venerdì 6 agosto 2021

LA CAMERA AZZURRA simenon


LA CAMERA AZZURRA

Georges Simenon 

 Un breve romanzo avvincente in cui  i protagonisti sono la mente umana e le conseguenze delle nostre azioni. Il romanzo è  un racconto crudele perché la passione animalesca, la leggerezza e l’egoismo vengono puniti senza possibilità di riscatto. La scrittura di Simenon è ammaliante, coinvolgente e cruda. Impossibile non porsi le stesse domande di Tony, impossibile non riuscire a visualizzare l’aspetto, l’odore e la luce di quella camera azzurra. 

«Sei così bello» gli aveva detto un giorno Andrée «che mi piacerebbe fare l’amore con te davanti a tutti, in mezzo alla piazza della stazione...». Quella volta Tony aveva accennato un sorriso da maschio crudele

 Tony e Andreè vivono una passione extraconiugale, “gli amanti sfrenati” come verranno soprannominati dai cronisti, finchè la loro scappatella non  finisce in tragedia.

La vicenda si svolge a Saint-Justin-du-Loup, un paesino della provincia francese, teatro di una vicenda di adulterio e delitti. Tutto comincia nella stanza di un hotel: due amanti si riposano dopo essersi abbandonati alla passione. 

Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma.
Era felice? Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto di sì senza esitare. Non gli passava neanche per la testa di avercela con Andrée perché gli aveva morso il labbro. Faceva parte dell’insieme come tutto il resto.

Protagonista la passione appena consumatasi. Tony si sente così in pace con il mondo che non riesce a prestare attenzione alle sue parole.

Le parole contavano poco. Parlavano così, per il puro piacere di parlare, come succede dopo l’amore, quando il corpo è ancora eccitato e la testa un po’ vuota.

Ma per Andrèe quelle frasi saranno fondamentali. Tony farà rasentare l’ossessione al lettore. Le stesse frasi, le stesse scene e soprattutto le stesse domande ripetute all’inverosimile.

«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?». Registrava automaticamente le parole di Andrée senza prestarvi una particolare attenzione. Non più di quanto facesse con con le immagini e gli odori. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d’animo diverso, da un punto di vista diverso…
Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri lo avrebbero costretto a farlo.

 

1

«Ti ho fatto male?».

«No».

«Ce l’hai con me?».

«No».

Era vero. In quel momento tutto era vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire. E non solo tutto era vero, ma era anche reale: lui, la camera, Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma.

Era felice? Se glielo avessero chiesto, avrebbe risposto di sì senza esitare. Non gli passava neanche per la testa di avercela con Andrée perché gli aveva morso il labbro. Faceva parte dell’insieme, come tutto il resto.

In piedi, anche lui nudo, davanti allo specchio sul lavandino, si tamponava la bocca con un asciugamano imbevuto d’acqua fredda.

«Tua moglie ti chiederà spiegazioni?».

«Non credo».

«Ma a volte qualche domanda te la fa, no?».

Le parole contavano poco. Parlavano così, per il puro piacere di parlare, come succede dopo l’amore, quando il corpo è ancora eccitato e la testa un po’ vuota.

«Hai una bella schiena».

L’asciugamano era punteggiato di macchie rossastre. In strada un camion vuoto sobbalzava sul selciato. Dai tavolini del bar dell’albergo giungeva un vocio confuso, a tratti si riuscivano a distinguere alcune parole, ma slegate l’una dall’altra, cosicché il senso della frase risultava incomprensibile.

«Mi ami, Tony?».

«Penso di sì...».

Scherzava, ma senza sorridere, per via del labbro inferiore che continuava a tamponare con l’asciugamano inumidito.

«Non ne sei sicuro?».

Si girò a guardarla e gli fece piacere vedere quel seme, il suo seme, così intimamente mischiato al corpo di lei.

La camera era azzurra, di un azzurro – aveva notato un giorno – simile a quello della liscivia. Un azzurro che lo riportava all’infanzia, ai sacchetti di tela grezza pieni di polvere colorata che sua madre diluiva nella tinozza del bucato prima di risciacquare la biancheria e stenderla sull’erba scintillante del prato. A quel tempo lui doveva avere cinque o sei anni, e si chiedeva come mai una polverina azzurra potesse ridare il bianco ai tessuti. Gli sembrava un miracolo.

In seguito, quando la madre era morta da un pezzo e ormai i tratti di quel viso familiare cominciavano a svanire dalla sua memoria, si era anche chiesto perché la povera gente come loro, nonostante gli abiti rattoppati, attribuisse tanta importanza al candore della biancheria.

Era a questo che stava pensando in quel momento? L’avrebbe capito soltanto dopo. L’azzurro della camera non somigliava solo al colore della liscivia, ricordava anche il cielo di certi caldi pomeriggi d’agosto, prima che il tramonto lo tinga di rosa e poi di rosso.

Perché era proprio un tardo pomeriggio di agosto, più precisamente erano le cinque del 2 agosto, e sul tetto della stazione, la cui facciata bianca era immersa nell’ombra, cominciava a far capolino qualche nuvola dorata, leggera come panna montata.

«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?».

Registrava automaticamente le parole di Andrée senza prestarvi una particolare attenzione. Non più di quanto facesse con le immagini o gli odori. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d’animo diverso, da un punto di vista diverso...

Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri l’avrebbero costretto a farlo.

Il professor Bigot, per esempio, lo psichiatra incaricato dal giudice istruttore, gli avrebbe chiesto con insistenza, spiando ogni sua reazione:

«Andrée la mordeva spesso?».

«È capitato».

«Quante volte?».

«Ci siamo incontrati solo otto volte in tutto, all’Hôtel des Voyageurs».

«Otto volte in un anno?».

«In undici mesi... Sì, undici, visto che la cosa è iniziata a settembre...».

«Quante volte l’ha morso?».

«Tre, forse quattro».

«Durante il rapporto?».

«Mi pare... Sì...».

Sì... No... Quel giorno, in realtà, era successo dopo, quando si era staccato da lei per girarsi su un fianco a guardarla con gli occhi socchiusi, incantato dalla luce che li avvolgeva.

Fuori, nella piazza della stazione, l’aria era torrida. Il sole batteva in pieno sulla camera, ed era così ardente, di un calore così vivo che sembrava quasi di sentirne il respiro anche all’interno.

Tra le persiane, che Tony non aveva chiuso del tutto, restava una fessura di una ventina di centimetri. Dalla finestra aperta giungevano i rumori della cittadina, alcuni confusi, quasi un coro lontano, altri vicini e distinti, ben riconoscibili, come le voci dei clienti seduti al bar di sotto.

Poco prima, mentre si abbandonavano freneticamente all’amore, quei rumori arrivavano sino a loro fondendosi con i loro corpi, la loro saliva, il loro sudore, con il candore del ventre di Andrée e il colore più scuro della pelle di lui, con la losanga di luce che tagliava in due la stanza, con l’azzurro delle pareti, un riflesso danzante sullo specchio e l’odore dell’albergo. Un odore che sapeva ancora di campagna, in cui si mescolavano gli effluvi del vino e dei liquori serviti nel salone all’entrata, dello stufato che cuoceva a fuoco lento in cucina, del materasso di crine vegetale un po’ ammuffito.

«Come sei bello, Tony».

Glielo ripeteva a ogni incontro, mentre lei rimaneva distesa e lui andava su e giù per la camera cercando le sigarette nella tasca dei pantaloni buttati su una sedia impagliata.

«Perdi ancora sangue?».

«No, quasi più niente».

«E che le dici se ti chiede qualcosa?».

Lui aveva alzato le spalle: non capiva perché Andrée si preoccupasse tanto. Nulla, in quel momento, gli pareva importante. Si sentiva bene, in armonia con l’universo.

«Le dirò che ho sbattuto... Contro il parabrezza, per esempio. Una frenata brusca...».

Si era acceso una sigaretta, e gli sembrava che avesse un gusto particolare. Ricostruendo quella conversazione, si sarebbe poi ricordato di un altro odore, quello dei treni, riconoscibile fra tutti. Un convoglio merci faceva manovra nella zona riservata al traffico locale, e la locomotiva lanciava ogni tanto un breve fischio.

Il professor Bigot – un ometto magro, rosso di capelli e con le sopracciglia folte e arruffate – avrebbe insistito:

«Non ha mai pensato che lo facesse apposta a morderla?».

«Perché?».

In seguito, l’avvocato Demarié, il suo difensore, sarebbe tornato alla carica.

«Penso che questi morsi potrebbero giocare a nostro favore...».

Ma, ancora una volta, come gli sarebbe potuta venire in mente una cosa del genere, allora, in un momento in cui era occupato solo a vivere? Se anche aveva pensato qualcosa, non se n’era reso conto. Rispondeva ad Andrée senza riflettere, a fior di labbra, in tono leggero, svagato, convinto che quelle parole buttate lì non avessero alcun peso, e dunque non lasciassero traccia.

Un pomeriggio – era il loro terzo o quarto appuntamento – Andrée, dopo avergli detto che era bello, aveva aggiunto:

«Sei così bello che mi piacerebbe fare l’amore con te davanti a tutti, in mezzo alla piazza della stazione...».

Tony era scoppiato a ridere, ma senza sorprendersi. Neanche a lui dispiaceva mantenere un certo contatto col mondo esterno mentre erano l’uno nelle braccia dell’altro, percepire i suoni, le voci, le variazioni di luce, perfino il rumore dei passi sul marciapiede e il tintinnio dei bicchieri ai tavolini del bar di sotto.

Un giorno che era passata la banda si erano divertiti a fare l’amore a tempo di musica. Un’altra volta era scoppiato un temporale e Andrée aveva insistito perché spalancasse la finestra e le persiane.

In fondo era un gioco, e lui non ci aveva visto nessuna malizia. Lei era nuda, sdraiata di traverso sul letto, in una posa volutamente lasciva. Lo faceva apposta, appena chiusa la porta della camera, a mostrarsi quanto più impudica possibile.

Capitava che, una volta spogliati, Andrée mormorasse con una falsa innocenza che faceva anch’essa parte del gioco:

«Io ho sete. E tu?».

«No».

«Tra poco l’avrai. Chiama Françoise e dille di portarci da bere...».

Françoise, la cameriera, era una donna sulla trentina. Abituata a servire nei bar o negli alberghi da quando aveva quindici anni, ormai non si stupiva più di niente.

«Desidera, signor Tony?».

Lo chiamava così perché era il fratello del proprietario, Vincent Falcone, il cui nome stava scritto sull’insegna e la cui voce echeggiava dal bar.

«Non si è mai chiesto se questo atteggiamento mirasse a raggiungere uno scopo preciso?».

Ciò che stava vivendo – una mezz’ora, ma neanche... qualche minuto della sua esistenza – sarebbe stato frammentato in singole immagini, in suoni isolati, sarebbe stato passato al setaccio, e non solo dagli altri, pure da lui.

Andrée era alta. A letto non si notava, ma superava Tony di tre o quattro centimetri. Nonostante fosse del posto, aveva i capelli scuri, quasi neri, come una francese del Sud o un’italiana: un bel contrasto con la pelle bianca e liscia, che sotto la luce sembrava cangiante. Aveva un corpo opulento, le forme piene, le carni – soprattutto i seni e le cosce – morbide e sode.

Tony aveva conosciuto molte donne nei suoi trentatré anni, ma nessuna gli aveva procurato lo stesso piacere di Andrée. Un piacere assoluto, animalesco, senza secondi fini, e mai seguito da disgusto, disagio o stanchezza.

Al contrario! Dopo due ore di intenso godimento dei corpi, restavano nudi l’uno accanto all’altra, protraendo l’intimità fisica, assaporando l’armonia che si era stabilita non solo tra loro, ma anche col mondo circostante.

Tutto aveva un peso e un significato in quell’universo vibrante, perfino la mosca che si era posata sul ventre di Andrée e che lei guardava con un sorriso appagato.

«Davvero potresti vivere con me tutta la vita?».

«Certo...».

«Sul serio? Non avresti un po’ paura?».

«Paura di che?».

«Riesci a immaginare come passeremmo le giornate?».

Anche quelle parole sarebbero riemerse, così leggere allora, così minacciose a distanza di qualche mese.

«Finiremmo con l’abituarci» aveva mormorato lui senza riflettere.

«A che cosa?».

«A noi due».

Si sentiva puro, innocente. Contava solo ciò che stava vivendo. Un maschio vigoroso e una femmina appassionata che avevano goduto l’uno dell’altro. Per quanto Tony ne fosse rimasto indolenzito, provava tuttavia una piacevole sensazione di benessere.

«Guarda! Sta arrivando il treno...».

Non era stato lui a parlare, bensì una voce che veniva da fuori, quella di suo fratello. La frase aveva comunque colpito Tony, che senza volerlo si era diretto verso la finestra, verso la fessura di luce sfolgorante fra le persiane.

Non gl’importava nulla che così lo potessero vedere dalla strada. E comunque era improbabile perché, da fuori, la stanza doveva sembrare al buio. Tutt’al più, dato che era al primo piano, avrebbero scorto un torace maschile.

«Se penso a tutti gli anni che ho perso per colpa tua...».

«Per colpa mia?» aveva ripetuto lui ridendo.

«Chi è che se n’è andato? Io?».

Erano stati compagni di scuola fin dalle elementari. E soltanto ora che avevano superato la trentina e che entrambi si erano sposati...

«Rispondimi seriamente, Tony... Se io mi ritrovassi libera...».

La stava ascoltando? Il treno, invisibile dietro l’edificio bianco della stazione, si era fermato, e i viaggiatori cominciavano a uscire dalla porta di destra. Un impiegato in divisa ritirava i biglietti.

«Faresti in modo di renderti libero anche tu?».

Prima di ripartire, la locomotiva fischiò così forte da coprire ogni altro rumore.

«Come hai detto?».

«Ti sto chiedendo se, in quel caso...».

Lui si era girato verso l’azzurro della camera, verso il bianco del letto e del corpo di Andrée, ma un’immagine intravista con la coda dell’occhio lo aveva indotto a guardare di nuovo fuori. Tra la folla anonima – uomini, donne, un neonato in braccio alla madre, una bambina tirata per mano – aveva riconosciuto un volto.

«Tuo marito!» esclamò, cambiando di colpo espressione.

«Nicolas?».

«Sì...».

«Dov’è?... Che fa?...».

«Attraversa la piazza...».

«Sta venendo qui?».

«Dritto dritto...».

«Che aria ha?».

«Non lo so. È controluce...».

«Dove vai?».

Tony stava raccogliendo i suoi vestiti, la biancheria, le scarpe.

«Non posso restare qua... L’importante è che non ci trovi insieme...».

Non la guardava più, non si curava più di lei, del suo corpo, di quel che poteva dire o pensare. Colto dal panico, aveva dato un’ultima occhiata fuori per poi uscire di corsa dalla camera.

Se Nicolas aveva preso il treno per venire a Triant proprio mentre sua moglie era lì, doveva esserci una buona ragione.

Sulle scale dai gradini consunti, l’ombra era più fresca. Tony, con i vestiti ancora sul braccio, era salito al piano superiore. In fondo al corridoio c’era una porta socchiusa: Françoise, in abito nero e grembiule bianco, stava cambiando le lenzuola. L’aveva guardato dalla testa ai piedi ed era scoppiata a ridere.

«E allora, signor Tony?... Avete litigato?...».

«Ssst...».

«Che succede?».

«Suo marito...».

«Vi ha scoperti?».

«Non ancora... Sta venendo verso l’albergo...».

Si era rivestito in un lampo, e con l’orecchio teso si aspettava di udire da un momento all’altro il passo lento di Nicolas su per le scale.

«Va’ a vedere che cosa fa, e torna subito a dirmelo...».

Voleva bene a quella ragazzona rude dallo sguardo allegro. E Françoise lo ricambiava.

Una parte della stanza aveva il tetto spiovente, la carta da parati era punteggiata di fiori rosa e sopra il letto di noce stava appeso un crocifisso nero. Anche nella camera azzurra c’era un piccolo crocifisso sopra il camino.

Tony era senza cravatta e aveva lasciato la giacca in macchina. Le precauzioni che lui e Andrée avevano preso per quasi un anno si rivelavano improvvisamente utili.

Quando si davano appuntamento all’Hôtel des Voyageurs, Tony parcheggiava il furgoncino in rue des Saules, una vecchia strada poco frequentata, parallela a rue Gambetta. Andrée invece posteggiava la sua 2 CV grigia in place du Marché, trecento metri più in là.

Dalla finestra della mansarda Tony scorgeva il cortile dell’albergo, con in fondo le scuderie dove ora razzolavano i polli. Il terzo lunedì di ogni mese, di fronte alla rimessa dei treni merci, si teneva una fiera del bestiame, e molti contadini dei dintorni venivano a Triant usando ancora il carretto.

Françoise stava risalendo senza alcuna fretta.

«Allora?».

«È seduto fuori, al bar. Ha appena ordinato una limonata».

«Che aria ha?».

Più o meno le stesse domande che gli aveva fatto Andrée poco prima.

«Nessuna in particolare».

«Ha chiesto di sua moglie?».

«No, ma da dove è seduto può tener d’occhio entrambe le uscite».

«Mio fratello non ti ha detto niente?».

«Di uscire dal retro e di attraversare il cortile dell’autorimessa qui accanto».

Conosceva la strada. Scavalcando un muro del cortile, alto un metro e mezzo, sarebbe arrivato dietro l’autorimessa Chéron, le cui pompe di benzina erano allineate sulla piazza della stazione. Da lì poteva imboccare un vicolo che sbucava in rue des Saules, tra la farmacia e la panetteria Patin.

«E lei? Non sai che cosa sta facendo?».

«No».

«Hai sentito qualche rumore in camera?».

«Non ci ho fatto caso».

Françoise non aveva alcuna simpatia per Andrée, forse perché aveva un debole per lui e ne era gelosa.

«È meglio che non passi dal pianterreno, nel caso il marito dovesse andare alla toilette...».

Tony immaginava Nicolas, il colorito livido, l’espressione come sempre triste o stizzita, seduto al tavolino del bar davanti a una limonata. A quell’ora avrebbe dovuto essere dietro il bancone della drogheria, ma probabilmente aveva chiesto alla madre di sostituirlo mentre andava a Triant. Che pretesto si era inventato per giustificare quell’insolita gita? Che cosa sapeva? Chi l’aveva avvertito?

«Lei, signor Falcone, non ha mai pensato alla possibilità di una lettera anonima?» gli aveva domandato il giudice istruttore Diem, con la sua sconcertante timidezza.

«A Saint-Justin nessuno sapeva della nostra relazione. E neanche a Triant, a parte mio fratello, mia cognata e Françoise. E poi prendevamo le nostre precauzioni. Andrée entrava dalla porticina di rue Gambetta, che dà proprio sulle scale, così poteva salire in camera senza passare dal bar».

«Lei è sicuro che ci si possa fidare di suo fratello?».

Come non sorridere a questa domanda? Lui e suo fratello erano praticamente una sola persona.

«E di sua cognata?».

Lucia gli voleva bene quasi quanto ne voleva a Vincent, seppure – ovviamente – in un modo diverso. Era di origini italiane, come i Falcone, e per loro la famiglia contava più di qualunque cosa.

«La cameriera?».

Per quanto innamorata di lui, Françoise non avrebbe mai spedito una lettera anonima.

«Non resta che una persona...» aveva mormorato il giudice Diem, distogliendo lo sguardo, mentre il sole scherzava tra i suoi capelli un po’ scarmigliati.

«Chi?».

«Non capisce? Si ricordi le frasi che mi ha riferito durante l’ultimo interrogatorio. Gliele faccio rileggere dal cancelliere?».

Tony era arrossito e aveva scosso la testa.

«Andrée? Non è possibile...».

«Perché?».

Ma questo era ancora di là da venire. Al momento, lui aveva seguito Françoise giù per le scale, sforzandosi di non far scricchiolare i gradini, visto che l’Hôtel des Voyageurs risaliva al tempo delle stazioni di posta. Si era fermato un istante davanti alla porta della camera azzurra, da cui non proveniva alcun rumore. Bisognava dedurne che Andrée era rimasta distesa sul letto, nuda?

Françoise l’aveva spinto in fondo al corridoio, dove c’era una curva a gomito, e gli aveva indicato una finestrella che si apriva sul tetto spiovente di un magazzino.

«C’è un mucchio di paglia, lì a destra. Non rischia niente a saltare...».

I polli si misero a schiamazzare quando atterrò nel cortile. Un istante dopo, Tony scavalcò il muro di cinta e si ritrovò in mezzo a una quantità di vecchie automobili e di rottami accatastati. Un benzinaio vestito di bianco stava facendo il pieno a una macchina davanti al distributore, ma non si voltò a guardarlo.

Tony sgusciò nella stradina, che puzzava di acqua putrida. Più avanti, invece, si sentiva il profumo del pane caldo proveniente da uno sfiatatoio del forno che dava sul vicolo.

Infine, raggiunta rue des Saules, si mise al volante del suo furgoncino. Sulla fiancata, in lettere nere su fondo giallo limone, c’era scritto:

Antoine Falcone
Trattori – Macchine agricole
Saint-Justin-du-Loup

Appena un quarto d’ora prima si sentiva in pace col mondo intero. Come definire il malessere che ora si era impadronito di lui? Non era paura. Nessun sospetto l’aveva sfiorato.

«Non si è turbato vedendolo uscire dalla stazione?».

Sì... No... Be’, un pochino, per via del carattere e delle abitudini di Nicolas, sempre così attento alla sua salute.

Tony aveva fatto un giro tutt’intorno al paese per raggiungere la strada che portava a Saint-Justin senza passare dalla piazza della stazione. Vicino al ponte sull’Orneau c’era una famigliola al completo che pescava con la lenza; la figlioletta di sei anni aveva preso un pesce e ora non sapeva come staccarlo dall’amo. Dovevano essere dei parigini. In estate ce n’erano dappertutto, anche nell’albergo di suo fratello. Poco prima, dalla camera azzurra, sentendo le voci dei clienti seduti al bar aveva riconosciuto il loro accento.

La strada attraversava campi di grano mietuti da poco, vigne e prati dove pascolavano le tipiche mucche della regione, dal pelo fulvo e dal muso quasi nero.

Saint-Séverin, a tre chilometri, era solo un breve tratto di strada con qualche fattoria disseminata nei dintorni. Poi, a destra, vide il boschetto di Sarelle, chiamato così dal nome del piccolo borgo che nascondeva.

Proprio lì, a pochi metri dalla strada non asfaltata, era cominciato tutto, nel settembre dell’anno precedente.

«Mi racconti l’inizio della vostra relazione...».

Sempre le stesse domande, dal brigadiere della gendarmeria di Triant, che era stato il primo, al comandante, all’ispettore della Polizia giudiziaria di Poitiers. Ora toccava al giudice Diem, allo psichiatra segaligno, all’avvocato Demarié. Finché, un giorno, sarebbe stata la volta del presidente della Corte d’assise.

Le stesse parole erano riecheggiate per settimane, per mesi, pronunciate da voci diverse, in contesti diversi. E intanto erano passati la primavera, l’estate e poi l’autunno.

«Il vero inizio? Ci conosciamo da quando avevamo tre anni: abitavamo nello stesso paese, abbiamo frequentato la stessa scuola e abbiamo fatto la Prima Comunione insieme...».

«Parlo dei suoi rapporti sessuali con Andrée Despierre... Erano cominciati prima?».

«Prima di che?».

«Prima che la signora si sposasse con il suo amico».

«Nicolas non era un mio amico».

«Diciamo compagno di scuola, se preferisce. All’epoca, la signora Despierre si chiamava Formier e abitava nel castello con sua madre...».

Non era proprio un castello. In passato, sì, ce n’era stato uno che sorgeva in quel luogo, addossato alla chiesa, ma ormai ne restava ben poco: solo una parte della dépendance. Eppure, da circa un secolo e mezzo, probabilmente dalla Rivoluzione, tutti continuavano a chiamarlo «il castello».

«Era già capitato, prima del suo matrimonio...».

«No, signor giudice».

«Neanche un flirt? Non l’aveva mai baciata?».

«Non mi sarebbe neanche venuto in mente».

«Perché?».

Fu costretto a rispondere:

«Era troppo alta».

Proprio così. Non aveva mai associato all’idea dell’amore quella ragazza alta e impassibile che gli ricordava una statua.

Inoltre, lei era la signorina Formier, la figlia del dottor Formier, che era morto da deportato. Poteva bastare come spiegazione? Non riusciva a trovarne altre. Lui e Andrée erano di diversa estrazione sociale.

Quando uscivano da scuola con la cartella in spalla, lei non aveva che da attraversare il cortile ed era già arrivata, perché abitava nel cuore del paese. Lui invece, insieme ad altri due compagni, doveva imboccare la strada per La Boisselle, un minuscolo borgo, vicino al ponte sull’Orneau.

«Quattro anni fa, ormai sposato e padre di famiglia, lei è tornato a Saint-Justin e vi ha messo su casa. È stato allora che ha ripreso i contatti con Andrée Despierre?».

«Lei aveva sposato Nicolas e gestiva la drogheria insieme al marito. A volte mi è capitato di entrare in negozio a comprare qualcosa, ma di solito era mia moglie che...».

«Mi dica allora come ha avuto inizio la vostra relazione».

Proprio lì, nel punto in cui stava passando, al margine del bosco di Sarelle. A Triant non era giorno di fiera, né di mercato grande, che si tiene tutti i lunedì, mentre quello piccolo ha luogo il venerdì. Lui ci andava regolarmente, perché era un’occasione di incontro con la clientela.

Nicolas non guidava, per via delle sue crisi, e il giudice lo sapeva. Era Andrée a recarsi ogni giovedì a Triant con la 2 CV per fare acquisti dai fornitori. E una volta su due si fermava in città tutta la giornata perché ne approfittava per andare dal parrucchiere.

«In quattro anni, le sarà capitato spesso di incontrarla...».

«Sì, abbastanza. A Triant si incontra sempre gente di Saint-Justin».

«Vi rivolgevate la parola?».

«Ci salutavamo».

«Da lontano?».

«Da lontano, da vicino, dipende...».

«Non c’erano altri contatti fra di voi?».

«Mi sarà capitato di rivolgerle qualche frase di circostanza, di chiederle per esempio come stavano lei e il marito».

«Senza secondi fini?».

«Come dice?».

«Dall’inchiesta risulta che durante i suoi giri di lavoro lei si concedeva volentieri qualche avventura».

«Come capita a tutti».

«Spesso?».

«Quando ce n’è stata l’occasione».

«Anche con Françoise, la cameriera di suo fratello?».

«Una volta, ma per ridere. Più che altro era uno scherzo».

«Che intende dire?».

«Lei mi aveva sfidato, non so a che proposito, e un giorno che l’ho incontrata per le scale...».

«È successo sulle scale?».

«Sì».

Perché lo guardavano ora come un mostro di cinismo, ora come un fenomeno di ingenuità?

«Nessuno di noi due ha preso la cosa sul serio».

«E avete comunque mantenuto buoni rapporti?».

«Certo».

«Non ha mai avuto voglia di riprovarci?».

«No».

«Perché?».

«Forse perché subito dopo c’è stata Andrée».

«La cameriera di suo fratello non le ha serbato rancore?».

«Perché avrebbe dovuto?».

Com’è diversa la vita nel momento in cui la si vive e quando la si analizza a distanza di tempo! Turbato dai sentimenti che gli venivano attribuiti, Tony era arrivato al punto di non saper più distinguere il vero dal falso, il bene dal male.

Quell’incontro di settembre, per esempio! Doveva essere un giovedì, visto che Andrée era andata a Triant. Probabilmente aveva fatto tardi dal parrucchiere o altrove, perché si era avviata verso casa quando già cominciava a far buio.

Tony invece aveva incontrato alcuni clienti ed era stato costretto a mandar giù parecchi bicchieri di vino locale. In genere cercava di bere il meno possibile, ma faceva un tipo di lavoro per cui non sempre era facile tirarsi indietro.

Si sentiva allegro, leggero. Come quel giorno, nella camera azzurra, mentre era nudo davanti allo specchio e cercava di arrestare il sangue che gli colava dal labbro.

Aveva appena acceso i fari nel crepuscolo, quando si era accorto della 2 CV grigia sul ciglio della strada. Andrée, vestita di chiaro, gli faceva segno di fermarsi.

Naturalmente aveva frenato.

«È una fortuna che tu sia passato da qui, Tony...». In seguito, quasi costituisse una prova contro di lui, gli avevano chiesto:

«Vi davate già del tu?».

«Certo, dai tempi della scuola».

Che diavolo poteva mai annotare il giudice sul foglio dattiloscritto che aveva davanti?

«Continui».

«Andrée mi disse: “Guarda un po’ se dovevo bucare proprio la volta che, per mancanza di spazio, ho lasciato a casa il cric... Tu ce l’hai?”».

Tony non aveva avuto bisogno di togliersi la giacca, perché faceva ancora caldo e perciò non se l’era neanche messa. Quel giorno – se lo ricordava bene – indossava una camicia a maniche corte con il colletto sbottonato e un paio di pantaloni di tela azzurra.

Ovviamente, si era offerto di smontare la ruota.

«Ce l’hai quella di scorta?».

Mentre lui lavorava, si era fatto del tutto buio. In piedi vicino a lui, Andrée gli passava gli attrezzi.

«Arriverai in ritardo per la cena».

«Non è la prima volta. Sai, con il mio lavoro...».

«Tua moglie non dice niente?».

«Lo sa che non è colpa mia».

«L’hai conosciuta a Parigi?».

«No, a Poitiers».

«È di lì?».

«Di un paese vicino, ma lavorava in città».

«Ti piacciono le bionde?».

Gisèle era bionda, con una pelle sottile, diafana, che si colorava di rosa alla minima emozione.

«Non so. Non ci ho mai riflettuto».

«Mi chiedevo se le brune non ti facessero un po’ paura».

«Perché?».

«Perché un tempo hai baciato più o meno tutte le ragazze di Saint-Justin, tranne me».

«È probabile che non ci abbia pensato».

Scherzava, e intanto si ripuliva le mani col fazzoletto.

«Vuoi provare almeno una volta a baciarmi?».

Lui l’aveva guardata con stupore, ed era stato lì lì per chiederle di nuovo:

«Perché?».

Nel buio la vedeva a malapena.

«Vuoi?» aveva ripetuto Andrée, con voce quasi irriconoscibile.

Tony ricordava il bagliore rosso delle luci di posizione, l’odore dei castagni, poi l’odore e il sapore della bocca di lei. Con le labbra incollate alle sue, Andrée gli aveva preso una mano per accostarsela al seno, e lui si era stupito di trovarlo così tondo e sodo, così vivo.

E dire che gli era sembrata una statua!

Si stava avvicinando un camion. Per sottrarsi alla luce dei fari erano indietreggiati – senza staccarsi l’uno dall’altro – verso la banchina, dove crescevano i primi alberi del bosco. E subito Andrée si era messa a tremare come non gli era mai capitato di vedere in una donna. Addossandosi a lui con tutto il peso del corpo, gli ripeteva:

«Vuoi?».

Si erano ritrovati a terra, fra l’erba alta e le ortiche.

Tony non disse nulla di tutto ciò né ai poliziotti né al giudice. Solo il professor Bigot, lo psichiatra, gli strappò a poco a poco la verità. Era stata lei ad alzarsi la gonna fino al ventre, a sbottonarsi la camicetta per liberare i seni e a ordinargli con voce rauca, quasi rantolante:

«Scopami, Tony!».

In effetti, era stata lei a possederlo, mentre i suoi occhi esprimevano insieme il trionfo e la passione.

«Non avevo mai immaginato che Andrée fosse così».

«Che intende dire?».

«La ritenevo una donna fredda, altera, come sua madre».

«E dopo? Non era un po’ imbarazzata?».

Distesa sull’erba, immobile e con le gambe ancora aperte – come quel pomeriggio nella stanza d’albergo –, gli aveva detto:

«Grazie, Tony».

Sembrava pensarlo davvero. Si mostrava umile, quasi infantile.

«Era da tanto che lo desideravo... Dai tempi della scuola, ci credi? Ti ricordi di Linette Pichat? Era strabica, ma questo non ti ha impedito di correrle dietro per mesi».

Ora Linette Pichat faceva l’insegnante in Vandea, ma tornava a casa ogni anno per passare le vacanze con i genitori.

«Una volta vi ho sorpresi insieme. Dovevi avere quattordici anni».

«Dietro la fabbrica di mattoni?».

«Non l’hai dimenticato, allora?».

Tony si era messo a ridere.

«Non l’ho dimenticato perché era la mia prima volta».

«Anche per lei?».

«Non lo so. Ero troppo inesperto per rendermene conto».

«Come l’ho odiata! Per mesi, rigirandomi di sera nel letto, continuavo a scervellarmi sul modo di farla soffrire».

«E l’hai trovato?».

«No. Mi sono limitata a pregare perché si ammalasse o rimanesse sfigurata in un incidente».

«Faremmo meglio a rientrare a Saint-Justin».

«Ancora un minuto, Tony. No, non alzarti! Dobbiamo pensare a come fare per rivederci, e non sul ciglio della strada. Io vado a Triant ogni giovedì».

«Lo so».

«Tuo fratello non potrebbe...».

Il giudice aveva tagliato corto:

«Insomma, da quella sera, vi siete organizzati per bene».

Era difficile capire se stesse facendo dell’ironia o meno.

Il 2 agosto, però, nessun giudice si era ancora intromesso nella sua vita. Tony stava tornando a casa, e la notte non era calata, diversamente da quella sera di settembre. Il cielo cominciava appena a rosseggiare verso ovest. Sulla strada c’era una mandria di mucche, e lui fu costretto a starle dietro per un po’, prima di riuscire a superarla.

Un avvallamento con un paesino: Doncœur. Poi un lieve pendio, ancora campi, pascoli, il cielo aperto e, dopo una cunetta, la sua casa: una costruzione recente, di mattoni rosa. Il sole si rifletteva sul vetro di una finestra. Marianne, sua figlia, era seduta davanti alla porta; in fondo al giardino c’era il capannone con le macchine agricole. Sulle pareti di lamiera argentata spiccava, come sul furgoncino, il nome di Antoine Falcone.

Marianne aveva riconosciuto la vettura da lontano e si era girata verso l’interno gridando:

«C’è papi!».

Si rifiutava di dire «papà» come gli altri bambini, e a volte – per gioco o forse perché era gelosa della madre – lo chiamava Tony.

2

La casa era sulla sinistra, a metà del pendio, circondata dal giardino. Un prato la separava da quella delle sorelle Molard, una costruzione vecchia e grigia, con il tetto di ardesia; poi c’era la fucina, e un centinaio di metri più in basso cominciava il paese, con vere e proprie strade, i piccoli caffè, i negozi e le facciate delle case che si toccavano. La gente del luogo non amava il termine «paese» e lo chiamava «il borgo», un grosso borgo di milleseicento abitanti senza contare le tre frazioni limitrofe.

«Hai fatto a botte, papi?».

Si era dimenticato del morso di Andrée.

«Hai il labbro tutto gonfio».

«Sono andato a sbattere».

«Dove?».

«Contro un palo, per strada, a Triant. Ecco cosa succede quando si cammina con la testa per aria».

«Mamma! Papi ha sbattuto contro un palo».

Sua moglie era uscita dalla cucina, con un grembiule a quadretti e una pentola in mano.

«Che è successo, Tony?».

«Non è niente, come vedi».

Madre e figlia si assomigliavano tanto che a volte, guardandole l’una accanto all’altra, lui si sentiva quasi a disagio.

«Faceva molto caldo?».

«No, non troppo. Ora però devo finire un lavoro in ufficio».

«Riusciamo a mangiare per le sei e mezzo?».

«Spero di sì».

Cenavano presto per via di Marianne, che andava a letto alle otto. Anche la piccola indossava un grembiule a quadretti blu. Le erano caduti due denti di latte, e con quei due buchi davanti aveva un’espressione quasi patetica. Per qualche settimana avrebbe avuto un’aria da bambina e al tempo stesso da vecchietta.

«Posso venire con te, papi? Ti prometto che farò la brava».

L’ufficio, ingombro di scatoloni verdi e con pile di volantini sugli scaffali di legno chiaro, dava sulla strada. Tony era ansioso di veder passare la 2 CV.

Accanto c’era la «zona soggiorno», come la chiamava l’architetto, la stanza più grande della casa, che fungeva da sala da pranzo e insieme da salotto.

Ma fin dall’inizio era stato chiaro che per Gisèle andare e venire con i piatti e alzarsi da tavola per controllare quel che aveva sul fuoco sarebbe risultato tutt’altro che comodo. Così avevano finito col mangiare in cucina.

Dietro la cucina, spaziosa e allegra, c’era la lavanderia per fare il bucato e stirare. Tutto era ben organizzato, perfettamente pulito e in ordine.

«Sua moglie, a quanto pare, è un’eccellente padrona di casa...».

«Sì, signor giudice».

«È per questo che l’ha sposata?».

«No, quando ci siamo sposati non lo sapevo».

In realtà, negli interrogatori ci furono tre fasi, anzi quattro. La prima a Saint-Justin, a casa sua, quando il brigadiere e poi il comandante della gendarmeria l’avevano assillato con domande per lui incomprensibili. Poi, a Poitiers, era stata la volta dell’ispettore Mani, che citava date e confrontava gli orari per ricostruire i suoi spostamenti.

Quello che lui pensava o sentiva non presentava alcun interesse per loro, specie per i gendarmi; o meglio, sembravano non stupirsi di niente, perché la loro vita privata era abbastanza simile alla sua.

Con il giudice Diem e poi con lo psichiatra, ma anche con l’avvocato, tutto sarebbe cambiato. Per esempio, quando doveva comparire davanti al giudice istruttore, Tony usciva dalla prigione, o meglio dal cellulare, con cui poco dopo l’avrebbero riportato dentro, mentre il magistrato se ne sarebbe tornato a casa sua per il pranzo o la cena.

Diem era quello che lo turbava più di tutti, forse perché era pressappoco suo coetaneo. In effetti, il giudice aveva un anno meno di lui, era sposato da diciotto mesi e aveva avuto da poco il primo bambino. Suo padre, che non disponeva di grandi mezzi, faceva il capufficio alla Previdenza sociale, e la moglie era dattilografa. Abitavano in un appartamento modesto, tre camere e servizi, in un quartiere nuovo.

Perché non avrebbero dovuto capirsi?

«Di che cosa, esattamente, ha avuto paura quella sera?».

Come spiegarlo? Di tutto. Di niente in particolare. Nicolas non aveva certo preso il treno, affidando il negozio alla madre, senza che ci fosse una ragione grave. Non era andato a Triant solo per sedersi al bar dell’Hôtel des Voyageurs e bersi una limonata.

Quando Tony era uscito, Andrée era ancora nuda, sul letto della camera azzurra, e sembrava non avere alcuna intenzione di muoversi.

«Lei giudicava Nicolas un tipo violento?».

«No».

Però era un uomo malato, che fin da bambino si era chiuso in se stesso.

«Quando l’ha visto lì, a Triant, si è chiesto se fosse armato?».

Non ci aveva pensato.

«Temeva per il suo matrimonio?».

Non riuscivano, lui e Diem, a incontrarsi sullo stesso terreno, a parlare la stessa lingua. Fra di loro c’era sempre come uno scarto.

Tony fingeva di lavorare, con una pila di fatture davanti e una matita in mano; di tanto in tanto, perché la cosa apparisse più verosimile, segnava a fianco di qualche numero una crocetta superflua.

Seduta ai suoi piedi c’era Marianne, che giocava con un’automobilina a cui mancava una ruota. Lui guardava la strada, che passava a una ventina di metri, oltre il prato e la cancellata bianca; più in basso, al di là di un pendio erboso, scorgeva il retro delle case del paese, i cortili, i giardinetti con le dalie in fiore. Altrove, vicino a una botte, spiccavano sul grigio del muro la macchia gialla e il cuore nero di un enorme girasole.

Tornando a casa aveva guardato di sfuggita la sveglia, che segnava le sei meno un quarto. Alle sei e venti Gisèle venne a chiedergli:

«Posso portare in tavola alla solita ora?».

«Un po’ dopo, magari. Vorrei finire questo lavoro prima di cena».

«Io ho fame, papi!».

«Non ci vorrà molto, tesoro. Se ritardo, mangerai con la mamma».

Fu più o meno in quel momento che si sentì assalire dal panico. Un panico che prima, quando – con i vestiti ancora in mano – si era rifugiato al secondo piano dell’albergo, non aveva provato. Un’angoscia fisica, una stretta al cuore, un’inquietudine improvvisa che lo spinse ad alzarsi e a piantarsi davanti alla finestra.

Si accese una sigaretta, con le mani che gli tremavano. Le gambe non lo reggevano quasi.

Un presentimento? Ne aveva parlato con il professor Bigot, o meglio era stato lui, lo psichiatra, che l’aveva indotto a parlarne.

«Non le era mai successo prima?».

«No, neanche quando sono uscito miracolosamente indenne da un incidente d’auto. Eppure, quella volta, trovandomi seduto in mezzo a un campo, senza un solo graffio, mi sono messo a piangere».

«Aveva paura di Nicolas?».

«Mi ha sempre fatto una certa impressione».

«Fin dai tempi della scuola?».

Per fortuna, le lancette della sveglia non avevano ancora segnato le sei e mezzo che sulla sommità del pendio spuntò la 2 CV. La macchina passò davanti alla casa, con Andrée al volante e il marito seduto accanto, ma nessuno dei due guardò nella sua direzione.

«È pronto, Gisèle? Possiamo mangiare, se vuoi».

«Allora, a tavola. Va’ a lavarti le mani, Marianne».

Avevano cenato come le altre sere: minestra, frittata al prosciutto, insalata, camembert e per frutta albicocche.

Sotto le finestre si stendeva il frutteto, che curavano entrambi, lui e sua moglie, mentre Marianne se ne stava ore e ore accoccolata per terra a strappare le erbacce.

I fagioli rampicanti avevano ormai raggiunto la cima dei sostegni. Dietro la rete del pollaio razzolava una quindicina di galline bianche, di razza livornese; nella penombra della loro gabbia s’intravedevano alcuni conigli.

In apparenza, quella giornata si stava concludendo come una qualunque altra giornata estiva. Dalla finestra aperta entrava un’aria tiepida, e solo di tanto in tanto arrivava una folata più fresca. Il maniscalco, un tipo grande e grosso che si chiamava Didier, batteva ancora sull’incudine. Intorno regnava la calma: la natura si preparava lentamente all’immobilità notturna.

Le domande del professor Bigot erano quasi sempre imprevedibili.

«Già da quella sera aveva l’impressione di averla perduta?».

«Chi? Andrée?».

Era sorpreso, non ci aveva pensato.

«Da undici mesi lei viveva qualcosa che, senza esagerare, potremmo definire una grande passione».

Ecco una parola che non gli era mai passata per la mente. Eppure desiderava Andrée e, se gli accadeva di non vederla per un po’, era ossessionato dal ricordo delle ore frenetiche e focose trascorse insieme, dal ricordo del suo odore, dei suoi seni, del suo ventre, della sua impudicizia. Mentre era a letto accanto a Gisèle, gli capitava di non riuscire a prendere sonno, in preda a interminabili fantasticherie.

«Che ne diresti di andare al cinema?».

«Che giorno è?».

«Giovedì».

Gisèle era un po’ stupita. Di solito andavano al cinema una volta alla settimana, a Triant, che distava solo una dozzina di chilometri.

Le altre sere Tony lavorava nel suo ufficio, mentre la moglie lavava i piatti e poi si metteva a cucire o a rammendare calzini accanto a lui. A tratti s’interrompevano per scambiare qualche parola, quasi sempre a proposito di Marianne, che a ottobre avrebbe cominciato la scuola.

Più raramente si sedevano fuori, con le spalle alla casa, a guardare la notte che calava, i tetti grigi e i tetti rossi sotto la luna, la massa scura degli alberi il cui fogliame emetteva un sommesso fruscio.

«Che cosa danno?».

«Un film americano. Ho visto il manifesto, ma non mi ricordo più il titolo».

«Se ti fa piacere... Vado ad avvertire le Molard».

Quando uscivano di sera, una delle sorelle Molard o anche tutt’e due venivano a dare un’occhiata a Marianne. La più grande, Léonore, aveva trentasette o trentotto anni; Marthe era un po’ più giovane. In realtà avevano un’età indefinibile ed erano destinate a diventare due vecchie zitelle senza che nessuno se ne accorgesse.

Avevano entrambe il viso tondo, lunare, inespressivo come fosse fatto di gomma, e portavano gli stessi vestiti, gli stessi cappotti, gli stessi cappelli, come a volte capita alle gemelle.

Spesso erano le uniche fedeli ad assistere alla messa delle sette, dove facevano la comunione ogni mattina, e non per questo saltavano i vespri o la benedizione. Aiutavano don Louvette a tenere in ordine la chiesa, a mettere i fiori sugli altari, a prendersi cura del cimitero, ed erano sempre loro a vegliare al capezzale degli agonizzanti e a preparare i morti per la sepoltura.

Facevano le sarte, e chiunque passasse davanti alla loro casa poteva vederle intente al lavoro, dietro la finestra, accanto a un grosso gatto color caffellatte che sonnecchiava.

A Marianne non piacevano.

«Puzzano» diceva.

Ed era vero che emanavano un odore particolare, simile a quello dei negozi di stoffe ma mescolato agli effluvi che aleggiano nelle chiese, con in più il tanfo che si respira nella camera di un malato.

«Sono brutte!».

«Se non ci fossero loro, dovresti restartene a casa da sola».

«Tanto non ho paura, io».

Gisèle sorrideva, di un sorriso tutto suo, appena accennato, con le labbra che si stiravano a poco a poco, come se si sforzasse di trattenerlo.

«E questo atteggiamento, secondo lei, andrebbe considerato un segno di discrezione?».

«Sì, signor giudice».

«Che cosa significa esattamente? La capacità di tenere un segreto?».

Ah, quelle benedette parole!

«Non è questo che intendo. Non le andava di farsi notare. Temeva di occupare troppo spazio, di dare fastidio agli altri, di chiedere più del dovuto».

«Ed era così anche da ragazza?».

«Penso di sì. Per esempio, uscendo dal cinema o da un ballo, mai che dicesse di aver sete, per evitare di farmi spendere dei soldi».

«Aveva qualche amica?».

«Una sola, una vicina più grande di lei, con cui faceva lunghe passeggiate».

«Cosa l’ha attratta in sua moglie?».

«Non lo so. Non me lo sono mai chiesto».

«Le dava un senso di sicurezza?».

Tony fissava il volto del giudice, sforzandosi di capire.

«Pensavo che sarebbe stata...».

Cercava inutilmente la parola giusta.

«Una buona moglie?».

Non proprio, ma si era rassegnato a dire di sì.

«L’amava?».

Non aveva risposto.

«Aveva voglia di andare a letto con lei? L’avete fatto prima del matrimonio?».

«No».

«Non la desiderava?».

Probabilmente sì, visto che l’aveva sposata.

«E sua moglie? Pensa che fosse innamorata di lei o che tenesse al matrimonio in sé?».

«Non so. Credo...».

Che cosa gli avrebbe risposto il giudice se lui gli avesse fatto la stessa domanda? Erano una coppia che funzionava, questo sì. Gisèle era pulita, attiva, modesta, perfettamente a suo agio nella nuova casa.

La sera, lui era contento di rientrare e, fino a quando non era comparsa Andrée, non aveva mai avuto delle vere avventure, anche se a volte approfittava di qualche occasione.

«Vuol dire che non è mai stato sfiorato dall’idea di divorziare?».

«Proprio così».

«Neanche negli ultimi mesi?».

«Mai».

«Tuttavia, lei ha detto alla sua amante...».

E allora, di scatto, Tony aveva alzato la voce, arrivando perfino, senza accorgersene, a battere un pugno sul tavolo del giudice.

«Ma, insomma, lo vuol capire che in realtà io non ho detto niente? Era lei che parlava! Se ne stava lì, nuda sul letto. E io ero nudo davanti allo specchio: avevamo appena... Ma sì, lo sa perfettamente. In quei momenti non si bada alle parole. Sentivo a stento quello che diceva. Anzi, se lo vuole proprio sapere, per un po’ ho seguito con lo sguardo una mosca...».

Quell’immagine della mosca gli era tornata in mente all’improvviso: aveva anche aperto le persiane per farla uscire.

«Io mi limitavo a far segno di sì o di no con la testa, ma intanto pensavo ad altro».

«A cosa, per esempio?».

Era troppo avvilente. Tony non vedeva l’ora di ritrovarsi chiuso nel cellulare, dove nessuno gli avrebbe chiesto niente.

«Non lo so».

 

 

Gisèle era corsa ad avvertire le signorine Molard mentre lui metteva a letto Marianne. Ma prima – come ogni volta che tornava dai suoi incontri con Andrée a Triant – si era fatto una doccia e cambiato la biancheria. Al primo piano c’erano tre camere da letto e un bagno.

«Se avremo altri bambini, potremo far dormire i maschietti in una stanza e le femminucce nell’altra» aveva detto Gisèle all’epoca in cui discutevano della disposizione dei locali.

Dopo sei anni Marianne era ancora figlia unica, e la terza camera da letto era servita solo una volta, quando i genitori di Gisèle erano venuti in vacanza a Saint-Justin.

I suoceri di Tony abitavano a Montsartois, a sei chilometri da Poitiers. Germain Coutet faceva l’idraulico, era un tipo robusto, massiccio come un gorilla, con la faccia rubiconda e un gran vocione. Tutte le sue frasi cominciavano con: «L’ho sempre detto, io...» e «Sono sicuro che...».

Fin dal primo giorno fu evidente che era geloso del genero, del suo ufficio luminoso e ordinato, della cucina moderna e soprattutto del capannone di lamiera in cui erano esposte le macchine.

«Io continuo a pensare che un operaio fa male a mettersi in proprio...».

Stappava la prima bottiglia di vino rosso alle otto del mattino e poi continuava a bere per il resto della giornata. Per trovarlo bastava farsi un giro nei bar del paese, e la sua voce tonante si sentiva fin dalla strada. Anche se non era mai ubriaco, a mano a mano che si avvicinava la sera diventava sempre più categorico, perfino aggressivo.

«Chi è che va a pesca ogni domenica? Tu o io? Bene! E uno! Chi è che ha tre settimane di ferie pagate? Chi è che, dopo una giornata di lavoro, non deve stare a scervellarsi sui conti?».

La moglie era una donna grassa e remissiva, che se ne stava lì pacifica, le mani in grembo, e si guardava bene dal contrariarlo, il che poteva forse spiegare il carattere sottomesso di Gisèle.

Alla fine del loro soggiorno c’era stata qualche scaramuccia, e i Coutet non erano più venuti in vacanza a Saint-Justin.

Dopo aver avvertito le sorelle Molard, Gisèle aveva trovato il tempo non solo di lavare i piatti ma anche di cambiarsi. Si muoveva senza quasi spostare l’aria intorno a sé, non dava mai l’impressione di aver fretta e sembrava che i lavori domestici venissero eseguiti come per incanto.

Un ultimo bacio a Marianne, nella penombra tiepida della stanza. Al pianterreno le signorine Molard erano già immerse nel loro lavoro di cucito.

«Divertitevi».

Era tutto così familiare, una scena che avevano vissuto tante di quelle volte che ormai non ci facevano più caso.

Il motore si avviò. Fianco a fianco, sui sedili anteriori del furgoncino, Tony e la moglie attraversarono il paese, lasciandosi dietro i pochi che si attardavano a zappare in giardino, e gli altri – la maggior parte – che, seduti davanti alla porta, si godevano il fresco della sera senza parlare; qualcuno ascoltava una radio che risuonava, dentro casa, in una stanza deserta.

Per un po’ rimasero in silenzio, seguendo ciascuno il filo dei propri pensieri.

«Senti, Tony...».

Poi Gisèle si interruppe, e lui sentì una stretta al cuore pensando a quel che poteva aspettarlo.

«Non ti pare che Marianne sia un po’ palliduccia, da qualche tempo in qua?».

Era sempre stata una bambina esile, con gambe e braccia lunghe e il colorito smunto.

«Ne ho parlato oggi pomeriggio col dottor Riquet, che ho incontrato uscendo dalla drogheria...».

Non le era sembrato strano che al posto di Nicolas, dietro al bancone, ci fosse la madre? Non si era chiesta il perché di quell’assenza?

«A quanto dice, i bambini hanno bisogno di cambiare aria, anche se è vero che qui è buona. Lui ci consiglia, quando sarà possibile – l’estate prossima, per esempio –, di portarla al mare».

Tony fu il primo a stupirsi della rapidità della sua decisione:

«Perché non quest’anno?» replicò.

Gisèle non osava crederci. Da quando si erano stabiliti a Saint-Justin non avevano mai potuto concedersi una vacanza, visto che l’estate era la stagione in cui Tony lavorava di più. Per acquistare il terreno erano bastati i loro risparmi, ma ne avevano ancora per parecchi anni prima di arrivare a saldare il debito contratto per costruire la casa e il capannone.

«Credi che sia possibile?».

Una sola volta, durante il primo anno di matrimonio, quando ancora abitavano a Poitiers, erano stati per quindici giorni alle Sables-d’Olonne. Avevano preso in affitto una camera ammobiliata a casa di una vecchia signora, e Gisèle cucinava su un fornello a spirito.

«Siamo già ad agosto. Temo che non sarà facile trovare una sistemazione».

«Andremo in albergo. Ti ricordi di quello vicino alla spiaggia, subito dopo la pineta?».

«Les Roches Grises. No! Les Roches Noires!».

C’erano stati una sera a cena, per festeggiare il compleanno di Gisèle. Avevano mangiato una sogliola enorme e lei si era un po’ ubriacata col muscadet.

Tony era soddisfatto della sua decisione. Così, per qualche tempo, avrebbe tagliato i ponti con Andrée e Nicolas.

«Tu quando pensi che...».

«Te lo dirò al più presto».

Prima di fissare la data ed essere proprio sicuro della partenza, aveva bisogno di parlare col fratello. Ed era appunto per vedere Vincent che aveva pensato di portare la moglie al cinema. Passò davanti all’Hôtel des Voyageurs senza fermarsi, imboccò rue Gambetta e arrivò in una piazza a pochi metri dall’Olympia. Lungo i marciapiedi era facile distinguere i parigini dalla gente del luogo, perché avevano un modo tutto loro di vestire, di camminare, di guardare le vetrine illuminate.

Presero posto, come sempre, in galleria. Durante l’intervallo, dopo il cinegiornale, il documentario e un cartone animato, Tony propose:

«E se andassimo a bere una birra da Vincent?».

I tavolini del bar all’aperto erano quasi tutti occupati. Françoise gliene trovò uno libero e lo pulì con lo strofinaccio che aveva in mano.

«Due birre, Françoise. Mio fratello c’è?».

«È al bancone, signor Tony».

All’interno, sotto una luce giallastra, c’erano alcuni clienti che giocavano a carte. Erano frequentatori abituali del caffè e Tony li aveva visti mille volte, nello stesso angolo, circondati dagli stessi avventori, che li guardavano e commentavano le prese.

«E allora?».

Suo fratello gli rispose in italiano, il che capitava di rado. Infatti, essendo nati in Francia, avevano parlato quella lingua solo con la madre, che non era mai riuscita a imparare il francese.

«Non so di preciso cos’è successo. Ma credo che tutto sia filato liscio. Lui era seduto lì fuori...».

«Lo so, lo vedevo da sopra».

«Dieci minuti dopo che te ne sei andato, è scesa lei, tutta tranquilla, come se niente fosse. Ha attraversato la sala, dicendomi semplicemente:

«“Ringrazi sua moglie da parte mia, Vincent...”.

«Parlava a voce abbastanza alta perché suo marito la sentisse. Poi è uscita senza fretta, con la borsa in mano, e al momento di svoltare in rue Gambetta, fingendo di accorgersi soltanto allora della presenza di Nicolas:

«“E tu che ci fai qui?” gli ha detto.

«Si è seduta di fronte a lui, ma non ho sentito il resto della conversazione».

«Ti è sembrato che litigassero?».

«No. A un certo punto, lei ha aperto tranquillamente la borsa per mettersi la cipria e il rossetto».

«E lui com’era?».

«Con un tipo così, è difficile dirlo. L’hai mai visto ridere, tu? Secondo me, Andrée se l’è sbrigata bene, ma se fossi in te... Gisèle è qui?».

«È seduta fuori».

Vincent andò a salutarla. L’aria era mite, il cielo limpido. Un espresso oltrepassò la stazione senza fermarsi né rallentare. Quando furono in rue Gambetta, Gisèle posò una mano sul braccio del marito, come faceva sempre quando passeggiavano insieme.

«Tuo fratello è contento di come vanno gli affari?».

«La stagione sta andando bene. I turisti aumentano ogni anno».

Vincent aveva potuto rilevare l’attività evitando di comprare l’immobile perché il proprietario, che aveva gestito l’albergo prima di lui e che adesso si era ritirato alla Ciotat, non era interessato a vendere.

Considerando da dove erano partiti, i due fratelli se l’erano cavata niente male e avevano già fatto parecchia strada.

«Hai visto Lucia?».

«No. Doveva essere in cucina e non ho avuto il tempo di entrare a salutarla».

Provava un certo disagio, e non era la prima volta. Gisèle sapeva che nel pomeriggio lui era stato a Triant, ma non gli aveva chiesto se fosse passato da suo fratello.

Tutto sommato, avrebbe preferito che gli facesse qualche domanda, sia pure imbarazzante. Possibile che si disinteressasse a tal punto della vita che suo marito conduceva fuori di casa? Eppure lo aiutava con i conti di fine mese e dunque era al corrente dei suoi affari.

O forse sospettava qualcosa e preferiva tacere?

Allungarono il passo perché il campanello del cinema stava suonando e c’era chi si affrettava a uscire dal piccolo bar attiguo.

Solo al ritorno, nel buio dell’abitacolo, mentre alla luce dei fari si stagliavano paesaggi in bianco e nero come quelli dei film, Tony buttò lì all’improvviso:

«Oggi è giovedì».

Poi di colpo arrossì, perché quella parola gli evocò immediatamente la camera azzurra, il corpo formoso di Andrée, con le gambe aperte e il sesso scuro da cui colava a poco a poco il suo seme.

«Potremmo partire sabato. Domani telefono alle Roches Noires e vedo se hanno due camere libere... O anche una sola, e facciamo aggiungere un lettino per Marianne».

«Ma il lavoro? Puoi mollarlo così?».

«Farò un salto qui una volta o due, se sarà necessario».

Si sentiva come liberato. L’unica cosa a cui pensava era il pericolo che aveva corso.

«Passeremo due belle settimane di vacanza, a poltrire tutti e tre sulla spiaggia».

All’improvviso provava una gran tenerezza per sua figlia e si rimproverava di non averne notato il pallore. Anche nei confronti di Gisèle aveva dei sensi di colpa, ma era qualcosa di più astratto. Per esempio, non sarebbe mai stato capace di fermare la macchina sul ciglio della strada per prenderla tra le braccia e sussurrarle guancia a guancia:

«Lo sai che ti amo?».

Eppure quell’idea gli passava per la testa, e anche spesso, ma non l’aveva mai fatto. Forse si vergognava, o temeva di passare per uno che cerca di farsi perdonare...

Aveva bisogno di Gisèle. E anche Marianne aveva bisogno della madre. Ma lui le aveva rinnegate entrambe quando Andrée aveva cominciato con le sue domande. Certo, le aveva prestato scarsa attenzione, pensando piuttosto a tamponarsi il labbro con l’asciugamano inumidito. Eppure adesso quelle domande gli tornavano in mente con una chiarezza imbarazzante, e con esse anche il peso dei suoi silenzi.

«Hai una bella schiena».

Era ridicolo. Gisèle non si sarebbe mai sognata di estasiarsi per la sua schiena o i suoi pettorali.

«Mi ami, Tony?».

Nella camera surriscaldata che odorava di sesso, tutto gli era sembrato naturale, ma ora, nella quiete notturna, col ronzio del motore in sottofondo, le parole, le intonazioni suonavano irreali. A fior di labbra, con un che di malizioso nella voce, aveva risposto:

«Penso di sì...».

«Non ne sei sicuro?».

Credeva che fosse un gioco? Non sapeva che per lei non lo era affatto?

«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?».

Nel giro di pochi minuti, Andrée gli aveva ripetuto un paio di volte quella domanda, che peraltro gli aveva già rivolto durante i loro precedenti incontri nella stessa camera.

E lui aveva risposto:

«Certo...».

Scherzava, perché si sentiva leggero, nel corpo e nella mente. E lei aveva capito che le parole non gli venivano dal profondo del cuore, tanto che aveva insistito:

«Sul serio? Non avresti un po’ paura?».

Quanto era stato imbecille a replicare ammiccando:

«Paura di che?».

Gli tornava in mente tutta la conversazione, parola per parola.

«Riesci a immaginare come passeremmo le giornate?».

Non aveva detto «le notti», ma «le giornate», come se avesse intenzione di trascorrere tutto il tempo a letto.

«Finiremmo con l’abituarci».

«A che cosa?».

«A noi due».

E invece c’era Gisèle accanto a lui, nel buio, a guardare lo stesso tratto di strada, gli stessi alberi, gli stessi pali che emergevano dall’oscurità per ripiombare subito dopo nel nulla. Tony era tentato di prenderle la mano, ma non osava.

L’avrebbe confessato, un giorno, al professor Bigot. Lo psichiatra preferiva sempre fargli visita in cella piuttosto che nell’infermeria della prigione, e anche se il guardiano gli portava una sedia lui si sedeva sul bordo della branda.

«Se ho ben capito, lei amava sua moglie...».

Tony aveva allargato le braccia rispondendo semplicemente:

«Sì».

«Solo che non riusciva a stabilire un vero contatto con lei...».

Non aveva mai sospettato che la vita potesse essere tanto complicata. Che cosa intendeva esattamente lo psichiatra quando parlava di contatto? Lui e Gisèle erano una coppia come tutte le altre, no?

«Perché, dopo Marianne, non avete avuto altri figli?».

«Non lo so».

«Era lei, signor Falcone, a non desiderarne più?».

Al contrario! Lui ne avrebbe voluti sei, anche dodici, una casa piena di bambini insomma, come si usa in Italia. Gisèle, da parte sua, parlava di averne tre, due maschietti e una femminuccia. E non facevano niente per evitarli.

«Aveva rapporti sessuali frequenti con sua moglie?».

«Più che altro all’inizio».

Era sincero, non tentava di nascondere niente. Si era messo in gioco e cercava anche lui di capire, con un accanimento pari a quello dei suoi numerosi interlocutori.

«È chiaro che durante la gravidanza abbiamo avuto un periodo di...».

«Ed è stato allora che ha preso l’abitudine d’incontrare altre donne?».

«L’avrei fatto in ogni caso».

«Ne sentiva il bisogno?».

«Non lo so. È così per tutti gli uomini, no?».

Il professor Bigot aveva una cinquantina d’anni. Il suo primogenito studiava a Parigi, mentre la figlia si era recentemente sposata con un ematologo e gli dava una mano in laboratorio.

Lo psichiatra era poco curato, portava abiti sgualciti, sformati, spesso con qualche bottone penzolante, e si soffiava il naso in continuazione, come se fosse perennemente raffreddato.

Come fargli capire quel ritorno in macchina nella notte? Non era successo niente di memorabile. Lui e Gisèle si erano scambiati sì e no una ventina di frasi. E Tony era convinto che lei non sapesse niente, almeno della scena del pomeriggio, ma probabilmente neppure dei suoi rapporti con Andrée, anche se doveva aver avuto sentore di qualche altra scappatella.

Comunque era stato proprio lungo quei dodici chilometri che Tony si era sentito più vicino a lei, più unito a lei. C’era mancato poco che le dicesse:

«Ho bisogno di te, Gisèle».

Bisogno di sentirsela accanto. Bisogno che si fidasse di lui.

«Se penso a tutti gli anni che ho perso per colpa tua...».

Non era la voce di sua moglie, ma quella di Andrée, un po’ roca, come se venisse dal profondo del petto, che sembrava palpitare a ogni parola. Gli rimproverava di essersene andato a sedici anni, di aver lasciato il paese per imparare un mestiere altrove.

Si era recato a Parigi e aveva lavorato in una autorimessa fino al servizio militare. Non si era mai curato di Andrée. Per lui era solo una ragazza troppo alta, che abitava al castello ed era figlia di un eroe del posto.

Una ragazza altera e fredda. Una statua.

«Perché ridi?».

Sì, stava ridendo, mentre guidava; o meglio ridacchiava.

«Pensavo al film».

«Ti è piaciuto?».

«Non più di altri».

Una statua che curiosamente si animava e, guardando lontano, gli chiedeva:

«Rispondimi seriamente, Tony... Se io mi ritrovassi libera...».

Tutti sapevano che Nicolas era malato e che non sarebbe arrivato alla vecchiaia, ma da qui a parlarne quasi al passato! Tony aveva finto di non capire.

«Faresti in modo di renderti libero anche tu?». La locomotiva aveva fischiato a tutto spiano.

«Come hai detto?».

«Ti sto chiedendo se, in quel caso...».

Che cosa avrebbe risposto se, tra la folla che usciva dalla stazione e attraversava la piazza, non avesse riconosciuto Nicolas?

La luce al pianterreno era accesa. Le sorelle Molard, che tenevano sempre d’occhio l’orologio, dovevano già aver riposto il loro lavoro di cucito, pronte ad andarsene. Di solito si coricavano alle nove, a volte anche prima.

«Metto la macchina nel capannone».

Gisèle scese, fece il giro della casa per entrare dalla cucina, mentre Tony guidava verso il capannone argentato e parcheggiava il furgoncino accanto ai mostri meccanici gialli e rossi.

Quando rientrò, le due signorine stavano uscendo.

«Buonanotte, Tony».

«Buonanotte».

Gisèle si guardava intorno per accertarsi che non ci fosse niente in disordine.

«Vuoi bere qualcosa? Hai fame?».

«No, grazie».

In seguito aveva pensato che forse, proprio in quel momento, sua moglie si aspettava da lui un cenno, una parola. Magari aveva intuito la minaccia che incombeva su di loro...

Di solito, quando tornavano dal cinema, Gisèle saliva subito a controllare se Marianne respirava.

«Lo so che è ridicolo» gli aveva confessato un giorno. «Mi capita solo se esco. Quando sono a casa ho l’impressione che la mia presenza la protegga».

Poi, correggendosi:

«Che la nostra presenza. Appena mi allontano, mi sembra così vulnerabile!».

E davvero si chinava ogni volta sul letto della bambina, attendendo con ansia di percepirne il respiro regolare.

Tony non riuscì a dirle niente. Si spogliarono l’uno di fronte all’altro, come ogni sera. Con la gravidanza Gisèle aveva messo su un po’ di fianchi, ma per il resto era magra, con i seni pallidi e sciupati.

Come poteva far capire agli altri che l’amava, se quella sera, nonostante il suo bisogno di aprirsi, non era stato capace di farlo capire neanche a lei?

«Buonanotte, Tony».

«Buonanotte».

La luce la spegneva sempre Gisèle. La lampada da comodino stava dalla sua parte perché la prima ad alzarsi era lei, e d’inverno al mattino presto faceva ancora buio.

Tony ebbe l’impressione che la moglie esitasse un istante a interrompere il contatto. Trattenne il fiato.

Clic!

3

Non aveva un temperamento nervoso. Per appurarlo l’avevano sottoposto a parecchi test, a Poitiers, prima il medico della prigione, lo psichiatra, e poi quella strana donna con gli occhi da zingara, la psicologa, che a volte gli sembrava comica, e a volte gli faceva paura.

A stupirli era piuttosto la sua calma, che a loro appariva addirittura riprovevole. In Corte d’assise, per esempio, qualcuno – il sostituto procuratore generale o l’avvocato di parte civile – avrebbe definito quella calma come una dimostrazione di cinismo e di aggressività.

È vero che normalmente si manteneva padrone di sé, più incline ad aspettare gli eventi, tenendosi sulla difensiva, che ad affrontare di petto le situazioni.

Non erano forse state felici le due settimane alle Sables-d’Olonne? Felici e un po’ tristi, con improvvisi accessi di ansia, che non sempre sfuggivano alla moglie e alla figlia.

Trascorrevano la giornata come di solito fanno i villeggianti: colazione a un tavolino del bar all’aperto, con Marianne già in costume da bagno rosso, e poi, alle nove, tutti e tre in spiaggia, sempre nello stesso posto, che ben presto era diventato il «loro posto».

Erano bastati due giorni per instaurare delle abitudini, dei riti, per fare conoscenza con i vicini di tavolo nella sala da pranzo delle Roches Noires, per sorridere all’anziana coppia che stava seduta di fronte e rivolgeva cenni affettuosi a Marianne, affascinata, a sua volta, dalla barba dell’uomo.

«Se abbassa un altro po’ la testa, gli andrà a finire la barba nella minestra».

E, convinta che prima o poi sarebbe successo, ogni sera spiava i movimenti del vecchio signore.

Anche sotto gli ombrelloni ritrovavano, mattina e pomeriggio, sempre le stesse persone: la signora bionda, che dopo essersi spalmata a lungo di olio solare si stendeva a pancia in giù, con le spalline del costume abbassate, e leggeva tutta la giornata; i figli maleducati dei parigini, che mostravano la lingua a Marianne e le davano spintoni mentre era in acqua...

Gisèle, incapace di starsene lì senza far niente, sferruzzava un golf azzurro cielo per il primo giorno di scuola della figlia, e le sue labbra si muovevano mentre contava i punti.

Tony non era più tanto sicuro che quella di andare in vacanza alle Sables fosse stata una buona idea. Giocava con Marianne e le insegnava a nuotare, nell’acqua che gli arrivava alla vita, tenendole la mano sotto il mento. Aveva cercato di insegnare a nuotare anche a sua moglie, ma Gisèle perdeva la testa appena non toccava più il fondo, e cominciava ad agitare le mani aggrappandosi a lui. Una volta era stata sommersa da un’onda inattesa, e gli aveva lanciato uno sguardo in cui a Tony era sembrato di leggere la paura. Non paura del mare. Paura di lui.

Per ore si mostrava calmo e rilassato, giocava a pallone, andava con Marianne fino alla punta del molo. A volte passeggiavano tutti e tre insieme nelle stradine della città: così avevano visitato la cattedrale, fotografato le barche dei pescatori nel porto e le donne del luogo, in gonna plissettata e zoccoli lucidi, al mercato del pesce.

Attorno a loro c’erano migliaia di persone che facevano la stessa vita, e se scoppiava un temporale tutti si affrettavano a radunare le proprie cose per correre a ripararsi negli alberghi o nei caffè.

In certi momenti, però, Tony era come assente. Forse si rimproverava di non essere a Saint-Justin, dove magari Andrée stava facendo invano il loro segnale...

«A proposito di questo segnale, signor Falcone...».

Dopo qualche settimana a Poitiers, Tony confondeva le domande del giudice Diem con quelle dello psichiatra. Capitava, infatti, che gli dicessero la stessa identica cosa ma con parole diverse. Che si mettessero d’accordo fra un interrogatorio e l’altro, sperando di farlo cadere in contraddizione?

«Quand’è che lei e la sua amante avete concordato il segnale?».

«La prima sera».

«Intende a settembre, sul ciglio della strada?».

«Sì».

«Di chi è stata l’idea?».

«Di Andrée, gliel’ho già detto. Non voleva che ci incontrassimo di nuovo al margine del bosco, e ha pensato subito all’albergo di mio fratello».

«E la storia dell’asciugamano?».

«La sua prima idea era stata di mettere in un angolo di una vetrina qualche prodotto particolare».

Le vetrine erano due, entrambe zeppe di cibarie, tagli di stoffe, grembiuli, zoccoli di cuoio. La drogheria Despierre era sulla strada principale, a due passi dalla chiesa. Impossibile attraversare il borgo senza passarvi davanti.

L’interno era buio, con i due banconi ingombri di merci e gli scaffali pieni di conserve e bottiglie; addossate alle pareti c’erano botti e casse, mentre dal soffitto pendevano pantaloni di tela grezza, panieri di vimini, prosciutti.

Fra tutti gli odori della sua infanzia, quello che regnava lì era per Tony il più forte, il più caratteristico, dominato dalle esalazioni provenienti dai fusti di petrolio. Nelle piccole frazioni o nelle fattorie isolate, infatti, non arrivava ancora l’elettricità.

«E qual era questo prodotto?».

«Avevamo parlato di un pacchetto di amido. Ma poi Andrée ha pensato che suo marito avrebbe potuto spostarlo senza che lei se ne accorgesse, magari mentre era ai fornelli».

Con quelle due o tre ore al giorno di interrogatorio, come potevano sperare di conoscere a fondo, in qualche settimana, o anche in qualche mese, una vita così diversa dalla loro? Non solo la vita sua e di Gisèle, ma anche quella di Andrée, della signora Despierre, della signorina Formier, la vita del paese, gli andirivieni fra Saint-Justin e Triant. Già per capire la camera azzurra ci sarebbe voluto...

«Alla fine ha deciso che, nei giovedì in cui poteva raggiungermi all’albergo, avrebbe steso un asciugamano alla finestra».

La finestra della camera da letto in cui lei e Nicolas dormivano insieme! Era una delle tre finestre strette, col davanzale sporgente, che si aprivano sopra il negozio. Al di là delle imposte, si intravedeva nell’ombra, appesa alla parete grigiastra, una litografia incorniciata in nero e oro.

«E così, ogni giovedì mattina...».

«Passavo davanti a casa sua».

Chissà se Andrée, mentre lui se ne stava in costume sulla spiaggia, lo chiamava in suo aiuto... Forse l’asciugamano era sempre lì, sul davanzale... Certo, Tony li aveva visti tornare da Triant con la 2 CV, ma non sapeva niente del loro stato d’animo.

«Mi chiedo se lei, signor Falcone, proponendo quella vacanza a sua moglie...».

«Mi aveva appena detto di essere preoccupata per il pallore di Marianne».

«Lo so, e lei ha colto al volo l’occasione per rassicurarla, per dimostrarsi un buon marito, un buon padre di famiglia, e dissipare così ogni sospetto. Che gliene pare di questa mia ipotesi?».

«È falsa».

«Continua a sostenere che voleva solo allontanarsi dalla sua amante?».

Tony detestava quella parola, benché fosse costretto ad accettarla.

«Più o meno».

«Aveva già deciso di non rivederla più?».

«Non avevo nessun piano preciso».

«L’ha poi rivista, nei mesi successivi?».

«No».

«Andrée Despierre non le ha più fatto il segnale?».

«Non lo so, perché da quel momento ho evitato di passare davanti a casa sua il giovedì mattina».

«E tutto questo solo perché un pomeriggio ha visto il signor Despierre uscire dalla stazione e sedersi al bar dell’albergo a bere una limonata? Lei stesso ha affermato che con nessun’altra donna aveva provato un’intesa simile sul piano sessuale. Se non ricordo male, ha parlato di un’autentica rivelazione...».

Sì, era così, anche se non aveva usato proprio quella parola. Alle Sables-d’Olonne, quando gli capitava di pensare suo malgrado alla camera azzurra, si ritrovava a stringere i denti per reprimere il desiderio. A volte arrivava al punto di spazientirsi e di rimproverare Marianne per un nonnulla, o di estraniarsi dalla realtà assumendo uno sguardo duro. Gisèle indirizzava alla bambina un’occhiata come per dirle:

«Non farci caso. Tuo padre ha le sue preoccupazioni».

Certo, dovevano rimanere alquanto disorientate quando, un istante dopo, lo vedevano fin troppo dolce, troppo paziente, troppo disponibile.

«Lei è ambizioso, signor Falcone?».

Dovette pensarci prima di rispondere, perché non se l’era mai chiesto prima. Davvero c’è gente che passa la vita a guardarsi allo specchio e a interrogarsi su se stessa?

«Dipende da cosa vuol dire. A dodici anni ho cominciato a lavorare, dopo la scuola e durante le vacanze, per comprarmi una bicicletta. In seguito, il mio sogno era di avere una moto e per poterla acquistare mi sono trasferito a Parigi. Quando ho sposato Gisèle, mi è venuta l’idea di aprire per conto mio una piccola impresa a Poitiers. Assemblavamo macchine agricole con i pezzi sfusi che ci arrivavano dall’America, e guadagnavo abbastanza bene».

«Anche suo fratello si è messo in proprio, dopo aver sperimentato vari mestieri».

Che rapporto c’era tra le due carriere?

A parlare non era il giudice Diem, ma il professor Bigot. E lo faceva lentamente, come se riflettesse a voce alta.

«Chissà, forse il fatto di essere figli di genitori italiani, di sentirsi un po’ come stranieri in un paese francese... Mi hanno detto che suo padre fa il muratore, è vero?».

Il giudice aveva interrogato per un intero pomeriggio il vecchio Falcone, che erano andati a cercare nella sua casetta alla Boisselle.

«Cosa può dirmi di suo padre?».

«È originario di un poverissimo paesino del Piemonte, a una trentina di chilometri da Vercelli. Laggiù la maggior parte dei ragazzi è costretta a espatriare, perché la campagna non dà pane per tutti. E mio padre, a quattordici o quindici anni, ha fatto come gli altri: è venuto in Francia con una squadra di operai per scavare non so che tunnel dalle parti di Limoges; poi si è spostato via via dove c’erano lavori del genere...».

Difficile parlare di Angelo Falcone – che tutti, a Saint-Justin, chiamavano «il vecchio Angelo» –, perché era un uomo completamente diverso dagli altri.

«Ha viaggiato molto per tutta la Francia, da nord a sud, da est a ovest, e poi ha finito per stabilirsi alla Boisselle».

Nei ricordi di Tony, La Boisselle era un posto straordinario. Si trovava a due chilometri e mezzo da Saint-Justin, e in passato era stato un convento, edificato a sua volta sui resti e con le stesse pietre di un’antica fortezza. Si vedevano ancora alcuni tratti delle vecchie mura, invasi dalle erbacce, e i fossati pieni di acqua stagnante, dove Tony andava a caccia di rane.

Probabilmente i monaci praticavano l’agricoltura, perché attorno al grande cortile erano rimaste costruzioni di ogni sorta, scuderie, botteghe, magazzini.

La maggior parte di queste era occupata dai Coutant, che possedevano una decina di mucche, qualche montone, due cavalli da tiro e un vecchio caprone che masticava tabacco. Gli edifici di cui non avevano bisogno, e che erano ancora abitabili, li affittavano.

Si era costituita così una piccola colonia composta di gruppi di varia origine: oltre ai Falcone, c’erano una famiglia ceca e una coppia venuta dall’Alsazia con uno stuolo di otto figli.

«Quando è nato lei, suo padre non era più molto giovane».

«All’epoca in cui è tornato al paese in Piemonte, da cui poi è ripartito con mia madre, aveva già quarantatré o quarantaquattro anni».

«Se capisco bene, ha deciso che era giunto il momento di sposarsi e ha preferito cercarsi una moglie nel paese in cui era nato».

«Sì, credo che sia andata così».

Da nubile sua madre si chiamava Maria Passaris, e quando era arrivata in Francia aveva ventidue anni.

«Erano una coppia felice?».

«Non li ho mai sentiti litigare».

«Suo padre continuava a lavorare come muratore?».

«Non sapeva fare altro, e non gli è mai venuto in mente di cambiare mestiere».

«Lei è il primogenito, poi – tre anni dopo – è nato suo fratello Vincent».

«E infine mia sorella Angelina».

«Abita anche lei a Saint-Justin?».

«No, è morta».

«Da piccola?».

«A sei mesi. Mia madre era andata a Triant, per non so quale motivo. Prima di venire in Francia, non si era mai allontanata dal suo paese. Qui, in un posto di cui non parlava la lingua, usciva raramente di casa. Quel giorno, a Triant, pare che abbia sbagliato sportello ed è scesa dal treno dalla parte vietata. È stata travolta da un espresso, insieme alla bambina che teneva in braccio».

«E all’epoca lei che età aveva?».

«Sette anni, e mio fratello quattro».

«Siete cresciuti con vostro padre?».

«Sì, quando tornava dal lavoro si metteva a cucinare e a pulire la casa. Forse è cambiato per questo, ma non lo so. Ero troppo piccolo prima dell’incidente».

«Che intende dire?».

«Lo sa perfettamente. Non l’ha forse interrogato?». Il suo tono era diventato aggressivo.

«Sì».

«E allora, che gliene pare? Ha ragione la gente del paese a dire che è un semplice?».

A Saint-Justin non dicevano «semplice di spirito», ma soltanto «semplice». Quanto a Bigot, imbarazzato, preferì limitarsi a rispondere con un gesto vago.

«Non so se voi siete riusciti a cavarne qualcosa. Io e mio fratello, per anni, l’abbiamo sentito parlare soltanto quand’era indispensabile. A settantadue anni, vive da solo nella casa in cui siamo nati noi, e continua a fare qualche lavoretto dove gli capita.

«Si rifiuta di venire ad abitare da me o da Vincent. La sua unica distrazione è quella di costruire, nel giardinetto di casa, un paese in miniatura. È da vent’anni che ci lavora. La chiesa misura meno di un metro, ma è curata nei minimi dettagli. Ci sono la locanda, il municipio, un ponticello sul torrente, un mulino ad acqua, e ogni anno una o due case vanno ad aggiungersi alle altre. Pare che sia una riproduzione fedele del paese dove sono nati lui e mia madre».

Non stava dicendo sino in fondo quel che pensava. Suo padre era un essere rozzo, di intelligenza limitata, che fino a quarant’anni passati si era adattato alla solitudine. Che fosse tornato al paese d’origine per cercarsi una moglie, Tony lo capiva benissimo.

Quella Maria Passaris, così giovane da poter essere sua figlia, Angelo Falcone l’aveva amata davvero, sia pure a modo suo. Non certo a parole, né con grandi effusioni, perché era uno che si teneva tutto dentro.

Quando era morta insieme alla figlioletta, il vecchio Angelo si era chiuso definitivamente in se stesso, e poco dopo aveva cominciato a costruire in giardino quello strano paese delle bambole.

«Però non è pazzo!» esclamò all’improvviso Tony con rabbia.

Intuiva che cosa pensavano in molti, compreso forse il professor Bigot.

«E neanch’io sono pazzo!».

«Nessuno l’ha detto».

«E allora perché mi sta interrogando per la sesta o la settima volta? Perché i giornali mi dipingono come un mostro?».

Ma questo era ancora lontano. Alle Roches Noires si faceva vita di spiaggia, la bocca sempre impastata di sabbia, e altra sabbia dappertutto, tra le lenzuola, sul fondo delle tasche.

In quindici giorni piovve solo due volte. Il sole penetrava nella pelle e negli occhi, veniva quasi un senso di vertigine a fissare a lungo la cresta bianca delle onde, che arrivavano dal mare aperto e si avvicinavano lentamente, l’una dietro l’altra, per infrangersi a riva sollevando una miriade di goccioline luminose.

Marianne si prese un’insolazione. Dopo qualche giorno Tony si era abbronzato e quando si svestiva, la sera, il segno del costume spiccava sulla pelle scura. Solo Gisèle, che se ne stava sempre al riparo sotto l’ombrellone, non era cambiata.

Chissà che succedeva frattanto a Saint-Justin, nel negozio buio dei Despierre... E la sera, quando Andrée e Nicolas si spogliavano l’uno di fronte all’altro nella loro camera da letto?

L’asciugamano con il bordo rosa era steso sul davanzale come un segnale d’allarme? La madre di Nicolas, dal viso di pietra, era passata di nuovo dall’altro lato del giardino per prendere in mano le redini della situazione e vendicarsi una buona volta della nuora?

Quelli di Poitiers – poliziotti, magistrati, medici, perfino l’inquietante psicologa – erano convinti di poter accertare la verità. Ma ignoravano pressoché tutto dei Despierre, dei Formier, e di tanti altri, che pure avevano la loro importanza.

E di Tony che cosa sapevano? Certo meno di quanto ne sapesse lui stesso, no?

La signora Despierre era senza dubbio la personalità più in vista a Saint-Justin, addirittura più in vista e più temuta del sindaco, che pure era un ricco mercante di bestiame. In un paese in cui gli uomini e le donne della stessa generazione erano andati a scuola insieme, ben pochi si permettevano di chiamarla Germaine e meno che mai di darle del tu. Per tutti era la signora Despierre.

Tony se la ricordava da sempre con i capelli dello stesso grigio, ritta dietro il bancone, con un camice grigio e il viso color gesso, l’unica nota bianca, ma si sbagliava di sicuro. La prima volta che era andato in negozio a comprare qualcosa per conto dei genitori, infatti, lei doveva avere poco più di trent’anni.

Aveva conosciuto anche il marito, un uomo malaticcio, vestito pure lui con un camice troppo lungo e munito di occhialetto. Si muoveva con difficoltà e aveva lo sguardo spaventato.

A volte lo si vedeva vacillare, e allora la moglie lo trascinava nel retrobottega e chiudeva la porta, mentre i clienti si scambiavano occhiate d’intesa scuotendo la testa.

Tony aveva sentito parlare di mal caduco molto prima di capire che Despierre soffriva di epilessia e che, al di là di quella porta chiusa, si dibatteva convulsamente, sdraiato per terra, con le mascelle serrate e la bava che gli colava sul mento.

Ricordava anche di essere andato al suo funerale, insieme agli altri compagni di scuola. Tutti in fila, tranne Nicolas, che apriva il corteo con la madre.

Dei Despierre si diceva che fossero tanto ricchi quanto avari. Non solo erano proprietari di molte case del paese, ma anche del piccolo borgo della Guipotte, senza contare due grosse fattorie che davano a mezzadria.

«Perché ha scelto di stabilirsi a Saint-Justin, visto che se n’era andato da più di dieci anni?».

Ma non aveva già risposto a questa domanda? Gli ripetevano in continuazione le stesse frasi, al punto che ormai non sapeva più cosa rispondere. Era probabile che gli capitasse di contraddirsi, perché neanche lui conosceva i motivi e le modalità di tante sue decisioni.

«Forse per via di mio padre».

«Però lo vedeva di rado».

Più o meno una volta alla settimana. Quando – eccezionalmente, a dire il vero – il vecchio Angelo era andato a trovare il figlio, era parso a disagio. Gisèle, che per lui era un’estranea, lo metteva in soggezione. Perciò Tony preferiva fare una capatina alla Boisselle il sabato sera.

La porta era aperta, la luce spenta. Le rane gracidavano nell’acquitrino, mentre i due uomini, immobili sulle sedie impagliate, lasciavano scorrere il tempo senza dire una parola.

«Non dimentichi che mio fratello si era già stabilito a Triant».

«È sicuro di non essere tornato per Andrée?». E dàgli!

«Lo sapeva che si era sposata con il suo vecchio amico Nicolas?».

No! Era stata una sorpresa. Tra i Despierre e i Formier c’era di mezzo un abisso: le due madri, pressappoco della stessa età, rappresentavano mondi opposti.

Se la signora Despierre era il prototipo della contadina arricchita, la moglie del dottor Formier era, dal canto suo, l’immagine di una certa borghesia di provincia caduta quasi in miseria, ma fermamente decisa a salvare le apparenze.

Il nonno materno di Andrée si chiamava Bardave ed era il notaio di Villiers-le-Haut. Di padre in figlio, i Bardave si erano tramandati la consuetudine di frequentare i castellani del paese, giocando a bridge e andando a caccia insieme a loro, e col passare del tempo avevano cominciato a sentirsi dei loro.

Ai figli il notaio non aveva lasciato un soldo. E anche nel testamento del dottor Formier c’era ben poco per la moglie e la figlia: solo una rendita così modesta che, nonostante esse continuassero ad abitare al castello e si vestissero come la gente di città, non sempre riuscivano a mangiare a sufficienza.

Tra le due – la signora Despierre e la signora Formier – chi aveva avuto l’idea di quel matrimonio? Poteva infatti trattarsi di un gesto di orgoglio, se non di rivalsa, da parte della bottegaia. Ma era altrettanto possibile che la signora della borghesia volesse vedere la figlia al riparo dal bisogno, o addirittura ricca, dato che – verosimilmente – sarebbe rimasta vedova presto.

«A quanto pare, a scuola, Nicolas era lo zimbello dei compagni».

Vero e falso, come tutto il resto. Essendo malaticcio, spesso sofferente di dolori allo stomaco, incapace di giocare come gli altri, Nicolas era fatalmente destinato a diventare bersaglio dei ragazzi più forti. Lo trattavano da femminuccia. Lo accusavano di essere un fifone e di rifugiarsi tra le gonnelle della madre. Per giunta, non sapendo difendersi, ogni volta che gliene facevano una, lui correva a raccontarlo al maestro.

Tony non apparteneva alla banda dei suoi torturatori. Forse non era migliore degli altri, solo che, in quanto straniero, era un po’ emarginato anche lui.

In due circostanze – la prima volta durante la ricreazione, la seconda all’uscita da scuola – aveva preso le difese di Nicolas, senza sapere ancora che era malato.

A dodici anni e mezzo era stato colto da una crisi improvvisa durante una lezione. Sentendo il rumore di un corpo che cadeva sul pavimento, tutti si erano girati a guardare, ma il maestro aveva gridato, dando una bacchettata sulla cattedra:

«Che nessuno si muova!».

Era primavera. Gli ippocastani del cortile erano in fiore. C’era un’invasione di maggiolini, quell’anno, e spesso i ragazzi seguivano con lo sguardo i loro voli maldestri che li portavano a sbattere contro le pareti e le finestre dell’aula.

Nonostante l’ordine del maestro, i compagni si erano voltati a guardare Nicolas, pallidi in viso o addirittura sul punto di vomitare, tanto lo spettacolo era impressionante.

«Tutti in cortile!».

Ne era seguita una fuga generale, ma ben presto i più coraggiosi, avvicinatisi alle finestre, avevano visto l’insegnante infilare a forza un fazzoletto nella bocca di Nicolas.

Uno dei ragazzini si era precipitato alla drogheria, e poco dopo era arrivata la signora Despierre con il suo solito camice grigio.

Quelli che guardavano dalla finestra venivano tempestati dalle domande degli altri.

«Che fanno?».

«Niente. È ancora per terra. Sicuramente sta per morire».

Si sentivano tutti la coscienza sporca, quel giorno.

«Secondo te, ha mangiato qualcosa che gli ha fatto male?».

«No. Dicono che anche suo padre aveva attacchi del genere».

«È una malattia contagiosa?».

Un quarto d’ora o forse mezz’ora dopo – nessuno badava più al tempo –, si era vista la signora Despierre attraversare di nuovo il cortile tenendo per mano il figlio, che aveva ripreso un aspetto normale e sembrava stupito.

Da allora la cosa non si era più ripetuta, almeno a scuola. A quanto Tony aveva capito, di solito Nicolas sentiva arrivare le crisi, a volte con più giorni di anticipo, e allora la madre lo faceva stare a casa.

Nessuno ne parlava davanti alla signora Despierre. In drogheria, l’argomento era tabù. Senza sapere perché, tutti consideravano quella malattia come una vergogna.

Nicolas non aveva continuato gli studi, era stato esonerato dal servizio militare e non era mai andato a un ballo. Non aveva mai posseduto una bicicletta né tanto meno una moto, e non guidava la 2 CV.

A volte rimaneva in silenzio per una settimana di fila, cupo, sospettoso, guardandosi intorno come se tutti gli volessero male. Non beveva liquori né vino, e il suo stomaco tollerava solo cibi leggeri.

Quella sera di settembre, sul ciglio della strada, al pensiero di Nicolas Tony aveva provato un certo imbarazzo davanti al corpo seminudo di Andrée.

«Ce l’aveva forse con lui, più o meno inconsciamente, perché era ricco?».

Si limitò ad alzare le spalle. Certo, prima di sapere che era malato, prima di quella crisi a scuola, aveva invidiato Nicolas. Un’invidia infantile: l’idea che il compagno potesse attingere liberamente ai barattoli di caramelle multicolori, alle scatole di biscotti col coperchio di vetro, mentre lui al massimo poteva aspirare, di tanto in tanto, a qualche dolciume a buon mercato, bastava a spiegarla.

«Quando ha saputo del matrimonio, non ha pensato che Nicolas avesse per così dire comprato Andrée, o che sua madre l’avesse comprata per lui?».

Possibile. E aveva provato un po’ di disprezzo per la bella «statua», perché non riusciva a credere che si fosse sposata per amore.

Poi, riflettendoci, l’aveva compatita. Neanche lui, da bambino, aveva sempre mangiato a sufficienza, ma non abitava al castello e non aveva bisogno di darsi tante arie.

Ignorava gli accordi stipulati al momento del matrimonio. Era probabile che entrambe le madri, per come le conosceva lui, avessero posto delle condizioni precise. Le due donne abitavano quasi una di fronte all’altra. Il castello sorgeva a destra della chiesa, vicino al presbiterio. Dall’altro lato della piazza, all’angolo con rue Neuve, c’era la drogheria Despierre, a ridosso del municipio e della scuola.

Era stato un matrimonio in grande stile, con l’abito bianco e un lussuoso banchetto, di cui in paese si era parlato a lungo; ma gli sposi non erano andati in viaggio di nozze e avevano passato la prima notte nell’appartamento sopra il negozio, dove poi avevano continuato ad abitare.

La signora Despierre si era ritirata in una casetta che dava sul giardino, a non più di una ventina di metri dal figlio e dalla nuora.

Nei primi tempi le due donne stavano entrambe dietro il bancone, ed era la madre a preparare i pasti. Per le pulizie, invece, andava ogni giorno una vecchietta del paese, che portava scarpe da uomo.

Gli occhi di tutti erano puntati su di loro, e presto fu chiaro che la signora Despierre e Andrée si rivolgevano la parola solo per esigenze di lavoro.

Dopo un po’ la madre prese l’abitudine di tornare a mangiare a casa sua. E infine, qualche mese più tardi, smise del tutto di andare in negozio e di frequentare l’appartamento degli sposi, mentre il figlio attraversava il giardino un paio di volte al giorno per farle una visitina.

Se Andrée, sposandosi, era decisa a soppiantare a poco a poco la suocera, sembrava che ora avesse vinto la partita.

Si erano incontrati otto volte nella camera azzurra, e mai Tony aveva sentito la curiosità di chiederglielo. Preferiva non sapere, non pensare troppo a quella parte della vita di lei. Andrée era per lui la donna nuda e sensuale, niente di più.

Tony percepiva confusamente una verità che era incapace di esprimere, una verità che aveva a che fare – o almeno così gli pareva – con le frasi pronunciate il 2 agosto, quel famoso 2 agosto che lui aveva vissuto a cuor leggero, senza pensare che se ne sarebbe parlato tanto e che i giornali vi avrebbero imbastito sopra titoli a più colonne.

Il cronista di un noto quotidiano parigino aveva persino inventato una formula destinata a essere ripresa da tutti i suoi colleghi: Gli amanti sfrenati.

«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?».

E Tony aveva risposto:

«Certo».

Parole che lui stesso aveva riferito al giudice. Ma quello che contava era il tono, e lui le aveva pronunciate senza crederci. Non era una cosa reale. Non c’era niente di reale nella camera azzurra. O piuttosto si trattava di una realtà diversa, impossibile da comprendere altrove.

Aveva cercato di spiegarlo allo psichiatra, e sul momento Bigot sembrava capire, ma poco dopo gli faceva qualche domanda o qualche osservazione che dimostravano come invece non avesse capito proprio niente.

Se Tony avesse avuto intenzione di vivere con lei, non avrebbe detto:

«Certo».

Non sapeva come avrebbe risposto, ma era sicuro che si sarebbe espresso in maniera diversa. La stessa Andrée non ci aveva creduto, perché aveva insistito:

«Sul serio? Non avresti un po’ paura?».

«Paura di che?».

«Riesci a immaginare come passeremmo le giornate?».

«Finiremmo con l’abituarci».

«A che cosa?».

Era forse reale tutto questo? Avrebbe mai parlato così con Gisèle? E anche lei, Andrée, stava recitando una parte, sazia di piacere, con le gambe ancora aperte.

«A noi due».

Ma, appunto, lui e Andrée erano due solo a letto, solo in quella camera azzurra che con una sorta di sfrenatezza – per usare le parole del giornalista – impregnavano del loro odore.

Non erano mai stati due in nessun altro posto, se non quando avevano fatto l’amore per la prima volta, fra l’erba alta e le ortiche al margine del bosco di Sarelle.

«Se lei non l’amava, come spiega...».

Che cosa intendevano per «amare»? Il professor Bigot – lui che pretendeva di restare su un piano scientifico – avrebbe saputo dare una definizione di quella parola? Avrebbe potuto dire in che modo sua figlia, che si era sposata da poco, amava il marito?

E il piccolo giudice Diem, con la sua aureola di capelli scarmigliati? La moglie gli aveva appena dato il primo figlio, e di certo gli capitava – come a tutti i giovani padri, e come era capitato anche a Tony – di doversi alzare la notte per dargli il biberon. Come l’amava, lui, sua moglie?

Per rispondere, bisognava poter raccontare momenti che non si raccontano, momenti come quelli che Tony aveva vissuto alle Sables.

«Perché scegliere Les Sables-d’Olonne, piuttosto che una qualunque altra spiaggia in Vandea o in Bretagna?».

«Perché è lì che eravamo andati nel primo anno di matrimonio».

«Così ha fatto credere a sua moglie che fosse una sorta di pellegrinaggio, che lei attribuisse a quel luogo un valore sentimentale... Non è esattamente ciò che avrebbe fatto se avesse voluto dissipare un suo eventuale sospetto?».

Inutile protestare. Tony si era limitato a mordersi le labbra, ma dentro di sé fremeva.

Era stato in dubbio se descrivere la loro ultima giornata al mare. La mattina, innanzitutto... Sdraiato sotto l’ombrellone con gli occhi socchiusi, di tanto in tanto guardava di sfuggita la moglie che, seduta su una poltroncina di tela a righe, sferruzzava di gran lena per riuscire a finire il golf azzurro.

«A che pensi?» gli aveva chiesto Gisèle.

«A te».

«E che cosa pensi?».

«Che sono stato fortunato a incontrarti».

Era vero solo in parte. Sentendo Marianne, alle sue spalle, che faceva finta di leggere un libro con le figure, aveva cominciato col dirsi che, nel giro di dodici o quindici anni, si sarebbe innamorata e poi sposata e li avrebbe lasciati per dividere la sua vita con un uomo.

Con uno sconosciuto, tutto sommato, visto che non è possibile conoscere davvero qualcuno in pochi mesi, e neanche in due o tre anni.

Il che l’aveva portato a Gisèle. La guardava intenta al suo lavoro, seria e rilassata. E nel momento in cui gli aveva fatto quella domanda, lui si stava appunto chiedendo che cosa pensasse lei.

In realtà Tony ignorava totalmente l’opinione che Gisèle aveva di lui, non sapeva come lo vedesse, come giudicasse i suoi modi e i suoi gesti.

Erano sposati da sette anni, e così aveva provato a immaginare la loro vita futura. Sarebbero invecchiati pian piano. Marianne sarebbe diventata una signorina. Avrebbero assistito al suo matrimonio. Un giorno si sarebbero sentiti dire che aspetta un bambino, e al momento del parto il padre avrebbe avuto la precedenza su di loro.

Allora sì che lui e Gisèle si sarebbero amati davvero, giacché è nel corso di tanti e tanti anni che si impara a conoscersi, che si accumulano un bel po’ di ricordi, come quello della mattina che stavano vivendo.

Probabilmente i loro pensieri procedevano di pari passo, poiché poco dopo sua moglie aveva mormorato:

«Mi fa uno strano effetto l’idea che tra non molto Marianne andrà a scuola».

E lui che pensava già al suo matrimonio!

La bambina intuiva che lì, in vacanza, poteva permettersi di tutto. Quel pomeriggio ne approfittò per costringere il padre a giocare con lei senza concedergli un attimo di tregua.

Sulla spiaggia rimasta praticamente all’asciutto per via della bassa marea, Tony dovette aiutarla per più di un’ora a costruire un enorme castello fortificato, o meglio lavorò agli ordini della figlia, che – come il vecchio Angelo nel suo giardino – voleva sempre aggiungere qualcos’altro, un pozzo, un fossato, un ponte levatoio.

«Ora andiamo a cercare le conchiglie per fare il pavimento del cortile e dei cammini di ronda».

«Attenta al sole! Mettiti il cappello».

Le avevano comprato un cappello da gondoliere veneziano in un bazar.

Gisèle non aveva osato aggiungere:

«Cerca di non stancare troppo papà!».

Con un secchiello rosso ciascuno, padre e figlia avevano percorso la spiaggia da un capo all’altro, a testa bassa, scrutando la sabbia scura per non lasciarsi sfuggire il luccichio di una sola conchiglia, inciampando ogni tanto nelle gambe dei bagnanti stesi al sole ed evitando per un pelo di prendersi qualche pallonata.

Tony non avrebbe saputo dire se lo facesse con la sensazione di compiere un dovere, per farsi perdonare una debolezza, per riscattare una colpa. Sapeva solo che quella passeggiata sotto il sole, accompagnata dalla vocetta di sua figlia, era dolce e malinconica al tempo stesso.

Si sentiva felice e triste. Ma non a causa di Andrée né di Nicolas. Non ricordava di averci pensato. Felice e triste come la vita, così avrebbe voluto dire.

All’altezza del casinò, la cui musica arrivava fino a loro, girarono per tornare indietro. Allora la strada sembrò lunghissima, la meta lontana, soprattutto per Marianne, che cominciò a strascicare i piedi.

«Sei stanca?».

«Un po’».

«Vuoi che ti porti a cavalluccio?».

La bambina aveva riso, mostrando il vuoto dei denti caduti.

«Sono grande, ormai».

Quando aveva due o tre anni era il suo gioco preferito. Ogni sera, all’ora di andare a letto, Tony se la metteva sulle spalle e la portava in camera.

«Riderebbero di te» aveva aggiunto, tentata.

L’aveva sollevata in alto, e siccome la bambina si teneva aggrappata alla sua testa, lui si era ritrovato con i due secchielli in mano.

«Sono troppo pesante?».

«No».

«Allora è vero che sono magra?».

«Chi te l’ha detto?».

«Il mio amichetto Roland».

Era il figlio del maniscalco.

«Lui ha un anno meno di me e pesa venticinque chili. Io ne peso solo diciannove. Prima di partire mi hanno fatto salire sulla bilancia della drogheria».

«I maschi pesano di più delle femmine».

«Perché?».

Gisèle li guardava arrivare, pensierosa, forse un po’ commossa. Tony depose la figlia sulla sabbia.

«Aiutami a sistemare le conchiglie».

«Non ti sembra di esagerare, Marianne? Tuo padre è qui per riposarsi. Dopodomani ricomincia il lavoro».

«È stato lui a volermi portare sulle spalle».

Tony e Gisèle si erano scambiati uno sguardo.

«Anche per lei è l’ultimo giorno di vacanza» aveva detto lui, sdrammatizzando per scusare la figlia.

Gisèle non aveva più replicato, ma a Tony era parso di leggere nel suo sguardo una sorta di gratitudine.

Gratitudine per cosa? Per essersi dedicato, in quei quindici giorni, a loro due?

Lo trovava del tutto naturale.

4

A volte lo facevano aspettare in corridoio, seduto su una panca vicino alla porta del giudice, con le manette ai polsi, tra due gendarmi che non erano quasi mai gli stessi.

Non si sentiva più umiliato, e neppure si arrabbiava più. Guardava passare la gente – accusati, testimoni che andavano ad aspettare davanti ad altre porte, avvocati in toga che agitavano le ampie maniche come fossero ali – e non batteva ciglio quando gli lanciavano un’occhiata curiosa o si giravano verso di lui.

Una volta entrato nella stanza, le guardie gli toglievano le manette e poi, a un cenno del magistrato, si ritiravano. Allora Diem, scusandosi di essere in ritardo o di essere stato trattenuto, gli tendeva un astuccio d’argento con le sigarette. Era diventata una consuetudine, un gesto automatico.

La stanza, non troppo pulita, come accade spesso nelle stazioni e negli uffici pubblici, aveva un arredamento vecchiotto, con le pareti verdastre, il caminetto di marmo nero sormontato da una pendola pure nera, che segnava, probabilmente da anni, le dodici meno cinque.

A volte il giudice diceva subito:

«Credo che non avrò bisogno di lei, signor Trinquet».

Il cancelliere dai baffi neri se ne andava portandosi dietro il lavoro che avrebbe sbrigato Dio solo sa dove. E questo significava che per quel giorno non avrebbero parlato dei fatti propriamente detti.

«Suppongo che abbia capito perché la interrogo su questioni che in apparenza non hanno alcun rapporto con l’accusa. Mi sto sforzando di porre per così dire le basi, di istruire il suo fascicolo personale».

Nella stanza arrivavano i rumori della città, dalle finestre aperte s’intravedeva l’interno delle case di fronte, i cui abitanti erano immersi nelle proprie occupazioni quotidiane. Quando Tony provava il bisogno di sgranchirsi un po’, il giudice non gli impediva di alzarsi, di camminare in lungo e in largo, né di affacciarsi per qualche istante a guardare giù in strada.

«Mi piacerebbe, per esempio, farmi un’idea della sua giornata tipo».

«Sa com’è, cambia a seconda delle stagioni e dei giorni della settimana. Dipende soprattutto dalle fiere e dai mercati».

Rendendosi conto di aver parlato al presente, Tony si corresse con un sorriso appena accennato:

«O meglio, dipendeva. Seguivo tutte le fiere nel raggio di una trentina di chilometri, quella di Virieux, di Ambasse, di Chiron. Vuole che gliele elenchi una per una?».

«Non è necessario».

«In quei giorni partivo presto, anche alle cinque del mattino».

«Sua moglie si alzava per prepararle la colazione?».

«Sì, ci teneva. Negli altri giorni avevo appuntamenti nelle varie fattorie, per una dimostrazione o per riparare qualche macchina. A volte ero io a ricevere le visite degli agricoltori, e in quel caso li portavo nel capannone».

«Facciamo l’esempio di una giornata normale».

«Gisèle si alzava per prima, alle sei...».

Scivolava fuori dal letto senza far rumore e usciva dalla camera portandosi dietro la vestaglia color salmone. Poco dopo, Tony la sentiva accendere il fuoco in cucina, proprio sotto di lui. Poi andava in giardino a gettare qualche manciata di grano ai polli e a dar da mangiare ai conigli.

Verso le sei e mezzo scendeva lui, non ancora lavato, i capelli ispidi ravviati appena con un colpo di pettine. La tavola era apparecchiata in cucina, senza tovaglia, perché aveva il ripiano in formica. Facevano colazione loro due da soli, mentre Marianne continuava a dormire. Lasciavano che rimanesse a letto finché voleva.

«Almeno fino a quando non ha cominciato ad andare a scuola. Allora bisognava svegliarla alle sette».

«L’accompagnavate?».

«Solo i primi due o tre giorni».

«Ci pensava lei?».

«No, mia moglie, perché ne approfittava per fare la spesa. Altrimenti scendeva in paese verso le nove e passava dal macellaio, dal salumiere, in drogheria...».

«La drogheria Despierre?».

«È praticamente l’unica, a Saint-Justin».

Sotto il soffitto basso della drogheria, soprattutto di mattina, stazionavano sempre cinque o sei donne che chiacchieravano in attesa del proprio turno. Una volta Tony aveva paragonato il negozio – chissà poi perché – a una sagrestia.

«Sua moglie non le chiedeva mai di acquistare qualcosa?».

«Solo quando andavo a Triant o in altre città, nel caso di prodotti che in paese non si trovavano».

Sapeva che quelle domande non erano così innocenti come sembravano, ma rispondeva ugualmente con franchezza, sforzandosi di essere preciso.

«E dai Despierre non metteva mai piede?».

«Una volta ogni due mesi, forse. Per esempio, se un giorno mia moglie era impegnata con le grandi pulizie, oppure se aveva l’influenza».

«Qual era il giorno delle grandi pulizie?».

«Il sabato».

Come dappertutto, o quasi. Il lunedì era il giorno del bucato, il martedì o il mercoledì – a seconda del tempo e di quanto la biancheria impiegava ad asciugare –, quello della stiratura. Lo stesso avveniva pressoché ovunque, e c’erano giorni in cui i cortili e i giardini erano pavesati di lenzuola stese sulle corde.

«A che ora arrivava la posta?».

«Non ce la consegnavano a casa. Il treno arriva a Saint-Justin alle otto del mattino e i sacchi vengono subito portati all’ufficio postale. Considerato che abitavamo alla periferia del paese, il postino sarebbe passato da noi solo alla fine del suo giro, cioè non prima di mezzogiorno. Per questo preferivo andare io a ritirarla, e spesso dovevo aspettare che finissero di smistare il contenuto dei sacchi. Altrimenti, me la tenevano da parte».

«Ne riparleremo. Vi si recava a piedi?».

«Di solito sì. Prendevo la macchina solo se avevo da fare qualcosa fuori dal paese».

«Un giorno su due? Su tre?».

«In genere uno su due, fuorché in pieno inverno, perché allora mi spostavo di meno».

Avrebbe dovuto spiegare tutti i dettagli del suo lavoro, il ritmo delle stagioni, delle colture. Per esempio, quando erano tornati dalle Sables, il periodo delle fiere era già entrato nel vivo. Poco dopo c’era stata la vendemmia, poi erano cominciati i lavori autunnali, e così aveva avuto parecchie cose da sbrigare.

Il primo giovedì aveva evitato di passare da rue Neuve a vedere se Andrée aveva messo l’asciugamano alla finestra. L’aveva già detto al giudice Diem, e lui aveva insistito:

«Era deciso a non vederla più?».

«Non era proprio una decisione».

«Forse perché riceveva comunque sue notizie per altre vie?».

Quella volta Tony aveva commesso un errore e se ne era reso conto nel momento stesso in cui aveva aperto la bocca. Troppo tardi. La frase, già formulata, gli era uscita suo malgrado dalle labbra.

«Non ho ricevuto sue notizie».

Mentiva, ma non per se stesso, né aveva l’impressione di farlo per Andrée. Piuttosto, per una sorta di fedeltà, o di onestà virile.

Il giorno di quell’interrogatorio pioveva, e Tony si ricordava anche che il cancelliere Trinquet era al suo posto, seduto a un’estremità del tavolo.

«Lei è rientrato dalle Sables con sua moglie e sua figlia il 17 agosto. Il primo giovedì, contrariamente al solito, non è andato a Triant. Per caso aveva paura di incontrare Andrée Despierre?».

«Forse. Ma non userei il termine “paura”».

«Proseguiamo. Il giovedì successivo lei aveva un appuntamento alle dieci del mattino, nell’albergo di suo fratello, con tale Félicien Hurlot, segretario di una cooperativa agricola. Ha pranzato con quel cliente e poi è rientrato a Saint-Justin senza farsi vedere in place du Marché. Sempre per non correre il rischio di trovarsi faccia a faccia con la sua amante?».

Era impossibile rispondere. A dire il vero, non lo sapeva. Aveva vissuto due settimane come immerso nella nebbia, confuso, senza farsi domande, ma soprattutto senza prendere decisioni.

Tutto quello che poteva affermare, onestamente, era che sentiva Andrée più lontana rispetto ai mesi precedenti e che passava più tempo a casa, come se avesse bisogno del contatto con i suoi.

«Il 4 settembre...».

Mentre il giudice parlava, Tony cercava nella memoria il significato di quella data.

«Il 4 settembre, lei ha ricevuto la prima lettera».

Tony era arrossito.

«Non so di che lettera stia parlando».

«Sulla busta c’erano scritti in stampatello il suo nome e il suo indirizzo. Il francobollo recava il timbro di Triant».

«Non mi ricordo».

Continuava a mentire, pensando che ormai era troppo tardi per tornare indietro.

«L’addetto alla posta, il signor Bouvier, le ha anche fatto un’osservazione a proposito di quella lettera».

Diem, prendendo un foglio dal fascicolo, aveva letto:

«Gli ho detto: “Per me ha tutta l’aria di una lettera anonima, Tony. Solo quelli che mandano lettere anonime scrivono così”.

«Non ricorda neanche questo?».

Tony aveva scosso la testa, vergognandosi di mentire. E non era capace di farlo: arrossiva, guardava fisso un punto qualunque dello spazio per nascondere il turbamento che traspariva dal suo sguardo.

La lettera non era firmata, ma non per questo era del tutto anonima. Anche il testo, molto breve, era scritto in stampatello:

«Tutto bene. Sta’ tranquillo».

«Vede, signor Falcone, io sono convinto che la persona che le ha scritto, e che è andata a impostare questa lettera a Triant, ha contraffatto la grafia non per paura che la potesse riconoscere lei, ma per non farsi identificare dall’addetto alla posta. In questo caso, sarebbe qualcuno di Saint-Justin, la cui scrittura potrebbe essere familiare al signor Bouvier. La settimana successiva è arrivata al suo indirizzo una seconda busta, del tutto simile alla prima.

«“Guarda, guarda...” le ha detto scherzando l’impiegato. “Forse ho preso un granchio. Potrebbe esserci sotto una storia d’amore!”».

Il testo era lungo più o meno quanto il precedente:

«Io non dimentico. Ti amo».

Tony era rimasto così turbato che da quel giorno non aveva più osato passare da rue Neuve, e preferiva allungare la strada con una deviazione per raggiungere la stazione, dove andava con una certa frequenza a ritirare i colli con i pezzi di ricambio urgenti.

Aveva vissuto parecchie settimane con un senso di oppressione, ora correndo per mercati e fattorie, ora rimanendosene a casa, in tuta, a lavorare nel capannone.

Spesso, sicuramente più che in passato, attraversava il giardino per stare un po’ con Gisèle, sempre intenta a pulire verdure, a lavare il pavimento della cucina o, di sopra, a rifare i letti. Con Marianne a scuola, la casa sembrava più vuota. Alle quattro, quando la bambina rientrava, Tony sentiva il bisogno di tornare a dare un’occhiata in cucina, dove madre e figlia facevano merenda, l’una di fronte all’altra, ognuna con davanti il suo vasetto di marmellata.

Anche di questo avrebbero riparlato in seguito, e ripetutamente. A Marianne piaceva solo la marmellata di fragole, mentre Gisèle – a cui le fragole, crude o cotte che fossero, facevano venire l’orticaria – preferiva la composta di prugne.

Nei primi tempi del matrimonio, i gusti della moglie gli erano parsi curiosi e spesso si era divertito a stuzzicarla sull’argomento.

Con quei capelli biondi, il colorito pallido, i lineamenti delicati, la gente tendeva a trovare in lei un qualcosa di angelico. E invece amava i sapori forti, le aringhe affumicate, le insalate condite con aglio e aceto in abbondanza, i formaggi fermentati. Quando lavorava nell’orto non era difficile sorprenderla a sgranocchiare una grossa cipolla cruda. Di contro, non mangiava caramelle o cioccolatini, e a tavola non prendeva mai il dolce. Era lui quello goloso di dolciumi.

Nella loro coppia c’erano anche altre anomalie. I genitori di Tony, da buoni italiani, avevano educato i figli alla religione cattolica. I suoi ricordi d’infanzia erano pieni di musiche d’organo, di uscite dalla messa la domenica mattina, di donne e di ragazze che si mettevano il vestito di seta, la cipria e il profumo solo nei giorni di festa.

Per quanto lui conoscesse tutte le case, tutte le pietre del paese – si ricordava persino di un certo paracarro su cui una volta, tornando da scuola, aveva poggiato il piede per allacciarsi una scarpa –, il posto più importante nella sua memoria era riservato alla chiesa, con il coro illuminato dai ceri accesi e, dietro, le tre vetrate colorate, diverse da tutte le altre, che erano bianche. Su ognuna di esse c’era scritto il nome di chi l’aveva donata, e sulla vetrata di destra era riportato quello di un Despierre, nonno o bisnonno di Nicolas.

Tony continuava ad andare a messa la domenica con Marianne, mentre la moglie restava a casa. Gisèle non era battezzata, visto che il padre si professava ateo e in tutta la sua vita aveva letto solo quattro o cinque romanzi di Zola.

«Io sono un semplice operaio, ma ti dico, Tony, che Germinal...».

Proprio il contrario delle altre famiglie, in cui gli uomini accompagnavano le mogli fino alla porta della chiesa, e in attesa che la messa terminasse andavano a bersi un bicchiere al caffè più vicino.

«Vorrebbe farmi credere, signor Falcone, che lei non si aspettava, in particolare durante il mese di ottobre, che succedesse qualcosa?».

Nulla di preciso. Più che altro avvertiva un senso di malessere, come quando si sta covando una malattia. Aveva piovuto parecchio, e Tony stava dalla mattina alla sera con gli stivali di gomma e i pantaloni da equitazione, che insieme alla canadese scura costituivano la sua tenuta invernale.

Marianne era eccitata per via della scuola, e a tavola ne parlava incessantemente.

«Neanche della terza lettera si ricorda niente? Il signor Bouvier ha una memoria migliore della sua. Secondo lui, è arrivata un venerdì – come del resto le altre –, intorno al 20 ottobre».

Era la più breve e la più inquietante:

«Ci siamo. Ti desidero».

«Suppongo che questi biglietti, così come i successivi, lei li abbia bruciati...».

No. Li aveva strappati a pezzettini, che poi aveva buttato nell’Orneau. Ingrossate dalla pioggia, le acque fangose trasportavano rami di alberi, carogne di animali e ogni sorta di detriti.

«Stando alla mia esperienza, lei non tarderà a cambiare tattica. Su tutti gli altri punti sembra aver risposto con franchezza. Sarei sorpreso se il suo avvocato non le consigliasse di comportarsi così anche a proposito delle lettere, il che le permetterebbe di dirmi qual era il suo stato d’animo alla fine di ottobre».

Impossibile. Il suo stato d’animo cambiava di ora in ora. Tony si sforzava di non pensare, e percepiva che Gisèle lo osservava con curiosità, forse con inquietudine. Non gli chiedeva più:

«A che pensi?».

Semmai gli domandava, svogliatamente:

«Non hai fame?».

In effetti, aveva poco appetito. Era andato tre volte, all’alba, a raccogliere funghi nel prato che si stendeva fra la casa e la fucina, in alto, vicino al grande ciliegio. Aveva venduto parecchi trattori, di cui due alla cooperativa agricola di Virieux, che li dava a noleggio ai piccoli proprietari e che gli aveva ordinato, per un uso analogo, una mietitrebbiatrice per l’estate successiva.

Era stata una buona annata, e Tony avrebbe potuto pagare una parte consistente del debito che aveva contratto per la casa.

«E arriviamo al 31 ottobre. Cosa ha fatto quel giorno?».

«Sono stato da un cliente di Vermoise, a trentadue chilometri da Saint-Justin, per riparare un trattore difettoso. Ho lavorato parecchio per scoprire la causa del guasto e poi mi sono trattenuto a mangiare alla fattoria».

«Al ritorno è andato a Triant a trovare suo fratello?».

«Dovevo passare di lì, e in questi casi di solito mi fermo a fare quattro chiacchiere con Vincent e Lucia».

«Li ha informati delle sue preoccupazioni? Di un cambiamento possibile, se non probabile, nella sua esistenza?».

«Quale cambiamento?».

«Ne riparleremo più avanti. Poi è tornato a casa e ha cenato. Dopodiché si è messo a guardare la televisione, che aveva fatto installare due settimane prima. Così almeno ha dichiarato all’ispettore della Polizia giudiziaria di cui ho qui il rapporto. Quando è andato a coricarsi, sua moglie è salita insieme a lei?».

«Certo».

«E lei, signor Falcone, era all’oscuro di ciò che stava succedendo, quella notte, a meno di mezzo chilometro da casa sua?».

«Come avrei potuto saperlo?».

«Dimentica le lettere. Lei nega la loro esistenza, è vero. Ma io no, io ne tengo conto. L’indomani, giorno di Ognissanti, si è diretto verso la chiesa intorno alle dieci, portando con sé sua figlia».

«Sì, è esatto».

«Dunque è passato davanti alla drogheria».

«La saracinesca era chiusa, come sempre la domenica e i giorni festivi».

«Anche le persiane del primo piano erano chiuse?».

«Non ho neanche alzato la testa».

«Il motivo di tanta indifferenza è che considerava finita la sua relazione con Andrée Despierre?».

«Penso di sì».

«Oppure non ha sollevato lo sguardo perché sapeva già tutto?».

«Non sapevo niente».

«Ma c’erano parecchie persone ferme sul marciapiede davanti al negozio!».

«Di gente che si raduna in piazza ce n’è ogni domenica, prima e dopo la messa solenne».

«Quando ha saputo della morte di Nicolas?».

«All’inizio della predica. Don Louvette, non appena è salito sul pulpito, ha invitato i fedeli a pregare con lui per l’eterno riposo di Nicolas Despierre, deceduto nel corso della notte, all’età di trentatré anni».

«Che effetto le ha fatto?».

«Sono rimasto molto colpito».

«Si è accorto che, dopo le parole del sacerdote, molti si sono girati verso di lei?».

«No».

«Però lo sostiene Pirou, il proprietario del negozio di ferramenta, che è anche guardia campestre giurata e di cui ho qui la testimonianza».

«È possibile, ma non capisco come gli abitanti di Saint-Justin potessero essere al corrente».

«Al corrente di cosa?».

«Della mia relazione con Andrée».

«Uscendo dalla chiesa, lei ha preferito non attardarsi e ha evitato di andare a visitare la tomba di sua madre».

«Avevamo deciso, io e mia moglie, che saremmo passati dal cimitero nel pomeriggio».

«Al ritorno, Didier, il maniscalco suo vicino, l’ha raggiunta e ha fatto un pezzo di strada con lei. A un certo punto le ha detto:

«“Era chiaro che doveva succedere un giorno o l’altro, ma non mi aspettavo così presto. Comunque, almeno una sarà contenta”».

«Può darsi che l’abbia detto. Non mi ricordo».

«Non è che era troppo emozionato per sentirlo?».

Che dire? Sì? No? Era senza parole, sconcertato. Ricordava solamente la manina di Marianne, con i guanti di lana, stretta nella sua, e la pioggia che ricominciava a cadere.

 

 

Il telefono sulla scrivania del giudice aveva squillato e l’interrogatorio era stato interrotto da una lunga conversazione a proposito di un certo Martin, di una gioielleria e di un testimone che si ostinava a non dire quello che sapeva.

Per quanto Tony riusciva a capire, all’altro capo del filo doveva esserci il procuratore della Repubblica, un tipo che si dava un sacco di arie e che gli incuteva un certo timore, anche se l’aveva visto solo una volta per non più di mezz’ora.

Diem, invece, non gli faceva paura, tutt’altro. A suo parere sarebbe bastato un nonnulla perché loro due si capissero, e magari diventassero amici, ma questo nonnulla non si verificava mai.

«Mi scusi, signor Falcone» mormorò riattaccando il ricevitore.

«Di niente».

«Dove eravamo rimasti? Ah, sì! Al suo ritorno dalla messa solenne. Suppongo che avrà dato la notizia a sua moglie...».

«Ci ha pensato mia figlia. Appena arrivata a casa, si è staccata dalla mia mano per correre subito in cucina».

La casa aveva l’odore della domenica, quello dell’arrosto che Gisèle, china davanti al forno aperto, stava irrorando di sugo. Ogni domenica, infatti, mangiavano arrosto di manzo aromatizzato ai chiodi di garofano, con contorno di piselli e purè di patate. Così come il martedì era il giorno del bollito.

All’epoca non si rendeva conto di quanto fossero rassicuranti quelle abitudini.

«Si ricorda le parole di sua figlia?».

«Ha gridato, tutta eccitata: “Mamma! Una grande notizia! Nicolas è morto!”».

«E che reazione ha avuto sua moglie?».

«Si è girata verso di me, chiedendomi: “È vero, Tony?”».

Stava mentendo di nuovo, per omissione, e il suo sguardo evitava quello del giudice. In realtà, Gisèle era impallidita e aveva quasi lasciato cadere il mestolo di legno. Del resto, lui non era meno turbato di lei. Solo dopo qualche istante, la moglie – senza rivolgersi a nessuno in particolare – aveva mormorato a mezza voce:

«E dire che è stato proprio lui a servirmi ieri mattina...».

Questa frase avrebbe anche potuto riferirla al giudice. Ma di quello che si erano detti dopo, benché non ci fosse niente di veramente pericoloso, Tony preferiva non fare menzione davanti al magistrato. A un certo punto, comunque, era intervenuta Marianne:

«Posso venire anch’io al funerale?».

«I bambini non assistono ai funerali».

«Josette, però, c’è andata».

«Perché era morto suo nonno».

La bambina si era messa a giocare nella stanza accanto, e allora Gisèle, senza guardare il marito, aveva chiesto:

«Che farà Andrée?».

«Non ne ho idea».

«Dovrai andare a farle le condoglianze, no?».

«Non oggi. Meglio la mattina del funerale».

«Dev’essere successo ieri sera o stanotte...».

Per tutta la giornata Gisèle non era più stata la stessa.

«E nei giorni successivi?» aveva insistito il piccolo giudice.

«Sono stato quasi sempre fuori casa».

«Ha cercato di sapere in che circostanze era morto Nicolas?».

«Non ho messo piede in paese».

«Neanche per ritirare la posta?».

«Sì, ma sono subito tornato indietro».

Diem aveva consultato il suo fascicolo.

«Vedo che la drogheria è rimasta chiusa per Ognissanti, ma ha riaperto la mattina del giorno dei Morti».

«È consuetudine del paese».

«Chi c’era dietro al bancone?».

«Non lo so».

«Sua moglie è andata a fare acquisti da Despierre?».

«Non mi ricordo. Probabilmente sì».

«E non le ha raccontato niente?».

«No».

Sapeva solo che quel giorno pioveva, il vento scuoteva gli alberi e Marianne era irrequieta come ogni volta che, a causa del brutto tempo, non poteva giocare all’aperto.

«Glielo dirò io che cosa è successo a casa Despierre. Da parecchi giorni Nicolas era nervoso e taciturno. Il che, in genere, preannunciava una crisi.

«In questi casi la sera, secondo la prescrizione del dottor Riquet – il quale ce l’ha confermato –, prendeva una compressa di bromuro.

«Il 31 ottobre sua madre è andata a trovarlo verso le otto, dopo cena, mentre Andrée rigovernava, e si è lamentata che si stava prendendo l’influenza».

La storia suonava familiare a Tony, perché ne aveva già sentito parlare.

«Lo sa, signor Falcone, che proprio quella sera il dottor Riquet si era eccezionalmente allontanato da Saint-Justin e sarebbe tornato solo l’indomani mattina? Sua sorella, che vive a Niort, era malata, e lui aveva deciso di andare a trovarla».

«No, non lo sapevo».

«Suppongo che fosse anche il suo medico di famiglia. Saprà, dunque, che non si assentava praticamente mai e che di rado riusciva a prendersi una vacanza. Il giorno prima, nella tarda mattinata, era passato dai Despierre per visitare Nicolas e avvertirli di quel breve viaggio».

Il dottor Riquet, con la sua barba cespugliosa, aveva l’aria di uno spaniel, e non disdegnava di frequentare il bar della stazione per farsi una partita a carte e buttar giù qualche bicchierino.

«All’assenza del medico aggiunga l’influenza della signora Despierre. Capisce dove voglio arrivare? Alle tre del mattino, la sua amica Andrée ha telefonato al dottore, come se non sapesse che non c’era. Ha trovato solo la domestica, perché la signora Riquet era partita insieme al marito.

«Invece di chiamare un medico di Triant, è uscita in vestaglia per andare a svegliare la suocera dall’altro lato del giardino. E quando le due donne sono entrate nella camera, Nicolas era già morto».

Tony ascoltava imbarazzato, senza sapere che atteggiamento assumere.

«Andrée Despierre, visto che comunque era troppo tardi, ha ritenuto inutile far venire un medico da fuori. Così, il dottor Riquet è arrivato al capezzale di Nicolas solo l’indomani mattina alle undici.

«Considerati i precedenti, lo ha esaminato velocemente prima di firmare il nullaosta per la sepoltura. In seguito il dottore ha spiegato le motivazioni cliniche per cui il novanta per cento dei suoi colleghi, al suo posto, avrebbe agito allo stesso modo.

«Ciò non toglie che, sin dall’indomani, in paese cominciassero a circolare delle voci. Lei non ne ha saputo niente?».

«No».

Questa volta era sincero. Solo parecchio tempo dopo aveva appreso con stupore che a quell’epoca, a Saint-Justin, il suo nome veniva già associato a quello di Andrée.

«Lei conosce l’ambiente di provincia meglio di me, signor Falcone. Sa bene, dunque, che queste voci arrivano raramente alle orecchie degli interessati, e quasi mai a quelle della polizia o della Giustizia.

«Ci sono voluti mesi perché qualcuno si decidesse a parlare. E anche dopo i successivi eventi, io e l’ispettore Mani abbiamo faticato parecchio per ottenere deposizioni circostanziate.

«Ci siamo riusciti a forza di pazienza, e adesso ho qui un fascicolo piuttosto voluminoso, che è stato trasmesso ugualmente al suo difensore. L’avvocato Demarié gliene avrà certo parlato».

Tony annuì. In realtà, continuava a non capire. Per undici mesi lui e Andrée avevano fatto di tutto perché nessuno sospettasse della loro relazione.

Non solo lui evitava, nei limiti del possibile, di mettere piede nella drogheria, ma anche quando era costretto ad andarci si rivolgeva a Nicolas piuttosto che alla moglie. Se al mercato di Triant gli capitava di incrociare Andrée tra la folla, si limitava a farle un vago gesto di saluto.

A parte quella sera di settembre, sul ciglio della strada, si erano sempre incontrati nella camera azzurra. Arrivavano separatamente, entravano da due porte diverse ed entrambi facevano bene attenzione a lasciare la macchina a una certa distanza dall’albergo.

Né suo fratello né sua cognata avevano detto niente a nessuno, Tony era sicuro di poterci contare. E aveva altrettanta fiducia nella discrezione di Françoise.

«In paese vi associavano l’uno all’altro al punto che, al funerale di Nicolas Despierre, tutti avevano lo sguardo puntato su di lei, signor Falcone, mentre sua moglie era oggetto di commiserazione».

Tony se n’era accorto ed era rimasto turbato.

«È difficile spiegarsi come nascano queste voci, ma non appena cominciano a girare, niente può più fermarle. All’inizio si mormorava che la morte di Nicolas era arrivata al momento giusto e che sua moglie doveva sentirsi sollevata da un gran peso.

«Poi qualcuno ha osservato che proprio quella notte il medico era assente, un’assenza provvidenziale per chi avesse voluto sbarazzarsi del droghiere facendo credere che fosse morto per una delle sue crisi.

«Se chiamato in tempo, quando Nicolas era ancora vivo, probabilmente il dottor Riquet avrebbe fatto una diagnosi diversa».

Tutto vero, incontestabile.

«Molti hanno anche notato che durante le esequie lei è rimasto nell’ultima fila, il che è stato interpretato da taluni come una mossa astuta per tenersi il più lontano possibile dalla sua amante».

Tony si asciugò il viso col fazzoletto, perché era in un bagno di sudore. Aveva vissuto per mesi senza sospettare di essere spiato, senza immaginare che a Saint-Justin tutti sapevano che lui era l’amante di Andrée e si chiedevano cosa sarebbe successo.

«In tutta franchezza, non crede che sua moglie sapesse, né più né meno degli altri? Non pensa che anche lei dovesse aspettarsi, come tutti, che accadesse qualcosa?».

Scosse la testa, ma debolmente, perché non era più sicuro di sé.

«Mettiamo che avesse saputo della sua relazione con Andrée. Secondo lei, gliene avrebbe parlato?».

«Forse no».

Certamente no. Non era da lei. Tanto che non aveva mai fatto allusione ad altre sue avventure, pur essendone a conoscenza.

Per niente al mondo Tony avrebbe voluto rivivere quell’inverno, anche se non aveva mai provato così forte la percezione di appartenere alla sua famiglia, la sensazione che loro tre formassero un tutt’uno; una sensazione di intimità quasi animalesca, come se stesse rannicchiato nel più profondo di una tana insieme alla sua compagna e al suo cucciolo.

L’atmosfera in casa, nonostante i colori allegri che avevano scelto, era diventata pesante, opprimente. Tony si allontanava solo quando gli affari glielo imponevano e controvoglia, con l’impressione di un pericolo incombente, come se durante la sua assenza dovesse accadere qualcosa.

«Non ha più incontrato la sua amante per tutto l’inverno?».

«Mi pare di averla intravista da lontano. Ma giuro che non le ho mai rivolto la parola».

«E non è più andato all’albergo di suo fratello per incontrarsi con lei?».

«Assolutamente no».

«Ma Andrée le ha fatto più volte il vostro segnale, è così?».

«Io me ne sono accorto solo una volta. Evitavo di passare per rue Neuve, soprattutto il giovedì».

«Però almeno un giovedì le è capitato di passarci. Quando è stato?».

«All’inizio di dicembre. Stavo andando alla stazione e ho preso la strada più breve. Sono rimasto meravigliato nel vedere l’asciugamano alla finestra, e mi sono chiesto se non si trattasse di un caso».

«È andato a Triant, quel giorno?».

«No».

«Ha visto passare la 2 CV?».

«All’andata no, ma l’ho vista quando è tornata. Ero nel mio ufficio, e a un certo punto ho sentito due o tre colpi di clacson con cui forse Andrée intendeva segnalarmi il suo passaggio».

«Suo fratello le ha parlato di quella visita?».

«Sì».

«Le ha anche detto che era salita direttamente nella camera azzurra e che, secondo Françoise, si era spogliata e l’aveva aspettata sul letto per più di mezz’ora?».

«Sì».

«Andrée, poi, ha incaricato Françoise di riferirle un messaggio. Cosa diceva?».

«Voleva assolutamente vedermi per parlarmi».

«Ha saputo da Françoise in che stato era la sua amante dopo quella mezz’ora di attesa?».

«Ha ammesso che le aveva fatto paura».

«Perché?».

«Non ha saputo spiegarmelo».

«E con suo fratello ne ha parlato?».

«Sì. Mi ha consigliato di lasciar perdere. Ha usato proprio queste parole. Gli ho risposto che con Andrée avevo chiuso da un pezzo, e lui ha replicato:

«“Forse sarà finita per te. Ma per lei no di certo!”».

Aveva piovuto fino a metà dicembre, e i pascoli più bassi erano tutti inondati. Poi era arrivato il gran freddo e infine, il 20 o il 21, aveva nevicato. Marianne non stava in sé dalla gioia e ogni mattina si precipitava alla finestra per controllare che la neve non si fosse sciolta.

«Vorrei tanto che resistesse fino a Natale!».

Non le era mai capitato di vedere un Natale tutto bianco. Negli anni precedenti aveva piovuto o c’erano state delle gelate.

Adesso che era grande – come diceva con fierezza da quando andava a scuola –, aveva aiutato il padre ad addobbare l’albero di Natale e aveva disposto personalmente i pastori e le pecorelle di gesso attorno alla mangiatoia.

«Lei sostiene di essere rimasto all’oscuro di quanto succedeva in casa Despierre?».

«Sapevo, tramite mia moglie, che la madre aveva ripreso il suo posto in negozio, ma che le due donne continuavano a non rivolgersi la parola».

«Non ha avuto notizia di un procedimento giudiziario?».

«Una volta, in un caffè, mi è capitato di ascoltare qualcosa in proposito».

Il suo lavoro lo portava a frequentare i piccoli bar di provincia, dove l’illuminazione era per lo più scarsa e i clienti se ne stavano impalati per ore davanti alla bottiglia, discutendo a voce sempre più alta. A Saint-Justin ce n’erano sei, anche se tre di essi si affollavano solo nei giorni di fiera.

«Anche lei si aspettava, al pari degli altri, che quelle due finissero in tribunale?».

«Le ripeto, signor giudice, che la cosa non m’interessava».

«Però era al corrente della situazione, no?».

«Come tutti. In giro si diceva che la vecchia Despierre, per quanto furba, aveva fatto un cattivo affare e che, alla fin fine, Andrée l’avrebbe avuta vinta».

«Lei non sapeva se queste voci erano fondate o meno?».

«E come avrei potuto saperlo?».

«La sua amante, durante gli undici mesi della vostra relazione, non le ha mai confidato che era sposata in regime di comunione dei beni?».

«Non parlavamo mai del suo matrimonio».

È vero che avevano parlato poco, e avrebbero fatto ancora meglio a tacere del tutto. A conferma di ciò il giudice Diem era tornato di nuovo all’ultimo giovedì nella camera azzurra.

«Però fantasticavate sul vostro avvenire comune».

«Erano frasi buttate lì, niente di serio».

«Anche da parte di Andrée? Ne è proprio sicuro? Mi permetta di ricordarle che due mesi prima della morte del marito lei pensava già all’ipotesi di rimanere vedova».

Tony stava per protestare, ma Diem aveva proseguito:

«Forse non in termini così precisi. Comunque, quando le chiedeva che cosa avrebbe fatto se lei si fosse ritrovata libera, alludeva sicuramente alla scomparsa di Nicolas».

Avrebbe dato qualunque cosa – un braccio, una gamba, un occhio – perché certe parole non fossero mai state pronunciate. Si vergognava di averle ascoltate senza ribellarsi, odiava il Tony che in piedi davanti allo specchio si tamponava il sangue sul labbro, fiero di starsene tutto nudo in un raggio di sole, di essere un bel maschio che si lasciava ammirare, fiero di vedere il suo sperma colare dalla vulva di una femmina.

«Ti piacerebbe vivere sempre con me?».

E poco dopo:

«Perdi ancora sangue?».

Era contenta, lei, di averlo morso, di costringerlo a rientrare a casa mostrando a sua moglie e a sua figlia il segno dei loro giochi amorosi!

«E che le dici se ti chiede qualcosa?».

Si riferiva a Gisèle, e lui ne parlava con noncuranza, come se non contasse niente.

«Le dirò che ho sbattuto... Contro il parabrezza, per esempio. Una frenata brusca...».

Tony sentiva che quella frase suonava come un tradimento. Lo sentiva al punto che quando Marianne, e non Gisèle, gli aveva chiesto il perché del labbro tumefatto, lui aveva cambiato versione, sostituendo il parabrezza con un palo.

«Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?».

Chissà che cosa sarebbe successo se il treno non avesse fischiato, come per lanciargli un avvertimento, mentre lei, con la sua voce un po’ roca, diceva:

«Dimmi, Tony. Se io mi ritrovassi libera...».

Era arrivato al punto di detestare le parole!

«Faresti in modo di renderti libero anche tu?».

Quelle frasi gli erano ronzate nelle orecchie per tutto l’inverno, gli ritornavano in mente a tavola, nella cucina dai vetri appannati, le aveva anche ripetute fra sé e sé mentre la figlia apriva i pacchi dei giocattoli sotto l’albero di Natale. Come poteva confessarlo al giudice?

«La drogheria di rue Neuve,» aveva continuato implacabilmente Diem «le case, le fattorie, il piccolo borgo della Guipotte appartengono ormai alle due donne, e Andrée Despierre ha il diritto di pretendere che l’insieme dei beni venga messo all’asta per prendersi ciò che le spetta dell’eredità».

Una lunga pausa.

«Se n’è fatto un gran parlare a Saint-Justin, non è vero?».

«Credo. Sì».

«E molti erano convinti che la vecchia Despierre non avrebbe mai accettato di vedere parte dei suoi beni finire in mani estranee, è così? Non è forse per questo che è tornata a lavorare in negozio, accanto a una nuora che detesta e a cui non rivolge nemmeno la parola? La decisione dipendeva da Andrée. E la decisione di Andrée dipendeva da lei, signor Falcone...».

Tony non aveva potuto impedirsi di sussultare, di aprire la bocca per protestare che era tutto falso.

«Sto ripetendo solo quello che si mormorava in giro. Ecco perché la tenevano d’occhio, signor Falcone: si chiedevano che posizione avrebbe assunto. La vecchia Despierre appartiene al paese, fa parte di esso, anche se la gente le rimprovera la sua avarizia e la sua durezza.

«Di contro, Andrée non era ben vista, con tutte quelle arie che si dava, ed era tollerata unicamente grazie al ricordo lasciato dal padre.

«Quanto a lei, non solo è di origine straniera, ma ha abbandonato il paese per dieci anni, e tutti si sono sempre chiesti perché mai fosse tornato».

«Dove vuole arrivare?».

«A niente di preciso. I giochi erano aperti. Molti si aspettavano che Andrée premesse per vendere malgrado tutto, ricorrendo alle vie legali se necessario, e che – una volta in possesso del gruzzolo – lasciasse Saint-Justin insieme a lei.

«Quella che compativano di più era sua moglie, nonostante non avesse particolari rapporti con i compaesani. Lo sa come la chiamavano alcuni? “La piccola signora tanto dolce e sempre così affaccendata”».

Diem sorrise indicando un fascicolo.

«Tutto quello che le sto dicendo si trova scritto qui, nero su bianco. Alla fine si sono convinti a parlare. Il suo avvocato, glielo ripeto, ha una copia della pratica. Demarié avrebbe potuto assistere a questi interrogatori. È stato lui – con il suo consenso, signor Falcone – a lasciare che lei se la sbrigasse da solo».

«Gliel’ho chiesto io».

«Lo so. Anche se non ne vedo il motivo».

Inutile spiegare che, quando andava a confessarsi, la figura del prete dietro la grata non lo imbarazzava per nulla, ma la presenza di una terza persona l’avrebbe fatto di sicuro ammutolire. E Diem, malgrado il suo finto stupore, lo aveva capito così bene che, quando doveva toccare un punto delicato, un argomento intimo, aveva cura di far allontanare il cancelliere.

«E ora, signor Falcone, perché non parliamo delle ultime due lettere, quella di fine dicembre e quella del 20 gennaio?».