STRONZATE
Harry G. Frankfurt
Nota
Di Michele Magno
Secondo il filosofo americano, Harry G. Frankfurt, “le stronzate sono un nemico della verità più pericoloso delle menzogne”. Il corsivo di Michele Magno
Tra le vittime del coronavirus bisogna ormai registrare anche il senso del ridicolo. È bastata una frase idiota di Marco Travaglio (“Draghi è un figlio di papà, e non capisce un cazzo”) per suscitare un pandemonio. Di fronte a quanti contestavano un eloquio non proprio aulico, sono scesi in campo perfino prestigiosi intellettuali per difendere la libertà di parola del direttore del Fatto Quotidiano. Ma di cosa stiamo parlando? Nessuno nega a nessuno il diritto di dire “stronzate”.
Proprio così si intitola un irriverente saggio (in originale On Bullshit) di un filosofo americano, Harry G. Frankfurt. Pubblicato per la prima volta nel 1986, è stato tradotto quindici anni fa dall’editore Rizzoli. Oggi andrebbe letto e riletto. “Uno dei tratti più salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione”, avverte nell’incipit il professore emerito dell’Università di Princeton. Come dargli torto? Sono giorni in cui slogan insulsi, vuote scemenze, affermazioni che denunciano una disperante ignoranza vengono pronunciate impunemente. Se non ne hanno il monopolio, certi giornalisti le brevettano ad un ritmo impressionante.
Frankfurt si è preso la briga di indagare la natura del fenomeno. Egli sostiene che “le stronzate sono un nemico della verità più pericoloso delle menzogne”. Il “bullshitter” — noi diremmo il cazzaro — è infatti più temibile del mentitore. Come ha insegnato sant’Agostino, al mentitore in qualche misura interessa sapere la verità, perché per mentire deve conoscerla. Si deve cioè confrontare con la verità per poter costruire una menzogna. Se quindi il bugiardo “onora” ancora la verità e si muove nel suo orizzonte, invece chi dice stronzate la scavalca e si preoccupa solo di negarla. Un interlocutore ben informato su come stanno le cose, quindi, può sempre contrastarlo. Al contrario, il contaballe risulta più difficile da contraddire, in quanto si disinteressa completamente di ciò che è vero e di ciò che è falso. Spara le sue stronzate e, anzitutto nei talk show e sui social network, condivide e diffonde quelle altrui per avvelenare i pozzi del discorso razionale. Descrivendo nei “Promessi sposi” la peste seicentesca di Milano, Alessandro Manzoni conclude con una splendida e giustamente celebre frase: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Dubito, però, che possa valere nel tempo presente. Perché, quando le stronzate diventano senso comune, il buon senso è costretto all’esilio.
STRONZATE
Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo. Tendiamo però a dare per scontata questa situazione. Gran parte delle persone confidano nella propria capacità di riconoscere le stronzate e di evitare di farsi fregare. Così il fenomeno non ha attirato molto interesse, né ha suscitato indagini approfondite.
Di conseguenza, non abbiamo una chiara consapevolezza di cosa sono le stronzate, del perché ce ne siano così tante in giro, o di quale funzione svolgano. E ci manca una valutazione coscienziosamente sviluppata del loro significato per noi. In altre parole, non abbiamo una teoria. Mi propongo dunque di iniziare lo sviluppo di una conoscenza teoretica delle stronzate, offrendo in primo luogo un'analisi filosofica provvisoria ed esplorativa. Non considererò gli usi e abusi retorici delle stronzate. Il mio scopo è semplicemente offrire un sommario resoconto di ciò che sono le stronzate e della loro differenza rispetto a ciò che non lo è – ovvero (per usare altre parole) di articolare, per sommi capi, la struttura del loro concetto. Ogni proposta riguardo alle condizioni necessarie e sufficienti per la costituzione delle stronzate è destinata a essere in qualche misura arbitraria. Intanto, la parola stronzate è spesso usata con molta libertà – come generica esclamazione insultante, senza uno specifico significato letterale. Inoltre, il fenomeno in sé è così vasto e amorfo che qualunque analisi precisa del suo concetto non può fare a meno di diventare una sorta di letto di Procuste. Nondimeno, dovrebbe essere possibile dire qualcosa di utile, anche se probabilmente non sarà nulla di decisivo. Dopo tutto, perfino le domande più elementari e preliminari sulle stronzate non solo restano senza risposta, ma non vengono nemmeno formulate. A quanto ne so, il lavoro svolto sull'argomento è ben poco. Non ho compiuto una rassegna sistematica della letteratura, anche perché non saprei bene da che parte cominciare. Certo, c'è un posto del tutto ovvio dove guardare: l'Oxford English Dictionary. Il maggiore vocabolario della lingua inglese accoglie il lemma bullshit [stronzate] nei volumi aggiuntivi, é inoltre dà conto di svariati usi pertinenti della parola bull [nel senso specifico di «balle»] e di altri termini correlati. Più avanti prenderò in considerazione alcune di queste voci. Non ho consultato dizionari di lingue diverse dall'inglese, perché non conosco gli equivalenti di bullshit e di bull in nessun'altra lingua. Un'altra utile fonte è il saggio che dà il titolo al libro di Max Black La prevalenza delle sciocchezze. 1
Non saprei dire con certezza quanto siano vicine, per significato, le parole sciocchezze e stronzate. Naturalmente, i due termini non sono liberamente e pienamente intercambiabili; è chiaro che vengono usati in modo diverso. Ma, nel complesso, la differenza sembra dipendere più da considerazioni di opportunità e da altri parametri retorici, che dai significati strettamente letterali che mi stanno a cuore. È più educato, e meno forte, esclamare «Sciocchezze!» che non «Stronzate!». Ai fini di questa discussione, assumerò che tra i due termini non vi siano altre importanti differenze. Black propone una serie di sinonimi per sciocchezze, compresi i seguenti: stupidaggini, sproloqui, fesserie, ciance, balle, imposture e ciarlatanerie. Questa lista di deboli equivalenti non è di grande aiuto. Ma Black affronta anche il problema di stabilire più direttamente la natura delle sciocchezze, e offre la seguente definizione formale:
SCIOCCHEZZE: falsa rappresentazione ingannevole, pur senza giungere alla menzogna, soprattutto per mezzo di parole o atti pretenziosi, dei propri pensieri, sentimenti o atteggiamenti. 2
Si può plausibilmente proporre una formulazione molto simile per enunciare le caratteristiche essenziali delle stronzate. Prima di elaborare una descrizione originale di tali caratteristiche, commenterò i vari elementi della definizione di Black.
Falsa rappresentazione ingannevole. Può apparire pleonastico. Senza dubbio Black vuole sottolineare che le sciocchezze hanno necessariamente lo scopo di ingannare, che la falsa rappresentazione non è involontaria. In altre parole, è una falsa rappresentazione deliberata. Ora, se in termini di necessità concettuale, l'intenzione di ingannare è un tratto invariabile delle sciocchezze, allora l'essenza delle sciocchezze dipende almeno in parte dall'atteggiamento mentale di chi le enuncia o le fa. Non coincide, di conseguenza, con le proprietà – intrinseche o relazionali – che appartengono semplicemente all'enunciazione delle sciocchezze. Da questo punto di vista, l'essenza delle sciocchezze è simile a quella delle menzogne: un'essenza che non coincide con la falsità né con qualunque altra proprietà dell'affermazione del bugiardo, ma richiede che il bugiardo faccia la sua affermazione con un preciso atteggiamento mentale, cioè con l'intenzione di ingannare.
Un'ulteriore questione è stabilire se vi sia qualche tratto essenziale delle sciocchezze o delle menzogne che non dipenda dalle intenzioni e dai convincimenti della persona responsabile delle sciocchezze o delle menzogne, o se al contrario sia possibile che un qualunque enunciato – ammesso che colui che lo emette abbia un particolare atteggiamento mentale – sia un veicolo di sciocchezze o di menzogne. Secondo alcune definizioni, non esiste menzogna a meno che non venga prodotta un'affermazione falsa; secondo altre, una persona può mentire anche facendo un'affermazione vera, a patto che ritenga che l'affermazione sia falsa e abbia lo scopo, nel produrla, di ingannare. E per quanto riguarda le sciocchezze e le stronzate? Può un enunciato qualificarsi come sciocchezza o stronzata, ammesso che (per così dire) il cuore di chi lo formula sia nel posto giusto, oppure l'enunciato in se stesso deve avere anche alcune caratteristiche specifiche?
Pur senza giungere alla menzogna.Questa concessione ha lo scopo di indicare che le sciocchezze, pur avendo alcune delle caratteristiche distintive delle menzogne, mancano di altre. Ma il senso dell'espressione non può limitarsi a questo. In fondo, qualunque uso linguistico, senza eccezione, ha alcune delle caratteristiche della menzogna, ma non tutte: se non altro, almeno la caratteristica di essere un uso linguistico. Eppure sarebbe di certo errato sostenere che ogni uso linguistico giunga quasi alla menzogna. La frase di Black evoca la nozione di una sorta di continuum, nel quale la menzogna occupa un certo segmento mentre le sciocchezze si collocano esclusivamente in punti precedenti. Di quale continuum si potrebbe trattare, quello in cui uno incontra le sciocchezze solo prima di giungere alle menzogne? Sia le menzogne sia le sciocchezze sono modi di una falsa rappresentazione. Non appare evidente al primo sguardo, tuttavia, come si possa interpretare la differenza tra simili varietà di falsa rappresentazione come una differenza di gradi.
Soprattutto per mezzo di parole o atti pretenziosi. Qui ci sono due cose da sottolineare. La prima è che Black identifica le sciocchezze non solo come categoria del discorso ma anche come categoria dell'azione; possono essere messe in opera con parole o con atti. La seconda è che l'uso dell'avverbio soprattutto indica che Black non considera la pretenziosità una caratteristica essenziale o del tutto indispensabile delle sciocchezze. Senza dubbio, gran parte delle sciocchezze sono pretenziose. Ma tendo a credere che quando le stronzate sono pretenziose, questo accade perché la pretenziosità è la loro causa più che un elemento costitutivo della loro essenza. Il fatto che una persona si compor-ti pretenziosamente non è, a mio avviso, un requisito fondamentale per rendere il suo enunciato una stronzata. Certo, la pretenziosità è spesso ciò che spiega perché abbia fatto quell'enunciato. Tuttavia, non si deve assumere che le stronzate abbiano sempre e necessariamente la pretenziosità come causa.
Falsa rappresentazione... dei propri pensieri, sentimenti o atteggiamenti. L'assunto che il produttore di sciocchezze stia rappresentando falsamente se stesso solleva alcune questioni centrali. Tanto per cominciare, se una persona rappresenta falsamente qualcosa, sta inevitabilmente fornendo una falsa rappresentazione del proprio atteggiamento mentale. È possibile, certo, che una persona rappresenti falsamente solo quello, per esempio fingendo di nutrire un desiderio o un sentimento che in realtà non ha. Ma supponiamo che una persona, dicendo una bugia o in un altro modo, dia una falsa rappresentazione di qualcos'altro. Allora di necessità rappresenterà falsamente almeno due cose: ciò di cui sta parlando – cioè lo «stato di cose» che è l'oggetto o il referente del suo discorso – e così facendo non può evitare di fornire anche una falsa rappresentazione del suo animo. Così qualcuno che mente su quanti soldi ha in tasca, indica la cifra che ha in tasca e insieme comunica l'idea che crede a quel resoconto. Se la menzogna ha effetto, allora la vittima viene ingannata due volte: ha una falsa credenza su ciò che il bugiardo ha in tasca e un'altra falsa credenza su ciò che il bugiardo ha in mente.
Ora, è improbabile che Black voglia credere che il referente delle sciocchezze sia in ogni circostanza l'atteggiamento mentale del parlante. Non c'è nessuna particolare ragione, in fondo, perché le sciocchezze non riguardino anche altro. Black probabilmente intende indicare che le sciocchezze non hanno lo scopo primario di offrire agli interlocutori una falsa credenza riguardo allo stato di cose di cui si parla, ma che l'intenzione primaria sia piuttosto di offrire agli interlocutori una falsa impressione che riguarda ciò che avviene nella mente del parlante. Proprio perché si tratta di sciocchezze, creare tale impressione è il loro scopo e la loro ragion d'essere.
La comprensione dei vari passaggi della definizione di Black suggerisce un'ipotesi per spiegare la clausola secondo la quale le sciocchezze non giungono alla menzogna. Se io mento riguardo ai soldi che ho in tasca, in tal modo non faccio un'asserzione esplicita circa le mie credenze. Pertanto si potrebbe sostenere, con una certa plausibilità, che anche se dicendo quella menzogna di sicuro offro una falsa rappresentazione di ciò che sta nella mia mente, questa falsa rappresentazione – distinta dalla falsa rappresentazione di ciò che sta nella mia tasca – non è affatto, in senso stretto, una menzogna. Infatti non formulo alcuna dichiarazione, quale che sia, su ciò che è nella mia mente. Né la mia asserzione – per esempio, «Ho venti dollari in tasca» – implica alcuna affermazione che mi attribuisca una credenza. D'altra parte, è indiscutibile che, affermando ciò, fornisco all'interlocutore una base ragionevole per formulare alcuni giudizi su ciò che io credo. E in particolare, una base ragionevole perché chi mi ascolta supponga che io credo di avere venti dollari in tasca. Dato che la supposizione è per ipotesi falsa, nel dire quella menzogna in effetti tendo a ingannare l'interlocutore riguardo al contenuto della mia mente, anche se non dico una bugia esplicita riguardo a esso. Alla luce di questo, non sembra innaturale o inappropriato considerare che offro una falsa rappresentazione delle mie credenze «pur senza giungere alla menzogna».
È facile pensare a situazioni molto familiari in cui la definizione che offre Black delle sciocchezze risulta confermata e non problematica. Pensiamo a un politico americano che tiene un discorso per la festa dell'Indipendenza, il 4 luglio, e parla pomposamente della «nostra grande e benedetta nazione, i cui Padri Fondatori, guidati da Dio, crearono un nuovo inizio per l'umanità». Si tratta indubbiamente di sciocchezze. Come suggerisce la definizione di Black, l'oratore non sta mentendo. Mentirebbe solo se la sua intenzione fosse di diffondere tra gli ascoltatori credenze che lui stesso considera false, in materie quali la grandezza dell'America, il fatto che sia benedetta, che i Padri Fondatori fossero guidati da Dio, e che ciò che fecero fosse davvero creare un nuovo inizio per l'umanità.
Ma in realtà all'oratore non importa ciò che pensa il suo pubblico dei Padri Fondatori o del ruolo della divinità nella storia dell'America e via discorrendo. Quanto meno, la ragione del discorso non è un interesse per ciò che ciascuno pensa di simili argomenti. È chiaro che ciò che rende questo discorso per la festa del 4 luglio una serie di sciocchezze non è, essenzialmente, il fatto che l'oratore considera false le sue affermazioni. Piuttosto, come suggerisce la definizione di Black, l'oratore vuole comunicare attraverso quelle affermazioni una certa impressione di sé. Non cerca di ingannare nessuno riguardo alla storia americana. Ciò che gli importa è quello che pensa la gente di lui. Vuole che gli ascoltatori lo considerino un patriota, una persona che ha pensieri e sentimenti profondi sulle origini e sulla missione dell'America, che apprezza l'importanza della religione, che è sensibile alla grandezza della nostra storia, che è capace di combinare l'orgoglio per quella storia con l'umiltà dinnanzi a Dio e così via.
La definizione di sciocchezze fornita da Black sembra dunque combaciare perfettamente con alcuni paradigmi. Tuttavia, non credo che colga in maniera adeguata o accurata il carattere essenziale delle stronzate. È corretto affermare delle stronzate, come fa Black delle sciocchezze, sia che non giungono alla menzogna sia che chi le produce offre in qualche misura una falsa rappresentazione di sé. Ma su questi due tratti la definizione di Black appare significativamente fuori bersaglio. Tenterò dunque di sviluppare, prendendo in considerazione alcuni episodi della biografia di Ludwig Wittgenstein, un'analisi preliminare ma con una più accurata messa a fuoco delle caratteristiche centrali delle stronzate.
Una volta Wittgenstein affermò che la seguente quartina di Longfellow avrebbe potuto servirgli da motto: 3
Negli antichi tempi dell'arte
i costruttori lavoravano con la massima cura ogni parte minuscola e invisibile,
perché gli dèi sono ovunque.
Il senso di questi versi è chiaro. Nei tempi antichi, artisti e artigiani non si concedevano scorciatoie. Lavoravano con attenzione, e curavano ogni aspetto della loro opera. Prendevano in considerazione ogni parte del prodotto, e ciascuna era progettata e realizzata per essere esattamente come avrebbe dovuto. Non allentavano la loro attenta autodisciplina nemmeno riguardo ad aspetti che di norma non sarebbero stati visibili. Anche se nessuno si sarebbe mai accorto di tali imperfezioni, essi dovevano rispondere alla propria coscienza. Perciò non si nascondeva lo sporco sotto il tappeto. O, si potrebbe forse dire, non c’erano stronzate.
In effetti, sembra appropriato considerare i prodotti scadenti e realizzati con incuria come qualcosa di analogo, in qualche modo, alle stronzate. Ma in quale modo? Perché anche le stronzate sono prodotte invariabilmente con incuria o eccessiva autoindulgenza, non sono mai finemente lavorate, non vengono mai fatte con quella meticolosa cura dei particolari a cui allude Longfellow? Perché chi spara stronzate è per natura rozzo e sbadato? Perché i suoi prodotti sono di necessità malfatti o poco raffinati? La derivazione dalla parola stronzoci spinge senza dubbio in questa direzione. Gli escrementi non sono progettati o lavorati; sono semplicemente emessi, o scaricati. Possono avere una forma più o meno coerente, ma di sicuro non sono mai lavorati.
L'idea di stronzate lavorate con. cura implica, dunque, una certa tensione interna. Una meditata attenzione ai particolari richiede disciplina e obiettività. Comporta l'accettazione di standard e vincoli che impediscono di indulgere all'impulso e al capriccio. È questa necessità di mettere in secondo piano le pretese egoistiche che, associata alle stronzate, ci appare fuori luogo. Ma in realtà non è affatto impensabile. I campi della pubblicità e delle pubbliche relazioni e quello, oggi strettamente correlato, della politica sono pieni di stronzate così assolute da essere diventati ormai indiscussi paradigmi del concetto. E questi settori sono affollati di raffinatissimi professionisti che – con l'aiuto delle tecniche più evolute e sofisticate, delle ricerche di mercato, dei sondaggi d'opinione, dei test psicologici e così via – mettono ogni cura nella scelta delle parole e delle immagini giuste.
Eppure su questo punto bisogna aggiungere ancora qualcosa. Per quanto il produttore di stronzate proceda con diligenza e coscienziosità, resta vero che cerca sempre, in un modo o nell'altro, di passarla liscia. C'è di sicuro nella sua opera, come nell'opera di qualunque artigiano negligente, un certo grado di lassismo che elude o resiste alle richieste di una disciplina austera e disinteressata. E tale lassismo non può essere equiparato alla semplice trascuratezza o indifferenza ai particolari. Più avanti cercherò di definirlo più correttamente.
Wittgenstein dedicò gran parte delle sue energie filosofiche a identificare e combattere quelle che considerava forme insidiose e malefiche di «nonsenso». Questo, con ogni evidenza, si rifletteva anche nella sua vita personale. È un tratto che emerge anche da un aneddoto raccontato da Fania Pascal, che lo conobbe a Cambridge negli anni Trenta:
Mi avevano tolto le tonsille ed ero all'ospedale, abbattuta e depressa. Wittgenstein mi venne a trovare. Gracchiai: «Mi sento come un cane che è stato investito da una macchina». Lui ne fu disgustato: «Lei non sa come si sente un cane che è stato investito da una macchina». 4
Ora, chi può dire cosa accadde davvero? Sembra straordinario, quasi incredibile, che qualcuno possa seriamente ribattere in quel modo alla frase che Fania Pascal riferisce di aver pronunciato. Quella caratterizzazione delle sue sensazioni — così vicina, in totale innocenza, a frasi fatte come «sto da cani» — non e abbastanza provocatoria da suscitare una reazione vivace e intensa come il disgusto. Se la similitudine usata è rivoltante, quale uso linguistico figurato o allusivo non lo sarebbe?
Per questo, forse le cose non andarono come riferisce Fania Pascal. Forse Wittgenstein stava cercando di fare una battuta, evidentemente non riuscita. Stava fingendo di sgridare l'amica, per il gusto di una piccola iperbole; e lei fraintese il tono e l'intenzione. Pascal pensò che lui fosse disgustato dalla sua osservazione, mentre in realtà Wittgenstein voleva solo farla sorridere con una finta critica, esagerata per gioco. In quel caso, l'aneddoto non sarebbe incredibile o bizzarro.
Ma se Pascal non si accorse che Wittgenstein la stava solo stuzzicando, forse la possibilità che lui dicesse sul serio non è poi così remota. Lei lo conosceva bene, e sapeva cosa aspettarsi da lui; sapeva quali sentimenti provocavano in lei le sue parole. Il suo modo di capire o fraintendere la battuta di Wittgenstein con tutta probabilità si accordava con l'idea che Pascal si era fatta di lui. È ragionevole supporre, dunque, che anche se il suo racconto dell'episodio non si attiene strettamente alla realtà dell'intenzione di Wittgenstein, è fedele a sufficienza all'idea che si era fatta di Wittgenstein da aver avuto senso per lei. Ai fini di questa discussione, prenderò alla lettera il resoconto di Fania Pascal, ipotizzando che, davanti agli usi allusivi o figurati del linguaggio, Wittgenstein fosse in effetti irragionevole come lo fa sembrare lei.
Allora, che cosa considera rivoltante il Wittgenstein del suo racconto? Accettiamo l'idea che abbia ragione sui fatti: che cioè davvero Pascal non sappia nulla di come si sentono i cani investiti da un'automobile. Anche così, Pascal nel dire ciò che dice non sta evidentemente mentendo. Avrebbe mentito se, al momento di fare quell'affermazione, lei in realtà fosse consapevole di stare benissimo. Infatti, per quanto poco sappia della vita dei cani, sarà stato certo chiaro a Pascal che quando i cani finiscono sotto una macchina non si sentono bene. Perciò se lei si fosse sentita bene, sarebbe stata una menzogna affermare che si sentiva come un cane investito da una macchina.
Il Wittgenstein di Fania Pascal intende accusarla non di mentire, ma di rappresentare falsamente qualcosa d'altro. Lei qualifica la sua sensazione come quella di «un cane investito da una macchina». Non ha una vera conoscenza, tuttavia, della sensazione alla quale si riferisce la sua frase. Naturalmente, la frase non è affatto priva di senso per lei; non sta emettendo rumori inarticolati. Ciò che dice ha una connotazione intelligibile, che lei di sicuro capisce. Inoltre, Pascal conosce a tutti gli effetti qualcosa della qualità della sensazione alla quale la frase si riferisce: sa almeno che è una sensazione indesiderabile e sgradevole, una brutta sensazione. Il problema di quell'affermazione è che intende comunicare qualcosa in più rispetto alla semplice informazione relativa al suo malessere. Caratterizza la sua sensazione in modo troppo specifico: è eccessivamente particolare. Lei non si sente genericamente male ma, secondo quanto afferma, ha la distinta brutta sensazione che ha un cane quando viene investito da una macchina. Per il Wittgenstein della storia di Pascal, a giudicare dalla sua reazione, questa è una mera stronzata.
Ora, ammettendo che in effetti Wittgenstein consideri una stronzata il modo in cui Pascal caratterizza la sua sensazione, perché reagisce così? Lo fa, ritengo, perché percepisce che ciò che dice Pascal non ha – senza scendere troppo in profondità, per ora – alcun legame con un interesse per la verità. La sua affermazione non è attinente all'impresa di descrivere la realtà. Lei non pensa nemmeno di sapere, se non nel modo più vago possibile, come si sente un cane investito da una macchina. La descrizione delle sue sensazioni, di conseguenza, è qualcosa che sta inventando. Lo architetta di testa sua; oppure, se riprende l'idea di qualcun altro, la ripete senza pensarci e senza alcuna considerazione per come stanno davvero le cose.
È per questa superficialità che il Wittgenstein di Pascal la rimprovera. Ciò che lo disgusta è che Pascal non si preoccupi minimamente della verità della sua affermazione. È del tutto probabile, certo, che lei dica così solo nello sforzo, piuttosto goffo, di esprimersi in maniera colorita, o di sembrare vivace e di buon umore; e senza dubbio la reazione di Wittgenstein – per come la interpreta lei – è assurdamente intollerante. Ma nonostante ciò, appare chiaro di quale reazione si tratti. Reagisce come se percepisse che Pascal parla in modo irriflessivo dei propri sentimenti, senza una coscienziosa attenzione ai fatti rilevanti. La sua affermazione non è «lavorata con la massima cura». Lei la fa senza preoccuparsi affatto di mettere in conto la questione della sua accuratezza.
Il punto che disturba Wittgenstein non è, chiaramente, che Pascal abbia commesso un errore nella descrizione di come si sente. Non è nemmeno che lei abbia commesso uno sbaglio per incuria. Il suo lassismo, o la sua incuria, non sta nell'aver permesso a un errore di infilarsi nel suo discorso in virtù di un calo, sbadato o momentaneo, dell'attenzione che lei dedicava a esprimere con esattezza le cose. La questione invece è che, dal punto di vista di Wittgenstein, Pascal offre la descrizione di un certo stato di cose senza sottomettersi sul serio alle costrizioni imposte dall'impegno di fornire un'accurata rappresentazione della realtà. La sua colpa non è di non essere riuscita a esprimersi con esattezza, ma di non averci nemmeno provato.
È una cosa importante per Wittgenstein perché, in modo più o meno giustificabile, lui prende sul serio le cose che dice Pascal: le considera un'affermazione che pretende di fornire una descrizione informativa di ciò che lei prova. Nell'interpretazione di Wittgenstein, lei è impegnata in un'attività in cui la distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso è cruciale, eppure non presta nessun interesse al fatto che ciò che dice sia vero o falso. È in questo senso che l'affermazione di Pascal non ha nessun legame con un interesse per la verità: Pascal non si preoccupa del valore di verità di ciò che dice. Ecco perché non può essere considerata una bugiarda: perché non presume di sapere la verità, e pertanto non può deliberatamente diffondere una proposizione che lei presume sia falsa. La sua affermazione non si fonda né su una credenza che è vera né, come deve accadere per una menzogna, su una credenza che non è vera. È proprio questa assenza di un legame con un interesse per la verità – questa indifferenza per come stanno davvero le cose – che ritengo essenziale per la definizione di stronzate.
Adesso prenderò in considerazione (molto selettivamente) alcune voci dell' Oxford English Dictionary che possono servire a chiarire la natura delle stronzate. Nell'inglese britannico c'è un uso particolare della parola bull nel significato di «compiti di routine o cerimoniali non necessari; lungaggini burocratiche». Gli esempi forniti dall' OED riguardano la vita militare ma anche «le sfacchinate che fanno parte della vita di un deputato» (è una citazione dall' «Economist» ).
In questa accezione, il termine bull si riferisce a compiti inutili in quanto non hanno nulla a che fare con l'intento primario o con la giustificazione essenziale dell'impresa che li richiede. [È un'accezione simile a quella che assume in italiano il termine stronzate, per esempio in frasi come: «Con tutto quello che ho da fare, devo perdere tempo con queste stronzate».] Attività simili non contribuiscono, si presume, ai «veri» scopi da raggiungere, anche se sono imposti da istituzioni che sostengono di perseguire coscienziosamente tali scopi. Pertanto i «compiti di routine o cerimoniali non necessari» definiti come bull o come stronzate non hanno legami con le ragioni legittimanti dell'attività in cui si infiltrano, proprio come le stronzate infilate in un discorso non hanno alcun legame con un interesse per la verità.
In inglese, è diffuso inoltre l'impiego della parola bull come equivalente meno volgare di bullshit [così come in italiano si può dire balle al posto di stronzate]. Nella voce di bull, usato in questo senso, l'OED propone la seguente definizione: «Discorso o scritto futile, insincero o menzognero; stupidaggini». Ora, non appare un tratto distintivo delle balle né che siano carenti di significato né che siano necessariamente senza importanza; perciò le parole «stupidaggini» e «futile», anche al di là della loro vaghezza, sembrano condurre su una strada sbagliata. Concentrare l'attenzione su «insincero o menzognero» è più utile, ma bisogna farlo in maniera più incisiva.5 La voce esaminata offre anche le seguenti definizioni:
1914 Dialect Notes IV, 162 Discorso non pertinente; «aria fritta».
1932 Times Lit. Supp. 8 dic. 1933/3 Bull è la parola gergale per indicare una combinazione di bluff, vanteria, «aria fritta» [...].
«Non pertinente» è appropriato, ma allo stesso tempo ha una portata troppo ampia ed e troppo vago. Copre le digressioni innocenti e le parole superflue, che non sono sempre balle; inoltre, dicendo che le balle non sono pertinenti si resta nell'incertezza: pertinenti rispetto a cosa? Il riferimento, in entrambe le definizioni, all'«aria fritta» è più utile.
Quando caratterizziamo un discorso come «aria fritta», implichiamo che dalla bocca di chi parla esca solo vapore. Il suo discorso è vuoto, senza sostanza o contenuto. Di conseguenza, il suo uso del linguaggio non contribuisce allo scopo al quale pretende di servire. Non comunica più informazioni che se il parlante avesse semplicemente espirato. Tra parentesi, ci sono somiglianze tra l'aria (fritta) e gli escrementi, così da rendere l'aria fritta un equivalente particolarmente appropriato delle stronzate. Proprio come l'aria fritta è un discorso svuotato di qualunque contenuto informativo, così gli escrementi sono materia da cui è stato rimosso qualunque nutrimento. Gli escrementi possono essere considerati il cadavere delle sostanze nutritive, ciò che resta quando gli elementi vitali del cibo sono stati consumati. Da questo punto di vista sono una rappresentazione della morte che noi stessi produciamo e che anzi non possiamo fare a meno di produrre durante il processo stesso di mantenerci vivi. Forse troviamo disgustosi gli escrementi proprio perché ci rendono così intima la morte. In ogni caso, essi non possono servire allo scopo di alimentarci, proprio come l'aria fritta non può servire alla comunicazione.
Prendiamo in considerazione adesso questi versi dal Canto LXXIV di Pound, citati dall' OED nella voce dedicata a bullshit come verbo:
Hey Snag wots in the bibl'?
Wot are the books ov the bible?
Name 'em, don't bullshit ME
«Ehi, Snag, cosa c'è nella bibbia?
Quali sono i libri della bibbia?
Dimmeli, non raccontare stronzate a ME.»
Si tratta di un appello a mostrare i fatti. Il destinatario ha evidentemente sostenuto di conoscere la Bibbia, di averla a cuore. Chi parla sospetta che si tratti di parole vuote, e richiede che la pretesa sia sostenuta dai fatti. Non ha intenzione di accettare un semplice resoconto; vuole vedere la cosa in sé. In altre parole, sospetta il bluff, e vuole vedere le carte. La connessione tra le stronzate e il bluff è esplicitamente affermata nella definizione alla quale sono associati i versi di Pound:
[Bullshit] Come v. tr. e intr., raccontare sciocchezze (a q.no); [...] anche, cavarsela con un bluff raccontando sciocchezze.
Sembra in effetti che raccontare stronzate implichi una sorta di bluff. È un'azione di certo più vicina al bluff che alla menzogna. Ma che cosa implica, riguardo alla loro natura, il fatto che siano più simili al primo che alla seconda? Qual è, in questo caso, la differenza fondamentale tra un bluff e una menzogna?
Mentire e bluffare sono entrambi forme di una falsa rappresentazione o di un inganno. Ora, il concetto cruciale per distinguere la natura della menzogna è quello della falsità: il bugiardo è essenzialmente qualcuno che diffonde deliberatamente una falsità. Anche il bluff ha la funzione tipica di comunicare qualcosa di falso. A differenza della pura menzogna, tuttavia, è specificamente qualcosa che ha a che fare con la contraffazione più che con la falsità. Ed è questo che spiega la sua vicinanza alle stronzate. Perché l'essenza delle stronzate non sta nell'essere false, ma nell'essere finte. Per apprezzare questa distinzione, bisogna riconoscere che un oggetto contraffatto o finto non deve essere di per sé inferiore alla cosa vera (autenticità a parte). Non è necessario che ciò che non è genuino sia difettoso in qualche altro modo. Può essere, dopo tutto, una copia esatta. Ciò che non va in una contraffazione non è il suo aspetto, ma il modo in cui è stata prodotta. Questo ci indirizza a un simile tratto fondamentale dell'essenza delle stronzate: anche se vengono prodotte senza alcun interesse per la verità, non devono di per sé essere false. Chi racconta stronzate contraffà le cose. Ma questo non significa che di necessità le fraintenda.
Nel romanzo Una sporca storia di Eric Ambler, un personaggio, Arthur Abdel Simpson, ricorda i consigli che da bambino aveva ricevuto dal padre:
Anche se avevo solo sette anni quando mio padre venne ucciso, me lo ricordo bene, e anche alcune cose che diceva [...]. Uno dei suoi primi insegnamenti fu: «Mai dire una bugia quando puoi cavartela a forza di stronzate».7
Questa frase presuppone non solo che ci sia un'importante differenza tra le menzogne e le stronzate, ma che queste ultime siano preferibili alle prime. Ora, Simpson padre di certo non riteneva che raccontare stronzate fosse moralmente superiore a mentire. E probabilmente nemmeno considerava le menzogne invariabilmente meno efficaci delle stronzate nel raggiungere gli scopi per i quali entrambe possono essere impiegate. Dopo tutto, una bugia elaborata con intelligenza può fare il suo lavoro con assoluta efficacia. Può darsi che Simpson ritenesse più facile passarla liscia raccontando stronzate invece che mentendo. O forse intendeva dire che, benché il rischio di essere colti sul fatto sia all'incirca lo stesso, le conseguenze sono di solito meno gravi per chi spara stronzate che per il bugiardo. In effetti, la gente tende a essere più tollerante nei confronti delle stronzate, forse perché è incline a non considerarle come un affronto personale, come accade invece con le menzogne. Possiamo benissimo cercare di prendere le distanze dalle stronzate, ma è probabile che volteremo loro le spalle con impazienza e irritazione piuttosto che con quel senso di violazione o di insulto che sovente ispirano le menzogne. Comprendere perché il nostro atteggiamento nei riguardi delle stronzate è di solito più benevolo di quello che abbiamo verso le menzogne è un problema importante, che lascerò al lettore come esercizio.
Il confronto pertinente non è, tuttavia, tra dire una bugia e produrre una stronzata specifica. Simpson padre identifica l'alternativa a dire una bugia con «cavarsela a forza di stronzate». Questo implica non solo la produzione di stronzate singole: implica un programma di produzione di stronzate nella misura richiesta dalla circostanza. È qui, forse, la chiave della sua preferenza. Dire una bugia è un'azione con un fine preciso. Ha lo scopo di inserire una particolare falsità in un punto specifico di un insieme o di un sistema di valori, per evitare le conseguenze generate dal fatto che quel punto sia occupato dalla verità. Questo richiede un certo grado di abilità tecnica, con la quale chi dice una bugia si sottomette alle costrizioni oggettive imposte da ciò che lui stesso considera la verità. Il bugiardo non può non preoccuparsi dei valori di verità. Per inventare qualunque bugia, deve credere di sapere che cosa è vero. E per inventare una bugia efficace, deve progettare la sua falsità lasciandosi guidare da quella verità.
D'altra parte, una persona che sceglie di cavarsela a forza di stronzate ha molta più libertà. La sua prospettiva è panoramica invece che particolare. Non si limita a inserire una certa falsità in un punto specifico, e così non è costretta a obbedire alle verità che circondano o intersecano quel punto. È disposto, se necessario, a contraffare anche il contesto. Questa libertà dalle costrizioni alle quali deve sottomettersi il bugiardo non significa, ovviamente, che il suo compito sia di necessità più facile. Ma il tipo di creatività a cui si affida è meno analitico e meno premeditato di quello che viene messo in opera mentendo. È più ampio e indi-pendente, con maggiori opportunità per l'improvvisazione, le note di colore e la fantasia. È meno una questione di abilità tecnica che di arte. Di qui l'espressione inglese bullshit artist. [Anche l'equivalente italiano contaballe – vicino com'è a contastorie – ha una certa affinità con la dimensione artistica.] La mia ipotesi è che la raccomandazione del padre di Arthur Simpson rifletta il fatto che lui dovesse sentirsi attratto con maggior forza da questo tipo di creatività, a prescindere dall'efficacia e dal merito relativi, che dalle esigenze più austere e rigorose della menzogna.
Nel suo senso più profondo, la falsa rappresentazione offerta dalle stronzate non riguarda né lo stato di cose a cui si riferiscono né le credenze del parlante riguardo a quello stato di cose. Ciò è quanto rappresenta falsamente la menzogna, in virtù del fatto di essere falsa. Dato che le stronzate non devono di necessità essere false, differiscono dalla menzogna nel loro intento. Chi racconta stronzate può benissimo non ingannarci, e nemmeno volerlo fare, né riguardo ai fatti né riguardo alle sue credenze su quei fatti. La cosa su cui, di necessità, intende ingannarci è la sua attività. L'unica sua indispensabile caratteristica distintiva è che in un certo modo offre una falsa rappresentazione di ciò che sta facendo.
È questa la distinzione cruciale tra lui e il bugiardo. Entrambi si rappresentano, falsamente, come se fossero impegnati a comunicare la verità. Il successo di entrambi dipende dalla loro capacità di ingannarci su questo punto. Ma ciò che di sé il bugiardo ci nasconde è che sta cercando di allontanarci da una corretta percezione della realtà; noi non dobbiamo sapere che lui vuol farci credere qualcosa che suppone sia falso. Quello che di sé ci nasconde chi racconta stronzate, invece, è che i valori di verità delle sue asserzioni non sono al centro del suo interesse; ciò che non dobbiamo sapere è che la sua intenzione non è né di riferire la verità né di nasconderla. Questo non significa che il suo discorso sia mosso da un impulso anarchico, ma che la ragione che lo guida e lo controlla non si cura di come stanno davvero le cose di cui parla.
È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Produrre stronzate non richiede questa convinzione. Una persona che mente è in tal modo sensibile alla verità, e fino a quel punto rispettosa di essa. Quando parla una persona sincera, dirà solo ciò che crede vero; conformemente, è indispensabile che un bugiardo consideri false le sue asserzioni. Chi racconta stronzate, tuttavia, non punta su nessun tavolo: non è né dalla parte del vero né dalla parte del falso. I suoi occhi non sono rivolti ai fatti, come quelli della persona sincera e del bugiardo, se non in quanto pertinenti al suo interesse di farci accettare quello che dice. Non si preoccupa che le cose che dice descrivano correttamente la realtà. Le sceglie, o le inventa, perché si adattino ai suoi scopi.
Nel trattato La menzogna, sant'Agostino distingue otto tipi di menzogne, che classifica secondo la giustificazione o l'intento caratteristico in base ai quali la menzogna viene pronunciata. Le menzogne che appartengono a sette di questi tipi sono pronunciate perché sono ritenute mezzi indispensabili per raggiungere fini distinti dalla mera creazione di false credenze. In altre parole, non è la loro falsità in quanto tale che attrae chi le pronuncia. Poiché vengono dette solo in ragione della loro presunta indispensabilità a un fine diverso dall'inganno in sé, Agostino le considera dette contro voglia: ciò che la persona vuole davvero non è dire una menzogna ma raggiungere il suo scopo. Pertanto, nella sua visione non sono vere menzogne, e coloro che le pronunciano non sono, in senso stretto, bugiardi. È solo la restante categoria che contiene ciò che Agostino identifica come la menzogna detta «solleticati dalla voglia di mentire, cosa viziosa di per se stessa». 8
Le menzogne di questa categoria non hanno altro scopo se non propagare falsità. Vengono pronunciate per il puro gusto di farlo, vale a dire per amore dell'inganno:
C'è infatti differenza tra mentitore [mentiens, colui che mente] e impostore [mendax, il bugiardo]. È infatti mentitore anche chi mente contro voglia; impostore è invece colui che ama mentire e dentro l'animo in modo abituale si diletta della menzogna [...]. Questi [impostori] provano gusto nel mentire godendo della falsità della cosa stessa. 9
Ciò che Agostino identifica come «impostori» e menzogne dette «solleticati dalla voglia di mentire» sono in realtà fenomeni rari e straordinari. Tutti mentiamo, di tanto in tanto, ma sono pochissime le persone alle quali capita spesso (o addirittura sempre) di mentire esclusivamente per amore della falsità e dell'inganno.
Per gran parte delle persone, il fatto che un affermazione sia falsa costituisce in sé una ragione, per quanto debole e facilmente superabile, per evitare di farla. Per l’impostore assoluto di Agostino, al contrario, si tratta della ragione per fare quell’affermazione. Per chi racconta stronzate, non è in sé una ragione né a favore né contro. Sia nel mentire sia nel dire la verità, le persone sono guidate dalle loro credenze sulle cose come sono. Queste credenze le guidano sia che si sforzino di descrivere correttamente il mondo sia che lo facciano in maniera ingannevole. Per questa ragione, dire bugie non inficia la capacità di dire la verità quanto invece il raccontare stronzate. A causa di un eccessivo indulgere a quest'ultima attività, che implica il fare asserzioni senza prestare attenzione ad alcunché, tranne che a ciò che fa comodo al proprio discorso, la normale abitudine di badare a come stanno le cose può attenuarsi o perdersi. Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, allo stesso gioco. Ognuno reagisce ai fatti per come li capisce, anche se la reazione dell'uno è guidata dall'autorità della verità, mentre quella dell'altro sfida quell'autorità e si rifiuta di obbedire alle sue esigenze. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze.
Non rifiuta l'autorità della verità, come fa il bugiardo, e non si oppone ad essa. Non le presta attenzione alcuna. A causa di ciò, le stronzate sono un nemico della verità più pericoloso delle menzogne.
Chi si preoccupa di riportare o nascondere i fatti presume che esistano dei fatti in qualche modo determinati e conoscibili. Il suo interesse a dire la verità o a mentire presuppone che ci sia una differenza tra capire o fraintendere come stanno davvero le cose, e che almeno occasionalmente sia possibile cogliere la differenza. Uno che smette di credere alla possibilità di identificare alcune affermazioni come vere e altre come false ha davanti a sé solo due strade. La prima è rinunciare a qualunque tentativo sia di dire la verità sia di ingannare. Questo significherebbe vietarsi di fare qualsivoglia asserzione riguardo ai fatti. La seconda strada è continuare a produrre asserzioni che danno a intendere di descrivere le cose come stanno, ma che non possono essere altro che stronzate.
Perché ci sono tante stronzate in circolazione? Naturalmente è impossibile essere certi che ce ne siano relativamente di più oggi rispetto ad altri periodi. C'è una maggiore comunicazione, di qualunque tipo, ai nostri tempi rispetto al passato, ma può darsi che, proporzionalmente, le stronzate non siano aumentate. Senza assumere che l'incidenza delle stronzate sia attualmente maggiore, proporrò alcune considerazioni che aiuteranno a dar conto del fatto che comunque oggi-giorno ce ne sono in giro così tante.
Le stronzate sono inevitabili ogni volta che le circostanze obbligano qualcuno a parlare senza sapere di cosa sta parlando. Pertanto la produzione di stronzate è stimolata ogniqualvolta gli obblighi o le opportunità di parlare di un certo argomento eccedono le conoscenze che il parlante ha dei fatti rilevanti attorno a quell'argomento. Questa discrepanza è comune nella vita pubblica, in cui le persone sono spesso spinte — vuoi dalle proprie inclinazioni, vuoi dalle richieste altrui — a parlare in lungo e in largo di materie nelle quali sono, in grado maggiore o minore, ignoranti. Questioni strettamente correlate emergono dalla diffusa convinzione che in una democrazia ogni cittadino debba avere un'opinione su tutto, o almeno su tutto ciò che attiene alla gestione della cosa pubblica della propria nazione. L'assenza di qualunque legame significativo tra le opinioni di una persona e la sua comprensione della realtà avrà conseguenze ancora più gravi, non occorre dirlo, per uno che ritenga sia sua responsabilità, in quanto coscienzioso agente morale, valutare eventi e condizioni in qualunque angolo del mondo.
La contemporanea proliferazione delle stronzate ha anche origini più profonde in svariate forme di scetticismo, secondo le quali noi non abbiamo alcun accesso affidabile a una realtà oggettiva, e pertanto non possiamo conoscere la vera realtà delle cose. Simili dottrine «antirealistiche» minano la fiducia nel valore degli sforzi disinteressati per determinare cosa è vero e cosa e falso, e perfino nell'intelligibilità dell'idea stessa di indagine obiettiva. Le conseguenze di questa perdita di fiducia sono state l'abbandono dalla disciplina richiesta dalla fedeltà all'ideale dell'esattezza e l'adozione di una disciplina di genere del tutto diverso, imposta dal perseguimento dell'ideale alternativo della sincerità. Invece di cercare in primo luogo di giungere a rappresentazioni accurate di un mondo condiviso, l'individuo si volge al tentativo di fornire una rappresentazione sincera di se stesso. Convinto che la realtà non abbia una sua intrinseca natura, che potrebbe sperare di identificare come la verità riguardo alle cose, si dedica alla fedeltà nei confronti della propria natura. È come se decidesse che dato che non ha senso cercare di essere fedeli ai fatti, allora dovrà invece tentare di essere fedele a se stesso.
Ma è assurdo immaginare che noi siamo determinati, e pertanto suscettibili di descrizioni esatte o inesatte, e allo stesso tempo supporre che l'attribuzione di una determinatezza a qualunque altra cosa si sia rivelata un errore. Come esseri coscienti, esistiamo solo nella nostra reazione alle altre cose, e non possiamo in alcun modo conoscere noi stessi senza conoscere quelle. Per di più, non esiste nulla nella teoria, e di certo nulla nell'esperienza, a sostegno dello straordinario giudizio che la verità su se stessi sia la più semplice da conoscere. I fatti su noi stessi non sono particolarmente solidi e resistenti alla dissoluzione dello scetticismo. Le nostre nature sono, anzi, elusivamente inconsistenti - notoriamente meno stabili e meno dotate di una propria intrinseca realtà rispetto alle nature delle altre cose. E se questo è vero, la sincerità è in sé una stronzata.
HARRY G. FRANKFURT è uno dei più eminenti filosofi morali del nostro tempo. È professore emerito di filosofia all'università di Princeton. Ha pubblicato opere fondamentali su Cartesio, Leibniz e su temi quali l'amore, la necessità, la volontà. Negli USA, questo libro è stato uno straordinario fenomeno editoriale e ha raggiunto il primo posto nella classifica dei bestseller.
NOTE:
1 MAX BLACK, The Prevalence of Humbug, CornellUniversity Press, Ithaca 1985.
2 Ibid., p. 143.
3 È riportato da Norman Malcolm nella sua introduzione a R. RHEES (a cura di), Recollections of Wittgenstein, Oxford University Press, Oxford 1984, p. XIII.
4 FANIA PASCAL, Wittgenstein: A Personal Memoir, in R. RHEES (a cura di), Recollections cit., pp. 28-29
5 Si può notare che l'inclusione dell'insincerità tra le condizioni essenziali implica il fatto che le balle non si possano produrre involontariamente: non sembra possibile, infatti, essere involontariamente insinceri.
6 Ecco una parte del contesto in cui compaiono quei versi: «"Gli Albigesi, un problema storico, / e la flotta a Salamina costruita con un prestito statale agli armatori / Tempus tacendi, tempus loquendi. / Mai nel paese per migliorare il livello di vita / ma sempre all'estero a profitto degli usurai, dixit Lenin, un cannone tira l'altro escalation sul mercato d'armi mai saturo Pisa, nel XXIII anno del tentativo in vista della torre, e ieri fu impiccato Till / per omicidio, stupro con sevizie più mitologia / di Cholchis, sicredeva il montone di Zeus o altro / "Ehi, Snag..."». Ezra Pound, I Cantos, a cura di Mary de Rachewiltz, Mondadori, Milano 1985, pp. 847-849. [I tre versi citati nel testo sono stati ritradotti, perché una versione letterale è indispensabile per comprendere l'argomentazione dell'autore.]
7 Eric AMBLER, Dirty Story, The Bodley Head, London 1967, p. 25. La citazione deriva dalla stessa voce dell'OED che include i versi di Pound.
8 La menzogna, in Opere di santAgostino, VII/2, Morale e ascetismo cristiano, Città Nuova Editrice, Roma 2001, p. 387.
9 Ibid., pp. 347 e 349.