martedì 17 agosto 2021

IL GRANDE GIOCO Peter Hopkirk

 


IL GRANDE GIOCO

Peter Hopkirk

Unico commento oggi è leggere Hopkirk perché quello che accade oggi in Afghanistan è solo l'ultimo di una lunga serie di errori che ha inizio molti anni fa. Nessuno è mai riuscito a capire o forse nessuno ha mai realmente ascoltato Massoud.

“Il Grande Gioco” di Peter Hopkirk: cronaca di avventure e di eroi dimenticati.

Di Corso Pecchioli

Che cosa sia “Il Grande Gioco” di Peter Hopkirk è difficile a dirsi: non è un saggio storico, non è un romanzo, e nemmeno un racconto. Eppure, il libro raccoglie ognuno degli elementi narrativi propri di questi tre generi.

È nell’ibrido di elementi che nasce la magia di “una delle letture più appassionanti”, come la definì Umberto Eco, una cronaca narrata attraverso le vicende dei suoi protagonisti. Tra essi si trova l’inventore stesso dell’espressione “grande gioco”, Arthur Conolly, uno dei suoi interpreti più straordinari che morì decapitato a Buchara nel 1842.

L’arco temporale della narrazione si estende dai primi dell’Ottocento all’agosto del 1907, anno in cui il Grande Gioco volse alla chiusura. Le vicende riguardano la corsa coloniale tra Inghilterra e Russia ai territori dell’Asia centrale e del Caucaso: un intreccio di rapporti e missioni diplomatiche, intrighi e tradimenti, nazionalismo, scontri militari, esplorazioni di territori sconfinati, e incredibili avventure dimenticate.

Parafrasando leggermente le parole usate dall’autore stesso nel prologo, il Grande Gioco si svolse sull’immenso scacchiere situato tra le cime nevose del Caucaso ad ovest, attraverso i grandi deserti dell’Asia centrale fino al Turkestan cinese e il Tibet a est. Qui ebbe luogo una lunga ed oscura lotta per il predominio politico che aveva come “premio finale […] -temevano i circoli più influenti di Londra e Calcutta e speravano ardentemente gli ambiziosi ufficiali russi operanti in Asia- […] l’India britannica.

Il Grande Gioco in effetti fu un interminabile confronto che vedeva l’Inghilterra impegnata a mettere in sicurezza i territori dell’India da una paventata invasione russa, attraverso la creazione di una serie di stati cuscinetto di confine o di occupazioni territoriali dirette.

Mentre la Russia dal canto suo provvedeva a fare altrettanto per difendere lo sconfinato impero dello zar, esteso anche in Asia centrale, secondo il caratteristico “complesso di accerchiamento”, che caratterizzava dai tempi delle invasioni mongole una nazione intera.

Ecco, dunque, che il testo si rivela prezioso per gli amanti della storia. La narrazione segue passo per passo cento anni di relazioni internazionali di due imperi che si fronteggiano secondo il più classico degli schemi: una potenza marittima e una grande potenza di terra. Tema che, dalle guerre del Peloponneso tra Sparta e Atene, segna le sorti di vincitori e perdenti negli annali (dove i vincitori a lungo termine sono sempre forze talassocratiche).

Uno scontro tra leviatani nel senso più squisitamente hobbesiano del termine, unito ad una vivida descrizione del clima europeo del tempo. Sono gli anni del progresso tecnico derivante dalla rivoluzione industriale, gli anni del nazionalismo che cresce nei salotti borghesi delle grandi città, anni in cui la stampa infiamma l’opinione pubblica attraverso giornali e pamphlet, anni in cui gli ufficiali dell’esercito viaggiano con copiose scorte di sigari e champagne nelle campagne militari.

Tutto ciò è tratteggiato nitidamente da Peter Hopkirk, che riesce a trasmettere interamente il clima e il sapore di un passato non molto lontano temporalmente, ma lontano anni luce in quanto a contesto storico.

Questo è già di per sé affascinante, ma la qualità principe del libro è la raccolta di avventure che porta alla luce. Si tratta di biografie di uomini intrepidi che partivano alla volta dei deserti inospitali dell’Afghanistan, e alla scoperta di città che formavano le meraviglie dell’Asia, come Samarcanda. Animati dalla sete di avventura, dall’ambizione, dal patriottismo, persino da delusioni amorose, questi uomini coraggiosi viaggiavano in territori da cui non era garantito il ritorno (come la fine dell’avventura di Arthur Conolly dimostra).

Certamente la meraviglia più grande sta nel fatto che ogni evento narrato, nelle seicento pagine, si basa su accadimenti storici reali.

È come se si venisse catapultati in una realtà da mille e una notte tanto sembrano favolistiche certe circostanze, che pure erano ben concrete per i protagonisti del Grande Gioco, unici europei alla corte degli scià di canati isolati da secoli, e totalmente inconsapevoli delle dimensioni delle vicine nazioni europee.

“Il Grande Gioco” è una straordinaria raccolta di avventure di eroi dimenticati, ed allo stesso tempo un dettagliato resoconto storico dello scontro Anglo-Russo ottocentesco: a metà tra Kipling ed Erodoto, tra le mille e una notte e la cronaca militare. Una lettura imperdibile dal fascino inaspettato.


IL GRANDE GIOCO


PREFAZIONE

I clamorosi avvenimenti che si sono verificati nelle regioni del Grande Gioco da quando è stato scritto questo libro gettano nuova luce su ciò che vi si racconta. D’un tratto, dopo molti anni di quasi completa oscurità, Asia centrale e Caucaso tornano alla ribalta sulle prime pagine dei giornali, occupando quel posto di rilievo che avevano nell’Ottocento, all’apice della partita cruciale.

Con la caduta del comunismo e la disintegrazione in Asia della supremazia di Mosca, «l’impero del male», sono sorti fra le macerie, da un giorno all’altro, otto nuovi paesi. I nomi russi sono spariti dalle carte geografiche; sono stati riscritti i libri di storia; nelle neonate capitali si sono aperte le sedi delle ambasciate straniere. E mentre si regolavano i vecchi conti ancora in sospeso, nuove guerre hanno stravolto la regione – in Georgia, Azerbaigian, Cecenia, Tagikistan e nel vicino Afghanistan.

Ma non è tutto. La pretesa di riempire il vuoto politico ed economico lasciato dal brusco ritiro di Mosca ha riacceso la competizione fra le grandi potenze, e l’Asia centrale è tornata a essere terreno di lotta. I politologi e gli editorialisti hanno già definito questo confronto il Nuovo Grande Gioco. Non è un segreto che in quei territori si trovi una delle prede più ambite nel ventunesimo secolo: gli immensi giacimenti di petrolio e di gas naturale, al cui confronto quelli dell’Arabia Saudita e degli altri Stati del Golfo sembrano poco più che pozzanghere. Se poi a tanta ricchezza si aggiungono le miniere d’oro, argento, rame, zinco, piombo, minerali di ferro, carbone, i campi di cotone, si capisce subito perché i giovani governi dell’Asia centrale siano oggetto di una corte così assidua.

Il Nuovo Grande Gioco, tuttavia, non si limita alla spregiudicata corsa per ottenere concessioni e appalti. Per alcuni dei protagonisti in gara la posta è assai più seria e comporta conseguenze geopolitiche di enorme rilievo. Washington, oggi la principale potenza sullo scacchiere, considera l’Asia centrale un’estensione del Medio Oriente, gravida degli stessi pericoli e difficoltà, e, temendo gli effetti spaventosi che potrebbero scatenarsi se qualche mullah esaltato, fornito di armi nucleari, tentasse di ottenere il controllo di quella irrequieta regione, cerca di mantenerne e alimentarne la stabilità. Non meno intensa è la preoccupazione che l’Asia centrale diventi il grande emporio del commercio di droga.

Il secondo giocatore per importanza è la Russia, storica avversaria della Gran Bretagna in queste zone. Ancora ossessionata dall’esperienza traumatica della conquista mongola di sette secoli fa, Mosca è decisa a impedire che una potenza barbara minacci la Russia europea. Per il Cremlino, così come per la Casa Bianca, l’incubo maggiore sono i fondamentalisti islamici che, in possesso di armi di distruzione di massa, potrebbero servirsi dell’Asia centrale come base per i loro progetti in altri paesi. Allo stesso tempo cova fra i russi, in particolare fra i militari, il rancore per essersi lasciati sfuggire di mano il vecchio impero in quella regione.

Oltre agli Stati Uniti, alla Russia e agli agguerriti interlocutori economici europei, i principali rivali che si contendono il futuro dell’Asia centrale sono i paesi che vi gravitano intorno, in primo luogo Turchia, Iran e Pakistan, e poi Giappone, Corea e Cina. Quest’ultima ha più di un motivo per intrattenere buoni rapporti con le nuove repubbliche, non ultima la paura di rivolte nazionaliste che, aizzate e armate dall’esterno, rischiano di appiccare l’incendio nei territori a maggioranza musulmana. L’India a sua volta segue gli eventi con vigile attenzione, temendo l’accerchiamento da parte delle potenze islamiche militanti a ovest e a nord, e la pressione di una Cina espansionista a est.

Mentre scrivo, è ancora impossibile predire come evolverà la situazione nell’Asia centrale post-sovietica, o indovinare quale delle potenze e fazioni rivali dell’attuale Grande Gioco si aggiudicherà la posta economica e politica in palio. L’improvviso collasso, dopo oltre un secolo, del potere della Russia ha ricacciato l’Asia centrale nel grande calderone della storia. Potrebbe succedere di tutto, e avanzare previsioni sarebbe non soltanto azzardato ma anche stupido. Ecco perché non ho voluto aggiornare il testo originale, salvo aggiungere questa breve prefazione. Fra tante incertezze, tuttavia, su una cosa pare non esservi dubbio. Nel bene e nel male l’Asia centrale fa di nuovo notizia, ed è probabile che continui a farla per molto tempo ancora.

Londra, 1997

PROLOGO

Una mattina di giugno del 1842, nella città centroasiatica di Buchara, due uomini in cenci erano inginocchiati nella polvere della grande piazza antistante il palazzo dell’emiro. Avevano le braccia legate strette dietro la schiena, ed erano in condizioni pietose: sporchi, emaciati, il corpo coperto di piaghe, capelli, barba e vestiti brulicanti di pidocchi. Poco lontano, due buche scavate di fresco. Una piccola folla indigena assisteva in silenzio. Di solito in quella remota città carovaniera ancora medioevale le esecuzioni – frequentissime, sotto il governo crudelmente dispotico dell’emiro – destavano scarso interesse. Ma questa era diversa. I due uomini inginocchiati ai piedi del carnefice nel rovente sole meridiano erano ufficiali britannici.

Per mesi l’emiro li aveva tenuti in una buca buia e puzzolente sotto la cittadella di argilla, con topi e parassiti come soli compagni. I due – il colonnello Charles Stoddart e il capitano Arthur Conolly – stavano per affrontare insieme la morte, a più di seimila chilometri da casa, in un luogo dove oggi dai pullman russi scendono i turisti stranieri, ignari di ciò che un tempo vi accadde. Stoddart e Conolly pagavano lo scotto per essersi cacciati in un gioco oltremodo pericoloso: il Grande Gioco, come veniva chiamato da chi rischiava il collo cimentandovisi. Per ironia della sorte, era stato proprio Conolly a coniare questa espressione, immortalata anni dopo da Kipling nel suo Kim.

Il primo dei due a morire in quella mattina di giugno, sotto gli occhi dell’amico, fu Stoddart. Era stato inviato a Buchara dalla Compagnia delle Indie nell’intento di stabilire con l’emiro un’alleanza contro i russi, la cui avanzata in Asia centrale suscitava timori circa i loro futuri propositi. Ma le cose erano andate assai male. Conolly, partito volontario per Buchara nella speranza di ottenere la libertà del collega, era finito anche lui nell’orrido carcere dell’emiro e, qualche istante dopo Stoddart, era stato a sua volta decapitato. Oggi i resti dei due uomini giacciono, insieme a quelli delle molte altre vittime dell’emiro, in un tristo sepolcreto sotto la piazza, da lungo tempo dimenticato.

Stoddart e Conolly sono solamente due dei tanti ufficiali ed esploratori, britannici e russi, che per quasi un secolo parteciparono al Grande Gioco e le cui avventure e disavventure formano il tessuto narrativo del presente libro. L’immenso scacchiere sul quale si svolse questa oscura lotta per il predominio politico si estendeva dalle cime nevose del Caucaso a ovest, attraverso i grandi deserti e le catene montuose dell’Asia centrale fino al Turkestan cinese e al Tibet a est. Premio finale – temevano i circoli più influenti di Londra e Calcutta e speravano ardentemente gli ambiziosi ufficiali russi operanti in Asia – era l’India britannica.

Tutto ebbe inizio nei primi anni dell’Ottocento, quando le truppe russe cominciarono a spingersi a sud attraverso il Caucaso, allora abitato da feroci tribù musulmane e cristiane, in direzione della Persia settentrionale. Sul principio questa avanzata, come la grande marcia russa a est di due secoli prima attraverso la Siberia, non sembrò minacciare gravemente gli interessi britannici. È vero che Caterina la Grande aveva accarezzato l’idea di muovere contro l’India, e che nel 1801 suo figlio Paolo aveva addirittura spedito verso il subcontinente una forza d’invasione, peraltro richiamata in fretta poco dopo, alla sua morte. Ma a quel tempo nessuno prendeva troppo sul serio i russi. Del resto, i loro avamposti di frontiera più prossimi erano troppo lontani, e non rappresentavano un reale pericolo per i possedimenti della Compagnia delle Indie.

Poi, nel 1807, erano giunte a Londra notizie che avevano allarmato non poco il governo britannico e i dirigenti della Compagnia. Si diceva infatti che Napoleone Bonaparte, imbaldanzito dalle vittorie in Europa, avesse proposto al successore di Paolo, lo zar Alessandro I, di invadere insieme l’India e di strapparla al dominio inglese, prospettando ai due eserciti congiunti la conquista – nientemeno – del mondo intero. A Londra e a Calcutta non era un segreto che Napoleone mirasse da tempo al-l’India, spinto anche dal desiderio di vendicare le umilianti sconfitte subite in passato dai suoi compatrioti per mano inglese nella lotta per il possesso di quella regione.

Il piano era grandioso: un corpo di spedizione francese di cinquantamila uomini si sarebbe diretto sulla Persia e l’Afghanistan, per unirsi ai cosacchi di Alessandro. Le truppe franco-russe avrebbero poi superato l’Indo, entrando in territorio indiano. Ma il teatro delle operazioni non era l’Europa, con la sua disponibilità di rifornimenti, le strade, i ponti e il clima temperato; Napoleone non aveva idea degli ostacoli e delle sofferenze terribili che un esercito avrebbe dovuto affrontare lungo questo cammino. La sua ignoranza del territorio, fatto di grandi deserti e catene montuose, era pari a quella degli inglesi medesimi. Finora infatti gli inglesi, arrivati originariamente dal mare, avevano rivolto scarsa attenzione alle vie terrestri per l’India, badando soprattutto a tenere aperte quelle marittime.

Da un giorno all’altro la loro sicumera svanì. Se i russi da soli non rappresentavano un pericolo mortale, gli eserciti congiunti di Napoleone e Alessandro erano un altro paio di maniche, specie se guidati da un genio militare come Bonaparte. Fu quindi diramato in gran fretta l’ordine di esplorare a fondo e cartografare le possibili vie d’accesso all’India, per dar modo ai dirigenti della Compagnia di scegliere i luoghi più adatti per bloccare e distruggere l’invasore. Contemporaneamente furono inviate missioni diplomatiche allo scià di Persia e all’emiro dell’Afghanistan, per i cui domini sarebbe dovuto passare il nemico, nella speranza di dissuaderli dal far causa comune con quest’ultimo.

La minaccia non si concretò, perché ben presto i rapporti fra Napoleone e Alessandro si guastarono. Le truppe francesi invasero la Russia, entrarono a Mosca in fiamme, e per il momento l’India fu dimenticata. Ma proprio mentre Napoleone veniva ricacciato in Europa con terribili perdite, per l’India sorse una nuova minaccia, meno effimera. La vittoria contro i francesi aveva infatti rinfocolato le ambizioni, o l’orgoglio imperiale, della Russia: e quando i suoi eserciti – temprati in battaglia – ripresero ad avanzare a sud attraverso il Caucaso, i timori per la sicurezza dell’India si intensificarono.

Schiacciate le tribù caucasiche, sia pure dopo una lunga e accanita resistenza cui prese parte un pugno di inglesi, i russi volsero il loro cupido sguardo a est. Là, nel vasto scenario di deserti e montagne a nord dell’India, si trovavano gli antichi canati musulmani di Chiva, Buchara e Kokand. Con l’accelerarsi dell’avanzata russa in tale direzione crebbe l’allarme a Londra e a Calcutta. Quell’area sterminata, terra di nessuno, dal punto di vista politico era destinata a diventare in breve un’avventurosa arena dove giovani, ambiziosi ufficiali ed esploratori di entrambe le parti rilevavano i valichi e i deserti che gli eserciti avrebbero dovuto varcare in caso di guerra.

A metà Ottocento l’Asia centrale era di rado assente dai titoli dei giornali. Le antiche città carovaniere e i canati della vecchia Via della Seta cedevano progressivamente alle armi russe; di settimana in settimana sembrava che i cavalleggeri cosacchi, avanguardia di ogni avanzata, si avvicinassero sempre più alle sguarnite frontiere dell’India. Nel 1865 la grande città fortificata di Taškent si arrese allo zar. Tre anni più tardi fu la volta di Samarcanda e Buchara, e dopo altri cinque, al secondo tentativo, i russi si impadronirono di Chiva. Le stragi inflitte dai cannoni russi a quei coraggiosi che si dimostravano così poco saggi da resistere furono orripilanti. «In Asia» spiegò un generale russo «più duro colpisci, più a lungo se ne stanno tranquilli».

Nonostante Pietroburgo si affannasse a ripetere di non avere intenzioni ostili verso l’India, e che ogni avanzata era l’ultima, pareva a molti che fosse in atto un disegno grandioso per portare l’intera Asia centrale sotto il dominio zarista. Realizzato il quale, si temeva, sarebbe cominciata l’avanzata sull’India, suprema meta imperiale. Non era un mistero che parecchi fra i più abili generali dello zar avessero redatto i piani per questa invasione, e che tutto l’esercito russo mordesse il freno.

Col graduale ridursi della distanza tra le due frontiere il Grande Gioco crebbe d’intensità. Nonostante i pericoli, derivanti soprattutto dalle tribù e dai principi ostili, stuoli di giovani ufficiali intrepidi erano pronti a rischiare la vita oltre frontiera, per colmare le lacune delle mappe, sorvegliare i movimenti russi e cercare di guadagnare l’appoggio dei khan diffidenti. Come vedremo, Stoddart e Conolly non furono i soli a perire tra le insidie del Nord. Quasi tutti gli eroi di questa lotta oscura erano professionisti, ufficiali dell’esercito indiano o agenti politici, mandati dai loro superiori di Calcutta a raccogliere ogni genere di informazioni. Tuttavia, non mancavano i dilettanti di razza, spesso viaggiatori facoltosi, che sceglievano di giostrare in questo «torneo d’ombre», come ebbe a chiamarlo un ministro zarista. Alcuni si muovevano in incognito, altri tranquillamente in uniforme.

Certe zone erano giudicate troppo pericolose, o politicamente delicate, perché gli europei vi si avventurassero, sia pure sotto mentite spoglie. Eppure era necessario esplorarle e redigerne una rappresentazione cartografica, se si voleva difendere l’India. Si trovò una soluzione ingegnosa. Montanari indiani scaltri e intraprendenti, e soprattutto specializzati nelle tecniche di rilevamento topografico clandestino, furono mandati oltre frontiera travestiti da religiosi musulmani o pellegrini buddhisti. Costoro, spesso con grave rischio della vita, rilevarono in segreto, e con notevole accuratezza, migliaia di chilometri quadrati di territorio fino allora inesplorato. Dal canto loro, i russi si servirono di buddhisti mongoli per penetrare in regioni considerate troppo pericolose per gli europei.

La minaccia russa all’India sembrava allora molto concreta, checché ne dicano oggi gli storici col senno di poi. Bastava dare un’occhiata alla carta. Per quattro secoli l’impero russo si era venuto ampliando al ritmo di circa centocinquanta chilometri quadrati al giorno, vale a dire più di cinquantamila all’anno. Ai primi dell’Ottocento più di tremila chilometri separavano l’impero britannico da quello russo in Asia. Alla fine del secolo la distanza si era ridotta a poche centinaia, e in certe zone del Pamir a meno di trenta. Non c’è da stupirsi se molti temevano che i cosacchi sarebbero smontati da cavallo solo quando anche l’India fosse stata in mano loro.

Ma il Grande Gioco non riguardava solo chi vi era coinvolto per obblighi professionali. In patria, schiere di strateghi dilettanti lo seguivano a tavolino, prodigando consigli in un torrente di libri, articoli, opuscoli appassionati e lettere ai giornali. Gli autori, per lo più russofobi e di vedute fortemente belliciste, sostenevano che per fermare l’avanzata russa occorreva prevenirla giocando d’anticipo, ossia muoversi per primi e creare docili Stati cuscinetto, o satellite, a ridosso delle probabili vie d’invasione. Dello stesso parere erano i giovani e ambiziosi ufficiali dell’esercito e del dipartimento politico d’India, impegnati nei deserti e sui passi montani centroasiatici in questo nuovo ed emozionante sport, che offriva possibilità di avventura e di carriera, e fors’anche un posto nella storia imperiale. L’alternativa era il tedio della vita di guarnigione nelle infuocate pianure indiane.

Ma non tutti erano convinti che la Russia mirasse davvero a strappare l’India dalle mani britanniche, o che fosse militarmente in grado di farlo. Gli avversari della politica di aggressione argomentavano che il miglior baluardo dell’India fosse la sua eccezionale posizione geografica, circondata com’era da impervie catene di monti, fiumi possenti, aridi deserti, tribù bellicose. Un’armata russa che avesse raggiunto l’India dopo aver superato tutti questi ostacoli sarebbe stata talmente debilitata da non poter competere con l’esercito britannico. Era quindi più sensato che gli inglesi costringessero l’invasore ad allungare a dismisura le sue linee di comunicazione anziché allungare le proprie. Rispetto all’alternativa immediata, e cioè l’aggressione, la politica attendista (che qualcuno chiamava «l’inazione ottimale») aveva almeno un vantaggio: costava meno. Entrambe, peraltro, ebbero il loro momento di fortuna.

Per quanto possibile, ho cercato di imperniare il racconto, anziché sulle forze in campo o sulla geopolitica, sui singoli individui che, nell’uno e nell’altro fronte, hanno avuto un ruolo nella grande lotta imperiale. Questo libro non pretende di essere una storia delle relazioni anglo-russe nel periodo in questione, poiché sull’argomento esistono già le pubblicazioni di studiosi autorevoli come Anderson, Gleason, Ingram, Marriott e Yapp. Né, per evidenti ragioni di spazio, ci è consentito addentrarci nei rapporti complessi e in continua evoluzione tra Londra e Calcutta. Tali rapporti costituiscono infatti una questione a sé, sviscerata in numerosi trattati sulla presenza britannica in India, più di recente da Sir Penderel Moon nelle 1235 pagine di The British Conquest and Domination of India, monumentale studio sul Raj, il dominio coloniale in India.

Impostato prevalentemente sui personaggi, questo racconto ha molti protagonisti – più di cento – e abbraccia almeno tre generazioni. Si apre con Henry Pottinger e Charles Christie nel 1810 e termina con Francis Younghusband quasi un secolo dopo. Sono in scena anche i russi, non meno temibili dei loro omologhi britannici, a cominciare dall’intrepido Murav’ëv e dal misterioso Vitkevič, per finire con l’impareggiabile Gromčevskij e l’insidioso Badmaev. Pur avendo una visione molto diversa degli eventi, gli storici sovietici hanno cominciato a nutrire un maggior interesse (e non poco orgoglio) per le gesta dei loro attori. Alcuni, in mancanza di un opportuno termine proprio, danno alla lotta in questione il nome, appunto, di Grande Gioco (Bol’šaja Igra). Nel descrivere le imprese dei russi e dei britannici ho cercato di rimanere il più possibile neutrale, lasciando che le azioni dei singoli parlino da sole, e che sia il lettore a giudicare.

La storia dimostra – quantomeno – che negli ultimi cent’anni non molto è cambiato. L’assalto di folle inferocite alle ambasciate, l’uccisione di diplomatici, l’invio di navi da guerra nel Golfo Persico: tutto questo era fin troppo familiare ai nostri antenati vittoriani. Spesso si fatica a distinguere i titoli che compaiono sui giornali di oggi da quelli di un secolo fa o più. Sembra che le dolorose lezioni del passato ci abbiano insegnato ben poco. Se nel dicembre 1979 i russi si fossero ricordati le infelici esperienze britanniche del 1842 in Afghanistan, in circostanze tutto sommato simili, forse non sarebbero caduti nella stessa, terribile trappola e avrebbero risparmiato così la vita di quindicimila ragazzi, per tacere delle innumerevoli vittime afgane innocenti. Mosca ha scoperto troppo tardi che gli afgani erano un nemico imbattibile. Mantenendo le capacità combattive per cui da sempre, specie su terreno amico, sono celebri, si erano dotati di tutte le tecnologie militari più recenti. A ben vedere, i micidiali jezail a canna lunga, che un tempo seminavano strage fra i soldati inglesi, avevano trovato il loro equivalente moderno nei missili termosensibili Stinger, letali per gli elicotteri russi da combattimento.

Qualcuno potrebbe dire che il Grande Gioco, che si continua comunque a giocare, ha precorso la Guerra Fredda, nutrendosi degli stessi timori, sospetti e malintesi. In effetti, uomini come Conolly e Stoddart, Pottinger e Younghusband non stenterebbero a riconoscere sostanzialmente simile alla loro la lotta combattuta, sebbene per poste infinitamente più alte, nel ventunesimo secolo. Come la Guerra Fredda, il Grande Gioco ebbe i suoi periodi di distensione, che peraltro non durarono mai molto a lungo: motivo per noi di interrogarci sulla stabilità dell’odierna concordia. Ottant’anni dopo la sua fine ufficiale con la firma della convenzione anglo-russa del 1907, il Grande Gioco è ancora di sinistra attualità.

Ma prima di metterci in cammino per valichi nevosi e infidi deserti alla volta dell’Asia centrale, teatro di questa narrazione, dobbiamo anzitutto andare indietro di sette secoli nella storia russa. Perché allora ebbe luogo un cataclisma storico destinato a lasciare sul carattere russo un marchio indelebile. Un cataclisma che non solo inculcò nei russi il timore costante di essere accerchiati – vuoi da orde nomadi o da postazioni missilistiche nucleari –, ma li portò a spingersi senza posa verso est e verso sud in Asia, e infine a scontrarsi con l’India britannica.


1
IL PERICOLO GIALLO

Secondo il detto, li sentivi arrivare dall’odore prima ancora di udire il rombo degli zoccoli. Ma a quel punto era troppo tardi. Un attimo dopo arrivava il primo, micidiale sciame di frecce, che oscurava il sole facendo notte del giorno. Poi ti erano addosso e iniziavano a massacrare, stuprare, saccheggiare, incendiare. Come un torrente di lava, distruggevano ogni cosa sul loro cammino e si lasciavano dietro una scia di città fumanti e ossa biancastre. Seguendola, si sarebbe arrivati alla loro terra natia, in Asia centrale. «I soldati dell’Anticristo vengono a mietere l’ultimo terribile raccolto», così uno scrittore del Duecento parla delle orde mongole.

La rapidità fulminea dei loro arcieri a cavallo e la geniale singolarità della loro tattica coglievano alla sprovvista un’armata dopo l’altra. I vecchi trucchi, a lungo usati nella guerriglia tribale, permettevano ai mongoli di sgominare con perdite trascurabili nemici molto superiori di numero. Non di rado la finta fuga dal campo di battaglia attirava comandanti anche molto esperti al macello. Roccaforti considerate imprendibili venivano velocemente espugnate grazie al crudele espediente di ammassare i prigionieri – uomini, donne e bambini – in testa alla torma degli assalitori, usandone poi i cadaveri come ponte umano per superare buche e fossati. I superstiti erano costretti a portare le lunghe scale dei mongoli fino alle mura della fortezza, o a erigere le macchine da assedio sotto una grandine di proiettili. Spesso i difensori, riconoscendo tra questi disgraziati familiari e amici, si rifiutavano di colpirli.

Mentre attraversavano l’Asia avanzando alla volta di un’Europa tremebonda e devastando regni su regni, i mongoli, maestri nella propaganda nera, si premuravano di farsi precedere da storie raccapriccianti sulla loro barbarie. Si raccontava che, fra le tante atrocità, praticassero il cannibalismo, e che ai comandanti fossero riservati i seni delle vergini catturate. Solo la resa immediata offriva una tenuissima speranza di misericordia. Dopo ogni battaglia i capi nemici sconfitti venivano lentamente schiacciati a morte sotto il tavolato su cui banchettavano i vincitori in tripudio. Spesso, se non servivano altri prigionieri, l’intera popolazione delle città conquistate veniva trucidata, per impedire che ritornasse a rappresentare un pericolo; altre volte era venduta in massa sui mercati degli schiavi.

La spaventosa tempesta mongola si scatenò sul mondo nel 1206 a opera di un genio militare analfabeta di nome Temujin, in origine oscuro capo di una piccola tribù ma in breve destinato a eclissare, col nome di Genghiz khan, la fama di Alessandro Magno. Il suo sogno era conquistare il mondo, compito a cui si riteneva eletto da Dio – e per un trentennio lui e i suoi successori andarono molto vicino a realizzarlo. Al culmine della sua potenza l’impero mongolo, che si estendeva dalla costa del Pacifico alla frontiera polacca, abbracciava l’intera Cina, la Persia, l’Afghanistan, l’odierna Asia centrale, parti dell’India settentrionale e del Caucaso; e, cosa di particolare importanza per la nostra storia, vasti tratti della Russia e della Siberia.

A quel tempo la Russia consisteva di una dozzina circa di principati, spesso in guerra fra loro. Tra il 1219 e il 1240, incapaci di unirsi per far fronte al nemico comune, essi caddero a uno a uno vittime dell’implacabile macchina da guerra mongola. E di ciò ebbero per lunghissimo tempo a pentirsi. Conquistata una regione, i mongoli governavano mediante un sistema di principi vassalli e, purché venissero loro versati i tributi, interferivano di rado; ma se il tributo non li soddisfaceva, erano spietati. Risultato inevitabile: un governo tirannico da parte dei principi vassalli, e un impoverimento e un’arretratezza destinati a durare secoli, in alcuni casi. Come quello della Russia. Per oltre duecento anni i russi ristagnarono e soffrirono sotto il giogo dell’Orda d’Oro – come quei mercanti di morte chiamavano se stessi, alludendo ai pali d’oro che reggevano la grande tenda di comando del loro impero occidentale. In aggiunta alle spaventose distruzioni materiali, il dominio predatorio degli invasori devastò l’economia russa, bloccò commerci e industrie, e ridusse il popolo in servitù. Gli anni della dominazione tartara – così i russi chiamano questo capitolo nero della loro storia – videro anche l’introduzione di metodi amministrativi asiatici e di altri costumi orientali, che si sovrapposero a quelli bizantini preesistenti. Tagliata fuori dall’influenza liberalizzante dell’Europa occidentale, la popolazione assunse via via una mentalità e una cultura sempre più asiatiche. Gratta un russo, si diceva, e troverai un tartaro.

Frattanto, approfittando delle angustie e della debolezza militare della Russia, i vicini europei – i principati tedeschi, la Lituania, la Polonia, la Svezia – cominciarono a impossessarsi del suo territorio. I mongoli, purché continuasse ad arrivare il tributo, lasciavano fare, avendo molto più a cuore i domini asiatici. Là, infatti, c’erano Samarcanda e Buchara, Herat e Baghdad, città di incomparabile ricchezza e splendore, ben più preziose dei paesoni russi, quasi tutti costruiti in legno. Così nei russi, schiacciati tra i nemici europei a ovest e i mongoli a est, si sviluppò quel timore paranoide dell’invasione e dell’accerchiamento che non ha più cessato di condizionarne le relazioni internazionali.

Di rado un’esperienza ha lasciato nella psiche di una nazione cicatrici altrettanto profonde e durevoli. Il che spiega almeno in parte alcuni comportamenti dei russi: la storica xenofobia (rivolta soprattutto a oriente), la politica estera spesso aggressiva, la stoica accettazione della tirannia. Le invasioni di Napoleone e di Hitler, sebbene fallite, non hanno fatto che rafforzare questi timori. Solo oggi i russi sembrano cominciare a scrollarsi di dosso il loro infelice retaggio. I piccoli, feroci cavalieri scatenati sul mondo da Genghiz khan hanno insomma molto di cui rispondere, anche a più di quattro secoli da quando furono definitivamente sconfitti, ripiombando nell’oscurità da cui erano venuti.

L’uomo che liberò i russi dall’oppressione mongola fu Ivan III, principe di Mosca, noto anche come Ivan il Grande. Al tempo della conquista mongola Mosca era una piccola e insignificante città di provincia, offuscata da potenti vicini e remissiva nei loro confronti. Ma i principi moscoviti erano, fra tutti i vassalli, i più solleciti vuoi nel versare i tributi vuoi nel rendere omaggio ai dominatori. Per ricompensare tanta devozione, i mongoli concessero loro poteri e libertà sempre più ampi. Con gli anni Mosca, ormai principato di Moscovia, crebbe in forza e dimensioni, finendo per dominare tutti i vicini. Distratti dalle lotte intestine, i mongoli realizzarono troppo tardi quanto la Moscovia fosse diventata pericolosa.

La resa dei conti avvenne nel 1480. In un accesso di collera, si dice, Ivan calpestò un ritratto di Achmat Khan, capo dell’Orda d’Oro, mettendo a morte parecchi suoi inviati. Uno tuttavia riuscì a sopravvivere e riferì al suo signore questo inaudito atto di sfida. Risoluto a impartire al suddito ribelle una lezione indimenticabile, Achmat mosse contro la Moscovia. Con stupore trovò ad aspettarlo, sulla riva opposta del fiume Ugra, a duecentoquaranta chilometri da Mosca, una forza numerosa e bene armata. Per settimane i due eserciti si fronteggiarono dalle opposte sponde del fiume, senza risolversi ad attraversarlo. Ma presto, sopraggiunto l’inverno, l’acqua cominciò a gelare. Una feroce battaglia appariva inevitabile.

E lì accadde qualcosa di straordinario. D’un tratto, senza preavviso, entrambe le parti volsero in fuga, come prese simultaneamente dal panico. Nonostante la condotta ingloriosa, i russi capirono che il loro secolare travaglio era al termine. Gli oppressori, chiaramente, non volevano più battersi; la macchina bellica mongola, un tempo tanto temuta, non era più invincibile. Il potere centrale dei mongoli in Occidente era infine crollato, lasciando, come ultimi resti del colossale impero di Genghiz khan e dei suoi successori, solo tre canati molto distanti fra loro, a Kazan, ad Astrachan e in Crimea. Queste tre roccaforti residue costituivano tuttavia ancora un pericolo, che sarebbe cessato solo con la loro distruzione.

Fu Ivan il Terribile, uno dei successori di Ivan III, a impadronirsi delle prime due e a incorporarle nell’impero moscovita in rapida espansione. Nel 1553 le sue truppe assetate di vendetta presero d’assalto la fortezza di Kazan, sull’alto Volga, massacrando i difensori proprio come avevano fatto i mongoli allorché devastarono le grandi città russe. Due anni dopo la stessa sorte toccò al canato di Astrachan, che sorgeva nel punto in cui il Volga si getta nel Caspio. Soltanto la Crimea, ultima ridotta tartara, continuò a sopravvivere, e solo perché godeva della protezione dei sultani ottomani, che la consideravano un prezioso baluardo contro i russi. Così, a parte qualche saltuaria incursione dei tartari di Crimea, il pericolo mongolo era stato eliminato per sempre, e si era aperta la strada alla più grande impresa coloniale della storia: l’espansione della Russia a est, in Asia.

Nella sua prima fase esploratori, soldati e mercanti di Moscovia si spinsero anche per seimila chilometri nell’immensità della Siberia, con i suoi fiumi possenti, le gelide steppe e le foreste impenetrabili. Paragonabile per molti aspetti alla conquista del West da parte dei coloni americani, l’impresa si protrasse per oltre un secolo, ed ebbe termine solo quando i russi raggiunsero le coste del Pacifico e vi si stabilirono. Ma la conquista della Siberia, una delle grandi epopee della storia umana, esorbita dal quadro del nostro racconto. Questa vasta regione inospitale era troppo lontana perché le altre potenze, e men che mai gli inglesi in India, se ne sentissero minacciati. La sua colonizzazione costituì in realtà il primo stadio di un processo di espansione che terminò soltanto quando la Russia divenne il paese più esteso del globo e, almeno agli occhi britannici, un pericolo crescente per l’India.

Il primo zar a volgere lo sguardo all’India fu Pietro il Grande. Pietro conosceva bene l’estrema arretratezza del suo paese, e sapeva altrettanto bene quanto – anche a causa dei «secoli mongoli» – fosse vulnerabile. Per questo decise di portarlo socialmente ed economicamente al livello del resto d’Europa, e di fare del suo esercito una forza in grado di tener testa a quella di ogni altra potenza. Per raggiungere lo scopo, però, gli occorrevano ingenti somme di denaro, e dopo le guerre – contemporanee – contro la Svezia e la Turchia le casse dell’erario erano vuote. Per una felice coincidenza gli giunse dall’Asia centrale notizia dei ricchi giacimenti auriferi che si trovavano sulle rive del fiume Oxus (Amu Darya), in una regione remota e ostile dove in pochi avevano mai messo piede, russi o europei che fossero. E Pietro sapeva altresì, dalle relazioni dei viaggiatori russi, che al di là dei deserti e delle montagne dell’Asia centrale c’era l’India, terra di leggendarie ricchezze, cui già attingevano via mare i suoi rivali europei, e in particolare gli inglesi. Il suo fertile ingegno concepì dunque un piano per mettere le mani sia sull’oro centroasiatico sia su una parte dei tesori indiani.

Anni prima il khan di Chiva, sovrano islamico il cui regno desertico si estendeva da un lato e dall’altro del fiume Oxus, gli aveva chiesto aiuto per domare le riottose tribù della regione. In cambio della protezione, il khan si era offerto di diventare vassallo della Russia. Avendo a quel tempo poco o punto interesse per l’Asia centrale, e problemi a sufficienza in patria e in Europa, Pietro aveva lasciato cadere la proposta. Adesso però gli venne in mente che Chiva, situata a metà strada tra le sue frontiere e quelle dell’India, sarebbe stata una base d’importanza strategica per il controllo nella regione. Di là i suoi geologi avrebbero potuto muovere alla ricerca dell’oro, e il luogo sarebbe servito anche da tappa intermedia per le carovane russe che sperava di veder presto tornare dall’India cariche di esotiche merci preziose, da destinare al mercato interno ed europeo. Impadronirsi delle vie terrestri avrebbe significato mettere in scacco il commercio marittimo, che dai porti europei impiegava fino a un anno per raggiungere l’India. Un khan amico, inoltre, gli avrebbe forse fornito scorte armate per le carovane, risparmiandogli l’impiego di truppe russe, e la spesa enorme che ne sarebbe conseguita.

Pietro decise di inviare a Chiva una spedizione bene armata per accettare, sia pure tardivamente, l’offerta del khan. In cambio avrebbe fornito una guardia permanente russa a protezione del sovrano, e garantito alla sua famiglia il possesso ereditario del trono. Ove egli avesse cambiato idea, o fosse stato tanto miope da opporsi alla spedizione, l’artiglieria l’avrebbe fatto rinsavire, riducendo in polvere le medioevali architetture d’argilla di Chiva. Una volta impadronitosi, preferibilmente in termini amichevoli, della città, Pietro si sarebbe potuto mettere a cercare l’oro dell’Oxus e una via carovaniera per l’India. Al comando dell’importante spedizione lo zar nominò un principe musulmano caucasico convertito al cristianesimo e ora ufficiale regolare del reggimento scelto delle Guardie, Aleksandr Bekovič – non a torto ritenuto, date le sue origini, l’uomo ideale per trattare con un altro orientale. La spedizione, di quattromila uomini, comprendeva corpi di fanteria, cavalleria, artiglieria e un certo numero di mercanti russi, ed era accompagnata da cinquecento tra cavalli e cammelli.

A parte le tribù turkmene ostili che abitavano questa regione desolata, l’ostacolo principale era costituito dalla pericolosa distesa desertica di oltre ottocento chilometri fra le sponde orientali del Caspio e Chiva. La spedizione avrebbe dovuto attraversarla, e altrettanto avrebbero dovuto fare poi le carovane russe di ritorno dall’India a pieno carico. Ma qui Pietro diede ascolto a un suo alleato, un capotribù turkmeno secondo il quale molti anni prima il fiume Oxus si gettava non nel Lago d’Aral bensì nel Caspio, ed era stato deviato dal suo corso dalle tribù locali per mezzo di dighe. Pietro ritenne che, se fosse stato vero, i suoi genieri avrebbero potuto facilmente distruggere le dighe, riportando il fiume nell’alveo originario. In tal caso le merci in viaggio dall’India alla Russia e viceversa avrebbero potuto compiere buona parte del percorso in battello, evitando la rischiosa traversata del deserto. Questa prospettiva cominciò ad apparire promettente quando una squadra di ricognizione riferì di aver trovato il presunto vecchio alveo dell’Oxus in un tratto desertico non lontano dalle rive del Caspio.

Nell’aprile del 1717, dopo aver celebrato la Pasqua russa, Bekovič e i suoi salparono da Astrachan, all’estremità settentrionale del Caspio, e navigarono attraverso il grande mare interno su una flottiglia di quasi cento battelli, portando con sé provviste sufficienti per un anno. Ma tutto richiese molto più tempo del previsto, e solo a metà giugno la spedizione entrò nel deserto e si diresse a est, verso Chiva. Gli uomini cominciavano a soffrire il caldo e la sete, e presto l’insolazione e altre infermità fecero le prime vittime. Al tempo stesso bisognava difendersi dagli attacchi delle tribù di predoni che impedivano l’avanzata. Ma tornare indietro e rischiare la collera dello zar era impensabile, e gli uomini proseguirono stoicamente verso la lontana Chiva. A metà agosto, dopo più di due mesi nel deserto, si trovarono a pochi giorni di marcia dalla capitale.

Incerto sull’accoglienza che gli sarebbe stata riservata, Bekovič mandò in avanscoperta alcuni corrieri con lauti doni per il khan, per rassicurarlo sullo scopo pacifico della missione. Che il khan in persona venisse incontro all’emissario dello zar parve a tutti di buon auspicio. Dopo uno scambio di cortesie, e dopo aver ascoltato insieme la banda musicale della spedizione, Bekovič e il khan cavalcarono verso la città, seguiti a poca distanza dalle schiere russe esauste. Nell’avvicinarsi alle porte, il khan spiegò a Bekovič che non era possibile alloggiare e nutrire tanti uomini a Chiva, e propose che i russi fossero divisi in vari gruppi, in modo da poter essere convenientemente ospitati nei villaggi contigui alla capitale.

Ansioso di non offendere il khan, Bekovič accettò e disse al maggiore Frankenburg, suo vice, di dividere gli uomini in cinque gruppi e di acquartierarli nei luoghi assegnati. Frankenburg protestò che sparpagliare in questo modo le forze era un’imprudenza, ma Bekovič gli ingiunse di obbedire; e poiché l’altro insisteva, minacciò di spedirlo, una volta tornati in patria, davanti alla corte marziale se non avesse fatto come gli veniva ordinato. Le truppe furono quindi condotte un po’ qua e un po’ là, a piccoli gruppi.

Era quanto aspettavano i chivani, che piombarono sui russi cogliendoli, ovunque, di sorpresa. Tra i primi a perire, lo stesso Bekovič, catturato, spogliato dell’uniforme e fatto a pezzi sotto gli occhi del khan. Poco dopo la sua testa mozza, imbottita di paglia, veniva mostrata insieme a quelle di Frankenburg e di altri ufficiali alla folla in tripudio. Frattanto le truppe russe, separate dai loro comandanti, venivano sistematicamente massacrate. A carneficina conclusa, il khan ordinò di schierare i circa quaranta superstiti nella piazza principale, e di giustiziarli davanti alla popolazione. A salvar loro la vita fu l’intervento dell’akhund, o capo spirituale, di Chiva, il quale ammonì il khan che la sua vittoria era stata ottenuta col tradimento, e uccidere i prigionieri avrebbe aggravato il delitto agli occhi di Dio.

Fu un atto da temerario, che impressionò il khan. I russi furono risparmiati. Alcuni vennero venduti come schiavi, mentre agli altri fu consentito di riprendere penosamente la via del deserto verso il Caspio. I sopravvissuti raccontarono l’accaduto ai commilitoni che presidiavano i due piccoli forti di legno costruiti prima di partire per Chiva; e la notizia funesta fu recata di là a Pietro il Grande nella nuova capitale San Pietroburgo, la cui costruzione si era appena conclusa. Nel frattempo, per gloriarsi del trionfo sui russi, il khan di Chiva mandò all’emiro di Buchara suo vicino la testa di Bekovič, principe musulmano che aveva venduto l’anima agli infedeli, tenendo il resto del corpo in mostra a Chiva. Ma l’emiro si affrettò a restituire il macabro trofeo, dichiarando di voler rimanere estraneo a tanta perfidia – molto probabilmente, temeva di attirare su di sé l’ira dei russi.

Il khan di Chiva fu più fortunato di quanto forse si rendesse conto, avendo scarsa nozione della grandezza e potenza militare del suo vicino settentrionale. Non ci furono infatti rappresaglie. Chiva era troppo lontana, e Pietro troppo impegnato a estendere le sue frontiere altrove, in particolare nel Caucaso, per mandare una spedizione punitiva a vendicare Bekovič e i suoi uomini. La rinviò a quando avesse avuto le mani più libere. In realtà passarono molti anni prima che i russi ritentassero di annettersi Chiva. Ma il tradimento del khan, se rimase impunito, non fu certo dimenticato, e confermò nei russi la diffidenza verso gli orientali. Di fatto, la spietatezza di cui diedero prova assoggettando le tribù musulmane dell’Asia centrale e del Caucaso, e ai giorni nostri i mujaheddin afgani (sebbene in quest’ultimo caso con assai minore successo), va fatta risalire a quel remoto episodio.

Pietro, come che sia, rinunciò al sogno di aprire una via aurea per l’India, lungo la quale sarebbero affluite portentose ricchezze. Aveva già messo mano a più imprese di quante un uomo potesse sperare di compiere in una vita, e le aveva realizzate quasi tutte. Ma molto tempo dopo la sua morte, avvenuta nel 1725, cominciò a circolare con insistenza in Europa una strana storia circa il testamento dello zar. Si raccontava che dal letto di morte Pietro avesse segretamente ordinato ai suoi eredi e successori di perseguire quello che riteneva il destino storico della Russia: il dominio sul mondo. L’India e Costantinopoli erano le due chiavi gemelle per raggiungere questo fine, e la Russia se ne sarebbe dovuta impadronire a qualunque costo. Nessuno ha mai visto questo documento, e gli storici sono sostanzialmente inclini a ritenere che non sia mai esistito. Ma Pietro il Grande era un uomo temuto e rispettato, e del suo testamento si continuò a parlare per un pezzo. Ne circolarono persino alcune versioni a stampa. Dopotutto, che quel genio irrequieto e ambizioso avesse impartito alla posterità un ordine del genere era abbastanza verosimile. La successiva spinta della Russia verso l’India e Costantinopoli sembrò a molti darne piena conferma, e la convinzione che il vero scopo della politica russa fosse l’egemonia planetaria è sopravvissuta fino ai giorni nostri, o quasi.

Solo dopo circa quarant’anni, col regno di Caterina la Grande, la Russia tornò a dar segni di interesse per l’India, dove la Compagnia britannica delle Indie orientali era venuta continuamente guadagnando terreno, soprattutto a spese dei francesi. In precedenza la dissoluta zarina Anna aveva addirittura restituito tutte le conquiste caucasiche di Pietro allo scià di Persia (a dispetto del presunto testamento), sostenendo che prosciugavano l’erario. Ma Caterina, come Pietro, era espansionista. Il suo disegno, noto a tutti, era di scacciare i turchi da Costantinopoli e di stabilirvi un governo sotto il suo saldo controllo. Ciò avrebbe dato alla sua flotta accesso al Mediterraneo (che era già un lago britannico) dal Mar Nero (che era ancora un lago turco).

Si sa che nel 1791, verso la fine del suo regno, Caterina prese in attenta considerazione un piano per strappare l’India dalla morsa sempre più stretta del dominio inglese. L’idea, e forse non c’è da stupirsi, era stata concepita da un francese, un alquanto misterioso Monsieur de Saint-Génie. Questi propose a Caterina di far marciare le sue truppe via terra, attraverso Buchara e Kabul, annunciando che venivano a ripristinare nell’antica gloria l’ordine musulmano dei moghul. Ciò, sosteneva Saint-Génie, avrebbe attratto alle bandiere di Caterina i canati musulmani lungo la via d’invasione, e fomentato insurrezioni contro gli inglesi in India. Il piano non andò oltre (Caterina fu dissuasa dal suo aiutante generale ed ex amante, il monocolo conte Potëmkin), ma fu il primo di una lunga serie di progetti più o meno simili per l’invasione dell’India accarezzati dai governanti russi nel secolo successivo.

Se non riuscì ad aggiungere ai suoi domini né l’India né Costantinopoli, Caterina fece nondimeno vari passi in questa direzione. Non solo riprese ai persiani i territori caucasici restituiti da Anna, ma si impadronì della Crimea, ultima roccaforte superstite dell’impero mongolo. Per tre secoli la penisola aveva goduto della protezione dei turchi, che la consideravano un prezioso baluardo contro il sempre più aggressivo colosso settentrionale. Ma alla fine del Settecento i già bellicosi tartari di Crimea avevano cessato di essere una forza temibile. Approfittando di certi acquisti territoriali ottenuti a spese dei turchi sulla costa settentrionale del Mar Nero, e delle contese interne dei tartari, Caterina poté annettere al suo impero, senza spargimenti di sangue, il canato di Crimea. Vi riuscì, per citare le sue parole, semplicemente «collocando in luoghi adatti cartelli dove si annunciava agli abitanti della Crimea che li avremmo accolti come nostri sudditi». Prendendosela con i turchi, i discendenti di Genghiz khan accettarono docilmente la loro sorte.

Ora il Mar Nero non era più un lago turco. I russi costruirono a Sebastopoli una gigantesca base navale con relativo arsenale, ormeggiando di fatto le loro navi da guerra a due soli giorni di vela da Costantinopoli. Fortunatamente per i turchi, non molto tempo dopo una tempesta anomala mandò a picco l’intera flotta russa, eliminando temporaneamente la minaccia. Ma sebbene la grande città a cavallo del Bosforo che Caterina aveva sognato di liberare dal dominio musulmano fosse alla sua morte ancora saldamente in mano turca, la via per raggiungerla era adesso assai più breve, il che spiega come mai la crescente presenza russa nel Vicino Oriente e nel Caucaso cominciasse ad allarmare gli alti dirigenti della Compagnia delle Indie. Uno tra i primi a intuire il pericolo fu Henry Dundas, presidente del nuovo Consiglio di controllo della Compagnia, il quale segnalò il rischio di lasciare che la Russia soppiantasse i turchi e i persiani in quelle regioni, e il pericolo che poteva derivarne a lungo andare per gli interessi britannici in India, ove i rapporti cordiali allora esistenti fra Londra e Pietroburgo si fossero guastati o peggio.

Ma alla luce degli eventi successivi questi timori passarono in secondo piano. Era sorto d’improvviso un nuovo spettro, che rappresentava una minaccia molto più immediata per la posizione britannica in India. Napoleone Bonaparte, non ancora trentenne, ansioso di vendicare le sconfitte colà subite dai francesi per mano britannica, aveva rivolto a est il suo sguardo rapace. Reduce dalle vittorie in Europa, voleva umiliare l’arrogante Inghilterra tagliandola fuori dall’India, fonte primaria della sua potenza e ricchezza, nonché supremo gioiello del suo impero coloniale. Una base strategica nel Vicino Oriente era il primo passo verso questo scopo. «Per conquistare l’India» dichiarò «dobbiamo prima impadronirci dell’Egitto».

Napoleone non tardò a mettersi all’opera, consultando ogni libro reperibile sulla regione e sottolineando energicamente i passi che lo interessavano. «Ero pieno di sogni» spiegò molto tempo dopo. «Mi vedevo fondare una nuova religione, marciare in Asia su un elefante, con un turbante in testa e nelle mani il nuovo Corano, che avrei scritto a misura delle mie necessità». Nella primavera del 1798 tutto era pronto, e il 19 maggio una flotta carica di truppe francesi salpò in segreto dai porti di Tolone e Marsiglia.

2
L’INCUBO NAPOLEONICO

Fu un bengalese a dare a Lord Wellesley, il nuovo governatore generale dell’India, la sgradita – e sensazionale – notizia che Napoleone era sbarcato in Egitto con quarantamila soldati. Wellesley era appena arrivato a Calcutta, da Gedda sul Mar Rosso, a bordo di una feluca araba. Passò una settimana intera prima che la notizia fosse confermata ufficialmente da informazioni giunte a Bombay tramite una nave da guerra inglese. Una delle ragioni del ritardo fu che la forza d’invasione francese era sfuggita alla flotta britannica del Mediterraneo, e per alcune settimane non si era capito se fosse diretta in Egitto o verso il Capo di Buona Speranza, e da lì in India.

Che Napoleone avesse preso il mare con una flotta di quelle dimensioni causò grave allarme a Londra, preoccupando specialmente Dundas e i suoi colleghi del Consiglio di controllo. Anche se ormai la Gran Bretagna era la principale potenza europea del subcontinente, col virtuale monopolio sul commercio del paese, la posizione della Compagnia era tutt’altro che sicura. Gli scontri con i francesi, e non solo, l’avevano ridotta sull’orlo del fallimento, e di affrontare Napoleone non era assolutamente in grado. Fu quindi un sollievo apprendere che si era fermato in Egitto, per quanto la minaccia rimanesse reale. A quel punto si cominciò a scommettere sulla sua prossima mossa. Le ipotesi erano essenzialmente due. Una, che procedesse via terra attraverso la Siria o la Turchia e attaccasse l’India dall’Afghanistan o dal Belucistan; l’altra, che avanzasse dal mare, salpando dalla costa egiziana del Mar Rosso.

Certo che Napoleone avrebbe scelto la prima soluzione, Dundas sollecitò il governo ad assoldare truppe russe per intercettarlo. Ma gli esperti militari della Compagnia ritenevano piuttosto che un’eventuale invasione sarebbe venuta dal mare, anche se per gran parte dell’anno il Mar Rosso era impraticabile a causa dei venti contrari. A scopo preventivo una flotta britannica venne spedita in tutta fretta intorno al Capo per bloccarne l’uscita, e un’altra salpò da Bombay. L’importanza strategica della rotta del Mar Rosso non era ignota a Calcutta. Anni prima, la notizia della guerra scoppiata tra Gran Bretagna e Francia aveva raggiunto per quella via l’India in tempo brevissimo, consentendo alle truppe della Compagnia di attaccare i francesi cogliendoli alla sprovvista. Sebbene non esistesse ancora un servizio regolare di trasporto che passasse per l’Egitto e il Mar Rosso, i messaggi urgenti e i viaggiatori con meno tempo a disposizione passavano a volte da quella parte anziché dalla rotta solita intorno al Capo, che poteva richiedere fino a nove mesi o più a seconda dei venti e delle condizioni meteorologiche. Ma l’occupazione napoleonica dell’Egitto avrebbe impedito per qualche tempo l’uso di questa scorciatoia.

A differenza di quanto accadde agli alti papaveri del governo e della Compagnia a Londra, Wellesley continuò a dormire sonni tranquilli nonostante la presenza di Napoleone in Egitto, dal momento che riteneva pressoché impossibile lanciare di là un’invasione vittoriosa, per terra o per mare. Anzi, tentò di sfruttare i timori londinesi a proprio vantaggio. Fautore di una politica aggressiva, Wellesley era tanto desideroso di spostare in avanti le frontiere della Compagnia in India quanto lo erano i direttori di mantenerle dov’erano. Costoro volevano dividendi per gli azionisti – che li pretendevano –, non costosi acquisti territoriali. Già la Compagnia era rimasta impegolata suo malgrado nel vuoto creato dalla dissoluzione dell’impero moghul, ed era quindi sempre più coinvolta nel governo e nell’amministrazione dell’India – con un conseguente aumento esponenziale dell’impegno finanziario. Sicché, invece di garantire agli azionisti profitti regolari, i direttori erano alle prese con debiti sempre più ingenti e con la perpetua minaccia di bancarotta. Respingere un’invasione, sia pure con successo, sarebbe stato rovinoso, specie se si considera che il governo in patria, impegnato in una lotta all’ultimo sangue con la Francia, poteva essere di ben scarso aiuto.

La crisi tuttavia diede a Wellesley l’occasione che gli occorreva: la scusa per schiacciare e destituire i principi indigeni che mostravano simpatie per i francesi, i quali avevano ancora parecchi agenti in India. Ma non si limitò a questo. Approfittando in pieno del fatto che Londra era costretta a lasciargli mano libera per proteggere i propri interessi, sottomise al controllo britannico nuove ampie zone del paese. Poiché i suoi rapporti impiegavano molto tempo per raggiungere Londra, ed erano comunque sempre deliberatamente vaghi, Wellesley poté continuare nelle espropriazioni per tutti i sette anni del suo mandato. Quando nel 1805 fu richiamato in patria, il territorio della Compagnia, con i principati satellite e le regioni parzialmente sotto il suo controllo, si era enormemente ampliato dalle tre originarie «presidenze» costiere di Calcutta, Madras e Bombay: in sostanza, comprendeva la maggior parte dell’India quale oggi la conosciamo. Solo Sind, Punjab e Kashmir rimanevano indipendenti.

A fornire l’impulso iniziale, o il pretesto, per questa spettacolare espansione imperiale era stata la mossa precipitosa di Napoleone. Ma quella minaccia, che tanto panico aveva causato a Londra, si rivelò effimera. Rimediando alla mancata intercettazione dell’armata francese sulla rotta per l’Egitto, l’ammiraglio Nelson la sorprese all’ancora nella baia di Abukir, a est di Alessandria, dove il 1° agosto 1798 la bloccò e la distrusse. Solo due vascelli riuscirono a fuggire. Tagliate fuori dalla Francia, senza più linee di rifornimento, le truppe francesi furono costrette a rimpatriare come meglio potevano. Ma se questa sconfitta permise ai capi londinesi della Compagnia di tirare il fiato, il giovane Napoleone non abbandonò il sogno di scacciare gli inglesi dall’India e di creare un grande impero francese in Oriente. Per nulla turbato dal fallimento egiziano, al ritorno in Francia continuò la sua ascesa, e andò via via rafforzandosi con una serie di brillanti vittorie in Europa.

La serie era ancora agli inizi quando, al principio del 1801, Napoleone ricevette da Pietroburgo una proposta straordinaria. Ad avanzarla era lo zar Paolo I, successore di Caterina la Grande, che gli offriva l’opportunità di vendicarsi degli inglesi e di dar sfogo alle sue ambizioni in Oriente. Paolo, che condivideva l’avversione di Bonaparte per l’Inghilterra, aveva infatti deciso di riesumare il piano di invasione dell’India scartato da Caterina un decennio prima perché implicava una lunga avanzata attraverso l’Asia centrale. Ma il nuovo sovrano aveva un’idea migliore: un attacco combinato di Russia e Francia, che avrebbe reso pressoché certa la vittoria sugli eserciti della Compagnia. Paolo espose segretamente il piano a Bonaparte, per il quale nutriva un’ammirazione ai limiti dell’infatuazione, e attese la risposta.

Una forza di trentacinquemila cosacchi sarebbe avanzata attraverso il Turkestan, reclutando per via le bellicose tribù turkmene con promesse di mirabolanti bottini qualora avessero aiutato a cacciare gli inglesi dall’India. Contemporaneamente, un esercito francese di pari entità avrebbe disceso il Danubio, varcato il Mar Nero su navi russe, e proseguito per il Don e il Volga fino a raggiungere Astrabad, sulla riva sud-orientale del Caspio. Qui si sarebbe unito ai cosacchi per procedere verso est, attraverso Persia e Afghanistan fino all’Indo. Di là i due eserciti avrebbero lanciato un attacco congiunto contro gli inglesi. Paolo aveva calcolato minuziosamente i tempi di marcia. I francesi avrebbero impiegato venti giorni per raggiungere il Mar Nero; cinquantacinque giorni dopo sarebbero entrati in Persia con gli alleati russi, e dopo altri quarantacinque sarebbero arrivati all’Indo. Quattro mesi in tutto. Per guadagnare le simpatie e la collaborazione di persiani e afgani, e poterne attraversare indenni i territori, avrebbero usato alcuni messi, mandati avanti a spiegare la ragione della loro venuta. «Le sofferenze cui è sottoposta la popolazione dell’India» avrebbero annunciato «hanno mosso a compassione la Francia e la Russia». Le due potenze si erano quindi unite al solo scopo di liberare milioni di indiani «dal tirannico e barbaro giogo degli inglesi».

Il progetto dello zar non entusiasmò Napoleone. «Supponendo che i due eserciti si riuniscano ad Astrabad,» domandò «come prevedete che raggiungano l’India marciando per quasi mille miglia attraverso una terra arida e pressoché selvaggia?». Paolo replicò che la regione di cui si stava parlando non era né arida né selvaggia. «Da tempo esistono strade aperte e spaziose che l’attraversano. I fiumi la bagnano quasi a ogni passo. L’erba da foraggio abbonda. Il riso cresce rigoglioso…». Da chi gli venisse questa colorita descrizione dell’aspro deserto di montagna che le truppe avrebbero dovuto superare, non si sa; forse Paolo si era lasciato semplicemente trasportare dall’entusiasmo. Quel che è certo è che la lettera si chiudeva con questa esortazione al suo eroe: «Gli eserciti francese e russo sono bramosi di gloria. Sono valorosi, tenaci e infaticabili. In virtù del loro coraggio, della loro perseveranza e della saggezza dei loro comandanti saranno in grado di superare ogni ostacolo». Napoleone rimase scettico, e finì per declinare l’invito. Tuttavia, come vedremo in seguito, un progetto non dissimile cominciava già a germogliare nella sua mente. Deluso, ma non scoraggiato, Paolo decise di fare da sé.

Il 24 gennaio 1801 Paolo ordinò al capo dei cosacchi del Don di raccogliere una consistente armata nella città di frontiera di Orenburg e di prepararsi a marciare sull’India. Alla fine gli uomini disponibili risultarono essere solo ventiduemila, molti meno del numero originariamente ritenuto necessario dai consiglieri dello zar per un’operazione simile. L’armata cosacca, sfruttando l’appoggio dell’artiglieria, avrebbe dovuto raggiungere l’Indo via Chiva e Buchara, viaggio che secondo i calcoli di Paolo richiedeva tre mesi. A Chiva i cosacchi avrebbero liberato i sudditi russi ivi tenuti in schiavitù, e altrettanto avrebbero fatto a Buchara. Ma in realtà il loro compito era cacciare gli inglesi dall’India, ponendo il subcontinente – e i suoi traffici commerciali – sotto il controllo di Pietroburgo. «Dovete offrire pace a tutti coloro che sono contro gli inglesi» ordinò Paolo al capo cosacco «e rassicurarli sull’amicizia della Russia». Il suo discorso si chiuse con queste parole: «La ricchezza delle Indie sarà la vostra ricompensa. Questa impresa vi coprirà di gloria immortale e di tesori, vi assicurerà la mia benevolenza, farà fiorire il nostro commercio e infliggerà un colpo mortale al nemico».

È evidente che Paolo e i suoi consiglieri non sapevano nulla o quasi delle vie d’accesso all’India, e neppure del paese e di come vi erano distribuiti i contingenti militari inglesi. Del resto, nelle istruzioni scritte al comandante della spedizione Paolo lo ammetteva francamente: «Le mie mappe arrivano solo fino a Chiva e al fiume Oxus. Al di là di questi punti tocca a voi procurarvi informazioni sui possedimenti degli inglesi e sulle condizioni della popolazione indigena soggetta al loro dominio». Paolo suggeriva di mandare in avanscoperta pattuglie di esploratori per perlustrare la via e «riparare le strade»; ma come fosse giunto a credere all’esistenza di strade in quella vasta, desolata e quasi disabitata regione non è chiaro. Infine, all’ultimo momento lo zar spedì al comandante cosacco «una nuova mappa particolareggiata dell’India» venutagli allora tra le mani, insieme alla promessa di fanterie di rincalzo non appena disponibili.

Sembra di poter dire che l’avventura non era stata pensata e studiata con un minimo di serietà. Come molto probabilmente Napoleone stesso aveva intuito, Paolo, che per tutta la vita aveva sofferto di gravi crisi depressive, stava rapidamente perdendo la ragione. Ma i fedeli cosacchi, che erano stati all’avanguardia nella conquista della Siberia e avrebbero presto avuto un ruolo simile anche in Asia centrale, non si sognarono di mettere in dubbio la saggezza dello zar, e men che mai la sua sanità mentale. Insomma, male equipaggiati e peggio approvvigionati partirono da Orenburg nel cuore dell’inverno diretti alla remota Chiva, quasi millecinquecento chilometri a sud. Fu un vero cimento, anche per soldati pronti a tutto. Con difficoltà facilmente immaginabili i cosacchi riuscirono comunque a trasportare l’artiglieria, quarantaquattromila cavalli (uno di ricambio a testa) e viveri per parecchie settimane attraverso il Volga ghiacciato, e a penetrare nella steppa kirghisa. Del viaggio si sa poco, perché gli inglesi ne ebbero notizia solo molto tempo dopo; di fatto in un mese l’armata percorse a cavallo oltre seicento chilometri, raggiungendo un punto poco a nord del Lago d’Aral.

Ma un mattino, alle prime luci dell’alba, una vedetta scorse in lontananza una piccola figura sulla neve. Qualche minuto dopo arrivò al galoppo un cavaliere, stremato. Aveva viaggiato senza sosta, notte e giorno, e recava una notizia importantissima: lo zar Paolo era stato assassinato. Il 23 marzo, a mezzanotte, un gruppo di ufficiali, allarmati dalla sua crescente megalomania (il sovrano aveva appena ordinato l’arresto della zarina e del figlio ed erede Alessandro), erano entrati in camera sua a palazzo per costringerlo a firmare l’atto di abdicazione. Paolo era balzato dal letto e aveva tentato di fuggire arrampicandosi per il camino; era stato tirato giù per i piedi e, poiché rifiutava di firmare, strangolato senza cerimonie. L’indomani Alessandro, fortemente sospettato di connivenza con i congiurati, era stato proclamato zar. Non avendo alcuna voglia di farsi trascinare in una guerra superflua con la Gran Bretagna a causa di un cervellotico progetto paterno, aveva ordinato subito di richiamare i cosacchi.

Con quella decisione, Alessandro impedì una terribile catastrofe, perché i ventiduemila sarebbero andati incontro a morte quasi certa. Per quanto valorosi e disciplinati, i cosacchi non sarebbero probabilmente arrivati neppure a metà strada dall’Indo. Già stentavano a provvedere a se stessi e ai cavalli, e ben presto congelamenti e malattie li avrebbero decimati. I superstiti se la sarebbero poi dovuta vedere con le tribù turkmene, pronte a piombare su quanti entravano nei loro territori; per tacere degli eserciti di Chiva e Buchara. Se per miracolo alcuni fossero scampati a tutti questi pericoli, e fossero scesi per i passi fino ai primi avamposti inglesi, si sarebbero trovati di fronte al nemico più formidabile e cioè i reggimenti europei e indigeni dell’esercito della Compagnia, bene addestrati e appoggiati dall’artiglieria. Grazie alla prontezza di Alessandro, i cosacchi presero invece – giusto in tempo – la via del ritorno, e vissero per combattere altre battaglie.

Ignari di tutto questo, o anche solo delle intenzioni malevole di Pietroburgo nei loro confronti, gli inglesi in India erano tuttavia sempre più consapevoli di essere esposti ad attacchi esterni. Più le loro frontiere si estendevano, meno erano protette. Sebbene dopo lo scacco egiziano Napoleone non costituisse più una minaccia immediata, erano in pochi a dubitare del fatto che prima o poi avrebbe puntato di nuovo all’Oriente. Correva voce che alcuni suoi agenti già operassero in Persia. E una Persia sotto il controllo francese avrebbe costituito un pericolo ben più serio di quella passeggiata fra le piramidi. Un altro potenziale aggressore era il vicino Afghanistan, regno bellicoso di cui poco si sapeva, salvo che in passato aveva compiuto più volte incursioni devastanti in India. Wellesley risolse di neutralizzare entrambi i pericoli con una singola mossa.

Nell’estate del 1800 arrivò alla corte di Teheran una missione diplomatica inglese guidata da uno dei più capaci aiutanti di Wellesley, il giovane capitano John Malcolm. Vero e proprio asso dell’equitazione, ufficiale a soli tredici anni, Malcolm parlava perfettamente il persiano e aveva prodotto un’ottima impressione sul governatore generale, che lo aveva fatto assegnare alla sezione politica della Compagnia. Carico di doni sontuosi, accompagnato da un imponente seguito di cinquecento uomini, tra cui un centinaio di fanti e cavalleggeri indiani e trecento fra servitori e assistenti, raggiunse la capitale persiana dal Golfo. Le istruzioni ricevute erano di guadagnarsi a ogni costo – se necessario comprandola – l’amicizia dello scià e in particolare di estorcergli un trattato difensivo, avente un duplice scopo: primo, la garanzia che a nessun francese fosse consentito di mettere piede nei suoi domini; secondo, l’impegno a dichiarare guerra all’Afghanistan, nemico tradizionale della Persia, ove questo avesse fatto mosse ostili contro l’India. In cambio, nel caso di un attacco francese o afgano contro la Persia, gli inglesi avrebbero fornito allo scià il «sostegno materiale» necessario a respingerlo, e nell’eventualità di un’invasione francese gli avrebbero mandato anche navi e truppe. In altri termini, gli inglesi avrebbero avuto la facoltà di attaccare, sul territorio dello scià e nelle sue acque territoriali, una forza d’invasione francese che tentasse di raggiungere l’India attraverso la Persia.

Lo scià si lasciò sedurre dalle lusinghe orientali che erano un po’ la specialità di Malcolm, e più ancora apprezzò i lauti doni da lui recati, scelti con cura per allettare la cupidigia persiana. C’erano pistole e fucili riccamente intarsiati, orologi gemmati, potenti cannocchiali e strumenti di vario genere, oltre a grandi specchi dorati per il palazzo dello scià. E altrettanto generoso Malcolm era stato con i dignitari di corte. Quando nel gennaio 1801 ripartì da Teheran per la costa, tra pompe sfarzose e proteste di imperitura amicizia, Malcolm aveva ottenuto per iscritto tutti gli impegni desiderati, sotto forma di due documenti firmati da lui e dal primo ministro dello scià a nome dei rispettivi governi. Che tuttavia non dovevano mai ricevere una ratifica formale, lasciando qualche dubbio, almeno a Londra, sulla loro effettiva validità. Ma questa sottigliezza giuridica, se sfuggì ai persiani, agli inglesi faceva comodo. Doni a parte, in cambio dei suoi impegni solenni, lo scià aveva ottenuto poco o niente, come stava per scoprire.

Non molto tempo dopo la partenza della missione dalla Persia, alla frontiera settentrionale persiana accadde qualcosa che pareva giustificare in toto l’alleanza appena stipulata. Lo scià cominciò infatti a sentirsi minacciato, non da Napoleone o dagli afgani, ma dalle provocazioni russe nel Caucaso, la regione montagnosa e selvaggia dove il suo impero e quello zarista si incontravano. Nel settembre 1801 lo zar Alessandro annetté l’antico regno di Georgia, che la Persia attribuiva alla propria sfera di influenza. Ora i soldati russi erano troppo vicini a Teheran perché lo scià dormisse sonni tranquilli. Ma nonostante la forte irritazione persiana, le ostilità fra le due potenze scoppiarono solo nel giugno 1804, quando i russi si spinsero ancora più a sud, assediando Erevan, capitale dell’Armenia e possedimento cristiano dello scià.

Quest’ultimo inviò pressanti appelli agli inglesi, ricordando loro il trattato che li impegnava ad aiutarlo in caso di aggressione. Ma nel frattempo le cose erano cambiate. Gran Bretagna e Russia erano adesso alleate contro la crescente minaccia napoleonica in Europa. Rovesciato nel 1799 il Direttorio di cinque membri che dal 1795 governava la Francia rivoluzionaria, Napoleone si era nominato primo console, poi nel 1802 console a vita, e due anni dopo si era incoronato imperatore. Aveva insomma raggiunto il culmine della sua potenza, ed era chiaro che non si sarebbe fermato finché non avesse avuto tutta l’Europa ai suoi piedi. Gli inglesi perciò ignorarono la richiesta di soccorso dello scià. Il loro rifiuto era in realtà formalmente legittimo, perché il trattato di Malcolm non citava la Russia, ma solo Francia e Afghanistan. I persiani però ne rimasero profondamente sdegnati, e si convinsero di esser stati traditi nell’ora del bisogno da parte di un popolo che credevano loro alleato. In ogni caso, ineccepibile o vergognoso che fosse, l’abbandono dello scià sarebbe ben presto costato caro agli inglesi.

Nei primi mesi del 1804, informato dell’accaduto dai suoi agenti, Napoleone offrì allo scià di aiutarlo a ricacciare i russi in cambio della facoltà di usare la Persia come base per un’invasione dell’India. Lo scià non diede subito una risposta agli inviati napoleonici. Sperava ancora negli inglesi. Ma il 4 maggio 1807, quando fu chiaro che nessun aiuto sarebbe venuto né da Calcutta né da Londra, firmò un trattato con Napoleone, impegnandosi a troncare ogni rapporto politico e commerciale con la Gran Bretagna, a dichiararle guerra e a consentire il transito di truppe francesi dirette in India. Al tempo stesso accettò di accogliere una nutrita missione militare e diplomatica, comandata da un generale, che fra l’altro avrebbe provveduto a riorganizzare e addestrare le sue truppe, trasformandole in un moderno esercito europeo. I responsabili della difesa dell’India erano tuttavia convinti che questa generosa offerta non fosse del tutto disinteressata, e che in realtà Napoleone intendesse far rientrare le nuove divisioni persiane nei suoi disegni contro il subcontinente.

Napoleone aveva messo a segno un buon colpo, ma il peggio doveva ancora venire. Nell’estate del 1807, dopo aver conquistato Austria e Prussia, Napoleone sconfisse i russi a Friedland, costringendoli a chiedere la pace e a unirsi al cosiddetto blocco continentale, il cui scopo esplicito era mettere in ginocchio la Gran Bretagna. I colloqui di pace tra l’imperatore francese e lo zar Alessandro si svolsero in gran segreto a Tilsit, a bordo di uno zatterone imbandierato alla fonda nel Neman. Una sede piuttosto singolare, scelta per porre i colloqui al riparo dalle spie, specie da quelle inglesi, onnipresenti. Nonostante le precauzioni, tuttavia, sembra che il servizio segreto britannico – il quale poteva disporre di centosettantamila sterline annue, destinate per lo più alla corruzione – fosse riuscito a infiltrare a bordo un suo uomo: un nobile russo scontento, il quale, nascosto sotto la chiatta con le gambe penzoloni nell’acqua, avrebbe ascoltato tutto.

Nessuno potrà mai confermare o smentire questa versione. In ogni caso, Londra non tardò a scoprire che i due imperatori, composte le divergenze, progettavano, nientemeno, di dividersi il mondo: alla Francia sarebbe toccato l’Occidente, alla Russia l’Oriente, India inclusa. Ma alla richiesta di Alessandro di avere per sé Costantinopoli, punto d’incontro delle due immense sfere d’influenza, Napoleone aveva scosso la testa: «Mai! Così diventereste imperatore del globo». Poco dopo, Londra fu informata che come il padre di Alessandro aveva proposto un piano per l’invasione dell’India a Napoleone, così quest’ultimo aveva prospettato un progetto analogo – ma assai migliore – al nuovo alleato russo. Il primo passo sarebbe stato prendere – e spartirsi – Costantinopoli; poi, marciando attraverso una Turchia sconfitta e una Persia amica, le due potenze avrebbero attaccato insieme l’India.

Allarmati dalla notizia, e dall’arrivo della poderosa missione francese a Teheran, gli inglesi agirono rapidamente – fin troppo. Senza consultarsi a vicenda, Londra e Calcutta spedirono emissari in Persia per indurre lo scià a espellere la missione – o meglio «l’avanguardia di un esercito francese», come la chiamò Lord Minto, succeduto a Wellesley nella carica di governatore. Il primo ad arrivare fu John Malcolm, che si era visto promuovere in tutta fretta brigadier generale in modo da avere maggior peso nelle trattative con lo scià. Nel maggio 1808, otto anni dopo la visita precedente, Malcolm giunse a Büshehr sul Golfo Persico. Qui, con sua viva irritazione, fu trattenuto dai persiani (in seguito, ne era convinto, a pressioni francesi), che rifiutarono di lasciarlo procedere oltre. La vera ragione dell’indugio era che lo scià aveva appena saputo del patto segreto di Napoleone con Alessandro, e cominciava a capire che la Francia, come già la Gran Bretagna, non era in condizione di aiutarlo contro i russi. Rendendosi conto che la loro permanenza a Teheran aveva i giorni contati, i francesi cercavano di persuadere il titubante monarca che, non essendo più nemico ma alleato dei russi, essi erano ancora meglio in grado di frenare Alessandro.

Sempre più irritato di dover aspettare sulla costa, mentre i rivali francesi si aggiravano in tutta tranquillità per la capitale e venivano ricevuti dallo scià, Malcolm fece recapitare a quest’ultimo un dispaccio in cui gli intimava in termini perentori di espellere senza indugio la missione, minacciando in caso contrario pesanti ripercussioni. La Persia non si era forse impegnata solennemente, con il trattato che lui stesso aveva negoziato, a non allacciare relazioni di sorta con i francesi? Ma l’altezzoso ultimatum sortì l’unico effetto di irritare ulteriormente lo scià, che quel trattato lo aveva strappato da un pezzo. Di conseguenza, Malcolm continuò a vedersi bloccata la via della capitale, senza aver modo di perorare personalmente la causa inglese. Decise perciò di tornare subito in India e di riferire al governatore circa l’intransigenza dello scià, sostenendo con vigore che solo una dimostrazione di forza lo avrebbe fatto rinsavire e indotto ad allontanare i francesi.

Poco dopo la sua partenza arrivò l’emissario di Londra, Sir Harford Jones. Con perfetto tempismo capitò proprio quando lo scià si era rassegnato all’idea che per ottenere il ritiro dei russi dai territori caucasici non sarebbero certo bastati i buoni uffici francesi. Con un nuovo, spudorato rovesciamento di fronte, al generale francese e al suo seguito furono consegnati i passaporti, mentre Jones e i suoi venivano accolti con tutti gli onori. Lo scià aveva un disperato bisogno di alleati, e fu ben lieto di dimenticare il passato – tanto più che Jones gli aveva recato in dono da parte di Giorgio III uno dei più grossi diamanti che avesse mai visto. Se il rapido succedersi di due missioni inglesi, una intimidatoria e l’altra munifica, abbia provocato nello scià qualche sconcerto non è dato saperlo, poiché lui ebbe il tatto di non farne parola.

Mentre i rapporti fra Gran Bretagna e Persia erano adesso di nuovo cordiali, non altrettanto si può dire di quelli fra Londra e Calcutta. Offeso dal facile successo dell’uomo di Londra là dove lui aveva fallito, Lord Minto era deciso a riaffermare la propria autorità in merito alle relazioni con la Persia. Ne seguì una lite ben poco dignitosa, che segnò l’inizio di una rivalità destinata a turbare per un secolo e mezzo i rapporti fra l’India britannica e il governo della madrepatria. Per assicurare all’India un ruolo di primo piano nella faccenda – e salvaguardarne gli interessi –, il governatore esigeva che a negoziare il previsto nuovo trattato con lo scià fosse il suo incaricato, Malcolm; Londra era contraria. Alla fine si raggiunse un compromesso che salvava capra e cavoli: Sir Harford Jones, diplomatico di grande esperienza, sarebbe rimasto a chiudere le trattative, mentre Malcolm, promosso per l’occasione maggior generale, sarebbe stato inviato a Teheran per assicurare che questa volta i termini del negoziato fossero rigorosamente rispettati.

In base al nuovo accordo lo scià si impegnava a impedire alle forze di qualsiasi altra potenza di attraversare il suo territorio per invadere l’India, e ad astenersi da atti pregiudizievoli per gli interessi inglesi o per quelli indiani. In cambio, se la Persia fosse stata minacciata da un aggressore, la Gran Bretagna avrebbe inviato truppe in suo aiuto; oppure, se ciò fosse risultato impossibile, armi e consiglieri sufficienti per respingere l’invasore, anche se si fosse trattato di una nazione amica. Si alludeva chiaramente alla Russia: lo scià non voleva ripetere lo stesso sbaglio. Questi avrebbe altresì ricevuto un sussidio annuo di centoventimila sterline, mentre la consulenza di ufficiali inglesi, in sostituzione dei francesi, gli avrebbe consentito di addestrare e modernizzare l’esercito – con Malcolm nel ruolo di supervisore. C’era però un’altra, pressante ragione per cui Lord Minto era tanto ansioso di rimandare Malcolm a Teheran.

I timori di un attacco franco-russo all’India avevano reso consapevoli i responsabili della difesa del subcontinente della propria scarsissima conoscenza dei territori che un esercito invasore avrebbe dovuto attraversare. Era urgente porre rimedio a una simile ignoranza, perché tutti i trattati del mondo a nulla sarebbero valsi contro un aggressore risoluto come Napoleone. Secondo Lord Minto, per organizzare un lavoro del genere nessuno era più adatto di Malcolm, che già conosceva la Persia meglio di qualunque altro inglese. Nel febbraio 1810 Malcolm arrivò di nuovo a Büshehr e raggiunse, questa volta senza impedimenti, la capitale persiana. Lo accompagnava una piccola schiera di ufficiali scelti con cura, formalmente per insegnare all’esercito dello scià le tecniche di combattimento europee, in realtà anche per imparare il più possibile della geografia militare della Persia – come gli uomini di Napoleone avevano fatto prima di loro.

Ma non è tutto. Più a est, nelle selvagge regioni del Belucistan e dell’Afghanistan, che un invasore avrebbe dovuto percorrere dopo aver attraversato la Persia, altri ufficiali britannici erano già all’opera, perlustrando segretamente il terreno per conto di Malcolm. Era un gioco rischioso, che richiedeva nervi saldi e una buona dose di spirito d’avventura.

3
PROVE GENERALI DEL GRANDE GIOCO

Un viaggiatore che nella primavera del 1810 si fosse trovato a percorrere il Belucistan settentrionale si sarebbe potuto imbattere in un gruppetto di uomini armati, che, lasciato il remoto villaggio-oasi di Nushki, si dirigevano verso la frontiera afgana. Davanti a loro, in lontananza, vividi lampi illuminavano il cielo nero, mentre dalle montagne circostanti giungeva a tratti un brontolio di tuono. L’aria minacciava tempesta, e istintivamente gli uomini, inoltrandosi nel deserto, si stringevano nei mantelli.

Uno si distingueva dagli altri per la pelle più chiara. I compagni lo credevano un mercante di cavalli tartaro: tale si era dichiarato, e loro, non avendone mai visto uno, non avevano motivo di dubitarne. Li aveva ingaggiati per scortarlo nella pericolosa regione, infestata dai briganti, che giaceva tra Nushki e l’antica città murata di Herat, seicentocinquanta chilometri a nord-ovest, sulla frontiera afgano-persiana; aveva spiegato che là sperava di acquistare cavalli per il suo padrone, un ricco indù che abitava nella lontana India. Herat era infatti una delle grandi città carovaniere dell’Asia centrale, rinomata specialmente per i cavalli. Si dà il caso fosse anche un luogo di considerevole interesse per i responsabili della difesa dell’India.

Lo straniero era arrivato a Nushki pochi giorni prima con un compagno dalla pelle chiara come lui, che aveva presentato come il fratello minore, al servizio dello stesso mercante indù. I due avevano raggiunto Nushki da Kalat, capitale del Belucistan, dopo essere approdati sulla costa da un’imbarcazione indigena con cui erano partiti da Bombay. Per raggiungere l’interno c’erano voluti quasi due mesi, perché avevano viaggiato con calma, fermandosi varie volte a far domande lungo la via, pur agendo con circospezione per non destare sospetti. A Nushki i due si erano separati: uno, con la sua scorta, si era diretto a Herat, l’altro a ovest verso Kerman, nella Persia meridionale, dove contava a sua volta, aveva detto, di acquistare cavalli per il padrone.

Prima di andare ognuno per la sua strada, i due uomini si erano salutati in privato nella casa che avevano affittato per il breve soggiorno a Nushki, assicurandosi con ogni cautela di non essere spiati. E certo l’indiscreto che avesse sbirciato da una fessura si sarebbe non poco meravigliato di ciò che vedeva e sentiva. Non si trattava, evidentemente, soltanto di un commiato tra fratelli. A voce bassa, l’occhio attento alla porta, i due discutevano, con una precisione ben poco asiatica, i dettagli dei rispettivi itinerari, e prendevano gli ultimi accordi nell’eventualità che qualcosa andasse storto. Ma i loro discorsi toccavano anche altre questioni che un curioso avrebbe stentato a seguire. La verità (che, se fosse trapelata, avrebbe significato morte immediata per entrambi) è che i due non erano affatto mercanti di cavalli, e tanto meno tartari, e neppure fratelli, bensì giovani ufficiali inglesi mandati dal generale Malcolm a perlustrare segretamente regioni inospitali e senza legge mai esplorate prima.

Il capitano Charles Christie e il tenente Henry Pottinger, entrambi del 5th Bombay Native Infantry, si apprestavano ora a intraprendere la parte più pericolosa della loro missione, che era anche la più preziosa per i loro superiori. Già durante il viaggio dalla costa, mentre in apparenza se la prendevano comoda, erano riusciti a raccogliere una quantità di notizie sulle varie tribù, i loro capi e i combattenti di cui disponevano. Avevano anche preso appunti dettagliati sulle possibilità difensive dei territori che attraversavano. In quanto stranieri, sia pure tartari di fede musulmana, erano guardati con non poca diffidenza. Più di una volta avevano dovuto mentire per cavarsi d’impaccio, infiorando e perfezionando la loro finta storia a seconda delle circostanze. Se i fieri e indipendenti beluci avessero scoperto qual era il vero intento dei due viaggiatori, ne avrebbero desunto che gli inglesi esploravano le loro terre con il proposito di impadronirsene. Ma fortunatamente per Christie e Pottinger nessun abitante di quella remota regione aveva mai visto un europeo. Nessuno, finora, si era insospettito del loro travestimento – o almeno così sembrava.

Tuttavia, quando, nel separarsi, i due si augurarono buona fortuna, sapevano bene che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che si vedevano. Nell’ipotesi però che tutto fosse filato liscio, il piano era di ritrovarsi in un luogo convenuto, nella relativa sicurezza dei domini dello scià, dopo aver completato le rispettive ricognizioni. Se entro una certa data uno dei due non fosse comparso, l’altro ne avrebbe dedotto che era stato costretto a interrompere il viaggio o che era stato ucciso, e sarebbe tornato da solo a Teheran per riferire al generale Malcolm. Se uno dei due si fosse trovato in difficoltà, avrebbe cercato di far pervenire un messaggio al compagno, o alla delegazione inglese a Teheran, in modo che si potessero organizzare i soccorsi.

Partito Christie con i suoi uomini il 22 marzo, Pottinger rimase a Nushki per allestire la propria piccola carovana. Malcolm lo aveva incaricato di esplorare la zona a ovest, dove si pensava – e si sperava – si trovassero dei deserti, ossia un potenziale ostacolo per un esercito in marcia. Ma il 23 marzo Pottinger ricevette notizie allarmanti. Un messaggio inviato da amici che i due inglesi avevano a Kalat lo avvertì che dal vicino Sind erano arrivati degli uomini con l’ordine di arrestarli entrambi. Costoro avevano informato il khan di Kalat che Christie e Pottinger non erano affatto mercanti di cavalli, e che avevano adottato quel travestimento per studiare a fini militari il paese – una mossa che minacciava entrambi i popoli.

I due inglesi dovevano essere catturati e tradotti a Hyderabad, la capitale del Sind, per essere severamente puniti. I sindiani armati, avvertiva il messaggio, erano in cammino per Nushki, distante solo un’ottantina di chilometri di deserto; i due avrebbero fatto bene a fuggire finché erano in tempo, perché i sindiani non facevano mistero della sorte che intendevano riservare loro: bastonarli sulle piante dei piedi. Ben sapendo che questo era il minimo che poteva capitargli a Hyderabad, Pottinger si preparò a partire senza indugio. La mattina seguente, con una scorta armata di cinque beluci, prese la via dell’Ovest, profondamente grato agli amici di Kalat che avevano messo a repentaglio la loro vita per salvarla a lui e a Christie.

Nel frattempo, ignaro di tutto, Christie, diretto con la sua piccola schiera verso il confine afgano, si trovò a dover affrontare un altro pericolo. Poco dopo la sua partenza da Nushki, un pastore benevolo lo aveva avvertito che una trentina di afgani armati si preparava a depredarlo, tendendogli un’imboscata in una gola non lontana. Ad accrescere il suo sconforto, la tempesta che si veniva addensando da quando aveva lasciato Nushki esplose con furore, infradiciando gli uomini e i loro bagagli e costringendoli a cercare un riparo di fortuna in quella landa desolata. Era un inizio tutt’altro che promettente per un’impresa da compiere in assoluta solitudine. Ma la mattina dell’indomani la tempesta era cessata, e risultò che anche gli afgani si erano dileguati. Nondimeno, il timore dei predoni in quella terra senza legge rappresentò per Christie e Pottinger, come per tutti i successivi protagonisti del Grande Gioco, un assillo continuo.

Nella speranza che un diverso travestimento potesse meglio proteggerlo dai banditi, Christie decise di trasformarsi in un hajji, ovvero in un pio pellegrino musulmano di ritorno dalla Mecca. Nel suo resoconto del viaggio Christie non entra in particolari, ma sembra che tale metamorfosi sia avvenuta grazie all’aiuto di un mercante indiano al quale lo stesso Christie aveva recato una lettera segreta, e nell’intervallo fra il congedo di una scorta e l’assunzione di un’altra. La nuova copertura, tuttavia, non era scevra di rischi e difficoltà, e presto a Christie accadde di trovarsi in imbarazzo quando un mullah intavolò con lui una discussione teologica. Se la cavò spiegando di essere un musulmano sunnita, e non sciita come il suo interlocutore. Christie era certamente un uomo dalle mille risorse, se è vero che a un certo punto riuscì anche a procurarsi un falso salvacondotto col sigillo autentico del tiranno locale, e a ottenere così calorosa accoglienza dal khan della regione vicina, addirittura nel suo palazzo.

Era ormai a quattro giorni dalla meta, la misteriosa città di Herat che prima di allora solo un altro europeo aveva osato visitare. La città era situata sulla frontiera dell’Afghanistan con la Persia orientale, a ridosso delle grandi rotte carovaniere transasiatiche. I suoi bazar esibivano merci di Kokand e Kashgar, Buchara e Samarcanda, Chiva e Merv, e altre strade conducevano a ovest alle antiche città carovaniere persiane: Mashhad, Teheran, Kerman, Isfahan. Ma per gli inglesi d’India, che paventavano un’invasione da occidente, Herat aveva una rilevanza più inquietante. Si trovava infatti su una delle rotte di conquista storiche dell’India, da cui un aggressore avrebbe potuto raggiungere con facilità le due grandi porte d’accesso al subcontinente, i passi Khyber e Bolan, e sorgeva per di più in una valle ricca e fertile, in grado – così almeno si credeva in India – di fornire acqua e vettovaglie a un intero esercito. Compito di Christie era di appurare se ciò fosse vero.

Il 18 aprile, quattro mesi dopo essere salpato con Pottinger da Bombay, Christie varcò la porta principale della grande città fortificata di Herat. Aveva abbandonato la veste di pio pellegrino per riprendere quella di mercante di cavalli, poiché recava con sé lettere commendatizie per un mercante indù che risiedeva in quella città. A Herat Christie si trattenne per un mese, annotando con cura tutto ciò che colpiva i suoi occhi e le sue orecchie di soldato. «La città di Herat» osservò «sorge in una valle circondata da alte montagne». La valle, che si sviluppava da est a ovest, era lunga una cinquantina di chilometri e larga venticinque, attraversata da un fiume e intensamente coltivata, con orti e villaggi a perdita d’occhio. La città occupava un’area di dieci chilometri quadrati, ed era cinta da mura massicce e da un fossato. All’estremità settentrionale, su un colle, sorgeva una cittadella di mattoni, con una torre a ogni angolo, circondata da un secondo fossato con un ponte levatoio, e al di là di questo un altro muro e un terzo fossato, in secca. Per quanto spettacolare apparisse tutto ciò in lontananza, Christie non si lasciò impressionare. «Nel complesso» scrisse «sono fortificazioni di poco conto».

Ma se la capacità difensiva di Herat contro l’attacco di un esercito provvisto di artiglieria moderna, come quelli di Napoleone o dello zar Alessandro, gli parve trascurabile, lo colpì invece l’evidente prosperità del luogo, e la sua conseguente capacità di approvvigionare un esercito invasore. La campagna circostante offriva ottimi pascoli, ampia provvista per cavalli e cammelli, e abbondanza di grano, orzo e frutta fresca di ogni genere. Gli abitanti di Herat e sobborghi, stimò, erano circa centomila, fra cui seicento indù, in massima parte ricchi mercanti.

Il 18 maggio, convinto di non avere altro di interessante da scoprire, Christie annunciò che, prima di tornare in India con i cavalli che intendeva acquistare per il suo padrone, avrebbe fatto un breve pellegrinaggio alla città santa di Mashhad, trecento chilometri a nord-ovest, in Persia. Poté così andarsene da Herat senza dover comprare, come richiedeva la sua finta veste, i cavalli in questione. Il giorno seguente, con notevole sollievo, mise piede nella Persia orientale. Dopo mesi di bugie e sotterfugi si sentiva adesso relativamente al sicuro. Se anche si fosse scoperta la sua vera identità, gli attuali buoni rapporti della Gran Bretagna con la Persia lo avrebbero messo al riparo da conseguenze sgradevoli. Nove giorni dopo lasciò la vecchia strada dei pellegrini per Mashhad, piegando a sud-ovest nel deserto verso Isfahan, dove calcolava che ormai fosse giunto il tenente Pottinger.

Nei due mesi trascorsi dalla loro separazione a Nushki, al giovane ufficiale, appena ventenne, erano accadute molte cose. Senza l’ausilio di una mappa (allora non ne esistevano), aveva intrapreso un viaggio di quasi millecinquecento chilometri attraverso Belucistan e Persia, scegliendo una via che poi per un secolo non fu più tentata da altri europei, benché in passato qualche invasione fosse penetrata da quella parte. Viaggiò per tre mesi attraverso due pericolosi deserti, potendo contare solo sull’aiuto di guide locali per destreggiarsi tra i pozzi e le bande di micidiali briganti.

Nonostante le malattie e gli altri stenti, Pottinger tenne giorno per giorno un diario segreto e dettagliato di tutto ciò che poteva tornar utile a un esercito invasore. Vi annotò i pozzi e i fiumi, le colture e la vegetazione, le precipitazioni e il clima. Segnalò le migliori postazioni difensive, descrisse le fortificazioni dei villaggi lungo il percorso, individuò le caratteristiche e le alleanze dei khan locali. Registrò perfino le rovine e i monumenti incontrati, anche se, non essendo un esperto di cose antiche, per la datazione e la storia dovette affidarsi alle notizie di dubbia attendibilità fornitegli dalla gente del posto. Disegnò inoltre, di nascosto, una mappa schematica del suo cammino, che più tardi fu trasformata nella prima mappa militare indicante gli accessi all’India da ovest. Tuttavia, nella sua relazione, peraltro minuziosa, del viaggio, Pottinger evitò di spiegare come fosse riuscito a fare tutto ciò senza essere scoperto, forse pensando che in futuro quel segreto gli sarebbe potuto ancora tornare utile.

Il 31 marzo, dopo aver costeggiato l’angolo sud-orientale del vasto deserto di Helmand, la cui esistenza e ubicazione approssimativa venivano così confermate, Pottinger e i suoi cinque accompagnatori entrarono nel primo dei due deserti che ora si trovavano a dover attraversare. Il giovane tenente sapeva bene che la notizia della presenza di ostacoli naturali di quella portata sulla via di un eventuale invasore sarebbe stata quanto mai gradita ai responsabili della difesa dell’India. Ben presto ebbe a scoprire di persona perché quei deserti godevano presso i beluci di una fama tanto sinistra: percorsi pochi chilometri, infatti, si imbatté in una successione di dune di fine sabbia rossa e a pendenza quasi verticale, alcune alte fino a sei o sette metri. «La maggior parte» riferisce «si innalza a perpendicolo sul lato opposto a quello da cui soffia il vento… nell’insieme, viste da lontano, assomigliano a un muro di mattoni appena costruito». Il lato sopravento, tuttavia, declinava dolcemente fino alla base della duna successiva, lasciando un sentiero fra l’una e l’altra. «Cercavo il più possibile di tenermi su questi sentieri, compatibilmente con la direzione in cui dovevo viaggiare, ma era difficilissimo e faticoso far salire i cammelli sulle dune quando ce n’era bisogno, e in particolare quando dovevamo arrampicarci sul lato sottovento, tentativo in cui fummo più volte sconfitti». L’indomani le cose peggiorarono. La strenua lotta per valicare le dune era un’inezia, scrive Pottinger, «a paragone della sofferenza causata agli uomini e agli stessi cammelli dai granelli di sabbia vorticanti nell’aria». Aleggiava infatti sul deserto uno strato di polvere rossa e abrasiva che penetrava tormentosamente negli occhi, nel naso, nella bocca, per non parlare poi della sete, aggravata dal sole caldissimo.

Di lì a poco raggiunsero il letto asciutto di un fiume, largo circa cinquecento metri, con accanto un villaggio abbandonato di recente dagli abitanti, scacciati dalla siccità. Fecero sosta qui, e dopo aver scavato a lungo riempirono d’acqua due otri. A un certo punto il paesaggio cambiò e la sabbia lasciò il posto a un duro pietrisco nero. Presto l’aria si fece soffocante e si levarono turbini di polvere, seguiti in breve da una violenta tempesta. «La pioggia cadeva in gocce grosse come non ricordo di averne mai viste» racconta Pottinger. «Era così buio intorno che non riuscivo a distinguere nulla a cinque passi di distanza». Eppure questa tempesta era lieve, gli disse la guida, in confronto a quelle che a volte si abbattevano sul deserto al colmo dell’estate, quando percorrerlo era considerato impossibile. In simili circostanze infuriava un vento torrido – che i beluci chiamavano «fiamma» o «peste» – in grado di uccidere i cammelli o scorticare vivo un essere umano non adeguatamente equipaggiato. Secondo gli uomini di Pottinger, che asserivano di averlo visto coi propri occhi, «i muscoli dell’infelice si irrigidiscono, la pelle si raggrinza, tutto il corpo è pervaso da un dolore lancinante, come se la carne bruciasse…». La pelle della vittima si spaccava «in squarci profondi, provocando un’emorragia che mette fine rapidamente a questa sofferenza»; ma a volte l’agonia durava per ore o per giorni. (Oggi è chiaro che si trattava di forti esagerazioni, ma al tempo di Pottinger si sapeva ben poco dei viaggi nel deserto, e sembrava che qualsiasi cosa potesse plausibilmente accadere in regioni che, come quelle, non erano mai state esplorate prima).

Poiché il deserto era privo di punti di riferimento, la guida tracciava la rotta basandosi su una lontana catena montuosa. Ma una volta che Pottinger aveva deciso di mettersi in cammino a mezzanotte per evitare il tremendo calore diurno, ben presto si trovarono smarriti, ignari della direzione da prendere. Nascosta su di sé, Pottinger portava una bussola. All’insaputa dei suoi uomini, furtivamente la tirò fuori, e toltone il vetro riuscì a tastare l’ago col pollice, stabilendo così da che parte andare. Quando all’alba risultò che erano sulla strada giusta, tutti si stupirono, e per giorni parlarono di quell’evento come di una «prova meravigliosa della mia sapienza». Di solito Pottinger usava la bussola in segreto, per i rilevamenti necessari alla sua mappa sommaria, ma in un paio di occasioni non poté evitare che qualcuno la vedesse. Spiegò allora che si trattava di una Qibla noma, un indicatore della Mecca, che gli mostrava la direzione in cui si trovava la Qibla, la tomba di Maometto, per consentirgli di prostrarsi verso di essa in preghiera.

Quel giorno cavalcarono per diciannove ore, percorrendo poco più di settantacinque chilometri. Gli uomini e i cammelli erano esausti, il cibo e l’acqua ridotti al minimo. Pottinger voleva andare avanti fino alle montagne, dove almeno avrebbero trovato da bere. Gli uomini però erano troppo stanchi per proseguire; così si fermarono per la notte, dividendosi la poca acqua rimasta ma senza mangiare nulla. Il pomeriggio seguente arrivarono nei pressi del villaggio di Kullugan, in una regione chiamata Makran, famigerata perché vi regnava la più assoluta anarchia. La guida di Pottinger, che risultò essere genero del sirdar, o capo del villaggio, volle entrare per prima, spiegando che così si usava con gli stranieri in quella pericolosa regione. Poco dopo tornò dicendo che Pottinger era il benvenuto; ma il sirdar aveva ordinato che per prudenza si presentasse in veste di hajji, altrimenti non avrebbe potuto rispondere della sua sicurezza, nemmeno in casa propria.

«Non siete più nei territori del khan di Kalat» spiegò; non si poteva contare oltre sull’ordine e la sicurezza di cui là avevano goduto. «Adesso siamo nel Makran, dove tutti sono ladroni per casta, e nessuno esita a depredare i fratelli e i vicini». Quale agente di un ricco mercante indiano, Pottinger sarebbe stato particolarmente esposto, perché era presumibile che portasse denaro con sé, sia pure non suo. Dal sirdar di Nushki, il tenente era stato avvertito della cattiva fama del Makran; si affrettò quindi ad assumere «l’aria e i modi religiosi» confacenti alla sua nuova veste.

Entrato nel villaggio, smontò da cavallo presso la moschea, dove fu formalmente ricevuto dal sirdar e da altri notabili. Venne poi condotto al suo alloggio, un misero tugurio di due stanze; qui lui e i suoi uomini ricevettero del cibo, su cui si avventarono con avidità e gratitudine, essendo digiuni ormai da trenta ore. Più difficile fu procurarsi il cibo per la prosecuzione del viaggio. A causa della siccità i viveri erano scarsissimi, e i prezzi alle stelle. Tutto quel che poterono rimediare furono dei datteri e della farina d’orzo, tratti dalle provviste personali del sirdar.

Quando giunse il momento di riprendere il cammino e percorrere gli oltre mille chilometri che lo separavano da Kerman, Pottinger venne a sapere che il primo villaggio che avrebbe incontrato lungo il tragitto era in guerra con Kullugan, poiché i suoi abitanti l’avevano assalito e razziato di recente: sarebbe stato un suicidio passare di lì, e comunque imprudente procedere verso ovest senza una scorta armata più numerosa. La sua guida rifiutò di proseguire senza questa protezione, offrendosi invece di riaccompagnarlo a Nushki. Alla fine, sia pur di malavoglia, Pottinger acconsentì a ingaggiare altri sei uomini armati di archibugi, e concordò un nuovo percorso che gli consentiva di evitare l’ostile vicino.

Quella sera i notabili di Kullugan, compreso il sirdar, si recarono nell’alloggio di Pottinger per discutere con lui di vari argomenti. In qualità di pio pellegrino, il suo parere era tenuto in gran conto, specie in materia religiosa. Così, non appena ebbero varcato la soglia, i notabili presero a tempestare il povero Pottinger di domande. In preda al panico, pressoché ignaro di teologia musulmana, questi se la cavò comunque, bluffando, senza destare sospetti. Non solo evitò di commettere errori grossolani, ma riuscì anche a dirimere alcune questioni controverse. Una in particolare riguardava la natura del sole e della luna. Uno dei presenti sosteneva che erano una cosa sola. Ma allora, domandò un altro, come mai a volte li si vede simultaneamente? Il primo replicò che l’uno è il riflesso dell’altro. Pottinger, che cominciava a esser stufo di questi ospiti importuni e non vedeva l’ora di andare a dormire, si pronunciò a favore di quest’ultima tesi, mettendo fine a una disputa che minacciava di protrarsi per ore, dato che quella gente aveva poco altro da fare.

Il giorno seguente il sirdar lo invitò a partecipare, prima della partenza, alle preghiere nella moschea. Era questo, Pottinger scrisse più tardi, «un atto di doppiezza che sino ad allora avevo evitato». Ma non ebbe scelta, perché il sirdar andò a prelevarlo nel suo alloggio. «Vidi che non c’era alternativa,» racconta «quindi feci il gesto di prosternarmi, tenendo l’occhio fisso sul sirdar e borbottando fra me e me». Nessuno, cosa sorprendente, parve insospettirsi. Il benevolo sirdar, che aveva suggerito il nuovo travestimento, sapeva benissimo che lui non era un pio pellegrino, ma non aveva idea che fosse un cristiano e un ufficiale inglese, e lo credeva anzi un musulmano devoto. Per Pottinger quella non fu l’ultima volta in cui il travestimento religioso gli procurò gravi angustie. Dopo aver cavalcato tutta la notte, il manipolo raggiunse il villaggio di Gull, dove Pottinger fu accolto cordialmente dal mullah e invitato a colazione. «Trovai quattro o cinque uomini ben vestiti e dall’aria rispettabile seduti su tappeti stesi all’ombra di un albero, con davanti dei piatti di legno colmi di pane e siero di latte» racconta. Gli uomini si alzarono in piedi per salutarlo, e Pottinger fu fatto sedere alla destra del mullah. Dopo mangiato, uno lo invitò a dire una preghiera di ringraziamento. La richiesta era «tanto inattesa quanto sgradita, e per un attimo mi trovai in grande imbarazzo». Fortunatamente, prima di partire da Bombay si era dato la pena di imparare un paio di preghiere da un servitore musulmano, senza immaginare che più tardi ciò lo avrebbe salvato da una sorte infausta. Lui e Christie intendevano svolgere la loro missione in veste di mercanti di cavalli, non di religiosi; altrimenti, si sarebbe certo preoccupato di imparare meglio quelle preghiere. Cercando disperatamente di ricordarne una, Pottinger si alzò, con la sgradevole sensazione di avere tutti gli occhi puntati addosso. «Assunsi un’aria grave,» ricorda «mi lisciai la barba nel modo più significativo possibile, e biascicai qualche frase», badando a pronunciare «assai distintamente» parole quali Allah, Rasul (il Profeta) e shukr (grazie), che gli pareva probabile ricorressero in una preghiera del genere. Il rischioso raggiro fu ancora una volta efficace, perché il mullah e i suoi compagni sorrisero benevolmente al visitatore, senza sospettare di nulla.

Il guaio successivo si verificò il giorno dopo, in un altro villaggio, e nuovamente Pottinger se la cavò per il rotto della cuffia. Stava comprando un paio di scarpe al mercato (una gli era stata portata via da uno sciacallo durante la notte), quando tra la folla che si era raccolta intorno a lui un vecchio indicò i suoi piedi, esclamando che non erano quelli di un uomo abituato a una vita di fatiche e di stenti. «Afferrai immediatamente le scarpe e me le infilai, perché in effetti, pur esponendo tenacemente i piedi al sole, non ero riuscito ad abbrustolirli come le mani e la faccia» racconta. Nell’intento di evitare ulteriori domande, Pottinger tornò al suo cammello, mentre il vecchio lo seguiva da presso, e lasciò il villaggio con una certa fretta.

Due giorni dopo Pottinger e la sua scorta entrarono nel piccolo villaggio di Mughsee, cinto da mura di argilla, dove contavano di passare la notte; quando però seppero che cosa vi stava accadendo, decisero di non trattenersi. Pochi giorni prima una banda di briganti armati, essendosi vista negare dal sirdar il permesso di coltivare le terre nei dintorni, aveva ucciso lui e la sua famiglia e si era impadronita del villaggio. Un figlio del notabile era riuscito a salvarsi, e in quel momento i briganti assediavano la casa dove si era rifugiato. Pottinger e i suoi si recarono sul posto, seguendo le indicazioni di un passante. I briganti intimavano allo sfortunato giovane di venir fuori per farsi uccidere come il resto della famiglia, altrimenti lo avrebbero stanato per fame. Nessuno dei paesani tentava di prenderne le difese, e Pottinger, riconoscendo di non poter far nulla per salvarlo, non ebbe altra scelta che abbandonarlo alla sua sorte e proseguire il cammino.

Tre giorni dopo Pottinger dovette chiedersi se non fosse giunta la sua ultima ora. Era arrivato nel villaggio di Puhra con una lettera commendatizia fornitagli dal sirdar di una località dove aveva sostato in precedenza. La consegnò al khan di Puhra, che ordinò al suo mirza, o ministro, di leggerla a voce alta. Con acuto imbarazzo di Pottinger, lo scrivente esprimeva il sospetto che quel sant’uomo in viaggio nei loro territori fosse in realtà una persona di alti natali, forse addirittura un principe, che aveva rinunciato a una vita di privilegi per diventare un umile religioso. La lettera era stata scritta senza dubbio con le migliori intenzioni perché il latore fosse bene accolto; tuttavia, portò, con un colpo di scena, alla rivelazione che Pottinger non solo era un finto pellegrino – e per giunta un infedele, un cristiano –, ma che era anche un inglese. E la rivelazione venne da una fonte inattesa.

Dopo la lettura, la folla che circondava Pottinger prese a guardarlo con un interesse nuovo. E a un certo punto si levò la voce di un ragazzetto di dieci o dodici anni: «Se non dicesse di essere un sant’uomo, giurerei che è il fratello di Grant, l’europeo che è venuto a Bampur l’anno scorso…». Il perspicace fanciullo era giunto a un palmo dalla verità. L’anno precedente il capitano W.P. Grant della Bengal Native Infantry era stato mandato a esplorare la costa del Makran per appurare se un esercito ostile potesse muovere verso l’India da quella parte (e aveva dato risposta affermativa). Durante la ricognizione si era spinto nell’interno fino alla città di Bampur, nella Persia orientale, cui Pottinger si stava adesso avvicinando. A suo tempo il ragazzetto – forse il solo dei presenti che avesse mai avuto modo di vedere un europeo – doveva averlo visto, e ora si rendeva conto di una certa somiglianza fra i due.

Pottinger, sulle spine, si sforzò di nascondere il proprio sgomento. «Tentai di far passare inosservata la frase del ragazzo,» scrive «ma il turbamento che mi si leggeva in volto mi tradì». Il khan se ne accorse e gli domandò se era davvero un europeo, aggiungendo che, nel caso, non aveva nulla da temere, perché non gli avrebbero torto un capello. Pottinger tirò un sospiro di sollievo e, stabilito che non aveva senso insistere nella finzione, dichiarò di essere sì un europeo, ma al servizio di un ricco mercante indù. In una fase anteriore del viaggio una simile ammissione gli sarebbe quasi certamente costata la vita, perché lo avrebbero senz’altro considerato una spia inglese; tuttavia, essendo ormai vicino alla frontiera persiana, poteva sentirsi al sicuro, anche se non del tutto. Tanto più che la copertura era caduta solo in parte: la sua professione e il vero scopo della sua presenza non erano stati individuati.

Per fortuna il khan fu divertito dal sotterfugio, e non si indignò del fatto che un infedele si atteggiasse a pio musulmano. Al contrario la guida di Pottinger, che era stata chiaramente turlupinata, andò su tutte le furie. Dapprima confutò la confessione, raccontando al khan e agli astanti delle discussioni teologiche che aveva avuto col sant’uomo. Il khan rise di cuore quando sentì che Pottinger lo aveva colto in fallo su certe questioni attinenti a una religione che l’inglese non professava. L’ira e lo scorno della guida aumentarono allorché un altro degli uomini di Pottinger affermò di aver sempre saputo che questi non era un sant’uomo, pur non sospettando che fosse un europeo.

Seguì un furibondo diverbio, con la guida che accusava il compagno di viaggio di complicità nell’inganno di Pottinger. Alla fine l’intervento del khan, il quale osservò bonariamente che anche altri, lui compreso, erano caduti in inganno, salvò la situazione; e alla partenza dal villaggio, quarantott’ore dopo, Pottinger constatò che la guida lo aveva perdonato. Nel frattempo l’inglese era diventato una celebrità: il suo alloggio fu assediato da una «ressa di oziosi e chiassosi beluci che mi assillavano con domande e discorsi insensati». Quel pomeriggio, tuttavia, l’arrivo di un autentico sant’uomo – un fachiro indù – lo sollevò dal «compito di intrattenere l’intero villaggio».

Cinque giorni più tardi Pottinger entrò nel non meglio identificato villaggio di Basman, ultimo centro abitato del Belucistan a est del grande deserto che il tenente doveva varcare per ritrovarsi al sicuro nei domini dello scià. Il 21 aprile, dopo aver lì pernottato, la carovana si diresse verso il deserto, dove penetrò alle prime ore del mattino seguente. Non c’erano né acqua né vegetazione di sorta, e il caldo, racconta Pottinger, «era il più intenso e opprimente che avessi mai incontrato da quando ero partito dall’India». A ciò si aggiungeva la beffa dei miraggi, che i beluci chiamavano sarab, acque del deserto.

Attenendosi allo stile del tempo, Pottinger di solito minimizza i pericoli e i disagi incontrati nel corso del viaggio, ma nel descrivere la traversata del deserto riesce a coinvolgere il lettore e a renderlo partecipe dell’inferno della sete. Un individuo, scrive, «è in grado di sopportare, con pazienza e speranza, la fatica e la fame, il caldo e il freddo, nonché la privazione assoluta del riposo per un periodo considerevole». Ma sentire la gola «tanto riarsa e secca che si respira a fatica, non osar muovere la lingua per paura di soffocare, e non aver modo di alleviare tali terribili sensazioni, è… il culmine estremo delle calamità di un viaggiatore».

Dopo due giorni di arduo cammino, per lo più di notte per sfuggire al caldo, Pottinger e i suoi uomini raggiunsero Regan, piccolo villaggio persiano di frontiera, al di là del deserto. Era cinto da alte mura di oltre duecentocinquanta metri per lato, spesse circa due alla base, e in ottime condizioni. Pottinger apprese che gli abitanti vivevano nel costante timore delle tribù beluce, le quali «di rado mancano di fare, una o due volte all’anno, visite ostili là o in altre parti dei domini persiani». Oltre alle guardie dell’unica porta vi erano, stanziate a intervalli lungo le mura, sentinelle armate di archibugi che vegliavano tutta la notte, «lanciando frequenti grida e richiami per incoraggiarsi a vicenda e per far sapere agli eventuali malintenzionati là fuori di essere all’erta».

L’inaspettato arrivo di Pottinger dal deserto suscitò notevole costernazione. «Non si capacitavano» scrive «che fossimo arrivati fin lì senza che nessuno se ne accorgesse». Il khan, che lo ricevette calorosamente, si meravigliò che i beluci lo avessero lasciato passare indenne per il loro territorio. Pottinger dovette nondimeno pernottare fuori del forte, essendo inviolabile la regola che proibiva a tutti gli stranieri di dormire entro le mura.

Il tenente proseguì quindi alla volta di Kerman, la capitale della provincia, città ampia e ben fortificata, retta da un principe persiano e celebrata in tutta l’Asia centrale per la bellezza degli scialli e per gli archibugi a miccia. Era qui che lui e Christie avevano convenuto di incontrarsi al termine delle rispettive missioni. Otto giorni dopo, lasciato il deserto e attraversato un paesaggio costellato di villaggi in buono stato e di monti nevosi, Pottinger arrivò in città e prese una stanza in un caravanserraglio vicino al bazar. La voce del suo arrivo si diffuse rapidamente, e presto la solita folla di curiosi, questa volta composta da varie centinaia di persone, si adunò alla porta del suo alloggio e cominciò a subissarlo di domande. Sebbene non avesse più bisogno di nascondere la propria identità, Pottinger era ancora vestito come un indigeno, con uno stinto turbante blu, una rozza camicia belucia e un paio di calzoni sudici e laceri che un tempo erano stati bianchi. Ma quella sera, come lui stesso racconta, liberatosi dei ficcanaso e consumato il pasto migliore che gli fosse toccato da settimane, «mi coricai e dormii del sonno più placido e profondo degli ultimi tre mesi».

All’arrivo aveva mandato un messaggio al principe, chiedendo udienza, e aveva anche spedito un corriere a Shiraz, dove credeva (erroneamente, come poi risultò) che si trovasse il suo capo, il generale Malcolm, per avvisarlo di essere sano e salvo e che la missione era felicemente compiuta. Il principe rispose dandogli il benvenuto e convocandolo a palazzo per l’indomani. L’invito mise Pottinger in lieve difficoltà, poiché le vesti che aveva indosso non erano adatte all’occasione. Per fortuna riuscì a farsi prestare un abito da un mercante indù del quartiere, e la mattina dopo alle dieci si presentò alle porte della reggia.

Attraversati vari cortili fu accolto dall’urz begee, o maestro delle cerimonie, che lo condusse alla reale presenza. Il principe, un bell’uomo con la barba e una berretta nera di agnellino in testa, era seduto a una finestra posta tre metri sopra di loro e affacciata su un piccolo cortile con al centro una fontana zampillante. «Facemmo un profondo inchino,» racconta Pottinger «poi avanzammo di qualche passo e ne facemmo un secondo e quindi un terzo. Il principe rispose ogni volta con un lieve cenno del capo». Pottinger si aspettava di essere invitato a sedere. «Ma, non essendo il mio abito di prim’ordine,» scrive «suppongo di non essere stato ritenuto degno di tale onore, e perciò rimasi in piedi di fronte al principe nel cortile, dove tutt’intorno erano schierati, lungo i muri, a braccia conserte, i dignitari del governo». Il principe allora «domandò con voce altisonante dov’ero stato, che cosa mi aveva indotto a intraprendere il viaggio, e com’ero sfuggito ai pericoli che certo avevo incontrato».

Sebbene ora Pottinger potesse ammettere senza timore di essere un europeo e un ufficiale inglese, sul vero scopo del suo viaggio occorreva mantenere il più stretto riserbo, anche con i persiani. Rispose perciò che lui e un altro ufficiale erano stati mandati a Kalat per comprare cavalli per l’esercito indiano. Il suo collega era tornato per un’altra strada, mentre lui aveva viaggiato via terra attraverso Belucistan e Persia, dove contava di raggiungere Malcolm. Il principe sembrò prestar fede alla storia e dopo mezz’ora lo congedò. Di Christie ancora nessuna traccia, né tanto meno messaggi da parte sua, sicché Pottinger decise di trattenersi un po’ più a lungo a Kerman prima di andare in cerca di Malcolm. Il principe acconsentì, e Pottinger occupò utilmente il suo tempo raccogliendo informazioni sull’indole e i costumi dei persiani, e in particolare sulle difese della città.

Era a Kerman da alcuni giorni quando ebbe modo di vedere all’opera la giustizia persiana. Seduto alla stessa finestra dalla quale aveva parlato a Pottinger, il principe giudicò e condannò alcuni uomini accusati di aver ucciso un suo servo. Quel giorno la città era in grande fermento. Le porte erano chiuse e i pubblici affari sospesi. Le sentenze furono eseguite immediatamente, nel cortile dove Pottinger aveva sostato, e il principe assisté compiaciuto all’orripilante spettacolo. «Alcuni» scrive Pottinger «vennero accecati; furono loro mozzati gli orecchi, il naso e le labbra, tagliata la lingua e amputata una mano o tutt’e due. Altri furono evirati, ed ebbero recise le dita delle mani e dei piedi; tutti infine furono cacciati in strada, e agli abitanti fu fatto espresso divieto di assisterli e di avvicinarli in alcun modo». Venne inoltre a sapere che, quando amministrava la giustizia, il principe indossava una speciale veste gialla chiamata ghuzub poshak, abito della vendetta.

Non molto tempo dopo Pottinger ebbe modo di sperimentare di persona il subdolo modo di agire del principe. Ricevette infatti la visita di un dignitario di corte di mezza età che domandò di parlargli in privato; costui, appena chiusa la porta, si lanciò in un lungo panegirico del cristianesimo, al quale, dichiarò infine, desiderava convertirsi. Sospettando che l’uomo fosse un agente provocatore mandato dal principe, Pottinger gli disse di non avere purtroppo né le cognizioni né l’autorità per istruirlo in quella o in altre religioni. Il visitatore tentò allora di battere un altro tasto. In quel momento, assicurò, a Kerman c’erano seimila uomini che pregavano perché gli inglesi venissero a liberarli dalla tirannia del principe: sarebbe arrivato un esercito, e quando? Ansioso di sottrarsi a una conversazione tanto pericolosa, Pottinger finse di non capire la domanda. A quel punto, la provvidenziale comparsa di un altro visitatore fece fuggire il primo in tutta fretta.

Trascorse tre settimane a Kerman senza ricevere notizie di Christie, Pottinger decise di unirsi a una carovana che partiva per Isfahan. Undici giorni più tardi raggiunse Shiraz, e dopo altri sedici entrò a Isfahan, dove apprese che Malcolm si trovava a Maragha, nella Persia nord-occidentale. Mentre soggiornava a Isfahan, nel palazzo riservato agli ospiti di riguardo, e si godeva le comodità della nuova sistemazione, fu informato una sera che un uomo desiderava parlargli. «Scesi al pianterreno, e nell’oscurità non distinsi i suoi lineamenti». Conversò con l’estraneo parecchi minuti prima di accorgersi a un tratto che quella figura male in arnese, provata dal viaggio, era Christie. Questi aveva saputo, arrivando a Isfahan, che in città c’era un altro faranji, un europeo, e aveva chiesto di essere condotto da lui. Come Pottinger, sulle prime non aveva riconosciuto l’amico, abbronzato dal sole e vestito alla persiana. Ma ora i due si abbracciarono, sopraffatti dalla gioia di ritrovarsi sani e salvi. «Quel momento» scrive Pottinger «fu uno dei più felici della mia vita».

Era il 30 giugno 1810, più di tre mesi dopo la loro separazione a Nushki. In tutto, da quando avevano messo piede nel Belucistan, Christie aveva percorso tremilaseicento chilometri in uno dei territori più pericolosi al mondo, Pottinger duecentosessanta in più. Si tratta di gesta che testimoniano un coraggio e una tenacia stupefacenti, per non parlare poi delle scoperte realizzate. Fossero avvenute solo vent’anni dopo, all’epoca in cui fu fondata la Royal Geographical Society, i due ufficiali si sarebbero di certo aggiudicati la medaglia d’oro per l’esplorazione, l’ambita ricompensa che in seguito tanti loro colleghi del Grande Gioco si guadagnarono con viaggi altrettanto rischiosi.

Comunque, alla loro impresa non mancò il riconoscimento dei superiori che, soddisfatti delle informazioni preziose che i due avevano raccolto, segnalarono entrambi come giovani ufficiali di straordinarie capacità. Il tenente Pottinger, ancor prima di compiere ventun anni, era già destinato a una rapida promozione, a una lunga e brillante carriera nel futuro Grande Gioco, e infine a un cavalierato. Pottinger diede altresì prova di un certo talento letterario, non limitandosi ai rapporti segreti che lui e Christie erano tenuti a redigere sulle condizioni militari e politiche dei luoghi visitati, ma cimentandosi in un vero e proprio racconto di viaggio. Il libro riscosse note-vole successo di pubblico in patria, ed è ancor oggi richiesto come pezzo da collezione. Fra l’altro, l’espediente di travestirsi da pellegrino per penetrare in regioni proibite fu adottato quasi mezzo secolo prima che Sir Richard Burton si guadagnasse fama immortale facendo lo stesso.

Christie ebbe meno fortuna di Pottinger e i suoi giorni erano già contati. Quando Pottinger venne richiamato in servizio in India, Christie ricevette dal generale Malcolm l’invito a trattenersi in Persia per collaborare, in base ai termini del nuovo trattato, all’addestramento delle truppe dello scià in vista di un attacco russo o francese. Due anni dopo, mentre si trovava al comando della fanteria persiana durante un’esercitazione nel Caucaso meridionale, morì in circostanze singolarmente drammatiche. Ma stiamo correndo troppo, perché molte altre cose accaddero prima di allora. All’inizio del 1812, con immenso sollievo di Londra e di Calcutta, l’alleanza tra Napoleone e Alessandro – che tanto allarme aveva suscitato – si era rotta. Nel giugno di quell’anno Napoleone attaccò non l’India ma la Russia, e, tra lo stupore internazionale, subì la più catastrofica disfatta della storia. L’India non correva più alcun rischio d’invasione. O così almeno si credeva in una Gran Bretagna in giubilo.

4
LO SPAURACCHIO RUSSO

Nell’estate del 1812 le truppe napoleoniche in marcia verso il loro triste destino passarano dalla città baltica di Vilna. Qui sorge un semplice monumento commemorativo, con due lapidi che dicono tutto quel che c’è da dire. Sul lato che dà le spalle a Mosca si legge: «Napoleone Bonaparte passò di qui nel 1812 con quattrocentomila uomini». Sul lato opposto invece: «Napoleone Bonaparte passò di qui nel 1812 con novemila uomini».

Sul principio, la notizia che la Grande Armée si ritirava fra le nevi russe in completo disordine fu accolta a Londra con incredulità. Le forze lanciate da Napoleone contro i russi erano di tale entità che una vittoria francese veniva data per certa. L’annuncio che Mosca era caduta in mano alle truppe di Bonaparte ed era in fiamme aveva confermato questa certezza. Poi, dopo settimane di voci contrastanti, cominciò a emergere la verità. A incendiare Mosca non erano stati i francesi ma i russi, nell’intento di privare Napoleone dei viveri e degli altri rifornimenti che aveva sperato di trovarvi. La storia di ciò che seguì è troppo nota per ripeterla in questa sede. Con l’incombere dell’inverno, e già disperatamente a corto di cibo, i francesi dovettero ritirarsi, prima a Smolensk e infine da tutta la Russia.

Attaccati di continuo dai cosacchi e dalle bande dei guerriglieri, costretti a mangiare i propri cavalli per sopravvivere, per loro la ritirata si mutò in rotta; morivano a decine di migliaia, di congelamento, di fame e di malattie non meno che per gli assalti nemici. Quando la retroguardia del maresciallo Ney attraversò il Dnepr gelato, il ghiaccio cedette inghiottendo due terzi degli uomini. Alla fine, del grande esercito napoleonico, già destinato a conquistare l’Oriente, India inclusa, solo uno sparuto e demoralizzato drappello riuscì a scampare. Ma lo zar Alessandro, ormai convinto di essere stato investito dall’Onnipotente della missione di liberare il mondo da Napoleone, non si accontentò di ricacciare i francesi al di là delle frontiere. Li inseguì per mezza Europa fino a Parigi, dove entrò trionfalmente il 30 marzo 1814.

In Gran Bretagna, come altrove, la caduta di Napoleone suscitò grande euforia. La doppiezza di cui Alessandro aveva a suo tempo dato prova nel far lega con lui contro gli inglesi fu opportunamente dimenticata, e su ogni altra considerazione prevalse il sollievo. I giornali facevano a gara nel coprire di lodi i russi e nell’esaltarne le molteplici virtù, immaginarie o reali che fossero. L’eroico spirito di sacrificio dei soldati russi colpiva l’immaginazione del pubblico britannico. In particolare, sui feroci cosacchi giungevano a Londra dal continente storie commoventi di come costoro preferissero dormire su un pagliericcio accanto al cavallo anziché nei comodi letti dei migliori alberghi, o di come dessero una mano nelle faccende domestiche alle massaie presso le quali erano alloggiati. Un soldato semplice cosacco, arrivato quella primavera a Londra, ebbe accoglienze entusiastiche; e così fu per il comandante cosacco che quattordici anni prima aveva guidato l’effimera spedizione contro l’India ordinata dallo zar Paolo. Se qualcuno se ne ricordava, non disse niente. Il cosacco fu colmato di onorificenze – tra cui una laurea honoris causa a Oxford – e rimandato a casa carico di doni.

L’idillio con la Russia non era tuttavia destinato a durare. In alcuni cominciava a germogliare l’inquietante presentimento che Napoleone fosse stato rimpiazzato da un nuovo mostro. Era di questa opinione, fra gli altri, Lord Castlereagh, ministro degli Esteri britannico. Quando al congresso di Vienna, riunitosi nel 1814 per ridisegnare la carta d’Europa, Alessandro domandò che l’intera Polonia fosse posta sotto il suo controllo, Castlereagh si oppose vigorosamente, ritenendo la Russia già potente a sufficienza. Lo zar insisté, e i due paesi giunsero sull’orlo di una guerra, evitata solo perché Alessandro accettò di dividere la Polonia con Austria e Prussia. A lui toccò tuttavia la parte del leone. Le frontiere europee acquisite dalla Russia quando Napoleone venne definitivamente relegato a Sant’Elena segnarono per un secolo il limite estremo della sua espansione verso occidente. In Asia, però, dove non vi era alcun congresso di Vienna a frenare le ambizioni di Pietroburgo, le cose andarono in modo ben diverso.

Se si potesse attribuire la creazione dello spauracchio russo a un singolo individuo, questi sarebbe un pluridecorato generale inglese di nome Sir Robert Wilson. Veterano di molte campagne, con la fama di testa calda sul campo di battaglia e fuori, Sir Wilson nutriva da tempo un vivo interesse per le cose russe. Fu lui il primo a divulgare le famose parole, colte di nascosto da un suo informatore, che Alessandro disse a Napoleone a Tilsit nel 1807, nell’atto di salire a bordo della chiatta: «Detesto gli inglesi quanto voi, e sono pronto ad aiutarvi in qualsiasi impresa contro di loro». Dapprincipio Wilson era stato un grande ammiratore dei russi, e anche dopo questo episodio rimase in buoni rapporti con loro. Inviato come osservatore ufficiale britannico presso le armate di Alessandro dopo l’attacco di Napoleone alla Russia, nonostante il suo ruolo non fosse quello del combattente, si era gettato più volte nella mischia contro l’invasore. Il suo coraggio gli era valso l’ammirazione e l’amicizia dello zar, al punto che costui gli conferì una onorificenza, la quale andò ad aggiungersi a quelle già ricevute da Austria, Prussia, Sassonia e Turchia. Testimone dell’incendio di Mosca, era stato il primo a comunicare alla Gran Bretagna incredula la notizia della sconfitta di Napoleone.

Fu al suo ritorno a Londra che Wilson attirò su di sé le ire ufficiali, inscenando una solitaria campagna contro i russi, alleati della Gran Bretagna e agli occhi dei più salvatori dell’Europa. Il generale cominciò col demolire le idee romantiche che allora circolavano sull’animo cavalleresco dei soldati russi, specie dei cosacchi, ormai divenuti beniamini della stampa e dell’opinione pubblica. Le atrocità da loro perpetrate contro i francesi, asserì, erano orripilanti alla luce delle norme in vigore presso gli eserciti europei. I prigionieri inermi erano stati sterminati a frotte, bruciati vivi, oppure messi in fila e finiti a colpi di bastone e di frusta dai contadini. Gli infelici venivano prima spogliati di tutto ciò che avevano indosso e poi abbandonati ad attendere la loro sorte nudi nella neve. Neppure le donne si astenevano da crudeltà inaudite, se un francese aveva la sventura di cadere nelle loro grinfie.

Pochi in patria erano in condizione di confutare Wilson, soldato di grande prestigio ed esperienza, che era stato testimone diretto di episodi simili, nonché di atti di cannibalismo. Le sue critiche non risparmiarono nemmeno i generali zaristi, che ancora si crogiolavano nel fulgore della vittoria, colpevoli, a suo dire, di incompetenza per non aver attaccato i francesi in ritirata, permettendo così a Napoleone di salvarsi insieme a un intero corpo d’armata. Si erano accontentati, dichiarava, di lasciare che fosse l’inverno russo a distruggere l’invasore. «Se avessi avuto al mio comando diecimila uomini, o anche solo cinquemila,» annotò nel suo diario «Bonaparte non sarebbe mai tornato a sedersi sul trono di Francia». Asserì perfino che lo zar gli aveva confidato di non riporre alcuna fiducia nelle capacità del maresciallo Kutuzov, suo comandante supremo, ma di non poterlo destituire per via delle sue amicizie potenti.

Ma l’attacco più virulento Wilson doveva ancora sferrarlo. Nel 1817, quattro anni dopo il suo ritorno dalla Russia, e dopo essere stato eletto al Parlamento, il generale diede alle stampe un pamphlet contro l’alleato dal titolo A Sketch of the Military and Political Power of Russia. Pubblicato anonimo (sebbene non vi fossero dubbi sull’identità dell’autore), il libello ebbe grande successo e cinque edizioni nel giro di breve tempo. In esso Wilson sosteneva che i russi, imbaldanziti dalla subitanea crescita della loro potenza, progettavano di eseguire il presunto ordine impartito da Pietro il Grande sul letto di morte, ovvero la conquista del mondo. Primo obiettivo sarebbe stata Costantinopoli, seguita dai resti dell’immenso benché agonizzante impero del sultano; poi sarebbe stata la volta dell’India. A sostegno di questa tesi sensazionale Wilson adduceva il massiccio e costante incremento delle forze armate russe, e l’implacabile espansione dei domini zaristi. «Alessandro» avvertiva «ha già un esercito molto più grande di quanto richiesto dalla sua linea difensiva – o consentito dalle sue finanze –, eppure continua ad accrescere le sue forze».

In sedici anni di regno, Wilson calcolava, Alessandro aveva accresciuto il suo impero di cinquecentomila chilometri quadrati e di tredici milioni di nuovi sudditi. A sostegno di questa tesi, nel libro era stata inserita una map-pa pieghevole con le frontiere russe antiche e recenti segnate rispettivamente in verde e in rosso. Ne risultava quanto gli eserciti di Alessandro fossero adesso vicini alle capitali dell’Europa occidentale, e anche a Costantinopoli, snodo chiave sia all’interno del fatiscente impero ottomano sia sulla strada più diretta per l’India. La città appariva esposta a un attacco russo da tre direzioni: dall’attuale Romania, lungo il litorale occidentale del Mar Nero; dalla Crimea, attraverso lo stesso mare; e dal Caucaso, a ovest, attraverso l’Anatolia. Una volta impossessatosi dei territori ottomani del Vicino Oriente, Alessandro sarebbe stato in grado di puntare sull’India, o attraverso la Persia – e i documenti sequestrati a Napoleone dimostravano che lo zar considerava tale via praticabile – oppure con forze trasportate via mare dal Golfo Persico, un viaggio che richiedeva meno di un mese.

Nell’arco di soli dieci anni, scriveva Wilson, l’esercito russo era cresciuto dalle ottantamila alle seicentoquarantamila unità, senza contare le riserve, la milizia territoriale, la cavalleria tartara e via dicendo. E non c’era soldato «più valoroso» del russo; spietato, magari, ma capace «di marciare e di sopportare fame e privazioni materiali» come nessun altro. Wilson imputava la spettacolare ascesa della Russia alla miopia dei suoi alleati, Gran Bretagna in testa. «La Russia» dichiarava «ha tratto vantaggio dagli eventi che hanno afflitto l’Europa, e si ritrova in mano lo scettro del dominio universale». Col risultato che lo zar – uomo «ebbro di potere» – costituiva adesso per gli interessi britannici una minaccia potenzialmente anche più grave di quella napoleonica. Restava da vedere come intendesse usare l’immenso esercito per ampliare il proprio già vasto impero. «Esistono prove convincenti» concludeva Wilson «del fatto che Alessandro ha sempre avuto in animo di adempiere le direttive di Pietro il Grande».

La familiarità che Wilson aveva avuto in passato col sovrano russo e con il suo esercito sul campo di battaglia conferiva al libro un’autorevolezza impossibile da ignorare. Per quanto irritante per coloro che auspicavano rapporti sempre migliori tra Gran Bretagna e Russia, il suo messaggio allarmistico ebbe ampia risonanza presso la stampa e fra i colleghi parlamentari. Alcuni editoriali giudicarono il monito utile e tempestivo; altri invece accusarono Wilson di calunniare un paese amico e di diffondere allarmi gratuiti. In una recensione di ben quaranta pagine la «Quarterly Review», all’epoca filorussa, dichiarò: «Guardiamoci – non foss’altro perché un giorno ciò potrebbe costituire un serio pericolo – dallo sciogliere la nostra antica alleanza con un paese dalla cui grandezza traiamo adesso, e verosimilmente continueremo a trarre, sempre maggiori benefici». Al contrario, il corsivista auspicava, con parole che sembrano prese pari pari da un articolo odierno sui rapporti anglo-russi, che la rivalità fosse limitata all’ambito del «chi meglio governa».

Sebbene non gli mancasse l’appoggio di intellettuali e liberali, che aborrivano il regime autoritario di Alessandro, nonché di giornali e periodici di idee affini, Wilson venne in sostanza zittito. Nondimeno il suo libro, basato in gran parte su presupposti erronei, diede origine a un dibattito destinato a protrarsi per oltre un secolo, tanto sulla carta stampata quanto in Parlamento, circa ogni possibile mossa della Russia. I primi semi della russofobia erano stati gettati. I timori e le diffidenze verso questa nuova grande potenza, dotata di risorse e di riserve umane illimitate, si erano ormai radicati, in forma durevole, nella mente dei britannici. Lo spauracchio russo avrebbe avuto lunga vita.

Wilson non era il solo a temere che i russi usassero i territori caucasici come trampolino per un’avanzata su Costantinopoli, o anche su Teheran. I turchi e i persiani avevano da tempo preoccupazioni analoghe, e nell’estate del 1811, poco prima che Napoleone invadesse la Russia, avevano convenuto di accantonare le antiche rivalità per combattere uniti l’intruso infedele. Sul principio la situazione parve volgere a loro favore, perché Alessandro cominciò a richiamare in patria dal Caucaso una parte delle sue truppe, e le restanti unità russe subirono gravi perdite. In uno scontro i persiani costrinsero alla resa un intero reggimento con le sue bandiere, un’umiliazione inaudita per i russi. «Si può immaginare il giubilo alla corte persiana» scrisse un commentatore. «I russi non erano più invincibili». Così almeno dovette pensarla lo scià, il quale cominciò a vagheggiare altre vittorie che gli restituissero i possedimenti perduti.

Queste speranze, però, erano destinate a infrangersi di lì a poco. Impegnato in una lotta mortale con Napoleone, Alessandro riuscì a concludere una pace separata con il sultano, alleato dello scià, accettando di restituire alla Turchia, in cambio della cessazione delle ostilità, quasi tutto il territorio che i russi le avevano sottratto negli ultimi anni. Per Alessandro fu una decisione amara, presa sull’orlo della disperazione, che però diede alle sue truppe in Caucaso, alquanto malridotte, il respiro di cui avevano bisogno, e la possibilità di concentrare tutta la loro forza contro i persiani. Ancora esacerbati dallo smacco subìto dalle truppe dello scià – che erano state chiaramente avvantaggiate dalla presenza degli ufficiali inglesi del generale Malcolm –, i russi ardevano dal desiderio di vendicarsi. L’occasione non tardò.

In una notte senza luna del 1812, alcuni reparti russi guidati da un giovane generale ventinovenne di nome Kotljarevskij attraversarono di nascosto il fiume Aras, l’Araxes di Alessandro Magno. Sulla riva opposta erano accampate le forze persiane, molto più numerose ma ignare del pericolo, al comando del caparbio figlio ed erede dello scià, Abbas Mirza. Questi, cullandosi nella sicurezza che gli derivava dai precedenti successi contro le debilitate forze russe, e dalla voce, probabilmente diffusa dagli stessi russi, che tali forze avevano di lui gran timore, non si era curato della raccomandazione dei suoi due consiglieri inglesi di mettere delle sentinelle a guardia del fiume, e anzi aveva addirittura ritirato quelle che vi avevano piazzato loro. I due consiglieri erano il capitano Christie, già compagno di viaggio di Pottinger, distaccato presso i persiani come esperto di fanteria, e il tenente Henry Lindsay, un ufficiale di artiglieria dalla corporatura possente che i suoi uomini paragonavano al loro eroe leggendario, il grande Rustam.

Ora che Gran Bretagna e Russia erano alleate contro Napoleone, i membri della missione di Malcolm avevano l’ordine di abbandonare, in caso di combattimento, i rispettivi reparti per evitare rischiose complicazioni politiche. Ma l’attacco russo fu così improvviso che Christie e Lindsay, non volendo dar l’impressione di fuggire, decisero di ignorare l’ordine e di battersi insieme ai loro uomini, ai quali si erano ormai affezionati. Disperatamente cercarono di radunare le truppe, e per un’intera giornata riuscirono non solo a resistere ai furiosi assalti russi, ma anche a respingerli. Di notte però, col favore dell’oscurità, le truppe di Kotljarevskij tornarono all’attacco, e nella confusione i persiani fecero fuoco sulle proprie file. Abbas Mirza, convinto che tutto fosse perduto, ordinò ai suoi uomini di ritirarsi. Christie non obbedì; allora Abbas afferrò al galoppo la bandiera e ripeté l’ordine di abbandonare la posizione. Nel caos che seguì, Christie cadde, colpito al collo da una pallottola russa.

Secondo il racconto di un altro membro della missione di Malcolm, il tenente William Monteith, tale era la devozione del corpo formato e addestrato da Christie che più di metà degli uomini cadde o fu ferita nel tentativo di portarlo in salvo lontano dal campo di battaglia. I loro sforzi tuttavia furono vani. La mattina dopo, una pattuglia russa trovò l’ufficiale inglese che giaceva mortalmente ferito. «Aveva deciso di non farsi prendere vivo» riferisce Monteith; se avesse dovuto affrontare la corte marziale per avere disobbedito agli ordini, «sarebbe stato perché si era battuto, non perché era fuggito». Uomo dotato di una forza eccezionale, Christie uccise lo sfortunato ufficiale russo che tentava di trascinarlo via.

Kotljarevskij, avvertito che sul campo c’era un ufficiale inglese gravemente ferito che rifiutava di arrendersi, diede ordine di disarmarlo e farlo prigioniero a qualunque costo. «Christie si difese strenuamente» racconta Monteith «e dicono che abbia ucciso sei uomini prima di essere finito a sua volta dalla pistola di un cosacco». Il suo corpo fu trovato più tardi dal medico inglese della missione e seppellito sul posto. «Così cadde un ufficiale valoroso e un uomo amabile quant’altri mai» conclude Monteith; anche se di questa amabilità i russi fecero ben poca esperienza nel breve incontro con lui. La sicumera di Abbas Mirza, che si era fatto cogliere di sorpresa, costò ai persiani diecimila uomini, secondo un computo, mentre i russi ne persero soltanto centoventisette, fra cui tre ufficiali. Oltre ad annientare l’esercito persiano, Kotljarevskij s’impadronì di dodici dei quattordici preziosi cannoni di Lindsay, ciascuno recante l’iscrizione (a sentire i russi): «Dal Re dei Re allo Scià degli Scià». La sconfitta russa era stata ampiamente vendicata.

Il vittorioso Kotljarevskij si mise quindi in marcia tra le nevi diretto a est, alla volta del Caspio, dove sorgeva la grande piazzaforte persiana di Lenkoran, a sole trecento miglia da Teheran, ricostruita di recente secondo i criteri più moderni da ingegneri inglesi. Ritenendo la città a prova d’assedio, i difensori persiani ignorarono l’invito del giovane generale ad arrendersi e respinsero il primo assalto con perdite considerevoli. Ma, dopo cinque giorni di sanguinosi combattimenti, i russi, al comando di Kotljarevskij, irruppero nella fortezza. Respinta l’offerta di una resa onorevole, i persiani vennero massacrati dal primo all’ultimo. Kotljarevskij tuttavia perse quasi due terzi dei suoi uomini, e fu ritrovato in stato di parziale incoscienza e con una brutta ferita alla testa fra i cadaveri di ambo le parti ammassati sotto la breccia che i suoi genieri avevano aperto nelle mura. Più tardi, dal letto d’ospedale, riferì ad Alessandro: «Esacerbati dalla loro ostinazione, i soldati hanno ucciso a colpi di baionetta tutti e quattromila i persiani, ufficiali e truppa; non uno è scampato».

Il generale Kotljarevskij non tornò più a combattere, tanto gravi erano le sue ferite. Con rammarico fu costretto a declinare l’offerta del comando di tutte le truppe russe nel Caucaso, uno dei riconoscimenti più ambiti e prestigiosi della carriera militare. Comunque, per la sua vittoria, sia pure pagata a caro prezzo, Kotljarevskij ricevette – e per la seconda volta, evento mai verificatosi prima per un ufficiale così giovane – la massima ricompensa che lo zar potesse conferire, l’Ordine di San Giorgio. Anni dopo, sentendo avvicinarsi la fine, riunì i familiari e aprì un piccolo scrigno di cui teneva sempre con sé l’unica chiave. «Ecco il motivo» disse commosso «che mi ha impedito di servire il mio zar e di combattere per la patria fino alla tomba». E dallo scrigno tirò fuori a uno a uno non meno di quaranta frammenti ossei che i chirurghi militari gli avevano estratto anni prima dal cranio fratturato.

Dopo le due disastrose sconfitte subite per mano di Kotljarevskij, i persiani non avevano più animo di combattere; e quando gli inglesi, nel tentativo di bloccare l’avanzata russa con mezzi diplomatici, si offrirono di mediare una tregua, lo scià fu ben lieto di accettare. La cosa piacque anche ai russi, che così avrebbero avuto un po’ di respiro per riorganizzarsi. Inoltre, in qualità di vincitori, poterono dettare le condizioni e conservare la maggior parte del territorio strappato ai persiani. Con la pace di Gulistan del 1813 lo scià dovette cedere quasi tutti i domini a nord del fiume Aras, rinunciando alle rivendicazioni sulla Georgia e Baku e a ogni diritto navale nel Mar Caspio, che divenne a tutti gli effetti una sorta di lago russo. Le forze armate zariste si avvicinarono così di altri quattrocento chilometri alle frontiere settentrionali dell’India. L’alternativa sarebbe stata il via libera alla loro inesorabile avanzata in Persia. In cambio lo scià ottenne solamente, a parte la fine delle ostilità, l’impegno dello zar a sostenere il diritto al trono persiano del figlio Abbas Mirza, qualora questo gli fosse stato contestato.

Dal canto suo, lo scià non aveva alcuna intenzione di rispettare il trattato impostogli dall’aggressivo vicino, e lo considerava solo un espediente per bloccare – in via del tutto provvisoria – l’avanzata russa. La sua speranza era di ricostruire, secondo i criteri più moderni e con l’aiuto della Gran Bretagna, il proprio esercito recentemente sconfitto, e di riconquistare al momento opportuno i territori perduti. Del resto, la Persia era stata in passato una grande potenza in espansione, e le vittorie riportate all’inizio sui russi nell’ultima guerra dimostravano che cosa fosse ancora capace di fare. Tuttavia, ciò di cui lo scià sembrava non rendersi conto era che Gran Bretagna e Russia, alle prese con un nemico comune nella lontana Europa, erano adesso alleate, e che Londra, arrestata con mezzi pacifici l’avanzata russa, non aveva la minima intenzione di litigare con Pietroburgo per porre rimedio alle tribolazioni altrui. All’epoca, infatti, il rafforzamento militare della Russia nel Caucaso non era ancora visto in Gran Bretagna come un pericolo serio per l’India; almeno, non nei circoli governativi, dove Sir Robert Wilson e quelli che la pensavano come lui erano considerati degli allarmisti.

Svanita la minaccia napoleonica all’India, la missione militare britannica in Persia fu notevolmente ridotta, con grave disappunto dello scià, e vennero emanati ordini tassativi perché mai più ufficiali inglesi guidassero truppe persiane contro i russi. L’affare Christie era stato messo in ombra dai clamorosi eventi europei e da Pietroburgo non si erano levate proteste, ma nessuno a Londra o a Calcutta desiderava rischiare una replica. Lo scià non era in condizione di discutere, perché un qualsiasi trattato difensivo con la Gran Bretagna, allora massima potenza mondiale, era meglio di niente. Anche la richiesta di mandare ufficiali persiani ad addestrarsi in India fu respinta, poiché si temeva – come si legge in una nota riservata del governatore generale – che la loro «arroganza, licenziosità e depravazione» minassero la disciplina e il morale delle truppe indigene della Compagnia. Ma se i timori ventilati da Wilson e dai suoi colleghi russofobi, circa l’eventualità che un nuovo colosso rimpiazzasse Napoleone, avevano incontrato scarso credito presso i circoli ufficiali, i membri della missione britannica a Teheran nutrivano da tempo gravi preoccupazioni per il rafforzamento della Russia in Oriente.

Alcuni di quegli ufficiali avevano già sentito sul collo il fiato caldo del mostro nordico. Tra i consiglieri delle forze persiane sul fronte russo vi era John Macdonald Kinneir, giovane capitano dell’esercito d’India. (Per semplicità, mi sono attenuto al nome originario, benché in seguito il capitano abbia adottato come cognome solo Macdonald, lasciando cadere il Kinneir). Distaccato dalla Madras Native Infantry all’ufficio politico della Compagnia, Kinneir aveva prestato servizio per alcuni anni in Persia, dove uno dei primi compiti affidatigli dal generale Malcolm era stato di riunire in un singolo volume tutte le informazioni geografiche raccolte da Christie, Pottinger e dagli altri ufficiali della squadra. Il volume, pubblicato nel 1813 col titolo A Geographical Memoir of the Persian Empire, rappresentò per molti anni la fonte principale sull’argomento. Lo stesso Kinneir, avendo viaggiato in lungo e in largo in quelle regioni, era ben qualificato a esprimere le sue opinioni su una potenziale minaccia russa agli interessi britannici in Oriente, e lo fece in una lunga appendice a un testo dedicato ai suoi viaggi, apparso circa un anno dopo quello di Wilson.

Se Christie e Pottinger furono i primi giocatori del Grande Gioco, sia pure nell’èra napoleonica, e Wilson il primo polemista, a Kinneir va ascritto il merito della prima analisi seria. Il quesito a cui cercò di rispondere era il seguente: in quale misura l’India era davvero esposta a un attacco?

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TUTTE LE STRADE PORTANO IN INDIA

Il luccichio delle grandi ricchezze del subcontinente ha sempre attirato sguardi di cupidigia, e molto prima dell’arrivo degli inglesi i sovrani locali avevano imparato a vivere sotto la perpetua minaccia di un’invasione. Tutto era cominciato circa tremila anni prima che la Compagnia delle Indie estromettesse i rivali europei, quando ondate successive di arii avevano varcato i passi nord-occidentali e respinto a sud gli aborigeni. Seguirono numerose altre invasioni, grandi e piccole, tra cui quelle del persiano Dario I intorno al 500 a.C. e di Alessandro Magno due secoli dopo, peraltro entrambe di breve durata. Tra il 997 e il 1026 d.C. il grande conquistatore musulmano Mahmud di Ghazni (oggi parte dell’Afghanistan) compì non meno di quindici incursioni nell’India settentrionale, razziando enormi quantità di bottino con cui abbellire la sua capitale. Muhammad di Ghor (oggi nel Pakistan settentrionale), conquistata a sua volta Ghazni, guidò sei invasioni contro l’India tra il 1175 e il 1206, e un suo generale divenne sovrano di Delhi. Dopo il saccheggio di questa città a opera delle schiere di Tamerlano nel 1398, un altro guerriero dell’Asia centrale, Babur il Turco, invase l’India da Kabul e nel 1526 fondò il grande impero moghul, con Delhi capitale. Ma non fu l’ultimo degli invasori asiatici. Nel 1739, con un esercito preceduto da sedicimila cavalieri pathan, l’ambizioso scià di Persia Nadir si impadronì per breve tempo di Delhi, ancora capitale moghul, e portò via il famoso diamante Koh-i-Noor («Montagna di luce») e il Trono del Pavone per ornarne la propria residenza. Nel 1756, infine, il sovrano afgano Ahmed Durrani invase l’India settentrionale, saccheggiando Delhi e tornando in patria con tutto il bottino che riuscì a trasportare attraverso i passi.

Questi invasori avevano raggiunto l’India via terra, e solo alla fine del XV secolo, quando i navigatori portoghesi aprirono la rotta marittima dall’Europa, i sovrani moghul cominciarono a preoccuparsi della possibilità di un’aggressione dal mare. Dato che anche gli inglesi erano venuti per questa via, è abbastanza naturale che John Kinneir, in quella che oggi chiameremmo «valutazione del rischio», considerasse innanzitutto le prospettive di riuscita di un’invasione marittima. I cinquemila chilometri di coste indiane, mal sorvegliati e praticamente indifesi contro un attacco a sorpresa, apparivano vulnerabili. Non solo gli inglesi, ma i portoghesi, gli olandesi e i francesi erano venuti via mare, e già nel 711 d.C. una flotta araba con seimila uomini a bordo aveva conquistato il Sind passando per il Golfo Persico. Wilson ammoniva che i russi avrebbero potuto fare altrettanto.

Al contrario Kinneir, che grazie ai suoi viaggi conosceva bene la regione del Golfo (fra l’altro per avervi ingaggiato una scaramuccia con dei pirati arabi) e aveva accesso a informazioni più aggiornate, giudicò che un’aggressione marittima fosse da escludere, considerata la sua difficoltà. «Da quella parte abbiamo poco da temere» scrisse. Innanzitutto, una potenza ostile si sarebbe dovuta impossessare di porti situati a una distanza di navigazione dall’India che non fosse eccessiva. Solo il Mar Rosso e il Golfo Persico, a suo avviso, offrivano gli ancoraggi sicuri necessari a preparare e varare una flotta d’invasione. Tale flotta, poi, andava anzitutto costruita, e un’operazione del genere difficilmente sarebbe sfuggita all’attenzione della Royal Navy. E poi, dove prendere i materiali? «Né le coste del Mar Rosso né quelle del Golfo Persico forniscono legname o provviste navali» scriveva Kinneir. «E non è neppure possibile andare a prendere i materiali altrove per trasportarli qui via mare, o addirittura far venire un’intera flotta, senza nostra espressa licenza». Gli accessi di entrambe quelle vie d’acqua erano tanto angusti che al bisogno sarebbe stato facile bloccarli.

Dal genere di dettagli che Kinneir era in grado di fornire risultava chiaro che lui e i suoi colleghi, nei loro viaggi di ricognizione in Persia, non avevano sprecato il proprio tempo. Se era vero, osservava, che nella Persia sud-occidentale abbondavano le foreste di querce, gli alberi (li aveva visti di persona) erano troppo piccoli per costruirci delle navi. Inoltre, crescevano a notevole distanza nell’interno, e trasportarli in riva al Golfo sarebbe stato, oltre che dispendioso, anche arduo, visto che occorreva superare «rocce imponenti e paurosi precipizi». Sulle sponde etiopiche del Mar Rosso si trovava del legname, ma in quantità inferiore perfino a quello della Persia. Non per nulla i sambuchi arabi e persiani venivano costruiti in India o con legname importato di là.

Infine, secondo Kinneir, la miglior difesa dell’India contro un’invasione via mare stava nella supremazia marittima della Royal Navy. «Quand’anche un nemico» scriveva «riuscisse, con spesa e disagio enormi, a costruire una flotta con materiali trasportati dall’interno della Siria o dalle sponde del Mediterraneo… non esiste porto che potrebbe proteggere quelle navi dall’attacco dei nostri incrociatori». E anche ammesso che un simile porto fosse esistito, aggiungeva, la flotta d’invasione sarebbe andata incontro a distruzione certa non appena avesse preso il mare.

Kinneir rivolgeva quindi l’attenzione alle varie vie terrestri utilizzabili da un invasore. Erano essenzialmente due: verso est attraverso il Medio Oriente, o verso sud-est attraverso l’Asia centrale. La prima era quella che avrebbe intrapreso probabilmente un aggressore proveniente dall’Europa («un Napoleone» dice Kinneir); la seconda sarebbe stata la scelta più ovvia per la Russia. Per chi si ponesse in marcia verso est vi erano varie alternative. Se partiva, per esempio, da Costantinopoli, poteva avvicinarsi alle frontiere terrestri dell’India percorrendo da cima a fondo Turchia e Persia, oppure tagliar fuori quasi del tutto la Turchia trasportando la sua forza d’invasione attraverso il Mar Nero nella Turchia nord-orientale, o attraverso il Mediterraneo fino alle coste siriane, e da lì entrare in Persia. Questa seconda possibilità, osservava Kinneir, l’avrebbe esposto all’attacco della flotta britannica del Mediterraneo; la prima, invece, l’avrebbe messo al riparo da quel pericolo.

In teoria, anziché aprirsi la strada con le armi, un invasore avrebbe potuto tentare un qualche accomodamento con i paesi che doveva attraversare, anche se era improbabile che gli inglesi lasciassero andare a buon fine un simile tentativo standosene con le mani in mano. Ma, posto che gli riuscisse, avrebbe incontrato – e qui Kinneir parlava per esperienza diretta del territorio – ostacoli formidabili in tutto il percorso fino all’India. Le alte catene montuose, i valichi ripidi o angusti non transitabili dall’artiglieria, gli aridi deserti, le regioni poverissime – incapaci di sostentare i propri abitanti, figurarsi un’armata in transito –, le tribù ostili, i durissimi inverni potevano annientare un esercito, come la storia aveva dimostrato, quasi da un giorno all’altro. Perfino un genio militare come Alessandro Magno era stato ridotto allo stremo nei gelidi passi dell’Hindu Kush, lasciati incustoditi perché ritenuti impenetrabili in inverno. Migliaia dei suoi uomini erano congelati vivi – molti letteralmente incollati alle rocce nelle temperature sottozero – oppure morti assiderati. Si dice che Alessandro abbia perso più uomini in quella traversata che in tutte le sue campagne nell’Asia centrale messe insieme.

L’ultimo grande ostacolo naturale era l’Indo, fiume poderoso lungo più di tremila chilometri, con la sua rete di affluenti. Si era costretti a oltrepassarlo se si voleva conquistare l’India. L’impresa non era impossibile; molti in passato c’erano riusciti. Ma non si erano trovati di fronte forze disciplinate, guidate e addestrate da ufficiali europei esperti nella tattica difensiva più progredita. Forze fresche, ben nutrite e rifornite, mentre gli invasori sarebbero stati stremati da mesi di marcia e di stenti, a corto di cibo e munizioni, e drasticamente ridotti di numero. Se arrivavano all’Indo, i luoghi dove potevano tentare di attraversarlo erano due. Qualora fossero giunti da Kabul varcando il passo Khyber, com’era accaduto più volte in passato, avrebbero scelto probabilmente Attock. Qui l’Indo era «larghissimo, nero, rapido e disseminato di isole, tutte facilmente difendibili», ma nelle vicinanze guadabile in più punti.

Se invece avessero preso la strada più a sud attraverso l’Afghanistan, passando da Kandahar e dall’altra grande porta dell’India, il passo Bolan, avrebbero probabilmente tentato di guadare l’Indo nei pressi di Multan, cinquecento chilometri a valle di Attock. Era il punto dove un tempo un esercito mongolo aveva attraversato l’Indo a nuoto, e Kinneir lo giudicava «la nostra frontiera forse più vulnerabile». A quanto pare, escludeva una via ancora più meridionale, attraverso il Belucistan, che non menzionava nemmeno, forse perché Pottinger e Christie l’avevano dichiarata impraticabile per un’armata di qualche entità. La via costiera, sebbene usata un tempo da Alessandro Magno, era ritenuta troppo vulnerabile per esser presa in seria considerazione.

Tutte le strade, da qualunque parte arrivasse l’aggressore, transitavano per l’Afghanistan. Anche i russi – e ora Kinneir era passato a trattare specificamente di loro – dovevano avvicinarsi all’India attraverso quel paese, sia che avanzassero dalla loro nuova roccaforte caucasica, sia che muovessero dall’avamposto di Orenburg, ai margini della steppa kazaka. Nel primo caso potevano evitare di attraversare la Persia in tutta la sua lunghezza servendosi del Caspio, che ora controllavano, per trasportare le loro truppe a est sulla sponda opposta. Di là potevano marciare fino all’Oxus, risalirlo fino a Balkh, nell’Afghanistan settentrionale, e, attraversato l’Afghanistan, raggiungere l’India per il passo Khyber. Questa, si ricorderà, era la via che Pietro il Grande aveva sperato di usare per stabilire contatti con i sovrani moghul – sogno finito con il massacro della spedizione a Chiva. Kinneir ignorava evidentemente le tremende difficoltà di tale percorso, perché il resoconto dettagliato della spedizione e delle sofferenze che questa aveva dovuto affrontare fu tradotto dal russo solo nel 1873, molto tempo dopo la sua morte. In effetti, dell’area oltre i confini degli imperi turco e persiano Kinneir sapeva poco, e doveva ammettere di aver «fallito negli sforzi di ottenere informazioni affidabili» sul territorio fra le sponde orientali del Caspio e l’Oxus.

Era però consapevole che l’approvvigionamento di una forza d’invasione che tentasse di attraversare l’Asia centrale poneva difficoltà colossali. «Le grandi orde uscite un tempo di Tartaria per invadere i più civilizzati regni meridionali» scriveva «portavano generalmente con sé i mezzi del proprio sostentamento, poiché si muovevano con le greggi al seguito»; inoltre, non avevano l’ingombro del pesante equipaggiamento necessario alle guerre moderne. Erano quindi in grado di compiere marce «impensabili per i soldati europei».

Per i russi l’alternativa consisteva nell’avanzare dalla piazzaforte di Orenburg, costruita nel 1737 come base da cui sottomettere i bellicosi kazaki che imperversavano nelle vaste steppe a sud e a est. Questa scelta comportava una marcia di millecinquecento chilometri a sud fino a Buchara – distante, «si dice, quaranta giorni di viaggio», ma che secondo Kinneir in realtà ne richiedeva parecchi di più –, a cui si aggiungeva un altro lungo tragitto attraverso il deserto e oltre l’Oxus fino a Balkh. La via, riferiva Kinneir (e qui non sbagliava), era infestata da tribù micidiali, tutte ostili ai russi. «Perciò, per essere in grado di invaderci da questa parte, i russi devono prima stroncare il potere dei tartari». Fino ad allora, a suo avviso, l’India non aveva motivo di temere un’invasione dal Nord. Curiosamente, sembra che Kinneir non vedesse la traversata dell’Afghanistan come l’ostacolo forse più insormontabile di tutti. Non solo, infatti, un invasore avrebbe dovuto valicare l’Hindu Kush con le sue truppe già stanche, più l’artiglieria, le munizioni e l’equipaggiamento pesante, ma si sarebbe trovato ad attraversare le terre degli afgani, popolo xenofobo e bellicoso. All’epoca però anche gli uomini bene informati come Kinneir ignoravano quasi tutto dei vasti sistemi montuosi e delle popolazioni che circondavano l’India settentrionale. La stagione dei grandi esploratori himalayani era ancora lontana.

A differenza di Wilson, Kinneir non credeva che lo zar Alessandro progettasse di impadronirsi dell’India: «Penso che i russi non desiderino affatto estendere da questa parte il loro impero, già troppo ingombrante e forse destinato a crollare da un momento all’altro sotto il suo stesso peso». Riteneva che per le ambizioni dello zar Costantinopoli fosse un obiettivo molto più probabile. D’altro canto, se Alessandro voleva effettivamente vibrare un duro colpo agli inglesi in India, con rischi e costi ridotti al minimo, era ipotizzabile un’alternativa. Alla morte dell’anziano scià di Persia i russi avrebbero avuto l’opportunità di ottenere il controllo del trono, «se non di ridurlo interamente in loro potere».

Secondo Kinneir, i figli dello scià miravano tutti e quaranta alla corona. Quali governatori di province o città, quasi la metà di loro aveva truppe e arsenali suoi. Se Pietroburgo (nonostante l’impegno a sostenere l’erede legittimo, Abbas Mirza) avesse appoggiato uno dei pretendenti rivali, Kinneir riteneva che, nell’inevitabile scompiglio che sarebbe seguito, «le truppe russe… dotate di una disciplina e di una perizia superiori, sarebbero state in grado di collocare sul trono la loro creatura». Una volta che avessero avuto in pugno lo scià, ai russi non sarebbe riuscito difficile indurre i persiani, notoriamente amanti del saccheggio, a marciare sull’India. Non era così che Nadir Shah, antenato dello scià attuale, si era impadronito del Trono del Pavone e del diamante Koh-i-Noor? E l’invasione avrebbe anche potuto essere organizzata da ufficiali russi senza che le loro truppe vi prendessero parte, consentendo allo zar di lavarsene le mani.

L’analisi accurata e dettagliata di Kinneir sulle vie d’invasione costituì il primo di molti altri studi analoghi, ufficiali e non, che videro la luce negli anni a seguire. E, se si esclude il graduale riempimento degli spazi vuoti nella mappa delle regioni circostanti, non ci furono sostanziali variazioni, e la maggior parte dei percorsi da lui considerati ricomparve ripetutamente, quasi nella stessa forma, negli studi successivi. Con lo sbiadire del ricordo di Napoleone, però, e il crescere dei timori suscitati dal pericolo russo, il fulcro dell’interesse si spostò gradualmente verso nord, dalla Persia all’Asia centrale, mentre l’Afghanistan, passaggio obbligato per un invasore, assunse un’importanza sempre più determinante agli occhi dei responsabili della difesa dell’India britannica. Ma tutto questo appartiene al futuro. Per il momento, malgrado l’acceso dibattito scatenato dal libro allarmistico di Wilson, i più erano ancora restii a credere che la Russia, ufficialmente alleata, nutrisse malanimo per la Gran Bretagna o coltivasse propositi sull’India.

Nel frattempo comunque l’avanzata russa a sud, in Persia, era stata bloccata dalla diplomazia inglese, con grande soddisfazione di Londra. Tuttavia, proprio mentre Kinneir scriveva, il generale russo Aleksej Ermolov, governatore militare del Caucaso, aveva cominciato a guardare con bramosia a est, di là dal Caspio, al Turkestan, esattamente dove un secolo prima i russi erano stati raggirati e sconfitti a tradimento dai chivani. Quel che accadde a questo punto innescò un processo che, nell’arco di un cinquantennio, avrebbe consegnato allo zar i grandi canati e le città carovaniere dell’Asia centrale.

6
IL PRIMO DEI GIOCATORI RUSSI

Nell’estate del 1819, a Tiflis (Tbilisi), capitale della Georgia, allora sede del comando militare russo del Caucaso, un giovane ufficiale in uniforme andò a pregare in un angolo tranquillo della nuova cattedrale ortodossa. Non senza un buon motivo, perché quel giorno aveva molto da chiedere al Creatore. Il ventiquattrenne capitano Nikolaj Murav’ëv stava infatti per avventurarsi in una missione che i più avrebbero considerato suicida. Travestito da turkmeno, e per la stessa via perigliosa seguita dalla sventurata spedizione del 1717, doveva tentare, per ordine del generale Ermolov, di raggiungere Chiva, più di milletrecento chilometri a est.

Il suo compito, se fosse riuscito a traversare il deserto del Karakum senza essere ucciso o venduto schiavo dagli ostili e selvaggi turkmeni, sarebbe stato consegnare di persona al khan di Chiva, insieme a lauti doni, un messaggio d’amicizia di Ermolov. In tal modo, dopo un secolo privo di contatti di sorta, i russi speravano di aprirsi la strada a un’alleanza con quel canato. L’esca di cui Ermolov intendeva servirsi era il commercio: l’opportunità per il khan di acquistare merci di lusso europee e gli ultimi ritrovati della tecnologia russa. Si trattava di una strategia classica da Grande Gioco, che i russi avrebbero usato più volte: lo scopo finale di Ermolov era, al momento buono, l’annessione.

Entrare nelle grazie del khan era quindi solo una parte dell’incarico di Murav’ëv – una parte già di per sé pericolosa, perché il signore di Chiva era notoriamente un tiranno che terrorizzava, oltre ai suoi sudditi, le tribù turkmene circostanti. Ma al giovane ufficiale era stata affidata un’ulteriore mansione, ancora più rischiosa. Doveva osservare con cura, e annotare segretamente, tutto ciò che era in grado di scoprire sulle difese di Chiva: dall’ubicazione e profondità dei pozzi lungo la via, alla consistenza numerica e capacità militare delle forze armate del khan. Doveva inoltre raccogliere tutte le informazioni economiche possibili sul canato, in modo che si potesse appurare la verità circa la sua leggendaria ricchezza.

I russi avevano anche un altro motivo di interesse per quel remoto regno medioevale. Nel corso degli anni un gran numero di cittadini russi – uomini, donne, bambini – era stato venduto in servitù perpetua nei fiorenti mercati di schiavi di Chiva e Buchara. In origine questa sorte era toccata ai superstiti della spedizione del 1717, ma ora riguardava per lo più soldati e coloni rapiti o fatti prigionieri dalle tribù kirghise intorno a Orenburg, o pescatori con le loro famiglie catturati dai turkmeni sulle rive del Caspio. Delle loro condizioni non si sapeva pressoché nulla, perché la fuga era praticamente impossibile. Spettava dunque a Murav’ëv raccogliere più informazioni possibili sulla loro sorte.

Ermolov aveva scelto il suo uomo con cura. Murav’ëv, figlio di un generale e con quattro fratelli tutti ufficiali in servizio, aveva già dato prova di capacità e intraprendenza eccezionali. Alfiere all’età di soli diciassette anni nella guerra contro Napoleone, aveva meritato cinque menzioni nei dispacci. Ma possedeva anche altre qualifiche che lo rendevano particolarmente adatto alla missione. Oltre a essere un esperto di topografia militare, aveva compiuto parecchi viaggi clandestini, uno dei quali dietro le linee persiane con documenti falsi e travestito da pellegrino musulmano. Sapeva quindi guardare il terreno con l’occhio del soldato, ed era ben conscio dei pericoli cui si esponeva.

Ermolov, a ogni buon conto, lo avvertì che se avesse fallito, e i chivani lo avessero imprigionato, ridotto in schiavitù o giustiziato, il governo russo avrebbe dovuto sconfessarlo. Non ci sarebbe stato modo di soccorrerlo, e lo zar non poteva permettersi di perdere la faccia per colpa di un reuccio centroasiatico. Tuttavia, dal momento che Murav’ëv aveva un’altra qualità, ossia un fascino innegabile, cui si aggiungeva la perfetta padronanza delle lingue locali, Ermolov lo esortò a sfruttare queste doti senza pudore con il khan. «La vostra capacità di farvi benvolere,» gli disse il generale «insieme alla vostra conoscenza della lingua tartara, può costituire un grande vantaggio. Non considerate le arti dell’adulazione da un punto di vista europeo. Gli asiatici le usano abitualmente, perciò non temete di esagerare a questo riguardo».

Alla vigilia della partenza, mentre pregava nella cattedrale, Murav’ëv certamente pensava a quanto esigue fossero le probabilità di tornare vivo dall’avventura e di raccontarla. L’ultima comunicazione del khan, pervenuta anni prima, avvertiva infatti che una sorte spiacevole sarebbe stata riservata a qualsiasi inviato russo si fosse avvicinato a Chiva. Ermolov, dal canto suo, era convinto che, se c’era qualcuno in grado di farcela, questi era proprio Murav’ëv.

Un mese dopo aver lasciato Tiflis, il giovane ufficiale salpò da Baku su una nave da guerra russa, sostando brevemente nella fortezza costiera di Lenkoran prima della traversata per le selvagge e desolate sponde del Caspio. Qui si trattenne per parecchie settimane, entrando in contatto con insediamenti turkmeni sparsi nella zona, mentre godeva ancora della protezione dei marinai e dei cannoni russi. Dapprima la gente si mostrò impaurita e sospettosa, ma, distribuendo doni ai capitribù, Murav’ëv ne guadagnò a poco a poco la fiducia. Infine, dietro pagamento di quaranta ducati d’oro – metà alla partenza, il resto qualora fosse tornato sano e salvo alla nave russa –, ottenne di unirsi a una carovana che partiva di lì a poco per Chiva, attraverso l’insidioso deserto del Karakum. Si decise che era meglio se avesse viaggiato travestito da turkmeno della tribù di Jafir Bey, col nome modificato in Murad Beg, anche se gli uomini della carovana sapevano che era in realtà un russo incaricato di consegnare doni e importanti messaggi al khan di Chiva. Il travestimento serviva a proteggerlo dai predoni e dai cacciatori di schiavi in agguato nel deserto. Murav’ëv, a ogni buon conto, si munì di un paio di pistole e di un pugnale nascosti sotto la veste.

Il 21 settembre la carovana, con diciassette cammelli quattro dei quali appartenenti a Murav’ëv, entrò nel Karakum. Altri mercanti le si unirono lungo la via, e il numero crebbe man mano fino a toccare i quaranta uomini e i duecento cammelli. «Il caldo era intenso ma non intollerabile» scrisse poi l’ufficiale russo. «Il deserto recava in sé… una tetra immagine di morte. Non vi era cosa che desse segno di vita… qua e là solo stenti cespugli lottavano per sopravvivere nella sabbia». Sebbene Murav’ëv fosse assillato dal timore dei cacciatori di schiavi, il viaggio si svolse senza incidenti finché giunsero a cinque giornate soltanto da Chiva. Si erano fermati per lasciar passare una grossa carovana di mille cammelli e duecento uomini quando, con suo orrore, uno di questi puntò il dito su di lui. Gli altri allora gli si affollarono intorno, e chiesero agli uomini della sua carovana chi fosse. Comprendendo che il travestimento era stato scoperto, i suoi compagni di viaggio risposero con molta presenza di spirito: si trattava di un russo che avevano catturato, e che stavano portando a Chiva per venderlo. Gli altri si congratularono, dicendo di avere appena venduto a Chiva tre russi, ricavandone una bella somma.

A una cinquantina di chilometri dalla capitale, Murav’ëv mandò avanti due uomini: uno a Chiva, per avvisare il khan del suo arrivo, l’altro, con un messaggio analogo, al comandante della postazione militare più vicina, perché voleva evitare di essere preceduto da dicerie incongrue o allarmanti, e soprattutto che lo si supponesse l’avanguardia di forze venute a vendicare il proditorio massacro del 1717. Quando dal deserto la carovana entrò nell’oasi intorno alla capitale, Murav’ëv notò la prosperità dei villaggi, registrando con la massima discrezione ogni particolare sul suo taccuino: «I campi, coperti di ricche messi, avevano un aspetto molto diverso dalla sabbiosa desolazione di ieri». Neanche in Europa aveva visto terra così ben coltivata. «Durante il nostro cammino attraversammo bei prati pieni di alberi da frutto, dove gli uccelli cantavano soavemente».

Murav’ëv calcolava di entrare a Chiva l’indomani mattina, ma, percorso qualche altro chilometro, fu intercettato da un affannato cavalleggero che gli ingiunse in nome del khan di non procedere oltre e di aspettare l’arrivo imminente di due dignitari di palazzo. Poco dopo costoro comparvero, accompagnati da una scorta armata. Il più anziano, osservò Murav’ëv, aveva «una faccia scimmiesca… e berciava a tutto spiano… tradendo a ogni parola una natura vile». Veniva chiamato Att Chapar, Cavallo Galoppante, perché la sua mansione ufficiale era di andare per il paese a proclamare gli editti del khan. Il compagno, un uomo alto d’aspetto nobile, con una corta barba, risultò essere un ufficiale superiore dell’esercito chivano. Chapar promise a Murav’ëv che il khan l’avrebbe ricevuto la mattina dopo; nel frattempo doveva aspettare in un piccolo forte a qualche chilometro di distanza.

Le mura del forte, in pietra cementata con argilla, erano alte circa sei metri e lunghe quarantacinque. L’edificio era di forma quadrata, con una torre di guardia a ogni angolo. «C’era un solo ingresso, attraverso una grande porta chiusa da un poderoso lucchetto». A Murav’ëv fu assegnata una stanza squallida e buia, che offriva comunque un gradito riparo dal caldo. Gli vennero portati tè e cibo, e gli fu consentito di girare per il forte, ma sempre accompagnato da una guardia. Non tardò a scoprire, tuttavia, di essere prigioniero. A sua insaputa, qualcuno lo aveva visto prendere furtivamente appunti, e il khan ne era stato informato. La presenza di un inviato russo era già di per sé abbastanza preoccupante; per giunta, era ovvio che si trattava di una spia; se lo si fosse lasciato andar libero, sarebbe tornato alla testa di un esercito. Il suo arrivo aveva causato costernazione a palazzo, e dissensi fra i consiglieri del khan su che cosa si dovesse fare di lui.

Il khan si adirò con i compagni turkmeni di Murav’ëv perché non lo avevano derubato e ucciso nel deserto, risparmiando a lui la briga di farlo e di subirne le sgradevoli conseguenze. Il qazi, suo consigliere spirituale, suggerì di portare il russo nel deserto e di seppellirlo vivo; ma il khan obiettò che, se i russi fossero venuti a saperlo, avrebbero compiuto immediatamente una spedizione punitiva. Tutti concordavano sul fatto che Murav’ëv sapeva già troppo, e doveva essere liquidato in qualche modo; ma come? Se si fosse potuto toglierlo di mezzo senza che i russi individuassero i colpevoli, il khan non avrebbe esitato un secondo. Per una volta i chivani, di solito così abili in queste faccende, non sapevano come regolarsi.

Dopo sette settimane snervanti, mentre Murav’ëv languiva nel forte, si decise infine che il khan incontrasse il russo per cercare di capire qual era di preciso il suo gioco. Quando già disperava di uscire vivo di prigione, e studiava piani ardimentosi per fuggire e raggiungere a cavallo attraverso il deserto la frontiera persiana, Murav’ëv venne informato che il khan l’avrebbe ricevuto a palazzo. L’indomani, sotto scorta, fu portato a Chiva. «La città fa un’ottima impressione» raccontò poi. Fuori delle mura c’erano i palazzi dei ricchi, con i loro sfarzosi giardini. Più avanti, in lontananza, sopra la cinta urbana alta una dozzina di metri, si ergeva la grande moschea, con la cupola rivestita di mattonelle azzurre e sormontata da una massiccia sfera dorata luccicante nel sole.

Il suo ingresso fece sensazione; gli abitanti accorsero in massa a vedere la strana apparizione in divisa da ufficiale russo. Una gran folla lo accompagnò lungo le vie anguste fino all’alloggio elegantemente arredato che era stato predisposto per lui; alcuni cercarono perfino di seguirlo all’interno, e dovettero essere vigorosamente scacciati dalla scorta. Nella calca Murav’ëv riconobbe anche dei russi, le povere vittime dei cacciatori di schiavi. Lo guardavano increduli, scrisse in seguito, si toglievano rispettosamente il berretto «e mi supplicavano bisbigliando di farli liberare». Il ricordo di quelle anime perse lo avrebbe tormentato per tutta la vita, ma per loro non poteva far niente. La sua stessa condizione era quanto mai precaria. Anzi, sembrava molto probabile che presto toccasse anche a lui una sorte analoga. Infatti, benché adesso la sua situazione fosse migliorata, si sorvegliava ancora ogni sua mossa, e alla sua porta vi erano costantemente spie in ascolto.

Murav’ëv fece recapitare a palazzo reale la lettera e i doni del generale Ermolov, e nel giro di quarantott’ore ricevette l’invito a recarsi, di sera, alla presenza del khan. In divisa di gala (era stato avvertito che portare la spada era contrario all’etichetta), il russo si avviò alla reggia preceduto da alcuni uomini armati di grossi bastoni, che brutalmente si aprivano un varco tra la folla. Anche i tetti erano gremiti di spettatori, e di nuovo Murav’ëv udì levarsi nella moltitudine «le voci imploranti» dei suoi compatrioti. Passando davanti alle grandi moschee e madrasa di Chiva, ai bazar e ai bagni coperti, giunse infine all’ingresso principale del palazzo. Attraversò tre cortili, nel primo dei quali una piccola folla di circa sessanta inviati delle regioni circostanti stazionava in attesa di rendere omaggio al khan; poi, scesi alcuni gradini, si trovò in un quarto cortile. Qui, più o meno nel mezzo, si ergeva la iurta reale, ossia la tenda di forma circolare tipica dell’Asia centrale. Sulla soglia, su un magnifico tappeto persiano, sedeva a gambe incrociate il khan in persona.

Mentre esitava incerto sul modo più consono di avvicinarsi al sovrano, Murav’ëv fu improvvisamente afferrato alle spalle da un uomo vestito di una sudicia gabbana di montone. Per una frazione di secondo temette di essere caduto in un tranello. «Mi balenò nella mente» scrive «l’idea di essere stato tradito, e condotto là disarmato non per negoziare bensì per essere giustiziato». Si liberò dalla stretta, pronto a battersi; ma subito gli fu spiegato che quella era un’antica usanza locale, e che tutti gli ambasciatori venivano trascinati davanti al khan a quel modo, in segno di volontaria sottomissione. Murav’ëv avanzò quindi verso la iurta, arrestandosi all’ingresso per salutare il khan secondo la tradizione. Rimase poi in attesa che l’altro gli rivolgesse la parola. «Il khan» riferì in seguito «ha un aspetto davvero notevole. È molto alto… ha una corta barba rossa, voce gradevole, e parla in modo chiaro e spedito e con dignità». Portava un turbante e una veste rossa; quest’ultima appena confezionata, Murav’ëv fu lieto di constatare, con stoffa che faceva parte dei doni da lui recati.

Dopo essersi accarezzato per alcuni minuti la barba, studiando con cura l’ospite, il khan finalmente parlò. «Ambasciatore,» domandò «perché siete venuto, e che cosa desiderate da me?». Era il momento che Murav’ëv aspettava da quando era partito da Tiflis. Rispose: «Il governatore dei possedimenti russi che stanno fra il Mar Nero e il Mar Caspio, sotto il cui governo sono Tiflis, Ganja, Gruzij, il Karabah, Šuša, Nakha, Shekin, Yirvan, Baku, il Kuban, il Daghestan, Astrachan, Lenkoran, Saljany e tutte le fortezze e province sottratte con la forza ai persiani, mi ha mandato a esprimervi il suo profondo rispetto e a consegnarvi una lettera».

Il khan: «L’ho letta».

Murav’ëv: «Mi è stato anche comandato di presentarvi a voce certe proposte, e aspetto soltanto il vostro ordine per comunicarvi il messaggio, adesso o quando meglio vi aggrada».

Il khan: «Parlate».

Murav’ëv spiegò che lo zar di tutte le Russie auspicava lo sviluppo di un florido commercio tra i loro due regni, per il comune vantaggio e benessere. Al momento il commercio era scarso, perché le carovane dovevano marciare per trenta giorni attraverso un deserto infestato dai predoni. Ma si poteva usare una via più breve, situata tra Chiva e il nuovo porto che i russi progettavano di costruire sulla sponda orientale del Caspio, a Krasnovodsk. Là i mercanti del khan avrebbero sempre trovato ad attenderli navi cariche delle merci e dei prodotti di lusso che lui e i suoi sudditi più desideravano. Inoltre, il viaggio da Chiva a Krasnovodsk avrebbe richiesto solo diciassette giorni, poco più di metà del tragitto attuale. Il khan scosse la testa. Era vero che quella via era molto più breve, ma le tribù turkmene che abitavano la regione erano soggette alla sovranità persiana. «Le mie carovane rischierebbero continue razzie» aggiunse, il che escludeva di fatto tale soluzione.

Il russo non aspettava altro. «Sire,» dichiarò «se vorrete allearvi con noi, i vostri nemici saranno i nostri nemici». Perché dunque non consentire che un inviato di Chiva si recasse a Tiflis ospite dello zar, per discutere questa e altre importanti questioni di comune interesse con il generale Ermolov, il quale desiderava tanto l’amicizia del khan? Il suggerimento evidentemente corrispondeva alle intenzioni del khan, perché questi disse a Murav’ëv che due suoi messi fidati lo avrebbero accompagnato al ritorno, aggiungendo: «Desidero anch’io che fra i nostri due paesi si instauri una salda e sincera amicizia». Con ciò diede segno che l’udienza era terminata. Murav’ëv, sollevato dal buon esito dell’incontro e dal fatto che la sua vita non sembrava più in pericolo, si inchinò e prese congedo dalla reale presenza.

Ciò che più gli premeva adesso era lasciare Chiva prima dell’inverno, perché la nave che aveva l’ordine di attendere il suo ritorno non rischiasse di rimanere bloccata dai ghiacci fino a primavera. Mentre i messi del khan si preparavano per il viaggio a Tiflis, gli schiavi russi riuscirono a fargli pervenire di frodo un breve e toccante messaggio circa la loro condizione. Il messaggio, nascosto nella canna di un fucile che Murav’ëv aveva mandato a riparare, diceva: «Ci permettiamo di informare Vostro Onore che in questo paese vivono più di tremila schiavi russi costretti a sopportare inaudite sofferenze per la fame, il freddo e il lavoro eccessivo, e offese di ogni sorta. Abbiate pietà della nostra sorte e rappresentatela a Sua Maestà l’Imperatore. Con gratitudine noi miseri prigionieri preghiamo Dio per il vostro bene».

Murav’ëv, che aveva fatto per conto suo indagini sulla situazione degli schiavi, badando a non destare sospetti, ne fu molto commosso. «Mi resi conto di dover essere grato alla Provvidenza per avermi salvato da quel pericolo» scrisse in seguito. Al momento egli poteva fare ben poco per i compatrioti, salvo raccogliere notizie su di loro e informare Pietroburgo; decise però «di tentare il tutto per tutto, appena tornato in patria, per ottenere la loro liberazione».

Un vecchio russo con cui riuscì a parlare era schiavo da trent’anni. Era stato catturato dai kirghisi una settimana dopo le nozze e venduto sul mercato di Chiva. Per anni e anni aveva lavorato giorno e notte in condizioni terribili, cercando di raggranellare il denaro per ricomprare la libertà. Il padrone però lo aveva frodato dei risparmi e rivenduto. «Vi consideriamo il nostro liberatore» disse a Murav’ëv «e preghiamo Dio per voi. Sopporteremo le nostre sofferenze ancora per due anni in attesa del vostro ritorno. Se non tornerete, parecchi di noi cercheranno di fuggire attraverso la steppa kirghisa. Se piacerà a Dio, moriremo, e così sia. Ma non cadremo vivi nelle mani dei nostri aguzzini». Murav’ëv apprese che sul mercato degli schiavi di Chiva erano i giovani maschi russi ad avere i prezzi più alti, seguiti dai persiani e dai curdi, che valevano meno di tutti. «Viceversa,» riferì «il prezzo di una schiava persiana era molto superiore a quello di una russa». Con quel che costavano, gli schiavi che tentavano di fuggire non venivano giustiziati ma inchiodati per le orecchie a una porta.

Ormai gli uomini del khan erano pronti a partire e, a oltre due mesi dal suo arrivo, Murav’ëv riprese la via del deserto. Tra la folla convenuta per assistere alla partenza notò gruppetti di schiavi russi, che, tristi in volto, lo salutavano con la mano. Un uomo, evidentemente di buona famiglia, corse per un tratto accanto alla sua staffa, supplicandolo di non dimenticare «noi poveretti». Dopo un viaggio freddissimo attraverso il deserto, la carovana raggiunse finalmente il Caspio il 13 dicembre 1819. Si può ben immaginare quale fu il sollievo di Murav’ëv quando vide la corvetta russa che lo aveva trasportato tuttora ancorata al largo. Issò il cappello in cima a una pertica per richiamare l’attenzione, e una scialuppa venne a prenderlo. Il suo ritorno fu accolto con giubilo, benché, come venne subito a sapere, l’equipaggio avesse duramente sofferto nei cinque mesi trascorsi da quando erano salpati da Baku. Su centoventi uomini solo una ventina era ancora in grado di assolvere i propri compiti. Cinque erano morti, trenta avevano lo scorbuto, e gli altri erano talmente debilitati che riuscivano a stento a trascinarsi sul ponte.

Approdarono a Baku alla vigilia di Natale. Qui Murav’ëv apprese che il generale Ermolov si trovava a Derbent, più a nord sulla costa, e partì subito per informare il superiore del suo felice ritorno. Il generale ordinò che gli inviati chivani fossero condotti a Tiflis, dove li avrebbe ricevuti. Frattanto Murav’ëv redasse un rapporto completo sulla sua missione, suggerendo e caldeggiando provvedimenti per liberare dalla schiavitù i sudditi dello zar. Descrisse ogni cosa, la consistenza delle forze armate del khan, i punti deboli delle sue difese, l’entità dei suoi arsenali e le vie d’accesso più agevoli per un esercito in marcia; riferì inoltre circa l’economia, il sistema di governo, i reati e le punizioni, le torture e i metodi di esecuzione (il preferito era l’impalamento). Parlò anche della «mostruosa crudeltà» del khan, che si dilettava a escogitare sempre nuove forme di supplizio e di castigo. A chi era colto a bere alcolici o a fumare, cose vietate da quando il khan aveva deciso di rinunciarvi, veniva tagliata la bocca fino alle orecchie. Il ghigno permanente che ne risultava doveva servire da macabro monito agli altri.

Nel rapporto Murav’ëv propugnava con fervore una sollecita conquista di Chiva, che avrebbe non solo liberato gli schiavi russi dai loro ceppi, ma anche messo fine alla tirannia che la maggior parte dei sudditi del khan era costretta a subire. L’occupazione di Chiva, inoltre, avrebbe permesso alla Russia di infrangere il monopolio britannico sull’inestimabile commercio dell’India. «Tutto il commercio dell’Asia, incluso quello indiano», infatti, avrebbe potuto essere reinstradato via Chiva al Caspio, e di là, risalendo il Volga, alla Russia e ai mercati europei, lungo un percorso assai più breve ed economico di quello per il Capo. Si sarebbe così gravemente indebolito, e infine distrutto, il dominio britannico in India, garantendo al tempo stesso alla Russia, là e in Asia centrale, nuovi preziosi mercati per le sue merci.

Inoltre, la conquista di Chiva non sarebbe stata difficile o costosa. Murav’ëv ipotizzava che un comandante risoluto avrebbe potuto agilmente realizzarla con soli «tremila validi soldati». E una forza d’invasione avrebbe trovato sul posto utili alleati: intanto, le tribù turkmene che vivevano nei deserti da attraversare per raggiungere Chiva. Murav’ëv poteva assicurare per esperienza diretta che i turkmeni temevano il khan non meno dei suoi sudditi, e si sarebbero uniti ben volentieri a chi fosse venuto a rovesciarlo. All’interno della capitale, poi, gli invasori avrebbero goduto dello strenuo sostegno di una poderosa quinta colonna. Oltre ai tremila schiavi russi, molti dei quali un tempo erano stati soldati, c’erano trentamila persiani e curdi tenuti in servitù, uomini che avevano tutto da guadagnare e niente da perdere.

Nonostante i pericoli affrontati dal giovane Murav’ëv per raccogliere informazioni, il suo piano grandioso per l’annessione di Chiva e la liberazione dei russi e degli altri schiavi rimase inascoltato. Il momento buono era trascorso, perché per il grande Ermolov era cominciata la fase di lenta caduta in disgrazia che si sarebbe conclusa con la sua sostituzione nella carica di governatore militare del Caucaso. D’altronde, lo zar Alessandro era alle prese con problemi più urgenti in patria, dove la sua stessa posizione era minacciata dal diffuso malcontento. Murav’ëv, tuttavia, riuscì almeno a mantenere la promessa fatta agli sventurati russi di Chiva. Convocato a Pietroburgo per ricevere dallo zar gli encomi per il suo ardimento, informò personalmente l’imperatore circa la condizione dei suoi sudditi laggiù. Murav’ëv non poté fare nulla per affrettarne la liberazione, ma le sue rivelazioni fornirono ai russi un’ottima scusa per la successiva espansione nell’Asia centrale musulmana. Il suo viaggio era così destinato a segnare l’inizio della fine dei canati indipendenti dell’Asia centrale.

Il solo uomo che previde molto chiaramente questo sviluppo fu un funzionario della Compagnia delle Indie orientali di nome William Moorcroft, che aveva passato parecchi anni viaggiando nell’estremo Nord dell’India ai confini con il Turkestan. Dai remoti accampamenti sull’alto Indo, dove nessun europeo aveva mai messo piede, il funzionario sollecitò i suoi superiori di Calcutta a prendere l’iniziativa nell’Asia centrale per prevenire le mosse dello zar, ammonendoli più volte che i russi si sarebbero impadroniti di tutto il Turkestan e l’Afghanistan, con i loro vasti mercati vergini, e molto probabilmente anche dell’India britannica. Ma mentre Murav’ëv, il primo protagonista russo del Grande Gioco, fu premiato dal suo paese e terminò la carriera come comandante supremo del Caucaso, Moorcroft fu sconfessato dai suoi capi, e finì in una solitaria tomba anonima sulle rive dell’Oxus.

7
LA STRANA STORIA DI DUE CANI

A nord dei passi himalayani, sull’altopiano del Tibet spazzato dalle tempeste, sorge la montagna sacra di Kailas. Avvolta dal mistero, dalla superstizione e da nevi perpetue, i buddhisti e gli induisti credono che questa cima di 6714 metri sia al centro stesso dell’esistenza. Da tempo immemorabile i devoti di entrambe le fedi sfidano la morte per raggiungerne la vetta remota; farne il giro, si dice, lava i peccati di un’intera vita. Per i fedeli il desolato paesaggio intorno al Kailas è ricco di suggestioni religiose, fra cui, dicono alcuni, le impronte dei piedi del Buddha. Ci sono laghi sacri dove bagnarsi, tombe di santi da visitare, grotte in cui meditare e pregare, e monasteri dove il pellegrino esausto può riposare.

I pellegrini vengono fin dalla Mongolia e dal Nepal, dall’India e da Ceylon, dalla Cina e dal Giappone, oltre che dal Tibet stesso. Negli anni, molti sono periti nei passi ghiacciati, vittime del congelamento e della fame, delle valanghe e dei banditi. Il timore della morte non è tuttavia sufficiente a dissuaderli dal recarsi sul Kailas, affrontando un viaggio periglioso attraverso le montagne. Continuano a venirci anche oggi, con i loro cilindri da preghiera e gli amuleti, alcuni portando pesanti sassi sulle spalle nell’arduo circuito intorno al sacro monte, come atto di estrema penitenza. Solo che oggi i laceri pellegrini devono spartire quel terreno consacrato con jeep cariche di turisti occidentali, che lo hanno aggiunto alla lista delle loro mete esotiche.

Fino a tempi relativamente recenti la regione del Kailas era uno dei luoghi meno accessibili del globo. Solo un pugno di europei vi aveva messo piede: per primi due gesuiti che l’attraversarono nel 1715 diretti a Lhasa e descrissero il monte «orrido, brullo, scosceso e freddissimo». Passò un secolo prima che vi si posassero gli occhi di un altro europeo, questa volta un veterinario inglese che viaggiava nell’estremo Nord dell’India e oltre in cerca di cavalli per le scuderie della Compagnia delle Indie, associando questo intento con qualche esplorazione personale. Si chiamava William Moorcroft ed era arrivato in India nel 1808 su invito della Compagnia come sovrintendente delle scuderie. Presto si convinse che al Nord, nelle regioni selvagge dell’Asia centrale o del Tibet, vi fosse una razza di cavalli molto veloci e resistenti che potevano essere utilizzati per rinsanguare il parco equino della Compagnia. Nel corso del secondo di tre lunghi viaggi alla ricerca di questi cavalli – una spedizione in Tibet, nella zona del Kailas – accadde qualcosa che diede origine a un pensiero che lo ossessionò per il resto dei suoi giorni.

Capitò nella casa di un dignitario tibetano. Qui l’inglese trovò, con suo stupore, due strani cani dei quali riconobbe subito l’origine europea: un terrier e un carlino, razze entrambe sconosciute nell’Asia centrale. Come mai si trovavano là? Moorcroft non tardò a indovinarne la ragione. Riconoscendo evidentemente in lui un europeo, i due cani gli saltarono attorno, leccandolo e abbaiando eccitati; poi, dopo essersi seduti sulle zampe posteriori e aver levato quelle anteriori, si esibirono in una passabile imitazione di alcuni esercizi militari. Per Moorcroft questo poteva significare una cosa sola: i cani erano appartenuti a dei soldati. I locali gli dissero di averli avuti da certi mercanti russi, ma Moorcroft era di tutt’altro avviso. Comunque, mercanti o soldati che fossero, ciò poteva significare soltanto una cosa: che dei russi erano già stati in quei luoghi. Da allora fino alla morte, avvenuta nel 1825, Moorcroft tempestò i superiori di Calcutta di moniti appassionati circa le mire russe nell’Asia centrale.

Era sua convinzione che Pietroburgo volesse impadronirsi dei grandi mercati vergini centroasiatici. La Compagnia delle Indie, scriveva, doveva decidere se gli abitanti di Turkestan e Tibet «saranno vestiti con tessuti russi o inglesi», e se avrebbero acquistato i loro «attrezzi di ferro e di acciaio da Pietroburgo o da Birmingham». Cosa più grave, i russi a suo avviso miravano alla conquista: prima dei canati centroasiatici, poi dell’India stessa. In una lettera ai superiori spiegò che un pugno di ufficiali inglesi al comando di irregolari indigeni sarebbe stato in grado di fermare un intero esercito russo in transito sui passi, scaricandogli addosso macigni dalle alture.

Ma i tempi non erano maturi. In Gran Bretagna e in India i russofobi erano ancora una esigua minoranza, che trovava scarso o nessun sostegno nel governo e nella Compagnia. Ed è improbabile che Moorcroft e Sir Robert Wilson, padre della russofobia, pur condividendo idee affini, sapessero l’uno dell’altro, e tantomeno fossero in contatto. I direttori della Compagnia non si persuasero affatto che Pietroburgo, ufficialmente ancora alleata della Gran Bretagna, nutrisse cattivi propositi verso l’India. Compito prioritario, per loro, era consolidare e difendere i territori acquisiti, cosa già di per sé abbastanza dispendiosa, non conquistarne di nuovi nella regione himalayana e più in là, come Moorcroft li sollecitava a fare. I suoi moniti furono perciò liquidati dai superiori come frutto di zelo eccessivo anziché di buonsenso. Ignorati, non letti, finirono negli archivi, e rividero la luce solo dopo la sua morte.

Moorcroft sognava da tempo di recarsi nella grande città carovaniera di Buchara, capitale del più ricco canato dell’Asia centrale. Non aveva ancora trovato il genere di cavalli che gli occorreva per la Compagnia, ed era sicuro di trovarlo là: i leggendari cavalli turkmeni, della cui velocità, resistenza e maneggevolezza aveva sentito un gran bene nei bazar dell’India settentrionale. Nella primavera del 1819 la sua pervicacia fu premiata, e la spedizione di tremila chilometri, che sarebbe stata la sua terza e ultima, ottenne approvazione e finanziamento. Tuttavia anche a Moorcroft, come già al russo Murav’ëv nella missione a Chiva, le autorità non concessero di viaggiare in veste ufficiale, così da poterlo disconoscere se si fosse messo nei guai, o se la visita a una città tanto lontana dalle frontiere dell’India avesse provocato proteste da Pietroburgo.

Acquistare cavalli era solo uno degli obiettivi di Moorcroft. Suo proposito era anche di aprire ai prodotti britannici i mercati settentrionali, bruciando sul tempo i russi che, a suo avviso, avevano mire analoghe. Il 16 marzo 1819 lui e il suo drappello uscirono dal territorio della Compagnia, seguiti da una grossa e lenta carovana carica delle migliori merci inglesi d’esportazione, dalle porcellane alle pistole, dalla coltelleria ai cotoni, scelte deliberatamente per eclissare quelle russe, di qualità assai inferiore. A parte i molti cavallari e servitori, compagni di Moorcroft nel lungo viaggio di là dall’Oxus erano un giovane inglese di nome George Trebeck e un anglo-indiano, George Guthrie. Entrambi si dimostrarono non solo capaci e affidabili, ma amici fidati quando le cose si fecero difficili. Nessuno di loro poteva prevedere che a causa dei lunghi e frequenti indugi quel viaggio verso l’ignoto sarebbe durato ben sei anni, per concludersi infine tragicamente.

Grazie ai suoi precedenti viaggi nel Nord, Moorcroft sapeva che la via più veloce per Buchara passava per l’Afghanistan. Sfortunatamente, là infuriava un’accanita guerra civile, che nonostante la piccola scorta gurkha avrebbe esposto la spedizione a gravi pericoli, specie quando fosse corsa voce che i suoi cammelli erano carichi di merci di valore destinate ai mercati del Turkestan. Moorcroft decise perciò di evitare l’Afghanistan e di raggiungere Buchara da est, da Kashgar nel Turkestan cinese, dove si arrivava più facilmente, attraversando i passi del Karakorum da Leh, capitale del Ladakh. Percorrendo questa via Moorcroft sperava inoltre di aprire alle merci britanniche i mercati del Turkestan cinese. Nel settembre 1820, dopo innumerevoli indugi nel Punjab e più di un anno di viaggio, Moorcroft e i suoi compagni arrivarono finalmente a Leh, dove nessun inglese aveva mai messo piede, e cercarono subito il modo di stabilire contatti con le autorità cinesi di Yarkand, dall’altra parte del Karakorum, per ottenere il permesso di entrare nei loro domini. Ma Moorcroft scoprì ben presto che la cosa non era facile.

Intanto, Yarkand si trovava a quasi cinquecento chilometri a nord, al di là di alcuni dei passi più ardui del mondo, specialmente in inverno, e potevano volerci mesi per avere una risposta da quei funzionari, i quali, per bene che andasse, erano abituati a prendersela comoda. Vi erano però altri fattori, di cui Moorcroft si rese conto solo dopo qualche tempo, che cospiravano contro il suo intento di entrare nel Turkestan cinese (l’odierno Xinjiang). I potenti mercanti locali avevano da generazioni il monopolio del commercio carovaniero tra Leh e Yarkand, e non intendevano affatto cederlo agli inglesi. Così continuarono a sabotare gli sforzi di Moorcroft anche quando questi offrì di nominare il più eminente tra loro agente della Compagnia delle Indie. E mandarono a dire ai cinesi, come Moorcroft seppe solo in seguito, che gli inglesi, se si consentiva loro di varcare i passi, progettavano di portare con sé un esercito.

Moorcroft era da non molto a Leh quando scoprì ciò che più temeva: di avere un rivale russo. Sotto le spoglie di un mercante indigeno operante attraverso i passi tra Leh e le città carovaniere del Turkestan cinese, si nascondeva in realtà un apprezzatissimo agente zarista di origine persiano-ebraica, che svolgeva delicate missioni politiche e commerciali per conto dei suoi superiori a Pietroburgo. Si chiamava Aga Mehdi, aveva cominciato la sua singolare carriera come merciaio ambulante, e poco dopo si era dedicato alla vendita di scialli del Kashmir, celebrati in tutta l’Asia perché particolarmente belli e caldi. Poi, dando prova di una singolare intraprendenza, aveva attraversato l’Asia centrale ed era arrivato infine a Pietroburgo, dove i suoi scialli avevano attirato l’attenzione dello stesso zar Alessandro, che lo aveva voluto conoscere.

Lo zar era rimasto molto colpito dalla personalità del mercante, e lo aveva rispedito in Asia centrale con l’incarico di stabilire contatti commerciali con il Ladakh e il Kashmir. Aga Mehdi era riuscito brillantemente nell’impresa, e le merci russe avevano iniziato a fare la loro comparsa in quei bazar. Quando poi Aga Mehdi era tornato a Pietroburgo lo zar, compiaciuto, lo aveva ricompensato con una medaglia e una catena d’oro, nonché con un nome russo, Mechti Rafajlov. Gli era stata quindi affidata una missione più ambiziosa, questa volta con obiettivi politici oltre che commerciali. Doveva spingersi parecchio più a sud di quanto avesse fatto finora, giungendo al regno sikh del Punjab, e stabilire contatti amichevoli con il sovrano locale, Ranjit Singh, vecchio ma molto scaltro e notoriamente in ottimi rapporti con gli inglesi. Il mercante portava con sé una lettera di presentazione dello zar, firmata dal suo ministro degli Esteri, il conte Nessel’rode. La lettera, dall’apparenza alquanto innocua, dichiarava che la Russia era desiderosa di intrattenere rapporti commerciali con Ranjit Singh, e che i suoi mercanti sarebbero stati a loro volta i benvenuti.

Moorcroft non tardò a scoprire tutto quanto, e tramite i propri agenti riuscì a procurarsi una copia della lettera dello zar, che sembrava confermare i suoi peggiori sospetti circa le intenzioni russe. Seppe inoltre che il suo intraprendente rivale, di passaggio per Lahore, la capitale di Ranjit Singh, era atteso entro breve a Leh. «Ero ansioso di incontrarlo» nota nel suo diario «per poter meglio appurare gli effettivi disegni suoi e della ambiziosa potenza per cui agiva». Moorcroft apprese altresì che Rafajlov – per chiamarlo col suo nuovo nome – portava con sé, oltre a una somma considerevole di denaro, anche rubini e smeraldi, fra cui alcuni esemplari di enorme valore, quasi certamente doni dello zar destinati a Ranjit Singh e ad alti dignitari, perché troppo preziosi per essere venduti o barattati sul posto.

Da viaggiatori che tornavano dal Nord attraverso i passi l’inglese ebbe anche notizia di certe attività svolte da Rafajlov in quell’angolo rigorosamente musulmano dell’impero cinese. E c’era poco da stare tranquilli. Stando a tali informazioni, infatti, a Kashgar Rafajlov aveva segretamente promesso ai capi locali l’appoggio dello zar per abbattere il giogo manciù: se avessero inviato a Pietroburgo l’erede legittimo al trono di Kashgar, questi sarebbe stato rimandato indietro alla testa di un esercito addestrato dai russi per recuperare i domini dei suoi avi. Fosse vero o no, Moorcroft ebbe modo di constatare che la popolazione indigena sembrava ben felice di credere all’amicizia dello zar. Rafajlov era chiaramente un avversario formidabile. La conoscenza dei popoli e delle lingue della regione, insieme alla sua intelligenza e astuzia, lo rendevano quanto mai adatto al compito che Moorcroft riteneva gli fosse stato affidato: «Estendere l’influenza della Russia sino ai confini dell’India britannica», e raccogliere informazioni politiche e geografiche dai territori intermedi.

Moorcroft riferì ogni cosa nei dispacci ai suoi superiori di Calcutta, lontani millecinquecento chilometri, insieme alla notizia che Rafajlov, nel tratto più infido del suo viaggio, le selvagge steppe kazake, era stato scortato da un drappello di cavalleria cosacca. Ora Moorcroft era più che mai persuaso che dietro il tentativo di Pietroburgo di accaparrarsi i mercati dell’estremo Nord dell’India vi fosse «un mostruoso piano di espansione». Là dove fossero riuscite a spingersi le carovane di merci russe, sarebbero sicuramente seguiti i cosacchi. Rafajlov era solo un battistrada, mandato in avanscoperta a preparare il terreno. Convinti che il destino dell’India settentrionale fosse nelle loro mani, e che lo scaltro rivale andasse in qualche modo sconfitto, Moorcroft e compagni aspettarono con una certa emozione il suo arrivo, previsto di lì a una quindicina di giorni.

Ma l’uomo dello zar non arrivò mai. Come fosse morto non si sa di preciso. Perì da qualche parte sui passi del Karakorum, e i suoi resti andarono ad aggiungersi alle migliaia di scheletri, umani e animali, disseminati lungo quella che più tardi un viaggiatore chiamò «via dolorosa». Moorcroft non ci dice molto, se non che la morte del rivale fu dovuta a «un malore improvviso e violento». Si può solo congetturare che Rafajlov sia morto per un attacco cardiaco o di mal di montagna, perché in certi tratti la pista obbligava il viaggiatore a salire a quasi seimila metri di quota. Forse nemmeno Moorcroft, medico esperto oltre che veterinario, conosceva la causa precisa della morte del rivale, o forse la risposta è sepolta fra le diecimila pagine manoscritte dei suoi rapporti e della sua corrispondenza. L’ipotesi che lo stesso Moorcroft vi fosse in qualche modo implicato può essere quasi certamente scartata. Era un uomo non solo estremamente onesto ma anche generosissimo. Secondo il suo biografo Garry Alder, a quanto sembra la sola persona che ne abbia esaminato a fondo le carte, egli si adoperò perché si provvedesse in forma adeguata al mantenimento e all’educazione del figlioletto di Rafajlov, rimasto orfano; altro non si sa. Finché gli archivi segreti russi dell’epoca non saranno aperti agli studiosi occidentali, la verità piena su Rafajlov non verrà mai alla luce con certezza. Moorcroft, comunque, era convinto che questi fosse un fidatissimo agente dell’imperialismo russo – così come in seguito gli studiosi sovietici bollarono lo stesso Moorcroft quale super-spia britannica mandata ad aprire la strada all’annessione dell’Asia centrale. Se Rafajlov fosse vissuto ancora qualche anno, asseriva Moorcroft in una lettera a un amico di Londra, «avrebbe potuto far accadere in Asia eventi tali da lasciare attonito qualche governante europeo».

L’inattesa scomparsa di scena di Rafajlov non attenuò i timori quasi paranoici di Moorcroft circa le mire russe sugli Stati indiani settentrionali. Senza prima consultare Calcutta, e senza avere l’autorità per compiere un simile atto, Moorcroft concluse con il sovrano del Ladakh un trattato a nome dei «mercanti inglesi». Si trattava a suo avviso di un colpo magistrale, che avrebbe aperto i mercati dell’Asia centrale alle industrie della madrepatria, ancora sofferenti per i guasti economici provocati dalle guerre napoleoniche. I suoi superiori, però, non condivisero tanto entusiasmo, e sconfessarono il trattato appena ne ebbero notizia. Non solo erano scettici riguardo ai disegni dei russi sull’Asia centrale, e tanto più sull’India, ma volevano evitare qualsiasi atto che potesse offendere Ranjit Singh, sovrano del Punjab, considerato un vicino prezioso. Inimicarsi lui e il suo poderoso e ben addestrato esercito di sikh era l’ultima cosa che i funzionari della Compagnia desideravano. E a Calcutta non era un segreto che Ranjit Singh, dopo aver annesso il Kashmir, riteneva il Ladakh incluso nella sua sfera di influenza.

Tuttavia, era troppo tardi per impedire che Ranjit Singh venisse a conoscenza del trattato. Moorcroft gli aveva già scritto ammonendolo che il Ladakh era uno Stato indipendente nei cui affari non doveva immischiarsi, e aggiungendo che era desiderio del sovrano locale di trasformare il proprio dominio in un protettorato britannico. A Ranjit furono inviate d’urgenza le più umili scuse per la balorda iniziativa, insieme al totale ripudio del trattato; ma non in tempo, pare, per salvare Moorcroft dall’ira del sikh (e da quella dei suoi superiori, che con lui fecero i conti più tardi). Di lì a poco, infatti, ebbe inizio una serie di misteriosi attentati alla sua vita e a quella dei suoi due colleghi.

Il primo fu compiuto da un sicario non identificato che una notte sparò alla loro finestra, mancando per un pelo George Trebeck mentre era intento a scrivere; è probabile lo avesse scambiato per Moorcroft, solito trascorrere lunghe ore allo scrittoio per redigere i rapporti e compilare il diario. Seguirono altri due tentativi per mano di intrusi notturni, uno dei quali freddato dallo stesso Moorcroft. Gli assassini, frustrati, adottarono allora un altro sistema. Moorcroft e i suoi compagni cominciarono ad avvertire dolori inspiegabili, che attribuirono a una qualche febbre. Ma se si erano attirati l’odio di Ranjit Singh (per tacere dei mercanti locali di cui minacciavano il monopolio), i tre avevano ancora degli amici a Ladakh, e alcuni di loro intuirono come stavano le cose. Una sera, mentre si arrovellava il cervello sulla causa della malattia, Moorcroft ricevette la visita di due sconosciuti, a volto coperto per celare la propria identità. A gesti costoro gli spiegarono che lui e i suoi compagni venivano avvelenati. Gettato via un certo tè sospetto, crampi e dolori cessarono di colpo. E così, strano a dirsi, i tentativi di omicidio.

Sfuggito alla vendetta dei nemici asiatici, Moorcroft dovette ora affrontare il biasimo dei superiori. Fino a quel momento costoro avevano dimostrato una incredibile longanimità verso il loro sovrintendente alle scuderie e la sua interminabile e costosa ricerca di nuova linfa per le medesime. Dopo due spedizioni infruttuose, gli avevano perfino consentito di intraprenderne una terza, che era poi quella attuale per Buchara. Di cavalli avevano senza dubbio bisogno, e Moorcroft nel corso dei suoi viaggi aveva comunicato una quantità di preziose informazioni topografiche e politiche. La sua crescente russofobia non li turbava più di tanto; si limitavano a non dargli retta. Ma interferire nei delicatissimi rapporti fra la Compagnia delle Indie e i sovrani vicini era tutt’altra cosa.

La prima mossa fu di fargli recapitare una lettera per informarlo che era stato sospeso dal suo incarico – il suo stipendio tagliato –, e poi, subito dopo, di inviargli una seconda missiva con l’ordine di rientro. A quanto risulta, Moorcroft ebbe notizia della sospensione, ma non del richiamo a Calcutta. Si sentì comunque umiliato. «Sono stato io ad assicurare al mio paese» protestò «una certa influenza su uno Stato che, grazie alla sua posizione strategica sulla frontiera britannica, rappresenta una base importantissima per l’espansione del commercio inglese verso il Turkestan e la Cina, oltre che un forte baluardo esterno contro un nemico proveniente dal Nord». Di certo, la mortificazione di vedersi sconfessato dai suoi fu dura da digerire. Per giunta, senza essere riuscito a suscitare l’interesse dei direttori per i grandi mercati vergini dell’Asia centrale, né tantomeno a convincere chicchessia, a Calcutta o a Londra, della minaccia per gli interessi britannici in Asia costituita a suo avviso dalla Russia.

Un uomo meno determinato di Moorcroft avrebbe abbandonato la partita, deluso. Dopotutto, poteva sempre tornare a Londra e riprendere felicemente la sua carriera di veterinario. Ma restava da risolvere la questione dei cavalli che era venuto a cercare così lontano. Se l’accesso a Buchara attraverso il Turkestan cinese era bloccato, lui e i suoi compagni avrebbero dovuto prendere la via più pericolosa, passando per l’Afghanistan. I tre rimasero molti mesi nel Ladakh tentando di negoziare con i cinesi dall’altra parte delle montagne, senza rendersi conto che la trattativa era destinata a fallire praticamente dall’inizio. L’abile Rafajlov, infatti, prima di partire per il viaggio attraverso il Karakorum, che gli sarebbe costato la vita, era riuscito a instillare nella mente delle autorità cinesi odio e sospetto nei loro confronti.

Moorcroft e i suoi compagni, cercando di recuperare il tempo perduto, decisero di andarsene subito da Leh, prima che arrivasse la lettera di richiamo. Nella tarda primavera del 1824, dopo aver attraversato Kashmir e Punjab (tenendosi bene a nord della capitale di Ranjit Singh, Lahore), varcarono l’Indo e intrapresero la traversata del passo Khyber. Al di là vi era l’Afghanistan, e oltre questo Buchara.

8
MORTE SULL’OXUS

Attraversare il cuore dell’Afghanistan con una carovana male armata carica di merci preziose e presumibilmente d’oro era nella migliore delle ipotesi un’impresa rischiosa. Ma tentarla quando il paese era in preda all’anarchia e sull’orlo della guerra civile richiedeva un coraggio, o forse una temerarietà, di prim’ordine. Eppure era proprio ciò che Moorcroft e i suoi compagni si accingevano a fare. Le probabilità di uscirne vivi, di raggiungere le rive dell’Oxus sani e salvi, loro e la mercanzia, erano minime. E le dicerie che li precedevano non erano certo rassicuranti.

Secondo una di queste, loro erano in realtà l’avanguardia segreta di una forza d’invasione britannica, venuta a tastare il terreno in vista dell’annessione. Forse gli afgani sapevano leggere nel pensiero, perché Moorcroft non tardò a scrivere a Calcutta proponendo esattamente la stessa cosa. Se gli inglesi non avessero messo per primi le mani sull’Afghanistan, ammonì, l’avrebbero fatto quasi certamente i russi. E quale momento migliore del presente, quando due fazioni rivali si contendevano il trono afgano? Un solo reggimento inglese sarebbe bastato per assegnare la corona a un candidato opportunamente docile. Il suo suggerimento, al solito, non trovò ascolto. Voci ben più influenti, tuttavia, si levarono di lì a poco a sostenere la medesima idea, rivendicandone la paternità. L’Afghanistan era destinato infatti a occupare un posto di rilievo nella storia imperiale britannica. Moorcroft era solo in anticipo sui tempi.

Secondo un’altra diceria imbarazzante, lui e i suoi sarebbero stati pronti a pagare profumatamente le tribù disposte a lasciarli passare senza molestie per il loro territorio. Così avanzavano col timore continuo di attacchi e tradimenti, ma si fecero anche degli amici grazie alla sapienza veterinaria di Moorcroft, molto apprezzata in una terra che per il proprio sostentamento dipendeva quasi per intero dagli animali domestici. La rovente estate afgana fu una dura prova per tutti, cani compresi, tanto che ne morirono due d’insolazione. L’aria pareva «uscire dalla fucina di un fabbro». Come sempre, durante il viaggio Moorcroft prese appunti copiosi sulla gente e la topografia, gli animali, l’agricoltura e le antichità. Nella valle di Bamiyan lui e i compagni furono i primi europei a contemplare ammirati e sgomenti le due colossali immagini del Buddha intagliate nella roccia, calcolando per la più grande un’altezza di quarantacinque metri, solo otto in meno del valore reale. Scrissero col carbone i propri nomi in una grotta, e un secolo e mezzo più tardi quello di Moorcroft si leggeva ancora.

Finalmente, quasi otto mesi dopo aver imboccato il passo Khyber, e dopo aver superato una serie estenuante di ostacoli, raggiunsero le rive dell’Oxus. Nessun inglese vi aveva mai messo piede. Considerando le difficoltà e i pericoli affrontati, era un’impresa che denotava un coraggio e una determinazione incredibili. Ancora oggi sono pochi gli europei che hanno visto l’Oxus, tanto remoto è il suo corso, e quei pochi per lo più dall’alto, volando da Taškent, nell’Asia centrale sovietica, a Kabul. L’importanza strategica di quel grande fiume non sfuggì a Moorcroft, che senza dubbio si figurò i cosacchi intenti a guadarlo con i loro cavalli. «La corrente» notò «era meno rapida di quel che mi aspettavo, non superiore alle due miglia all’ora. Le rive erano basse, poco compatte, come quelle del Gange, e l’acqua parimenti intorbidata dalla sabbia».

A Khwaja Salah, principale punto di attraversamento, il fiume appariva non più largo del Tamigi a Charing Cross, ma altrove era molto più ampio; appresero inoltre che in primavera, quando cominciavano a sciogliersi le nevi del Pamir, dove l’Oxus aveva le sue sorgenti, la larghezza raggiungeva e superava il chilometro e mezzo. Da Khwaja Salah tre chiatte facevano servizio di traghetto, ognuna capace di trasportare venti cammelli o cavalli.

Ormai era inverno e la neve accresceva il disagio, riducendo il deserto a un pantano dove spesso si affondava fino al ginocchio, e rallentando enormemente la marcia della carovana. Cinque giorni dopo aver varcato l’Oxus arrivarono a Kashi, la seconda città del regno di Buchara, governata dal sedicenne principe Tora Bahadar, figlio secondogenito dell’emiro. Per raggiungere il suo palazzo al fine di rendergli omaggio, dovettero combattere con fiumi di fango sotto i quali si celavano invisibili caverne, in grado di inghiottire un uomo in qualsiasi momento. La breve udienza con il giovane governatore fu cordiale, e Moorcroft ne trasse «buon auspicio per l’accoglienza che riceveremo a Buchara». Non sapeva che i modi garbati e il «perenne sorriso» del ragazzo nascondevano un’ambizione spietata e un’indole malvagia. Alla morte del padre si sarebbe impossessato del trono uccidendo il fratello maggiore, e più tardi avrebbe gettato in una fossa infestata dai topi due ufficiali inglesi per poi farli decapitare sulla piazza davanti al suo palazzo.

Il 25 febbraio 1825, Moorcroft e i compagni scorsero in lontananza l’inconfondibile profilo dei minareti e delle cupole di Buchara, la più santa fra le città dell’Asia centrale musulmana. Tanto santa, si diceva, che mentre altrove la luce del giorno scendeva dall’alto sulla terra, a Buchara si irradiava dal basso a illuminare i cieli. Per Moorcroft e la sua esausta compagnia fu di certo una visione entusiasmante, tale da giustificare tutto ciò che avevano sofferto da quando erano partiti da Calcutta. «Ci trovavamo» scrisse quella sera nel suo diario «alle porte della città che per cinque anni era stata la meta dei nostri vagabondaggi, privazioni e pericoli». La loro euforia, ahimè, durò poco. L’indomani mattina il loro ingresso a Buchara fu salutato da frotte di bambini eccitati che gridavano: «Urus… urus », russi… russi. Moorcroft capì in quel momento che dovevano avere già visto degli europei, e che i suoi avversari del Nord lo avevano battuto al traguardo.

Era accaduto, apprese, più di quattro anni prima. Ma nelle vaste terre asiatiche le notizie viaggiavano così a rilento che né lui nell’estremo Nord dell’India, né i suoi superiori a Calcutta avevano saputo nulla. I russi dal canto loro erano ben lieti di questa situazione, perché consideravano l’Asia centrale musulmana parte integrante della loro sfera d’influenza. La missione, ufficialmente diplomatica e commerciale, era partita da Orenburg nell’ottobre del 1820 con una lettera adulatoria dello zar per l’emiro, e questi, tramite intermediari indigeni, aveva fatto sapere che acconsentiva a riceverla. Per meglio spianarsi la strada i russi avevano portato anche doni munifici, fra cui cannoni e pellicce, orologi e porcellane europee, con la speranza di suscitare nei ricchi del posto il desiderio di altre merci del genere.

Le fabbriche russe – ne esistevano ormai circa cinquemila, con duecentomila operai – cominciavano ad avere un bisogno disperato di nuovi mercati. Quello interno, infatti, era troppo esiguo e povero per assorbire il volume sempre maggiore della produzione, mentre i rivali inglesi, che usavano macchinari più sofisticati, erano in grado di battere i russi sui prezzi sia in Europa sia in America. Ma nell’Asia centrale, alle porte di casa, si spalancava un immenso mercato potenziale dove i russi finora non avevano concorrenti. Bisognava tener fuori gli inglesi, a ogni costo; i bazar dell’antica Via della Seta dovevano riempirsi solo di prodotti russi. Per Pietroburgo, specie in quei primi anni, posta del Grande Gioco era la penetrazione commerciale non meno dell’espansione politica e militare, anche se la bandiera – l’aquila imperiale a due teste – seguiva immancabilmente le carovane di merci. Era un processo inesorabile che finora, da parte britannica, soltanto Moorcroft aveva previsto. E qui, nella remota Buchara, lui stesso poté per la prima volta toccarlo con mano, perché i bazar erano già pieni di manufatti russi.

La missione russa del 1820 non era stata, come certo Moorcroft intuì, una ricognizione puramente commerciale. Aveva avuto l’ordine di riportare mappe dettagliate delle difese di Buchara, nonché ogni possibile informazione di carattere militare, politico e strategico. Uno dei suoi membri, un medico di origine tedesca di nome Eversmann, si era assunto il compito quasi suicida di entrare travestito nella capitale e mescolarsi ai sudditi dell’emiro per raccogliere quante più notizie poteva, poiché si presumeva che la missione e la sua scorta sarebbero state tenute fuori dalle mura della città. Sebbene l’emiro avesse acconsentito a riceverli, i russi, memori del perfido massacro della missione chivana, non volevano correre rischi. Per questo, oltre alla scorta di cavalieri e fanti, portarono con sé due poderosi pezzi di artiglieria, che al bisogno avrebbero liquidato alla svelta le mura di argilla, i palazzi e le moschee di Buchara.

La marcia di millecinquecento chilometri attraverso steppe e deserti fu spossante per gli uomini e per gli animali, e i russi persero molti dei loro cavalli assai prima di arrivare nel territorio dell’emiro. Oltrepassarono indenni le terre dei kazaki, ma a un certo punto, nel deserto, si imbatterono in un centinaio di cadaveri, con ogni evidenza i resti di una carovana di Buchara assalita dai predoni. Era un truce preavviso dei rischi cui sarebbero andate incontro le loro carovane mercantili se i rapaci kazaki non fossero stati ridotti all’obbedienza. Dopo più di due mesi di viaggio raggiunsero il primo avamposto buharese, e il giorno seguente venne loro incontro una carovana, inviata dall’emiro, che portava frutta fresca, pane e foraggio per i cavalli – una cortesia su cui certo un eventuale esercito invasore non avrebbe potuto contare. Quattro giorni dopo la missione piantò le tende all’esterno della capitale, e attese di esser convocata dell’emiro.

Qui entrò in azione Eversmann. Approfittando della curiosità suscitata dall’arrivo degli urus, riuscì a intrufolarsi in città fingendosi un mercante, e trovò alloggio in un caravanserraglio. Mentre i membri della missione e la scorta venivano alloggiati in un villaggio fuori le mura, questo personaggio enigmatico, del quale in effetti si sa assai poco, si mise all’opera per raccogliere informazioni che spaziavano dalle questioni militari alle tendenze sessuali degli abitanti di Buchara. Di queste ultime ebbe a scrivere: «Se non mi trattenesse il pudore, potrei riferire fatti incredibili». A quanto pare, a Buchara avvenivano cose che «perfino a Costantinopoli» erano tabù. La gente non aveva nozione di «sentimenti delicati», e pensava solo alla soddisfazione degli appetiti sessuali, nonostante i tremendi castighi inflitti a chiunque venisse colto a indulgere a queste innominabili «enormità». L’emiro stesso non faceva eccezione: in aggiunta ai servigi del suo harem, godeva pure di quelli di «una cinquantina di esseri depravati». In quella città, insomma, si praticavano «tutti gli orrori e gli abomini di Sodoma e Gomorra».

Il travestimento di Eversmann, benché non se ne conoscano i dettagli, doveva essere molto convincente, perché la polizia segreta dell’emiro, che aveva informatori dappertutto, non nutrì in apparenza alcun sospetto nei tre mesi del suo soggiorno a Buchara. Ma Eversmann era ben conscio di quanto fosse pericoloso il suo gioco. Bastava fare una domanda o passeggiare, scrisse, per destare sospetti, e attirare quindi un’attenzione inopportuna. Tutte le notizie raccolte nella giornata dovevano essere annotate «clandestinamente di notte». Alla fine, tuttavia, la fortuna del dottore venne meno. Fu riconosciuto da un indigeno che ricordava di averlo visto a Orenburg, e che lo denunciò alla polizia segreta. Eversmann aveva progettato di consegnare i suoi appunti a un membro della missione, e di unirsi poi a una carovana diretta a Kashgar, nel Turkestan cinese, dove sembra si proponesse di raccogliere notizie analoghe per i suoi superiori. Ma fu avvertito che non appena avesse lasciato la città, senza più la protezione dei russi, sarebbe stato assassinato.

L’emiro non permise che la scoperta di questo caso di doppiezza russa guastasse i rapporti cordiali che aveva appena stabilito con i potenti vicini. Eversmann doveva dunque essere liquidato alla chetichella quando si fosse separato dai compagni. Ma a questo punto il dottore cambiò rapidamente i suoi piani e decise di tornare a Orenburg con la missione; la quale, assolti i propri compiti (incluso il disegno di una pianta delle mura cittadine), si trovava lì in attesa che il periodo peggiore dell’inverno centroasiatico passasse.

Il 10 marzo 1821, tra professioni di imperitura amicizia, i russi abbandonarono la capitale e presero congedo dall’emiro, il cui regno era grande poco meno delle Isole britanniche. Quindici giorni dopo, la missione uscì dai suoi territori. Come per Murav’ëv a Chiva, il solo rammarico fu di aver dovuto lasciare al loro destino i molti compatrioti schiavi a Buchara, alcuni dei quali in servitù da tanto tempo da aver dimenticato la lingua madre. «Nel vederci» riferì un membro della missione «non riuscivano a trattenere le lacrime». Ma quali che fossero i loro sentimenti, gli inviati russi non potevano far nulla per quegli sciagurati, se non, come già Murav’ëv, rendere nota la loro triste condizione, e invocare il giorno in cui la Russia avrebbe imposto il suo dominio in Asia centrale, abolendo per sempre pratiche tanto barbare.

Se Pietroburgo aveva nutrito il proposito di prendere Buchara con la forza, per il momento non lo mise in atto. Sarebbero passati altri quarant’anni prima che la regione diventasse parte dell’impero zarista. Ma a Moorcroft il pericolo che i russi tornassero con un esercito di conquista appariva più che probabile, e durante il suo soggiorno a Buchara, dove fu bene accolto dall’emiro, fece altre due spiacevoli scoperte che confermarono i suoi timori. La prima riguardava le merci dei bazar: quelle russe venivano preferite, sebbene di qualità inferiore, a quelle che lui e i suoi compagni avevano trasportato fin lì con tanti rischi e disagi; e l’altra, non meno scoraggiante, fu constatare che quei cavalli veloci e robusti da lui tanto agognati non erano più reperibili, se non in piccolo numero, nel regno dell’emiro.

Amaramente deluso per quest’ultimo fallimento, Moorcroft decise di tornare a casa prima che le nevi invernali chiudessero i valichi per l’India settentrionale. Con i pochi cavalli che era riuscito ad acquistare, lui e i compagni ripresero la strada da cui erano venuti. Ma, varcato l’Oxus, Moorcroft decise di fare un estremo tentativo in un remoto villaggio a sud-ovest nel deserto, dove aveva sentito dire che si trovavano dei cavalli. Lasciando Trebeck e Guthrie a Balkh, partì con un pugno di uomini. Fu l’ultima volta che i due amici lo videro vivo.

La fine di Moorcroft, e quella dei suoi compagni, rimarrà per sempre avvolta nel mistero. Ufficialmente morì di febbre il 27 agosto 1825, o intorno a quella data. Aveva quasi sessant’anni, un’età avanzata per l’India, e da mesi era in cattiva salute. Il suo corpo, in stato di decomposizione troppo avanzata per desumerne la causa del decesso, fu riportato dopo qualche tempo a Balkh, e ivi seppellito dai suoi compagni. A breve distanza di tempo morì anche Guthrie, e poco dopo Trebeck, entrambi per cause apparentemente naturali. Frattanto era morto anche l’interprete della spedizione, che era stato a lungo al servizio di Moorcroft. Le coincidenze sembravano troppe, e presto in India cominciò a circolare la voce che fossero stati tutti quanti assassinati, avvelenati probabilmente, da agenti russi. Un’altra versione, meno sensazionale, era che fossero stati uccisi per rapina. Secondo Alder, il suo biografo, Moorcroft morì quasi certamente di una qualche febbre; forse, alla fine, la sua voglia di vivere era stata fiaccata dalla scoperta che nel villaggio in cui aveva riposto le sue ultime speranze i cavalli che cercava non c’erano.

Ma la vicenda presenta ancora un ultimo risvolto. A più di vent’anni di distanza dalla presunta morte di Moorcroft, due missionari francesi giunsero a Lhasa, duemilacinquecento chilometri a est, e prima di essere espulsi dai tibetani ebbero modo di ascoltare uno strano racconto, secondo il quale un inglese di nome Moorcroft, che si faceva passare per kashmiro, era vissuto lì per dodici anni. La sua vera identità era stata scoperta solo dopo la morte, avvenuta mentre era in cammino per il Ladakh. Nella sua abitazione infatti si erano trovate mappe e piante della città proibita, che il misterioso straniero stava evidentemente preparando. I due sacerdoti non avevano mai sentito parlare di Moorcroft, ma riferirono che un kashmiro asseriva di essere stato al suo servizio confermando la storia dei tibetani. Quando, nel 1852, venne pubblicata la traduzione in inglese del resoconto dei loro viaggi, questa straordinaria rivelazione suscitò un certo scalpore in Gran Bretagna: in particolare, ci si chiese se il corpo sepolto a Balkh fosse davvero quello di Moorcroft.

Il biografo di Moorcroft, pur non escludendo del tutto la possibilità che questi avesse preferito una morte simulata al ritorno in sede per affrontare i suoi detrattori e le censure ufficiali, ritiene tale ipotesi oltremodo improbabile, date le prove schiaccianti del contrario. Solo una temporanea demenza, conclude Alder, «forse sotto l’influsso di una violenta febbre, potrebbe spiegare azioni così incompatibili con il carattere di Moorcroft, con il suo passato e con tutto ciò in cui egli credeva». Una possibile spiegazione della versione fornita dai francesi è che quando la carovana si sciolse dopo la morte di Moorcroft e dei compagni, uno dei servitori kashmiri si fosse recato a Lhasa con mappe e carte appartenute a lui. Quando in seguito il servitore morì tornando in patria nel Kashmir, queste carte – recanti il nome di Moorcroft – vennero ritrovate in casa sua. I tibetani, inesperti e sempre sospettosi nei confronti di chi veniva da fuori, devono aver supposto che si trattasse di mappe del loro paese, e che il kashmiro vissuto tra loro per anni portasse il nome che compariva sulle mappe, e fosse in realtà una spia inglese.

Comunque, se fu radiato in vita dai superiori, e se solo la morte lo salvò dall’umiliazione di una censura ufficiale, Moorcroft è stato ampiamente risarcito in seguito. Oggi i geografi riconoscono l’immenso contributo da lui dato alla conoscenza della regione durante la sua interminabile ricerca di cavalli, e molti lo considerano addirittura il padre dell’esplorazione himalayana. A nessuno importa che non sia riuscito a trovare quei benedetti cavalli, né ad aprire Buchara alle merci inglesi, benché ci tenesse tanto. Ma la sua vera riabilitazione, per quanto ci riguarda, appartiene alla sfera della geopolitica. Non molto tempo dopo la sua morte, infatti, i ripetuti e inascoltati moniti da lui levati circa le ambizioni russe nell’Asia centrale cominciarono a rivelarsi fondati. Ciò, insieme ai suoi viaggi straordinari nelle terre del Grande Gioco, fece di lui ben presto l’idolo dei giovani ufficiali inglesi destinati a seguirne le orme.

Forse la suprema rivalsa di Moorcroft risiede nel sito della sua tomba solitaria, che ebbe occasione di vedere per l’ultima volta, nel 1832, il connazionale e «giocatore» Alexander Burnes. Diretto anche lui a nord verso Buchara, Burnes la trovò a stento, alla luce della luna, senza contrassegni e seminascosta da un muro di argilla, fuori dalla città di Balkh, perché i compagni, in quanto infedeli, non avevano avuto il permesso di seppellirlo entro il recinto urbano. Così Moorcroft giace non lontano dal luogo dove, più di un secolo e mezzo dopo, le truppe e i carri armati sovietici sarebbero penetrati a sud attraverso l’Oxus in Afghanistan. Non avrebbe potuto chiedere miglior epitaffio.

9
IL BAROMETRO SCENDE

La tregua nel Caucaso tra la Russia e la Persia, che aveva arrestato l’avanzata dei cosacchi e spostato sull’Asia centrale le brame di Pietroburgo, non durò a lungo. Il trattato di Gulistan, concluso nel 1813 con la mediazione inglese, era considerato sia dallo zar sia dallo scià solo un espediente temporaneo per rinsaldare le proprie forze prima del prossimo scontro. Lo scià mirava a riprendersi i territori ceduti ai russi con quel trattato, mentre Pietroburgo intendeva, al momento opportuno, spingere più avanti – e consolidare – la frontiera meridionale con la Persia. Pochi mesi dopo la morte di Moorcroft, i due vicini erano di nuovo in guerra, per la disperazione degli inglesi che non gradivano affatto la prospettiva di una Persia invasa dai russi.

Causa immediata delle ostilità fu questa volta una controversia sul testo del trattato, che non chiariva a chi appartenesse una certa regione situata fra Erevan e il lago Sevan. I colloqui tra il generale Ermolov, governatore russo del Caucaso, e Abbas Mirza, principe ereditario di Persia, tentarono invano di risolverla, e nel novembre 1825 le truppe di Ermolov occuparono il territorio contestato. I persiani ne chiesero il ritiro e Ermolov rifiutò, scatenando la furia dello scià e dei suoi sudditi: costoro, infatti, affluirono da ogni parte del paese sotto le bandiere di Abbas Mirza per combattere la guerra santa contro gli infedeli.

I persiani sapevano che i russi non erano ancora pronti per un conflitto. Pietroburgo non era solo impegnata a dare man forte ai greci nella lotta di indipendenza contro i turchi, ma in patria, specie nell’esercito, si trovava alle prese con gravi disordini scoppiati in seguito alla morte improvvisa dello zar Alessandro nel dicembre 1825. Incoraggiato dal proprio recente successo contro i turchi, Abbas Mirza decise di cogliere il nemico di sorpresa. Senza preavviso, una forza persiana di trentamila uomini varcò la frontiera russa, travolgendo tutto davanti a sé e facendo prigioniero un intero reggimento. Caddero varie città chiave, che in passato erano appartenute allo scià; nel frattempo i guerriglieri persiani si spinsero con le loro incursioni fino alle porte di Tiflis, quartier generale caucasico di Ermolov. I persiani trionfanti riuscirono anche a riconquistare la grande fortezza di Lenkoran, sulle rive del Caspio.

Per la prima volta nella sua lunga e brillante carriera, Ermolov, il «Leone del Caucaso», era stato colto alla sprovvista. Pietroburgo, umiliata, accusò Londra di incitare i persiani all’attacco: non era infatti un segreto che ufficiali britannici fungevano da consiglieri delle forze di Abbas Mirza, e alcuni addirittura guidavano la sua artiglieria. Il nuovo zar Nicola I sollevò immediatamente Ermolov dal comando, sostituendolo con il conte Paskevič, uno dei più brillanti giovani generali russi. Ma l’anziano «Leone», se aveva perso la fiducia dei superiori, conservava il rispetto e l’affetto dei soldati, che attribuirono la responsabilità della disfatta a Pietroburgo. Quando Ermolov partì da Tiflis, su una carrozza che dovette pagare di tasca propria, molti dei suoi uomini piansero senza ritegno.

Con l’aiuto di rinforzi Paskevič rovesciò le sorti del conflitto, ricacciando gli invasori. Abbas Mirza subì una serie di disfatte, culminate nella perdita di Erevan. Per celebrare la conquista della città lo zar nominò Paskevič, a maggior scorno dei persiani, «conte di Erevan». Paskevič dal canto suo fece omaggio a Nicola di una spada sottratta a un generale persiano, che si diceva fosse appartenuta a Tamerlano in persona. A questo punto lo scià chiese d’urgenza aiuto all’alleata Gran Bretagna, in base al patto difensivo firmato di recente. La richiesta causò grave imbarazzo a Londra, la quale era non soltanto impossibilitata a inviare rinforzi in quanto non aveva truppe stanziate in vicinanza del Caucaso, ma anche oltremodo restia a guastarsi con la Russia, ufficialmente ancora sua alleata.

Scopo originario del patto tra Londra e Teheran era stato, dal punto di vista inglese, proteggere l’India dall’attacco di un invasore che marciasse attraverso la Persia. Nonostante i moniti di Wilson e altri, di un simile attacco non sembrava esservi rischio immediato. Per buona sorte degli inglesi, il patto offriva una scappatoia: li obbligava a venire in aiuto dello scià solo se questi era aggredito, non se era lui ad aggredire. E giuridicamente parlando, nonostante le provocazioni e umiliazioni subite, l’aggressore era proprio lui, visto che erano state le sue truppe a varcare la frontiera russa stabilita dal trattato di Gulistan, sottoscritto dalla Persia. La Gran Bretagna poté così trarsi d’impaccio, per la seconda volta in ventidue anni. Ma questo danneggiò non poco la sua reputazione, in Persia e in tutto l’Oriente, poiché fece pensare che gli inglesi avessero troppa paura dei russi per venire in soccorso dei loro alleati. Cosa più preoccupante, anche i russi cominciarono a crederlo.

Senza l’auspicato aiuto inglese, i persiani furono costretti a chiedere nuovamente la pace. Per loro fortuna la Russia era in quel momento in guerra con i turchi, altrimenti le condizioni sarebbero probabilmente state più dure di quelle convenute nel 1828 con il trattato di Turkmanciai. Lo zar Nicola aggiunse così permanentemente al suo impero le ricche province di Erevan e Nahičevan. I persiani dal canto loro avevano imparato un’amara lezione sulla politica delle grandi potenze, nonché sull’ambiguità degli inglesi. Londra, consapevole che adesso lo sventurato scià aveva più che mai bisogno di fondi, lo persuase a rinunciare, in cambio di una cospicua somma di denaro, a ogni residua pretesa di aiuto in caso di attacco. Con ciò l’influenza britannica in Persia, finora preminente, svanì, sostituita da quella della Russia. I persiani si trovarono a essere in pratica un protettorato del vicino colosso nordico, che ebbe il diritto di stanziare i suoi consoli nel paese ovunque volesse, e ottenne speciali privilegi per i propri mercanti.

Nell’inverno del 1828-1829 il nuovo ambasciatore russo presso la corte dello scià, Aleksandr Griboedov, arrivò a Teheran e fu ricevuto con grande cortesia formale e pompa di cerimonie, nonostante l’ostilità nutrita verso di lui e il suo governo. Insigne letterato di tendenze schiettamente liberali, e un tempo segretario politico di Ermolov, era stato Griboedov a negoziare le condizioni umilianti della resa persiana. Adesso era suo compito far sì che queste, incluso il pagamento da parte della Persia di una rovinosa indennità di guerra, fossero pienamente rispettate. La sua presenza scatenava in particolare l’ira degli esponenti religiosi più fanatici. Una disgraziata coincidenza volle inoltre che egli arrivasse a Teheran nel gennaio 1829, durante il mese santo di Muharram, quando i sentimenti religiosi si fanno più accesi e i devoti in preda al fervore mistico si feriscono con le spade e si cospargono il capo di braci ardenti. L’odio per i russi infedeli era quindi a livello esplosivo. A fornire la scintilla fu lo stesso Griboedov.

In base ai termini del trattato di pace gli armeni residenti in Persia potevano, se lo desideravano, tornare nella loro patria ora che questa, divenuta parte dell’impero russo, era sotto dominio cristiano. Tra coloro che cercarono di valersi di questa possibilità vi furono un eunuco dell’harem dello scià e due giovinette appartenenti a quello di suo genero. Tutti e tre si rifugiarono presso la legazione russa, dove Griboedov diede loro asilo in attesa di provvedere al rimpatrio. Quando lo scià venne a saperlo, chiese immediatamente a Griboedov la restituzione dei tre. Il russo rifiutò, argomentando che solo il ministro degli Esteri dello zar, conte Nesselrode, poteva autorizzare eccezioni ai termini del trattato, e che la richiesta andava deferita a lui. Era una decisione coraggiosa: sarebbe stato facile abbandonare i fuggiaschi al loro destino in nome di rapporti migliori. Ma Griboedov sapeva bene quale sorte sarebbe toccata loro se li avesse riconsegnati.

La notizia dell’offesa recata al sovrano dall’aborrito infedele si diffuse rapidamente tra la popolazione. I mullah diedero ordine di chiudere i bazar e radunare la popolazione nelle moschee, esortandola a marciare contro la legazione russa e impadronirsi dei transfughi cui essa dava asilo. In breve una turba urlante di migliaia di persone si ammassò intorno all’edificio. La folla aumentava di minuto in minuto, assetata di sangue, e Griboedov comprese che il piccolo corpo di guardia cosacco non avrebbe potuto resisterle. Visto il pericolo mortale in cui tutti versavano, si risolse a malincuore per la restituzione degli armeni. Ma era troppo tardi. Incitata dai mullah, la folla prese d’assalto il palazzo.

Per più di un’ora i cosacchi cercarono di contenere l’assalto, ma, troppo inferiori di numero, dovettero man mano arretrare, nel cortile e poi di stanza in stanza. Tra le prime vittime della folla vi fu l’eunuco, che venne catturato e fatto a pezzi. Che cosa accadde alle due ragazze non si sa. L’ultima resistenza ebbe luogo nello studio di Griboedov, dove lui e alcuni cosacchi tennero duro per qualche tempo. Ma gli assalitori erano frattanto saliti sul tetto, e, tolte le tegole, irruppero dal soffitto. Griboedov, con la spada sempre in pugno, fu infine sopraffatto e massacrato, e il suo corpo gettato in strada dalla finestra. Qui un venditore ambulante di kebab gli mozzò la testa e la esibì, occhiali e tutto, sul suo banchetto, per la delizia della folla. Uno scempio anche più indicibile lo subì il resto del suo corpo, che da ultimo finì su un mucchio di rifiuti, e venne in seguito identificato grazie a un mignolo deforme, frutto di un duello giovanile. In tutto questo frangente non si era visto segno di truppe mandate a disperdere la folla o a soccorrere Griboedov e i suoi compagni.

Nel giugno seguente il poeta Aleksandr Puškin, che faceva parte della cerchia dei suoi amici, viaggiando nel Caucaso meridionale si imbatté in alcuni uomini che guidavano un carro di buoi. Erano diretti a Tiflis. «Da dove venite?» domandò. «Da Teheran». «Che cosa avete sul carro?». «Griboedov» risposero. Oggi i suoi resti riposano nel piccolo monastero di San David, sul fianco di una collina sopra Tiflis, o Tbilisi come è stata in seguito ribattezzata. Nel frattempo lo scià, temendo atroci rappresaglie russe, aveva mandato a Pietroburgo un nipote per esprimere il suo orrore per l’accaduto e porgere le più sentite scuse. Si racconta che davanti a Nicola il giovane principe si puntò la spada nuda al petto, offrendo la propria vita in cambio di quella di Griboedov. Ma lo zar gli ordinò di riporre l’arma nel fodero, e affermò che era sufficiente che i responsabili dell’eccidio fossero severamente puniti.

Nicola, ancora in guerra con i turchi, desiderava in effetti evitare ogni iniziativa che potesse indurre gli imprevedibili e focosi persiani ad azioni precipitose, e magari a unire contro di lui le loro forze a quelle turche. A Pietroburgo alcuni sospettavano che l’attacco alla legazione fosse stato architettato dagli agenti del sultano allo scopo di riaccendere la guerra tra Russia e Persia, e ridurre così la pressione russa sulle truppe ottomane. Con la fine delle ostilità, infatti, le forze del generale Paskevič erano riuscite a scacciare i turchi dalle loro residue posizioni nel Caucaso meridionale e ad avanzare nella Turchia propriamente detta. Altri pensarono invece che dietro l’uccisione di Griboedov vi fossero gli inglesi, ancora nominalmente alleati della Russia: un sospetto che aleggia tuttora fra gli storici di scuola sovietica.

Come le avventure caucasiche della Russia avevano suscitato preoccupazione a Londra, così cominciò ora a provocare allarme l’avanzata verso ovest di Paskevič in Turchia, nel timore che obiettivo ultimo di Nicola fossero Costantinopoli e gli Stretti. Nell’estate del 1829 la grande piazzaforte di Erzurum si arrese a Paskevič, lasciando la strada da est praticamente indifesa. Al tempo stesso, nei territori europei del sultano, le truppe russe si spingevano a sud in direzione di Costantinopoli attraverso le odierne Romania e Bulgaria. A due mesi dalla resa di Erzurum cadde in mano ai russi Edirne (Adrianopoli), nella Turchia europea. Pochi giorni dopo alcuni reparti di cavalleria russa erano a quaranta miglia dalla capitale. I generali premevano su Pietroburgo perché fosse loro consentito di occuparla; la fine dell’antico impero ottomano sembrava imminente. Le cose stavano andando più o meno come aveva previsto Sir Robert Wilson una dozzina di anni prima.

Ora che aveva Costantinopoli quasi in pugno, certamente Nicola ebbe la tentazione di lasciar proseguire l’avanzata. Ma considerazioni più sagge, dagli ambienti di Pietroburgo e delle altre potenze europee, esortavano alla cautela. L’attacco russo alla capitale – avvertivano le ambasciate straniere – avrebbe potuto provocare un massacro generale delle minoranze cristiane, cioè proprio della gente i cui interessi Nicola professava di rappresentare. Ed erano preoccupanti anche le conseguenze geopolitiche. Se fosse crollato l’impero ottomano, e la Russia avesse occupato Costantinopoli e assunto il controllo degli Stretti, le maggiori potenze europee, Gran Bretagna, Francia e Austria, avrebbero fatto a gara per impadronirsi del resto. Non solo poteva seguirne una guerra generale europea, ma con le basi inglesi e francesi nel Mediterraneo orientale il fianco meridionale della Russia sarebbe stato sottoposto a continua minaccia. Conveniva lasciare che il sultano mantenesse intatto il suo impero traballante, anche se avrebbe dovuto pagare per questo privilegio.

Perciò, con vivo disappunto di Paskevič e degli altri comandanti russi, la guerra ebbe rapidamente fine. Si evitò così uno scontro fra le potenze: inglesi e francesi si stavano già preparando a mandare le rispettive flotte verso gli Stretti per proteggere quella cruciale via di navigazione. Nel giro di pochi giorni si stabilirono le condizioni di massima della resa ottomana, e il 14 settembre 1829 venne firmato a Edirne il trattato di pace. La Russia ottenne il libero transito delle proprie navi mercantili attraverso gli Stretti (l’alternativa migliore al possesso di un porto in acque calde sul Mediterraneo; delle navi da guerra il trattato non faceva parola) e la libertà per i suoi mercanti di commerciare in ogni parte dell’impero ottomano. Il sultano dovette rinunciare a qualsiasi pretesa sulla Georgia e sui precedenti domini nel Caucaso meridionale, inclusi due porti sul Mar Nero. I russi in cambio restituirono le città di Erzurum e Kars, e la maggior parte del territorio conquistato nella Turchia europea.

La crisi era superata, ma aveva suscitato gravi timori nel governo inglese, allora sotto la guida del duca di Wellington. In un breve arco di tempo la Russia aveva sconfitto due potenze asiatiche, Persia e Turchia, rafforzando così enormemente la sua posizione nel Caucaso, ed era giunta a un passo dall’occupare Costantinopoli, chiave dell’egemonia sul Vicino Oriente e sulle vie più dirette per l’India. I generali russi erano pieni di baldanza, e si diceva che il brillante Paskevič parlasse apertamente, sia pure in modo vago, di una prossima guerra con la Gran Bretagna. Il barometro delle relazioni anglo-russe cominciò a precipitare. Che dopotutto fosse vera, ci si chiedeva, la storia dell’ordine di conquistare il mondo dato da Pietro il Grande, sul letto di morte, ai suoi eredi?

A esserne convinto da un pezzo era il colonnello George De Lacy Evans, insigne soldato divenuto, come Sir Robert Wilson, scrittore e polemista. Evans aveva già pubblicato un libro, intitolato On the Designs of Russia, in cui sosteneva che Pietroburgo progettava per il prossimo futuro un attacco all’India e ad altri possedimenti inglesi. Il volume, uscito nel 1828, quando simili sospetti avevano ancora scarso riscontro, si attirò parecchie recensioni ostili. Ma subito dopo la vittoria russa sui turchi Evans ne pubblicò un se-condo, On the Practicability of an Invasion of British India, che, grazie al suo tempismo, ottenne un’accoglienza più favorevole, specie presso le alte sfere di governo.

Citando (spesso in modo molto selettivo) le testimonianze e le opinioni dei viaggiatori inglesi e russi, fra cui Pottinger, Kinneir, Murav’ëv e Moorcroft, Evans si prefiggeva di dimostrare la verosimiglianza di un attacco russo contro l’India. Mire immediate di Pietroburgo, a suo parere, non erano tanto la conquista e l’occupazione dell’India, quanto il tentativo di destabilizzarvi il dominio britannico. E se c’era una cosa che i direttori della Compagnia delle Indie temevano più della bancarotta era di avere guai con la popolazione indigena, così immensamente superiore di numero rispetto agli inglesi presenti nel paese. Evans esaminava poi le possibili vie di approccio. Sebbene la Persia fosse ora poco meno che suddita dello zar, riteneva improbabile che un esercito russo la scegliesse come via di transito. I suoi fianchi e le linee di comunicazione sarebbero stati esposti agli attacchi delle forze britanniche che sarebbero sbarcate sul Golfo. Era più verosimile che si seguisse la via tracciata da Kinneir undici anni prima. Attingendo a varie fonti russe, Evans sosteneva che un’armata di trentamila uomini poteva marciare dalle sponde orientali del Caspio fino a Chiva, per poi risalire su battelli l’Oxus fino a Balkh, e di qui raggiungere via Kabul il passo Khyber.

Con una profusione di dettagli persuasivi, Evans riusciva a far apparire l’impresa molto facile, specie agli occhi di chi, come lui, non conosceva il territorio. E in effetti nessuno, fuori della Russia, ne aveva esperienza di prima mano. Per Evans la traversata del deserto del Karakum fino a Chiva non presentava difficoltà insormontabili: le armate inglesi e francesi avevano attraversato felicemente consimili distese aride in Egitto e in Siria. Quanto al trasporto della forza d’invasione su per l’Oxus, nel Lago d’Aral vi erano «numerosi barconi da pesca usati dai nativi», che potevano essere requisiti a questo scopo. Evans raccomandava anche di esplorare a fondo i passi cruciali dell’Hindu Kush frapposti tra un invasore dal Nord e il Khyber, e di stanziare a Buchara «un agente di qualche sorta» che desse avviso tempestivo di un’avanzata russa. Proponeva inoltre di tenere in permanenza alcuni agenti politici a Kabul e a Peshawar, dove a suo parere sarebbero stati più utili che a Teheran.

Nonostante i suoi difetti, meno evidenti allora di oggi, il libro di Evans esercitò una profonda influenza sui politici di Londra e Calcutta, e diventò la bibbia virtuale di una generazione di partecipanti al Grande Gioco, finché non cominciarono a emergerne le manchevolezze. Non conteneva niente di particolarmente nuovo, niente che non fosse già stato detto da Wilson, Kinneir o Moorcroft, ma le recenti mosse aggressive della Russia gli davano quell’incalzante forza persuasiva che era mancata ai moniti dei predecessori. Forza che fu incrementata da un inquietante annuncio formulato da Pietroburgo (in coincidenza fortuita con la pubblicazione del libro nell’autunno 1829): un capo afgano si era recato a porgere i suoi ossequi allo zar Nicola, e altrettanto aveva fatto un ambasciatore di Ranjit Singh, sovrano del Punjab, che gli inglesi consideravano loro alleato.

Gli argomenti di Evans impressionarono, fra gli altri, Lord Ellenborough, membro del governo del duca di Wellington e da poco presidente del Consiglio di controllo per l’India. Già in ansia circa le intenzioni russe nel Vicino Oriente, Ellenborough trovò il libro inquietante e convincente al tempo stesso, e subito ne mandò un certo numero di copie a John Kinneir (ora Sir), inviato della Compagnia a Teheran, e all’ex superiore di questi, Sir John Malcolm, governatore di Bombay. Frattanto annotò sul suo diario: «Sono sicuro che dovremo combattere i russi sull’Indo». Otto settimane più tardi si corresse: «Ciò che temo è un’occupazione di Chiva a nostra insaputa… muovendo di là il nemico potrebbe essere in tre o quattro mesi a Kabul. Confido che sapremo sventare l’impresa. Dovremmo farlo prima che il nemico giunga all’Indo. Se ventimila russi raggiungessero l’Indo, la lotta sarebbe dura». Dei russi, alleati della Gran Bretagna contro Napoleone, non c’era più da fidarsi; e questa volta la cosa era ufficiale.

Falco per natura, Ellenborough caldeggiò l’invio a Pietroburgo di un ultimatum per ammonire che ulteriori incursioni in Persia sarebbero state considerate un atto ostile. L’idea fu respinta dai colleghi di governo, i quali osservarono che, a meno di scendere in guerra, non vi sarebbe stato modo di rendere operativa tale minaccia. Il duca di Wellington, molto esperto di cose indiane, era sicuro che un esercito russo in marcia attraverso l’Afghanistan, proveniente dalla Persia o da Chiva, poteva essere distrutto molto prima di arrivare all’Indo. Lo preoccupava invece l’effetto che l’avanzata di truppe «liberatrici» avrebbe potuto avere sulla popolazione indigena. Era perciò essenziale che un invasore venisse liquidato rapidamente, e il più lontano possibile dalle frontiere indiane. Ma a questo fine occorrevano mappe dettagliate delle vie d’approccio. Le indagini di Ellenborough rivelarono che le mappe di cui si disponeva erano quantomai imprecise e basate per lo più sul sentito dire. Dal tempo di Christie e Pottinger, vent’anni prima, non vi era stato alcun tentativo ufficiale di colmare le lacune esistenti al di là delle frontiere dell’India.

Ellenborough si accinse a recuperare il tempo perduto. Raccolse da ogni fonte possibile informazioni militari, politiche, topografiche e commerciali sui paesi circostanti l’India. Cercò notizie su ogni cosa, dall’entità delle forze navali zariste nel Caspio al volume del commercio russo con i canati dell’Asia centrale musulmana. Voleva conoscere le vie seguite dalle carovane russe, e la dimensione e frequenza di queste. Vagliò tutto ciò che si sapeva su Chiva, Buchara, Kokand e Kashgar, e sulla rispettiva capacità di resistere a un attacco russo. Se Moorcroft fosse stato ancora vivo, avrebbe potuto fornire molte delle risposte. Di fatto, informazioni sulla regione si potevano avere quasi soltanto a Pietroburgo. L’ambasciatore britannico in quella sede, Lord Heytesbury, si era procurato i servigi di una spia che gli forniva le copie di documenti segretissimi. Ne risultava, l’ambasciatore riferì a Londra, che la Russia non era militarmente ed economicamente in condizione di imbarcarsi in un’avventura contro l’India. Ma di Heytesbury, date le sue note simpatie filorusse, Ellenborough si fidava poco, e perciò i suoi dispacci vennero letti con un certo scetticismo.

Ellenborough ambiva piuttosto a ottenere informazioni per quanto possibile di prima mano tramite uomini suoi. Sinora a darsi da fare erano stati i russi, con le loro missioni a Chiva e a Buchara, mentre le iniziative individuali inglesi venivano scoraggiate, come Moorcroft aveva dovuto constatare. Ma sotto Ellenborough le cose cambiarono. Una sequela di giovani ufficiali dell’esercito d’India, agenti politici, esploratori e topografi, prese a percorrere in lungo e in largo le immense regioni dell’Asia centrale. Tracciavano le mappe dei passi, dei deserti, dei fiumi fino alle sorgenti, prendevano nota dei dati strategici, osservavano quali vie fossero accessibili alle artiglierie e studiavano le lingue e i costumi delle tribù cercando di guadagnare la fiducia e l’amicizia dei capi, con le orecchie ben tese per cogliere informazioni politiche e dicerie tribali sui progetti di guerra e sulle varie trame di questo o di quell’altro. Ma soprattutto erano attenti al minimo segno di penetrazione russa nella vasta terra di nessuno situata fra i due imperi rivali. In qualche modo le notizie raccolte venivano fatte pervenire ai diretti superiori, che a loro volta le passavano a chi di dovere.

Il Grande Gioco era cominciato sul serio.


GLI ANNI DI MEZZO

«A scrimmage in a Border Station –
A canter down some dark defile –
Two thousand pounds of education
Drops to a ten-rupee jezail –
The Crammer’s boast, the Squadron’s pride,
Shot like a rabbit in a ride!».1

RUDYARD KIPLING

1. «Una zuffa in un posto di frontiera… / un galoppo in una gola scura… / duemila sterline d’istruzione / cadono al colpo di un jezail da dieci rupie… / il vanto della scuola, l’orgoglio dello squadrone, / ucciso come un coniglio in un viottolo!» [N.d.T.].


10
«IL GRANDE GIOCO»

Il 14 gennaio 1831 un uomo barbuto e arruffato in abito indigeno arrivò dal deserto nel remoto villaggio di Tibbee, alla frontiera nord-occidentale dell’India. Il villaggio è da tempo sparito dalle mappe, ma allora fungeva da posto di confine tra l’India inglese e il gruppo di staterelli indipendenti situati a ovest, noti collettivamente col nome di Sind. Per lo sconosciuto, raggiungere il territorio della Compagnia, con la vista rassicurante dei sipahi dell’Indian Army di presidio alla frontiera, era stato un sollievo. Aveva viaggiato per più di un anno, spesso esposto a gravi pericoli, dubitando a volte di uscirne vivo. Infatti, sotto la pelle scura, quasi annerita dal sole, le sue fattezze erano palesemente quelle di un europeo.

L’uomo era un ufficiale inglese: il tenente Arthur Conolly del 6th Bengal Native Light Cavalry, la prima delle giovani reclute di Lord Ellenborough mandate sul campo a esplorare la zona sita fra il Caucaso e il Khyber – terra di nessuno dal punto di vista politico e militare –, attraverso la quale avrebbe potuto marciare un esercito russo. Audace, intraprendente e ambizioso, Conolly era il prototipo del giocatore del Grande Gioco, e fu lui, in modo invero appropriato, a coniare quest’espressione memorabile nella lettera a un amico. Aveva cose stupefacenti da raccontare, e consigli a dovizia per chi si sarebbe addentrato dopo di lui nelle terre selvagge e senza legge dell’Asia centrale. Di tutto questo il tenente Conolly, non ancora ventiquattrenne, riferì ai superiori e, nonostante il grado subalterno e la giovane età, le sue opinioni vennero tenute in gran conto, esercitando notevole influenza in quel primo periodo della rivalità anglo-russa in Asia.

Orfano a dodici anni di entrambi i genitori, morti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, Conolly aveva cinque fratelli, tre dei quali, lui compreso, destinati a morire di morte violenta al servizio della Compagnia delle Indie. Dopo gli studi a Rugby era partito per l’India, nel cui reggimento era entrato nel 1823, a soli sedici anni come cornetta. Sebbene definito spesso timido e sensibile, la carriera successiva ne testimonia l’eccezionale tenacia, determinazione e coraggio, mentre un ritratto ce lo mostra di corporatura poderosa e di aspetto imponente. Ma Conolly aveva un’altra qualità che ne influenzò la carriera. Come molti ufficiali del tempo, era uomo di indole fortemente religiosa, che in lui si era intensificata, nel corso del lungo viaggio per mare verso l’India, grazie alla frequentazione di Reginald Heber, celebre e carismatico innografo, nuovo vescovo di Calcutta.

Conolly credeva, come molti della sua generazione, nella missione civilizzatrice del cristianesimo, e nel dovere che i suoi seguaci avevano di diffonderne il messaggio di salvezza presso altre genti meno fortunate. La legge britannica, basata sui princìpi cristiani, era il supremo beneficio che si potesse conferire alle popolazioni barbariche. Perfino l’ordinamento russo, a patto che rimanesse lontano dalle frontiere dell’India, era preferibile a quello dei tiranni musulmani, perché almeno i russi appartenevano alla cristianità. Conolly simpatizzava inoltre col desiderio di Pietroburgo di liberare i propri sudditi, cristiani e di altre fedi, dalla schiavitù nei canati dell’Asia centrale. Furono queste convinzioni, insieme alla sete di avventura, a spingerlo a rischiare la vita fra le tribù pagane – così almeno le intendeva lui – dell’interno.

Conolly era partito da Mosca alla volta del Caucaso nell’autunno del 1829, ufficialmente per tornare in India via terra al termine della sua licenza. Gran Bretagna e Russia erano ancora alleate, sebbene i rapporti si facessero sempre più tesi, e Conolly fu accolto cordialmente dagli ufficiali russi di Tiflis, che gli fornirono anche una scorta cosacca per il tratto più rischioso del suo viaggio nel Caucaso fino alla frontiera persiana. «I russi» spiegò «non hanno ancora il controllo del transito nel Caucaso, e sono costretti a guardarsi dagli assalti a sorpresa dei circassi figli della nebbia, i quali nutrono tuttora un odio accanito contro di loro». Ma Conolly sottovalutò di parecchio i circassi nel pronosticare che le truppe russe avrebbero agevolmente soggiogato «quei feroci montanari», ora che i loro alleati turchi erano stati cacciati dal Caucaso. Né lui né i suoi ospiti russi prevedevano la furiosa guerra santa che presto avrebbe sconvolto quell’angolo montagnoso dei domini zaristi.

Cavalcando verso sud, Conolly notò quanto poteva dell’esercito russo, valutando con acuto occhio professionale gli ufficiali, i soldati e il loro equipaggiamento, addestramento e morale. Erano quelle le truppe che avrebbero marciato sull’India, se si fosse giunti a tanto. Ciò che vide prima di varcare la frontiera persiana lo impressionò molto. Lo stupirono lo stoicismo e la tempra dei soldati, che in pieno inverno dormivano nella neve senza tende e affrontavano a cuor leggero gli ostacoli e le difficoltà. Ufficiale di cavalleria egli stesso, quando fece visita a un reggimento di dragoni si entusiasmò venendo a sapere che aveva conquistato un forte nemico entrando al galoppo prima che i difensori fossero riusciti a chiudere le porte.

Fino ad allora, protetto dai russi, Conolly non si era dovuto preoccupare di nascondere la propria identità e di adottare un travestimento. Ma quella che si accingeva a compiere adesso era un’impresa ben diversa, quasi impossibile per un ufficiale inglese. Era sua intenzione raggiungere Chiva attraversando il grande deserto del Karakum, e scoprire, fra l’altro, che cosa i russi vi stessero combinando. Non più accompagnato dalla scorta cosacca, e sul punto di addentrarsi in alcune fra le regioni più pericolose al mondo, il travestimento diventava indispensabile. A questo tema Conolly dedicò molte riflessioni. Un europeo, quand’anche avesse parlato benissimo la lingua locale – scrisse più tardi –, viaggiando fra gli asiatici avrebbe avuto grandi difficoltà a non farsi scoprire. «Il suo eloquio, il suo modo di stare seduto, di camminare o di cavalcare… sono diversi da quelli dell’asiatico». Qualsiasi tentativo di imitazione non avrebbe sortito altro effetto che di attirare un’attenzione inopportuna. Essere scoperti significava morte quasi certa, perché un inglese (o un russo, quanto a questo), sorpreso a viaggiare sotto mentite spoglie in quelle regioni, sarebbe stato automaticamente considerato una spia venuta a preparare la strada per un esercito invasore.

Per un inglese, suggeriva Conolly, un ottimo travestimento era quello non da indigeno bensì da medico, preferibilmente francese o italiano. «A volte si incontrano di questi signori itineranti,» riferì «e non sono guardati con diffidenza». Un medico, sia pure infedele, era sempre il benvenuto fra gente alla perenne mercé delle malattie. Di rado gli si facevano domande; e già questo era un buon motivo per usare tale copertura, perché risparmiava il fastidio di fornire continue spiegazioni circa le ragioni del viaggio in quelle zone impervie. Presso quelle popolazioni, inoltre, poche nozioni elementari di medicina erano sufficienti per acquistare fama di grande hakim, dottore. Conolly stesso aveva curato vari pazienti. «I farmaci più semplici guariscono la maggior parte delle loro infermità, e nei casi che esorbitano dalla vostra competenza si può dire al malato che non è sua nasib, ovvero sorte, di essere curato».

Se invece si preferiva adottare un travestimento da indigeno, Conolly suggeriva di vestire le spoglie di povero. Le rapine e le estorsioni, come lui stesso avrebbe imparato a sue spese, erano un pericolo perpetuo in quelle regioni senza legge. Così, non disponendo dei medicinali e degli strumenti necessari per fingersi medico, Conolly decise, per il suo tentativo di raggiungere Chiva, di adottare la veste del mercante, e acquistò sciarpe di seta, scialli, pellicce, pepe e altre spezie da vendere nei bazar. Ingaggiati una guida, dei servitori e dei cammelli, si mise in cammino per Chiva, ottocento chilometri a nord-est di là dal deserto, muovendo dalla cittadina di Astrabad, all’estremità meridionale del Caspio. Quando partì, dopo aver combinato di incontrarsi più avanti con una grossa carovana diretta a Chiva, un amico persiano osservò: «Non mi piacciono quei cani che hai intorno». Ma Conolly non prese sul serio l’avvertimento, forse presumendosi in grado di sventare eventuali tradimenti.

Dapprincipio tutto andò bene; il gruppo si mosse in fretta per raggiungere prima possibile la carovana principale, che avrebbe fornito protezione durante la traversata del Karakum. Si sapeva che le piste carovaniere e di pellegrinaggio erano regolarmente battute dai turkmeni a caccia di schiavi. «In genere è nel grigiore del mattino che i turcomanni fanno la posta ai pellegrini» riferì Conolly. A quell’ora i viaggiatori, mezzo addormentati dopo la lunga marcia notturna, erano in preghiera. I vecchi e chi opponeva resistenza venivano uccisi all’istante; quelli forti e di bell’aspetto venivano portati via per essere venduti come schiavi nei canati. Conolly era ben conscio di quanto fosse elevato il rischio cui andava incontro, ma il miraggio di Chiva contava di più.

Procedevano di buon passo da parecchi giorni, e si credevano ormai vicini alla carovana diretta a Chiva, quando d’improvviso le cose si misero male. Una mattina all’alba, mentre stavano per levare il campo, arrivarono al galoppo quattro brutti ceffi. Conolly agguantò le armi che teneva nascoste, ma il capo, senza badargli, si rivolse alla guida indigena, parlando «con molto fervore, a bassa voce», e lanciando di tanto in tanto all’inglese occhiate chiaramente ostili. Infine si rivolse a lui in persiano, dicendo che erano stati mandati a proteggerlo contro altri individui non meglio precisati pronti a tendergli un agguato per ucciderlo. Era evidentemente una frottola, ma le intenzioni dei nuovi venuti apparivano tutt’altro che chiare. Contro quattro uomini ben armati Conolly sapeva di avere poche possibilità; era loro prigioniero. La prospettiva di raggiungere la carovana principale appariva adesso molto remota.

Conolly venne a sapere ben presto che i quattro erano stati mandati dal capo di una tribù vicina per arrestarlo: correva voce, in effetti, che lui fosse un agente russo al servizio dello scià di Persia venuto a esplorare le terre turkmene in vista della loro annessione. Si raccontava che avesse con sé grandi quantità d’oro con cui comprare il favore dei capitribù dissidenti e non. Conolly disse ai quattro che la storia era assurda, ribadendo di essere un mercante venuto dall’India, diretto a Chiva per vendere la propria merce; e li invitò a perquisire i suoi bagagli per convincersi che non portava oro di sorta. Dopo aver frugato tra le sue cose, senza trovare altro che un astrolabio in ottone (che a prima vista scambiarono per oro massiccio), gli uomini parvero incerti sul da farsi, e presero a sballottare il prigioniero da un luogo all’altro senza una meta precisa.

Dapprima Conolly pensò che fossero in attesa di altri ordini. Solo più tardi scoprì la verità. I quattro non riuscivano a mettersi d’accordo su che cosa fare di lui: se derubarlo e ucciderlo, o venderlo come schiavo. Sapevano però che aveva amici ricchi e influenti oltre frontiera, in Persia, e per questo esitavano a liquidarlo su due piedi. Intanto, per saggiare le reazioni, sparsero la voce che era stato assassinato. Se non fosse seguita una rappresaglia, avrebbero capito che potevano procedere tranquillamente col loro piano. Per fortuna di Conolly, la notizia della sua cattura aveva raggiunto i superiori, e una squadra era stata mandata nel deserto a cercarlo. Alla fine, malgrado la perdita di molte delle sue cose e di quasi tutto il denaro, e la delusione di non essere arrivato a Chiva, Conolly poté tornare sano e salvo ad Astrabad, per nulla scoraggiato dall’esperienza e grato di essere sopravvissuto.

Sebbene non fosse riuscito a raggiungere la meta, Conolly aveva raccolto molte informazioni preziose sulla regione Karakum-Caspio, attraverso la quale passava una delle principali vie percorribili da un invasore e pressoché sconosciuta a Londra e a Calcutta. Aveva anche appurato che i russi, benché si temesse il contrario, non dominavano ancora le sponde orientali del Caspio, e tantomeno Chiva. Quindi, dopo essersi pienamente ripreso dalla sua disavventura, Conolly decise di recarsi a Mashhad, cinquecento chilometri a est, vicino alla frontiera persiana con l’Afghanistan. Di là sperava di entrare in questo paese e di raggiungere Herat, dove nessun ufficiale britannico aveva più messo piede dopo la visita clandestina di Christie vent’anni prima. Città di enorme importanza strategica, era da molti considerata la base ideale per un esercito invasore, cui poteva fornire viveri e altri supporti essenziali.

Conolly la raggiunse nel settembre 1830, e ne varcò le porte con un misto di inquietudine e di eccitazione. La città era infatti allora governata da Kamran Shah, uno dei principi più spietati e brutali dell’Asia centrale. L’inglese vi si trattenne per tre settimane, questa volta in veste di hakim, osservando e annotando di nascosto ogni particolare di rilievo, specie riguardo alle difese della città e alla sua capacità di sostentare un esercito con i prodotti della fertilissima valle circostante. Come riuscisse a farlo senza attirare l’attenzione della polizia segreta di Kamran, Conolly non dice. La fase successiva della sua ricognizione, il periglioso viaggio di cinquecento chilometri fino a Kandahar, lo portò attraverso una regione infestata dai banditi, dove i cacciatori di schiavi mozzavano le orecchie ai prigionieri affinché questi, vergognandosi di tornare a casa in quello stato, fossero meno inclini alla fuga. Per buona sorte, Conolly riuscì infine ad accodarsi a una carovana di pii pellegrini musulmani. La loro compagnia poté procurargli non solo alcune informazioni interessanti, ma anche una provvidenziale protezione da rapinatori, cacciatori di schiavi e assassini.

Raggiunta Kandahar – tutto sommato senza problemi, se si escludono alcuni sporadici momenti di panico –, Conolly ebbe però la sfortuna di ammalarsi poco dopo l’arrivo, e si indebolì al punto che ebbe paura di non farcela. Fu assistito e rimesso in salute da uno di quei buoni pellegrini, ma mentre era ancora in convalescenza si cominciò a vociferare che fosse in realtà un inglese venuto a spiare per conto di Kamran, allora in guerra con Kandahar. Tale diceria lo mise in una situazione di grave pericolo, costringendolo a lasciare, ancora malfermo, il letto e a partire in fretta e furia dalla città, dopo appena nove giorni di permanenza. Il 22 novembre, questa volta in compagnia di alcuni mercanti di cavalli, Conolly arrivò a Quetta, all’imbocco del grande passo Bolan, gemello meridionale del Khyber e punto d’accesso per un’invasione dell’India. Due settimane più tardi, percorsi a cavallo i centotrenta chilometri del passo, raggiunse le rive dell’Indo. E la mattina dell’indomani venne traghettato sulla sponda opposta; esattamente, notò, in otto minuti. La sua odissea di seimilacinquecento chilometri da Mosca all’India poteva dirsi pressoché terminata.

Esserne uscito vivo era già una bella impresa; altri erano stati meno fortunati. Ma Conolly fece molto di più. Battendo le vie lungo le quali sarebbe verosimilmente avanzato un esercito russo ostile, poté dare risposta a gran parte dei quesiti che assillavano Lord Ellenborough e i responsabili della difesa dell’India. È ovvio che delle sue osservazioni militari e politiche più delicate furono messi al corrente solo i superiori. Ma è possibile rintracciare il racconto per esteso delle sue avventure nel libro che pubblicò tre anni dopo, nel 1834, col titolo Journey to the North of India, Overland from England, Through Russia, Persia and Affghaunistan. Il volume comprendeva una lunga appendice in cui venivano esaminate dettagliatamente le possibilità che si offrivano a un generale russo determinato a invadere l’India, e le sue probabilità di successo.

Secondo Conolly, un esercito russo di dimensioni sufficienti a garantire qualche probabilità di successo aveva due sole strade. Riassumendo, la prima richiedeva la presa di Chiva, poi di Balkh, e quindi la traversata dell’Hindu Kush, come aveva fatto Alessandro Magno, fino a Kabul. Da qui l’esercito avrebbe marciato per Jalalabad e per il passo Khyber fino a Peshawar, e varcato infine l’Indo ad Attock. Per occupare Chiva era meglio muovere da Orenburg anziché dalle sponde orientali del Caspio: la via era più lunga, ma evitava l’arido deserto del Karakum, e le tribù della zona erano meno indomabili dei pericolosi turkmeni. Le truppe russe, inoltre, raggiunta la riva settentrionale del Lago d’Aral, potevano essere trasportate sui battelli o sulle zattere fino alla foce dell’Oxus, e risalire il fiume fino a Chiva. La conquista della città, e la successiva avanzata sull’India, erano imprese assai ardue, che potevano richiedere più campagne e due o tre anni di tempo.

La seconda strada cominciava dalla presa di Herat, da usare come base per ammassarvi le truppe. Di là, queste avrebbero marciato via Kandahar e Quetta fino al Bolan, passo dal quale lo stesso Conolly era entrato in India. A Herat si poteva arrivare o via terra attraverso una Persia compiacente, oppure da Astrabad, traversando il Caspio. Una volta che Herat fosse stata in loro possesso, o annessa da una Persia amica, i russi avrebbero potuto «stanziarvi un esercito per anni, con tutto il necessario a portata di mano». La sua sola presenza colà poteva essere sufficiente a sollevare disordini nella popolazione indigena dell’India, spianando così il terreno a un’invasione quando gli inglesi si fossero visti attaccati dall’interno.

Un invasore avrebbe anche potuto usare le due strade simultaneamente, osservava Conolly. Restava comunque un grosso ostacolo, tale da rendere alquanto dubbie le speranze di vittoria. Con l’una e con l’altra, l’invasore avrebbe dovuto attraversare l’Afghanistan. E gli afgani avevano «poco da guadagnare, e molto da temere, da un ingresso dei russi nel loro paese». Erano inoltre ostili ai limiti del fanatismo verso i persiani, il cui appoggio era essenziale per i russi. «Se gli afgani, come nazione, si opponessero con risolutezza agli invasori, le difficoltà della marcia sarebbero pressoché insormontabili». Avrebbero combattuto fino all’ultima goccia di sangue, tormentando di continuo le colonne russe dalle loro roccaforti montane, distruggendo le vettovaglie e tagliando le linee di comunicazione e di ritirata dell’invasore.

Se invece gli afgani fossero rimasti divisi, com’erano al momento, i russi avrebbero avuto modo di fomentare la contrapposizione tra una fazione e l’altra con promesse o lusinghe di vario genere. «Da solo, il capo di un piccolo Stato non potrebbe opporre un’efficace resistenza a un invasore europeo, e sarebbe facile procurarsene l’appoggio favorendolo nelle sue ambizioni contro i rivali in patria, o approfittarne doppiamente volgendole verso l’India». Era perciò interesse della Gran Bretagna che l’Afghanistan fosse unito sotto un forte governo centrale a Kabul. «Occorrerebbero grandi allettamenti per indurre un principe regnante a rompere una sicura e proficua alleanza con noi, e a impegnarsi in un’impresa che, dubbia nel migliore dei casi, se fallisse ne segnerebbe la rovina». E ove i russi riuscissero a offrire a quel principe prospettive «tanto invitanti da sedurlo», si poteva alzare la posta, oppure organizzarne lo spodestamento.

Il capo afgano di cui conveniva promuovere l’avvento al trono, consigliava Conolly ai superiori, era Kamran Shah, principe di Herat. Personaggio sgradevole, questi aveva però in comune con la Gran Bretagna un interesse vitale: che Herat, «il granaio dell’Asia centrale», non cadesse in mano né dei persiani, che avanzavano pretese di vecchia data, né dei russi. A Herat, inoltre, non era un segreto che Kamran desiderasse non poco allearsi con gli inglesi. Se fosse stato lasciato solo a vedersela con i persiani, questi ultimi, superiori di forze, avrebbero prima o poi conquistato la città, e ai russi si sarebbe aperta la via dell’India.

Durante l’anno di viaggio di Conolly, a Londra e a Calcutta la diffidenza verso le intenzioni russe era progressivamente cresciuta, specie tra i falchi del governo Wellington, che deploravano la politica passiva del precedente esecutivo conservatore. Costoro temevano in particolare che la Turchia e la Persia, già domate e legate a Pietroburgo per trattato, diventassero protettorati russi. Lord Ellenborough, cui Wellington, suo amico, aveva dato praticamente carta bianca riguardo all’India, era vieppiù convinto delle mire espansionistiche russe, e credeva che lo zar sarebbe ricorso a qualche sotterfugio per portare il suo esercito in prossimità del subcontinente in modo da poterlo attaccare. A fronte di una Persia sempre più debole, i russi vi avrebbero man mano esteso influenza e presenza militare, mentre altrove avrebbero seguito le orme dei loro mercanti, col pretesto di proteggerli, tracciando così, da una stazione commerciale all’altra, la linea di penetrazione verso l’India. Ma a questo gioco si poteva giocare in due: bisognava sfruttare la superiorità delle merci britanniche per arrestare l’avanzata dei rivali russi. Era la strategia a suo tempo vanamente suggerita da Moorcroft. Adesso, cinque anni dopo, venne adottata ufficialmente.

Uno dei sogni di Moorcroft era stato di poter utilizzare il fiume Indo per trasportare a nord le merci britanniche sino alle frontiere dell’Asia centrale, donde le carovane le avrebbero trasferite al di là dei monti verso i bazar dell’antica Via della Seta. Come al solito, però, le sue appassionate argomentazioni erano cadute nel vuoto. Ora che Ellenborough aveva fatto propria questa idea, i direttori della Compagnia l’abbracciarono con entusiasmo. Ma di quel grande fiume si sapeva pochissimo, e per accertarne la navigabilità bisognava prima esplorarlo; cosa più facile a dirsi che a farsi, perché l’Indo scorreva per vasti tratti in territori che non appartenevano alla Compagnia, in particolare il Sind a sud e il Punjab a nord, e i sovrani di queste zone avrebbero quasi certamente obiettato. Lord Ellenborough escogitò una soluzione brillante, benché tortuosa.

Ranjit Singh, signore del Punjab, aveva di recente inviato in dono al re d’Inghilterra alcuni magnifici scialli del Kashmir; e c’era il problema di che cosa il monarca inglese, Guglielmo IV, potesse mandargli in cambio. In testa al gradimento dell’anziano maragià figuravano le donne – ovviamente fuori questione –, al secondo posto i cavalli; ciò diede a Ellenborough un’idea. Si decise di regalare a Ranjit Singh cinque cavalli. Ma non i comuni cavalli da sella, bensì esemplari possenti quali mai si erano visti in Asia, massicci animali da tiro inglesi, quattro giumente e uno stallone. Era indubbiamente un dono sontuoso e spettacolare, quel che ci voleva, si pensò, per impressionare quel sovrano asiatico che aveva da poco inviato un suo rappresentante a Pietroburgo. Al tempo stesso Sir John Malcolm, governatore di Bombay, ordinò la costruzione di una carrozza di gala dorata in cui Ranjit Singh, trainato dagli enormi cavalli, potesse girare per il suo regno con agio e splendore regali.

Ma c’era dell’altro. Cavalli e carrozza, considerate le dimensioni, nonché il clima e il terreno inadatti, non potevano percorrere più di mille chilometri via terra per raggiungere Lahore, la capitale del regno di Ranjit Singh. Avrebbero invece risalito l’Indo in battello, il che consentiva di ispezionare con discrezione il fiume e di accertare se fosse navigabile fin lì. A guidare questa singolare missione di spionaggio fu scelto un giovane ufficiale subalterno di nome Alexander Burnes, che grazie alle doti non comuni era stato di recente trasferito dal suo reggimento, il 1st Bombay Light Infantry, all’elitario ufficio politico del protettorato indiano. A venticinque anni, Burnes si era già dimostrato uno degli ufficiali più promettenti della Compagnia. Intelligente, intraprendente e impavido, era anche uno straordinario poliglotta, e parlava correntemente il persiano, l’arabo e l’indostano, e alcune delle lingue indiane meno note. Sebbene di bassa statura e di aspetto mansueto, era un uomo di rara determinazione, sicuro di sé e ricco di fascino, che esercitava con molta efficacia su europei e asiatici.

In India, peraltro, non tutti approvavano l’idea di Ellenborough di esplorare clandestinamente l’Indo. Uno degli oppositori più severi era Sir Charles Metcalfe, membro dell’onnipotente Consiglio supremo della Compagnia ed ex segretario dell’ufficio politico. «Il progetto di ispezionare l’Indo con il pretesto di mandare un dono al ragià Runjeet [sic] Singh è un trucco… indegno del nostro governo» protestò, aggiungendo che era proprio il genere di falsità di cui gli inglesi venivano spesso ingiustamente accusati, e che era molto probabile fosse scoperta, confermando così i sospetti dei sovrani locali. Metcalfe e Sir John Malcolm, entrambi personaggi influenti in India, rappresentavano i due poli contrapposti del pensiero strategico allora dominante. Metcalfe, futuro governatore generale del Canada, puntava al consolidamento dei territori e delle frontiere attuali della Compagnia, mentre Malcolm, come Ellenborough a Londra, riteneva necessaria una politica di iniziativa.

Proprio allora il governo Wellington cadde, trascinando con sé Ellenborough, e salirono al potere i Whig. Temendo – senza motivo, come risultò poi – che il progetto dell’Indo fosse annullato, Malcolm sollecitò il tenente Burnes a partire al più presto. Burnes, assetato di avventura, non se lo fece dire due volte, e il 21 gennaio 1831 salpò dal Kutch, con un topografo, una piccola scorta, e i cinque cavalli per Ranjit Singh.

11
ENTRA IN SCENA «BURNES DI BUCHARA»

«Ahimè, ora il Sind è perduto» si racconta mormorasse un sant’uomo guardando passare sull’Indo il tenente Burnes e la sua squadra. «Gli inglesi hanno visto il fiume, che è la strada per sottometterci». A questo timore fece eco un soldato che disse a Burnes: «Il danno è fatto. Avete visto il nostro paese». Come aveva pronosticato Metcalfe, nessuno fu tratto in inganno circa il vero scopo della spedizione, e in un primo tempo i sospettosi emiri osteggiarono il passaggio nei loro domini del battello della Compagnia con il suo bizzarro carico. Alla fine però, sotto la minaccia di gravi conseguenze se avessero trattenuto i doni destinati a Ranjit Singh, e addolciti a loro volta con qualche regalo, si rassegnarono a lasciarlo procedere. A parte alcuni spari a casaccio dalle rive del fiume, la squadra non ebbe altri guai nel suo lento viaggio verso nord, sebbene gli emiri declinassero ogni responsabilità in merito alla sua sicurezza.

Operando il più possibile di notte per non suscitare l’ostilità dei locali, Burnes e i suoi raggiunsero Lahore cinque mesi dopo aver imboccato la foce dell’Indo. Così, oltre a delineare una carta nautica del fiume, con scandagli delle sue melmose profondità, ne constatarono la navigabilità fino a quel punto, mille chilometri dalla costa, sia pure soltanto da imbarcazioni a fondo piatto come la loro. Là, previo consenso di Ranjit Singh, le merci britanniche avrebbero potuto essere scaricate e trasportate via terra in Afghanistan e attraverso l’Oxus ai mercati del Turkestan.

I cinque cavalli, miracolosamente sopravvissuti al caldo e agli altri disagi del lungo viaggio, provocarono sensazione fra i dignitari di corte mandati alla frontiera per farli entrare nel Punjab. «Per la prima volta» dice Burnes «si vedevano cavalli da tiro capaci di galoppare, andare all’ambio e compiere tutte le evoluzioni che sanno fare animali più agili». Nuovo stupore suscitò l’esame degli zoccoli massicci, quando si scoprì che i ferri pesavano il quadruplo di quelli dei cavalli locali. Uno di questi ferri fu subito spedito a Lahore, «insieme alle minuziose misurazioni di ciascun animale, per speciale informazione di Ranjit Singh». Anche la carrozza, con la sua fodera di velluto azzurro, scatenò grande ammirazione e, trainata dai cinque immensi cavalli («piccoli elefanti», li battezzarono gli indigeni), si mise in cammino per la capitale.

Una splendida accoglienza attendeva Burnes a Lahore, perché Ranjit Singh era tanto desideroso di mantenere rapporti cordiali con gli inglesi quanto lo erano questi di tenersi buono il potente vicino sikh. A Calcutta si riteneva che il suo esercito bene addestrato ed equipaggiato avrebbe potuto dare del filo da torcere alle forze della Compagnia, sebbene nessuna delle due parti avesse voglia di fare l’esperimento. La sola causa di preoccupazione a Londra e a Calcutta era la salute di Ranjit Singh, e l’inevitabile lotta per il potere che sarebbe seguita alla sua morte. Uno dei compiti di Burnes era appunto di riferire sulle prospettive di vita del monarca, e sugli umori politici del regno.

«Passammo lungo le mura della città,» scrisse in seguito «ed entrammo a Lahore dal portone del palazzo. Ai lati delle strade erano schierati cavalleggeri, artiglieri e fanti, che presentarono le armi al nostro passaggio. Si radunò una folla immensa, per lo più sui balconi delle case e in rispettoso silenzio». Attraverso il cortile esterno della reggia Burnes e i suoi furono guidati all’ingresso principale della sala del trono. «Mentre mi chinavo per togliermi le scarpe, mi trovai d’improvviso stretto nell’abbraccio di un uomo minuscolo, d’aspetto senile». Burnes si accorse con meraviglia che si trattava del potente Ranjit Singh in persona, che gli era venuto incontro per salutarlo – un onore senza precedenti. Il maragià lo condusse per mano dentro la sala, e lo fece sedere su una poltrona d’argento davanti al trono.

Burnes gli presentò una lettera di Lord Ellenborough. Sigillata in una busta di stoffa intessuta d’oro, con lo stemma reale britannico, la lettera trasmetteva al sovrano sikh un messaggio personale di Guglielmo IV. Ranjit ordinò che fosse letta ad alta voce. «Il Re» scriveva Lord Ellenborough «mi ha espressamente comandato di comunicare a Vostra Altezza la sincera soddisfazione di Sua Maestà per la buona intesa esistente da tanti anni, che Dio la preservi in perpetuo, tra il Governo britannico e Vostra Altezza». Prima ancora che la lettura fosse terminata, Ranjit Singh, compiaciuto, ordinò che una tonante salva d’artiglieria – ventuno spari di sessanta cannoni – rendesse nota la sua soddisfazione al popolo di Lahore.

Poi, con Burnes al fianco, il maragià andò a vedere i cinque cavalli, che aspettavano pazienti fuori al caldo insieme alla nuova carrozza di gala. Palesemente soddisfatto per questo dono spettacolare del sovrano inglese, rivolse esclamazioni eccitate ai suoi dignitari mentre i cavalli gli sfilavano davanti a uno a uno. La mattina seguente Burnes fu invitato da Ranjit a passarne in rassegna le truppe, cinque reggimenti di fanteria allineati, in uniformi bianche con cartuccere nere a tracolla e armati di moschetti di fabbricazione locale. I reggimenti si esibirono per gli ospiti in manovre «di una precisione pari a quella delle nostre truppe indiane». Ranjit rivolse a Burnes molte domande su cose militari, e in particolare volle sapere come le truppe inglesi se la cavavano contro l’artiglieria.

Burnes e compagni rimasero per quasi due mesi ospiti di Ranjit. Presenziarono a innumerevoli parate militari, banchetti e altri trattenimenti, fra cui lunghe sedute passate a sorbire con Ranjit un’«infernale bevanda» tipica del posto, che questi amava molto. Si esibì anche una troupe di quaranta danzatrici kashmire, tutte in vesti maschili, cui il monocolo principe (aveva perso un occhio per il vaiolo) sembrava parimenti affezionato. «Questo è uno dei miei reggimenti,» confidò a Burnes con un ammicco «ma mi dicono che è il solo in cui non riesco a mantenere la disciplina». Finita la danza, le ballerine, tutte di singolare bellezza, furono spedite via in groppa a degli elefanti, con sommo rincrescimento del giovane Burnes, il quale aveva anche lui un debole per le belle ragazze indigene.

Vi fu altresì tempo in abbondanza per le discussioni serie su questioni politiche e commerciali, che erano il vero scopo della visita. Burnes fu profondamente colpito dal vecchio e rugoso sikh, che nonostante la corporatura minuscola e l’aspetto poco attraente si era guadagnato per tanto tempo il rispetto e la fedeltà dei sudditi guerrieri, tutti parecchio più alti di lui. «La natura» scrisse «è stata davvero parca di doni con questo personaggio. Ha perso un occhio, è butterato dal vaiolo, e la sua statura non supera i cinque piedi e tre pollici». Ranjit tuttavia richiamava istantaneamente l’attenzione di tutti coloro che aveva intorno. «Nessuno si azzardava a parlare senza un suo cenno, sebbene l’adunanza somigliasse più a un bazar che alla corte del maggior principe indigeno dei nostri tempi».

Come tutti i sovrani asiatici poteva essere spietato, ma affermava di non aver mai giustiziato nessuno durante il suo lungo regno. «Le due grandi armi della sua diplomazia sono l’astuzia e la conciliazione». Ma per quanto ancora sarebbe rimasto al potere? «È probabile che questo capo non duri a lungo. Il petto è incavato, la schiena curva, le membra rinsecchite». Le sue bevute notturne sarebbero state eccessive per chiunque; tuttavia la sua bevanda favorita – «più ardente del più forte dei brandy» – non sembrava fargli male. Visse altri otto anni: con grande sollievo dei direttori della Compagnia, che lo consideravano un elemento essenziale delle difese esterne dell’India, e un formidabile alleato contro un eventuale invasore russo.

Finalmente, nell’agosto 1831, Burnes e i suoi compagni, carichi di doni e di complimenti, rientrarono in territorio britannico, dirigendosi alla cittadina di Ludhiana, il presidio più avanzato della Compagnia nell’India nord-occidentale. Là Burnes ebbe un breve incontro con un uomo la cui sorte sarebbe stata strettamente legata alla sua: Shah Shujah, sovrano esule dell’Afghanistan, che sognava di riconquistare il trono perduto rovesciandone l’attuale occupante, il temibile Dost Mohammed. A Burnes quell’uomo dall’aria malinconica, che già tendeva alla pinguedine, non fece buona impressione. «Da quanto mi risulta,» commentò «non credo che Shah Shujah abbia sufficiente energia per insediarsi sul trono di Kabul»; né pareva dotato delle qualità individuali e dell’acume politico necessari a riunificare una nazione turbolenta come quella afgana.

Una settimana dopo Burnes raggiunse Simla, capitale estiva del governo d’India, dove riferì al governatore generale Lord William Bentinck circa i risultati della missione. Aveva accertato che l’Indo era navigabile verso nord fino a Lahore con imbarcazioni a fondo piatto, da guerra o da carico. Di conseguenza si decise di procedere con i piani per l’apertura al trasporto di quella grande via d’acqua, in modo che le merci britanniche potessero infine competere con quelle russe nel Turkestan e in altre parti nell’Asia centrale. Bentinck spedì Henry Pottinger, ora colonnello al servizio del protettorato, ad avviare trattative con gli emiri del Sind per il passaggio delle merci nei loro territori. Con Ranjit Singh non ci sarebbero stati problemi: oltre a essere amico degli inglesi, avrebbe tratto beneficio da questo commercio di transito. Tutti i superiori di Burnes furono molto contenti dei risultati della sua prima missione, ma nessuno più del governatore generale, che lo aveva scelto su indicazione di Malcolm, e che lo lodò per «lo zelo, la diligenza e l’intelligenza» con cui aveva eseguito il delicato incarico. A ventisei anni, Burnes era già avviato a una splendida carriera.

Conquistata la fiducia del governatore generale, Burnes avanzò ora di sua iniziativa l’idea di una seconda missione, più complessa: perlustrare le vie per l’India, finora mai tracciate su una mappa, che stavano a nord di quelle esplorate da Arthur Conolly l’anno precedente. Intendeva recarsi innanzitutto a Kabul, per cercare di stabilire rapporti amichevoli con Dost Mohammed, il grande rivale di Ranjit Singh, e di valutare al tempo stesso la consistenza ed efficienza delle forze armate e la vulnerabilità della capitale. Da Kabul, traversando i passi dell’Hindu Kush e il fiume Oxus, avrebbe raggiunto con scopi analoghi Buchara, per poi tornare in India attraverso il Caspio e la Persia, con una massa di informazioni militari e politiche. Era un progetto molto ambizioso: i più si sarebbero accontentati di una sola delle due mete, Kabul o Buchara.

Burnes si aspettava che la proposta incontrasse una forte opposizione, non da ultimo a causa del suo grado subalterno e dell’estrema problematicità delle regioni in questione. Fu perciò una lieta sorpresa l’annuncio di Bentinck, nel dicembre 1831, che l’iniziativa era stata approvata. Burnes non tardò a scoprire perché. A Londra il nuovo governo whig guidato da Charles Grey cominciava a preoccuparsi, non meno dei Tory, per la crescente forza e influenza della Russia in Europa e in Asia. «Il governo, preoccupato per i disegni della Russia,» scrisse Burnes alla sorella «desiderava che un ufficiale intelligente fosse mandato ad acquisire informazioni nei paesi confinanti con l’Oxus e il Caspio… e io, senza sapere niente di tutto questo, mi ero offerto volontario per fare esattamente ciò che volevano».

Burnes intraprese subito i preparativi del viaggio, a cominciare dalla scelta dei compagni adatti: un inglese e due indiani. Il primo era un medico militare dell’esercito del Bengala di nome James Gerard, un ufficiale col gusto per l’avventura che aveva già viaggiato nelle regioni himalayane. Uno dei due indiani era un kashmiro intelligente e istruito di nome Mohan Lal. Parlava parecchie lingue, il che sarebbe tornato utile per adeguarsi alle sottigliezze dell’etichetta orientale; e avrebbe avuto anche il compito di registrare molte delle informazioni raccolte dalla missione. L’altro era un esperto topografo della Compagnia di nome Mohammed Ali, e aveva già accompagnato Burnes nell’esplorazione dell’Indo dando prova di grandi capacità. Inoltre Burnes portò con sé un servitore personale, che era con lui fin quasi dal suo arrivo in India undici anni prima.

Il 17 marzo 1832 la comitiva attraversò l’Indo ad Attock, volgendo le spalle al Punjab, dove aveva goduto dell’ospitalità e della protezione di Ranjit Singh, e si preparò a entrare in Afghanistan. «Fu ora necessario spogliarci di quasi tutto ciò che ci apparteneva,» scrisse Burnes in seguito «e abbandonare gran parte delle abitudini e usanze che erano divenute la nostra seconda natura». Lasciati gli abiti europei si vestirono all’afgana, rasandosi il capo e coprendolo col turbante. Sopra le lunghe vesti fluenti portavano una fascia da cui pendevano le spade. Non fecero però alcun tentativo di nascondere le proprie origini, dichiarandosi europei di ritorno in patria, in Gran Bretagna, via terra. Scopo dell’abbigliamento era non dare troppo nell’occhio. «Adottai questa decisione» spiegò Burnes «disperando che potessimo passare per indigeni, e sapendo che nessun viaggiatore europeo ha mai percorso quei paesi senza destare sospetti, e di rado senza essere scoperto».

Il pericolo maggiore, a suo avviso, erano le rapine: per questo il piccolo tesoro della spedizione venne suddiviso in modo che ciascuno nascondesse su di sé la propria parte. «Una lettera di credito per cinquemila rupie era legata al mio braccio sinistro, al modo in cui gli asiatici portano gli amuleti»; il passaporto e le lettere di presentazione erano attaccati all’altro braccio, e una borsa di monete d’oro era appesa a una cintura sotto la veste. Si stabilì anche che Gerard non dispensasse medicinali gratuitamente, per non dare l’impressione che i viaggiatori fossero ricchi. In Afghanistan, dove tutti giravano armati e non vedevano l’ora di mettere le mani sui beni degli stranieri, bisognava stare di continuo all’erta.

Dal momento che, stando a una soffiata, tentare il passo Khyber avrebbe rappresentato un rischio quasi certamente mortale, furono costretti ad attraversare i monti per una via più lunga e tortuosa. Dopo essere passati felicemente per Jalalabad, imboccarono la grande carovaniera verso ovest, in direzione di Kabul. Tutt’intorno si levavano monti coperti di neve, e in lontananza si vedevano le cime possenti dell’Hindu Kush. Incontrarono meno difficoltà del previsto, e in una notte particolarmente gelida ottennero addirittura il permesso di dormire in una moschea, sebbene gli indigeni sapessero che erano infedeli. «Sembra che non abbiano alcun pregiudizio contro i cristiani» scrisse Burnes; in nessun luogo lui e Gerard dovettero preoccuparsi di nascondere l’appartenenza a un’altra religione, pur usando cautela e badando soprattutto a non recare offesa. «Quando mi chiedono se mangio carne di maiale faccio finta di rabbrividire e dico che solo i reietti commettono simili nefandezze. Dio mi perdoni! Io adoro la pancetta, e solo a nominarla mi viene l’acquolina in bocca».

Il 30 aprile, a mezzanotte, raggiunsero il passo che scendeva a Kabul, e il pomeriggio seguente entrarono in città, andando innanzitutto alla dogana. Qui si allarmarono vedendo che i loro bagagli venivano perquisiti, cosa che non avevano preventivato. Ma per fortuna il controllo non fu meticoloso. «Il mio sestante e i miei libri, insieme a qualche boccetta e agli strumenti del dottore, furono esposti solennemente all’ispezione dei cittadini» racconta Burnes. «Non subirono danni, ma, dopo l’esibizione di questi arnesi incomprensibili, si decretò senza dubbio alcuno che fossimo stregoni».

Sei settimane dopo aver varcato l’Indo avevano raggiunto la prima meta. Era qui, nella roccaforte di Dost Mohammed, che la missione entrava davvero nel vivo. Una volta giunta al termine, sei mesi più tardi, essa avrebbe guadagnato a Burnes un plauso simile a quello ottenuto settantacinque anni dopo dalle gesta di Lawrence d’Arabia.

Il nome di Alexander Burnes sarà sempre associato a Buchara, ma è a Kabul che appartiene in realtà. È infatti con la capitale afgana e il suo signore che il suo destino si sarebbe fatalmente intrecciato. Nel corso di questa prima visita, nella primavera del 1832, Burnes si innamorò della città, e la paragonò al paradiso. I molti giardini, che abbondavano di alberi da frutto e di uccelli canori, gli ricordavano l’Inghilterra. «Vi erano pesche, susine, albicocche, pere, mele, mele cotogne, ciliegie, noci, more, melagrane, viti, e crescevano tutte in uno stesso giardino. Vi erano anche usignoli, merli, tordi, colombi… e gazze chiacchierine quasi su ogni albero». Il canto degli usignoli lo affascinò al punto che più tardi un amico afgano gliene fece mandare uno in India. Battezzato «l’usignolo dei mille racconti», cantava tutta la notte così forte che Burnes dovette trasferirlo a ragionevole distanza dalle sue orecchie per poter dormire.

Burnes e Dost Mohammed andarono d’accordo sin dall’inizio. L’inglese, che ribadì di essere diretto in patria passando per Kabul e Buchara, aveva portato con sé buone lettere di presentazione, e presto fu invitato alla reggia situata all’interno della Bala Hisar, la grande cittadella murata sovrastante la capitale. A differenza del suo vicino e nemico Ranjit Singh, Dost Mohammed era uomo di gusti sorprendentemente semplici, e lui e Burnes sedettero insieme a gambe incrociate su un tappeto in una stanza altrimenti priva di mobili.

Come tutti i principi afgani, Dost Mohammed era stato istruito sin dall’infanzia nelle arti dell’intrigo e del tradimento. A ciò si aggiungeva un talento naturale, ereditato dalla madre persiana, per le sottigliezze. Tali doti gli avevano consentito di avere la meglio sui numerosi fratelli maggiori nella lotta per la sovranità di Kabul dopo la cacciata di Shah Shujah, ora in esilio a Ludhiana, e di impadronirsi infine del trono nel 1826. Non sapeva né leggere né scrivere, ma si era subito impegnato per rimediare a questa lacuna e per ripristinare l’ordine e la prosperità nei suoi nuovi domini. Burnes e i compagni furono molto impressionati da quanto il principe era riuscito a realizzare in sei anni in quel turbolento paese.

«Di Dost Mohammed» riferì Burnes «un viaggiatore sente parlar bene già prima di entrare nel paese, e nessuno più di lui merita la buona reputazione che si è guadagnato. L’equità di questo principe è oggetto costante di lode presso tutte le classi sociali. Il contadino si rallegra per l’assenza di tirannia, il cittadino per la sicurezza della sua casa e i rigorosi regolamenti municipali, il mercante per l’imparzialità delle decisioni e la tutela dei propri averi». Per un sovrano, concludeva Burnes, non poteva esservi elogio maggiore. Ma Mohan Lal, il giovane kashmiro del gruppo, era meno convinto della benevolenza del principe, e più tardi osservò che questi, se era «prudente e saggio nel governo, e un abile comandante sul campo», si mostrava non meno abile nelle arti «del doppio gioco, della crudeltà, dell’omicidio e della menzogna».

Dando il benvenuto a Burnes in occasione del loro primo incontro, Dost Mohammed dichiarò che, pur conoscendo poco gli inglesi, aveva sentito buone cose su di loro e sul loro paese. Poiché da tempo desiderava farsi un’idea del mondo esterno e di come funzionasse, tempestò Burnes di domande. Voleva sapere tutto sull’Europa, quanti re vi fossero e come impedissero ai re vicini di spodestarli. Le domande furono così numerose e varie che Burnes perse ben presto il filo; si discusse di leggi, di riscossione dei tributi, del modo in cui le nazioni europee radunavano i propri eserciti (Mohammed aveva sentito dire che i russi ricorrevano alla coscrizione), perfino degli ospizi per i trovatelli. Il principe chiese anche se gli inglesi avessero mire sull’Afghanistan, e nel porre questa domanda guardò Burnes dritto negli occhi. Poiché sapeva che Ranjit Singh impiegava ufficiali europei per addestrare e ammodernare l’esercito, offrì a Burnes, del quale conosceva il ruolo di ufficiale della Compagnia, il comando della propria armata, promettendo di mettergli a disposizione «dodicimila cavalleggeri e venti cannoni»; e quando Burnes declinò garbatamente questo onore, lo invitò a raccomandare in sua vece un collega.

Dost Mohammed non nascose la sua avversione per il potente e arrogante vicino sikh, e si offrì di aiutare gli inglesi a rovesciarlo. Era un’offerta imbarazzante, perché la caduta di Ranjit era l’ultima cosa che Londra e Calcutta avessero in mente; a preoccuparle non erano i sikh, bensì i turbolenti afgani, che settantacinque anni prima erano calati giù dal passo Khyber, avevano saccheggiato Delhi ed erano tornati trionfanti in patria con tutti i tesori che erano riusciti a portar via. Ringraziando Dost Mohammed per l’offerta, Burnes replicò che il suo governo aveva un trattato di vecchia data con Ranjit e non poteva permettersi di litigare con un vicino così potente. In qualità di ufficiale del protettorato indiano, Burnes sapeva che su quella frontiera, la più vulnerabile, Calcutta voleva avere non già due rivali in guerra tra loro, bensì due alleati forti e stabili, entrambi amici della Gran Bretagna, che servissero da scudo contro un’invasione. Del resto, lui stesso era stato mandato lì a sondare le simpatie di quei principi, non a tentare di riconciliarli. Questo era un problema da affrontare in seguito, come in seguito andava affrontata l’altra questione cruciale: quale dei vari pretendenti al trono di un Afghanistan unito la Gran Bretagna avrebbe dovuto appoggiare. Conolly aveva spezzato una lancia in favore di Kamran Shah, se non altro perché era vitale che Herat non cadesse in mani persiane (e quindi, in sostanza, russe). Burnes non aveva dubbi circa il proprio candidato: Dost Mohammed era il solo uomo capace di unificare quella nazione bellicosa, e la Gran Bretagna doveva corteggiarlo e adoperarsi perché restasse saldamente sul trono.

Burnes e i suoi si sarebbero volentieri trattenuti ancora a lungo in quella deliziosa città, a sorseggiare tè e a chiacchierare con gli amici afgani, ma il viaggio a Buchara li attendeva. Dopo un ultimo incontro con Dost Mohammed, che si protrasse molto oltre la mezzanotte, partirono diretti a nord verso i passi dell’Hindu Kush, di là dai quali si trovavano Balkh, l’Oxus e da ultimo Buchara. Una volta usciti dai territori di Dost Mohammed, si videro costretti ad affrontare il tratto più pericoloso del viaggio, avendo ben presente la sorte toccata appena sette anni prima a Moorcroft e ai suoi due compagni. Perciò quando raggiunsero Balkh, città ormai priva dell’antico splendore, vollero rintracciare le tombe solitarie di quegli uomini e rendere loro omaggio.

Riuscirono a localizzare dapprima, in un villaggio distante parecchie miglia, quella di George Trebeck, l’ultimo del gruppo di Moorcroft a morire. Giaceva, anonima, sotto un gelso. «Dopo aver dato sepoltura ai due colleghi europei,» scrive Burnes «perì in giovane età, sopraffatto da quattro mesi di sofferenze, in una terra lontana, senza un amico, senza assistenza e senza conforto». Trovarono infine le tombe di Moorcroft e Guthrie, l’una accanto al-l’altra sotto un muro di argilla fuori Balkh. Poiché erano cristiani, i locali avevano imposto che fossero sepolti senza lapidi di alcun genere. Era una chiara notte di luna, e Burnes si commosse; per Moorcroft, come per tutti i protagonisti del Grande Gioco, nutriva profondo rispetto. «La scena, nel cuore della notte, predisponeva alle riflessioni malinconiche» scrisse Burnes. «L’intero gruppetto di uomini, sepolti entro dodici miglia l’uno dall’altro, non era certo di incoraggiamento per noi, che percorrevamo la stessa strada per ragioni assai simili».

Ma non c’era tempo per le commiserazioni. Avevano raggiunto felicemente l’Oxus, e c’erano importanti indagini da compiere con discrezione su quel grande fiume: si temeva infatti che, risalendolo, una forza d’invasione russa potesse approdare dal Lago d’Aral a Balkh. Nel suo libro Burnes non dice come lui e i compagni svolsero questo compito nei cinque giorni trascorsi nella regione, e descrive invece la ricerca di monete e reperti tra le rovine dell’antica Balkh. Solo leggendone i rapporti segreti ai superiori, oggi conservati in sbiadite trascrizioni nell’archivio dell’India Office di Londra, ci rendiamo conto di quanto si fossero adoperati per raccogliere informazioni sulla navigabilità del fiume, sulla disponibilità di vettovaglie nella regione e su altri fattori strategici. Completato questo lavoro, intrapresero la fase finale del viaggio, ossia l’ardua traversata di dieci giorni nel deserto fino a Buchara, per poi unirsi a una grossa carovana bene armata. Sebbene fossero ormai nominalmente nei domini dell’emiro di Buchara, sapevano che sussisteva il rischio di essere catturati dai turkmeni a caccia di schiavi, e di finire in catene sul mercato della città. Ma a parte una febbre misteriosa che afflisse Burnes e i compagni, rammentando loro sgradevolmente la sorte dei tre predecessori, il viaggio si svolse senza intoppi.

Nell’avvicinarsi a Buchara, Burnes fece pervenire al Kush Begi, o gran visir, una lettera colma di blandizie orientali, nella quale esprimeva il desiderio di ammirare le glorie leggendarie della città santa. L’uso generoso di frasi che definivano il visir «Torre dell’Islam» e «Gemma della Fede» piacque evidentemente al destinatario, perché un messaggero venne a comunicare che i visitatori erano i benvenuti. Ancora deboli per la malattia, Burnes e Gerard, insieme ai compagni indiani, varcarono finalmente le porte della città la mattina del 27 giugno 1832, sei mesi dopo la partenza da Delhi. Quel giorno stesso, Burnes fu convocato dinanzi al gran visir nel palazzo dell’emiro, all’interno della famosa Ark, o cittadella, di Buchara, distante circa due miglia dal suo alloggio. Burnes, vestito alla foggia locale, vi si recò a piedi, essendo rigorosamente vietato a tutti i non musulmani cavalcare in città. Andò solo, perché Gerard stava ancora troppo male per accompagnarlo.

Il colloquio con il Kush Begi, un vecchio rinsecchito con due occhietti scaltri e una lunga barba grigia, cominciò con un interrogatorio che durò due ore. Il visir volle sapere anzitutto perché Burnes e i suoi compagni fossero venuti in un regno tanto lontano dal loro. Burnes spiegò, al solito, che stavano tornando in Gran Bretagna via terra, e desideravano riportare in patria notizia degli splendori di Buchara, celebrati in tutto l’Oriente. «Qual è» gli chiese quindi il visir «la vostra professione?». Burnes esitò un attimo prima di confessare che era un ufficiale dell’esercito indiano; ma avrebbe potuto fare a meno di preoccuparsi, perché la risposta non parve turbare affatto l’interlocutore. Questi si mostrò più interessato alle sue convinzioni religiose, e gli chiese se credeva in Dio, e poi se adorava qualche divinità particolare. Burnes negò con veemenza quest’ultima ipotesi, al che fu invitato a denudare il petto per dimostrare che non portava un crocifisso. Constatato che non lo portava, il visir dichiarò con approvazione: «Voi appartenete alla gente del Libro. Siete meglio dei russi». Domandò quindi se i cristiani mangiavano carne di maiale, domanda a cui Burnes sapeva di dover rispondere con cautela. Alcuni sì, disse, ma soprattutto i poveri. «Che sapore ha?» chiese allora il ministro. «Ho sentito dire » rispose prontamente Burnes «che somiglia al manzo».

Ben presto, tuttavia, come sempre gli accadeva con gli asiatici, Burnes stabilì un ottimo rapporto con il visir, per il quale egli era evidentemente fonte di gustose notizie sul sofisticato mondo esterno. L’amicizia gli costò una delle sue due bussole, ma questo dono procurò a lui e ai compagni la facoltà di girare a piacere per la città e di osservarne la vita quotidiana. Videro il sinistro minareto dal quale venivano precipitati i criminali, e visitarono la piazza davanti alla cittadella dove con un coltellaccio si eseguivano le decapitazioni. Burnes andò al mercato degli schiavi. «Qui gli sventurati messi in vendita» riferì in seguito «occupano trenta o quaranta chioschi dove vengono esaminati come bestie». Quella mattina ce n’erano solo sei, nessuno dei quali russo. «I sentimenti di un europeo si ribellano a questo traffico odioso»; al contrario, gli abitanti di Buchara lo difendevano sostenendo che gli schiavi erano trattati bene, e spesso se la passavano molto meglio che a casa loro.

Burnes aveva timidamente avanzato la richiesta di incontrare uno dei circa centotrenta schiavi russi presenti a Buchara. Una sera, pochi giorni dopo, un uomo di evidente origine europea scivolò nel suo alloggio e gli si gettò ai piedi. Raccontò di essere stato catturato dai turkmeni all’età di dieci anni, mentre dormiva in un avamposto russo. Era schiavo da quindici anni, e lavorava per il padrone come falegname. Veniva trattato bene, e poteva andare dove voleva; ma per prudenza si fingeva convertito all’Islam, anche se in segreto era ancora cristiano («e a questo punto» dice Burnes «il poveretto si fece il segno della croce»), perché, spiegò, viveva tra gente che detestava profondamente tutti gli individui di questa fede. Accommiatandosi dagli inglesi, dopo averne condiviso il pasto, disse: «Forse ho l’aria di essere soddisfatto del mio stato, ma il mio cuore agogna la terra natia. Se potessi rivederla ancora una volta, morirei contento».

Si trovavano ormai a Buchara da un mese e le loro indagini erano state ultimate. Burnes contava di raggiungere Chiva e di là tornare in patria attraverso la Persia; ma il visir lo sconsigliò vivamente, dicendo che la regione circostante era in subbuglio e pericolosissima. Alla fine Burnes rinunciò e decise di recarsi direttamente in Persia, passando per Merv e Astrabad. Ottenne dal visir un firmano col sigillo personale dell’emiro, che ordinava a tutte le autorità di Buchara di assistere in ogni modo i viaggiatori; il visir tuttavia lo avvertì che, una volta fuori dai domini dell’emiro, si sarebbero trovati, fino alla frontiera persiana, in un territorio insidioso, e non si sarebbero dovuti fidare di nessuno. Per ragioni che non spiegò, il visir non aveva mai permesso che incontrassero l’emiro. Forse l’aveva fatto nel loro stesso interesse: sul trono di Buchara sedeva da poco l’uomo che avrebbe messo brutalmente a morte i due ufficiali britannici arrivati là dopo di loro. Al momento del commiato, il visir chiese ai partenti di pregare per lui, una volta giunti sani e salvi in patria, «perché sono vecchio». Ah sì, un’altra cosa: se Burnes tornava a Buchara, sarebbe stato così gentile da portargli un buon paio di occhiali inglesi?

Dopo numerose avventure e disavventure su cui, per ragioni di spazio, non ci è consentito soffermarci, Burnes e compagni raggiunsero per mare Bombay, dal Golfo Persico, il 18 gennaio 1833. Là appresero che durante i loro tredici mesi di assenza erano accadute molte cose che avevano portato a un ulteriore peggioramento dei rapporti anglo-russi. Il 20 febbraio, proprio mentre Burnes arrivava a Calcutta per riferire al governatore generale circa i risultati della ricognizione nell’Asia centrale, una grossa flotta di navi da guerra russe gettò l’ancora al largo di Costantinopoli, causando sgomento a Londra e in India. Era l’ultimo anello di una catena di eventi cominciata nel 1831 in Egitto, allora teoricamente parte dell’impero ottomano, in seguito a una rivolta contro la sovranità del sultano. Dapprima era sembrato trattarsi di una questione puramente locale, ma ben presto gli eventi avevano preso una piega a dir poco inquietante. Artefice della ribellione era un vassallo dello stesso sultano, Mohammed Ali, di origine albanese, governatore dell’Egitto. Impadronitosi di Damasco e Aleppo col suo potente esercito, costui era penetrato in Anatolia e pareva deciso a marciare su Costantinopoli e a spodestare il sultano. Quest’ultimo aveva chiesto aiuto alla Gran Bretagna, ma Lord Palmerston, ministro degli Esteri, esitava ad agire da solo.

Più sollecito fu lo zar Nicola, che non aveva alcuna voglia di vedere l’attuale docile sovrano di Costantinopoli sostituito da una nuova dinastia aggressiva. Spedì subito Nikolaj Murav’ëv (l’eroe di Chiva, adesso generale) a offrire al sultano protezione contro l’esercito di Mohammed Ali. Dapprima il sultano temporeggiò, sperando ancora nell’aiuto inglese, che avrebbe di gran lunga preferito. Londra però continuò a non far nulla: Lord Palmerston era convinto che la Russia, alleata della Gran Bretagna, non avrebbe agito unilateralmente. Alla fine si lasciò persuadere dalle pressioni dei suoi uomini sul posto, che consideravano la crisi una minaccia per gli interessi inglesi nel Vicino Oriente e in India, ma decise a favore di una mediazione anziché dell’intervento. Era una decisione tardiva. Di fronte all’avanzata travolgente delle truppe di Mohammed Ali in direzione della capitale, il sultano non poté che accettare l’offerta di aiuto immediato da parte di Nicola.

La flotta russa arrivò al largo di Costantinopoli giusto in tempo, perché gli invasori erano ormai a meno di trecento chilometri di distanza. Il trono del sultano era comunque salvo. Consapevoli di non poter battere i russi e i turchi insieme, i comandanti di Mohammed Ali si fermarono, e venne concluso un accordo. Grazie all’indecisione britannica, Pietroburgo aveva potuto realizzare il sogno secolare di sbarcare le proprie truppe a Costantinopoli. Quest’ultima mossa russa fu subito vista a Calcutta come parte di un disegno grandioso avente quale meta ultima l’India; il mosaico sembrava sinistramente comporsi. Uomini del calibro di Wilson, Moorcroft, Kinneir e De Lacy Evans non apparivano più semplici allarmisti. Tale era dunque il clima quando Burnes arrivò a Calcutta. Non avrebbe potuto scegliere un momento migliore per il suo ritorno. Nel Grande Gioco si cominciava a fare sul serio.

Dopo aver presentato rapporto al governatore generale Lord William Bentinck, Burnes ebbe l’ordine di salpare subito alla volta di Londra per riferire al governo, al Consiglio di controllo e ad altre autorità circa la situazione nell’Asia centrale e la verosimiglianza di una minaccia russa all’India. Ricevette un’accoglienza inebriante per un giovane ufficiale subalterno, che culminò con un’udienza privata dal re, desideroso di sentir raccontare la storia direttamente da lui. Da un giorno all’altro Burnes diventò un eroe. La sua fortuna era fatta, anche dal punto di vista professionale. Oltre a essere promosso capitano, gli fu conferita, per il suo viaggio straordinario, la medaglia d’oro della Royal Geographical Society. E senza bisogno di candidarsi fu accolto come socio nell’Athenaeum, sacrario dell’élite letteraria e scientifica d’Inghilterra, mentre le padrone di casa e aspiranti suocere della buona società davano la caccia al giovane e ardimentoso ufficiale.

John Murray, il principale editore del tempo, non si lasciò sfuggire l’occasione e, senza pensarci due volte, acquistò da Burnes il racconto del suo viaggio. Uscito col titolo Travels into Bokhara, il libro fu stampato di gran carriera per battere sul tempo quello di Arthur Conolly, che apparve alcuni mesi dopo, e l’opera postuma di Moorcroft, la cui pubblicazione tardò altri sette anni. L’epopea di Burnes, in tre volumi, fece così conoscere per la prima volta al lettore il fascino romantico ed eccitante della misteriosa Asia centrale. Fu subito un successo; il primo giorno se ne vendettero novecento copie, un numero enorme per l’epoca. Purtroppo il dottor Gerard non poté godere di tutto questo successo. Era lontano, in India; e morì due anni dopo, in seguito alla malattia che lui e i compagni avevano contratto nel corso della marcia finale verso Buchara.

Ma pur fra tante lusinghe Burnes non perse di vista quello che era stato il vero obiettivo del viaggio. Oltre al libro, scritto in massima parte sulla nave che lo riportava in patria, redasse per i suoi superiori quattro rapporti, due della massima segretezza – uno militare e l’altro politico – e due meno delicati, sulla topografia e le prospettive commerciali della regione. Nel rapporto militare sostenne che la caduta di Kabul in mani russe sarebbe stata altrettanto pericolosa di quella di Herat. Da Balkh un esercito poteva raggiungere Kabul in un mese. I passi dell’Hindu Kush, dove il gelo aveva falciato le truppe di Alessandro Magno, non rappresentavano un ostacolo per un esercito moderno e bene equipaggiato. Gli afgani, per quanto feroci e coraggiosi nelle guerre tribali, non erano in grado di difendere a lungo Kabul contro un esercito russo risoluto. Una volta occupata Kabul, l’avanzata sull’India non presentava gravi difficoltà; all’invasore si aprivano varie vie possibili.

Quanto a raggiungere Balkh, le truppe potevano esser trasportate fin lì sull’Oxus con chiatte trainate da cavalli, «come su un canale». Il fiume, avevano accertato Burnes e i suoi, era perfettamente navigabile fino a quel punto. Le sue sponde erano basse e solide, e nella regione i cavalli abbondavano. Anche l’artiglieria poteva essere trasportata su chiatte, o trainata lungo le rive. Se la forza d’invasione fosse partita da Orenburg, anziché dalle sponde orientali del Caspio, non sarebbe stato nemmeno necessario occupare prima Chiva, e anche Buchara poteva essere evitata; entrambe le oasi tuttavia potevano fungere da fonti preziose di approvvigionamento, se si otteneva la collaborazione dei loro principi. Dato il pericolo che Kabul cadesse in mani russe, la Gran Bretagna doveva appoggiare Dost Mohammed anziché Kamran Shah come sovrano di un Afghanistan unificato. Dal rapporto di Burnes un’azione russa contro Kabul appariva molto facile; e lui, a differenza di Wilson, Kinneir e De Lacy Evans, era stato sul posto di persona.

Impaziente di tornare nella regione che gli aveva dato tanta notorietà, Burnes fece ora vigorose pressioni perché gli fosse consentito di installare una missione permanente a Kabul. Oltre a mantenere stretti e amichevoli rapporti con Dost Mohammed, e a sorvegliare eventuali movimenti russi a sud dell’Oxus, la missione avrebbe avuto lo scopo di aprire i mercati dell’Afghanistan e del Turkestan alle merci britanniche anziché a quelle russe. Se la Compagnia avesse utilizzato il fiume Indo, di cui Burnes aveva dimostrato la percorribilità, i prodotti britannici, meno costosi e di qualità superiore, avrebbero alla fine soppiantato quelli russi. Sulle prime la proposta di Burnes fu bocciata dai superiori, i quali temevano, come si espresse uno di loro, che la missione, a carattere prettamente commerciale, potesse «degenerare in un organismo politico». Ma il nuovo governatore generale, Lord Auckland, fu di parere diverso, e il 26 novembre 1836 Burnes venne rispedito a Kabul.

Come già era avvenuto con la sua precedente visita a Dost Mohammed e il suo soggiorno di un mese a Buchara, la cosa non passò inosservata a Pietroburgo. Da qualche tempo ormai, e con crescente preoccupazione, i russi tenevano d’occhio i movimenti dei viaggiatori inglesi nell’Asia centrale. Non solo le loro merci cominciavano a risentire della sempre più pressante concorrenza britannica, ma sembrava intensificarsi anche la rivalità politica. Il Grande Gioco non era più limitato ai canati dell’Asia centrale. Si era esteso al Caucaso, che i russi avevano finora considerato territorio di loro esclusiva competenza. Dalla Circassia, sulle sponde nord-orientali del Mar Nero, giungevano a Pietroburgo notizie di agenti britannici che operavano fra quelle tribù, rifornendole di armi e incitandole a resistere agli infedeli venuti a impadronirsi delle loro terre.

12
LA PIÙ GRANDE FORTEZZA DEL MONDO

La maggior parte della regione caucasica, Georgia e Armenia comprese, era ormai saldamente in mano allo zar Nicola e incorporata nell’impero russo, ma nelle montagne del Nord le tribù musulmane continuavano a opporre una fiera resistenza. Le due principali aree ancora indomite erano la Circassia a ovest e il Daghestan a est. Non più in guerra con i turchi o i persiani, i generali russi dedicarono adesso tutte le loro energie a sottomettere i bellicosi abitanti di quelle due roccaforti. L’impresa avrebbe richiesto molto più tempo del previsto, perché i ribelli diedero prova di grande attitudine alla guerriglia nei monti e nelle foreste. Trovarono inoltre un alleato inatteso.

David Urquhart, allora ventottenne, aveva maturato una fervida simpatia per i turchi in seguito alle sue esperienze di volontario nella guerra di indipendenza greca. Nel 1827, insieme a un’altra ottantina di inglesi, era andato in Grecia per contribuire a scacciarne i turchi, ma i greci lo avevano profondamente deluso. Aveva dunque finito col preferire i turchi, di cui ammirava, fra le altre qualità, l’indomito coraggio, arrivando a concepire un’avversione parimenti intensa per i russi, inveterati nemici degli ottomani. Educato in un’accademia militare francese e a Oxford, Urquhart possedeva anche notevoli doti di propagandista, che a quel punto decise di impiegare contro Pietroburgo, diventando il capofila dei russofobi inglesi. Aveva amici nelle più alte sfere della vita pubblica, a partire dal re, e per conto del governo svolse diverse missioni diplomatiche segrete nel Vicino Oriente. Fu durante una di queste, mentre era a Costantinopoli, che si trovò coinvolto nella causa circassa.

Non molto tempo prima, cessata la minaccia di Mohammed Ali al trono del sultano, i russi avevano acconsentito con riluttanza a ritirare la propria squadra navale da Costantinopoli, non senza però far pagare a caro prezzo alla Turchia il loro intervento. Con un trattato sottoscritto nell’estate del 1831 il paese era stato ridotto – almeno agli occhi di Urquhart e dei russofobi come lui – a poco più di un protettorato dello zar. Londra scoprì con allarme che una clausola segreta impegnava il sultano a chiudere i Dardanelli, su richiesta di Pietroburgo, a tutte le navi da guerra straniere eccetto quelle russe. In caso di conflitto, quindi, la potente flotta russa del Mar Nero avrebbe avuto diritto di passaggio esclusivo attraverso gli Stretti.

Palmerston, ministro degli Esteri britannico, andò su tutte le furie e indirizzò a Pietroburgo una vigorosa protesta. Cominciava a chiedersi se non sarebbe stato meglio avere sul trono di Costantinopoli il temibile Mohammed Ali, che aveva tentato approcci amichevoli verso la Gran Bretagna, anziché il remissivo sultano. La risposta di Pietroburgo non migliorò il suo umore: la Russia aveva fatto soltanto quel che avrebbero fatto anche gli inglesi, se non fossero stati battuti sul tempo. Palmerston bollò tale replica come «frivola insolenza», pur sapendo che si avvicinava sgradevolmente alla verità. Essa comunque contribuì al rapido deterioramento del clima fra le due potenze. La preoccupazione per le ambizioni di lungo periodo della Russia fu aggravata dalla notizia che Pietroburgo era impegnata in grandiosi progetti di ampliamento della propria flotta; la Royal Navy venne a sua volta incrementata in pari misura. Quella novità, però, che andava ad aggiungersi alle vittorie russe sulla Persia e sulla Turchia del 1828 e 1829, e al patto segreto sui Dardanelli, parve davvero di cattivo auspicio. In una simile atmosfera qualsiasi evento, anche di poco conto, non faceva che alimentare la causa dei russofobi.

Tale era il clima quando David Urquhart si schierò dalla parte dei circassi. Aveva stabilito un contatto con i loro capi nel 1834 durante il suo soggiorno a Costantinopoli, recandosi segretamente, primo fra i suoi compatrioti, nelle loro roccaforti montane. I capi circassi, gente impavida ma alla buona, furono molto impressionati da quel visitatore giunto dal grande mondo esterno in rappresentanza – o almeno così supposero – di una nazione potente come la Gran Bretagna per parlare in suo nome. Urquhart fu prodigo di incoraggiamenti e consigli, e i circassi lo pregarono di rimanere e di guidarli nella lotta contro i russi. Lui tuttavia rifiutò, dicendo che avrebbe meglio tutelato i loro interessi a Londra. Tornò in patria convinto che fosse dovere morale della Gran Bretagna impedire ai russi di sopraffare quel piccolo paese di montanari, che non minacciava nessuno e gli ricordava la natia Scozia. Londra, anche per il proprio tornaconto, doveva aiutare le tribù circasse a scacciare i russi da quella vitale testa di ponte da cui si potevano invadere la Turchia, la Persia e infine l’India. Non per nulla un generale russo aveva definito il Caucaso «la più grande fortezza del mondo».

Urquhart mantenne la parola data ai circassi, e dalla sua penna cominciò a sgorgare un torrente di articoli, opuscoli e materiali propagandistici a loro favore e contro tutto ciò che avesse a che fare con la Russia. L’anno seguente pubblicò un libro intitolato England and Russia, in cui denunciò le mire espansionistiche dello zar nel Vicino Oriente e nell’Asia centrale. La Turchia, pronosticava, sarebbe stata inghiottita per prima. «Tutto l’impero ottomano passerà di colpo da noi alla Russia, che sarà allora nostra aperta nemica. La forza, le armi, le frontiere, le fortezze, le ricchezze e le navi della Turchia, ora schierate contro la Russia, verranno rivolte contro di noi – e dalla Russia disciplinate, organizzate e dirette». Assoggettata la Turchia, sarebbe poi stata la volta della Persia, abitata da «un popolo numeroso, paziente e bellicoso, che la Russia può dominare e manovrare senza difficoltà e senza spesa». Circa il bersaglio predestinato Urquhart non aveva dubbi. Con il loro amore per il saccheggio, i persiani non avrebbero avuto bisogno di sollecitazioni, se il premio in palio fosse stato la favolosa ricchezza dell’India.

La Russia, concludeva, «sceglierà il momento opportuno… non può sbagliare i calcoli in un’impresa di siffatta importanza. Si muoverà quando sarà assolutamente certa del successo». Non erano concetti del tutto originali. Già Sir Robert Wilson aveva agitato lo spettro di una conquista dell’impero ottomano da parte delle armate russe, mentre l’idea che Pietroburgo si servisse dei persiani per invadere l’India era stata ventilata diciassette anni prima da Kinneir. Ma da allora molte cose erano cambiate. I moniti di Urquhart giungevano in un momento in cui i russi sembravano di nuovo in marcia. Oltre a potenziare la flotta, avevano grandemente rafforzato le posizioni nel Caucaso, base da cui sarebbero state quasi certamente lanciate eventuali, ulteriori avanzate in Turchia o in Persia. I sentimenti russofobi erano al loro culmine, e Urquhart trovò un vasto pubblico disposto ad ascoltarlo.

Con amici potenti quali Guglielmo IV, il sultano turco e Lord Ponsonby, allora ambasciatore britannico a Costantinopoli, non fu una sorpresa che gli venisse affidata, all’inizio del 1836, la carica di primo segretario di quella ambasciata. Ma Urquhart non era uomo da lasciare che il nuovo rango diplomatico lo distogliesse dall’attività antirussa – e dall’appoggio alla causa circassa –, e fu mentre si trovava in servizio a Costantinopoli che avvenne il celebre incidente della Vixen. A quel tempo i russi erano ben lontani dall’aver soggiogato la Circassia, ma vantavano diritti di sovranità sul suo territorio, acquisito per trattato dalla Turchia, e, col pretesto di isolare la regione per via di una pestilenza, avevano imposto un rigoroso blocco navale sulle sue coste del Mar Nero.

La Gran Bretagna non riconosceva tale sovranità, ma il governo non pareva crucciarsene più di tanto, visto che non aveva mai avanzato proteste sufficientemente energiche. Urquhart era indignato da quella che considerava l’acquiescenza di Palmerston agli sforzi di Pietroburgo per schiacciare i prodi circassi, e dalla sua mancanza di spina dorsale nella faccenda del blocco, che mirava a tenere le merci – ed eventualmente le armi – inglesi fuori dal Caucaso. Per forzare la mano al governo, Urquhart persuase una compagnia di navigazione inglese a mandare una goletta, la Vixen, da Costantinopoli al porto di Sudjuk Kale, all’estremità settentrionale della costa circassa, con un carico di sale. Era un atto deliberatamente provocatorio, inteso a vedere fin dove i russi erano disposti a spingersi per sostenere le loro pretese sulla Circassia. Se il vascello fosse stato intercettato, Urquhart sperava che lo sdegno dell’opinione pubblica in patria avrebbe costretto il governo a intervenire in difesa della propria marina mercantile; sarebbe stato necessario, per questo, mandare navi da guerra britanniche nel Mar Nero, sfidando così al tempo stesso il nuovo accordo segreto russo-turco circa i Dardanelli. Se invece i russi non avessero sequestrato la Vixen, voleva dire che, resistendo, li si poteva costringere a fare marcia indietro, e voleva dire anche che al sale si sarebbero potuti far seguire invii di armi per i circassi assediati.

Nel novembre 1836 la Vixen, lasciata Costantinopoli, si diresse a est attraverso il Mar Nero. La sua partenza non poteva sfuggire all’attenzione di Pietroburgo, perché gli amici giornalisti di Urquhart avevano provveduto a segnalarla ampiamente. Urquhart e i cospiratori suoi compagni, falchi dal primo all’ultimo, speravano che la nave fosse intercettata, ritenendo che solo un aperto confronto tra Londra e Pietroburgo potesse arrestare l’espansionismo russo. Le cose presero una piega promettente quando, nel porto di Sudjuk Kale, il capitano di un brigantino russo bloccò la Vixen, che era lì da due giorni a praticare i suoi commerci. La notizia del sequestro fu prontamente comunicata a Londra dai corrispondenti britannici di stanza a Costantinopoli, quasi tutti amici di Urquhart; e, come previsto, scatenò le ire della stampa e del pubblico, sebbene pochi inglesi avessero una pur vaga idea di dove si trovasse la Circassia. I giornali russofobi, temporaneamente a corto di munizioni, abboccarono subito all’esca di Urquhart. Mentre il «Times» rampognava il governo perché permetteva ai russi di «deridere la pusillanimità della Gran Bretagna», la «Edinburgh Review» esaminò le probabili conseguenze a lungo termine della crisi. «Una volta soggiogati i circassi,» dichiarò «il Caucaso è aperto, e la Persia sarà alla mercé di Pietroburgo… Vedremo così la frontiera della Russia avvicinarsi con un solo passo di milleduecento miglia alla nostra frontiera indiana».

Non meno adirato per il sequestro illegale della nave britannica era Palmerston; ebbe così inizio un acceso scambio di corrispondenza con Pietroburgo. Al tempo stesso, però, il ministro era in collera con Urquhart e quelli della sua cerchia, che sapeva essere dietro a tutta la vicenda. Aveva cercato di impedire la nomina di Urquhart a Costantinopoli, ma non era un segreto che questa aveva avuto l’appoggio personale del re, e i colleghi di governo erano passati sopra alla sua opposizione. Sentendosi ora pienamente giustificato, Palmerston si accinse subito a richiamare a Londra il reo prima che potesse fare altri danni alle relazioni anglo-russe. Frattanto, nella capitale turca, Urquhart e i suoi aspettavano con impazienza la risposta del governo al blocco e al sequestro della Vixen.

Fu in questo periodo che i russi cominciarono a denunciare la presenza di agenti britannici che operavano tra i circassi, rifornendoli di armi, consigliandoli e incoraggiandoli a resistere. Affermarono fra l’altro che sulla Vixen era stato trovato, oltre al sale, un carico di armi destinate alle tribù ribelli. Erano tanto preoccupati dei possibili effetti di tutto questo sul corso della guerra, che il comandante russo del Caucaso rivolse un monito ai circassi sospettati di ospitare gli stranieri nei loro covi di montagna. «Gli inglesi in mezzo a voi» dichiarò «sono soltanto avventurieri senza scrupoli», venuti non già per sostenere la causa circassa, bensì per consegnare la Circassia alla Gran Bretagna: andavano catturati senza indugio e uccisi. E ai circassi conveniva deporre saggiamente le armi, perché nessun paese aveva mai mosso guerra contro la Russia uscendone vincitore. «Non sapete che se i cieli cadessero, i russi potrebbero sorreggerli con le loro baionette?». Per le tribù circasse era molto meglio esser governate dallo zar che dal re d’Inghilterra. Se però avessero dato ascolto agli inglesi e scelto di resistere, non sarebbe stata colpa dei russi se le loro case e le loro valli fossero finite a ferro e fuoco, e le loro montagne «ridotte in polvere».

Come i russi scoprirono nel successivo quarto di secolo e più, non bastavano i discorsi magniloquenti per intimorire i circassi, che continuarono a resistere a lungo dopo che le altre popolazioni caucasiche si erano sottomesse. Ma su un punto il generale aveva ragione. In quel momento vi erano davvero degli inglesi che vivevano tra i circassi. Uno, James Longworth, era un inviato speciale del «Times», giornale schierato a favore dei circassi, venuto a vedere come procedeva la loro lotta di Davide contro Golia. Anche il suo compagno, James Bell, simpatizzava per i circassi; ed era stato lui, forse avventatamente, a prestare la Vixen per mettere in atto il piano. Incitato da Urquhart, aveva sfidato come Longworth i russi per testimoniare della guerra e tener desta l’attenzione in patria. Era altresì ansioso di scoprire che ne fosse stato della sua nave e del carico, e impaziente di recuperarla.

Durante i mesi che passarono con i mujaheddin, sotto il naso dei russi, i due uomini ebbero modo di constatare la straordinaria venerazione nutrita dai circassi per David Urquhart, che chiamavano Dauod Bey. Quando più di due anni prima era sbarcato sulle loro sponde, Urquhart li aveva trovati divisi e impreparati, e si era subito dedicato a creargli un’autorità centrale che ne organizzasse e coordinasse la resistenza. Aveva anche scritto per loro una formale dichiarazione di indipendenza, procurando che fosse ampiamente pubblicizzata in Europa. E Longworth e Bell non mancarono di offrire ai circassi incoraggiamento e consiglio mentre attendevano insieme a loro notizie sulla reazione del governo britannico al sequestro della Vixen e alle pretese di Pietroburgo sulla Circassia. Nel frattempo ebbero modo di assistere ad alcuni scontri, e Longworth ne inviò la cronaca al suo giornale, contribuendo così a mantenere vivo l’interesse del pubblico sulla causa circassa.

In un primo tempo, quando i combattimenti erano limitati alla regione di frontiera, i russi avevano tentato di schiacciare la resistenza usando la cavalleria cosacca. Ma, con secoli di guerre di montagna e foresta alle spalle e la perfetta conoscenza del terreno, i circassi si erano rivelati un osso molto duro; non meno abili e feroci dei cosacchi in battaglia, erano però meglio armati e provvisti di cavalcature più adatte. I comandanti russi furono costretti a cambiare tattica e a impiegare l’artiglieria in appoggio alla fanteria, con la cavalleria cosacca di guardia ai fianchi. In questo modo riuscirono pian piano ad avanzare, distruggendo sul loro cammino villaggi e raccolti.

Dopo una serie di assalti disastrosi contro i «quadrati» russi, assalti in cui, racconta Longworth, «i migliori e più valorosi guerrieri cadevano vittime della propria temerità», anche i circassi cambiarono strategia. Invece di attaccare i russi frontalmente, impararono ad attirarli in imboscate e trappole predisposte con astuzia, e a colpire d’improvviso sbucando dal nulla con le loro veloci cavalcature, per poi svanire altrettanto rapidamente. I russi allora adottarono proiettili a mitraglia, forma primitiva di shrapnel. «I loro cannoni,» lamentò un circasso con Longworth «invece della singola palla che ci fischiava sopra la testa… adesso ne vomitano diecimila almeno, che arrivano squarciando e fracassando ogni cosa intorno a noi». Se gli inglesi ci fornissero queste armi, perorò, le truppe russe «non saprebbero mantenere i ranghi meglio di noi, e una volta disperse, la nostra cavalleria ne farebbe scempio come prima».

La resistenza nel Caucaso, appresero gli inglesi, non era limitata alla Circassia. A est, nella regione caucasica rivolta al Caspio al di là dei monti, una lotta simile contro i russi era in corso nel Daghestan. A guidarla era un musulmano di straordinario carisma di nome Shamil, un genio della guerriglia. Questo conflitto – non solo per colpa della lontananza del Daghestan ma anche perché non vi erano né un Urquhart a pubblicizzarlo né un Longworth a descriverlo – era pressoché ignorato in Europa. Ma se qui non si sapeva nulla di Shamil, ben lo conoscevano i generali zaristi. Nessuna delle tattiche consuete sembrava efficace contro di lui. Ci vollero più di vent’anni di guerra ininterrotta per sconfiggerlo, e altri cinque per sottomettere le tribù circasse. La campagna fu costosissima per i russi, in termini di denaro e di vite umane, ma ispirò alcuni dei loro maggiori scrittori e poeti, tra cui Tolstoj, Puškin e Lermontov. Tutto questo era però di là da venire nel momento del quale ci stiamo occupando, con Longworth e Bell in attesa di sapere da Londra l’esito dell’affare Vixen.

La notizia che infine li raggiunse, sotto forma di un ritaglio del «Times», fu molto deludente. Il governo inglese evidentemente non voleva fare del sequestro della nave una questione capitale, e tantomeno rischiare una guerra con la Russia in proposito. Tra la rabbia dei russofobi, Palmerston aveva deciso che mentre la Circassia non apparteneva ai russi, il porto di Sudjuk Kale, dove era avvenuto il sequestro, era territorio loro. Frattanto Urquhart era stato richiamato a Londra e licenziato per il ruolo che aveva avuto nel confronto tra le due potenze, ufficialmente alleate. Non poteva più contare sull’appoggio di amici potenti che intercedessero per lui (il re Guglielmo IV era morto un mese prima del suo ritorno), ma reagì lanciando una campagna diffamatoria contro Palmerston, accusandolo di essersi lasciato comprare dall’oro russo. Cercò perfino, vanamente, di farlo incriminare per alto tradimento.

Il cedimento inglese causò profondo imbarazzo a Longworth e Bell, i quali, in buona fede, avevano assicurato ai loro anfitrioni che presto avrebbero goduto dell’appoggio della nazione più potente al mondo. La decisione di Palmerston fu un colpo anche più duro per Bell, che dovette dire addio alla speranza di recuperare la sua nave. I due si risolsero a tornare in Inghilterra, ma promisero ai circassi di continuare la lotta di là. Entrambi pubblicarono in effetti resoconti dettagliati delle loro avventure con i mujaheddin. Frattanto Urquhart, sventato da Palmerston il suo tentativo di provocare uno scontro fra Russia e Gran Bretagna, aveva ripreso con rinnovato ardore l’attività antirussa, organizzando fra l’altro l’invio clandestino di armi ai circassi. John Baddeley, in The Russian Conquest of the Caucasus, pubblicato nel 1908 e ormai divenuto un classico sull’argomento, attribuisce in gran parte «a questi sforzi» i loro successi. Accusa tuttavia Urquhart e i suoi collaboratori di aver in tal modo prolungato una guerra che i circassi non potevano vincere, e di aver alimentato in loro la fallace speranza di ricevere aiuto dalla Gran Bretagna.

Urquhart, entrato poi in Parlamento, continuò la sua campagna contro Palmerston, incluso il tentativo di farlo incriminare per tradimento, e si adoperò ad aizzare l’opinione pubblica contro i russi. Ma a poco a poco fu preso da altre cause, finché la cattiva salute non lo spinse a ritirarsi sulle Alpi svizzere. Era stato uno dei più accaniti russofobi del suo tempo e aveva fatto molto per sollevare gli animi contro Pietroburgo e approfondire il solco sempre più netto tra le due potenze. Gli storici sovietici attribuiscono in parte la responsabilità dei problemi odierni del Caucaso all’interferenza inglese nella regione, e sostengono perfino che Shamil era un agente britannico. Certo, la resistenza incontrata colà impegnò militarmente la Russia e agì per alcuni anni da freno alle sue ambizioni in altre zone. Grazie a Urquhart e al suo seguito il Caucaso era entrato a far parte del campo di battaglia del Grande Gioco.

Nonostante Urquhart sostenesse il contrario, Palmerston non era affatto succube di Pietroburgo. Condivideva la diffidenza di Urquhart circa le intenzioni della Russia, ma al momento non le riteneva una minaccia per gli interessi britannici. Lo rassicurava su questo punto Lord Durham, ambasciatore inglese a Pietroburgo. Durham era convinto che l’apparente forza militare della Russia avesse una valenza soltanto difensiva, e che lo zar Nicola non fosse nella condizione di indulgere a eventuali sogni espansionistici. Le avventure oltre confine richiedevano risorse enormi, che la Russia – come Durham sapeva dai suoi segreti contatti pietroburghesi – non possedeva affatto. «La potenza della Russia è stata enormemente sopravvalutata» scrisse nel marzo 1836, in uno dei più intelligenti dispacci mai ricevuti dal Foreign Office, a detta di Palmerston. «Non vi è un solo elemento di forza che non sia controbilanciato da una corrispondente… debolezza. In realtà la sua potenza è di carattere unicamente difensivo. Protetta dalla fortezza inespugnabile di cui l’ha dotata la natura – il clima e i deserti – la Russia è invincibile, come Napoleone ha scoperto a proprie spese».

Ma non tutti al Foreign Office erano altrettanto fiduciosi circa il fatto che la Russia non fosse in grado di agire aggressivamente. Fra coloro che condividevano i timori di Urquhart, pur non approvandone i metodi, vi erano Lord Ponsonby e Sir John McNeill, da poco nominato ministro a Teheran, che aveva viaggiato fino alla capitale ottomana insieme a Urquhart quando i due erano andati a occupare le rispettive sedi. McNeill, esperto di cose persiane, aveva già prestato servizio per alcuni anni a Teheran sotto Sir John Kinneir, e aveva visto l’influenza russa crescere in Persia a spese della Gran Bretagna. Su di lui i russi nutrivano forti sospetti, pur non disponendo della minima prova, che avesse avuto mano nella morte dello sventurato Griboedov quando la loro ambasciata era stata attaccata dalla folla otto anni prima. Uomo di capacità e ambizione notevoli, McNeill si era recato originariamente a Teheran in qualità di medico della legazione, ma aveva dimostrato ben presto di possedere grande acume politico.

In attesa di assumere l’incarico di ministro, aveva scritto un libro in cui passava in rassegna le acquisizioni territoriali russe in Europa e in Asia dal tempo di Pietro il Grande. Pubblicato nel 1836 (anonimo, su richiesta di Palmerston) col titolo The Progress and Present Position of Russia in the East, il volume conteneva l’analisi più lucida apparsa fino ad allora nella letteratura del Grande Gioco. All’interno, una grande mappa pieghevole mostrava l’ampiezza allarmante assunta dall’espansione russa nel secolo e mezzo precedente, mentre una tabella indicava gli aumenti di popolazione verificatisi con le annessioni e le altre acquisizioni. Complessivamente, dall’avvento di Pietro i sudditi dello zar erano quasi quadruplicati, da quindici a cinquantotto milioni. Al tempo stesso, le frontiere russe erano avanzate di ottocento chilometri verso Costantinopoli, e di milleseicento verso Teheran. Quanto all’Europa, la Russia aveva sottratto alla Svezia più territorio di quel che le aveva lasciato, e alla Polonia un’area vasta quasi come l’impero austriaco. Tutto questo contraddiceva senza dubbio alcuno il quadro di una Russia puramente difensiva delineato da Lord Durham a Pietroburgo.

«Ogni singola porzione di queste vaste acquisizioni» scriveva McNeill « è stata ottenuta in contrasto con i progetti, i desideri e gli interessi dell’Inghilterra. Lo smembramento della Svezia, la spartizione della Polonia, la conquista delle province turche e di quelle sottratte alla Persia sono stati altrettanti fatti lesivi degli interessi britannici». I russi, aggiungeva, avevano ottenuto tutto ciò di soppiatto, centrando i loro obiettivi mediante «usurpazioni successive, nessuna delle quali tanto grave da guastare irrimediabilmente i rapporti amichevoli con le grandi potenze d’Europa». Era una buona descrizione di un processo che Pietroburgo avrebbe ripetuto più volte nell’Asia centrale durante gli anni a venire.

Prossimi bersagli della Russia, pronosticava McNeill, sarebbero stati gli imperi ottomano e persiano, entrambi malandati e non in grado di resistere a un attacco energico delle armate zariste. La caduta della Turchia nelle mani di Pietroburgo avrebbe gravemente minacciato gli interessi della Gran Bretagna in Europa e nel Mediterraneo, mentre l’occupazione russa della Persia avrebbe con ogni probabilità segnato la condanna dell’India. Era una prognosi fosca, con la quale però concordavano molti strateghi di primo piano e tutti i commentatori e i giornali russofobi. Una nuova mossa russa, sostenevano, era solo questione di tempo; restava da vedere se sarebbe stata contro la Turchia o contro la Persia.

Arrivando nella nuova sede, McNeill scoprì che l’influenza russa sulla corte dello scià era ancora più forte di prima della sua partenza per Londra. Nel conte Simonič, generale russo e ora rappresentante di Pietroburgo a Teheran, egli trovò un avversario formidabile e spregiudicato. Ma McNeill, neanche lui novizio in materia di intrighi politici, era deciso a fare il possibile per guastare il gioco dello zar Nicola. Di fatto, poco dopo il suo arrivo in Persia i russi cominciarono a compiere oscure manovre in direzione di Herat e Kabul. Il Grande Gioco stava per entrare in una fase nuova e più pericolosa.

13
IL MISTERIOSO VITKEVIČ

Nell’autunno del 1837, viaggiando nelle remote zone di confine della Persia orientale, un giovane ufficiale inglese vide con sorpresa, lontano nella pianura, un gruppo di cosacchi in uniforme che cavalcavano verso la frontiera afgana. Era evidente che speravano di entrare in quel paese inosservati, perché quando li avvicinò mentre facevano colazione in riva a un ruscello li trovò evasivi e reticenti circa il motivo della loro presenza in quei luoghi selvaggi. Il tenente Henry Rawlinson, ufficiale al servizio di Sir John McNeill a Teheran, intuì, pur ignorandone le intenzioni, che quegli uomini avevano in mente progetti oscuri.

«Il loro ufficiale» riferì «era un giovane smilzo, di carnagione chiara, con occhi vivaci e aspetto molto energico». All’arrivo dell’inglese, che lo salutò cortesemente, il russo si alzò in piedi e si inchinò senza aprir bocca, aspettando che fosse il visitatore a parlare. Rawlinson gli si rivolse dapprima in francese – la lingua d’uso più comune fra gli europei in Oriente –, ma l’altro scosse la testa. Provò allora, poiché non parlava il russo, con l’inglese e poi con il persiano, senza successo. Infine l’ufficiale cosacco gli si rivolse in turkmeno, lingua di cui Rawlinson aveva appena un’infarinatura. «Ne sapevo solo quel tanto che bastava per una conversazione elementare, non certo per fare domande. Era evidentemente quello che l’amico desiderava».

Il russo disse a Rawlinson che portava doni dello zar Nicola al nuovo scià di Persia, il quale era succeduto al padre defunto dopo una lotta per il potere in seno alla famiglia. La cosa era abbastanza plausibile, perché in quel momento lo scià era lontano meno di un giorno di marcia, alla testa di un esercito che si accingeva ad assediare Herat. Lo stesso Rawlinson era diretto al suo accampamento, latore di messaggi da parte di McNeill. La storia dell’ufficiale russo, tuttavia, non lo convinse affatto; gli sembrava invece molto probabile che lui e la sua squadra fossero in cammino per Kabul. La cosa, se vera, avrebbe causato notevole allarme a Londra e a Calcutta, dove l’Afghanistan veniva considerato parte integrante della sfera d’influenza britannica. Il fatto è che il conte Simonič aveva già cominciato a ingerirsi negli affari di quel paese, usando lo scià come pretesto. A Teheran si sapeva bene che, mentre assicurava di adoperarsi in tutti i modi per frenare lo scià, era stato lui a spingerlo a marciare su Herat, che la Persia rivendicava da tempo, per strapparla a Kamran.

Dopo aver fumato un paio di pipe con i cosacchi e il loro ufficiale, Rawlinson si accommiatò e proseguì per la sua strada, deciso a scoprire quale fosse in realtà il loro gioco. Quella sera giunse all’accampamento dello scià, e chiese subito di parlare con lui. Introdotto nella tenda reale, gli disse dell’incontro con i russi, che asserivano di portargli doni da parte dello zar. «Doni per me!» esclamò lo scià, stupito; e spiegò a Rawlinson che il loro reale destinatario era Dost Mohammed, a Kabul, e che lui aveva convenuto col conte Simonič di permettere a quei cosacchi di passare senza molestie per i suoi domini. Conscio che la notizia era della massima importanza, Rawlinson si preparò a tornare in tutta fretta a Teheran per riferirla.

In quel momento la squadra russa arrivò nell’accampamento persiano, ignara che Rawlinson avesse scoperto la verità. Rivolgendosi a quest’ultimo in perfetto francese, l’ufficiale si presentò come capitano Jan Vitkevič, della guarnigione di Orenburg. Si scusò per la freddezza e l’evasività di prima, spiegando di aver ritenuto imprudente dare confidenza a uno sconosciuto nel deserto, e cercò ora di rimediare mostrandosi particolarmente cordiale. Questo incontro fortuito, nel cuore del territorio del Grande Gioco, era il primo del genere fra i giocatori delle due parti, che di rado o mai, in quel conflitto per lo più oscuro, si trovarono faccia a faccia. Era destinato ad avere conseguenze impreviste e di vasta portata, perché avrebbe contribuito a provocare una delle peggiori catastrofi mai capitate a un esercito inglese.

Il tenente Rawlinson aveva già cavalcato per mille chilometri o più, in centocinquanta ore, per raggiungere da Teheran l’accampamento dello scià. Viaggiando giorno e notte compì adesso il percorso inverso, e il 1° novembre rientrò alla legazione britannica con la notizia dell’iniziativa russa. Trasmessa da McNeill, causò profonda costernazione a Londra e a Calcutta. Non solo i sentimenti antirussi erano già forti, ma la notizia giungeva a ridosso della rivelazione che dietro l’avanzata dello scià su Herat vi era Simonič. Se Herat fosse caduta in mani persiane, ciò avrebbe procurato ai russi un cruciale e pericoloso punto di appoggio nell’Afghanistan occidentale. Ma la casuale scoperta di Rawlinson dimostrava che gli interessi di Pietroburgo in Afghanistan non si limitavano a Herat; anche Kabul era a rischio. Se Vitkevič avesse portato dalla sua Dost Mohammed, i russi sarebbero riusciti con un solo, spettacolare balzo a superare le formidabili barriere di deserti, montagne e tribù ostili che si interponevano fra loro e l’India britannica.

Le autorità di Londra e Calcutta potevano tuttavia trarre conforto da una circostanza. In quel momento, più per fortuna che per lungimiranza, avevano sul posto un uomo di eccezionali capacità. Se c’era qualcuno in grado di tener testa al capitano Vitkevič e di sventarne i piani (quali che fossero), questi era di sicuro il capitano Alexander Burnes, attualmente ospite della corte di Dost Mohammed a Kabul.

Dal crollo dell’impero dei Durrani, fondato da Ahmed Khan alla metà del XVIII secolo, l’Afghanistan era stato al centro di una intensa e incessante lotta di potere. Al momento Kamran mirava a restaurare le fortune della sua famiglia rovesciando Dost Mohammed a Kabul, mentre i persiani, come si è visto, erano in marcia per tentare di recuperare la loro antica provincia orientale. In cambio di Herat lo scià aveva offerto a Kamran di aiutarlo ad abbattere Dost Mohammed e a impadronirsi del trono afgano, ma l’offerta era stata respinta. Dal canto suo Dost Mohammed si era votato non solo a riportare l’Afghanistan alla gloria passata, ma in tempi più ravvicinati a riprendere la ricca e fertile provincia di Peshawar, che Ranjit Singh aveva occupato a tradimento. Per quest’ultima impresa sperava ancora nell’aiuto britannico, sebbene Burnes lo avesse avvertito che Londra era legata per trattato a Ranjit Singh.

Forse con questo scopo in mente, nell’ottobre 1835 Dost Mohammed, all’insaputa degli inglesi, aveva fatto con discrezione qualche gesto di avvicinamento ai russi. Lo zar Nicola, sempre più preoccupato per le mire britanniche nell’Afghanistan e nell’Asia centrale, aveva spedito subito Vitkevič a Kabul per appurare che cosa offrisse e per stabilire con lui rapporti amichevoli. Frattanto Dost Mohammed si era rivolto al nuovo governatore generale dell’India, Lord Auckland, chiedendo ancora una volta aiuto per recuperare Peshawar. Ma Dost Mohammed e Kamran non erano in quel momento i soli a contendersi il potere in Afghanistan. Vi era anche Shah Shujah, allora in esilio a Ludhiana nell’India britannica, da dove complottava senza posa contro Dost Mohammed, che gli aveva usurpato il trono. Le sue probabilità di riconquistarlo erano tuttavia scarsissime. Non molto tempo prima una forza d’invasione di ventiduemila uomini da lui personalmente guidata in Afghanistan aveva subìto un’umiliante disfatta per mano di Dost Mohammed a Kandahar. Shah Shujah, si diceva, era stato tra i primi a fuggire dal campo di battaglia.

Questa, in breve, era la situazione quando il 20 settembre 1837 Burnes tornò trionfalmente a Kabul. Dost Mohammed fu felice di rivedere il vecchio amico, e Burnes venne portato a dorso di elefante nell’alloggio a lui destinato nella grande fortezza Bala Hisar, nei pressi del palazzo reale. Ma il principe afgano era altresì impaziente di venire al sodo, non appena l’etichetta lo consentisse; e ciò che in primo luogo gli premeva non era il commercio bensì la politica, come avevano temuto i direttori della Compagnia delle Indie. Sapeva infatti (mentre Burnes ancora no) che Vitkevič e i suoi cosacchi erano in cammino per Kabul. Avrebbe sinceramente preferito stringere un’alleanza con i quasi-vicini inglesi anziché con i russi, troppo lontani per essere di qualche utilità concreta. D’altro canto, se gli inglesi esitavano a dargli l’aiuto che gli occorreva, l’arrivo dei russi avrebbe potuto giovare a farli risolvere. All’atto pratico la sua strategia, e non solo la sua, fallì clamorosamente.

Frattanto, con il ritorno di Burnes a Kabul, un altro personaggio era entrato in scena. Si trattava di un tipo singolare di nome Charles Masson, un antiquario itinerante appassionato di storia dell’Asia centrale, che per parecchi anni aveva girato Persia e Afghanistan in cerca di monete e altre antichità. Viaggiando di solito a piedi, e a volte senza un soldo e in cenci, aveva acquisito una conoscenza eccezionale della regione, come nessun altro europeo. Diceva di essere un americano del Kentucky, ma il capitano Claude Wade, agente del protettorato britannico a Ludhiana, scoprì che non aveva niente a che fare con gli Stati Uniti, ed era invece un disertore dell’esercito della Compagnia, che si chiamava in realtà James Lewis. Nell’estate del 1833 Masson-Lewis si era stabilito nella capitale afgana, nel quartiere armeno vicino alla Bala Hisar.

In quel tempo la Compagnia delle Indie impiegava una rete di agenti, spesso arruolati tra i mercanti locali indù e detti convenzionalmente news-writers (cronisti), per avere notizie politiche ed economiche da zone remote dove non c’erano rappresentanti europei. Di rado queste notizie, frutto per lo più di chiacchiere di bazar, avevano molto valore. Ma quando Wade scoprì che Masson aveva preso dimora a Kabul, si rese conto che costui poteva rappresentare una fonte preziosa di informazioni da quella regione vitale. Lo sapeva uomo di grande discernimento, capace di distinguere tra verità e semplici dicerie. L’unico problema era che la diserzione militare dalla Compagnia comportava la pena di morte. Alla fine si convenne di concedere a Masson il perdono e di assegnargli un piccolo stipendio perché fornisse regolarmente notizie da Kabul, pur continuando a coltivare le sue ricerche storiche e archeologiche.

Se fra i due nacque una rivalità non si saprà mai, ma è chiaro che Masson provò una forte avversione per Burnes. In un libro scritto dopo la morte di quest’ultimo gli attribuì la colpa di tutto ciò che era andato storto. Forse l’antipatia era reciproca: Burnes certamente sapeva che Masson era un disertore, ed è possibile che l’altro, uomo di grande sensibilità, percepisse la sua disapprovazione. Nel resoconto della missione Burnes fece scarsi accenni a Masson, anche se in quelle settimane cruciali i due dovettero passare molto tempo insieme. Di fatto, fu Masson ad avere l’ultima parola.

Giuste o no che fossero le critiche di Masson a Burnes, la missione era condannata in partenza al fallimento. Lord Auckland era assolutamente contrario a qualsiasi patto con Dost Mohammed che rischiasse di irritare Ranjit Singh. Se bisognava scegliere fra i due, si doveva preferire il secondo. Già Ranjit Singh era stato trattenuto dall’occupare alcune parti del Sind; cercare adesso di persuaderlo a restituire Peshawar all’odiatissimo Dost Mohammed sarebbe stato insieme vano e pericoloso. Burnes suggerì un compromesso: promettere segretamente Peshawar a Dost Mohammed alla morte di Ranjit Singh, che non poteva essere lontana. Ma la proposta fu bocciata da Auckland, avverso per principio a un’intesa del genere. Fu respinta anche l’offerta di Dost Mohammed di mandare uno dei propri figli alla corte di Ranjit Singh come una sorta di ostaggio diplomatico – prassi non rara in Oriente – in cambio della restituzione di Peshawar.

Il 20 gennaio 1838, dopo lunghe trattative, il governatore generale scrisse personalmente a Dost Mohammed annullando ogni sua residua speranza di usare gli inglesi per forzare la mano a Ranjit Singh, e consigliandolo di abbandonare l’idea di recuperare Peshawar. Cercasse piuttosto, suggeriva Auckland, di porre fine al contrasto con il sovrano sikh. «Per la generosità della sua natura,» scriveva il governatore generale «e in considerazione della sua alleanza di vecchia data con il Governo britannico, il Maragià Runjeet Singh [sic] ha aderito al mio desiderio di far cessare le ostilità e promuovere la pace, purché voi vi comportiate verso di lui in maniera consona». La lettera non avrebbe potuto essere più insultante, o più adatta a ferire l’orgoglio di Dost Mohammed. Ma c’era di peggio.

Lord Auckland, avendo saputo che il capitano Vitkevič era in cammino per Kabul (in effetti, era appena arrivato), proseguiva avvertendo Dost Mohammed che se avesse trattato con il russo senza sua previa autorizzazione personale, la Gran Bretagna non si sarebbe ritenuta in obbligo di frenare gli eserciti di Ranjit Singh. Nel caso il messaggio non fosse risultato chiaro, lo sfortunato Burnes ebbe l’ordine di spiegarlo per filo e per segno al principe afgano. Se questi avesse concluso con la Russia o con altre potenze una qualsiasi alleanza considerata dannosa per gli interessi britannici, sarebbe stato privato del trono con la forza. La lettera non poteva che suscitare indignazione a Kabul. Lo stesso Burnes fu molto scosso dai suoi termini intransigenti, che di fatto gli toglievano il terreno di sotto i piedi. Rivolgendosi a Dost Mohammed come a uno scolaretto indisciplinato, e dicendogli con chi poteva o non poteva trattare, Auckland gli offriva in cambio soltanto la vaga benevolenza della Gran Bretagna. Nonostante la collera, Dost Mohammed riuscì a non perdere le staffe, evidentemente sperando ancora di portare dalla sua gli inglesi. Dopotutto aveva un’ultima carta nella manica: quella russa.

Pur con una storia assai diversa, il capitano Jan Vitkevič aveva molte qualità personali in comune con gli inglesi Burnes, Rawlinson e Conolly. Di famiglia aristocratica lituana, aveva preso parte da studente al movimento di resistenza antirusso in Polonia. La giovane età lo aveva salvato dal plotone di esecuzione, ma era stato esiliato in Siberia, a soli diciassette anni, come soldato semplice dell’esercito russo. Per trovar qualcosa da fare nei lunghi mesi di tedio, cominciò a studiare le lingue dell’Asia centrale, e ben presto le sue doti non solo linguistiche attirarono l’attenzione degli ufficiali superiori di Orenburg. Fu promosso tenente, e utilizzato per raccogliere informazioni fra le tribù musulmane delle terre di frontiera. Infine il generale Perovskij, comandante in capo a Orenburg, lo nominò membro del suo stato maggiore, affermando con orgoglio che Vitkevič, il dissidente di un tempo, conosceva la regione meglio di qualsiasi altro ufficiale, passato e presente.

Quando si trattò di scegliere un emissario per il delicato incarico di portare a Kabul i doni dello zar e la sua risposta alla lettera di Dost Mohammed, non vi furono dubbi. Dopo aver ricevuto ordini a Pietroburgo dal ministro degli Esteri in persona, il conte Nessel’rode, Vitkevič si recò a Teheran, dove ebbe le ultime istruzioni da Simonič. Il suo soggiorno nella capitale persiana fu talmente segreto che nemmeno Sir John McNeill, che sorvegliava ogni mossa dei russi, ne venne a conoscenza. Solo per un caso sfortunato Vitkevič e la sua scorta cosacca incapparono in Rawlinson, e venne dato l’allarme. Di conseguenza, stando a uno storico russo, la squadra dovette difendersi dagli attacchi delle tribù locali, sobillate – egli dice, ma senza addurne alcuna prova – dagli inglesi. Quale che sia la verità, quando Vitkevič, alla vigilia di Natale del 1837, entrò a Kabul, fu accolto con ogni cortesia, e in autentico stile Grande Gioco, dal suo rivale britannico Alexander Burnes. Questi, che doveva essere ansioso di farsene un’idea, lo invitò subito a unirsi a lui per la cena di Natale.

Vitkevič fece buona impressione a Burnes, che lo trovò «signorile e simpatico… intelligente e bene informato». Oltre alle lingue dell’Asia centrale, parlava correntemente il turco, il persiano e il francese. Burnes fu alquanto sorpreso nell’apprendere che era stato a Buchara tre volte, mentre lui una sola; queste visite fornirono tuttavia ampia materia di conversazione, consentendo di evitare la delicata questione del perché fossero entrambi a Kabul. Quell’incontro era destinato a rimanere l’unico, anche se in circostanze più felici Burnes avrebbe gradito rivedere quel singolare personaggio. Ma ciò non era possibile, spiegò, per via del rischio che «fossero fraintese le rispettive posizioni dei nostri due paesi in questa parte dell’Asia». Perciò, nelle settimane cruciali che seguirono, i due rivali in gara per il favore di Dost Mohammed si limitarono a sorvegliarsi a vicenda.

Quando Vitkevič arrivò a Kabul, Dost Mohammed non aveva ancora ricevuto l’ultimatum di Lord Auckland, e la stella di Burnes era in piena ascesa alla Bala Hisar. L’ufficiale russo fu accolto in modo piuttosto freddo e sbrigativo (come Simonič gli aveva pronosticato), e dapprima venne tenuto, in pratica, agli arresti domiciliari. Dost Mohammed, addirittura, consultò Burnes circa l’autenticità delle sue credenziali. Vitkevič era stato davvero inviato dallo zar, e la lettera dell’imperatore russo era genuina? La fece recapitare all’alloggio di Burnes perché questi la esaminasse, dando per scontato che nel giro di un’ora una copia sarebbe stata spedita a Lord Auckland a Calcutta. Fu a questo punto, come Masson dichiarò in seguito, che Burnes commise un errore madornale, lasciando che l’onestà prevalesse sulla convenienza.

Convinto che la lettera, poco più che un messaggio di simpatia, fosse effettivamente dello zar Nicola, Burnes rassicurò in questo senso Dost Mohammed. Al contrario Masson era sicuro che fosse un falso, fabbricato ad arte da Simonič o forse dallo stesso Vitkevič, per assicurare maggior peso alla missione russa nella prova di forza con quella inglese. Quando Burnes indicò l’imponente sigillo imperiale che vi compariva, Masson mandò un fattorino a comprare al bazar un pacchetto di zucchero russo, «sul fondo del quale trovammo esattamente lo stesso genere di sigillo». Ma a questo punto, dice Masson, era troppo tardi. Burnes aveva gettato via la sua sola occasione di frustrare i piani del rivale non consentendo agli afgani – dice ancora sardonicamente Masson – «il beneficio del dubbio».

Con l’arrivo dell’ultimatum di Auckland tutto cominciò a cambiare. Ufficialmente Dost Mohammed continuò a trattare con freddezza la missione russa, ma Burnes capì che la propria posizione diventava ogni giorno più debole e quella di Vitkevič più promettente. A Kabul si bisbigliava anche che Vitkevič si fosse offerto di avvicinare Ranjit Singh per conto di Dost Mohammed, mentre Burnes, per volontà di Lord Auckland, aveva il compito ingrato di esigere dal suo vecchio amico che inviasse al principe sikh una formale rinuncia scritta a ogni pretesa su Peshawar. Se dobbiamo credere a quanto racconta Masson, Burnes era disperato: possibile non ci si rendesse conto del valore che aveva per l’India l’amicizia di Dost Mohammed? Ma ciò che né lui né Masson sapevano era che il governatore generale e i suoi consiglieri avevano già in mente altri piani per l’Afghanistan, e che in nessuno di questi era previsto un ruolo per Dost Mohammed.

Il 21 aprile 1838 il dado fu tratto. Invece di mandar via Vitkevič come Auckland gli chiedeva, Dost Mohammed lo ricevette con ogni segno di rispetto e di amicizia nel suo palazzo entro le mura della Bala Hisar. Vitkevič, che era pronto a offrire la luna agli afgani pur di soppiantare gli inglesi a Kabul, aveva sconfitto il rivale con il più semplice dei metodi: aspettare il momento opportuno. A Burnes non restava che andarsene e riferire ai superiori in India circa il fallimento della missione. Il 27 aprile, dopo un’ultima udienza con Dost Mohammed in cui entrambi espressero profondo rammarico personale e l’afgano dichiarò che l’accaduto non aveva sminuito la sua stima per l’amico inglese, Burnes e i suoi collaboratori lasciarono Kabul. La sua visita successiva alla capitale afgana sarebbe avvenuta in circostanze del tutto diverse.

Ma se sembrava che Vitkevič avesse vinto la partita a Kabul, altrove in Afghanistan le macchinazioni russe si dimostrarono meno fortunate. Nonostante le fiduciose assicurazioni di Simonič allo scià, la città di Herat, dopo settimane di accaniti combattimenti, rifiutava ostinatamente di arrendersi. C’era infatti un fattore di cui Simonič non aveva tenuto conto. Poco prima che i persiani la cingessero d’assedio, un giovane ufficiale britannico era entrato travestito in città e si era messo all’opera per organizzarne la difesa.

14
L’EROE DI HERAT

La pelle scurita con una tintura e gli abiti da pio pellegrino musulmano, Eldred Pottinger, tenente del protettorato al servizio della Compagnia, era entrato a Herat il 18 agosto 1837 per una ricognizione di routine nel quadro del Grande Gioco. Non sospettava che vi sarebbe rimasto più di un anno. Nipote ventiseienne del veterano colonnello Henry Pottinger, era stato mandato in Afghanistan per raccogliere informazioni. Era già stato a Peshawar, e a Kabul poco prima che vi arrivasse Burnes, senza che il suo travestimento fosse scoperto. Si trovava da appena tre giorni a Herat, la capitale di Kamran Shah, quando nei bazar cominciò a circolare la voce che una potente armata persiana guidata dallo scià in persona era in marcia da Teheran per attaccare la città. A un giovane ufficiale ambizioso e avventuroso come Pottinger la situazione sembrò ricca di possibilità. Decise perciò di trattenersi e di osservare gli sviluppi della situazione.

La notizia dell’avanzata persiana raggiunse Kamran mentre questi era impegnato a guerreggiare a sud, e lo indusse a tornare di gran carriera a difendere la sua capitale. In gioventù era stato un grande guerriero. Con un sol colpo di spada, si diceva, poteva tagliare a metà di netto una pecora, e con una freccia del suo arco trapassare una vacca da parte a parte. Ma in seguito si era abbandonato ai vizi e all’alcol, e adesso il potere effettivo era in mano al suo visir, Yar Mohammed, ancor più famigerato di lui quanto a crudeltà. Fu subito emanato l’ordine di arrestare e incarcerare tutte le persone di dubbia lealtà, e specialmente chiunque avesse legami con la Persia. Agli abitanti dei villaggi circostanti fu intimato di raccogliere le messi, portare in città tutto il grano e i viveri, e distruggere ogni altra cosa che potesse essere utile al nemico, alberi da frutto compresi; e si inviarono truppe per garantire che l’ordine fosse eseguito. Al contempo vennero intrapresi febbrili lavori di consolidamento dei massicci bastioni di Herat, fatti per lo più di terra e pericolosamente malandati. Infine tutte le uscite della città furono chiuse per impedire che le spie comunicassero al nemico notizie sulle sue difese.

Finora Pottinger non aveva rivelato la sua presenza alle autorità, contentandosi del ruolo di osservatore. Ma un giorno nel bazar sentì posarsi sulla manica una mano leggera. «Tu sei inglese!» bisbigliò una voce. Per fortuna colui che aveva scoperto il suo travestimento era un vecchio amico di Arthur Conolly, un medico di Herat che sette anni prima aveva viaggiato con lui. Era stato inoltre a Calcutta, e sapeva riconoscere una fisionomia europea anche se scurita con la tintura. Il medico consigliò vivamente a Pottinger di andare da Yar Mohammed e di offrirgli i suoi servigi, compresa la competenza in fatto di moderna arte dell’assedio. Il visir accolse l’inglese con entusiasmo perché, sebbene Herat avesse respinto vittoriosamente altri attacchi persiani, era chiaro che questa offensiva era molto più pesante. Si riteneva infatti che lo scià avesse al suo servizio non solo un generale russo, ma anche un’unità composta di disertori russi fuggiti in Persia. La cavalleria di Herat mandata avanti a tartassare il nemico con assalti ripetuti tornava lamentando che stavolta quello usava una tattica sleale. Invece di procedere con la solita massa sparpagliata di soldati, che in passato erano stati facile preda dei cavalleggeri afgani, l’invasore, sotto la guida russa, marciava in schiere compatte protette dall’artiglieria.

Il ruolo determinante di Pottinger nella difesa di Herat venne alla luce solo in seguito, quando altri ufficiali britannici entrarono in città e parlarono con coloro che avevano vissuto i dieci lunghi mesi d’assedio. Nel suo rapporto ai superiori Pottinger minimizzò il proprio contributo, e ancor più il proprio ardimento, pur criticando la condotta di altri, e in particolare di Yar Mohammed. Tenne però anche un diario, dal quale più tardi lo storico Sir John Kaye ricavò il vivido racconto di quegli eventi emozionanti contenuto nella sua celebre History of the War in Afghanistan. In seguito il diario andò distrutto in un incendio che devastò lo studio di Kaye.

Le ostilità ebbero inizio il 23 novembre, quando le truppe dello scià, appoggiate dall’artiglieria, lanciarono da ovest un vigoroso attacco contro Herat. «Mentre avanzavano, la guarnigione fece una sortita» scrive Kaye. «La fanteria afgana contese ogni pollice di terreno, e la cavalleria assalì l’esercito persiano ai fianchi. Ma non riuscirono a sloggiare il nemico dalle posizioni in cui si era attestato». E così l’assedio cominciò, condotto, scrive Kaye, «in uno spirito di odio implacabile e di selvaggia disumanità… ciò che mancava a entrambe le parti quanto a scienza era compensato da una crudeltà spietata». Una pratica barbara introdotta da Yar Mohammed fu di esortare i soldati a tagliare le teste dei persiani uccisi e a portargliele. Lo scopo era di diffondere il terrore fra gli avversari, poiché le teste venivano esposte in fila sugli spalti. «Chi riportava questi sanguinosi trofei riceveva una ricompensa,» osservò Pottinger «perciò nella guarnigione si faceva a gara per procurarli». Come soldato, Pottinger considerava quest’usanza non solo orrenda ma controproducente: le sortite afgane invariabilmente abortivano, perché i difensori erano troppo occupati a troncare teste invece di sfruttare il proprio vantaggio.

Era anche una pratica che induceva in tentazione. Una volta, dopo una sortita, un afgano portò a Yar Mohammed un paio di orecchie. «In premio di questa macelleria, gli furono dati un mantello e alcuni ducati». Ma prima che gli venissero poste altre domande l’uomo si dileguò. Mezz’ora dopo ne arrivò un altro, portando una testa incrostata di fango. «Al visir parve di notare che non avesse orecchie, e ordinò a un suo aiutante di esaminarla. Allora il latore dell’orrido trofeo lo gettò a terra e fuggì a gambe levate». Si scoprì che la testa apparteneva a un difensore morto durante la sortita. L’uomo che l’aveva presentata fu inseguito, preso e ricondotto davanti a Yar Mohammed, il quale ordinò che fosse severamente battuto. Ma l’uomo che aveva portato le orecchie ed era sparito con la ricompensa non venne ritrovato, sebbene Yar Mohammed promettesse il mantello e il denaro a chi l’avesse catturato. Gli afgani peraltro non erano i soli ad abbandonarsi a simili efferatezze. Nell’accampamento dello scià i nemici che avevano la sventura di cadere in mani persiane erano sottoposti ad atrocità analoghe, fra cui lo sventramento.

L’assedio si trascinò di settimana in settimana, di mese in mese, senza che nessuna delle due parti facesse progressi. I persiani erano riusciti a penetrare nelle difese esterne della città, ma non arrivarono mai a circondarla del tutto. Anche al culmine dei combattimenti alcuni campi vicino alle mura venivano ancora usati per le coltivazioni e per il pascolo. Ogni notte gli afgani assediati compivano sortite contro le posizioni persiane, ma senza riuscire a scalzarle. Frattanto i persiani continuavano a bombardare i bastioni, e i difensori a ripararli. Oltre ai cannoni, gli assalitori usavano i razzi, il cui «volo infuocato sopra la città» racconta Kaye «terrorizzava gli abitanti, che si adunavano sui tetti delle case a piangere e a pregare». Più precisi dei cannoni e dei razzi erano i mortai, che col passare delle settimane ridussero in macerie case, botteghe e molti altri edifici. Una bomba di mortaio, con la miccia crepitante, sfondò il tetto di una casa vicina a quella di Pottinger, cadendo accanto a un bimbo dormiente. La madre sgomenta si gettò fra l’ordigno e il figlioletto, ma qualche istante dopo la bomba esplose decapitandola e scaraventando il suo corpo sopra il bambino, che morì soffocato.

Si ebbero anche momenti quasi farseschi. Una volta i difensori furono turbati da un suono come di trivella che sembrava provenire dalle linee nemiche, dove si vedevano i soldati russi intenti a scavare una grossa buca. Subito si suppose che stessero scavando una galleria sotto le mura per piazzarvi delle mine. Il suono persisteva e l’ansia crebbe; si tentò disperatamente di trovare la galleria per allagarla. Poi si scoprì la vera fonte del rumore: «una povera donna,» racconta Pottinger «che soleva macinare il grano azionando a mano una mola». Un nuovo allarme si diffuse fra i settantamila abitanti quando a Capodanno gli assedianti portarono in campo un enorme cannone, di dimensioni mai viste nell’Asia centrale, capace di scagliare contro le mura devastanti proiettili da otto pollici. Ma dopo appena una mezza dozzina di tiri l’affusto cedette, e il cannone non venne più usato. D’altronde, anche quando riuscivano ad aprire brecce nelle mura, i persiani non ne approfittavano, nonostante i consiglieri russi, forse scoraggiati dalla vista dei commilitoni defunti che ghignavano su di loro dall’alto.

Durante tutto questo tempo Pottinger aveva lavorato instancabilmente, rinsaldando la volontà dei difensori quando si perdevano d’animo, il che accadeva spesso, e fornendo consigli tecnici improntati alle più recenti nor-me militari europee. «La sua attività era incessante» scrive Kaye. «Era sempre sui bastioni; sempre pronto a dare aiuto con i suoi consigli… e a infondere con la sua presenza incoraggiante nuova linfa nella soldatesca afgana». Pottinger dal canto suo attribuì la sopravvivenza della città all’incompetenza dei persiani e dei loro consulenti russi, sostenendo che un singolo reggimento britannico avrebbe potuto prenderla senza grandi difficoltà.

Lo scià, che il conte Simonič e i suoi collaboratori russi avevano indotto ad aspettarsi una rapida vittoria, si affliggeva di non riuscire a conquistare Herat pur con forze tanto superiori. Mandò perfino il fratello di Yar Mohammed, Shere Mohammed, che gli si era arreso, a cercare di persuadere i concittadini a sottomettersi. Ma il visir rifiutò di riceverlo, accusandolo di tradimento e ripudiandolo. Prima di tornare nelle linee persiane, tuttavia, Shere inviò un messaggio al fratello avvertendolo che, se le truppe dello scià fossero entrate a Herat, lui sarebbe stato impiccato come un cane, e le sue donne e i suoi figli pubblicamente disonorati dai mulattieri. Inoltre, se la città avesse persistito nella sfida allo scià, lui stesso, Shere, sarebbe stato messo a morte dai persiani. Yar Mohammed rispose dicendosi lieto che lo scià lo giustiziasse, perché ciò gli avrebbe risparmiato il disturbo di farlo personalmente.

Più volte, durante le pause dei combattimenti, si tentò da entrambe le parti di negoziare un accordo. A sentire lo scià, se Herat avesse accettato la sovranità nominale persiana, lui in cambio non avrebbe interferito nel governo della provincia; chiedeva solamente che gli fossero fornite truppe. L’attuale campagna, dichiarò, era diretta non tanto contro Herat quanto contro l’India britannica. Se gli abitanti di Herat si fossero uniti a lui, li avrebbe guidati contro l’India, e se ne sarebbero spartiti le ricchezze. Era una proposta dietro cui Pottinger sospettava lo zampino di Simonič. Ma Yar Mohammed non era il tipo da lasciarsi turlupinare così facilmente, e suggerì che la prova migliore della sincerità dei persiani sarebbe consistita nel togliere l’assedio. Si combinò un incontro, che ebbe luogo sul bordo di un fossato sotto le mura, tra il negoziatore dello scià e Yar Mohammed; ma non appena quest’ultimo apprese che lo scià esigeva da lui e da Kamran (quasi sempre troppo ubriaco per interessarsi agli avvenimenti in corso) un atto di formale sottomissione davanti all’intero esercito persiano, abbandonò bruscamente l’incontro.

Frattanto Sir John McNeill e il conte Simonič, che avevano confidato entrambi in una rapida caduta di Herat, erano arrivati da Teheran e si trovavano nell’accampamento reale, ufficialmente in qualità di osservatori neutrali, in realtà determinati entrambi a guastarsi reciprocamente il gioco. McNeill cercava di persuadere lo scià ad abbandonare l’assedio, mentre Simonič mirava ad accelerare la resa della città. Le truppe persiane, riferì McNeill a Palmerston l’11 aprile, quasi cinque mesi dopo l’inizio dell’assedio, avevano un disperato bisogno di vettovaglie, ed erano costrette a sopravvivere nutrendosi delle piante selvatiche che riuscivano a reperire. «Senza paga, senza vestiario sufficiente, senza razioni di nessun genere,» scriveva «i soldati rimangono notte e giorno nelle trincee», a volte con l’acqua e il fango fino alle ginocchia; i morti erano da dieci a venti al giorno, il morale delle truppe a terra e la loro capacità di sopportazione ormai al limite. Se lo scià non fosse riuscito a organizzare rifornimenti regolari di cibo e uniformi, l’assedio, a giudizio di McNeill, avrebbe dovuto essere abbandonato.

All’interno di Herat, tuttavia, si stava forse anche peggio. La penuria di viveri e di combustibile cresceva col protrarsi dell’assedio, e le malattie e la fame cominciavano a mietere non meno vittime dell’artiglieria persiana. Si abbattevano le case per ricavarne legna da ardere, si macellavano i cavalli per sfamarsi. Dappertutto c’erano montagne di rifiuti, mentre i cadaveri insepolti, oltre a diffondere un fetore tremendo, accrescevano il rischio di pestilenza. Per alleviare la situazione nella città sovraffollata, si decise di lasciare andar via una parte degli abitanti, considerando che fuori delle mura non avrebbero corso più rischi che all’interno. Gli assedianti non vennero consultati, poiché non avrebbero acconsentito a niente che riducesse la pressione sui difensori. A un gruppo di seicento vecchi, donne e bambini fu quindi permesso di uscire dalle porte per tentare la fortuna con i persiani. «Il nemico» riferisce Pottinger «aprì il fuoco contro di loro, poi, scoperto chi erano, cercò di ricacciarli indietro a colpi di sassi e bastone». Per impedire che rientrassero, l’ufficiale di Herat incaricato dell’operazione ordinò di sparargli addosso, causando più perdite di quelle prodotte dal nemico, il quale infine li lasciò passare.

Nel campo persiano, intanto, il conte Simonič, messa da parte la finzione di essere là soltanto come osservatore, assunse personalmente il comando delle operazioni. Ai difensori giunse voce che Simonič, cannocchiale alla mano, aveva perlustrato la città assediata; al tempo stesso gli assalitori si rinfrancarono, dando prova di un rinnovato vigore. Gli assediati si scoraggiarono, e cominciarono a pensare di sottomettersi non ai persiani ma ai russi. Pottinger era sgomento, ma poté tirare un sospiro di sollievo quando, l’indomani stesso, un’altra voce portò ai difensori la speranza di un intervento britannico. McNeill, si diceva, aveva avvertito lo scià che se Herat fosse caduta, gli inglesi sarebbero non solo scesi in guerra contro di lui ma avrebbero scacciato le sue truppe dalla città, a qualunque costo. Inoltre si stava già preparando un invio di viveri a Herat dall’India britannica. Le notizie erano false, ma miracolosamente impedirono che la città, di importanza vitale per la difesa dell’India, venisse consegnata allo zar dai suoi stessi abitanti.

Quando questi ultimi scoprirono la verità era troppo tardi per consegnarsi ai russi: il 24 giugno 1838, infatti, il conte Simonič sferrò la sua grande offensiva. L’ora di gloria del tenente Pottinger era giunta. L’assalto cominciò con un pesante sbarramento di artiglieria diretto da ogni lato contro la città, cui seguì un attacco in massa della fanteria in cinque punti diversi simultaneamente. In quattro di questi gli afgani, combattendo con la forza della disperazione, riuscirono a respingere i persiani, ma nel quinto il nemico arrivò alla breccia aperta nei bastioni dall’artiglieria. «La lotta fu breve ma sanguinosa» scrive Kaye; i difensori caddero fino all’ultimo. «Alcuni degli assalitori più audaci, precedendo i compagni, guadagnarono la cima della breccia», ma gli afgani fecero affluire rinforzi, appena in tempo per respingerli, benché solo temporaneamente. Più volte, con coraggio disperato, gli assedianti cercarono di varcare la breccia e di penetrare in città; un momento sembrava stessero per farcela, e il momento dopo venivano ricacciati. Per un’ora intera, nel corso dei continui capovolgimenti di fronte, la sorte di Herat fu in bilico.

Avvertiti del pericolo, Pottinger e Yar Mohammed accorsero immediatamente sul posto. Ma quando il visir, che nessuno aveva mai accusato prima di codardia, vide come i persiani fossero vicini a impadronirsi della città, si perse d’animo. Giunto in prossimità della breccia, rallentò il passo e infine si fermò. Poi, lasciando Pottinger costernato, si sedette a terra. La cosa non sfuggì agli afgani preposti alla difesa, che lo avevano visto avvicinarsi insieme a Pottinger, e quelli delle ultime file cominciarono a uno a uno a svignarsela, col pretesto di portare in salvo i feriti. Pottinger capì che non c’era un secondo da perdere se si voleva evitare che il rivolo diventasse un fiume, e si dessero tutti alla fuga. Con suppliche e rimbrotti fece rialzare Yar Mohammed e lo costrinse ad andare verso il parapetto. Per un momento il disastro parve scongiurato: il visir gridò ai suoi uomini di combattere, in nome di Allah. Un simile richiamo aveva sempre ottenuto risultati prodigiosi in passato, ma questa volta Yar Mohammed era stato visto esitare. Gli uomini vacillarono, e di nuovo il coraggio abbandonò il visir. Fece dietrofront, mormorando che andava a cercare aiuto.

A questo punto Pottinger perse la pazienza. Prendendo Yar Mohammed per un braccio e vituperandolo ad alta voce, lo trascinò verso la breccia. Il visir esortò i suoi a combattere fino alla morte, ma quelli continuarono a filarsela. Accadde allora qualcosa di elettrizzante. «Afferrato un grosso bastone,» ci dice Kaye «Yar Mohammed si gettò come un pazzo sugli ultimi della schiera e li cacciò avanti a furia di percosse». Trovandosi senza via di scampo, e temendo più il visir che il nemico, costoro «balzarono di là dal parapetto e si precipitarono giù per la scarpata esterna contro i persiani». Presi dal panico per la violenza del contrattacco, questi abbandonarono la posizione e fuggirono. Il pericolo immediato era superato. Herat era salva, grazie, secondo quanto dice Kaye, «all’indomito coraggio di Eldred Pottinger».

Quando a Londra e a Calcutta giunse la notizia del ruolo da lui svolto nella difesa di Herat e nel frustrare i disegni russi, a Pottinger fu tributato un plauso simile a quello che cinque anni prima aveva accolto Alexander Burnes al ritorno da Kabul e Buchara. Solo che, a differenza di Burnes, non era là a riceverlo di persona. Se infatti il momento del massimo pericolo era passato, il conte Simonič non aveva rinunciato alle sue mire, e l’assedio si sarebbe protratto per altri tre mesi. Molto tempo dopo, l’impresa di Pottinger fu celebrata da Maud Diver in un romanzo di grande successo, The Hero of Herat. Ma all’epoca dei fatti il complimento più gradito gli giunse, per ironia della sorte, dallo stesso scià di Persia. Vedendo nella presenza di Pottinger il principale ostacolo alla conquista di Herat, lo scià chiese a McNeill di ordinare all’ufficiale di lasciare la città; gli sarebbe stato concesso un salvacondotto per attraversare le linee persiane. McNeill obiettò che non era in grado di dare quest’ordine, perché Pottinger non dipendeva da lui; poteva farlo solo Calcutta. Lo scià tentò quindi con gli abitanti di Herat, dichiarando che non avrebbe negoziato la fine dell’assedio finché Pottinger fosse rimasto con loro. Anche questo tentativo fallì: Yar Mohammed temeva di perdere l’aiuto inestimabile di Pottinger per poi scoprire che con qualche fittizio pretesto l’assedio veniva ripreso.

Tuttavia, all’insaputa di Pottinger e dello scià, lo sblocco della situazione era imminente. Allarmato dal trionfo di Vitkevič a Kabul e paventando un analogo successo russo a Herat, il governo britannico aveva deciso finalmente di agire. L’invio di forze in soccorso alla città assediata attraverso l’Afghanistan venne escluso, perché troppo rischioso e troppo lento; si scelse comunque di mandare una squadra navale nel Golfo Persico, ritenendo che una minaccia all’altro capo dei domini dello scià, mentre questi era impegnato all’est, lo avrebbe costretto ad allentare la presa su Herat. Al tempo stesso Palmerston intensificò le pressioni sul ministro degli Esteri russo, Nessel’rode, perché mettesse fine all’attività irregolare di Simonič. Entrambe le mosse produssero risultati rapidi e soddisfacenti.

Il 19 giugno le truppe britanniche sbarcarono senza incontrare resistenza nell’isoletta di Kharg, sul Golfo, poco al largo della costa persiana. Nell’entroterra si diffuse la voce che una grossa forza d’invasione inglese era approdata e avanzava sulla capitale conquistando una città dopo l’altra. Al tempo stesso McNeill, tornato a Teheran, inviò un suo ufficiale, il tenente colonnello Charles Stoddart, all’accampamento reale di Herat per avvertire lo scià delle gravi conseguenze di un proseguimento dell’assedio. «Il governo britannico» dichiarava la nota di McNeill «vede nell’impresa contro gli afgani in cui Vostra Maestà è impegnata intenti ostili verso l’India britannica». Informando ufficialmente lo scià dell’occupazione dell’isola di Kharg, la nota ammoniva che la prossima mossa della Gran Bretagna sarebbe dipesa dalla condotta da lui assunta riguardo a Herat. E lo invitava a non prestare più orecchio «ai cattivi consigli di persone mal disposte», che lo avevano spinto ad attaccare la città.

Stoddart fu accolto cordialmente dallo scià, e la cosa non mancò di sorprenderlo: a suo avviso, infatti, la corte era ancora soggetta all’influenza del conte Simonič. Lesse ad alta voce la nota di McNeill, traducendola in persiano, e quando giunse all’accenno a «persone mal disposte» lo scià lo interruppe, chiedendo: «Vuol dire che se non lascio Herat ci sarà la guerra, non è così?». Stoddart rispose affermativamente. Nel congedarlo, lo scià gli disse che avrebbe valutato le proposte inglesi e gli avrebbe fatto pervenire in breve una risposta. Nessuno sa – e a McNeill sarebbe piaciuto molto saperlo – che cosa avvenne tra lo scià e il conte Simonič; ma due giorni dopo Stoddart fu convocato alla presenza reale. «Acconsentiamo a tutte le richieste del governo britannico» gli disse lo scià. «Non faremo la guerra. Se avessimo saputo che venendo qui rischiavamo di perdere la vostra amicizia, non saremmo venuti».

I persiani avevano ceduto su tutta la linea, e i russi avevano subìto un’ignominiosa sconfitta. La diplomazia delle cannoniere aveva trionfato là dove quella convenzionale aveva fallito. Riferendo a McNeill la sensazionale svolta degli eventi, Stoddart scrisse: «Ho risposto che ringraziavo Dio del fatto che Sua Maestà avesse tanto a cuore i veri interessi della Persia». Lo scià ordinò alle sue truppe di levare l’assedio e di prepararsi a tornare a Teheran. Alle otto del mattino del 9 settembre, Stoddart mandò a McNeill, con un corriere speciale, il seguente dispaccio: «Ho l’onore di comunicare che l’esercito persiano è in marcia… e che Sua Maestà lo Scià sta per montare a cavallo». Alle 10,26 aggiunse brevemente: «Lo Scià è salito a cavallo… ed è andato via».

Ma vi fu dell’altro. Nessel’rode aveva sempre sostenuto che i russi non erano coinvolti nell’assedio, e che Simonič aveva avuto ordini rigorosi di dissuadere lo scià dal marciare su Herat. Si era perfino offerto di mostrare all’ambasciatore inglese, Lord Durham, il documento segreto contenente le sue istruzioni a Simonič. Dapprima Palmerston gli aveva creduto, ma ormai era evidente che era stato ingannato. O Simonič aveva ignorato del tutto le istruzioni del suo governo, oppure gli era stato detto ufficiosamente di non tenerne conto finché fosse riuscito a farla franca, sperando che a quel punto Herat sarebbe stata felicemente nelle mani compiacenti della Persia. Probabilmente la verità non verrà mai alla luce, e gli storici ne discutono ancora oggi. Ma come che sia, Palmerston era deciso a imporsi.

A Londra l’ambasciatore russo fu convocato e informato che l’attività ostile alla Gran Bretagna svolta dal conte Simonič e dal capitano Vitkevič (il quale si trovava ancora in Afghanistan) minacciava gravemente le relazioni fra i due paesi. Palmerston chiese il richiamo immediato dei due uomini. Forse i russi avevano giocato sull’ipotesi che Londra, come in occasioni precedenti, non facesse nulla. Se così era, questa volta avevano sbagliato i calcoli. Inoltre, le prove contro Simonič erano così schiaccianti che lo zar Nicola non poteva che cedere alle richieste inglesi. «Abbiamo messo la Russia con le spalle al muro riguardo al conte Simonič» disse Palmerston trionfante a McNeill. «L’imperatore non ha via d’uscita: deve richiamarlo e riconoscere che Nessel’rode ha dichiarato una serie di sciocchezze».

A fungere da capro espiatorio non fu tuttavia Nessel’rode ma Simonič, accusato di aver esorbitato dai limiti della propria autorità e ignorato le istruzioni. Anche se ciò era ingiusto, e lui aveva in realtà obbedito a ordini segreti, non era comunque riuscito a metter le mani su Herat, nonostante i molti mesi avuti a disposizione mentre Pietroburgo cercava di guadagnare tempo. I suoi avversari britannici non sparsero lacrime per lui, perché – come se non bastasse – si era reso inviso a McNeill e agli altri con cui era stato in contatto. Aveva avuto, si giudicò, quello che meritava. Ma la sorte del capitano Vitkevič, rivale molto rispettato, non rallegrò nessuno.

Richiamato dall’Afghanistan, Vitkevič giunse a Pietroburgo nella primavera del 1839. Che cosa accadde di preciso rimane un mistero. Secondo una versione, basata su fonti russe coeve, fu ricevuto calorosamente dal conte Nessel’rode, il quale si congratulò con lui per aver soppiantato gli inglesi a Kabul; gli furono promesse la restituzione del rango di aristocratico lituano, toltogli in gioventù quando era stato mandato in esilio, e una promozione, con un posto in un reggimento scelto. Ma secondo Kaye, che ha avuto accesso a informazioni del governo inglese dalla capitale russa, il giovane ufficiale, tornato pieno di speranze, sarebbe stato ignorato dal conte Nessel’rode. Quest’ultimo, desideroso di prendere le distanze da tutta la faccenda, avrebbe addirittura rifiutato di vederlo, dichiarando di non conoscere nessun capitano Vitkevič, «solo un avventuriero di questo nome, che di recente aveva condotto intrighi non autorizzati a Kabul e a Kandahar».

Su una cosa, tuttavia, entrambe le versioni concordano. Tornato in albergo dopo la visita al ministero degli Esteri, Vitkevič salì in camera e bruciò le sue carte, comprese le informazioni riportate dall’Afghanistan. Poi scrisse un biglietto d’addio agli amici e si sparò un colpo alla testa. Il Grande Gioco aveva fatto un’altra vittima. Com’era accaduto dieci anni prima in seguito alla morte violenta di Griboedov a Teheran, si sospettò che anche in questa c’entrassero in qualche modo gli inglesi. Ma la questione passò ben presto in secondo piano sulla scia dei gravi eventi che di lì a poco scossero l’Asia centrale.

15
COME INVENTARE UN RE

Gli inglesi stavolta avevano avuto la meglio, e potevano congratularsi con se stessi. Vitkevič era morto, Simonič in disgrazia, Nessel’rode beffato, e si era impedito che Herat, bastione avanzato delle difese dell’India, cadesse in mano russa. Per di più si era visto che, se messo alla prova, lo zar Nicola non si mostrava per niente disposto a muovere in soccorso dello scià. Avendo costretto i russi e i persiani a tirarsi indietro, gli inglesi avrebbero fatto cosa saggia a fermarsi lì. Ma da quando Dost Mohammed aveva sdegnato l’ultimatum di Lord Auckland e ricevuto ufficialmente Vitkevič, a Londra e a Calcutta lo si riteneva ormai schierato con i russi. Con Herat ancora sotto assedio, e una squadra navale britannica in rotta verso il Golfo, Palmerston e Auckland erano decisi a risolvere la crisi afgana una volta per tutte. Sebbene Burnes, adesso fortemente spalleggiato da Sir John McNeill, argomentasse che alla Gran Bretagna conveniva tuttora puntare su Dost Mohammed, si stabilì che questi doveva essere spodestato con la forza e sostituito con una persona più docile. Ma quale?

Arthur Conolly proponeva Kamran, che si era dimostrato ostile allo zar e allo scià e ansioso di allearsi con la Gran Bretagna contro Dost Mohammed e altri pretendenti al trono afgano. C’erano però dei consiglieri più vicini al viceré che non Conolly, Burnes o McNeill. Primo fra questi William Macnaghten, segretario del Servizio informazioni di Calcutta. Brillante orientalista, si diceva parlasse correntemente il persiano, l’arabo e l’indostano. Inoltre le sue opinioni venivano tenute in grande considerazione, specie presso Lord Auckland, la cui sorella, Emily Eden, ebbe una volta a definirlo «il nostro Lord Palmerston». Il candidato di Macnaghten era l’esule Shah Shujah, al quale, a suo avviso, il trono afgano apparteneva di diritto. Il piano da lui proposto prevedeva di indurre Ranjit Singh, che detestava Dost Mohammed, a usare il suo potente esercito sikh per aiutare Shah Shujah a rovesciare il nemico comune e riconquistare il trono. In cambio, Shujah avrebbe rinunciato a ogni pretesa su Peshawar. Una forza d’invasione di Ranjit Singh unita agli irregolari di Shujah era in grado di abbattere Dost Mohammed senza che si dovessero impiegare truppe britanniche.

Il piano convinse sia Palmerston sia Auckland, anche perché consentiva di lasciare il lavoro sporco ad altri, più o meno come stavano facendo i russi con i persiani riguardo a Herat. Sostituire un sovrano a un altro non sembrava un’impresa troppo problematica o pericolosa, tanto più presso un popolo che in meno di mezzo secolo aveva trasferito la sua fedeltà da questo a quel principe ben otto volte. Tra coloro che appoggiavano l’idea di Macnaghten c’era Claude Wade, stimato agente del protettorato al servizio della Compagnia a Ludhiana, dove viveva Shujah, ed esperto delle intricate vicende politiche dell’Afghanistan e del Punjab. Lord Auckland mandò quindi Wade e Macnaghten a Lahore, per sondare Ranjit Singh e vedere se si poteva contare sulla sua collaborazione. Dapprima questi sembrò entusiasta del piano. Ma, conoscendo molto meglio degli inglesi i pericoli di una guerra con gli afgani nel loro territorio montagnoso, il vecchio e astuto sikh cominciò presto a tergiversare e mercanteggiare. Auckland alla fine capì che era inutile sperare che adempisse al ruolo assegnatogli nel grande disegno di Macnaghten. Per spodestare Dost Mohammed e mettere sul trono Shujah occorreva l’intervento delle truppe britanniche.

Auckland, persona solitamente cauta, era in quel periodo sottoposto a crescenti pressioni da parte dei falchi che lo attorniavano affinché agisse in tal senso. Uno dei loro argomenti era che, in caso di una guerra con i persiani per Herat – l’assedio era al momento ancora in corso –, un esercito britannico in Afghanistan sarebbe stato in buona posizione per riconquistare la città se fosse caduta, e per impedire un’ulteriore avanzata delle truppe dello scià verso l’India. Auckland alla fine si persuase. Riguardo a Ranjit Singh si stabilì che, se anche non mandava forze proprie in Afghanistan, il suo consenso all’operazione era essenziale perché tra lui e Shujah vi fossero in futuro relazioni stabili, e i due paesi fungessero da scudo protettivo per l’India britannica. Consenso che il sovrano sikh, conscio di non avere la forza di rovesciare da solo Dost Mohammed, fu ben lieto di accordare. Non solo l’operazione non gli sarebbe costata nulla (sebbene Auckland sperasse ancora in un suo contributo di truppe), ma Shujah avrebbe rinunciato una volta per sempre alle pretese afgane su Peshawar. Aveva tutto da guadagnare e niente da perdere. Anche Shujah aderì molto volentieri: gli inglesi facevano finalmente ciò che lui andava loro chiedendo da anni. Nel giugno 1838 un patto segreto, firmato da Ranjit Singh, da Shujah e dal governo britannico con giuramento di perpetua amicizia, siglò l’approvazione al piano. Auckland poté dare avvio ai preparativi per l’invasione.

Palmerston aveva frattanto avvertito dell’operazione l’ambasciatore britannico a Pietroburgo, informandolo che Auckland era stato «incaricato di occuparsi dell’Afghanistan e di farne un possedimento britannico… Abbiamo a lungo evitato di invischiarci con gli afgani, ma se la Russia cerca di renderli russi dobbiamo adoperarci perché diventino britannici». Il 1° ottobre, Auckland emanò il cosiddetto Manifesto di Simla, che annunciava pubblicamente l’intenzione della Gran Bretagna di scacciare dal trono Dost Mohammed e di sostituirlo con Shujah. A giustificazione di ciò, Dost Mohammed era dipinto come un infido mascalzone che aveva spinto il governo inglese ad agire così, e Shujah come un amico leale, monarca legittimo. «Dopo molto tempo speso dal capitano Burnes in sterili negoziati a Kabul» dichiarava Auckland «si è capito inequivocabilmente che Dost Mohammed Khan… nutre progetti di espansione deleteri per la sicurezza e la pace delle frontiere dell’India. Per promuovere tali progetti, egli ha apertamente minacciato di ricorrere a ogni aiuto straniero di cui potrà disporre». Finché rimaneva al potere a Kabul non c’era speranza di «assicurare la tranquillità dei nostri vicini, e di preservare inviolati gli interessi del nostro impero indiano».

Sebbene fosse ovvio a chi si riferiva, Auckland ebbe cura di evitare ogni accenno ai russi: si stava infatti imbarcando proprio nel genere di avventura estera che la Gran Bretagna rimproverava allo zar Nicola. Al tempo stesso il viceré annunciò i nomi degli ufficiali politici che avrebbero accompagnato la spedizione. Macnaghten, nominato cavaliere, si recò in qualità di inviato del governo britannico presso quella che si auspicava diventasse la nuova corte reale a Kabul, con Alexander Burnes come vice e consigliere. Burnes, sebbene intimamente costernato all’idea di rovesciare il suo vecchio amico, era comunque abbastanza ambizioso per accettare anziché dimettersi. Non solo fu promosso tenente colonnello, ma ricevette un onore che non si era mai neppure sognato. Auckland gli fece recapitare una lettera nella quale, oltre a complimentarsi con lui per i servigi resi alla nazione, lo invitava a dare un’altra occhiata alla busta. Ripescandola dal cestino, lesse sbalordito che era indirizzata al «Tenente Colonnello Sir Alexander Burnes». Un’altra nomina fu quella del tenente Eldred Pottinger, che si trovava ancora in Herat assediata, e che divenne uno dei quattro assistenti di Macnaghten.

Il colonnello Charles Stoddart, uno dei collaboratori di McNeill – che al momento era anche lui a Herat, nel campo dello scià –, fu spedito a Buchara per assicurare all’emiro che non aveva nulla da temere dall’attacco britannico al suo vicino meridionale, e per cercare di convincerlo a liberare gli schiavi russi, in modo da fugare ogni pretesto per un’azione di Pietroburgo contro di lui. Stoddart fu anche autorizzato a prospettare un trattato di amicizia tra la Gran Bretagna e Buchara. La sua missione, come tante altre iniziative che seguirono, era destinata a fallire tragicamente. Tuttavia, come si è visto, nell’autunno del 1838 la situazione appariva rosea agli inglesi. Da Herat era appena giunta la notizia che i persiani e i loro consiglieri russi avevano tolto l’assedio e se n’erano andati.

Fin dal principio la spedizione fu accompagnata da uno stuolo di polemiche, sia in India sia in madrepatria. Intanto, ci si domandò se non fosse il caso di annullarla, visto che il pericolo imminente era rientrato e, a detta di molti, non era più necessario spodestare Dost Mohammed. Occupare l’Afghanistan era un’impresa non solo costosissima, ma che avrebbe lasciato sguarnite le altre frontiere dell’India, spingendo ulteriormente i persiani nelle braccia accoglienti della Russia. Fra gli avversari più accaniti della spedizione vi era il duca di Wellington, il quale ammoniva che al termine dei successi militari sarebbero cominciate le difficoltà politiche. Ma Palmerston e Auckland, ormai smaniosi di agire, e con l’esercito pronto, giudicavano fosse troppo tardi per invertire la rotta. Inoltre in Gran Bretagna e in India i sentimenti antirussi erano quasi a un livello di isteria, e l’imminente avventura poteva contare su un enorme consenso da parte dell’opinione pubblica. Certamente su quello del «Times», che tuonava: «Dalle frontiere d’Ungheria al cuore della Birmania e del Nepal… il demonio russo assilla e turba il genere umano, e perpetra diligentemente le sue perfide frodi… a danno del nostro impero industrioso ed essenzialmente pacifico».

La sola concessione di Auckland, adesso che non era più necessario dare una lezione ai persiani, fu di ridurre leggermente l’entità della forza d’invasione. L’«Armata dell’Indo», questo il nome ufficiale, consisteva di quindicimila soldati britannici e indiani, tra fanteria, cavalleria e artiglieria. Era accompagnata da un esercito ancor più numeroso e variegato di trentamila uomini – portatori, stallieri, lavandai, cuochi, maniscalchi – e da altrettanti cammelli per il trasporto di munizioni, provviste e bagagli personali degli ufficiali. Un generale di brigata, pare, usò non meno di sessanta cammelli per trasportare la sua attrezzatura da campo, mentre gli ufficiali di un reggimento requisirono due cammelli solo per trasportare i propri sigari. C’erano infine parecchie mandrie di bovini, che dovevano servire da dispensa mobile per il corpo di spedizione. Oltre alle unità britanniche e indiane c’era il piccolo esercito di Shujah. Burnes aveva fatto presente a Auckland che questi sarebbe stato meglio accetto ai suoi connazionali se avesse conquistato il trono alla testa delle proprie truppe invece che con le sole baionette inglesi. Comunque, pochi fra gli uomini di Shujah erano afgani: i più erano indiani addestrati e guidati da ufficiali inglesi, e pagati con fondi britannici.

Sotto la guida del tenente colonnello Sir Alexander Burnes, mandato avanti a spianare la via con le minacce, le lusinghe o la corruzione, la forza d’invasione entrò in Afghanistan nella primavera del 1839 varcando gli ottanta chilometri del passo Bolan. La strada di gran lunga più breve sarebbe stata attraverso il Punjab e il passo Khyber, ma all’ultimo momento Ranjit Singh si era opposto. Si dovette perciò passare per il Sind e il più meridionale dei due grandi valichi. Anche i principi del Sind si erano dichiarati contrari, proclamando che il trattato con gli inglesi escludeva il trasporto sull’Indo di truppe militari. Ma gli inglesi risposero che questa era un’emergenza e, minacciandoli di gravi conseguenze se avessero tentato di resistere, proseguirono imperterriti la loro marcia.

Sebbene Burnes avesse comprato dai capi beluci della zona il passaggio indisturbato attraverso il passo Bolan, vi furono molte vittime tra i soldati, i portaordini e gli animali, per via degli agguati tesi nei tratti isolati dalle bande di briganti. Il cammino si dimostrò molto più arduo del previsto anche per le colonne principali. Si era creduto che la spedizione potesse approvvigionarsi in gran parte con i prodotti agricoli locali, ma la golpe aveva decimato il raccolto della stagione precedente, costringendo gli abitanti dei villaggi a nutrirsi di piante selvatiche per sopravvivere: cosa che una ricognizione attenta avrebbe potuto rivelare. La forza d’invasione si trovò pericolosamente a corto di viveri, e il morale degli uomini ne risentì pesantemente. «Queste privazioni cominciarono presto a incidere sulla salute e sullo spirito» scrive Sir John Kaye. «Le sofferenze erano aggravate dal timore del futuro, e nel vedersi l’un l’altro smagriti, le guance incavate… gli uomini si perdevano d’animo».

A quello che appariva un inevitabile disastro già agli inizi della campagna, Burnes rimediò appena in tempo. Acquistò dai beluci, a un prezzo esorbitante, circa diecimila pecore, che servirono a rinvigorire l’energia e il morale della spedizione. Ma le informazioni avute dal khan da cui fece l’acquisto, e che trasmise a Macnaghten, erano poco incoraggianti. Il khan lo avvertì che gli inglesi potevano riuscire a mettere Shujah sul trono, ma non a portare dalla loro il popolo afgano. Si erano imbarcati in un’impresa «di vaste proporzioni e di difficile realizzazione», dichiarò il khan, e, invece di dare fiducia alla nazione afgana e a Dost Mohammed, li «avevano spregiati, inondando il paese di truppe straniere». Shujah era malvisto dagli afgani, e gli inglesi avrebbero fatto bene a indicargli i suoi errori «se ne era lui la cagione, oppure a correggerli, se provenivano da loro stessi».

Era l’ultima cosa che Macnaghten desiderava sentirsi dire, poiché aveva ripetutamente assicurato a Lord Auckland che il ritorno di Shujah sarebbe stato accolto con entusiasmo dagli afgani. Finora di questo entusiasmo non si era vista traccia, ma la prima vera prova della popolarità del fantoccio britannico si sarebbe avuta a Kandahar, la capitale meridionale del paese, governata da un fratello di Dost Mohammed. Nei pressi della città, a Macnaghten e a Sir John Keane, il generale al comando della spedizione, giunse notizia della sua fuga a nord. Poiché appariva improbabile una qualche resistenza, le unità britanniche ebbero l’ordine di tenersi arretrate, in modo da far sembrare che a restituire Kandahar a Shujah fossero le sue truppe. Il 25 aprile Shujah, con Macnaghten al fianco, entrò in città senza colpo ferire. Una folla di curiosi venne fuori ad accoglierlo mentre passava trionfalmente a cavallo, gli uomini per le strade e le donne sui tetti e i balconi a sparger fiori sul suo cammino e a urlare «Kandahar è libera» o «Confidiamo nella tua protezione».

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Macnaghten se ne compiacque. Si era visto che aveva ragione lui, e Burnes torto. «Shah Shujah ha fatto un ingresso solenne,» scrisse quella sera a Lord Auckland «ed è stato ricevuto con sentimenti quasi di adorazione». Dost Mohammed, non appena fosse venuto a sapere della fervida accoglienza riservata alla vittoria incruenta di Shujah, sarebbe certamente fuggito senza difendere Kabul. Macnaghten decise di organizzare un dour-o-bar, adunanza, nella piana fuori città, in cui gli afgani potessero manifestare fedeltà al nuovo sovrano. Si allestì una spettacolare parata militare: le truppe del generale Keane sarebbero sfilate in alta uniforme davanti a Shujah, il quale ne avrebbe ricevuto il saluto stando su una piattaforma riparata dal caldo ardente da un baldacchino a colori vivaci. Il giorno stabilito, al levar del sole, Shujah mosse al luogo dove erano schierate le unità britanniche e indiane, e dove lo attendevano Macnaghten, Keane e altri ufficiali politici e militari. Salito alla piattaforma, le truppe presentarono le armi, ci fu una salva d’onore di centouno colpi di cannone e la sfilata ebbe inizio. Tutto si svolse alla perfezione, tranne che per un particolare: gli afgani venuti ad assistere allo spettacolo e a onorare Shujah erano sì e no un centinaio. «L’intera faccenda» scrive Kaye «fu un penoso fallimento… Lo sparuto numero di afgani presentatisi per rendere omaggio a Shah Shujah, oltre naturalmente a disattendere le aspettative dei suoi principali sostenitori europei, doveva aver fatto capire al sovrano, in una maniera che non lasciava presagire nulla di buono, quanto debole fosse il suo ascendente sulla popolazione».

Macnaghten fu forse deluso, ma non era disposto ad ammetterlo. Per male che andasse, la lealtà degli afgani, o almeno di quelli che contavano, la si poteva sempre comprare con l’oro inglese. Di questo era ben fornito, e provvide a distribuirlo generosamente fra i capitribù dei territori attraversati dalle truppe. «Aprì i forzieri» scrive Kaye «e ne sparse il contenuto a piene mani». Ma non c’era oro in grado di comprare la lealtà della città successiva, situata di traverso rispetto alla linea d’avanzata. Si trattava di Ghazni, appollaiata, con la poderosa fortezza, sul fianco di una montagna e ritenuta inespugnabile in tutta l’Asia centrale. Dopo averne esaminate le mura, spesse, massicce e alte quasi venti metri, il generale Keane e i suoi genieri si resero conto di avere di fronte un problema serio. La fortezza afgana era ben più ostica di quanto avessero creduto. Presumendo di non averne bisogno, Keane aveva lasciato a Kandahar i cannoni d’assedio; con sé aveva soltanto artiglieria leggera da campo, di scarsa o nessuna efficacia contro una roccaforte di quel genere. L’armata era di nuovo a corto di viveri, e ci sarebbero volute settimane per far giungere i cannoni d’assedio, dato che, essendo pesantissimi, bisognava trascinarli palmo a palmo.

C’era però un modo di espugnare Ghazni senza usare i cannoni, ed era di far saltare una delle porte della città. Sarebbe stata una missione quasi suicida per chi avesse piazzato le cariche di esplosivo e acceso la miccia, e ci sarebbe voluta un’eccezionale dose di coraggio, perché il lavoro andava fatto sotto gli occhi dei soldati di presidio schierati in alto sui bastioni. Il giovane ufficiale incaricato di guidare la squadra degli artificieri, benché ancora convalescente in seguito a un attacco di itterizia, fu il tenente Henry Durand dei Bengal Engineers. Sorse ora il problema di quale delle numerose porte della città attaccare. Qui gli inglesi ebbero fortuna. Infatti, al seguito della spedizione in qualità di ufficiale indigeno del servizio segreto c’era Mohan Lal, giovane amico e protetto di Burnes, il quale conosceva uno dei difensori e riuscì a contattarlo. Il traditore gli rivelò che tutte le porte della città erano state murate dall’interno ed erano praticamente inviolabili, tranne una: la grande Porta di Kabul.

Mentre il generale Keane e il suo stato maggiore preparavano il piano di attacco, le vedette scorsero, in cima a un colle sovrastante l’accampamento inglese, un gruppo di afgani armati. Un trombettiere diede l’allarme, e cavalleggeri e fanti gli si lanciarono contro, mettendoli in fuga e catturandone un certo numero, insieme a uno stendardo della guerra santa. I prigionieri vennero condotti davanti a Shujah; e a quel punto uno di loro, urlando che costui era un traditore della fede, riuscì a liberarsi e, nel parapiglia, a pugnalare un membro del seguito reale. Shujah, infuriato, ordinò di uccidere immediatamente tutti i prigionieri. Mentre era in corso la carneficina, un ufficiale inglese che passava sul retro dell’accampamento reale udì un trambusto e, sbirciando attraverso una tenda, si trovò faccia a faccia con i carnefici, che tra risa e lazzi erano all’opera, «amputando e mutilando quei poveri disgraziati con lunghe spade e coltelli».

C’erano quaranta o cinquanta prigionieri, vecchi e giovani. «Molti erano morti, altri all’ultimo respiro». Alcuni, seduti o in piedi con le mani legate dietro la schiena, aspettavano la loro sorte. Inorridito da quanto aveva visto, l’ufficiale corse ad avvertire Macnaghten. Ma questi, pare, fece poco o niente per fermare il massacro; forse era già troppo tardi. Fino ad allora, nota Kaye, Macnaghten si era profuso in lodi della magnanimità di Shujah. Adesso risultò chiaramente che tale magnanimità «esisteva soltanto nelle sue lettere». Una simile barbarie era inaccettabile perfino se commisurata agli usi selvaggi dell’Afghanistan, e la notizia delle atrocità perpetrate da colui che aspirava a regnare sul paese si diffuse rapidamente, accrescendo le file dei suoi nemici e recando un danno incalcolabile alla reputazione dei suoi sostenitori britannici.

Frattanto Keane aveva messo a punto i suoi piani e impartito gli ordini per l’assalto a Ghazni. L’attacco sarebbe avvenuto quella notte, col riparo delle tenebre e del rumore del vento. Per distogliere i difensori dalla Porta di Kabul un attacco diversivo avrebbe avuto luogo all’estremità opposta della fortezza, mentre l’artiglieria leggera e la fanteria sipahi avrebbero diretto il fuoco a distanza ravvicinata contro i soldati di guardia ai bastioni. Per consentire al tenente Durand e ai suoi artificieri di piazzare i sacchi di polveri, bisognava distrarre a ogni costo l’attenzione dei difensori.

Alle tre del mattino tutto era pronto, e ognuno al suo posto. Al segnale di Keane i cannonieri e i fanti aprirono il fuoco contro i bastioni; sotto gli occhi delle squadre d’assalto nascoste nell’oscurità in attesa che la porta saltasse in aria, un proiettile portò via la testa a un soldato afgano. Nel frattempo, la pattuglia degli artificieri raggiunse rapida e silenziosa l’obiettivo. Dopo aver collocato le cariche di esplosivo senza essere scoperti, gli uomini si misero in salvo, lasciando Durand ad accendere la miccia. Acquattato vicino alla porta, questi, da una fessura del legno, intravide un difensore con un jezail dalla lunga canna in pugno. Al primo tentativo la miccia non si accese, e nemmeno al secondo. Per un brutto momento Durand, conscio che tutto dipendeva da lui, temette di doversi sacrificare dando fuoco direttamente all’esplosivo. Ma al terzo tentativo la miccia cominciò a crepitare. Durand corse al riparo, e qualche istante dopo le cariche esplosero.

«L’effetto fu possente quanto improvviso» racconta Kaye. «Si levò una colonna di fumo nero, e masse di muratura e di travi in frantumi crollarono in un confuso e terrificante rovinio». Spentosi il boato dell’esplosione, il trombettiere diede il segnale. Guidate dal colonnello William Dennie, soldato di leggendaria prodezza, le squadre d’assalto si riversarono nel varco fumante, e nel giro di pochi secondi le baionette inglesi e le spade afgane furono coinvolte in una lotta furibonda. Udendo acclamazioni dall’interno, il grosso della forza d’attacco mosse dalle sue posizioni e si lanciò verso la porta. Ma in quell’istante, nella confusione e nell’oscurità, accadde qualcosa che per poco non costò la battaglia agli inglesi. Credendo che la porta fosse bloccata dalle macerie, il trombettiere suonò la ritirata, arrestando momentaneamente l’attacco, mentre all’interno delle mura i reparti d’assalto combattevano strenuamente contro le forze soverchianti del nemico. Tuttavia ci si avvide presto dell’errore, e di nuovo fu dato l’ordine di carica. Pochi attimi dopo, tutti i reparti d’assalto, guidati da un generale di brigata con la sciabola in pugno, si trovarono dentro la fortezza e si unirono agli uomini di Dennie.

Gli afgani, lungi dall’immaginare che la loro roccaforte potesse essere attaccata, si batterono con coraggio e ferocia estremi. Ma era la prima volta che affrontavano truppe europee ben addestrate ed esperte nelle moderne tecniche d’assedio, e presto la difesa cominciò a incrinarsi. «Nell’impeto della disperazione» scrive Kaye «gli afgani si lanciarono fuori dai nascondigli contro i nostri soldati, usando le sciabole con terribile efficacia, ma furono tremendamente penalizzati dal fuoco dei moschetti della fanteria britannica… Alcuni, nel tentativo frenetico di fuggire dalla porta, incespicarono, feriti ed esausti, nel legname ardente, e perirono di morte lenta, carbonizzati. Altri finirono infilzati dalle baionette. Altri ancora, cacciati negli angoli come cani rabbiosi e uccisi a fucilate». Quelli che riuscirono a scappare dalla porta o al di là delle mura vennero falciati all’esterno dalla cavalleria. Presto fu tutto finito, e la Union Jack e gli stendardi reggimentali degli assalitori sventolarono trionfalmente sui bastioni.

Era una vittoria schiacciante, come dimostrano le cifre. Gli inglesi avevano avuto diciassette morti e centosessantacinque feriti, tra cui diciotto ufficiali. Al contrario, furono almeno cinquecento i difensori caduti nel combattimento all’interno della fortezza, e molti altri quelli uccisi all’esterno dalla cavalleria di Keane. Ma non minore importanza ebbero per i vincitori le enormi quantità di grano, farina e altri viveri trovate nella città, perché le loro provviste erano ormai così scarse da mettere a repentaglio le speranze di raggiungere Kabul. Adesso, grazie in gran parte all’intraprendenza di Mohan Lal e ai nervi saldi del tenente Durand, la via per la capitale afgana, situata a meno di centosessanta chilometri a nord, era sgombra.

La perdita repentina e inaspettata di Ghazni fu un durissimo colpo per Dost Mohammed. Il contingente di cavalleria afgana – cinquemila uomini al comando di suo figlio –, che aveva mandato avanti nel tentativo di arrestare l’avanzata britannica, fece ritorno per non rischiare l’annientamento. Dappertutto i sostenitori di Dost Mohammed cominciarono a dileguarsi, preferendo restarsene in disparte a vedere come andavano le cose. Il 30 giugno 1839, Keane riprese la marcia, e una settimana dopo, senza altro ostacolo che una linea di cannoni abbandonati, gli inglesi apparvero davanti alle mura di Kabul. Dost Mohammed era fuggito, e la capitale si arrese senza spargimenti di sangue.

Il giorno seguente, con Macnaghten, Keane e Burnes che cavalcavano al suo fianco, Shah Shujah entrò nella città che non vedeva da trent’anni, in vesti sfavillanti di pietre preziose e in groppa a un magnifico destriero bianco dai finimenti dorati. «Il tintinnio delle borse di monete e il luccichio delle baionette inglesi» osserva Kaye «gli avevano restituito un trono che senza questi fulgidi aiuti aveva cercato invano di riprendersi». Ma delle entusiastiche accoglienze che Macnaghten aveva fiduciosamente pronosticato non si vide traccia. «Sembrava più un corteo funebre che non l’ingresso di un re nella capitale dei suoi restaurati domini». Palmerston tuttavia si rallegrò molto della bella prova data da Auckland nell’arte di creare dei re. «Il glorioso successo di Auckland in Afghanistan» scrisse «intimorirà l’Asia intera e ci renderà tutto più facile».

Il piano originario di Auckland prevedeva di ritirare le forze britanniche non appena Shujah si fosse felicemente insediato sul trono, circondato dai propri dignitari e protetto dalle proprie truppe. Ma adesso fu chiaro perfino a Macnaghten che la sua posizione era tutt’altro che sicura finché l’abile Dost Mohammed fosse rimasto in libertà. Uno squadrone di cavalleria guidato da uno dei migliori comandanti di Keane fu mandato a catturare il re deposto, ma dopo un mese tornò a Kabul a mani vuote. Una successiva spedizione si rivelò ugualmente infruttuosa. Soltanto diversi mesi dopo Dost Mohammed si consegnò agli inglesi, i quali – per l’ira di Shujah, che voleva fosse «impiccato come un cane» – lo trattarono con ogni riguardo e lo mandarono in onorevole e temporaneo esilio in India.

Intanto a Kabul gli inglesi si adattarono alla routine quotidiana della vita di guarnigione. Organizzavano gare ippiche, spendevano la paga nei sempre più fiorenti bazar, e le famiglie di alcuni di loro cominciarono a raggiungerli dall’India in quella nuova stazione montana. Venne, fra gli altri, Lady Macnaghten, portando con sé lampadari di cristallo, vini d’annata, abiti di lusso e uno stuolo di servitori. Il generale Keane, cui la regina Vittoria aveva conferito il titolo di Lord Keane di Ghazni, tornò in India con il grosso del corpo di spedizione. Ma una parte rimase a Kabul, con contingenti minori a Ghazni, Kandahar, Jalalabad e Quetta, per proteggere le linee di comunicazione con il subcontinente. Macnaghten confidava che la forza delle armi britanniche potesse mantenere Shujah sul trono. Non così Keane. Al tenente Durand che faceva ritorno in India confidò: «Mi congratulo con voi che ve ne andate da questo paese, perché qui fra non molto – badate bene a quanto vi dico – avverrà qualche tremenda catastrofe…».

Verso la fine di agosto del 1839 giunsero alla guarnigione di Kabul due notizie inquietanti. La prima era che il tenente colonnello Charles Stoddart, mandato a Buchara per rassicurare l’emiro circa le intenzioni britanniche in Afghanistan, era stato arrestato e gettato in una cella infestata dai topi. La seconda, ancor più preoccupante, era che un corpo di spedizione russo partito da Orenburg era in marcia verso sud per impadronirsi del canato di Chiva.

16
IN GARA PER CHIVA

Dal tempo della visita di William Moorcroft a Buchara, quattordici anni prima, a Pietroburgo era venuto crescendo l’allarme per i disegni britannici sull’Asia centrale e i suoi mercati. Nell’autunno del 1838 questo allarme era pari a quello di Londra e Calcutta per le incursioni russe nelle regioni circostanti l’India. Nell’ottobre dello stesso anno, poco prima di conoscere il progetto degli inglesi di sostituire a Dost Mohammed un loro fantoccio, il conte Nessel’rode scrisse al suo ambasciatore a Londra per ragguagliarlo sui timori di Pietroburgo, avvertendolo dell’«attività indefessa svolta da viaggiatori inglesi per spargere turbamento fra i popoli dell’Asia centrale, e per portare agitazione anche nel cuore dei paesi confinanti con la nostra frontiera». Il principale fra questi viaggiatori importuni era Alexander Burnes, che mirava chiaramente a indebolire l’influenza russa in Asia centrale sostituendovi quella della Gran Bretagna, e altresì a scacciare le merci russe a vantaggio di quelle britanniche. «Per parte nostra, chiediamo soltanto di poter partecipare in leale concorrenza al commercio asiatico» insisteva Nessel’rode.

L’inchiostro della lettera era ancora fresco quando a Pietroburgo giunse notizia del progetto inglese d’invasione dell’Afghanistan. E visto che i guai non vengono mai soli, di lì a poco seguì l’annuncio che l’azione britannica nel Golfo aveva costretto lo scià a ritirarsi da Herat, togliendo così alla Russia ogni speranza di acquisirvi una base d’appoggio per interposta persona. Consapevoli di poter fare poco o niente riguardo a queste due iniziative, i russi decisero di intraprenderne a loro volta una altrettanto audace: impadronirsi di Chiva, cui ambivano da tempo, prima che gli inglesi cominciassero ad avventurarsi a nord dell’Oxus non solo con gli agenti ma anche con gli eserciti e le carovane di mercanzie. Con la Gran Bretagna che si comportava in modo così aggressivo in Afghanistan, i russi non potevano scegliere momento migliore per questa prima grande incursione in Asia centrale. E sui loro pretesti c’era poco da eccepire. Gli scopi ufficialmente dichiarati della spedizione erano di liberare i molti schiavi, russi e non, detenuti dai chivani, punire i predatori turkmeni che saccheggiavano regolarmente le carovane indigene cariche di merci russe, e sostituire il sovrano – come gli inglesi stavano facendo in Afghanistan – con un candidato russo compiacente, che ripudiasse le pratiche barbare del predecessore.

Erano scopi cui perfino a Burnes riusciva difficile obiettare, sebbene a lui e ai falchi come lui fosse evidente che l’avanzata russa verso sud non si sarebbe fermata a Chiva. Buchara, Merv e poi Herat sarebbero con ogni probabilità seguite a ruota. L’unica alternativa era che le truppe britanniche, usando la nuova base conquistata a Kabul, arrivassero a Chiva per prime. Era opinione di Macnaghten che Balkh, cruciale testa di ponte sull’Oxus, andasse occupata a maggio quando i passi dell’Hindu Kush fossero sgombri dalla neve. Di là si sarebbe potuto vibrare un colpo rapido ed efficace contro Buchara, dove l’inviato britannico, il tenente colonnello Stoddart, era tenuto prigioniero in condizioni disumane dal crudele e tirannico emiro. Poi, prima che i russi o i persiani ci mettessero sopra le loro avide mani, Herat andava assicurata alla protezione permanente della Gran Bretagna. Arrivati fin là, bisognava approfittarne il più possibile, se i russi erano intenzionati a impadronirsi di Chiva. Era il classico ragionamento da politica espansionistica. I veterani del Grande Gioco sentivano che per loro era finalmente giunta l’ora fatidica.

Ciò che convinse una volta per tutte i russi a muovere alla conquista di Chiva fu la voce (totalmente falsa) giunta loro via Buchara, secondo la quale una missione britannica di venticinque persone era arrivata a Chiva con offerte di aiuto militare. Per ordine di Pietroburgo, il generale Perovskij, comandante in capo di Orenburg, si accinse subito ad adunare una forza di cinquemiladuecento tra fanti, cavalleggeri e artiglieri. Perovskij sperava di mantenere segreta la sua intenzione fino all’ultimo, non solo per evitare di mettere in allarme i chivani, ma anche perché ricordava che a Herat un solo ufficiale subalterno inglese era stato sufficiente a frustrare i piani russi, e non voleva che la cosa si ripetesse. Infine preferiva aspettare che gli inglesi fossero impegnati a fondo nell’avventura afgana, in modo che non avessero motivo di protestare se a loro volta i russi avevano imposto un re a Chiva. Nel caso fossero trapelate voci circa i preparativi, la spedizione sarebbe stata ufficialmente definita «di analisi scientifica» del Lago d’Aral, che si trovava sulla strada. Invero, negli anni successivi le «spedizioni scientifiche» servirono spesso da copertura alle attività russe nel Grande Gioco, mentre gli inglesi tendevano a mandare i propri agenti in «licenza di caccia», in modo da poterli sconfessare se necessario.

Di fatto i russi non riuscirono a mantenere il segreto a lungo. Come si è visto, gli inglesi vennero a conoscenza dei preparativi di Perovskij già nell’estate del 1839, tre mesi prima della partenza della spedizione. L’avvertimento venne dalla stessa Chiva, in seguito a certe voci giunte all’orecchio del khan grazie alla sua efficiente rete di spie. Circa il modo in cui la notizia arrivò di là a Herat, dov’erano ancora stanziati alcuni ufficiali britannici dopo la ritirata dello scià, circolano due versioni. Secondo l’una, il khan di Chiva, preso dal panico, mandò in tutta fretta un messo a chiedere aiuto agli heratesi, sapendo che avevano vittoriosamente respinto i persiani e i loro consiglieri russi. Secondo la versione inglese, un loro agente locale tornò da Chiva annunciando che un esercito russo – di centomila uomini, a quanto si vociferava – stava per muoversi da Orenburg. Comunque sia, l’ufficiale britannico di grado più elevato a Herat, il maggiore d’Arcy Todd, appresa la notizia, spedì subito dei messaggeri a Teheran e a Kabul per avvertire del pericolo i suoi superiori. Nel frattempo decise di fare da Herat quanto stava in lui per impedire che Chiva cadesse in mano russa.

Essendogli impossibile lasciare il proprio posto, risolse di mandare a Chiva il capitano James Abbott, esperto ufficiale al suo servizio, con l’offerta di negoziare per conto del khan con i russi in marcia. Se si fosse riusciti a persuadere il khan a rimettere in libertà gli schiavi russi, Pietroburgo non avrebbe avuto più alcun pretesto per avanzare in territorio chivano. La minaccia al trono del khan, insieme a quella all’India britannica, sarebbe stata così eliminata. Era compito di Abbott convincere il khan dell’urgente necessità di liberare gli schiavi prima che Perovskij avanzasse troppo per fare dietrofront. Vestito all’afgana, e avendo ben presente la sorte del colonnello Stoddart, l’ultimo ufficiale britannico inviato in un canato dell’Asia centrale, Abbott partì da solo per Chiva, ottocento chilometri a nord, alla vigilia di Natale del 1839.

Intanto, a duemilacinquecento chilometri di distanza, anche il generale Perovskij era partito per Chiva, al comando di oltre cinquemila soldati, russi e cosacchi, con diecimila cammelli per il trasporto delle munizioni e dell’equipaggiamento. Prima di intraprendere la lunga e faticosa marcia attraverso le steppe e i deserti, il generale adunò i suoi uomini nella piazza principale di Orenburg e lesse uno speciale ordine del giorno. «Per volere di Sua Maestà l’Imperatore» dichiarò «marceremo contro Chiva». Anche se da tempo circolavano voci sulla probabile destinazione, era la prima volta che l’obiettivo veniva comunicato ufficialmente alle truppe. Finora era stato detto loro che dovevano fungere da scorta per una missione scientifica sul Lago d’Aral. «Per molti anni» proseguì il generale «Chiva ha messo a dura prova la pazienza di una potenza forte e magnanima, finendo con l’attirare su di sé la collera provocata dalla sua condotta ostile». Onore e gloria sarebbero stati la ricompensa dei soldati pronti a sfidare pericoli e stenti per recare soccorso ai fratelli in schiavitù; l’accuratezza che avevano dimostrato nei preparativi per il viaggio unita alla determinazione di raggiungere Chiva erano garanzia di vittoria. «Tra due mesi, con l’aiuto di Dio, saremo a Chiva».

Dapprima tutto andò secondo i piani. Si erano scelti deliberatamente i primi mesi dell’inverno a causa del caldo intenso del deserto in estate e della difficoltà di trovare acqua per una forza tanto numerosa lungo i millesettecento chilometri del percorso. Il generale intendeva arrivare a Chiva prima di febbraio, il mese più aspro dell’inverno centroasiatico. Nondimeno il freddo fu una gran brutta sorpresa per uomini che, secondo le parole del rapporto ufficiale della spedizione, «avevano sempre abitato in case calde, avventurandosi fuori di rado se non per cacciare o per viaggi brevi». Di notte, nelle tende di feltro, i russi si coprivano dalla testa ai piedi con i loro pastrani di montone per tentare di proteggere dal congelamento il naso e le estremità. Ma il fiato e il sudore gelavano i baffi e i capelli incollandoli ai pastrani, e la mattina, al risveglio, «gli ci voleva un bel po’ di tempo per sciogliersi». Fortunatamente i soldati erano di buona tempra e presto si adattarono alle temperature gelide.

Novembre cedette il passo a dicembre, e cominciò a nevicare. La neve era molto più fitta e frequente di quanto si fossero aspettati Perovskij e il suo stato maggiore. Gli stessi kirghisi non ricordavano di averne mai vista tanta all’inizio dell’inverno. Cancellava ogni traccia, rendendo infido il cammino su quel terreno piatto e uniforme. «Solo talvolta» dichiara il rapporto «era possibile accertare la rotta seguita dalle colonne antistanti grazie ai pilastri di neve eretti a intervalli dai cosacchi, ai mucchi di neve che segnavano gli accampamenti notturni, e ai cammelli vivi e morti, alcuni gelati e divorati in parte dalle belve, che giacevano lungo la linea di marcia». La neve alta e la terra gelata rendevano sempre più difficile trovare cibo per i cammelli, che presto cominciarono a morire a un ritmo allarmante. «Quando un cammello cadeva,» dice il rapporto «di rado si rialzava». La necessità continua di trasferire il carico dai cammelli caduti su altri cammelli rallentava enormemente l’avanzata e spossava gli uomini. Di un ufficiale subalterno, mandato avanti nella regione del Lago d’Aral per cercare di acquistare nuove bestie da soma, giunse notizia che era stato catturato da una pattuglia chivana e portato a Chiva legato mani e piedi.

All’inizio di gennaio la spedizione aveva perduto quasi metà dei cammelli, e gli animali superstiti, straniti dalla fame, cominciavano a rosicchiare le casse di legno contenenti le razioni degli uomini. Per impedirlo, bisognava scaricare ogni sera circa diciannovemila fra casse e sacchi, e ricaricarli la mattina dopo. Per cucinare e riscaldarsi era necessario trovare in qualche modo sotto la neve il combustibile, ossia radici di piccoli arbusti che andavano estratte scavando nella terra gelata. A ogni sosta si dovevano sgombrare dalla neve ampi tratti di terreno per l’accampamento. «Solo verso le otto o le nove di sera i soldati potevano avere un po’ di riposo,» dice il rapporto ufficiale «e alle due o alle tre della mattina dovevano alzarsi e provvedere alla stessa serie di pesanti incombenze». Nondimeno la spedizione continuò stoicamente ad avanzare.

Lo strato di neve divenne presto così spesso che gli uomini lavoravano immersi fino alla vita per sgombrare la strada ai cammelli e all’artiglieria. Intanto, la neve continuava a cadere e la temperatura a scendere, mettendo oltremodo alla prova la capacità di sopportazione e il morale delle truppe. «Con quel freddo» si legge nel rapporto ufficiale «era impossibile lavare i panni o provvedere alla pulizia personale. Molti furono i soldati che, durante l’intero percorso, non solo non si cambiarono la biancheria ma non si tolsero nemmeno i vestiti. I loro corpi erano coperti di parassiti e incrostati di sudiciume». Le malattie divennero un problema serio, e lo scorbuto cominciò a mietere sempre più vittime. Eppure erano ancora a meno di metà strada da Chiva.

Con l’approssimarsi della fine di gennaio fu sempre più evidente che la spedizione si avviava al disastro. Oltre duecento uomini erano già morti di malattia, e più del doppio erano quelli troppo malati per combattere. I cammelli, così essenziali all’impresa, morivano al ritmo di un centinaio al giorno. Il tempo seguitava a peggiorare, e gli esploratori cosacchi riferirono che più avanti la neve, ancora più alta, rendeva quasi impossibile sia trovare combustibile e foraggio di qualunque genere, sia marciare a una velocità ragionevole. Il 29 gennaio, il generale Perovskij ispezionò a una a una tutte le colonne per constatare di persona se gli uomini e gli animali fossero in grado di proseguire per un altro mese, il tempo minimo necessario a raggiungere i primi centri abitati del canato di Chiva. Opinione unanime dei comandanti di colonna fu che se si voleva evitare una catastrofe, avanzare ulteriormente era fuori questione. Da ciò che lui stesso aveva visto delle condizioni degli uomini, Perovskij capì che avevano ragione.

Per tutti loro, ma specialmente per il generale, dovette essere un momento di amarezza e di cocente umiliazione. Disgraziatamente, per attaccare Chiva avevano scelto l’inverno peggiore di cui gli abitanti della steppa avessero memoria. Se fossero partiti poco prima avrebbero forse potuto evitare il periodo più aspro e raggiungere per tempo l’oasi di Chiva, ricca e riparata. Invece non avevano neppure visto il nemico, e tantomeno lo avevano impegnato in battaglia. Il 1° febbraio 1840, il generale ordinò che le colonne esauste e decimate invertissero la marcia e tornassero a Orenburg. Avevano impiegato quasi tre mesi per giungere a fatica fin lì, e la marcia di ritorno avrebbe richiesto verosimilmente altrettanto. Affrontando la situazione con tutta la fermezza possibile, Perovskij disse ai suoi uomini: «Camerati! Da quando siamo partiti abbiamo dovuto lottare contro ostacoli durissimi e un inverno senza precedenti. Abbiamo superato queste difficoltà, ma ci è stata negata la soddisfazione di incontrare il nemico». Assicurò che la vittoria era soltanto rinviata, e che «la nostra prossima spedizione avrà più fortuna».

Ma il problema immediato di Perovskij era districare le truppe dalla pericolosa situazione in cui si trovavano, col minor numero di vittime, e possibilmente senza perdere del tutto la faccia. Era la seconda volta in meno di un secolo che una spedizione russa contro Chiva si concludeva con un umiliante fallimento. Tuttavia, per dirla con le parole del rapporto ufficiale, «era preferibile soccombere agli ostacoli insormontabili della natura e ritirarsi senza indugio, anziché dare pretesto ai miserabili avversari della Russia di esultare per un’immaginaria vittoria». Quegli ostacoli, peraltro, si dimostrarono non meno ardui al ritorno che all’andata. A ricordare agli uomini la loro triste condizione, in aggiunta ai cumuli di neve e alle tormente, alla mancanza di cibo e alle malattie, c’era la macabra scia delle carcasse putrefatte dei cammelli, mezzo divorate dai lupi e dalle volpi. Fiutando di lontano le carogne, i branchi di lupi assillavano le colonne durante le soste notturne.

Nell’intento di combattere lo scorbuto, Perovskij si procurò con grande difficoltà provviste di carne fresca, credendo erroneamente che la causa della malattia fosse appunto la mancanza di carne, e non di verdura. Purtroppo, e non fa meraviglia, «nonostante queste misure preventive» dice il rapporto «lo scorbuto invece di attenuarsi peggiorò»; se ne diede la colpa al cattivo stato di salute degli uomini e all’assenza di igiene e di pulizia personale. Con l’arrivo di marzo ci fu un leggero ma bene accetto miglioramento del tempo, che tuttavia diede origine a un nuovo disagio: l’accecamento da neve. Molti soldati, con gli occhi indeboliti da mesi di carenza vitaminica, risentivano terribilmente del riverbero del sole primaverile sulla neve. Gli occhiali improvvisati fatti con reticoli di crini di cavallo giovarono ben poco ad alleviare la sofferenza, aggravata dal fumo acre dei ramoscelli verdi usati come combustibile.

Durante tutto marzo e aprile continuò lo stillicidio di uomini e cammelli, e quando a maggio, quasi sette mesi dopo la baldanzosa partenza, l’ultima colonna rientrò a Orenburg, le dimensioni della catastrofe apparvero nel pieno della loro sconcertante evidenza. Dei cinquemiladuecento tra ufficiali e soldati partiti per Chiva, più di mille erano morti senza che si fosse sparato un colpo. Dei diecimila cammelli della spedizione ne erano sopravvissuti meno di millecinquecento. Non uno schiavo russo era stato liberato, i razziatori turkmeni rimanevano impuniti, e il khan che si sarebbe dovuto rovesciare era ancora saldamente sul trono. Invece, di là dall’Oxus, gli inglesi avevano attuato un’operazione non dissimile con una professionalità da manuale. Per i russi era un tremendo smacco, all’indomani del loro insuccesso a Herat, dove pure gli inglesi li avevano battuti, agli occhi del mondo, nell’agone del Grande Gioco. Per giunta, non era un segreto che la campagna russa contro i circassi e i daghestani di Shamil nel Caucaso andava piuttosto male. Inutile dire che la stampa russofoba, in Gran Bretagna e nel continente, si fregava le mani dalla contentezza per il triplice fiasco. Per parte loro i giornali di Pietroburgo cercavano di giustificare l’avventura chivana, prendendosela con la stampa estera che la criticava, e accusandola di ipocrisia. I russi sostenevano che gli inglesi, con molte meno ragioni, avevano occupato l’India, gran parte della Birmania, il Capo di Buona Speranza, Gibilterra, Malta, e adesso l’Afghanistan, mentre i francesi avevano sbrigativamente annesso tutta l’Algeria col dubbio pretesto che il bey musulmano aveva insultato il loro console. «Le colpe del bey algerino» osservò il rapporto ufficiale russo sulla spedizione chivana «appaiono insignificanti a paragone di quelle dei khan di Chiva, i quali da anni sfidano la pazienza della Russia con perfidie, oltraggi e ruberie, e tengono in schiavitù migliaia di sudditi dello zar». Gli anonimi autori del rapporto esprimevano l’auspicio che il fallimento della spedizione dimostrasse definitivamente «l’inattuabilità di idee di conquista in quella regione – posto che ne esistano», e mettesse fine una volta per sempre ad analoghe «interpretazioni erronee» della politica russa in Oriente.

Ovviamente, non accadde nulla del genere, anche se dovevano passare altri trent’anni prima che i russi mandassero una nuova spedizione a Chiva. Ormai vigeva un clima di sospetti e malintesi. In Gran Bretagna e in India pochi erano disposti a riconoscere che era stato in gran parte il panico per l’iniziativa britannica in Afghanistan a spingere Pietroburgo ad agire in modo così precipitoso contro Chiva. La propaganda russofoba furoreggiava. I viaggiatori inglesi di ritorno dalla Russia non facevano che ripetere che lo zar Nicola mirava al dominio mondiale. Robert Bremmer, nel suo Excursions in the Interior of Russia pubblicato nel 1839, ammoniva che lo zar aspettava soltanto il momento più opportuno per colpire. «Non c’è dubbio che lo farà quando la Polonia sarà più sicura, la Circassia conquistata e le discordie interne appianate» dichiarava. Un altro inglese, Thomas Raikes, scrivendo nel 1838 attirò l’attenzione sul pericolo della rapida crescita della potenza militare e navale russa, e pronosticò l’esplosione imminente di una guerra tra Gran Bretagna e Russia.

A nutrire simili opinioni non erano solo gli inglesi. Un illustre osservatore francese, il marchese de Custine, che nel 1839 fece un viaggio in Russia, tornò con pronostici analoghi circa le ambizioni di Pietroburgo. Nel suo La Russie en 1839, opera citata ancor oggi dai cremlinologi, scrisse: «I russi vogliono conquistare e dominare la terra. Intendono impadronirsi con la forza delle armi dei paesi loro accessibili, e di là opprimere gli altri col terrore. L’estensione del potere che essi sognano… se Dio gliela concede, sarà la sciagura del mondo».

La stampa britannica condivideva largamente questa visione drammatica. In un editoriale apparso poco prima che fosse nota la sorte della spedizione chivana, il «Times» commentò: «I russi si sono impadroniti pressoché di tutti i regni settentrionali dell’Asia centrale… sono in possesso delle grandi linee di traffico interno che un tempo facevano di Samarcanda e ora fanno di Buchara una postazione di prim’ordine dal punto di vista commerciale; e… avendo attraversato un vasto e impervio tratto di deserto, si stanno ora preparando o sono già pronti… a lanciare le loro orde armate verso le più fertili regioni dell’Indostan». L’articolo biasimava Palmerston per aver incoraggiato i russi a coltivare questi sogni con la sua mancanza di fermezza; tuttavia dichiarava senza la minima incertezza che, quando si fosse giunti all’inevitabile scontro, le armi britanniche avrebbero prevalso. La notizia che il tentativo russo di annettere Chiva era miseramente fallito e che le truppe si erano ritirate non mitigò le opinioni del giornale. Sebbene Pietroburgo affermasse che il tentativo non si sarebbe ripetuto, e che comunque fin dal principio l’intenzione era stata di ritirarsi una volta raggiunti gli obiettivi, si riteneva generalmente che l’invio contro Chiva di una spedizione più numerosa, in una stagione dell’anno più propizia, fosse solo questione di tempo.

Un altro giornale autorevole, la «Foreign Quarterly Review», che aveva sempre predicato moderazione, si unì adesso alle file dei russofobi, avvertendo i lettori dell’«estremo pericolo» rappresentato da Pietroburgo in Asia e in Europa. «La silenziosa ma allarmante avanzata della Russia in ogni direzione è ormai evidente,» dichiarò «e non si conosce potenza europea o asiatica contro cui essa non mediti un’offensiva. La povera Turchia è già quasi nelle sue mani, e così la Grecia. La Circassia la tiene a bada, ma condividerà la sorte della Polonia se non verrà aiutata. La Persia è già al suo fianco; l’India e la Cina sono evidentemente le prossime mete in programma. La Prussia e l’Austria devono stare in guardia, e anche la Francia è tenuta d’occhio nella speranza che un rivolgimento contro l’impopolare dinastia degli Orléans favorisca l’ascesa al trono del principe Luigi Napoleone».

A tal segno compromesse erano dunque le relazioni anglo-russe mentre, verso la fine del gennaio 1840, il capitano James Abbott si dirigeva a Chiva. Abbott, ignaro di tutto questo, non sapeva nemmeno che la spedizione russa si era conclusa con una catastrofe, e che quindi lui aveva vinto la gara. Tuttavia, come avrebbe presto scoperto, la sua accoglienza nella roccaforte musulmana non sarebbe stata esaltante.17

LA LIBERAZIONE DEGLI SCHIAVI

Quando il capitano Abbott, lasciato il travestimento afgano e indossata l’uniforme britannica, varcò le porte di Chiva, apprese di esser stato preceduto da voci allarmanti circa il vero scopo del suo arrivo. Si diceva che lui, pur fingendosi inglese, fosse in realtà una spia russa mandata dal generale Perovskij a prender nota delle difese della città. Lo turbò inoltre apprendere che non molto tempo prima due misteriosi viaggiatori europei, che si dicevano inglesi ma che il khan sospettava fossero russi, erano stati torturati con spiedi roventi e costretti a confessare. Poi, a quanto pare, erano stati sgozzati, e i loro resti gettati nel deserto come macabro monito per gli altri. Ed ecco che arrivava Abbott, dichiarandosi inglese lui pure, in un momento in cui Chiva era gravemente minacciata. Non sorprende che sia stato accolto con tanta diffidenza.

A peggiorare le cose c’era poi il fatto che le idee del khan su chi fossero di preciso gli inglesi erano a dir poco confuse. Fino a quando non giunse a Chiva notizia del ruolo avuto da Eldred Pottinger nella difesa di Herat, ben pochi li avevano mai sentiti nominare. Fra i loro schiavi non c’era nessun inglese, e nessun inglese, a memoria d’uomo, era mai venuto lì. Molti credevano che gli inglesi fossero una sottotribù o uno Stato vassallo dei russi. Si vociferava anche che, dopo essersi impadroniti di Kabul, si proponessero di unire le loro forze a quelle dei russi in avanzata, per dividersi l’Asia centrale. Con tali premesse, la possibilità che Abbott riuscisse a persuadere i chivani a cedere i loro schiavi in cambio di una ritirata russa sembrava davvero molto remota. Appariva assai più probabile che finisse sgozzato come i suoi sventurati predecessori «inglesi», o fosse gettato in una cella sotterranea come il colonnello Stoddart nella vicina Buchara.

Ma se Abbott era in ansia per la sua salvezza, anche il khan lo era per la propria. Credendo che i russi stessero ancora muovendo verso la capitale con un esercito, si diceva, di centomila uomini, il khan aveva un disperato bisogno d’aiuto, da qualsiasi parte potesse arrivare. Accettò di ricevere l’ufficiale britannico e di ascoltarne le proposte, anche se, nel timore che fosse una spia, si premurò di fargli vedere il meno possibile delle difese di Chiva. Nella prima delle numerose udienze che ebbe con il khan, Abbott presentò le sue credenziali, insieme a una lettera del maggiore Todd, suo superiore a Herat, benché si rendesse conto, non senza disagio, che erano ben poca cosa. «Ero stato mandato nell’urgenza del momento,» scrisse in seguito «senza nemmeno le credenziali del capo del governo indiano». Il khan fu deluso dalla lettera di Todd: evidentemente sperava che Abbott gli offrisse un aiuto militare immediato, non semplici espressioni di amicizia. Abbott spiegò che una decisione tanto importante non poteva essere presa dal maggiore Todd, ma soltanto dal governo di Londra. Ciò richiedeva tempo, mentre ben presto i russi sarebbero giunti alle porte di Chiva. C’era solo un modo di impedirlo, ed era che il khan restituisse tutti gli schiavi russi in suo possesso, privando così lo zar del pretesto per attaccarlo.

Abbott si offrì di andare lui stesso a nord con gli schiavi, o con una parte di loro a titolo di pegno, a negoziare un accordo con i russi per conto del khan. Ma questi, esperto di frodi, diffidava. Dopotutto l’ospite inglese poteva essere in collusione con i russi. Alla fine, senza manifestare il suo sospetto a chiare note, tentò di girarci attorno col maggior tatto possibile. Che cosa avrebbe impedito ai russi, domandò, di prendere Abbott e gli schiavi e di continuare l’avanzata? Abbott fu costretto ad ammettere che non poteva garantire il buon esito dell’iniziativa. Se Londra e Pietroburgo erano rivali in Asia, domandò ancora il khan, Abbott non temeva che i russi lo uccidessero senza pensarci due volte? L’ufficiale spiegò che, anche se la Gran Bretagna non desiderava che i russi occupassero Chiva, i due paesi non erano in guerra e avevano entrambi ambasciatori nelle rispettive capitali. I russi, aggiunse, nutrivano troppo rispetto per la potenza militare e politica della Gran Bretagna per rischiare di molestare uno dei suoi sudditi. Il khan osservò che i russi non avevano mostrato rispetto per i suoi ambasciatori: li avevano arrestati, incluso suo fratello. Queste cose, spiegò Abbott, potevano accadere quando una rappresaglia era chiaramente impossibile, ma Londra e Pietroburgo si trovavano assai vicine l’una all’altra, e «la forza navale e militare dell’Inghilterra era troppo formidabile per esser presa alla leggera».

Mentre il khan meditava sull’offerta di Abbott, si passò ad altri argomenti. Presto fu chiaro che il khan non aveva il benché minimo sentore delle dimensioni della Gran Bretagna, della Russia e del suo piccolo regno. «Quanti cannoni ha la Russia?» domandò. L’inglese rispose che non lo sapeva con sicurezza, ma che erano un numero impressionante. «Io ne ho venti» gli disse con orgoglio il khan. «Quanti ne ha la regina d’Inghilterra?». Abbott spiegò che ne aveva talmente tanti che non se ne teneva un conto preciso. «I mari sono coperti dalle navi inglesi, e ognuna porta da venti a centoventi cannoni grandissimi» proseguì. «Le sue fortezze sono piene di cannoni, e in ogni deposito militare ve ne sono migliaia. Abbiamo più cannoni di qualsiasi nazione al mondo».

«E qual è la frequenza di tiro dei vostri artiglieri?» chiese il khan.

«La nostra artiglieria campale può sparare circa sette colpi al minuto».

«I cannoni russi ne sparano dodici».

«Vostra Maestà è stato male informato» replicò Abbott. «Io stesso appartengo all’artiglieria, e so che questo è impossibile».

«Lo dice l’ambasciatore persiano» insisté il khan.

«Allora è male informato lui. Non ci sono al mondo artiglieri più esperti degli inglesi, e noi di preferenza non spariamo mai più di quattro volte al minuto. Non vogliamo sprecare i colpi, come accade se il cannone non viene ripuntato ogni volta. Non contiamo i colpi sparati, ma quelli andati a segno».

I chivani, non avendo mai visto l’artiglieria moderna in azione, non avevano idea del suo terribile potere distruttivo contro fortificazioni fatte di argilla e contro le cariche di cavalleria. Alcuni ministri del khan sembravano fiduciosi di poter respingere le forze di Perovskij quando si fossero avvicinate alla capitale. Abbott osservò che se i russi, dotati di risorse pressoché illimitate, non riuscivano a liberare gli schiavi al primo tentativo, sarebbero tornati con forze ancora più poderose, che i chivani, pur combattendo da prodi, non potevano sperare di contrastare. In tal caso, replicò il primo ministro del khan, «se moriremo combattendo gli infedeli, andremo direttamente in paradiso». Per un momento Abbott non seppe che cosa dire. Poi chiese: «E le vostre donne? Che genere di paradiso le vostre mogli e figlie troveranno nelle braccia dei soldati russi?». A questa inquietante prospettiva i ministri rimasero in silenzio. Abbott cominciò a credersi vicino a persuaderli che la sola salvezza stava nel liberare gli schiavi, e nel consentire a lui di fungere da intermediario con i russi. Ma ne doveva fare ancora di strada, e nel frattempo si trovò sottoposto a un’interminabile raffica di domande da parte del khan e di altri dignitari di corte: domande fin troppo familiari agli ufficiali britannici che si trovavano in terra musulmana. L’idea di una donna regnante, per esempio, non mancava mai di suscitare stupore e divertimento.

«Il vostro re è davvero una donna?» gli fu chiesto. «

Sì».

«È sposata?».

«No, è molto giovane».

«Se si sposa, il marito diventa re?».

«Assolutamente no. Non ha alcuna autorità nello Stato».

«Quante città ha il vostro re?».

«Troppe per contarle».

E così via. I ministri del re erano tutte donne? Gli inglesi sceglievano sempre una donna come re? Era vero che possedevano cannocchiali capaci di vedere attraverso le mura di una fortezza? La Gran Bretagna in inverno era fredda come Chiva? Gli inglesi mangiavano carne di maiale? Era vero che avevano preso Balkh? La Russia era molto più grande della Gran Bretagna? A quest’ultima domanda, vista la posta in gioco, Abbott ritenne necessario dare una risposta elaborata. «La questione» disse « è stata oggetto di una scommessa tra le missioni inglese e russa a Teheran, e dopo accuratissimo esame si è risolta a favore degli inglesi». La regina Vittoria, proseguì, «ha un territorio senz’altro maggiore, circa il quintuplo dei sudditi, ed entrate statali varie volte superiori a quelle russe». Ma, oltre all’impero di terra, c’era anche il mare. Un’occhiata a una carta qualsiasi mostrava che i mari occupavano una superficie del globo tripla di quella terrestre, e «dovunque si stenda l’oceano, la mia regina non ha rivali».

Ormai i chivani avevano saputo che la forza d’invasione del generale Perovskij era stata bloccata nella steppa dall’inclemenza del tempo, ma sembravano ignorare ancora che i russi erano in ritirata verso Orenburg. A Chiva si presumeva che, migliorando le condizioni climatiche, l’avanzata sarebbe ripresa. Dopo giorni di tergiversazioni e discussioni, Abbott fu convocato di nuovo alla presenza del khan e informato che si era deciso di ricorrere ai suoi servigi. Accompagnato da un certo numero di schiavi russi – come garanzia di buona volontà –, si sarebbe recato non già al quartier generale di Perovskij bensì a Pietroburgo, dove avrebbe negoziato a nome del khan il ritorno degli altri schiavi. La loro liberazione sarebbe avvenuta qualora lo zar avesse rinunciato a ogni operazione militare contro Chiva e restituito gli ostaggi chivani detenuti a Orenburg. Abbott avrebbe dovuto consegnare personalmente allo zar Nicola una lettera del khan contenente le suddette condizioni.

Una simile missione esorbitava ampiamente dalle istruzioni che Abbott aveva ricevuto dal maggiore Todd, ossia limitarsi a convincere il khan a liberare gli schiavi russi, nella speranza di impedire che Chiva cadesse nelle mani di Pietroburgo. Abbott, risultò in seguito, aveva già oltrepassato i limiti della propria autorità discutendo con il khan i termini di un possibile trattato con la Gran Bretagna. Tuttavia, per correttezza, va detto che Abbott non aveva modo di ricevere nuove istruzioni o consigli dai superiori, e non solo a causa dell’enorme distanza. Come scoprì presto, infatti, i suoi messaggi a Todd venivano intercettati dal sospettoso khan. Decise perciò di rischiare il malcontento ufficiale, calcolando che se fosse riuscito a eliminare del tutto la minaccia a Chiva, più o meno come Pottinger aveva fatto per Herat, nessuno lo avrebbe biasimato. Inoltre, viaggiare da Chiva a Pietroburgo, attraverso il cuore del territorio del Grande Gioco, offriva la prospettiva di una rara avventura.

Sebbene Abbott avesse in apparenza dissipato gli iniziali sospetti di essere una spia russa, il khan non voleva correre rischi. Per tutelarsi da un inganno, dal momento che Abbott sarebbe partito con gli schiavi, pretendeva di avere un ostaggio al suo posto. Mascherandolo come atto di altruismo, propose un piano per salvare il colonnello Stoddart dalle grinfie del vicino, l’emiro di Buchara, con il quale era allora in contrasto. Affermò di essere informato che a Stoddart si consentiva di uscire ogni giorno dalla cella per fare un po’ di moto. Il piano era di mandare una piccola squadra di cavalleggeri a rapire l’inglese sotto il naso delle guardie. Abbott però non solo diffidava dei motivi per cui il khan diceva di voler soccorrere Stoddart, ma dubitava dell’esattezza delle sue informazioni. Sebbene desiderasse caldamente la liberazione del compatriota, si oppose al progetto, nel timore che, se l’emiro ne avesse avuta notizia, avrebbe messo a morte Stoddart senza indugio. L’idea fu abbandonata, ma il khan e i suoi ministri, sospettando ancora un imbroglio, si rimangiarono all’ultimo momento l’offerta di lasciare che un certo numero di schiavi accompagnasse Abbott. Fu così che il 7 marzo 1840 Abbott partì soltanto con una piccola scorta chivana e si diresse attraverso il deserto al Forte Aleksandrovsk, la postazione russa più vicina, a ottocento chilometri di distanza, sul Mar Caspio, da dove sperava di raggiungere la corte dello zar a Pietroburgo.

Frattanto, non avendo saputo più nulla di Abbott dal suo arrivo a Chiva, e temendo fosse morto, il maggiore Todd decise di mandare un altro ufficiale a scoprire cosa fosse accaduto, e cercare di portare a termine il compito in cui Abbott aveva apparentemente fallito. La scelta ricadde sul tenente Richmond Shakespear, ventottenne politico in carriera capace e ambizioso, nonché cugino del romanziere Thackeray. A differenza di Conolly e Abbott, uomini di spirito evangelico, a lui non interessava introdurre i benefici del cristianesimo in Asia centrale, ma tenerne fuori i russi, e accelerare il proprio successo professionale. «Le possibilità di distinguersi sono tanto grandi e i rischi così lievi» scrisse alla sorella «che il cuore di uno scricciolo sarebbe allietato dalla prospettiva».

Vestito all’indigena e accompagnato da undici heratesi scelti con cura, tra cui sette cavalleggeri armati, Shakespear partì per Chiva il 15 maggio. Nel quarto giorno di cammino la squadra incontrò un cavaliere proveniente da nord, che raccontò una storia mirabolante. Abbott, assicurò, aveva raggiunto Pietroburgo, dov’era riuscito non solo a negoziare una ritirata russa, ma anche a persuadere lo zar a demolire tutti i suoi forti sulla riva orientale del Caspio. Se ciò era vero, non aveva senso che Shakespear procedesse oltre. Ma questi non era convinto, e comunque non aveva intenzione di rinunciare a una simile avventura. «Non credo a questa notizia,» scrisse nel suo diario «e in ogni caso arriverò fino a Chiva». Certo è che l’attività dei razziatori di schiavi non dava segni di calo, perché quello stesso giorno la squadra si imbatté in una carovana turkmena che portava nuove vittime a nord verso il mercato di Chiva. Erano dieci in tutto, osservò Shakespear, «due donne e otto ragazzi, o meglio bambini». Sebbene la sua squadra fosse bene armata e superiore di numero ai turkmeni, Shakespear non ritenne di dover intervenire. Sarebbe stata, spiegò in seguito, una mossa sbagliata, che avrebbe compromesso il buon esito della missione, e la possibilità di stroncare «questo odioso traffico». Inoltre, aggiunse, «se li avessi rimessi in libertà, quei poveri bambini sarebbero stati ben presto ripresi». Si limitò invece a rimbrottare gli stupefatti banditi per la loro condotta abominevole, mentre i suoi uomini rovesciavano su di loro maledizioni e insulti.

Oltrepassata felicemente l’antica città carovaniera di Merv, la squadra si inoltrò nel tratto più pericoloso del deserto al di là del quale si trovava l’Oxus. A quel punto divenne difficile seguire la pista persino di giorno, perché il vento e la sabbia coprivano rapidamente le tracce delle carovane precedenti. I soli indizi erano le ossa di animali, e di tanto in tanto un teschio di cammello che qualche viaggiatore caritatevole aveva infisso su un rovo al margine del percorso. Eppure, la giovanissima guida si rivelò capace di trovare la pista anche di notte, nella più totale oscurità. «Mi veniva indicata,» nota Shakespear «ma sebbene smontassi a terra e mi sforzassi di distinguerla, non ci riuscivo». Durante il giorno il caldo era tremendo, e li assillava il timore di non trovare il pozzo successivo. «Se fosse accaduto qualcosa alla guida, o se questa fosse stata meno intelligente, la rovina della squadra sarebbe stata inevitabile».

Tre giorni più tardi il tratto peggiore era superato, e presto si trovarono sulle rive dell’Oxus. Di là mancavano solo centocinquanta chilometri a Chiva. Entrarono in città il 12 giugno, dopo averne percorsi un migliaio in una trentina di giorni, un paio meno di Abbott. A Chiva, Shakespear venne a conoscenza della disavventura capitata al collega nel lungo viaggio per Pietroburgo. Tradito dalla guida, Abbott era stato attaccato nel deserto dai predoni, ferito, derubato di tutto e fatto prigioniero, mentre i suoi uomini venivano portati via per essere venduti. Tuttavia, un messaggero mandato sulle sue tracce da Todd, con lettere e denaro, lo aveva miracolosamente raggiunto. Avendo scoperto che i suoi carcerieri erano in realtà sudditi del khan di Chiva, il messaggero li minacciò di terribili conseguenze se nella capitale fosse giunta voce della loro perfidia. Inoltre, quando appresero che Abbott recava una lettera personale del khan allo zar della Russia, i predoni si allarmarono ancora di più temendo ritorsioni anche da parte di quest’ultimo. Non c’era un attimo da perdere: profondendosi in scuse, rimisero l’inglese in libertà, gli restituirono il cavallo, l’uniforme e il resto delle sue cose, e liberarono pure i suoi uomini.

Abbott continuò il viaggio per Aleksandrovsk, dove sperava di farsi curare le ferite prima di proseguire per Pietroburgo. Lo aveva però preceduto la diceria che stesse guidando una schiera di diecimila uomini contro il forte, e sulle prime gli fu rifiutato l’ingresso. Ma, non appena capirono chi era, e che era ferito, gli aprirono le porte; il comandante russo lo accolse cordialmente e la sua bellissima moglie provvide a farlo curare a dovere. Quando fu in grado di rimettersi in viaggio, Abbott partì per Orenburg, e di là per Pietroburgo, con la lettera per lo zar. Ma Shakespear, nella lontana Chiva, non aveva modo di sapere niente di tutto questo, né tantomeno se Abbott fosse ancora vivo. Una cosa però era certa: Abbott non era riuscito a persuadere il khan a restituire neppure uno degli schiavi russi. E qui stava l’occasione dell’ambizioso Shakespear.

La sera del suo arrivo a Chiva, Shakespear fu convocato alla presenza del khan. «Sua Altezza mi ha ricevuto con molta benevolenza» annotò; e i due, sembra, simpatizzarono subito. L’inglese fu colpito favorevolmente dalla mancanza di ostentazione del khan. «Nella sua corte non c’è pompa o sfoggio, non ci sono guardie, e non ho visto gioielli di sorta» scrisse. A quanto pare, l’estroverso Shakespear – bell’uomo alto e imponente, stando alle descrizioni dell’epoca – fece al khan migliore impressione del timido e austero Abbott. Questo, almeno, sembra indicare il risultato della sua visita. In realtà, Shakespear non aveva scelto il momento più propizio per tentare di convincere il khan a liberare gli schiavi. Infatti la notizia del disastro russo fra le nevi settentrionali era ormai giunta nella capitale, e i chivani erano euforici per quella che decantavano come una grandiosa vittoria. Tuttavia, in privato, il khan non dimostrava la stessa sicumera. Il monito di Abbott, che se i russi avessero fallito al primo tentativo sarebbero tornati con forze enormemente maggiori, lo preoccupava non poco; e ciò facilitò l’opera di convincimento di Shakespear.

Nel resoconto della sua missione, Shakespear non ci fornisce i particolari dei negoziati con il khan, né degli argomenti da lui usati per raggiungere lo scopo. È chiaro tuttavia che, come Abbott, travalicò i limiti della sua autorità, allettando il khan con la prospettiva di un trattato fra la Gran Bretagna e Chiva. Non era la prima né l’ultima volta che i protagonisti di entrambe le parti del Grande Gioco abusavano delle competenze riconosciute loro dai rispettivi governi per acquistare vantaggio sugli avversari. Ma quali che fossero gli allettamenti usati da Shakespear per persuadere il khan, sta di fatto che questi alla fine si convinse che il modo migliore di proteggersi dalla collera russa era di restituire gli schiavi. Il 3 agosto, Shakespear poté annotare trionfalmente sul suo diario: «Il khan… mi ha ceduto tutti i prigionieri, e io li porterò a una fortezza russa sulla sponda orientale del Caspio».

Shakespear stabilì il suo quartier generale in un giardino fuori della capitale, prestatogli dal khan per l’occasione, dove gli schiavi gli venivano consegnati dai funzionari chivani. L’indomani aveva presso di sé più di trecento uomini, diciotto donne e undici bambini. In media, scoprì, gli uomini erano in servitù da dieci anni, le donne da diciassette. «Con una sola eccezione, erano tutti in buona salute». Gli uomini erano stati catturati in gran parte mentre pescavano nel Caspio; le donne, mentre si trovavano nei dintorni di Orenburg. «Sembravano tutti povera gente, pieni di gratitudine, ed è stato questo uno dei compiti più piacevoli che io abbia mai eseguito» annotò Shakespear quella sera. Ma i problemi non erano finiti lì. Nonostante l’editto del khan imponesse la consegna di tutti gli schiavi russi, fra i padroni, che avevano a suo tempo sborsato somme considerevoli per costoro, c’era una spiccata renitenza a obbedire. Uno schiavo maschio vigoroso valeva venti sterline o più: l’equivalente di quattro cammelli purosangue, racconta Shakespear. Tramite alcuni schiavi liberati venne a sapere che molti erano ancora in cattività.

Un caso del genere gli fu esposto da una madre disperata: a lei era stata restituita la libertà, ma i suoi due figli, una bambina di nove anni e un maschietto più piccolo, erano al servizio di una influente nobildonna della corte del khan, che non aveva alcuna intenzione di cederli. Dopo molte trattative si decise a liberare il maschio ma non la femmina. La madre, sconvolta, disse a Shakespear che, piuttosto di partire senza la figlia, preferiva rimanere in schiavitù. «Poi mi rinfacciò la promessa che le avevo fatto di ottenere la liberazione della bambina». Allora l’ufficiale montò a cavallo e si recò al palazzo del khan. Qui gli andò incontro il primo ministro, ansioso di conoscere la ragione di questa visita improvvisa e non annunciata, ma Shakespear giudicò prudente «rimanere nel vago sull’argomento». Conscio che la richiesta di liberazione di quell’unica bambina rischiava di mettere a repentaglio l’intera operazione, voleva parlare con il khan personalmente, non tramite un intermediario.

Introdotto alla presenza del khan, Shakespear chiese che alla bimba fosse consentito di partire con la madre. Il khan gli assicurò che lei non desiderava lasciare la sua confortevole dimora, ma Shakespear replicò che era troppo piccola per sapere quel che voleva. Il khan rimase indeciso per un momento. Poi, alquanto stizzito, si rivolse al primo ministro e ordinò: «Dategli la bambina». La quale poco dopo comparve. «Ho visto di rado una bimba più bella» scrisse quella sera Shakespear nel suo diario. Sembrava chiaro che era destinata all’harem del khan. Vedendo l’inglese, che era in abito indigeno, la bambina lo scambiò per un mercante di schiavi e si mise a urlare, giurando che mai sarebbe andata con lui. Per fortuna Shakespear aveva con sé un uomo che lei conosceva e di cui si fidava, e che alla fine la persuase a seguirlo, e montò in sella dietro di lui. La mattina seguente la madre venne con i due figlioli a ringraziarlo.

Ma neanche adesso la compagnia era al completo. Una ventina di russi non era stata ancora consegnata, e di nuovo Shakespear dovette protestare con il khan per la violazione dell’editto. Mostrandogli l’elenco di coloro che sapeva essere in ceppi, dichiarò che se non poteva portarli tutti con sé, avrebbe dovuto annullare l’operazione. Finché in mano ai chivani fosse rimasto anche un solo suddito dello zar, spiegò, i russi avrebbero avuto un pretesto per invadere il loro territorio. «Sua Maestà fu sconcertato dalla franchezza del mio discorso,» racconta Shakespear «e diede al suo ministro un ordine con un tono che lo fece tremare»: chiunque fosse stato trovato in possesso di uno schiavo russo sarebbe stato messo a morte. Il giorno seguente ne furono consegnati altri diciassette, alcuni ancora in catene. Ne mancavano quattro, e infine solo uno. Il capo del villaggio dove questi abitava venne da Shakespear e gli giurò sul Corano che l’uomo era morto. Ma di fronte alle rimostranze del padre, anche lui schiavo, che insisteva che era ancora vivo e trattenuto contro la sua volontà, si perquisì il villaggio, e lo si trovò nascosto in una cantina sotto il granaio.

Il 15 agosto, due mesi dopo l’arrivo di Shakespear a Chiva, la compagnia era pronta a partire per la marcia di ottocento chilometri fino al Forte Aleksandrovsk. Oltre che dagli schiavi liberati – poco più di quattrocento – Shakespear era accompagnato da una scorta armata fornita dal khan. Sebbene quest’ultimo avesse decretato che d’ora in poi chi avesse catturato un russo sarebbe stato punito con la morte, Shakespear non voleva che gli schiavi ricadessero nelle mani dei predoni turkmeni. La sorte cui erano a malapena sfuggiti Abbott e la sua squadra pochi mesi prima lungo lo stesso percorso dimostrava la necessità di una protezione armata oltre che di estrema cautela.

Alla partenza da Chiva la carovana doveva di certo offrire uno spettacolo straordinario. «Nella pianura sconfinata» scrisse Shakespear «i cammelli si accalcavano e marciavano en masse, con in groppa nei cestoni le donne e i bambini che cantavano e ridevano, e accanto gli uomini che camminavano di buon passo; tutti contavano i pochi giorni che li separavano dal ricongiungimento con i compatrioti». Shakespear era comprensibilmente soddisfatto di sé: aveva compiuto da solo un’impresa nella quale una spedizione russa armata di tutto punto era miseramente fallita. La sua audace franchezza nel trattare con l’onnipotente khan, per quanto rischiosa, gli aveva permesso di riuscire là dove anche Abbott aveva fallito. «La liberazione di quei poveri sventurati ha sbalordito i turkmeni,» osservò «e io spero umilmente che ciò rappresenti l’alba di una nuova èra nella storia di questa nazione, e che il nome britannico possa prima o poi sentirsi orgoglioso per aver posto fine a questo traffico disumano e per aver civilizzato la razza turkmena, che da secoli è il flagello dell’Asia centrale». Shakespear sembrava tuttavia dimenticare – e certo non l’aveva dimenticato il khan – che i chivani avevano ancora i loro schiavi persiani, molto più numerosi sebbene di minor pregio.

Quando la carovana fu prossima alla fortezza russa, Shakespear mandò avanti uno degli ex schiavi, con una sua lettera in inglese, per avvisare il comandante. Dapprima il messaggero, come già Abbott, fu accolto con diffidenza: all’interno del forte, oltre a temere una trappola, si faticò non poco a capire la lettera di Shakespear; del resto, la stessa notizia che il khan aveva liberato tutti gli schiavi russi era, nota l’ufficiale britannico, «troppo stupefacente per aver credito». La guarnigione ci mise una notte intera a convincersi. Non erano tuttavia solo i russi a temere un tradimento. Quando la compagnia fu a dieci chilometri dal forte, la scorta e i cammellieri chivani rifiutarono di andare oltre, nel timore di cadere prigionieri dei russi. Fra le proteste, fecero notare che accompagnando la carovana fino a quel punto erano già andati oltre gli ordini del khan. Ma il forte era ancora troppo lontano perché i bambini più piccoli potessero arrivarci a piedi, e molti adulti avevano bagagli che non erano in grado di portare da soli. Alla fine i cammellieri acconsentirono a fornire una ventina di animali per l’ultimo tratto del viaggio, e ne aspettarono a prudente distanza il ritorno.

Così fu che gli schiavi raggiunsero Aleksandrovsk e la libertà. L’accoglienza loro riservata, annota Shakespear, avrebbe potuto benissimo far da soggetto a un memorabile dipinto. «Il comandante russo era sopraffatto dalla gratitudine». Consegnò a Shakespear una ricevuta ufficiale per gli schiavi salvati, sulla quale vergò di suo pugno la frase: «Tutti vi esprimono riconoscenza in quanto loro Padre e Benefattore». Quella sera, scrivendo alla sorella per darle la notizia, Shakespear dichiarò trionfalmente che «non si è perduto un cavallo e neppure un cammello». La sera seguente, i russi offrirono un banchetto in suo onore, in cui brindarono alla salute della regina Vittoria, dello zar Nicola e dell’ospite inglese. Gli uomini di Shakespear – tutti musulmani devoti che incontravano lì per la prima volta degli infedeli – inorridirono di fronte a certe loro usanze, dalle salve cerimoniali dei cannoni al brindisi, per non parlare del consumo di alcolici.

Il giorno dopo, uno di loro corse, afflitto, da Shakespear. Aveva visto i soldati russi nutrire i loro cani – animali impuri per i musulmani – e pensava che li stessero ingrassando per mangiarli. «C’era anche una donna» disse a Shakespear «con la faccia e il collo scoperti». Peggio ancora, aveva le gambe nude, «e si vedevano le ginocchia!». Lui e i suoi compagni avevano dato anche un’occhiata alla cappella della guarnigione. «Adorano degli idoli» esclamò. «L’ho visto. L’abbiamo visto tutti». Poi, borbottando «Pentimento… pentimento», pregò che gli fosse consentito di partire senza indugio con i dispacci che doveva portare a Herat da Todd. Il giorno seguente, con professioni di perpetua amicizia, lui e i compagni intrapresero il lungo viaggio di ritorno. «Mai un uomo ebbe servitori migliori» commentò Shakespear nel suo diario.

Frattanto si erano trovati tre battelli per trasportare Shakespear e i suoi protetti più avanti sulla costa, da dove proseguirono via terra per Orenburg. Qui, rasatosi e cambiate le vesti indigene con quelle europee, Shakespear fu ricevuto calorosamente dal generale Perovskij, che si profuse in ringraziamenti e ordinò subito la liberazione dei seicento chivani detenuti a Orenburg e ad Astrachan. Shakespear, che non era uomo da lasciarsi sfuggire un’occasione simile, tenne gli occhi bene aperti su eventuali indizi di preparativi per una seconda spedizione russa contro Chiva. Con suo sollievo non ne individuò; i suoi ospiti peraltro ebbero cura di fargli vedere il meno possibile di ciò che poteva avere interesse militare. Il 3 novembre 1840, sei mesi dopo essere partito da Herat, Shakespear arrivò a Pietroburgo, ultima tappa prima di rientrare a Londra. Fu accolto ufficialmente dallo zar Nicola, che lo ringraziò per aver salvato, con grave rischio della propria vita, tanti sudditi russi dai loro rapitori pagani. Negli ambienti di corte tuttavia non era un segreto che tra sé e sé lo zar fosse furioso per l’impresa non richiesta ma ora ampiamente pubblicizzata del giovane ufficiale britannico. Infatti, come i superiori di Shakespear avevano sperato, in tal modo si era tolto a Pietroburgo ogni pretesto per muovere di nuovo contro Chiva, che molti strateghi, inglesi e russi, consideravano una delle tappe principali sulla via per l’India.

Non fa meraviglia che gli storici russi, zaristi e sovietici, trascurino il ruolo di Abbott e Shakespear nel salvataggio degli schiavi. La liberazione di costoro da parte del khan è attribuita unicamente al suo crescente timore della potenza militare russa, e al suo spavento nell’apprendere che una spedizione era in marcia contro di lui. Di Abbott e Shakespear, tuttavia, gli storici russi parlano ampiamente. Di entrambi si dice che erano spie inglesi, mandate in Asia centrale nel quadro di un grande disegno per la conquista della supremazia a spese della Russia. Secondo N.A. Chalfin, uno dei più autorevoli studiosi sovietici del Grande Gioco, la città afgana di Herat era all’epoca «un nido di agenti inglesi», al centro di «una vasta rete di fonti di informazioni politico-militari e di un sistema di comunicazione per gli agenti britannici». C’è in questo, naturalmente, un fondo di verità; ma gli inglesi erano lungi dall’essere così bene organizzati in Asia centrale. Macnaghten, Burnes, Todd e gli altri sarebbero stati sorpresi e lusingati da questa visione russa della loro onniscienza.

Come Abbott prima di lui, dice Chalfin, Shakespear fu mandato a Chiva per esplorare le strade e le fortezze lungo la frontiera russa tra Aleksandrovsk e Orenburg. «Quale pretesto per entrare in Russia da Chiva,» afferma «Shakespear accampò la “necessità” di accompagnare gli schiavi russi. Approfittando del fatto che il governo chivano si vide costretto dalla pressione russa a liberare i prigionieri, Shakespear viaggiò con loro, spacciandosi per loro liberatore». Perché gli fosse consentito di arrivare a Orenburg – «meta ultima della sua missione» – si atteggiò, come Abbott prima di lui, a mediatore tra i chivani e i russi. Il generale Perovskij, ben sapendo che entrambi gli ufficiali erano in realtà delle spie, li sottopose a stretta sorveglianza finché non furono felicemente fuori del paese.

Chalfin afferma inoltre che gli inglesi avevano una rete spionistica nella stessa Orenburg. La rete, a suo dire, era imperniata sulla sede missionaria dell’Associazione biblica britannica ed estera, che nel 1814 aveva preso il nome di associazione biblica russa. Suo scopo – secondo uno storico precedente da lui citato – era di condurre attività di spionaggio e di stabilire rapporti con Chiva e Buchara, spingendo se possibile i due canati contro la Russia. Shakespear, sostiene Chalfin, aveva l’ordine di prendere contatto con i missionari della sede di Orenburg. In realtà, aggiunge, sia lui sia i superiori ignoravano che la missione era già stata chiusa dalle autorità. Chalfin tuttavia conclude che forse «rimanevano alcuni elementi dell’associazione», e che «Shakespear aveva l’incarico di arruolarli per attività sovversive a Orenburg». È superfluo dire che né Shakespear né Abbott fanno cenno a una missione di questo genere nei rispettivi resoconti.

Le asserzioni di Chalfin si basano in gran parte su un fascio di lettere che, insieme ad altre carte sbiadite, sarebbero state confiscate ai turkmeni nel 1873 e che si trovano attualmente nell’Archivio militare sovietico (fascicolo n. 6996). Chalfin ritiene che le lettere, scritte fra il 1831 e il 1838, appartenessero, al pari delle carte, al tenente Shakespear (sebbene il suo nome non vi compaia affatto), il quale le avrebbe, chissà come, perdute durante la sua visita a Chiva. Ma, stando al colonnello Geoffrey Wheeler, lo studioso britannico che nel 1958 segnalò per primo nella «Central Asian Review» le affermazioni di Chalfin, «è difficile credere che una persona responsabile possa aver intrapreso una presunta missione segreta in Asia centrale portando con sé una raccolta di lettere riservate, la più recente delle quali scritta due anni prima».

Le lettere, che non sono firmate e sembrano soltanto delle copie, trattano principalmente della politica britannica – o di quelle che Chalfin definisce palesi ambizioni britanniche – in Asia centrale. Ma è soprattutto dalle carte trovate insieme alle lettere, alcune delle quali recano la dicitura «segreto e confidenziale», che lo studioso russo trae le sue deduzioni circa il vero scopo delle missioni di Shakespear e Abbott. Il suo articolo, uscito sulla rivista sovietica «Istorija SSSR» (2, 1958), non contiene le riproduzioni dei documenti in questione, e perciò, come nota Wheeler, non è verificabile. E senza accedere agli originali custoditi presso l’Archivio militare sovietico non si può controllare l’esattezza delle citazioni, e la scelta e l’uso che ne fa Chalfin. Se le carte e le lettere sono ciò che lui afferma, a prescindere dalla sua interpretazione, è possibile che appartenessero non a Shakespear bensì ad Abbott, e gli fossero state sottratte quando fu attaccato e derubato mentre andava ad Aleksandrovsk.

Ma comunque la pensassero (e, pare, la pensino tuttora) i russi riguardo a Shakespear, la soddisfazione dei suoi superiori per l’abilità con cui aveva frustrato i piani dello zar fu enorme. Al ritorno a Londra, Shakespear ricevette un’accoglienza entusiastica, simile a quella accordata ad Alexander Burnes otto anni prima. Sebbene non ancora trentenne, fu nominato cavaliere e promosso di rango da una giubilante regina Vittoria, la quale, appena ventunenne lei stessa, mostrava già segni di russofobia. Quanto ad Abbott, che aveva preparato la strada all’impresa di Shakespear, ebbe scarso riconoscimento. Anche per lui, tuttavia, venne la ricompensa, sia pure molto più tardi. Non solo fu fatto cavaliere e generale, ma fu dato il suo nome a una città sede di presidio: Abbottabad, oggi nel Pakistan settentrionale.

Tutto questo, però, appartiene al futuro. Al momento Shakespear e Abbott erano impazienti di tornare in India, perché durante la loro lunga assenza le cose avevano preso una brutta piega.

18
LA NOTTE DEI LUNGHI COLTELLI

Se erano riusciti a liberare i sudditi dello zar dalla schiavitù chivana, gli inglesi avevano miseramente fallito negli sforzi per strappare il colonnello Charles Stoddart alle grinfie dell’emiro di Buchara. Tutti i loro tentativi, e altresì quelli dei russi, dei turchi e dei signori di Chiva e di Kokand per indurre l’emiro Nasrullah a lasciar andare Stoddart, si erano finora dimostrati vani. Lo sfortunato ufficiale era prigioniero da quasi due anni. La sua sorte dipendeva giorno per giorno dai capricciosi umori di Nasrullah, e da come questi valutava di volta in volta la potenza britannica in Asia. Così, quando giunse notizia che Kabul si era arresa agli inglesi, la situazione del colonnello d’improvviso migliorò. Fino ad allora era stato tenuto in fondo a una fossa profonda sei metri, detta dalla gente del posto il «buco nero», che condivideva con tre criminali comuni e con un assortimento di parassiti e di altre creature sgradevoli, e alla quale si accedeva soltanto per mezzo di una fune.

Fu tolto in fretta da lì e messo agli arresti domiciliari nella casa del capo della polizia. Ma le sue sventure non erano terminate, perché l’emiro non dava l’impressione di volerlo congedare da Buchara. Il motivo per cui venne imprigionato non è chiaro; esistono varie spiegazioni possibili. Com’è inevitabile, in una regione dove il tradimento era la norma, Stoddart era stato preceduto dalla voce che non era affatto un emissario bensì una spia inglese mandata a preparare il terreno per la conquista dei domini dell’emiro. In tal caso, aveva già visto troppo perché gli si permettesse di tornare in patria. Ma c’era dell’altro. Arrivando a Buchara, il 17 dicembre 1838, il colonnello aveva commesso un’infelicissima gaffe. Fra lo stupore della popolazione, si era recato al palazzo dell’emiro per presentare le sue credenziali a cavallo, in alta uniforme, invece di smontare rispettosamente, come lì si usava.

Sfortuna volle che Nasrullah rientrasse a palazzo proprio mentre il colonnello e i suoi servitori attraversavano la piazza principale della città. Stoddart aveva salutato il sovrano restando in sella, in conformità con l’uso militare inglese. Nasrullah, secondo una fonte, «lo guardò fisso per qualche tempo, poi si allontanò senza proferir parola». Nel corso della prima udienza con l’emiro ci furono ulteriori malintesi, col risultato che il colonnello si trovò d’un tratto rinchiuso nella segreta infestata dai topi.

Alcuni hanno biasimato lo stesso Stoddart per l’accaduto, accusandolo di arroganza e mancanza di tatto, sebbene ciò non giustifichi il trattamento riservatogli da Nasrullah. A differenza di Burnes, dei Pottinger e di Rawlinson, Stoddart non conosceva le sottigliezze adulatorie della diplomazia orientale. Come ebbe a dire un suo collega ufficiale, «Stoddart era essenzialmente un soldato, un uomo di grande valore e determinazione. Per attaccare o difendere una fortezza, non si poteva trovare uomo migliore. Ma per una missione diplomatica, era difficile imbattersi in una persona meno adatta allo scopo». In effetti, buona parte della responsabilità della sua sorte va attribuita a coloro che lo scelsero per una missione tanto delicata, e in particolare a Sir John McNeill a Teheran, che era un veterano del gioco e conosceva bene la rigorosa etichetta orientale.

Sebbene non fosse più sottoposto agli orrori del «buco nero», e godesse della relativa comodità degli arresti domiciliari, Stoddart aveva pochi motivi per sentirsi ottimista. La sua sola speranza di lasciare Buchara, si rendeva conto, stava nell’invio da Kabul di una spedizione di soccorso britannica. È quanto si apprende dai biglietti che riuscì a mandare di nascosto alla famiglia, e che arrivarono miracolosamente in Gran Bretagna. «La mia liberazione» scrisse in uno di questi «probabilmente non avverrà finché le nostre forze non saranno giunte molto vicino a Buchara». Ma col passare dei mesi, senza alcun segno di operazioni di soccorso, certamente dovette spesso disperare. Solo una volta, tuttavia, il suo coraggio era venuto meno. Era prigioniero nel pozzo, quando un giorno il boia si calò con la fune per eseguire l’ordine di decapitarlo all’istante se non abbracciava la religione islamica. Stoddart accettò, salvandosi la vita; ma quando fu tolto dal pozzo e affidato alla custodia del capo della polizia, dichiarò che la sua conversione non era valida, essendo avvenuta sotto coercizione.

Più di una volta l’emiro si era mostrato incline a un accordo con gli inglesi contro i russi e, suscitando le speranze di Stoddart, aveva anche avuto una corrispondenza con Macnaghten a Kabul in proposito. Ma alla notizia del disastro accaduto ai russi sulla via di Chiva, l’emiro perse interesse. Si lagnò che le note britanniche sembravano non avere alcun matlab, significato, e alla fine non si approdò a nulla. Inoltre, quando fu chiaro che gli inglesi non progettavano affatto di mandare una spedizione a liberare Stoddart, le fortune del colonnello volsero di nuovo al peggio. Due volte fu gettato in prigione, sebbene non più nell’orrido pozzo. Nonostante il deterioramento della sua salute, nelle occasionali lettere a casa Stoddart dimostrava di affrontare con coraggio la situazione. Alla fine, sosteneva, Nasrullah si sarebbe reso conto che gli inglesi erano la sua migliore protezione contro i russi, i quali prima o poi si sarebbero interessati a lui. Trovandosi sul posto, argomentava Stoddart, sarebbe stato in grado di trattare i termini di un accordo, e forse anche di persuadere l’emiro a liberare i suoi schiavi, così come aveva saputo che Shakespear aveva fatto a Chiva.

In tutto questo frangente le autorità di Londra e Calcutta si trovarono alle prese con il problema di come liberare il loro inviato dagli artigli di quel mostro. Dapprima Macnaghten si pronunciò a favore dell’invio a Buchara di una spedizione punitiva da Kabul, ma Lord Auckland, il governatore generale, era contrario a che le truppe britanniche si avventurassero ulteriormente in Asia centrale. In Afghanistan inoltre cominciava a crescere l’ostilità contro gli inglesi e il loro sovrano fantoccio Shah Shujah, e Macnaghten aveva bisogno di tutte le truppe per contenere eventuali disordini nel paese. Il governo di Londra dal canto suo non desiderava imbarcarsi in nuove avventure in Asia, avendo già abbastanza carne al fuoco lì e altrove. In aggiunta al pesante impegno in Afghanistan, in Cina era in corso da oltre un anno la prima guerra dell’oppio, mentre più vicino a casa si addensavano gravi problemi con la Francia e gli Stati Uniti. La sorte di un ufficiale inglese di grado relativamente modesto in una remota città dell’Asia centrale non figurava in cima alla lista delle priorità di Palmerston, anche se gli sforzi diplomatici per ottenerne il rilascio continuavano, sia pure senza frutto, tramite i buoni uffici, fra gli altri, dei turchi.

Gli amici di Stoddart protestavano con il governo inglese sostenendo che lo aveva cinicamente abbandonato ai capricci di un malvagio tiranno, e particolare sdegno si levò alla notizia che era stato costretto a ripudiare il cristianesimo e ad abbracciare l’islam. Ma le loro richieste di intervento rimasero inascoltate, e all’avvicinarsi dell’inverno del 1841 – il terzo di prigionia – le prospettive del colonnello apparivano davvero squallide. Poi, nel novembre di quell’anno, accadde qualcosa che gli recò nuova speranza. A Buchara arrivò, in solitaria missione di salvataggio, un commilitone britannico, veterano del Grande Gioco: il capitano Arthur Conolly.

Conolly era in viaggio nell’Asia centrale per affari di governo. Da tempo sognava di riconciliare e unire, sotto la protezione britannica, i tre canati rivali del Turkestan: Chiva, Buchara e Kokand. Era convinto che questo asset-to avrebbe non solo portato la cultura cristiana in quella barbara regione, ma sarebbe anche servito, insieme a un Afghanistan amico, da scudo protettivo per l’India settentrionale contro le intrusioni russe. L’abolizione totale della schiavitù nel Turkestan avrebbe tolto a Pietroburgo ogni residuo pretesto di interferenze. L’idea, a prima vista, sembrava allettante, e a Conolly non mancarono sostenitori, specialmente a Londra, dove ben pochi avevano una reale conoscenza della politica centroasiatica. I membri del Consiglio di controllo erano attratti in particolare dal suo progetto di aprire le acque dell’Oxus alla navigazione a vapore. Ciò, oltre a largire agli indigeni i benefici del cristianesimo, li avrebbe messi in grado di comprare le merci britanniche nei loro bazar.

Altri, tuttavia, erano fortemente ostili al grandioso disegno di Conolly. Tra costoro c’era Sir Alexander Burnes. In base alla propria esperienza in fatto di rapporti con i monarchi asiatici, Burnes riteneva assai improbabile che Conolly riuscisse a realizzare una qualsiasi alleanza fra quei tre litigiosi vicini. E anche se ci fosse riuscito, chiedeva, «dovrà l’Inghilterra farsi garante di orde barbariche a migliaia di miglia dalla sua frontiera?». In definitiva, la Russia poteva essere tenuta a freno in Asia centrale solo con una energica pressione di Londra su Pietroburgo, e non già mediante vaghe alleanze con khan infidi e volubili. Burnes, pur appartenendo alla scuola della politica di aggressione, era meno falco di quanto molti immaginassero, e considerava prevenzione più che sufficiente la presenza britannica in Afghanistan.

Ma Conolly non era uomo da lasciarsi dissuadere facilmente. A poco a poco, usando le sue notevoli capacità persuasive, superò ogni opposizione. Dapprima il governatore generale, Lord Auckland, aveva esitato a lasciarlo partire. Riteneva che il disastro chivano avesse scongiurato per il momento una minaccia russa nella regione; perciò non vedeva motivo di prendervi iniziative non necessarie, correndo il rischio di provocare un’azione di rappresaglia da parte di Pietroburgo. Tuttavia, dietro le forti pressioni di Londra, e di Macnaghten da Kabul, acconsentì infine all’impresa, ma a un’importante condizione. Conolly doveva sollecitare i tre khan a risolvere le loro antiche divergenze e a unirsi contro i russi; doveva cercare di convincerli dell’urgente necessità di abolire la schiavitù e di introdurre altre riforme umanitarie al fine di togliere ai russi ogni scusa per attaccarli. Non doveva però, in nessuna circostanza, offrire loro la protezione o l’aiuto della Gran Bretagna.

Conolly partì da Kabul per Chiva il 3 settembre 1840, con un incarico notevolmente ridimensionato, ma deciso nondimeno a cambiare il corso della storia centroasiatica. Avrebbe dovuto accompagnarlo Henry Rawlinson, che però all’ultimo momento fu richiesto altrove in Afghanistan; per sua fortuna, come poi risultò. Il viaggio a Chiva si svolse senza incidenti, e Conolly fu accolto bene dal khan, il quale dopo le visite di Abbott e Shakespear aveva maturato un’alta stima per gli inglesi. Ma le immaginose proposte circa una federazione centroasiatica e profonde riforme sociali non incontrarono il suo favore. Il khan non desiderava alleanze di sorta con Buchara o con Kokand; inoltre non temeva più che i russi gli mandassero contro un’altra forza d’invasione, ora che aveva liberato i loro compatrioti. Deluso, Conolly proseguì per Kokand, e anche qui fu bene accolto. Ma anche qui fallì nel suo tentativo. Proprio allora, anzi, il khan si accingeva a muovere guerra all’emiro di Buchara.

Finora, come Burnes e altri avevano previsto, Conolly non era approdato a nulla, a parte la raccolta di utili informazioni sull’attuale situazione politica in Asia centrale. Gli restava solo una speranza per giustificare la missione: ottenere il rilascio dello sventurato Stoddart. Durante i due mesi di soggiorno a Kokand, Conolly era riuscito in qualche modo a prendere contatto con quest’ultimo, che godeva di uno dei suoi periodi di relativa libertà. Il colonnello gli aveva mandato un messaggio dicendo che l’emiro non era contrario a una sua visita a Buchara. «In questi giorni il favore dell’emiro verso di me è cresciuto. Credo che qui sarete trattato bene» lo informò. Furono parole fatali. Stoddart non si rendeva conto che l’astuto Nasrullah si serviva di lui per attirare in una trappola il collega. Infatti l’emiro, le cui spie avevano seguito i movimenti di Conolly, era convinto che l’inglese cospirasse con i suoi nemici, i khan di Chiva e di Kokand, per spodestarlo.

Nell’ottobre 1841, nonostante gli avvertimenti dei due khan di stare alla larga da Buchara, Conolly partì per la città santa, seicentocinquanta chilometri a sud-ovest, sicuro di ottenere dall’emiro la liberazione di Stoddart. Era un’impresa temeraria, ma Conolly, come quasi tutti gli adepti del Grande Gioco, non mancava di audacia e di coraggio. Un altro fattore lo spinse forse ad affrontare un rischio eccessivo. Pochi mesi prima di intraprendere il suo viaggio Conolly era stato respinto, a favore di un rivale, dalla donna che sperava ardentemente di sposare, e ne aveva molto sofferto. Può darsi, quindi, che non gli importasse troppo di tornare o no dalla missione. Quale che sia la verità, Conolly, passando da Taškent per evitare di finire invischiato nella guerra che stava per scoppiare tra l’emiro e il vicino, entrò a Buchara il 10 novembre.

Stoddart, miserevolmente smagrito dopo mesi di privazioni, fu sopraffatto dalla gioia nel vederlo. Dapprima l’emiro accolse il nuovo ospite con cortesia, ma presto il suo atteggiamento cambiò a causa, pare, della mancata risposta a una lettera amichevole da lui inviata mesi prima alla regina Vittoria. L’emiro interpretò questo gesto o come un affronto deliberato, che gli faceva perdere la faccia davanti ai suoi dignitari, o come una prova che Stoddart e Conolly, i quali si dicevano rappresentanti della regina, erano degli impostori, e quindi, come aveva sempre sospettato, delle spie. Il suo umore non migliorò quando infine una nota di Lord Palmerston (che naturalmente l’emiro non aveva mai sentito nominare) lo informò che la sua lettera era stata trasmessa all’attenzione del governo di Calcutta. A Nasrullah, fermamente convinto che il suo regno fosse in tutto e per tutto potente come la Gran Bretagna, ciò parve anche più offensivo. Se Stoddart e Conolly avessero saputo che era imminente l’arrivo di una seconda nota, questa inviata da Lord Auckland, la loro sensazione di essere stati abbandonati e traditi dai superiori sarebbe stata completa. La nota infatti li definiva, inesplicabilmente, non già inviati britannici bensì «privati cittadini» che avevano intrapreso quel viaggio di loro iniziativa, e ne chiedeva il rilascio immediato. Ma arrivò a Nasrullah troppo tardi per fare altro danno. A suggellare la sorte dei due fu la notizia giunta a Buchara da Kabul della catastrofe in cui erano incappati gli inglesi in Afghanistan.

Nella capitale, da poco restituita a Shah Shujah, l’ostilità verso gli inglesi, che tardarono a rendersene conto, veniva crescendo da mesi. Funzionari politici esperti come Sir William Macnaghten e Sir Alexander Burnes avrebbero dovuto accorgersi di ciò che stava avvenendo nell’animo degli afgani, ma i rapporti fra i due si erano fatti molto tesi. In una lettera a un amico, Burnes si definì un «fannullone ben pagato», i cui consigli venivano puntualmente ignorati dai superiori. Macnaghten, d’altronde, aveva perso gran parte dell’interesse per l’attuale incarico, perché doveva a breve lasciare l’Afghanistan per assumere l’ambìto governatorato di Bombay – ricompensa per aver felicemente insediato sul trono il fantoccio britannico. Ammettere che qualcosa andava di traverso era l’ultima cosa che desiderava. Burnes, in attesa di succedergli e avendo nel frattempo poco da fare, era troppo occupato a godersela per avvertire i segni premonitori.

Non era il solo a comportarsi così. Fin dal loro arrivo a Kabul due anni prima, gli inglesi vi si erano perfettamente ambientati. L’ubicazione esotica e il clima tonificante della città avevano richiamato dalle calde e polverose pianure dell’Indostan le mogli e i figli dei soldati britannici e indiani. Non mancavano svaghi di ogni genere, dal cricket ai concerti, dall’ippica al pattinaggio, cui partecipavano anche i membri delle classi superiori afgane. Molto di ciò che avveniva, in particolare il bere e l’andare a donne, dava scandalo fra le autorità musulmane e la maggioranza devota. Al tempo stesso misure punitive, spesso molto severe, venivano adottate contro le tribù che rifiutavano di assoggettarsi al governo di Shujah (ma in pratica di Macnaghten), mentre la sottomissione di altre era comprata con laute largizioni d’oro, definite ufficialmente «sussidi». Il 3 novembre 1840, comprendendo l’inutilità di un’ulteriore resistenza contro gli inglesi, Dost Mohammed si era arreso spontaneamente a Macnaghten, ed era stato mandato in esilio in India. Ciò aveva spinto Macnaghten, impaziente di cominciare il nuovo lavoro a Bombay, a riferire a Lord Auckland che l’Afghanistan era in pace. E a comunicare a un suo aiutante che, tutto considerato, «la presente tranquillità del paese è a mio parere assolutamente miracolosa».

Non tutti ne erano altrettanto persuasi. Tra i primi a percepire il pericolo incombente fu il maggiore Henry Rawlinson, l’ufficiale che era stato sul punto di accompagnare Conolly a Buchara e che adesso era agente del protettorato a Kandahar. «L’animosità contro di noi» avvertì nell’agosto 1841 «aumenta di giorno in giorno, e temo un susseguirsi di disordini… I loro mullah predicano contro di noi da un capo all’altro del paese». Un altro consigliere di Macnaghten che si avvide della crescente ostilità fu Eldred Pottinger, ora operante con il grado di maggiore fra le tribù a nord di Kabul. I capitribù, riferì, preparavano un’insurrezione generale contro Shah Shujah e gli inglesi. Ma Macnaghten, temendo che Lord Auckland gli ordinasse di restare a Kabul, non diede ascolto a questi moniti e si convinse che i due ufficiali erano solo degli allarmisti.

Le ragioni dell’ostilità verso gli inglesi e Shah Shujah erano diverse. Anzitutto, la presenza di tanti soldati incideva sulle tasche degli afgani. L’accresciuta richiesta di viveri e altri generi essenziali aveva fatto salire alle stelle i prezzi nei bazar, mentre le tasse erano fortemente aumentate per pagare la nuova amministrazione di Shujah e il suo sontuoso stile di vita. Inoltre gli inglesi non mostravano di volersene andare, nonostante le assicurazioni espresse in passato. Sempre più si aveva l’impressione che l’occupazione sarebbe stata permanente, e in effetti alcuni inglesi cominciavano a considerare tale eventualità come necessaria per mantenere Shujah sul trono. C’era poi un’ira montante, specie a Kabul, per le attenzioni che le truppe, gli ufficiali in particolare, dedicavano alle donne indigene. Alcune afgane lasciavano i mariti per amanti più ricchi e generosi, e negli acquartieramenti c’era un continuo andirivieni di donne. Si fecero vigorose proteste, ma vennero ignorate. Sentimenti di odio verso gli inglesi animavano coloro che erano stati cornificati, parecchi dei quali molto influenti. «Gli afgani» ha scritto lo storico Sir John Kaye «sono gelosissimi dell’onore delle loro donne, e a Kabul accadevano cose che li coprivano di vergogna e li incitavano alla vendetta… Si giunse a un punto intollerabile, e gli offesi cominciarono a capire che stava a loro porre rimedio». Non dovettero attendere a lungo. Occorreva soltanto qualcuno che accendesse la miccia.

Le prime avvisaglie dell’imminente esplosione si ebbero la sera del 1° novembre 1841, quando Burnes fu avvertito dal suo aiutante e amico kashmiro, il bene informato Mohan Lal, che quella notte si sarebbe attentato alla sua vita. In effetti, molti afgani lo ritenevano responsabile di aver portato gli inglesi in Afghanistan, dopo aver esplorato il territorio fingendo amicizia con Dost Mohammed. Il suo sfrontato amoreggiare con le loro donne aveva acuito l’ostilità verso di lui. Burnes e vari altri ufficiali abitavano allora in una grande casa alquanto isolata circondata da un muro e da un cortile nel cuore della città vecchia. Essendo la casa mal difendibile da un attacco, Mohan Lal sollecitò Burnes a trasferirsi nei più sicuri accantonamenti a nord della città, dov’erano acquartierate le truppe britanniche e indiane. In origine queste avevano occupato la fortezza Bala Hisar, ma su richiesta di Shah Shujah, che la voleva per insediarvi le proprie truppe e il numeroso personale di corte, Macnaghten aveva acconsentito a trasferire l’intera guarnigione britannica in accantonamenti costruiti in fretta. Fidando di poter sedare eventuali tumulti, Burnes non diede retta al consiglio dell’amico. Sapeva, del resto, che le truppe britanniche e indiane erano a meno di quattro chilometri di distanza. Nondimeno chiese che, quella notte, fosse rinforzato il presidio sipahi di guardia alla casa.

Frattanto, non lontano nell’oscumrità, si stava adunando una masnada guidata dagli uomini che Burnes si era inimicato. Dapprima erano solo un pugno di dimostranti, ma non appena i cospiratori fecero sapere che nella casa accanto c’era la tesoreria della guarnigione – con le paghe dei soldati e l’oro usato da Macnaghten per comprare gli alleati –, in men che non si dica la folla ingrossò, e marciò contro la residenza degli infedeli, circondandola. A quel punto Burnes confidava ancora di poter indurre gli afgani a disperdersi, e ordinò ai sipahi di non sparare. Tuttavia, per precauzione, mandò un corriere agli accantonamenti a chiedere aiuto immediato; uscì quindi sul balcone per tentar di ragionare con la folla infuriata nella via sottostante.

Informato del pericolo che minacciava Burnes e i compagni, Macnaghten convocò subito i suoi consiglieri militari. La discussione sul da farsi diede luogo a una disputa tra Macnaghten e il comandante delle truppe, il generale William Elphinstone. Il segretario di Macnaghten, capitano George Lawrence, suggerì di mandare d’urgenza un reggimento per salvare Burnes, disperdere la turba e arrestare i caporioni finché si era ancora in tempo; ma l’idea fu bocciata. «La mia proposta venne subito scartata come pura follia» scrisse Lawrence in seguito. Macnaghten e Elphinstone continuarono a discutere, mentre arrivavano notizie che la situazione stava rapidamente precipitando. Il generale, uomo anziano e malato, che non avrebbe mai dovuto avere il comando delle truppe, mancava della volontà o dell’energia per prendere provvedimenti, e non faceva che avanzare obiezioni alle proposte altrui. Macnaghten, altrettanto indeciso, si preoccupava meno del salvataggio di Burnes che delle conseguenze politiche di un impiego dei soldati contro la folla. Alla fine si convenne di mandare alla Bala Hisar truppe al comando di un generale di brigata, e di decidere in consultazione con Shah Shujah la condotta da tenere. Giunte sul posto, le truppe scoprirono che Shujah aveva già provveduto a inviare uomini suoi a disperdere i sediziosi e salvare Burnes. Assicurando che erano sufficienti allo scopo, Shujah non permise l’intervento della forza britannica.

Frattanto Burnes, che cercava invano di farsi udire dalla folla urlante, si trovava a mal partito. Con lui erano due altri ufficiali: suo fratello minore Charles, ufficiale subalterno dell’esercito indiano, venuto a Kabul per stare con lui, e il maggiore William Broadfoot, suo assistente. Sir John Kaye scrive: «Era evidente ormai che nulla si poteva ottenere con le rimostranze, nulla con la pazienza. L’aggressività della folla cresceva. Quella che all’inizio era una combriccola insignificante era diventata una grande moltitudine. Davanti a loro c’era la tesoreria di Shah Shujah, e centinaia di uomini, pur non avendo torti da vendicare né animosità politica da sfogare, accorrevano sul posto bramosi di impossessarsi dell’allettante bottino a portata di mano». Tuttavia, malgrado la furia crescente della folla, Burnes continuò a ordinare ai sipahi di non aprire il fuoco, confidando nell’arrivo imminente dei soccorsi.

Ormai alcuni dei dimostranti più arditi, entrati nel recinto, erano riusciti a incendiare le stalle. Rivolsero quindi la loro attenzione alla casa. Dalla folla partì uno sparo. Il maggiore Broadfoot, che stava sul balcone accanto a Burnes e al fratello, si portò la mano al petto e cadde. I due compagni lo trascinarono all’interno, e ne constatarono la morte. Burnes tornò sul balcone in un estremo tentativo di salvare la situazione, gridando agli assalitori che avrebbe dato loro grosse somme di denaro se si fossero dispersi. I dimostranti tuttavia sapevano di non aver bisogno di patteggiare: tra breve si sarebbero impadroniti comunque dell’oro inglese. Comprendendo che nessun soccorso era in arrivo, Burnes ordinò finalmente ai sipahi di sparare. Ma, come ogni altra decisione presa finora, era troppo tardi. Adesso anche la casa era in fiamme, e la folla infuriava nel recinto, incurante delle pallottole, e premeva all’ingresso. Burnes e il fratello capirono che era giunta la loro ultima ora. Charles decise di aprirsi la strada combattendo.

Mohan Lal, al cui consiglio Burnes non aveva dato a scolto, assisteva allo spettacolo da un tetto vicino, inorridito ma senza poter fare nulla. «Il tenente Charles Burnes» scrisse in seguito «andò in giardino e uccise circa sei persone prima di essere fatto a pezzi». Mohan Lal non assistette alla morte di Sir Alexander Burnes, perché una parte della folla si rivolse contro la casa sul tetto della quale si era rifugiato, costringendolo a fuggire. Ma più tardi i servitori gli raccontarono che Burnes, quando infine era uscito ad affrontare la folla, si era legato una benda nera sugli occhi per non vedere da dove venivano i colpi. Pochi istanti dopo era morto, scrive Mohan Lal, «tagliato a pezzi dalla turba inferocita». Inevitabilmente, mancando testimoni oculari attendibili, esistono varie versioni dell’accaduto. Secondo una di esse, un traditore riuscì a guadagnare accesso alla casa, e giurando sul Corano gli assicurò che, se si fosse travestito da indigeno, lo avrebbe condotto in salvo. Non avendo nulla da perdere, Burnes accettò. Ma appena uscì dalla casa, l’uomo lo denunciò alla folla. «Questi» urlò trionfalmente «è Alexander Burnes!». Un mullah furibondo vibrò il primo colpo e Burnes, caduto a terra, fu massacrato dai lunghi e micidiali coltelli degli afgani.

Un’altra versione sostiene che i servitori di Burnes si offrirono di trasportarlo attraverso la folla avvolto in una tenda – per far credere che stessero portando via, al pari di tanti altri quella notte, oggetti saccheggiati –, ma che lui rifiutò. Difficile dire come andarono realmente le cose circa la fine di Burnes in quella città che aveva tanto amato. Pare certo, comunque, che uno dei vecchi amici afgani gli sia rimasto fedele sino all’ultimo. Secondo Kaye, allorché la massa si volse al saccheggio della tesoreria, un uomo di nome Naib Sheriff recuperò il suo corpo mutilato insieme a quello del fratello, e li seppellì nel giardino della residenza annerita dal fumo. Il maggiore Broadfoot, dice Kaye, fu meno fortunato, perché «i cani randagi ne divorarono i resti».

Si era lasciato che tutto questo accadesse a meno di mezz’ora di marcia da dove erano acquartierati quattromilacinquecento soldati britannici e indiani, e a una distanza assai più breve dalla Bala Hisar, con i reparti di soccorso guidati dagli inglesi fermi in attesa di ordini. Per ragioni non chiare, sebbene agli accantonamenti giungesse l’eco dei clamori e degli spari, tali ordini non furono mai impartiti. Alla fine i reparti di soccorso vennero impiegati non già per salvare Burnes e i compagni, ma per coprire la ritirata ingloriosa delle milizie di Shujah, di cui la folla adirata aveva fatto strage. Eppure, di rado una tragedia avrebbe potuto essere evitata con altrettanta facilità. Come un giovane ufficiale annotò nel suo diario: «Mentre al mattino sarebbero stati sufficienti trecento uomini per sedare i disordini, nel pomeriggio non ne sarebbero bastati tremila».

Ma il peggio doveva ancora venire.

19
LA CATASTROFE

La notizia della sorte terribile toccata a Sir Alexander Burnes, ai suoi due compagni e a una trentina fra sipahi e servitori suscitò un’ondata di orrore nella guarnigione britannica. Dapprima corse voce che Burnes fosse riuscito a scamparla e si nascondesse da qualche parte, ma simili speranze svanirono presto. Frattanto la folla, esaltata dall’inerzia degli inglesi, continuava a imperversare, bruciando case, saccheggiando botteghe e massacrando chiunque fosse sospettato di collaborazionismo. Di tanto in tanto, sopra il tumulto e il rombo delle fiamme, si udivano grida di avvertimento: «Arrivano… arrivano». I rivoltosi, infatti, si aspettavano da un momento all’altro un rapido e pesante castigo. Si seppe più tardi che i caporioni, per poter fuggire alla svelta, avevano già i cavalli sellati. Ma negli accantonamenti Macnaghten e Elphinstone continuavano a tentennare e a crucciarsi, perdendo altro tempo prezioso, sebbene fossero stati informati che parecchi altri ufficiali, al pari di Mohan Lal, si trovavano ancora nella città vecchia, nascosti per sfuggire alla vendetta della folla.

Ormai era chiaro a tutti, perfino a Macnaghten, che si trattava di ben altro che di una marmaglia scatenata. Giungeva notizia che col passare delle ore migliaia di afgani aderivano alla rivolta, e che tumulti analoghi si stavano scatenando nella regione circostante. Corse anche voce che lo stesso Shah Shujah avesse proclamato la guerra santa contro gli inglesi. Vennero intercettate lettere in tal senso, recanti il suo sigillo personale, e sulle prime si temette che fossero autentiche e che Shujah avesse fatto il doppio gioco. Ma poi risultò che tanto le lettere quanto le voci erano false, diffuse deliberatamente dai cospiratori. Del resto, la posizione di Shujah era non meno precaria di quella dei suoi protettori. A onor del vero, lui era stato il solo che, informato del pericolo, avesse tentato di salvare Burnes e i compagni, ma le sue truppe erano state guidate male. Invece di muoversi ai margini della città per raggiungere rapidamente il quartiere della casa di Burnes, avevano cercato di avanzare attraverso il centro affollato, con le sue strade anguste e tortuose, trascinandosi dietro i cannoni. Presto si erano ritrovate in trappola, alla mercé dei rivoltosi ampiamente superiori di numero, molti dei quali armati. Furono uccisi duecento soldati; gli altri, abbandonati i cannoni, fuggirono in disordine al riparo della Bala Hisar, mentre i reparti di soccorso britannici ne coprivano l’indecorosa ritirata.

Come racconta Kaye, la rotta umiliante delle sue truppe, in teoria destinate a proteggerlo, ridusse Shujah in «uno stato pietoso di avvilimento e paura» per la propria sicurezza personale. Anche gli inglesi erano molto scossi dalla piega violenta e inaspettata degli eventi. «L’ingrata verità» osservò un ufficiale nel suo diario «era che in tutta la nazione afgana non potevamo contare su un solo amico». La bella vita a lungo praticata dalla guarnigione era chiaramente finita. In un memoriale incompiuto trovato dopo la sua morte, Macnaghten cercò di giustificare il proprio fallimento. «Mi si può accusare di non aver previsto la tempesta incombente» scrive. «A questo posso rispondere soltanto che altri, provvisti di opportunità ben maggiori di conoscere i sentimenti della popolazione, non sospettavano affatto ciò che stava per accadere». Nel memoriale Macnaghten non fa parola di Rawlinson e Pottinger, di cui aveva ignorato gli avvertimenti, e cerca di incolpare Burnes, opportunamente defunto, di non avergli segnalato il pericolo. La sera prima di essere ucciso, afferma, Burnes si era congratulato con lui perché partiva, andando ad assumere la nuova carica, in un momento di «così profonda tranquillità». In realtà, non era un segreto che Burnes non vedeva l’ora che il suo capo se ne andasse: non avrebbe di certo detto qualcosa che rischiasse di ritardarne la partenza, e quindi il proprio avvento al suo posto.

Secondo Mohan Lal, Burnes considerava la situazione tutt’altro che tranquilla, anche se quella notte sottovalutò colpevolmente il pericolo che incombeva su di lui. La sera precedente aveva dichiarato: «Non è lontano il momento in cui dovremo lasciare questo paese». Il kashmiro interpretò questa frase come un’ammissione della crescente ostilità degli afgani verso la presenza inglese. È tuttavia altrettanto possibile che si riferisse alla nuova politica riguardo all’Afghanistan da poco annunciata a Londra. Nell’agosto di quell’anno, infatti, un governo tory guidato da Sir Robert Peel era succeduto al governo whig di Melbourne, e aveva subito messo mano a rigorosi tagli. Mantenere truppe in Afghanistan era oltremodo costoso, e si riteneva che Shujah dovesse ormai reggersi sulle proprie gambe, tanto più che la minaccia russa sembrava allontanata. Era quindi intenzione del governo potenziare le forze di Shujah, e al tempo stesso rinunciare alla presenza militare (non a quella politica) in Afghanistan. Per cominciare, era stato ordinato a Macnaghten di farla finita con i lauti finanziamenti alle tribù che dominavano i passi cruciali tra Kabul e l’India britannica. Mossa che poi si rivelò deleteria, perché quelle tribù, che finora non avevano creato fastidi, furono tra le prime ad aderire all’insurrezione.

Frattanto negli accantonamenti gli inglesi, invece di muovere contro i ribelli male armati e ancora male organizzati, si prepararono a un assedio. Solo adesso si resero conto della follia commessa accettando di venir via dalla Bala Hisar. Gli accantonamenti erano in posizione decisamente sfavorevole: costruiti in una zona bassa e paludosa, erano sovrastati da ogni lato da colline, e circondati da frutteti che ostacolavano le linee di fuoco e di osservazione dei difensori, mentre i numerosi canali di irrigazione che intersecavano il terreno offrivano un’ottima copertura a un assalitore. La postazione britannica era cinta da un muro di argilla, che però in certi tratti era alto sì e no un metro e forniva scarsa protezione dal fuoco dei cecchini o dell’artiglieria. I genieri avevano avvertito Macnaghten quando la guarnigione si era trasferita lì dalla Bala Hisar, ma, a differenza della maggioranza dei professionisti del Grande Gioco, Macnaghten aveva poca o nessuna esperienza militare, e comunque era sicuro che circostanze simili non si sarebbero mai verificate. Aveva quindi trascurato gli avvertimenti, col risultato che quattromilacinquecento soldati britannici e indiani, e dodicimila civili al seguito, tra cui una quarantina di mogli, bambini e balie inglesi, si trovarono assediati in un luogo che Kaye paragona a una sorta di «ovile nella pianura».

Se Macnaghten e Elphinstone avessero agito con prontezza e decisione ai primi segni della rivolta, avrebbero avuto modo di trasferire per tempo l’intera guarnigione nella Bala Hisar. Ma continuarono a procrastinare, finché fu troppo tardi per affrontare un’impresa così rischiosa. Macnaghten cercò un’altra via d’uscita. Usando l’abile Mohan Lal come intermediario, tentò di comprare l’appoggio di importanti capi afgani in modo da avere il sopravvento sulle fazioni e sulle tribù ribelli. Furono dispensate, o promesse (buona parte dei fondi di Macnaghten erano adesso nelle mani dei rivoltosi), munifiche largizioni, ma con risultati estremamente scarsi. «C’erano troppi appetiti famelici da soddisfare, troppi interessi in contrasto da conciliare» scrive Kaye. «Il movimento ormai era troppo possente per essere sedato con borse di denaro. Il tintinnio delle monete non poteva soffocare la voce di una popolazione oltraggiata e furibonda».

Con l’aggravarsi della situazione di ora in ora, occorreva evidentemente qualcosa di più drastico. Si escogitò, non si sa bene da parte di chi, una soluzione. Mohan Lal fu autorizzato a offrire una ricompensa di diecimila rupie a chiunque avesse ucciso qualcuno dei capi ribelli. Disposizioni in proposito, insieme a una lista di nomi, gli furono impartite dal tenente John Conolly, fratello minore di Arthur e assistente di Macnaghten. Conolly si trovava allora all’interno della Bala Hisar, dove fungeva da ufficiale di collegamento con l’ansioso Shujah. Come altrove, i contatti erano tenuti mediante veloci corrieri, detti qased, che rischiavano la vita portando dispacci segreti nascosti su di sé. Venuto a sapere dell’offerta di denaro per degli assassini, Macnaghten si disse inorridito da questo stratagemma del tutto contrario ai princìpi britannici. Ma resta il fatto che era stato proprio lui ad acconsentire all’offerta di ricompense per la cattura di capitribù ostili, e Kaye dubita che il tenente Conolly avrebbe agito di sua iniziativa «in faccenda di tanta responsabilità» senza la previa approvazione del suo superiore. Kaye conclude che Macnaghten, quasi di certo al corrente dell’offerta in questione, decise di chiudere un occhio, anche se non l’autorizzò formalmente. Poiché Macnaghten e Conolly perirono entrambi poco dopo, forse non sapremo mai con precisione la verità.

Due capi ribelli, tra i primi della lista di Conolly, morirono in effetti di lì a non molto in circostanze misteriose. Furono subito avanzate le richieste di ricompensa: da un uomo che asseriva di aver sparato di persona a uno dei due, e da un altro che sosteneva di aver soffocato il secondo mentre dormiva. Le loro storie però non convinsero Mohan Lal, che rifiutò di pagarli. La ricompensa, disse il kashmiro, era stata offerta per le teste degli uccisi, e i richiedenti non le avevano prodotte. L’eliminazione di costoro non migliorò le cose per la guarnigione. Il vuoto improvviso creatosi nelle file dei capi ribelli non ne indebolì la determinazione né li divise. Avevano appena saputo, infatti, che Mohammed Akbar Khan, il figlio prediletto di Dost Mohammed, stava venendo dal Turkestan per assumere il comando di quella che era ormai diventata un’insurrezione in piena regola. Il focoso principe guerriero aveva giurato di rovesciare Shujah, cacciare gli inglesi e rimettere il padre sul trono.

Negli accantonamenti, frattanto, le cose andavano di male in peggio. Giungeva notizia della caduta in mano ai ribelli degli avamposti britannici, con perdite considerevoli: i soldati di un intero reggimento gurkha erano stati massacrati, parecchi ufficiali uccisi e altri feriti, tra cui il maggiore Eldred Pottinger, l’eroe di Herat. Il rigido inverno afgano era già iniziato, molto prima del solito, e il cibo, l’acqua, i medicinali cominciavano a venir meno, per non parlare della forza d’animo. Come, pare, anche il coraggio, visto che l’unico grande attacco della guarnigione contro i ribelli era terminato con un’umiliante sconfitta e una ritirata precipitosa (Kaye la definisce «disonorevole e catastrofica»). L’episodio ebbe luogo il 23 novembre, quando gli afgani, dopo aver trascinato due cannoni in cima a una collina sovrastante la postazione britannica, cominciarono a bombardare dall’alto l’accampamento affollato.

Neppure il generale Elphinstone, il quale finora aveva speso più energie a litigare con Macnaghten che a impegnare il nemico, poté ignorare questa minaccia. Ordinò a un brigadier generale di fare una sortita con una forza di fanteria e cavalleria. Questi, tutt’altro che entusiasta, conquistata la collina e messi a tacere i cannoni, rivolse l’attenzione al villaggio sottostante occupato dal nemico. Fu allora che le cose cominciarono ad andare davvero male. Vigeva da tempo l’ordine che i cannoni agissero sempre appaiati, ma per qualche ragione, forse per avere maggiore mobilità, il brigadiere aveva portato con sé solo un pezzo da nove libbre. Dapprima i suoi proiettili a mitraglia ebbero un effetto devastante sugli afgani, ma presto il surriscaldamento mise il pezzo fuori uso proprio quando ce n’era più bisogno, e l’attacco al villaggio venne respinto. Frattanto i comandanti afgani avevano mandato una numerosa schiera di fanti e cavalleggeri in soccorso ai compagni in difficoltà. Resosi conto del pericolo, il brigadiere dispose la fanteria in due quadrati, con la cavalleria nel mezzo, e attese l’assalto nemico, sicuro che la tattica che aveva vinto la battaglia di Waterloo avrebbe avuto successo anche stavolta.

Ma gli afgani si tennero a distanza, aprendo con i loro archibugi a canna lunga, i jezail, un fuoco intenso contro le file serrate dei britannici. Con sgomento gli uomini del brigadiere, facili bersagli nelle sgargianti giubbe rosse, realizzarono che i loro moschetti a canna più corta non erano in grado di raggiungere il nemico; le pallottole cadevano inoffensive al di qua del bersaglio. Il brigadiere avrebbe potuto puntare l’artiglieria sugli afgani, causando strage nelle loro file, dopo di che la cavalleria avrebbe fatto il resto. Ma, come osserva Kaye, sembrava che «la maledizione divina gravasse su quegli infelici», perché il pezzo da nove libbre era ancora troppo arroventato, e i cannonieri non potevano usarlo senza il rischio che esplodesse; e intanto gli uomini cadevano come birilli sotto il fuoco dei tiratori afgani. Poi, fra l’orrore di coloro che osservavano la battaglia dagli accantonamenti giù in basso, una poderosa squadra nemica cominciò a muovere di soppiatto lungo una gola contro gli ignari britannici; e, uscita allo scoperto, si lanciò gridando selvaggiamente contro di loro, volgendoli in fuga. Il brigadiere cercò disperatamente di raccogliere i suoi uomini, dando prova di straordinario coraggio nell’affrontare il nemico da solo, mentre ordinava al trombettiere di suonare l’alt. Il segnale ebbe effetto e i soldati in fuga si arrestarono. Gli ufficiali li rimisero in riga, e una carica alla baionetta, appoggiata dalla cavalleria, rovesciò la situazione, disperdendo il nemico. Adesso il cannone da nove libbre era di nuovo in azione, e gli afgani furono infine respinti con pesanti perdite.

Ma il trionfo inglese durò poco, perché gli afgani impararono in fretta la lezione. Diressero il fuoco dei loro jezail sugli sfortunati artiglieri, rendendo pressoché impossibile l’uso del cannone. Al tempo stesso, fuori dalla portata dei moschetti britannici, bersagliarono con una gragnuola micidiale le truppe esauste e ormai sul punto di perdersi di nuovo d’animo. Quando infine altre schiere di afgani, sbucate da una gola, balzarono fuori d’improvviso con urla spaventose e lunghi coltelli luccicanti, mentre i compagni mantenevano un fuoco incessante da posizioni pressoché invisibili dietro le rocce, le truppe britanniche e indiane non ressero. Ruppero le file e si precipitarono in fuga giù per la collina fino agli accantonamenti, lasciando i feriti al loro inesorabile destino.

«La rotta delle truppe britanniche fu completa» scrive Kaye. «In una massa confusa di fanti e cavalieri, di soldati europei e indigeni, fuggirono verso il riparo degli accantonamenti». Invano il generale Elphinstone e gli ufficiali del suo stato maggiore, che avevano osservato la battaglia, cercarono di riordinarle e di volgerle di nuovo contro gli afgani. Gli uomini avevano perso coraggio e disciplina, e trecento dei loro compagni. «Avevano dimenticato di essere soldati britannici» commenta freddamente Kaye. Gli afgani all’attacco e gli inglesi in fuga erano a tal punto mescolati gli uni agli altri che i cannoni degli accantonamenti non riuscivano più a far fuoco. Se il nemico avesse persistito nell’inseguimento, osserva Kaye, con ogni probabilità l’intera guarnigione sarebbe stata massacrata. Ma per qualche miracolo gli afgani si fermarono, evidentemente su ordine del loro comandante, e poco dopo si dileguarono. «Sembravano stupefatti della vittoria» riferì un giovane ufficiale «e, dopo aver mutilato orribilmente i corpi rimasti sulla collina, si ritirarono con grida di esultanza in città».

L’indomani, fra la meraviglia degli inglesi, gli afgani proposero una tregua. Aveva frattanto raggiunto i ribelli, tra manifestazioni di giubilo, Mohammed Akbar Khan, accompagnato da seimila combattenti, portando così le forze afgane a qualcosa come trentamila fanti e cavalleggeri, in un rapporto di circa sette a uno con le truppe britanniche. Con forze tanto soverchianti, ad Akbar sarebbe piaciuto senza dubbio passare l’intera guarnigione britannica a fil di spada per vendicare lo spodestamento del padre; ma sapeva che, se voleva restituirgli il trono, doveva procedere con cautela, perché Dost Mohammed era tuttora nelle mani degli inglesi in India. Macnaghten, dal canto suo, capiva che per evitare l’annientamento o la morte per fame della guarnigione non c’era altra scelta che scendere a trattative. Prima di negoziare, tuttavia, chiese a Elphinstone di dichiarare per iscritto che la situazione era militarmente irrimediabile se da Kandahar non arrivavano entro pochi giorni i rinforzi annunciati. Sperando ancora di salvarsi la carriera, Macnaghten intendeva affibbiare la colpa del disastro all’inettitudine di Elphinstone e alla pusillanimità delle truppe.

Il generale gli fornì la dichiarazione richiesta, insieme al consiglio di trattare con gli afgani. Il lungo elenco dei guai della guarnigione (già ben noti a Macnaghten) terminava con queste parole: «Abbiamo tenuto la nostra posizione qui per più di tre settimane in stato di assedio. Tuttavia, data la mancanza di vettovaglie e foraggio, la debilitazione delle truppe, il gran numero di feriti e malati, la difficoltà di difendere gli estesi e mal situati accantonamenti, l’incombere dell’inverno, l’interruzione delle comunicazioni, e l’intero paese in armi contro di noi, sono dell’avviso che non sia possibile mantenere più a lungo tale posizione». Lo sconforto di Elphinstone era stato accresciuto da due informazioni dell’ultim’ora. La prima era che Akbar aveva vietato agli afgani, pena la morte immediata, di vendere o fornire viveri agli inglesi. La seconda era che l’auspicata spedizione di soccorso dal Sud aveva dovuto fare dietrofront a causa delle forti nevicate sui passi, e non sarebbe stata in grado di raggiungere Kabul quell’inverno.

Forte della nera prognosi del generale, Macnaghten scrisse un dispaccio urgente a Lord Auckland, esponendo la gravità della situazione e addossandone la responsabilità ai militari. «Le nostre provviste si esauriranno fra due o tre giorni, e le autorità militari mi hanno fortemente sollecitato a capitolare» scrisse, aggiungendo compiaciuto: «Questo mi rifiuto di farlo, fino all’ultimo». Era ancora convinto di poter mettere nel sacco gli afgani sfruttando le divisioni che sapeva esistere tra i loro capi. In risposta all’offerta di tregua, perciò, li invitò a mandare una deputazione per discutere le condizioni. Mentre i negoziati erano in corso, ebbero luogo scene straordinarie entro le linee britanniche: stuoli di afgani, tutti armati fino ai denti, sciamarono oltre i bassi muri perimetrali e cominciarono a fraternizzare con i soldati britannici e indiani. Molti portavano verdura fresca, e la offrivano a coloro che poche ore prima avevano cercato di uccidere. Da principio si temette che la verdura fosse in qualche modo «drogata» o addirittura avvelenata, ma un attento esame dimostrò che il sospetto era infondato.

I negoziatori afgani chiesero anzitutto la consegna di Shah Shujah, ancora al sicuro dietro le mura massicce e i bastioni della Bala Hisar, garantendogli salva la vita (ma si mormorava che intendessero accecarlo, in modo che non costituisse più un pericolo). Il giorno dopo, chiesero la restituzione di Dost Mohammed, e che tutte le truppe britanniche in Afghanistan cedessero le armi e partissero senza indugio per l’India. A scanso di inganni, pretendevano di trattenere in ostaggio alcuni ufficiali inglesi e le loro famiglie finché le truppe non avessero lasciato il paese e Dost Mohammed non fosse tornato a Kabul. Superfluo dire che tali richieste erano del tutto inaccettabili per Macnaghten. L’euforia e la cordialità cessarono bruscamente e i colloqui si interruppero, fra gli irosi propositi di entrambe le parti di riprendere le ostilità.

Ciò non avvenne; anzi, pochi giorni dopo si combinò un altro incontro, questa volta sulle rive del fiume Kabul, a un chilometro e mezzo dagli accantonamenti. Akbar in persona guidò la delegazione afgana, composta da molti dei principali capitribù. Stavolta Macnaghten avanzò le sue proposte, ed esordì leggendo una dichiarazione in persiano: «Poiché risulta dai fatti recenti che la permanenza dell’esercito britannico in Afghanistan a sostegno di Shah Shujah è sgradita alla grande maggioranza della popolazione afgana, e poiché il governo britannico nel mandare truppe in questo paese non aveva altro scopo che l’integrità, la serenità e il benessere degli afgani, esso governo non desidera prolungare tale permanenza in quanto contraria allo scopo suddetto». Gli inglesi perciò avrebbero ritirato tutte le truppe, a patto che gli afgani garantissero loro un passaggio sicuro fino alla frontiera. Shah Shujah (che pare non fosse stato consultato) avrebbe rinunciato al trono tornando con gli inglesi in India. Akbar stesso li avrebbe accompagnati alla frontiera e sarebbe stato personalmente responsabile della loro sicurezza, mentre quattro ufficiali inglesi (ma non le famiglie) sarebbero rimasti a Kabul come ostaggi. Arrivata felicemente la guarnigione in India, Dost Mohammed sarebbe stato libero di venire a Kabul e gli ostaggi inglesi di rimpatriare. Si esprimeva infine la speranza che, a dispetto di quanto recentemente verificatosi, le due nazioni rimanessero amiche, e che, in cambio dell’assistenza britannica in caso di bisogno, gli afgani acconsentissero a non allearsi con altre potenze straniere.

Era una capitolazione, ma meno di quel che sembrava. Macnaghten, intrigante fino al midollo, puntava su un’ultima, disperata possibilità. Aveva appreso da Mohan Lal che alcuni dei capi più potenti temevano in cuor loro il ritorno di Dost Mohammed, sovrano duro e autoritario, preferendogli il più debole e arrendevole Shujah. Avevano inoltre meno fretta di Akbar di veder partire gli inglesi e le loro generose largizioni. Dopo aver discusso le proposte di Macnaghten, gli afgani le accettarono in linea di principio, apparentemente all’unanimità. Ebbero subito inizio i preparativi per l’evacuazione della guarnigione e la messa in atto delle altre clausole dell’accordo, prima che l’inverno le rendesse impossibili. Ma, di fronte alla concreta imminenza della partenza di Shujah, coloro che temevano il ritorno di Dost Mohammed cominciarono a ripensarci, come Macnaghten aveva previsto. Servendosi di nuovo di Mohan Lal quale intermediario, e di allettanti promesse di denaro, Macnaghten cercò di fomentare la divisione nelle file afgane. «Se una parte degli afgani desidera che le nostre truppe rimangano,» disse al suo agente kashmiro «mi riterrò libero di rompere l’impegno di andarcene, impegno preso in quanto lo giudicavo conforme ai desideri della nazione afgana».

Nei giorni seguenti, l’instancabile Mohan Lal si diede febbrilmente a seminare zizzania tra i capi afgani, e a spingerne quanti più possibile contro Akbar. Macnaghten, scrive Kaye, era consapevole che tra gli afgani non esisteva una vera unità, ma solo alleanze temporanee di convenienza. «Non è facile» aggiunge Kaye «raggruppare in un insieme intelligibile i molteplici e mutevoli progetti ed espedienti che travagliarono gli ultimi giorni di Macnaghten… Questi si volgeva prima a un partito, poi a un altro, abbracciando qualunque nuova combinazione paresse offrire maggiori speranze della precedente». I segni che a prima vista la sua strategia funzionava, e che Akbar e i suoi seguaci erano alle prese con forti pressioni interne, non si fecero attendere a lungo.

La sera del 22 dicembre, Akbar mandò a Macnaghten un emissario segreto con nuove proposte: sorprendenti, a dir poco. Shah Shujah sarebbe rimasto sul trono, ma con Akbar come suo visir. Gli inglesi si sarebbero trattenuti in Afghanistan fino a primavera, e allora sarebbero partiti come per propria scelta, salvando così la faccia. Il responsabile dell’uccisione di Alexander Burnes sarebbe stato catturato e consegnato agli inglesi per essere punito. In cambio, Akbar avrebbe ricevuto in blocco la somma di trecentomila sterline e una rendita annua di quarantamila, più l’aiuto degli inglesi contro certi suoi rivali.

Chiaramente, o così parve a Macnaghten, Akbar era stato costretto a un simile compromesso dagli elementi che lui, con l’aiuto di Mohan Lal e la promessa dell’oro britannico, aveva guadagnato alla causa di Shah Shujah. Macnaghten era trionfante. Aveva salvato gli inglesi dall’umiliazione, la guarnigione dal massacro, Shujah dall’abdicazione, e la propria carriera dalla rovina. Fu combinato per la mattina seguente un incontro in cui i due avrebbero in gran segreto definito l’accordo. Quella notte Macnaghten scrisse un biglietto a Elphinstone dicendo di aver fatto con Akbar un patto che metteva fine a tutte le loro preoccupazioni.

L’indomani Macnaghten, in compagnia di tre dei suoi ufficiali, si recò sul luogo convenuto. A Elphinstone, che gli chiedeva se non potesse essere una trappola, rispose bruscamente: «Lasciate fare a me. Di queste cose mi intendo più di voi». Timori simili erano stati espressi da uno degli ufficiali scelti per andare con lui, e dalla sua stessa moglie. Anche Mohan Lal lo aveva avvertito che Akbar non era uomo di cui fidarsi. Ma Macnaghten, che nessuno poteva accusare di mancare di coraggio, non volle ascoltarli. «Tradimento c’è, naturalmente» dichiarò; ma il successo avrebbe salvato il loro onore, e più che compensato il pericolo. «Preferisco rischiare mille volte la morte» aggiunse «che essere disonorato».

Akbar e i suoi li aspettavano sulla pendice innevata di una collina sovrastante il fiume Kabul, a seicento metri dall’angolo sud-occidentale degli accantonamenti, e li accolsero dicendo: «La pace sia con voi!». I servitori avevano steso delle gualdrappe per terra e, dopo uno scambio di saluti militari dalla sella, Akbar invitò Macnaghten e i compagni a smontare e ad accomodarsi. Il capitano Kenneth Mackenzie, uno degli ufficiali, scrisse in seguito: «Si parla di presentimenti. Suppongo di aver avuto qualcosa del genere, perché non riuscivo a decidermi a lasciare il mio cavallo. Tuttavia lo feci, e fui invitato a sedere tra i sirdar, i comandanti». Quando tutti furono seduti e in silenzio, Akbar si rivolse con un sorriso a Macnaghten e gli chiese se accettava la proposta fattagli la sera precedente. «Perché no?» rispose Macnaghten. Queste due semplici parole suggellarono non solo la sua sorte ma quella dell’intera guarnigione britannica.

Macnaghten ignorava che Akbar era venuto a sapere della sua doppiezza e aveva deciso di volgerla a proprio vantaggio. L’afgano aveva avvertito gli altri capi che Macnaghten era disposto a tagliarli fuori e a stringere un patto segreto con lui alle loro spalle. E adesso – sembra infatti che alcuni di loro fossero presenti – avevano udito con le proprie orecchie il tradimento dell’inglese. Akbar non aveva mai avuto intenzione di lasciare che gli inglesi e Shujah restassero in Afghanistan. La sua offerta mirava soltanto a far cadere in trappola Macnaghten e a riguadagnare la fedeltà di coloro che questi aveva cercato di aizzargli contro. Aveva risposto alla frode con la frode, e vinto la partita.

Senza nulla sospettare, Macnaghten chiese chi fossero le persone lì presenti a lui sconosciute. Akbar gli disse di non allarmarsi, e aggiunse: «Siamo tutti a parte del segreto». Non appena ebbe pronunciato queste parole, secondo il capitano Mackenzie, Akbar urlò ai suoi uomini: «Be-ghir! Be-ghir!», prendeteli, prendeteli! Subito Mackenzie e i suoi due colleghi furono bloccati alle spalle, mentre Akbar stesso insieme a un altro capo immobilizzava Macnaghten. Sulla faccia di Akbar, ricorda Mackenzie, c’era un’espressione «della più diabolica ferocia». Mackenzie intravide anche la faccia di Macnaghten mentre veniva trascinato a strattoni giù per la collina. «Era» scrisse in seguito «piena di orrore e di stupore». Lo udì gridare: «Az bara-ye Khoda», per l’amor di Dio. La preoccupazione immediata di Mackenzie tuttavia riguardava la propria sorte, perché alcuni degli afgani più fanatici reclamavano il suo sangue e quello degli altri due ufficiali. Ma Akbar, sembra, aveva dato ordine che fossero presi vivi. Spogliati delle armi, furono costretti con i fucili spianati a salire sui cavalli di tre dei suoi uomini, in sella dietro a loro. Poi, inseguiti accanitamente da quanti ancora volevano ucciderli, furono portati al sicuro in un fortilizio vicino e gettati in una cella fetida. Disgraziatamente uno di loro, il capitano Trevor, cadde o fu tirato giù da cavallo durante l’inseguimento, e venne brutalmente tagliato a pezzi nella neve.

Non si saprà mai di preciso come morì Macnaghten. A parte i suoi uccisori, non ci furono testimoni di ciò che gli accadde. Akbar giurò in seguito che era stata sua intenzione tenere l’inglese in ostaggio a garanzia del ritorno del padre, ma che il prigioniero aveva lottato con tale accanimento che erano stati costretti a ucciderlo per timore che si liberasse e raggiungesse le linee britanniche. Un’altra versione, tuttavia, dice che Akbar, il quale incolpava personalmente Macnaghten della deposizione del padre, gli sparò in un accesso di cieco furore con una delle due pistole riccamente ornate che lo stesso Macnaghten gli aveva donato in precedenza, mostrandogli anche come si caricavano.

Intanto le vedette si erano accorte che qualcosa non andava, e ne avevano informato il generale Elphinstone. Ma ancora una volta l’incompetenza, l’indecisione e la pura e semplice codardia prevalsero, e nulla si fece per salvare Macnaghten e i suoi, sebbene si trovassero a meno di un chilometro dagli accantonamenti. Macnaghten aveva chiesto a Elphinstone di tenere pronti alcuni uomini in caso di brutte sorprese, ma il generale non aveva fatto nemmeno questo. La scusa addotta in seguito per tale inerzia fu che si pensava che Macnaghten e i tre ufficiali si fossero allontanati con Akbar per definire l’accordo altrove. Soltanto più tardi, quando non tornarono, si comprese la terribile verità. Quella notte la guarnigione inorridita venne a sapere che il cadavere di Macnaghten, mutilato di testa, braccia e gambe, era appeso a un palo nel bazar, mentre le sue membra insanguinate venivano portate trionfalmente in giro per la città.


20
MASSACRO SUI PASSI

Gli afgani si prepararono adesso a fronteggiare la vendetta inglese, della cui artiglieria distruttrice avevano ancora grande paura. Lo stesso Akbar, sospettando di essere andato troppo oltre, si affrettò a negare ogni responsabilità nella morte di Macnaghten e a esprimere il proprio rammarico. Appena tre anni prima, quando avevano agevolmente sconfitto le forze di suo padre, Akbar aveva avuto modo di constatare l’efficienza delle truppe britanniche, se comandate a dovere. E sebbene tenesse alcuni inglesi in ostaggio, l’ostaggio principale, suo padre, era in mani britanniche.

Ma gli inglesi, che già avevano lasciato impunita l’uccisione di Burnes, sembrarono colti adesso da una paralisi analoga. La guarnigione era ancora una forza bene armata e potenzialmente formidabile, e, guidata con audacia e determinazione, avrebbe potuto anche adesso sconfiggere Akbar e gli afgani. Senonché l’anziano Elphinstone, afflitto dalla gotta e in attesa di un tranquillo pensionamento, era da tempo caduto in un’indolenza fatta di irresolutezza e scoramento, se non di vera e propria vigliaccheria; e i suoi ufficiali ne erano stati contagiati. «L’indecisione, gli indugi e la mancanza di metodo che paralizzavano i nostri sforzi» scrisse un subalterno «demoralizzarono a poco a poco le truppe, e infine, non riscattati dalle qualità del comandante in seconda, si rivelarono la rovina di noi tutti». Senza la volontà di agire in modo risolutivo, e senza provviste se non per pochi giorni, gli inglesi potevano sperare di evitare il disastro solo tornando a trattare con il nemico.

Alla vigilia di Natale, Akbar, che si era evidentemente ripreso dal momentaneo timore di una ritorsione britannica, mandò nuovi emissari agli accantonamenti, rinnovando l’offerta di un salvacondotto per la guarnigione; ma questa volta a un prezzo assai più alto. Morti Macnaghten e Burnes, e con la maggior parte degli altri ufficiali politici prigionieri di Akbar o fuori combattimento, l’ingrato compito di negoziare da una posizione di estrema debolezza toccò a Eldred Pottinger. Questi aveva costantemente sollecitato Macnaghten ed Elphinstone a trasferire la guarnigione nella Bala Hisar finché si era in tempo, a costo di aprirsi la strada con le armi. Ma Elphinstone era sempre riuscito a trovare scuse per non farlo, e adesso non era più possibile, perché gli afgani, consapevoli del pericolo, avevano distrutto il ponte sul fiume Kabul.

Benché sofferente per una grave ferita, Pottinger tentò ancora di convincere i superiori a sferrare un attacco in forze contro Akbar e i suoi alleati, tuttora disuniti. Era una strategia che godeva dell’appoggio di tutti i giovani ufficiali e dei soldati, infuriati per l’assassinio di Macnaghten. Pottinger sostenne vigorosamente che non si poteva patteggiare con Akbar, uomo indegno di fede, e che la proditoria uccisione di Macnaghten rendeva nulli gli impegni assunti con lui. Ma non fu ascoltato: Elphinstone e gli altri ufficiali superiori desideravano andarsene al più presto, e con quello che ritenevano il minor rischio possibile. Morti Macnaghten e Burnes, nessuno aveva l’autorità di sfidare Elphinstone e il suo stato maggiore, meno che mai Pottinger, che aveva unicamente mansioni politiche e non militari. «Venni prelevato dall’infermeria» scrisse in seguito «e costretto a negoziare per la salvezza di un branco di stupidi votati all’autodistruzione». Con i suoi superiori che si limitavano a sperare per il meglio e a confidare nella misericordia di Akbar, Pottinger ebbe perciò il compito penoso e sgradevole di placare quest’ultimo e trattare quella che era di fatto la resa della guarnigione.

Oltre a chiedere che gli inglesi rispettassero l’impegno assunto da Macnaghten di lasciare subito l’Afghanistan, Akbar domandò la consegna del grosso dell’artiglieria e di quanto restava dell’oro, e che i prigionieri già in suo possesso fossero sostituiti da ufficiali sposati, con le mogli e i figli. Elphinstone, come al solito incline a opporre la minor resistenza possibile, chiese subito che dei volontari si offrissero come ostaggi, ma – e non sorprende – incontrò scarsa adesione. Un ufficiale giurò di uccidere la moglie piuttosto che lasciarla alla mercé degli afgani, e un altro dichiarò che lo si sarebbe dovuto consegnare al nemico con una baionetta puntata alla schiena. Solo uno si offrì volontario, dichiarando che per il bene comune lui e la moglie erano disposti a consegnarsi.

Le condizioni meteorologiche stavano rapidamente peggiorando, e non c’era tempo da perdere se si voleva attraversare i passi per Jalalabad prima che l’inverno li bloccasse. Pottinger non ebbe altra scelta che sottostare alla maggior parte delle dure richieste di Akbar. Il 1° gennaio 1842, mentre su Kabul cadeva una neve fitta, venne firmato l’accordo: Akbar si impegnava a garantire la sicurezza degli inglesi in partenza e prometteva di fornire loro una scorta armata per proteggersi dalle tribù ostili di cui avrebbero attraversato i territori. In cambio gli inglesi accettavano di consegnare tutta l’artiglieria tranne sei pezzi e tre cannoncini portati a dorso di mulo. Per parte loro, gli afgani rinunciarono alla richiesta di trattenere in ostaggio ufficiali sposati con le famiglie, e liberarono il capitano Mackenzie e il suo collega. I due avevano saputo della sorte di Macnaghten quando la sua mano mozza, attaccata a un bastone, era stata issata davanti alla finestra della loro cella da una marmaglia urlante che ne reclamava il sangue. Al loro posto, Akbar chiese, come garanzia di buona fede, che tre altri giovani ufficiali restassero presso di lui in qualità di «ospiti». Gli inglesi non erano in condizione di discutere.

Mentre erano in corso i preparativi per l’esodo della guarnigione, negli accantonamenti cominciò a circolare una voce allarmante. «Siamo informati» annotò nel diario la moglie di un ufficiale superiore «che i capi [afgani] non intendono tener fede all’accordo». Dopo essersi impadroniti delle donne, si mormorava, progettavano di massacrare tutti gli uomini tranne uno. Costui sarebbe stato portato all’imbocco del passo Khyber, e lasciato là, mutilato di braccia e gambe, con addosso un cartello di monito agli inglesi perché non tentassero mai più di entrare in Afghanistan. Le mogli inglesi sarebbero state usate come contropartita perché Dost Mohammed tornasse sano e salvo. Gli inglesi furono inoltre avvertiti dagli amici che ancora avevano fra gli afgani che, accettando le condizioni di Akbar, firmavano la propria condanna a morte. Ma nella disperata fretta di andar via, nessuno era disposto ad ascoltarli. Non si tenne conto neanche dell’avvertimento di Mohan Lal: che, a meno di portare con sé in ostaggio i figli dei capi, andavano incontro a morte sicura.

Alle prime luci del 6 gennaio, al suono di trombe e tamburi, e lasciando Shah Shujah e i suoi seguaci a sbrigarsela da soli nella Bala Hisar, la già orgogliosa Armata dell’Indo uscì ingloriosamente dagli accantonamenti. La destinazione era Jalalabad, la guarnigione britannica più vicina, distante più di centotrenta chilometri a est al di là delle montagne innevate; poi le truppe avrebbero lasciato l’Afghanistan entrando in India per il passo Khyber. Precedeva la marcia un’avanguardia di seicento fanti, le giubbe rosse del 44th Regiment of Foot, e di cento cavalleggeri. Venivano poi, su dei pony, le mogli inglesi con i figli, e le donne inferme o gravide su palanchini portati dai servitori indiani. Seguiva il grosso di fanteria, cavalleria e artiglieria. Da ultimo, la retroguardia, consistente anch’essa di fanteria, cavalleria e artiglieria. Tra il corpo principale e la retroguardia serpeggiava una lunga colonna di cammelli e buoi carichi di munizioni e viveri. In coda, varie migliaia di civili al seguito, riguardo ai quali non si erano prese adeguate precauzioni, e che si arrangiavano alla bell’e meglio aggregandosi quando potevano alla colonna.

All’ultimo momento si fece una scoperta inquietante. La scorta promessa da Akbar, che avrebbe dovuto aspettarli più avanti, non c’era; né c’erano le tanto attese provviste di viveri e combustibile. Pottinger suggerì subito a Elphinstone che si era ancora in tempo per cambiare i piani e mettersi al riparo nella Bala Hisar. Ma il generale non ne volle sapere, dichiarando che ormai non si poteva fare marcia indietro. Un messaggero era stato mandato ad avvertire la guarnigione britannica a Jalalabad che le truppe erano in cammino. Così fu che in quella gelida mattina di gennaio la lunga colonna di truppe britanniche e indiane, con mogli, figli, balie, stallieri, cuochi, servitori e appendici varie – in tutto sedicimila persone –, si mise in marcia nella neve verso il primo dei passi montani.

Una settimana più tardi, poco dopo mezzogiorno, dalle mura del forte britannico di Jalalabad una vedetta scorse in lontananza un cavaliere solitario che avanzava lento nella pianura. La notizia della disfatta della guarnigione di Kabul aveva già raggiunto Jalalabad, causando profondo sconcerto, e da due giorni il presidio attendeva con ansia l’arrivo dell’avanguardia: normalmente, infatti, se ne impiegavano soltanto cinque. Subito la vedetta diede l’allarme, e ci fu una corsa in massa ai bastioni. Una dozzina di cannocchiali venne puntata sul cavaliere. Un attimo dopo qualcuno gridò che era un europeo. Chino su se stesso, aggrappato al collo del cavallo, sembrava malato o ferito. Gli spettatori rabbrividirono, presagendo una sciagura. «Quel cavaliere solitario» scrive Kaye «pareva un messaggero di morte». Fu subito mandata una pattuglia armata a scortare lo sconosciuto fin dentro il forte, perché si sapeva che numerosi afgani ostili si aggiravano nella pianura.

Il cavaliere aveva brutte ferite da taglio alla testa e alle mani; disse di essere il dottor William Brydon, medico già al servizio di Shah Shujah, partito da Kabul con la guarnigione britannica. Quel che aveva da raccontare era tremendo. Come Mohan Lal e i pochi afgani rimasti amici degli inglesi avevano segnalato, Akbar si era dimostrato traditore fin dall’inizio. Non appena la retroguardia lasciò gli accantonamenti, gli afgani dalle mura aprirono il fuoco sugli inglesi con i loro micidiali jezail, uccidendo un ufficiale subalterno e ferendo parecchi soldati. Da quel momento in poi gli attacchi si susseguirono senza tregua. I cavalleggeri afgani facevano incursioni fra le truppe, massacrando, saccheggiando e portando via gli animali da soma. Neppure i civili al seguito, disarmati e inermi, venivano risparmiati. Presto la neve fu rossa di sangue, e la pista disseminata di morti e moribondi. Nonostante ciò, la colonna andò avanti, difendendosi come poté. Ma, appesantita dai bagagli superflui e impacciata dai civili terrorizzati, nel primo giorno di marcia riuscì a percorrere soltanto otto chilometri, e fino a tarda notte continuò ad arrivare gente che era rimasta indietro.

Gli ufficiali superiori e alcune delle mogli europee con i figli dormirono nell’unica tenda scampata al saccheggio. Gli altri, fra cui lo stesso dottor Brydon, pernottarono all’aperto, nella neve. In mancanza di combustibile, si accesero dei falò bruciando capi di vestiario. Brydon dormì avvolto nel suo cappotto di montone, stringendo in pugno la briglia del pony. Durante la notte molti indiani, soldati e civili, originari di zone calde e vestiti in modo inadeguato, morirono di freddo. Altri al risveglio scoprirono con orrore di avere i piedi congelati (simili, dice Brydon, a «ceppi di legno carbonizzati»); e si dovette lasciarli indietro, a morire nella neve. Eppure Pottinger aveva consigliato a Elphinstone di procurarsi gualdrappe per ricavarne mollettiere per le truppe, come facevano gli afgani ogni anno alle prime nevicate. Ma il consiglio era stato ignorato, al pari di tutti gli altri: tragica conseguenza, pagata a caro prezzo, della rivalità esistente tra gli ufficiali militari e quelli politici.

E così l’ardua ritirata continuò. Tutti avevano una cosa sola in mente: scampare a quel freddo terribile e raggiungere le calde e sicure pianure di là dal Khyber. Per tutto il giorno i cecchini nemici appostati tra le rocce seminarono strage. Ci furono anche piccole scaramucce, grazie alle quali gli afgani riuscirono a impadronirsi di un paio di cannoncini portandoli a dorso di mulo, e costrinsero gli inglesi ad abbandonare, dopo averli resi inservibili, due altri preziosi pezzi d’artiglieria. Agli inglesi restavano ora soltanto un cannoncino e due cannoni pesanti. Eppure il vero combattimento doveva ancora cominciare.

Il secondo giorno comparve inaspettatamente Akbar, accampando la scusa di essere venuto a scortarli attraverso i valichi fino a Jalalabad. Affermò che se gli inglesi avevano subìto delle perdite era solo colpa loro, visto che erano partiti dagli accantonamenti prima che la scorta fosse pronta (in realtà, l’ora della partenza era stata convenuta da entrambe le parti). In cambio della scorta, però, chiese adesso altri ostaggi, fra cui Pottinger e due ufficiali politici. Ordinò altresì a Elphinstone di non procedere oltre per quel giorno: prima lui, Akbar, doveva prendere accordi con i capi della tribù che custodiva il prossimo valico, perché li lasciassero passare. Ancora una volta, incredibile a dirsi, Elphinstone gli diede retta, e accettò di accamparsi là, dopo aver percorso in due giorni, e a quale prezzo, soltanto sedici chilometri. Accettò anche di consegnare ad Akbar i tre ostaggi richiesti, che furono trasferiti nel campo afgano. Per loro si rivelò provvidenziale, sebbene certo al momento non lo sembrasse affatto.

L’indomani, 8 gennaio, la colonna ormai allo sbando imboccò uno stretto e tortuoso valico, lungo sette chilometri. Della scorta promessa da Akbar ancora nessuna traccia, ma non si poteva indugiare oltre, perché il gelo e la fame cominciavano a mietere sempre più vittime. Akbar aveva promesso anche delle provviste: non vi era traccia nemmeno di quelle. Né risultava si fosse accordato con la tribù che aveva in custodia il valico. Anzi, fu presto evidente a tutti, tranne che a Elphinstone, che Akbar aveva persuaso gli inglesi a fermarsi per dar tempo agli uomini della tribù di appostarsi con i jezail sulle rupi che sovrastavano il valico.

«Quel mattino attraversammo il passo Khoord-Cabool con gravi perdite di vite umane e di materiale» registra cupamente il dottor Brydon in un diario ricostruito a memoria dopo l’arrivo a Jalalabad. «Il nemico aveva preso possesso delle alture, e ci rovesciò addosso un fuoco incessante. Numerosissimi furono i morti… e molti di più i feriti». Non appena il grosso della colonna ebbe raggiunto la fine del valico, costretta a varcare non meno di tredici volte un torrente parzialmente ghiacciato, i guerrieri della tribù piombarono dalle loro postazioni e si diedero a massacrare chi era rimasto indietro. Quel giorno la guarnigione lasciò nel valico circa tremila caduti, tra cui donne e bambini, e i loro cadaveri congelati furono spogliati dei preziosi indumenti tanto dagli afgani quanto dagli stessi inglesi. Alcuni – Brydon personalmente non ne fu testimone – dichiararono di aver visto Akbar che, dal suo cavallo, esortava le truppe in persiano (lingua conosciuta da molti ufficiali britannici) a «risparmiare» gli inglesi, ma in pashto (il dialetto della tribù locale) a «trucidarli». Nonostante questa e altre prove del suo tradimento, Elphinstone decise l’indomani stesso, 9 gennaio, di fidarsi ancora di lui. Questa volta Akbar propose di prendere sotto la sua protezione le mogli e i figli degli ufficiali inglesi, promettendo di accompagnarli per una via più sicura fino a Jalalabad. Si offrì di scortare anche i loro mariti – quantomeno quelli che erano sopravvissuti – e un certo numero di ufficiali feriti. Elphinstone accettò. Diciannove persone – due uomini, otto donne e nove bambini – furono affidate alla scorta di Akbar. Né di loro né degli ufficiali politici già detenuti si seppe più nulla per molti mesi.

Malgrado la consegna delle donne e dei bambini, gli attacchi contro la colonna ripresero quasi subito. Il giorno seguente, annota Brydon, «la marcia fu terribile: sotto le continue raffiche dei colpi nemici, molti ufficiali e soldati, che andavano senza saper dove perché abbacinati dalla neve, vennero massacrati». Fra le vittime ci furono tre suoi colleghi medici, e almeno altri sette ufficiali. Inoltre, il freddo cui erano esposte di continuo, racconta Brydon, aveva indebolito le truppe indiane, rendendole pressoché incapaci di difendersi dai continui assalti afgani. Alla fine della giornata, col calare dell’oscurità, «solo un pugno di sipahi» era ancora in vita. Si calcola che, delle truppe britanniche e indiane partite da Kabul solo cinque giorni prima, restavano non più di settecentocinquanta uomini, e che, dei dodicimila civili che le accompagnavano, due terzi erano morti.

Mentre il massacro era in corso, Akbar si aggirava nei dintorni, assicurando che stava facendo di tutto per frenare i guerrieri della tribù locale; cosa peraltro difficile, affermava, perché i loro stessi capi non erano in grado di controllarli. In quest’ultima asserzione c’era forse un briciolo di verità, ma non esistono prove concrete che lui avesse mai cercato di fare una cosa simile. Nondimeno Elphinstone continuò a credere che Akbar si stesse spendendo per salvare la colonna. Due giorni dopo, il 12 gennaio, Akbar offrì di nuovo garanzia di transito. Ormai le forze di Elphinstone erano ridotte a meno di duecento uomini, con non più di duemila civili circa al seguito. Il generale ritenne che non c’era alternativa: bisognava scendere a patti con Akbar. Si recò pertanto al suo accampamento, insieme al comandante in seconda e a un altro ufficiale. Ma per l’ennesima volta l’offerta si rivelò una frode. Perfino Elphinstone si rese conto che Akbar non era in grado, neanche volendo, di proteggere la colonna. E quando il generale chiese che gli fosse consentito di tornare dai suoi uomini, Akbar rifiutò, mandandolo ad aggiungersi alla schiera sempre più numerosa degli ostaggi. Elphinstone riuscì tuttavia a inviare un messaggio all’ufficiale che aveva lasciato al comando delle truppe superstiti, ordinandogli di ripartire subito.

Era ormai buio, e una volta tanto gli inglesi colsero gli afgani alla sprovvista, sebbene non per molto. Gli uomini della tribù avevano costruito una robusta barriera lungo la gola, già di per sé piuttosto stretta, con l’intenzione di costringere le giubbe rosse a fermarsi per poi sparargli dall’alto; ma, non prevedendo che gli inglesi si muovessero di notte, l’avevano lasciata incustodita. Tuttavia, già mentre i soldati tentavano a mani nude di abbatterla, gli afgani si accorsero di quello che accadeva, e li attaccarono alle spalle. «La confusione adesso divenne totale,» scrive Brydon «non c’era più alcuna disciplina». Si era al si salvi chi può. Nell’oscurità si accorse di essere circondato. Fu tirato giù da cavallo e colpito alla testa da un lungo coltello afgano. Se non avesse avuto per miracolo il berretto imbottito con una copia del «Blackwood’s Magazine», il colpo lo avrebbe sicuramente ucciso. Invece gli procurò un largo squarcio nel cranio. «Ero quasi tramortito,» dice «ma riuscii a rizzarmi sulle ginocchia». Vedendo arrivare un secondo fendente lo parò con la lama della spada, mozzando alcune dita all’assalitore. Questi, cadutagli a terra l’arma, fuggì nel buio, lasciando Brydon solo e senza cavallo.

Pur ferito alla testa, Brydon riuscì a varcare la barricata parzialmente demolita senza attirare l’attenzione del nemico, che, a quanto pare, doveva essersi allontanato per inseguire gli altri. Inciampando nei mucchi di cadaveri, si imbatté in un soldato ferito a morte. Aveva il petto trapassato da un proiettile e sanguinava copiosamente, e lo pregò di prendere il suo cavallo prima che lo facesse qualcun altro. Pochi istanti dopo si accasciò a terra, senza vita. Profondamente grato allo sconosciuto benefattore, Brydon montò in sella e si allontanò in cerca dei superstiti.

Il pugno di ufficiali e soldati che era uscito combattendo dalla gola, lasciandosi alle spalle schiere di cadaveri e moribondi, si trovò ora diviso in due gruppi, uno a cavallo e l’altro a piedi. Il primo, di quindici uomini, al quale Brydon si era aggregato, decise di andare avanti nella speranza di arrivare a Jalalabad senza essere raggiunto dagli inseguitori. Il secondo, molto più numeroso, con venti ufficiali e quarantacinque tra sottufficiali e soldati, si diresse al villaggio di Gandamak, a meno di cinquanta chilometri da Jalalabad. Sapevano che se fossero riusciti a resistere ancora un giorno, avrebbero conquistato la salvezza nella guarnigione britannica. Ma presto si trovarono la via bloccata dagli afgani, enormemente superiori di numero, e capirono di non avere scampo. Si disposero in quadrato e, con venti moschetti in tutto e due cartucce ciascuno, si prepararono a vender cara la pelle in un’ultima, disperata resistenza.

Gli afgani dapprima offrirono di negoziare, sostenendo che era stata alfine concordata una tregua, e che agli inglesi bastava consegnare le armi per essere salvi. Gli inglesi rifiutarono, sospettando un altro imbroglio; gli afgani tentarono di disarmarli e si scatenò una lotta corpo a corpo. Esaurite le munizioni, gli inglesi continuarono a combattere con le spade e le baionette; un ufficiale uccise cinque afgani prima di essere abbattuto a sua volta. Soltanto in quattro furono fatti prigionieri; tutti gli altri – per lo più fanti del 44th Regiment of Foot – furono massacrati fino all’ultimo. Nel 1979, quasi un secolo e mezzo dopo, l’antropologo inglese André Singer salì sulla collina dove quei prodi erano morti, e, sotto i sassi di quel luogo sinistro e remoto, ne ritrovò le ossa. Gli abitanti del posto gli dissero che molto tempo addietro qualcuno veniva di tanto in tanto in visita dall’India britannica e sostava sul posto in silenzioso omaggio.

Frattanto, una ventina di chilometri a est, la schiera a cavallo si dirigeva il più in fretta possibile verso Jalalabad, ignara della sorte dei compagni. Era composta, oltre che da Brydon, da tre capitani e tre ufficiali subalterni, un altro medico, e una mezza dozzina tra sottufficiali e soldati. Nel villaggio di Futtehabad, a soli venticinque chilometri da Jalalabad, fu loro offerto da mangiare; in preda a una fame disperata, accettarono, lieti anche di poter riposare in attesa del cibo. Dopo tante traversie, era strano imbattersi in un villaggio all’apparenza pacifico ed estraneo alla guerra. Ma era un’illusione: mentre riposavano, fu dato segnale ai soldati che aspettavano sulle colline vi-cine. A un tratto gli inglesi si videro venire addosso da ogni parte torme di cavalieri armati e al galoppo. Afferrarono le armi e corsero ai cavalli; gli abitanti del villaggio li assalirono, mentre altri aprivano il fuoco su quelli che riuscivano a montare in sella. Solo in cinque riuscirono ad allontanarsi, ma ben presto gli inseguitori afgani gli furono alle costole. Soltanto Brydon la scampò per miracolo e, come se non bastasse, per altre tre volte durante i venticinque chilometri che lo separavano da Jalalabad, s’imbatté in afgani ostili.

La prima fu con un gruppo di circa venti uomini, che lo presero a sassate e lo aggredirono con i coltelli. «Con estrema difficoltà spronai il cavallo al galoppo» scrive «e, reggendo le briglie fra i denti, passai in mezzo a loro menando colpi a destra e a manca. Non potevano raggiungermi con i coltelli, e fui colpito soltanto da una o due pietre». Un paio di chilometri più in là incontrò un secondo gruppo di afgani, uno dei quali era armato con un jezail. Pungolando il cavallo con la punta della spada, Brydon riuscì di nuovo a spingerlo al galoppo. L’afgano con il jezail gli sparò da vicino, spezzandogli in due la spada e ferendo il cavallo all’inguine, ma senza colpire lui; e prima che ricaricasse l’arma, Brydon fu fuori tiro.

Infine scorse davanti a sé nella pianura una schiera di cavalleggeri. Credendola una pattuglia britannica di Jalalabad, le andò incontro con impazienza. Quando si accorse che erano afgani e cambiò direzione, era tardi: lo avevano visto. Uno di loro lo inseguì e, accortosi che era inglese, gli vibrò un fendente. Brydon riuscì a parare il colpo con la sua mezza spada. L’altro tornò all’attacco. «Questa volta, mentre colpiva, gli scagliai in testa l’elsa della mia spada» scrive Brydon. Scansandosi per evitarla l’afgano sbagliò mira, e ferì il dottore alla mano sinistra, che reggeva le briglie. Sentendo che in essa perdeva la sensibilità, Brydon fece per prendere le redini con l’altra. «Suppongo che il mio avversario abbia pensato che volevo afferrare la pistola,» racconta «perché subito voltò il cavallo e fuggì a tutta velocità».

Brydon scoprì con sgomento che in realtà la pistola gli era caduta dalla fondina, e che adesso era totalmente disarmato. Il suo cavallo, sanguinante per la ferita all’inguine, non sembrava in grado di proseguire ancora per molto. Lui stesso, ferito, affamato e spossato, per la prima volta in quegli otto giorni da incubo si sentì venir meno le forze. «Ogni energia sembrò abbandonarmi» scrive; temeva di scivolare giù dalla sella per la stanchezza. Si aspettava un nuovo attacco da un momento all’altro da parte degli afgani, e sapeva che in questa circostanza non sarebbe sopravvissuto. «Ero angosciato, avevo paura anche delle ombre». Ma era più vicino a Jalalabad di quanto pensasse. Fu in quel momento che la vedetta scorse lui e il suo cavallo avanzare faticosamente nella pianura.

Il dottor Brydon fu il solo, dei sedicimila che erano partiti da Kabul, a raggiungere Jalalabad; e fu il primo, in quel fatidico 13 gennaio 1842, a dare alla nazione inorridita la notizia del disastro capitato all’armata di Elphinstone. Ma, come vedremo, non fu l’unico sopravvissuto della guarnigione di Kabul. Oltre agli ostaggi detenuti da Akbar, un certo numero di sipahi e di altri indiani, che erano sfuggiti alla morte nascondendosi nelle grotte, riuscirono nei mesi seguenti a tornare in patria attraverso i valichi. Brydon guarì dalle ferite, e divenne il soggetto di uno dei più celebri dipinti dell’età vittoriana, Remnants of an Army, di Lady Butler; purtroppo non si può dire lo stesso del suo valoroso destriero, raffigurato con lui nel dipinto. «Il povero animale, appena fu messo in una stalla, si stese a terra e non si rialzò più» scrive il dottore.

Né Brydon né la guarnigione di Jalalabad conoscevano allora la sorte toccata agli uomini del 44th Regiment of Foot a Gandamak. Per molte notti a Jalalabad fu tenuto acceso un gran fuoco presso la Porta di Kabul: furono posti dei lumi sui bastioni e suonate regolarmente le trombe, per guidare eventuali sbandati che cercassero di attraversare la pianura e raggiungere la città col favore delle tenebre. Ma nessuno arrivò mai.

21
LE ULTIME ORE DI CONOLLY E STODDART

Le terribili notizie recate da Brydon – il Messaggero di Morte, come venne soprannominato – raggiunsero il governatore uscente Lord Auckland a Calcutta due settimane dopo. Per lui fu un trauma che, nota sua sorella Emily, lo invecchiò di dieci anni. La situazione era precipitata così rapidamente: appena poche settimane prima Sir William Macnaghten aveva scritto da Kabul assicurandogli che tutto era saldamente sotto controllo; e adesso l’intera sua politica in Asia centrale era allo sfascio. Non solo il tentativo di insediare in Afghanistan un governo compiacente a baluardo dell’India e contro le intrusioni russe era miseramente fallito, ma si era incappati in una delle peggiori catastrofi mai subite da un esercito britannico. Un’orda di selvaggi pagani, con armi indigene, aveva sbaragliato la massima potenza del mondo. Per l’orgoglio e il prestigio inglesi era un colpo devastante. In confronto, l’ignominia patita da Pietroburgo con la disfatta di Chiva era una bazzecola. Auckland, che era stato contrario in partenza a impegnare truppe per spodestare Dost Mohammed, non se ne capacitava: il fatto era «inspiegabile quanto spaventoso». E adesso, con le forze di Akbar che cominciavano a battere alle porte delle due residue guarnigioni in Afghanistan, a Jalalabad e a Kandahar, sorgeva il timore che i bellicosi afgani, esaltati dalla vittoria, si riversassero dai valichi nell’India settentrionale, come avevano fatto più di una volta in passato.

Trascorse un’altra settimana prima che Londra sapesse del disastro. La notizia comparve, con titoli a caratteri cubitali, sul «Times». «Siamo dolenti di annunciare» dichiarò «che le informazioni recateci dal presente dispaccio sono… della più disastrosa e malinconica entità». Un editoriale di pochi giorni dopo puntò il dito contro Pietroburgo, «la cui crescente influenza tra quelle tribù ha richiesto il nostro intervento», e i cui agenti segreti esaminavano «con la massima cura» i valichi che portavano all’India britannica. L’articolo sosteneva che l’insurrezione era troppo bene organizzata per essere spontanea, e giudicava molto sospetto che il primo a essere ucciso fosse stato Sir Alexander Burnes, «il più strenuo antagonista degli agenti russi». Altri erano meno sicuri di un coinvolgimento russo. Ma tutti, incluso il duca di Wellington, biasimarono il generale Elphinstone per non aver schiacciato l’insurrezione sul nascere, e Lord Auckland per essersi imbarcato in una simile follia. «Le nostre più pessimistiche previsioni riguardo alla spedizione in Afghanistan si sono purtroppo avverate» proclamò non senza compiacimento il «Times».

Il nuovo governo tory guidato da Sir Robert Peel poteva lavarsi le mani di ogni responsabilità, addossandola ai whig di Melbourne che avevano approvato il progetto d’invasione. Si trovava tuttavia di fronte al compito di raccogliere i cocci e di decidere come punire gli afgani per il loro tradimento, perché la nazione invocava vendetta. Fortunatamente, un tory come Lord Ellenborough, vecchio esperto dell’India, per tre volte presidente del Consiglio di controllo, era già in viaggio per andare a sostituire Auckland nella carica di governatore generale. Ellenborough seppe della disfatta soltanto il 21 febbraio, quando arrivò al largo di Madras. Le istruzioni che aveva ricevuto dal governo, ispirate alla nuova politica economica improntata al rigore, erano di ritirare le guarnigioni dall’Afghanistan. Ma adesso si trovò ad affrontare una situazione del tutto inattesa. Quella notte, sulla nave che lo portava a Calcutta, scrisse a Peel che avrebbe restaurato l’onore e l’orgoglio della Gran Bretagna, dando agli afgani una lezione che non avrebbero dimenticato tanto presto.

Arrivato a Calcutta, Ellenborough apprese che il suo predecessore aveva già mandato truppe a Peshawar per soccorrere le guarnigioni di Jalalabad e Kandahar, e per tentare di liberare gli ostaggi in mano ad Akbar. In qualità di nuovo governatore, Ellenborough assunse il comando delle operazioni. Il 31 marzo il generale di divisione George Pollock forzò il passo Khyber usando la stessa tattica degli afgani, e con la perdita di soli quattordici uomini. Le colonne di Pollock, che proteggevano sui fianchi il corpo principale della spedizione, si impadronirono delle alture, e per la prima volta i guerrieri delle tribù locali si trovarono inaspettatamente bersagliati dall’alto. Due settimane dopo la colonna di soccorso entrò a Jalalabad accolta dal suono di un’arietta scozzese, Oh, but ye’ve bin lang a’coming. Frattanto, in una serie di azioni intorno a Kandahar, il generale Sir William Nott aveva ricacciato gli afgani che minacciavano la guarnigione. Come Pollock, desiderava adesso marciare su Kabul per vendicare l’umiliante disfatta di Elphinstone e la morte di tanti connazionali.

A questo punto Lord Ellenborough, fin qui sostenitore di una politica intransigente e aggressiva, cominciò a frenare. Preoccupato per il continuo salasso del già depauperato erario indiano (Londra rifiutava recisamente di contribuire alle spese della spedizione), e forse temendo un’altra catastrofe, giudicò che gli afgani avevano ricevuto una lezione sufficiente per mano di Pollock e Nott. «Abbiamo alfine ottenuto una vittoria,» scrisse a Peel «e la nostra reputazione militare è ristabilita». Ordinò ai due generali di tornare in India con le truppe, lasciando gli ostaggi in mano ad Akbar. Dopotutto gli inglesi avevano ancora Dost Mohammed, e Shah Shujah (così credeva Ellenborough) regnava sempre sull’Afghanistan, se non altro in teoria, dalla fortezza della Bala Hisar. Una volta ritirate le truppe dall’Afghanistan, calcolava il governatore, si sarebbero potuti intavolare i negoziati per la liberazione degli ostaggi in un’atmosfera più distesa. Ma Ellenborough non sapeva che Shujah non era più in vita. Mentre Pollock avanzava nel Khyber verso Jalalabad, Shujah, attirato fuori dalla Bala Hisar con la proposta di colloqui, era stato crivellato di pallottole. Il trionfo di Akbar, tuttavia, fu di breve durata, perché la prospettiva di essere governati da lui o da suo padre suscitava inquietudine negli altri capi. Come Macnaghten aveva previsto, tra i sostenitori e gli avversari di Akbar si scatenò una lotta feroce per il potere.

Quasi simultaneamente, in campo britannico scoppiò una lotta di diverso genere. L’ordine dato da Ellenborough a Pollock e a Nott di evacuare l’Afghanistan senza infierire sulle tribù assassine fu accolto con incredulità dagli ufficiali e dai soldati assetati di sangue. I due generali erano in aperto contrasto con il nuovo governatore; e con loro si schierarono molti ufficiali superiori in India e in patria. Mentre venivano addotte varie scuse – cattivo tempo, scarsità di provviste, di denaro, ecc. – per rinviare la partenza delle due guarnigioni, crescevano le pressioni su Ellenborough perché cambiasse parere. I falchi avevano in patria un valido alleato nel duca di Wellington, che era ancora membro del governo e che insisté energicamente sull’estrema importanza di ristabilire il prestigio in Oriente. Anche il primo ministro Robert Peel, che aveva fin dall’inizio esortato il governatore a un’estrema cautela, cominciò a vacillare sotto la pressione dell’opinione pubblica, e gli scrisse che forse era necessario agire con maggiore severità.

Alla fine, sentendosi sempre più isolato, Ellenborough cedette. Si rese conto che avrebbe dovuto o ammettere di essersi sbagliato, o rischiare di essere accusato di atteggiamento rinunciatario. Senza modificare l’ordine di evacuazione, comunicò a Pollock e a Nott che, se lo ritenevano militarmente opportuno, potevano ritirarsi passando daKabul. Il governatore ricevette non poche critiche per aver così scaricato la responsabilità sulle spalle di Pollock e Nott, ma nessuno dei due se ne lagnò. L’avevano spuntata, e cominciarono una gara a chi entrava per primo a Kabul – sebbene gli uomini di Nott, da Kandahar, avessero più chilometri da percorrere, cinquecento contro i centocinquanta di Pollock da Jalalabad.

Rifacendo all’inverso la stessa strada seguita solo sette mesi prima dalle sfortunate colonne di Elphinstone, le truppe di Pollock non tardarono a imbattersi nelle tracce strazianti della carneficina. C’erano scheletri dappertutto. «Giacevano a mucchi, a decine, a centinaia,» scrisse un ufficiale «e le ruote dei cannoni schiacciavano quasi a ogni passo i teschi dei nostri compatrioti». A volte qualcuno riconosceva i resti di un amico. Ellenborough aveva ordinato di non infierire sulla popolazione, ma la collera crescente delle truppe portò a numerosi eccessi contro quanti resistevano all’avanzata. In un villaggio, tutti i maschi dall’età puberale in su furono massacrati, le donne violentate e talvolta uccise. «A nulla valevano le lacrime e le preghiere» ricorda un giovane ufficiale. «Furibonde imprecazioni erano la sola risposta. Il moschetto era deliberatamente puntato, il grilletto premuto, e fortunato chi moriva all’istante». Sconvolto da ciò che aveva visto, l’ufficiale dice che molti soldati erano poco più di «assassini prezzolati». Un cappellano militare, presente al saccheggio di un villaggio reo di aver fatto fuoco sulle truppe dopo essersi arreso, dichiarò che di rado un prete aveva assistito a scene simili. Ma aggiunse che «in tali circostanze» era quasi impossibile impedire episodi incresciosi, comuni purtroppo a tutte le guerre.

A vincere la gara per la capitale afgana, sebbene di stretta misura, furono gli uomini di Pollock. Tuttavia, avendo dovuto raggiungerla combattendo, impiegarono il quintuplo del tempo occorso a Brydon per il cammino in senso inverso. Arrivarono a Kabul il 15 settembre, e trovarono che il nemico, Akbar incluso, era fuggito. Quella notte si accamparono nell’ippodromo costruito dagli uomini di Elphinstone tre anni prima, e il mattino seguente entrarono nella Bala Hisar senza dover sparare un colpo. Pochi minuti dopo la Union Jack sventolava di nuovo su Kabul. Molte cose ricordavano gli avvenimenti che erano venuti a vendicare, tra cui le rovine annerite della casa di Alexander Burnes: «Spettacolo malinconico» osservò un ufficiale dell’armata di Nott, aggiungendo che «la viuzza dove essa sorgeva rendeva indubbia testimonianza, con i numerosi segni di pallottole, del furioso conflitto che si era svolto là attorno». Lui e i compagni tornarono all’accampamento «con poca voglia di conversare… l’animo colmo dei sentimenti di dolore e mortificazione evocati da simili scene».

Morto Shah Shujah, Kabul era senza un re, e Pollock, dei due comandanti quello di grado superiore, investito di autorità politica da Lord Ellenborough, mise subito sul trono un figlio di Shujah, Futteh, facendo così anche di costui un fantoccio britannico. Seconda priorità di Pollock era tentare di liberare gli ostaggi in mano ad Akbar. L’ufficiale cui venne affidato questo compito era il capitano (ora Sir) Richmond Shakespear, il quale aveva ampiamente dimostrato la sua attitudine a imprese del genere due anni prima a Chiva. Sebbene questa volta al capitano fosse fornita una poderosa scorta di irregolari kizilbashi (così erano chiamati i turchi persianizzati), nemici giurati di Akbar, molti temevano che venisse fatto prigioniero lui pure. Si diceva infatti che intorno al luogo della detenzione si aggirassero dodicimila soldati nemici. Nondimeno Shakespear, per nulla intimorito da simili allarmi, con i suoi seicento kizilbashi armati partì senza indugio per Bamiyan, duecentocinquanta chilometri a nord-ovest, dopo aver mandato avanti dei messaggeri per cercare di avvertire gli ostaggi che i soccorsi erano in arrivo.

Frattanto, con la cattura di altri inglesi da parte degli afgani, il numero dei prigionieri era aumentato: c’erano, in totale, ventidue ufficiali, tra cui Pottinger, trentasette sottufficiali e soldati, dodici donne e ventidue bambini. Per qualche mese erano stati tenuti a Kabul, in condizioni relativamente confortevoli; ma, con l’avanzata di Pollock e Nott verso la capitale, erano stati trasferiti in una lontana fortezza d’argilla nei pressi di Bamiyan. In agosto seppero dai loro servitori che entro breve sarebbero stati condotti a nord, a Buchara, fuori portata da qualsiasi tentativo di soccorso, e offerti come schiavi alle tribù del posto se gli inglesi avessero occupato Kabul, e Akbar fosse stato costretto a fuggire. Non c’era tempo da perdere. Alcuni degli ufficiali detenuti, guidati da Pottinger e aiutati dallo scaltro Mohan Lal, tentarono di comprare la libertà del gruppo dal comandante delle guardie afgane. Questi dapprima esitò, ma presto giunse a Bamiyan notizia che gli inglesi si stavano avvicinando a Kabul e che Akbar si preparava a fuggire. Trascurando l’ordine di trasferire gli ostaggi nel Turkestan, il comandante accettò di liberarli in cambio di ventimila rupie in contanti e di una pensione mensile di mille.

Ottenuta così la sua collaborazione, gli ufficiali presero possesso della fortezza e si prepararono a difenderla fino all’arrivo dei soccorsi. Deposero il governatore afgano, innalzarono la Union Jack, riscossero tributi dai mercanti di passaggio e stabilirono contatti amichevoli con i capi locali. Intanto, elaborarono piani di resistenza a un assedio. Dato che, fra gli inglesi, molti soldati erano malati e troppo deboli per reggere un moschetto, promisero a quelli che fino a poco prima erano stati i loro carcerieri, più di duecento uomini, quattro mesi di paga extra se restavano con loro. Ma non appena vennero a sapere che Kabul era caduta, Akbar in fuga e Shakespear in arrivo con la sua scorta di kizilbashi, abbandonarono il forte e gli andarono incontro.

Dopo parecchie ore di cammino, un esploratore scorse una numerosa schiera di cavalleggeri scendere serpeggiando lungo il passo. Per un attimo esitarono, terrorizzati all’idea che fossero gli uomini di Akbar che tornavano a riprenderli, ma quando videro un cavaliere in divisa da ufficiale britannico che avanzava davanti agli altri verso di loro, tirarono un sospiro di sollievo. Era Sir Richmond Shakespear, e li aveva già riconosciuti. L’incontro fu davvero commovente; molti ostaggi piangevano. Privi di qualsiasi contatto da otto mesi, tempestarono Shakespear di domande. Questi a sua volta apprese da loro che il generale Elphinstone, infermo e prostrato, era morto mesi prima, in aprile; gli era stata così risparmiata l’onta di dover affrontare una pubblica inchiesta, se non addirittura la corte marziale. Apprese altresì che nel frattempo erano nati quattro bambini, e che la moglie di un sergente era fuggita con uno dei carcerieri.

Ora che gli ostaggi erano liberi, e in cammino per Kabul, restava agli inglesi solo un ultimo compito: pareggiare i conti. Pollock aveva pensato di distruggere la Bala Hisar, simbolo della potenza afgana, ma gli afgani rimasti fedeli agli inglesi lo supplicarono di non farlo, perché ciò li avrebbe lasciati senza difese. Decise quindi di radere al suolo il grande bazar coperto di Kabul, celebrato in tutta l’Asia centrale, dove nove mesi prima era stato esposto il cadavere smembrato di Macnaghten. L’incarico fu affidato ai genieri di Pollock; tuttavia, la struttura era così massiccia che ci vollero due giorni ed enormi quantità di esplosivo per abbatterla. Il generale aveva impartito ordini tassativi di non recar danno alle persone e alle altre proprietà della città vecchia, facendo posizionare sentinelle alle porte principali e nella zona intorno al bazar per scongiurare eventuali razzie. Ma la situazione precipitò in un caos totale, senza più disciplina. «Si sparse la voce che Kabul era abbandonata al saccheggio» scrisse il maggiore Henry Rawlinson, ufficiale politico di Nott. Soldati e civili invasero la città, depredando le botteghe e appiccando fuoco alle case. Colpevoli e innocenti, inclusi i kizilbashi amici, videro distrutte le loro abitazioni e botteghe, e ampie aree di Kabul furono devastate. Tra coloro che persero tutto ciò che possedevano vi furono cinquecento famiglie indiane, ora costrette a rimpatriare in coda alle truppe britanniche. L’episodio fu un coronamento inglorioso della vittoria di Pollock e Nott.

Per gli inglesi era giunta l’ora di andarsene. L’11 ottobre la Union Jack posta sulla Bala Hisar fu ammainata, e il mattino dopo i primi reparti lasciarono Kabul, ripercorrendo ancora una volta, come già nell’inverno precedente, la pista disseminata di scheletri, la via dolorosa, che portava al passo Khyber e all’India. Soddisfatto nominalmente il proprio onore, la Gran Bretagna si contentò di lasciare la politica afgana agli afgani; almeno per il momento. La prima guerra afgana, come in seguito l’hanno definita gli storici, era finalmente terminata. Gli inglesi avevano ricevuto una batosta tremenda, per quanto Lord Ellenborough desse a vedere – fra l’altro con una grandiosa celebrazione di vittoria – che l’impresa si era conclusa trionfalmente. Ma i conferimenti di medaglie, gli archi trionfali, i balli reggimentali e le altre stravaganze non poterono celare l’ironia della situazione. Non appena gli inglesi ebbero lasciato l’Afghanistan, il sangue ricominciò a scorrere. Nel giro di tre mesi il figlio di Shah Shujah fu rovesciato e a Dost Mohammed gli inglesi consentirono incondizionatamente di tornare sul trono dal quale era stato scacciato a così caro prezzo. Nessuno ormai dubitava che fosse il solo in grado di ripristinare l’ordine in Afghanistan. Tutto era tornato al punto di partenza.

Ma la tragedia inglese in Asia centrale non era ancora al suo ultimo atto. Durante tutto l’anno le vicende in corso avevano dominato i titoli dei giornali in India e in patria. La sorte degli ostaggi, in particolare delle donne e dei bambini, aveva suscitato profonda apprensione, e l’annuncio della loro liberazione era stato accolto con giubilo. Poi, proprio mentre avevano inizio i festeggiamenti ordinati da Lord Ellenborough in India, alla missione britannica a Teheran giunse una notizia agghiacciante. La recò da Buchara un giovane persiano un tempo al servizio di Arthur Conolly: Conolly e Stoddart, di cui, sulla scia della catastrofe di Kabul, ci si era quasi dimenticati, erano morti entrambi. Era accaduto in giugno, quando la reputazione della Gran Bretagna come potenza temibile in Asia centrale era ai suoi minimi storici. Furibondo per la mancata risposta alla sua lettera personale alla regina Vittoria, e non più preoccupato all’idea di un castigo, l’emiro di Buchara aveva ordinato che i due inglesi, che allora godevano di un breve periodo di libertà, fossero rigettati in carcere. Pochi giorni dopo erano stati condotti con le mani legate sulla grande piazza antistante l’Ark, o cittadella, su cui sorgeva il palazzo dell’emiro. Ciò che avvenne in seguito il persiano giurò di averlo appreso dallo stesso carnefice.

Sotto gli occhi di una folla silenziosa, i due ufficiali furono costretti a scavarsi la fossa, poi a inginocchiarsi e prepararsi a morire. Il colonnello Stoddart, dopo aver denunciato ad alta voce la tirannia dell’emiro, fu decapitato per primo. Quindi il carnefice si volse a Conolly e lo informò che l’emiro offriva di risparmiargli la vita se avesse abiurato il cristianesimo e abbracciato l’islam. Consapevole che la conversione forzata non aveva salvato Stoddart dalla prigionia e dalla morte, Conolly, cristiano devoto, rispose: «Il colonnello Stoddart era musulmano da tre anni e lo avete ucciso. Io non diventerò musulmano e sono pronto a morire». Porse il collo al carnefice, e un attimo dopo la sua testa rotolò nella polvere accanto a quella dell’amico.

La notizia del loro brutale assassinio provocò un’ondata di sdegno in patria, ma, a meno di mandare un’altra spedizione attraverso l’Afghanistan per eliminare quel tirannucolo da strapazzo, si poteva fare ben poco. Anche a rischio di perdere ancora una volta la faccia, Londra decise che era meglio dimenticare e far calare il silenzio sulla sciagurata vicenda. I parenti e gli amici delle vittime – comprensibilmente adirati e convinti che la loro morte andasse attribuita al governo, che li aveva abbandonati – si mobilitarono per impedire che ciò avvenisse. Alcuni ventilarono l’ipotesi che il persiano avesse mentito, e che i due ufficiali fossero ancora vivi. Si aprì una sottoscrizione, e il reverendo Joseph Wolff, ardimentoso ed eccentrico ecclesiastico di Richmond nel Surrey, si offrì volontario per recarsi a Buchara e appurare la verità. Purtroppo il racconto del persiano si rivelò veritiero in tutto eccetto qualche trascurabile dettaglio; e se l’intrepido Wolff uscì vivo dall’impresa, dovette ringraziare il fatto, a quanto si dice, che il suo aspetto bizzarro, in paramenti solenni, avesse provocato nell’imprevedibile emiro «un accesso d’ilarità». Un resoconto particolareggiato del viaggio di Wolff, che non rientra a rigore nel Grande Gioco, apparve nel suo libro Narrative of a Mission to Bokhara, pubblicato nel 1845 dopo il ritorno a Londra.

Alla storia di Conolly e Stoddart si aggiunse vent’anni dopo una toccante postilla. Un giorno, a Londra, a casa della sorella di Conolly, il postino recapitò un pacchetto. Conteneva un logoro libro di preghiere che era appartenuto a Conolly e che evidentemente, durante tutta la prigionia, aveva recato conforto a lui e a Stoddart. I risvolti e i margini erano annotati, in caratteri minutissimi, con i particolari delle loro sventure. L’ultima annotazione s’interrompeva bruscamente a metà frase. Il libro era finito chissà come nelle mani di un russo residente a Pietroburgo, che era riuscito a rintracciare la sorella di Conolly. Sfortuna volle che in seguito questa reliquia sia andata irrimediabilmente perduta.

Per Conolly e Stoddart, come per Burnes e Macnaghten, il Grande Gioco era terminato. Tutti avevano pagato con la vita le conseguenze di quella politica aggressiva che loro stessi avevano con tanto ardore caldeggiato e contribuito a foggiare. Nel giro di pochi mesi morirono anche Eldred Pottinger, l’eroe di Herat e di Kabul, e John Conolly, giovane tenente lui pure del servizio politico, il primo ucciso dalla febbre a trentadue anni, il secondo di malattia, mentre era ostaggio di Akbar a Kabul, ignaro della sorte toccata all’adorato fratello Arthur. Così, nel giro di poco tempo, sei eminenti protagonisti inglesi andarono a raggiungere William Moorcroft e i loro avversari russi, Griboedov e Vitkevič, nel Walhalla riservato agli eroi del Grande Gioco. E non sarebbero stati gli ultimi.

Per un po’, tuttavia, sembrò che la Gran Bretagna e la Russia, deluse dagli esiti negativi delle loro costose avventure in Asia centrale, avessero imparato la lezione, e che in futuro sarebbero prevalsi più attenti consigli. Il periodo di distensione, pur fra timori e sospetti reciproci, durò un decennio. Le due potenze lo impiegarono per consolidare le frontiere, ma alla fine si rivelò soltanto una tregua nella lotta per la supremazia in Asia centrale.