceano, cosparso di cupe fiamme, si tinse di blu inchiostro.

La virata, troppo ampia, mi aveva portato lontano sottovento, mentre il mimoide era rimasto indietro come una vasta macchia chiara il cui contorno irregolare si stagliava sull’oceano. Senza più la sfumatura rosea conferitagli dalle brume, adesso appariva giallastro come un osso raschiato; per un attimo lo persi di vista e al suo posto vidi in lontananza la Stazione, apparentemente sospesa proprio sopra l’oceano come un enorme, antiquato zeppelin. Ripetei la manovra, stavolta con maggiore attenzione: la scoscesa e barocca scultura del mimoide cominciò a crescere a vista d’occhio sulla mia rotta.

Temendo di urtare contro le alte protuberanze bulbose, ripresi quota troppo bruscamente tanto che l’elicottero perse velocità e cominciò a dondolare; ma si era trattato di un’inutile precauzione poiché le cime tondeggianti delle strane torri si erano prontamente ritratte verso il basso. Regolai il volo dell’apparecchio sulla deriva dell’isola e lentamente, un metro dopo l’altro, cominciai ad abbassarmi finché le cime erose non sovrastarono la cabina. Il mimoide non era molto grande. Da un capo all’altro misurava forse tre quarti di miglio contro una larghezza di appena qualche centinaio di metri; qua e là apparivano degli assottigliamenti, chiaro presagio di un’imminente frattura. Doveva avere fatto parte di una formazione incomparabilmente più grande: rispetto alla scala solariana non era che un’infima scheggia, un frammento vecchio di chissà quante settimane o di mesi.

Tra le nodose protuberanze allungate scoprii, a livello dell’oceano, una sorta di riva: qualche decina di metri quadrati di superficie inclinata ma quasi piatta, sulla quale diressi l’apparecchio. L’atterraggio risultò più complicato del previsto: per un pelo il rotore non urtò una parete che mi si era parata davanti all’improvviso, ma alla fine ci riuscii. Spensi il motore e sollevai la calotta. In piedi sull’alettone verificai che l’elicottero non rischiasse di scivolare nell’oceano: a una quindicina di passi da lì le onde lambivano la riva dentellata, ma l’apparecchio poggiava saldamente sui pattini divaricati. Saltai a «terra». Quella che in un primo momento avevo preso per una parete e contro la quale per poco non mi ero schiantato era un’immensa superficie ossea, sottile come una membrana e traforata come un colabrodo, eretta in verticale e percorsa da cordonature simili a piccole gallerie. Una breccia larga alcuni metri divideva in tralice la parete alta vari piani permettendo, al pari delle grandi e irregolari aperture dalle quali era costellata, di esaminare l’interno della struttura. Mi arrampicai sulla sporgenza più vicina, constatando che le mie suole erano estremamente prensili e che lo scafandro non mi intralciava affatto nei movimenti. Arrivato a circa quattro piani sopra l’oceano, affondai lo sguardo nelle profondità dello scheletrico paesaggio e finalmente potei contemplarlo in tutta la sua vastità.

La somiglianza con una arcaica città semidistrutta, sul genere di un esotico e secolare insediamento marocchino, sconvolto da un terremoto o da un altro cataclisma, era stupefacente. Distinguevo con la massima chiarezza le tortuose gole delle strade, in parte cosparse e ostruite da macerie, e il loro ripido serpeggiare verso la riva lambita dalla schiuma gelatinosa; più in alto apparivano smerlature tuttora intatte, bastioni dai contrafforti erosi e, nelle mura sporgenti e incavate, nere aperture simili a finestre sgretolate o alle feritoie di una fortezza. Tutta quella città galleggiante, fortemente inclinata su un fianco, avanzava alla deriva ruotando con estrema lentezza su se stessa: lo dimostravano l’apparente moto del sole nel firmamento e il pigro spostarsi delle ombre tra gli anfratti delle rovine: un raggio di sole, infilatosi di tanto in tanto tra di esse, veniva a colpire il mio punto di osservazione. Mi arrampicai ancora più in alto, stavolta non senza rischio, finché dalle sporgenze sospese sopra la mia testa cominciarono a scorrere rivoli di materia friabile che, ricadendo su gole e stradine, sollevarono nuvoloni di polvere. Il mimoide non è per sua natura una roccia e la sua somiglianza con il calcare svanisce non appena se ne prende in mano un frammento: è molto più leggero della pomice e le microcellule della sua struttura lo rendono estremamente poroso.

Dall’altezza alla quale adesso mi trovavo potevo percepirne il movimento: oltre ad avanzare senza meta davanti a sé, sospinto dai neri muscoli dell’oceano, si inclinava con estrema lentezza ora da una parte, ora dall’altra e a ognuna di quelle pendolari oscillazioni si accompagnava il prolungato, vischioso brusio della schiuma grigia e giallastra che colava dalla sponda emersa. Quel movimento oscillatorio era stato impresso al mimoide molto tempo prima, probabilmente alla sua nascita, ed esso l’aveva mantenuto grazie alla sua massa abnorme. Dopo che dal mio osservatorio aereo ebbi esaminato quante più cose potevo, scesi cautamente verso il basso; stranamente, solo allora mi resi conto che il mimoide non mi interessava affatto e che ero venuto lì non per fare conoscenza con lui, ma con l’oceano.

Mi sedetti sulla ruvida superficie screpolata, con l’elicottero a una ventina di passi dietro di me. Un’onda nera si abbatté pesantemente sulla riva spandendosi e perdendo colore, quindi si ritirò scorrendo verso il basso in sottili filamenti mucosi. Mi avvicinai ulteriormente all’oceano e allungai la mano verso un’onda in arrivo. Si ripeté fedelmente il fenomeno sperimentato per la prima volta dall’uomo quasi un secolo prima: l’onda esitò, si ritirò e infine mi avvolse la mano senza toccarla, in modo da mantenere una sottile intercapedine tra la superficie del guanto e l’interno della cavità, divenuto istantaneamente da fluido a quasi carnoso. Sollevai lentamente la mano: l’onda o, piuttosto, la sua esile propaggine, la seguì all’insù continuando ad inastarla in un traslucido involucro verde sporco. Mi alzai in piedi per portare la mano ancora più in alto: l’istmo gelatinoso si tese come una corda ma senza rompersi, mentre la piatta base dell’onda, come una strana creatura in paziente attesa della fine degli esperimenti, aderiva al suolo intorno a miei piedi, sempre senza sfiorarli. Si sarebbe detto che dall’oceano fosse spuntato un duttile fiore il cui calice mi avvolgeva le dita trasformandosi, senza toccarle, nel loro esatto negativo. Arretrai. Lo stelo vibrò e, come a malincuore, ricadde; elastica, titubante, malcerta, l’onda affluì, lo risucchiò e sparì oltre l’orlo della riva. Ripetei il gioco finché di nuovo, come cento anni prima, l’onda di turno si tirò indietro quasi ormai sazia di quella nuova impressione. Sapevo che per stuzzicarne nuovamente la «curiosità» avrei dovuto aspettare alcune ore. Tornai a sedermi nella posizione di prima, ma sentendomi in un certo senso mutato. Il fenomeno che avevo provocato, e che finora conoscevo solo in teoria, mi aveva come trasformato: la teoria non poteva, non riusciva a tradurre l’esperienza vissuta.

Nel germogliare, nel crescere, nel proliferare di quella creatura vivente, da tutti i suoi atti presi singolarmente o nel loro insieme, traspariva una sorta di, per così dire, cauto ma non scontroso candore percepibile ogni volta che, accanitasi a introiettare al più presto una forma inattesa, a metà strada era costretta a tirarsi indietro, come per il timore di trasgredire limiti imposti da una misteriosa legge. Quale inesprimibile contrasto tra quella vivace curiosità e l’immensità distesa ai quattro capi dell’orizzonte! Mai come ora ne avevo percepito l’immane presenza, il possente e assoluto silenzio che respirava al ritmo delle onde. Immobile, lo sguardo fisso nel vuoto, sprofondavo in zone che avrei creduto inaccessibili: pervaso da una sorta di inerzia e di crescente perdita di identità, mi immedesimavo in quel fluido, cieco colosso come se, senza il minimo sforzo, senza una parola e senza pensarci gli perdonassi ogni cosa.

Nell’ultima settimana mi ero comportato talmente bene che il lampo di diffidenza negli occhi di Snaut aveva finalmente smesso di perseguitarmi. Esternamente ero calmo ma dentro di me, senza rendermene conto, restavo in attesa di qualcosa. Di che cosa? Del suo ritorno? E come avrei potuto? Sapevo anch’io, come tutti, che eravamo creature materiali soggette alle leggi della fisiologia e della fisica, contro le quali neanche la forza dei nostri sentimenti riuniti poteva fare niente, se non odiarle. L’imperitura fede degli amanti e dei poeti nella potenza dell’amore capace di vincere la morte, quel finis vitae sed non amoris che ci perseguitava da secoli erano una bugia. Una bugia vana, e tuttavia non ridicola. Ma rassegnarsi a essere un orologio misurante lo scorrere del tempo, alternativamente rotto e riparato e nel cui meccanismo, appena messo in moto dal costruttore, cominciavano a scorrere disperazione e amore? Accettare di essere una sorta di carillon meccanico che, a regolari intervalli, scandiva un tormento reso sempre più irrisorio dal suo continuo ripetersi? Un conto era ripercorrere l’esistenza umana, cosa in fondo accettabile, e un conto ripeterla come una tiritera suonata fino alla nausea da un ubriaco che infila sempre nuove monetine nella pianola meccanica. Neanche per un attimo avevo creduto che il liquido colosso, fattosi tomba di varie centinaia di persone e con il quale da decine di anni la mia razza cercava vanamente di stabilire un sia pur tenue contatto, neanche per un attimo, ripeto, avevo creduto che quell’oceano che, ignorandomi, mi sollevava come un granello di polvere, potesse commuoversi sulla tragedia di due persone. Eppure le sue attività avevano uno scopo. A dire il vero neanche di questo ero del tutto sicuro; e tuttavia partire avrebbe significato cancellare la sia pur infinitesimale, e forse immaginaria, chance tenuta in serbo dal futuro. E, dunque, trascorrere anni tra mobili e oggetti che avevamo toccati insieme, nella stessa aria che ancora ricordava il suo respiro? E in nome di che? Della speranza che tornasse? Di speranze non ne avevo più, però c’era ancora l’attesa, l’unica cosa di lei che mi fosse rimasta. Quali compimenti, quali beffe, quali tormenti stavo ancora aspettando? Non ne avevo la minima idea, e tuttavia continuavo a credere fermamente che il tempo dei miracoli crudeli non fosse finito.

 

Zakopane, giugno 1959-giugno 1960

 

L’oceano dei neutrini pensanti
 di Francesco M. Cataluccio

 

Il senso si oscura se si considerano soltanto piccoli settori finiti dell’esistenza.

ZHUANG-ZI (369-286 a.C.)

Un grande scrittore di fantascienza che per una buffa sincronicità del destino si chiamò come il modulo lunare (LEM: Lunar Excursion Module) di una navicella spaziale: Stanisław Lem (1921-2006), fu un bambino precocemente geniale, grasso e goffo, «affascinato da ogni genere di cianfrusaglie elettro-meccaniche». Sopravvissuto alla guerra, dove si distinse nella lotta partigiana come un abile tecnico-sabotatore, si trasferì con la famiglia dalla natia Leopoli, ormai annessa all’Unione Sovietica, a Cracovia, dove studiò medicina (il padre era medico) senza mai terminarla. La vita d’ospedale non gli piaceva, mentre, fin da piccolo, era affascinato dalla fisiologia del cervello (cfr. St. Lem, Wysoki zamek, 1966; trad. it. Il castello alto, Bollati Boringhieri, Torino 2008). Il suo primo scritto giovanile infatti si intitolò Teoria della funzione del cervello (Teoria funkcji mózgu): uno scritto ricco di inquietanti intuizioni che, in seguito, definirà una «bambocciata piena di idee strampalate». Ma il cervello, come macchina potente e misteriosa, sede della coscienza e dei sogni, del linguaggio e delle emozioni, è, in un certo senso, il protagonista attorno al quale ruotano gran parte delle sue storie fantascientifiche.

Lem, che professionalmente fu un esperto di intelligenza artificiale e insegnante di Cibernetica, è stato il massimo rappresentante di una fantascienza filosofica, poco interessata agli effetti speciali. Considerava i suoi colleghi americani troppo trash e ignoranti in campo tecnologico. Con l’eccezione di Philip K. Dick, che apprezzava molto, anche se lui, per niente riconoscente, in preda a un delirio paranoico, lo denunciò all’FBI (il 2 settembre del 1974) accusandolo di essere «il capo di una congiura comunista» e provocando così la sua espulsione dall’Associazione americana degli scrittori di fantascienza, della quale era socio onorario.

Il primo racconto che pubblicò, e lo fece subito conoscere, fu L’uomo da Marte (Człowiek z Marsa, 1946) al quale seguirono i romanzi Astronauti (Astronauci, 1951), dove si immaginava il primo atterraggio umano su Venere, e La nuvola di Magellano (Obłok Magellana, 1955), sul primo viaggio oltre il Sistema solare. Come la maggior parte degli scrittori polacchi di quell’epoca, ingabbiata nella morsa dello stalinismo, Lem aderì come scrittore, più per amor del quieto vivere che per convinzione ideologica, al «realismo socialista», dovendo comunque sempre difendersi dai critici più ortodossi che lo accusavano di allontanarsi dalla concezione marxista dell’uomo del futuro. Lo faceva sostenendo che «la letteratura di fantascienza è in fondo un ramo particolare del realismo che si va formando. Seppure non è realismo nel senso stretto del termine, tuttavia senza l’intenzione degli scrittori fornisce uno specchio della propria epoca ed esprime contenuti molto reali» (St. Lem, Imperializm na Marscie (Imperialismo su Marte), in «Zycie Literackie», n. 3, 1953). A Lem premeva soprattutto poter esprimere la sua «ottimistica utopia tecnologica», una critica al passato oscurantista e al pericolo di un conflitto nucleare. Per questo, stilisticamente, quei primi racconti sono viziati da una forte preoccupazione pedagogica, che tende a interrompere la narrazione con lunghe digressioni intese a spiegare ed esaltare le conquiste della tecnica e delle scienze.

Negli anni successivi, quando la fama internazionale lo rese più sicuro della sua posizione e l’esperienza gli fece toccare con mano i disastri del socialismo realizzato, Lem, evolutosi anche stilisticamente (il grottesco divenne la sua cifra caratteristica) e intellettualmente (un deciso scetticismo filosofico prese il sopravvento sull’ottimismo tecnologico), ripudiò quei suoi primi racconti. Con il passare degli anni, e con la pratica della scrittura, Lem si accorse che la profondità dell’animo umano, come quella del Cosmo, rimangono esplorate a livelli soltanto superficiali. La scienza e la tecnologia ci fanno appena intuire le immense pieghe di un mondo che dà le vertigini e che è rappresentabile, secondo lui, solo con un certo tipo di letteratura. Come fece confessare al simpatico pilota Pirx: «I libri di fantascienza? Sì, mi piacciono, ma solo quelli scadenti, o più esattamente quelli irreali. Sul ponte della nave ho sempre qualcosa del genere sottomano… I libri buoni… li leggo solo sulla Terra… I libri buoni sono sempre anche veritieri, perfino quando raccontano vicende che non sono mai successe e che non succederanno. Sono veri in un altro senso: se parlano per esempio di cosmonautica lo fanno in modo che il lettore sperimenta il silenzio spaziale, tanto diverso da quello terrestre» (St. Lem, Opowie ci o pilocie Pirxie, 1968; trad. it. I viaggi del pilota Pirx, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 262).

Con la metà degli anni Sessanta, Lem iniziò a pensare che la fantascienza mettesse piuttosto in luce i limiti della conoscenza umana, mostrandola spesso come una «vana zavorra» per scienziati e astronauti. Un genere letterario che è una specie di pietra di paragone delle fragili capacità umane, rese ancora più fragili dalla separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica: il frutto avvelenato di una decadenza culturale che comincia, in Occidente, nel XIX secolo. Invece, per gli antichi, per gli uomini rinascimentali, per gli artefici dell’Enciclopedia, la cultura era una sola: i pittori erano scienziati; i filosofi biologi; i matematici poeti; gli architetti scrittori. La forza del sapere sta infatti nella capacità di connettere e tenere assieme tutte le conoscenze, senza divisioni disciplinari né ideologiche campagne contro la scienza in nome delle ragioni del cuore e della metafisica. Questo è il motivo per cui Lem si disse sempre molto insoddisfatto della riduzione cinematografica di Solaris (1972), che il «mistico» regista russo Andrej Tarkovskij fece del suo capolavoro, preferendogli piuttosto lo scialbo, ma più neutro, remake americano di Steven Soderbergh (2002), con George Clooney come protagonista. Tarkovskij, che aveva aggiunto all’inizio del film un poetico ritratto della bellezza della vita agreste (che venne pesantemente mutilato nell’edizione italiana, non certo per ragioni filologiche ma per rendere il film «più di fantascienza») aveva troppo forzato la storia in senso antiscientifico, come farà in seguito anche girando Stalker (1979) e Sacrificio (1986) (cfr. Fabrizio Bonin, Solaris, L’Epos, Palermo 2010).

Le avventure spaziali raccontate da Lem hanno, come ha notato Silvana Natoli (Il futuro è presente, in «il Manifesto», 25/IV/2009), la struttura classica del racconto mitologico: un’astronave, un viaggio, un pianeta alieno, un mistero da risolvere. Uscendo dal tempo normale ed entrando nel tempo mitico, si incontra l’Ignoto, l’Inconoscibile.

Questo è quello che accade anche nel capolavoro di Lem, Solaris (1961).

Il pianeta Solaris, appartenente alla costellazione dell’Alfa dell’Acquario, è da sempre per gli scienziati un oscuro mistero. Come era uso fare Borges, Lem immagina, anche con una certa ironia (indirizzata ai tromboni con tessera del Partito delle varie Accademie delle scienze del suo e degli altri paesi del blocco sovietico), che esista un’intera biblioteca di studi sul «problema Solaris» e una disciplina – la «Solaristica» – che si è scervellata per secoli nel vano tentativo di dare una spiegazione della singolare vita di questo pianeta: «un’interminabile attività di trasformazioni, una autometamorfosi ontologica». La Solaristica, fa dire con sarcasmo Lem a un certo Muntius, «era il surrogato della religione nell’era cosmica, era la Fede indossante i panni della scienza; il Contatto, scopo al quale essa tendeva, non era meno nebuloso e oscuro della Comunione dei Santi o dell’avvento del Messia».

Solaris si presenta come un immenso, sconfinato, cieco mare che fissa e interagisce con gli astronauti della base spaziale, ritraendosi davanti a qualsiasi oggetto si avvicini alla sua superficie.

Allo psicologo Chris Kelvin, inviato su Solaris per capire cosa stia succedendo («Non esistevano parole capaci di descrivere quanto accadeva su Solaris»), capita, dopo poche ore dall’atterraggio, di trovarsi di fronte Harey: la moglie morta suicida, dopo un litigio, alcuni anni prima. Ma cos’è questa nuova Harey, col vestito appiccicato addosso come una decalcomania, e cosa sono le «presenze» che infestano le cabine e i corridoi dell’astronave?

Kelvin dice agli altri suoi compagni Sartorius e Snaut, dopo aver esaminato il sangue della sua donna: «È tutto nella norma, ma si tratta di un puro simulacro, di una maschera. In un certo senso è una supercopia, una riproduzione più perfetta dell’originale. Vale a dire che, mentre nell’uomo troviamo un limite di granularità, un limite di divisibilità strutturale, qui il limite è spostato molto più avanti grazie all’uso di materiale subatomico […] il materiale costitutivo è fatto di particelle circa diecimila volte più piccole degli atomi». Solaris è quindi composto da un oceano di neutrini che creano delle inquietanti allucinazioni a uso e spavento degli astronauti dell’omonima stazione orbitante. Sartorius, che è il vero scienziato della stazione spaziale, sostiene: «I visitatori (o “creazioni F”) non sono persone e neanche copie di determinate persone, ma solo una proiezione materializzata del contenuto del nostro cervello circa una determinata persona».

L’enigma di Solaris sta tutto in questi «neutrini pensanti» che prendono le forme dei nostri incubi e desideri. Sono una sorta di ritorno del rimosso. Gli «ospiti-visitatori», pur avendo fattezze umane, si manifestano come prodotti della mente non reali e non umani e quindi sono del tutto dei manufatti extraterrestri: materializzazioni dei neutrini. Il problema è però che, come nel caso di Harey, noi conosciamo la loro storia e la loro fine, e loro sono coscienti del loro «non essere» e temono, allontanandosi dalla «fonte che li genera», di perdere realtà. Al termine del capitolo «L’ossigeno liquido», Harey tronca il dialogo angosciato sulla sua identità, dicendo: «Perché voglio che tu sappia che non sono lei» (cioè: la moglie suicida che ora vedi e carezzi). E infatti, alla fine, si ammazzerà, dopo un primo tentativo fallito, una seconda volta: volontariamente si sottoporrà al raggio annichilitore della macchina di Sartorius e verrà cancellata per sempre.

L’oceano di neutrini, che interagisce con la psiche umana, può essere spiegato solo con una visione spregiudicata delle leggi fisiche, associata a una profonda conoscenza delle dinamiche della psiche singola e collettiva. Proprio ciò che auspicava il fisico austriaco Wolfgang Ernst Pauli (1900-1958), premio Nobel nel 1945, che fu il primo, nel 1930, ad ipotizzare l’esistenza dei neutrini.

Il Neutrino è una particella elementare di massa piccolissima e priva di carica elettrica. Fu studiato anche da Enrico Fermi nel 1934, ma scoperto solo nel 1956, dai fisici Clyde L. Cowan e Frederick Reines nel corso di un esperimento eseguito al reattore a fissione di Savannah River, che mostrò reazioni indotte proprio da neutrini liberi.

Nel 1927, Pauli, che era già un brillantissimo fisico, in seguito al suicidio della madre e al fallimento del breve matrimonio con una ballerina di cabaret, cadde preda dell’alcolismo e di una profonda depressione. Nel 1931, su consiglio del padre, si rivolse al dottor Carl Gustav Jung, che inizialmente lo indirizzò a una sua allieva, Erna Rosenbaum, ma poi, affascinato dalle relazioni su quel «caso» e dai racconti dei suoi sogni, lo prese direttamente in cura, dall’ottobre 1932 all’ottobre 1934. Come hanno raccontato Silvano Tagliagambe e Angelo Malinconico (Pauli e Jung, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011), tra il padre della psicologia analitica e il fisico teorico nacque, a partire da quella occasione, un’amicizia e una reciproca collaborazione (nel 1947 Pauli si legò sentimentalmente a una giovane e brillante allieva di Jung: Marie-Louise von Franz), della quale sono testimonianza un ricco epistolario e vari scritti, dai quali si comprende quanto i due si influenzarono a vicenda. In particolare sul tema, attinente anche a Solaris, della sincronicità.

Jung, che iniziò a dedicarsi a questa questione attorno al 1925, e le dedicò, nel 1952, un lungo testo (La sincronicità come principio dei nessi acasuali, in C. G. Jung, Opere, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 1976), spiega che la sincronicità è un principio per cui un certo evento psichico trova un parallelo in qualche evento esterno non psichico, pur non esistendo tra i due fatti alcun nesso causale, ma solo un parallelismo di significato. Queste coincidenze temporali sono più frequenti di quanto immaginiamo, ma sfuggono alla nostra razionalità, che vorrebbe dare ad ogni fatto una spiegazione logica di causa-effetto.

Pauli riuscì però a traslare questo concetto apparentemente astratto, e dal sapore magico, in qualche cosa di perfettamente dimostrabile, tramite la fisica quantistica e il suo principio di esclusione. Questo principio, formulato nel 1925, sostiene che due elettroni non possono trovarsi in un medesimo stato di moto: cioè non possono condividere la stessa distanza dal nucleo, il momento angolare, l’orientamento spaziale dell’orbita e lo spin. Se al nucleo si aggiungono altri elettroni, secondo il principio di esclusione essi occuperanno stati unici e successivi, riempiendo uno dopo l’altro i vari gusci elettronici, andando a formare così altri atomi. Anche se non è connessa da alcuna forza fisica, ogni particella appartenente a uno spazio fisico si comporta in modo coordinato e sincronizzato con le altre particelle, manifestando correlazioni pur in assenza di qualsiasi forza dinamica che ne sia responsabile e le spieghi. È come se le particelle fiutassero la presenza delle altre e si comportassero di conseguenza (cfr. W. Pauli, Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006).

Questo dimostra scientificamente come nulla sia casuale ma che tutto attorno a noi sia sempre significativamente connesso, anche se da fili invisibili. E questa è l’analogia con la sincronicità di Jung: si tratta di un concetto psicologico estremamente concreto ma sprovvisto di un linguaggio fenomenico adeguato per essere spiegato, perché ha a che fare con un simbolismo sfuggente, intuibile più facilmente attraverso la grammatica della fisica. In quest’orizzonte concettuale, non solo emerge la possibilità di eliminare l’incommensurabilità tra osservatore e osservato, ma è anche possibile percepire gli elementi della realtà e le loro relazioni, insieme, contemporaneamente, in modo continuo, come manifestazioni di un globale presentarsi di coincidenze significative (cfr. W. Pauli, Fisica e conoscenza (1961), Bollati Boringhieri, Torino 2007). Jung scriveva nel 1957: «Passerà ancora molto tempo prima che la fisiologia del cervello da un lato e la psicologia dell’inconscio dall’altro possano darsi la mano. Anche se alla nostra conoscenza attuale non è concesso di trovare quei ponti che uniscono le due sponde, esiste tuttavia la sicura certezza della loro presenza. La natura non esisterebbe senza sostanza, ma non esisterebbe neppure se non fosse riflessa nella psiche» (La schizofrenia, in C. G. Jung, Opere, vol. III, Bollati Boringhieri, Torino 1971, p. 286).

Queste questioni sono rimaste ovviamente aperte, mentre, come scrive Lem, «l’uomo è andato incontro ad altri mondi e ad altre civiltà senza conoscere fino in fondo i propri anfratti, i propri vicoli ciechi, le proprie voragini e le proprie nere porte sbarrate». L’astronauta-psicologo Kelvin, nel finale del romanzo, si trova alle prese con i risultati del suo encefalogramma che, come uno specchio (continuamente nel romanzo si fa riferimento alla metafora degli specchi), riflette meccanicamente le sue pulsioni inconsce. Egli comprende di trovarsi in una situazione totalmente al di fuori della morale («Come facevo a essere responsabile del mio inconscio?»), e sospetta che una parte di lui voglia la sparizione della moglie perché terrorizzata dal fatto che, nonostante il suicidio, essa torni in vita: «Quel fluido gigante nero […] mi era entrato dentro a mia insaputa per sondare da cima a fondo la mia memoria e scoprirne l’atomo più doloroso».

Di fronte a queste imbarazzanti e dolorose situazioni, generate dal ritorno in apparente vita di coloro che erano ormai considerati ricordi e fantasmi, più volte, sia Kelvin che gli altri astronauti a contatto con Solaris, sostengono che «l’alternativa della pazzia appariva effettivamente una liberazione».

Il problema di fondo che Lem ha messo in luce in Solaris, ma anche in molti degli altri suoi libri, sta in una serie di domande che Oreste del Buono ha ben evidenziato, recensendo Il congresso di futurologia (Kongres futurologiczny, 1973; trad. it. Editori Riuniti, Roma 1981, e poi Marcos y Marcos 2003): «L’intelligenza è in grado di apprendere una realtà ignota che richiede un cambiamento, una revisione dei metodi di conoscenza già stabiliti? Si può immaginare una coscienza diversa dalla coscienza dell’uomo? L’evoluzione biologica conduce sempre nella stessa direzione oppure è capace di creare un altro tipo di sapienza? L’uomo ha la forza di superare se stesso nella fantasia, di inventare una nuova realtà che non assomiglia a quella che è propria?» (Lem: la truffa del futuro è il finto benessere, in «La Stampa», 23/I/1982).

 

Solaris (che inizialmente doveva intitolarsi Kosmiczna misja, Missione cosmica) fu pubblicato nel 1961, a Varsavia, dalla casa editrice del Ministero della Difesa (MON). Il romanzo fu conosciuto nel mondo grazie all’edizione inglese del 1971, a cura di Joanna Kilmartin e Steve Cox, che però lo tradussero dal francese (nella versione di Jean Michel Jasienski) e tagliarono arbitrariamente le parti che sembravano loro appesantire la trama del racconto.

La prima edizione italiana, uscita presso l’Editrice Nord, nel 1973, a cura di Eva Bolzoni, fu tradotta dall’inglese e si portò quindi con sé anche tutte le mutilazioni. Nulla cambiò con le successive edizioni, a partire dal 1982, di Mondadori, che mantenne la traduzione dall’inglese e i tagli, aggiungendo però un’interessante e còlta, anche se un po’ esoterica, postfazione di Gianfranco de Turris (Solaris o dell’«irrazionale») e, a partire dal 2007, dopo la morte dell’autore, anche una bio-bibliografia iniziale.

La presente edizione, basata sull’edizione polacca, che fa parte delle Opere complete di Stanisław Lem, curate da Jerzy Jarzębski, pubblicate dal Wydawnictwo Literackie di Cracovia, è la prima tradotta dall’originale polacco e in forma integrale: permetterà di leggere questo libro non come un «romanzetto di fantascienza», ma come una delle opere più belle, intelligenti e inquietanti della letteratura del Novecento.

FRANCESCO M. CATALUCCIO