sabato 7 agosto 2021

GLI INCENDIARI R.O. Kwon

 


GLI INCENDIARI

R.O. Kwon

Recensione (Giuditta Casale)

Esordio di R. O. Kwon, nata in Corea del Sud ma trasferitasi ben presto negli Stati Uniti, come la protagonista Phoebe. “Gli incendiari” pubblicato da Einaudi nella traduzione di Giulia Boringhieri, è stato considerato uno tra i migliori libri dell’anno da più di quaranta testate che ne hanno sottolineato la potenza detonante.

Con un’esplosione il libro si apre:

Saranno andati tutti insieme su un tetto di Noxhurst per vedere l’esplosione.

È l’inizio del primo dei quaranta capitoli che compongono “Gli incendiari”. Capitoli a voci alterne di Will, anche lui di origini coreane, che si trasferisce dalla California, dove vive con una madre disperata e psicologicamente labile per l’abbandono del padre, all’Edwars College dopo aver abbandonato la scuola biblica, di cui era stato un fervente e devoto “missionario”; di Phoebe, la vera protagonista del romanzo, dal fascino spavaldo e fragile, dall’equilibrio precario e determinato, con un’esistenza tutta da scoprire nel lento e incessante svelamento narrativo; e infine John Leal, il detonatore della vicenda, dalla storia rocambolesca e in cui verità e menzogna si mescolano in modo sapiente. Il lettore fino alla fine non saprà se ritenere vera, o falsa come tenta inutilmente di dimostrare Will, la narrazione di sé che il personaggio propone: rapito come attivista in Cina, al confine con la Corea del Nord, viene tenuto prigioniero e torturato in un gulag, per poi essere misteriosamente e inaspettatamente liberato. Ritornato in America, continua a fare proselitismo, rivendendosi il fascino della sua storia.

Tra i tre si crea un inevitabile triangolo di gelosie, appropriazioni e indebite ambizioni. Will è il personaggio a cui è affidato direttamente il racconto, e non a caso i capitoli a lui intestati sono i più lunghi e distesi; Phoebe prende la parola con un suggestivo racconto in terza persona, che con un impercettibile e lieve scivolamento diventa prima, lasciando però chiara nel lettore la percezione di una mediazione narrativa che rende la sua figura sfuggente, a tratti incomprensibile, vulnerabile e come circondata da un’aurea di desiderio. A John Leal i capitoli più brevi, tutti in terza persona, come a voler sancire una distanza di visione, di percezione di sé e degli altri, di appartenenza al contesto sociale.

In questo modo, Kwon si tiene lontana dal fascino perverso che di solito aleggia intorno al cattivo, e lascia la sua figura in un torbido di sentimenti, proiezioni e progetti, che rendono ancora più deflagrante e introspettiva la vicenda narrata.

Will e Phoebe sono due personaggi alla disperata ricerca di un senso, che possa giustificare e riempire il vuoto che le scelte e le vicissitudini hanno scavato dentro di loro. In questo dimenarsi spasmodico e ossessivo si imbattono in John Leal e nel suo fagocitante intento di dare un senso al mondo. Un senso rigido, asfittico, incandescente. Nonostante la profondità del sentimento che li lega e in virtù del diverso bagaglio culturale ed esistenziale che portano sulle spalle, la loro reazione sarà opposta: Will ha come scudo al fascino di Leal la propria esperienza di predicatore e il groviglio spirituale che lo agita per l’abbandono della fede e della missione che la comunità di fedeli, tra i quali la propria madre, gli aveva affidato; Phoebe si rivela più incline all’essere manipolata e ingurgitata dalla visione consolatoria e profetica di Leal, nell’estremo sacrificio di sé che possa risarcire quello della madre e pareggiare i conti.

GLI INCENDIARI 

Capitolo primo

WILL

Saranno andati tutti insieme su un tetto di Noxhurst per vedere l’esplosione. Quello della Platt Hall, suppongo, che svetta di undici piani: conoscendo il suo ego, avrà cercato il punto piú alto possibile. Non so quante volte ho provato a immaginare le loro sensazioni, nell’attesa. Mancavano sei minuti, e la luce radente del crepuscolo arrossava le alte, antiche, guglie del college e i piatti timpani della città che lo circonda. Hanno riempito bicchieri panciuti di vino pregiato. Si sono stretti la mano, ridendo. Lei sarà stata seduta in disparte, lontana dai bagordi, a gambe incrociate sul cornicione ovest del tetto. Meno tre minuti, meno due, meno uno.

L’edificio della Phipps è crollato. Pennacchi di fumo si sono alzati, il respiro di Dio. Un attimo di silenzio, poi le grida di giubilo del gruppo. I bicchieri di vino hanno cozzato l’uno contro l’altro, mandando lampi militareschi. Lui ha intonato i primi versi di un salmo del Jejah. Altri l’hanno seguito a ruota. C’è stato un rintocco di campane, un fischio di uccelli lontani che diffondevano nell’aria, come ciuffi bianchi di soffione, un desiderio smisurato. Dev’essere a questo punto che John Leal è andato da lei. A piedi scalzi, le ha messo un braccio intorno alle spalle. Lei ha avuto un fremito e ha alzato gli occhi. Lui allora l’ha stretta ancora piú forte, dicendole che era stata brava ma che di lí a poco sarebbe stato necessario agire ancora, fare un po’ di piú…

E qui mi perdo, Phoebe. Sono crollati degli edifici. Sono morte delle persone. Una volta mi hai detto che non avevo nemmeno provato a capire. Bene, eccomi, questo è il mio tentativo.



Capitolo secondo

JOHN LEAL

Dopo aver lasciato Noxhurst, a metà dell’ultimo semestre di college, John Leal aveva girovagato per un po’ fino ad approdare a Yanji, in Cina, una città vicina alla Corea del Nord. Qui aveva cominciato a collaborare con un gruppo di attivisti che aiutavano i rifugiati coreani a raggiungere clandestinamente Seul per chiedere asilo politico. Era il lavoro perfetto per lui, aveva pensato.

Invece era stato rapito da agenti segreti nordcoreani, portato di soppiatto oltreconfine e gettato in un campo di prigionia nei pressi di Pyongyang. Nei suoi racconti al gruppo aveva poi detto che le atrocità vissute nel gulag erano state terribili, certamente, ma se non altro prevedibili. La cosa che l’aveva lasciato di stucco era la fedeltà dimostrata dagli altri detenuti al dittatore pazzoide dalle cui direttive dipendeva la loro prigionia. Si ritrovavano in cella perché, disdetta, avevano fatto cadere una goccia di tè su un foglio di giornale con il suo ritratto. Perché un vicino di casa sosteneva di averli sentiti fischiettare una canzone pop sudcoreana. Pur essendo puniti per motivi assurdi, sostenevano che il loro amato sovrano, un essere divino, non ne aveva nessuna colpa. All’inizio John Leal aveva pensato che fosse un rispetto puramente formale, che i prigionieri avessero paura di esporsi. Poi, però, aveva ripensato ai rifugiati incontrati a Yanji, all’amore che dicevano di provare per il dio da cui erano fuggiti. Attribuivano le disfunzioni del regime a tutti, meno che all’unica persona responsabile.

A un mese dal suo arrivo nel gulag i secondini avevano organizzato una gara facoltativa di corsa; il premio consisteva in un’icona del dittatore, un ritratto incorniciato. Nella confusione, chi cadeva veniva calpestato. Un bambino era morto con le vertebre fratturate. Mentre urlava di dolore cantava le lodi del suo signore. Non facevano mica finta, quei poveri scemi. Credevano in lui come avrebbero potuto credere in Gesú Cristo. Sentivano il bisogno di una guida. Fuori e dentro il gulag, anelavano a una fede. E se invece il tiranno fosse stato integerrimo come lo ritenevano i suoi seguaci? Che risultati strepitosi avrebbe ottenuto, se li avesse amati… Se, pensò John Leal, e fu allora che la sua idea prese forma.


Capitolo terzo

PHOEBE

Sognavo di diventare un genio del pianoforte, ha detto Phoebe al gruppo nel suo primo tentativo di confessione al Jejah. Sarà stata seduta in cerchio, con un taccuino dalla copertina in pelle di capretto. L’avevo accompagnata io, ma stavo già tornando a casa. Che errore. Avrei dovuto rimanere. In compenso posso provare ad aggiungere qualche altro dettaglio. Le labbra carnose, lucide di saliva. Se le lecca per la tensione. Mi sforzo di immaginarla: Phoebe che parla. Che stringe forte le mani sottili dalle dita affusolate. Tiene gli occhi bassi, fa un bel respiro.

Ma non aspettavo che mi cadesse dall’alto, ha detto. Sapevo che avrei dovuto impegnarmi, anzi, lo volevo. Riversavo il mio tempo nel pianoforte come fosse stato denaro da depositare in banca. Nel mio futuro vedevo sale da concerto piene, esibizioni solistiche. Panegirici sulle prime pagine dei giornali. Suonavo Liszt immaginando il soggiorno inondato dalle luci dei riflettori. Il ricordo è per metà invenzione, ma mi sembra di aver passato tutta l’infanzia a cercare di dimostrarmi la grande pianista che credevo di essere.

Cosí, ho iniziato ad accumulare premi su premi. Non mi bastava. Il maestro mi bacchettava le mani ogni volta che sbagliavo tasto, ma non mi importava. La mia ambizione superava di gran lunga la sua. Si gonfiassero pure, le mani. Avrei sfruttato la maggiore estensione. Con le nocche lucide, ricominciavo. Intanto passavano i mesi, poi gli anni. Facevo l’elenco dei miei concorrenti; mi segnavo le loro prodezze in ordine di età. A cinque anni Kiehl aveva tenuto il suo primo recital di fronte al re di Danimarca. Ohri aveva debuttato alla Carnegie Hall a undici anni, Liu a quindici. Una sera il mio maestro ha definito lo Studio n. 5 di Libich il pezzo piú difficile con cui un solista si possa mai confrontare. Ha dato scacco ai migliori pianisti, ha detto. Sono corsa a cercare lo spartito dello Studio. L’ho imparato da sola, in segreto. Ho mandato a memoria i trilli acuti di Libich. Mi sono sbracciata sui suoi furibondi «ostinati».

Una volta, a tavola, mia madre mi chiese perché stessi sorridendo. Haejin, disse.

Trasecolai, nella mia testa stavano risuonando le note di Libich. Io, io non…

Rise. Non fa niente, disse. Io continuai a mangiare e lei pelò una pesca bianca. La buccia cadde in un’unica spirale. Lei la raccolse dal piatto e la mise alla luce. Che colore intenso, disse. Aveva assunto riflessi rosa, in controluce; annuii, e lei la posò. Si capiva che avrebbe avuto voglia di chiacchierare, ma io ero completamente presa dai miei trilli. Mi cacciai in bocca un’ultima fetta di pesca e tornai al pianoforte.

Fino ad allora non ero mai riuscita, suonando, a produrre quel rapimento mistico che sapevo essere possibile. Era un ideale che non ero in grado di realizzare. Ogni primo premio vinto era un’ulteriore conferma della mia inadeguatezza rispetto alla musica. Libich mi obbligò a sbagliare meno. Il suo Studio richiedeva un tale impegno che, talvolta, mi dimenticavo di me stessa. Avrei dovuto imparare, da ciò, che la musica che suonavo doveva scaturire da un luogo senza Io, in cui io esistevo solo come conduttore vivente, come tramite di Libich. Comunque, quando mostrai al maestro i risultati che avevo raggiunto, rimase sbalordito. Ero andata oltre le sue migliori aspettative, disse. Inserí di straforo il pezzo nella gara successiva, un concorso pubblico a livello cittadino. Andammo in auto all’auditorium. Il sole mi batteva sulle mani mentre facevo danzare le dita sulle gambe, esercitandomi per l’ennesima volta a suonare Libich. Sotto la luce dei riflettori, sentivo il traffico invocare il mio nome. L’azzurro rarefatto di Los Angeles, screziato dalla calura, velava l’orizzonte. Come un sipario, pensai, sul punto di alzarsi.

Capitolo quarto

WILL

Ho conosciuto Phoebe in una casa piena di sconosciuti, a cinque settimane dall’inizio del semestre autunnale dell’Edwards. A Noxhurst ero nuovo ma già al secondo anno di college. Ero passato a Edwards dopo aver lasciato la Scuola biblica, e me ne stavo spesso per conto mio. Poi, una sera, mentre facevo due passi da solo, ho notato un folto gruppo di studenti chiassosi che si infilava in un portone. Un fermo lo teneva aperto, cosí li ho seguiti. Pulsare rimbombante di hip-hop. Biancheggiare di corpi. Avendo capito che per non sembrare troppo isolato dovevo stare accanto al tavolo degli alcolici, ero fermo lí, alla solita postazione, con il mio terzo bicchiere in mano, quando una ragazza con un vestito a righe è inciampata e mi ha rovesciato sulla gamba una bevanda fredda.

Ha urlato delle scuse, poi un nome: Phoebe Lin. Will Kendall, ho detto io, sempre urlando. Abbiamo provato a parlare, ma mi perdevo una parola su due. Phoebe ha cominciato ad ancheggiare. La mia vita di giovane rinato in Cristo non prevedeva molte piste da ballo; nel dubbio, ho copiato la ragazza. Ondeggiava a destra, a sinistra, facendo oscillare le spalle nude. Mentre gli altri si dimenavano al ritmo frenetico della musica, i suoi fianchi scandivano un tempo piú lento. Bicchieri rossi macchiati di punch si spaccavano sotto i nostri piedi, aprendosi in petali di plastica. Ha levato verso l’alto le mani aperte. Con un gran frastuono, la stanza ha cominciato a girare come una trottola. Phoebe si è piegata, ne ha seguito dolcemente la pendenza, senza smettere di muoversi al proprio ritmo tranquillo, con un tempo sempre piú lento, finché ci siamo sincronizzati.

Continuava a ballare, cosí ho continuato anch’io. Quando si è fermata era paonazza e senza fiato. Ha sollevato i lunghi capelli corvini in un’improvvisata coda di cavallo. Abbiamo ripreso a urlare, e ho visto una goccia di sudore colare dall’attaccatura dei capelli alla fossetta della clavicola, dove avrebbe potuto formare una pozzangherina, ho pensato, perfetta da leccare. La spessa frangetta, bagnata sulle punte, era divisa nel mezzo a scoprire la fronte. Volevo baciare quel punto, quel varco improvviso: mi sono abbassato. Lei si è avvicinata.

Dopo di allora, per tre settimane, abbiamo parlato e ci siamo baciati, ma niente di piú. Non sapevo che cos’avevo il diritto di chiedere. Mentre tutti gli altri studenti dell’Edwards saltavano da un letto all’altro, io aspettavo. Se, nel cuore della notte, mi capitava di andare in bagno, anche lí incrociavo ragazze alticce che sbandavano da una parte all’altra del corridoio con indosso polo oversize appartenenti a qualcun altro. Mi lanciavano un sorriso, poi rientravano pencolando nelle camere dei miei coinquilini. Io mi richiudevo nella mia, ma sentivo lo stesso gli acuti, i gridolini. Da un momento all’altro una bella ragazza avrebbe potuto cascare zigzagando nel mio letto, e il fatto che non fosse ancora accaduto non lo rendeva meno possibile o eccitante. Bastava solo dire la cosa giusta, puntare alla ragazza giusta…

Invece, nelle mie notti insonni, pensavo a Phoebe, ai suoi fianchi ondeggianti e ai seni grandi come un pugno. La vedevo dimenarsi e contorcersi. La schiena arcuata, il sedere alzato, tondo come un bocciolo di rosa, era la protagonista assoluta delle mie fantasie. Il fatto che non fossi ancora andato a letto né con lei, né con nessun’altra, non mi precludeva simili scenari. Semmai, li incentivava. La mia scontentezza mi assolveva dal senso di colpa che avrei potuto provare per gli usi a cui sottoponevo quella bocca e quei seni di fantasia. Ogni volta che la Phoebe fantasma mi saltava in grembo le mordevo le labbra, le leccavo le dita, le pizzicavo la pelle, finché non vedevo la ragazza in carne e ossa, e allora, talvolta, mi sembrava implausibile come tutte le Phoebe a cui avevo dato vita nei miei sogni.

Ho spinto la bussola d’ingresso del Colonial, un club privato affiliato al college. Phoebe mi aveva invitato a bere qualcosa. Avevo deciso che sarebbe stato il nostro ultimo incontro. Continuavo a dedicarle del tempo che non avevo. Finite le lezioni, mi precipitavo al Michelangelo’s, un ristorante italiano quindici miglia fuori Noxhurst – abbastanza lontano, speravo, da non veder comparire nessun compagno di università. Ci andavo in autobus. Facevo il cameriere; per mangiare, usufruivo dei pasti del personale. Sgraffignavo mele dalla sala mensa di Edwards. Avevo una borsa di studio, ma non era sufficiente. Non l’avevo detto a nessuno.

Phoebe era seduta da sola al bar, girata di schiena. Quando le ho sfiorato la vita è scivolata giú dallo sgabello. Il suo sorriso è fluttuato da laggiú fino a me. Ha chiesto a Bix, il barista con il farfallino, di portarmi un gimlet.

Ti piacerà un sacco, Will, mi ha detto. Bix fa i gimlet piú buoni del mondo. Non sto scherzando. Ci mette un ingrediente in piú. Gli ho chiesto quale, ma non me lo vuole dire.

Se fosse una mia ricetta te la darei, ha ribattuto lui.

Gli ho creduto. Era evidente che aveva un debole per Phoebe. Lei allora mi ha chiesto come stavo, e io ho risposto che venendo lí avevo incontrato un violinista di strada. Mi ero fermato ad ascoltarlo. Non avendo banconote di piccolo taglio, avevo messo qualche moneta da un quarto di dollaro nel suo cappello capovolto. Oh-ho, aveva detto il tipo. Non badiamo a spese, oggi. È arrivato Babbo Natale.

Ha buttato via le monete, ho detto a Phoebe. Mi sono sforzato di sorridere, ma non avevo raccontato bene la storia. Volevo solo aiutarlo. Sei pezzi da un quarto, buttati a terra, come niente fosse. Se fossi riuscito a farne una gag, non avrei lasciato emergere lo scherno. Phoebe, in ogni caso, mi ha dato corda e ha riso, come se avesse sentito proprio la versione che volevo. Mi ha chiesto che cos’avessi detto dopo. Ho cominciato a parlare a raffica. Ero contento; anche un po’ spiazzato. Phoebe era incredibilmente brava ad ascoltare, il che mi faceva temere di rivelarle piú del dovuto. Quando potevo, le rigiravo la domanda: un vecchio trucco degli evangelici. La gente, in generale, adora parlare di sé. Se, ogni tanto, percepivo una leggera resistenza da parte di Phoebe, mi incaponivo.

Non ero mai stato al Colonial, le ho detto. Le ho chiesto se ci venisse spesso. Mi ha spiegato i riti e le tradizioni del club, le complicate regole del bere di gruppo. In mezzo a noi gocciolava un mozzicone di candela di un bianco cadaverico. Ho continuato a farle domande. Mi piaceva guardarla parlare. Si è soffermata a lungo sull’argomento. Infiammata dai suoi stessi racconti, scoppiava a ridere spegnendo con il fiato la fiamma della candela. Bix la riaccendeva; di lí a poco lei la rispegneva.

Ci si passa il bicchiere finché finisce, ha detto. L’ultimo che beve se lo capovolge sulla testa. Lo ruota mentre gli altri cantano…

Di colpo si è zittita, con lo sguardo fisso su un punto alla mia sinistra. Mi sono voltato, ma non ho visto niente di strano. Solo gigli spampanati sul davanzale della finestra, stelle appassite. Uno spilungone fermo al semaforo.

Pensavo di averlo intravisto, ha detto Phoebe.

Chi?

Si chiama John Leal… lo conosci?

Non mi pare.

Niente, non è lui, ha detto. Mi sembra continuamente di vederlo, ma…

Chi è?

Visibilmente agitata, Phoebe ha cercato di rispondermi. Bix ha acceso la candela e lei lo ha ringraziato. Non è stato semplice, ma alla fine ho messo insieme i pezzi e ho capito che qualche sera prima era andata in un locale del centro. All’uscita si era fermata, con il telefono in mano, per chiamare un taxi. Di fianco a lei c’era un’altra persona, appoggiata al muro. Quando Phoebe aveva messo giú, il tizio l’aveva salutata chiamandola per nome. Lei non l’aveva riconosciuto, ma aveva pensato che fosse una sua dimenticanza. Si erano già visti da qualche parte. Lei non se lo ricordava piú. Per essere gentile l’aveva assecondato, facendo finta di conoscerlo, ma lui aveva ignorato la sua recita. Sono John Leal, aveva detto. Tu sei Phoebe. Speravo proprio di incontrarti. Cercavo di creare l’occasione, e invece, eccoti qua.

Poi le aveva detto di sapere un po’ di cose su di lei. Dettagli insignificanti, che non c’era ragione che conoscesse. Le aveva dato un bigliettino ripiegato. Ci terrei moltissimo a rivederti, le aveva detto. Ma decidi tu. Quando sei stufa di sprecare questa vita, chiamami.

Quando sei stufa di… Urca, ho detto.

Strano, vero?, ha detto Phoebe. Ah, e poi va in giro scalzo. Lí per lí ho pensato che fosse uno scherzo architettato da qualche amico. Ma non era granché, come scherzo.

Ha sollevato un bicchiere in direzione di Bix. Dal piano di sopra è arrivato un suono di voci maschili, un coro a cappella. Le ho chiesto se avesse intenzione di ricontattare questo John Leal. No, ma era pentita di non avergli chiesto come facesse a sapere tutte quelle cose. Ho tenuto il bigliettino, ha detto, estraendo un pezzetto di carta dal portafogli. Era su carta qualunque, a righe orizzontali, e si stava strappando lungo la piega. Sopra, in stampatello, John Leal aveva scritto il suo nome. Le ho consigliato di telefonargli.

Perché?

Questa faccenda ti agita, risposi. Se vuoi ti do una mano. Ti accompagno all’appuntamento.

In quell’istante un tipo grande e grosso è spuntato dietro Phoebe e le ha passato le mani davanti agli occhi. Indovina un po’ chi c’è, ha detto. Ha alzato le braccia. Sotto il giaccone doppiopetto si sono intravisti un’ampia veste talare color fucsia e un collarino bianco da prete. No, state comodi, ha detto. Ho lasciato Liesl fuori al freddo dicendole che avrei fatto in un attimo e comunque ciao, Phoebe, ti trovo in splendida forma. Dimmi se ti piace il mio abbigliamento. Un’amica di Liesl dà una festa a tema: presentarsi per quello che non si è.

Perciò tu vai vestito da papa, ha detto Phoebe. O da tenda.

Tenda?, ha detto lui. No. Da vescovo, e mi porto dietro un amico, un bambino tascabile. Eccolo qui, il mio pupillo…

Scostando il giaccone, ci ha mostrato un bambolotto di pezza, con i pantaloncini a scacchi, attaccato per la bocca all’abito talare, all’altezza dell’inguine. È un maschietto, ha detto. Phoebe, fai le presentazioni.

Lui è Will Kendall. Will, lui è Julian Noh. L’hai…

Ah, sei tu Will, ha detto Julian. Ha piroettato verso di me, facendo volteggiare l’abito. Avrei dovuto immaginarlo. Felicissimo di conoscerti. Phoebe mi ha raccontato tutto di te.

Julian, ha detto Phoebe.

Sí.

Il bambolotto, ha detto.

Sí, lo so, è geniale. Cioè, lui lo è. È un bimbetto geniale, pieno di talento. Oh, smettila. È un omaggio. Voglio rendere onore alla Chiesa, ai sacerdoti che, ehm… Mi sembra che Liesl mi stia facendo cenno. Devo andare. Se volete raggiungerci, ci trovate tutta la notte in Lowell Road 161. Anche tu, Will. Ormai siamo amici.

Con il pollice ha fatto il segno della croce sulla testa di Phoebe e se n’è andato. Cosí, quello è Julian, ho detto. Phoebe me ne aveva parlato: un caro amico, la prima persona che aveva conosciuto a Edwards. Le ho chiesto che cosa intendesse con quell’omaggio, e lei mi ha risposto che Julian aveva ricevuto un’educazione cattolica. Ma dopo aveva abbandonato la religione.

Avrei voluto farle altre domande, ma il coro è ripartito. Altri tre ragazzi, amici di Phoebe, sono piombati verso di noi. Portavano cravatte vezzosamente slacciate, guinzagli di seta a cui avevano disfatto il nodo. Phoebe me li ha presentati a uno a uno, con nome e cognome. Ci hanno chiesto se avremmo proseguito anche noi la serata da Phil Buxton. A me aveva detto che sarebbe dovuta tornare a casa abbastanza presto: per dedicare un po’ di tempo allo studio, una volta tanto. Loro però l’hanno stuzzicata; l’hanno allettata, come si fa con i cagnolini. Sorridevo alle loro battute, che non capivo. Avevo frequentato Jubilee, la Scuola biblica in California, fino al giorno in cui avevo perso la fede e avevo dovuto abbandonare il progetto, che perseguivo da lungo tempo, di dedicare la mia vita a Dio. Avevo quindi fatto domanda di iscrizione in altri college, fra cui Edwards, il piú lontano possibile dalla California. Da ragazzotto evangelico qual ero stato, sapevo della cultura pop tanto poco quanto della East Coast e dei suoi codici. Perché i ragazzi di Edwards si vestivano tanto di rosa? E che cos’era, di preciso, un timoniere? Anzi, un «timo»?

Ma Phoebe, pensa a Buxton!, hanno esclamato i tre ragazzi. Per di piú, è anche il suo compleanno. Mentre la imploravano, io continuavo a sorridere. Ogni volta che rideva, Phoebe scopriva un’ampia fetta di gola. Il sangue rimontava il ripido pendio del suo viso cosí chiaro. La punta delle orecchie era rosso fuoco. Me la sono immaginata mollemente distesa su un letto, con un vestito leggero tirato su come una magnolia sbocciata, e sopra di lei quello zotico deficiente con i pantaloni abbassati. Ho ripensato all’offerta che le avevo fatto. La storia di John Leal doveva essere una pagliacciata. Gli amici di Phoebe amavano architettare scherzi complicati; davano feste esagerate, in cui saltellavano nudi sui prati del college. E va bene, vengo, ha detto Phoebe. I tre con la cravatta di seta hanno battuto il cinque. Scherzo o non scherzo, restava il fatto che non potevo dire a Phoebe che l’avrei aiutata, e subito dopo comunicarle che non avevo tempo per stare con lei, e sono stato contento di averle fatto quella promessa, come se fino a un attimo prima non fossi anche stato lo scemo che voleva chiudere con lei.

Ho chiesto il conto a Bix. Phoebe si è offerta di pagare, ma le ho detto no, faccio io. Mi ha tenuto compagnia nell’attesa. Hai un sacco di amici, le ho detto.

Ah sí?

Be’, pensa solo a quanti sono venuti a salutarti al nostro tavolo, stasera.

Si è guardata intorno, con aria vagamente assente, come se si stesse già avviando altrove. Semmai, credo di conoscere tutti gli alcolizzati, ha detto.

Ma mi chiedo se sia andata proprio cosí, se io abbia davvero incontrato Julian in abito fucsia da vescovo la stessa sera in cui ho sentito nominare per la prima volta John Leal, o se abbia messo insieme momenti diversi al Colonial, tutti con Bix che prepara gimlet con il suo bel farfallino, episodi che si sono sciolti come schegge di ghiaccio in un’unica serata epifanica. Sono abbastanza sicuro, però, della successione temporale. Può anche darsi che questi siano gli unici particolari che ho ritenuto. Il dolore ha un campo visivo ristretto: ho registrato ciò che mi sono perso.

La cosa certa è che la mattina dopo la mia prima serata al Colonial mi sono alzato presto. Dovevo studiare per un esame imminente. Mentre mi stavo scervellando, malgrado il mal di testa, su una serie di esercizi, ho sentito un rumore sordo di folla. Non volevo perdere tempo e ho trattenuto la curiosità il piú a lungo possibile, ma alla fine ho posato la penna. Ho sganciato il fermo e aperto la finestra. In strada c’era una marcia, una scia di teste che ballonzolavano.

As-sas-si-ni! As-sas-si-ni!

Chi stava assassinando chi? Ancora in mutande, nudo dalla vita in su, mi sono sporto dal davanzale, al freddo, per cercare di decifrare le parole su un cartello. Invece ho visto, o meglio ho creduto di vedere, un’allucinazione rosa, un enorme neonato volteggiante nell’azzurro dei cieli. Mi sono stropicciato gli occhi, e questa volta ho visto un fantoccio, tenuto su con una serie di pali a strisce, di quelli esposti fuori dalle botteghe dei barbieri. Ondeggiava sulla schiena, con le braccia e le gambe grassocce che brillavano.

Avrei letto, poi, sui giornali, che il bebè era lungo tre metri, che gli organizzatori della protesta l’avevano costruito con stoffa e gommapiuma, e che la gente stava manifestando contro una clinica abortista aperta nel centro di Noxhurst; sul momento ho scorto, a fatica, cartelli di stampo dichiaratamente cristiano. Immagini della croce, riferimenti a Dio. Ho guardato passare i manifestanti, pieno di nostalgia. Quanti credevano ancora di essere gli eletti del Signore! Il finto bebè agitava i pugni, come nelle sacre visioni che in passato avevo sperato di avere, i prodigi che avevo creduto possibili. Nefilim cosí vicini da poterli toccare, galassie splendenti che piroettano a un cenno di Dio. La fede che sposta le montagne. I miracoli. Le guarigioni. Mi ero convertito al cristianesimo durante la scuola media, quando mia madre si era ammalata per la prima volta. È una crepa nel cervello, mi aveva spiegato. Lascia entrare la tristezza. Le pillole servivano un po’, mettevano una pezza, ma la solita cura aveva smesso di funzionare. Restava a letto a fissare il ventilatore sul soffitto. Non si lavava. Ogni mattina le mettevo un bicchiere di latte sul comodino. Lei lo lasciava lí, e il latte cagliava. Mio padre tornava a casa tardi, incespicando. Rompeva le lampade; dormiva in soggiorno.

Cosí, avevo cominciato a pregare. Ero pieno di slancio. Un evangelico in erba, e un gran rompicoglioni. Battevo tutta la città con i miei pantaloni kaki ben stirati, una Bibbia tascabile in mano, per dare testimonianza. Consideravo, poi, mia missione personale la salvezza dei miei genitori: il paradiso non mi interessava se non potevo portarci anche loro. Mio padre rideva delle mie prediche improvvisate, ma mia madre mi lasciava parlare. A letto, pallida, mi stava ad ascoltare. Ho continuato la mia opera di proselitismo fino al pomeriggio di giugno in cui, cinque mesi dopo l’inizio della mia campagna, sono stato testimone del suo battesimo. Mia madre è entrata nelle acque del lago con un vestito giallo di popeline, e io ho avuto un fremito d’orgoglio. Il pastore le ha messo le mani sulle spalle. Lei si è immersa, rimanendo cosí a lungo sott’acqua che io sono morto di paura, temendo che fosse annegata, fino a quando il pastore non l’ha lasciata andare. È risalita a galla sbracciandosi e con un sorriso da spaccarsi le labbra. Il lago le si è richiuso intorno ai fianchi. Con un vestito che pareva un sole, è uscita sguazzando dall’acqua. Mi ha abbracciato e sollevato da terra, schizzando tutt’intorno limo lacustre. Le ho toccato la testa, i capelli bagnati, benedetti. Ho, ho… ho creduto di averle salvato la vita.

Poco prima di mezzogiorno, mentre stavo uscendo dal mio appartamento universitario, Phoebe mi ha chiamato per dirmi che aveva parlato con John Leal. Ci aveva invitati tutti e due a cena, lunedí sera alle otto, in Litton Street. Avevo già altri impegni per quel giorno? Non ne avevo. Mi andava ancora di accompagnarla? Mi andava ancora, ho risposto. Le ho chiesto se la serata fosse stata divertente. Sí, lo era stata. Avevano fatto le ore piccole. Il padrone di casa aveva noleggiato dei leoni.

Dei leoni?

Be’, erano in gabbia, ha spiegato.

Le parole le uscivano a stento, come se avesse la gola strozzata. Le ho chiesto se si fosse appena alzata. Mmh, ha detto, «alzata» è una parola grossa. Sono ancora a letto.

Le ho detto che stavo andando a mangiare a Wyeth Hall. Le andava di raggiungermi? Sí, ha risposto. Dammi dieci minuti. Ho attraversato il cortile centrale. Sul prato, isolato dal rumore della città, regnava il silenzio. Il mio primo impatto con Edwards era avvenuto dopo un viaggio di diversi giorni in pullman dalla California ad Upstate New York. Avevo pensato di percorrere l’ultimo miglio, quello che mi separava dalla mia residenza universitaria, a piedi, ma quando ero uscito dalla stazione di Noxhurst e avevo visto la fila di taxi, belli lucidi sotto il sole, i miei buoni propositi erano andati in fumo. Pochi minuti dopo pagavo la corsa e trascinavo le mie due valigie sul marciapiede…

Poi avevo alzato gli occhi, e in un attimo mi ero scordato dei dollari buttati via. L’alto cancello tridentato era aperto. Tirandomi dietro i bagagli, avevo percorso il corridoio d’ingresso, una galleria ricavata in un muro spesso, e dal buio ero uscito alla luce. Ero nel cortile principale. Guglie e torrette spiccavano da roccaforti di pietra. Frisbee che volavano. Statue di bronzo che guardavano immobili l’orizzonte, congelate in posizioni eroiche. Sentieri assolati che attraversavano il prato, linee di una gigantesca mano che teneva nel palmo studenti spaparanzati sull’erba. Era un giardino segreto, in cui avevo avuto il permesso di entrare. Non sapevo ancora, ma l’avrei imparato molto presto, che sarei sempre stato un estraneo.

Sono arrivato alla hall che ospitava la mensa. Mentre Phoebe era rimasta pigramente a letto, io ero in piedi dalle sei. Leoni in gabbia. Chissà se li aveva accarezzati, e se al risveglio si era trovata addosso qualche pelo fulvo, luccicante. Magari, dormendo, aveva spalmato pelliccia ovunque, e ora le sue lenzuola erano disseminate di ispidi peli di leone, preziosi fili dorati. Ma mi sentivo il passo leggero. Se avessi potuto scegliere, avrei voluto essere proprio quel Will che correva incontro a Phoebe, per vederla ancora e di piú. In lontananza, in una pubblicità dipinta sul fianco di un edificio di mattoni, una ragazzina con le labbra arricciate sembrava esprimere un desiderio. L’ululato di una sirena bucava l’aria fredda, e il vento autunnale profumava di ragioni per vivere.


Capitolo quinto

JOHN LEAL

Dopo tre mesi di prigionia John Leal era stato scaraventato nel cassone di un camion, portato dal gulag alla riva del fiume ghiacciato che segnava il confine con la Cina, e costretto ad attraversare. Aveva esitato; una guardia lo aveva colpito con il calcio del fucile. Con la tempia che gli sanguinava, John Leal aveva cominciato a camminare. Era l’inizio di marzo. Sottili screpolature rigavano la superficie ghiacciata del fiume. Si diceva che ogni primavera, con il disgelo, il corso dell’acqua fosse ostruito da tutte le persone colpite da un proiettile mentre cercavano di fuggire; i loro corpi si erano conservati, come pesci morti, nel punto in cui erano stati ammazzati.

Alle sue spalle, una guardia aveva riso. Anche se non gli avessero sparato, l’avrebbero visto inabissarsi fra le lastre di ghiaccio e affogare. Aveva fatto un altro cauto passo avanti. Spruzzaglia che si solleva e ricade. Inspirazione. Espirazione. I nervi erano tesi al massimo, una rete stesa sulla superficie ghiacciata che lo separava dalla sua vita futura. I filamenti scintillavano per lo sforzo di sostenere il suo peso. Sulla sponda opposta, la Cina era un solido prismatico. Soffiò fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni. Stava per soffiare fuori anche la sua anima, ma riprese fiato. La ricacciò dentro. Non aveva niente da temere. Passo dopo passo, camminava sull’acqua. Il ghiaccio s’incrinò, lui rimase immobile. Cerca di vivere. Fai un altro passo.


Capitolo sesto

PHOEBE

Alla sua seconda confessione al Jejah Phoebe potrebbe aver detto cosí: Se ti piace davvero vincere, come piaceva a me, non basta essere bravi. Bisogna che gli altri sbaglino. Prima d’allora avevo già fatto incetta di premi, ne avevo riempito non so quanti scatoloni, ma non di quel livello. Con Libich ho raccolto tutti i massimi riconoscimenti. Ho fatto piangere molti giudici. I pianisti rivali mi conoscevano di fama, e avevo in bocca il sapore di sangue del trionfo. E ne volevo ancora e di piú. Credevo di essere riuscita finalmente a costruirmi la vita che volevo. Avrei dimostrato a tutti di che cos’ero capace.

Poi, sei mesi dopo avermi sentita suonare Libich per la prima volta, il maestro mi ha regalato una registrazione speciale, una riedizione di Libich. Era un album famoso, difficile da trovare. Avevo letto di quel concerto del 1951, con il pubblico in estasi e svenimenti di massa. Sono corsa a cercare un negozio che vendesse giradischi. Lo Studio n. 5 era l’ultimo brano, ma mi sono imposta di aspettare. Ho ascoltato l’album dall’inizio alla fine. Mentre le ultime note andavano sfumando, ho spinto l’apparecchio giú dalla console. Si è schiantato a terra, sfasciandosi completamente. Il disco è scivolato fuori ed è andato a sbattere contro una parete. L’ho preso e l’ho piegato. La plastica si è spaccata, ma ormai era troppo tardi. L’avevo ascoltato. Non potevo fare come se niente fosse.

Quella sera ho detto a mia madre che non avevo altra scelta, dovevo abbandonare il pianoforte. Non volevo illudermi, ho detto. Non avevo abbastanza talento. Non mi accontentavo di essere brava. Era assolutamente inutile che dedicassi la vita alla musica, se non ero in grado di aggiungere nulla ai risultati ottenuti dai piú grandi pianisti, i miei idoli. Continuando a provare avrei solo perso tempo.

C’erano altre cose che avrei voluto spiegarle, ma lei ha sorriso come se fossi stata una bambinetta ridicola. Avevo detto una stupidaggine; bisognava portare pazienza. Sono seria, ho detto, e lei è scoppiata a ridere.

No che non lo sei, ha detto. Dovevo pensare alla vita che aveva fatto lei. Appena finito il college a Seul, con il massimo dei voti, si era lasciata mettere in trappola. Per cominciare, aveva accettato una proposta di matrimonio. Era andata ad abitare a casa dei genitori del marito, come da tradizione. Qui la giovane sposa aveva subíto ogni sorta di angherie da parte della famiglia acquisita. Durante il fidanzamento, il futuro marito si era mostrato docile, remissivo; ora, in quella casa di estranei, veniva criticata dalla mattina alla sera. Era trattata come una serva, ma con meno diritti. Le domestiche erano pagate. Dopo aver partorito, non ne aveva piú voluto sapere. Era scappata con la bambina. Qualche mese dopo lui le aveva rintracciate a Los Angeles. L’aveva implorata di tornare, si era profuso in scuse, ma lei aveva trovato un lavoro. Cosí ben pagato che non avevano piú bisogno di lui. Si ammazzava di fatica, accumulava denaro. Tutto per la piccola Haejin, perché potesse avere la vita fenomenale che a lei era stata negata.

Ma lo sapevo già, ho detto. No, ha detto lei. Non sapevo un bel niente, se credevo di poter mollare tutto. Visto che il mio obiettivo era di diventare una pianista, dovevo cercare di realizzarlo. Era una questione di volontà. L’avevo chiesto io, un pianoforte. Era stata una mia idea. Avevo una dote naturale, disse. Una dote è anche una responsabilità. Senza musica mi sarei smarrita.

Ho ritirato tutte le domande di iscrizione ai conservatori; Edwards mi ha accettata, e ho detto che ci sarei andata. Ma quel college ha anche un corso di studi di pianoforte, ha ribattuto mia madre. È la ragione per cui avevi fatto domanda anche lí. Vedrai che ti prendono, Haejin. Prima non eravamo abituate a litigare, ma adesso non facevamo altro. Il battibecco durò fino ad aprile, la sera in cui andammo a un recital per violoncello solo. Dopo Libich avevo smesso completamente di ascoltare musica, ma questi biglietti li avevamo acquistati l’autunno precedente. Non era un concerto di pianoforte. Andrà tutto bene, pensavo. Poi le note dello strumento a corda hanno riempito la sala. Avrei dato qualunque cosa per suonare ai livelli di cui mi ero creduta capace. Era vero, come diceva mia madre, che avevo cominciato a suonare per conto mio. Ero cosí piccina, all’inizio, che dovevo sedermi su un bauletto in equilibrio sullo sgabello. Mi faceva sentire piú grande. Uscivo dal mio corpo per immergermi nello strumento, nel suo legno lucido, con scorribande che ricordavano la possessione demoniaca, e io, la sua grande, potente, artefice. Quanto amavo il pianoforte. E quanto continuavo ad amarlo. Che peccato che fosse andata a finire cosí. Mi sono asciugata le lacrime; mia madre se n’è accorta. Mi ha passato un fazzoletto ma ho fatto finta di non vederlo. Non potevo ammettere di aver pianto.

Il recital di violoncello terminò. Nel parcheggio, insistetti per guidare. Avevo la patente, ma lei non mi cedeva spesso il volante; quella volta si arrese. Forse le facevo pena. Era stufa di litigare. Non le chiesi il motivo, e non parlammo mai piú. Guidai in silenzio. A un miglio da casa nostra, ricominciai a piangere. Accecata dalle lacrime, piombai sulla corsia opposta.


Capitolo settimo

WILL

Mi è venuta a prendere in macchina per andare da John Leal. Coppie di fanali posteriori pennellavano la strada davanti a noi, un zigzag di luci rosse. Phoebe è uscita dalla strada principale, si è lanciata verso la collina e si è fermata. Abbiamo seguito il sentiero lastricato che conduceva a una villetta alta e bianca. Phoebe mi ha preso per mano e la dondolava, come fanno i bambini. Foglie accatastate volavano di qua e di là, riprendendo vita. Ha suonato il campanello. Le ho sollevato la mano e le ho baciato le unghie mangiucchiate, che a ripensarci ora brillano come quarzi, rocce sottratte alla luna.

La porta si è spalancata. Sono comparsi degli sconosciuti che ci hanno guidati verso il caldo, la luce. Un forte odore di carne cotta ci ha accolto nell’ingresso. Mi è venuta l’acquolina in bocca. Ci hanno chiesto gentilmente di toglierci le scarpe. Avendo la testa che mi girava, ne ho approfittato per accucciarmi. Mentre mi slegavo i lacci stretti delle scarpe ho fatto un bel respiro. Era dalla mattina che non mangiavo niente, salvo una mela rossa rubata. Il mio autobus aveva subíto un ritardo ed ero arrivato al Michelangelo’s troppo tardi per il pranzo del personale.

Ci hanno fatto strada in un corridoio che portava nel soggiorno. Una serie di cuscini piatti blu era disposta a semicerchio intorno a un caminetto acceso. Non c’erano mobili. Ci hanno invitato a sederci, e io ho copiato Phoebe: ho occupato un cuscino, quello piú vicino a lei. Era di stoffa liscia e lucida e mi è scivolato sotto il sedere.

C’è John Leal?, ha domandato Phoebe. Mi piacerebbe molto salutarlo.

È in cucina, hanno risposto. Ci raggiungerà fra un attimo. Nel giro di pochi minuti la conversazione si è divisa in due. Phoebe ha chiacchierato con una ragazza di cui non avevo afferrato il nome, poi con un certo Ian. Quest’ultimo è uscito dalla stanza ed è ritornato con delle tazze di porcellana piene. È vin brûlé, ha detto. Io, nel frattempo, ho scambiato qualche battuta con Philip Hecht, anche lui studente di Edwards. Mi chiedevo quando sarebbe arrivato il colpo di scena. Quando, non se, pensavo ancora. Philip mi ha chiesto di dove fossi; la ragazza, Jo, ha sorriso. Ho cominciato a snocciolare tutte le bugie che raccontavo dal primo giorno a Noxhurst, mezze verità che gonfiavo come un pallone finché, in poco tempo, mi trasformavo in un altro Will, che guardava dall’alto i soliti problemi dei Kendall. Buttavo le zavorre. Provavo l’ebbrezza della mongolfiera. La cronologia degli eventi si spezzava, cambiava; mio padre riaccostava la propria sedia vuota al tavolo. La casetta in affitto di mia madre si imbarcava per il Sud, lasciando la noiosa Carmenita annebbiata dalla metamfetamina per le colline di Los Angeles, trasformandosi a metà volo in una grande villa con una piscina di forma assurda, di quelle che si vedono solo nelle case dei ricchi. Di notte era illuminata, un incendio blu in cui amavo nuotare.

Mentre parlavo, il vin brûlé mi fluiva dentro, caldo e speziato, squagliando ogni mia cautela, come quel caldo pomeriggio d’autunno in cui avevo trascinato le mie valigie fino al terzo piano della Latham Hall. Avevo trovato i miei coinquilini in soggiorno, cinque ragazzi in maglietta polo. Stiamo per andare a mangiare, avevano detto, proponendomi di unirmi a loro. Ci eravamo stretti la mano. Erano tutti studenti del secondo anno, come me, ma si conoscevano dall’anno prima. Gioviali, cortesi, si erano offerti di darmi una mano con i bagagli e mi avevano chiesto come fosse andato il viaggio, se fossi arrivato a Edwards in aereo o in macchina.

Ho preso il pullman, avevo risposto. Be’, piú di uno. Dalla California…

Avevano fatto la stessa faccia, rimanendo per un lungo istante pietrificati dallo stupore. Quand’erano tornati in sé io avevo già capito come correggere la mia immagine. Mia madre proveniva da una famiglia di Pasadena ricca ma dissoluta, che aveva sperperato i suoi ultimi averi quando lei era già abbastanza grande da serbare il ricordo della felicità perfetta che aveva perduto, perciò usavo le sue memorie di vita nell’hacienda. Le palme svettanti, gli spettacoli di opera lirica all’Hollywood Bowl nelle sere di giugno. Attingevo a una nostalgia ereditata. Introducevo qualche particolare secondario per entrare meglio nel ruolo: la piscina, ad esempio, il tonfo nell’acqua dei frutti maturati al sole sulle piante d’agrumi. In questo paradiso colorato d’azzurro non penso allo spreco. Sto a mollo, faccio qualche bracciata. Le arance Navel luccicano sulle piastrelle del fondo come medaglioni. Un domestico ripesca fischiettando quelle andate a male. Nessuno patisce la fame, nessuno si ammala.

Cercavo di far parlare di sé anche Philip, ma aveva l’aria preoccupata e gettava continue occhiate oltre la mia testa. L’ennesima volta che ha alzato lo sguardo mi sono girato anch’io… e ho visto una figura sulla soglia del soggiorno, con un grembiule bianco immacolato annodato intorno alla vita. Mi è sembrato che fluttuasse nell’aria; ho guardato meglio, ed era il luridume che aveva sotto le piante dei piedi, un centimetro di pelle nera, mentre quella dei talloni era spaccata e si stava squamando. Accortosi che lo stavo guardando, mi ha fatto un cenno con la testa. È venuto verso di noi, tenendo fra le dita grappoli di bicchieri da vino. Non era alto, ma i muscoli delle spalle tiravano il tessuto della semplice camicia bianca che aveva indosso. Un polso era rigonfio per via di un cordino rosso che gli affondava nella carne. I capelli pettinati in modo da stare dritti sulla testa, a mo’ di pennacchio, mi davano la sensazione di un eccesso di energia, non totalmente contenuta, come nei libri illustrati per bambini in cui i colori escono dai contorni. Si è girato verso di me.

Tu sei Will, giusto?, ha detto, a bassa voce. Ha posato i bicchieri e mi ha preso una mano fra le sue. Io sono John Leal. Scusate il ritardo. Dovevo controllare le braciole. Non il piatto migliore da servire quando si hanno ospiti, a quanto pare. Era da tanto che non invitavamo nessuno a cena. Sono molto contento che siate venuti. Siamo molto contenti. Entriamo.

In sala da pranzo ci siamo seduti a un tavolo basso, appena rialzato rispetto al pavimento, su altri cuscini di seta. Una ragazza bionda è entrata con un vassoio ed è subito riuscita. Mi sono chiesto che razza di gente fosse, per assumere una cameriera per un tavolo da sei. La ragazza ha servito del Malbec, e un liquido rosso rubino mi è vorticato nel bicchiere. Ma non l’ho neanche toccato. Il piccolo assaggio di vin brûlé era bastato a farmi girare la testa.

Sottolineo quest’assenza di alcol perché, essendo ridiventato ben presto sobrio, dovrei avere ritenuto un ricordo piú preciso di ciò che seguí. Invece, per la massima parte, è andato perduto. Mi sono rimasti il quadro d’insieme e alcuni frammenti di conversazione. Immagini sparse. Interi segmenti, invece, sono sfocati come in una vecchia pellicola. È questo il problema? Ho ritoccato la scena del primo banchetto con loro talmente tante volte, che ci ho lasciato sopra le ditate. Il pezzo di carne rosa ha sanguinato quando l’ho tagliato, facendo scricchiolare le parti carbonizzate come piccoli ossicini. Quando ho spezzato in due il panino, ha fumato; il burro si è sciolto. Dell’olio è gocciolato, indorando la porcellana bianca. Il polso sottile della cameriera ha tremato quando ha tolto il piatto. L’ho ringraziata, è trasalita. Inesperienza, ho pensato. Denti smaglianti, sorrisi. Col mio passato, avrei dovuto capire che cosa ci fosse dietro quell’accoglienza calorosa: un repertorio di trucchi da illusionista. Il senso comunitario, il cibo. Il pane caldo è l’esca, l’abracadabra, offerta in abbondanza, come Dio: prendete e mangiate, questo è il mio corpo fatto a pezzi per voi. Le tende aperte scoprivano un’infilata di finestre. Nelle profondità del vetro, ombre che si chinavano e muovevano: noi al nostro meglio. Ho sentito di essere visto proprio come volevo. Mi sono rilassato e ho preso altro cibo.

Finite le torte al limone, siamo tornati in soggiorno. Alla luce incerta del camino, i cuscini brillavano come lazulite. Phoebe e John Leal si sono seduti in un angolo, in disparte. Ogni volta che li guardavo, era sempre lui che parlava. Phoebe teneva gli occhi bassi, fissi in grembo. I capelli cascavano giú, facendo scivolare in avanti la fascia con cui li legava.

… sei troppo attaccata a questo dolore, e ti dimentichi che non sei l’unica a soffrire, ha detto lui, a un volume appena percepibile.

Non lo sono, ha detto lei, alzando lo sguardo. Non credo.

Hai ragione. Non penso che tu lo sia.

La cameriera girava in mezzo a noi offrendo tè o vin brûlé. Tè, grazie, ho detto. Nell’inclinare, mordendosi le labbra, la teiera, ha lasciato cadere i bei capelli slegati. Phoebe aveva di fianco a sé la borsa, in parte chiusa da una cerniera, e mentre parlavano ho visto John Leal che la prendeva da terra, la apriva e ci metteva dentro una mano. L’ha perquisita senza smettere di parlare. Phoebe me l’aveva data da reggere, quella borsa; conoscevo la sensazione al tatto della sua pelle viva, felpata, di vitello. Ho ripensato alla borsetta rigida di mia madre, il bauletto di cui era cosí gelosa che ne avevo visto il contenuto una sola volta in vita mia, quando l’avevano ricoverata in ospedale. Avevo dovuto firmare una ricevuta con l’elenco dei beni personali, siglando ogni singolo oggetto. Gel disinfettante per le mani. Pillole regolarmente prescritte. Olio di pesce, aspirina. Rossetto. Unguento di jojoba. Fischietto antistupro. Non le avevo mai raccontato quello che ero stato costretto a vedere: avrebbe odiato l’intrusione. Phoebe, invece, imperturbabile, continuava a guardare in faccia John Leal. Lui ha affondato le dita nell’apertura opalescente. È spuntata la fodera di raso lucido. Avrei voluto fermarlo, ma lei lo lasciava fare. Come se la borsa fosse appartenuta a lui.

Mi sentivo a disagio, cosí sono andato a cercare un bagno. Al mio ritorno ho trovato tutti in piedi e Philip che spingeva dentro un pianoforte verticale. Lo ha appoggiato contro una parete, con il coperchio aperto. Ian ha portato una panchetta imbottita e Phoebe si è avvicinata allo strumento. Ho chiesto a Jo che cosa stesse succedendo. Mi ha spiegato che di solito era Ian che suonava il pianoforte, ma che si era fatto male a un pollice. Phoebe aveva accettato di sostituirlo.

Lei…, ho detto, ma mi sono subito interrotto. Phoebe si è seduta sulla panca. Ha girato una manopola per regolarne l’altezza. Non molto tempo prima eravamo passati di fianco al pianoforte a coda di Wyeth Hall. Brillava di inattività, e io avevo detto che non avevo mai visto nessuno usarlo. Che spreco, avevo detto. Ma tanto non è un buon strumento, aveva detto lei. Le avevo chiesto se sapesse suonare. Io?, aveva detto. No.

Hanno attaccato le prime note. Le mani si muovevano sui tasti, tirandone fuori morbidi accordi, mentre lei sedeva impettita, con il busto rigido, come se non avesse niente a che fare con la musica. Poi le dita hanno acquistato velocità, come onde sul mare. In un assolo della mano destra la musica si è impennata. Phoebe ha ripreso vita. Tenendo la nota, si è inclinata sul pianoforte. Ha girato il collo, per sentire. Il suono produceva un’eco, e io ho pensato che i muri di quella casa sarebbero crollati, Noxhurst sarebbe stata rasa al suolo, il mondo intero sarebbe stato cancellato, e sarebbe rimasta solo Phoebe, a tenere quell’unica, lieve nota. Ha fatto scivolare una mano sulla tastiera, e ha continuato a suonare.

Dopo che la porta d’ingresso, con uno scatto, si è richiusa alle nostre spalle, Phoebe mi ha chiesto di guidare. Sono imbottita di vino, ha detto, ad alta voce, nel vento forte. Si è tolta qualche ciocca di capelli dalla bocca. Hai bevuto anche tu come me? No, certo, che domande. Ti sei controllato. Una volta lo sapevo fare anch’io, ma ho perso la consuetudine. Sennò chiamo un taxi.

Guido io, ho detto. Dentro la macchina, nell’improvviso silenzio, sentivo ancora il pianoforte irraggiare le sue ultime, deboli note: una luce fioca, che avvolgeva la quiete. Ho acceso il motore. Io non avevo mai imparato a suonare uno strumento. Per anni, però, nel cercare di sfuggire alle tentazioni del diavolo, avevo ascoltato musica classica. Possedevo qualche disco di pianoforte, che adoravo. Esecuzioni di Lupu, ad esempio. Di Gould. Di Uchida. Non era Liszt quello che aveva suonato? Cercavo di mostrarmi competente. Una volta, durante una gita con i miei genitori, avevo visto la partenza di uno stormo di storni. Gli uccelli prima si erano raggruppati e agitati confusamente come reti piene di pesci, poi si erano levati in aria, tutti insieme, formando una spirale intrecciata, che con un guizzo, compatta come uno scudiscio, si era lanciata verso l’orizzonte. Parassiti, aveva detto mio padre, pragmatico come al solito. Io invece l’avevo trovato uno spettacolo stupefacente, la rappresentazione tangibile del disegno divino, proprio come l’esecuzione di Phoebe: uno sciame di note che prendeva forma, la manifestazione evidente di un fine superiore. Dovresti stare su un palco, le ho detto. Se avessi una dote simile, io…

… tu ne faresti la tua ragione di vita, ha detto lei. Tu, Will Kendall, saresti un celebre pianista, un gran sacerdote della musica.

Non capisco perché ridi.

No, è che io ci ho provato. Volevo diventare una pianista. Non sono sicura che sia una dote. Ho smesso di suonare perché avevo capito che era meglio non avere affatto talento, anziché abbastanza da rendermi conto di quanto me ne mancava. Stasera ho suonato perché ha insistito lui. Nient’altro. Mi stava raccontando della sua esperienza nel gulag, e io…

«Lui» naturalmente è John, ho detto, interrompendola.

Non potevo sottrarmi…

Nel gulag?

Oh, ha detto.

È stato in un gulag.

Oh, Will.

Nella primavera di due anni fa…

(cosí mi ha spiegato Phoebe, girata verso di me, con una mano calda sulla mia coscia, mentre filavo per le vie deserte di Noxhurst, superando i semafori che macchiavano la notte)

… John Leal viveva a Yanji, una città cinese vicina alla Corea del Nord. Lavorava con un gruppo di attivisti americani che aiutavano i nordcoreani fuggiaschi a uscire dalla Cina e raggiungere Seul. Era un viaggio lungo e tortuoso che comprendeva anche l’attraversamento a piedi della giungla del Laos, talmente pericoloso che usavano come guide i corrieri della droga. Poi, una notte, è stato catturato dalle spie nordcoreane, portato oltreconfine e gettato in un gulag. Non riesce ancora a parlare molto di ciò che ha visto. Vite buttate via come spazzatura, dice. Un bambino di cinque anni impiccato per aver rubato un po’ di riso. Stupri di gruppo. Denutrizione. Un uomo privato delle sue razioni di cibo ha mangiato gli stracci imbrattati di merda usati per pulire le latrine. Una volta hanno scoperto un cadavere nascosto nel ghiaccio, con segni di denti umani sui pezzi mancanti. Un giorno ha visto i secondini dare calci in grembo a una ragazza incinta. La ragazza si raggomitolava per proteggere il pancione. L’hanno lasciata a terra sanguinante.

La gente si ritraeva, per paura. Anche lui. Poi, però, aveva visto un vecchio aiutarla ad alzarsi, e si era vergognato. Aveva curato segretamente la ragazza, Mina. Aveva qualche nozione elementare di pronto soccorso appresa dai suoi amici attivisti. La ragazza viveva clandestinamente in Cina, finché era stata denunciata alla polizia da alcuni vicini ostili. Quando aveva saputo che sarebbe stata rispedita indietro aveva capito immediatamente che cosa l’aspettava: poiché il sangue straniero era considerato contaminato, il regime faceva abortire tutti i feti concepiti all’estero. La ragazza piangeva, disperata di perdere il bambino. John Leal aveva fatto del suo meglio ma non era riuscito a fermare l’emorragia. Quella notte Mina era morta, insieme al bambino che portava nel grembo.

Cinque mesi dopo il rapimento, senza alcuna spiegazione, lo avevano portato al confine con la Cina, lo avevano picchiato e gli avevano intimato di attraversare il fiume ghiacciato e tornare a Yanji. L’aveva fatto: era sopravvissuto, ma con tredici chili in meno e il braccio sinistro rotto. In quelle condizioni non poteva essere d’aiuto al gruppo, cosí era tornato negli Stati Uniti. La ragazza che non era riuscito a salvare, Mina, aveva viaggiato con lui. Ogni notte, quando cercava di dormire, si materializzava di fianco al suo letto. Le chiedeva che cosa volesse, ma lei non rispondeva. Stringeva le labbra e lo osservava. Solo dopo molte notti si era accorto che era scalza. Da viva possedeva un paio di sandali che alla sua morte lui aveva regalato a una prigioniera senza scarpe. Le aveva chiesto se fosse quello il suo desiderio: un paio di scarpe. Lei aveva ignorato la domanda.

Il mattino seguente, d’impulso, era uscito di casa scalzo. Si era messo in piedi sull’asfalto freddo con in mano un cartello che invitava a contribuire a una raccolta fondi per gli attivisti di Yanji. Dopo quella notte lo spirito di Mina lo aveva lasciato in pace. Lui aveva continuato a chiedere soldi a piedi nudi. Con l’andare del tempo aveva imparato a concentrare la propria attività propagandistica intorno alle grandi chiese coreano-americane. Dapprima sulla costa orientale, poi su quella occidentale. Anche lui era coreano; mezzo coreano, cioè.

Il padre di Phoebe aveva aiutato la sua campagna, invitandolo a salire sul pulpito con lui. Era cosí che John Leal aveva saputo di Phoebe. Aveva detto al reverendo Lin di aver frequentato l’Edwards, e lui allora gli aveva parlato di sua figlia, anche lei in procinto di andare a Noxhurst. Oh, la chiesa di suo padre… credeva di avergliene parlato. Oh. Comunque, suo padre aveva fondato una chiesa a L.A. No, lei non era minimamente religiosa. I suoi genitori si erano separati quand’era piccola.

Dunque, il gruppo di Yanji… nel frattempo aveva perso un secondo attivista, poi un terzo. Entrambi rapiti e forse uccisi. Il gruppo a quel punto si era sciolto. Non avendo piú da raccogliere fondi, John Leal era tornato a Noxhurst per lavorare con un’organizzazione legale non profit che offriva consulenza ai nuovi immigrati. Era un’attività utile, dice, ma meno gratificante. Lui voleva aiutare la gente in prima persona. Invece si ritrovava a compilare moduli. A fare richiesta di sussidi. Le persone che abbiamo incontrato a casa sua la pensano come lui, sperano di poter mettere la propria vita al servizio degli altri. Adesso si sta guardando intorno per capire che cos’altro fare.

Quando ha finito di raccontarmi la storia eravamo arrivati al campus e stavamo attraversando il pratone centrale. Non sapevo che cosa dire. Le foglie autunnali scricchiolavano e si frantumavano sotto i nostri piedi. Siamo passati davanti a una bacheca che scoppiava di vecchi avvisi. Sapevo che cos’era una bugia; ne riconoscevo i segni. Nei mesi successivi avrei sentito altre versioni della storia del gulag, con il suo cast sempre diverso, degno di una commedia dell’arte. L’assassino pentito. L’ex trapezista riuscito a scappare. La spia, il personaggio di maggior spicco. John Leal aveva inventato perfino un bambino impiccato per completare questa compagnia di attori pescati dal mazzo truccato di un prestidigitatore, e non ricordo piú quale sia stata la prima versione che ho sentito. Il racconto di Phoebe si mescola alle fandonie successive di John Leal. Mi sforzo di separarle. Non ci riesco. John Leal si intrufola perfino qui, nella mia camminata con Phoebe sull’erbetta bagnata del prato all’inglese.

Mi ha chiesto a che cosa stessi pensando, ma non mi è venuta in mente nessuna risposta decente. Ho sentito spuntarmi in faccia un sorrisetto nervoso, il genere di sorriso che mi viene sempre con le persone che aderiscono a una fede.

È incredibile, ho detto.

Vero?

Quindi John Leal ti ha trovata perché sperava di…

Be’, quando mi sono iscritta qui mio padre gli ha chiesto di tenermi d’occhio. Gli ho domandato perché fosse stato cosí misterioso al riguardo, e lui mi ha risposto, Se come prima cosa ti avessi detto che ero amico di tuo padre, avresti ancora avuto voglia di parlarmi?

Abbiamo incrociato un gruppetto di studenti che ridevano. Un ragazzo ha salutato Phoebe, che gli ha mandato un bacio. Non siete in buoni rapporti?, le ho chiesto.

Viveva anche lui a Los Angeles, a mezz’ora di macchina da casa nostra, ma non l’ho visto molto. È stato complicato, il divorzio. Non sono cresciuta nella fede, come lui. Non andavo mai in chiesa, e la chiesa è tutta la sua vita. Lo disturbava molto il fatto che non fossi cristiana. Sono sicura che lo disturba ancora.

Ero perplesso. Phoebe non mi aveva mai parlato di un’educazione religiosa, mentre io ero sicuro di averle detto qualcosa della mia. Ci avevo scherzato su, ne ero certo. «Quand’ero cristiano», dicevo qualche volta, facendo dell’ironia sulla perdita fondamentale della mia vita. Cosí quella sera le ho raccontato che prima di Edwards avevo frequentato una Scuola biblica. Finché non ho smesso di credere in Dio, ho detto. Prima pensavo di essere un eletto del Signore. Di essere stato scelto da Lui personalmente per diffondere il Suo verbo. Non ridere, ma andavo a predicare la salvezza fuori dai bar, sperando di beccare gli ubriachi nel momento di massimo sentimentalismo. E funzionava pure. Ero bravo. In fondo alla mia Bibbia tenevo l’elenco di tutte le anime che avevo salvato.

Non rido, ha detto.

Avevo parlato in tono scanzonato, ma l’attenzione di Phoebe era cresciuta, come la temperatura. Ho guardato a terra. Non l’ho detto a nessuno qui, ho aggiunto.

Posso chiederti che cosa ti ha fatto perdere la fede?

Niente di speciale, ho risposto. La solita caterva di ragioni.

Ad esempio?

Mah… L’esistenza di tante religioni, i bambini che muoiono di fame. Il problema del male… Sai come dicono quelli che fanno bancarotta, no? È una cosa graduale, ma quando arriva, arriva di botto.

Su un tappeto di foglie, abbiamo proseguito verso Platt Hall. Dev’esserti costato molto, però, ha detto Phoebe, con voce gentile. Si capiva che voleva mostrarsi comprensiva, e aveva ragione: avevo cercato di non perdere la fede. Avevo avuto come unico scopo la ricerca del Dio che amavo, finché un pomeriggio mi ero inginocchiato in camera mia chiedendo per l’ultima volta un segno. Le tende di garza bianca avevano frusciato. Avevo atteso ancora, ma non avevo udito altro. Tutto indolenzito, mi ero rialzato. Sbagliai, credo, a non dire a Phoebe che da quel momento mi ero sentito dilaniato, con un buco a forma di Dio che non sapevo come riempire. Ero stufo marcio di Cristo perché non riuscivo a smettere di amarLo. Continuavo a piangere la Sua assenza come se fosse stato vero, e non un fantasma inventato. Per un po’ avevo pensato ai binari del treno. O anche, in alternativa, alla pistola o ai sonniferi. Ma mentre le dicevo queste cose ero già pentito. Non volevo che Phoebe mi compatisse. Per cambiare argomento le ho chiesto chi fosse la cameriera, la biondina nervosa.

Tess, ha detto Phoebe. No, non è una cameriera. Vive con loro. Fanno a turno nel servire in tavola. Avrei voluto chiederle altre cose, ma la porta della residenza universitaria di Phoebe si è aperta di colpo. Ne è uscito un gruppo di ragazze con i tacchi alti; Phoebe ha afferrato la maniglia prima che la porta potesse richiudersi. Mi ha chiesto se volevo entrare. Sono andato verso lo scalone di pietra. L’eco dei nostri passi ci ha accompagnato nella salita. Abbiamo attraversato il soggiorno e siamo entrati in camera sua. Fra di noi è calato il silenzio. La punta della lingua le ha lucidato le labbra. Era la prima volta che mi invitava a entrare.

Ho del gin, ha detto.

Tu vuoi bere?

Se va anche a te.

Perché no? D’accordo.

È scesa dai tacchi. Mentre staccava i cubetti di ghiaccio, io mi sono scrollato dai piedi le mie Oxford. Ho fatto il giro della piccola stanza. Non c’era molto da vedere: le pareti erano vuote. C’era una pila di libri di testo ancora sigillati, luccicanti nella loro fodera di plastica. Mi ha passato un bicchiere spumeggiante con, sull’orlo, una fetta di lime spaccata a metà, poi ha battuto sui tasti del portatile. Dalla cassa è uscito un sibilo di note al basso. È un gruppo spagnolo, ha detto. Mi ha chiesto se mi piacesse. Le ho risposto di sí, e si è messa ad ancheggiare al ritmo fluido della musica, ruotando le spalle nude. Ha fatto schioccare le dita sopra la testa, a mo’ di nacchere.

Ho ballato con lei fino alla fine della canzone, poi mi ha slacciato i pantaloni. Mi ha tolto tutto tranne i boxer. Non l’ho mai fatto, sono stato sul punto di dire; non l’ho detto. Solo quando sono rimasto nudo mi ha permesso di toglierle la camicetta, la cui stoffa delicata, a righe, ho raccolto nel pugno. Le ho abbassato la cerniera della gonna. Erano settimane che sognavo quel momento, nei minimi particolari. Ho fatto scivolare un’unghia sulla spina dorsale della vera Phoebe, e subito le mie fantasie precedenti, tanto fantomatiche quanto vivide, ci hanno assediati. Schiene snelle che si flettevano emettendo spettrali sospiri mentre cercavo di concentrarmi su quella ragazza specifica, Phoebe, con quella particolare cassa toracica. Su quelle dita con quel preciso sapore di succo di lime. Siamo caduti sul letto. Le ho preso il pollice in bocca; le ho leccato i capezzoli turgidi. Ha abbassato un seno, me lo ha strusciato contro le labbra e poi l’ha risollevato, scherzosa. Ma quando ho cercato di andarle sopra ha opposto resistenza.

Qualcosa non va?, ho chiesto.

Restiamo cosí, ha risposto. È venuta a cavalcioni sopra di me, poi si è messa a quattro zampe. Ha guardato indietro, arcuando la schiena, e mi ha ordinato di non fermarmi. Le sue piccole ossa iliache sporgevano come rudimentali maniglie; le ho afferrate. Si muoveva avanti e indietro, ma non capivo se le piacesse. Ho sentito un ramo che sfregava contro il vetro della finestra, insistentemente. Il rumore che produceva rendeva ancora piú palpabile il silenzio di Phoebe. Era troppo presto per smettere. Ho cercato di pensare ad altro. Poche notti prima, durante la pioggia, era caduto un ginco. La mattina seguente un passante aveva notato un bagliore bianco nel ceppo sradicato. Era risultato trattarsi di un teschio. Il cortile di Edwards era stato costruito sopra un antico cimitero. Nella terra sotto il prato doveva esserci un intrico di ossa. Mi sono chinato in avanti e le ho baciato le vertebre. Avrei voluto rallentare. Phoebe ha dato una spinta all’indietro contro le mie cosce. Era tutto troppo veloce, troppo… Lei si è contratta all’altezza della cintola e io sono venuto, accasciandomi.


Capitolo ottavo

JOHN LEAL

L’autunno in cui era tornato a Noxhurst, John Leal aveva preso l’abitudine di sostare ogni mattina fra le tombe di Hilcox Street. Il cancello del cimitero apriva all’alba. Lui entrava e vegliava. I grandi tigli erano spogli, denudati dal freddo, ma continuavano a levare le braccia al cielo nell’alleluia. John Leal girava fra le tombe, guardava gli epitaffi, i nomi di chi era stato amato, le incisioni quasi cancellate. Il terreno gelato gli ustionava i piedi. L’inverno aveva lasciato il posto alla piú mite primavera, e a obelischi ricoperti di muschio che puntavano verso il cielo. D’estate, con il caldo, appoggiava la schiena alle fredde pietre tombali. Strappava gli steli dei caprifogli che germogliavano sopra quelli che un tempo erano stati uomini; ne assaggiava il succo. A lungo andare, giacendo nella terra, anche lui avrebbe potuto dare nutrimento a qualche pellegrino di passaggio. Se c’era una cosa che chiedeva per se stesso, l’unica, era quella: servire a uno scopo.

Ma stava imparando a essere paziente. Il suo progetto gli era perfettamente chiaro, fulgido come una visione. Se prima del gulag gli avessero chiesto a cosa potesse assomigliare una rivelazione, avrebbe detto al lampo di luce di un’annunciazione, alla raffica di vento forte, tempestoso. A un suo strappo personale, abbagliante e incontestabile, nel tessuto della normalità. Invece ora aveva un’altra cosa: un progetto. La sua opportunità. Aveva guardato in su. Fra i rami dei tigli balenavano losanghe azzurre, premi che avrebbe potuto afferrare allungando una mano. Ma le sue ambizioni personali non contavano piú. Lui pensava all’umanità intera. Mesi dopo, quando Phoebe gli chiederà della sua prima rivelazione, risponderà che era stata un fulmineo riconoscimento. Sí, aveva pensato: proprio cosí. La stava aspettando. In effetti, dirà a Phoebe, è quello che mi è successo quando ho sentito parlare per la prima volta di te.


Capitolo nono

PHOEBE

Sono finita contro un camion, avrà detto. Sto cercando di immaginarmi la scena: Phoebe a un nuovo incontro del gruppo, seduta, con le gambe raccolte. Sta come una palla, un pugno chiuso. Gli altri, in cerchio, la guardano mettere a nudo la sua vita.

L’autista del camion si è rotto una gamba, ha detto Phoebe. Io sono rimasta illesa. Mia madre ha assorbito tutto il colpo. È morta dissanguata prima di arrivare in ospedale. Io facevo ancora il liceo, ero minorenne, cosí ho dovuto andare a stare da mio padre.

Non avevo passato molto tempo con lui da bambina. L’idea di mia madre, dopo aver lasciato Seul, era di crescermi da sola. Lui, però, ci seguí negli Stati Uniti, supplicandoci di lasciarlo tornare a vivere con noi. All’inizio mia madre non glielo permise. Cedette solo perché pensò che fosse meglio per me, stare con entrambi i genitori. Litigavano spesso; a volte lui diventava violento. Una sera ho assistito alle loro urla dalla cima delle scale. Mio padre le ha dato un pugno e lei è caduta. Non si rialzava, cosí sono corsa giú. Credevo fosse morta. Non si muoveva. Volevo chiamare aiuto, ma mio padre ha preso un bicchiere d’acqua dal tavolo e gliel’ha rovesciato in faccia, finché si è ripresa. Nonostante tutto, per un po’ di tempo mia madre ha tenuto duro. Quando avevo cinque anni, solo allora, mi ha chiesto che cosa ne pensavo, se lei l’avesse lasciato di nuovo. Se ce ne andassimo via, ha detto. Io e te insieme. Ho detto sí, andiamocene. Ho deciso all’istante da che parte stare.

Quando mi sono trasferita da lui, comunque, ha mantenuto un comportamento civile. Cortese, come un lontano parente. Non mi ha chiesto neppure se volessi frequentare la sua chiesa. Forse era sicuro che gli avrei risposto di no. L’ho visto piangere, in cucina: ho fatto finta di non accorgermene. Se era in lutto, non pensavo che ne avesse diritto.

Ho finito l’ultimo mese di liceo. Dopodiché, appena possibile, me ne sono andata. Sono venuta a Noxhurst. Durante il discorso inaugurale del rettore sono sgusciata fuori dalla Littell. Ho attraversato il campus silenzioso mentre tutti gli altri, seduti nei loro banchi di chiesa, ascoltavano il rettore spiegare quanto dovessero essere contenti. Quest’università. Uno dei pilastri dell’educazione dell’intero paese. Una tale fortuna. Un privilegio. Il dovere di ricambiare. Cosí diceva. Davanti al portone di Latham Hall c’era un ragazzo, uno che aveva evidentemente fatto sega come me, che teneva una fiamma azzurrognola di fronte al lettore della chiave elettronica. La porta non si apriva; la fiamma si è spenta. Il ragazzo ha azionato di nuovo il suo accendino. Gli ho chiesto che cosa stesse facendo.

È rotto, ha risposto. Il portone. Scassato. Non si apre.

Lasciami provare, ho detto.

Ha avuto un attimo di esitazione, poi si è fatto da parte. Aveva un faccione largo, dalla pelle rosea, imbronciato. Ha spostato la sua grossa mole verso il portale di pietra ad arco. Ho strisciato la mia carta e il portone si è aperto con un ronzio. Ho cercato di non ridere. Ha detto che ero la sua eroina. Devo assolutamente offrirti qualcosa da bere, ha insistito, finché non l’ho seguito nel suo appartamento. Mi ha detto il suo nome, Julian. Julian Noh. Gli ho detto il mio. Mi ha chiesto se fossi anch’io coreana, alzando la mano per battere il cinque. Ci avrei giurato, ha detto. Si è lasciato cadere sul futon a pancia in su, ha fatto un sospiro e ha chiuso gli occhi. Me ne sono andata in punta di piedi. La mattina dopo ho trovato un mazzo di fiori alto un metro, di gladioli bianchi, appoggiato allo stipite della porta. Era accompagnato da un lungo biglietto di scuse di Julian. Mi proponeva di andare da lui per quella che chiamava una «festa danzante con degustazione di vini». Ci sono andata, e poi l’ho accompagnato anche ad altre feste, senza mai tornare a casa prima dell’alba. Abbiamo pranzato tardi insieme, quel pomeriggio.

Phoebe, ha detto. Ieri sera hai conosciuto un certo Mitch. Biondo, magrolino, alto piú o meno cosí. Dimmi se ti piace. A me sí, credo.

Ho cominciato a fargli un po’ di domande. Julian ha cercato di contraccambiare, chiedendomi che cosa facessi prima di Edwards. No, ho detto. Prima devo sapere tutto di te. Voglio conoscere tutti i tuoi segreti, Julian. Cominciamo dal principio. Piccola o grande che sia, qual è stata la prima bugia che hai raccontato? Ha sorriso, mostrandomi la dentatura completa. Era come un cancelletto di legno che si spalanca: il suo sorriso mi invitava a entrare.

Avendo Julian a farmi da guida, ho cominciato a frequentare gli studenti dell’Edwards ammessi in questo pilastro dell’educazione con l’unico scopo, da quel che vedevo, di spassarsela. Di ostentare il proprio privilegio. Con abiti da sera presi ai mercatini dell’usato sguazzavano in fontane in cui era proibito entrare. Lo champagne spumeggiava come oro fuso. Su, da brava, apri bene la bocca, mi diceva Julian con una pasticca bianca luccicante nella mano. Io rovesciavo indietro la testa. Le pasticche segmentavano il tempo. Mi lasciavo cadere sull’erba bagnata, per far decantare. Dalle porte aperte filtrava luce. Gli ubriachi barcollavano, sbandavano. Figure in controluce ora nitidissime, ora confuse. Mi svegliavo tardi, rintronata. Il pranzo durava ore. Accumulavo inviti su inviti. I nostri ruoli si erano invertiti, adesso ero io che portavo Julian in giro. Lui mi seguiva allegramente. Non dimenticarti, però, mi diceva. Ho un diritto di prelazione su di te. Giú le mani, dirò. Lei è tutta mia.

Oh, ma non lo ero. Prima di Will ho avuto, ad esempio, il neoacquisto della squadra di squash, a cui piaceva succhiare le dita dei piedi. Il poeta che teneva una piscina di palline in soggiorno. È un’esca per le ragazze, diceva. Il flautista jazz. Phil, che aveva pisciato nell’armadio del corridoio perché, a notte fonda, l’aveva scambiato per un gabinetto dei bagni comuni, e Tim, che aveva le pareti della stanza foderate di bottiglie di vino vuote, come trofei. Ma no, non voglio tirarmela. È che ho preso l’abitudine, con gli amici, con Julian, di trasformare le avventure di una notte in storie. La verità è che mi vengono i brividi se ripenso a quel primo mese a Edwards. Ne ho ricordi frammentari: parti del corpo in penombra, peni lucidati dalla saliva. Capezzoli pizzicati. Gomitate e mire prese male. Sentivo che respiravano affannosamente, poi un lieve dolore. Tutto bene?, mi chiedevano. Mentivo, per gentilezza.

Bevevo molto. Quando andavo in un bar, lasciavo incustodito il mio bicchiere ancora pieno. Poi lo mandavo giú tutto d’un fiato. Se fossi stata imprudente, forse lei se ne sarebbe accorta. Sarebbe stata costretta a ritornare. Una sera mi sono messa il vestito piú corto che avevo, poi mi sono seduta su un muretto ai confini del campus con le gambe ciondoloni. Le luci rossi del semaforo punteggiavano l’incrocio. Guardavo passare il traffico pensando, Caricami, finché un tipo lo ha fatto. Non aveva il preservativo. Nessun problema, gli ho detto. Vai pure.

In città, da Levi’s, un infimo locale su due piani, mi sono messa a chiacchierare con Greg, uno del posto, un trentenne che non aveva finito il liceo. Lo conoscevo perché vendeva la droga a Julian. Sono andata a casa sua, dove ho lasciato che mi legasse al letto. Mi ha scopato attraverso un buco nei collant fatto con il rasoio. Ci siamo scolati una bottiglia di gin; mi sono sentita male, avevo la testa che mi girava, e mi sono risvegliata in un letto d’ospedale.

Mi avevano portato lí che vomitavo, mi ha spiegato l’infermiera. No, ero arrivata in ambulanza. Avevo bevuto un po’ troppo, ma mi sarei ripresa presto. L’ospedale mi aveva reidratata. Zitta, tesoruccio, mi ha detto. Presto starai meglio.

Era molto tardi, quasi mattina. Sono scappata dal letto quando un uomo dietro il tramezzo si è messo a strillare. Avevo ancora addosso i vestiti della sera prima, a parte un paio di calzini corti da ospedale. I collant strappati mi sfregavano contro l’inguine. Ho fatto il mezzo miglio che mi separava da casa a piedi. Il freddo del marciapiede trapassava la stoffa sottile. Granelli di mica, come stelle cadute, rendevano la pietra pungente. Ma il peggio era la sporcizia. Dovevo fare attenzione alle schegge di vetro, alla stagnola strappata. Alle cacche di cane fresche e viscide. Mi muovevo un passo alla volta tra i rifiuti. Stava spuntando il sole. Da piccola non avevo il permesso di uscire di casa senza olio solare. Con le sue dita fredde, leggere, mia madre mi spalmava una crema protettiva sul viso. Mi legava sotto il mento un cappello a tesa larga, con un fiocco stretto, con i cappi appaiati. Quanta pena si era data per la nullità che ero.