giovedì 5 agosto 2021

GRIDALO FORTE James Baldwin


GRIDALO FORTE 

James Baldwin 

 James Baldwin ha costretto l'America degli anni Sessanta a fare i conti con il suo passato. Ha posto un problema legato alla definizione dell'identità, non basata sul dualismo “bianco e nero”, bensì sul presupposto di cosa voglia dire appartenere all'umanità. Baldwin ha guardato la società americana quando lei stessa non aveva il coraggio di farlo; ha detto al Paese che lui è un uomo, non un nero. Ha rivendicato il suo essere cittadino americano, non uno straniero. Ma, soprattutto, ha ricordato ai suoi interlocutori che lui è un fratello, non un nemico. È morto nel 1987 in Francia. L'assassinio di Malcolm X, Martin Luther King e Medgar Evers lo avevano profondamente turbato, e una generale stanchezza lo aveva iniziato a pervadere, riversandosi nelle sue ultime opere. Continuò a viaggiare instancabilmente tra l'America e l'Europa, senza mai trovare la tanto agognata serenità.

Baldwin è un autore che va scoperto o riscoperto per la sua innegabile attualità. “La storia degli Stati Uniti è la storia degli afroamericani e il futuro degli Stati Uniti è il futuro degli afroamericani”, ha scritto in Remember This House, e inevitabilmente nel pieno della nuova ondata di proteste del movimento Black Lives Matter, queste parole riecheggiano come una promessa.

RECENSIONE 

Valentina Leoni 

John è figlio del Reverendo Grimes, integerrimo predicatore devoto fino al fanatismo, severo fino al sadismo. Dal ragazzo tutti si aspettano che segua le orme del padre ma, crescendo, John incomincia a interrogarsi sui valori che la comunità afroamericana gli sta inculcando e si fa forte in lui il desiderio di trovare una Fede che sia una vera esigenza della sua anima, piuttosto che il frutto del terrore suscitato dal burbero genitore; una fede che gli dia anche la forza per affermare se stesso oltre i pregiudizi e il cieco bigottismo che soffoca ogni autentico slancio di fratellanza e di amore. Inizia così un’analisi psicologica del suo rapporto col padre e con gli altri membri della sua famiglia – l’anticonformista zia Florence, la mite Deborah, il riottoso Roy, l’indifesa Elizabeth – che fornisce a James Baldwin l’occasione di raccontare, attraverso le vicende della famiglia, molte pagine di storia americana segnate dal razzismo e dalle disuguaglianze sociali; e di fare un’accurata disamina del ruolo delle comunità religiose presso gli afroamericani. L’autore non nasconde critiche a un sistema che sembra dare per scontate miseria, fame, crudeltà in quanto volere divino, e non privi di peccato fa apparire coloro che si presumono santi ma che celano grettezze, bassezze morali, meschinità e debolezze che tentano di occultare dall’alto dello stesso pulpito dal quale condannano gli altri. La narrazione di James Baldwin è diretta, potente, la trama è avvincente e la costruzione salda, perfetta per innescare un dibattito sui diritti civili ma anche per coinvolgere completamente il lettore. Non fatevelo mancare.


GRIDALO FORTE 

James Baldwin 

Parte prima

 

IL SETTIMO GIORNO

E lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni! “ E chi ascolta dice. “Vieni!” E chi ha sete, venga; e chi vuole prenda gratuitamente l'acqua della vita.

 

Tutti avevano sempre detto che John, da grande, avrebbe fatto il predicatore, proprio come suo padre. Lo avevano detto così spesso che John, senza nemmeno rifletterci sopra, era arrivato a esserne convinto anche lui, Non cominciò a pensarci seriamente che la mattina del suo quattordicesimo compleanno, e allora era già troppo tardi.

I suoi ricordi più lontani - che erano in certo modo i suoi unici ricordi - riguardavano la vivace animazione delle mattine di domenica. Si alzavano tutti insieme, quel giorno: suo padre, che non doveva andare a lavorare, e guidava la loro preghiera prima della colazione; sua madre, che quel giorno si vestiva per bene, e sembrava quasi giovane, coi capelli in ordine, e in testa l’aderente berretta bianca che era l’uniforme delle “sante”1; il suo fratello minore Roy, che stava zitto quel giorno perché il padre era in casa. Sarah, che si mette va un nastro rosso nei capelli, quel giorno, e era coccolata da suo padre. E la più piccola, Ruth, che era vestita in rosa,e bianco e andava in chiesa in braccio a sua madre.

La chiesa non era molto lontana, quattro isolati su per Lenox Avenue, a un angolo non lontano dall’ospedale. Era a questo ospedale che era andata sua madre quando Roy e Sarah e Ruth erano nati. John non ricordava molto bene la prima volta che ci era andata, per avere Roy; dicevano che aveva continuato a piangere tutto il tempo che sua madre era stata via; ricordava solo quanto bastava per aver paura ogni volta che la pancia della mamma cominciava a ingrossare, perché sapeva che ogni volta che l’ingrossamento cominciava esso non sarebbe finito finché la mamma non gli fosse stata portata via, per poi tornare a casa con un estraneo. Ogni volta che questo avveniva diventava un po’ più estranea anche lei.

Presto sarebbe andata via un’altra volta, disse Roy; la sapeva molto più lunga di John su queste cose. John aveva osservato attentamente sua madre, senza vedere ancora nessun ingrossamento, ma suo padre aveva pregato una mattina per il «piccolo viaggiatore che sarebbe stato presto fra loro” e così John seppe che Roy diceva la verità.

Ogni domenica mattina, poi, fin dove John poteva tornare indietro con la memoria, la famiglia Grimes pigliava la strada della chiesa, Dei peccatori, lungo la via, osservavano il passaggio, uomini con ancora i vestiti del sabato sera, ormai sgualciti e polverosi, occhi e facce torbidi; e donne con voci aspre e vestiti attillati, a colori vivaci, sigarette fra le dita o strette all’angolo della bocca. Parlavano, ridevano e si azzuffavano tra loro, e le donne lottavano come gli uomini.

John e Roy, oltrepassando questi uomini e donne, si scambiavano una rapida occhiata, John imbarazzato e Roy divertito, Roy da grande sarebbe stato come loro, se Dio non avesse cambiato il suo cuore. Quegli uomini e quelle donne davanti ai quali essi passavano la domenica mattina avevano passato la notte nei bar, o in case equivoche, o nelle strade, o sui tetti, o sotto le scale. Avevano bevuto. Erano passati dalle bestemmie al riso, alla rabbia, alla libidine. Una volta lui e Roy avevano spiato un uomo e una donna nel sotterraneo di una casa malfamata. I due avevano fatto tutto stando in piedi. La donna aveva chiesto cinquanta cents, e l’uomo aveva fatto lampeggiare un rasoio.

John da allora non era più andato a spiare; era rimasto spaventato. Ma Roy ci era tornato molte volte e aveva detto a John di aver fatto quella cosa con alcune ragazze che stavano in fondo all’isolato. E sua madre e suo padre, che andavano in chiesa la domenica, anche loro facevano la stessa cosa, e qualche volta John li sentiva nella stanza da letto dietro di lui, sopra il rumore delle zampe dei topi, e delle strida dei topi, e della musica e delle bestemmie che arrivavano su dalla casa equivoca del piano di sotto.

La loro chiesa si chiamava il Tempio del Fuoco Battezzato. Non era la chiesa più grande di Harlem, e nemmeno la più piccola, ma John era stato cresciuto nella credenza che fosse la più santa e la migliore. Suo padre era capodiacono in questa chiesa - ce ne erano solo due, l’altro era un uomo nero e rotondo che si chiamava diacono Braithwaite - e faceva la colletta, e qualche volta predicava. Il Pastore, padre James, era un uomo cordiale, ben nutrito, con una faccia come una luna negra. Era lui che predicava le domeniche di Pentecoste, e dirigeva revivals durante l’estate, e dava l’unzione, e guariva i malati.

Le mattine e le sere di domenica la chiesa era sempre piena; certe speciali domeniche era piena tutto il giorno. La famiglia Grimes arrivava in gruppo, sempre un po’ in ritardo, di solito a metà della scuola domenicale, che cominciava alle nove. Questo ritardo era sempre colpa della madre, almeno agli occhi del padre; sembrava che non riuscisse mai a esser pronta in tempo, coi figli, e qualche volta restava veramente indietro, così da non comparire che al servizio del mattino.

Quando arrivavano tutti insieme, si separavano sulla porta della chiesa, padre e madre prendendo posto fra gli adulti, dove insegnava sorella McCandless, Sarah andando fra i bambini, John e Roy sedendo fra quelli del corso intermedio, dove insegnava fratello Elisha.

Da giovane John aveva seguito senza interesse la scuola domenicale, e sempre dimenticava il sacro testo, cosa che faceva infuriare contro di lui il padre. Compiuti i quattordici anni, stretto da tutte le pressioni che facevano chiesa e casa unite per portarlo all’altare, si sforzò di sembrare più serio e per conseguenza meno strambo. Ma le sue idee cambiarono per opera del suo nuovo maestro, Elisha, che era nipote del Pastore ed era arrivato solo da poco dalla Georgia. Era di poco maggiore a John, aveva solo diciassette anni, ed era già salvato ed era predicatore. John guardava fisso Elisha per tutta la lezione, ammirando il timbro della voce di Elisha, molto più profonda e virile della sua, ammirando la snellezza, la grazia, la forza e il colorito scuro di Elisha nel suo vestito della domenica, domandandosi se avrebbe mai raggiunto la purezza spirituale di Elisha. Ma non seguiva la lezione e quando, qualche volta, Elisha si interrompeva per fare a John una domanda, John restava confuso e pieno di vergogna, sentendosi le mani diventare umide di sudore e il cuore battere come un martello. Elisha allora sorrideva e lo rimproverava con dolcezza, e la lezione andava avanti.

Neanche Roy sapeva mai la sua lezione alla scuola domenicale, ma con Roy era differente, nessuno in realtà si aspettava da Roy ciò che tutti, invece, si aspettavano da John. Tutti pregavano sempre Dio perché cambiasse il cuore di Roy, ma era da John che si aspettavano che fosse buono, che fosse un buon esempio.

Quando finiva la scuola domenicale c’era una piccola pausa prima che cominciasse il servizio del mattino, In questa pausa, se era bel tempo, i vecchi potevano uscire un momento a parlar fra di loro. Le Sorelle erano quasi sempre vestite di bianco dalla testa ai piedi. I bambini piccoli, in quel giorno, in quel posto e oppressi dai più grandi, cercavano in tutti i modi di giocare senza aver l’aria di mancar di rispetto alla casa di Dio. Ma qualche volta, inquieti o capricciosi, strillavano, o buttavano il libro degli inni, o cominciavano a piangere, ponendo i loro genitori, uomini e donne timorati di Dio, nella necessità di far vedere, con le buone o con le cattive, chi è che comanda, in una famiglia consacrata. I ragazzi più grandi, come John e Roy, potevano passeggìare per la strada, ma non troppo lontano. Il padre non permetteva mai a John e Roy di andare dove non li potesse tener d’occhio, perché spesso, fra la scuola domenicale e il servizio del mattino, Roy era sparito e non era tornato a casa per tutto il giorno.

Il servizio della domenica mattina aveva inizio quando fratello Elisha sedeva al piano e cominciava a cantare, Questo momento e questa musica erano stati con John, così sembrava, fin da quando aveva respirato la prima volta. Sembrava che non ci fosse mai stato un tempo in cui non avesse conosciuto questo momento di attesa durante il quale la chiesa gremita faceva una pausa - le Sorelle in bianco, con la testa sollevata, i Fratelli in blu, testa indietro; le berrette bianche delle donne che sembravano brillare nell’aria densa come corone, le crespe, lucenti teste degli uomini che sembra vano tirate in su - e i fruscii e i bisbigli cessavano e i bambini stavano zitti; al massimo qualcuno tossiva o arrivava dalla strada il suono di un clacson o un’imprecazione; poi Elisha posava le mani sulla tastiera cominciando subito a cantare, e tutti si univano a lui, battendo le mani, e alzandosi, e facendo risuonare i tamburelli.

L’inno poteva essere: Giù davanti alla croce dove è morto il mio Salvatore!

Oppure: Gesù, non dimenticherò mai come mi hai liberata!

Oppure: Signore reggi la mia mano mentre corro in questa gara!

Cantavano con tutte le loro forze, e battevano le mani per la gioia. Non c’era mai stata una volta in cui John non avesse sentito il cuore pieno di terrore e di meraviglia mentre se deva guardando l’esultanza dei «santi”. II loro canto lo induceva a credere nella presenza del Signore; in verità non era più una questione di fede, perché essi rendevano quella presenza reale. Non poteva provare lui stesso la gioia che quel i sentivano benché non potesse dubitare che essa era, per loro, il vero pane della vita, cioè non poté aver dubbi su questo fino al momento in cui fu troppo tardi per dubitare. Qualcosa trasformava le loro facce e le loro voci, il ritmo dei loro corpi, e l’aria che respiravano; era come se ovunque essi fossero quel posto diventasse la dimora celeste, e lo Spirito Santo aleggiasse nell’aria. La faccia di suo padre, sempre terribile, diventava più terribile ora; la sua collera quotidiana si trasformava in furore profetico. Sua madre, con gli occhi levati al cielo, le mani giunte, commovente, rendeva evidente per John la verità di quella pazienza, di quella sopportazione, di quel lungo soffrire di cui aveva letto nella Bibbia e che aveva trovato così difficile immaginare.

La domenica mattina tutte le donne sembravano pazienti, tutti gli uomini sembravano forti. Mentre John guardava, la Forza colpiva qualcuno, uomo o donna; essi gridavano, un lungo grido senza parole, e, con le braccia buttate in fuori come ali, cominciavano l’Urlo. Qualcuno spostava un po una sedia per fargli posto, il ritmo faceva una pausa, il canto smetteva, si sentivano solo battere i piedi e le mani; poi un altro grido, un altro che si metteva a ballare; poi i tamburelli ricominciavano e di nuovo le voci salivano, e la musica tornava a diffondersi, come un incendio, un’inondazione, o un castigo di Dio. Poi la chiesa sembrava sollevarsi insieme alla Forza che aveva in sé e, come un pianeta oscillante nello spazio, il tempio oscillava con la Forza di Dio. John guardava, guardava le facce, e i corpi senza peso, e ascoltava il gridare senza fine, Un giorno, così dicevano tutti, questa Forza lo avrebbe posseduto; avrebbe cantato e gridato come quelli facevano ora, e danzato davanti al suo Re. Guardò la giovane Ella Mac Washington, la diciassettenne nipote di madre Washington, che cominciava la danza. E poi danzò Elisha.

A un certo momento, con la testa buttata indietro, gli occhi chiusi, la fronte coperta di sudore, Elisha si mise al pianoforte, a cantare e a suonare; e poi, come un grande gatto nero disturbato nella giungla, si irrigidì e tremò, e urlò. Gesù, Gesù, O Gesù Signore! Batté sul piano un’ultima, selvaggia nota, e buttò in alto le mani, palme in su, tese e distanti una dall’altra. I tamburelli si precipitarono a riempire il vuoto la sciato dal silenzio del pianoforte e il suo grido fece nascere in risposta altri gridi. Poi fu in piedi, girando, cieco, con la faccia congestionata, contorta dalla rabbia, i muscoli che saltavano e si gonfiavano nel suo lungo collo nero. Sembrava che non potesse respirare, che il suo corpo non potesse contenere questa passione, che, davanti ai loro occhi, si sarebbe dispersa nell’aria che la aspettava. Le sue mani, rigide fino alla punta delle dita, si muovevano verso l’esterno e all’indietro contro i suoi fianchi, gli occhi senza vista erano fissi in alto, e cominciò a danzare. Poi le mani si chiusero in pugni, e la testa si piegò in giù di colpo, mentre il sudore scioglieva il grasso che teneva lisci i suoi capelli; e il ritmo di tutti gli altri accelerava per andare a tempo col ritmo di Elisha; le sue cosce si muovevano freneticamente contro la stoffa del vestito, i talloni martellavano il pavimento, e i pugni sembrava che stessero suonando un tamburo. E così andava avanti per un po’, al centro dei danzatori, a testa bassa, coi pugni che battevano sempre più forte, finché sembrava che i muri della chiesa dovessero crollare dal rumore; e poi di colpo, con un grido, testa in su, braccia alte nell’aria, fronte grondante di sudore, e tutto il corpo che danzava come se non dovesse mai smettere. Qualche volta non smetteva finché non cadeva, gemendo, sulla sua faccia come un anima le abbattuto da una mazzata. E allora un gran gemito riempiva la chiesa.

Il peccato era fra loro. Una domenica, finito il servizio regolare, padre James aveva scoperto il peccato nella congregazione dei virtuosi. Aveva scoperto Elisha e Ella Mae. Essi avevano «camminato disordinatamente”; correvano il pericolo di uscire dalla retta via. E mentre padre James parlava del peccato che sapeva che essi non avevano ancora commesso, del fico acerbo colto troppo presto dalla pianta - per impressionare i bambini - John per quanto fosse seduto si sentì venire le vertigini e non poté guardare Elisha che stava, in piedi accanto a Ella Mae, davanti all’altare. Elisha abbassò la testa mentre padre James parlava, e dalla congregazione si levò un mormorio. Ed Ella Mae, ora, non era così bella come quando cantava e manifestava pubblicamente la sua fede, ma sembrava una normale ragazza imbronciata, Le sue labbra piene erano schiuse e gli occhi erano cupi, per la vergogna, o la rabbia, o per tutte e due le cose. Sua nonna, che l’aveva allevata, sedeva guardando in silenzio, stringendosi le mani. Era uno dei pilastri della chiesa, influente evangelista e molto conosciuta. Non disse niente in difesa di Ella Mac, perché doveva aver sentito, come la congregazione, che padre James stava solo facendo il suo evidente e doloroso dovere; egli, dopo tutto, aveva la responsabilità di Elisha, come madre Washington era responsabile per Ella Mac. Non era una cosa facile, disse padre James, essere pastore di un gregge. Poteva sembrare facile sedere lì sul pulpito una sera dopo l’altra, tutti gli anni, ma dovevano ricordare la terribile responsabilità posta da Dio onnipotente sulle sue spalle, dovevano ricordare che un giorno avrebbe dovuto render conto a Dio di ogni anima del suo gregge. Dovevano ricordare questo quando pensavano che lui fosse duro, dovevano ricordare che duro era il Verbo, che la via della santità era una dura via. Non c’era posto nell’esercito di Dio per un cuore codardo, nessuna corona aspettava chi metteva madre o padre, sorella o fratello, fidanzata o amico al di sopra del volere di Dio. I fedeli dovevano approvare gridando amen! Ed essi gridarono: «Amen! Amen!”

Il Signore lo aveva indotto, disse padre James guardando giù al ragazzo e alla ragazza che stavano davanti a lui, a metterli pubblicamente in guardia prima che fosse troppo tardi. Poiché sapeva che erano due giovani sinceri, consacrati al servizio del Signore; si trattava solo di questo, che siccome erano giovani, ignoravano le trappole che Satana tende agli incauti. Sapeva che il peccato non era nelle loro menti, non ancora; ma il peccato era nella carne; e se avessero continuato con le uscite insieme soli, coi sorrisi segreti, i toccamenti delle mani, avrebbero certamente finito per commettere un peccato imperdonabile. E John si domandava cosa stava pensando Elisha; Elisha, che era grande e bello, che giocava a pallacanestro, e che era stato “salvato” all’età di undici anni giù negli sperduti campi del Sud. Aveva peccato?

Era stato tentato? E la ragazza accanto a lui, il cui bianco vestito ora sembrava solo un velo sottilissimo sulla nudità del seno e delle cosce prepotenti, come era la sua faccia quando essa era sola con Elisha, senza canti, quando essi non erano circondati dai «santi”? Aveva paura a pensarci, benché non potesse pensare a nient’altro; e la febbre di cui quelli erano accusati cominciò a bruciare anche in lui.

Dopo questa domenica Elisha e Mae non si incontrarono più ogni giorno dopo scuola, non andarono più, nei pomeriggi di sabato, a passeggiate per Central Park, o a stendersi sulla spiaggia. Tutto questo era finito per loro. Insieme sarebbero tornati solo dopo il matrimonio, Avrebbero avuto dei figli e li avrebbero allevati secondo i principi della chiesa.

Questo era ciò che si intendeva per una santa vita, questo esigeva la via della croce. Fu, in certo modo, quella domenica, una domenica poco prima del suo compleanno, che John per la prima volta si rese conto che questa era la vita che lo aspettava, se ne rese conto consapevolmente, come di qualche cosa non più lontana, ma imminente, ogni giorno più vicina, Nel 1935 il compleanno di John cadde un sabato, di marzo.

La mattina di questo compleanno si svegliò con la sensazione che c’era una minaccia nell’aria che lo circondava, che gli era accaduto qualcosa di irrevocabile. Fissò la macchia gialla sul soffitto proprio sopra la sua testa, Roy era ancora tutto avviluppato nelle coperte e il suo respiro produceva ritmicamente un leggero sibilo. Non c’era nessun altro rumore; nessuno in casa era alzato. Le radio dei vicini erano tutte silenziose, e sua madre non si era ancora alzata per preparare la colazione a suo padre. John si meravigliò della sua paura, poi si meravigliò dell’ora; e poi (mentre la macchia gialla sul soffitto si trasformava lentamente in una nudità femminile) ricordò che era il suo quattordicesimo compleanno e che aveva peccato. Il suo primo pensiero, tuttavia, fu: se ne sarà ricordato qualcuno? Perché, una o due volte, il suo compleanno era passato completamente inosservato, e nessuno gli aveva detto «Tanti auguri, Johnny” o dato qualcosa, nemmeno sua madre.

Roy si agitò di nuovo e John lo spinse via, ascoltando il silenzio. Le altre mattine si svegliava sentendo sua madre cantare in cucina, sentendo suo padre, nella camera da letto alle sue spalle, grugnire e borbottare preghiere a se stesso mentre si vestiva; sentendo, magari, le chiacchiere di Sarah e gli strilli di Ruth, e le radio, e lo sbattere cli pentole e padelle, e le voci dei vicini. Quella mattina nemmeno il rumore delle molle del letto rompeva il silenzio, e a John sembrava, per tutto questo, di stare ascoltando la propria muta condanna. Poteva credere, quasi, che si era svegliato tardi la mattina di quel gran giorno, e che tutti i salvati si erano trasfigurati in un batter d’occhi e erano saliti a incontrare Gesù fra le nuvole, e che lui era stato lasciato lì, col suo corpo pieno di peccato, per essere relegato nell’inferno per mille anni.

Aveva peccato. Nonostante i “santi”, sua madre e suo padre, gli avvertimenti avuti fin da piccolo, aveva commesso con la sua mano un peccato difficile da perdonare. Nei gabinetti della scuola, solo, pensando ai ragazzi, maggiori di lui, più grandi, più coraggiosi, che scommettevano fra di loro a chi pisciava più in alto, aveva osservato in se stesso una trasformazione della quale non avrebbe mai osato parlare.

E l’oscurità del peccato di John era come l’oscurità della chiesa nelle sere di sabato; come il silenzio della chiesa mentre lui era li, solo, a scopare, e a far scorrere l’acqua nel gran secchio, e a rivoltar le sedie, un bel po’ prima che i santi arrivassero. Era come i suoi pensieri mentre girava intorno al tabernacolo nel quale era trascorsa la sua vita; il tabernacolo che odiava, eppure amava e temeva. Era come le bestemmie di Roy, come gli echi che queste bestemmie sollevavano in John: ricordava Roy, in qualcuno dei rari sabati che era venuto ad aiutarlo a pulire la chiesa, che bestemmiava nella casa di Dio, e faceva gesti osceni davanti agli occhi di Gesù. Era come tutto questo, ed era come i muri che testimoniavano e i manifesti sui muri che attestavano che la paga del peccato era la morte. L’oscurità del suo peccato era nell’insensibilità con la quale resisteva alla potenza di Dio; nel disprezzo che spesso provava ascoltando le urla assordanti, e guardando la pelle nera che luccicava mentre buttavano in alto le braccia e cadevano sulla loro faccia davanti al Signore. Perché aveva preso la sua decisione. Non voleva essere come suo padre, o i padri di suo padre. Voleva avere un’altra vita.

Perché John era molto bravo a scuola, anche se non in matematica o pallacanestro, come Elisha, e dicevano che aveva davanti un Grande Avvenire. Poteva diventare un Grande Capo del Suo Popolo. A John interessava poco il suo popolo e ancora meno gli interessava guidarlo verso una qualunque direzione, ma questa frase così spesso ripetuta crebbe nella sua mente come un gran cancello di ottone, aprentesi per lui su un mondo dove la gente non viveva nell’oscurità della casa di suo padre, non pregava Gesù nell’oscurità della chiesa di suo padre, un mondo dove lui avrebbe mangiato buoni cibi, messo bei vestiti, e sarebbe andato al cinema ogni volta che voleva, In questo mondo John, che era, diceva suo padre, brutto, che era sempre il più piccolo della sua classe, e che non aveva amici, diventava immediatamente bello, grande, e benvoluto da tutti. La gente era ansiosa di conoscere John Grimes. Lui era un poeta, o un rettore di università, o un divo del Cinema; beveva whisky costoso e fumava sigarette Lucky Strike pacchetto verde.

Non era solo la gente di colore a lodare John, poiché, John lo sentiva, non sempre essi potevano comprendere bene; ma anche i bianchi lo lodavano, effettivamente lo avevano fatto per primi e ancora lo facevano. John aveva cinque anni e andava in prima quando era stato notato la prima volta e nel momento in cui un occhio, a un tempo straniero e impersonale lo aveva notato, aveva cominciato a prendere coscienza, con selvaggia inquietudine, della sua esistenza individuale.

Stavano imparando l’alfabeto quel giorno, e sei bambini alla volta erano mandati alla lavagna a scrivere le lettere che avevano imparato a memoria, Sei avevano finito e stavano aspettando il giudizio del maestro quando la porta in fondo si aprì e la direttrice della scuola, di cui tutti avevano terrore, entrò nell’aula, Nessuno fiatò o si mosse. Nel silenzio la voce della direttrice disse:

Chi ha fatto questo?”

Indicava col dito la lavagna, le lettere scritte da John.

L’idea di poter essere notato da lei non passò per la testa di John, che si limitò a fissarla attonito, Poi si rese conto, per l’immobilità degli altri bambini e per il modo che avevano di evitare di guardarlo, che era lui che era stato scelto per essere punito.

Su, John, parla disse con dolcezza il maestro.

Sul punto di piangere, John mormorò il suo nome e aspettò.

La direttrice, una donna coi capelli bianchi e un’apparenza di ferro, abbassò lo sguardo su di lui.

“Sei un bambino molto intelligente, John Grimes” disse.

“Continua a far bene.”

E uscì dall’aula, Questo episodio gli forni, da allora in avanti, se non un’arma almeno una difesa; comprese, pur senza credere o capire, che aveva in sé un potere che gli altri non avevano; che poteva usare questo potere per salvare se stesso, per elevarsi; e che, forse, con questo potere avrebbe potuto un giorno conquistare quell’amore che aspettava con tanta impazienza.

Questa non era, in John, una fede che potesse morire o alterarsi, e nemmeno una speranza che potesse essere distrutta; era la sua stessa natura, e perciò parte di quella perversità per la quale suo padre lo picchiava e alla quale egli si aggrappava per resistergli. Il braccio di suo padre, alzandosi e abbassandosi su di lui, poteva farlo piangere, e quella voce poteva farlo tremare; ma suo padre non avrebbe mai potuto vincere fino in fondo, perché John custodiva in se stesso qualcosa che suo padre non poteva raggiungere: il suo odio e la sua intelligenza, e l’uno nutriva l’altra. Viveva per il giorno in cui suo padre sarebbe stato moribondo e lui, John, lo avrebbe maledetto sul letto di morte, E questa era la ragione per cui, benché fosse nato nella fede e fosse stato circondato tutta la vita dai “santi” e dalle loro preghiere e dalla loro esultanza, e benché il tabernacolo nel quale essi adoravano Dio fosse per lui qualcosa di più reale delle precarie abitazioni dove lui e la sua famiglia avevano vissuto, il cuore di John si era indurito contro il Signore. Suo padre era ministro di Dio, ambasciatore del Re dei Cieli, e John non poteva inchinarsi davanti al trono della grazia senza prima inginocchiarsi davanti a suo padre. Dal suo rifiuto a compiere questo gesto era dipesa la sua vita, e la perversità era fiorita segretamente nel cuore di John fino al giorno in cui il peccato lo aveva per la prima volta raggiunto.

Nel mezzo di tutte queste fantasticherie si addormentò di nuovo, e quando più tardi si risvegliò e uscì dal letto suo padre era già andato nella fabbrica dove lavorava mezza giornata. Roy era in cucina, a litigare con la mamma. La piccola Ruth, sul suo seggiolone, tempestava di colpi il vassoio con un cucchiaio coperto di pappa di avena. Questo voleva dire che era di buon umore: che non avrebbe passato la giornata strillando per ragioni che sapeva solo lei, senza lasciarsi toccare da nessuno, tranne da sua madre. Sarah era quieta, non chiacchierava per il momento, almeno non ancora, e stava in piedi vicino alla stufa, a braccia conserte, fissando su Roy i suoi insipidi occhi neri, gli occhi di suo padre, che la invecchiavano tanto.

La mamma, con un vecchio straccio legato intorno alla testa, sorseggiava il suo caffè nero e guardava Roy. Il pallido sole di fine inverno riempiva la stanza e ingialliva le loro facce; e John, mentre, morbosamente eccitato, si domandava come mai aveva potuto riaddormentarsi e lo avevano lasciato dormire tanto, li vide per un momento come immagini su uno schermo, un effetto reso più intenso dalla luce gialla. La stanza era stretta e sporca; niente poteva cambiare le sue dimensioni, nessuna fatica avrebbe potuto renderla pulita. Lo sporco era nei muri e nelle assi del pavimento, e trionfava sotto l’acquaio dove brulicavano gli scarafaggi; era sull’orlo sottile delle pentole e delle padelle, sfregate tutti i giorni, col fondo annerito dal fuoco, appese sopra la stufa; era nel muro al quale erano appese, e lo si vedeva dove lo strato di pittura si era spaccato e pendeva in fuori in rigide scaglie sottili come carta, con la parte inferiore sporca di nero. Lo sporco era in ogni angolo, cantuccio, fessura della mostruosa stufa, dietro la quale si fondeva in modo incredibile col marciume del muro. Lo sporco era nello zoccolo di legno delle pareti che John strofinava ogni sabato, e irruvidiva i ripiani dell’armadio che conteneva i piatti screpolati e splendenti. Sotto il peso di questo sudiciume i muri si inclinavano e il soffitto, con al centro una grande crepa che sembrava un fulmine, cedeva. Le finestre brillavano come oro o argento battuto, ma ora, nella luce gialla, John vedeva che una fine polvere velava la loro dubbia gloria. Il sudicio si insinuava nel grigio strofinaccio appeso fuori dalla finestra ad asciugare. John pensò con vergogna e orrore, col cuore indurito dalla rabbia: Colui che è immondo sia lasciato nella sua immondizia. Poi guardò sua madre, vedendo, come se essa fosse un’altra persona, le rughe incise e dure che le scendevano giù dagli occhi, e la piega profonda e continua della fronte, e la bocca stretta, piegata in giù, e le mani forti, magre, brune e ossute; e la frase gli si rivolse contro, come una spada a due tagli: non era forse lui, col suo falso orgoglio e la sua maligna immaginazione, che era immondo? Attraverso un’ondata di lacrime che non riuscivano a raggiungere gli occhi, continuò a fissare la stanza gialla; e la stanza si trasformò, la luce del sole fu oscurata, e la faccia di sua madre divenne la faccia che lui le dava nei suoi sogni, la faccia che aveva visto una volta, molto tempo prima, in una fotografia presa avanti che lui fosse nato. Era un viso giovane e fiero, teso, con un sorriso che rendeva bella la grande bocca e splendeva negli occhi enormi. Era il viso di una ragazza che sapeva che nessun male poteva sopraffarla, e che sapeva ridere come ora, certamente, sua madre non avrebbe potuto. Fra le due facce si stendevano un’oscurità e un mistero di cui John aveva paura, e che qualche volta gli facevano odiare sua madre.

Essa lo vide e domandò, interrompendo il discorso con Roy: “Hai fame, dormiglione?”

“Era ora che ti alzassi,” disse Sarah.

Si avvicinò alla tavola e sedette, preso dal più sconcertante panico che avesse mai provato, un bisogno di toccare le cose, la tavola e le sedie e le pareti della stanza, per accertarsi che la stanza esisteva e che lui era nella stanza. Non guardò sua madre, che si alzò in piedi e andò alla stufa a scaldargli la colazione. Ma chiese, per dirle qualcosa e per sentire la sua propria voce:

“Cosa c’è per colazione?”

Si rese conto, con vergogna, che sperava che essa gli avesse preparato una colazione speciale per il suo compleanno.

“Cosa vuoi che ci sia?” domandò Roy sprezzante. «Hai voglia di qualcosa di speciale?”

John lo guardo. Roy era di cattivo umore.

Non ho detto niente a te” disse.

“Oh, ti prego di scusarmi” disse Roy, con quella vocetta acuta, da ragazzina, che sapeva odiata da John.

“Cos’hai oggi?” domandò John, arrabbiato, e cercando nel lo stesso tempo di dare alla sua voce il tono più rauco possibile.

“Lascialo perdere” disse la madre. “Roy è di cattivo umore stamattina.”

“Sì,” disse John “lo vedo.” Lui e Roy si tenevano d’occhio reciprocamente. Poi gli fu messo davanti il suo piatto: polenta e un pezzetto di pancetta. Ebbe voglia di piangere come un bambino: “Ma, mamma, è il mio compleanno!” Tenne gli occhi sul piatto e cominciò a mangiare.

“Puoi dire tutto quello che vuoi del tuo papà,” disse la mamma, ricominciando la sua battaglia con Roy, ma una cosa non puoi dire: non puoi dire che non abbia fatto sempre il possibile per essere per te un buon padre e fare in modo che non ti mancasse mai da mangiare.”

“Ho avuto fame tantissime volte” disse Roy, fiero di segnare questo punto a suo vantaggio.

“Ma non era colpa sua. Si è sempre dato da fare per stamani Quell’uomo ha spaIato la neve al gelo, quando avrebbe dovuto restare a letto, solo per mettere qualcosa nel tuo stomaco.”

“Non era solo il mio stomaco” disse Roy indignato. “Anche lui ha uno stomaco, è una vergogna quanto mangia quel l’uomo, lo so bene. Non gliel’ho certo chiesto io di spalare la neve per me.” Ma abbassò gli occhi, sospettando un difetto nella sua argomentazione. “Solo non voglio che mi picchi sempre” disse alla fine. «Non sono un cane, io.”

Essa sospirò, e si girò leggermente, guardando fuori dalla finestra. “Tuo padre ti picchia,” disse perché ti ama.”

Roy rise. “Non è l’amore che capisco, questo. Cosa pensi che farebbe se non mi amasse?”

“Ti lascerebbe andare dritto fino all’Inferno,” essa esplose “dove, a quanto sembra, hai deciso di andare! Dritto, Egregio Signor Uomo, finché qualcuno non ti pianta un coltello nello stomaco, o ti fa volare in prigione!”

“Mamma,” domandò improvvisamente John “papà è un uomo buono?”

Non si era reso conto di star per fare quella domanda, e osservò, stupito, come la bocca di sua madre si serrava e gli occhi le si incupivano.

“Non è una domanda da fare” disse la madre con dolcezza. “Conosci un uomo migliore, tu?”

“A me mi sembra un uomo molto buono” disse Sarah.

“Non fa che pregare tutto il tempo,”

“Voi siete giovani, bambini,” disse la madre, ignorando Sarah e tornando a sedersi alla tavola, “non sapete quanto siete fortunati ad avere un padre che si preoccupa di voi e cerca di farvi venir su come si deve.”

«Già,” disse Roy “noi non sappiamo quanto siamo fortunati ad avere un padre che non vuole che andiamo al cinema, e non vuole che giochiamo per la strada, e non vuole che abbiamo degli amici, e non vuole questo e non vuole quello, e non vuole che facciamo niente. Siamo così fortunati ad avere un padre che vuole solo che andiamo in chiesa e leggiamo la Bibbia e suoniamo il campanello davanti all’altare come dei deficienti e che ce ne stiamo a casa buoni e tranquilli come angioletti. Sì, ragazzi, siamo proprio fortunati, davvero. Non so cosa ho fatto per essere così fortunato.”

Essa rise. “Un giorno lo scoprirai, tieni a mente quello che ti dico.”

«Ma sì…” disse Roy.

“Ma sarà troppo tardi, allora. Sarà troppo tardi quando arriverai a provarne.. dispiacere.” La sua voce era cambiata.

Per un momento i suoi occhi incontrarono quelli di John, e John ne fu spaventato. Sentì che le sue parole, secondo lo strano modo che Dio a volte sceglie per parlare agli uomini, erano dettate dal Cielo e destinate a lui. Aveva quattordici anni, era troppo tardi? E questo disagio era aumentato dall’impressione, impressione che in quel momento si accorse di aver sempre avuta, che sua madre non diceva tutto quello che pensava. Cosa diceva alla zia Florence, si domandava, quando erano insieme? O a suo padre? Quali erano i suoi pensieri? La sua faccia non glielo avrebbe mai detto. E tuttavia per un attimo, mentre lo guardava per un momento che fu come un segreto, fuggevole cenno, la faccia di sua madre gli parlò. I suoi pensieri erano amari.

Non me ne importa” disse Roy, alzandosi. Quando io avrò dei bambini non li tratterà così.” John osservava sua madre; lei osservava Roy. “Sono sicuro che non è questo il modo. Non è giusto avere la casa piena di bambini se non si sa come trattarli.”

Parli troppo stamattina” disse sua madre. “Stai attento.”

E dimmi un’altra cosa” disse Roy, chinandosi improvvisamente su sua madre, «perché non mi lascia mai parlare con lui come parlo con te? mio padre o no? Ma lui non sta mai a sentire quando parlo: no, sono sempre io che devo starlo a sentire.”

«Tuo padre” disse lei, guardandolo, «sa benissimo quello che fa. Tu ascolta tuo padre e ti garantisco che non finirai in prigione.”

Roy si succhiò i denti, infuriato. Io non cerco di andare in prigione. Secondo te al mondo non c’è che prigioni e chiese? Dovresti avere un po’ più di buon senso, mamma.”

“lo so che non c’è salvezza se non cammini umilmente davanti al Signore. Lo scoprirai anche tu, un giorno. Continua così, testone. Vedrai che finirai male.”

Improvvisamente Roy sorrise. «Ma ci sarai tu, vero mamma, quando sarò in un pasticcio?”

“Non si può sapere” disse, cercando di non sorridere, ‘quanto tempo il Signore mi lascerà stare con voi.”

Roy si voltò e fece un passo di danza. «Va bene” disse.

“So che il Signore non è severo come papà. Vero,’ fratello?” domandò a John, dandogli un colpetto sulla fronte.

“Lasciami mangiare la mia colazione” brontolò John, benché il suo piatto fosse vuoto da un pezzo, e fosse contento che Roy si fosse rivolto a lui.

“ proprio pazzo” arrischiò Sarah, con calma.

“Ha parlato la santina!” gridò Roy. «Papà non avrà mai noie con lei; quella lì è nata santa. Scommetto che le prime parole che ha detto sono state: ‘Grazie, Gesù’. Eh, mamma?”

“Smettila con queste sciocchezze,” disse la mamma, ridendo, «e occupati del tuo lavoro. Non si può scherzare con te tutta la mattina.”

“Oh, hai del lavoro da farmi fare stamattina? Be’, sono sorpreso,” disse Roy “cosa hai da farmi fare?”

“La porta e Io zoccolo della stanza da pranzo da lucidare. E dovrai finirli, anche, prima di mettere un piede fuori da questa casa.”

Perché parli così, mamma? Ho detto di no, forse? Sai che sono un lavoratore quando mi ci metto. Dopo, potrò andare?”

“Comincia a far il lavoro, e poi vedremo. ti meglio che lo fai bene.”

“lo lo faccio sempre bene” disse Roy. “Non li riconoscerai i tuoi vecchi legni quando io avrò finito.”

“John,” disse la madre “tu scoperai per me il salotto, da bravo ragazzo, e farai la polvere ai mobili. Io pulirò qui.”

“Si, mamma” rispose John, e si alzò. La mamma aveva dimenticato il suo compleanno. Giurò che non glielo avrebbe ricordato. Non ci avrebbe più pensato.

Scopare il salotto voleva dire, soprattutto, scopare il pesante tappeto rosso, grigio e violetto, di stile orientale, che un tempo era stato la gloria di quella stanza, ma ora era così sbiadito che sembrava di un unico colore slavato, e così logoro in ogni punto che si aggrovigliava alla scopa. John odiava scopare questo tappeto, perché la polvere che sollevava gli chiudeva il naso e si appiccicava alla sua pelle sudata, e aveva l’impressione che anche continuando a scopare per sempre, le nuvole di polvere non sarebbero diminuite e il tappeto non sarebbe diventato pulito. Nella sua immaginazione questo diventò il suo impossibile, eterno compito, la sua dura prova, simile a quella di un uomo di cui aveva letto la storia in qualche parte: la cui maledizione era di dover spingere un masso in cima a una collina, solo perché il gigante di guardia alla collina glielo facesse rotolare giù di nuovo - e così via, per sempre, per l’eternità; e stava ancora là, quello sfortunato, chissà dove all’altro capo della terra, a spingere il suo masso su per la collina. Aveva tutta la simpatia di John, perché la parte più lunga e più faticosa delle sue mattine domenicali era quel suo viaggio con la scopa attraverso il tappeto senza fine; e, arrivato alle porte a vetri che segnavano la fine del salotto e del tappeto, si sentiva come un viaggiatore indescrivibilmente stanco che finalmente rivede la sua casa. Tuttavia, per ogni paletta della spazzatura che riempiva con tanta fatica sulla soglia della porta, dei demoni ne spargevano sul tappeto altre venti; dietro di sé vedeva la polvere che aveva raccolto penetrare di nuovo nel tappeto; e digrignava i denti, già nervoso per la polvere che gli riempiva la bocca, e piangeva quasi al pensiero che tanta fatica otteneva una così piccola ricompensa.

E non era ancora finita la fatica di John; perché, dopo aver messo via scopa e paletta, prendeva dal piccolo secchio sotto l’acquaio lo straccio della polvere e l’olio per i mobili e una pezza umida, e ritornava nel salotto per estrarre, per cosi dire, dalla polvere che minacciava di seppellirli, i beni e l’equipaggiamento della famiglia. Pensando con amarezza al suo compleanno, assalì lo specchio con lo straccio, osservando la sua faccia che sembrava uscire da una nuvola. Fu scosso al vedere che la sua faccia non era cambiata, che la mano di Satana era ancora invisibile. Suo padre aveva sempre detto che la sua faccia era la faccia di Satana; e non c’era qual cosa - nell’altezza dei suoi sopraccigli, nel modo in cui i suoi ispidi capelli formavano una V sulla fronte - che confermava le parole di suo padre? Nell’occhio c’era una luce che non era la luce del Cielo, e la bocca, sensuale e immonda, tremava dalla voglia di bere abbondantemente i vini dell’inferno.

Fissò la sua faccia come se fosse, e come in realtà presto apparve essere, la faccia di un estraneo, un estraneo che custodiva segreti che John non avrebbe mai potuto conoscere. E, avendola considerata la faccia di un estraneo, cercò di guardarla come avrebbe fatto un estraneo, e di scoprire come la vedevano gli altri. Ma vide solo dei particolari: due grandi occhi, una fronte larga e bassa, e il triangolo del naso, e la bocca enorme, e la fessura appena percettibile nel mento, che suo padre diceva che era l’impronta del mignolo del diavolo. Questi particolari non lo aiutavano, perché il segreto della loro unità restava nascosto, e non poteva dire quello che più appassionatamente desiderava sapere: se la sua faccia era o non era brutta.

E abbassò gli occhi sulla mensola del camino, sollevando uno per uno gli oggetti che la ornavano. C’erano, audacemente mescolati, fotografie, cartoline illustrate, massime, due candelieri d’argento senza candele, e un serpente verde, di metallo, pronto a colpire. Nella sua apatia John li fissava senza vederli; cominciò a spolverarli con la cura esagerata di chi è profondamente preoccupato. Una delle massime era rosa e blu, e diceva, con lettere in rilievo che aumentavano la fatica di chi spolverava:

Vieni di sera, o vieni di mattina, Vieni quando sei atteso, o vieni senza avvertire, Mille parole di benvenuto troverai qui davanti a te, E più spesso verrai qui, più noi ti adoreremo.

E l’altra, a lettere di fuoco su uno sfondo d’oro, diceva:

Perché Dio ha talmente amato il mondo da dare il Suo Figlio Unigenito affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna.

GIOVANNI, III, 1 6 Questi sentimenti, alquanto diversi tra loro, decoravano due lati della mensola, tenuti un po’ in ombra dai candelieri d’argento. Tra questi due estremi, le cartoline di auguri, ricevute anno per anno, a Natale, o a Pasqua, o ai compleanni, strombazzavano le loro gioiose notizie; mentre il serpente verde, sempre malevolo, alzava orgogliosamente la testa in mezzo a questi trofei, aspettando il momento per colpire. Contro lo specchio, come in processione, erano sistemate le fotografie.

Queste fotografie erano le vere antichità della famiglia, che sembrava credere che una fotografia dovesse commemorare solo il passato più lontano. Le fotografie di John e Roy, e delle due figlie, che sembravano violare questa tacita legge, servivano infatti solo a dimostrare la sua ferrea rigorosità: erano state prese tutte nell’infanzia, un tempo e uno stato che i bambini non potevano ricordare. Nella sua fotografia John era steso nudo su un copriletto bianco, e la gente rideva e diceva che era carino. Ma John non poteva mai guardarla senza provare vergogna e rabbia per la sua nudità svelata così sgraziatamente. Nessuno degli altri bambini era nudo: Roy era nel suo lettino, con una camicia da notte bianca e sorrideva senza denti alla macchina fotografica; e Sarah di sei mesi, con l’aria triste, portava una cuffia bianca, e Ruth era in braccio alla mamma. Quando qualcuno guardava queste fotografie e rideva, il suo modo di ridere era diverso da quello dedicato al nudo John. Perciò, quando degli ospiti avevano per primi un gesto cortese per John, urtavano nella sua scontrosità, e allora, avendo la sensazione che lui, per chissà quale motivo, li detestasse, lo ripagavano stabilendo che era un bambino “strano”.

Tra le altre fotografie ce n’era una della zia Florence, sorella di suo padre, dove portava i capelli pettinati all’antica, alti e legati da un nastro; era molto giovane al tempo di quella fotografia e appena arrivata dal Sud. A volte, quando veniva a trovarli, si appellava a quella fotografia per dimostrare che in gioventù era stata davvero bella. C’era una fotografia di sua madre, non quella che piaceva a John e che aveva visto solo una volta, ma una fatta subito dopo il matrimonio. E c’era una fotografia di suo padre, vestito di nero, seduto sotto il portico di una casa di campagna, con le mani incrociate con gravita sul grembo. La fotografia era stata presa in una giornata di sole, e la luce sottolineava brutalmente i tratti della faccia di suo padre. Fissava il sole, a testa alta, odioso, e sebbene la foto fosse stata presa quando era giovane, non sembrava la faccia di un giovane; soltanto qualcosa di antiquato nel vestito indicava che la fotografia era stata presa molto tempo prima. Al tempo di quella fotografia, diceva zia Florence, suo padre era già predicatore, e aveva una moglie che ora era in Cielo. Che allora fosse già predicatore non stupiva, perché era impossibile immaginare che fosse mai stato qualcosa d’altro; ma che in un passato così lontano avesse avuto una moglie che poi era morta riempiva John di una meraviglia per niente piacevole. Se essa avesse vissuto, pensava John, allora lui non sarebbe mai nato; suo padre non sarebbe mai venuto al Nord e non avrebbe mai incontrato sua madre. E l’ombra di questa donna, morta da cosi tanti anni, che sapeva che si era chiamata Deborah, gli sembrava custodire, nei profondo della sua tomba, la chiave di tutti quei misteri che desiderava tanto scoprire. Era lei che aveva conosciuto suo padre in una vita dove John non esisteva, e in un paese che John non aveva mai visto. Quando lui non era niente, in nessun posto, polvere, nuvola, aria, e sole, e pioggia, non esisteva nemmeno nel pensiero, diceva sua madre, era in cielo con gli angeli, diceva sua zia, allora lei aveva conosciuto suo padre e aveva diviso con lui la sua casa. Aveva amato suo padre. Lo aveva conosciuto quando il fulmine avvampava e il tuono brontolava in cielo, e suo padre diceva: “Ascolta. Dio sta parlando”. Lo aveva potuto conoscere nelle mattine di quel lontano paese, quando suo padre si svegliava e apriva gli occhi, e aveva guardato in quegli occhi, aveva visto cosa c’era dentro, e non aveva avuto paura. Lo aveva visto, mentre veniva battezzato, scalciare come un mulo e urlare, e lo aveva visto piangere quando era morta sua madre; allora era un bravo giovane, diceva Florence. Perché aveva guardato in quegli occhi prima che questi guardassero John, sapeva quello che John non avrebbe mai saputo: la purezza degli occhi di suo padre quando l’immagine di John non si rifletteva nella loro profondità. Avrebbe potuto dirgli - se lui dal suo nascondiglio avesse solo saputo chiederglielo! - come fare per farsi amare da suo padre.

Ma ora era troppo tardi. Non avrebbe più parlato prima del giorno del giudizio. E allora, in mezzo a tutte quelle voci, e balbettando lui stesso, John non si sarebbe più curato della sua testimonianza.

Quando ebbe finito e la stanza fu pronta per la domenica, John si sentì stanco e pieno di polvere e andò a sedere vicino alla finestra, nella poltrona di suo padre. Un sole glaciale illuminava le strade, e un forte vento riempiva l’aria di pezzetti di carta e polvere gelata, e faceva sbattere le insegne dei negozi e delle chiese. Era la fine dell’inverno, e i mucchi di neve sporca ammassati lungo i marciapiedi si stavano sciogliendo e riempivano le cunette. Dei ragazzi giocavano a stick-ball nelle strade umide e fredde; coperti di pesanti maglioni di lana e pesanti pantaloni, ballavano e gridavano, e la palla faceva crac! ogni volta che la mazza la colpiva e la mandava in aria a tutta velocità. Uno di loro portava un berretto di lana color rosso vivo con un grosso ponpon che, a ogni suo salto, gli rimbalzava sulla testa come un allegro augurio. Il freddo sole faceva sembrare le loro facce di rame e di ottone, e attraverso la finestra chiusa John sentiva le loro voci grossolane e insolenti. E avrebbe voluto essere uno di loro, giocare nelle strade, senza paura, muoversi con quella grazia e quella forza, ma sapeva che era impossibile. Tutta via, se non poteva giocare come loro, poteva fare qualcosa che loro non potevano fare; era capace di pensare, come aveva detto uno dei suoi maestri. Ma questo serviva poco a consolarlo, perché quel giorno era terrorizzato dai suoi pensieri.

Voleva essere con quei ragazzi, nella strada, senza pensieri e preoccupazioni, a stancare quel suo corpo che lo tradiva e lo sconcertava.

Ma ora erano le undici, e tra due ore suo padre sarebbe stato a casa. E allora avrebbero potuto mangiare, poi suo padre li avrebbe fatti pregare e poi avrebbe commentato un passo della Bibbia. A poco a poco sarebbe venuta la sera e sarebbe andato a pulire la chiesa, rimanendovi poi per l’ultima funzione. Improvvisamente, mentre sedeva alla finestra, John fu assalito da un’ondata di furore e di lacrime di una violenza inaudita, e chinò la testa, coi pugni stretti con rabbia contro la finestra, gridando esasperato: “Cosa devo fare?

Cosa devo fare?”

Sua madre lo chiamava; si ricordò che era in cucina a lavare e probabilmente aveva qualcosa da fargli fare. Si alzo di malavoglia ed entrò in cucina. Stava chinata sul mastello, con le braccia bagnate e insaponate fino al gomito e la fronte coperta di sudore. Il suo grembiale, fatto da un vecchio lenzuolo, era bagnato dove lei si appoggiava contro l’asse da lavare, Quando John entrò, alzò la schiena, asciugandosi le mani all’orlo del grembiule.

“Hai finito il tuo lavoro, John?”

“Sissignora” disse John e pensò che lo guardava in uno strano modo; come se stesse guardando il bambino di un altro.

«Sei un bravo ragazzo” disse. Sorrise, di un sorriso timi do e sforzato. “Lo sai che sei il braccio destro della tua mamma?”

John non disse niente, e non sorrise, ma la guardò do mandandosi a quale nuovo lavoro avrebbe condotto questo preambolo, Essa si girò, passandosi una mano bagnata sulla fronte, e andò verso l’armadio. Gli voltava le spalle, e lui la osservò mentre tirava giù un lucido vaso tutto decorato, che veniva riempito di fiori solo nelle grandi occasioni, e ne vuotava il contenuto nella mano. Sentì tintinnare dei soldi, segno che stava per mandano a fare una commissione. La madre rimise a posto il vaso e tese verso di lui il palmo della mano un po’ ripiegato.

“Non ti ho mai domandato” disse cosa volevi per il tuo compleanno. Tieni, figlio mio, e vai a prenderti quello che vuoi.,, Gli aprì la mano e ci mise dentro i soldi, bagnati e scaldati dalla sua mano. Sentendo quelle monete calde e lisce e quella mano sulla sua, John fissò come cieco la faccia di sua madre, così alta su di lui. Il cuore gli si spezzò e sentì il bisogno di appoggiare la testa contro il suo grembo, là dove c’era la macchia di bagnato, e piangere. Ma abbassò gli occhi e guardò il mucchietto di monete nel palmo della sua mano, “Non è molto” disse la madre.

“Va benissimo.” Poi guardò in su, e lei si chinò e lo baciò sulla fronte.

“Stai diventando” disse, mettendogli una mano sotto il mento e sollevandogli il viso, “un gran bravo ragazzo. Sarai un uomo molto buono, lo sai? La tua mamma conta su di te.”

E ancora una volta avvertì che ella non stava dicendo tutto quello che pensava; e in una specie di linguaggio segreto gli stava dicendo, oggi, qualcosa che egli avrebbe dovuto ricordare e capire domani. Guardò il suo viso, col cuore gonfio di amore per lei e con un’angoscia che ancora non capiva e che lo spaventava.

“Sì, mamma” disse, sperando che essa avrebbe compreso, malgrado il suo balbettare, quanto profondo era il suo desiderio di accontentarla.

“So” disse lei con un sorriso, staccandosi da lui e rialzandosi, “che ci sono moltissime cose che non capisci. Ma non preoccuparti. Il Signore ti rivelerà quando lo crederà opportuno tutto quello che vuole che tu sappia. Confida nel Signore, Johnny, Lui sicuramente ti aiuterà, Tutto si risolve per il meglio per quelli che amano il Signore.”

L’aveva sentita dire questo altre volte - era la sua citazione preferita, come Metti ordine nella tua casa era quella di suo padre - ma sapeva che oggi sua madre la diceva particolarmente per lui; cercava di aiutarlo perché sapeva che era in un momento difficile. E questa angoscia era anche la sua, ma non l’avrebbe mai detto a John. E anche se lui era certo che non avrebbero potuto parlare delle stesse cose - perché allora, certamente essa si sarebbe arrabbiata e non sarebbe più stata orgogliosa di lui - questa intuizione da parte di sua madre e questa confessione del suo amore per lui diedero allo smarrimento di John una realtà che lo riempì di terrore e una dignità che lo consolò. Oscuramente, sentì che doveva consolarla, e con stupore udì le parole che cadevano ora dal le sue labbra:

“Sì, mamma. Cercherò di amare il Signore”.

A queste parole apparve sul viso di sua madre un’espressione allarmata, bella, indicibilmente triste, come se stesse vedendo lontano, oltre lui, una lunga, oscura strada, e su quella strada un viaggiatore in continuo pericolo. Era lui, il viaggiatore? o lei? o stava pensando alla croce di Gesù? Tornò a girarsi verso il mastello, sempre con quella strana tristezza sul viso.

“ meglio che vai ora,” disse “ prima che arrivi tuo padre.”

In Central Park la neve non si era ancora sciolta sulla sua collinetta preferita. Questa collinetta si trovava al centro del parco, appena dopo il bacino circolare dell’acqua potabile, dove John trovava sempre, oltre l’alto recinto della cancellata, signore bianche, con mantelli di pelliccia, che portavano a spasso i loro grandi cani, o vecchi signori bianchi col bastone. In un certo punto, che riconosceva d’istinto e dalla sagoma degli edifici che circondavano il parco, prese un ripido sentiero fra gli alberi, e salì per un po’ fino a raggiungere la radura che portava alla collina. Davanti a lui, ora, si stendeva verso l’alto la radura, sopra brillava il cielo, e sotto, nella foschia, si profilava, lontana, New York, Senza capirne il perché, fu preso da un esultante senso di potenza, e corse su per la collina come una locomotiva, o un pazzo, voglioso di gettarsi a capofitto nella città che gli brillava da vanti.

Ma quando arrivò in cima fece una sosta; e guardò giù dall’alto della collina, tenendosi il mento fra le mani. E si sentì come un gigante che poteva stritolare quella città con la sua collera; come un tiranno che poteva schiacciare quella città sotto i suoi talloni; come un conquistatore atteso da lungo tempo, ai piedi del quale si sarebbero sparsi dei fiori, e davanti al quale una moltitudine avrebbe gridato: Osanna!

Fra tutti sarebbe stato il più potente, il più amato, l’unto del Signore; avrebbe vissuto in quella splendida città che i suoi antenati avevano guardato da lontano con desiderio. Perché era sua; gli abitanti della città gli avevano detto che era sua; doveva soltanto precipitarsi giù, gridando, e l’avrebbero accolto nel loro cuore e gli avrebbero mostrato meraviglie che i suoi occhi non avevano mai visto.

Ma restò ancora un poco in cima alla collina. Ricordava la gente che aveva visto in quella città, nei cui occhi non c’era amore per lui. E i loro passi così rapidi e brutali, il grigio scuro dei loro vestiti e come, quando passavano, non lo vedevano, o, se lo vedevano, come era affettato il loro sorriso. E come le loro luci, incessantemente, si accendevano e spegnevano con violenza sopra di lui, e come si sentiva un estraneo, là. Allora ricordò suo padre e sua madre, e tutte quelle braccia tese a trattenerlo, per salvarlo da quella città dove, dicevano, la sua anima avrebbe trovato la perdizione.

E certo la perdizione tallonava quelli che camminavano là; e gridava fra le luci, fra le gigantesche torri; il marchio di Satana era evidente sulla faccia delle persone che aspettavano all’ingresso dei cinematografi; le sue parole erano stampate sui grandi manifesti cinematografici che invitavano la gente a peccare. Era il clamore dei dannati che empiva Broadway, dove le automobili e gli autobus e la gente frettolosa sfioravano a ogni istante la morte. Broadway: la via che conduceva alla morte era larga, e erano in molti a frequentarla, ma stretta era la via che conduceva alla vita eterna, e erano in pochi a trovarla. Ma John non desiderava molto la via stretta, dove camminava tutta la sua gente; dove le case non sorgevano così alte da toccare, per così dire, le immobili nuvole, ma erano ammassate, piatte, ignobili, vicine al sudicio terreno, dove le strade e le stanze e i corridoi erano bui, e dove dominava un invincibile odore di polvere, sudore, urina e gin fatto in casa. Nella via stretta, la via della croce, lo aspettava solo un’eterna umiliazione; lo aspettava, di giorno, una casa come la casa di suo padre, e una chiesa come quella di suo padre, e un lavoro come quello di suo padre, nel quale sarebbe invecchiato affamato e logorato dal la fatica. La via della croce gli aveva riempito lo stomaco di aria e aveva piegato la schiena di sua madre; non avevano mai indossato dei bei vestiti loro, ma qui, dove gli edifici gareggiavano in potenza con Dio e dove gli uomini e le donne non temevano Dio, qui egli avrebbe potuto mangiare e bere finché voleva e vestire il suo corpo di stoffe meravigliose, splendide alla vista e piacevoli al tatto. E allora cosa sarebbe accaduto alla sua anima che un giorno, dopo la morte, si sarebbe trovata nuda davanti al tribunale divino? A cosa gli sarebbe servita, quel giorno, la sua conquista della città? A buttar via, per un momento di benessere, le glorie del l’eternità!

Non erano che sogni di gloria, questi, ma la cinta era reale. Si fermò un momento sulla neve quasi sciolta, sconvolto, poi cominciò a scendere giù dalla collina, sentendosi volare man mano che la discesa diventava più rapida. Pensava: posso ritornare su. Se ho sbagliato, posso sempre ritornare su.

In fondo alla collina, dove il terreno bruscamente si spianava sulla ghiaia di un viale, andò quasi a sbattere contro un vecchio bianco con una barba bianca, che camminava molto lentamente appoggiandosi al suo bastone. Si fermarono tutti e due, sbalorditi, e si guardarono. John cercò di riprender flato per scusarsi, ma il vecchio sorrise. Sorrise anche John.

Era come se lui e il vecchio avessero un gran segreto fra loro; e il vecchio riprese la sua strada. Macchie di neve brillavano dappertutto nel parco. Il ghiaccio, sotto il sole pallido ma forte, si scioglieva lentamente sulle radici e sui tronchi degli alberi.

Uscì dal parco sulla Fifth Avenue dove, come sempre, c’era una fila di vecchie carrozze lungo il marciapiede, coi cocchieri seduti a cassetta con delle coperte intorno ai ginocchi, o in piedi, in gruppi di due o tre, vicino ai cavalli, battendo i piedi, fumando la pipa e chiacchierando. D'estate aveva visto andare su queste carrozze delle persone che sembravano uscite da un romanzo, o da un film dove tutti indossavano vestiti d’altri tempi e al cader della notte correvano a precipizio per strade gelate, accanitamente inseguiti dai loro nemici che volevano portarli alla morte. “Guarda indietro,” aveva gridato una bella donna con lunghi riccioli biondi “guarda indietro se siamo seguiti.’”, e aveva fatto, come John ricordava, una terribile fine. Guardò i cavalli, enormi, bruni e pazienti, che ogni tanto battevano sull’asfalto il lucido zoccolo, e pensò cosa sarebbe stato avere un giorno un cavallo per sé. Lo avrebbe chiamato Rider, e l’avrebbe montato la mattina quando l’erba è bagnata, e mentre cavalcava i suoi occhi avrebbero contemplato grandi campi pieni di sole: i suoi campi. Dietro di lui si snodava la sua casa, grande e nuova, e in cucina sua moglie, una bellissima donna, preparava la colazione, e il fumo saliva dal comignolo, dissolvendosi nell'aria del mattino. Avevano dei bambini, che lo chiamavano papà e per i quali a Natale comperava treni elettrici. E aveva tacchini e vacche e polli e oche, e altri cavalli oltre a Rider. Avevano una dispensa piena di whisky e vino; avevano automobili, ma a quale chiesa andavano e cosa avrebbe insegnato ai suoi bambini quando la sera si sarebbero raccolti intorno a lui? Guardò dritto davanti a sé, lungo Fifth Avenue, dove donne eleganti, coperte di pellicce, andavano a spasso guardando le vetrine piene di vestiti di seta, e orologi, e anelli. A quale chiesa andavano? E com’erano le loro case quando, la sera, si levavano quei mantelli e quei vestiti di seta, e mettevano i loro gioielli in un cofanetto, e andavano a stendersi in soffici letti pensando per un momento, prima di dormire, alla giornata trascorsa? Leggevano ogni sera un versetto della Bibbia e si mettevano in ginocchio a pregare? Ma no, perché i loro pensieri non erano rivolti a Dio, e la loro via non era la via di Dio. Vivevano nel mondo, e appartenevano al mondo, e avevano già un piede nell’Inferno.

Tuttavia a scuola alcune di loro erano state gentili con lui, ed era duro pensare che avrebbero bruciato per sempre all’inferno, così eleganti e belle. Una volta, un inverno che era stato molto male per un forte raffreddore che non vole va più smettere, una delle sue insegnanti gli aveva portato una bottiglia di olio di fegato di merluzzo mescolato a un denso sciroppo in modo da non avere un sapore così cattivo: era stato certamente un atto cristiano. Sua madre aveva detto che Dio avrebbe benedetto quella donna; e lui era migliorato. Erano gentili - era sicuro che erano gentili - e il giorno che avesse attirato su di sé la loro attenzione lo avrebbero certamente amato e onorato. Questa non era l’opinione di suo padre. Suo padre diceva che tutti i bianchi erano cattivi, e che Dio li avrebbe umiliati. Diceva che non bisognava mai aver fiducia nei bianchi, che essi non dicevano altro che bugie e che nessuno di loro aveva mai amato un negro. Lui, John, era un negro, e si sarebbe accorto presto, crescendo, quanto potevano essere malvagi i bianchi. John aveva letto che cosa facevano i bianchi alla gente di colore; come nel Sud, da dove venivano i suoi genitori, li frodavano dei loro salari e li bruciavano e li fucilavano, e facevano cose peggiori, diceva suo padre, che la bocca si rifiutava di dire. Aveva letto di negri bruciati sulla sedia elettrica per cose che non avevano fatto; di come nei tumulti erano battuti col bastone; e come venivano torturati in prigione; come erano gli ultimi a essere assunti per un lavoro e i primi a essere licenziati. I negri non vivevano nelle strade dove John ora camminava; era proibito; e tuttavia lui camminava lì, e nessuno alzava una mano contro di lui. Ma avrebbe osato entrare in quel negozio dal quale ora stava uscendo disinvolta una donna con una grande scatola rotonda? O in quella casa davanti a cui stava un uomo bianco, vestito di una brillante uniforme?

John sapeva che non avrebbe osato, oggi no, e sentiva la risata di suo padre: “No, e neanche domani!” Per lui c’era la porta di servizio, le scale buie e la cucina o il sotterraneo.

Quel mondo non era per lui. Se si rifiutava di crederlo e voleva rompersi il collo cercando di entrarci, poteva provarsi quanto voleva; ma non glielo avrebbero mai permesso. Nella mente di John, allora, la gente e la strada si trasformarono; e lui ebbe paura di loro e capì che un giorno avrebbe potuto odiarli, se Dio non avesse cambiato il suo cuore.

Lasciò Fifth Avenue e si diresse a ovest, verso la zona dei cinematografi. La 42nd Street era meno elegante ma non meno strana. Amava questa strada, non per la gente o per i negozi ma per i leoni di pietra a guardia del grande edificio principale della biblioteca pubblica, un edificio pieno di libri e incredibilmente vasto, e dove lui non aveva ancora mai osato entrare. Sapeva che avrebbe potuto, perché aveva la tessera della biblioteca rionale di Harlem e era autorizzato a prendere libri da qualsiasi biblioteca della città. Ma non c’era mai entrato perché l’edificio era così grande che doveva essere pieno di corridoi e scale di marmo, un labirinto nel quale si sarebbe perso e non avrebbe mai trovato il libro che voleva. E allora tutti i bianchi che erano lì si sarebbero accorti che lui non era abituato ai grandi edifici, o a tanti libri, e lo avrebbero guardato con pietà. Ci sarebbe entrato un giorno, dopo aver letto tutti i libri di Harlem, un’impresa che. lo sentiva, gli avrebbe dato la forza di entrare in qualsiasi edificio del mondo. Della gente, per lo più uomini, stava appoggiata ai parapetti di pietra del giardino rialzato che circonda la biblioteca, o passeggiava su e giù e si chinava a bere l’acqua dalle fontanelle pubbliche. Piccioni d’argento brillavano un attimo sulle teste dei leoni o sui bordi delle fontane e camminavano impettiti lungo i vialetti. John gironzolò davanti ai magazzini Woolworth, fissando la vetrina delle caramelle, cercando di decidere quali comperare - e non comprandone nessuna, perché il negozio era affollato ed era sicuro che la commessa non avrebbe mai badato a lui - e si fermò davanti a un venditore di fiori artificiali, e attraversò Sixth Avenue dove c’era il ristorante “automatico”, e il parcheggio dei tassi, e i negozi che quel giorno non avrebbe guardato, nelle cui vetrine erano esposte cartoline sconce e scherzi vari. Oltre Sixth Avenue cominciavano i cinematografi, e John studiò attentamente le fotografie esposte, per decidere in quale cinema entrare. Si fermò alla fine davanti a un gigantesco manifesto a colori che rappresentava una donna depravata, mezza nuda, appoggiata allo stipite di una porta, che stava litigando, sembrava, con un uomo biondo che fissava con aria infelice la strada. La scritta sopra le loro teste dice va: “C’è uno sciocco come lui in ogni famiglia - e vicino c’è una donna che se lo porta via!” Decise di vedere questo film perché si sentiva come il giovane biondo, lo sciocco della sua famiglia, e desiderava saperne di più sul suo destino cosi evidentemente crudele.

Guardò il prezzo segnato sopra lo sportello della cassiera e, in cambio dei soldi, ricevette il pezzo di carta che aveva il potere di aprire la porta. Una volta presa la decisione di entrare, non guardò più indietro verso la strada per paura che uno dei “santi” potesse star passando di lì e, vedendolo, gridasse il suo nome e gli mettesse le mani addosso per trascinarlo indietro, Attraversò molto in fretta il tappeto dell’atrio, senza guardare a niente, e fermandosi solo per vedere stracciare in due il suo biglietto, una metà del quale fu buttata in una scatola d’argento e l’altra metà resa a lui. Allora la maschera aprì la porta del buio palazzo e, tenendo accesa davanti a sé una lampadina, lo portò al suo posto. Nemmeno allora, dopo aver superato una massa di ginocchi e di piedi per raggiungere il suo posto, osò respirare’ e neppure guardò lo schermo, privo com’era di ogni speranza di perdono. Fissava l’oscurità che lo circondava, e i profili che a poco a poco emergevano da questo buio, così simile al buio dell’Inferno.

Aspettava che l’oscurità fosse vinta dalla luce dell’intervallo, che in alto si spalancasse il soffitto lasciando che gli occhi di tutti vedessero i carri di fuoco sui quali discendevano un Dio adirato e tutte le milizie celesti. Si fece piccolissimo nella sua poltrona, come se il suo rannicchiarsi potesse renderlo invisibile e annullare la sua presenza. Ma poi pensò: Non ancora.

Non è ancora il giorno del giudizio, e delle voci lo raggiunsero, senza dubbio le voci dell’uomo sfortunato e della donna cattiva, e alzò gli occhi, smarrito, verso lo schermo.

La donna era molto cattiva. Era bionda e pallida, e aveva vissuto a Londra, che è in Inghilterra, molto tempo prima, a giudicare dai suoi vestiti, e tossiva. Aveva una malattia terribile, la tubercolosi, di cui John aveva sentito parlare. Qualcuno nella famiglia di sua madre ne era morto. Aveva moltissimi amanti, e fumava sigarette e beveva. Quando incontrò il giovane, che era studente e l’amava molto, fu molto crudele con lui. Rideva di lui perché era storpio. Prende va il suo denaro e andava con altri uomini, e mentiva allo studente, che era certamente uno stupido. Andava in giro zoppicando, debole e triste, e presto tutta la simpatia di John andò a questa violenta e infelice donna. La capiva quando lei si infuriava e scuoteva le anche e gettava indietro la testa in una risata così violenta che sembrava che le vene del collo le stessero per scoppiare. Passeggiava per le strade fredde e nebbiose, piccola e non bella, con una andatura volgare e provocante che sembrava dire al mondo intero: “Puoi baciarmi il sedere”. Niente la domava o la spezzava, niente la toccava, né gentilezza, né disprezzo, né odio, né amore. Non aveva mai pensato a pregare. Non era possibile immaginate che un giorno si sarebbe trascinata in ginocchio su un pavimento polveroso fino a un qualsiasi altare, implorando il perdono.

Forse il suo peccato era così grave che non poteva essere perdonato; e il suo orgoglio così grande che non aveva bisogno di perdono. Era caduta da quell’alta condizione che Dio ha stabilito per uomini e donne, e faceva della sua caduta una gloria perché era completa. John non avrebbe trovato nel suo cuore, anche se avesse osato cercarlo, il minimo desiderio della sua redenzione. Voleva essere come lei, soltanto più potente, più radicale, e più crudele; per far soffrire quelli che gli stavano intorno, tutti quelli che lo ferivano, come essa faceva soffrire lo studente, e ridergli in faccia quando chiedevano pietà per il loro dolore. Lui non avrebbe voluto chiedere pietà, e il suo dolore era più grande del loro. Forza, sussurrò, mentre lo studente, affrontando l’implacabile, malvagia volontà della donna, sospirava e piangeva. Forza, ragazza. Un giorno avrebbe parlato cosi, li avrebbe affrontati e avrebbe detto quanto li odiava, come lo avevano fatto soffrire, e come li avrebbe ripagati!

Tuttavia, quando la donna venne a morire, come si meritava - cosa che alla fine fece, più grottesca che mai - i pensieri di John si arrestarono bruscamente, e restò agghiacciato dall’espressione di quella faccia, Sembrava fissa per sempre in direzione del vento più penetrante che avesse mai sentito, proiettata velocemente in un regno dove niente poteva aiutarla, ne il suo orgoglio, ne il suo coraggio, nè la sua splendida malvagità. La, dove stava andando, non era questo che contava ma un’altra cosa, che non sapeva definire con un nome ma solo intuire, qualcosa che non poteva minimamente cambiare, e a cui non aveva mai pensato. Cominciò a piangere, mentre la depravazione del suo viso si trasformava in una smorfia infantile; e l’obiettivo si allontanò da lei, lasciandola sudicia, in una sudicia stanza, sola ad affrontare il suo Creatore. La scena si dissolse e lei era morta; e benché il film continuasse, permettendo allo studente di sposare un’altra ragazza, più bruna, e molto dolce, ma certo non cosi attraente, John continuava a pensare a quella donna e alla sua terribile fine. Ancora, se il pensiero non fosse stato una bestemmia, avrebbe pensato che era stato il Signore a guidarlo in quel cinema per mostrargli qual è il prezzo del peccato. Il film finì e la gente si mosse intorno a lui; fu proiettato il cinegiornale e, mentre ragazze in costume da bagno gli sfilavano davanti, e pugilatori combattevano, e giocatori di baseball correvano alla “base”, e presidenti e re di paesi che per lui erano solo dei nomi attraversavano rapidi il tremolante rettangolo di luce, John pensava all’Inferno, alla redenzione della sua anima, e lottava per trovare un compromesso fra la via che porta alla vita eterna e la via che termina nell’abisso. Ma non ne trovava nessuno, perché era stato allevato nella verità. Non poteva affermare, come un qualunque selvaggio africano, che nessuno gli aveva fatto conoscere il vangelo.

Suo padre e sua madre e tutti i santi” gli avevano insegnato fin dalla sua infanzia quale era il volere di Dio. O usciva da quel cinema, per non tornarci mai più, buttandosi alle spalle il mondo e i suoi piaceri, i suoi onori, e le sue glorie, o restava lì coi malvagi a dividere con loro una sicura punizione. Sì, era una via stretta e John si agitò nella sua poltrona non osando sentire come un’ingiustizia di Dio il dover fare una scelta così crudele.

Tornando a casa nel tardo pomeriggio, John vide la piccola Sarah, col cappotto sbottonato, uscire di volata da casa e correre, allontanandosi da lui, fin dentro la lontana farmacia. Subito fu preso dallo spavento; si fermò un momento, fissando sconcertato la strada, domandandosi cosa poteva giustificare una tale isterica fretta. È vero che Sarah dava sempre un’importanza esagerata a tutto quello che faceva e trasformava una semplice commissione in una questione di vita o di morte; tuttavia era stata mandata a fare una commissione così in furia che sua madre non aveva avuto il tempo di abbottonarle il cappotto.

Poi si sentì stanco; se fosse successo davvero qualcosa ci sarebbe stata una situazione poco piacevole su in casa, e lui non aveva voglia di affrontarla. Ma forse era solo che sua madre aveva mal di testa e aveva mandato Sarah a prendere un’aspirina. Ma se era così, lui avrebbe dovuto preparare la cena e prendersi cura dei bambini e restare indifeso sotto gli occhi di suo padre per tutta la sera. E cominciò a camminare più lentamente.

C’erano alcuni ragazzi in piedi sulla scala avanti casa. Lo guardavano avvicinarsi, e John cercò di non guardarli e di imitare la loro andatura da bulli, Mentre saliva i pochi scalini di pietra ed entrava nell’ingresso, uno di loro gli disse:

“Hanno ferito malamente tuo fratello, oggi”.

Li guardò quasi con terrore, non osando domandare particolari; anch’essi sembravano usciti da una battaglia; un’aria da cane bastonato nei loro sguardi faceva capire che erano stati battuti, Poi guardo in basso e vide che c’era sangue sul la soglia, e sangue sparso sulle piastrelle dell’ingresso. Guardò di nuovo i ragazzi, che non avevano smesso di osservarlo, e salì in fretta le scale.

La porta era mezza aperta - lasciata così per Sarah, senza dubbio - ed entrò senza far rumore, provando confusamente l’impulso di fuggire. Non c’era nessuno in cucina, per quanto la luce fosse accesa: le luci erano accese in tutta la casa.

Sulla tavola di cucina c’era la borsa della spesa piena di roba da mangiare, e capì che la zia Florence era arrivata. Il mastello in cui sua madre stava lavando la mattina, era ancora scoperto, e riempiva la cucina di un aspro odore.

Anche qui c’erano gocce di sangue sul pavimento e, mentre saliva, aveva visto delle piccole, rotonde macchie di sangue sugli scalini.

Tutto questo lo spaventò terribilmente. Restò fermo in mezzo alla cucina, cercando di immaginare cos’era successo, e preparandosi a entrare nel salotto dove sembrava che fosse tutta la famiglia. Roy aveva avuto dei guai anche prima, ma quest’ultimo sembrava che fosse l’inizio dell’adempimento di una profezia. Si levò il cappotto, lo mise su una sedia e stava per entrare nei salotto quando sentì Sarah correre su per la scala.

Aspettò, ed essa entrò precipitosamente, portando un pacco mal fatto.

“Cosa è successo?” sussurrò John. Lei lo fissò sbalordita, e con una certa gioia selvaggia. Ancora una volta John pensò che sua sorella davvero non gli piaceva. Riprendendo fiato, Sarah si lasciò sfuggire, trionfante: «Roy è stato ferito da una coltellata!” e si precipitò nel salotto.

Roy ferito da una coltellata. Qualunque cosa questo significasse, era sicuro che suo padre sarebbe stato di pessimo umore quella sera. John entrò lentamente nel salotto.

Suo padre e sua madre - fra loro c’era una catinella d’acqua - stavano in ginocchio presso il sofà dove era disteso Roy, e suo padre stava lavando il sangue dalla sua fronte.

Sembrava che sua madre, il cui tocco era tanto più delicato, fosse stata messa da parte da suo padre, che non sopporta va che nessun altro toccasse il suo figlio ferito. E ora essa stava a guardare, una mano nell’acqua e l’altra, con una specie di angoscia, alla vita ancora circondata dal grembiale che aveva la mattina. Il suo viso era pieno di dolore e di paura, di una tensione quasi insopportabile, e di una pietà che avrebbe potuto essere a malapena espressa se avesse riempito del suo pianto il mondo intero. Suo padre mormorava dolci, deliranti parole a Roy, e le sue mani, quando le immergeva nella catinella e poi strizzava il panno, tremavano.

La zia Florence, ancora col cappello in testa e la borsetta, stava in piedi un passo indietro, guardandoli con una faccia turbata e terribile.

Sarah piombò nella stanza davanti a lui, e sua madre guardò in su, protendendosi per prendere il pacco, e lo vide. Non disse niente, ma lo guardò con una strana, rapida intensità, come se avesse sulla lingua un avvertimento che non osava pronunciare. La zia Florence lo guardò e disse: “Ci si stava chiedendo dove eri, John. Quel disgraziato di tuo fratello è andato fuori a beccarsi una ferita”.

John capì dal suo tono che il trambusto era, probabilmente, un po’ più grande del pericolo, Roy, dopo tutto, non sarebbe morto. E il suo cuore ne fu un po’ sollevato. Poi suo padre si voltò a guardarlo.

“Dove sei stato tutto questo tempo?” gridò. “Non sai che c’era bisogno di te, qui a casa?”

Più che le sue parole, la sua faccia fece immediatamente irrigidire John, riempiendolo di rancore e di paura. La faccia di suo padre era terribile nella collera, ma ora c’era qualcosa di più della collera. John vedeva quello che non aveva mai visto prima, tranne che nei suoi sogni di vendetta: una specie di selvaggio, lacrimante terrore, che faceva sembrare la sua faccia più giovane e insieme indicibilmente più vecchia e crudele. E capì, nel momento in cui gli occhi di suo padre si posarono su di lui, che suo padre lo odiava perché non giaceva sul divano al posto di Roy. Non era facile, per John, sostenere lo sguardo di suo padre, e tuttavia per un momento lo fece, senza dir niente, provando nel suo cuore una strana sensazione di trionfo, e sperando che Roy, per far crollare suo padre, morisse.

Sua madre aveva disfatto il pacco e stava aprendo una bottiglia di acqua ossigenata. “Ecco,” disse “è meglio che lo lavi con questo, ora.”

Aveva una voce calma e secca; guardò un momento suo padre mentre gli porgeva, impassibile, la bottiglia e il cotone.

“Questo ti farà male” disse suo padre con una voce così diversa, così triste e tenera! - voltandosi di nuovo verso il divano. “Ma comportati da ometto e stai fermo; facciamo in un momento,”

John osservava e ascoltava, pieno di odio. Roy cominciò a gemere. La zia Florence andò al camino e posò la sua borsetta vicino al serpente di metallo. Nella stanza alle spalle dì John la piccola Ruth cominciò a piagnucolare.

“John,” disse sua madre “vai a prenderla in braccio, da bravo.” Le sue mani, che non tremavano, erano ancora occupate: aveva aperto la bottiglia di tintura di iodio e stava tagliando delle bende.

John entrò nella camera dei genitori e prese in braccio la bambina che gridava: era tutta bagnata. Nel momento in cui Ruth si sentì sollevare smise di piangere e lo fissò con occhi sbarrati, uno sguardo patetico, come se sapesse che c’erano dei guai in casa. John rise a quella sua disperazione che la faceva sembrare adulta - amava molto la sua piccola sorella - e le sussurrò all’orecchio avviandosi verso il salotto: «Lasciati dire una cosa dal tuo fratellone, piccina. Appena saprai stare in piedi, scappa via da questa casa, scappa lontano”. Non sapeva assolutamente perché diceva questo, o dove voleva che lei scappasse, ma subito si sentì meglio.

Quando John rientrò nella stanza, suo padre stava dicendo a sua madre: Vorrei domandarti una cosa. Vorrei sapere come mai hai lasciato che questo ragazzo uscisse e si facesse quasi ammazzare.”

“Non cominciare,” disse la zia Florence “non cominciare con queste discussioni, ora. Sai benissimo che Roy non chiede mai a nessuno se può fare qualcosa; va dove vuole e fa quello che gli pare. Elizabeth non può certo tenerlo legato. sempre piena di lavoro in questa casa, e non è colpa sua se Roy ha una test dura come quella di suo padre.”

“Tu parli troppo, almeno per una volta potresti fare a meno di metter bocca nei miei affari” disse suo padre senza guardarla.

«Non è colpa mia,” disse la zia Florence “se sei nato fesso, e lo sei sempre stato, e non cambierai mai. Giuro su Dio che metteresti alla prova la pazienza di Giobbe,”

“Ti ho detto prima,” suo padre non aveva smesso di curare Roy che continuava a gemere, e si preparava ora a mettere la tintura di iodio sulla ferita, «che non voglio che tu venga qui a usare questo linguaggio da marciapiede davanti ai miei bambini.”

“Non ti preoccupare del mio linguaggio,” disse la zia con forza «faresti meglio a cominciare a preoccuparti della tua vita. Ciò che sentono questi bambini non gli farà certo più danno di quello che vedono.”

“Quello che vedono,” borbottò suo padre “è un pover’uomo che cerca di servire il Signore. Questa la mia vita.”

“E allora ti garantisco che faranno di tutto per impedire che sia la loro vita” disse lei. “Tieni a mente quello che ti dico.

Egli si volse e la guardò, e sorprese lo sguardo che si scambiarono le due donne. La madre di John, per ragioni di verse da quelle di suo padre, voleva che la zia Florence stesse tranquilla. Suo padre distolse lo sguardo, ironicamente.

John. vide la bocca di sua madre serrarsi con amarezza mentre abbassava gli occhi. Suo padre in silenzio cominciò a bendare la fronte di Roy.

“Solo per grazia di Dio,” disse alla fine “che questo ragazzo non ha perduto un occhio. Guardate qui.”

Sua madre si chinò a guardare il viso di Roy, sussurrando parole di compassione. Ma John comprese che aveva misurato subito l’entità del pericolo che aveva minacciato l’occhio e la vita di Roy, e ora non era più preoccupata. Ora stava solo guadagnando tempo, per così dire, e si preparava ad affrontare il momento in cui la collera di suo marito si sarebbe rivolta con tutta forza contro di lei.

Il padre si voltò verso John, che stava in piedi vicino alla porta a vetri con Ruth in braccio.

“Vieni qui,” disse “e guarda quei bianchi cosa hanno fatto a tuo fratello.”

Sotto gli occhi furiosi di suo padre. John si avvicinò al di vano con la fierezza di un principe che si avvicina al patibolo.

“Guarda qui,” gli disse suo padre, afferrandolo brutalmente per un braccio, “guarda tuo fratello,”

John guardò Roy che lo fissava senza quasi espressione nei suoi occhi neri. E capì, dalla stanca, impaziente smorfia della sua bocca infantile, che suo fratello gli stava chiedendo di non incolparlo di tutto quanto stava succedendo. Non era colpa sua, o di John, dicevano gli occhi di Roy, se avevano un padre così pazzo.

Suo padre, con l’aria di chi costringe il peccatore a guardar giù nell’abisso che l’aspetta, si spostò leggermente in modo che John potesse vedere la ferita di Roy.

Roy era stato colpito da una coltellata, data per fortuna con un coltello non molto affilato, che partendo dal centro della fronte dove cominciavano i capelli, arrivava giù fino all’occhio sinistro: la ferita disegnava una specie di strana mezzaluna, con una estremità violenta e confusa che rovinava il sopracciglio. Il tempo avrebbe scurito la cicatrice sulla bruna pelle di Roy, ma niente avrebbe riunito di nuovo i due lembi del sopracciglio separati così violentemente. Questa strana cicatrice, questo punto interrogativo, gli sarebbe rimasto per sempre, e avrebbe per sempre accentuato qual cosa di ironico e di sinistro sulla faccia di Roy. John si sentì improvvisamente mosso a ridere, ma gli occhi di suo padre lo fissavano e si contenne. Certamente la ferita ora era molto brutta, e molto rossa e, John lo sentì con accresciuta simpatia per Roy che non aveva gridato, doveva essere stata molto dolorosa. Poteva immaginare la sensazione in casa quando Roy era entrato vacillante, accecato dal suo sangue; ma in ogni caso, non era morto, non era cambiato, e sarebbe tornato di nuovo in strada appena fosse stato meglio.

Vedi?” sentì ancora la voce di suo padre sono stati i bianchi, quei bianchi che tu ami tanto che hanno tentato di tagliare la gola a tuo fratello.”

John pensò subito, con rabbia e con uno strano disprezzo per l’inesattezza di suo padre, che solo un cieco, anche se bianco, avrebbe potuto verosimilmente mirare alla gola e colpire in fronte; e sua madre disse con calma insistenza:

“E lui cercava di tagliarla a loro. Cattivi ragazzi, lui e gli altri.”

“Sì,” disse la zia Florence “non ti ho ancora sentito fare a questo ragazzo una sola domanda su come è successo tutto.

Si vede che hai deciso di far nascere un casino in ogni modo e di far soffrire tutti in questa casa perché è successo qualcosa alla pupilla dei tuoi occhi.”

“Ti ho chiesto di smetterla con quella lingua” gridò suo padre terribilmente esasperato. “Non sono cose che ti riguardano. Questa è la mia famiglia e questa è la mia casa. Vuoi che ti dia uno schiaffo?”

“Dammelo,” disse la zia, con una calma ugualmente terribile, “e ti garantisco che ti farò smettere di dare schiaffi a destra e a sinistra.”

“Basta ora” disse sua madre, alzandosi. “Finitela. Quello che è stato è stato, Dovremmo stare in ginocchio, a ringraziare Dio che non è andata peggio.”

“Amen,” disse la zia Florence “di’ qualcosa a questo scemo di negro.”

“Puoi dire qualcosa a quello scemo di tuo figlio,” disse con astio suo padre a sua madre, avendo deciso, a quel che sembrava, di ignorare la sorella, “eccolo lì con quegli occhioni da caprone. Puoi dirgli di considerare questo come un avvertimento del Signore, Questo è quello che i bianchi fanno ai negri. Te l’ho sempre detto, ora lo vedi.”

“Lui deve prender questo come un avvertimento?” strillò la zia Florence. “Lui? Ma non è stato lui che ha attraversato mezza città per andare a battersi coi ragazzi bianchi. E questo qui sul divano che ha voluto andare con tutto un gruppo di altri ragazzi, fino al West Side, solo per cercare di battersi. Parola mia, mi domando cos’hai in quella testa.”

“Sai benissimo,” disse sua madre, guardando suo padre dritto negli occhi, “che Johnny non bazzica lo stesso genere di ragazzi che frequenta Roy. Troppe volte hai picchiato Roy, proprio qui in questa stanza, perché andava fuori con quei ragazzacci. Roy si è preso una coltellata questo pomeriggio perché era fuori a fare qualcosa che non doveva fare, e questo è tutto. Dovresti ringraziare il tuo Redentore che non è morto,”

“Per la cura che ti sei presa di lui potrebbe anche essere morto. Non sembra che ti importi molto se vive o se muore.”

“Signore, abbi pietà” disse la zia Florence.

“ anche mio figlio” disse sua madre, con calore. “ L’ho portato nel mio ventre per nove mesi e lo conosco proprio come conosco suo padre: sono esattamente uguali. Tu non hai nessun diritto di parlarmi così.”

‘Immagino,” disse suo padre con voce soffocata e respirando a fatica che sai tutto sull’amore materno. Vorrei che tu mi dicessi come può una donna star seduta tutto il giorno in casa e lasciare che la carne della sua carne vada fuori a farsi quasi macellare. Non dirmi che non conosci nessun sistema per tenerlo fermo, perché io ricordo mia madre, Dio benedica l’anima sua, e lei il sistema l’aveva trovato.”

“Era anche mia madre,” disse la zia Florence «e se tu non te lo ricordi, io mi ricordo benissimo che tante volte ti hanno portato a casa più morto che vivo. Non aveva trovato il modo di tenerti fermo, te. Si stancava a furia di picchiarti, proprio come fai tu con questo ragazzo qui.”

“Dio, Dio, Dio quanto parli!”

“Non sto facendo altro che cercare di mettere un po’ di buon senso nella tua nera testaccia dura. È meglio che tu smetta di cercare di dare la colpa di tutto a Elizabeth e ti preoccupi dei tuoi, di errori.”

“Lascia stare. Florence,” disse sua madre “ormai tutto è passato.”

“lo,” grido suo padre ogni giorno che ci manda il Signore, vado fuori a lavorare per mettere qualcosa da mangiare in bocca a questi bambini. Non credi che abbia il diritto di chiedere alla loro madre di badare a loro e vedere che non si rompano il collo durante la mia assenza?”

“Non hai che un figlio,” disse sua madre «che abbia tendenza ad andare fuori a rompersi il collo, e questo è Roy, e tu lo sai. E non capisco come ti aspetti che io governi la casa, e stia a badare ai bambini, continuando a correre dietro a Roy. No, io non posso tenerlo fermo, te l’ho detto, e neanche tu. Tu non sai cosa fare con questo ragazzo, ecco perché cerchi sempre di dare la colpa a qualcuno. Non c’è da incolpar nessuno, Gabriel. È meglio che preghi Dio di fermarlo prima che qualcuno gli metta in corpo un’altra coltellata e lo sistemi nella tomba.”

Si fissarono un momento, un momento terribile, e negli occhi di lei c’era un’allarmata, supplichevole domanda. Allora, con tutte le sue forze, suo padre si protese in avanti e le diede uno schiaffo sulla faccia. Essa si accasciò, nascondendosi la faccia con una magra mano, e la zia Florence si precipitò a sostenerla, Sarah guardava tutto con occhi avidi.

Roy si alzò a sedere e, con la voce che gli tremava, disse:

“Non dare schiaffi a mia madre. È mia madre. Se lo fai ancora, bastardo d’un negro, giuro su Dio che ti ammazzo”.

Nel momento in cui queste parole risuonarono nella stanza, e vi restarono sospese come l’attimo di luce sospesa e frastagliata che precede un’esplosione, John e suo padre stavano fissandosi negli occhi. John pensò che suo padre avesse creduto che le parole erano venute da lui, tanto i suoi occhi erano selvaggiamente e profondamente ostili, e la sua bocca contorta in una smorfia dolorosa. Poi, nell’assoluto silenzio che seguì le parole di Roy, John si accorse che suo padre non lo vedeva, non vedeva niente, se non, forse, un’apparizione. Volle voltarsi e scappare, come se avesse incontrato nella giungla una belva feroce, pronta a balzargli addosso, con occhi spalancati come l’inferno; ma, proprio come se, a una svolta di strada, si fosse trovato di fronte un pericolo inevitabile, senti che non poteva muoversi. Allora suo padre si volse e guardò Roy.

“Cosa hai detto?” domandò.

“Ti ho detto” disse Roy «di non toccare mia madre.”

“Tu mi hai maledetto” disse suo padre, Roy non disse niente; e non abbassò gli occhi.

«Gabriel,” disse sua madre “ Gabriel. Preghiamo…”

Suo padre portò le mani alla vita e si tolse la cintura. I suoi occhi erano pieni di lacrime.

“Gabriel,” gridò la zia Florence «non hai fatto abbastanza lo scemo per oggi?”

Suo padre alzò la cintura, e la cintura si abbatte con un suono sibilante su Roy, che cadde indietro tremando, con la faccia verso il muro. Ma non gridò. E la cintura si alzò ancora, l’aria risuonò dei sibili e dei colpi sulla carne di Roy. La piccola Rudi cominciò a strillare.

“Mio Do, mo Dio,” mormorava suo padre “mio Dio, mio Dio.”

Alzò di nuovo la cintura, ma la zia Florence la prese da dietro, e la tenne. Sua madre si precipitò a prendere Roy fra le braccia, piangendo come John non aveva mai visto piangere una donna, o nessuno. Roy si attaccò al collo di sua madre, aggrappandosi a lei come se stesse per annegare.

La zia Florence e suo padre stavano una di fronte all’altro.

“Sì,” disse la zia Florence “sei nato selvaggio e selvaggio morirai. Ma è inutile che cerchi di trascinare tutto il mondo con te. Non puoi cambiare niente, Gabriel. Ormai dovresti saperlo.”

 

Alle sei John aprì la porta della chiesa con la chiave di suo padre. Ufficialmente l’ultima funzione cominciava alle otto, ma poteva cominciare a qualunque ora, ogni volta che il Signore spingeva uno dei “santi” a entrare in chiesa a pregare. Ma era raro che arrivasse qualcuno prima delle otto e mezzo, perché lo Spirito del Signore era tollerante abbastanza da lasciare ai “santi” il tempo di fare le spese del sabato sera, di pulire la casa, e mettere a letto i bambini.

John si chiuse la porta alle spalle e restò in piedi nella piccola chiesa, sentendo dietro di sé le voci dei bambini che giocavano e voci più rudi, quelle dei più grandi, che imprecavano e gridavano nelle strade, Era buio in chiesa; i lampioni si erano accesi di colpo tutt’intorno a lui nella strada affollata; la luce del giorno se n’era andata. I suoi piedi sembravano radicati a quel pavimento di legno; non volevano portarlo avanti di un altro passo. L’oscurità e il silenzio della chiesa lo opprimevano e le grida che entravano dalla finestra avrebbero potuto venire da un altro mondo. John si avviò, sentendo scricchiolare sotto i piedi il legno avvallato, verso la croce d’oro in campo rosso della tovaglia dell’altare, che splendeva come fuoco sotto la cenere e si accendeva di una debole luce.

Nell’aria della chiesa stagnava sempre odore di polvere e sudore; perché, come quella del tappeto del salotto di sua madre, la polvere della chiesa era indistruttibile; e quando i “santi” pregavano o esultavano, i loro corpi mandavano fuori un acre, umido odore, un odore misto di corpi sudati e di biancheria inamidata fradicia. La chiesa era sistemata dove prima c’era un negozio e John si ricordava di averla sempre vista sull’angolo di quella strada peccaminosa, di fronte all’ospedale dove, quasi ogni notte, venivano portati criminali feriti e moribondi. I “santi”, arrivando, avevano preso in affitto il negozio e l’avevano vuotato del suo arredamento; avevano dipinto i muri e costruito un pulpito, portato dentro un pianoforte e delle sedie da campo, e comprato la più grande Bibbia che avevano potuto trovare. Avevano messo delle tende bianche nella vetrina e sulla vetrina avevano dipinto: Tempio del Fuoco Battezzato. Dopodiché tutto era stato pronto per servire il Signore.

E il Signore, come aveva promesso ai due o tre che per primi si erano riuniti, ne aveva mandati degli altri; e questi ne avevano portati altri e tutti insieme avevano creato una chiesa. Da questo ramo principale, con la benedizione del Signore, altri rami potevano nascere e svilupparsi e un gran lavoro incominciare in tutta la città e in tutto il paese.

Nella storia del Tempio il Signore aveva fatto sorgere evangelisti, maestri e profeti, e li aveva spinti nel mondo a compiere la sua opera: su e giù per il paese a portare il vangelo, o a far sorgere altri templi - a Filadelfia, Georgia, Boston, o Brooklyn. Andavano ovunque il Signore li guidava. Ogni tanto uno o una di loro tornava a casa per testimoniare dei prodigi che, tramite la sua persona, il Signore aveva compiuto.

E in qualche speciale domenica, visitavano tutti insieme una delle chiese più vicine della Confraternita.

C’era stato un tempo, prima che John nascesse, in cui anche suo padre aveva svolto questa missione; ma ora, dovendo guadagnare il pane quotidiano per la famiglia, di rado poteva viaggiare più lontano di Filadelfia, e se anche, era solo per pochissimo tempo. Suo padre non organizzava più grandi revivals, come una volta, quando il suo nome era stampato in grande sui manifesti che annunciavano la venuta di un uomo di Dio. Suo padre aveva avuto un tempo una grande reputazione; ma sembrava che tutto fosse cambiato da quando aveva lasciato il Sud. Forse ora avrebbe dovuto avere una chiesa sua propria: John si domandava se suo padre lo desiderava; forse avrebbe dovuto guidare, come ora faceva padre James, un numeroso gregge di fedeli verso il Regno dei Cieli. Invece era solo un guardiano nella casa di Dio.

Doveva sostituire le lampadine bruciate, e far le pulizie in chiesa, e aver cura della Bibbia, dei libri di inni sacri e degli affissi sui muri. Il venerdì sera celebrava la funzione dei Giovani Sacerdoti e predicava con loro. Di rado predicava la domenica mattina; lo chiamavano solo se non c’era nessun altro. Era una specie di sostituto, il “tuttofare” della chiesa.

Tuttavia, per quanto John poteva vedere, era trattato con grande rispetto, Nessuno, nessuno dei santi” in ogni caso, aveva mai fatto un rimprovero o un appunto a suo padre, o messo in dubbio la irreprensibilità della sua vita. E ciononostante quest’uomo, questo ministro di Dio, aveva percosso sua madre, e John aveva desiderato di ucciderlo.., e lo desiderava ancora.

John aveva scopato una parte della chiesa e le sedie erano ancora accatastate davanti all’altare quando venne bussato alla porta. Aprì, e vide che era Elisha, venuto per aiutarlo.

“Il Signore sia lodato” disse Elisha sulla soglia, sorridendo.

“Il Signore sia lodato” disse John. Era il saluto che si scambiavano sempre i santi “.

Fratello Elisha entrò, sbattendo la porta dietro di sé e pestando i piedi. Probabilmente arrivava da un campo di pallacanestro; aveva la fronte ancora lucida di sudore e i capelli arruffati. Portava il suo maglione di lana verde, sui quale era stampata la iniziale della sua scuola, e aveva il colletto della camicia aperto.

“Non hai freddo così?” domandò John, guardandolo.

“No, fratellino, non ho freddo. Credi che siano tutti delicati come te?”

“Al cimitero non ci vanno solo i bambini” disse John, sentendosi insolitamente ardito e allegro: l’arrivo di Elisha aveva cambiato il suo umore.

Elisha, che si era avviato verso la stanza in fondo alla chiesa, si voltò e rivolse a John uno sguardo stupito e minaccioso. “Ah,” disse “hai deciso di fare l’impertinente col fratello Elisha, stasera. Bisogna che ti dia una piccola lezione. Fammi solo lavare le mani.”

«Non ce n’è bisogno, se sei venuto qui per lavorare. Basta che pigli questo straccio e metti un po’ di acqua e sapone nel secchio.”

O Signore,” disse Elisha, facendo correre l’acqua nell’acquaio e come parlando all’acqua, “questo qui è proprio un negro impertinente. Spero che non si faccia male uno di questi giorni, a furia di far andar la lingua in questo modo. Ho paura che la smetterà solo quando qualcuno gli farà un occhio nero.” Sospirò profondamente e cominciò a insaponarsi le mani. “Vengo qui di corsa perché non si disturbi a sollevare neanche una di queste sedie, e tutto quello che ha da dire è ‘metti un po’ d’acqua nel secchio’. Non c’è niente da fare coi negri.” Tacque e si voltò verso John. “Dov’è la tua educazione, ragazzo? Faresti meglio a imparare come si parla a una persona anziana.”

«Tu faresti meglio a venir fuori con quello straccio e quel secchio. Non possiamo star qui tutta notte.”

«Continua pure” disse Elisha. “Vedo che devo darti una lezione stasera.

Sparì. John lo sentì nel gabinetto e poi, sopra lo scroscio dell’acqua, lo sentì picchiare su qualcosa nella stanza.

“Cosa stai facendo, ora?”

“Ragazzo, lasciami in pace. Sto lavorando.”

«Si sente.” John poso la scopa ed entrò nella stanza. Elisha aveva spostato una pila di sedie da campo, ripiegate in un angolo, e stava al di là di esse, arrabbiato, tenendo in mano lo straccio.

“Continuo a dirti di non nascondere questo straccio qui dietro. Non ci arriva nessuno.”

“lo ci arrivo sempre. Non sono tutti tonti come te.”

Elisha lasciò andare lo straccio e si buttò su John, facendogli perdere l’equilibrio e sollevandolo dal pavimento. Stringendogli le braccia intorno alla vita cercava di soffocarlo, e intanto lo osservava con un sorriso che, mentre John lottava e si dibatteva, diventò una smorfia feroce. John tempestava di pugni le spalle e le braccia di Elisha, e cercava di spingere i ginocchi contro il suo ventre. Di solito queste lotte finivano presto, perché Elisha era molto più grande e più forte, e più abile come lottatore; ma quella sera John era ben deciso a non lasciarsi vincere, o almeno a far pagar cara la vittoria. Lottava con tutta la forza che aveva, una forza che era quasi odio. Dava calci, pugni, si contorceva, spingeva, servendosi della sua piccolezza per confondere e esasperare Elisha, i cui umidi pugni, stretti in fondo alla schiena di John, presto scivolarono. Non c’era via d’uscita: lui non poteva tenerlo più stretto, John non poteva liberarsi. E così continuavano a rigirarsi, lottando nella stretta stanza, e l’odore del sudore di Elisha pesava nelle narici di John. John vide ingrossarsi le vene sulla fronte e sul collo di Elisha; ne sentì il respiro diventare più ineguale e sforzato, e vide la smorfia sulla sua faccia diventare più crudele; e, spiando queste manifestazioni della sua forza, si sentì pieno di una gioia selvaggia. Inciamparono contro il mucchio di sedie, Elisha scivolò su un piede e abbandonò la presa: Si fissarono con un mezzo sorriso. John crollò sul pavimento, tenendosi la testa fra le mani.

“Ti ho fatto male?” chiese Elìsha.

John lo guardò. “A me? No, voglio solo riprendere fiato.”

Elisha andò all’acquaio, e si spruzzò di acqua fredda la faccia e il collo, “Spero che mi lascerai lavorare, ora” disse.

“Prima di tutto non sono stato io a impedirtelo.” John si alzò in piedi. Senti che le gambe gli tremavano. Guardo Elisha, che stava asciugandosi. “Un giorno mi insegni a far la lotta, okay?”

“No,” disse Elisha, ridendo, “non voglio far la lotta con te. Sei troppo forte per me.” E cominciò a far correre l’acqua nel grosso secchio.

John gli passò davanti e andò a prendere la sua scopa.

Un momento dopo Elisha lo seguì e cominciò a strofinare vicino alla porta. John aveva finito di scopare e salì sul pulpito a spolverare le tre poltrone che vi troneggiavano, color porpora, con bianche foderine quadrate che proteggevano la testata e i massicci braccioli. Dominava tutto, il pulpito: una piattaforma di legno innalzata sopra i fedeli, con al centro un alto leggio per la Bibbia, davanti al quale stava il predicatore. Spiccava di fronte ai fedeli, guardando giù da quel l’altezza, la rossa tovaglia dell’altare su cui brillava la croce d’oro e la scritta: GESÙ SALVA. Il pulpito era sacro. Nessuno poteva stare così in alto se non aveva su di sé il sigillo di Dio.

Spolverò il pianoforte e sedette sullo sgabello aspettando che Elisha finisse di pulire un lato della chiesa per poter mettere a posto le sedie. Improvvisamente Elisha disse, senza guardarlo:

“Non è ora che tu pensi alla tua anima, John?”

“Credo di sì” disse John con una calma che lo spaventò.

“So che la cosa sembra difficile,” disse Elisha “guardando da fuori, specialmente quando si è giovani. Ma credi a me, non c’è gioia maggiore di quella che si prova servendo il Signore.”

John non disse niente. Toccò un tasto nero del pianoforte che produsse un suono sordo, come di tamburo lontano.

“Ricordati,” disse Elisha, voltandosi ora a guardarlo, “che tu pensi a questo con una mente carnale, Hai ancora la mente di Adamo, e continui a pensare ai tuoi amici, vuoi fare quello che loro fanno, e vuoi andare al cinema, e scommetto che pensi alle ragazze, vero, Johnny? Lo fai di sicuro,” disse, con un mezzo sorriso, leggendo la risposta alla sua domanda sulla faccia di John, «e non vuoi rinunciare a tutto questo. Ma quando il Signore ti salva, Egli brucia fino in fondo tutto quel vecchio Adamo, ti dà una mente nuova e un cuore nuovo, e allora tu non trovi più nessun piacere nel mondo, la tua gioia è tutta nel camminare e nel parlare con Gesù ogni giorno.”

John fissò, paralizzato da un cupo terrore, il corpo di Elisha. Lo ricordò in piedi accanto a Ella Mae - Elisha aveva dimenticato? - davanti all’altare, mentre padre James gli rimproverava il male che abitava la sua carne. Guardò Elisha in faccia, sentendosi dentro una quantità di domande che non avrebbe mai posto. E il viso di Elisha non gli disse niente.

“Dicono che è difficile,” disse Elisha, chinandosi di nuovo sul suo straccio, “ma posso dirti che è meno difficile che vivere in questo basso mondo, con tutta la sua tristezza senz’ombra di piacere, e poi morire e andare all’Inferno. Non c’è niente di così difficile.” E si volse a guardare John. “Vedi come il diavolo inganna gli uomini per perdere la loro anima?”

“Sì” disse John alla fine, quasi con rabbia, non sopportando più i propri pensieri e il silenzio in cui Elisha lo guardava.

Elisha sorrise. «Ci sono delle ragazze nella scuola dove vado” aveva finito un lato della chiesa e fece cenno a John di rimettere a posto le sedie “e belle ragazze, ma non hanno la mente rivolta al Signore, e io cerco di dir loro che il momento di pentirsi non è domani, è oggi. Pensano che è inutile preoccuparsi ora, che potranno infilarsi in Paradiso dal letto di morte. Io gli dico: bellezze, non tutti muoiono nel loro letto, la gente se ne va ogni momento, come niente, oggi li vedi, domani non ci sono più. Ma loro non sanno che far sene del vecchio Elisha, perché lui non va al cinema, non balla e non gioca a carte e non se le porta in qualche angolo buio.” Fece una pausa e guardò John, che lo osservava in certo, non sapendo cosa dire. “E alcune di loro sono davvero carine, voglio dire belle ragazze, e quando avrai raggiunto tanta forza da resistere alle loro tentazioni allora saprai di essere stato salvato, lo le guardo soltanto e dico a loro che Gesù mi ha salvato, e che ora sarò sempre con Lui. Nessuna donna, no, e nemmeno nessun uomo potranno farmi cambiare idea.” Fece un’altra pausa e sorrise abbassando gli occhi. “Ti ricordi quella domenica quando il Padre salì sul pulpito e rimproverò me e Ella Mac perché pensava che stessimo per commettere peccato? Bene, non voglio dir bugie, quella domenica ce l’avevo a morte col vecchio. Ma poi ci ho pensato su, e il Signore mi ha fatto vedere che aveva ragione. lo e Ella Mae non si pensava niente di male, ma il diavolo è proprio dappertutto, qualche volta posa su noi la sua mano e sembra di non poter più respirare. come se uno bruciasse, e dovesse fare qualcosa e non potesse far niente; sono stato in ginocchio tante volte, piangendo e lottando da vanti al Signore - piangendo, Johnny - e invocando il nome di Gesù. il solo nome che ha potere su Satana. Così è successo a me, e ora sono ‘salvato’. E tu, John?” Guardò John che, a testa bassa, stava mettendo in ordine le sedie. “Vuoi essere salvato, Johnny?”

“Non so” disse John.

“Vuoi provare? Provare un giorno a inginocchiarti e chiedere al Signore di aiutarti a pregare?”

John si volse e diede uno sguardo alla chiesa, che ora sembrava un vasto campo, pronto per il raccolto. Ripensò a una Domenica di Comunione, non molto tempo prima, quando i “santi”, tutti vestiti di bianco, avevano mangiato il pane azimo, senza lievito e sale, che era il corpo del Signore, e bevuto rosso sugo di uva, che era il Suo sangue. E quando si erano alzati dalla tavola, preparata apposta per quel giorno, si erano separati, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, e due catini erano stati riempiti d’acqua perché essi po tessero lavarsi reciprocamente i piedi, come Cristo aveva comandato ai Suoi discepoli. Si erano inginocchiati gli uni di fronte agli altri, le donne davanti alle donne e gli uomini da vanti agli uomini, e si erano lavati e asciugati reciprocamente i piedi. Fratello Elisha si era inginocchiato davanti al padre di John. Quando il servizio era finito si erano scambiati un pio bacio. John si voltò a guardare Elisha. Elisha lo guardò e sorrise. «Pensaci, a quello che ho detto.”

Quando ebbero finito Elisha si mise al pianoforte e suonò per se stesso. John sedette su una delle sedie più vicine e restò a osservarlo.

“Sembra che non venga nessuno stasera” disse John dopo un lungo silenzio.

Elisha non smise di suonare la triste melodia di O Signore, abbi pietà di me.

“Verranno” disse.

E mentre parlava si sentì bussare alla porta. Elisha si interruppe. John andò alla porta e vide due Sorelle, sorella McCandless e sorella Price.

Sia lodato il Signore” dissero.

“Sia lodato il Signore” disse John.

Entrarono a testa china e con le mani strette intorno al la Bibbia. Avevano il cappotto nero che portavano tutta la settimana e in testa un vecchio cappello di feltro. John ebbe un brivido quando gli passarono davanti, e chiuse la porta.

Elisha si alzò, ed esse gridarono ancora: «Sia lodato il Signore!” Poi le due donne si inginocchiarono un momento davanti alle loro sedie a pregare. Anche questo era parte del rito. Ogni “santo” che entrava, prima di poter partecipare al servizio divino, doveva per un momento raccogliersi da solo col Signore. John guardava le due donne che pregavano. Elisha sedette di nuovo al pianoforte e riprese la sua triste melodia. Le donne si alzarono, prima sorella Price, e poi sorella McCandless, e si guardarono intorno.

“Siamo noi le prime?” domandò sorella Price. La sua voce era dolce, la sua pelle era rame. Era parecchi anni più giovane di sorella McCandless, una zitella che non aveva mai, a quanto diceva, conosciuto un uomo.

“No, sorella Price,” sorrise Elisha, il primo è stato fratello Johnny. Lui e io abbiamo pulito la chiesa stasera.”

Fratello Johnny è pieno di zelo” disse sorella McCandless.

Il Signore farà con lui grandi opere, ricordate quello che vi dico.”

C’erano dei momenti - di fatto, ogni volta che il Signore aveva mostrato la sua benevolenza agendo attraverso la sua persona — in cui ogni cosa che diceva sorella McCandless suonava come una minaccia, Quella sera essa era ancora sotto l’influenza dei sermone che aveva pronunciato la sera prima. Era una donna enorme, una delle più grandi e più nere che Dio avesse mai fatto, ed Egli l’aveva benedetta dotandola di una voce potente con la quale cantare e predicare, e presto sarebbe andata in missione, Per molti anni il Signore aveva spinto sorella McCandless ad alzarsi, come lei diceva, e a mettersi in marcia; ma la sua naturale timidezza l’aveva trattenuta dal mettersi davanti agli altri. Finché Lui non l’aveva prostrata, proprio davanti a quell’altare, essa non aveva osato alzarsi e predicare il vangelo. Ma ora si era allacciata le sue scarpe da viaggio. Avrebbe gridato forte e non si sarebbe risparmiata, e avrebbe reso la sua voce squillante come una tromba di Sion.

Sì,” disse sorella Price, col suo dolce sorriso, “il Signore dice che colui che è zelante nelle piccole cose comanderà su molti.”

John ricambiò il suo sorriso con un sorriso che, malgrado la timida gratitudine che intendeva esprimere, non poteva fare a meno di essere ironico, e perfino malizioso. Ma sorella Price non se ne accorse, cosa che aumentò il segreto disprezzo di John.

«E cosi voi due soli avete pulito la chiesa?” domandò sorella McCandless con un sorriso disarmante, il sorriso del profeta che legge i segreti nel cuore degli uomini.

“O Dio,” disse Elisha “a quanto pare siamo solo noi due a pulirla. Non so cosa fanno gli altri giovani il sabato sera, ma qui non ci vengono mai,”

Neanche Elisha ci veniva tutti i sabati sera; ma come nipote del Pastore aveva diritto a una certa libertà; era già un merito, per lui, il fatto che ci veniva.

È proprio ora di organizzare un revival per i nostri giovani” disse sorella McCandless. Si stanno intiepidendo in modo terribile. Il Signore non benedirà una chiesa che lascia diventare i suoi giovani così fiacchi, nossignore. Egli ha detto:

‘Poiché non siete ne caldi né freddi vi sputerò fuori dalla mia bocca’. Così ha detto:” E si guardò intorno severamente, e sorella Price annuì.

“E fratello Johnny non è nemmeno ‘salvato’, ancora” disse Elisha. Sembra che i giovani ‘salvati’ si vergognerebbero di permettergli di essere più zelante di loro nella casa di Dio.”

“Egli ha detto che i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi” disse sorella Price con un sorriso trionfante.

“Sì, ha detto proprio così” assentì sorella McCandless.

“Questo ragazzo ce la farà a prendere la strada che porta al Paradiso prima di tutti gli altri, aspettate e vedrete.”

“Amen” disse Elisha, e sorrise a John.

“Verrà qui il Pastore, stasera?” domandò sorella McCandless dopo un momento.

Elisha aggrottò le sopracciglia e spinse in fuori il labbro inferiore. “Non credo, Sorella” disse. “Penso che cercherà di stare a casa stasera a risparmiare le sue forze per il Servizio del mattino. Il Signore gli ha parlato attraverso visioni e sogni e non ha dormito molto, in questi ultimi tempi.”

“Sì,” disse sorella McCandless “di sicuro è un uomo che prega. Vi dico io che ce n’è pochi di Pastori che pregano tanto il Signore per il loro gregge come fa padre James.”

“Sì, è proprio vero” disse sorella Price, con animazione.

“Il Signore ci ha davvero benedetti dandoci un buon Pastore.”

“Qualche volta è fin troppo severo,” disse sorella McCandless “ma il Verbo non ammette debolezze. La via della santità non è uno scherzo.”

“Me l’ha fatto capire, questo” disse fratello Elisha con un sorriso.

Sorella McCandless lo fissò. Poi rise. ‘ O Signore,” gridò “puoi ben dirlo!”

“E io lo amo per questo” disse sorella Price. “Non tutti i Pastori sarebbero pronti a umiliare il proprio nipote, davanti a tutta la chiesa, per di più. E Elisha non aveva poi commesso una grave colpa.”

“Non ci sono colpe piccole o colpe grandi” disse sorella McCandless. “Quando Satana mette il suo piede nella porta, non è contento finché non entra nella stanza. O segui il Verbo o non lo segui, non ci sono vie di mezzo con Dio.”

“Non pensi che dovremmo cominciare?” domandò incerta sorella Price dopo un silenzio. «Mi sembra che non venga più nessuno.”

“Via,” rise sorella McCandless “non avere così poca fede.

Io credo che il Signore ci farà avere una grande funzione stasera.” Si voltò verso John. “Viene tuo padre stasera?”

“Sissignora,” rispose John “ha detto che veniva.”

“Bene!” disse sorella McCandless. “E la tua mamma, viene anche lei?”

“Non so” disse John. “È molto stanca.”

“Non sarà così stanca da non poter venire a pregare un minuto” disse sorella McCandless.

Per un momento John la odiò, e fissò il suo grasso e nero profilo con rabbia.

“lo dico che è straordinario come lavora quella donna,” disse sorella Price “e come tiene puliti e a posto i bambini, e trova il tempo di venire nella casa di Dio quasi ogni sera. Non può essere che il Signore a sostenerla,”

“Penso che si potrebbe cantare un po’,” disse sorella McCandless “giusto per riscaldare l’ambiente. Non mi piace venire in chiesa dove la gente sta soltanto seduta a parlare. Mi leva tutto l’entusiasmo.”

“Amen” disse sorella Price.

Elisha cominciò l’inno: Questa può essere la mia ultima volta, e tutti cominciarono a cantare:

 

“Questa può essere l’ultima volta che prego con te, Questa può essere la mia ultima volta, non so.”

Mentre cantavano, battevano le mani, e John vide che sorella McCandless cercava con gli occhi un tamburello. Si alzò e salì sulla scaletta del pulpito, e prese da una piccola apertura tre tamburelli. Ne diede uno a sorella McCandless, che annuì sorridendo, senza interrompere il suo canto, e mise gli altri su una sedia accanto a sorella Price.

“Questa può essere l’ultima volta che canto con te, Questa può essere la mia ultima volta, non so.”

John le osservava, cantando con loro - perché lo avrebbero costretto a cantare se non l’avesse fatto - e cercando di non sentire le parole che cacciava fuori a forza dalla gola.

Volle battere le mani, ma non poté: gli restarono serrate sulle ginocchia. Se non avesse cantato le Sorelle lo avrebbero costretto a farlo, ma il cuore gli diceva che non aveva il diritto di cantare o di gioire.

“Oh, questa Può essere la mia ultima volta Questa Può essere la mia ultima volta Oh, questa Può essere la mia ultima volta…”

E osservava Elisha, che era un giovane che seguiva la legge del Signore; al quale, poiché era un sacerdote secondo il comandamento di Melchiade, era stato dato il potere sopra la morte e l’inferno. Il Signore lo aveva innalzato, lo ave va indirizzato verso il giusto, e aveva posto i suoi piedi sulla via della luce. Quali erano i pensieri di Elisha quando veniva la notte, e lui era solo dove nessun occhio poteva vedere e nessuna lingua testimoniare, salvo la lingua di Dio simile a una tromba? Erano impuri i suoi pensieri, il suo letto, il suo corpo? Quali erano i suoi sogni?

“Questa può essere la mia ultima volta, Non so.”

Alle sue spalle la porta si aprì e l’aria invernale si precipitò dentro. Si voltò: vide entrare suo padre, sua madre, sua zia. Solo la presenza di sua zia lo colpì, perché non era mai entrata in quella chiesa: sembrava convocata per essere testimone di un avvenimento orrendo. Ciò era evidente in tutto il suo aspetto, mentre, con una calma terribile, veniva avanti dietro sua madre e poi si inginocchiava un momento accanto a lei e a suo padre, a pregare. John comprese che era la mano del Signore che l’aveva guidata fin lì, e il suo cuore si gelò.

La presenza di Dio era manifesta, quella sera. Cosa avrebbe potuto dire la Sua voce prima che spuntasse il giorno?

Parte seconda

 

LE PREGHIERE DEGLI ELETTI

 

E gridarono a gran voce dicendo “Fino a quando, o Signore, o santo e vero, non giudichi tu e vendichi il sangue nostro su quelli che abitano la terra?”

La preghiera di Florence

 

Florence innalzò la sua voce intonando l’unico inno che si ricordava di aver sempre sentito cantare da sua madre.

Sono io, io, io, o Signore, Sono io che ho bisogno di pregare”.

Gabriel si voltò a guardarla, attonito e insieme trionfante perché sua sorella si era alla fine umiliata, Essa non lo guardò, I suoi pensieri erano tutti rivolti a Dio. Quasi subito i fedeli e il pianoforte si unirono a lei:

«Non è mio padre, non è mia madre, Sono io, o Signore”.

Florence sapeva che Gabriel si rallegrava, non perché la sua umiltà avrebbe potuto condurla alla grazia, ma solo per ché un’intima angoscia l’aveva prostrata: il suo canto rivelava che stava soffrendo, e di questo suo fratello era contento.

Cosi era sempre stata la sua natura. Niente l’aveva ne l’avrebbe mai cambiata, Per un momento fu ripresa dal suo orgoglio; la determinazione che l’aveva portata fin là quella sera si attenuo; sentì che se Gabriel era l’unto del Signore, avrebbe preferito morire e penare all’Inferno per tutta l’eternità piuttosto che inchinarsi davanti all’altare di Dio. Ma soffocò il suo orgoglio, alzandosi per stare con gli altri nello spazio bene detto davanti all’altare, e continuando a cantare:

“Sono io che ho bisogno di pregare “,.

Inginocchiandosi. come non aveva fatto da tanti anni e in tale compagnia, davanti all’altare, ritrovò in quel canto il significato che esso aveva avuto per sua madre, e un significato nuovo per se. Quando era bambina, il canto le portava l’immagine di una donna, vestita di nero, sola in mezzo a una gran nebbia, in attesa che il Figlio di Dio la guidasse attraverso quel candido fuoco. Questa donna ora le tornava da vanti, più sconsolata; era lei stessa, che non sapeva dove andare; aspettava, tremando, che la nebbia si aprisse per poter camminare in pace. Quella lunga strada, la sua vita, che aveva seguito per sessanta dolorosi anni, l’aveva condotta alla fine al punto di partenza di sua madre, l'altare del Signore.

Perché i suoi piedi stavano sulla riva di quel fiume che sua madre, con gioia, aveva attraversato. Le avrebbe teso la mano, il Signore, per guarirla e salvarla? Ma, abbassandosi da vanti alla rossa tovaglia, ai piedi della croce d’oro, si accorse che non sapeva più come pregare.

Sua madre le aveva insegnato che per pregare bisognava dimenticare tutto e tutti tranne Gesù; versar fuori dal cuore, come acqua da un secchio, tutti i cattivi pensieri, tutti i pensieri egoistici, tutto il rancore per i propri nemici; presentarsi con fierezza, e insieme più umili di un bambino, davanti al Creatore di tutte le cose. Tuttavia quella sera nel cuore di Florence odio e amarezza pesavano come granito, il suo orgoglio si rifiutava di scendere dal trono su cui aveva regnato così a lungo. Né amore né umiltà l’avevano condotta all’altare, ma solo paura. E Dio non ascolta le preghiere dei paurosi, perché nei loro cuori non c è fede. Simili preghiere non possono salire più in alto delle labbra che le pronunciano.

Sentiva intorno a sé le voci dei “santi”, un mormorio continuo e pieno da cui si levava ogni tanto il nome di Gesù, simile, qualche volta, al rapido alzarsi di un uccello nell’aria di un giorno di sole, e qualche volta al lento levarsi della nebbia da un terreno paludoso. Era questo il modo di pregare?

Nella chiesa che frequentava quando era appena arrivata al Nord, i fedeli si inginocchiavano davanti all’altare solo una volta, all’inizio, per chiedere perdono dei propri peccati; fatto questo, uno era battezzato e diventava cristiano, senza più bisogno di inginocchiarsi. Anche se il Signore gli caricava sulle spalle un grosso fardello - come aveva fatto altre volte, ma mai un fardello pesante come quello che essa portava ora - uno pregava in silenzio. Era indecente questa usanza dei negri di piangere e gridare ai piedi dell’altare, lasciando correre le lacrime davanti agli occhi di tutti. Essa non l’aveva mai fatto, nemmeno da ragazza, nella chiesa che frequentavano in quei tempi. Ora forse era troppo tardi, e il Signore l’avrebbe lasciata morire nell’oscurità nella quale aveva vissuto così a lungo.

Un tempo Dio aveva guarito i Suoi figli. Aveva fatto vedere i ciechi, camminare gli storpi, e risuscitato i morti dalla tomba. Ma Florence ricordava una frase, che ora mormorava contro le mani giunte premute sulle sue labbra: “Signore, aiutami nella mia poca fede”.

Perché Florence aveva ricevuto l’avvertimento che un tempo era giunto a Ezechiele: Metti in ordine la tua casa perché devi morire e non vivere. Le era giunto molte notti prima, mentre si rigirava nel suo letto, e per molti giorni e notti l’avvertimento era stato ripetuto; ci sarebbe stato tempo, allora, di rivolgersi a Dio. Ma non aveva voluto, e aveva cercato dei rimedi fra le donne che conosceva; e poi, siccome il dolore aumentava, aveva consultato dei dottori; e quando i dottori non erano riusciti a niente aveva girato tutta la città, salendo le scale che portano alle stanze dove brucia l’incenso e dove uomini o donne legati al diavolo le davano polverine bianche, o erbe per decotti, o facevano su di lei degli incantesimi per scacciare il male. Il fuoco nelle sue viscere non smetteva, quel fuoco che, divorandola dentro, le toglieva in modo visibile la carne dalle ossa e le faceva vomitare il cibo. Una notte nella sua camera si trovò davanti la morte. Più nera della notte, e gigantesca, riempiva un angolo della sua piccola stanza, fissandola con gli occhi di un serpente che alza la testa per col pire. Allora Florence gridò e chiamò Dio in aiuto, accendendo la luce. E la morte se ne andò, ma lei sapeva che sarebbe tornata. Ogni notte l’avrebbe portata un po’ più vicino al suo letto.

Dopo questa prima silenziosa visita della morte il suo passato le risorse davanti maledicendola con molte voci. Sua madre, rivestita di cenci imputriditi e riempiendo la stanza del lezzo della tomba, si chinò su di lei a maledire la figlia che l’aveva rinnegata sul letto di morte. Su dal lontano passato venne Gabriel, a maledire la sorella che l’aveva disprezzato e aveva deriso la sua vocazione religiosa. Deborah, tutta nera, col corpo informe e duro come l’acciaio, la guardò con occhi velati, trionfanti, maledicendola perché aveva riso del suo dolore e della sua sterilità, Venne Frank, anche lui, col solito sorriso, la solita testa ciondolante. A tutti avrebbe chiesto per dono, se avessero avuto orecchie per ascoltarla, Ma essi erano venuti per testimoniare; anche se fossero venuti ad ascoltare invece che a testimoniare non era da loro che poteva venire il perdono, ma soltanto da Dio.

Il pianoforte aveva smesso di suonare. Intorno a lei non c’erano che le voci dei «santi”.

“Padre nostro,” pregava sua madre noi veniamo in ginocchio davanti a te questa sera per chiederti di vegliare su noi e trattenere la mano dall’angelo distruttore. Signore, cospargi la porta di questa casa del sangue dell’Agnello per tenere lontani tutti gli uomini cattivi. Signore, noi ti preghiamo per i figli e le figlie delle madri di tutto il mondo, ma ti chiediamo di prendere sotto la Tua protezione questa bambina, stanotte, Signore, e di non lasciare che nessun male le si avvicini. Sappiamo che tu lo puoi, Signore, nel nome di Gesù, Amen.”

Questa era la prima preghiera che Florence aveva sentito, la sola nella quale sua madre domandava la protezione di Dio per sua figlia con più fervore ancora che per suo figlio.

Era notte, le finestre erano chiuse ermeticamente, con le tende tirate, e la grande tavola era appoggiata contro la porta.

Le lampade a petrolio mandavano una luce bassa e proiettavano grandi ombre sulla parete ricoperta di giornali. Sua madre, col lungo abito scolorito e senza forma che metteva tutti i giorni tranne la domenica, giorno in cui si vestiva di bianco, e la testa avvolta in un pezzo di stoffa scarlatta, si inginocchiava in mezzo alla stanza, a mani giunte, col nero viso rivolto in alto e gli occhi chiusi. La debole, vacillante luce creava ombre sotto la bocca e nell’incavo degli occhi, rendendo il suo viso di una maestosità impersonale, come il viso di una profetessa, o una maschera. Il silenzio riempì la stanza dopo il suo “Amen”, e nel silenzio essi udirono, lontano sulla strada, il rumore degli zoccoli di un cavallo. Nessuno si mosse. Gabriel, dal suo angolo vicino alla stufa, alzò gli occhi e guardò sua madre, “Io non ho paura” disse.

Sua madre si volse, con una mano alzata. «Sta’ zitto!”

Un brutto fatto era avvenuto città quel giorno. La loro vicina Deborah, che aveva sedici anni, tre più di Florence, era stata portata nei campi la notte prima da molti bianchi, che avevano compiuto su di lei degli atti che l’avevano fatta piangere e sanguinare. Il padre di Deborah era andato in casa di uno dei bianchi a dire che avrebbe ammazzato lui e tutti gli altri bianchi che trovava. Quelli l’avevano picchiato e la sciato a terra come morto. Ora, tutti avevano sprangato le loro porte, pregando e aspettando, perché si diceva che i bianchi sarebbero tornati la notte a bruciare tutte le case, come avevano fatto altre volte.

Nella notte che si addensava fuori sentivano solo il rumore incessante degli zoccoli del cavallo; non c’erano le risate che avrebbero sentito se per la strada fosse passata più gente; nessuno imprecava, nessuno chiedeva pietà ai bianchi o a Dio, Mentre stavano tesi in ascolto il battito degli zoccoli si avvicinò alla porta e passò oltre, risuonando sempre più debolmente. Allora Florence si rese conto di quanta paura aveva avuto. Vide sua madre alzarsi e andare alla finestra, e spiare fuori sollevando un angolo della coperta che la copriva.

“E' andato,” disse “ chiunque fosse. Sia benedetto il nome del Signore.”

Cosi sua madre era vissuta ed era morta; era stata spesso umiliata, ma mai abbandonata da Dio. A Florence era sembrata sempre la donna più vecchia del mondo, perché parlava spesso di Florence e di Gabriel come dei figli della sua età avanzata, ed era nata, tantissimi anni prima, durante la schiavitù, in una piantagione in un altro Stato. In questa piantagione era cresciuta lavorando nei campi, perché era molto alta e robusta; e col tempo si era sposata e aveva cresciuto dei figli che le erano stati portati via tutti, uno da una malattia e due dalle vendite all’asta; e uno, che lei non aveva avuto il permesso di chiamare suo, era stato allevato nella casa del padrone. Era una donna fatta, un bel po’ dopo i trenta secondo i suoi calcoli, con un marito sotto terra - ma il padrone gliene aveva dato un altro - quando delle armate, che saccheggiavano e bruciavano, erano scese dal Nord a liberarli. Questa era stata la risposta alle preghiere dei fedeli, che non avevano mai smesso, giorno e notte, di implorare la liberazione.

Dio aveva voluto che essi ascoltassero, e sì tramandassero la storia dei bambini ebrei che erano stati tenuti in schiavitù in terra d’Egitto; come il Signore aveva ascoltato i loro lamenti, e come il Suo cuore si era commosso; e come aveva ordinato di aspettare solo una breve stagione finché Egli avesse mandato la liberazione. La madre di Florence sembrava conoscere questa storia fin dal giorno in cui era nata. E per tutto il tempo in cui visse, alzandosi la mattina prima dell’alba, curva sui campi quando il sole era alto, attraversando i campi verso casa quando il sole calava lontano verso le porte del Cielo, sentendo il fischio del caposquadra e il suo orribile grido; e nel biancore dell’inverno quando maiali e tacchini e oche venivano ammazzati, e le luci brillavano nella grande casa e Betsabea, la cuoca, le mandava in un tovagliolo pezzetti di prosciutto e polio e dolci avanzati dai bianchi: in tutto quello che le accadeva: nelle sue gioie, la sua pipa la sera, il suo uomo la notte, i figli che allattava e guidava nei loro primi passi; e nelle sue tribolazioni, morte, separazioni, e la frusta, non dimenticò mai che la liberazione era stata promessa e sarebbe certamente venuta. Doveva solo sopportare e avere fiducia in Dio. Sapeva che la grande casa, la casa dell’orgoglio dove vivevano i bianchi, sarebbe crollata: era scritto nel Verbo di Dio. I bianchi, che ora camminavano con tanta fierezza, non avevano costruito per se stessi o per i loro figli delle fondamenta solide come le sue. Camminavano sul l’orlo di un abisso e i loro occhi non vedevano; Dio li avrebbe fatti precipitare come una volta era precipitato in mare il branco di porci. Benché fossero così belli e vivessero comoda mente, lei li conosceva, e aveva pietà di loro perché non avrebbero avuto riparo nel gran giorno della Sua ira.

Tuttavia, diceva ai suoi figli, Dio è giusto, e non colpisce senza aver prima dato molti avvertimenti. Dio dà tempo agli uomini, ma tutti i tempi sono nella Sua mano, e un giorno non ci sarebbe stato più tempo di abbandonare il male e volgersi al bene: allora solo la tempesta, la morte portata dalla tempesta, avrebbe aspettato coloro che avevano dimenticato Dio. Durante tutto il tempo in cui era cresciuta, non era no mancati dei segni, ma nessuno ci aveva fatto attenzione.

“Gli schiavi si sono sollevati” si mormorava nelle capanne e al cancello del padrone: in un’altra contea gli schiavi avevano messo a fuoco le case e i campi dei padroni e ammazzato i loro figli sbattendoli contro i sassi. “Un altro schiavo all’Inferno” aveva detto una mattina Betsabea, scacciando via i negretti dal grande portico: uno schiavo aveva ammazzato il padrone o il sovrintendente, e era andato giù all’inferno a pagare per il suo delitto, “Non ci starò ancora molto qui” aveva canterellato accanto a lei, nei campi, qualcuno che la mattina dopo sarebbe stato in viaggio verso il Nord. Tutti questi segni, come le piaghe con le quali il Signore aveva afflitto l’Egitto, non facevano che indurire il cuore di quella gente contro il Signore. Pensavano che la frusta li avrebbe salvati, e usavano la frusta; o il coltello, o la forca, o il ceppo della vendita all’asta; pensavano che la gentilezza li avrebbe salvati, e padroni e padrone arrivavano sorridendo alle capanne, pieni di attenzioni per i negretti e carichi di regali.

Quelli erano gran bei giorni, e tutti, negri e bianchi, sembra vano felici insieme. Ma una volta che il Verbo è uscito dalla bocca di Dio niente può farlo tornare indietro.

La parola di Dio si compì una mattina, prima che lei si svegliasse. Molte delle storie che raccontava sua madre non significavano niente per Florence; le prendeva per quello che erano, storie che la sera una vecchia negra racconta nella capanna per far dimenticare ai suoi bambini il freddo e la fame, ma la storia di quel giorno non l’avrebbe mai dimentica a; era vissuta per quel giorno. C’era un gran correre e sparare fuori, da ogni parte, diceva sua madre, e appena aprì gli occhi alla luce così brillante e fredda di quel giorno, fu certa che le trombe del Giudizio avevano suonato. Mentre ancora stava seduta sul letto, stupita, e domandandosi quale sarebbe stato, nel giorno del giudizio, il miglior modo di comportarsi, si era precipitata dentro Betsabea, e dietro a lei, in disordine, molti bambini e molti negri addetti ai campi e alle case, tutti insieme, e Betsabea aveva gridato: “Alzati, alzati, sorella Rachel, è venuta la liberazione del Signore! Egli ci ha portato fuori dall’Egitto, proprio come aveva promesso, e siamo liberi, finalmente!” Betsabea l’aveva stretta fra le braccia, mentre le lacrime correvano sul suo viso; e lei, ancora vestita come durante la notte, era andata fino alla porta a guardar fuori il nuovo giorno che Dio aveva loro dato, Quel giorno aveva visto umiliata la casa dell’orgoglio; sete e velluti verdi ondeggiavano al vento fuori dalle finestre, e il giardino era calpestato da molti uomini a cavallo, e il grande cancello era aperto. Il padrone e la padrona, e i loro familiari, e un bambino messo da lei al mondo erano in quella casa, dove lei non poteva entrare. Presto si rese conto che non aveva più nessuna ragione di star lì. Fece un fagotto delle sue cose, se lo mise in testa, e uscì dal grande cancello, per non veder mai più quel paese.

E questa diventò la profonda aspirazione di Florence: uscire una mattina dalla porta della capanna, per non tornare mai più. Suo padre, di cui si ricordava ben poco, era partito così una mattina, pochi mesi dopo la nascita di Gabriel. E non solo suo padre; ogni giorno veniva a sapere che un altro uomo o un’altra donna avevano detto addio a quella terra e a quel cielo inospitali, e erano partiti per il Nord. Ma sua madre non aveva nessun desiderio di andare al Nord dove, diceva, regnava la malvagità e la morte cavalcava potente per le strade, Si contentava di stare in quella capanna e far la lavandaia per i bianchi, per quanto fosse vecchia e avesse la schiena indolenzita. E avrebbe voluto che se ne accontentasse anche Florence, aiutandola a fare il bucato, e preparando da mangiare e tenendo tranquillo Gabriel.

Gabriel era la pupilla degli occhi di sua madre. Se non fosse nato, Florence avrebbe potuto aspettare con impazienza il giorno in cui, liberata da questi lavori senza soddisfazione, avrebbe potuto pensare al suo futuro e andare a costruirselo.

Con la nascita di Gabriel, avvenuta quando essa aveva cinque anni, il suo avvenire fu segnato. Solo l’avvenire di una persona contava in quella casa, quello di Gabriel a cui, siccome Gabriel era un maschio, tutto doveva essere sacrificato. Veramente per sua madre questo non era un sacrificio, ma una cosa logica: Florence era una ragazza, e presto si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei bambini suoi e tutti i doveri di una donna; e così stando le cose, la sua vita nella capanna era la miglior preparazione possibile alla sua vita futura. Ma Gabriel era un uomo; sarebbe andato un giorno nel mondo a fare un lavoro da uomo, e aveva bisogno, perciò, di cibo, quando in casa ce n’era un po’, e di vestiti, quando c’era possibilità di comprarne, e di tutta l’indulgenza delle sue donne, così da sapere come comportarsi con le donne quando avrebbe avuto una moglie. E aveva bisogno dell’educazione che Florence desiderava molto più di lui, e che avrebbe potuto avere se lui non fosse nato. Era Gabriel che era lavato e spazzolato tutte le mattine e mandato nell’unica aula della scuola, che lui odiava, e dove faceva in modo di non imparare quasi niente, per quanto poteva capirne Florence. E spesso invece di stare a scuola, combinava dei guai con altri ragazzi. Quasi tutti i vicini, e perfino qualche bianco, erano venuti, presto o tardi, a lamentarsi delle malefatte di Gabriel. Sua madre, in quei casi, usciva in cortile, tagliava un ramo da una pianta e lo picchiava, lo picchiava, sembrava a Florence, finché qualunque altro ragazzo sarebbe caduto morto; e cosi spesso che qualunque altro ragazzo l’avrebbe finita con la sua cattiveria.

Niente arrestava Gabriel, per quanto facesse echeggiare il cielo dei suoi lamenti e urlasse, appena sua madre si avvicinava, che non avrebbe più fatto il cattivo. E, dopo essere stato picchiato, ancora coi pantaloni calati intorno ai ginocchi e il viso bagnato di lacrime e moccioso, Gabriel doveva mettersi giù in ginocchio mentre sua madre pregava. Essa chiedeva anche a Florence di pregare, ma nel suo cuore Florence non pregava mai. Sperava che Gabriel si rompesse il collo. Voleva che il male contro il quale sua madre pregava arrivasse un giorno a coglierlo.

In quel tempo Florence e Deborah, che erano diventate molto amiche dopo l'” incidente” capitato a Deborah, odiavano tutti gli uomini. Quando gli uomini guardavano Deborah non vedevano più in là del suo corpo senza bellezza e violato. Nei loro occhi era sempre accesa una sudicia, imbarazzante curiosità per quello che era accaduto la notte che essa era stata portata nei campi. Quella notte l’aveva privata del diritto di essere considerata una donna. Nessun uomo l’avrebbe avvicinata onorevolmente perché essa era un vivente rimprovero a se stessa e a tutte le donne negre e a tutti gli uomini negri.

Se fosse stata bella, e se Dio non le avesse dato un carattere così riservato, avrebbe potuto, col piacere dell’ironia, recitare per sempre la parte della ragazza violentata nei campi. Poiché non poteva essere considerata una donna, poteva esser vista solo come una puttana, una sorgente di delizie più bestiali e di misteri più sconvolgenti di quelli che ogni donna onesta può offrire, Il desiderio si accendeva negli occhi degli uomini quando guardavano Deborah, desiderio intollerabile perché non rivolto alla sua personalità, ma limitato a quella parte di lei che aveva subito l’oltraggio dei bianchi. E Florence, che era bella ma non guardava con favore nessuno dei negri che la desideravano, non avendo nessuna voglia di cambiare la capanna di sua madre per una delle loro e tirar su i loro bambini e così calare, distrutta dalle fatiche, dentro di essa come in una fossa comune, aveva rafforzato Deborah nella terribile convinzione contro la quale non s’erano mai vi te delle prove, che tutti gli uomini erano uguali, che i loro pensieri non si levavano in alto, e che essi vivevano solo per soddisfare, sul corpo della donna, i loro brutali e umilianti bisogni.

Una domenica a una riunione in campagna, quando Gabriel aveva dodici anni e stava per ricevere il battesimo, Deborah e Florence stavano sulla riva di un fiume insieme a tutti gli altri e lo osservavano. Gabriel non voleva essere battezzato. Il solo pensiero lo spaventava e lo rendeva furioso, ma sua madre insisteva dicendo che Gabriel aveva ormai raggiunta l’età in cui si è responsabili davanti a Dio dei propri peccati; essa non voleva sottrarsi al dovere affidatole da Dio, di fare qualunque cosa fosse in suo potere per portarlo da vanti al trono della grazia. Sulla riva del fiume, sotto la luce violenta di mezzogiorno, credenti che si erano confessati e bambini dell’età di Gabriel aspettavano di essere condotti nell’acqua.

In piedi, nell’acqua fino alla cintola e vestito di bianco, stava il predicatore, che teneva per un momento le loro teste sott’acqua, gridando ai Cielo mentre il neofita tratteneva il respiro: In verità io ti battezzo con l’acqua: ma Lui ti battezzerà con lo Spirito Santo”. E poi, mentre quello tirava su la testa sputacchiando in giro a occhi chiusi ed era ricondotto a riva gridava ancora: “Vai e non peccare più “. Uscivano dall’acqua, visibilmente sotto il potere del Signore, e sulla riva i “santi” li aspettavano, battendo i loro tamburelli. In piedi vicino alla riva stavano gli anziani della chiesa, tenendo degli asciugamani coi quali coprivano i neobattezzati che erano poi condotti nelle tende, una per i maschi e un’altra per le femmine, dove potevano rivestirsi.

Alla fine anche Gabriel, con addosso una vecchia camicia bianca e pantaloni corti di tela, fu in riva all’acqua. Venne condotto lentamente nel fiume, dove così spesso aveva sguazzato nudo, fino a raggiungere il predicatore. E al momento che il predicatore gli mise la testa sott’acqua, gridando le parole di san Giovanni Battista, Gabriel comincio a tirar calci e a sputare, facendogli quasi perdere l’equilibrio; e se prima avevano pensato che era Dio stesso che agiva su di lui, quando tirò su la testa, ancora scalciando e tenendo chiusi con forza gli occhi, capirono che non era altro che furore e troppa acqua nel naso. Qualcuno sorrise, ma Fiorente e Deborah non sorrisero. Per quanto anche Florence fosse rimasta male, qualche anno prima, quando l’acqua melmosa era entrata nel la sua bocca incautamente aperta, essa tuttavia aveva fatto del suo meglio per non sputare, e non aveva gridato. Ma ora ecco che Gabriel tornava a riva dibattendosi furiosamente, e quello che Florence guardava, con una rabbia violenta mai provata prima, era la sua nudità. Era inzuppato, e il suo leggero abito bianco aderiva come un’altra pelle al suo corpo nero, Florence e Deborah si guardarono, mentre si levava un canto per coprire gli urli di Gabriel, e Deborah distolse lo sguardo.

Anni dopo, una notte Deborah e Florence, dal portico della casa di Deborah dove stavano, avevano visto Gabriel tutto sporco di vomito passare barcollando per la strada illuminata dalla luna, e Florence aveva gridato: “Lo odio! Lo odio! Gattaccio vanitoso di un negro!” E Deborah aveva detto, con la sua voce grave: “Tu sai, cara, che Dio ci dice di odiare il peccato ma non il peccatore”.

Nel 1900, quando aveva ventisei anni, Florence uscì dalla porta della sua capanna. Aveva pensato di aspettare finché sua madre, così malata a quel tempo che non poteva più lasciare il letto, fosse stata seppellita, ma improvvisamente sentì che non poteva più aspettare, era arrivato il momento. Aveva lavorato come cuoca e donna di servizio in una famiglia numerosa di bianchi, in città, e il giorno che il padrone le propose di diventare la sua concubina si rese conto che la sua vita fra quella gente ignobile era arrivata alla sua predestinata fine. Lasciò il suo servizio quello stesso giorno (la sciandosi dietro una violentissima amarezza coniugale), e con una parte del denaro che aveva risparmiato per anni con astuzia, severità e sacrificio, comprò un biglietto ferroviario per New York. Quando, con una specie di rabbia peccaminosa, lo aveva comprato, aveva tenuto come un talismano, nel fondo della sua mente, questo pensiero: posso sempre restituirlo, o venderlo. Questo biglietto non significa che io devo partire. Ma sapeva che niente avrebbe potuto fermarla.

E era stata questa partenza che negli ultimi tempi si era ripresentata alla mente di Fiorence, con molti altri ricordi.

Grigie nuvole oscuravano il sole quel giorno e, guardando fuori dalla finestra della capanna, vide che la nebbia ricopriva ancora il terreno. Sua madre era a letto, sveglia; stava cercando di indurre Gabriel, che la notte era stato fuori a bere e ora sembrava piuttosto ubriaco, a correggersi e a ritrovare la via del Signore. E Gabriel, confuso, addolorato e col sentimento di colpa che provava ogni volta al pensiero di quanto faceva soffrire sua madre, e che diventava quasi insopportabile quando lei lo rimproverava, stava davanti allo specchio, a testa bassa, abbottonandosi la camicia. Florence capì che non poteva aprire le labbra per parlare; non poteva dir sì né a sua madre né a Dio; e non poteva dir no.

«Gabriel,” diceva sua madre non lasciar morire la tua vecchia mamma senza guardarla negli occhi e dirle che ti vedrà nella gloria del Signore. Mi senti, figlio?”

Tra un momento, pensò Florence con disprezzo, gli occhi di Gabriel si sarebbero riempiti di lacrime, e lui avrebbe promesso di far meglio “. Aveva continuato a promettere di “far meglio” fin dal giorno che era stato battezzato.

Posò la sua valigia in mezzo a quella odiosa stanza.

Mamma,” disse me ne vado. Me ne vado stamattina.”

Ora che aveva parlato, era arrabbiata con se stessa di non averlo fatto la sera prima, in modo da dar loro il tempo di esaurire pianti e discussioni. La sera prima non si era sentita di affrontare la situazione; ma ora non c’era rimasto quasi più tempo. La sua mente era piena dell’immagine del grande, bianco orologio della stazione, sul quale le lancette non smettevano di camminare.

Vai dove?” chiese sua madre bruscamente. Ma lei sapeva che sua madre aveva capito, che aveva capito molto prima di allora che quel momento sarebbe venuto. Lo stupore col quale fissava la valigia di Florence più che stupore era un’allarmata, cauta attenzione. Un pericolo, fino ad allora solo immaginato, era diventato presente e reale e sua madre stava già cercando il modo di piegare la volontà di Florence. Florence capì tutto questo in un istante, e questo la rese più risoluta. Guardò sua madre, aspettando.

Ma sentendo il tono della voce di sua madre, Gabriel, che aveva sentito appena l’annuncio di Florence, tanto era stato contento che qualcosa fosse intervenuta a distrarre da lui l’attenzione di sua madre, abbassò gli occhi e vide la valigia di Florence. E ripeté la domanda di sua madre con voce forte e rabbiosa, comprendendone il significato solo quando le parole risuonarono nell’aria:

“Appunto. Dove pensi di andare?”

Vado a New York” disse Florence. “Ho già il biglietto.”

Sua madre la guardo. Per un momento nessuno disse una parola. Poi Gabriel, con una voce diversa e spaventata, chiese:

“E quando l’hai deciso?”

Essa non lo guardò ne rispose alla sua domanda. Continuò a guardare sua madre. “Ho già il biglietto” ripete. “Vado col treno della mattina.”

“Bambina,” disse sua madre, calma, “sei sicura di sapere cosa stai facendo?”

Florence si irrigidì, vedendo negli occhi di sua madre una sprezzante pietà. “Non sono più una bambina” disse. “So quel lo che faccio.”

E tu te ne vai,” grido Gabriel “stamattina, così? Vai via e pianti tua madre, così?”

“Stai zitto,” disse Florence, voltandosi verso di lui per la prima volta, “tu resti con lei, no?”

Era proprio questo, lo capì vedendolo abbassare gli occhi, il punto amaro e preoccupante. Non poteva sopportare il pensiero di essere lasciato solo con sua madre, senza più nessuno da mettere fra sé e la sua colpevole passione. Con la partenza di Florence il tempo avrebbe inghiottito tutti i figli di sua madre, eccetto lui stesso; e lui, allora, avrebbe dovuto pagare per tutti i dolori da lei sofferti, e addolcire i suoi ultimi mo menti dimostrandole tutto il suo amore. E sua madre voleva che glielo dimostrasse in un solo modo: smettendo di lasciarsi trascinare dal peccato. Partita Florence, il tempo dei balbettamenti, dei giochetti era ridotto di colpo al breve attimo in cui doveva irrigidirsi e rispondere a sua madre e a tutte le schiere celesti, sì o no.

Florence sorrise maliziosamente dentro di sé, vedendo il suo tardivo disorientamento, e il panico, e la rabbia; e guardò di nuovo sua madre. “Tu resti con lei” ripete. “Non ha bisogno di me.”

“Vai nel Nord’ disse sua madre. ‘E quando pensi di tornare?”

“Non penso di tornare” disse.

“Tornerai presto,” disse Gabriel, maligno, “appena lassù ti avranno dato tre o quattro frustate sul fondo della schiena.”

Essa lo guardò. “Non sarà tanto presto, vedrai,”

“Figlia mia,” disse sua madre “vuoi dirmi che il diavolo ti ha reso il cuore così duro che puoi abbandonare tua madre sul suo letto di morte, e non ti importa se non la vedrai più in questo mondo? Tesoro, non puoi dirmi che sei diventata così cattiva.”

Sentì che Gabriel l’osservava per vedere in che modo avrebbe preso quella domanda; la domanda che, nonostante la sua determinazione, temeva sopra tutte. Distolse lo sguardo dalla madre, e si irrigidì, trattenendo il respiro, guardando fuori dalla piccola finestra rotta. Là fuori, oltre la nebbia che saliva lentamente e più lontano di dove i suoi occhi potessero vedere, la sua vita l’aspettava. La donna che giaceva sul letto era vecchia, la sua vita si dissolveva mentre la nebbia saliva.

Pensò a sua madre come se fosse già nella tomba; non si sarebbe lasciata strangolare dalle mani della morta.

“Vado, mamma” disse. «Devo andare.”

Sua madre si appoggiò indietro, con la faccia rivolta alla luce e cominciò a piangere. Gabriel venne al fianco di Florence e le afferrò un braccio. Essa lo guardò in faccia e vide che i suoi occhi erano pieni di lacrime.

“Non puoi andare” disse Gabriel. “Non puoi andare. Non puoi andare e lasciar tua madre in questa maniera. Ha bisogno di una donna, Florence, che la aiuti. Cosa farà qui sola con me?”

Essa lo respinse e andò a chinarsi sul letto della madre.

“Mamma,” disse “non fare così. Non è bene per te piangere in questo modo. Tutto quello che può capitarmi al Nord può capitarmi anche qui. Dio è dappertutto, mamma. Non c’è da preoccuparsi.”

Sapeva di star recitando delle parole vuote; e si rese conto improvvisamente che sua madre non le degnava della sua attenzione. Essa aveva accordato la vittoria a Florence, con una prontezza che aveva spinto Florence, per quanto oscuramente e senza volerlo, a domandarsi se la sua vittoria era reale. Non piangeva sul futuro di sua figlia, piangeva sul passato, e piangeva con un’angoscia alla quale Florence era estranea. E tutto questo riempì Florence di una terribile paura, subito trasformata in rabbia. “Gabriel può pensare a te” disse, e il rancore le faceva tremare la voce. “Gabriel non ti lascerà mai. Vero, Gabriel?” e lo guardò. Il fratello stava a pochi centimetri dal letto, istupidito dal disorientamento e dal dolore. «Ma io” essa disse “devo partire.” Tornò al centro della stanza e tirò su la sua valigia.

“Non hai un briciolo di cuore?” mormorò Gabriel.

“Signore!” gridò sua madre; e al suono di quella voce il suo cuore ebbe un sussulto; Gabriel e lei, immobili, fissavano il letto. Signore, Signore, Signore! Signore, abbi pietà di mia figlia peccatrice! Stendi la mano e tienila indietro dallo stagno dove brucia il fuoco eterno! Oh, mio Signore, mio Signore!” La sua voce era rotta dall’emozione e il viso era bagnato di lacrime. «Signore, ho fatto del mio meglio con tutti i figli che mi hai dato. Signore, abbi pietà dei miei figli, e dei figli dei miei figli.”

“Florence,” disse Gabriel “non andare. Ti prego, non andare. Non puoi davvero decidere di partire e lasciarla così.”

Le lacrime le spuntarono improvvise negli occhi, per quanto non avrebbe potuto dire per cosa stava piangendo. “Lasciami stare” disse a Gabriel, e prese su di nuovo la valigia. Aprì la porta; l’aria fredda del mattino entrò nella stanza. “Addio” disse. E a Gabriel: “Dille che ho detto addio “.

Uscì e discese i pochi gradini fino al cortiletto bianco di brina. Gabriel la guardava, stando al freddo, tra la porta e il letto dove piangeva la madre. Al momento che la mano di Florence si posò sul cancello, corse davanti a lei e lo chiuse, sbattendolo.

“Ma dove vuoi andare? Ma che vuoi fare? Pensi di trovare su al Nord qualcuno che ti copra di perle e diamanti?”

Con violenza Florence aprì il cancello e uscì sulla strada. Gabriel la guardava, con la mascella pendente, le labbra semiaperte e umide. Se mai mi rivedrai di nuovo,” disse Florence non sarò vestita di stracci come te.”

In tutta la chiesa non si sentiva che il mormorio, più terribile del più profondo silenzio, delle preghiere dei «santi” di Dio. Solo la gialla, triste luce brillava su di loro, facendone luccicare le facce come oro opaco. Le loro facce, i loro atteggiamenti e le loro molte voci che si fondevano in una sola facevano pensare, a John, alla profondissima valle, alla lunghissima notte di Pietro e Paolo nella cella del carcere, dove uno pregava mentre l’altro cantava; oppure a una distesa in finita di acque agitate, senza nessuna terra in vista, e col vero credente aggrappato a un relitto, E pensando al domani, quando i fedeli si sarebbero levati, cantando, sotto la splendente luce domenicale, pensò alla luce che essi aspettavano, luce che in un istante riempiva l’anima e che (durante tutti quegli oscuri, inimmaginabili tempi che avevano preceduto la sua venuta al mondo) aveva spinto chi era appena nato in Cristo a testimoniare: Ero cieco e ora vedo.

Poi cantarono: “Cammina nella luce, la magnifica luce.

Splendi intorno a me giorno e notte, Gesù, luce del mondo “.

E poi: “Oh, Signore, Signore, voglio esser pronto, voglio esser pronto. Voglio esser pronto a entrare in Gerusalemme, come Giovanni”.

Entrare in Gerusalemme come Giovanni. Quella sera la sua mente era inondata di visioni: non riusciva a fissarsi su niente. Era torturato dal dubbio. Desiderava una luce che gli insegnasse, per sempre, e superando ogni dubbio, la via da prendere; una forza che lo legasse, per sempre, e superando ogni pianto, all’amore ‘di Dio. Altrimenti avrebbe voluto alzarsi subito, e abbandonare quel tabernacolo e non vedere mai più quella gente. Fu invaso da furore e angoscia intollerabili; la sua mente era tesa al massimo. Perché era il tempo che riempiva la sua mente, con la violenza causata dal misterioso amore di Dio, E la sua mente non poteva contenere il terribile periodo di tempo che univa dodici pescatori di Galilea a dei negri che piangevano in ginocchio, quella sera, e a lui, testimonio.

La mia anima un testimonianza del Signora. C’era un tremendo silenzio in fondo alla mente di John, un atroce peso, un’atroce meditazione, E nemmeno una meditazione, ma piuttosto un profondissimo rivolgimento, come se qualcosa di immenso, nero, informe, per secoli morto in fondo all’oceano, sentisse ora il suo riposo disturbato da un debole, lontano vento che gli ordinasse: Alzati “. E questo peso cominciava a muoversi in fondo alla mente di John, in un silenzio simile a quello del vuoto prima della creazione, e John provò un terrore mai provato prima.

Guardò intorno quelli che stavano pregando. Madre Washington non era entrata che quando tutti i “santi” erano in ginocchio, e ora la terribile, vecchia negra stava in piedi, china sulla zia Florence, aiutandola a pregare. Sua nipote, Ella Mac, era entrata con lei, con indosso una spelacchiata giacca di pelliccia sul vestito di ogni giorno. Si era inginocchiata pesantemente in un angolo vicino al pianoforte, sotto la scritta che parlava del prezzo del peccato, e ogni tanto si lasciava sfuggire un lamento. Elisha non aveva alzato gli occhi quando era entrata, e pregava in silenzio, con la fronte bagnata di sudore. Sorella McCandless e sorella Price gridavano ‘a intervalli: “Sì, Signore!” oppure: “Sia benedetto il Tuo nome, Gesù!” E suo padre pregava, con la testa alta e la voce che sembrava un lontano torrente di montagna.

Ma la zia Florence era silenziosa; si domandò se non dormisse. Non l’aveva mai vista pregare in una chiesa prima di allora. Sapeva che ognuno prega a modo suo: aveva sempre pregato così in silenzio, sua zia? Anche sua madre era silenziosa, ma l’aveva vista pregare altre volte, e il suo silenzio gli fece pensare che stesse piangendo. E perché piangeva? E perché essi venivano lì, una sera dopo l’altra, a invocare un Dio che non si curava per niente di loro - ammesso che, al di sopra di quel cadente soffitto, ci fosse comunque un Dio? Allora si ricordò che l’insensato aveva detto nel suo cuore: Dio non c’è - e abbassò gli occhi, vedendo che, al disopra della zia Florence. madre Washington stava guardandolo.

Frank cantava i blues e beveva troppo. La sua pelle aveva il colore delle caramelle di zucchero bruciato. Forse per questo quando pensava a lui Florence lo vedeva sempre con in bocca una caramella che gli tingeva l’orlo dei denti dritti e crudeli. Per un periodo si era fatto crescere due baffetti sottili, ma lei glieli aveva fatti rasar via perché pensava che gli dessero l’aria di un gigolò meticcio. In cose del genere era sempre molto accomodante, sempre pronto a infilarsi una camicia pulita, o a farsi tagliare i capelli, o ad andare con lei a delle conferenze serie dove potevano ascoltare i discorsi di negri eminenti sul futuro e i doveri della razza negra.

E questo, nei primi tempi del loro matrimonio, le aveva dato l’impressione di poterlo dominare. Impressione poi rivelatasi totalmente e disastrosamente falsa.

Quando Frank l’aveva lasciata, più di venti anni prima, e dopo più di dieci anni di matrimonio, Florence non aveva sentito al momento che una stanca esasperazione e un grande sollievo. Era stato fuori casa per due giorni e tre notti, e quando era tornato avevano litigato con più amarezza del solito.

Tutta la rabbia che essa aveva accumulato durante gli anni del matrimonio gli fu scaricata addosso, quella sera, mentre stavano nella loro piccola cucina. Aveva ancora la tuta, e non si era rasato, e la sua faccia era sporca e sudata. Non aveva detto niente per un pezzo, poi aveva detto: «Bene, piccina.

Penso che vuoi non vedermi mai più, mai più vedere un miserabile nero peccatore come me”. La porta si richiuse dietro di lui, e Florence sentì i suoi passi echeggiare nel lungo corridoio, sempre più lontani, Rimase sola in cucina, con in mano la caffettiera vuota che stava per lavare. Pensò: tornerà, e tornerà ubriaco. E poi aveva pensato, girando lo sguardo sulla cucina: Signore, sarebbe una benedizione se non tornasse mai più. Il Signore le aveva accordato ciò che essa diceva di desiderare, e questo, lei lo aveva capito, era spesso il Suo sconcertante modo di esaudire le preghiere. Frank non era più tornato. Aveva vissuto molto tempo con un’altra donna, e quando era venuta la guerra era morto in Francia, Ora, in qualche parte, all’altra estremità della terra, suo marito era sepolto. Riposava in un paese che i suoi padri non avevano mai visto. Florence si domandava spesso se la sua tomba era riconoscibile, se c’era sopra, come aveva visto nei film, una piccola croce bianca. Se il Signore le avesse per messo, un giorno, di attraversare quel gonfio oceano, sarebbe andata a cercare la sua tomba in mezzo a tutti i milioni di sepolti laggiù. Vestita a lutto, vi avrebbe posato sopra, forse, una corona di fiori, come facevano altre donne; e sarebbe rimasta per un momento, a testa china, a guardare la muta terra. Come sarebbe stato terribile per Frank risorgere, il giorno del giudizio, così lontano da casa! E di sicuro non si sarebbe fatto scrupolo, perfino in quel giorno, di essere arrabbiato col Signore. “lo e il Signore” aveva detto tante volte “non andiamo sempre molto d’accordo. Lui fa girare il mondo come se pensasse che io non ho buon senso.” Come era morto? Lentamente o di colpo? Aveva gridato? La morte era arrivata su di lui strisciando alle sue spalle o lo aveva assalito di fronte? Ignorava tutto, perché aveva saputo che era morto soltanto molto tempo dopo, quando gli uomini stavano tornando a casa e lei aveva cominciato a cercare la faccia di Frank per le strade. Era stata la donna con cui lui aveva vissuto che glielo aveva detto, perché Frank aveva dato il nome di questa donna come quello della parente più prossima. Finito il racconto essa non aveva saputo aggiungere altro, restando a fissarla con ingenua pietà. Questo aveva reso furiosa Florence che aveva appena mormorato: “Grazie” e se ne era andata, Odiava Frank per aver reso quella donna testimone della sua umiliazione. E di nuovo si domandava che cosa aveva trovato Frank in quella donna, che per quanto più giovane di lei non era mai stata bella come lei, e beveva continuamente, e era sempre in giro con tanti uomini.

Ma aveva sbagliato fin dal principio: a incontrano, a sposarlo, ad amarlo con tanto accanimento. Guardando la sua faccia, qualche volta le veniva fatto di pensare che su tutte le donne pesava, fin dalla nascita, una maledizione; tutte, in un modo o in un altro, vittime dello stesso crudele destino di essere nate per subire il peso degli uomini. Frank sosteneva che lei vedeva la cosa dal lato sbagliato: erano gli uomini a subire perché dovevano sopportare pazientemente la linea di condotta delle donne, e questo dal momento che nascevano fino al giorno della loro morte. Ma era lei che aveva ragione, lo sapeva; con Frank aveva sempre avuto ragione lei; e non era colpa sua se Frank era fatto così, ben deciso a vivere e a morire come un negro qualunque.

Ma lui stava sempre a giurare che avrebbe migliorato; era stata, forse, la violenza dei suoi pentimenti che li aveva tenuti uniti per tanto tempo. C’era in lei qualcosa che amava vederlo sottomettersi, quando arrivava a casa puzzando di whisky e si trascinava piangendo fra le sue braccia. Allora lui, il dominatore, era dominato. E tenendolo fra le sue braccia, dove si era finalmente addormentato, Florence pensa va, con una sensazione di benessere e di potenza: c’è del buono, e molto, in Frank. Devo solo essere paziente con lui e lui andrà avanti benissimo. “Andare avanti” voleva dire che avrebbe cambiato vita e consentito a diventare il marito che essa era venuta a cercare da tanto lontano. Era stato lui a insegnarle, imperdonabilmente, che a questo mondo c’è gente per la quale “andare avanti” è un processo senza fine, gente destinata a non arrivare mai. Per dieci anni era andato avanti, ma quando l’aveva lasciata era lo stesso uomo di quando lei lo aveva sposato. Non era cambiato per niente.

Non aveva mai fatto abbastanza soldi da comprare la casa che lei voleva, o qualunque altra cosa lei desiderasse veramente, e questa era stata una delle cause del loro disaccordo. Non era che non sapesse far soldi, ma non voleva risparmiare. Pigliava la paga di mezza settimana e andava a comprare qualcosa che desiderava, o che pensava che lei desiderasse. Arrivava a casa il sabato pomeriggio, già mezzo ubriaco, portando un oggetto completamente inutile, come un vaso, che, aveva pensato, lei avrebbe con piacere riempito di fiori, lei che ai fiori non aveva mai fatto caso e certamente non ne avrebbe mai comprato uno. O un cappello, sempre troppo caro o troppo volgare, o un anello che sembrava fatto per una puttana. Delle volte gli saltava in testa di fare la spesa del sabato mentre andava a casa, in modo che lei non avesse da farla; e allora comprava un tacchino, il più grande e più caro che trovava, e qualche libbra di caffè, essendo con vinto che non ce n’era mai abbastanza in casa, e cereali per la colazione da sfamare un esercito per un mese. Per questo senso di previdenza si sentiva talmente virtuoso, che come premio si comprava una bottiglia di whisky; e - perché lei non pensasse che beveva troppo - invitava a casa qualche mascalzone per spartirla con lui. Allora sedevano nel suo salotto tutto il pomeriggio, giocando a carte e raccontando storielle in decenti, e riempiendo l’aria di fumo e di odore di whisky. E lei se ne stava in cucina, furiosa, a fissare il tacchino che, siccome Frank li comprava sempre con tutte le penne e la testa, le sarebbe costato ore di lavoro esasperante. Allora si domandava cosa mai l’aveva indotta a sopportare delle prove così dure e a spingersi così lontana da casa, se tutto quello che aveva trovato era un appartamento di due stanze in una città che non amava, e un uomo ancora più bambino di tutti quelli che aveva conosciuto quando era giovane.

Qualche volta dal salotto dove stava col suo compare Frank la chiamava:

“Ehi, Flo!

E lei non rispondeva. Odiava essere chiamata Flo, ma lui non se ne ricordava mai. Magari la chiamava ancora, e se lei non rispondeva veniva fino in cucina.

«Cosa c’è? Non senti che ti chiamo?”

E una volta che, senza rispondere, era rimasta seduta perfettamente immobile, guardandolo con occhi pieni di amarezza, era stato costretto a riconoscere che c’era qualcosa che non andava.

Che c’e, vecchia? Sei arrabbiata con me?”

E quando la fissò sinceramente sconcertato, piegando la testa con un debolissimo sorriso, qualcosa cominciò a cedere in lei, qualcosa contro cui lottò, alzandosi in piedi e dicendogli irosamente, a voce bassa in modo che l’amico non potesse sentire:

“Vorrei che mi dicessi come pensi che noi due si possa vivere tutta la settimana con un tacchino e cinque libbre di caffè “.

“Ma tesoro, non ho comprato niente di cui non avessimo bisogno!”

Essa sospirò con rabbia impotente, e sentì le lacrime salirle agli occhi.

“Ti ho detto cento volte di darli a ‘me i soldi quando prendi la paga, e di lasciar fare a me la spesa, perché non hai nemmeno il buon senso che avevi appena nato.”

Io non ho fatto che cercare di aiutarti. Ho pensato che forse stasera volevi andare in qualche posto e non volevi avere il fastidio della spesa.”

La prossima volta che vuoi farmi un piacere, dimmelo prima, va bene? Come pensi che vada a uno spettacolo se mi porti a casa questo uccello da pulire?”

“Lo pulisco io, tesoro. E' roba di cinque minuti.”

Si avvicinò alla tavola dov’era il tacchino, esaminandolo attentamente come se lo stesse vedendo per la prima volta.

Poi la guardò e sorrise. Non c’è da diventar matti per questo.”

Florence si mise a piangere. “Non capisco quello che ti succede, Ogni settimana che il Signore ci manda vai fuori a fare qualche altra sciocchezza. Come vuoi che troviamo abbastanza soldi per andarcene da qui se continui tutto il tempo a buttarli via in scemenze?”

Quando piangeva, lui cercava di confortarla mettendole sulla spalla la sua grande mano e baciandola dove cadevano le lacrime. «Mi dispiace. Pensavo che sarebbe stata una bella sorpresa.”

L’unica sorpresa che voglio da te è che impari ad avere un po’ di buon senso! Quella sarebbe una sorpresa! Credi che voglia passar qui il resto della mia vita con questi sporchi negri che porti a casa ogni momento?”

“Dove pensi che possiamo vivere, tesoro, se non in mezzo ai negri?”

Si girò a guardar fuori dalla finestra di cucina. Davanti passavano i treni di una ferrovia sopraelevata, così vicini che pensava sempre che avrebbe potuto sputare in faccia alla gente che volava via con lo sguardo fisso.

«Non mi piace tutta quella gentaglia… ma sembra che tu la apprezzi molto,”

Ci fu un silenzio. Per quanto gli voltasse le spalle, sentì che aveva smesso di sorridere e che il suo sguardo, posato su lei, si era incupito.

“Che razza di uomo pensi di avere sposato?”

“Pensavo di aver sposato un uomo con un po’ di energia, uno che non si rassegnasse a stare in basso tutta la vita!”

«Ma che vuoi da me, Florence? Vuoi che mi trasformi in un bianco?”

Questa domanda la faceva sempre impazzire di odio. Gli si mise di fronte e, dimenticando che c’era qualcuno nel salotto, gridò:

«Non c’è bisogno che diventi bianco per avere un po’ di rispetto di te stesso! Credi che io lavori come una schiava in questa casa perché tu e quei tuoi volgari negri stiate qui tutti i pomeriggi a sporcare di cenere il pavimento?”

«E chi è volgare adesso, Florence?” domandò Frank tranquillamente, nel terribile silenzio che seguì, durante il quale Florence si rese conto del suo errore. «Chi è che ora si comporta come un volgare negro? Cosa credi che il mio amico stia là a pensare? Ti dico che non sarei niente sorpreso se stesse pensando: ‘Povero Frank, si è trovato una moglie ben volgare’. Comunque la sua cenere non la butta sul pavimento: la mette nel portacenere, perché sa cosa è un portacenere.” Capì che l’aveva ferito e che era arrabbiato, per l’abitudine che aveva, in simili momenti, di passarsi la lingua, presto e senza mai smettere, sul labbro inferiore. “Ora ce ne andiamo, così potrai ripulire il salotto e starci, se vuoi, fino al giorno del giudizio.”

Uscì dalla cucina. Florence sentì parlottare nel salotto, e poi sbattere la porta. Si ricordò, troppo tardi, che Frank aveva con sé tutti i soldi. E quando Frank tornò indietro, un pezzo dopo che era scesa la notte, e lo mise a letto e frugò nelle sue tasche e non trovò niente o quasi niente, crollò disperata sul pavimento e pianse.

Quando tornava a casa, in occasioni come questa, era petulante e insieme desideroso di essere perdonato. Florence non s’infilava nel letto finché non pensava che dormisse. Ma non dormiva. Si girava mentre lei allungava le gambe sotto le coperte, e allungava il braccio, e Florence sentiva in faccia il suo fiato caldo e agrodolce.

“Amore, perché sei così cattiva col tuo piccino? Lo sai che sei stata tu che mi hai fatto andare fuori e ubriacare, e io non volevo? Io volevo portarti fuori in qualche posto, stasera.” Mentre parlava, spingeva la mano sui seno di Florence, e ne sfiorava il collo con le labbra. E questo le causava un turbamento quasi insopportabile. Sentiva che tutto ciò che esisteva tra loro era parte di un potente piano destinato alla sua umiliazione. Non voleva che la toccasse, e nello stesso tempo lo voleva: bruciava di desiderio ed era gelata dalla rabbia. E sentiva che lui lo sapeva e sorrideva dentro di sé vedendo come era facile assicurarsi la vittoria su questo campo di battaglia. Ma nello stesso tempo sentiva che la sua tenerezza, la sua passione e il suo amore erano reali.

“Lasciami stare, Frank. Ho voglia di dormire.”

“Non è vero, Non vuoi dormire cosi presto. Tu vuoi che ti parli un po’. Sai quanto gli piace parlare, al tuo piccino.

Ascolta.” E sfiorava leggermente il suo collo con la lingua.

“Senti?

Aspettava. Lei stava zitta.

“Non hai altro da dire? meglio che ti racconti qualcosa d’altro.” E le copriva di baci la faccia; faccia, collo, braccia e seno.

“Puzzi di whisky. Lasciami.”

“Ah. Non sono il solo che ha una lingua. Che ne dici?” E la sua mano carezzava l’interno della coscia.

“Smettila.”

“No che non la smetto. E' dolce parlare così.”

Dieci anni. La loro lotta non era mai finita; mai avevano comprato una casa. Frank era morto in Francia. Quella sera le venivano in mente dei particolari di quegli anni che pensava di aver dimenticato, e finalmente sentì rompersi il suo cuore di pietra; e lacrime non facili, pesanti come sangue, cominciarono a colare attraverso le sue dita. La vecchia dietro di lei indovino più o meno cosa avveniva e gridò: Sì, cara!

Non trattenere le lacrime. Lascia che Lui ti abbassi per poterti poi rialzare!” Era questa la via che avrebbe dovuto prendere? Aveva sbagliato a lottare così duramente? Ormai era una vecchia, e tutta sola, e presto sarebbe morta. Tutte le sue lotte non erano servite a niente. Il risultato era questo, che lei stava prosternata davanti all’altare, implorando la misericordia di Dio. Sentì, dietro, Gabriel gridare: “Benedetto il tuo nome, Gesù!” e pensando a lui e all’alta via di santità che aveva percorso la sua mente oscillò come l’ago di una bussola, e pensò a Deborah.

Deborah le aveva scritto, non tante volte, ma a intervalli che sembravano sottolineare ogni crisi della sua vita con Gabriel, e una volta, durante il tempo che lei e Frank erano ancora insieme, aveva ricevuto da Deborah una lettera che conservava ancora: quella sera era chiusa nella sua borsetta, posata sull’altare. Aveva sempre pensato di mostrare un giorno questa lettera a Gabriel, ma non l’aveva mai fatto. Ne aveva parlato con Frank una notte, tardi, mentre lui era steso sul letto fischiettando una canzonetta e lei, seduta davanti allo specchio, si massaggiava il viso con una crema per schiarire la pelle. La lettera era lì, aperta, e Florence sospirò profondamente per attirare l’attenzione di Frank.

Frank smise di fischiare interrompendo a mezzo una frase melodica che lei finì mentalmente, Che hai lì, amore?” domandò, pigro. ti una lettera della moglie di mio fratello.” Fissò la sua faccia nello specchio, pensando con rabbia che tutte quelle creme per la pelle erano uno spreco di denaro, non servivano a niente.

“Che fanno quei negri giù a casa? Niente cattive notizie, spero.” E con voce gutturale riprese la sua canzonetta.

“No… be’, non sono neanche buone, ma niente che mi sorprenda. Dice che pensa che mio fratello abbia un figlio illegittimo che sta proprio lì nella stessa città, che lui ha paura di riconoscere come suo.”

“Davvero? Mi pareva che avessi detto che tuo fratello è un predicatore.”

“Essere un predicatore non ha mai impedito a un negro di farsi le sue porcherie.”

Frank rise. “Certo non ami tuo fratello come dovresti. Come ha fatto sua moglie a sapere di questo bambino?”

Florence prese la lettera e lo guardò in faccia. “A me sembra che lei lo sappia da un pezzo ma non abbia mai avuto il coraggio di dir niente.” Fece una pausa, poi aggiunse, riluttante: “Naturalmente non è proprio: assolutamente certa, Ma non è il tipo di donna che si diverte a inventar le cose. ti molto preoccupata”.

“Perché mai se ne preoccupa, ora? Ora non ci si può far niente.”

“Non sa bene se deve domandano a lui se è vero.”

“E crede che se glielo domanda sarà tanto stupido da dir di sì?”

Florence sospirò di nuovo, stavolta più sinceramente, e si girò di nuovo verso lo specchio. “Sì.., è un predicatore. E se Deborah ha ragione, lui non ha diritto di essere un predicatore.

Non è migliore di nessuno. Anzi, non è migliore nemmeno di un assassino.”

Frank, che aveva ricominciato a fischiettare, s interruppe:

“Assassino? Come?”

Perché ha lasciato che la madre andasse lontano a morire mettendo al mondo questo bambino. Ecco come. E questo è proprio Gabriel. Non ha mai pensato un minuto a nessuno, tranne a se stesso.”

Per un momento Frank guardò in silenzio l’implacabile schiena di Florence; poi disse: “Hai intenzione di rispondere a questa lettera?”

“Credo di sì.”

“E cosa dirai?”

Le dirò che deve farglielo sapere, a Gabriel, che sa tutto della sua malvagità. Che si alzi in chiesa e parli a tutti i fedeli anche, se è necessario.”

Frank si mosse irrequieto e aggrottò le sopracciglia. “Be’, tu conosci la situazione meglio di me. Ma non vedo cosa può uscire di buono da questo.”

“Uscirà del buono per lei. Perché la tratterà meglio. Tu non conosci mio fratello come lo conosco io. Non c’è che un sistema per andare d’accordo con lui, farlo spaventare a morte. Tutto qui. Non ha il diritto di andare in giro a raccontare che è un santo dopo aver combinato un guaio come questo.”

Ci fu un silenzio; Frank fischiettò qualche altra battuta del la sua canzonetta; e poi sbadigliò e disse: “Vieni a letto, vecchia? Non so perché continui a buttar via il tuo tempo e i miei soldi con tutte quelle creme per schiarire la pelle. Sei nera ora come il giorno che sei nata”.

“Tu non c’eri là il giorno che sono nata. E so che non ti piacerebbe una donna nera come il carbone.” Tuttavia si alzò dallo specchio e andò verso il letto.

“Non ho mai detto una cosa simile, Tu per favore spegni solo la luce e ti farò vedere che il nero è un bellissimo colore.”

Florence si domandò se Deborah avesse mai parlato; e se lei avrebbe dato a Gabriel la lettera che aveva nella borsetta. L’aveva conservata tutti quegli anni, aspettando una crudele occasione. Quale sarebbe stata quest’occasione, non lo sapeva; in quel momento non voleva saperlo. Perché aveva sempre pensato a quella lettera come a uno strumento col quale avrebbe potuto completare la rovina di suo fratello. Quando fosse crollato a terra gli avrebbe impedito per sempre di rialzarsi presentandogli la prova della sua colpa. Ma ora pensava che non avrebbe vissuto abbastanza da vedere quel giorno aspettato con tanta pazienza. La sua fine era vicina.

Questo pensiero la riempì di terrore e di rabbia; le lacrime le seccarono sulla faccia e il cuore le tremò, diviso tra il desiderio terribile di darsi per vinta, e quello di chiedere a Dio una spiegazione. Perché Dio aveva preferito sua madre e suo fratello, quella vecchia negra e quel miserabile negro, mentre lei, che non aveva cercato che di comportarsi onestamente, sarebbe morta, sola e miserabile, in una sporca camera ammobiliata? Batté forte coi pugni contro l’altare. Lui, lui sarebbe vissuto, e sorridendo l’avrebbe guardata scendere nel la tombi! E sua madre, sporgendosi dalle grate del Cielo, sarebbe stata lì a vedere sua figlia bruciare all’inferno.

Mentre batteva coi pugni sull’altare, la vecchia che le stava dietro le posò le mani sulle spalle, gridando: Invocalo, figlia! Invoca il Signore!” E fu come se fosse stata lanciata con violenza fuori dal tempo, dove non esistono frontiere, perché la voce era la voce di sua madre ma le mani erano le mani della morte. E pianse forte, come in tutta la sua vita non aveva mai fatto, cadendo faccia a terra davanti all’altare, ai piedi della vecchia negra. Le sua lacrime cadevano come pioggia bollente. Le mani della morte carezzavano le sue spalle e la voce continuava a mormorare alle sue orecchie: «Dio ti ha segnato, sa dove stai, la morte ha un mandato per te”.

 

La preghiera di Gabriel

 

Quando Florence aveva gridato, Gabriel, rapito in una oscurità ardente, stava parlando col Signore. Il grido gli era arrivato da lontano, come da inimmaginabili profondità; e non era il grido di sua sorella che aveva sentito, ma il grido del peccatore quando cade nel suo peccato. Era il grido sentito tanti giorni e tante notti, davanti a tanti altari, e Gabriel aveva gridato, come aveva fatto tante altre volte: “Sia fatta la tua volontà, Signore! Sia fatta la tua volontà!”

Poi ci fu solo silenzio nella chiesa. Perfino madre Washington aveva smesso di gemere. Presto qualcuno avrebbe gridato di nuovo, e le voci sarebbero ricominciate; e ci sarebbe stata la musica, di lì a poco, e grida, e il suono dei tamburelli, Ma in quel momento, in quel pesante silenzio di attesa sembrava che la carne aspettasse - sospesa, immobilizzata da qualcosa a mezz’aria - la vivificante potenza divina.

Questo silenzio, prolungantesi come un corridoio, riportò Gabriel al silenzio che aveva preceduto la sua nascita in Cristo. Come capita quando si nasce, tutto ciò che era venuto prima di quel momento era avvolto nell’oscurità, giaceva in fondo al mare dell’oblio, e non poteva essergli imputato ma solo messo in relazione a quella cieca, funesta, e fetida corruzione in cui era vissuto prima di essere redento.

Il silenzio era il silenzio del primo mattino, e lui stava tornando dalla casa equivoca. Già intorno a lui c’erano i suoni del mattino: di uccelli, invisibili, che lodavano Dio; di grilli nelle vigne, di rane nei pantani, di cani lontani chilometri e vicini, di galli. Il sole non era ancora spuntato del tutto; solo le più alte cime degli alberi avevano cominciato a tremolare, raggiunte dai suoi raggi; e la nebbia, tutt’intorno a Gabriel, dileguava come controvoglia davanti alla luce dominante del giorno. Più tardi aveva detto che quel mattino era posseduto dal suo peccato; ma in quel momento sapeva solo che portava un fardello e che desiderava liberarsene, Era un fardello più pesante della più pesante montagna e lo portava nel suo cuore. Ogni passo che faceva il suo fardello diventava più pesante, il suo respiro più lento e aspro, e, improvvisamente, un sudore gelato gli coprì la fronte e gli bagnò la schiena.

Tutta sola nella capanna sua madre stava a letto, aspettando; aspettando non solo il suo ritorno quella mattina, ma la sua resa al Signore. Si teneva in vita solo per questo, e lui lo sapeva, anche se lei ormai aveva smesso di esortarlo, come aveva fatto fino a poco tempo prima. L’aveva messo nelle mani del Signore, e aspettava con pazienza di vedere come Lui avrebbe risolto la cosa.

Poiché essa viveva per vedere compiersi la promessa del Signore. Non sarebbe partita per il suo riposo finché suo figlio, l’ultimo dei suoi bambini, quello che l’avrebbe posta nel sudario, non fosse entrato nella comunione dei santi. Ora, lei, una volta così impaziente e violenta che imprecava e gridava e lottava come un uomo, era diventata silenziosa, lottando soltanto, e col massimo delle sue forze, con Dio. E anche questo lo faceva come un uomo: sapendo di aver mantenuto la sua fede, si aspettava da Lui che mantenesse la Sua promessa. Gabriel sapeva che quando sarebbe entrato non gli avrebbe chiesto dove era stato, non lo avrebbe rimproverato; e i suoi occhi, anche dopo che avesse chiuso le palpebre per dormire, lo avrebbero seguito ovunque.

Più tardi, essendo domenica, qualcuno dei Fratelli e delle Sorelle sarebbe venuto da lei, per cantare e pregare intorno al suo letto. E lei avrebbe pregato per Gabriel, seduta in letto senza essere aiutata, con la testa volta in alto, a voce ferma; mentre lui, inginocchiato in un angolo della stanza, tremava e quasi desiderava che lei morisse; e tornava a tremare davanti a questa testimonianza della malvagità senza speranza del suo cuore; e chiedeva, con una muta preghiera, di essere perdonato. Perché non aveva parole quando si inginocchiava di fronte al trono. E aveva paura di fare un voto davanti a Dio se non era sicuro di aver la forza di tenervi fede. E tuttavia sapeva che finché non avesse fatto il voto non avrebbe mai trovato la forza.

Perché dentro di sé desiderava, timoroso e tremante, tute le glorie che sua madre sognava per lui nelle sue preghiere.

Sì, voleva la potenza, voleva sapere che lui era l’unto del Signore, il Suo beneamato, degno, quasi, di quella colomba bianca come la neve che era stata inviata dal Cielo a testimoniare che Gesù era il figlio di Dio. Voleva essere un maestro, parlare con quell’autorità che può venire solo da Dio. Più tardi avrebbe orgogliosamente attestato il suo odio per i suoi peccati, anche mentre correva verso il peccato, anche mentre stava peccando. Odiava il male che abitava il suo corpo, e lo temeva, come temeva e odiava i leoni della libidine e del desiderio sempre pronti ad assalire la cittadella senza difesa della sua mente. Più tardi avrebbe detto che era stato un dono lasciatogli in eredità da sua madre l’aver avuto su di sé la mano di Dio fin dai suoi primi inizi; ma allora sapeva solo che ogni volta che veniva la notte, caos e febbre lo scuotevano; nella capanna il silenzio tra lui e sua madre diventava qualcosa di intollerabile; senza guardare verso di lei, mettendosi la giacca di fronte allo specchio, e cercando di evitare la propria faccia riflessa nello specchio, le diceva che andava fuori a fare una passeggiata, e che sarebbe tornato subito.

Qualche volta Deborah sedeva accanto a sua madre, guardandolo con occhi che erano non meno pazienti e pieni di rimprovero. Fuggiva nella notte stellata e camminava finché arrivava a una taverna, o a una casa che aveva già designato durante la lunga giornata del suo libertinaggio. E lì beveva finché sentiva dei martelli risuonare nella sua testa annebbiata; ingiuriava amici e nemici, e lottava finché il sangue non correva; la mattina si ritrovava nel fango, nella terra, in letti sconosciuti, e una o due volte in prigione; con la bocca amara, i vestiti stracciati, emanando da tutto se stesso il fetore della sua corruzione. Allora non poteva nemmeno piangere. Nemmeno pregare. Quasi desiderava la morte, l’unica cosa che potesse liberarlo dalla crudeltà delle sue catene.

E attraverso tutto questo gli occhi di sua madre erano su di lui; la sua mano, come una tenaglia infuocata, stringeva il tiepido tizzone del suo cuore; e gli faceva sentire, al pensiero della morte, un altro terrore, ancora più agghiacciante. Scendere nella tomba non purificato e non perdonato, era scendere per sempre nell’inferno, dove lo aspettavano terrori più orribili di qualunque terrore la terra, per tutto il tempo della sua gemente esistenza, avesse mai generato. Sarebbe stato separato dai viventi, per sempre; sarebbe stato senza nome per sempre. Dove sarebbe andato non avrebbe trovato che silenzio, roccia, stoppie e nessun seme; per sé, per sempre, e per i suoi, nessuna speranza di gloria. Così, quando andava dalla puttana, andava da lei arrabbiato e la lasciava pieno di inutile dolore, sentendo di essere stato, ancora una volta, derubato ignobilmente, avendo sprecato il suo sacro seme in un’oscurità proibita dove non avrebbe potuto che morire.

Malediva la sensualità traditrice che era in lui, e la malediva negli altri. Ma più tardi avrebbe detto: “Ricordo il giorno che la mia prigione è crollata e le mie catene sono cadute “.

Gabriel camminava verso casa, pensando alla notte che sta va lasciandosi alle spalle. Aveva visto la donna all’inizio della sera, ma stava con molti altri, uomini e donne, e così l’aveva ignorata. Ma più tardi, scaldato dal whisky, l’aveva guardata negli occhi, e aveva visto subito che si interessava a lui, Non c’era molta gente con lei, come se avesse voluto fargli posto.

Aveva già saputo che era una vedova venuta dal Nord, in città solo per qualche giorno per una visita ai suoi parenti.

Quando lui la guardava lei rispondeva al suo sguardo e, come se questo facesse parte della scherzosa conversazione coi suoi amici, rideva forte. Aveva denti radi, e una grande bocca; quando rideva, stringeva in ritardo fra i denti il labbro inferiore, come se si vergognasse di una bocca così larga, e i seni le ballavano. Non era quella specie di tumulto che si scatena dalla risata di una donna grande e grassa, i suoi seni si gonfiavano e si abbassavano contro la stoffa tesa del vestito. Era più vecchia di lui - più o meno l’età di Deborah, una trentina d’anni - e non si poteva dire bella. Tuttavia lo spazio che le si parava era stato di colpo riempito dalla sua presenza, e il suo profumo era nelle narici di Gabriel. Quasi sentiva quei seni muoversi sotto la sua mano. E tornò a bere, lasciando, inconsciamente o quasi, che la sua faccia prendesse quell’espressione di innocenza e di forza che, la sua esperienza con le donne glielo aveva insegnato, suscitava in loro l’amore.

Sì (camminava verso casa, rabbrividendo dal freddo) sì, avevano fatto la cosa. Dio, come si erano rotolati nel letto del peccato, e lei come gridava e fremeva; e come si era scatenato il suo amore! Sì (camminava verso casa nella nebbia che stava dileguando, con la fronte coperta di sudore freddo), nella vanità e nell’orgoglio della conquista pensava ancora a lei, ripensava il suo profumo, il calore del suo corpo sotto le sue mani, la sua voce, e la lingua, simile alla lingua di un gatto, e i denti, e i seni gonfi, e come si muoveva per lui, come lo teneva stretto, e lo assecondava, e come tremanti e gementi, e abbracciati insieme, ritornavano di nuovo sulla terra.

Pensando a questo, col corpo gelato per il sudore e insieme ardente per il ricordo della libidine soddisfatta, era arrivato a un albero, su una piccola altura, dietro la quale, fuori dalla vista, era la capanna dove stava sua madre. E qui, con la violenza dell’acqua che sfonda le dighe e copre le rive, precipitandosi, indomabile, verso le immobili case condannate alla distruzione - sulle quali, sui tetti e le finestre, trema ancora un pallido sole - gli era balzato davanti il ricordo di tutte le mattine in cui era salito lassù e aveva oltrepassato quell’albero, preso per un momento fra i peccati commessi e quelli da compiere. La nebbia era sparita dall’altura e, di fronte all’albero solitario, ebbe l’impressione di stare sotto l’occhio nudo del Cielo. Allora, in un attimo, ci fu silenzio, solo silenzio, dappertutto, perfino gli uccelli avevano smesso di cantare, e nessun cane abbaiava, e nessun gallo salutava il giorno col suo canto. Sentì che questo silenzio era il giudizio di Dio; che tutto il creato aveva dovuto tacere davanti alla giusta e terribile collera di Dio, e ora aspettava di vedere il peccatore - era lui il peccatore - abbattuto e bandito dalla presenza del Signore. E toccò l’albero, senza quasi accorgersi che lo toccava, preso da un improvviso bisogno di nascondersi; e gridò: Oh, Signore, abbi pietà! Signore, abbi pietà di me!”

E cadde contro l’albero, affondando nella terra e aggrappandosi alle radici. Aveva gridato nel silenzio e solo il silenzio aveva risposto, ma il suo grido era echeggiato fino agli estremi limiti della terra. Il suono del suo grido solitario ripercuotentesi attraverso il creato, spaventando nel loro sonno pesci e uccelli, risvegliando echi da ogni parte, fiumi, valli, e i fianchi delle montagne, generò in, lui una paura così grande che giacque per un momento muto e tremante ai piedi dell’albero, come se volesse essere sepolto lì. Ma quel suo cuore oppresso non voleva quietarsi, non lo lasciava stare in silenzio, non lo avrebbe lasciato respirare se non gridava ancora. E così gridò di nuovo; e di nuovo l’eco gli riportò il suo grido; e un’altra volta il silenzio fu in attesa della parola di Dio.

E vennero le lacrime, delle lacrime che non sapeva di ave re dentro di sé. “Ho pianto come un bambino” disse più tardi. Ma nessun bambino ha mai pianto le lacrime piante da lui quella mattina, sotto il grande albero, col viso rivolto al cielo.

Venivano da profondità che nessun bambino conosce, e lo scuotevano con una febbre che nessun bambino avrebbe potuto sopportare. E ora, nella sua angoscia, stava gridando, e ogni grido sembrava dilaniargli la gola, e fermargli il respiro, e faceva correre lacrime bollenti giù dalla sua faccia, a bagnare le sue mani e le radici dell’albero. Salvami! Salvami!”

Tutto il creato risuonava delle sue grida, ma non rispondeva.

“Non sentivo nessuno pregare,”

Sì, era in quella valle dove sua madre gli aveva detto che un giorno si sarebbe trovato, dove non c’era nessun aiuto umano, nessuna mano tesa a proteggere o a salvare. Qui non contava che la misericordia di Dio, qui la lotta era fra Dio e il Demonio, fra la morte. e la vita eterna. E lui aveva tardato troppo, si era troppo crogiolato nel peccato, e Dio non lo avrebbe ascoltato. Il tempo stabilito era passato e Dio aveva rivolto altrove il suo viso.

“Allora,” affermò Gabriel sentii mia madre cantare, Cantava per me. Cantava con voce bassa e dolce, proprio accanto a me, come se sapesse che, se lei Lo avesse chiamato, il Signore sarebbe venuto.” Quando sentì questo canto, che riempiva il silenzio dell’aria, che saliva fino a riempire tutta la terra in attesa, il cuore gli si ruppe dentro, e cominciò ad alzarsi, liberato dal suo fardello; e la gola gli si apri; e pianse come se i cieli in ascolto si fossero spalancati. Allora lodai Dio, che mi aveva portato fuori dall’Egitto e aveva posto i miei piedi sulla terra ferma.” Quando finalmente alzò gli occhi vide un nuovo cielo e una nuova terra; e sentì un nuovo canto, perché un peccatore era tornato a casa. “Guardai le mie mani e le mie mani erano nuove. Guardai i miei piedi e i miei piedi erano nuovi. E apersi la mia bocca per lodare il Signore, quel giorno, e l’Inferno non riuscirà a cambiarmi.” E in verità si sentiva cantare dappertutto; gli uccelli, i grilli e le rane cantavano con gioia, lontano i cani, saltando e abbaiando, si aggiravano nei loro stretti cortili, e i galli gridavano, dalla cima di ogni alto recinto, che stava cominciando un nuovo giorno, un giorno senza peccato!

E questo era stato il principio della sua vita di uomo. Aveva appena compiuto ventun anni; il secolo non aveva ancora un anno. Rientrò in città, nella stanza che lo aspettava all’ultimo piano della casa dove lavorava, e cominciò a pregare.

Sposò Deborah in quello stesso anno. Dopo la morte di sua madre, aveva cominciato a vederla molto spesso. Andavano insieme alla casa di Dio, e poiché non c’era più nessuno che si occupasse di lui, Deborah lo invitava spesso a casa sua, a mangiare, teneva in ordine i suoi vestiti, e dopo che lui aveva pregato discuteva con lui i suoi sermoni; cioè lui la stava a sentire mentre lei li lodava.

È certo che non aveva mai pensato di sposarla; un’idea simile, avrebbe detto, sarebbe stata per lui non meno assurda della possibilità di volare sulla luna. La conosceva da sempre; era stata la più vecchia amica della sua sorella maggiore, e poi quella che con più devozione aveva tenuto compagnia a sua madre; non era mai stata giovane, per Gabriel. Per lui poteva esser nata nei suoi vestiti severi, lunghi, senza sesso né forma, sempre neri o grigi. Sembrava messa al mondo per visitare gli ammalati, confortare i piangenti, e mettere l’ultimo abito ai morti.

Inoltre, c’era la sua leggenda, la sua storia, sufficiente, anche se non fosse stata cosi del tutto priva di attrattive, a metterla al riparo del desiderio di ogni uomo onorato. In verità, essa, silenziosa e imperturbabile, sembrava sapere che dove, forse, altre donne custodivano, come il loro più affascinante segreto, la gioia che esse potevano dare e condividere, in lei c’era solo vergogna subita, vergogna che, a meno che un amore umano la salvasse miracolosamente, era tutto quello che essa poteva dare. E così si muoveva nella piccola comunità come una donna misteriosamente visitata da Dio, come un terribile esempio di umiltà, o come un povero di spirito toccato dalla grazia. Nessun ornamento abbelliva mai il su corpo; nessun tintinnare, nessun brillare di gioielli intorno a lei, nessuna morbidezza. Nessun nastro alterava la linea del suo incensurabile e implacabile copricapo; sulla sua testa lanosa c’era solo il minimo indispensabile di brillantina. Non perdeva tempo in chiacchiere con le altre donne - non avrebbe nemmeno saputo di cosa chiacchierare - ma riduceva la sua conversazione a dei sì e a dei no, e leggeva la sua Bibbia, e pregava. C’era gente nella chiesa, anche fra quelli che predicavano il Vangelo, che derideva Deborah alle sue spalle; ma si sentivano a disagio; non potevano mai essere certi di non gettare il disprezzo su quella che forse era fra loro la più grande santa, tesoro speciale del Signore, e arca santissima.

“Sei per me una fortuna piovuta dal cielo, sorella Deborah” diceva qualche volta Gabriel. «Non so cosa farei senza te.”

Deborah, infatti, era un gran sostegno per lui, nella sua nuova condizione; con la sua assoluta fede in Dio, e la sua fiducia in lui, essa, più dei peccatori che venivano gridando all’altare alla fine della sua predica, testimoniava sulla terra della genuinità della sua vocazione; e, parlando, per così dire, il linguaggio di noi poveri mortali, conferiva realtà alla poderosa opera che Dio aveva confidato nelle mani di Gabriel.

E lei lo guardava con un timido sorriso. «Zitto, Reverendo. Sono io che non mi inginocchio mai davanti al Signore senza ringraziarlo per avermi dato te.”

Ancora: non lo chiamava mai Gabriel o «Gabe”, ma fin dal tempo che aveva cominciato a predicare lo chiamava Reve endo, sapendo che il Gabriel che aveva conosciuto bambino non esisteva più e che ai suo posto c’era un nuovo uomo in Gesù Cristo, “Hai mai notizie di Florence?” gli domandava qualche volta.

“O Dio, sorella Deborah, sono io che dovrei domandarlo a te. A me quella ragazza non scrive quasi mai.”

“Non ho avuto sue notizie in questi ultimi tempi.” Fece una pausa. Poi:

“Non credo che sia così felice la dov'è”.

“E le sta bene: non aveva bisogno di andarsene via di qua come ha fatto, come una pazza.” Poi domandò, maligno: “Ti dice se si è sposata?”

Essa gli diede un rapido sguardo. “Florence non pensa a nessun marito” disse.

Gabriel rise, Dio ti benedica per la purezza del tuo cuore, sorella Deborah, Ma se quella ragazza non se ne è andata via di qui per cercare un marito, non mi chiamo più Gabriel Grimes.”

Se voleva un marito mi sembra che poteva pescarne uno anche qui. Non mi dirai che ha fatto tutto il viaggio fino al Nord solo per questo?” E sorrise in un modo strano, meno gravemente impersonale. Gabriel, guardandola, pensò che quel sorriso le aveva dato un’aria insolita: sembrava una ragazza spaventata.

“Sai bene,” disse, osservandola con più attenzione, “che Florence ha sempre pensato che nessuno dei negri che giravano qui intorno era abbastanza buono per lei.”

“Mi domando,” arrischiò Deborah “se Florence arriverà mai a trovare un uomo abbastanza buono per lei. E' così orgogliosa, sembra che non voglia che nessuno le venga vicino.”

“Sì,” disse Gabriel, aggrottando le sopracciglia, “così orgogliosa che il Signore un giorno la umilierà. Tieni a mente le mie parole.”

“Sì,” sospirò Deborah “il Verbo ci dice in modo certo che l’orgoglio porta alla distruzione.”

«E la superbia alla caduta. Questo è il Verbo.”

“Sì,” e sorrise ancora “non c’è riparo contro il Verbo di Dio, vero, Reverendo? Non c’è che seguirlo e basta: perché ogni parola è vera, e le porte dell’inferno non potranno resistergli.

Egli sorrise, guardandola, e sentì una grande tenerezza riempirgli il cuore. “Tu ci stai proprio dentro, nel Verbo, Sorella. Le finestre del Cielo si apriranno e faranno piovere su te tante benedizioni che non saprai più dove metterle.”

Deborah sorrise ora con gioia accresciuta. “Dio mi ha già benedetta, Reverendo. Mi ha benedetta quando ha salvato la tua anima e ti ha mandato a predicare il Suo Vangelo.”

“Sorella Deborah,” disse Gabriel lentamente “tutto quel tempo pieno di peccato, hai pregato per me?”

La sua voce divenne più bassa. “Certo, Reverendo. Io e tua madre abbiamo pregato tutto il tempo.”

Egli la guardò pieno di gratitudine e d’improvviso si rese conto che mentre lui era stato per Deborah una realtà, e lei aveva vegliato su lui, e pregato per lui durante tutti quegli anni, Deborah non era stata per lui altro che un’ombra. E non aveva smesso di pregare per lui; avrebbe avuto l’aiuto delle sue preghiere per tutta la vita, glielo leggeva sul viso.

Essa non diceva niente, non sorrideva, lo guardava soltanto col suo sguardo serio e buono, ora un po’ interrogativo e timido.

“Dio ti benedica, Sorella” disse alla fine Gabriel.

Al tempo di questo dialogo, o pressapoco, si tenne nella città un grandissimo revival meeting. Evangelisti provenienti dalle contee intorno, fin dalla Florida, a sud, e fin da Chicago, a nord, si erano riuniti per spezzare insieme il pane della vita.

Lo chiamarono il Revival Meeting dei Ventiquattro “ Anziani “, e fu il grande avvenimento di quell’estate. Perché ce ne erano ventiquattro di questi evangelisti, ognuno con la sua serata in cui doveva pronunciare il sermone, brillare, per così dire, davanti agli uomini, e glorificare il Padre Celeste. A Gabriel, stupito e orgoglioso, era stato chiesto di essere uno dei ventiquattro, tutti uomini molto esperti e potenti, e qual uno famoso. Era un grande, pesante onore per lui, così giovane di fede e di anni, che ancora il giorno prima era disteso, coperto di vomito, nel rigagnolo del peccato, e, ricevendo l’invito, il suo cuore aveva tremato di paura. Benché sentisse che era la mano di Dio che lo designava così presto perché mettesse se stesso alla prova davanti a uomini tanto importanti.

Doveva pronunciare il suo sermone la dodicesima sera; e, in previsione della possibilità di un suo insuccesso, era stato deciso di sostenerlo facendolo precedere e seguire da un numero quasi uguale di vecchi cavalli di battaglia. Avrebbe, così, beneficiato dell’emozione suscitata da questi prima di lui; e se non fosse riuscito ad aumentare sostanzialmente quest’emozione, quelli dopo avrebbero fatto dimenticare la sua prova.

Ma Gabriel non voleva che la sua prova - la più importante della sua carriera fino a quel momento, e dalla quale dipendevano così tante cose - fosse dimenticata; non voleva essere messo da parte come un ragazzino tenuto in scarsa considerazione nella gara, e ancor meno esser messo fra i semplici candidati al premio. Digiunò in ginocchio davanti a Dio e non smise, giorno e notte, di pregare perché Dio volesse compiere, attraverso la sua persona, una grande opera e facesse vedere a tutti che in verità la mano di Dio era su di lui, che lui era l’unto del Signore.

Deborah, senza esserne richiesta, aveva digiunato con lui, e pregato, e aveva tirato fuori il suo migliore abito nero, in modo che fosse pulito e rammendato e stirato di fresco per il gran giorno. E l’aveva tirato fuori di nuovo, subito dopo, per ché non fosse meno splendido la domenica del grande pranzo che chiudeva ufficialmente il revival, Quella domenica era giorno di festa per tutti, ma più specialmente per i ventiquattro “anziani”, che quel giorno banchettavano splendidamente a spese dei “santi”.

La sera che toccava a lui dire il sermone, andò insieme a Deborah alla grande sala illuminata, che poco tempo prima aveva ospitato un’orchestra da ballo, e che i “santi” avevano preso in affitto per la durata del revival. La funzione era già cominciata; le luci si riversavano fuori sulla strada, l’aria era piena di musica, e i passanti si fermavano ad ascoltare e a dare una guardata dentro, dalla porta socchiusa. Avrebbe voluto che entrassero tutti; avrebbe voluto correre per le strade e trascinare tutti i peccatori a sentire il Verbo di Dio. Ma, mentre si avvicinava con Deborah alla porta, la paura tenuta in scacco per tanti giorni e tante notti lo invase di nuovo, e pensò a come sarebbe riuscito quella sera, così in alto, e tutto solo, a provare la validità della affermazione caduta dalle sue labbra, che Dio lo aveva chiamato a predicare.

“Sorella Deborah,” disse improvvisamente mentre stavano davanti alla porta “vuoi andare a sedere in un posto dove io possa vederti?”

“Va bene, Reverendo” essa disse. Vai su. Abbi fiducia in Dio.”

Senza dire altro Gabriel si volse, lasciandola sulla porta, e risalì il lungo passaggio fra le sedie fino al pulpito. Erano già lì tutti, uomini importanti, disinvolti, consacrati; sorrisero e gli fecero amichevoli cenni mentre saliva la scaletta del pulpito; e uno di loro, accennando verso il pubblico dei fedeli che sembrava pieno di calore come chiunque fra gli evangelisti avrebbe potuto desiderare, disse: “Li stiamo tenendo in caldo per te, amico. Vogliamo vederti farli gridare, stasera”.

Sorrise un istante prima di inginocchiarsi a pregare davanti alla sua sedia simile a un trono; e pensò di nuovo, come aveva pensato per undici notti, che i suoi “anziani” avevano un modo di comportarsi nel luogo sacro così disinvolto e frivolo che metteva a disagio la sua anima. Mentre sedeva, aspettando, vide che Deborah aveva trovato un posto in prima fila, proprio sotto il pulpito, e sedeva con la Bibbia chiusa sulle ginocchia.

Quando, finalmente, letta la lezione sulla Scrittura, sentite le testimonianze, cantati i canti, fatta la colletta, venne presentato ai fedeli - dall’“anziano” che aveva predicato la sera precedente - e si trovò in piedi, diretto verso il pulpito dove lo aspettava la grande Bibbia, e più in basso la massa mormorante dei fedeli, sentì un terrore vertiginoso perché stava così in alto, e insieme, immediatamente, un orgoglio e una gioia indicibili perché Dio lo aveva posto lassù.

Non cominciò con un canto violento o con dichiarazioni infuocate; ma con voce asciutta, normale, che solo tremava un po’, chiese a tutti di guardare insieme a lui il sesto capitolo di Isaia, e il quinto versetto; e chiese a Deborah di leggerglielo ad alta voce.

E Deborah lesse, con voce insolitamente forte: “ Allora io dissi: Ahimè! perché sono perduto; perché le mie labbra sono impure, e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti’ “.

Il silenzio riempì la sala appena Deborah ebbe letta questa frase. Per un momento Gabriel fu terrorizzato da tutti quegli occhi fissi su di lui, e dagli «anziani” seduti alle sue spalle, e non riuscì a pensare a come andare avanti. Allora guardò Deborah, e cominciò.

Queste parole sono state pronunciate da Isaia, il profeta detto ‘occhi d’aquila’ perché ha scrutato nell’oscurità dei secoli futuri e predetto la nascita di Cristo. E ancora Isaia che ha profetizzato che l’uomo deve essere un rifugio contro venti e tempeste, lsaia che ha descritto la via della santità, dicendo che la terra arida sarebbe diventata un lago, e il suolo assetato un luogo di sorgenti d’acqua: persino il deserto si sarebbe rallegrato e sarebbe fiorito come la rosa. E Isaia che ha profetizzato, dicendo: ‘A noi è nato un bambino, a noi è stato dato un figlio, e il governo del mondo sarà posto sulle sue spalle’. Questo è un uomo che Dio aveva allevato nella rettitudine, che Dio aveva scelto per fare molte grandi opere, eppure quest’uomo, contemplando la visione della gloria di Dio, ha gridato: ‘Ahimè!”

“Sì!” gridò una donna. “Dillo!”

“C’è una lezione per tutti noi in questo grido di Isaia, un significato per tutti, una dura sentenza. Se non abbiamo mai lanciato questo grido non abbiamo mai conosciuto la salvezza; se non viviamo con questo grido ogni ora, ogni giorno, quando è mezzanotte, e nella luce del sole di mezzogiorno, allora la salvezza ci ha lasciati e i nostri piedi hanno preso possesso dell’inferno. Sì, benedetto per sempre il nostro Signore! Quando smettiamo di tremare davanti a Lui, siamo usciti dalla via della salvezza.”

“Amen!” gridò una voce dal fondo. “Amen! Di questo devi parlare!

Si arrestò solo un momento e si asciugò la fronte, col cuore tremante, pieno di un sentimento di paura e insieme di potenza.

“Perché ricordiamoci che il prezzo del peccato e la morte; questo è scritto e non può non avverarsi, l’anima che pecca dovrà morire. Ricordiamoci che siamo nati nel peccato, nel peccato ci ha concepito nostra madre, il peccato regna in tutte le nostre membra, il peccato è il liquido naturale di un cuore immondo, il peccato guarda dal nostro occhio, amen, e porta alla lussuria, il peccato è nell’udito dell’orecchio, e porta alla pazzia, il peccato è sulla lingua, e porta al delitto. Sì!

Il peccato è la sola eredità dell’uomo, il peccato ci è stato lasciato in eredità dal nostro padre naturale, quell’Adamo il cui pomo guasta e guasterà tutte le generazioni viventi e quelle non ancora nate! E stato il peccato a cacciare dal Cielo lucifero; è stato il peccato a cacciare dall’Eden Adamo, il peccato che ha spinto Caino a uccidere il fratello, il peccato che ha costruito la torre di Babele, il peccato che ha fatto cadere il fuoco su Sodoma, è il peccato, che vive e respira nel cuore dell’uomo fin dal principio del mondo, che fa partorire le donne nell’angoscia e nelle tenebre, che piega la schiena degli uomini sotto terribili fatiche, che tiene vuote le pance vuote, e nude le tavole, e manda i nostri figli, vestiti di stracci, nei bordelli e nelle sale da ballo del mondo!”

“Amen! Amen!”

“Ah. Ahimè. Ahimè. Sì, miei cari, non c’è rettitudine nel l’uomo. Il cuore dell’uomo è cattivo, l’uomo è mentitore, solo Dio è vero. Ascoltate il grido di Davide: ‘Il Signore è la mia roccia, e la mia fortezza, e il mio salvatore; mio Dio, mia forza, in cui voglio credere; mio scudo, emblema della mia salvezza, mia alta torre’. Ascoltate Giobbe, seduto sui rifiuti e sulla cenere, coi figli morti, le ricchezze perdute, circondato da falsi confortatori: ‘Sì, anche se Lui mi annienta confido in Lui’. E ascoltate Paolo, che prima era stato Saul, persecutore dei cristiani, abbattuto sulla via di Damasco e poi andato a predicare il vangelo: ‘E se voi siete di Cristo, allora siete seme di Abramo, e suoi eredi secondo la promessa!”

“Oh, sì,” gridò uno degli anziani “sia sempre benedetto il nostro Signore!”

“Perché Dio aveva un piano. Egli non voleva che l’anima dell’uomo morisse, e aveva preparato un piano per la sua salvezza. Al principio, all’inizio della creazione del mondo, Dio aveva un piano, amen! per portare ogni carne alla conoscenza della verità. In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio, sì, e in Lui era la vita, alle mia,’ e questa vita era la luce dell’uomo. Miei cari fratelli, quando Dio vide come il male aumentava nel cuore degli uomini, come essi si staccavano da Lui, ognuno prendendo la sua strada, come si sposavano, come banchettavano con cibi e bevande empi, e erano dominati dalla lussuria, e bestemmiavano, e levavano il loro cuore, con orgoglio peccaminoso, contro il Signore, oh, allora il Figlio di Dio, il benedetto agnello che prende su di sé i peccati del mondo, questo Figlio di Dio che e il Verbo fatto carne, l’adempimento della promessa, oh, allora Egli si volse a Suo Padre, gridando: ‘Padre, dammi un corpo e io scenderà sulla terra a redimere i peccatori’.”

“Perciò rallegratevi stasera, e lodate il Signore!”

“Padri, che siete qui stasera, avete mai avuto un figlio fuorviato? Madri, avete visto le vostre figlie abbattute nell’orgoglio e nella pienezza della gioventù? C’è qui qualcuno che abbia sentito l’ordine che giunse ad Abramo di sacrificare il figlio sull’altare di Dio? Padri, pensate ai vostri figli, a quanto tremate per essi, e cercate di guidarli sulla retta via, di nutrirli in modo che crescano forti; pensate al vostro amore per vostro figlio, al vostro cuore che si spezza per ogni male che lo colpisce, e pensate al dolore che Dio ha sofferto inviando quaggiù il Suo Figlio unigenito, a vivere fra gli uomini su questa terra peccatrice, a essere perseguitato, a patire, a portare la croce e a morire - non per i Suoi peccati, come i figli della nostra carne, ma per i peccati di tutto il mondo, per prendere su di se i peccati di tutto il mondo - perché noi potessi mo sentire le campane di gioia risuonare profondamente nei nostri cuori, questa sera!

“Lodate il Signore!” gridò Deborah, e mai la sua voce era stata così forte.

Ahimè, perché quando Dio colpisce il peccatore, gli occhi del peccatore sono aperti, ed egli vede se stesso in tutta la sua nudità davanti alla gloria di Dio. Ahimè! Perché il momento della salvezza è una luce accecante che dal Cielo viene a esplodere nel cuore, il Cielo così in alto, e il peccatore così in basso. Ahimè! Perché se Dio non lo rialza, il peccatore non si rialzerà mai!

“Sì, mio Dio! È così!

“Quanti di quelli che sono qui stasera sono caduti dove è caduto Isaia? Quanti hanno gridato, come ha gridato Isaia?

Quanti possono testimoniare, come ha testimoniato lsaia: ‘I miei occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti’? Ah, chiunque non ha potuto rendere questa testimonianza non vedrà mai la Sua faccia, e si sentirà dire, nel gran giorno: ‘Vattene da me, tu che operi l’iniquità’ e sarà gettato per sempre nel lago di fuoco preparato per Satana e tutti i suoi angeli. Oh, non vorrà alzarsi questa sera il peccatore, e percorrere il breve spazio fino alla sua salvezza, fin qui, dove è il trono della misericordia?”

E attese. Deborah lo guardava con un sorriso calmo, pieno di forza. Guardò giù le facce, e tutte le facce si levarono verso di lui. E vide gioia in quelle facce, e santo zelo, e fede e tutti guardavano su verso di lui. Allora, lontano in fondo, si alzò un giovane, alto e scuro, con la camicia bianca aperta sul collo e stracciata, i pantaloni impolverati e logori, tenuti su da una vecchia cravatta, guardò Gabriel attraverso quello spazio immenso, terribile, vivo, e cominciò a camminare nel lungo passaggio fra le sedie, sfolgorante di luci. Qualcuno gridò:

“Benedetto il Signore!” e le lacrime empirono gli occhi di Gabriel. Il giovane s’inginocchiò, singhiozzando, davanti al trono della misericordia, e tutta la chiesa cominciò a cantare.

Allora Gabriel scese dal pulpito, sentendo che aveva fatto un buon lavoro, quella sera, e che Dio si era servito di lui.

Gli anziani erano tutti sorridenti, e uno di loro gli prese la mano e disse: «E' stato molto bello, amico. Molto bello “.

Poi arrivò la domenica del pranzo spettacolare che chiudeva il revival, per il quale pranzo, Deborah e le altre donne, ave vano in precedenza lavorato per molti giorni a infornare, arrostire, friggere e bollire i cibi. Gabriel disse scherzando a Deborah, per ripagarla un po’ della sua opinione che lui fosse il miglior predicatore del revival, che lei era la miglior cuoca fra le donne. E Deborah gli fece notare timidamente che lui si trovava in un lusinghiero svantaggio in quanto lei aveva sentiti tutti i predicatori mentre lui da molto tempo non gustava un piatto cucinato da altre donne.

Quando arrivò la domenica, e si trovò un’altra volta in mezzo agli «ii“, al momento di andare a tavola Gabriel sentì che la gioia e l’orgoglio che aveva pregustati erano diminuiti. Non si sentiva bene in mezzo a loro - era questo - era difficile per lui accettarli come suoi anziani” e come migliori di lui nella fede. Gli sembravano così molli, così attaccati alle cose terrene; non erano come quei santi profeti dei tempi antichi, diventati magri e nudi nel servire il Signore. Questi ministri di Dio, erano in verità diventati grassi, e i loro vestiti erano ricchi e molti. Predicavano da tanto tempo che non tremavano più di fronte a Dio. Prendevano il potere di Dio come una cosa loro dovuta, una cosa che rendeva più stimolante la speciale atmosfera di sicurezza in cui vivevano. Ognuno, a quanto sembrava, aveva un bagaglio di sermoni già usati al tre volte; e capiva, in un batter d’occhi, quale era quello adatto per ogni congregazione. Per quanto predicassero con grande autorità, e trascinassero anime a prosternarsi davanti al l’altare - come tante spighe di grano falciate da un contadino pagato per questo nella sua giornata di lavoro - non davano gloria a Dio né consideravano questo come una gloria; con la stessa facilità, pensava Gabriel, avrebbero potuto essere dei ben pagati artisti di circo equestre, ognuno con le sue particolari, eccezionali qualità. Gabriel scoprì che parlavano, scherzandoci sopra, del numero di anime che ognuno di loro aveva salvato, confrontando le cifre come se stessero segnando i punti in una sala di scommesse. E questo l’aveva offeso e spaventato. Non avrebbe voluto mai prendere così alla leggera il dono di Dio.

Essi, i Pastori, erano serviti a parte nella stanza sopra la sala delle riunioni - mentre agli operai meno specializzati della vigna del Signore davano da mangiare a un tavolo giù abbasso - e le donne andavano continuamente su e giù per le scale con vassoi carichi guardando che mangiassero a sazietà. Deborah era una delle donne che servivano, e per quanto lei non parlasse e Gabriel si sentisse a disagio, mancava poco che lui non scoppiasse a ridere ogni volta che lei entra va nella stanza, vedendo quanto orgoglio provava al vederlo seduto lì, così sereno e circondato di stima, in mezzo a tutte quelle altre celebrità, col severo abito nero che era la sua uni forme. Se soltanto, pensò, sua madre avesse potuto esser lì a vedere il suo Gabriel, salito cosi in alto!

Ma, quasi alla fine del pranzo, dopo che le donne avevano portato su torte, caffè e panna, e i discorsi, a tavola, si erano fatti più allegri e più liberi che mai, la porta si era appena chiusa dietro le donne che uno degli «anziani”, un uomo grosso, gioviale, coi capelli rossicci, la cui faccia, che dimostrava in modo indubbio la violenza dei suoi inizi, era sparsa di lentiggini come di sangue secco, si mise a ridere e disse, riferendosi a Deborah, che era una santa donna, davvero! Era stata ingozzata così presto di latte di uomo bianco, e questo era ancora così inacidito nel suo ventre, che non avrebbe più potuto trovare un negro che le facesse gustare il suo, più sostanzioso e più dolce. Tutta la tavolata scoppiò a ridere, ma Gabriel si sentì gelare al vedere dei ministri di Dio rendersi colpevoli di una così abominevole leggerezza e considerare in modo così disonorante la donna che Dio aveva mandato a confortarlo, e che col suo aiuto gli aveva impedito di deviare dal la retta via, Si rese conto che quelli pensavano che quando erano tra loro potevano anche permettersi qualche risata un po’ grossolana; troppo profondamente erano radicati nella loro fede perché un così insignificante colpo del martello di Satana potesse farli cadere. Ma guardò le loro facce, ridenti chiassosamente, e sentì che avrebbero dovuto rispondere di molte cose il giorno del giudizio, perché erano degli inciampi sulla via del vero credente.

L’uomo coi capelli rossi, colpito dall’espressione amara e sgomenta della faccia di Gabriel, smise di ridere e disse: «Che c’è, figlio? Spero di non aver detto niente che ti abbia offeso”.

Non è lei che ha letto la Bibbia per te la sera che hai detto il tuo sermone?” disse un altro degli anziani “, in tono. conciliante.

Quella donna” disse Gabriel, sentendosi scoppiare la testa, è la mia sorella in Cristo.”

«Be’, il nostro ‘anziano’ Peters questo non lo sapeva proprio” disse qualcun altro. “Non voleva dire niente di male.”

“Non vorrai arrabbiarti, ora?” domandò l'” anziano” Peters, gentilmente, per quanto nella sua espressione e nella sua voce restasse un’ombra di ironia che non sfuggì all’attenzione di Gabriel. “Non vorrai rovinarci il nostro pranzetto?”

«Io penso che non è giusto parlar male di nessuno” disse Gabriel. «Il Verbo mi dice che non si deve disprezzare nessuno.”

“Ricordati” disse l'” anziano” Peters, gentile come prima, “che stai parlando ai tuoi ‘anziani’.”

“Allora mi sembra,” disse Gabriel, sbalordito dalla sua audacia, “che se devo guardare a voi come a un esempio, voi dovreste essere un esempio.”

«Ma dopotutto,” disse un altro, giovialmente, “non hai ancora deciso di sposarla, quella donna, e allora è inutile che te la pigli tanto e ci rovini questa piccola riunione. L”anziano’ Peters non intendeva dir niente di male. Se tu non dirai mai niente di peggio, puoi contare di star già lassù nel Regno dei Cieli con gli eletti.”

A queste parole corse per la tavola una risatina; e tornarono al loro mangiare e bere, come se la questione fosse chiusa.

Tuttavia Gabriel sentiva che li aveva sorpresi; li aveva colti in fallo e ora erano un po’ vergognosi e confusi davanti al suo rigore. E d’improvviso capì le parole di Cristo, là dove sta scritto: «Molti sono i chiamati ma pochi saranno gli eletti “.

Sì, e diede uno sguardo alla tavolata, ora di nuovo gioviale seppure un po’ guardinga verso di lui, e si domandò chi, di tutti quelli, si sarebbe assiso nella gloria celeste alla destra del Padre.

E allora, mentre stava lì seduto, ripensando alle grossolane e futili parole dell'” anziano” Peters, queste parole agitarono in lui tutti quei vaghi dubbi e paure, quelle esitazioni e tenerezze che provava nei riguardi di Deborah, e che tutti insieme, lo capiva ora, costituivano la sua certezza che in questa relazione ci fosse qualcosa di predestinato. Gli venne fatto di pensare che, come il Signore aveva dato Deborah a lui, per ché lo aiutasse a perseverare, così aveva inviato lui a Deborah, per risollevarla, per liberarla da quel disonore da cui, agli occhi degli uomini, era coperta. E in un momento quest’idea lo invase completamente, con l’intensità di una visione. Dove poteva trovare una donna migliore? Non era come le smorfiose figlie di Sion! Nessuno l’avrebbe mai vista pavoneggiarsi impudica per le strade, con gli occhi assonnati e la bocca sensualmente socchiusa, o trovata a mezzanotte a miagolare dietro una siepe, spogliando, seminuda, un giovane negro! No, il loro letto coniugale sarebbe stato santificato, e i loro figli avrebbero continuato la grande famiglia dei credenti, una famiglia reale. E, acceso da questo, un altro fuoco più profondo cominciò a bruciare in lui risvegliando timori assopiti, e Gabriel ricordò (mentre di colpo si ritrovava a tavola, fra gli “anziani” e i loro discorsi) che Paolo aveva scritto: “meglio sposarsi che ardere”.

Tuttavia, pensò, per qualche tempo non avrebbe parlato di questo; avrebbe aspettato di conoscere più chiaramente la volontà di Dio. Perché ricordava quanto Deborah fosse più anziana di lui: orto anni; e per la prima volta nella sua vita cercò di rappresentarsi quel disonore che i bianchi le avevano fatto subire tanti anni prima: le sottane alzate fin sopra la testa, la sua intimità messa a nudo da dei bianchi. Quanti? Come aveva retto? Aveva gridato? Allora immaginò (ma senza sentirsene turbato, perché se Cristo per salvarlo aveva potuto essere crocifisso, lui, per maggior gloria di Cristo, poteva bene esser deriso) quali sorrisi si sarebbero visti, quali sudice supposizioni, fino a quel momento soffocate a fatica, sarebbero spuntare come funghi in una notte, come la zucca di Giona, quando si fosse saputo che lui e Deborah si sarebbero sposati. Lei, che era stata la prova e la testimonianza vivente del la loro vergogna quotidiana, e era diventata la loro pura folle” e lui, che era stato l’indomabile predatore delle loro figlie, e ladro delle loro donne, il loro vivente principe delle tenebre!

E sorrise, guardando le facce ben nutrite degli anziani” e le loro mascelle che lavoravano coscienziosamente, pastori senza santità tutti, servitori senza fede; pregò Dio di non farlo diventare mai così grasso o così lascivo, ma di compiere, attraverso la sua persona, una grande opera: un’opera che magari risuonasse, attraverso i secoli a venire, come dolce, solenne, poderosa prova del Suo amore e della Sua infinita misericordia. Tremò sentendo una presenza intorno a sé; gli era difficile restar seduto. Ebbe l’impressione che una luce splendesse su lui, scendendo dal Cielo, su lui, l’eletto; provò quello che Cristo deve aver provato nel tempio, di fronte ai Suoi anziani profondamente confusi; e alzò gli occhi, senza curarsi dei loro sguardi, dei loro colpetti di tosse, e del silenzio che si era improvvisamente stabilito a tavola, pensando: “Sì. Dio compie i suoi miracoli attraverso molte vie misteriose”.

“Sorella Deborah,” disse più tardi quella sera a Deborah, mentre la riaccompagnava a casa, «il Signore ha parlato al mio cuore e io vorrei che tu mi aiutassi a pregare e a chiedere a Lui di indicarmi la via giusta.”

Si domandò se essa avrebbe indovinato quello che aveva in testa. Ma sul viso di Deborah non si leggeva che pazienza, mentre, volgendosi a lui, diceva: “Io prego sempre. Ma certo pregherò ancora più forte questa settimana, se lo vuoi”.

E fu durante questo periodo di preghiere che Gabriel fece un sogno.

Non pote mai ricordarsi, dopo, come il sogno era cominciato, cosa era successo, e con chi era nel sogno; o qualche particolare. Perché in realtà c’erano stati due sogni, e il primo era stato come un vago, oscuro, diabolico presagio del secondo. Di questo primo sogno, il preludio, ricordava solo l’atmosfera, simile all’atmosfera di quel giorno, pesante, con pericoli dappertutto, e Satana vicino che cercava di farlo cadere. Quella notte, mentre si provava a dormire, Satana aveva mandato dei demoni intorno al suo letto, vecchi amici di una volta, che non frequentava più, e scene della sua vita di giocatore e bevitore che mai avrebbe pensato sarebbero tornare a ossessionarlo, e donne che aveva conosciuto, E le donne erano così vere che poteva quasi toccarle; e riudiva le loro risate e i loro sospiri, e di nuovo risentiva sotto le sue mani le loro cosce e i loro seni. Per quanto chiudesse gli occhi e invocasse Gesù - invocando il suo nome molte e molte volte - la sua carne si irrigidiva e si infiammava e le donne ridevano.

E gli domandavano perché restava solo in quel letto stretto mentre loro lo aspettavano; perché aveva chiuso il suo corpo nell’armatura della castità mentre loro sospiravano per lui, girandosi nei loro letti. E lui sospirava e si girava, ogni movimento era una tortura, ogni contatto coi lenzuoli una carezza impudica, e più abominevole, nella sua immaginazione, di qualunque carezza avesse mai ricevuto. E strinse i pugni e cominciò a difendere la propria vita, a esorcizzare gli eserciti dell’Inferno, ma anche questo non serviva a niente, e alla fine cadde in ginocchio a pregare. Di lì a poco piombò in un sonno agitato - gli sembrava di stare per essere lapidato, e poi si trovava in mezzo a una battaglia, poi in acqua dopo un naufragio - e improvvisamente si svegliò, e capi di avere fatto un sogno perché aveva il ventre bagnato.

Allora, tremando, scese dal letto e andò a lavarsi, Era un avvertimento, e lo sapeva, e gli sembrò di vedere davanti a sé l’abisso scavato da Satana, profondo e silenzioso, in attesa.

Pensò al cane che torna al suo vomito, all’uomo che era stato purificato e era ricaduto nel peccato, e era stato preso da sette diavoli, e quest’ultimo stato era peggiore dello stato iniziale di semplice peccatore. E infine, inginocchiato sul freddo pavimento accanto al letto, ma troppo demoralizzato per pregare, pensò a Onan, che aveva disperso il suo seme sulla terra piuttosto che continuare la discendenza del fratello. Fuori dalla casa di David, il figlio di Abramo. E invocò ancora il nome di Gesù; e si addormentò di nuovo.

E sognò che stava in un posto freddo, e alto come una montagna. Era in alto, così in alto, così in alto che camminava nella nebbia e le nuvole, ma davanti a lui si stendeva, deserto, il ripido fianco della montagna. Una voce gli disse: Vieni più in alto”. E lui cominciò a salire. Dopo un po’, aggrappato a una roccia, si trovò ad avere solo nuvole sopra e nebbia sotto, e sapeva che oltre il muro di nebbia regnava il fuoco infernale. Cominciò a scivolare; sassi e pezzi di roccia rotolavano sotto i suoi piedi; guardò in alto, tremando, temendo di morire, e gridò: Signore, non posso venire più in alto”. Ma la voce ripeté dopo un momento, calma, forte e imperiosa:

“Su, figlio. Vieni più in alto”. Allora comprese che se non voleva cadere giù dove era la morte, doveva obbedire alla voce. Ricominciò ad arrampicarsi, e i suoi piedi tornarono a scivolare; e quando stava per cadere improvvisamente gli apparvero davanti delle foglie verdi e spinose; e si aggrappò alle foglie, che gli ferivano le mani, e la voce disse un’altra volta:

“Vieni più su”. E così Gabriel si arrampicava; il vento gli passava attraverso i vestiti, i piedi cominciavano a sanguinare, e le mani erano insanguinate; e continuava a salire, e si sentiva spezzare la schiena; e le gambe gli diventavano torpide e tremavano, e non gli ubbidivano più; e ancora davanti non ave va che nuvole e, sotto, la nebbia piena di rumori. Quanto tempo si era arrampicato in sogno, non lo sapeva. Ma poi, improvvisamente, le nuvole erano sparite, aveva sentito il sole come una corona di gloria, e si era trovato in un campo pieno di pace.

Cominciò a camminare, Ora era vestito di una lunga tunica bianca. Senti cantare: “Camminavo nella valle, era così bello, chiesi al mio Signore se tutto questo era mio”. Ma Gabriel sapeva che era suo. Una voce disse: “Seguimi”. E lui riprese a camminare, e di nuovo si trovò su una cima, ma immerso in un sole fulgido, benedicente e glorificante, ed era come Dio, tutto d’oro, e guardò giù, in basso, la lunga strada che aveva fatto, il fianco della montagna che aveva scalato.

E in cima a questa montagna, vestiti di bianco, cantando, arrivarono gli eletti. “Non toccarli,” disse la voce “il mio sigillo è su loro.” E Gabriel si volse e si buttò con la faccia a terra, e la voce disse ancora: “Così dovrà essere la tua discendenza”.

Allora si svegliò. Fuori era mattina, e Gabriel dal letto, col viso bagnato di lacrime, benedì Dio per questa visione.

Quando andò da Deborah a dirle che il Signore gli aveva comandato di chiederle di essere sua moglie, la sua compagna benedetta, essa lo guardò per un momento con una specie di terrore muto. Non aveva mai visto una simile espressione sul suo viso. Per la prima volta da quando la conosceva la toccò, mettendole le mani sulle spalle, pensando ai contatti privi di tenerezza che quelle spalle avevano avuto, e a come, ora, essa sarebbe stata onorata, E domando: “Non hai paura, vero, sorella Deborah? Non hai nessuna paura, vero?”

Deborah cercò di sorridere e cominciò, invece, a piangere.

Con un movimento violento e insieme esitante abbandonò la testa in avanti sul petto di Gabriel.

“No,” riuscì a dire, stretta dalle sue braccia, “non ho paura.” Ma non smise di piangere.

Gabriel carezzò la sua ruvida testa chinata. Dio ti benedica, bambina” disse piano. “Dio ti benedica,”

Il silenzio nella chiesa finì quando fratello Elisha, che stava in ginocchio vicino al pianoforte, mandò un grido e cadde all’indietro sotto l’influsso della potenza del Signore. Immediatamente, due o tre altri gridarono, e un colpo di vento, anticipo del grande diluvio che tutti attendevano, spazzò la chiesa. Con questo grido, e quelli che gli fecero eco, la funzione della sera passò dal suo primo stadio di calmi mormorii, interrotti da lamentazioni e, di tanto in tanto, da un grido isolato, a quello stadio di lacrime e di gemiti, di appelli a voce alta e di canti, che rassomigliava al travaglio di una donna che sta per mettere al mondo un bambino. Su questa «aia” il bambino era rappresentato dall’anima che lottava per la luce, e era la chiesa che era soggetta al travaglio, che non cessava di spingere e tirare, invocando il nome di Gesù. Quando fratello Elisha aveva gridato e era caduto indietro gridando, sorella McCandless si era alzata e si era chinata su di lui per aiutarlo a pregare. Perché il rinascere dell’anima era continuo; solo il rinascere in ogni istante poteva arrestare la mano di Satana.

Sorella Price cominciò a cantare:

“Voglio andare fino in fondo, Signore, Voglio andare fino in fondo. Accompagnami fino in fondo, Signore, Accompagnami fino in fondo”.

Alla sua voce solitaria altre se ne aggiunsero fra cui, esitante, quella di John. Gabriel la riconobbe. Quando Elisha aveva gridato, Gabriel era stato riportato di colpo alla realtà, e aveva creduto, con paura, che fosse stato John a gridare, e che fosse John a giacere per terra stordito, sotto l’influsso della potenza divina. Guardò in giro; e vide che invece era Elisha, e il suo timore sparì.

“Sia fatta la tua volontà, Signore, Sia fatta la tua volontà.”

Nessuno dei suoi figli era lì quella sera, nessuno aveva gridato sull” aia”. Uno era morto da quasi quattordici anni - morto in un bar di Chicago, con un coltello in gola. E il figlio vivente, il ragazzo, Roy, era già uno sregolato senza cuore: che ora stava a letto a casa, senza parlare, pieno di rancore verso suo padre, con una benda sulla fronte. Essi non erano qui. Solo il figlio bastardo occupava il posto dove avrebbero dovuto stare i figli legittimi.

“Obbedirò, Signore, Obbedirò.”

Sentì che doveva alzarsi e pregare per Elisha: quando un uomo gridava, era giusto che fosse un altro uomo a intercedere per lui. E pensò come si sarebbe alzato contento, e con che forza avrebbe pregato se quella sera ci fosse stato suo figlio a giacere gridando sul pavimento. Ma rimase prosternato. Ogni grido che gli arrivava da Elisha lo sconvolgeva. Sentiva il grido del figlio morto e del figlio vivo: uno che gridava dall’Inferno, dove sarebbe stato per sempre, senza speranza di misericordia; e uno che avrebbe gridato quando per la misericordia sarebbe stato troppo tardi.

Ora Gabriel cercava, con la testimonianza che aveva ricevuto, con tutti i segni del Suo favore che Dio gli aveva mostrato, di interporsi fra il figlio vivente e l’oscurità che lo aspettava per divorarlo. Suo figlio vivente l’aveva maledetto - bastardo - e il suo cuore era lontano da Dio; la maledizione che quella sera aveva sentito uscire dalla bocca di Roy non poteva essere che la ripetizione di quella, così lontana oramai e che aveva risuonato per tanto tempo nel suo cuore, che la madre del suo primo figlio aveva pronunciato respingendo da sé il neonato, e subito avviandosi verso l’eternità, con questa maledizione ancora sulle labbra. La sua maledizione aveva causato la rovina dei primo Royal; era stato concepito nel peccato, e era morto nel peccato; era la punizione di Dio, e era giusto. Ma Roy era stato concepito nel letto coniugale, quel letto che Paolo descrive come santo, e a lui il Regno dei Cieli era stato promesso. Non era possibile che il figlio vivente fosse maledetto per i peccati di suo padre; perché Dio, dopo tanto gemere, per tanti anni, gli aveva dato un segno per fargli capire che era perdonato. E inoltre gli venne in mente che quel figlio vivente, quello sregolato, vivente Royal, poteva essere maledetto per il peccato di sua madre, che di quel peccato non si era mai veramente pentita; perché la vivente prova del suo peccato, il figlio che quella sera era inginocchiato lì in chiesa, un intruso fra i “santi”, si poneva fra la sua anima e Dio.

Sì, era dura, ostinata, difficile da piegare questa Elizabeth che lui si era sposata; non sembrava così quando, anni prima, il Signore aveva indotto il suo cuore a rialzarla, lei e il suo figlio senza nome, che ora portava il suo nome. E che era esattamente come lei, taciturno, sospettoso, pieno di malvagio orgoglio, tutti e due sarebbero stati gettati, un giorno, nella più profonda oscurità.

Una volta aveva chiesto a Elizabeth - erano sposati da un pezzo, Roy era un bambino e lei era incinta di Sarah - se era veramente pentita del suo peccato.

E lei lo aveva guardato e aveva detto: “Me lo hai già do mandato un’altra volta. E ti ho risposto: ‘Sì’.”

Ma non le credette: “Vuoi dire che non lo rifaresti un’altra volta? Se tornassi indietro dove stavi, come eri allora, lo rifaresti ancora?”

Elizabeth guardò in basso; poi, con impazienza, tornò a fissarlo negli occhi: “Be’, se tornassi indietro, Gabriel, e fossi la stessa ragazza di prima!…”

Ci fu un lungo silenzio. Poi, quasi involontariamente, Gabriel domandò: “E… lo lasceresti nascere come allora?”

Con fermezza Elizabeth rispose: “So che non mi chiedi di dire che mi dispiace di aver messo al mondo Johnny. Non è così?” E siccome lui non rispondeva: “Senti, Gabriel. Tu non riuscirai mai a farmi provare dispiacere per questo. Né tu, ne niente, ne nessuno al mondo. Noi abbiamo due figli, Gabriel, e presto ne avremo tre; e io non farò nessuna differenza fra loro, e tu neanche”.

Ma come poteva non esserci differenza tra il figlio di una donna debole e orgogliosa e di un ragazzo senza testa, e il figlio che Dio gli aveva promesso, che avrebbe continuato la felice discendenza del nome di suo padre, e che avrebbe dato la sua opera fino al giorno della seconda venuta di Cristo per stabilire sulla terra il Regno di Suo Padre? Perché Dio gli aveva promesso questo molti anni prima, e lui aveva vissuto solo per questo, abbandonando il mondo e i suoi piaceri, e le gioie della sua vita, e aveva aspettato per tutti quegli anni amari di vedere compiersi la promessa del Signore. Aveva lasciato morire Esther, e Royal era morto, e Deborah era morta sterile, ma aveva continuato a credere nella promessa; si era sinceramente pentito di fronte a Dio e aspettava che la promessa si compisse. E quel momento era di sicuro vicino. Doveva solo essere paziente e aspettare la volontà di Dio.

E la sua mente, dopo aver indugiato amaramente su Elizabeth, tornò indietro nel tempo, ripensando ancora una volta a Esther, che era stata la madre del primo Royal, E la vide, ripreso dai muti, pallidi, allarmati fantasmi della gioia e del desiderio di una volta, ragazzina sottile, piena di vita, con occhi scuri, con qualcosa di indio negli zigomi, nel portamento, e nei capelli; nel cui sguardo si mescolavano derisione, affetto, desiderio, impazienza, e disprezzo; vestita di colori di fuoco che in realtà portava raramente, ma che sempre Gabriel le vedeva addosso quando pensava a lei. Nella sua mente Esther era associata all’idea del fuoco: alle infuocate foglie dell’autunno, al sole ardente che tramontava dietro le più lontane colline, al fuoco eterno dell’inferno.

Era arrivata in città poco dopo che lui e Deborah si erano sposati, e aveva trovato lavoro come donna di servizio nella stessa famiglia di bianchi dove lavorava lui. E perciò la vedeva sempre. C’erano sempre dei ragazzi che la aspettavano alla porta di servizio, quando finiva di lavorare: Gabriel, di solito, la vedeva andarsene via nel crepuscolo al braccio di qualche ragazzo, e le loro voci, il loro ridere gli arrivavano come uno scherno alla sua condizione. Sapeva che viveva con la madre e il patrigno, peccatori dediti al bere, al gioco, alla musica sincopata e ai blues, che mai, salvo a Natale o a Pasqua, si facevano vedere in chiesa.

Cominciò a sentire pietà per lei, e un giorno che la sera doveva predicare, la invitò a venire in chiesa. In questa occasione essa, per la prima volta, lo guardò veramente, e Gabriel se ne accorse allora, e avrebbe ricordato quello sguardo per molti giorni e molte notti.

“Davvero predicate stasera? Un bell’uomo come voi?”

“Con l’aiuto di Dio” disse, con una gravità così estrema che rasentava l’ostilità. E in quello stesso momento la vista di lei e la sua voce accesero in lui qualcosa che aveva creduto spento per sempre.

“Be’, mi farebbe molto piacere” disse Esther dopo una pausa, come se per un momento si fosse pentita dello slancio che l’aveva portata a chiamarlo un bell'uomo.

“Potrete venire stasera?” non pote fare a meno di chiederle.

E lei aveva sorriso, per il piacere di quello che aveva preso per un complimento indiretto. Non so, Reverendo. Ma farò il possibile.”

Alla fine della giornata era sparita al braccio di un altro ragazzo. Non credeva che sarebbe venuta. E questo lo deprimeva in modo così strano che faticò a scambiare due parole con Deborah durante la cena, e fecero poi in silenzio tutta la strada fino alla chiesa. Deborah lo osservava con la coda dell’occhio, in un silenzio esasperante, come era sua abitudine.

Era il suo modo dì manifestare rispetto per la sua vocazione; e gli avrebbe detto, se per caso le avesse fatto un appunto per questo, che non voleva distrarlo mentre il Signore parlava al suo cuore. Quella sera, poiché Gabriel doveva predicare, il Signore parlava sicuramente più del solito; e perciò era giusto che lei, come compagna dell’unto del Signore, come custode, per così dire, del tempio consacrato, serbasse il silenzio. Per quanto, in realtà, a lui sarebbe piaciuto parlare. Gli sarebbe piaciuto domandarle tante cose; ascoltare la sua voce, e osservare la sua faccia mentre lei gli parlava della sua giornata, delle sue speranze, dei suoi dubbi, della sua vita, e del suo amore. Ma lui e Deborah non si parlavano mai. La voce che ascoltava dentro di sé, il viso che guardava con tanto amore e attenzione, non erano di Deborah, ma di Esther. Di nuovo sentì quello strano brivido, promessa di disastri e delizie; e sperò che non sarebbe venuta, che sarebbe avvenuto qualcosa che gli avrebbe impedito per sempre di rivederla.

Invece venne; tardi, appena prima che il Pastore presentasse l’oratore del giorno ai fedeli. Non era sola, aveva portato con sé la madre, promettendole uno spettacolo che Gabriel non poteva immaginare, come non poteva immaginare in che modo si era liberata del ragazzo che la accompagnava prima. Ma lo aveva fatto; era lì; preferiva, dunque, sentir lui predicare il vangelo che indugiare con altri in delizie carnali. Essa era lì, e Gabriel si sentiva sollevato; qualcosa gli era scoppiata in cuore quando la porta, aprendosi, aveva rivelato Esther, che con un leggero sorriso e a occhi bassi era andata direttamente a sedersi in fondo alla chiesa. Non lo aveva guardato, eppure capì immediatamente che lo aveva visto.

E subito immaginò lei in ginocchio davanti all’altare, per effetto del sermone che avrebbe pronunciato, e poi sua madre e quel giocatore e becero del suo patrigno, trascinati da Esther al servizio del Signore. Delle teste si erano voltate alla loro entrata, e un mormorio, appena percettibile, di sorpresa e di compiacimento aveva percorso la chiesa. C’erano due peccatrici venute a sentire la Parola di Dio.

E, in verità, la loro vita peccaminosa risultava evidente dal loro abbigliamento: Esther portava un cappellino blu, ornato di molti nastri, e un vestito pesante color rosso vino; e la madre, massiccia e più scura di Esther, aveva dei grandi orecchini d’oro che le trapassavano le orecchie e l’aria vagamente sconveniente e di eleganza frettolosa delle donne che ave va conosciuto nei bordelli. Sedevano nel fondo, rigide e a disagio, come sorelle peccatrici, come una sfida vivente alla grigia santità dei santi”. Deborah si voltò a guardarle, e in quel momento Gabriel vide, come per la prima volta, quanto era nera e ossuta sua moglie, e come affatto indesiderabile.

Deborah lo guardò in silenzio, attenta; e Gabriel senti che la mano che teneva la Bibbia cominciava a sudare e a tremare; pensò ai sospiri senza gioia del loro letto coniugale; e la odiò. Il Pastore si era alzato. Mentre parlava, Gabriel chiuse gli occhi. Le parole che doveva pronunciare di lì a poco gli volavano via dalla testa; la potenza di Dio lo abbandonava. Poi la voce del Pastore tacque, e Gabriel aprì i suoi occhi nel silenzio e vide che gli occhi di tutti erano su di lui. E allora si alzò e affrontò i fedeli.

Miei amati fratelli in Cristo,” cominciò - gli occhi di Esther Io fissavano, quella luce strana, deridente - chiniamo la resta in preghiera.” E chiuse gli occhi e chinò la testa.

In seguito il ricordo di questo sermone era diventato come il ricordo di una bufera. Dal momento in cui aveva alzato la testa e aveva guardato di nuovo le loro facce, la lingua gli si era sciolta e si era sentito pieno della potenza dello Spirito Santo. Sì, la potenza del Signore era in lui quella sera, e il suo sermone fu ricordato nelle riunioni e nelle case, e costituì un modello per gli evangelisti di un’intera generazione. Dopo anni, quando Esther e Royal e Deborah erano ormai morti e Gabriel aveva abbandonato il Sud, la gente ricordava ancora quel sermone e il magro, esaltato giovane che l’aveva pronunciato.

Prese l’argomento dal diciottesimo capitolo del secondo libro di Samuele, la storia del giovane Ahimaaz che era corso troppo in fretta a portare le notizie della battaglia a re David.

Perché, prima che corresse via, Joab gli aveva domandato:

“Dove vuoi correre, figlio mio, se non hai notizie precise?”

E quando Ahimaaz fu davanti a re David ansioso di conoscere la sorte del suo temerario figlio Absalom, poté dire soltanto:

“Ho visto un gran tumulto, ma non so che cosa era”.

E questa e la storia di tutti quelli che trascurano di seguire il consiglio del Signore; che hanno la presunzione di considerarsi sapienti e corrono prima di avere notizie precise. E la storia di innumerevoli pastori che trascurano, nella loro arroganza, di nutrire le pecore affamate; di tanti padri e madri che danno ai loro figli non pane ma sassi, che non offrono la verità di Dio ma l'orpello di questo mondo. Questa non è fede ma incredulità, non umiltà ma orgoglio: in questi cuori regna lo stesso desiderio che ha precipitato Lucifero dal Cielo nelle profondità dell’inferno, il desiderio di capovolgere i tempi stabiliti da Dio, il desiderio di strappare dalle mani di Lui, che detiene tutto il potere, un potere che non è fatto per l’uomo.

Oh, si, avevano ben visto questo, i Fratelli e le Sorelle che quella sera erano colpiti dal suono della sua voce, e avevano visto la rovina causata da una così deplorevole immaturità!

Bambini senza padre, piangenti per avere un pezzo di pane, ragazze abbandonate sulla strada, minate dal peccato, e giovani sanguinanti nei campi gelati. Sì, e c’erano quelli che gridavano - e li avevano certo sentiti nella loro casa, all’angolo della strada, e perfino sul pulpito - che era ora di smettere di aspettare, disprezzati e reietti e coperti di sputi come erano, e che dovevano sollevarsi subito e abbattere i potenti, compiendo la vendetta annunciata da Dio. Ma il sangue chiama sangue, come grida il sangue di Abele da sottoterra. Non per niente Sta scritto: “Colui che crede non deve affrettarsi”, Ma qualche volta la strada è sassosa, E credono per questo che Dio dimentichi? Oh, buttatevi in ginocchio e pregate Dio di darvi la pazienza; buttatevi in ginocchio e pregate Dio di dar vi la fede; buttatevi in ginocchio e pregate Dio di darvi la potenza trionfante per essere pronti, il giorno imminente in cui Lui apparirà, a ricevere il premio della vostra vita. Perché Dio non dimentica, nessuna parola che esce dalla sua bocca può deludere, Meglio attendere, come Giobbe, per tutti i giorni del tempo stabilito, che arrivi l’ora in cui cambierà il nostro stato che sollevarsi, senza essere pronti, prima che Dio parli.

Perché se noi attenderemo umili di fronte a Lui, Egli darà buone novelle alla nostra anima; se noi sapremo attendere, quell’ora verrà, e verrà in un attimo, in un batter d’occhi - noi passeremo, un giorno, da questo stato di corruzione a una incorruttibilità eterna, assunti con Lui al disopra delle nuvole. E queste sono le novelle che dobbiamo portare a tutte le nazioni: un altro figlio di David si è impiccato a un albero, e colui che non conosce il significato di quel tumulto sarà condannato per sempre all’inferno! Fratelli, sorelle, voi potete ben correre, ma verrà il giorno in cui il Re vi domanderà:

“Che notizie portate?” E cosa direte in quel gran giorno se non sapete della morte di Suo Figlio?

“C’è qui, stasera, un’anima” aveva il viso coperto di lacrime e tendeva sopra i fedeli le braccia aperte “che non conosce il significato di questo tumulto? C’è un’anima qui, stasera, che vuole parlare con Gesù? Chi vuole aspettare davanti al Signore, amen, finché Egli parli? Finché Egli faccia risuonare nella sua anima, amen, la buona novella della salvezza? Oh, fratelli e sorelle” ma lei ancora non si alzava; solo lo guarda va da molto lontano «il tempo vola. Un giorno Egli tornerà per giudicare le nazioni, per prendere i Sudi figli, alleluia, e condurli alla loro pace. ti stato detto, benedetto sia il Signore, che due staranno lavorando nei campi, e uno sarà preso e l’altro sarà lasciato. Due giaceranno, amen, in letto, e uno sarà preso e l’altro lasciato. Egli arriverà come un ladro nella notte, e nessuno saprà l’ora del suo arrivo. Sarà troppo tardi, allora, per gridare: ‘Signore, abbi pietà’. Ora è il momento di prepararsi, ora, amen, stasera, davanti al Suo altare. C’è qualcuno che vuol venire, stasera? C’è qualcuno che vuoi dire no a Satana e dare la sua vita al Signore?”

Ma essa non si alzò, lo guardò soltanto e si guardò intorno con un vivo, compiaciuto interesse, come se si trovasse in un teatro e stesse aspettando di vedere quali inverosimili delizie le sarebbero ancora state offerte. Comprese che mai si sarebbe alzata per camminare fino al lontano trono della misericordia. E questo lo riempì per un momento di santo furore: che se ne stesse, così spudorata, in mezzo alla congregazione dei giusti e rifiutasse di abbassare la testa.

Disse amen, li benedisse, e lasciò il pulpito, e subito i fede li cominciarono a cantare. Di nuovo, ora, si sentiva esausto e malato; era inzuppato di sudore e sentiva l’odore dei suo corpo. Deborah, seduta in prima fila, cantava e batteva sul tamburello, e lo guardava. Si senti improvvisamente come un bambino abbandonato, Avrebbe voluto nascondersi per sempre e non smettere più di piangere.

Esther e sua madre se ne andarono durante il canto; dunque erano venute solo per sentirlo predicare. Non poteva immaginare cosa potevano dire o pensare in quel momento. E pensò al giorno dopo, quando avrebbe dovuto rivederla.

“Non è la ragazzina che lavora nello stesso posto con te?” gli domandò Deborah tornando a casa.

Sì” rispose. Ora non aveva voglia di parlare. Voleva arrivare a casa, levarsi i vestiti bagnati e dormire.

“Molto graziosa” disse Deborah, “Non l’ho mai vista in chiesa prima.”

Gabriel non disse niente.

“Sei tu che l’hai invitata a venire stasera?” domandò Deborah, dopo un momento.

“Sì” disse, “Ho pensato che la Parola di Dio non poteva che farle del bene.”

Deborah rise. “Non si direbbe. ti uscita sfacciata e peccatrice come quando è entrata, lei e quella sua madre. E tu hai pronunciato un sermone molto bello. Sembra proprio che non pensi al Signore.”

“Non hanno tempo per il Signore” disse. “Un giorno Lui non avrà tempo per loro.”

Quando furono a casa Deborah si offrì di fargli una tazza di tè bollente, ma Gabriel rifiutò. Si spogliò in silenzio - silenzio da lei rispettato - e andò a letto. E infine lei si stese al suo fianco, come un fardello che si depone la sera e di cui bisogna ricaricarsi ancora una volta al mattino, La mattina dopo Esther gli disse, entrando nel cortile dove lui stava spaccando la legna: “Buon giorno, Reverendo. Non pensavo di vedervi, oggi. Vi credevo morto di fatica dopo quel sermone. Predicate sempre così forte?”

Gabriel restò un attimo immobile, con la scure levata in aria; poi si giro, lasciandola ricadere. Predico come Dio mi comanda, Sorella” disse.

Essa indietreggio un po’, di fronte alla sua ostilità. In ogni modo,” disse cambiando tono di voce è stato un sermone molto bello. lo e la mia mamma siamo state molto contente di essere venute.”

Lasciò la scure piantata nel legno, perché volavano delle schegge e aveva paura che una potesse colpirla. «Voi e la vostra mamma non andate molto spesso in chiesa.”

“Oh Dio, Reverendo,” lamentò Esther «sembra che ci manca proprio il tempo. La mamma lavora cosi forte tutta la settimana che la domenica vuole solo starsene a letto. E ha piacere” aggiunse rapida, dopo una pausa, “che le tenga compagnia.”

La guardò negli occhi. “Volete dire sul serio, Sorella, che non avete tempo per Dio? Neanche un minuto”

“Reverendo,” Esther Io fissava con la intrepida spavalderia di una bambina minacciata io faccio il possibile. Veramente. Non possiamo avere tutti la stessa forza.”

Gabriel rise. “C’e una sola forza che dobbiamo avere: la forza del Signore.”

“Allora,” disse Esther “mi sembra che questa forza non lavori nello stesso modo in ognuno.”

Restarono in silenzio, coscienti di essere entrati in un vicolo cieco. Dopo un momento Gabriel si volse e prese di nuovo la scure. “Andate, Sorella. Io prego per voi.”

Qualcosa si agitò sul viso di Esther, mentre stava ancora un momento a guardarlo, un misto di furore e divertimento; gli ricordo un’espressione che aveva visto spesso sul viso di Florence; e le facce degli “anziani” durante quel lontano e così importante pranzo domenicale. Era troppo arrabbiato, mentre lei lo guardava in quel modo, per arrischiarsi a parlare.

Allora Esther alzò le spalle. il più dolce gesto di indifferenza che Gabriel avesse mai visto, e sorrise. «Vi ringrazio molto, Reverendo” disse. E entrò in casa.

Questa fu la prima volta che si parlarono nella corte, una gelida mattina. Niente, allora, lo averti di quello che stava per succedere. Lei lo ferì, con la sua sfrontatezza nel peccato, era tutto qui; e lui pregava per la sua anima, che un giorno si sarebbe trovata, nuda e senza parola, davanti al tribunale di Cristo. Dopo, lei gli aveva raccontato che lui l'aveva perseguitata, che i suoi occhi non la avevano lasciata in pace un minuto. “Non era uno sguardo da Reverendo che mi stava dietro quella mattina nel cortile” aveva detto. “Erano proprio occhi da uomo, da uomo che non ha mai sentito parlare dello Spirito Santo.”

Ma Gabriel credeva che Dio la avesse posata come un fardello sul suo cuore. E la portava nel cuore; e pregava per lei e la esortava, finché aveva ancora tempo, di portare la sua anima a Dio. Ma lei non pensava a Dio; per quanto accusasse Gabriel di desiderarla dentro di se, era lei che, quando lo guardava, vedeva sempre in lui non il ministro di Dio ma il «bell’uomo”. Sulle sue labbra perfino il titolo della sua professione suonava come una mancanza di rispetto.

Cominciò una sera che lui doveva predicare, ed erano soli nella casa. I padroni erano partiti per tre giorni, per visitare dei parenti; Gabriel li aveva portati alla stazione dopo cena, la sciando Esther a metter in ordine la cucina. Quando era tornato per chiudere la casa, aveva trovato Esther che lo aspettava sugli scalini del portico.

“Ho pensato che era meglio aspettarvi prima di andar via.

Non ho le chiavi della casa, e i bianchi sono così strambi. Non voglio storie se poi manca qualcosa.”

Si accorse subito che aveva bevuto, non era ubriaca, ma nel suo fiato c’era odore di whisky. E questo, non si sa come, lo eccitò in modo strano.

“Molto bene, Sorella” disse, guardandola fissa per farle capire che si era accorto che aveva bevuto. Essa rispose al suo sguardo con un sorriso calmo e ardito, una irridente innocenza che portò sul suo viso l’astuzia esperta di una donna.

La seguì in casa; poi, senza pensarci, e senza guardarla, disse: “Se non avete nessuno che vi aspetta vi accompagnerò un pezzo verso casa”.

No,” disse non c’e nessuno che mi aspetta stasera, Reverendo, grazie.”

Si pentì della proposta appena gli fu uscita di bocca; era certo che sarebbe corsa a qualche appuntamento e aveva solo voluto una conferma. Ora, mentre entrava con lei nella casa, la consapevolezza della sua gioventù, della sua vitalità, della sua immoralità lo colpì con violenza; e nello stesso tempo il vuoto e il silenzio della casa lo avvertirono che era solo e in pericolo.

Andate a sedervi in cucina” disse. “Io farò più presto che Le sue parole suonarono rauche nelle sue orecchie, e non riuscì a guardarla negli occhi. Essa andò a sedersi alla tavola, sorridente, ad aspettarlo.

Cercò di fare in fretta a chiudere finestre e porte, ma le sue dita erano irrigidite e sdrucciolevoli; aveva il cuore in gola. E gli venne da pensare che stava chiudendo tutte le uscite della casa, tranne quella attraverso la cucina, dove era Esther.

Quando rientrò in cucina Esther aveva cambiato posto, e ora stava in piedi sulla porta d’entrata, guardando fuori, con un bicchiere in mano. Ci volle un momento perché si rendesse conto che si era versata un altro bicchiere del whisky.

Si girò sentendo i suoi passi, e Gabriel fissò lei e il bicchiere che aveva in mano con indignazione e orrore.

“Ho pensato” disse, per niente imbarazzata, di prenderne un goccetto mentre aspettavo, Reverendo. Ma non pensavo che mi avreste presa sul fatto.”

Buttò giù l’ultimo sorso e andò all’acquaio a sciacquare il bicchiere, Ma mentre beveva aveva tossito delicatamente, come una signora, e lui non aveva capito bene se era una vera tosse o se lo aveva fatto per prenderlo in giro.

«Vedo,” disse malevolo “che avete deciso proprio di servire Satana tutti i santi giorni.”

«Ho deciso di prendere tutto quello che posso dalla vita, finché posso farlo. Se questo è peccato, bene, andrò giù all’inferno e pagherò il mio conto. Ma non preoccupatevi voi, Reverendo, non si tratta della vostra anima,”

Gabriel andò a mettersi di fronte a lei, pieno di rabbia.

«Sentite,” disse “non credete in Dio, voi? Dio non mente e Lui dice, esattamente come io dico a voi, che l’anima che ha peccato deve morire.”

Essa sospirò.

Mi sembra che dovreste stancarvi a continuare a battere tutto il tempo sulla povera Estherina, cercando di farne qualcosa che lei non potrà mai essere. Non me la sento proprio, qui” disse, e si mise una mano sul petto. Che ci volete fare?

Non sapete che sono una donna, e che non ho idea di cambiare?”

Avrebbe voluto piangere. Avrebbe voluto tenerla indietro dalla perdizione da lei così ardentemente ricercata, stringerla fra le braccia, nasconderla finché la collera del Signore fosse passata. Di nuovo gli arrivò il suo alito carico di whisky, e sotto, leggero, intimo, l’odore del suo corpo. E cominciò a sentir si come in un incubo, quando uno si trova sulla strada di una valanga che sta precipitando, e vorrebbe scappare, e non si può muovere. “Gesù Gesù Gesù” la sua voce gli risuonava in testa continuamente, come una campana, mentre si avvicinava sempre più a lei, sopraffatto dal suo alito, dai suoi grandi occhi, rabbiosi e irridenti.

Sapete bene,” mormorò, tremando per l’agitazione, “sapete bene perché mi occupo di voi, perché mi occupo di voi come faccio.”

“No, non lo so “rispose, rifiutando, con una piccola scossa della testa, di prendere sul serio l’intensità della sua agitazione, «Non capisco perché non volete lasciare a Esther il suo piccolo whisky e i suoi piccoli capricci senza cercare ogni volta di renderla infelice.”

Gabriel sospirò esasperato, sentendo che cominciava a tremare, “perché non voglio vedervi scendere in basso” disse. Non voglio che un bel giorno vi svegliate addolorata per tutti i vostri peccati, vecchia, sola, senza il rispetto di nessuno.”

Si ascoltava parlare, e questo lo faceva vergognare. Voleva farla finita coi discorsi e lasciare quella casa; fra un istante sarebbero usciti, e l’incubo sarebbe finito.

«Reverendo,” disse Esther «non ho fatto mai niente e spero di non fare mai niente di cui possa vergognarmi.”

Sentendole dire Reverendo”, ebbe voglia di picchiarla; invece le si avvicinò e prese le sue mani nelle sue. E ora che si guardavano negli occhi vide nel suo sguardo un’espressione di sorpresa e di guardingo trionfo; senti che i loro corpi stavano per toccarsi e che doveva andarsene. Ma non si mosse, non poteva muoversi.

“Ma questo sarà difficile,” disse dopo un momento Esther, stuzzicandolo maliziosamente, “se fate delle cose di cui voi dovreste vergognarvi.”

Si aggrappò alle sue mani come se fosse in mezzo al mare e quelle mani fossero un salvagente. “Gesù Gesù Gesù,” pregò “oh, Gesù Gesù. Aiutami a resistere.” Credette di respingere quelle mani, ma le stava tirando a sé. E vide nei suoi occhi un’espressione che non vedeva più da moltissimo tempo, una espressione che non c’era mai negli occhi di Deborah.

“Sì, voi lo sapete,” disse «perché mi tormento sempre per voi, perché sono cosi disperato quando vi vedo.”

“Ma non mi avete mai detto niente di questo” disse Esther.

La mano di Gabriel raggiunse la vita di lei, indugiandovi.

Le punte dei suoi seni gli sfiorarono la giacca, brucianti come un acido, soffocandolo. Presto sarebbe stato troppo tardi; ma desiderava che fosse troppo tardi. Il suo desiderio si gonfiò come un fiume, e lo sommerse, travolgendolo, gettandolo in avanti come il corpo di un annegato.

“Tu lo sai” mormorò, e toccò il suo seno e seppellì la faccia contro il suo collo.

Cosi era caduto: per la prima volta dopo la sua conversione, per l’ultima nella sua vita. Caduto lui e Esther nella cucina dei bianchi, con la luce accesa, la porta mezza aperta, avvinghiati e brucianti vicino all'acquaio. Veramente caduto: il tempo non esisteva più, e il peccato, la morte, l’Inferno, il Giudizio finale erano cancellati. C'era solo Esther, che racchiudeva nel suo sottile corpo tutto il mistero e tutta la passione, e soddisfaceva completamente il suo desiderio. Il tempo, snodandosi veloce, gli aveva fatto dimenticare la goffaggine e il sudore e la sporcizia del loro primo accoppiamento; come le sue mani tremanti l’avevano spogliata, in piedi dove stavano, come il vestito era finalmente caduto come una trappola intorno ai suoi piedi; come le aveva strappato con violenza gli ultimi indumenti per poter arrivare alla sua carne nuda; come essa aveva protestato: “No qui, no qui”; come si era preoccupato, in chissà quale angolo nascosto della sua mente, per la porta aperta, per il sermone che doveva pronunciare, per la sua vita, per Deborah; come si erano trovati contro il tavolo, come il suo colletto, finché le mani di lei non lo avevano slacciato, lo aveva quasi strozzato, come finalmente si erano ritrovati sul pavimento, sudati e gementi e abbracciati insieme; lontani da tutti gli altri, da ogni soccorso umano o divino, Soltanto fra loro potevano aiutarsi. Erano soli al mondo.

Royal, suo figlio, era stato concepito quella notte? O la notte seguente? O l’altra ancora? Tutto non era durato che nove giorni. Poi Gabriel era tornato in se; dopo nove giorni Dio gli aveva dato la forza di dirle che questo non poteva durare.

Essa accolse la sua decisione con la stessa indifferenza, un po’ divertita, quasi, con cui aveva accolto la sua caduta. Durante quei nove giorni Gabriel capi che Esther considerava le sue paure e i suoi tremori delle fantasie infantili, un modo di rendere la vita più complicata del bisogno. Per lei la vita non era cosi; voleva che fosse una cosa semplice. Comprese che lo compiangeva per tutte le sue preoccupazioni. Qualche volta, mentre stavano insieme, cercava di dirle ciò di cui era con vinto, e cioè che il Signore li avrebbe puniti per il peccato che stavano commettendo. Lei non lo voleva sentire: “Non sei sul pulpito, ora. Sei qui con me. Anche un Reverendo ha il diritto ‘ di togliersi qualche volta il suo abito e di fare quello che fanno tutti”. Quando le disse che non l’avrebbe più rivista, si arrabbiò, ma non fece discussioni. I suoi occhi gli dissero che pensava che fosse un po’ matto; ma discutere la sua decisione, anche se lo avesse amato disperatamente, le sarebbe stato impossibile, la sua mancanza di complicazioni derivava soprattutto dalla ferma volontà di non desiderare cose che non avrebbe potuto ottenere facilmente.

Così, era finita. Per quanto fosse rimasto scosso e spaventato, per quanto avesse perso per sempre il rispetto di Esther (pregava che non venisse mai più a sentirlo predicare), ringraziava Dio che non era andata ancora peggio. Pregava Dio di perdonano, e di non lasciarlo più ricadere nel peccato.

Ma quello che lo impauriva di più, e lo teneva più che mai in ginocchio a pregare, era il pensiero che, essendo caduto una volta, niente era più facile che tornare a cadere. Il possesso di Esther aveva risvegliato la sua carne e gli faceva vedere possibilità di conquista ovunque. Fu costretto a ricordare che, per quanto fosse consacrato, era pure giovane; le donne che Io avevano desiderato lo desideravano ancora; aveva solo da stendere la mano e prendere quella che voleva, anche fra le Sorelle della chiesa. Lottò per esaurire le sue visioni nel letto coniugale, lottò per svegliare Deborah, per la quale ogni giorno cresceva il suo odio.

Con Esther parlò un’altra volta nel cortile, all’inizio della primavera, Il terreno era ancora bagnato di neve e ghiaccio sciolti; c’era sole dappertutto; i nudi rami degli alberi sembravano alzarsi verso il pallido sole, impazienti di buttar fuori foglie e fiori. Stava al pozzo, in maniche di camicia, cantando sottovoce per se stesso, lodando Dio per i pericoli ai quali era scampato. Essa scese in cortile dalla scala del portico e Gabriel, per quanto sentisse i suoi passi leggeri, e sapesse che era lei, lasciò passare un momento prima di voltarsi.

Pensava che venisse a chiedere il suo aiuto per qualcosa che stava facendo in casa. Ma siccome non parlava, si era voltato, Aveva un leggero vestito di cotone, a quadretti marroni chiari e scuri, e portava i capelli strettamente intrecciati intorno alla testa. Sembrava una bambina, e Gabriel quasi sorrise. “Che c’è?” le domandò; e si sentì serrare il cuore.

“Gabriel,” disse Esther “devo avere un bambino.”

Egli la fissò; e lei cominciò a piangere, Gabriel posò con cura per terra i due secchi d’acqua. Esther tese le mani verso di lui, ma lui si scostò.

“Smetti di piagnucolare. Di cosa Stai parlando?”

Ma, avendo ormai cominciato a piangere, non poteva interrompersi di colpo. E continuò, oscillando un po’ sulle gambe, e tenendo le mani sul viso.

Gabriel diede uno sguardo impaurito al cortile e alla casa. “Smettila,” gridò di nuovo, non osando toccarla, li dove sta vano, “e dimmi cosa c’è!”

“Te l’ho detto” gemette. “Te l’ho detto. Devo avere un bambino.” Lo guardò; aveva il viso disfatto, bagnato di lacrime brucianti. “Com’è vero Dio. Non sto inventando storie.”

Non poteva staccare gli occhi da lei, per quanto odiasse quello che vedeva. “E quando te ne sei accorta?”

“Non da molto. Pensavo di sbagliarmi. Ma non c’è sbaglio. Che facciamo, Gabriel?”

E, mentre lo guardava in faccia, le lacrime ricominciarono.

“Zitta,” disse con una calma che lo stupì “faremo qualcosa, solo stai calma.”

“Che facciamo, Gabriel? Dimmi, cosa hai pensato di fare?”

“Tu torna in casa. Non si può parlare ora.”

“Gabriel.,,”

Vai in casa, su. Vai.” E poiché essa continuava a fissarlo senza muoversi: “Ne parliamo stasera, Risolveremo questa cosa stasera! “ Esther si scostò da lui e si avviò verso i gradini del portico, “E asciugati in faccia” le sussurrò Gabriel. Essa si chinò, sollevando il vestito per asciugarsi gli occhi, e resto così per un momento sull’ultimo gradino mentre lui la osservava, Poi si drizzò ed entrò in casa senza voltarsi.

Esther avrebbe avuto un bambino da lui, un suo bambino?

Mentre Deborah, malgrado i loro gemiti, malgrado l’umiltà con la quale sopportava il suo corpo non era riuscita a essere rianimata da una nuova creatura. Era nel ventre di Esther, che non era meglio di quello di una puttana, che il seme del profeta sarebbe stato nutrito.

E si allontanò dal pozzo, sollevando, come se fosse stato in trance, i pesanti secchi di acqua. Si avviò verso la casa, che ora - alta, splendente tetto, e lucenti finestre - sembrava tenerlo d’occhio e ascoltare; persino il sole, sulla sua testa, e la terra, sotto i suoi piedi, avevano smesso di ruotare; l’acqua, come una voce ammonitrice, gemeva nei secchi; e sua madre, da sotto la trasalente terra su cui stava camminando, levava in alto, eternamente, gli occhi.

Parlarono in cucina mentre Esther faceva pulizia.

Come fai a essere così sicura” fu la prima domanda «che è mio figlio?”

Ora non piangeva più. “Non cominciare a parlare in questa maniera” disse. «La Esther non è abituata di mentire a nessuno, e non sono andata con tanti uomini che mi faccia in testa della confusione.”

Era molto fredda e decisa, e si muoveva per la cucina concentrata furiosamente sul suo lavoro, guardandolo appena.

Gabriel non sapeva cosa dire, come arrivare a lei.

L hai già detto a tua madre? disse dopo una pausa. Sei stata a vedere un dottore? Come fai a essere così sicura?”

Gli gettò un’occhiata tagliente. “No, non ho detto niente a mia madre, non sono mica pazza. Non l’ho detto a nessuno tranne che a te.”

“Come fai a essere così sicura,” ripeté «se non hai visto un dottore?”

«Da che dottore vuoi che vada in questa città? Se vado da un dottore è come gridarlo a tutti. No, non ho visto nessun dottore, e non penso di correre da nessuno. Non ho bisogno di nessun dottore che mi dica cosa succede nella mia pancia.”

“E da quanto tempo lo sai?”

“Un mese, forse, o sei settimane ora.”

“Sei settimane? Perché non hai detto niente prima?”

“Perché non ero sicura. Ho pensato che era meglio aspettare ed essere sicura. Non vedevo perché agitarsi prima che io lo sapessi di certo. Non volevo vederti preoccupato, spaventato e cattivo, come sei ora, se non ce ne era bisogno.” Fece una pausa, guardandolo. “E hai detto stamattina che si avrebbe fatto qualcosa. Cosa dobbiamo fare? E questo che ora bisogna decidere, Gabriel,”

“Cosa dobbiamo fare?” ripeté; e sentì che la vita lo abbandonava. Sedette al tavolo di cucina fissando il disegno del pavimento che gli girava davanti agli occhi.

Ma la vita non aveva abbandonato Esther; gli venne vicina, parlando sommessamente, guardandolo con occhi pieni di amarezza.

Mi fai un effetto molto strano” disse. “Non mi sembra che pensi soltanto a sistemare questa cosa - e me, anche - e presto, dato che sai come fare. Non è stato sempre così, vero? C’era un tempo che non potevi pensare a niente e a nessuno tranne a me. A cosa stai pensando stasera? Voglio andare all’inferno se è a me che stai pensando.”

“Non parlare come se non capissi niente ‘ disse Gabriel stanco. Sai bene che ho una moglie a cui pensare…” e voleva continuare, ma non trovò le parole e tacque, smarrito.

“Lo so” disse. Era più calma, ma continuava a tenere su di lui i suoi occhi dai quali l’ironia impaziente di una volta non era del tutto sparita. “Quello che voglio dire è che se sei stato capace di dimenticarla una volta dovresti essere capace di dimenticarla anche due.”

Gabriel non capì al momento; poi si drizzò sulla sedia, aprendo gli occhi pieni di collera. “Cosa intendi dire, tu? Cosa cerchi di dire?”

Essa non batté ciglio, e Gabriel, benché preso come era dalla disperazione e dalla rabbia, dovette riconoscere che era ben lontana dall’essere quella frivola ragazzina che gli era sempre sembrata, Oppure, in così poco tempo, si era trasformata? Ma parlando con lei si trovava in svantaggio perché mentre lui era impreparato a qualunque cambiamento di lei, lei aveva manifestamente preso le sue misure fin dal primo momento e nessun cambiamento di Gabriel avrebbe potuto sorprenderla.

Lo sai bene cosa intendo” disse. Tu non avrai mai nessuna vita di nessun genere con una donna secca e nera come quella - e tu non sarai mai capace di renderla felice - e lei non sarà mai capace di avere dei figli. Possa morire se penso che avevi il cervello a posto quando l’hai sposata. E sono io che sto per darti un figlio!”

“Vuoi che io lasci mia moglie e che venga con te?” disse infine Gabriel.

“Quello che penso io,” rispose “è che un pensiero così te lo devi esser già fatto, e molte e molte volte,”

“Sai che non ho mai detto niente del genere” disse trattenendo la collera. “Non ti ho mai detto che volevo lasciare mia moglie.”

“Non sto parlando di quello che hai detto!” grido Esther, al limite della pazienza.

Subito guardarono verso le porte chiuse della cucina, perché quella volta non erano soli in casa. Esther, sospirando, si lisciò con la mano i capelli; e Gabriel si accorse che la sua mano tremava, e che la sua calma non era che una posa causata dall’eccitazione.

“Sentimi bene,” disse “davvero pensi che io possa scappare per vivere con te una vita di peccato in qualche posto, solo per ché mi dici di avere un figlio mio nella pancia? Credi che sia completamente stupido? Devo lavorare per il Signore, la mia vita non appartiene a te. E nemmeno a questo bambino, ammesso che sia mio.”

“E' tuo,” disse, fredda, “e non c’è modo di girarci intorno, a questo. E non è passato così tanto tempo da quando, proprio qui in questa stanza, non volevi altro che una vita di peccato.”

“Sì,” rispose, alzandosi e scostandosi da lei, Satana mi ha tentato e sono caduto. Non sono il primo uomo che sia caduto per colpa di una donna depravata.”

Stai attento come parli” disse Esther, “ Neanch’io sono la prima ragazza rovinata da un sant’uomo.”

«Rovinata” gridò. “Tu? Ma come, rovinata? Ma se passeggiavi per la città come una puttana, e andavi nei prati a buttar le gambe in aria! E vieni a dirmi in faccia che sei stata rovinata? Se non fossi stato io, sarebbe stato di sicuro un altro.”

“Ma sei stato tu,” ribatté “e quello che voglio sapere è cosa dobbiamo fare.”

Gabriel la guardò. La sua faccia era fredda e dura, brutta; mai prima era stata così brutta.

«Io non so,” disse, deciso, “cosa dobbiamo fare noi. Ma ti dico la cosa migliore che puoi fare tu: vai a cercarti uno di quei ragazzi coi quali andavi in giro e fatti sposare. Perché io non posso andar con te in nessun posto.”

Esther si sedette alla tavola e lo fissò con stupore e disprezzo; era crollata sulla sedia pesantemente, come se avesse ricevuto un colpo. Gabriel capì che stava radunando le sue forze; e ora gli diceva proprio quello che temeva di sentire:

E se andassi in giro per la città a raccontare tutto a tua moglie, e ai tuoi fedeli, e a tutti, se lo facessi, Reverendo?”

“E chi pensi che ti creda?” domandò, sentendosi avvolgere da un terribile silenzio.

Essa rise, “ Ce ne saranno abbastanza a credermi da metterti in un brutto pasticcio.” E lo guardò. Gabriel camminava su e giù per la cucina, cercando di evitare i suoi occhi. “ Pensa solo a quella prima notte, proprio qui su questo maledetto pavimento di bianchi, e vedrai che per te è troppo tardi per parlare alla Esther della tua santità. Non mi interessa se vuoi vivere nel falso, ma non vedo perché devi farmi soffrire per questo.”

“Puoi anche andare in giro a parlare, se vuoi,” ribatté con forza “ ma non mi sembra un gran vantaggio, neanche per te.”

Esther tornò a ridere, “Non sono io il santo. Tu sei un uomo sposato, e un predicatore. Chi credi che incolperà di più, la gente?”

Gabriel la guardò con un odio a cui si mescolava il desiderio di una volta, rendendosi conto che Esther, una volta di più, aveva vinto.

Lo sai che non posso sposarti” disse. «E allora cosa vuoi che faccia?”

«Lo so,” disse «e so che non mi sposeresti nemmeno se fossi libero. So che non vuoi per moglie una puttana come la Escher. La Escher è giusto buona per la notte, per il buio, dove nessuno ti vede sporcare la tua santità con lei. Buona per andare a metter al mondo il tuo bastardo in qualche posto fuori dalle scatole. Non è così?”

Gabriel non rispose. Non trovava niente da dire. Solo silenzio, un silenzio di tomba.

Esther si alzò dalla tavola e andò alla porta aperta della cucina, dove rimase, voltandogli le spalle, a guardare il cortile e la strada silenziosa, dove ancora indugiavano gli ultimi, smorti raggi di sole.

“Ma so,” disse lentamente «che non voglio stare con te più di quanto tu voglia stare con me, Non voglio un uomo che si vergogna e ha paura. Non mi può far niente bene, un uomo così.” Essa si girò sulla porta e lo guardò in faccia; fu l’ultima volta che io guardò veramente, e Gabriel si sarebbe portato quello sguardo fino nella tomba. “Voglio che tu faccia solo una cosa” disse. «Falla, e tutto è a posto.”

«Cosa vuoi che faccia?” domandò Gabriel, con un senso di vergogna.

“Potrei andare in giro a raccontare a tutti chi è l’unto del Signore. Ma non lo faccio per la sola ragione che non voglio che la mia mamma e il mio papà sappiano quanto sono stata stupida. Non mi vergogno di quello che ho fatto - mi vergogno di te - mi hai fatto provare una vergogna che non avevo mai provata. Mi sono vergognata davanti a Dio, di aver lasciato che qualcuno mi stimasse così poco, come hai fatto tu.”

Gabriel non disse niente. Esther gli volse di nuovo le spalle.

“Io… voglio solo andare in qualche parte,” disse “andare in qualche parte ad avere il mio bambino, e a dimenticare tutto. Voglio andare in qualche parte a rimettermi in ordine il cervello. Questo è quello che voglio che fai, e non ti costerà molto. Ci vuole proprio un sant’uomo per fare di una ragazza una vera puttana.”

“Figlia mia, io non ho soldi.”

“Allora è meglio che ti dai da fare a cercarne” disse fredda.

Poi cominciò a piangere. Gabriel le si avvicinò, ma lei si tirò indietro.

“Se andassi a fare un giro di prediche,” disse debolmente “dovrei riuscire a fare abbastanza soldi da spedirti via.”

“Quanto tempo ci vuole?”

“Un mese, circa.”

Esther scosse la testa, “Non posso star qui così tanto.”

Restarono in silenzio sulla porta della cucina, lei lottando contro le lacrime, lui contro la vergogna. Poteva solo pensa re: Gesù Gesù Gesù. Gesù Gesù.

“Non hai niente da parte?” domandò infine Esther. “Mi sembra che sei sposato da tanto che potresti aver risparmiato qualcosa!

Allora si ricordò che Deborah metteva da parte del denaro fin dal giorno del loro matrimonio. Lo teneva in una scatola di latta sopra l’armadio, Un peccato ne porta un altro, pensò “Sì,” disse “qualcosa. Non so quanto.”

“Portalo qui domattina” gli disse.

La stette a guardare mentre andava al ripostiglio a prendersi il cappello e il cappotto. Tornò pronta per uscire e gli passò davanti senza dire una parola, scendendo i pochi scalini fino in cortile. Aperse il cancelletto e svoltò nella via lunga, silenziosa, infiammata dall’ultimo sole. Camminava lenta, a testa bassa, come se avesse freddo. Gabriel rimase a guardarla, pensando a tutte le volte che in passato l’aveva guardata andar via, con quel passo allora così diverso e quel riso che arrivava fino a lui, a canzonarlo.

Rubò i soldi mentre Deborah dormiva, E la mattina li diede a Esther. Essa si licenziò lo stesso giorno, e una settimana dopo era andata “a Chicago”, dicevano i suoi genitori a trovare un lavoro migliore e a vivere meglio”.

Nelle settimane che seguirono Deborah diventò più silenziosa che mai, Gabriel a volte era certo che aveva scoperto che i soldi erano spariti e che sapeva che era stato lui a prenderli, a volte era certo che non sapeva niente. A volte era certo che sapeva tutto: furto e perché del furto. Ma lei non parlava. A metà primavera Gabriel andò a fare un giro di prediche, e restò via tre mesi. Quando tornò indietro aveva con sé il denaro e lo rimise nella scatola di Deborah, dove niente era stato aggiunto durante la sua assenza; così che non poteva ancora sapere con sicurezza se Deborah sapeva o no.

Decise di dimenticare tutto e ricominciare la sua vita da capo.

Ma l’estate gli portò una lettera, senza nome o indirizzo del mittente, col timbro di Chicago. Deborah gliela diede, mentre facevano colazione, senza dar segno di notare la calligrafia o il timbro, con un fascio di opuscoli religiosi che insieme distribuivano in città ogni settimana. Anche lei aveva ricevuto una lettera, da Florence, e era stata forse questa novità che aveva distratto la sua attenzione.

La lettera di Esther finiva così:

“Quello che penso è che ho commesso un errore, è vero, e ora lo sto scontando. Ma non pensare di non dover pagare anche tu. Non so quando né come, ma un giorno pagherai.

Anche senza essere santa come te so distinguere il bene dal male.

“Presto avrà il mio bambino e lo alleverò in modo da farne un uomo. E non gli leggerò nessuna Bibbia e non lo porterò a sentire nessuna predica. Se non berrà che whisky per tutti i giorni della sua vita naturale sarà un uomo migliore di suo padre” «Cosa dice Florence?” domandò ottusamente, accartocciando la lettera nel pugno.

Deborah lo guardò con un leggero sorriso. “Niente di speciale, caro. Ma sembra che debba sposarsi.”

 

Verso la fine di quell’estate torno di nuovo a fare un giro di prediche. Non poteva più sopportare la sua casa, il suo lavoro, la stessa città; non poteva continuare a vedersi davanti, ogni giorno, le stesse cose e le stesse persone che aveva visto per tutta la vita. Gli sembrava che lo deridessero, che lo volessero giudicare; vedeva la sua colpa negli occhi di tutti. Quando stava sul pulpito a predicare, sentiva che lo guardavano come se non avesse il diritto di star lassù, come se lo condannassero come lui aveva una volta condannato i ventitré “anziani “. Quando delle anime arrivavano piangendo davanti al l’altare non osava quasi rallegrarsi, ricordando l’anima che non si era pentita e di cui forse avrebbe dovuto render conto il giorno del Giudizio.

Così fuggì da quella gente, e da quei testimoni muti, per sostare e pregare altrove, per rifare, per così dire, in segreto, i suoi primi passi, cercando di nuovo il sacro fuoco che una volta l’aveva trasformato così a fondo. Ma doveva sperimentare, come già avevano sperimentato i profeti, che l’intera terra diventa una prigione per colui che è fuggito da Dio. In nessun posto c’era pace, e in nessun posto guarigione, e in nessun posto oblio. In qualunque chiesa entrasse, il suo peccato lo aveva preceduto. Era sulle facce sconosciute che gli davano il benvenuto, gli gridava dall’altare, lo aspettava sul suo sedile quando saliva sul pulpito. Lo fissava dalla sua Bibbia: non c’era una parola in tutto quel sacro libro che non lo facesse tremare. Quando parlava di Giovanni nell’isola di Patmos, rapito in spirito nel giorno del Signore, a contemplare il passato, il presente e il futuro, quando diceva: “colui che è immondo sia lasciato nella sua immondizia”, era lui stesso che, gridando forte quelle parole, era profondamente confuso; quando parlava di David, il giovane pastore innalzato dalla potenza di Dio sul trono di Israel, era lui che, mentre quelli gridavano: “Amen!” e: Alleluia!” ancora una volta si dibatteva nelle sue catene; quando parlava del giorno della Pentecoste quando lo Spirito Santo era sceso sugli apostoli riuniti nella stanza superiore, facendoli parlare con lingue di fuoco, pensava al suo battesimo e a come aveva offeso lo Spirito Santo. No: per quanto il suo nome fosse scritto in grande sui manifesti, per quanto lo lodassero per la grande opera che Dio compiva attraverso la sua persona, e per quanti peccatori trascinasse, di giorno e di sera, all’altare, non c’erano parole per lui nel Libro.

E vide, in queste peregrinazioni, quanto il suo popolo si era allontanato da Dio. Avevano tutti deviato dalla retta via, e erano andati nel deserto a inginocchiarsi davanti a idoli d’oro e d’argento, di legno e di pietra, falsi dei che non potevano guarirli. La musica che risuonava in ogni città grande o piccola dove entrava non era la musica dei “santi” ma un’altra musica, diabolica, che esaltava la lussuria e teneva in disprezzo la giustizia. Delle donne, alcune delle quali avrebbero fatto meglio a starsene a casa a insegnare a pregare ai nipotini, passavano una notte dopo l’altra a contorcere i loro corpi in osceni alleluia in sale da ballo piene di fumo e di pesante odor di gin, cantando per il loro “amante”. E il loro amante era un uomo qualsiasi in un qualsiasi momento, mattina, mezzogiorno o notte - quando uno lasciava la città se ne facevano un altro - gli uomini potevano annegare nel calore della loro carne e per loro erano tutti uguali. “ qui per te la mia carne, e se non la prendi non è colpa mia.” Ridevano di lui quando lo vedevano - “un bell’uomo come voi?” - e gli dicevano di conoscere una ragazza alta e bruna che poteva far gli buttare la Bibbia alle ortiche. Fuggiva da loro perché lo spaventavano. Si mise a pregare per Esther. Si immaginava di vederla, un giorno, dove ora stavano quelle donne.

E il sangue scorreva in tutte le città dove passava. Sembrava che non ci fosse porta dietro la quale il sangue non chiamasse, incessantemente, altro sangue; o donna, cantante davanti a insolenti trombe o esultante davanti al Signore, che non avesse visto il padre, il fratello, l’amante, o il figlio abbattuto senza pietà; che non avesse visto la sorella entrare nel grande bordello dei bianchi, che non avesse evitato, per poco, di entrarci lei stessa; o uomo, credente o bestemmiatore, pizzicante le corde della sua chitarra nella solitaria e triste sera, o rapito in estasi, di notte, a suonare la sua tromba dorata, che non fosse stato obbligato ad abbassare la testa e a bere la fangosa acqua dei bianchi; o la cui virilità non fosse stata impestata alle radici, e i lombi disonorati, e il seme disperso nel la dimenticanza, e peggio ancora, nella vergogna vivente, nella collera e nella lotta senza fine. Sì, le loro doti erano stroncate, erano disonorati, perfino i loro nomi non erano niente più che spregevole polvere trascinata dal vento sui campi del tempo - per cadere dove, per fiorire dove, per dare poi quali frutti, dove? - nemmeno un nome avevano più. Dietro di loro c’era buio, nient’altro che buio, e intorno a loro distruzione, e davanti nient’altro che fuoco, bastardi, lontani da Dio, voci clamanti nel deserto!

Eppure, in modo insolito, e da profondità prima sconosciute, la sua fede tornò a risollevarsi; di fronte al male che vedeva, al male che fuggiva, scorgeva ancora, simile a uno stendardo fiammeggiante in mezzo all’aria, quel potere di redenzione di cui doveva, fino alla morte, testimoniare; e che, anche se lo schiacciava totalmente, non poteva negare. Benché a nessuno fra i viventi sia mai dato vederlo, lui lo aveva visto e non doveva perdere la sua fede in esso. Non sarebbe tornato in Egitto né per un amico, né per un amore, né per un figlio bastardo: non avrebbe distolto la sua faccia da Dio, per profonda che fosse l’oscurità nella quale Dio si celava a lui.

Un giorno Dio gli avrebbe dato un segno, e l’oscurità sarebbe finita, un giorno Dio lo avrebbe risollevato, Lui che aveva permesso che cadesse così in basso.

Gabriel era appena tornato, quell’inverno, che anche Esther tornò a casa. Sua madre e il patrigno andarono al Nord a reclamare il suo corpo senza vita e il suo figlio vivo.

Subito dopo Natale, uno degli ultimi smorti giorni dell’anno, fu sepolta nel cimitero accanto alla chiesa. Faceva un freddo terribile e il terreno era coperto di ghiaccio, come nel giorno in cui l’aveva posseduta la prima volta, In piedi accanto a Deborah, il cui braccio, appoggiato al suo, tremava continuamente per il freddo, guardava la lunga, modesta cassa che veniva calata sottoterra. La madre di Esther stava in silenzio presso la fossa, appoggiata al marito che teneva in braccio il nipote. Qualcuno prese a cantare: Signore abbi pietà, abbi pietà, abbi pietà”; e le vecchie in lutto si strinsero intorno al la madre di Esther per sostenerla. La bara urtò la terra; il piccolo si svegliò e cominciò a piangere.

Allora Gabriel si mise a pregare di essere liberato dalla sua colpa. Pregava Dio di dargli un segno, un giorno, per fargli capire che era stato perdonato. Ma il bambino che in quel momento piangeva nel cimitero aveva bestemmiato, e cantato, e era stato fatto tacere per sempre senza che egli avesse ricevuto un segno da Dio.

E vide suo figlio crescere, estraneo a suo padre e a Dio.

Deborah, che dopo la morte di Esther aveva stretto dei rapporti più amichevoli coi parenti di lei, gli aveva raccontato fin dal principio in che modo vergognoso Royal veniva viziato. Era, inevitabilmente, la pupilla degli occhi dei nonni, cosa che, se era presente, faceva aggrottare le sopracciglia a Deborah e qualche volta, controvoglia, la faceva sorridere; e, come essi dicevano, se c’era in lui del sangue bianco, non si vedeva; era tutto sua madre.

Non passava giorno senza che Gabriel non vedesse il suo perduto e diseredato figlio, o non ne sentisse parlare; sembrava che ogni giorno che passava portasse più orgogliosa mente la condanna che aveva impressa sulla fronte. Gabriel lo vedeva correre temerario, come il temerario figlio di David, verso la catastrofe che lo aspettava fin dal momento che era stato concepito. Aveva appena imparato a camminare che già si muoveva con un’andatura spavalda, e aveva cominciato a bestemmiare quasi ancora prima di parlare. Gabriel lo vedeva spesso in strada, che giocava sul marciapiede con altri bambini della sua età. Una volta, mentre passava, un bambino aveva detto: “Ecco il Reverendo Grimes”, e aveva fatto un cenno rispettoso, in silenzio. Ma Royal lo aveva guardato in faccia, spavaldamente. E aveva detto: “Buon giorno, Reverendo” ed era stato preso improvvisamente da un riso irrefrenabile. Gabriel avrebbe voluto chinarsi a sorridere al bambino, fermarsi per carezzarlo sulla fronte, ma invece aveva continuato a camminare. Alle spalle gli era arrivato il commento esplosivo bisbigliato da Royal: “Scommetto che ce l’ha bello grosso!” e tutti i bambini avevano riso. Capì allora quanto sua madre doveva aver sofferto nel vederlo in quello stato di ignoranza lontana dalla redenzione che porta così sicura mente alla morte e all’Inferno.

“Mi domando,” disse una volta Deborah così a caso “perché lo ha chiamato Royal. Pensi che sia il nome del padre?”

Gabriel non si faceva questa domanda. Aveva detto una volta a Esther che se il Signore gli avesse dato un figlio lo avrebbe chiamato Royal, perché la grande famiglia dei fedeli era una famiglia reale: suo figlio sarebbe stato un figlio reale. Ed Esther si era ricordata di questo quando aveva messo al mondo suo figlio; col suo ultimo respiro aveva schernito padre e figlio con quel nome. Poi era morta, odiandolo; aveva portato con sé nell’eternità una maledizione per lui e per i suoi.

“Penso,” disse Gabriel alla fine “che date essere il nome del padre; a meno che non gli abbiano dato questo nome nell’ospedale su al Nord dopo che,,. era morta.”

“La sua nonna, sorella McDonald” Deborah stava scrivendo una lettera e parlava senza guardarlo “be’, lei pensa che deve essere stato uno di quei ragazzi che passano sempre da queste parti, cercando lavoro, diretti al Nord - sai? di quei negri buoni a niente - insomma, lei pensa che deve essere stato uno di quelli a mettere Esther nei guai. Dice che Esther non sarebbe mai andata su al Nord se non fosse stato per cercare di trovare il padre del bambino. Perché era incinta quando è partita di qui,” e alzò gli occhi un attimo dalla lettera “questo è certo.”

“Lo penso anch’io” disse Gabriel, messo a disagio da tutto quell’insolito chiacchierare, ma non osando fermarla in modo troppo brusco. Pensava a Esther, fredda e immobile sottoterra, che era stata così viva e senza pudore fra le sue braccia.

E sorella McDonald dice” continuò Deborah “ che Esther è partita di qui con pochissimi soldi; loro hanno dovuto seguitare a mandarle dei soldi per quasi tutto il tempo che è stata lassù, specialmente verso la fine. Si parlava proprio di questo ieri - dice che sembrava che Esther avesse deciso tutto in un colpo che doveva partire, e che niente avrebbe potuto fermarla. Dice che lei non aveva voluto opporsi - ma che se avesse saputo qualcosa non l’avrebbe mai lasciata partire.”

“Mi sembra strano a me,” borbottò Gabriel, comprendendo a stento quello che diceva, “ che non abbia pensato niente.”

“Non ha pensato niente perché Esther diceva sempre tutto a sua madre - non si vergognavano fra di loro - era come se fossero due amiche. Non avrebbe mai immaginato che Esther l’avrebbe lasciata se si fosse trovata in un pasticcio.” E Deborah guardò nel vuoto, oltre Gabriel, con gli occhi pieni di una strana, amara pietà. “Poveretta,” disse “ quanto deve ave re sofferto.”

“Non vedo che bisogno c’è, per te e la sorella McDonald, di passare il tempo a non parlare altro che di questo” disse Gabriel, allora. “E' un bel pezzo che queste cose sono avvenute; e il ragazzo sta oramai diventando grande.”

“E' vero,” disse Deborah, chinando un’altra volta la testa, “ma ci sono delle cose che non si dimenticano così presto.”

“A chi stai scrivendo?” domandò Gabriel, improvvisamente oppresso dal silenzio di Deborah come prima Io era stato dal suo parlare.

Deborah alzò gli occhi. Sto scrivendo a tua sorella Florence. Vuoi che le dica qualcosa?”

«No” disse. “Solo che prego per lei.”

Quando Royal aveva sedici anni venne la guerra, e tutti i giovani, prima i figli dei potenti e poi quelli della sua gente, furono dispersi in terre straniere. Ogni notte Gabriel si buttava in ginocchio a pregare che Royal non dovesse partire.

“Ho sentito che è lui che vuole andare” disse Deborah.

“Sua nonna mi dice che sta facendola impazzire perché non vuole lasciarlo andare ad arruolarsi.”

“Questi ragazzi” disse Gabriel cupo “non sono contenti finché non vanno a farsi storpiare o ammazzare.”

“Sì sa che i giovani sono così” disse Deborah allegra mente. “Non si può mai dirgli niente e quando si accorgono di aver sbagliato è troppo tardi.”

Ogni volta che Deborah gli parlava di Royal, provava dentro di sé una profonda paura. Spesso aveva pensato di confidarle ciò che lo opprimeva. Ma lei non gliene aveva mai offerta l’occasione, mai aveva detto qualcosa capace di spinger lo verso la guaritrice umiltà della confessione o di permettergli di dirle, finalmente, quanto la odiava per la sua sterilità. Essa esigeva da lui quello che lei gli dava; niente, niente, in ogni modo, che potesse esserle rimproverato. Gli teneva in ordine la casa e divideva il suo letto; visitava gli ammalati, come aveva sempre fatto, e confortava i morenti, come aveva sempre fatto. Il matrimonio, che una volta Gabriel pensava avrebbe attirato su di lui la derisione generale, si era cosi imposto - agli occhi di tutti - che nessuno poteva ora immaginare per loro due una condizione o un’unione diverse.

Perfino la debolezza di Deborah, che si era accentuata con gli anni obbligandola sempre più spesso a stare a letto, e la sua sterilità, come la vergogna subita in passato, avevano finito per apparire delle prove misteriose della sua completa devozione a Dio.

“Amen” disse prudentemente dopo quest’ultima osservazione, e si schiarì la gola.

“Direi,” disse Deborah con la stessa allegria “che qual che volta mi fa pensare a te quando eri giovane.”

Gabriel non la guardò, per quanto sentisse su di sé il suo sguardo; prese la Bibbia e la aperse, “I giovani” disse «sono tutti così, finché Gesù non cambia il loro cuore.”

Royal non partì per la guerra; l’estate andò a lavorare in un’altra città e Gabriel non lo vide più fino alla fine della guerra.

Quel giorno, un giorno che non doveva più dimenticare, Gabriel era andato, finito il lavoro, a comprare delle medicine per Deborah, che era a letto con un dolore alla schiena. La notte non era ancora scesa e le strade erano grigie e vuote, salvo dei gruppi formati da mezze dozzine di bianchi che sostavano qua e là, illuminati dalla luce che usciva dalle sale di scommesse e dai bar. Ogni volta che sorpassava un gruppo, si formava il silenzio, e i bianchi lo guardavano insolentemente, con negli occhi la voglia di ammazzare; ma Gabriel non diceva niente, teneva la testa bassa, e quelli sapeva o, comunque, che era un predicatore. Non c’era nessun negro per le strade, salvo lui. Quella mattina era stato trovato, appena fuori dalla città, il cadavere di un soldato, con l’uniforme a brandelli dove era stato frustato, e il rosso della carne viva messo a nudo sotto la pelle nera. Giaceva faccia a terra ai piedi di un albero, con le unghie delle mani conficcate nel terreno calpestato. Quando lo avevano rivoltato, i bulbi dei suoi occhi erano restati fissi in alto con stupefazione e terrore, la bocca era rigidamente spalancata; i pantaloni, bagnati di sangue, stracciati e aperti, avevano scoperto alla pallida e fredda aria del mattino il suo inguine fitto di peli arruffati, nero e rosso ruggine, e la ferita che sembrava ancora palpitante. Era stato portato a casa in silenzio e ora giaceva dietro porte sbarrate, circondato dai suoi parenti maschi che sedevano piangendo, pregando, sognando vendetta e attendendo la prossima prova. Qualcuno sputò sul marciapiede ai suoi piedi e Gabriel continuò a camminare senza cambiare espressione e sentì bisbigliare dietro di sé, in tono di rimprovero, che lui era un negro buono, che di sicuro non stava tramando niente. Sperò di non dover parlare, di non dover sorridere a nessuna di quelle facce bianche che conosceva così bene. Mentre camminava, senza mai voltarsi, per prudenza, pregava, come gli aveva insegnato sua madre, per il trionfo della bontà; e malgrado questo cercava di immaginare cosa avrebbe provato calpestando sotto le sue scarpe la fronte di un uomo bianco, calpestandola finché la testa dondolasse sul collo fracassato e i suoi piedi non incontrassero più nient’altro che il fluire del sangue. E stava pensando che era stata la mano dei Signore che aveva allontanato Royal. perché se fosse rimasto lo avrebbero sicuramente ammazzato, quando, svoltando un angolo, si imbatté proprio in lui.

Royal era ormai alto come Gabriel, largo di spalle e magro. Aveva un vestito nuovo blu, a rigoni blu, e portava, sotto il braccio, un pacco ricoperto di carta da imballaggio e legato con uno spago. Si guardarono per un secondo senza riconoscersi. Royal lo fissò con vacua ostilità, poi sembrò ricordare la faccia di Gabriel e, togliendosi la sigaretta accesa dalle labbra, disse, con forzata cortesia: “Buon giorno, signore “. Aveva una voce aspra e un vago odore di whisky nel flato.

Gabriel non riuscì a parlare subito; dovette fare uno sforzo per riprendere fiato, poi disse: “Buon giorno “. E rimasero lì, su quel deserto angolo di strada, ognuno come se aspettasse che l’altro dicesse qualcosa della massima importanza. Mentre Royal stava per andarsene Gabriel si ricordò dei bianchi in giro per tutta la città.

“Non hai un po’ di buon senso?” gridò. “Non capisci che non è il momento di star qui e andar a spasso in questo modo?”

Royal lo fissò, incerto se ridere o offendersi, e Gabriel aggiunse, meno violento: “Voglio solo dire che. è meglio stare attenti. Non ci sono che bianchi in giro in città, oggi. Stanotte… hanno ammazzato.,.”

Non pote continuare, Vide, come in una visione, il corpo di Royal steso pesantemente a terra, immobile per sempre, e le lacrime gli confusero la vista.

Royal lo osservava con irritata e fredda compassione.

«Lo so,” disse bruscamente “ma non mi daranno fastidio. Hanno avuto il loro negro per questa settimana. E poi non vado lontano.”

L’angolo di strada dove stavano sembrò improvvisamente vacillare sotto il peso di un pericolo mortale. Parve per un momento che, mentre essi stavano lì, morte e distruzione si precipitassero su loro: due negri soli nella oscura e silenzio sa città dove i bianchi si aggiravano come leoni in cerca di preda, che pietà avrebbero potuto sperare se li avessero trovati lì a parlare insieme? Avrebbero subito pensato che stavano complottando la vendetta. E, pensando alla salvezza di suo figlio, Gabriel cominciò ad avviarsi.

“Dio ti benedica, figliolo” disse. “Vai presto, ora.”

“Sì,” disse Royal “grazie.” Arrivato quasi a svoltare, guardò indietro Gabriel. “Anche voi state attento” disse e sorrise.

Girò l’angolo e Gabriel sentì i suoi passi allontanarsi, finché furono inghiottiti dal silenzio; nessuna voce si era alzata per annientare Royal; e presto ci fu silenzio dappertutto.

Meno di due anni dopo, Deborah gli disse che suo figlio era morto, E ora John cercava di pregare. C’era un gran rumore di preghiere intorno a lui, un gran rumore di pianti e di canti.

Sorella McCandlless guidava il coro, ma cantava quasi da sola perché gli altri non la smettevano di gemere e piangere. Era un inno che aveva sentito sempre “Ho iniziato il cammino, Signore, Ho messo le scarpe da viaggio”.

Senza alzare gli occhi poteva vederla mentre, nel posto consacrato, implorava la luce della fede su quelli che ora la stavano invocando, con la testa gettata indietro, a occhi chiusi, battendo coi piedi sul pavimento. Non assomigliava, in quel momento, alla sorella McCandless che qualche volta veniva a trovarli, alla donna che ogni giorno andava a lavorare dai bianchi nei quartieri del centro, che la sera, arrivando a casa, arrancava sfinita su per lunghe, buie scale. No: la sua faccia ora era trasfigurata, tutto il suo essere era rinnovato dal la forza della sua fede nella salvezza.

La salvezza esiste” gli disse una voce. “Dio esiste. La morte può venire presto o tardi, perché esiti? Ora è il momento di cercare Dio e di servirlo.” La salvezza era una realtà per tutti quegli altri, e poteva esserlo per lui. Doveva solo farsi avanti e Dio lo avrebbe toccato; doveva solo invocare Dio e Dio lo avrebbe ascoltato. Quelli che ora con tanta gioia invocavano Dio, una volta avevano vissuto nel peccato, come lui ci viveva ora, e avevano invocato Dio e Dio li aveva ascoltati e liberati da tutte le loro pene. E quello che aveva fatto per gli altri, Dio poteva farlo anche per lui.

Ma proprio da tutte le loro pene? Perché, allora, sua madre piangeva? Perché suo padre aggrottava le sopracciglia?

Se la potenza di Dio era così grande, perché la loro vita era così penosa?

Prima di quel giorno non aveva mai cercato di pensare alla loro pena; o meglio non si era mai trovato di fronte ad essa in uno spazio così ristretto, Era sempre stata lì, forse alle sue spalle, tutti quegli anni, ma lui non si era mai voltato a fronteggiarla. Ora gli stava davanti, fissandolo, sfuggirla era impossibile, e la sua bocca era spalancata. Era pronta per inghiottirlo. Solo la mano di Dio poteva liberarlo. Ma presto comprese, dal suono della tempesta che ora si levava così dolorosamente in lui, che devastava - per sempre? - lo strano eppure confortante paesaggio della sua mente, che la mano di Dio lo avrebbe certamente condotto dentro quella bocca in attesa, quelle mascelle spalancate, quell’alito infuocato. Sarebbe stato condotto nell’oscurità, e nell’oscurità sarebbe rimasto; finché chissà quando, nel futuro, Dio avrebbe teso in basso la sua mano e lo avrebbe risollevato; e lui, John, dopo aver giaciuto nell’oscurità sarebbe stato un altro uomo; cambiato, come dicevano, per sempre. Seminato nel disonore, sarebbe cresciuto nell’onore: sarebbe nato una seconda volta.

Allora non sarebbe più stato il figlio di suo padre, ma il figlio del suo Padre Celeste, il Re. Né avrebbe più dovuto temere suo padre, perché avrebbe potuto, passando, per così dire, sopra la sua testa, portare la loro disputa direttamente in Cielo - davanti al Padre che lo amava, che si era fatto uomo per morire per lui. Allora lui e suo padre sarebbero stati pari nell’amore di Dio. E suo padre non avrebbe più potuto picchiare, o disprezzare, o deridere lui, John, l’unto del Signore.

Avrebbe parlato a suo padre come un uomo parla a un altro uomo, come un figlio parla al padre, non tremando ma in dolce confidenza, senza odio, con amore. Suo padre non avrebbe potuto cacciarlo, se Dio lo aveva accolto.

E tuttavia, tremando, si rendeva conto che non era questo che voleva. Non voleva amare suo padre; voleva odiarlo, covarsi quest’odio per gridarglielo, un giorno. Non voleva più i baci di suo padre, dopo aver ricevuto tanti schiaffi. Non poteva immaginare se stesso, sia pure nel futuro e molto cambiato da com’era, desideroso di dar la mano a suo padre. La tempesta che infuriava in lui quella sera non riusciva a sradicare il suo odio, l’albero più forte, l’unico rimasto in piedi in mezzo al diluvio.

E abbassò ancora più la testa davanti all’altare, stanco e confuso. Oh, che suo padre morisse! che la strada fosse libera davanti a lui, come doveva essere libera davanti agli altri, Perfino nella tomba Io avrebbe odiato; la sua condizione sarebbe cambiata, ma sarebbe rimasto sempre suo padre.

La tomba non era abbastanza per la punizione, la giustizia, la vendetta. Nelle fiamme eterne dell’Inferno, incessanti, perpetue, inestinguibili, avrebbe dovuto finire suo padre; con John lì a tenerlo d’occhio, a indugiare, a sorridere, a ridere forte sentendolo, finalmente, gridare fra i tormenti. E nemmeno allora sarebbe finita. Il padre eterno.

I suoi pensieri erano cattivi, ma quella sera non gliene importava. In qualche parte, in tutto quel turbinio, nel buio del suo cuore, nella tempesta - c’era qualcosa - qualcosa che doveva scoprire. Non poteva pregare. La sua mente era come il mare: agitato, e troppo profondo anche per l’uomo più coraggioso, che di quando in quando getta sulla spiaggia, per la meraviglia di chi guarda, tesori e relitti per lungo tempo dimenticati sul suo fondo, ossa e gioielli, bizzarre conchiglie, schiuma che una volta era stata carne, perle che una volta erano state occhi. E John era in balia di questo mare, sospeso nel buio.

Quando la mattina di quel giorno, Gabriel si era alzato e era andato a lavorare, il cielo era basso e nero e l’aria quasi irrespirabile tanto era densa, Verso la fine del pomeriggio si era levato il vento, il cielo aveva aperte le sue cateratte, e la pioggia era caduta, Veniva giù come se, in Cielo, il Signore si fosse persuaso un’altra volta dell’utilità di un diluvio. Spingeva avanti i curvi vagabondi, cacciava in fretta nelle case i bambini, batteva con terribile rabbia contro i muri alti e forti, e contro le pareti delle capanne, frustava la corteccia e le foglie degli alberi, spianava i grandi prati, e rompeva lo stelo dei fiori. Il mondo si oscurava, per sempre, dappertutto, e le finestre erano grondanti come se sui loro vetri si riversassero tutte le lacrime dell’eternità, minacciando a ogni momento di infrangersi cedendo a quella forza scatenata abbattutasi improvvisamente sulla terra. Attraverso questa desolata distesa di acque (che non era riuscita tuttavia a schiarire l’aria) Gabriel camminava verso casa, dove Deborah lo aspettava nel letto che di rado, in quei giorni, si arrischiava ad abbandonare.

E non erano cinque minuti che era a casa che già aveva avvertito nel silenzio di Deborah qualcosa di cambiato: qualcosa in quel silenzio aspettava, pronta a saltar fuori.

Le diede uno sguardo dalla tavola, dove stava mangiando il pasto che lei gli aveva preparato con fatica.

Come ti senti oggi?”

«Mi sento più o meno come sempre” e sorrise. “Né meglio né peggio.”

«Andremo in chiesa a pregare per te, e ti rimetteremo in piedi di nuovo.”

Essa non disse niente e Gabriel riprese a mangiare. Ma lo stava osservando; Gabriel alzò gli occhi.

«Ho sentito delle notizie molto brutte, oggi” disse Deborah lentamente.

Cosa hai sentito?”

Sorella McDonald è stata qui questo pomeriggio, e Dio sa in che stato pietoso era.” Gabriel la fissò impietrito. “Ha ricevuto una lettera oggi che dice che suo nipote - sai, Royal - è stato ammazzato a Chicago, Pare proprio che il Signore abbia maledetto quella famiglia. Prima la madre, e ora il figlio.”

Per un momento non poté far altro che fissarla stupida mente, mentre il cibo in bocca gli diventava pesante e secco.

Fuori la pioggia cadeva a torrenti, e il bagliore dei lampi incendiava le finestre. Poi tentò di buttar giù il boccone, e la gola gli si chiuse. Cominciò a tremare.

“Si,” disse Deborah, senza guardarlo, ora, “viveva a Chi cago da circa un anno, bevendo e facendo la solita vita e la sua nonna, lei mi dice che sembra che una sera si è messo a giocare con qualcuno di quei negri del Nord, e uno di questi si è infuriato perché credeva che il ragazzo stava cercando di barare con lui, e ha tirato fuori il coltello e gli ha dato una coltellata. Una coltellata in gola, e lei mi ha detto che è morto lì sul pavimento, in quel bar, non hanno avuto neanche il tempo di portarlo all’ospedale.” Deborah si girò nel letto e lo guardò. “Il Signore certo gli dà una croce pesante da portare, a quella povera donna.”

Provò a parlare; pensava al cimitero dove Esther era sepolta, e al primo, debole pianto di Royal. «Lo riporterà qui a casa?”

Essa lo fissò.

“A casa? Ma lo hanno già seppellito là, nella fossa comune. Nessuno si occuperà più di quel povero ragazzo.”

Allora cominciò a piangere, in silenzio, seduto a tavola, tremando in tutto il corpo. Deborah stette a guardarlo a lungo; alla fine Gabriel abbandonò la testa sulla tavola, rovesciando la tazza del caffè, e pianse rumorosamente, Sembrava che il pianto fosse dappertutto, che le acque dell’angoscia dominassero il mondo; Gabriel piangeva, la pioggia batteva sul tetto e alle finestre, e il caffè gocciolava dalla tavola, Finalmente Deborah chiese:

“Gabriel… era carne della tua carne… Royal, non e vero?”

“Sì,” disse, contento, malgrado l’angoscia, di sentire le parole uscirgli di bocca, “era mio figlio.”

Ci fu un nuovo silenzio, “E sei stato tu a mandar via quel la ragazza, vero? Coi soldi presi dalla scatola?”

“Sì,” disse “sì.”

“Gabriel,” chiese Deborah “perché l’hai fatto? Perché l’hai lasciata andare lontana a morire tutta sola? Perché non hai mai detto niente?”

Gabriel non poteva rispondere. Non poteva neanche sollevare la testa.

“Perché?” insisté Deborah. “Caro, non te l’ho mai domandato, ma ho il diritto di saperlo: perché, dal momento che desideravi tanto un figlio?”

Gabriel si alzò tremando dalla tavola e andò lentamente fino alla finestra, e guardò fuori.

“Ho chiesto a Dio di perdonarmi” disse. “Ma non volevo il figlio di una puttana,”

“Esther non era una puttana” disse piano Deborah.

“Non era mia moglie. Non potevo sposarla. Avevo già te” e disse le ultime parole con veleno. “I pensieri di Esther non erano rivolti a Dio, mi avrebbe trascinato con sé dritto all’Inferno.”

“C’è quasi riuscita” disse Deborah.

“Il Signore mi ha tenuto indietro” disse Gabriel, ascoltando i tuoni e guardando i lampi. “Egli ha teso la Sua mano e mi ha tenuto indietro.” Dopo un momento si girò verso la camera: “Non potevo fare nient’altro” gridò. “Che altro potevo fare? Dove potevo andare io con Esther, io, un predicatore?

E cosa potevo fare con te?” Guardò Deborah, vecchia, nera e paziente, col suo odore di malattia, di vecchiaia e di morte.

“Ah,” disse piangendo “scommetto che eri proprio felice, oggi, quando quella ti ha detto che Royal, mio figlio, era morto.

Tu non hai mai avuto figli.” E torno a girarsi verso la finestra. Da quanto tempo sai tutto?”

«Lo so fin da quella sera che Esther è venuta in chiesa.”

“Tu pensi male. Fino ad allora non l’avevo mai toccata.”

“Sì,” disse Deborah “ma avevi smesso di toccare me.”

Gabriel si allontanò un po’ dalla finestra e venne ai piedi del letto, guardandola.

«Gabriel,” disse Deborah “tutti questi anni ho pregato Dio di stendere su di me la sua mano e fare di me una donna come tutte quelle con le quali sei sempre andato.” Era calma, e il suo viso era amaro e paziente. “Si vede che questa non era la Sua volontà. Era come se non potessi in nessun modo dimenticare… come mi hanno trattata quando ero una ragazza.”

Fece una pausa e guardò lontano. “Ma se tu, Gabriel, mi dicevi qualcosa, anche quando quella poveretta è stata sepolta, se volevi avere quel povero bambino, io non mi sarei per niente preoccupata di quello che avrebbe detto la gente, o di dove si poteva andare, o si sarebbe dovuti andare, o altro. L’avrei allevato come un figlio mio, giuro davanti a Dio che l’avrei fatto e ora forse vivrebbe ancora.”

“Deborah,” domandò “cosa hai pensato in tutto questo tempo?”

Essa sorrise.

“Ho pensato quanto sarebbe meglio cominciare a tremai quando il Signore ci dà quello che il nostro cuore desidera.”

S’interruppe un momento. “Ti ho desiderato fin dal momento che ho desiderato qualcosa. E ti ho avuto.”

Gabriel tornò di nuovo alla finestra, col viso bagnato di lacrime.

“Caro,” disse Deborah con una voce diversa, più forte, fa resti bene a pregare Dio di perdonarti. E a non smettere fin ché non ti ha fatto sapere che sei stato perdonato.”

“Si,” sospiro Gabriel “sia fatta la volontà del Signore.”

Poi, sopra il silenzio, ci fu solo il rumore della pioggia. Veniva giù a torrenti; a catinelle, come si dice. I lampi incendiavano di nuovo il cielo, scosso dal fragore dei tuoni. “Ascolta,” disse Gabriel “Dio sta parlando.”

Lentamente si tirò su da dove stava in ginocchio, perché mezza chiesa era ormai in piedi: sorella Price, sorella McCandless, e madre Washington; la giovane Ella Mac sede va sulla sua sedia guardando Elisha steso a terra. Florence e Elizabeth erano ancora in ginocchio; e John era in ginocchio.

Alzandosi, Gabriel pensò a come il Signore lo aveva con dotto a quella chiesa tanto tempo prima, e a come Elizabeth, una sera, dopo che lui aveva finito di predicare, era venuta avanti fino all’altare per pentirsi di fronte a Dio del suo peccato. E poi si erano sposati, perché le aveva creduto quando gli aveva detto che era cambiata - ed era il segno, lei e il suo figlio senza nome, che aveva aspettato da Dio per tanti oscuri anni, Quando li aveva visti, era stato come se Dio gli avesse restituito ciò che aveva perso.

Mentre Gabriel stava con gli altri curvo su Elisha steso a terra, John si alzò in piedi. Gettò uno sguardo inebetito, assonnato e torvo a Elisha e agli altri, tremando un po’ come se avesse freddo; e sentendo su di sé gli occhi di suo padre lo guardo.

In quel momento Elisha, da terra, cominciò a parlare con una lingua di fuoco, sorto l’influsso dello Spirito Santo. John e suo padre si fissarono, improvvisamente muti e immobili, con la sensazione che qualcosa nasceva tra loro, mentre lo Spirito Santo parlava. Mai Gabriel aveva visto una simile espressione sul viso di John; era Satana che in quel momento guardava dagli occhi di John mentre lo Spirito parlava; e tuttavia gli occhi fissi di John quella sera ricordavano a Gabriel altri occhi: quelli di sua madre quando lo picchiava, quelli di Florence quando lo derideva, quelli di Deborah quando pregava per lui, quelli di Esther e di Royal, quelli di Elizabeth quella stessa sera, prima che Roy lo maledisse, e quelli di Roy quando aveva detto: “Bastardo d’un negro “.

John non abbassava il suo sguardo, anzi sembrava voler ficcare per sempre gli occhi in fondo all'anima di Gabriel. E Gabriel non potendo quasi credere che fosse diventato così impudente fissava con indignazione e orrore il presuntuoso bastardo di Elizabeth, così invecchiato di colpo nel male. Fu sul punto di alzar la mano per colpirlo, ma non si mosse perché Elisha giaceva fra loro separandoli. Allora, in un sussurro quasi impercettibile, disse: «Inginocchiati “. John si volse, con un movimento così brusco da sembrare un’imprecazione, e si inginocchiò di nuovo di fronte all’altare.

 

La preghiera di Elizabeth

 

 

Mentre Elisha parlava, Elizabeth senti che il Signore stava inviando un messaggio al suo cuore, che quella ardente visita divina era per lei; e che se avesse ascoltato con umiltà, Dio gliene avrebbe spiegato il senso. Questa certezza non l’aveva empita di esultanza, ma di paura. Temeva ciò che Dio avrebbe potuto dire. L’ira, la condanna, l’annuncia di prove future che sarebbero potuti uscire dalla Sua bocca.

Elisha aveva smesso di parlare. e si era alzato; e ora sedeva al pianoforte. Intorno a Elizabeth si alzava un canto in sordina; e lei aspettava ancora. Nella sua mente vedeva ondeggiare, come nella luce proveniente da un fuoco, il viso di John, che lei aveva messo al mondo così poco volentieri. Era per la sua liberazione che lei piangeva quella sera: perché potesse essere portato, superando la collera divina, allo stato di grazia. Stavano cantando:

«Deve Gesù portar la croce solo, e tutto il mondo andare libero?”

Elisha accennava appena il motivo al pianoforte, le sue dita sembravano esitare, come se suonasse controvoglia. Anche Elizabeth si sforzava di lottare contro la sua avversione a unirsi al canto, ma si obbligòa dire «Amen” quando la voce di madre Washington intonò la risposta:


  “No, c'è una croce per ognuno, e c’è una croce per me”.


  Sentì piangere vicino a sé: era Ella Mae? o Florence? o l’eco amplificata del suo pianto? Il rumore dei singhiozzi era coperto dal canto, Elizabeth aveva sentito quest’inno tutta la vita, era cresciuta con esso, ma non l’aveva mai capito bene come in quel momento. Riempiva la chiesa, come se la chiesa fosse diventata una semplice cavità, uno spazio vuoto riecheggiante le voci che avevano condotto Elizabeth in quel l’oscuro posto. Sua zia l’aveva cantato sempre, con voce se vera e bassa, con amaro orgoglio:


  “La croce consacrata porterò Fino a che libero mi farà la morte, E allora una corona metterò, Perché c’è una corona per me”.


  Sua zia ormai doveva essere una donna molto vecchia, ancora rigida come allora, e che probabilmente cantava ancora questo inno nella minuscola casa, giù al paese, che aveva di viso per tanto tempo con Elizabeth. Essa aveva ignorato la vergogna di Elizabeth; Elizabeth non le aveva scritto di John che molto tempo dopo che aveva sposato Gabriel; e il Signore non aveva mai permesso a sua zia di venire a New York.


  Aveva sempre predetto che Elizabeth sarebbe finita male, orgogliosa, vanitosa e sciocca com’era ed essendo cresciuta senza freni per tutto il periodo della sua infanzia.


  La zia era venuta seconda nella serie di disastri che aveva concluso la fanciullezza di Elizabeth, il primo, quando aveva quasi nove anni, era stato la morte della madre, che Elizabeth non aveva subito considerato un disastro perché l’aveva conosciuta poco e certamente non l’aveva mai amata. Sua madre era molto chiara di pelle, bella e di salute delicata, così che la maggior parte del tempo la passava a letto, leggendo degli opuscoli spiritualisti sui benefici delle malattie e lamentandosi con suo padre per le sue sofferenze. Di lei Elizabeth ricordava solo che piangeva molto facilmente e che aveva odore di latte acido: era forse per l’inquietante colore della carnagione di sua madre che Elizabeth, ogni volta che era presa da lei in braccio, pensava al latte. Ma sua madre non la prendeva in braccio molto spesso. Elizabeth sospettò molto presto che la ragione era che lei era molto più scura di sua madre e molto meno bella, perciò di fronte a sua madre sì sentiva timida, scoraggiata, astiosa. Non sapeva come rispondere alle domande importune e senza senso che sua madre le rivolgeva fingendo uno smodato interessamento materno; quando la baciava, o si lasciava baciare da lei, non riusciva a mostrare qualcosa di più che uno sgradevole senso del dovere. Questo, naturalmente, generava una specie di furore impotente in sua madre, che non si stancava mai di ripeterle che era una figlia “snaturata”.


  Ma con suo padre era molto diverso; suo padre era giovane e bello, gentile e generoso - e cosi Elizabeth non aveva mai smesso di pensarlo - e amava sua figlia. Le diceva che era la pupilla dei suoi occhi, che era il suo grande amore, che era di sicuro la più bella “signorina” della zona. Quando stava con suo padre si pavoneggiava e si metteva in posa come una vera regina: e non aveva paura di niente, salvo che del momento in cui le diceva che era ora di andare a letto, o che lui doveva “andar via “. Le comprava sempre qualche cosa, vestiti o giocattoli, e la domenica la portava a far lunghe passeggiate in campagna, o al circo, quando c’era, o al teatro dei burattini. E era scuro di pelle, come Elizabeth, e dolce e fiero; non era mai stato arrabbiato con lei, ma lei lo aveva visto molte volte arrabbiato con altri, con sua madre, per esempio, e più tardi, naturalmente, con sua zia. Sua madre era sempre arrabbiata e Elizabeth non ci faceva più caso; e sua zia, dopo, era perpetuamente arrabbiata e Elizabeth aveva imparato a sopportare anche questo: ma avrebbe preferito morire, allora, piuttosto che vedere suo padre arrabbiato con lei.


  Neanche lui aveva mai saputo della sua vergogna; quando la cosa era avvenuta, non era stata buona di dirglielo, di dare un tale dispiacere a lui che di dispiaceri ne aveva già tanti.


  Più tardi, quando avrebbe potuto farlo, suo padre era oramai da un pezzo fuori da ogni preoccupazione, nel silenzio della tomba.


  Pensava a lui ora, mentre i canti e i pianti la circondavano e pensava quanto suo padre avrebbe amato quel nipote che gli somigliava in tante cose. Forse non era che una sua idea, ma in certi momenti credeva proprio di sentire in John un’eco, curiosamente lontana e alterata, della dolcezza paterna, e del suo modo di ridere - come buttava indietro la testa cancellando dal viso il segno degli anni, e lo sguardo gli si addolciva e gli angoli della bocca gli si piegavano in alto come nella bocca di un bambino - e di quel terribile orgoglio dietro il quale si nascondeva suo padre quando si scontrava con la cattiveria dell’altra gente. Era stato suo padre a dirle di piangere sola, quando aveva voglia di piangere, senza farsi mai vedere da nessuno, senza chiedere pietà a nessuno; e che quando si deve morire si deve farlo senza tante storie, ma che non bisogna mai darsi per vinti. Le aveva detto questo una delle ultime volte che lei lo aveva visto, quando stavano per portarla molte miglia lontano, nel Maryland, a vivere con la zia. Negli anni che erano seguiti aveva avuto motivo di ricordare quelle parole e tempo di scoprire in se stessa la profonda amarezza che le aveva dettate a suo padre.


  Quando sua madre morì fu la catastrofe; appena sua zia, sorella maggiore di sua madre, arrivò, rimase terrorizzata al vedere Elizabeth così vanitosa e buona a nulla; e decise subito che suo padre non era la persona adatta per educare un bambino e soprattutto, come disse oscuramente, una innocente bambina. E da questa decisione di sua zia, che Elizabeth non le perdonò per molti anni, venne il terzo disastro, la separazione da suo padre, da tutto quello che amava ai mondo.


  Perché suo padre gestiva una “casa”, come la chiamava sua zia, non la casa dove stavano, ma un’altra dove, come Elizabeth era venuta a sapere, andava spesso gente poco per bene. Aveva anche, cosa che aveva sconvolto Elizabeth, un “locale “ frequentato dalla feccia dei negri dei dintorni che ci venivano (qualche volta portando loro le donne e qualche volta trovandole lì) a mangiare, e a bere alcool di contrabbando, e a suonare tutta la notte, e a far cose ancora peggio, come faceva capire il terribile silenzio di sua zia, delle quali era molto meglio non parlare. E giurava che avrebbe mosso cielo e terra piuttosto che lasciar crescere con un uomo simile la figlia di sua sorella, Tuttavia, senza bisogno di disturbare né cielo né terra, salvo il pezzetto di terra su cui sorgeva il tribunale, essa vinse la sua battaglia: come per un incantesimo come quando il buio succede alla luce, la vita di Elizabeth era cambiata, Sua madre era morta, suo padre cacciato via, e lei viveva nell’ombra di sua zia.


  O più esattamente, come pensava ora, l’ombra nella quale era vissuta era paura, paura resa più forte dall’odio. Mai avrebbe pensato di giudicare suo padre; il suo amore per lui non sarebbe cambiato neanche se le avessero detto e provato che era parente del Diavolo. La prova non avrebbe contato niente per lei, e se anche avesse contato non avrebbe rimpianto di essere sua figlia e non avrebbe chiesto niente di meglio che soffrire accanto a lui all’Inferno. Quando era stata allontanata da lui, la sua immaginazione non aveva assolutamente saputo dar corpo alla perversità di cui era accusato: lei certa mente non lo accusava. Aveva pianto angosciosamente quando si era staccato da lei e si era voltato per andar via, e avevano dovuto trascinarla fino al treno. E nemmeno più tardi, quando aveva capito benissimo quello che era avvenuto allora, aveva dentro di sé potuto accusarlo. Forse la sua vita era stata disonesta ma con lei era stato buono. La vita gli era certamente costata abbastanza dolore da togliere ogni importanza al giudizio del mondo. Gli altri non lo avevano conosciuto come lo aveva conosciuto lei; e non gli avevano voluto bene come gliene aveva voluto lei! Solo la rattristava il fatto che non fosse mai venuto a portarla via, come aveva promesso, e che lei lo avesse visto così di rado durante la sua adolescenza. Diventata donna, non lo aveva più visto del tutto; ma allora era stato per colpa sua.