domenica 15 agosto 2021

HELLO AMERICA J.G. Ballard


 HELLO AMERICA

J.G. Ballard 

Recensione 

È il romanzo di addio alla fantascienza di Ballard. La  catastrofe che noi pensiamo di affrontare qui  è un lontano passato. L'umanità cerca di ricostruire e ricominciare. A differenza dei primi romanzi, qui saranno gli idoli pop dell’America anni ’60, in qualche modo sopravvissuti alla catastrofe, a suggestionare i protagonisti spingendoli a ricreare la società di allora, per potervi vivere i propri sogni di grandezza.

Un pugno di pionieri dalle svariate motivazioni va alla riscoperta dell’America: ufficialmente è una spedizione scientifica, di fatto molti di loro fin dall’inizio sanno che non intenderanno tornare. Sono discendenti di persone evacuate dagli Usa cento anni prima, quando crisi energetiche e climatiche costrinsero all’abbandono del Nord America, ridotto a un deserto di sabbia (il Sud tira avanti, sotto “dittature cattoliche”). Ogni personaggio ha questo suo bizzarro avanti-e-indietro mentale nel passato: qualcuno ricorda persino la precedente emigrazione dei suoi antenati dall’Europa agli USA..

HELLO AMERICA 

1. 
La Costa d’oro

“Lì c’è oro, Wayne, polvere d’oro ovunque! Svegliati! Le strade d’America sono lastricate d’oro!”

In seguito, quando affiancarono l’Apollo al molo derelitto della Cunard Line, alla punta inferiore di Manhattan, Wayne avrebbe ricordato, alquanto divertito, la frenesia con la quale McNair aveva fatto irruzione nella veleria. L’ufficiale di macchina gesticolava come un matto, la sua barba palpitante come una lanterna dallo stoppino troppo lungo.

“Wayne, è tutto come avevamo sognato! Dacci un’occhiata, anche se rischia di accecarti!”

Per poco non aveva rovesciato Wayne giù dall’amaca. Wayne, puntellandosi al soffitto di metallo, aveva fissato la barba infiammata di McNair. Una irreale luminosità ramata riempiva il locale delle vele, avvolgendolo di balle di tappeti dorati, quasi la nave fosse incappata nell’occhio di un ciclone radioattivo.

“McNair, aspetti! Meglio sentire il dottor Ricci, prima! C’è il rischio...”

McNair, però, se n’era già andato, pronto a mettere a soqquadro la nave. Wayne lo sentì gridare qualcosa ai due stupefatti fuochisti nella carbonaia. Mentre lui aveva dormito tutto il pomeriggio – reduce da un lungo turno di guardia notturno terminato alle otto di mattina –, l’Apollo aveva gettato l’ancora a mezzo miglio dalla riva di Brooklyn, presumibilmente per dar tempo alla professoressa Summers e ai componenti scientifici della spedizione di controllare l’atmosfera. Adesso erano pronti a riprendere la rotta e a entrare nel porto di New York, loro primo approdo dopo il viaggio iniziato a Plymouth.

I verricelli cigolarono lamentosi, le catene dell’ancora scivolarono lungo le rugginose piastre di prua. Wayne si calò giù dall’amaca e si vestì in fretta, con una sbirciata nello specchio fessurato, sulla porta. Il riflesso gli restituì un viso patinato d’oro, un paio di occhi vividi e ansiosi al di sotto di una zazzera bionda da angelo timido. Quando raggiunse la coperta, una nuvola di fuliggine si riversò dal fumaiolo e coprì la vela di prua di centinaia di lucciole morenti. Equipaggio e passeggeri affollavano l’orlo di murata, nell’attesa impaziente, mentre le vetuste macchine dell’Apollo, chiaramente sfinite dalle sette settimane di viaggio attraverso l’Atlantico, ansimavano contro la pigra acqua costiera.

Rimproverandosi – già stava tremando d’eccitazione come un bambino –, Wayne scrutò la costa che sembrava attrarlo con una sua forza magnetica. Un’immensa distesa lucente e dorata inguainava il litorale di Brooklyn, riflesso dai moli e dai magazzini silenziosi. Il sole pomeridiano premeva sulle vie di una Manhattan deserta, aggiungendo il suo splendore alla distesa luminosa lì sotto. Wayne ebbe quasi l’impressione che quelle strade e le serpentine di scorrimento veloce si fossero pavimentate, in preparazione del loro arrivo, con i più rari tesori.

A poppa dell’Apollo, si stagliava in lontananza l’arco poderoso del ponte sospeso di Verrazzano al di sopra dello Stretto, una visione da lungo tempo familiare a Wayne dalle vecchie diapositive della biblioteca della Società geografica di Dublino. Aveva guardato per ore e ore le fotografie sia del ponte sia di mille altre immagini dell’America, ma era impreparato alla grandezza spettacolare e alla forma misteriosa di quell’artefatto. Che – in certo qual modo – era riuscito a esagerare la propria mole durante il lungo secolo di oblio generale. Molti dei cavi verticali avevano ceduto, e l’immensa struttura dalle tonalità di rame, coperta ora di ruggine e verderame, assomigliava a un’arpa inoperosa che avesse vibrato la sua ultima musica per il mare indifferente.

Wayne contemplava la metropoli sempre più vicina, di nuovo incapace di riconciliare lo spettacolo che aveva davanti con l’immagine di Manhattan profilata all’orizzonte, come l’aveva sognata a occhi aperti nel buio della sala di proiezione della biblioteca. Dozzine di torri a cercare il cielo, soffuse di luce pomeridiana. Anche a tre chilometri di distanza, le pareti di vetro di quei colossali edifici brillavano come specchi di bronzo, quasi le vie ai loro piedi fossero lastricate di lingotti. Wayne poteva individuare il vecchio Empire State Building, venerabile patriarca della città, le due colonne gemelle del World Trade Center, i duecento piani della Torre OPEC che dominava Wall Street, con l’insegna al neon che puntava verso la Mecca. Insieme, disegnavano il familiare skyline, le cui vette e canyon Wayne conosceva ormai a memoria, e che ora parevano trasformati da questo sogno d’oro.

Sentì di nuovo McNair vociare ai fuochisti attraverso i boccaporti della sala macchine. “Dio buono, avrete bisogno di qualcosa di più delle vostre pale! Deve essere uno strato alto quindici centimetri, soffiato fin qui pari pari dagli Appalachi!”

Wayne si mise a ridere forte: la riva ricolma di oro. La frenesia di McNair era contagiosa. Sebbene solo venticinquenne, appena quattro anni più di Wayne, l’ufficiale di macchina si compiaceva di esibire un’aria distaccata e annoiata dal mondo, specie quando doveva fare da cicerone a visitatori della sua detestata sala macchine, con le caldaie alimentate a carbone, con gli strani pistoni e aleatorie bielle, la cui nascita risaliva al diciannovesimo secolo. Tuttavia, McNair conosceva il mestiere, e riusciva a far marciare ogni cosa. A dargli una leva, avrebbe mosso il mondo, se non l’SS Apollo. Edison e Henry Ford sarebbero stati fieri di McNair.

Con tutto il suo umore mutevole, l’ufficiale di macchina era stato il primo a dimostrarsi amico nei confronti di Wayne, dopo che il giovane clandestino era stato scoperto, dal dottor Ricci, tremante sotto l’incerata della iole del comandante, a due giorni dalla partenza da Plymouth. Era stato McNair a intercedere presso il capitano Steiner, e a far trasferire l’amaca di Wayne dall’umido acquaio dietro la cambusa al più accogliente tepore della piccola veleria. Forse McNair aveva visto nella determinazione di Wayne di raggiungere gli Stati Uniti qualcosa della propria intensa esigenza di evadere dalla spossata Europa a lume di candela, con le interminabili fasi di razionamento al limite della sopravvivenza, con la sua totale mancanza di incentivi e opportunità.

Né in questo McNair era l’unico: l’Apollo trasportava un invisibile carico di sogni e motivazioni private. Mentre il fumaiolo scaricava fuliggine sulle loro teste, i passeggeri in fitta linea al parapetto, a destra e a sinistra di Wayne, erano lì, adesso, indicando silenziosi le coste dorate di Manhattan, Brooklyn e la sponda del New Jersey, in reverenziale timore del benvenuto dato da un continente a lungo ignorato.

Poi Wayne udì il piccolo Orlowski, capo e responsabile della spedizione, sollecitare con impazienza il capitano Steiner perché si aumentasse la pressione di macchina. La voce di Orlowski aveva perso, per il momento, l’accento americano, che aveva inquinato le sue vocali di Kiev durante il viaggio. Attraverso un minuscolo megafono da tasca, il russo stava gridando: “Avanti tutta, capitano! Stiamo tutti aspettando lei! Non cambi idea proprio adesso...”.

Ma Steiner, come sempre, non faceva una piega. In piedi sul suo ponte, di fianco al timoniere, le gambe ben divaricate, stava rimirando placido la riva dorata, come un esperto viaggiatore che valuti un miraggio. Muscoloso e compatto, con le mani stranamente delicate, era tra i quaranta e i cinquanta, e aveva prestato servizio per quasi vent’anni nella marina israeliana. Abile giocatore di scacchi, mai disposto a sprecare una mossa, matematico dilettante e navigatore provetto, Steiner aveva incuriosito Wayne sin dal primo incontro-scontro, allorché, da sotto l’incerata della scialuppa, si era sentito soppesare dagli occhi severi del capitano.

Wayne era sicuro che Steiner, come ogni altro a bordo dell’Apollo, accarezzava segrete ambizioni tutte sue. Dopo averlo scoperto nascosto nella scialuppa, il capitano si era fatto condurre Wayne in cabina. Mentre Steiner richiudeva in cassaforte la pistola sequestrata al dottor Ricci, Wayne aveva intravisto, sul ripiano inferiore della cassaforte stessa, un pacco – accuratamente legato da un nastro – di vecchie riviste “Time” e “Look”, le cui pagine ingiallite erano compresse come lamine di rame, fossili di un’America svanita cento anni prima. Poi, quando erano salpati da Plymouth ormai da due settimane, Steiner, durante uno dei lunghi periodi di calma, aveva richiamato in cabina il giovane clandestino che gli aveva portato la cena dalla cambusa.

“Tutto a posto, Wayne...” Steiner aveva sorriso, alquanto divertito di quel Tom Sawyer marinaro, col ciuffo di capelli biondi, le gambe come trampoli, gli occhi animati da ogni sorta di strani sogni. Ogni volta che si trovava davanti al capitano, Wayne tremava di eccitazione e di paura – sia Ricci sia la professoressa Summers avevano insistito con Orlowski perché si rettificasse la rotta dell’Apollo per un approdo alle Azzorre dove scaricare Wayne.

“Wayne, non ti agitare. Hai l’aria di uno che si crede padrone della nave.” Già riusciva a vedere l’aggressività di Wayne nelle spalle ampie, nell’irrigidirsi delle ossa frontali e della mascella? “Sarai lieto di sentire che non passeremo per le Azzorre. Ma voglio mostrarti qualcos’altro.”

Lasciando intatta la cena, Steiner aveva aperto la cassaforte, ne aveva tirato fuori il pacco dei “Time” e dei “Look”, sciogliendo con calma il nastro. Aveva cominciato a sfogliare le pagine scolorite, mostrando a Wayne le immagini del centro spaziale di Cape Kennedy, lo shuttle che atterrava alla base dell’aeronautica militare di Edwards, dopo un volo di prova, e il recupero di una capsula dell’Apollo nel Pacifico. Tra le riviste non mancava un supplemento in occasione del bicentenario che ricordava aspetti di vita americana degli anni settanta: le vie affollate di Washington nell’Inauguration Day di Carter, le lunghe code di jet privati sulle piste dell’aeroporto Kennedy in attesa di decollare per le vacanze, spensierati bagnanti ai bordi delle piscine di Miami, sciatori lungo i pendii innevati di Aspen, in Colorado, schiere di panfili nella grande baia di San Diego pronti a salpare, tutta l’enorme vitalità di quella che un tempo era stata una straordinaria nazione preservata in quelle fotografie color seppia.

“Dunque, Wayne, tu vuoi andare in America. Vediamo quanto ne sai al riguardo.” Steiner era apparso scettico, annuendo però, con aria incoraggiante, mentre Wayne andava commentando le illustrazioni una dopo l’altra: “Questo è facile – il Golden Gate; il Caesar’s Palace di Las Vegas; Los Angeles, il Chinese Theatre; il Fisherman’s Wharf a San Francisco; Detroit, la strada a scorrimento veloce Edsel Ford... Vado avanti ancora, capitano...?”.

“Per ora no, Wayne. Ma sei in gamba, un clandestino speciale. Avremo da lavorare insieme, noi due...”

Nemmeno uno su mille coetanei europei di Wayne avrebbe potuto avere la più pallida idea di cosa rappresentassero quelle antiche scene panoramiche. Purtroppo l’Europa, l’Asia e il resto del mondo abitato avevano perso da lungo tempo ogni interesse per l’America. Ma chiaramente Steiner aveva intuito che Wayne le avrebbe riconosciute. Mentre riponeva in cassaforte le riviste, aveva detto: “Se sei fortunato, le vedrai presto. Dimmi, Wayne, da quale località degli Stati Uniti proveniva in origine la tua famiglia?”. Aveva sbirciato l’alta figura robusta, i capelli biondi come quelli di un bambino che erano la caratteristica di Wayne. “Dal Kansas, da qualche parte nel Midwest? Dall’aspetto, ti si direbbe un texano...”

“New England!” Wayne aveva mentito, prima di riuscire a frenarsi. “Jamestown. Il mio bisnonno gestiva laggiù una bottega di ferramenta.”

“Jamestown?” Steiner aveva annuito gravemente, avendo cura di non sorridere mentre indicava la porta. “Bene, vuol dire che ricomincerai da capo. Potresti anche diventare presidente, Wayne. Da clandestino alla Casa Bianca, son successe cose anche più strane.” Aveva fissato pensosamente il giovane, con un’espressione seria, quasi indagatrice, nel volto astuto da navigatore, un’espressione che Wayne avrebbe ricordato per sempre.

“Pensaci, Wayne: il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti.”

2. 
Rotta di collisione

Perché aveva mentito al capitano? Distogliendo gli occhi dalla costa dorata che gli si apriva davanti, Wayne guardò verso il ponte, dove Steiner era in piedi di fianco al timoniere, e puntava il binocolo a osservare le acque piatte del canale. Rabbiosamente, Wayne percosse col pugno la murata. Se avesse detto la verità, il capitano avrebbe compreso, non era forse anche lui una sorta di proscritto, quell’ebreo errabondo sui mari che aveva voltato le spalle alla propria patria? Perché non gli aveva detto francamente: non so da dove provengo, non so chi fosse mio padre, tantomeno i miei nonni? Mia madre è morta cinque anni fa, dopo aver trascorso metà della vita frequentando ambulatori psichiatrici, e l’altra metà come assistente appena accettabile presso l’università americana di Dublino. Tutto quello che ha lasciato non sono altro che fantasticherie fumose e uno spazio vuoto sul mio certificato di nascita. Mi dica lei, capitano, chi sono...

Uno spruzzo stizzoso si alzò dal tagliamare dell’Apollo a pizzicare le gote di Wayne. Steiner stava segnalando in sala macchine di aumentare la pressione, e la nave andava acquistando velocità attraverso la baia, come attratta dalla forza magnetica irresistibile di quella terra sognata. Ricordando le parole del capitano – il quarantacinquesimo presidente? –, il giovane tornò col ricordo alla propria madre. Durante gli ultimi anni all’ospedale psichiatrico aveva spesso accennato enigmaticamente al vero padre di Wayne, passando da Henry Ford V all’ultimo presidente americano in esilio, il presidente Brown (un nonagenario, fervente religioso, che era morto sessant’anni prima che Wayne venisse al mondo in un monastero zen a Osaka); e anche farfugliando il nome di un dimenticato cantante folk, Bob Dylan, di cui lei faceva suonare incessantemente un disco sul grammofono a manovella che teneva sul comodino.

Una volta, però, in un breve momento di lucidità, riemergendo da una overdose di Seconal, lo aveva fissato con uno sguardo limpido e gli aveva detto che suo padre era il dottor William Fleming, insegnante di informatica all’università americana, il quale era scomparso durante una spedizione, nata sotto una cattiva stella, negli Stati Uniti, vent’anni prima.

Wayne non aveva tenuto in alcun conto quella strana rivelazione. Ma, nel selezionare le poche cose lasciategli da sua madre defunta – un’assurda accozzaglia di bigiotteria, ritagli di giornale e flaconi di medicine –, aveva trovato un pacchetto di cartoline, legate da un nastro, tutte firmate da Fleming e col timbro postale SOUTHAMPTON, INGHILTERRA, il punto d’imbarco della spedizione. Il tenore di quei brevi ma affettuosi messaggi, il ripetuto riferimento al ritorno per il “grande giorno” e l’ansioso interesse alla gravidanza della giovane segretaria, tutto aveva gettato il seme nella mente di Wayne.

Era questa sua ossessione per l’America, che i suoi sconosciuti antenati avevano abbandonato un secolo prima, a procurargli la determinata volontà di far ritorno a quel continente perduto, sotto forma di semplice tentativo di trovare il proprio vero padre? Oppure aveva inventato la caccia al padre per dare a tale ossessione un’aurea sentimentale?

Comunque, che importanza aveva, adesso? Wayne si riscosse da quei pensieri e scrutò, al di là della prua dell’Apollo, il profilo di Manhattan che andava man mano ingrandendosi. Come i suoi sconosciuti antenati secoli addietro, era venuto in America per dimenticare il passato, per ripudiare per sempre un’Europa ormai esausta. Per la prima volta da quando si era nascosto sull’Apollo, Wayne avvertì un improvviso senso di cameratismo verso i suoi compagni di viaggio, che, assieme a lui, avevano sfidato e affrontato la lunga traversata.

Quelli gli si affollavano intorno, lì alla murata, incuranti degli spruzzi sollevati dalla prua rugginosa, membri dell’equipaggio e la spedizione scientifica gomito a gomito. Perfino il dottor Ricci, una volta tanto, pareva accettabile. L’azzimato fisico nucleare era l’unico membro della spedizione che Wayne trovasse indigesto – una dozzina di volte, durante il viaggio, Paul Ricci si era soffermato in sala laboratorio alle spalle di Wayne, chino sulle vecchie piante topografiche di Manhattan e di Washington, facendo intendere con un risolino di sufficienza che l’intero territorio degli Stati Uniti era già suo dominio. Adesso, era a fianco della professoressa Summers e le indicava i punti di riferimento della costa.

“Quello è il Ford Building, Anne, e lì, il quartiere arabo. Se aguzzi gli occhi, riesci a vedere il Lincoln Memorial...”

Erano mai vissuti a Manhattan i nonni di Ricci, come lui andava proclamando? Wayne fu lì lì per rettificare le informazioni elargite con troppa disinvoltura dall’italiano, ma si trattenne, visto che tutti erano ammutoliti. Orlowski, il capo della spedizione, era vicino a Wayne, aggrappato alle sartie dell’albero maestro, quasi temesse che l’aumentata velocità dell’Apollo potesse fargli perdere la presa dei piccoli piedi e sollevarlo al di là della murata. Ricci aveva cinto con un braccio la vita di Anne Summers, dopo aver concluso il suo ridicolo commento topografico, proteggendosi dietro la giovane.

Caso strano, la professoressa non fece alcuno sforzo per allontanare Ricci. A dispetto degli spruzzi, il severo trucco che aveva in volto rimaneva impeccabile, anche se il vento aveva cominciato a insidiarle la bionda capigliatura che portava raccolta in una stretta crocchia sulla nuca. Con tutti i suoi sforzi, rifletté Wayne, Anne Summers, durante il lungo viaggio, aveva guadagnato in avvenenza: il suo colorito sassone era più fresco, e il viso smorto con la fronte alta e pallida aveva assunto una tonalità luminosa, quasi infantile. Wayne era il suo più grande ammiratore. Una volta, con notevole disappunto della professoressa, egli era entrato, senza bussare, nel laboratorio di radiologia, e l’aveva trovata immersa a contemplarsi in un piccolo specchio e a pettinarsi i capelli, sciolti e lunghi fino alla vita. Ne aveva sorpreso il viso truccato come quello di una diva del cinema muto: di una dea dello schermo circondata da colonne di reazione e contatori di radioattività. La donna non ci aveva messo troppo a strapparsi dalla narcisistica autoammirazione e a inveire contro Wayne in un americano sorprendentemente gutturale, che ricordava la sommessa affermazione di McNair: che lei avesse cambiato il proprio cognome Sonner in Summers mezz’ora prima che l’Apollo salpasse da Plymouth.

Adesso, però, era tornato il suo sguardo distaccato e limpido. Si appoggiava a Ricci, e trovò anche il modo di rivolgere un sorriso rassicurante a Wayne.

“Professoressa Summers,” le chiese Wayne, “è pericoloso inalare la polvere d’oro? Non potrebbe essere radioattiva?”

Oro, Wayne?” Rivolta verso la costa luccicante, ebbe una risata saccente. “Non si preoccupi, penso che la trasmutazione dei metalli non abbia effetti maggiori di una forte luce solare...”

Eppure, mancava qualcosa dal quadro d’insieme. Senza un motivo plausibile, Wayne si scostò dalla murata. Facendosi schermo agli occhi contro il barbaglio sull’acqua, attraversò la coperta e si arrampicò su per la scaletta di metallo che portava sul tetto delle stalle. Sotto di lui, una ventina tra muli e cavalli da soma si agitavano irrequieti nei loro box, scambiandosi nitriti tra le lame di un sole troppo energico. Wayne si puntellò contro il tubo di ventilazione, cercando di indentificare quello strano presentimento di un pericolo incombente. Dopo il lungo viaggio attraverso l’Atlantico, stava forse perdendo il coraggio alla prospettiva di mettere piede effettivamente sul suolo d’America? Aguzzò gli occhi verso il sartiame e sul mare tutto intorno, per scrutare attraverso il fumo la linea costiera di Brooklyn e del New Jersey.

Inequivocabilmente, la sola persona imperturbabile a bordo dell’Apollo era il capitano Steiner. Mentre tutti si affollavano alla murata a salutare la terraferma sempre più vicina, Steiner se ne rimaneva di fianco al timoniere, il binocolo puntato su un piccolo tratto di mare aperto, a un centinaio di metri dalla prua. Controllando la velocità della nave, lanciò a Wayne un’occhiata, quasi da cospiratore. L’Apollo stava filando tra le onde come un dodici metri prossimo al traguardo, le sue antiquate macchine a vapore pronte a esplodere. Nei loro box, i quadrupedi, compromessi nell’equilibrio, pencolavano sotto il moto accelerato della nave. Steiner aveva issato ogni metro quadrato di vela, come se avesse deciso di concludere il suo viaggio con un’esibizione di alta tecnica marinaresca.

Già stavano sfilando lungo il primo dei battelli dell’esodo affondati nel porto. Dozzine di scafi arrugginiti ostruivano la baia attorno alla punta inferiore di Manhattan, relitti del grande panico di un secolo prima, quando l’America aveva abbandonato se stessa. Nel mosaico di scaglie di vernice ancora attaccate ai fumaioli a fior d’acqua, Wayne riusciva a intravedere i nomi di linee marittime, ricordo di un tempo scomparso: Cunard, Holland-America, P & O. C’era persino, coricata su un fianco, sotto la Battery, l’SS United States,richiamata in servizio dal riposo di Coney Island per caricare decine di migliaia di americani in fuga, mentre le città si svuotavano e il deserto avanzava inesorabile verso est attraverso il continente. La bocca dell’East River era bloccata da un ammasso di mercantili affondati, gli ultimi di una desolata flotta di navi fatte affluire da tutti i porti del mondo, e poi abbandonate lì quando non c’era stata più una goccia di carburante per la rotta di ritorno. Il porto di New York era diventato allora un inferno di terrore, sfinimento e disperazione impotente. Wayne guardò davanti a sé, attraverso il velo iridato degli spruzzi che sventagliavano a prua. L’Apollo deviava di rotta per schivare il ponte affiorante della USS Nimitz. La colossale portaerei era stata abbandonata dal suo equipaggio, ammutinatosi dopo essersi rifiutato di aprire il fuoco sulle migliaia di piccoli battelli e zattere improvvisate che bloccavano l’uscita dal porto. Wayne ricordava le fotografie e i granulosi spezzoni di film di quegli ultimi disperati giorni dell’evacuazione americana, quando i ritardatari, a milioni dal Middle West e dagli Stati dei Grandi Laghi, erano arrivati a New York. Avevano intasato le vie di Manhattan, con il sole e il deserto che incalzavano – ancora solo pochi giorni per la possibile salvezza –, per accorgersi poi che l’ultima delle navi era partita.

“Capitano Steiner! Ormai ci siamo, capitano – non occorre che ci faccia rompere l’osso del collo...” Mentre un’onda di prua schizzava la coperta, Orlowski si asciugò sulla manica il viso paffuto. Rinnovò l’appello al capitano, con voce che tentava invano di superare il martellio delle macchine, l’ansimare del fumaiolo, il crepitio delle vele inzuppate di fuliggine e di salsedine.

Ma Steiner lo ignorò. Era lì, a bilanciarsi sulle solide gambe, gli occhi incatenati sull’acqua intersecata da relitti, folle nocchiero da opera lirica. Mentre l’Apollo scavalcava e cavalcava le onde, deciso a raggiungere la meta, Wayne si aggrappò al tubo di ventilazione, al di sopra dei cavalli innervositi. Il sole pomeridiano si rifletteva abbagliante nelle mille finestre silenziose di Manhattan, mentre fuori lo spolverio quasi liquido del pulviscolo dorato scintillava nelle vie. D’improvviso, Wayne si chiese se per caso le intere riserve di Fort Knox non fossero state abbandonate lì, sui moli, dalle ultime unità dell’esercito, prima di poter essere caricate per il trasporto in Europa.

“Capitano Steiner... cinque metri!”

Mentre l’Apollo divorava l’ultimo tratto d’acqua, si levò un grido dai due marinai a prua, intenti a manovrare il filo a piombo di uno scandaglio.

“Capitano... tutta a babordo! C’è uno scoglio!”

“Indietro tutta, capitano! Si spaccherà la chiglia!”

“Capitano...?”

3. 
Una sirena sommersa

Confuso e spaventato accorrere di marinai in coperta. Un sottufficiale cozzava contro il dottor Ricci ritrattosi di scatto dalla murata. La professoressa Summers si sbracciava segnalando il pericolo a Steiner, due allievi ufficiali si arrampicavano sulle sartie dell’albero di maestra, cercando scampo verso il cielo.

L’Apollo aveva perso slancio, la sua velocità ridotta del cinquanta per cento. Le vele pendevano flosce, e nel silenzio Wayne udiva, dietro di sé, solo l’ansimare del fumo dal fumaiolo arroventato. Poi, un profondo rumore stridulo dal basso, come se una lama d’acciaio stesse grattando lo scafo. La nave ebbe un piccolo sussulto, un brivido, inclinandosi a dritta come una balena ferita. Quasi immobile, ora, prese a ruotare lentamente nel vento, mentre a poppa l’elica macinava un torrente di acqua schiumante.

Tutti tornarono a precipitarsi alla murata. I cavalli nei box si agitavano insicuri, la loro nasale protesta soverchiava il pulsare delle macchine. Wayne saltò giù in coperta, piazzandosi tra Ricci e Anne Summers. I marinai parlavano concitati, indicando l’acqua, ma Wayne allungò il collo per vedere la reazione del capitano. Steiner, mentre il timoniere si rialzava da dov’era finito disteso, e si prendeva cura delle sue ginocchia sbucciate, si era messo tranquillamente al timone. L’Apollo andava svirgolando nell’acqua in senso orario, le vele inerti nell’aria calma.

Steiner aveva gli occhi fissi sulle alte torri di Manhattan, ora a non più di mezzo miglio. A Wayne parve che il capitano non fosse mai stato così felice in vita sua. Che quell’uomo avesse compiuto una lunga, incerta traversata dell’Atlantico segretamente deciso ad affondare la propria nave a quelle poche centinaia di metri dalla meta, in modo che tutti loro perissero, ed egli potesse saccheggiare in solitudine i tesori di questa terra in attesa?

“Wayne, lì sotto, riesce a vedere?” Wayne si sentì afferrare per un braccio da Anne Summers. “C’è una sirena dormiente!”

Il giovane scrutò in acqua. L’elica dell’Apollo si era fermata, e la massa di schiuma impazzita si era dissolta nell’acqua che sciabordava contro lo scafo. Coricata sul dorso a lato della nave, quasi una sua sposa annegata, giaceva la statua di una donna gigantesca. Lunga quasi quanto l’Apollo, era appoggiata su un letto di blocchi di cemento, rovine di un plinto sommerso. I lineamenti classicheggianti del suo volto si trovavano quasi a pelo dell’acqua. Levigato dalle onde, quel volto grigio ricordò a Wayne la propria madre defunta, quando egli aveva sbirciato nella bara ancora aperta, nella camera mortuaria dell’ospedale psichiatrico.

“Wayne, chi può essere?” domandò Anne Summers, fissando il viso impassibile. Una colonia di granchi aveva preso residenza nelle narici della statua. Mentre emergevano dal loro dominio, a esplorare la massa gocciolante del grande intruso, Anne si mise un dito sul seducente nasino. “Wayne, deve essere una qualche divinità...”

Paul Ricci si insinuò tra di loro. “Una divinità marina del luogo,” sentenziò untuosamente. “Gli americani della costa orientale veneravano un pantheon di creature sottomarine – basti pensare a Moby Dick, a il Vecchio e il mare di Hemingway, anche al grande squalo bianco, simpaticamente ribattezzato ‘Jaws’.”

Anne Summers insisté con occhi dubbiosi sulla statua. Scostò la mano di Ricci. “Un’adorazione alquanto fanatica, Paul, per non parlare del pericolo per la navigazione.” Con un logico ripensamento, aggiunse: “Ho paura che stiamo affondando!”.

Infatti, a conferma di ciò, stavano esplodendo urla e richiami. “Capitano, abbiamo una falla! Stiamo imbarcando acqua!” Il sottufficiale si affannava a radunare gli uomini. “Azionare le pompe di prua, e dateci sotto, se no affonderemo qui!”

Wayne colpì con entrambi i pugni la murata ed esplose in una risata possente, mentre i marinai partivano di corsa. Si era reso conto, in quel momento, di cosa era risultato mancante dall’immagine mentale del porto di New York che aveva portato con sé attraverso l’Atlantico.

“Wayne, per l’amor di Dio...” Anne Summers tentò di placare quell’incomprensibile scoppio d’ilarità. “Tra poco dovrà nuotare, sa?”

“La Libertà! Professoressa Summers, non si ricorda?” Wayne indicò la sponda del New Jersey, dove un’isoletta rocciosa si delineava sul canale principale, e su cui erano visibili i resti di un basamento in stile classico. “La Statua della Libertà!”

Puntarono lo sguardo nell’acqua di fianco all’Apollo. La fiaccola tenuta alta per generazioni di immigranti dal Vecchio Mondo era sparita, ma la corona circondava ancora la testa della statua. Era stato uno dei suoi raggi aguzzi a lasciare uno squarcio di quasi dieci metri nello scafo dell’Apollo.

“Ha ragione, Wayne. Però, mio Dio, stiamo colando a picco!” Anne Summers si guardò attorno, spaventatissima, una mano a trattenersi la bionda crocchia. “Tutta l’attrezzatura, Paul! Che gli ha preso al capitano?!”

La prima acqua rugginosa dilagò schiumando dai bocchettoni della pompa dell’albero di prua. Orlowski stava imprecando contro il capitano, scuotendo un grassoccio indice accusatore. Ma Steiner girò placidamente attorno alla ruota del timone, con una luce soddisfatta nello sguardo. Nella più completa indifferenza per Orlowski e la convulsa agitazione in coperta, prese a parlare, del tutto rilassato, nel portavoce d’ottone con la sala macchine.

A poppa, l’elica a due pale morse l’acqua. Il fumaiolo prese a scaricare volute di denso fumo nero. L’Apollo ricominciò a muoversi, affondando goffamente di prua a scavalcare l’onda. L’acqua fredda dalla pompa dilagò lungo la coperta, verso gli ombrinali, mettendo a mollo le caviglie di Wayne. Ricci e Anne Summers arretrarono in fretta, ma Wayne restò immobile a fissare l’immensa statua che andava allontanandosi. Nel clima febbrile della parossistica evacuazione, sotto la sorveglianza personale del presidente Brown, la Statua della Libertà era stata calata dal suo plinto e imbracata per l’imbarco che avrebbe dovuto portarla alle nuove colonie americane in Europa. Per un improvviso uragano, però, il pontone appositamente allestito era sfuggito al traino dei rimorchiatori ed era andato alla deriva nella baia fino a spaccarsi contro la chiglia, affilata come un rasoio, di un mercantile semisommerso. Nel caos che aveva caratterizzato gli ultimi giorni dell’evacuazione, il punto esatto dove la statua era finita sott’acqua non era mai stato accertato, e la Libertà era stata lasciata a languire, derelitta e sommersa, per i successivi cento anni.

Quindi, la spedizione aveva già fatto la sua prima scoperta!

Da quel momento, mentre l’Apollo zoppicava, con i ponti di prua troppo vicini all’acqua, verso il porto di New York, Wayne prese la decisione di tenere un diario delle straordinarie visioni che avrebbe avuto sott’occhio nei mesi a venire, ispirato da questa immagine di sua madre scomparsa, e ora dormiente nel mare. A suo tempo, avrebbe fatto omaggio di tale resoconto al dottor Fleming, il padre di un tempo e del futuro, che lui avrebbe ritrovato in qualche parte dell’America, ad attenderlo nei paradisi dorati dell’Ovest.

4. 
Carichi segreti

Approdo! Finalmente l’Apollo, divincolatosi tra gli ammassi di navi – o quello che rimaneva di esse – che rendevano arduo l’accesso al fiume Hudson, era riuscito a adagiarsi su un banco melmoso, rasente al vecchio molo della Cunard. Cullati dall’alacre pulsare delle pompe e dalla possibilità che, alla peggio, la terraferma fosse raggiungibile con poche bracciate, equipaggio e componenti della spedizione erano divenuti silenziosi. Non appena l’Apollo aveva infilato nella melma acquosa la prua ferita, tutti si erano portati alla murata a osservare i vividi moli che si allungavano davanti ai loro occhi, la città muta con le sue torri svettanti e le vie abbandonate, il milione di finestre vuote sotto il bagliore del sole del pomeriggio.

Già erano visibili le dune che riempivano il fondo dei canyon deserti. La sabbia accumulatasi su uno spessore di tre metri formava una coltre vergine da impronte da quasi un secolo, livellata dai venti oceanici, e sormontata da un velo sottile di polvere color dell’oro. Un magico tappeto, pareva a Wayne, un sogno metallizzato scaturito da fiabe dell’infanzia. Aveva trattenuto il respiro allorché la nave, sotto la spinta della marea, si era fermata nel fango, e aveva pregato che il silenzio e la pace a bordo dell’Apollo non preludessero a un improvviso e ingordo assalto a terra.

Ce n’era più che a sufficienza per tutti loro, oro oltre ogni sogno di Cristoforo Colombo, di Cortés e dei conquistadores. Wayne ebbe la visione dell’equipaggio e dei passeggeri che indossavano le loro armature di gala, se stesso in giustacuore e brache dorati, Paul Ricci in cappa fulgida, armatura fosca e nera, al timone di un Apollo tutto nuovo, del pari ricoperta di lamine del prezioso metallo, pronto per il viaggio di ritorno e il trionfale arrivo a Plymouth. E al Vecchio Mondo...

La sirena della nave muggì, tre lunghi sibili che fecero sobbalzare Wayne, e che echeggiarono tra i grattacieli silenti, si riverberarono su e giù per Central Park, per perdersi lontano chilometri, in Upper Manhattan. Il pensiero di Wayne fluttuò assieme a quegli echi. Pareva che essi, nella loro asprezza, segnassero il vero momento del loro arrivo, liberandoli tutti dal viaggio attraverso l’Atlantico, chiudendo il passato alle loro spalle, mentre si apprestavano a scendere a terra. Come gli immigranti di un tempo remoto, ognuno si era portato un piccolo, prezioso bagaglio, una manciata di speranze e ambizioni da barattarsi con le possibilità che questa nuova terra offriva.

McNair stava pensando all’oro. Era sul ponte di carico a prua, vicino al boccaporto del carbonile, e si ripuliva la barba dalla nera polvere d’antracite. Guardava verso il molo della Cunard, e la polvere assai differente che levigava le dune sotto il sole. Nella luce del tardo pomeriggio, la sabbia era adesso quasi di liquido bronzo. Un mare di deserto era fluito attraverso Manhattan e si era congelato attorno a quelle torri smisurate. Gli assalti di un secolo di clima ostile avevano scavato i Monti Appalachi, sottraendone dai filoni nascosti quel bottino che i venti avevano portato sin lì.

Già McNair mulinava programmi, per decidere il modo migliore con cui raccogliere la messe d’oro. Anziché grattarne la superficie con vanghe e picconi o con un’escavatrice, occorreva una mietitrebbia modificata, manovrabile tra le dune, che potesse, con le sue lame appositamente alettate, raccogliere soltanto il prezioso strato superficiale.

L’ufficiale di macchina scrutò di nuovo gli enormi edifici, i giganteschi pilastri delle strade sopraelevate e dei sovrappassi in cemento. Certo, era rimasto sorpreso dalla sconfinata sagoma del ponte sospeso tra gli stretti, dalle enormi dimensioni delle vecchie Unites States Nimitz. Ma l’intraprendenza pugnace di McNair era già tornata, ed egli aveva tutta l’intenzione di affrontare a modo suo questo continente sconfinato. Gli anni di addestramento all’Istituto di ingegneria navale nei cantieri marittimi di Glasgow non sarebbero stati inutili. L’abilità tecnica per far risorgere questo gigante in letargo, per svegliarne le ferrovie, le dighe, i ponti, le miniere e le industrie, era molto simile a quella di cui lui era in possesso. Gli esperti di computer e i maghi delle telecomunicazioni sarebbero venuti dopo, quando il meccanismo di base avesse marciato regolarmente e con decisione.

Durante il secolo passato, la piccola colonia americana in Scozia era andata quasi del tutto assimilandosi alla comunità locale, però McNair aveva sempre saputo che un giorno sarebbe andato negli Stati Uniti. Aveva bisogno di quelle immensità e di quei calibri per dare concretezza ai propri talenti, che, ne era certo, andavano ben al di là di quelli di un semplice ingegnere marittimo. Veniva da una famiglia le cui radici affondavano nelle grandi tecnologie del passato americano – uno dei suoi antenati aveva lavorato nel team della NASA che aveva portato l’uomo sulla luna.

Quando era stato emanato il bando di concorso per prendere parte al viaggio dell’Apollo, McNair era secondo ufficiale di macchina su una nave carboniera sulla linea Murmansk-Newcastle. Il posto non allettava nessuno, però McNair si era offerto volontario senza pensarci un attimo, anche se fosse stato escluso dalla spedizione nell’entroterra... Adesso, dopo aver spinto l’elica e le macchine dell’Apollo a varcare l’Atlantico, era più che mai pronto a sbarcare e a mettere in movimento le cose.

La presenza dell’oro era un incentivo extra, un segnale per lui a rinsaldare le sue ossessioni, arrivando fino in fondo. I combustibili fossili (carbone, gas e petrolio) potevano anche essersi esauriti, ma l’America aveva sempre qualche asso imprevisto nascosto nella manica. Personalmente, McNair non si curava del valore ornamentale e finanziario dell’oro, ma gli altri sì. Con l’oro, quelli dell’Apollo potevano comprare carbone, bauxite, legno e minerali ferrosi dalle fatiscenti nazioni dell’Africa meridionale e del Sud America.

McNair contemplava fiducioso la metropoli deserta, ricordando a se stesso che scopo principale della spedizione dell’Apollo era indagare e localizzare il modesto, ma significativo, aumento della radioattività atmosferica, rilevato sul continente americano in anni recenti. Forse il cuore di una delle vecchie centrali nucleari aveva cominciato a manifestare perdite pericolose, o una abbandonata testata nucleare, in qualche vecchio dimenticato deposito, aveva raggiunto la massa critica. Quali fossero le ragioni, le alternative solleticavano insistenti McNair. I due fisici, Ricci e Summers, per esempio: due cervelli che non vedevano oltre i loro contatori Geiger. Ma se soltanto fosse stato possibile imbrigliare quella dormiente potenza nucleare, allora il letargico gigante si sarebbe destato, per l’inizio di una terza rivoluzione industriale.

Per Orlowski, che se ne stava alla murata di prua, con uno sguardo furibondo puntato sul capitano Steiner, il primo impatto visivo con i vuoti grattacieli di Manhattan stimolava sentimenti ben più ambiziosi. Anzitutto, lui non aveva mai desiderato partecipare alla spedizione. Dopo tre anni, profittevoli ma ascetici, a dirigere l’attività di nuovi bacini carboniferi nell’Artico – la Novaja Zemlja – si sarebbe aspettato una comoda scrivania a Mosca, alla direzione del ministero per le Risorse energetiche. Ricordava che la disponibilità dell’incarico di capo spedizione era stata menzionata in una delle tante circolari d’ufficio, che egli aveva accantonato con la massima noncuranza. Solo un pazzo poteva ambire a sprecare sei mesi a vagolare per il proibitivo continente nordamericano, selvaggio e remoto quanto la Patagonia.

C’era un po’ di preoccupazione per queste perdite di radioattività – piccole nubi di fall out erano andate allo sbando, di recente, attraverso l’Atlantico del Nord –, ma le rare spedizioni ricognitive, effettuate negli ultimi cinquant’anni, non avevano riferito nulla di positivo circa una terra da lungo tempo spogliata, da un’insaziabile nazione, di tutto il suo carbone e petrolio. Per di più, la spedizione Fleming di vent’anni prima si era conclusa con un disastro, con i suoi componenti morti di sete nelle grandi piane salate del Tennessee, dopo aver inesplicabilmente deviato dall’itinerario programmato. Quattro mesi dopo, la missione di soccorso aveva trovato, in un accampamento abbandonato fuori Memphis, un sentiero di scheletri rosicchiati dalle lucertole e dai roditori.

Per ovvie ragioni, era stato decretato allora che qualsiasi futura spedizione sarebbe stata guidata da un leader politico, il cui compito principale sarebbe consistito nel tenere sotto controllo gli impulsivi scienziati. Chiunque, aveva deciso Orlowski, all’infuori di Gregor Orlowski. Purtroppo, qualche anonimo rivale al ministero aveva scoperto i suoi antenati americani. I bisnonni di Gregor erano tornati da Filadelfia al luogo di origine in Ucraina sulla primissima nave di emigranti, assumendo di nuovo il cognome Orlowski, e non più l’americanizzato Orwell, e lasciandosi ben presto fagocitare dagli usi e costumi della Russia.

Prima di poter abbozzare la minima protesta, Orlowski si era trovato sul molo di Plymouth, Inghilterra, in qualità di capo di quel team, in apparenza di esperti, ma in realtà quanto mai strano. A volte, mentre attraversavano l’Atlantico, Orlowski aveva avuto l’impressione di capeggiare una ciurma di sonnambuli. Come lui, ogni componente della spedizione aveva origini americane, ma, diversamente da lui, nessuno aveva fatto il minimo sforzo reale per integrarsi nelle rispettive nazioni adottive. Dal primo giorno di viaggio, Orlowski si era convinto che ognuno a bordo contrabbandasse qualche carico segreto – la lunga esperienza di capo missione gli aveva fatto sviluppare un fiuto infallibile per alcol illegale, pile elettriche di mercato nero e valigette dal peso eccessivo che contenevano formelle di carbone.

Però, era divenuto presto evidente che i loro motivi per aggregarsi alla spedizione avevano poco a che fare con la finalità scientifica della spedizione stessa, e che il vero contrabbando consisteva nella loro vagheggiante chimera dell’America. La scoperta di quel giovane clandestino, Wayne, aveva agito da catalizzatore: tutti questi singoli rifugiati erano ben presto venuti allo scoperto, uniti dal condiviso sogno di “libertà” (l’ultima grande illusione del ventesimo secolo), dalla stessa convinzione che si sarebbero fatti una nuova vita, realizzando ciò che doveva avere affascinato i loro remoti antenati, avviati in greggi a superare le barriere dell’immigrazione a Ellis Island.

Cosa, tuttavia, potevano ragionevolmente trovare in quel deserto di cenere e scorie, in quelle città vuote, che esigevano, per un solo giorno di vita, più carburante di quanto ne consumasse ora l’intero pianeta in un mese? È probabile che nessuno di loro lo sapesse – con l’unica eccezione di Steiner, lì sul ponte di comando della sua nave in avaria, a sorridere tranquillo e ilare. Nessun comandante degno di tal nome poteva far colare a picco, scientemente, la propria nave, e Orlowski era sicuro che Steiner avesse voluto spingere la prua dell’Apollo all’impatto con quella statua sommersa. Le sparpagliate comunità americane in Europa occidentale offrivano tuttora ricompense, sia pur modeste, al ritrovamento della statua, ma le motivazioni di Steiner dovevano essere più complesse.

Orlowski ripensò alle ore che il capitano e quel suo giovane clandestino avevano trascorso sfogliando vecchi numeri di “Time” e di “Look”, quasi drogati dalle seducenti pagine pubblicitarie. E c’era stata anche l’imbarazzante questione del nome da dare alla nave – ufficialmente Battello da ricognizione 299. Orlowski aveva proposto E.F. Schumacher, ma, anziché appoggiarlo, gli altri l’avevano fischiato. Su invito di Steiner era stato accolto, all’unanimità, il suggerimento di Wayne: Apollo. Un gesto sentimentale, un invito a pensare in grande anziché in piccolo, ad arrivare fin sulla luna, cosa che Orlowski aveva tollerato, anche lui leggermente suggestionato dall’idea che, in certo qual modo, stavano replicando il viaggio di Armstrong. Ma il suolo d’America sarebbe stato altrettanto desolato della superficie lunare. E lui avrebbe dovuto tener d’occhio ogni cosa: ogni sorta di complotto psicologico poteva minacciare la spedizione.

Sì, l’unica era localizzare in fretta la sorgente delle perdite radioattive, comunicarne i dati via radio alla stazione di monitoraggio di Stoccolma e ritornare in Europa alla prima occasione, lasciando a una spedizione più nutrita e meglio equipaggiata il compito di neutralizzare il pericolo.

Nel frattempo, avrebbe sfruttato al meglio il forzato soggiorno quaggiù, assicurandosi qualche souvenir (attraverso la strana luce dorata sulla riva di Brooklyn si riusciva a intravedere una vecchia insegna della benzina Exxon, barattabile con qualche rublo) per Valentina e le ragazze. E le storie di viaggio, utili in occasione dei cocktail party al ministero. Su questo continente in catalessi, con le sue città morte – per un attimo Orlowski si immaginò amministratore coloniale di New York, proconsole di migliaia di chilometri di aride terre selvagge. La prospettiva lo rincuorava, mentre si accingeva a mettere piede sulla riva. Era questa una grande terra, in attesa di un grande uomo che la governasse...

Intento a strofinarsi sulla murata le mani ben curate per toglierne la fuliggine, il dottor Paul Ricci rimuginava tra sé e sé. Così, è – o era – questa, New York. La più grande metropoli del ventesimo secolo, dove sentivi battere il cuore della finanza, dell’industria, della società internazionali. Adesso è lontana dal mondo reale quanto Pompei o Persepoli. È un fossile, mio Dio, conservato qui ai margini del deserto come una di quelle città fantasma del selvaggio West. Veramente i miei antenati vissero in questi canyon smisurati? Vennero qui da Napoli su una nave che trasportava bestiame, nell’ultimo decennio del 1800, e un secolo dopo tornarono a Napoli su un altro battello bestiame. Adesso tocca a me.

Qui, comunque, le possibilità non mancano, un sacco di cose potrebbero stare nascoste ad aspettare di essere riportate alla luce. Come la bella professoressa Summers. Lei, adesso, fa la superbiosa con la sua aria distaccata, ma una volta che saremo in marcia, con la polvere sui corpi cotti dal sole, l’odore dei cavalli tra le cosce, la sensazione di pericolo mentre procediamo sulle tracce di questa perdita radioattiva (senza dubbio, il nucleo indisciplinato di un reattore, quelli avevano tanta fretta di salvarsi da non metterci attorno il cemento sufficiente), be’, allora la seducente Anne si comporterà in modo un po’ differente...

Però fa un gran caldo qui. Guarda quell’aria bollente che evapora dalle dune. Meglio, comunque, che essere ancora a Torino, con quel piccolo scandalo dei fondi per la Biblioteca istituzionale lì lì per scoppiare. Avrei dovuto deporre davanti all’inquirente, e il mio personale coinvolgimento sarebbe stato difficilmente evitabile... fallimento professionale, la prospettiva di passare i prossimi dieci anni come chimico industriale nell’impianto trattamento carne ittica a Trieste, dormire in una camerata, la puzza delle seppie essiccate. No, perfino questa città vuota è preferibile. Qualsiasi cosa si voglia dire di questa gente, erano individui in gamba e di un certo stile. Forse il bisnonno Ricci veniva da qui. Mi pare di vederlo mentre si fa scarrozzare per Broadway in una grande auto – come li chiamavano quei bestioni scintillanti di cromo? –, sì, una Cadillac.

Riguardo la professoressa Summers, le sue prime impressioni di Manhattan risultavano ancora confuse dalla pazza corsa dell’Apollo attraverso la baia ingombra di rottami e dalla collisione con la statua sommersa. A che gioco stava giocando Steiner, questo strano uomo dagli occhi intensi e irrequieti, sempre puntati su di lei? La metropoli deserta, ora a un solo tiro di sasso, aveva lo stesso effetto sconcertante, già sembrava volerla provocare. Anche adesso, c’era un innegabile splendore abrasivo in New York, una ventata dell’energia e dell’intraprendenza degli affaristi che, senza andar troppo per il sottile, avevano eretto questi grattacieli. Anne Summers era cresciuta nel quartiere ebraico americano di Berlino (Anna Sommer era il suo nome germanizzato, che, per uno strano impulso, lei aveva ri-anglicizzato in Anne Summers dopo la prima notte a Plymouth), e New York occupava un posto speciale nei suoi ricordi di espatriata. C’era anche un cocktail, il Manhattan, una miscela di whisky e vermouth. I nativi europei avevano sempre criticato i cugini di discendenza americana per i rozzi gusti dei loro antenati, ma ad Anne piaceva il sapore non ben definito del Manhattan, con le sue memorie ambigue di alberghi lussuosi, di fastose limousine, di gangster.

Tornando però con i piedi per terra, questo “cocktail” che aveva di fronte poteva contenere, quale uno dei suoi misteriosi ingredienti, un pericoloso isotopo radioattivo. Per fortuna, aveva continuato a lavorare a pieno regime durante il viaggio, cinque ore al giorno in laboratorio, infischiandosene delle proteste e del mal di mare di Ricci. Chiaramente, l’Apollo non sarebbe stato in grado per un po’ di tempo di farli evacuare in caso di emergenza. Le ultime relazioni da Stoccolma suggerivano che i vettori del fall out nel flusso d’aria nordamericano provenissero da un qualche punto a sud dei Grandi Laghi – Cincinnati e Cleveland. Stranamente, sebbene lei non lo avesse confidato a Ricci, gli isotopi in causa erano bario e lantanio, quelli, per esempio, liberati dalle vecchie armi nucleari, le testate delle granate dell’artiglieria tattica. Forse la corrosione di un secolo si era fatta strada in uno dei vecchi arsenali nucleari.

Per il momento, lei si sarebbe dedicata scrupolosamente alle rilevazioni (tre volte al giorno) sismografiche e radioattive, a tener d’occhio Ricci (di gran lunga troppo approssimativo, ma pronto a prendersi tutto il merito) e a proteggersi l’immacolata carnagione da quel sole barbaro. Anzitutto, però, perché si era offerta volontaria, rinunciando all’appartamentino, piccolo ma confortevole, di Spandau, al suo piacevole, anche se pressante, amante, un farmacologo di mezz’età del Collettivo statale di veterinaria, alla razione mensile straordinaria di carne? Nonostante tutto questo, lei aveva bisogno di respirare, di proiettarsi in avanti, di sognare, anche. Evitando lo sguardo di Steiner, rivolse gli occhi ai grandi, crudi edifici, imponenti nella loro brutalità. Sapeva di essere arrivata nell’ultimo posto al mondo dove ancora i sogni potevano spiccare il volo.

Quanto al capitano Steiner, se ne stava solo sul suo ponte, la schiena affaticata contro i raggi della ruota del timone. Senza curiosità alcuna, aveva osservato il comportamento del proprio equipaggio e dei passeggeri, tentando di indovinare come avrebbero reagito nei momenti successivi. Era stato un lungo viaggio, una truffa all’americana nel suo genere, con parecchie decisioni rischiose da prendere. Ma, come da programma, aveva portato a riva l’Apollo ferito, sul banco fangoso, di fianco al molo della Cunard, nello stesso spazio un tempo occupato dalle maestose Queen. Lì sarebbe rimasto, il vecchio Apollo, per il tempo che gli fosse stato sufficiente a portare a termine la propria indagine privata.

Steiner controllò il leggero tremolio alle proprie mani, col ricordo dello sprint azzardoso lungo l’ultimo tratto della baia. Per fortuna, la statua sommersa non era stata spostata dalle correnti. Era rimasta esattamente in linea con la poppa della Nimitz, come descritto dal vecchio capitano della nave da ricognizione, là a Genova, con cui Steiner aveva passato così tante ore della franchigia, mescendo pazientemente grappa. Andò col ricordo ai lunghi anni di servizio nella marina militare israeliana, a pattugliare la gora di mulino del Mediterraneo correndo dietro ai pirati dell’OPEC. Indipendentemente dalle profondità oceaniche dell’Atlantico, egli stava preparandosi, in realtà, non ad affrontare le immensità marine, ma la terra senza confini, il silente deserto del continente americano, tanto dissimile dalle lande in ebollizione d’Israele, di Giordania e del Sinai.

Cominciò con l’eliminare dalla mente ogni cosa che non fosse il territorio al di là delle porte della metropoli, quelle porte spalancate alla fine delle lunghe arterie che davano sul continente abbandonato, su una terra grande come qualsiasi oceano, sulla quale egli presto avrebbe navigato, discendente dei fisici di Phoenix e di Pasadena, i quali si erano sempre rammaricati in segreto di non essere stati generati da uomini delle pianure e da astronauti. Adesso era tornato alla sua vera patria, dove presto avrebbe cavalcato, un piede nella staffa della Terra, l’altro, con un po’ di fortuna, nello spazio.

5. 
Il mare nell’entroterra

Tutti, in massa, stavano correndo a terra, lasciando a bordo solo lui! Sorpreso da quella febbre dello sbarco, da quell’arrembaggio verso riva, a Wayne parve che le sue mani fossero incatenate al parapetto, quasi Orlowski gli fosse scivolato alle spalle con un paio di manette. Un’eccitazione improvvisa si era impadronita dei marinai, così come dei passeggeri, un bisogno a lungo represso di gettarsi sul suolo americano. Un attimo prima erano tutti lì a rimirare i grigi grattacieli e le vie deserte; un attimo dopo, in corsa sfrenata a conquistare la passerella. Marinai che abbandonavano le pompe sparivano nel castello di prua per emergerne con sacche e valigie vuote, ansiosi di saccheggiare ogni negozio della città.

Soltanto Orlowski volgeva la schiena alla riva. Come una belva, si agitava sul ponte, muggendo al capitano attraverso il suo megafono tascabile. “Steiner! Richiami i suoi uomini! Non è capace di controllare il suo equipaggio? Capitano!”

Ma Steiner se ne stava tranquillamente appoggiato al timone, come un bonario gondoliere che osservi un gruppo di turisti troppo facili all’entusiasmo lasciare la sua imbarcazione.

Il primo a raggiungere la riva fu McNair. Inerpicatosi sulle sartie dell’albero di prua, aveva lanciato qualche barbaro grido di guerra scoto-americano, e aveva spiccato un salto sul sottostante banco di fango. Era sprofondato fino alle cosce nella melma acquosa, se n’era svincolato e aveva superato la scarpata trasudante. Quelli accalcati sulla passerella l’avevano osservato, in attesa di vedere se succedesse qualcosa al temerario. McNair aveva raggiunto il pianale arrugginito del molo della Cunard, poi era scattato al galoppo verso la più vicina delle grandi dune che traboccavano dalle strade sul lungofiume. Wayne vide le sue braccia sporche di fango sollevare uno spruzzo di polvere dorata, mentre si chinava e afferrava la sabbia luminosa. Poi, la figura sparì oltre la cresta della duna, mentre la voce, attutita, risvegliava gli echi tra gli isolati.

Nel giro di pochi minuti, l’equipaggio aveva steso sul banco di fango una improvvisata passerella di gommoni e assi del ponte e si era avviato verso la città, agitando valigie in segno di saluto. Dietro vennero i componenti della spedizione, mentre Steiner osservava dal ponte di un Apollo abbandonato. Orlowski si era posto alla testa del gruppetto, con un cappellino a protezione del cranio pelato. Adesso che avevano lasciato la nave, gli era tornato il buonumore, ma non mancò di sbirciare il contatore Geiger in mano a Paul Ricci, come se si fosse quasi aspettato che le vie silenziose ticchettassero di radioattività.

“Straordinario,” confessò. “Mi sento come Cristoforo Colombo. A regola, adesso dovrebbero apparire i nativi, recando doni tradizionali di hamburger e fumetti. Ma siamo proprio al sicuro?”

Anne Summers fece del suo meglio per tranquillizzare il commissario. “Caro Orlowski, si rilassi pure. Non ci sono indigeni, né traccia di radioattività nel raggio di centocinquanta chilometri. Il suo rischio più grande è sbattere contro un’auto parcheggiata.”

Ricci si inginocchiò nella sabbia fine. Ne raccolse una manciata, seguendo con occhi attenti le impronte che McNair aveva lasciato sulla duna.

“È notevole, Anne. Anche così da vicino, sembra oro. Varrebbe la pena di fare un’analisi: vorrei riservarmi lo spettrometro, stasera, per un’oretta.”

Wayne li seguì a ruota, ansioso di andarsene per i fatti suoi. Si volse a guardare Steiner che gli segnalò di andare avanti, indicando la città. Le complesse motivazioni del capitano lasciavano Wayne perplesso e inquieto. Mentre Anne Summers sostava per scuotersi la sabbia dalle scarpe, il giovane fece per oltrepassare lei e Ricci.

“Wayne!” Orlowski lo afferrò per un braccio. “Non toccare nulla! Sei un clandestino, ricordalo. Non hai alcuno stato ufficiale in questo emisfero.”

Ridendo, Wayne si liberò dalla stretta. Per la prima volta, si sentiva a pari livello. “Gregor, per favore! Qui c’è tutta l’America per tutti.”

Spiccò la corsa verso le grandi dune che, dal lungofiume, invadevano il bacino dei moli. La sabbia luminosa sembrava attenderlo, con le sue ondulazioni calde di sole, un seno dorato in cui egli si lanciò felice.

Nelle ore successive, inebrianti ma disordinate, effettuarono la prima incursione attraverso la città vuota. Mentre procedeva a fatica lungo il canyon soffocante e coperto di dune che un tempo era stato la 7a Avenue, Wayne non tardò molto a scoprire che, se in qualche luogo d’America le vie erano lastricate d’oro, quelle di Manhattan facevano eccezione. Il tappeto aureo che sembrava ricoprire la città di un tesoro che superava i sogni più folli dei conquistadores era stato una pia illusione. Tra l’eco delle grida e dei richiami lontani dei marinai, tra il fracasso di vetrine infrante nei bar e nei negozi, si rese conto d’essere circondato da un’aridità avara, di deserto e di sabbia, una scabra distesa di sabbia color bronzo, infuocata da un sole implacabile.

Sostò tra la cenere di quella che era stata una grande centrale solare termoelettrica. Si immedesimava nella delusione di McNair, ma lo scorno sarebbe stato utile, avrebbe lasciato nelle loro menti un ricordo incancellabile del primo impatto con l’America. E, allo stesso tempo, il barbaglio dorato che lo circondava era una pungente memoria di tutti i suoi infondati timori. Wayne si era aspettato di trovare le vie bordate di automobili scintillanti, quelle Ford, Buick e Chrysler le cui elaborate carrozzerie aveva studiato sulle vecchie riviste illustrate, simboli della velocità e dello stile di vita degli Stati Uniti, eloquenti, dolorosi archetipi della crisi energetica.

Ma le dune avevano un’altezza di tre metri come minimo, arrivando fino al secondo piano dei palazzi degli uffici. Metà dei Monti Appalachi era stata distrutta dal sole per estrarne questo diluvio di roccia e polvere. Targhe stradali e pali dei semafori emergevano dalla sabbia, una flora metallica arrugginita, vecchie linee telefoniche che correvano all’altezza dei fianchi a costituire un labirinto di passerelle pedonali. Qua e là, negli incavi tra una duna e l’altra, le porte di vetro di bar e gioiellerie, oscure grotte sotterranee.

Wayne percorse laboriosamente Broadway, oltre gli alberghi silenziosi e le facciate dei cinema e dei teatri. Nel centro di Times Square, un gigantesco cactus spingeva nell’aria surriscaldata i suoi arti di dieci metri, imponente sentinella a guardia di una riserva naturale deserta. Ciuffi di artemisia pendevano dalle insegne al neon arrugginite, come se tutta Manhattan fosse stata trasformata nel set di un film western. Una pianta di fico d’India faceva bella mostra di sé sulla finestra del secondo piano di una banca, altre piante ombreggiavano gli ingressi degli uffici di una compagnia aerea e di un’agenzia di viaggi.

All’incrocio tra la 5a Avenue e la 57a Strada, Wayne sostò a prendere fiato dopo lo sforzo di scalare le colline di sabbia. Mentre si appoggiava agli occhi polverosi di un semaforo, ci fu un improvviso fremito scaglioso da un’insegna al neon semisommersa su un edificio, a cinque o sei metri alle sue spalle. Emerse dall’ombra una piccola ma chiaramente velenosa lucertola, venuta ad accertare se l’allarmato giovanotto fosse una possibile preda.

Wayne scalciò una sventagliata di sabbia negli occhi del potenziale aggressore e si allontanò di corsa. Da ogni parte si annidava una segreta ma attiva vita desertica. Scorpioni che si contorcevano come nervosi funzionari alle finestre di vecchie agenzie pubblicitarie. Un crotalo in siesta sulla porta di una casa editrice indugiò a sorvegliare l’avanzata di Wayne, per poi snodarsi nell’ombra, in paziente attesa fra le scrivanie, simile a un impietoso cestinatore di manoscritti. Altri crotali riposavano sui davanzali incrostati di un’agenzia teatrale, facendo scattare i loro sonagli verso Wayne, quasi a licenziarlo da una penosa audizione.

Il giovane si spinse verso Central Park. Già poteva vedere le centinaia di cactus giganti, come soldati in riga, sull’intera distesa del parco, a trasformare quel rettangolo, un tempo verdeggiante, nella sua versione da deserto, una desolazione rosso-ocra traslocata dall’Arizona e depositata lì dal cielo. Zuppo di sudore, Wayne si guardò in giro nella velleitaria speranza di trovare uno di quegli idranti che erano stati parte del folklore delle estati di New York. A tratti, seguendo le linee della rete della metropolitana, il mare si era infiltrato nei canali di scolo e nelle fognature. Ciuffi di tamerici in miniatura e cespugli di zigofillacee scaturivano dai parcheggi sotterranei dei grandi alberghi, l’erba spartina soffocava l’area, già annegata nella sabbia, di Rockefeller Plaza.

Alla ricerca di qualche cosa da bere, Wayne ripercorse la 5a Avenue. Risalì una duna e, attraverso una finestra del secondo piano, entrò in un grande magazzino. Rivoli di sabbia serpeggiavano tra le serie di mobili e i vari modelli di barbecue. Una famiglia tipo di manichini agghindati sedeva a una tavola da pranzo, fissando educatamente i cibi di cera predisposti sulla tovaglia, incurante della sabbia sottile, della polvere del passato che copriva le facce e le spalle.

Decidendo di rientrare all’Apollo, Wayne si incamminò lungo la 5a, scegliendo il tragitto più fresco possibile tra gli allevamenti e i valichi delle dune. Già si sentiva oppresso da una sottile delusione, come se qualcuno fosse arrivato a New York poco tempo prima e gli avesse sottratto il suo sogno. Inoltre, c’era un che di macabro nella metropoli vuota, annientata dalla sabbia. Le antiche città desertiche dell’Egitto e Babilonia erano ben distanziate dal presente da un arco di millenni, ma, con tutte quelle sue rugginose insegne al neon, la New York che lo circondava sembrava conservata in un limbo, i suoi enormi edifici abbandonati solo il giorno prima.

Sentendo il bisogno di una nuova breve sosta, Wayne si inoltrò nel secondo piano di una grande palazzina adibita a uffici, una lunga sfilata di centinaia di scrivanie allineate, ognuna col telefono e la macchina da scrivere, come se di notte ci fosse stato al lavoro un reggimento di segretarie fantasma. Pensando alla spedizione Fleming, sollevò uno dei ricevitori, quasi aspettandosi di sentire l’allarmata voce paterna, di quel genitore da lungo tempo ignorato, che lo sollecitava a tornare alla sicurezza dell’Europa.

Nella strada brillò un lampo di luce. A Wayne, acquattatosi dietro gli stipiti della finestra, apparve, sul ciglio della duna più vicina, una figura intrisa di luce, una creatura dalle braccia dorate e una barba fiammeggiante, che si guardava attorno come un animale allo sbando, scalciando polvere.

“McNair!” Wayne scavalcò la finestra. “McNair, sono io. È tutto OK!”

L’ufficiale di macchina era coperto di sabbia scintillante. Una pellicola quasi metallica si era rappresa sul fango della sua barba, della camicia, dei calzoni. Salutò Wayne con una stanca sventagliata della mano.

“Salve, Wayne, che ne pensi dell’America? Trovato oro da qualche parte? E noi che stavamo per diventare ricchi, per imbarcare sull’Apollo un carico da El Dorado, barattare la fottuta merce con qualche macchina utensile e una sbrodolata di vernice. È ruggine, Wayne, la ruggine di cento anni...”

Wayne additò l’orizzonte a ovest. “McNair, oro e anche argento possiamo trovarne ancora. C’è tutta l’America laggiù.”

“Buon per te.” Un sorriso contorto increspò le labbra di McNair. “All’Apollo gli metteremo le ruote e lo piloteremo fino alle Montagne Rocciose.”

Rivolse un ironico saluto a un uomo in sella a un cavallo che era apparso, con tanto di berretto gallonato e occhiali da sole, da dietro i cactus giganti all’incrocio della strada, alle loro spalle. “Ha sentito, capitano Steiner? È pronto per mollare gli ormeggi? Stiamo per far vela per la Costa d’oro, verso ovest, con la prima marea...”

Con una rabbiosa pedata sollevò un nugolo di sabbia, poi annuì all’immobile cielo azzurro, alle vie silenziose, pronto a partire all’attacco di qualsiasi cosa si muovesse.

Steiner si avvicinò senza la minima fretta, incitando dolcemente la sua nera giumenta sul declivio sabbioso. Dietro gli occhiali scuri, la sua faccia era priva di espressione. Guardandolo dal basso, Wayne si trovò a pensare che, nonostante la sua tenuta nautica, il capitano sembrava più a suo agio in sella alla cavalcatura che non sul ponte dell’Apollo. Il caldo e la luce del deserto, la giumenta irrequieta che rimescolava la sabbia con zoccoli nervosi, il grande cactus alle spalle: l’insieme faceva sembrare il capitano un uomo delle pianure del Vecchio West.

“Quella marea non salirà mai, McNair, non prima di un milione di anni, perlomeno. Torniamo alla nave. Dagli una mano, Wayne.”

Dalla sella gli pendeva una corda arrotolata. Che Steiner avesse pedinato McNair lungo le vie insabbiate, in attesa di prendere al laccio l’ufficiale di macchina e rimorchiarlo come un giovane manzo ribelle e spaventato dalla propria ombra? Mentre tornavano all’Apollo, Wayne guardò il capitano con rinnovato rispetto. Gruppi di marinai, ugualmente diretti alla nave, comprendevano alcuni ubriachi di whisky saccheggiato, altri che spingevano a calci le valigie stracolme. Uno di essi rimorchiava, tenendolo per i capelli artificiali, il manichino in fibra di vetro di una donna nuda, articolo da tempo sconosciuto in Europa, razionata anche nei tessuti. Orlowski attendeva sul molo della Cunard, sventolandosi spensieratamente la faccia con uno Stetson nuovo, preso poco prima. Ricci stava lagnandosi con Anne Summers, la quale passeggiava tra la sabbia, una mano sulla crocchia allentata, quel nodo da nonnina che avrebbe rivelato l’io americano nascosto della proprietaria.

Saldo in sella, Steiner si mosse dietro tutti loro, aspettando che fossero a bordo, indenni, quasi fosse stato in procinto di abbandonarli là, e poi andarsene, solo soletto, ad affrontare l’entroterra, il grande mare che era quel continente deserto.

6. 
Il Grande deserto americano

Alle sette di quella sera, quando l’aria cominciava finalmente a rinfrescarsi, un piccolo gruppo di ricognizione si avviò lungo le vie in ombra verso il perimetro nord-ovest della città deserta. Steiner cavalcava in testa, seguito da Orlowski e da Anne Summers, con Wayne in coda. Ricci era stato lasciato a bordo, a smaltire nella sua cabina la rabbia, dopo un’accesa discussione col capitano, che gli aveva sequestrato una pesante pistola automatica, asportata poco prima da un negozio di armi.

Manhattan era silenziosa, i suoi vertiginosi edifici raccolti in se stessi a meditare sul loro stato derelitto, mentre il sole andava spostandosi nel cielo d’occidente. Attraversarono il ponte George Washington e sostarono a guardare il canale largo un chilometro e mezzo del fiume Hudson.

Davanti a loro si estendeva una ininterrotta distesa di sabbia disseminata di cespugli d’artemisia, una popolazione di cactus e fichi d’India. Un secolo prima, l’Hudson era andato in secca, e adesso era un ampio uadi pieno della flora desertica arrivata lì dal New Jersey. La luce aspra e brillante del primo pomeriggio aveva ceduto ai rossi colori terrosi della sera. I quattro rimasero silenziosi in sella ai loro cavalli, sull’orlo della superstrada sommersa a metà dalla sabbia. Oltre costa del New Jersey, Wayne poteva vedere il profilo rettangolare di edifici isolati, le facciate verso il tramonto simili a mesas della Monument Valley. Già erano arrivati in un’autentica copia dello Utah o dell’Arizona.

Lì vicino c’era un piccolo edificio di sei piani, adibito a uffici, le cui porte di vetro erano state da tempo immemore scardinate da vandali. Impastoiati i cavalli, i quattro salirono le scale intorno all’ascensore e raggiunsero il tetto. Da lassù contemplarono la terra vuota, come potenziali acquirenti a cui fosse stata offerta in vendita una landa selvaggia.

“È un deserto...” In segno di rispetto, Orlowski si tolse lo Stetson, portandoselo sul petto grassoccio. “Nient’altro che deserto, probabilmente da qui fino al Pacifico.”

Anne Summers si fece schermo agli occhi per difenderli dal disco del sole, adesso tagliato a metà dall’orizzonte. L’alone vermiglio conferiva al suo volto un colorito animato, come se la giovane fosse stata una convalescente che dimostrava già nel primo giorno dal suo arrivo in un’oasi del deserto un significativo miglioramento. Automaticamente, toccò la spalla di Wayne, quasi fosse preoccupata per la salute del giovane clandestino.

“È strano e allo stesso tempo familiare. Mi sento come se fossi già stata qui. Gregor, sapevamo che il clima era cambiato.”

“Ma non fino a questo punto. Qui è come il Sahara nel ventesimo secolo. Comprometterà la missione, non siamo attrezzati per questa sorta di terreno. Lei che ne dice, capitano?”

Steiner si era tolto gli occhiali da sole, e fissava al di là del fiume in secca. La sua faccia intensamente abbronzata era più che mai simile al grifo di un falco, con gli occhi infossati sotto la sporgenza della fronte.

“Non sono d’accordo, commissario,” rispose placidamente. “È tutto quanto ben più di una sfida. Afferri l’idea, Wayne?”

Wayne afferrò il concetto, fin troppo. Il mattino seguente, mentre Orlowski e Anne Summers si occupavano del trasferimento a terra delle attrezzature della spedizione, si unì al gruppo di marinai armati che doveva esplorare l’area periferica di New York. Al comando di Steiner, si spinsero per quindici chilometri in pieno deserto, una desolazione bruciata dal sole, che lambiva i Monti Catskill e, quasi sicuramente, si estendeva anche al di là di essi. Qua e là, a Jonkers e nel Bronx, trovarono una sorgente d’acqua in una condotta di fianco all’autostrada, o qualche palma da datteri, che spuntava dal pavimento fessurato di una piscina d’albergo. Ma erano piccole eccezioni, non certo tali o tanto frequenti da sostenere una lunga spedizione nell’entroterra.

Lo spettacolo del continente al collasso non faceva che spronare Steiner – le risorse, a lungo dormienti, per la sopravvivenza in quel mondo inaridito stavano ora emergendo. Era però innegabile l’impatto sconvolgente con quella nazione, un tempo potente e adesso prostrata sotto il sole polveroso.

Cavalcarono attraverso i sobborghi silenziosi della Uptown, superando la precaria struttura del Ponte di Brooklyn fino a Long Island, e poi rasente lo spettro riarso dell’Hudson. L’interminabile successione di case scoperchiate, di grandi magazzini deserti e di parcheggi coperti di sabbia era di un’eloquenza paurosa. Per sottrarsi temporaneamente al riverbero accecante del sole, Wayne e i marinai vagolarono nei supermercati vuoti, i cui scaffali erano ancora pieni di cibi in scatola che nessuno aveva potuto cucinare. Salirono agli ultimi piani di lussuosi appartamenti, divenuti celle frigorifere nell’inverno del Nord America. Il deserto aveva invaso ogni cosa, ogni luogo: i cactus prosperavano negli spiazzi delle stazioni di servizio, fortificate come bunker, i cespugli spinosi ricoprivano quelli che una volta erano stati giardini e prati. All’aeroporto Kennedy, centinaia di aerei di linea stavano immobilizzati su pneumatici sgonfi, fichi d’India crescevano tra le ali di Concorde e 747 che non avevano più volato.

E tutto intorno, la commovente evidenza degli sforzi disperati degli ultimi americani per sconfiggere la crisi energetica. Dentro quel mondo un tempo eroico di gigantesche autostrade e grattacieli, ne era esistito un altro, miserevole, di capanne con stufe a legna, di patetici impianti a pannelli solari fatti in casa, piazzati sul tetto di modeste abitazioni come velleitarie sculture astratte, sgangherate ruote idrauliche le cui pale erano adesso bloccate per sempre da torrenti di sabbia. Migliaia di mulini a vento improvvisati erano stati eretti nei cortili e nei vialetti d’ingresso delle case, le loro lame erano state ritagliate dagli involucri di frigoriferi e lavatrici. E, ancor più sinistramente, le inerti vie del Queens e di Brooklyn erano piene di stazioni di servizio simili a fortini, con le feritoie ancora visibili tra i sacchi di sabbia disposti a difesa. In ugual modo, i depositi d’acqua installati dal governo lungo le strade mostravano quanto disperata fosse stata la sete in quei tempi calamitosi.

E, ovunque, le automobili. Abbandonate, cofano contro bagagliaio, gusci arrugginiti, ora portavasi di metallo per i fiori selvatici che scaturivano dai cristalli in pezzi, vani di motore dimora di topi e roditori del deserto.

Erano le auto a destare in Wayne la maggiore sorpresa. La sua infanzia a Dublino era stata nutrita di sogni affollati di automobili, cromati mastodonti dalle griglie simili a facciate di templi. Ma le vetture nelle vie e nei sobborghi di New York erano piccole e anguste, come se fossero state progettate per una popolazione nana. Molte erano equipaggiate con bombole di gas e stufette a carbone, altre erano alimentate a vapore, con tubazioni e camere di compressione grottesche e aberranti.

Quando Steiner e i marinai tornarono all’Apollo, Wayne scese di sella davanti a un grande salone di una concessionaria d’automobili in Park Avenue. Trascorse il torrido pomeriggio a scavare una grande duna penetrata all’interno, tra i veicoli in mostra, proteggendone le cromature e le carrozzerie verniciate. Aprì lo sportello di una di quelle auto in miniatura, una Cadillac Seville, lunga non più di due metri. Sedette al volante, di fronte al cruscotto zeppo di comandi e quadranti, lesse le istruzioni al di sotto del marchio della General Motors, le avvertenze contro l’accelerazione eccessiva, la velocità oltre i cinquanta chilometri orari, le frenate improvvise e non necessarie.

Wayne esplose in una risata rivolta a se stesso. Dove erano le Cadillac e le Continental di un tempo? In quale esilio era sparito il vero splendore dell’Imperial?

7. 
Gli anni della crisi

Riluttanti a dormire, marinai e passeggeri indugiarono fino a tarda sera sulla tolda dell’Apollo. Sotto il chiarore riposante delle luci di manovra, Wayne ascoltava Orlowski, Steiner e Anne Summers discutere sui piani rivisti della spedizione. Dopo due giorni a New York, stavano ancora laboriosamente cercando di inquadrare e venire a patti con lo sconvolgente enorme mutamento climatico che aveva inaridito quella terra un tempo poderosa e fertile.

Come sottolineava Orlowski, i primi minacciosi segnali del declino e della caduta dell’America si erano fatti evidenti già verso la metà del ventesimo secolo. In quegli anni, scienziati e uomini politici avevano ammonito che le risorse energetiche del mondo – in particolare, petrolio, carbone e gas naturali – sarebbero andate incontro a consumi in continuo aumento, tanto che, entro la generazione dei pronipoti, tutte le riserve allora conosciute si sarebbero esaurite. Inutile dire che queste profezie vennero ignorate. Nonostante l’attività di movimenti in favore dell’ecologia e di una tecnologia di compromesso, l’industrializzazione del pianeta, specie nelle nazioni in via di sviluppo, aveva continuato a dilagare. Però, già negli anni settanta, le risorse energetiche avevano cominciato a scarseggiare, come previsto. Il prezzo del petrolio, in precedenza piccola e non fluttuante frazione dei costi mondiali di raffinazione, di colpo triplicò, quadruplicò, e, a metà degli anni ottanta, era salito di venti volte.

Una ricerca, coordinata a livello internazionale, di nuovi giacimenti petroliferi aveva concesso un breve respiro, ma nell’ultimo decennio del secolo, mentre l’attività industriale degli Stati Uniti, del Giappone, dell’Europa occidentale e del blocco sovietico proseguiva incontrollata, avevano cominciato a manifestarsi i primi segnali di un’insolubile crisi energetica globale.

Impossibilitata a pagare il prezzo smisuratamente aumentato del petrolio d’importazione, una schiera di economie un tempo fiorenti era crollata di colpo. L’Egitto, il Ghana, il Brasile e l’Argentina erano stati costretti ad annullare vasti programmi di industrializzazione. L’ambizioso progetto di irrigazione del Sahara occidentale era stato abbandonato, la diga sull’alto Rio delle Amazzoni lasciata incompiuta. La costruzione del nuovo grande complesso portuale di Zanzibar, che ne avrebbe fatto la Rotterdam dell’Africa centrale, fu interrotta dalla sera alla mattina. E in ogni altro luogo gli effetti erano stati ugualmente drammatici. Per decisione dei governi francese e britannico, cessarono i lavori del ponte sulla Manica. I bracci, prossimi a unirsi, dei due ciclopici sistemi di ponti sospesi distavano allora l’uno dall’altro un solo miglio di mare, ma fin dall’esaurimento del petrolio del Mare del Nord e dei giacimenti di gas sul finire degli anni ottanta si era capito che il grande volume di traffico stradale preventivato non si sarebbe mai verificato.

In tutto il mondo, la produzione industriale aveva cominciato a calare. I mercati azionari zoppicavano pietosamente, scaricando su Wall Street valanghe di titoli in offerta, la Borsa e la City londinese con tutti i sintomi di una recessione ancora più deleteria di quella del 1929. Alla metà degli anni novanta i colossi automobilistici degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone avevano già ridotto di un terzo la loro produzione di veicoli. Mentre eserciti di prestatori d’opera venivano licenziati, centinaia di aziende erano costrette al fallimento. Si susseguivano le chiusure di fabbriche, dolenti code si allungavano nei sobborghi delle città un tempo prospere. Per la prima volta, in più di un secolo, i dati demografici rilevarono un piccolo ma significativo esodo dalle città alle campagne.

Nel 1997 era stato pompato da un pozzo americano l’ultimo barile di greggio. L’immenso serbatoio sotterraneo che aveva alimentato per tutto il ventesimo secolo l’economia degli Stati Uniti, facendone la più grande potenza industriale mai conosciuta, aveva stillato l’ultima goccia. Da allora in poi, l’America era stata costretta a dipendere da sempre più scarsi rifornimenti di petrolio importato. Ma le stesse riserve principali del pianeta, nel Medio Oriente e nell’Unione Sovietica, erano già quasi esaurite.

Ormai, ogni nazione industriale del mondo aveva introdotto un severo razionamento dei combustibili, e l’azione governativa ai più alti livelli si concentrava sul compito di reperire nuove fonti energetiche. Una dozzina di agenzie delle Nazioni Unite aveva avviato programmi a tappeto per attuare sistemi praticabili di energia generata dalle onde; erano stati studiati progetti di dighe per sfruttare le maree, di mulini a vento e generatori solari di ogni tipo possibile. Era stato fatto un tardivo sforzo per far rivivere l’industria dell’energia nucleare, la cui crescita era stata praticamente paralizzata dagli antinuclearisti di dozzine di nazioni, negli anni ottanta.

Queste fonti alternative, comunque, potevano soddisfare non più della decima parte dei fabbisogni degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Europa. Il prezzo della benzina nelle stazioni di servizio americane era già salito dai venti centesimi per litro del 1978 a 1,5 dollari nel 1985, e a 7 nel 1990. Dopo l’introduzione del razionamento nel 1993, il prezzo alla borsa nera era arrivato a 30 dollari al litro sulla costa atlantica, e a oltre 70 in California.

La fine era sopraggiunta rapidamente. Nel 1999 la General Motors aveva dichiarato il fallimento, per essere posta in liquidazione, seguita qualche mese dopo da Ford, Chrysler, Exxon, Mobil e Texaco. Per la prima volta in oltre cent’anni, nessun autoveicolo veniva più fabbricato negli Stati Uniti. Nel suo discorso al Congresso nell’anno 2000, il presidente Brown aveva recitato un commovente tantra zen, e dichiarato drammaticamente che da quel momento l’uso di veicoli privati alimentati a benzina era illegale. Malgrado tale decreto di emergenza, c’era stata la diffusa sensazione che il governo statunitense fosse stato colto impreparato dal precipitare degli eventi. Già da tempo, ormai, il traffico aveva cessato di fluire lungo le strade statali e interstatali d’America. Erbacce incolte, alte fino a un metro, fiorivano nel cemento screpolato delle autostrade della California, milioni di auto abbandonate e arrugginite giacevano, con i pneumatici sgonfi, nelle autorimesse e nei parcheggi della nazione.

Nessuno, però, avrebbe potuto prevedere il rapido collasso di quella un tempo strapotente nazione industriale. La scarsità di benzina aveva preparato gli americani al razionamento dell’elettricità che presto ne sarebbe seguito. Ovunque la gente aveva tollerato i frequenti blackout, l’improvviso impallidire degli schermi televisivi, le interruzioni dell’acqua potabile e delle consegne alimentari a domicilio, le lunghe camminate e le corse in bicicletta a scuola, in ufficio e al supermercato.

Però, quando la circolazione motorizzata aveva subìto uno stop definitivo nei primi mesi del 2000, il silenzio delle strade turbato solo da qualche autobus governativo e veicolo corazzato per il trasporto di rifornimenti d’emergenza, l’intera nazione sembrò perdere la propria vitalità, la fiducia in se stessa e nel futuro. La visione di milioni di veicoli abbandonati era parsa la condanna che sanzionava il fallimento della volontà di un popolo.

Nel decennio successivo, la vita negli Stati Uniti cominciò a precipitare sempre più in basso, con interminabili interruzioni dell’energia elettrica – la corrente veniva erogata per una sola ora al giorno – e il susseguirsi di razionamenti. Ovunque le industrie chiudevano, le linee di produzione si fermavano. Le grandi città si svuotavano, man mano che la gente accorreva nei piccoli centri di provincia, verso la maggiore sicurezza delle comunità di campagna, lontano dalla violenza e dai saccheggi delle metropoli agonizzanti.

Però, con la quasi totale carenza di fonti energetiche, la vita era presto divenuta insostenibile, se non a livello di primitive risorse agricole. Gli inverni feroci e le estati soffocanti del Midwest vanificavano l’intraprendenza e la fiducia rimaste delle comunità agricole impegnate nell’impari lotta, dato che il raccolto per sopravvivere era già e sempre più reso insufficiente dall’arrivo degli sfollati dalle città.

E già i primi americani avevano, sebbene a malincuore, fatto le valigie ed erano salati attraverso l’Atlantico per l’Europa. Nel Vecchio Continente, i regimi conservatori e socialisti, con una lunga esperienza di governo forte e centralizzato alle spalle, erano in grado di mantenere una vita industriale, sia pure di modesto livello. Le lampadine davano magari una luce fioca, ma almeno c’era lavoro nelle piccole cooperative e nelle miniere di carbone a gestione statale, nelle fabbriche nazionalizzate di manufatti industriali e alimentari, e soprattutto nelle burocrazie che abbracciavano metà del pianeta, dal Portogallo alla Corea.

Il tasso di emigrazione era andato aumentando, con l’abbandono sempre più frequente di aree degli Stati Uniti. Una grande flotta di navi approdava a New York, Boston, Baltimora, San Diego e San Francisco. Nel ventennio seguente, in pratica l’intera popolazione degli Stati Uniti era emigrata nei paesi d’origine in Europa, Africa, Asia e Sud America, un’enorme migrazione in senso contrario a ricalcare l’originario passaggio verso ovest di duecento anni prima. Americani bianchi trovavano asilo in Italia e in Germania, nell’Europa dell’Est, in Inghilterra e in Irlanda; americani di colore in Africa, nelle Indie Orientali; i portoricani sciamavano a sud, al di là del Rio Grande.

Con l’anno 2030, il continente americano era stato totalmente abbandonato, le sue città, un tempo brulicanti, erano ora vuote e mute. Con il consenso dei partner europei, il presidente, la Corte suprema e il Congresso avevano formato a Berlino Ovest un governo statunitense in esilio, il cui ruolo restava inevitabilmente rappresentativo, piuttosto che effettivo. Dopo che il presidente Brown si era ritirato in un monastero zen in Giappone, la carica presidenziale era stata dichiarata vacante, il Congresso si era dissolto, e ogni futura elezione a cariche federali rimandata a tempo indeterminato. Il governo e la nazione degli Stati Uniti avevano cessato di esistere.

Negli anni successivi erano state poste in atto ampie misure per un adeguamento climatico in grado di assicurare la sopravvivenza delle aumentate popolazioni di Europa e Asia. Tali rivoluzionarie imprese di geo-ingegneria, volute dal governo mondiale, avevano sostanzialmente trasformato il paesaggio del continente americano. L’opera principale era stata lo sbarramento con una diga delle acque dello Stretto di Bering fra la Siberia e l’Alaska. Pompando la fredda acqua dell’Artico a sud nel Pacifico, in modo che le più calde correnti dell’Atlantico fluissero nel Circolo polare artico attraverso il varco della Groenlandia, si era ottenuto che gli interi climi del Nord Europa e della Siberia venissero rivitalizzati. Per la prima volta, le temperature invernali erano risalite al di sopra del punto di congelamento, i ghiacciai permanenti si erano sciolti, e milioni di ettari di terra selvaggia erano stati resi disponibili per l’agricoltura e l’apertura di miniere carbonifere, con i raccolti estivi di grano possibili ben entro il Circolo polare artico.

Purtroppo, le conseguenze per gli Stati Uniti erano state catastrofiche. Il flusso a nord della calda acqua tropicale atlantica, convogliato attraverso il varco della Groenlandia, aveva presto trasformato il clima della costa orientale. Mentre gli ultimi emigranti venivano caricati a bordo di navi militari riconvertite a Boston e a New York, una calura insopportabile gravava sulla linea costiera inaridita, nuvole di polvere incombevano sulle città abbandonate. Guardando indietro dalle murate dei convogli diretti in Europa, gli americani in fuga potevano vedere già il deserto avanzare e prendere possesso delle loro città.

Contemporaneamente, la costa americana del Pacifico era martoriata da un cambiamento climatico di uguale portata. Le gelide acque dell’Artico, pompate a sud oltre la Diga di Bering, penetravano nelle calde profondità del Pacifico come una successione di ghiacciate lame di ghigliottina. Alla metà del ventunesimo secolo, il Giappone era diventato una gelida landa solitaria, un arcipelago di ghiacciai che avevano trasformato i fianchi un tempo fertili delle colline in anelli di terrazze di ghiaccio. Centinaia di chilometri cubi di acqua fredda erano calati a sud dell’Equatore, trasformando gli atolli e le lagune assolate delle Isole Marshall in gelidi territori di pesca, dove vivevano in igloo e capanne incappucciate di neve pochi ardimentosi cacciatori di balene.

Sotto la spinta di questa marea gelata, le acque equatoriali erano fluite verso la costa americana. Una calda corrente polinesiana aveva sostituito quelle della fredda Baia di Humboldt, assalendo da sud le spiagge della California. L’aria calda carica di umidità che soffiava sulle montagne costiere aveva prodotto piogge torrenziali e inondazioni improvvise. Gli americani che stavano abbandonando lo stato, che una volta era baciato dal sole, diretti in Australia e in Nuova Zelanda, volgendo indietro lo sguardo avevano scorto i porti di Long Beach e di San Diego ammantati di immense nubi di uragano pronte a investire l’entroterra fino alle Montagne Rocciose. Le ultime notizie da Las Vegas descrivevano l’abbandonata capitale del gioco d’azzardo semisommersa in un lago di pioggia battente, con le sue roulette immobili, le luci morenti dei suoi alberghi riflesse negli acquitrini del deserto inzuppato, come un malvagio specchio che riflettesse tutto il fallimento e tutta l’umiliazione dell’America.

8. 
La terra della sete

Dieci giorni dopo l’arrivo dell’Apollo nel porto di New York, una piccola spedizione a cavallo si avviò lungo la desolata costa orientale degli Stati Uniti, attraversò il fiume Hudson ridotto a un canale di sabbia e proseguì sull’ampio e vuoto nastro che era stato, un tempo, l’autostrada del New Jersey.

A Wayne, che sedeva in serpa al carro delle provviste, impugnando con mano salda le redini dei muli, quei primi chilometri restituirono immediatamente tutta l’eccitazione provata quando l’Apollo era entrato nel porto di New York. Riparandosi gli occhi dallo splendore abbagliante della sabbia su entrambi i lati dell’autostrada, faceva schioccare da esperto la frusta per incitare i muli che arrancavano dietro gli zoccoli del robusto pezzato di Orlowski. I lontani grattacieli di Manhattan e gli isolati di Newark e Jersey City erano finalmente alle loro spalle, e, dopo le disordinate giornate di New York, si spalancavano adesso le porte del Grande deserto americano.

Sebbene non avessero trovato traccia alcuna della precedente spedizione Fleming, Wayne avvertiva un’ondata di fiducia, la certezza che avrebbero toccato l’El Dorado dei suoi sogni – non la città in sé come agognata da McNair, ma la visione degli Stati Uniti incastonata nelle pagine di “Time” e “Look”, che ancora doveva esistere da qualche parte. Wayne si lasciava cullare dal fruscio dei pneumatici di gomma del carro provviste sulla sabbia soffice. Movimento, ecco cos’era l’America, che esprimeva la sua energia, la sua fiducia in se stessa. Guardava le terre assetate del New Jersey con la sicurezza che avrebbe padroneggiato e domato quella desolazione, che in qualche modo l’avrebbe fatta rifiorire.

Già avanti di quasi trecento metri, Steiner, in sella alla sua giumenta nera, precedeva la spedizione: scura sagoma tra la nebbiolina di calore che saliva dalla strada riarsa. Sembrava, a volte, che il capitano sparisse, lasciandosi dietro un punto interrogativo sospeso nell’aria tremolante, come se stesse scivolando via in una dimensione continua e parallela. Dietro Steiner venivano i bagagli, venti cavalli carichi di provviste, materiale per l’accampamento e strumenti scientifici – metà del laboratorio a bordo dell’Apollo, ora trasferito in dozzine di sacche da sella.

“Orlowski, non può richiamare indietro Steiner? Quello sta di nuovo andandosene per conto suo...” Il dottor Ricci era smontato di sella e stava piazzando il treppiede del sismografo e i contatori Geiger, pronto a eseguire un’altra della serie di misurazioni da farsi ogni otto chilometri. Nel frattempo, Anne Summers stava togliendo dal suo involucro la radio ricevente sintonizzata col trasmettitore segnalatore di raggi gamma issato sul tetto dell’edificio della Pan Am a Manhattan. Il giorno prima, Wayne e un giovane marinaio avevano compiuto l’eroica ascesa dell’interminabile scala fino alla piattaforma degli elicotteri, dove avevano installato l’apparecchiatura, venendo ricompensati dalla visione mozzafiato del deserto americano che si estendeva fino agli Appalachi.

Come sempre, Ricci appariva stanco e di umore litigioso, mentre andava togliendosi la polvere dall’elegante giubbetto di pelle – chiaramente la selvaggia America non gli suscitava sensazioni elettrizzanti. Invece Anne Summers, Wayne era lieto di notarlo, aveva un aspetto sereno e consapevole, e stava maneggiando la radio con esperta professionalità. Tre giorni dopo l’arrivo a New York, la professoressa aveva all’improvviso eliminato il fermaglio dalla crocchia sulla nuca, da cui era emersa, come una vampa di fiamma da una granata, la lunga capigliatura bionda, che ora la proteggeva dal sole. Agli occhi di Wayne, già quella criniera luminosa faceva assomigliare la Summers a una bella vedova nomade, alla tenace ricerca di un nuovo giovane sposo sperduto nel deserto.

I cavalli coi bagagli arrancavano, a testa bassa, innervositi dal terreno disseminato di cactus. Come aveva rilevato Wayne, gli animali dovevano essere tenuti d’occhio di continuo, e la spedizione difettava del personale sufficiente. Orlowski aveva comandato a due riluttanti marinai di unirsi al gruppo, ma quelli, dopo un’ora che New York era rimasta alle spalle, avevano disertato, scivolando ed eclissandosi tra le auto e gli autocarri che coprivano il letto inaridito dell’Hudson. Naturale che i due preferissero restare a Manhattan, con gli altri marinai dell’Apollo, a riparare la nave, a scorrazzare di notte nei bar vuoti, a saccheggiare appartamenti abbandonati per un bottino di abiti esotici e giradischi che avrebbe fatto di ognuno di essi un milionario al ritorno a casa.

Wayne si era aspettato senza alcun dubbio di essere lasciato sulla nave, specie dopo la sorprendente insistenza di Steiner a unirsi alla spedizione, lasciando il comando a McNair. Ma, dopo la defezione dei due marinai, un Ricci di pessimo umore era tornato indietro al galoppo per prelevare Wayne, che ora si trovava a essere il responsabile del carro provviste. Per fortuna i muli gli ubbidivano, anche se, mentre accarezzava i loro fianchi con le redini polverose, egli andava chiedendosi come poter tenere il passo con il resto della spedizione. La superficie dell’autostrada a sei corsie era invasa dai gusci di valigie fatiscenti e di taniche. Meno male che stavano dirigendosi a sud lungo un tracciato abbastanza sgombro: le corsie in direzione nord, verso New York e il porto, erano bordate da uno sfasciume di carcasse di macchine e autobus, bizzarri veicoli con le bombole del gas sul tetto, abbandonati lì quando il combustibile era finito e i loro passeggeri avevano percorso a piedi gli ultimi chilometri fino ai punti di evacuazione.

Per tranquillizzarsi, Wayne tese le orecchie allo sciabordare e ai sussulti del liquido contenuto nei recipienti metallici alle sue spalle. Nessuno lo avrebbe lasciato sul posto: tutti loro dipendevano dal carro provviste, sia per i quattromila litri d’acqua potabile nei contenitori d’acciaio, sia per l’apparato di distillazione che avrebbe incrementato le loro razioni sfruttando eventuali pozze di acqua salata o sorgenti naturali che avessero incontrato strada facendo. In caso di emergenza, c’era sempre la possibilità di dirigersi al mare, alimentare l’alambicco con legna secca e alghe, e attendere sulla costa l’arrivo dell’Apollo. Comunque, di Wayne non potevano fare a meno. Se gli fosse venuto in mente di andarsene per suo conto, con carro e muli, servendosi dello schermo di qualche torpedone derelitto sul bordo della strada, i quattro compagni di viaggio se la sarebbero vista brutta.

“Professoressa Summers! Le spiace accelerare? Dottor Ricci!”

Wayne si riscosse, seccato. Che Steiner gli avesse letto nel pensiero? Il capitano si era fermato all’ombra di un cartello stradale che superava in altezza anche il cactus gigante che gli era vicino. Stava sollecitando i due scienziati, i quali, finito di riporre i loro strumenti, rimontavano in sella. Steiner aveva ancora in testa il suo berretto nautico, sotto la cui visiera il volto aveva già assunto l’aria priva di espressione ma guardinga dello sceriffo solitario o del pistolero. Ma Wyatt Earp, rifletté Wayne vacuamente, non aveva mai portato gli occhiali da sole...

“Allora, Wayne? Non dirmi che non ce la fai a starci dietro. Orlowski!”

“Capitano, non sono un forzato ai remi, io!” Sudando, Orlowski piantò i calcagni nei fianchi del suo cavallo pezzato, che riguadagnò al piccolo trotto i metri restanti. Con le sue gambe corte e il torace grassoccio, grondando sudore nel suo completo grigio – uno della dozzina di cui si era lietamente impossessato in un negozio dei Brooks Brothers –, il commissario già si identificava nel Sancho Panza del Don Chisciotte che era Steiner.

“Trenton... Wilmington... Atlantic City...” Orlowski sbirciò i nomi sulla segnaletica stradale, asciugandosi la faccia con uno dei fazzoletti di seta, con uguale serenità arraffati in un negozio sulla 5a Avenue. “Che aiuto avrebbero dato questi cartelli ai padri fondatori? Magari a fargli fare una inversione a U... Posso ricordarle, capitano, che il capo della spedizione sono io, e che lei ha il solo incarico di assistere nella navigazione?”

“E di selezionare le cavalcature,” aggiunse Ricci, agitandosi in sella. “Quest’animale che mi ha destinato, Steiner, è già sfiancato.”

Steiner gli girò intorno, con un elegante scarto della giumenta, scuotendo la testa pensosamente. “Direi piuttosto che è la sua schiena a essere sfiancata, dottore. Posso suggerirle di cavalcare all’amazzone?”

Mentre Orlowski stava per interporsi tra i due contendenti, Steiner fece dietro front in una sventagliata di polvere. Guardandolo allontanarsi al galoppo, Wayne ebbe un’improvvisa premonizione: un bel giorno Steiner taglierà la corda e ci lascerà a crepare qui. In realtà, è proprio questo il suo piano, anche se probabilmente non si rende conto che noi ci siamo soltanto per trasportare il suo bagaglio. Frustò i muli, tentando di raggiungere Anne Summers, ma lei si era già allontanata in avanti, annoiata da quegli uomini litigiosi.

Screzi e banali irritazioni avevano riempito i loro dieci giorni a New York. Dopo i primi entusiasmi del loro arrivo sul suolo americano, si era stabilito un marcato senso di disagio; ancor peggio, dominava il disorientamento. Le grandi dune di sabbia che arrivavano fino a Bowery Park, il vento caldo, i cactus giganti e l’implacabile bagliore del deserto che si estendeva a perdita d’occhio, tutto l’insieme rendeva privo di senso l’intero viaggio. Mentre Orlowski e Steiner litigavano circa il futuro dell’Apollo, la spedizione aveva corso il rischio di spaccarsi in tronconi. Ognuno si ritraeva nei propri sogni – non erano soltanto i marinai che stavano saccheggiando la città. Anche Anne Summers si era assicurata il suo bravo bottino, un vestito da sera, nero, lungo fino a terra, di Macy’s sulla 5a Avenue. In laboratorio, col suo specchio, aveva camminato avanti e indietro, sollecitando i complimenti di un annoiato Wayne.

Al crepuscolo, Ricci puntualmente si liberava della tenuta da lavoro per indossare uno degli sgargianti abiti arraffati nelle sartorie di New York. L’ultima sera nella metropoli, Wayne lo aveva incontrato sulla 42a, seduto sui sedili posteriori di un’antiquata limousine che il vento aveva fatto affiorare dalle dune. Indossava un abito di taglio stravagante, i risvolti della giacca come ali, tra le ginocchia una pistola arrugginita. Sul sedile di fianco a lui, mazzette di vecchi dollari “rapinati” dai cassetti di una banca vicina. Quando Wayne gli aveva rivolto la parola, Ricci non aveva risposto, gli occhi persi nella foschia di Manhattan, a inseguire un sogno da gangster.

Di tutti i componenti dell’equipaggio e della spedizione, solo Orlowski e Wayne sembravano non risentire in modo manifesto dell’approdo in America; uno senza alcuna visione prepotente, l’altro sostenuto da una fantasticheria tanto vigorosa da non poter essere intaccata in alcun modo. Il solitario Steiner era quello che aveva subìto la più radicale metamorfosi, da creatura di mare a terricolo. Per quanto riguardava l’Apollo, il capitano aveva abbandonato la nave in tutti i sensi. La sua assoluta indifferenza per lo scafo squarciato, una sua alzata di spalle che significava chiaramente che mai avrebbero fatto il viaggio di ritorno attraverso l’Atlantico avevano fatto inferocire a tal punto Orlowski che, il quinto giorno, il piccolo commissario aveva ordinato a Ricci di mettere agli arresti Steiner, chiudendolo in cabina.

Wayne ricordava la straordinaria velocità con cui il fisico aveva fatto apparire la pistola dalla manica della giacca, irrompendo nell’alloggio del capitano esattamente come avrebbe fatto un sicario. Steiner aveva assistito alla scena, divertito, le mani alzate con comico terrore, strizzando un occhio in direzione di Wayne, quasi a dire: attenzione, tienilo a mente per il futuro. Per fortuna, McNair era emerso dalla sala macchine. Placando Orlowski, aveva rivolto un saluto militare al capitano e assicurato che sarebbe stato ben lieto di restare sull’Apollo a sovrintendere alle riparazioni mentre Steiner accompagnava la spedizione fino a Washington. Tra due mesi, l’Apollo li avrebbe prelevati e avrebbe poi raggiunto Miami.

Ma adesso, mentre la colonna di cavalieri e di animali puntava a sud lungo l’autostrada del New Jersey, il tempo dei sogni egoistici era finito. Deliberatamente, Wayne si dedicò a scrutare quello che il paesaggio offriva, le infinite città polverose, separate da depositi di sale, il terreno costellato di cespugli secchi ed erbacce inaridite. Guidò i suoi muli lungo la sfilata di auto rugginose, i suoi occhi già abbastanza allenati per scorgere gli scorpioni che si divincolavano, un crotalo inquieto sotto un autobus inerte, una grossa lucertola disturbata dagli zoccoli dei cavalli. A circa un chilometro davanti al corteo, quello che sembrava un aquilone solitario roteava in cerchio sopra un imprudente roditore del deserto. Sotto un cielo di metallo rovente, tutta l’America pareva imbalsamata dalla polvere, una larva sconfinata sotto la sabbia bianca, in attesa che un potente soffio esplodesse per farla tornare alla vita.

E già Wayne si sentiva invaso da una sensazione di sfida – loro cinque erano effettivamente soli su quel continente, liberi di comportarsi come volevano. La loro unica lealtà riguardava i loro sogni segreti e ciò che gli suggerivano le loro terminazioni nervose. Adeguandosi a queste nuove prospettive, Wayne fissò Ricci col duro sguardo dell’uccello rapace che volteggiava sulle loro teste, e si chiese come afferrare e stringere il collo del fisico.

Più tardi, però, mentre si avvicinavano alla vuota città di Trenton, Wayne avrebbe scoperto che non erano affatto soli in quella terra apparentemente deserta.

9. 
Gli indiani

Un’ora prima dell’imbrunire, la spedizione si preparò per passare la sua prima notte nella landa americana. Mentre gli stanchi animali e i cavalieri arrancavano lungo l’autostrada, Steiner guidò la colonna giù per una scarpata verso un edificio isolato a un chilometro di distanza – quello che un tempo era stato un accogliente albergo di villeggiatura, di fianco a un laghetto e a un campo da golf. Lì, nel viale pietroso, dietro una fontana muta, smontarono da cavallo come viaggiatori in un caravanserraglio deserto.

Però, nessuno emerse da quell’alloggio a dar loro il benvenuto. Una bassa duna di sabbia copriva i gradini che conducevano alle porte girevoli. I vetri delle finestre che si affacciavano sul letto screpolato del lago erano quasi opachi per il sudiciume. La polvere degli anni incombeva a festoni, tende di pizzo a proteggere un’adunata di fantasmi.

Senza una parola, Steiner entrò e cominciò a esplorare l’albergo, saggiando porte e finestre. Con irritazione di Wayne, gli altri non fecero alcun tentativo di dissellare i cavalli. Orlowski e i due scienziati rimanevano inerti e svogliati vicino agli animali spossati, come comparse in costume da scheletri ciondolanti. Wayne si aspettava che Orlowski assumesse il comando, ma per una volta il commissario era mogio e assente, sbirciando, da sotto il suo Stetson impolverato e con occhi sognanti Mosca, l’arido paesaggio.

Prima di vederli crollare del tutto, Wayne provvide a scuoterli con voce gioconda: “Coraggio, signori! Tolgano pure le selle. Ricci può impastoiare i cavalli, lì, alla fontana, li abbevereremo lì. Lei può darmi una mano a spingere il carro qui dietro”.

“Wayne...?” Orlowski si tolse il cappello, lanciando un’occhiata sospettosa a quel clandestino che adesso lo dominava così chiaramente dall’alto dei suoi trenta centimetri in più. Poi finì con l’approvare annuendo. “Giusto... Professoressa Summers, dimentichi adesso il sismografo... non ci saranno terremoti almeno per un’ora. Sintonizzi la radio con New York, parleremo con McNair per sapere se c’è qualche notizia da Stoccolma. Magari, pensano di inviarci soccorsi. Ricci, dia una mano a Wayne, il giovanotto sembra sapere il da farsi.”

Dopo che ebbero dato da mangiare alle bestie e la tenda della mensa fu in piedi, Wayne lasciò i compagni d’avventura ai preparativi per la cena. Steiner era riuscito a infilarsi per una finestra nell’albergo e ispezionava i piani superiori in cerca delle camere. Entrando, Wayne si volse a guardare gli altri che stavano dandosi da fare con i cavalli e le attrezzature. Si rese conto di aver compiuto un piccolo ma significativo passo avanti nell’affermare il proprio diritto quale membro a tutti gli effetti della spedizione. Allo stesso tempo, sorgeva la necessità di tener d’occhio Steiner, che incedeva tra i tavoli del bar in penombra senza che il minimo segno di fatica trasparisse dal suo passo. Entrambi, Wayne e Steiner, stavano entrando nella loro America.

Dieci minuti più tardi, quando trovarono venti litri d’acqua salmastra nella caldaia sigillata dell’impianto centralizzato di riscaldamento, Wayne attese con un certo interesse la reazione del capitano.

“Wayne, l’acqua esiste anche da queste parti, e probabilmente in tutta l’America, in migliaia di alberghi abbandonati. Qualche litro per volta, ma sufficiente.”

“Sufficiente per un uomo solo, capitano.”

“O due. Più o meno...” Steiner fischiettò un motivetto lugubre tra sé e sé. “Ti porterò con me. Prima che sia tutto finito, Wayne, tu e io saremo in panciolle sulla spiaggia di Malibu.”

Wayne travasò il prezioso liquido in un secchio, accingendosi a portarlo al serbatoio dell’impianto di distillazione. Poteva fidarsi di Steiner? No, probabilmente. Di colpo gli venne l’idea: se il capitano li avesse lasciati, egli stesso avrebbe potuto assumere, e presto, il comando della spedizione.

“Steiner, perché è venuto in America? Qui non c’è niente.”

“Ma è proprio per questo che ci sono venuto. Che tu ci creda o no, Wayne. Qui c’è tutto.”

“Solo a me pare così, Steiner.”

Al crepuscolo, tutti e cinque si piazzarono sulle sedie di tela, sulla veranda dell’albergo, a osservare le luci morenti impallidire sulle facciate color ciliegia degli edifici di Trenton. Quelle città deserte della costa orientale, rifletteva Wayne, erano più belle di Benares o Samarcanda. Dov’erano i mercanti di gioielli, d’avorio e di spezie, gli artigiani della fiera delle vanità?

Quando ebbero finito di cenare, Steiner si allontanò al di là della superficie screpolata del lago, fucile sotto l’ascella, ovviamente in cerca di selvaggina.

“Arrosto di porcospino... Quell’uomo non prende mai fiato?” Paul Ricci si spolverò il bavero della giacca. “Vagli dietro, Wayne, guarda un po’ che intenzioni ha.”

“Wayne è stanco quanto te, Paul.” Anne Summers trattenne Wayne per un braccio. “Steiner ha bisogno di restare solo. Rimanga qui, Wayne.”

La Summers era diventata molto più carina con Wayne, da quando questi aveva ricevuto l’incarico del rifornimento d’acqua, e gli aveva estorto a furia di sorrisi seducenti qualche razione extra. Di conseguenza, egli intuiva che la donna aveva cominciato a vederlo non più come uno sprovveduto clandestino, ma come un uomo quasi coetaneo e altrettanto responsabile. Ed era lieto di tornarle utile, arrivando perfino a incoraggiare un rapporto meno formale. Lei aveva fatto miracoli con la propria razione serale d’acqua, che Wayne le aveva portato nella stanza da bagno della suite che si era scelta al terzo piano dell’albergo. E le aveva fatto omaggio di un vecchio rossetto – un vivido, untuoso bastoncino inserito in una capsula dorata, come in Europa non se ne vedevano da cinquant’anni – che aveva trovato nel cassetto di una toilette. L’esuberante arco di carminio sulla bocca della professoressa faceva impallidire le luci del tramonto. Wayne decise di tenere gli occhi aperti per scoprire altri di quei rari cosmetici.

“È stato un piacere, Anne, adesso devo andare a occuparmi dei muli.” Imbarazzato da questa prima volta che la chiamava col semplice nome di battesimo, Wayne se la filò da basso. Aveva programmato di dedicare la serata al suo diario, ma la sparizione di Steiner lo preoccupava. Dopo un’ispezione pro forma ai due muli, ora tranquilli alla fontana ornamentale riconvertita temporaneamente in abbeveratoio, Wayne si avviò lungo la riva del lago a secco. Tutto intorno si stendeva il deserto, palpitante dell’ultimo chiarore del sole, con il percorso, un tempo erboso, del campo da golf che ora veniva tagliato dalle ombre a candelabro dei cactus giganti.

Non c’era traccia di Steiner. A un chilometro dall’albergo, Wayne sostò sul sedile di una vecchia golf car elettrica incastrata in una duna vicino alla nona buca.

Fu lì che vide un’apparizione straordinaria, il primo miraggio del Grande deserto americano.

Da un folto di yucche a circa trecento metri di distanza, emergeva una fila di sei cammelli arabi. Quattro di loro portavano sulla groppa oscillante altrettanti esseri umani, figure dalla faccia scura, con lunghi burnus bianchi. Anche da quella distanza, Wayne riusciva a scorgere gli occhi guardinghi di quei nomadi del deserto, le loro mani annerite dal sole, mai troppo lontane dagli antiquati fucili appesi alla sella. Senza accorgersi di Wayne, la piccola carovana avanzò a passo spedito, puntando verso l’entrata di un motel in rovina. I cammelli procedevano accorti tra le auto arrugginite parcheggiate sul viale d’accesso, per sparire tra le polverose palme da datteri, appoggiate a un’insegna al neon, i cui caratteri erano ancora leggibili nella sera incombente.

Attento a non farsi notare, Wayne rimase seduto immobile sulla golf car. Chi erano quei personaggi guardinghi su quelle esotiche cavalcature? Arabi d’Asia venuti attraverso l’Himalaya e il Deserto del Gobi, superando poi il ponte di terra dello Stretto di Bering? Forse erano stati attirati, con i loro cammelli, percorrendo metà del mondo, dai profumi di questo nuovo smisurato deserto dove solo loro potevano essere di casa. Nonostante il loro aspetto di beduini, le loro armi, i loro occhi diffidenti, Wayne avvertiva una sensazione tutt’altro che spiacevole al pensiero di non essere solo in quel continente proibito.

Dietro di lui ci fu un frusciare di passi. Il giovane si girò di scatto e trovò Steiner di fianco alla golf car, gli occhi fissi sul vecchio campo da golf, quasi fosse in procinto di vibrare una mazzata, nel buio. Illuminato dall’ultimo chiarore del tramonto, il suo viso appariva abbronzato come quello degli arabi, con tutte le segrete strade di un continente annidate nelle pieghe profonde.

“Quindi, Wayne, non sei il primo americano. Non preoccuparti, dove quelli se ne vanno, altri possono seguirli. Penso che dovremmo presentarci.”

10. 
La nave stellare

Fiamme guizzarono dal piccolo fuoco vicino al trampolino. Le scintille volteggiarono nell’aria buia, riflesse nell’acqua stagnante della piscina e sulle bandoliere dei tre uomini e della donna intenti a mangiare carne di crotalo arrostito. Per dieci minuti nessuno aveva parlato, e adesso, mentre il fuoco andava spegnendosi, il gruppetto poteva sentire le voci lontane di Orlowski e di Ricci lanciare richiami nell’aria notturna.

Wayne tendeva l’orecchio all’agitarsi dei cammelli sotto le palme presso l’insegna al neon del motel. Steiner si chinò sul fuoco, togliendosi l’unto dalle mani, e ignorando volutamente il fucile che aveva appoggiato contro il trampolino per i tuffi. I tre nomadi e la donna accucciata alle loro spalle erano nervosi come uccelli. I loro occhi acuti frugavano il buio, inquieti al minimo movimento circostante.

“Buono, veramente – non c’è niente di meglio della cacciagione ben frollata.” Steiner buttò nel fuoco un pezzo della pelle del serpente che alimentò una cascata di braci che fece sussultare i nomadi. “Non preoccupatevi dei nostri amici. Ce ne andremo prima che riescano a trovarci qui. Adesso dimmi, Heinz, di quella visione nel cielo. Tutti quanti l’avete notata appesa in alto sopra il centro di Boston?”

“Non era una visione.” Il capo dei nomadi accennò con la testa a suo figlio e a sua nuora. Era un piccolo irrequieto formichiere d’uomo, con una lingua scattante che andava leccando dalle dita i residui della carne di serpente. “Chieda a GM e a Xerox. Non era per niente una visione, capitano!”

“Papà ha ragione: una nave spaziale gigantesca, ci può giurare, capitano.” Il figlio, GM, un giovane mai fermo un istante, sollevò il suo antico M16 verso il cielo buio. “Più alta della Torre OPEC e dell’Empire State messi una sopra l’altro.”

“Appesa sopra, lassù in alto,” confermò sua moglie Xerox. Era seduta dietro il marito, occhi brillanti, e incinta, poco più grande di un bambino. “Credevo fosse venuta a prenderci per portarci in cielo.”

“Proprio così... in cielo.” Il quarto nomade, un robusto, solenne giovane nero, lo disse con un profondo sospiro. “Si muoveva verso sud, come per dirci di andarcene, di scappare prima che venisse il grande terremoto.”

Steiner lanciò un sasso nella poca acqua che copriva il fondo della piscina. Il liquido salmastro trapelava dalle pareti screpolate della vasca, alimentata da una qualche polla sotterranea a formare quell’oasi circondata di palmizi. “Sì, i terremoti, ne sappiamo qualcosa, i nostri sismografi li hanno rilevati. Hai mai visto un terremoto abbattersi su una delle città, Heinz?”

Il più anziano dei quattro scosse la testa, guardandosi attorno timoroso, come se la semplice menzione del fenomeno potesse aprire le viscere della terra notturna. “No, mai, nessuno di noi lo ha visto – ma uno dei Professori fuori di Boston disse di aver visto Cincinnati disfarsi. Cominciò con la nave delle stelle apparsa in cielo due notti prima, poi tutta la città esplose in una fiammata. Tutto quanto ridotto in polvere in un attimo.”

“Uno strano tipo di terremoto,” commentò Steiner. “E tu, GM, sei mai stato in una delle città terremotate?”

“Roba da far venire le convulsioni, capitano. Un macello.” Con una smorfia amara, GM toccò il ventre voluminoso della sua donna, come se stesse chiedendosi dove, in quella terra esiziale, avrebbe trovato un rifugio per il figlio. “L’acqua ti avvelena, la polvere ti uccide. Anche il tuo respiro ti soffoca.”

“Le tribù che devono tagliare la corda, ma che non hanno dove andare.” Pepsodent roteò i grandi occhi. “Non a ovest, i terremoti hanno fatto fuori Cincinnati e Cleveland. Adesso la nave delle stelle si trova sopra Boston. È la fine del mondo.”

“Certo che pare proprio così,” ammise Steiner. Sorrise in modo rassicurante ai nomadi, quasi credesse a tutto quanto avevano detto quelle anime semplici. “Tu che ne pensi, Wayne?”

Il giovane non rispose, incerto su cosa pensare. Quell’ultima ora, che aveva trascorso ai bordi della piscina prosciugata, con la puzza dei cammelli mescolata all’odore della carne arrostita del serpente, gli aveva inquinato tutte le ipotesi riguardo agli Stati Uniti. Le strane storie di navi spaziali lunghe un chilometro e di misteriosi terremoti le aveva ignorate sin dall’inizio, per quanto seriamente Steiner sembrasse averci creduto. Era evidente che il capitano trovava simpatici questi innocenti abitanti del deserto e le loro visioni aleggianti nel cielo.

Eppure questi esseri cotti dal sole erano veri, autentici americani, diretti discendenti delle poche migliaia di persone rimaste sul posto mentre il resto degli Stati Uniti emigrava in Europa. Heinz, GM, Pepsodent e Xerox erano tra gli ultimi esemplari di una delle dozzine di tribù che erravano nel continente. Un’ora prima, quando lui e Steiner erano arrivati al motel, i quattro nomadi stavano scendendo dai cammelli. Avevano accolto Wayne e il capitano senza ostilità, e, ovviamente, si erano già accorti della presenza della spedizione. Circa Steiner, apparivano incerti, incapaci di localizzarne i lineamenti più scuri e gli occhi da uomo del deserto. Ma, scrutando con curiosità Wayne, i suoi capelli biondi e la pelle chiara, era parso evidente che non ritenevano il giovane visitatore un vero americano, sotto alcun punto di vista.

Wayne aveva ricambiato le loro occhiate con una certa durezza, seccato di averli incrociati sulla strada del suo sogno privato. Sotto i candidi burnus – il costume più adatto per chi vagasse nel deserto – i tre uomini indossavano vecchi vestiti grigi a righine, presi dai grandi magazzini di Trenton e Newark, la tradizionale uniforme degli Executives, la loro tribù di appartenenza. Gli ancestrali terreni “di caccia” degli Executives erano il New Jersey, Long Island e le aree, un tempo dei pendolari, attorno a New York City. Heinz, suo figlio GM e il loro giovane amico Pepsodent – avevano adottato i nomi dei prodotti fabbricati dalle grandi società omonime di Manhattan – portavano in tasca uno strano assortimento di penne stilografiche dal serbatoio asciutto e screpolati calcolatori tascabili, relitti della categoria di impiegati che essi imitavano. Ogni tanto, Heinz si infilava nelle narici un inalatore, da lungo tempo vuoto, inspirando con soddisfazione, Pepsodent estraeva e faceva brillare al cielo notturno, verso un universo in miniatura, un ammaccato portasigarette, GM esibiva tre o quattro calcolatori alla volta, premendone i tasti inerti, con un sorriso d’intesa a Xerox, come se stesse calcolando la data esatta del parto.

Insieme, erano reduci da una visita alle terre d’origine di una tribù del Nord, i Professori di Boston, alla quale apparteneva Xerox. (“Perché Xerox?” aveva chiesto Steiner, al che GM aveva dato una serie di piccole pacche sulla vita della moglie gravida, e risposto sensatamente e con un sorriso compiaciuto: “Tutte le donne di nome Xerox fanno delle buone copie”.) Poi, le premonitorie visioni nel cielo erano apparse sul porto di Boston, ed essi avevano preso, terrorizzati, la via del Sud, evitando New York, paventando l’arrivo del catastrofico terremoto.

Rosolando il serpente su uno stecco, Heinz e GM avevano parlato a Steiner delle “nazioni” americane, queste tribù di nuovi aborigeni indiani che avevano sostituito i pellerossa originali. Un tempo c’erano stati fino a tremila membri in ogni tribù, adesso erano ridotti a meno di un centinaio, dispersi dai terremoti e dai portenti nel cielo. Tutti illetterati da generazioni, e le uniche parole che sapessero leggere erano i nomi dei prodotti delle insegne pubblicitarie – i loro amici e parenti si chiamavano Big Mac, U-drive, Texaco e 7 Up. Però i Professori, così denominati per via delle grandi università che ci sono nell’area di Boston, erano uno dei clan più ricchi di risorse, distillando una sorta di alcol grezzo dalle attrezzature dei laboratori di chimica. Erano le visioni nel cielo un risultato di eccessive libagioni? Adesso i Professori erano stati costretti a spingersi su territori di caccia di tribù meno amichevoli. Di nessuno di essi, spiegava Heinz, ci si poteva fidare.

“Attorno a Washington ci sono i Burocrati – avevano grandi idee per riunire insieme tutte le tribù, finché non scoprimmo che volevano soltanto tassarci. Poi, giù in Florida ci sono gli Astronauti...”

“Che sono matti mica male!” intervenne Pepsodent con una esplosione di amichevole ammirazione. “Si sono fatti una specie di religione dell’era spaziale, con tutta la ferraglia rituale.”

“Giusto, la ferramenta,” ghignò GM. “Mai visto un cammello con su un cappotto di latta?”

Steiner rise divertito. “Non potrebbero esserci loro dietro queste navi spaziali in cielo?”

Heinz e gli altri furono d’accordo che l’ipotesi attribuiva troppa scienza agli Astronauti. Osservando quei nomadi raggrinziti dal sole chiacchierare a vanvera, Wayne si persuase che essi erano capaci di fare ben poco a parte guidare i loro sparuti cammelli da un’oasi all’altra. Quindi, poteva benissimo esistere un altro gruppo più progredito tecnologicamente, il quale stesse spingendo il gregge di questi sprovveduti aborigeni lontano dalle aree contaminate da generatori nucleari corrosi dal tempo e dall’incuria. Nessuna di queste creature aveva mai visto un aereo, cosicché anche un piccolo elicottero sospeso sulle loro teste sarebbe apparso come un’apocalisse...

“Poi ci sono i Gangsters,” stava spiegando Heinz. “Circolavano dalle parti di Chicago e Detroit. Ci sono i Gays di San Francisco. Sono emigrati dall’Ovest molti anni fa.”

“C’è qualcosa di buffo riguardo ai Gays,” aggiunse GM circondando col braccio le spalle di sua moglie, quasi a proteggerla. “Non so esattamente cosa, ma non mi piace.”

“Meglio delle Divorziate, però,” interloquì Pepsodent. “È una tribù tutta di donne, originaria di Reno. Le trovi dappertutto, si spostano di continuo. Si guardi da loro, capitano. Ti promettono di sposarti, poi la prima notte ti fregano il cammello e ti tagliano la gola prima che finisca. Una volta stavano per incastrare anche GM, te lo ricordi...?”

Mentre Steiner e il nomade più anziano ridacchiavano, Wayne aprì bocca, per la prima volta, cercando di porre fine a tutte quelle divagazioni.

“A parte le tribù... avete mai visto altre spedizioni?”

“Spedizioni?” Sorpreso dalla domanda, e dal tono brusco di Wayne, Heinz lanciò un’occhiata a Steiner.

“Esploratori,” cercò di spiegare Wayne, “arrivati dall’altra parte del mare. Ci fu una grande spedizione vent’anni fa, guidata da un uomo con i capelli bianchi...”

GM si distolse dalla contemplazione del ventre della moglie. “Allora potrebbe trattarsi dei Giocatori. Loro bazzicavano intorno a Las Vegas, avevano un uomo coi capelli bianchi che veniva dal mare...”

Prima che GM potesse concludere, echeggiò uno sparo nel buio, scuotendo la notte del deserto. Scoppi di voci, allorché rimbombò un secondo colpo di fucile. Wayne identificò le voci di Orlowski e di Ricci che litigavano mentre si aggiravano nelle tenebre.

“Non c’è problema... sono amici!” Steiner si alzò, sollevando le mani in un gesto rassicurante. Ma già i nomadi erano scattati in piedi. Trottarono via nella penombra, come pavidi animali in procinto di venire catturati.

Cinque minuti dopo, quando il capitano e Wayne tornarono alla piscina in compagnia di Orlowski e Ricci, i tre indigeni e la donna erano svaniti nella notte, portandosi dietro i loro cammelli. In un punto tra le lunghe ombre del deserto, Wayne colse il profilo di un animale che si muoveva a grandi passi tra le auto arrugginite e i palmizi.

Orlowski guardò la piscina prosciugata, i resti del fuoco e dell’arrosto di serpente. Il suo piccolo naso si storse, sensibile al lezzo dei cammelli. Scosse un dito in segno di disapprovazione verso il dottor Ricci che aveva fatto fuoco con tanta sconsideratezza, senza accorgersi del riflesso dei tizzoni contro l’insegna al neon. Rivolgendosi a Steiner, indicò le impronte di piedi nudi sulla sabbia.

“Che mi dice, capitano? Tutta una spiaggia di Venerdì? Ci ha salvato dai cannibali?”

Mentre si allontanavano dal motel, Steiner si guardò indietro, nel buio, con aria pensosa.

“Cannibali? Quelli erano americani, Wayne, americani veri.”

“Sono aborigeni,” replicò Wayne. “Avrei voluto poterli aiutare. Ma li ammiro, Steiner, non meno di lei.”

“Bene. Fiducia in se stessi, il dovuto rispetto per chi sta nei cieli e una prudente sospettosità per l’esattore delle tasse qui in terra – sono qualità che i tuoi antenati di Jamestown avrebbero approvato, Wayne. Forse, un giorno, questi nomadi potranno darci una mano.”

“Ne dubito.” Wayne accennò al deserto che li attorniava, alle guglie lontane della città vuota. “Capitano, questa non è una grande riserva. Io credo in un differente tipo di America. Spero ci sia per loro un posto laggiù.”

“Io penso di sì, Wayne. Ma spero ci sia posto per me. Ci sarà?”

“Credo, Steiner...” Il giovane stava allo scambio scherzoso, ma non aveva dimenticato le parole di Orlowski, e lo sguardo affamato dei nomadi sul suo corpo muscoloso. E adesso, c’erano gli occhi di Steiner che lo osservavano con la stessa fissità, con lo stesso scintillio di denti candidi contro lo sfondo del deserto immerso nelle tenebre.

11. 
Lo Studio ovale

Per i dieci giorni successivi, la spedizione continuò a seguire l’autostrada del New Jersey, in direzione sud-ovest, prossima meta Washington. L’interminabile nastro della strada si snodava nella nebbiolina riverberata dal calore, disseminato, chilometro dopo chilometro, di auto e camion abbandonati. Ogni sera, i cinque lasciavano la strada per trascorrere la notte in uno delle centinaia di motel vuoti e club periferici deserti lungo l’arteria, di fianco a piscine senza acqua, che sembravano coprire l’intero continente. Dopo cena, Wayne e Steiner si spingevano a cavallo, approfittando della fresca aria serale, in cerca di laghetti di potassa ancora umida e pozze saline, o di un qualsiasi segno di un pur modesto sistema fluviale alimentato dagli Appalachi, primo accenno di un clima più temperato e meno arido.

Ma l’aridità del terreno risultava più tenace che mai. Ogni tanto, lungo la distesa desertica, scorgevano i fuochi di bivacco di qualche nomade in trasferta, con i cammelli impastoiati all’ombra degli alberi di yucca. Ma dopo l’incontro con Heinz, Pepsodent, GMe Xerox non erano più riusciti ad avvicinarsi a quegli “indiani” errabondi abbastanza da poter scambiare qualche pezzo della loro attrezzatura con notizie sulle parti più interne degli Stati Uniti.

Costeggiando Trenton e Filadelfia, puntarono verso Baltimora, raggiungendo a Wilmington la Kennedy Memorial Highway. Le città deserte giacevano imbalsamate nella calura del deserto, circondate da sobborghi silenziosi, i cui giardini e campi da tennis erano coperti da polvere che andava sempre più ispessendosi. Ogni sera i lunghi profili degli isolati parevano sorgere dall’orizzonte a est, con un guizzo di magica luce da migliaia di finestre. Le grandi facciate degli edifici, nel trasmutare di tinte, da un pallido ciclamino a un vermiglio intenso, erano come enormi cartelloni pubblicitari del deserto a venire.

Eppure, nonostante quell’ambiguo benvenuto, e la probabilità che il Grande deserto americano si estendesse ben al di là degli Appalachi, fino alle Montagne Rocciose e alla costa californiana, il morale della spedizione non ne fu intaccato. Quando ebbero raggiunto Washington e percorso la Route 1 verso Constitution Avenue, Wayne aveva ormai avuto tutto il tempo per riflettere sul fatto che nessuno tra loro aveva mai alluso al viaggio di ritorno in Europa. L’eventualità di lasciare l’America e di compiere la traversata in senso inverso aveva cessato di esistere nelle loro menti.

Steiner, come Wayne aveva previsto, non si lasciò sfuggire l’occasione.

“Così, questa è Washington, un tempo la più importante capitale del mondo, sede della sua più grande nazione. Pensaci, Wayne: da qui partivano gli ordini per scatenare eserciti, vincere guerre mondiali, portare l’uomo sulla luna...”

Steiner levò in alto e fece ricadere il braccio a segnalare l’alt. La colonna di cavalieri e bestie cariche, con in testa Wayne e il carro dell’acqua, si fermò sotto l’ancora imponente frontone della National Gallery of Art.

Wayne guardò oltre il National Mall verso il Lincoln Memorial. Come il vecchio viaggiatore tra le caviglie di Ozymandias, tutto quanto poteva scorgere erano le stesse dune e gli stessi cactus che soffocavano il prato un tempo verdeggiante. Alla sua sinistra, a quattrocento metri, c’era il Campidoglio, una delle tre possenti immagini, assieme alla Casa Bianca e al profilo di Manhattan, che si era portato nel cuore dal Vecchio Mondo. Il Campidoglio che si ergeva silenzioso, circondato da cactus giganti, il suo porticato screpolato e affondato nella sabbia, la grande cupola bucherellata, un segmento crollato all’interno, come il guscio rotto di un uovo. All’altra estremità del Mall, le dune si susseguivano verso il letto asciutto del Potomac. Nel suo Memorial, Abraham Lincoln sedeva, la sabbia fino alle ginocchia, fissando pensoso le yucche e i roditori.

Wayne girò lo sguardo sui suoi compagni, aspettando da loro disappunto per lo spettacolo deprimente. Ma nessuno sembrava sorpreso, né tantomeno esterrefatto dalla scena che aveva davanti, come se tale dovesse apparire ai visitatori la città di Washington, città perduta nel deserto.

Orlowski trottò verso la testa della colonna, fermandosi all’ombra del carro dell’acqua, e si sventolò col suo Stetson. “Bene, Wayne, tutto pare in ottimo stato. Nulla risulta cambiato. Allora, capitano, procediamo.”

“Proviamo alla Casa Bianca,” gli rispose Steiner, mentre riprendevano la marcia in direzione ovest, sfilando lungo la serie di grandi musei, gusci polverosi semisepolti nelle dune. “Ci può essere una sede di comando lì. Diversamente, le faremo prestare giuramento, Gregor, quale capo del governo provvisorio.”

“Perché non la professoressa Summers?” ribatté Orlowski. “La prima donna presidente. O magari, Wayne?”

“Io sono pronto, Gregor,” fu sollecitato a confermare il ragazzo. “Sarei anche più giovane di John-John.”

Lo spirito risollevato da quel semplice scambio di battute, proseguirono tra i cactus e le yucche verso l’obelisco, non più in fila indiana, ma in ordine sparso, tanto che ben presto tra l’uno e l’altro ci fu un intervallo di una cinquantina di metri. Wayne scacciò le mosche dai fianchi dei muli. Sapeva che ciascuno era segretamente sollevato dal fatto che Washington fosse deserta, e che loro erano soli, lì, nel cuore del loro sogno.

Passarono la prima notte alla Casa Bianca. Come si aspettavano, l’edificio era vuoto, con i suoi grandi saloni di rappresentanza e gli uffici aperti all’aria della sera. La sabbia aveva scavalcato le finestre e si era riversata sui pavimenti in arabeschi di pizzo, su cui non si vedeva nemmeno un’orma. Mentre Steiner restava di guardia all’esterno, senza scendere da cavallo, Wayne e Orlowski entrarono, superando le finestre dai vetri antiproiettile, ma ora rotti, nello Studio ovale.

Inconsciamente, Orlowski si tolse il cappello. Rimase, assieme a Wayne, nella sabbia alta fino alle caviglie, a contemplare la vasta scrivania inserita nella curva della finestra. La scrivania del presidente Brown? O una sua sostituta di rappresentanza per l’ultimo comandante dell’evacuazione? Per un qualche motivo, Wayne era convinto che proprio le mani del presidente avessero toccato il ripiano di cuoio di quel mobile. Un piccolo fornello era stato acceso in un angolo, annerendo le pareti pennellate di bianco, che erano anche scarabocchiate da scritte di scarso entusiasmo – BOB E ELLA TULLOCH, TACOMA, 2015, VIVA GLI ASTRONAUTI!, CHARLES MANSON NON È MORTO! Ma la scrivania presidenziale era intatta, conservata da uno strano potere, la forza stessa della sua autorità.

“È ancora tutto qui, Wayne,” commentò sottovoce Orlowski. “Esattamente com’era...”

Sensibile alla commozione del commissario, Wayne gli pose una mano sulla spalla. “È stata qui ad aspettare lei, tutti questi anni, Gregor.”

“Wayne, generoso da parte tua...”

Furono raggiunti da Ricci e da Anne Summers, e per un’ora girarono assieme per gli uffici smantellati e le sale di rappresentanza, lungo file di telescriventi e di terminali, lacerati bollettini di emergenza e di turni d’evacuazione, dozzine di schermi televisivi inerti. Più tardi, quando il sole calò al di là del Potomac inaridito, i componenti della spedizione fecero, silenziosi, il giro dei monumenti e dei musei attorno al Mall.

Solo Wayne non si unì agli altri quattro, volendo abbeverare le bestie e disimballare le attrezzature.

Preoccupata per lui, Anne Summers tolse la sabbia dai biondi capelli del giovane. “La troveremo qui, quando torneremo, Wayne..?”

“Naturalmente. Siamo arrivati a Washington, Anne, è il vero inizio della spedizione.”

Due ore dopo, tornati all’Ellipse, trovarono che Wayne aveva già sistemato i lettini da campo all’interno della Casa Bianca. Egli destinò a sé lo Studio ovale, srotolando il sacco a pelo sul pavimento, di fianco alla scrivania, come a montare la guardia alla stanza densa di polvere. La dignità dell’ufficio presidenziale era una cosa che egli voleva tutelare, lieto che gli altri non ironizzassero su quella sua mania.

Forse era l’atmosfera di potenza che ancora aleggiava sul cuore della capitale, ma durante i giorni successivi Wayne avvertì che la spedizione cominciava a perdere di slancio, o perlomeno che lo slancio cambiava direzione, orientandosi verso un qualche nuovo obiettivo. Si erano accampati in quello che un tempo era stato il prato davanti alla Casa Bianca, con la tenda per la mensa, per le provviste e quella delle telecomunicazioni, ma Ricci e Anne Summers non sembravano molto interessati al loro lavoro scientifico. Via radio parlarono brevemente con McNair, apprendendo che i lavori di riparazione dell’Apollo progredivano regolarmente, ma sismografo e contatori Geiger rimanevano in un angolo della tenda a raccogliere polvere. Trascorrevano, invece, l’intera giornata a esplorare tutti i musei e gli edifici del Congresso, il quartier generale della NASA, la Corte suprema e lo Smithsonian Institution. A cena, in tenda mensa, discutevano delle meraviglie e delle scoperte della giornata, come dei turisti alla prima tappa di un tour continentale o economica.

“Gregor, ha visto il Nixon Memorial?” domandò Ricci la terza sera. “È notevole, deve ammetterlo. Il potere della presidenza in quei giorni...”

“Presidenza di tipo imperiale,” commentò Orlowski convinto, accennando ai palazzi imponenti attorno al Mall. “Come quella del vecchio Cremlino.”

“E il Jerry Brown Islamic Center,” aggiunse Anne Summers. “Una copia esatta in fibra di vetro del Taj Mahal, una volta e mezzo la grandezza naturale. E lei, Wayne?” chiese premurosamente. “È stato tagliato fuori da tutto. Perché non va all’Air Force Museum?”

“Ci sono stato oggi,” mentì tranquillamente Wayne. “Mi sono seduto sull’aeroplano di Lindbergh e nell’Apollo 9.”

Era contento di indulgere all’entusiasmo della professoressa. Steiner era via come sempre, spingendosi ossessivamente a cavallo attraverso i sobborghi deserti della città, onorando di tanto in tanto con la sua cupa silhouette il profilo degli edifici del Pentagono e del Watergate. La sua assenza lasciava in pratica Wayne a capo della spedizione. Ben lungi dal restare tagliato fuori, Wayne era il centro, il cardine di quella bussola oscillante... In effetti, aveva utilizzato il suo tempo libero per ripulire lo Studio ovale, spalando la sabbia fuori dalle finestre, cancellando le scritte sulle pareti. Determinate cose andavano fatte, riti di passaggio in preparazione della loro effettiva partenza. L’inizio della spedizione, aveva detto senza rifletterci. Sì, ma verso dove?

Wayne studiava i suoi compagni, aspettando che parlassero di quei giorni che li avevano visti sul suolo americano, dei campioni e documenti che dovevano essere raccolti, delle fotografie particolareggiate a futura documentazione, delle mappe da annotare con postille a beneficio delle spedizioni a venire. Invece loro rimanevano muti, attorno al tavolo della mensa, con espressioni stranamente pensose, non dissimili dal trio di manichini che aveva visto nel grande magazzino di Manhattan. Ricci si gingillava con gli auricolari della radio, col pensiero chiaramente lontano mille chilometri da McNair, ammirandosi gli stivaloni da cavallerizzo trovati in un deposito militare che Wayne gli aveva indicato. Anne Summers teneva in una mano una serie di grafici delle radiazioni, ma con l’altra andava sfogliando le pagine di una vecchia copia di “Cosmopolitan” uscita dallo zaino di Wayne. Dimentica del deserto e dei cactus che li circondavano, dei pantaloni grezzi che le fasciavano le gambe e della pelle screpolata, era incantata in un sogno di lussuose ville hollywoodiane. Anche Orlowski pareva avere in mente tutto, tranne la spedizione. Era intento a esaminare una grande mappa stradale, ma quando Wayne allungò lo sguardo oltre il tavolo, si accorse che il commissario seguiva col dito l’arteria interstatale tra il Kansas e il Colorado.

Anziché pensare ad attraversare l’America, essi, come presto scoprì Wayne, stavano iniziando quel ben più lungo safari attraverso i diametri dei loro cervelli.

12. 
Cammelli e bombe A

Sul finire della loro prima settimana a Washington, si fecero chiarissimi i sintomi della nuova direzione che la spedizione avrebbe preso. Steiner aveva trascorso la notte per conto suo, accampandosi in solitudine in una piccola tenda sul letto secco del Potomac, e, dopo la prima colazione, Orlowski se n’era andato a ispezionare il palazzo degli uffici esecutivi. Ricci e Anne Summers, in sella ai loro cavalli, avevano fatto una puntata ad Arlington per vedere il mausoleo dei tre presidenti Kennedy, lasciando Wayne a distillare i recipienti d’acqua di mare che aveva raccolto il giorno prima, con i muli, nel Tidal Basin.

A Wayne non dispiaceva affatto restare solo. Aveva già fatto il suo breve giro dei grandi musei e uffici statali, aveva ammirato con reverente timore la navicella spaziale Apollo, il Flyer di Wright e lo Spirit of St. Louis. (Stranamente, il mezzo volante che più lo aveva impressionato era stato una macchina – risalente agli ultimi anni del ventesimo secolo – azionata a pedali, il Gossamer Albatross, una fragile pedaliera volante, adesso polveroso relitto, ma un tempo un mito della sfida al sole.) Ma c’erano cose più importanti a cui dedicarsi. Dopo aver ascoltato il rassicurante gocciolio dell’acqua pura attraverso le serpentine della colonna di distillazione, Wayne partì, con la sua pala, per il Lincoln Memorial.

Per due ore lavorò nella luce fredda del mattino nel cuore dell’edificio, spalando via la sabbia che circondava la statua. Una grande duna si era depositata tra le ginocchia di Lincoln, una bianca marea di polvere che gli occhi di pietra fissavano pensosi. Dopo, la sabbia sarebbe tornata, ma la faticata, Wayne ne era sicuro, valeva la pena d’esser fatta.

Mentre si riposava sui gradini del monumento, col thermos del caffè, fu sorpreso di vedere Steiner arrivare a piedi lungo il centro del Mall, con un candido burnus fluttuante sulle spalle. Dietro di lui, due cammelli, con una corda fissata ai nasi carnosi, venivano avanti zoccolando tra la sabbia. Raggiunsero l’Ellipse, e Wayne si accorse allora che un piccolo gruppo di nomadi – Burocrati, ritenne, a giudicare dalle cravatte nere avvolte al collo nudo – si era accampato ai piedi del Monumento a Washington. Mentre le donne, dal volto scuro, anch’esse con tanto di cravatta nera, si accucciavano a terra davanti a un fuoco di cactus secchi, gli uomini si raggrupparono attorno alla nera giumenta di Steiner, ispezionandone fianchi e posteriore con occhi attenti.

Quando Wayne lo raggiunse, Steiner aveva legato i cammelli al parapetto della Casa Bianca. Stava pulendosi gli occhiali neri, tutto soddisfatto.

“Con la cavalla, ho fatto un affarone, Wayne. Sebbene diffidenti, sono troppo fuori di testa per contrattare all’osso.”

“Non mi dica che d’ora in avanti monterà un cammello?” Wayne era scettico: l’ottimismo sfoggiato da Steiner non lo convinceva. Il fluttuante burnus bianco pareva il simbolo di una nuova indipendenza e strafottenza. Che il capitano fosse nudo sotto quell’indumento? Burnus e occhiali da sole davano a Steiner l’aspetto di un moderno capo beduino, con una laurea in petrografia e un impietoso trattamento degli ostaggi.

“Naturalmente, Wayne. Avremmo dovuto servirci dei cammelli fin dall’inizio. Questi due discendono da una coppia dello zoo di San Diego. Sono loro le vere navi del deserto, non i cavalli.”

“Ma perché gli indiani si sono presi la sua giumenta?” domandò Wayne. “Mai visto uno di loro che vada a cavallo.”

Steiner si versò una tazza d’acqua calda. L’ombra scura di una barba incipiente gli accentuava la linea della mascella. “Wayne, non hanno intenzione di montare la giumenta. Il programma è di mangiarsela. La carne di cavallo è una squisitezza per questa gente. Dio sa, comunque, cos’è che li preoccupa. Tutto quel che vogliono è poter mangiare.”

Mentre la giumenta veniva condotta dietro al monumento, Steiner si avvide dell’aria desolata del giovane. “Guarda, Wayne, che anche a me piange il cuore nel vederla andare, ma siamo già quasi a zero con l’avena. Presto o tardi dovremo barattare tutti i nostri quadrupedi. Questi cammelli riescono a vivere di foglie di yucca e midollo di cactus.”

Wayne fissò il capitano con una certa sorpresa. Il pomeriggio del giorno prima avevano parlato via radio con McNair. Di nuovo in grado di tenere il mare, l’Apollo sarebbe salpato di lì a tre giorni per Norfolk, in Virginia, per il rendez-vous con la spedizione.

“Capitano, l’Apollo sarà qui tra poco. A bordo c’è foraggio sufficiente per sei mesi!”

Steiner annuì, fissando Wayne con un’aria per nulla schietta, come tornando a una realtà che l’allusione al precedente comando della nave aveva fatto riemergere.

“L’Apollo – hai ragione, Wayne. Ma veramente non stavo pensando alla nave...”

Ruminando quell’ambigua osservazione, Wayne si accoccolò all’ombra del carro mentre Steiner faceva il primo tentativo di salire in groppa ai cammelli. I grandi, pacati animali erano ben addestrati, e presto il capitano riuscì ad assuefarsi all’alta sella, al lungo passo oscillante, al modo traballante e goffo di montare e smontare, all’improvviso piegarsi delle zampe che minacciava di disarcionare a faccia avanti il cavaliere.

Mentre Steiner stava esercitandosi con i cammelli intorno all’Ellipse, due altri gruppi di nomadi arrivarono sul Mall. Ogni gruppo era formato da una mezza dozzina di componenti, tre uomini dal volto scuro e dai bianchi mantelli, il resto donne con bambini piccoli. Il primo gruppo era di Burocrati, e si accampò sugli scalini del ministero per l’Agricoltura. Il secondo, Wayne lo identificò senza difficoltà, erano Gangsters. Con passo dinoccolato, sfilarono con aria truce oltre l’ingresso della Casa Bianca, gli uomini con indosso vestiti gessati sotto il burnus bianco, le donne con capelli ossigenati e giacchini di lamé argentato stile bulli e pupe. Fedeli caricature della vecchia Chicago, fecero un indolente periplo del Mall, sbirciando con indifferenza i grandi musei e gli edifici ministeriali. Per ragioni tutte loro, decisero alla fine per i palazzi del Congresso e piantarono le tende sotto la cupola malridotta del Campidoglio.

A disagio per l’affluire degli indiani e per il fumo sinistro che dal barbecue si snodava dietro il monumento a Washington, Wayne si allontanò, inerpicandosi sulle dune che assediavano la Casa Bianca. Aveva bisogno di starsene solo, di raccogliere le idee, nel silenzioso santuario dello Studio ovale.

Però, aprendone la porta, vide che c’era qualcuno seduto alla scrivania presidenziale.

“Entra pure, Wayne,” autorizzò Orlowski. “Vorrei parlarti.” Aveva spostato il sacco a pelo di Wayne, e se ne stava semidisteso in una poltrona di vimini, pescata da qualche parte. Con un espansivo gesto della mano, invitò il giovane a farsi avanti, e spargendo così un robusto odore di bourbon. Avvicinandosi alla scrivania, Wayne vide il collo di una bottiglia sporgere dal cassetto inferiore. Sulla polvere che copriva il piano della scrivania Orlowski aveva scritto col dito:

PRESIDENTE GREGORY ORWELL 2114-2126

Il commissario nitrì una risatina indulgente e poi si ricompose, assumendo un’aria seria da gufo. “Mi sono concesso tre quadrienni, Wayne, come Roosevelt e Teddy Kennedy. Uno dei miei bisnonni era sindaco a Toledo, e anch’io di sicuro mi sarei dato alla politica. Wayne, sono talenti che uno ha nel sangue. Ma guarda un po’ che sta succedendo!”

Indicò oltre le finestre. Parecchi altri gruppi di nomadi erano arrivati, attraverso i cactus giganti, con i loro cammelli. “Cosa li sta facendo radunare qui? Parla con Steiner, Wayne, prima che quello diventi tutto indigeno. Per quanto se ne sa, una buona parte della popolazione americana può essersi data appuntamento a Washington. Che siano alla ricerca di un leader? Potremmo costituire un collegio elettorale, e votare per alzata di mano, all’uso ateniese. Accetterei la nomination, Wayne.”

Con irritazione crescente, Wayne osservò il commissario che accarezzava con le mani grassocce la scrivania. Quel ministeriale di mezza tacca e sovrappeso non sapeva niente e si infischiava del tutto dell’America; a dargliene la possibilità, avrebbe trasformato l’intero continente in un sobborgo della Siberia. Wayne ebbe l’impulso di scaraventare Orlowski via da quella sedia, via dallo Studio ovale e dalla Casa Bianca.

“È un’idea notevole, Gregor – cioè Gregory. Sarei felice di dirigere la sua campagna elettorale.”

“Bene...” Gli occhi di Orlowski si illanguidirono sognanti, mentre ripassava col dito la scritta sulla polvere della scrivania. “Tu puoi giocare un ruolo essenziale, Wayne, nella rinascita della nazione americana. Ora, mettiamo che io sia presidente. Qual è il mio primo passo in questo storico incarico?”

“Distruggere la diga sullo Stretto di Bering,” rispose immediatamente il giovane, e, quando Orlowski sollevò due occhi sorpresi, aggiunse suasivo a mascherare il sarcasmo: “Ci devono essere nel Nebraska missili nucleari sufficienti per fare il lavoro; a quanto ne so, non sono mai stati rimossi dai loro silos, solo disattivati e sigillati nel cemento. McNair è un tecnico coi fiocchi, potrebbe ripristinare le rampe di lancio, il dottor Ricci e la professoressa Summers sistemare le testate e mettere insieme un arsenale in quattro e quattr’otto. Eliminiamo la diga e facciamo riversare l’acqua artica nel Pacifico, riportiamo indietro dalla costa africana la Corrente del Golfo. Le prime grosse piogge torneranno a far verdeggiare il deserto, gli americani solcheranno i fiumi, il Kansas e l’Iowa saranno come le sue amate steppe”.

“Wayne!” Incerto se Wayne stesse parlando seriamente, Orlowski si alzò, senza traballare, del tutto sobrio. Con un gesto brusco, cancellò la scritta col suo nome dalla scrivania. “Wayne, mi hai impressionato. Alla faccia del progetto ambizioso! Dopo il mio terzo quadriennio, puoi essere tu il presidente. Ma Mosca potrebbe non approvare, vedi, tutto quel gelo perenne, il grande granaio siberiano si trasformerebbe dal giorno alla notte in una futura enorme pista di pattinaggio.”

“Ma che cosa potrebbe fare Mosca? Di fronte a un ultimatum?” insisté Wayne, curioso di vedere fino a che punto l’ipotesi fantasiosa avesse sbilanciato il commissario. “Nell’Est non ci sono armi nucleari, e nemmeno un esercito tradizionale pronto all’azione – solo un sacco di polizia e funzionari politici. Gli ci vorrebbero anni per organizzare una spedizione navale. E quand’anche fossero pronti, al Mall potrebbe già crescere granoturco più alto di un uomo.”

“Affascinante, Wayne...” Orlowski lo stava fissando come se volesse trapassarlo con lo sguardo, come se scorgesse per la prima volta nel carattere di Wayne qualcosa, una tempra ignorata in quell’uomo, non più il goffo clandestino di un paio di mesi prima. “Tutto verissimo, e una buona ragione per noi di raggiungere l’Apollo prima di andare a remengo. Voglio che il dottor Ricci organizzi un campo base a Norfolk. Partirai con lui domattina. Intanto, sgombra da qui le tue cose, puoi occupare una delle stanze delle segretarie. Io trasloco nello Studio ovale.”

“No...” Senza accorgersene Wayne si accostò di scatto alla scrivania. “Io rimango qui, Gregor. Ci va lei dalle segretarie.”

“Cosa? Wayne!” Mentre Orlowski rinculava, Wayne raccolse il cappello del commissario. I due uomini si scontrarono goffamente, pestandosi i piedi a vicenda, troppo furiosi per sentire la voce che gridava in corridoio. Wayne si trovò incastrato contro la scrivania. Orlowski gli aveva attanagliato i gomiti in una stretta poderosa, e stava cercando di lussargli il braccio destro. Ansimando, il giovane guardò le impronte delle loro mani sulla polvere della scrivania, tracce affannose di quella ridicola tenzone, i due ultimi uomini in America in un incontro di lotta libera, per la conquista della scrivania presidenziale.

“Wayne! Per amor di Dio, Gregor, lo lasci andare!”

Anne Summers irruppe nella stanza, ansante dopo la corsa nella Casa Bianca deserta, tanto simile alla moglie disperata di un presidente assassinato e abbandonato dal suo stato maggiore.

“Gregor! C’è stato un altro terremoto, un sisma di grande potenza nel centro di Boston!” Indicò le finestre, aggiungendo con voce rotta dall’ansia: “Abbiamo perso i contatti con l’Apollo. Ho paura che McNair e tutto l’equipaggio siano morti!”.

“Professoressa Summers, si calmi...” Con un’occhiata velenosa a Wayne, il commissario recuperò il proprio cappello. “Loro sono a New York, a oltre centocinquanta chilometri dal disastro. Ci dev’essere un errore negli strumenti. Non c’è alcuna faglia tettonica che passi per Boston.”

“No!” La Summers spinse via Orlowski dalla scrivania. “Non è quello. C’è stato un enorme rilascio di radioattività. I contatori Geiger sul palazzo della Pan Am stanno registrando una potente esplosione di neutroni. Non capisce, Gregor? Una bomba atomica è esplosa su Boston!”

13. 
Ovest

All’imbrunire, attesero riuniti nella tenda della radio. Finalmente, quando l’ombra dell’antenna si allungava sul Mall verso il centinaio di nomadi in osservazione, udirono la voce di McNair arrivare sulle onde corte. Più calma, adesso, Anne Summers si chinò rasente al ricevitore, ripetendo incessantemente l’indicativo di chiamata della spedizione. Per tutto il pomeriggio, mentre la professoressa si alternava a turno con Ricci e Orlowski, un’ininterrotta interferenza era scaturita dall’altoparlante, ma alle sette, l’ora concordata per il rendez-vous, udirono la voce briosa di McNair.

“Sta arrivando!” Anne zittì gli altri con un gesto. “Ma è un nastro, non riusciremo a parlargli. Dio solo sa dov’è andato a finire!”

Wayne strinse le dita attorno allo stelo dell’antenna. Tremava ancora di rabbia verso Orlowski, in preda anche a un confuso senso di colpa, quasi il suo piano di distruggere la Diga di Bering avesse provocato l’esplosione di Boston. Ascoltò la voce di McNair, distorta dalla forte elettricità statica.

“...sono le quattro qui a New York, professoressa Summers. Tra mezz’ora vado a Long Island con un gruppetto di ricognizione, quindi registro questo messaggio per le notizie delle ore sette. Per vostro aggiornamento, il lavoro sulla chiglia dell’Apollo è andato bene, questa mattina abbiamo rivettato l’ultima delle piastre di rame, siamo tutti pronti a metterci ai verricelli per tirarlo fuori dal banco di fango. Subito dopo l’una e mezza ero sul tetto del palazzo della Pan Am – Wayne rimarrà a bocca aperta nel sentire che sono riuscito a far funzionare gli ascensori. Mentre stavo sostituendo una batteria del trasmettitore del dottor Ricci, ho sentito sotto i piedi un improvviso tremolio. Tutto il palazzo si era messo a ballare, ci dev’essere stata una potente convulsione nel sottosuolo, quasi un’ondata tettonica. Si vedeva tremare Manhattan. Guardando a nord-est, ho visto un enorme lampo saettare sul deserto. È durato cinque secondi, poi è impallidito in una nube luminosa. Giù al molo tutti avevano smesso di lavorare. Il sisma deve aver fatto saltare in aria qualche vecchio deposito di munizioni a Long Island, c’è una nuvola di rottami larga una quindicina di chilometri che si muove dalla costa verso sud-ovest. Col bollettino delle sette di domani vi farò sapere quello che troveremo, Orlowski vorrà magari avvertire Mosca... Presentate i miei migliori saluti al capitano, potete dirgli che l’Apollo adesso sembra ancora più bello dell’SS Lenin...”

Mentre il messaggio volgeva alla fine, Anne Summers si accigliò, come chi ricordi un brutto sogno. Con le unghie smozzicate, la pelle screpolata e i biondi capelli impolverati, dimostrava dieci anni di più rispetto alla giovane scienziata che aveva messo piede a Manhattan. Stupidamente, Wayne non riuscì a pensare ad altro se non a darle un nuovo rossetto e una rivista di cinema.

Steiner si fece avanti, buttandosi su una spalla il burnus arrotolato. Era stato in giro sul suo cammello fino a qualche minuto prima che cominciasse la trasmissione alla radio, col suo naso aguzzo ad annusare l’aria polverosa, quasi a raccogliere i sentori dell’esplosione. Abbracciò Anne per tranquillizzarla, poi esaminò lo stampato coi numeri del trasmettitore di Manhattan.

“Questi dati della radiazione, Anne, sono indici alti, presumo?”

Orlowski si sventolò la faccia col cappello. Stava guardando Wayne, sebbene fosse evidente che aveva dimenticato il litigio di poco prima. “Quella strana nuvola, professoressa? Non ci sono altri dettagli? O dovremo aspettare il resoconto di domani?”

“Gregor...” Stancamente, Anne strappò lo stampato dall’apparecchio e ficcò il nastro di carta nel cappello del commissario. “Non ci saranno altre informazioni, né ci sarà un bollettino domani né nessun’altra sera. La nuvola che McNair e i suoi uomini sono andati a controllare è il fall out di un’esplosione atomica. Non so come o perché, forse è stata fatta partire da un sottomarino nucleare in uno dei bacini asciutti di Boston. I livelli di radioattività a Manhattan sono da zona ambra. Paul?”

Ricci stava accarezzandosi i risvolti del giubbino di cuoio nero, quasi fosse consapevole che presto avrebbe restituito l’indumento ai legittimi proprietari. “Abbondantemente. Gregor, capitano Steiner, guardino qua. 217 Fermi, 223, 225, poi oltre 254 Fermi mezz’ora fa. Tre volte il limite mortale. Ho paura che McNair e i suoi uomini, capitano, siano già bell’e morti.”

Orlowski cincischiò il nastro di carta dentro il cappello, esatta immagine di un prestigiatore di terza categoria che tenti di elaborare un nuovo trucco. Ascoltava il crescente ticchettio del trasmettitore, schioccando le dita all’unisono. Steiner uscì dalla tenda, seguito da Ricci e Anne Summers. Tra i cactus, dozzine di nomadi se ne stavano accucciati, fissando le antenne che emergevano dalla tenda radio, simboli misteriosi di un nuovo culto. Per difendere Anne dall’aria fresca, Steiner le drappeggiò le spalle col proprio burnus, un gesto che, da parte di quel capitano di mare dal volto abbronzato, pareva sanzionare che la donna gli apparteneva. Anne si inginocchiò sulla sabbia fredda e si girò a guardare Wayne, come se lo identificasse con la terra avvelenata.

“Bene, dobbiamo decidere, Wayne.” Orlowski sbirciò il grafico impazzito del sismografo, e il radioricevitore che sciorinava i suoi numeri di Fermi da incubo. Fece cenno a Wayne di seguirlo. “Parleremo agli altri... e tu vedi di appoggiarmi.”

Mentre si avvicinavano ai nomadi, il commissario sventolò minacciosamente il suo cappello. Poi, volgendo loro la schiena, disse: “Capitano, dobbiamo tornare a New York”.

Ricci assestò una pedata alla sabbia che era tra di loro. Il suo bel viso era contratto e ansioso. L’ombra seghettata dell’antenna della radio gli sfiorava la guancia, con un guizzo di sinistro presagio. “Gregor, non ha sentito? A che scopo? Quando saremo arrivati lì, saranno tutti...”

“Allora non ci resta che puntare a sud.” Orlowski tentò di ricomporsi. Estrasse dal cappello il nastro di carta, lo gettò via, lasciando che si srotolasse e fluttuasse nell’aria notturna. Uno dei Burocrati l’afferrò al volo e cominciò a mimare, scoprendo i denti candidi, la lettura dei numeri. Orlowski restò a guardarlo, incantato, per poi rabbrividire. “Questa nube, queste esplosioni nucleari, nessuno ci aveva avvertito prima che potevamo aspettarcele. Dobbiamo andare a sud, a Miami, e lì prendere fiato e aspettare una nave di soccorso.” Guardò gli altri, con aria incoraggiante. “Sì, Miami. Professoressa Summers, pensi a tutte quelle piscine...”

Si fermò perché Steiner si girò a fissarlo, una mano alzata per farlo tacere. Il capitano stava sorridendo a se stesso, un sorriso quasi euforico, come se avesse segretamente barattato il loro armamentario con il succo fermentato di cactus offertogli dai nomadi.

“No, Gregor, non andiamo a sud, neanche per tutte le piscine di Miami. Non andiamo a sud perché quella non è una direzione americana. Quando gli americani cominciarono a dirigersi a sud, ogni cosa gli andò storta.” Steiner si volse verso Wayne e gli mise una mano sulla spalla. “Giusto, Wayne? Tu sai qual è la vera direzione americana...”

“Naturalmente.” Con gesto brusco, Wayne respinse la mano di Steiner.

“Coraggio, allora. Dillo a Gregor.”

Wayne guardò la cupola mutilata del Campidoglio, illuminata dall’ultimo respiro del tramonto, guardò il circolo dei nomadi. Orlowski lo stava fissando incerto ma speranzoso, quasi Wayne fosse un giovane redentore con i suoi sogni planetari di comandare ai mari e ai venti.

“Ovest,” sentenziò Wayne.


14. 
Il diario di Wayne: parte prima

5 giugno. Manassas Battlefield

Abbiamo lasciato Washington alle sei di questa mattina, e adesso ci siamo fermati per la notte in un Holiday Inn sulla Interstatale 66. Un lungo giorno nel deserto, piccole città quasi invisibili nella nebbiolina gialla della calura, che è molto più intensa che non sulla costa. Credo che, tutto sommato, ce la caviamo meglio dei cammelli – che non sembra si ritrovino col modo che abbiamo di montarli, innervositi anche dalla contrattazione dell’ultimo minuto, quando Ricci ha dato fuori di matto cercando di scambiare il suo stallone roano col grande dromedario del capo dei Gangsters. Con sua sorpresa, il capo aveva offerto a Paul una delle proprie mogli, anziché la nave del deserto, una bionda platino che assomigliava a una bambola arrabbiata. Ma Anne si è impuntata, ha posto il veto, e Ricci ha percorso i primi otto chilometri con un muso lungo così.

Per fortuna la dura marcia non ci ha messo molto a calmarci tutti. Gli stessi cactus e cespugli inariditi, gli stessi ceppi corrosi e le pozze saline prosciugate. La strana volpe del deserto e il topo canguro che corrono e saltano, ma di indiani neanche l’ombra. Pensavo che qualcuno di loro ci avrebbe seguito, ma forse sono troppo spaventati dai terremoti. Ce ne saranno stati almeno trecento accampati al Mall, attirati lì da una qualche ancestrale memoria della potenza del presidente e del Congresso, questi nomadi che sono tutto quanto rimane dei milioni di americani autentici. Una congerie singolare, ma non ostile, a dispetto dei loro discorsi di draghi che saltan su dal terreno, di strane macchine senza ali che sfrecciano nell’aria, il tutto condito di bizzarre immagini nel cielo, una farragine di fantasie che vanno dalla familiare nave spaziale al roditore gigante, sospettoso come Topolino. Una delle Divorziate di Reno (oltremodo materna nonostante il feroce trucco blu e il mascara: mi ha trascinato nella sua tenda sui gradini del palazzo della Corte suprema e si è offerta di adottarmi legalmente!) ha persino parlato – o meglio, sproloquiato – del “Presidente dell’Ovest”, un uomo magico dalla faccia bianca e occhi severi che vive nel cielo...

Nonostante tutto questo, i vecchi grandi Stati Uniti sono ancora qui, sotto il sole del deserto – tutto quello che gli serve è la pioggia, un diluvio che duri cent’anni, per così dire. È sorprendente, ma c’è anche parecchia acqua nelle cisterne arrugginite e nei serbatoi sui solai delle case, salmastra ma quasi potabile. Steiner ha suggerito poco fa di abbandonare il carro cisterna, e io sono d’accordo. Già sta rallentando parecchio la nostra marcia, e abbiamo comunque la colonna portatile di distillazione e l’apparecchio di filtraggio. Steiner ha una fiducia sconfinata: dice che il deserto avrà cura di noi. “Soltanto, bisogna che ci sia l’adattamento, Wayne: nel modo di respirare, di dormire, camminare, pensare.” Lui il deserto se lo chiude in un abbraccio, sono sicuro che non sarà mai del tutto felice finché non sarà l’ultimo uomo in terra americana. Orlowski è silenzioso, non mi ha ancora perdonato, mi fa sentire a disagio. Ricci è come un gangster nevrotico, tutta aggressività e grilli per la testa. Anne è assai tranquilla, adesso è seduta su una polverosa poltrona nell’atrio di questo motel, pare la regina di Saba infastidita da un leggero colpo di sole. Le ho dato un cofanetto di cosmetici che ho trovato nella stanza da letto della direttrice; mentre sto scrivendo, Anne si dipinge lentamente il viso, osservandomi, nel frattempo, in modo strano...

9 giugno. Lexington, Virginia

Quattro lunghi giorni, su nel cuore degli Appalachi – i cammelli vanno, e siamo noi che ci sentiamo sfiniti ora. Poi giù lungo la Valle Shenandoah, nelle terre dei Monti Blue Ridge. Niente musica di montagna, qui, o rissosi McCoy, solo rocce roventi e sabbia. È più come il Sinai – sembriamo la tribù perduta, in tutti i sensi (abbiamo anche il nostro Mosè che ci guida, tunica bianca, mezzo capo pirata, mezzo navigatore arabo – Steiner conosce di sicuro il suo atlante dei cieli). Ieri abbiamo avuto un momento di crisi, quando ci siamo accorti di aver dimenticato tutte le pile per i trasmettitori radio. Il che vuol dire che non possiamo più comunicare con nessuna spedizione di soccorso che possa raggiungere New York o Miami. Orlowski è quasi impazzito di rabbia, non sapeva a chi dare la colpa, tutti eravamo sospetti. In groppa al suo cammello, gli è venuta la faccia rossa come un lampeggiante dei pompieri, e ci ha ordinato di tornare a Washington. Figurarsi! Nessuno di noi quattro ha accennato a muoversi. Quando Gregor ha estratto la pistola, Steiner ha sottolineato con tutta calma che probabilmente le pile se le erano prese gli indiani. Orlowski è rimasto un attimo a fissarlo – e ho avuto l’impressione che non riconoscesse né il capitano né alcuno di noi –, poi di colpo ha rimesso l’arma nella fondina e ci ha fatto segno di proseguire, come se niente fosse successo e nessuno avesse comunque l’intenzione di comunicare con Mosca.

Ripensandoci, mi sa che per qualche minuto Orlowski era tornato a essere quello di un tempo, ma che poi il deserto è intervenuto a riportarlo alla realtà.

18 giugno. Louisville, Kentucky. Interstatale 64

Accampati in un polveroso Howard Johnson sui banchi di quello che un tempo era il fiume Ohio – adesso uno uadi pieno di sabbia, yacht e motoscafi immersi in dune ondulate. Siamo tutti stanchissimi – Orlowski ha dormito in groppa al cammello per chilometri e chilometri, Anne Summers si è fatta una bella litigata con Steiner, il quale ancora una volta si è allontanato precedendoci, scomparendo per tutta la giornata, per poi tornare con i suoi trofei di caccia: tre serpenti a sonagli appesi al collo a guisa di collana. È chiaro che al capitano piacerebbe sbarazzarsi di tutti noi, ci guarda come se fossimo ospiti indesiderati di un ranch in cui si paga la pensione. Per la prima volta ho la sensazione di stargli sullo stomaco, di metterlo a disagio. Sono troppo ambizioso, voglio irrigare questo deserto in tutti i sensi, mentre lui preferisce pensare all’America come all’ultimo fondale di una scena che esalti la sua smania di essere solo.

E per la prima volta c’è una certa ansia per la questione acqua. Mentre procedevamo verso ovest attraverso il Kentucky, la terra si è fatta sempre più arida. Sta diventando difficile trovare quantitativi d’acqua, anche modesti, nelle tubazioni degli impianti di riscaldamento e nelle cisterne. Di scotch e di bourbon, però, ce n’è in abbondanza, nelle cantine e bottiglierie. Adesso mi tocca distillare l’alcol per arrivare a un venticinque per cento di acqua residua. Ci vogliono ore per il raffreddamento, e siamo qui a berci tiepidi intrugli analcolici. Quale responsabile dei rifornimenti idrici, ho assunto una veste di indubbia autorità.

Difficile credere che sia qui che si disputava il Kentucky Derby, che abbiamo appena attraversato lo “stato dell’erba azzurra”. Non c’è traccia di piantagioni di tabacco, di ghiacciati beveraggi alla menta e di vellutate praterie d’erba, solo aridità selvaggia e distese alluvionali simili a ossari. Troppo stanchi per esplorare la città. Orlowski vagola per il parcheggio delle auto come un uomo in un film in cerca delle chiavi della macchina. Ricci, che di solito arraffava ogni giorno un vestito nuovo, se ne sta seduto nell’atrio vuoto, come un allibratore a tempo perso che sia venuto al mondo un secolo troppo tardi. Anne si sta riposando nell’ex salone di bellezza, rimirandosi allo specchio, prossima a truccarsi la faccia (come ho notato che fa prima della distribuzione serale della razione d’acqua!).

Un’ora fa, uno dei poveri cammelli da carico è scivolato cadendo nella piscina vuota. Steiner, senza commuoversi, gli ha sparato il colpo di grazia, ma l’odore della povera bestia ci ha indotto a cambiare camera. Nessuno si è disturbato, stasera, a cucinare.

Come tutti i miei compagni, anch’io comincio a pensare di continuo all’acqua.

10 luglio. Mount Vernon, Illinois. Interstatale 64

1.30 p.m. Troppo caldo per viaggiare in pieno giorno. Mentre Steiner sparisce in città, noi ce ne stiamo a riposare qui in un hangar pieno d’ombra nell’aeroporto. Attraversando il Wabash, due giorni fa, un altro dei cammelli col carico è caduto in un crepaccio pieno di sabbia, e ha dovuto essere abbattuto. Nell’ora appena trascorsa, sdraiati sotto la fresca ala di un DC-8, abbiamo discusso su quale parte della nostra attrezzatura non portarci più al seguito. Orlowski era del parere di conservare l’ultimo trasmettitore radio, casomai trovassimo da qualche parte le pile adatte, ma Anne e Ricci la vedevano diversamente. D’altra parte, sembra pacifico che non abbiamo nulla da dire. Mi sono schierato con loro, e questo è sembrato chiudere l’argomento. Sempre più noto che gli altri mi danno retta. Adesso Anne riconosce effettivamente che non sono affatto un bambino e che, in un modo o nell’altro, sono io a dare alla spedizione la giusta regolata. Mi rendo conto di come le religioni siano sempre cominciate nel deserto – che è una specie di estensione della nostra mente. Lungi dall’essere un caos selvaggio, ogni roccia, ogni cactus, ogni roditore o cavalletta sembra far parte di un unico cervello, di un magico mondo dove tutto è possibile. E in quella vasta distesa biancheggiante, mi sento vicino a una qualche nuova verità verso cui sto guidando gli altri.

Comunque, la radio rimane qui, con questa antenna piena di polvere, anche se significa che adesso siamo totalmente tagliati fuori da qualsiasi contatto col resto del mondo. Una buona cosa. Con tutta la stanchezza che abbiamo addosso, perdura la quieta determinazione di continuare verso ovest.

Sorpresa: Steiner è tornato con una bottiglia di brandy californiano, “il distillato,” dice lui, “della dolce pioggia del Pacifico...” Ora è lì, seduto nell’abitacolo di un Cessna, a bere da solo, Elia rapito in cielo. È strano, ma per la prima volta ho la sensazione che noialtri quattro siamo più di casa nel deserto di quanto lo sia lui. Steiner è tuttora consapevole di se stesso; ha semplicemente barattato l’oceano aperto con i mari di sabbia del Kentucky e dell’Illinois, mentre noi siamo tutt’uno con la polvere.

28 luglio. St.Louis, Missouri. Interstatale 70

Finalmente abbiamo raggiunto i banchi del Mississippi. Scrivo queste note sul ponte del grande battello fluviale Admiral. Se e quando arriviamo in California, non sarò sorpreso se persino l’Oceano Pacifico stesso fosse prosciugato completamente. Trattenuti per tre giorni in attesa che Orlowski si riprendesse da un attacco di febbre per aver bevuto acqua infetta – ero diventato un po’ trascurato col distillatore, ma è un lavoro ben duro, con questo caldo, far legna spaccando porte di motel e staccionate. Il commissario era nella sua stanza d’albergo a Mount Vernon, inseguendo intricate fantasticherie come presidente degli Stati Uniti. Gli ho dato corda e ho finto di essere il suo braccio destro a tutti gli effetti, chiamandolo presidente Orwell, assicurandogli che stavamo approntando a Beverly Hills la Casa Bianca d’Occidente, dove lui sarebbe stato attorniato da valenti economisti e splendide dive del cinema. Il che ha aiutato molto la sua guarigione – i sogni della gente sono davvero facili da potenziare. Steiner ha assistito a tutta la pantomima con notevole disapprovazione, quella pistola sotto il suo burnus mi preoccupa. Lui sa che sto manipolando i nostri tre compagni, a uno a uno, ma non sa perché. I primi che attraversarono l’America, i pionieri, erano spinti anch’essi da un sogno.

Comunque, grazie a me e a un po’ di Johnnie Walker accuratamente dosato, Orlowski se l’è cavata. Oggi, mentre entravamo a St. Louis, alzando gli occhi a quel pendolante Gateway Arch, l’ho chiamato scherzosamente Gregory, e lui mi ha risposto senza batter ciglio, ma con un sorriso astuto. Siamo tutti di un sorprendente buonumore, che si addice alla patria di Mark Twain. Anne, adesso, si trucca anche di giorno. A volte, la sua faccia pare un mascherone, ma io continuo a complimentarmi – gli oli in quei vecchi cosmetici servono a proteggerle la pelle (spiacevole a dirsi, ma quando poi lei si strucca, non è la sola a restare inorridita). Non posso fare a meno di trovare una certa ironia in tutto questo, che lei, cioè, stia deliberatamente cercando di assomigliare a quella truccatissima Divorziata, e a mio beneficio in particolare.

Ricci ha cominciato a usare un po’ di crema per il viso per proteggerlo dal sole, e io ho suggerito che tutti lo imitiamo. Il rossetto offre una protezione solare veramente efficace. Dovevamo essere una bella mascherata di carnevale quando siamo scesi dai cammelli e abbiamo sostato sull’argine del fiume. Siamo restati a guardare il letto asciutto del Mississippi, i grandi battelli abbandonati lì nella sabbia, centinaia di automobili e baracche derelitte. Ci dev’essere voluto un bel po’ prima che il grande fiume si arrendesse, è strano vedere le piattaforme d’approdo fortificate, le fitte barriere di filo spinato e i sacchi di sabbia lungo gli argini a protezione di quanto rimaneva del rigagnolo. La gente aveva difeso fino all’ultima goccia quel filo d’acqua residuo.

Stranamente, nessuno di noi è rimasto troppo sconvolto, penso che provassimo anche un certo sollievo nello scoprire che il Mississippi non esiste più. Domani riprendiamo la marcia, calcando le orme di Daniel Boone!

19 agosto. Kansas City, Kansas. Interstatale 70

Procediamo in una sorta di sogno, in un mondo imbalsamato di sabbia gialla e di aria color ambra. Siamo entrati nell’area del deserto più profondo, un paesaggio quasi astratto. Dobbiamo trovarci assai vicini al centro di un immenso Sahara che si stende attraverso il continente americano. Un terreno di alberi opalescenti e sabbiosi palmeti, inseriti tra sobborghi interminabili, grandi magazzini e parchi pubblici, tutti silenziosi e dimenticati sotto lo smalto di luce immobile.

Quando stamattina siamo arrivati a Kansas City, è nata una sonnacchiosa polemica su dove esattamente ci trovassimo. Io insistevo a dar fede alla segnaletica stradale, ma Gregor, che è tuttora febbricitante, si ostinava a dire che quella era San Clemente, la vecchia tana in riva al mare di Nixon. Farneticava anche sui benefici effetti del salino e dell’ozono. Dal canto loro, Ricci e Anne erano sicuri che avessimo raggiunto il Lago Tahoe, ed erano pronti a spogliarsi e a tuffarsi nella duna più vicina. Per fermarli, ho finto di camminare sull’acqua: i due son rimasti a bocca aperta a guardarmi come se fossi un messia, anche Steiner ne è rimasto colpito e mi ha rivolto un freddo cenno d’approvazione.

Naturalmente, il deserto ha finito per farci il lavaggio del cervello: qualsiasi cosa la vediamo in termini di cenere e sabbia. Il paesaggio del Kansas è un susseguirsi intricato di messaggi in codice, una serie di opposti psicologici di genere misterioso. Qui potresti uccidere un tuo simile come fosse un gesto astratto, vedere la tua divinità concretizzarsi nel profilo di una duna.

Difficile dire cosa ognuno di noi stia pensando, ci lasciamo portare dai cammelli così come siamo, avvolti in mantelli bianchi, le facce impiastrate di rossetto. Adesso Anne mi sta sempre molto vicino, dipinta come un’arpia. Di Ricci non mi fido – stamattina, mentre lo aiutavo a scendere dal suo cammello inginocchiato, mi sono accorto che nasconde, legata al polso, una Derringer, oltre alle solite Colt col calcio di madreperla.

Steiner si è arreso completamente al deserto. Si tiene in disparte, ormai non ci rivolge quasi mai la parola, a volte si assenta senza preavviso per due o tre giorni, poi torna la sera all’accampamento con una tanica d’acqua rugginosa. Si accorge d’avere attorno anche case e città, il museo pieno di sole degli Stati Uniti? Un’ora fa, è andato a Kansas City, una metropoli vuota, immense fabbriche, magazzini e grattacieli, ma sono sicuro che lui non ci vede altro che la vecchia città di frontiera. Aspetta la sparatoria finale nell’O.K. Corral, per placare una volta per tutte il suo rancore verso la razza umana.

28 agosto. Topeka, Kansas. Interstatale 70

Giorno infausto. La situazione sta cominciando a farsi veramente critica. Quasi tutto il nostro tempo è dedicato alla ricerca dell’acqua. Qui, tutto è aridità, un’infinita terra assetata, mai viste tante piscine asciutte. Il cammello di Orlowski è morto. Mentre io e Steiner stavamo trasportando le cose del commissario, Ricci ha razziato di nascosto le sei taniche che con tanta fatica avevo riempito. L’ho colto in flagrante, mento e faccia sporchi del liquido rugginoso. Se ne stava nel bagno del motel, col suo vestito alla gangster coperto di polvere bianca, una tanica stretta al petto: l’aria da vero pazzo. Steiner era pronto a farlo secco, sul posto, nel cottage n. 6 del motel Skyline Park, ma io l’ho lasciato perdere. Orlowski è ormai un peso morto, con la febbre che tuttora va e viene. Anne è sdraiata, esausta, sul letto di fianco al mio, con la faccia non lavata, coperta di vesciche e impiastrata di mascara, guarda i quadranti del suo sismografo, e borbotta contro di me per il terremoto di San Francisco, quasi fosse stata colpa mia. Ha tanto l’aria di un certo tipo di matrimonio del ventesimo secolo. Ci siamo spinti troppo oltre?

8 settembre. Abilene, Kansas. Interstatale 70

Sto cedendo anch’io alla troppa stanchezza.

Stiamo facendo sosta in un deposito di autobus. A parte Steiner, che è in giro a cercare il fantasma di Wild Bill Hickok, ce ne stiamo tutti seduti sul pavimento sotto i tavoli, troppo esausti per andare a caccia di acqua. Orlowski è malato, in questi ultimi tre giorni lo abbiamo trasportato su una lettiga improvvisata. Siamo rimasti con solo quattro cammelli, e chi perde la sua bestia d’ora in avanti dovrà andare a piedi. Ho estratto venti preziosi litri d’acqua dall’impianto di riscaldamento della biblioteca dell’Eisenhower Memorial. Strano pensare che Ike sia cresciuto in questa piccola città deserta. Ho cercato di parlare con Ricci circa il vero scopo della spedizione – il tentativo di trovare quella speciale “America” che ognuno di noi porta nel cuore, quella costa dorata che McNair ha visto dal ponte dell’Apollo qualche giorno prima di morire. Ma Ricci, accasciato contro un vecchio juke-box, mi ha guardato con occhi vitrei. L’unica cosa che lo fa andare avanti sono i fuochi che accende. Ogni piccola città che oltrepassiamo, lui appicca un incendio: in pochi secondi le case di legno, secco com’è, sono avvolte dalle fiamme. Ci lasciamo dietro un cielo apocalittico arabescato di grandi colonne di fumo nero.

Interrompo per dare un’occhiata a Gregor. La sua bocca è piena di sangue.

21 settembre. Dodge City, Kansas. Strada 56

11.45 a.m. Qui è finita l’acqua. Questa era la fine della vecchia Texas Trail, e ha tutta l’aria di poter essere anche la nostra. Steiner ci ha definitivamente piantati in asso. Un attimo fa era appoggiato alla pompa di una stazione di servizio, l’attimo dopo era sparito. Dal momento che tutti i cammelli sono morti, siamo stati costretti a proseguire a piedi. Durante quasi tutta la marcia ho dovuto trascinare da solo la lettiga di Orlowski, tentando inoltre di spronare Anne e Ricci a camminare. Se mi distraggo un attimo, me li ritrovo seduti in qualche auto abbandonata, quasi aspettassero il loro autista.

Adesso siamo sdraiati sul pavimento del vecchio Long Branch Saloon, in mezzo a un parco statale del selvaggio West, nel tentativo di trovare un po’ di forza per andare a cercare acqua. Fuori, la temperatura dev’essere oltre i 50 °C, sono giorni che camminiamo su un deserto di cenere.

2.38 p.m. Orlowski è morto mezz’ora fa. Rispetto a quando siamo partiti pareva più vecchio di vent’anni e ridotto alla metà del peso. Ho fatto del mio meglio per lui, ma non ha manifestato la minima gratitudine. Gli ultimi giorni sono stati un incubo, a trascinarmi dietro questo commissario pazzoide, ascoltare le sue imprecazioni contro di me. Era la sua spedizione. Eppure, mi addolora la sua fine; a suo modo era un vero americano.

Ricci è sparito, chissà dove...

Wayne si interruppe di colpo e lasciò cadere il diario sul pavimento. Afferrò il fucile. Dalla strada era giunta l’eco di uno sparo. Dopo una pausa, mentre si alzava in piedi, altre tre detonazioni seguirono in rapida successione, un fracasso metallico e di vetri rotti.

“Tiro al bersaglio, Wayne. Attenzione...” Seduta in penombra contro il bar, Anne Summers alzò una mano per metterlo in guardia. Tra le vesciche e le sbavature del trucco sul viso, Wayne scorse un ultimo guizzo di preoccupazione, prima che la donna tornasse assente, troppo disidratata per muoversi. Orlowski giaceva sul panno verde del tavolo della roulette, le mani allungate sul cerchio dei numeri, come se avesse sperato di carpire una puntata vincente. Erano forse parte della scena di un parco a tema, dell’ultimo fotogramma di un film western? Senza le ragazze del cancan, però.

Wayne udì spegnersi l’eco dell’ultimo sparo lungo la strada da Far West, con la riproduzione della diligenza, dell’emporio, del negozio del barbiere e della merceria. La vampa del sole al di là dei mezzi battenti a molla fu come una sferzata. Mentre lui se ne stava lì, in un dormiveglia spossato, a scribacchiare sul diario, qualcuno aveva sottratto l’ultima tanica d’acqua, che lui intendeva proteggere col fucile.

Ricci? O Steiner che era tornato, rendendosi conto di aver bisogno di Wayne più di quanto volesse ammettere?

Wayne si schiaffeggiò. Da giorni, ormai, si sentiva con la testa vuota, un po’ per la fame, un po’ per lo sforzo di guidare Anne Summers lungo la polverosa autostrada. Non appena i battenti a molla gli svirgolarono sulla schiena, si trovò nella strada riarsa dal sole, barcollando come un pistolero ubriaco che sia lì lì per essere impallinato secco.

Il sole gettò una scintilla sui talloni di un piccolo uomo barbuto, ritto al centro della via, a un centinaio di metri di distanza. Un uomo che si era sbarazzato del suo burnus, e indossava ora un cappello a tesa larga bordato d’argento, ampi calzoni di cuoio, un panciotto attillato e una camicia di tartan. Con la mano sinistra sorreggeva l’ultima tanica d’acqua. Con la destra impugnava il suo revolver col calcio di madreperla, con baldanza da professionista. Era intento a prendere a calci i frammenti delle bottiglie usate come bersagli.

“Ricci...!” urlò Wayne con voce rauca. Strinse il freddo grilletto e la canna del suo Winchester. “Ricci, voglio quell’acqua!”

Il fisico si girò, scoccando un’occhiata a Wayne. Scosse la testa, come se avesse perso ogni interesse per il giovane clandestino e la sua moribonda spedizione. La febbre aveva restituito alla sua faccia, un tempo attraente, le aguzze fattezze di prima. Ricci alzò gli occhi sulle facciate di legno degli alberghi e dei saloon, scrutando la linea dei tetti per scovare eventuali cecchini col fucile puntato al suo cuore.

“Paul! Quella è la mia acqua, Paul...” Rabbiosamente, Wayne batté il calcio del fucile contro lo sportello della diligenza fasulla, parcheggiata fuori dal Long Branch Saloon. Si rendeva conto che l’intera logica segreta del loro viaggio attraverso l’America li aveva portati a questa assurda e ridicola conclusione: un duello in un mondo di finzione, già sopraffatto da un secondo West arido e di gran lunga più selvaggio di quanto quegli abitanti in vacanza del morente ventesimo secolo avessero mai potuto immaginare.

Ma era la sua acqua!

“Paul!”

Mentre il primo dei proiettili di Ricci colpiva l’insegna di plastica del Long Branch Saloon, sibilandogli sopra la testa, Wayne si lanciò in avanti nell’aria surriscaldata.

15. 
Giganti nel cielo

Più tardi quel pomeriggio, Wayne arrivò finalmente all’ingresso del cimitero di Boot Hill, stringendosi al petto il fucile e la tanica con l’acqua. Per ore aveva tentato di ritornare dove aveva lasciato Anne Summers, ma aveva perso l’orientamento dopo il confronto con Ricci. Ogni tanto, tra le diligenze e i chioschi degli hamburger rovesciati, gli era apparso Steiner che lo osservava. Il capitano stava pedinandolo in giro per la città, dalla finestra dell’ufficio dello sceriffo, o addossato alla facciata della Wells Fargo, o in piedi sul predellino dell’antiquata locomotiva nella stazione d’epoca, ricostruita per il film. Steiner si era sbarazzato del suo burnus, e indossava di nuovo il giubbotto nero della marina e il berretto con la visiera. Scrutava Wayne nel suo annaspare in cerca della direzione giusta, lo scrutava pensoso ma distaccato, quasi il giovane fosse un animale smarrito, cavia predestinata di un laboratorio.

Da parte sua, Wayne non sentiva più alcuna collera verso il capitano, pur sapendo di essersi lasciato usare da Steiner, il quale aveva sfruttato, con la massima indifferenza, la sua determinazione e volontà di sopravvivenza. Sotto molti punti di vista, egli non era stato che una bestia da soma, come i muli e i cammelli, pronto a portarsi in groppa gli altri.

Wayne entrò nel cimitero e risalì il lento pendio verso il gruppo di tombe più vicino. Deponendo al suolo con cura fucile e tanica, sedette, la schiena appoggiata a una lapide dalla scritta ormai indecifrabile. Guardò la città sottostante, i tetti quasi nascosti dalla luminosità accecante del sole. Avrebbe potuto, forse, crepare lì, ma non sarebbe stato il solo. Impugnando il Winchester il più saldamente possibile, attese paziente che Steiner apparisse. E infatti, di lì a qualche minuto, il capitano si materializzò, attraversando il parcheggio vuoto davanti all’ingresso del cimitero. Aveva già visto Wayne, e risaliva la collina, a testa bassa, gli occhi nascosti dalla visiera del berretto.

Esortandosi alla calma, Wayne sollevò il Winchester, si concentrò sul mirino.

Nell’istante in cui stava per sparare al capitano, Wayne vide il secondo miraggio offertogli dal Grande deserto americano.

Alta sopra di lui, quasi a riempire il cielo di cobalto, vedovo di nubi, c’era la smisurata figura di un cowboy. Due enormi stivali con speroni, ognuno alto quanto un edificio di dieci piani, piazzati sulle colline sovrastanti la città, mentre le interminabili gambe inguainate in logori calzoni di cuoio e alte quanto un grattacielo terminavano al cinturone della pistola, sospesa in aria a cento metri. Le punte d’argento delle pallottole nella cartucciera puntavano su Wayne come una fila di carlinghe d’aereo. Sopra di esse, si ergeva la parete verticale della camicia a quadretti del cowboy, e poi le spalle torreggianti che parevano sostenere il cielo.

Wayne giacque di schiena, sfinito, guardando quella figura titanica che si era materializzata come un genio nel cielo pomeridiano. Una delle gambe gigantesche si mosse, passando da una cresta della collina a un’altra. Wayne sollevò debolmente una mano, nel terrore che il gigante deviasse e lo schiacciasse. Identificando la faccia dai lineamenti marcati sotto il cappello a larghe tese, il giovane esclamò: “John Wayne...!”.

Udì il proprio grido. Era la mente sconvolta a presentargli l’immagine del suo omonimo, in quella città di frontiera, tra i fantasmi di quel luogo ricostruito, l’immagine del divo del cinema che aveva visto in Ombre rosse, per la prima volta?

Senza far caso alla creatura bocconi sulla lapide tombale lì in basso, il gigante si strinse di un occhiello il cinturone della pistola e si inclinò da una parte, lasciando libero un tratto di cielo. Wayne ansimò allorché un altro immenso cowboy apparve, un uomo alto e magro, dagli occhi intensi e mani gentili, mai lontane dal calcio della pistola.

“Henry Fonda...” Nelle vesti di Wyatt Earp, nel vecchio western che Wayne aveva visto tante volte, Sfida infernale.

E un’altra figura si univa alle due precedenti, ancora uno sceriffo, Gary Cooper, con la stanca, storica espressione dipinta in volto in Mezzogiorno di fuoco. Dietro di lui, avanzando calmo e sicuro tra le montagne distanti, veniva un uomo più piccolo e raccolto, Alan Ladd, il misterioso straniero del Cavaliere della valle solitaria. Essi si ergevano uniti, un Monte Rushmore nel cielo, eroi risuscitati dalle tombe di Boot Hill e dai fasulli saloon di Dodge City.

Wayne giacque contro la lapide, certo che a tenerlo in vita era la visione di quelle smisurate figure mitologiche che venivano avanti, spalla contro spalla, pronte all’ultimo duello nelle vie di quella Tombstone del cielo. Wayne cercò a tentoni il suo fucile, nella speranza che sparando un colpo in aria i giganti accorressero a salvarlo. Essi gli passarono sopra la testa, a falcate enormi che oscuravano la terra, attraverso le diligenze polverose e i saloon del loro sogno, un formidabile trio diretto verso le montagne dell’Ovest.

L’aria si era fatta più limpida, e una cupola di compatto blu porcellana incombeva su Wayne, come il soffitto di un inerte e ben illuminato mausoleo. Egli scivolò in un vuoto delirante, tra i cui spiragli momentanei di assoluta lucidità vedeva verdi colline e fianchi boscosi delle Montagne Rocciose salutarlo lungo la pista del Cimarron, vallate ingentilite di vegetazione e bagnate da precipitosi corsi d’acqua. Poi, di colpo, non scorgeva che la polvere e la sabbia delle dune bianche attorno a Boot Hill.

Steiner era sparito, seguendo i grandi dei del cielo. Quando Wayne lo aveva visto per l’ultima volta, il capitano si stava aggirando tra le tombe, con le mani a farsi schermo agli occhi per guardare le immense figure. Ma Wayne scoprì di avere la camicia bagnata, e immaginò che Steiner lo avesse fatto bere dalla tanica.

Dopo un po’, mentre stava scendendo la sera, si avvide di una strana macchina che solcava l’aria al di sopra della città, un velivolo che pareva fatto di veli, munito di un’elica piccola e asmatica che mordeva debolmente il vento. Aveva due snelle ali da libellula e una carlinga trasparente, all’interno della quale un uomo barbuto pedalava con grande energia.

Pigramente, Wayne seguì con gli occhi quel ciclista demenziale intrappolato nel delicato aliante. E si rese anche conto di sentire il muggito di un fischio ad aria compressa. Era l’Apollo che stava arrivando dal deserto, forse trasformato in uno yacht terrestre, a trazione a vapore, il suo tagliamare che sollevava un ventaglio aggraziato di bianca sabbia? Osservò lo strano aliante compiere un cerchio sopra le strade silenti di Dodge City, curvare invertendo la rotta e dirigersi verso il cimitero di Boot Hill, seguendo le orme che lui e Steiner avevano lasciato sulla sabbia. Il pilota pedalava furiosamente per superare il lieve dislivello, poi aprì un finestrino di plastica e sbirciò giù verso l’esausto giovanotto addossato alla lapide.

Non più sorpreso, ormai, da qualsiasi cosa vedesse, Wayne riconobbe senza emozione l’uomo barbuto che gli lanciava richiami. Quindi, il pilota si allontanò, zigzagando e planando come per attirare l’attenzione di squadre di soccorso provenienti via terra.

“McNair...” Sorridendo tra sé e sé, Wayne agitò un braccio verso le diafane ali al di sopra di sé. “McNair, è il Gossamer Albatross.L’hai portato fin qui, da me, addirittura da Washington...”

“Wayne, sei sempre il solito fottuto pazzo!” Al di sopra della barba scarmigliata, il viso sudato dell’ufficiale di macchina dell’Apollo lo salutava con una cordiale smorfia. “Perché diavolo ti sei dipinto come una femmina? Dove sono gli altri: Orlowski, il capitano, la professoressa Summers?”

Rendendosi conto che Wayne era troppo debole per gridargli le risposte, McNair invertì la pedalata, e fece planare il fragile apparecchio alato nel parcheggio, a un centinaio di metri di distanza. Mentre scendeva dalla carlinga, si udì in avvicinamento ancora il fischio di prima, e tre auto a vapore, in convoglio, antiquate ma ancora imponenti, entrarono nel parcheggio. I loro scappamenti sibilarono e sussultarono, sbuffi di vapore si sprigionarono dai pistoni e dagli ingranaggi, ottoni bruniti scintillarono agli ultimi bagliori del tramonto. I tre veicoli si fermarono tra nuvole di vapore e una sequela di gemiti metallici, mentre le ruote dai copertoni privi di battistrada sventagliavano sabbia tutt’intorno. Il terzo veicolo trainava una cisterna d’acqua, verniciata di verde, con la scritta VIGILI DEL FUOCO DI NEW YORK che campeggiava in lettere dorate sulla fiancata. Sul tetto era ancorato un paio di ali di ricambio per l’aliante. I piloti misero piede a terra, togliendosi gli occhialoni e gli spolverini di foggia edoardiana, e Wayne riconobbe gli Executives, visti l’ultima volta al motel vicino all’autostrada del New Jersey. La giovane donna recava in braccio un bambolotto, un bel bebè con tanto di casco da aviatore in miniatura.

Wayne riuscì a tirarsi su in ginocchio, mentre loro correvano da lui.

GM!” chiamò con le labbra screpolate, pulendosi dal rossetto contro il polso. “Heinz, Pepsodent, Xerox, vi siete appena persi John Wayne e Gary Cooper!”

16. 
Recupero e salvataggio

Velocità, pistoni pulsanti, caldaia fiammeggiante e valvole sibilanti – per Wayne era una sensazione eccitante, ben oltre quella che persino gli astronauti di Mercurio potevano aver sperimentato. Dopo una settimana di languido riposo, avevano lasciato Dodge City e stavano percorrendo a tutta velocità la Strada 50, verso ovest, GM, Heinz e Pepsodent al volante delle tre auto a carbone. Mentre filavano attraverso il Kansas occidentale, dritti verso i picchi montagnosi che indicavano la vicinanza delle Montagne Rocciose, Wayne era seduto sui sedili posteriori della vettura di testa, con a fianco Anne Summers. Lunghi pennacchi di vapore argenteo sprizzavano dai pistoni martellanti, a rinfrescare la fronte del giovane. A ogni filo di vento prodotto dalla corsa, Wayne sentiva tornare la fiducia, a ristorargli ogni nervo e ogni vaso sanguigno.

Stavano viaggiando in grande stile. I tre veicoli a carbone – una Buick Roadmaster, una Ford Galaxy e una Chrysler Imperial – erano stati costruiti appositamente per il sindaco di Detroit negli ultimi anni del ventesimo secolo. Rifiniti internamente come vetture fuoriserie, e muniti di vetri antiproiettile e forcelle per armi antisommossa, erano i mezzi di trasporto più confortevoli che Wayne avesse mai conosciuto, di gran lunga più veloci e più potenti delle caute ambulanze di Dublino, alimentate a batterie. Procedevano a più di cinquanta chilometri all’ora, e a mezzogiorno della prima giornata avevano coperto centotrenta chilometri – una distanza che, a dorso di cammello, avrebbe richiesto una settimana.

Il deserto sfilava via, una successione baluginante di cactus e uadi polverosi che collegavano fattorie derelitte e granai, città fatiscenti, ognuna aggrappata alla sua stazione di servizio fortificata. Sulla Strada 50 i veicoli abbandonati erano pochi, e il terzetto delle auto che erano state del sindaco di Detroit potevano mantenere una media consolante. Proteso sul grosso volante della Chrysler, con i suoi occhialoni e il suo casco, Heinz schiacciava l’acceleratore a tavoletta, dandogli fiato solo quando McNair, in qualità di fuochista, doveva scodellare un’altra palata di carbone attraverso il portello rovente del focolaio.

Lasciatisi alle spalle di centocinquanta chilometri Dodge City, mentre affrontavano le forti pendenze con facilità, McNair indicò i manometri sul cruscotto.

“Heinz, i motori li sapevano fare a Detroit; quei vecchi costruttori di auto sapevano il fatto loro!” Si rialzò gli occhialoni sulla fronte e gridò rivolto a Wayne: “Non andiamo troppo veloci per te, Wayne? Se vuoi possiamo scendere a trentacinque chilometri”.

Wayne era spaparanzato sul suo sedile, godendosi l’assalto umido del vapore sulla faccia.

“Avanti tutta, Heinz! Schiaccia quel chiodo!” esclamò beato. Al suo fianco, Anne Summers si aggrappava alla forcella portamitragliatrice, verde in volto per la vertigine. Wayne sbirciò, ruotando la testa, le due macchine che seguivano. La Buick di GMera subito dietro, le grandi ruote a solcare la polvere con un ventaglio gemello di vapore che spazzava la strada come baffi infuriati. GM sedeva al volante, mentre la moglie dai polsi robusti spadellava carbone, di fianco a lui, tenendosi stretto al petto il bambino addormentato dietro gli occhialoni. La potente Ford di Pepsodent chiudeva la marcia, rimorchiando la cisterna dell’acqua, nonché, legato sul tetto, l’aliante smontato. I nomadi si erano impratichiti nella guida con sorprendente bravura ed entusiasmo; ma d’altra parte, Wayne non l’aveva dimenticato: essi erano autentici americani.

Dopo la prospettiva di un disastro totale, la spedizione era rinata. Il salvataggio a opera di McNair segnava un decisivo giro di boa, altra dimostrazione del loro sogno. I nomadi avevano trasportato Wayne dal cimitero di Boot Hill alle auto, avevano recuperato un’Anne Summers ormai boccheggiante nel Long Branch Saloon, ricoverando l’uno e l’altra nella vicina Holiday Inn.

E mentre Wayne e Anne riprendevano le forze, riposando sotto una tenda vicino alla piscina in secca, McNair aveva raccontato la sua fuga per la salvezza – assieme a tutti gli uomini dell’equipaggio dell’Apollo, tranne due – dalla nube radioattiva del fall out che era deviata su New York. Durante l’ultima settimana dei lavori di riparazione della nave, McNair aveva scoperto le tre auto a carbone in un deposito di Brooklyn.

“Erano lì, pronte per essere spedite in Europa a uso personale del presidente Brown. Magnifiche bestie, era una delizia lavorarci sopra. Per fortuna, avevo appena finito di rimettere a posto i motori quando il sismografo cadde dalla parete. Era il terremoto di Boston. Prima di andare a investigare cosa fosse successo, lasciai quell’ultimo messaggio per voi. Arrivammo all’aeroporto Kennedy, e, naturalmente, non trovammo nulla. Decisi di dare un’occhiata ai monitor in cima al palazzo della Pan Am, caso mai si fosse trattato di radioattività nell’atmosfera. Be’, i contatori Geiger strillavano in blu. Piantammo lì tutti i lavori sull’Apollo, imbottimmo le auto di antracite presa dalla stiva della nave e partimmo a tutta velocità imboccando l’autostrada del New Jersey...”

Due fuochisti in franchigia, intenti a esplorare i night club di Harlem, avevano ignorato gli ultimi muggiti d’allarme della sirena dell’Apollo; era presumibile che fossero rimasti vittime della nube radioattiva, ma tutti gli altri erano riusciti a fuggire in tempo. A quindici chilometri da Washington, aveva raggiunto i quattro nomadi Executives in marcia coi loro cammelli. Sebbene gli avvertimenti di McNair circa la nuvola di gas ionizzato non significassero nulla per loro, le loro menti erano già bene imbottite di terrificanti storie di morte venuta dal cielo. I quattro avevano abbandonato i cammelli sul posto, piazzandosi sui sedili posteriori della Buick.

Una volta raggiunta Washington, si erano mescolati all’ansiosa folla delle nazioni indiane, tutte estromesse dai loro territori di caccia dai portenti in cielo, la stessa visione di una colossale nave spaziale, invariabilmente seguita da terremoti misteriosi e dall’esplosione di centrali nucleari. Molti dei nomadi della tribù dei Gangsters, avrebbe recuperato McNair, soffrivano di leucemia e bruciature da radiazioni riportate nei sismi che avevano distrutto Cincinnati e Cleveland.

Tutte circostanze che avevano confuso le idee a McNair, così come a Wayne e ad Anne Summers.

“C’erano qualcosa come trecento centrali atomiche negli Stati Uniti,” sottolineò McNair. “Erano tutte quante programmate per esplodere un secolo dopo, in ossequio a un piano demenziale per distruggere il mondo? Impossibile, Anne. Prova a pensarci, Wayne.”

Anne agitò debolmente lo specchio che aveva in mano: stava esaminandosi le vesciche che le infioravano la faccia. Senza il trucco, con i biondi capelli avvolti in un asciugamano, assomigliava a una smorta monaca dimessa. “Lo so... Ma durante quegli ultimi giorni di panico alla Casa Bianca, qualche ordine presidenziale degno di uno psicopatico dev’essere stato impartito.”

“Non è da escludere, Anne. Ma perché il misterioso susseguirsi di terremoti che squassano qua e là, un po’ dovunque, gli Stati Uniti? Essi non seguono alcuna delle linee tettoniche conosciute. La faglia di Sant’Andrea non passa per l’isola di Chappaquiddick! Sono sismi con elevati valori Richter, ma hanno durata estremamente ridotta, e una diabolica capacità di distruggere il nocciolo di una vicina centrale nucleare!”

Enigmi a parte, cominciava a sembrare probabile che l’intera crosta degli Stati Uniti si stesse sbriciolando come un enorme biscotto. Quanto alle misteriose visioni nel cielo riferite dagli indiani, esse erano chiaramente fantasticherie di gruppo di quei superstiziosi e ignoranti protoamericani, la cui immaginazione, stimolata dal vino di cactus, proiettava i propri terrori in qualsiasi albero di yucca o in un cespuglio spinoso di forma insolita.

“Ma, caro amico,” aveva obiettato Wayne dalla sua poltrona ai bordi della piscina di Dodge City, “quelle visioni le ho avute anch’io sotto gli occhi – non la nave spaziale, ma John Wayne, Henry Fonda, Gary Cooper e Alan Ladd, ognuno alto millecinquecento metri. E non erano visioni, erano reali. Steiner li ha visti.”

“Naturalmente, Wayne. Ma Steiner, be’...”

Sia Anne sia McNair restavano scettici, considerando la visione dei divi del cinema un prodotto del malessere da deserto di Wayne. Ma questi era turbato dai racconti dei nomadi. Molti di quei racconti contenevano strani e sinistri elementi, specie l’immagine di un giovane calvo, dal viso contorto e occhi da fanatico, uno psicopatico in un mondo da Topolino. C’era anche un lugubre uomo vestito di blu con la faccia da impresario delle pompe funebri, forse la deità tribale degli Executives, lo spirito indesiderato di tutti quei pendolari di Manhattan...

Intanto, però, il fatto consolante era che McNair li avesse recuperati: Dodge City poteva essere l’ultima tappa dell’avventura. L’ufficiale di macchina aveva lasciato a Washington l’equipaggio dell’Apollo. A nessuno dei marinai, tutti uomini di mare fino al midollo, era piaciuta l’idea del deserto americano. A Washington avrebbero costituito una base, amministrato gli indiani (il nostromo suggeriva che l’intero stato del New Jersey si sarebbe rivelato una riserva ideale per questi nomadi aborigeni, così bramosi di autostrade, gioiellerie e drive-in) e si sarebbero messi a caccia di apparecchiature radio per prendere contatto con qualsiasi nave di soccorso Mosca avesse inviato nei mesi a venire.

McNair li aveva lasciati con quel programma, ed era partito con le auto a carbone in compagnia di Heinz, Pepsodent, GM, Xerox e il loro neonato – subito battezzato WTOP, dalla sigla della locale radioemittente nei cui uffici era avvenuto il parto. Gli Executives avevano scoperto la passione per le auto e le strade aperte, e lo stesso McNair non vedeva l’ora di esplorare in lungo e in largo l’America, di visitarne le fabbriche silenziose, gli impianti, le miniere di carbone e i cantieri navali, per collaudare le proprie ambizioni di rimettere assieme e far funzionare di nuovo quell’enorme meccanismo di sogno. Al tempo stesso, esitava a concedere fiducia a Wayne e anche ad Anne Summers – le morti di Orlowski e di Ricci, la defezione di Steiner, le grottesche maschere dei cosmetici sul viso, chiaramente pensate per qualcosa di più di una difesa dal sole, checché sostenessero Wayne e la Summers: queste circostanze, tutte insieme, gli consigliavano di tenersi un po’ alla larga da quei due.

Averli rintracciati era stato dovuto non tanto alla fortuna, quanto alle lunghe spirali di fumo nero che salivano a ognuna di quelle città ridotte in cenere. Dopo aver zigzagato per il Middle West, trovando e poi perdendo la pista dei cammelli, alla fine si erano imbattuti in uno degli animali morti, in una stazione di servizio alla periferia di St. Louis. McNair aveva scorto dall’alto la carcassa del Gossamer Albatross, che aveva sottratto dal piedistallo espositivo allo Smithsonian. Ogni ottanta chilometri si erano fermati a far rifornimento – ogni auto portava una tonnellata di carbone nel vasto bagagliaio – e McNair aveva approfittato delle soste per pedalare in aria con l’aliante, per ispezionare il tratto di deserto circostante. Era stato in uno di questi voli, fuori Topeka, che aveva scorto la prima eloquente colonna di fumo, un nero dito che scaturiva dal deserto calcificato a localizzare qualche strano avvenimento.

“Siamo arrivati proprio con l’ultimo metro di pellicola,” disse ai due sopravvissuti. “Quello per Yuma era un treno che non sareste mai riusciti a prendere, ed era l’ultimo. Solo Dio sapeva dove eravate diretti – eravate dipinti come una troupe di finocchi alla deriva...” Sul bordo della piscina prosciugata dell’Holiday Inn, McNair aveva indirizzato ai due recuperati occhiate inquisitive. Con tutto l’imbarazzo che sembrava aleggiare tra l’uno e l’altra, qualcosa li aveva cementati. “Brutta fine, quel Ricci – personalmente non mi ha mai convinto. La sua cabina a bordo dell’Apollo era imbottita di armi, doveva aver saccheggiato tutti i negozi specializzati di Manhattan. Ma per Orlowski, mi spiace non essere riuscito a salvarlo. Quanto al capitano, sarà in giro da qualche parte. Ma tornerà, Wayne, appena sarà pronto. Ho sempre avuto la sensazione che stesse conducendo un esperimento tutto suo...”

Wayne annuì gravemente. L’evidente diffidenza di McNair gli suggeriva di non spiegare la vera natura del tradimento di Steiner. Stranamente, non provava alcun risentimento, quasi il machiavellico abbandono della spedizione da parte del capitano fosse stato giustificato da profonde esigenze spirituali, parte della privata mitologia che li aveva, tutti loro, spinti a quel viaggio nel Nuovo Mondo. Gli Stati Uniti si erano basati sul presupposto che ognuno avesse il diritto di vivere la propria fantasia più estrema, ovunque potesse condurre, di esplorare ogni opportunità, quale che fosse.

Al tempo stesso, Wayne non riusciva a togliersi dalla testa la morte di Orlowski. Ricordava il commissario morente, le guance dipinte e impiastrate, la testa ciondolante sulla sabbia, mentre lui trascinava la lettiga lungo l’autostrada. Orlowski aveva biascicato, chilometro dopo chilometro: “È colpa tua, Wayne, sei tu che ci hai portato qui, avrei dovuto sbarcarti alle Azzorre... tu, sì, clandestino dei miei stivali, tu vuoi essere presidente, più di quanto lo voglia io...”. E poi, alla fine: “Tu sei Nixon, Wayne. Un solo quadriennio, per te, un quadriennio tanto breve...”.

Quanto a Ricci, il cui corpo, disteso nella polvere del finto Far West, era stato trovato da Pepsodent, Wayne aveva detto a McNair e ad Anne di essere stato costretto a farlo fuori mentre il fisico voleva sottrarre loro l’ultima acqua rimasta. Ma, in realtà, la pallottola che aveva trapassato la nuca di Ricci non era partita dal Winchester di Wayne. Quando Wayne era strisciato sulle ginocchia per recuperare la preziosa tanica, il fisico era già cadavere nella polvere. Per ragioni sue, che non ci è dato sapere, era stato Steiner a far fuoco, quello strano angelo custode che aveva permesso a Wayne di aggregarsi alla spedizione fin dalla partenza da Plymouth.

Ma Wayne non aveva detto nulla di tutta la faccenda, consapevole della posizione che la morte di Ricci gli attribuiva, un’autorità a cui avrebbe potuto ricorrere nei giorni a venire. Anne Summers questo lo sapeva. Chiaramente, la donna si rendeva ben conto che Wayne aveva approfittato del suo debole per i saloni di bellezza e le vecchie riviste di cinema, dal suo sogno di essere una diva dello schermo. Però, nelle strade di Dodge City, lui aveva lottato per difenderla. Mentre riacquistavano le forze, fianco a fianco, sui bordi della piscina vuota, Anne gli aveva preso la mano all’improvviso.

“Mi hai tenuta in vita, Wayne... ma io non ti perdonerò.”

Seduto sulla Chrysler sbuffante come una locomotiva, Wayne ripensava a quelle parole. Aveva le orecchie rintronate dal lavorio dei pistoni e dal gemito delle valvole, mentre affrontavano i ripidi tornanti delle Montagne Rocciose, sempre più vicini alla fonte della sua perduta America.

17. 
Al di là delle Montagne Rocciose

Più su, adesso, e aria più fresca e senza polvere che gli rendeva più facile respirare. Stavano risalendo la strada deserta e sinuosa che si snodava attraverso i Monti del Sangre de Cristo a sud del Colorado, che il capovolgimento climatico aveva reso più simili al paesaggio dello Utah, come Wayne lo ricordava dalle diapositive della biblioteca di Dublino. Ripide pareti di roccia incise come facciate di cattedrali gotiche da un secolo di venti feroci. Chilometri di canyon granigliati e dirupi vermigli, poi vallate di dune e pianori disseminati di anfratti da film western. Ai due lati della strada, a duemila metri sul livello del mare, si ergevano pareti colorate di fiamma, un labirinto di Grand Canyon in miniatura. Mentre le auto macinavano i gradienti, con i pistoni in lotta con l’aria più rarefatta, i passeggeri contemplavano gli alberi opalizzati che affollavano i pendii, i residui fossili di dense pinete. Ovunque, la natura si era bloccata per una morte improvvisa.

Due ore dopo, oltrepassato l’ultimo valico, presero a scendere verso il bacino in secca del Rio Grande. Wayne cercava con lo sguardo una traccia qualsiasi di fonti o di acqua sorgiva, ma il fiume era una cicatrice asciutta che sfilava attraverso un deserto di piccole mesas, isolati, minacciosi pinnacoli di roccia sgretolata che si ergevano lungo il bacino screpolato come derelitti pezzi di scacchi.

Si fermarono per la notte ad Alamosa, coprirono i motori delle macchine con polvere di carbone e dormirono sotto le stelle nell’aria fresca di montagna, odorosa di ambra, di pirite e di morte. Al mattino imboccarono la strada alta nel cuore delle montagne di San Juan, il grande spartiacque tra la metà orientale e quella occidentale del continente americano. I motori delle tre vetture affrontarono l’ascesa con la determinazione di vecchie locomotive del Pacifico, superando impianti sciistici simili a fortini di una razza estinta di Incas. Quando l’aria divenne ancor più rigida, e il respiro più corto, si fermarono a un grande capanno, ne sfondarono la porta, facendo razzia di coperte, occhiali da sci, pesanti giubbotti da uomo e pellicciotti da donna, questi ultimi per Anne Summers, Xerox e l’infante.

Al Passo di Wolf Creek, a quasi tremila metri (tre torri OPEC una sull’altra) sul livello del mare, Wayne si sporse a battere sulla spalla di Heinz.

“Heinz, fermati un attimo!” Si alzò e segnalò alle due auto in coda di fermarsi. Nell’aria fredda e rarefatta, il vapore dei motori si condensava in un’acquerugiola che bagnava la vecchia strada.

“Anne, cosa sono? McNair, riesci a vederle? Sembrano dei segnali...”

Wayne indicò le chiazze bianche e frastagliate, drappeggiate sulle creste aguzze che si stagliavano contro il cielo trecento metri più in alto. Piccoli frammenti di quei cenci brillanti tappezzavano anche il terreno scabro vicino alla strada, come bandierine segnaletiche abbandonate.

Wayne saltò a terra e si avvicinò alla chiazza più prossima. Cadde in ginocchio e raccolse tra le mani i candidi cristalli gelati, premendoseli sulle guance.

“Anne... è neve!”

Tutti balzarono giù dai veicoli, sbarazzandosi dei guanti e degli occhialoni. Ridendo felici, GM e Heinz si rotolarono nella neve, Pepsodent prese a tirar calci, sollevando scintillanti sventagliate farinose, ficcandosi in bocca i candidi cristalli. Xerox, col suo deliziato bebè, scivolò lungo una dolce discesa. Esplosero duelli a pallate di neve, il volto eccitato di Anne Summers arrossato dal freddo, mentre inseguiva Wayne e McNair in quel tiro al bersaglio.

Dieci minuti più tardi, mentre superavano il passo e scendevano i ripidi tornanti verso Durango, ridevano ancora. E c’erano creste incappucciate di neve e prati alpini verdi e vellutati come campi da golf.

Una strana luminosità bianca, un’immensa velatura di candido talco copriva la valle del fiume San Juan. Trecento metri più in basso, quel baldacchino fioccoso si appoggiava alle falde delle montagne, e si spingeva attraverso lo Utah e l’Arizona, a sud, verso il Nuovo Messico.

Mentre si avvicinavano il terrore invase Wayne, per un attimo. Si chiese come avrebbero potuto respirare quel vapore di ossa triturate, probabilmente cenere distillata dai laghi di potassio della Valle della morte, di un calore tale che anche le rocce avevano cominciato a evaporare.

Ma, quando affrontarono l’ultimo tornante, il lago di polvere parve rimpicciolirsi. Era vapore rado quello che li circondava, una sfumatura bagnata, come gli spruzzi dei pistoni della Chrysler.

Wayne se ne trovò zuppo. Si esaminò la superficie umida e lucente del casco di cuoio. L’umidità rigava il parabrezza, colava dagli occhialoni di Heinz, gocciolava dalla punta bruciata dal sole del naso di McNair, palpitava sulle sopracciglia di Anne Summers.

“Nuvole! McNair, mio Dio, sta piovendo!”

Tra esclamazioni di letizia, filarono giù per la strada sinuosa. Già, attraverso le cortine dell’acquerugiola e della nebbiolina, era visibile il vivido fogliame verde tenero di giovani alberi sui pendii. Stavano addentrandosi in un mondo di foreste gocciolanti. Adesso faceva più caldo, un’aria umida e temperata. Sorpassarono una quercia gigantesca vicina a un torrentello, poi il fiotto cristallino di una stretta cascata. Una foresta di pini e di betulle argentate imbottiva le pendici muscose, una dozzina di ruscelli montani sposavano le loro acque con quelle di un torrente spumoso. Il torrente tagliava la strada, lavando dalla polvere le ruote dei veicoli, per poi formare un’ampia cascata che si insinuava in un imbuto roccioso e si riversava in un piccolo lago cento metri più in basso.

L’aria si era rasserenata. Solo la coltre di nuvole, un morbido soffitto imbottito, il tetto di un verde boudoir, incombeva. L’aria era meno rarefatta, un’atmosfera umida da giungla tropicale che rimandava gli echi del motore. Ovunque, dense foreste di querce e sicomori. Vividi fiori gigliacei esplodevano come arruffate campanule dai cespugli lungo la strada, prepotenti liane si intrecciavano sui tronchi delle betulle. Apparivano le prime palme rigogliose, ombrelli puntuti e protesi verso l’incessante stillicidio di aria umida che li accarezzava; c’erano tamarindi e boschetti di bambù, appariscenti orchidee, tillandsie appese come sfumate tappezzerie ai rami più grandi delle querce. L’aria satura deponeva ovunque un velo liquido in verdi scintillii smeraldini.

Le tre vetture si fermarono sull’orlo di un’altra cascata che dilagava nella strada. Anne indicò la valle sottostante. Un piccolo lago si allungava per circa mezzo chilometro, insinuandosi tra le pendici boscose dei monti. Sulla sua acqua nera andavano ammassandosi basse nuvole scure. Una raffica di vento batté la superficie del lago, una scarica violenta che galoppò verso il gruppo sceso dalle macchine. All’ultimo momento un vivido lampo azzurro scaturì dall’acqua e un martin pescatore guizzò dal cuore del temporale. Già le prime gocce pesanti cadevano sul caldo metallo del cofano della Chrysler, sfrigolando come insetti furenti. McNair prese dalla caldaia la pala e inseguì i goccioloni. Tutti i suoi compagni di avventura, con strilli di gioia, furono lesti a sbarazzarsi degli indumenti invernali, Xerox palleggiò il suo nudo figliolino, con su ancora gli occhialoni, cherubino nella cupa foresta. Avviando l’auto lentissimamente, Heinz armeggiò con gli strumenti sul cruscotto, e poi lanciò un grido di trionfo allorché i vecchi tergicristalli, fino a quel momento non sollecitati, forarono il diluvio con due superbe finestrelle a ventaglio.

Inseguiti da quell’effusione monsonica, continuarono la discesa, circondati da ogni lato dalla fitta foresta tropicale. Ai bordi del nastro stradale, le stazioni di servizio, i bar, i ristoranti, i motel erano da tempo immemorabile soverchiati dalla vegetazione, i cortili e gli spiazzi fessurati da edera e da felci prepotenti, da viticci che soffocavano le pompe della benzina, e affioravano tra i tetti di legno.

Durango era una città da giungla. Le tre automobili infilarono vie deserte, la cui pavimentazione era allagata dalla pioggia e bordata da pareti vegetali alte fino al terzo piano, da masse di querce incuneate a minacciare le case fatiscenti. Alberi di palma, penetrati a forza nelle vetrate dei negozi, si alzavano, oltre i cristalli, nel cielo e si mischiavano alle insegne al neon. Nel centro di Durango gli scheletri delle auto abbandonate formavano una linea di fioriere per mazzi di canne dalla punta rossa e di rose selvatiche.

“Attento, Heinz!” Mentre la Chrysler ondeggiava pericolosamente, McNair si allungò per bloccare il volante. Heinz, inebetito, aveva sollevato le mani dai comandi, con gli occhialoni di sghembo sulla fronte. Stava indicando un’alta creatura dalle lunghe gambe che attraversava la strada sgombra, un elegante pedone in cappotto giallo maculato.

“È una giraffa!” Wayne e Anne Summers scattarono su dai sedili, mentre la Chrysler si fermava bruscamente. Attesero, osservando l’animale indugiare davanti ai cristalli delle vetrine, mordicchiando i frutti deliziosi che pendevano dai fili del telefono.

Come scoprirono di lì a poco, una fauna d’ogni specie abitava la foresta, i discendenti degli uccelli e dei mammiferi ritornati in libertà, un secolo prima, dopo che gli uomini addetti ai giardini zoologici erano emigrati. Un leopardo immusonito li guatò dalla veranda della stazione di polizia; due ghepardi erano accosciati sui gradini del municipio. Allarmata dal martellare dei pistoni dei tre veicoli, una nuvola di rigogoli dorati eruppe dal baldacchino degli alberi. Are variopinte fecero balenare il loro piumaggio attraversando i parcheggi deserti, un terrorizzato pappagallo starnazzò evitando di un pelo la Chrysler, berciando sdegnato mentre atterrava sul tetto di un autosalone.

Due giorni dopo, mentre filavano nel tardo pomeriggio verso Las Vegas, i loro sensi erano saturi delle incessanti ondate di calore e dei profumi della giungla, i loro corpi impregnati del sentore di fiori tropicali. Uno sconfinato Mato Grosso copriva l’Ovest degli Stati Uniti, trasformando i deserti in un mondo arboreo di fiumi impetuosi, di centinaia di laghi alimentati dalle piogge monsoniche. La calda corrente del Pacifico meridionale aveva estromesso la fredda Humboldt, e per un secolo aveva spinto caldi venti carichi di umidità attraverso la Sierra Nevada. La California, il Deserto del Mojave, la stessa Valle della morte erano adesso provincie della grande foresta amazzonica che aveva varcato l’Istmo di Panama, risalendo il Messico e la Bassa California, per bonificare il vuoto deserto.

“Wayne... ! Riesco a vedere Las Vegas...!”

Una cinquantina di metri sopra la testa di Wayne, nell’esiguo tratto di cielo visibile tra le pareti della foresta, l’aliante a pedali disegnava cerchi nell’aria. Si erano fermati per cambiare una ruota alla Galaxy. Heinz e Anne Summers aiutavano Pepsodent ad azionare il pesante cric, lasciando Wayne a riposare sui sedili posteriori della Chrysler. McNair si sbracciava eccitato dal suo trabiccolo volante. La sua voce si perdeva tra il cicaleccio di migliaia di uccelli tropicali, abitanti di un folle aviario, confinati dietro sbarre verdi, tribù di parrocchetti perennemente irritati, pappagalli bercianti complesse dispute, come gli ospiti di un ospedale psichiatrico, delicati colibrì ipnotizzati a mezz’aria dalla loro stessa avvenenza.

Seguendo con lo sguardo le evoluzioni del pigro aliante dalle ali ipnotiche di sole, Wayne si allontanò con la mente da quel rauco stridore. Per qualche motivo si era sorpreso a ripensare al deserto, a quell’infinito mondo bianco delle distese del Kansas, con le sue città e silos ossificati, elementi astratti di un sogno privato che attendeva da lui il concretarsi di qualsiasi azione lui desiderasse. Là si era assicurato un indubbio ascendente su Steiner, Anne Summers e gli altri. Qui, in questo rauco manicomio, uno non poteva mai essere solo, il rumore e l’attività gli spaccavano in due la testa, come se fosse un cocomero.

“Wayne! Svegliati!”

McNair si accingeva ad atterrare, le punte delle fragili ali sfioravano quasi le pareti della foresta. Dall’abitacolo di plastica faceva capolino la sua barba, vibrante di una vita autonoma, e per un attimo lui parve uno di quegli uccelli frenetici, ubriachi d’aria.

Wayne saltò giù dalla Chrysler e si diresse di corsa verso l’aliante.

L’evanescente trabiccolo planò sulla strada, frullando l’aria calda con l’elica a moto invertito. Mentre Wayne e Anne Summers afferravano la punta delle ali, McNair stava già sgusciando fuori dall’abitacolo.

“Anne, ho visto Las Vegas...!” L’ufficiale di macchina ondeggiò sulle gambe indebolite dallo sforzo, sostenendosi ansimante sulla spalla di Anne. “Ti rendi conto, Wayne?”

“Bene.” Wayne aiutò McNair a ritrovare la saldezza degli arti. “È distante non più di trenta o quaranta chilometri.”

“No!” McNair scosse vigorosamente la testa, sprizzando gocce di sudore dalla barba. “È tutta illuminata! Le insegne al neon son tutte accese! Anne, ci dev’essere gente laggiù, migliaia di persone!”

18. 
Il sogno elettrografico

E così arrivarono nel paradiso elettrico. Mentre superavano gli ultimi chilometri che li separavano da Las Vegas, era sceso il crepuscolo con le sue ombre. Wayne stava in punta di sedile, ascoltando il battito dei pistoni e l’ansimare delle valvole suscitare echi tra gli alberi bui; aguzzava lo sguardo tra il baldacchino della foresta sotto di lui, quando un’immensa corona di luce rosa e d’oro fiammeggiò tra gli alberi, come dallo sportello aperto di una fornace. Un lago di insegne al neon formava una corona di splendore luccicante; chilometri di luci, sospese lungo le facciate dei casinò, bordavano le facciate continue illuminate degli alberghi e traboccavano in cascate muschiose. Sotto un cielo ultramarino, così buio, adesso, da scolorire i volti, lo spettacolo di quella capitale del gioco d’azzardo di un secolo prima appariva irreale quanto un sogno elettrografico.

Wayne si alzò dal sedile, lasciando che l’ondata di luci gli colorasse la camicia e le mani, gli incoronasse la fronte di splendori cristallini. Anne si protese e lo prese per un braccio, col volto che palpitava ansioso sotto il riflesso dei grandi alberghi sfolgoranti. Lui le strinse la mano, cercando di rassicurare tanto lei quanto se stesso.

“Wayne, è fantastico... ma chi sono...?”

“Anne, non lo so ancora. Forse i Gamblers. Chiunque siano, hanno fatto miracoli.”

Heinz aveva prudentemente ridotto la velocità a passo d’uomo. Il vecchio nomade sbirciava, con evidente sospetto, le insegne al neon, di quando in quando allungando una mano per spolverare via dalla spalla di McNair la luce riflessa. La Galaxy di Pepsodent e la Buick di GM seguivano, paraurti contro paraurti, i loro parabrezza inquadravano i volti impauriti e reverenti dei due piloti e della donna, volti di mendicanti a un banchetto.

“Coraggio, Heinz,” sollecitò Wayne. “Dai gas. Facciamogli vedere che siamo qui. Anne, li vedi gli alberghi? Il Caesar’s Palace e il Desert Inn. Sono tutti lì, sulla Strip, il Dunes, il Flamingo, il Sahara. Heinz, sono loro le tue navi spaziali nel cielo...”

“Ma, Wayne, chi ci sta in questi alberghi? Qui intorno non si vede anima viva.” Anne si ravviò i capelli, scrutandone il riflesso nel parabrezza. “E perché nessuno ha mai saputo nulla della loro esistenza?”

“Perché siamo i primi ad aver attraversato le Montagne Rocciose.” Wayne sentiva tornare la propria sicurezza. “Nessun altro aveva mai attraversato l’America. Te ne rendi conto, McNair?”

“Sì, Wayne... Ce l’hai detto cento volte al giorno.”

E McNair rise, messo di buonumore, con aperta ammirazione per Wayne eretto sul sedile della Chrysler, l’ultimo dei pionieri a guidare il proprio convoglio di carri attraverso il continente. Avevano raggiunto i sobborghi settentrionali della città, una zona illuminata, ma silente, di parcheggi, motel, bar e incroci stradali. Wayne si aspettava che qualcuno guardasse dalla finestra di una stazione di servizio e notasse il loro arrivo. Da un momento all’altro, le prime turbe eccitate sarebbero accorse, salutandoli mentre raggiungevano il centro della città.

Ma nonostante tutte le sue luci sfolgoranti, Las Vegas risultava stranamente muta. I lampioni brillavano sui parcheggi vuoti, non si vedevano né auto né esseri viventi in giro, nessuno stava armeggiando con le slot-machine nei negozi o sotto i portici. Le facciate dei casinò in Fremont Street erano bagnate di luce di un’intensità quasi accecante, ma davanti al Golden Nugget, al Mint e all’Horse shoe i marciapiedi erano deserti. Grandi sezioni della città erano invase dalla giungla, e le insegne al neon del Dunes e del Desert Inn splendevano tra reticolati di viti e felci giganti. La zona sud della città, a est della Strip, era parzialmente sommersa da un grande lago, alimentato dai fiumi che scendevano dalle montagne, e una seconda Las Vegas, una città sott’acqua, incandescente come la prima, brillava da un mare di luci.

Si fermarono davanti al Golden Nugget. Wayne scrutò la via deserta, burrone surriscaldato, quasi più vivido della caldaia della Chrysler. Attese nervosamente che accadesse qualcosa. Accostò al marciapiede anche la Buick di GM, con un’ansiosa Xerox aggrappata al braccio del marito e il bebè nascosto sotto la camicia. E li raggiunse Pepsodent, i grandi occhioni a perlustrare intorno i paraggi, come inquieti riflettori. Un’ala dell’aliante penzolava dalle corde allentate, e Wayne si rese conto, per la prima volta, che essi erano esattamente una scalcinata troupe da circo, arrivata per una modesta esibizione aerea in quel luogo di follie ora in disarmo. O perlomeno, assopito in stagione morta. Las Vegas faceva impallidire senza sforzo anche i suoi sogni più fantasiosi. Forse i finanziatori delle case da gioco, i gangster e i croupier, abbandonando la città un secolo prima, non si erano curati di spegnere le luci, e questi burroni al neon si erano placidamente alimentati da un enorme invisibile accumulatore, caricato dalla febbre di generazioni all’inseguimento della dea bendata...

“Wayne...” Anne scosse nervosa i biondi capelli, mentre procedevano lenti verso la Strip. “Non possiamo rimanere qui, è tutta una pazzia. Forse stanno dormendo tutti?”

Wayne stava contando i silenziosi balconi degli alberghi. Si era socchiusa qualche imposta? “Anne, qui nessuno andava a dormire. Questa era una città senza orologi.” Picchiò il pugno sul parabrezza. “Ascoltate!”

Da un punto non lontano, lungo la Strip, giungevano gli echi di una musica, uno scroscio di applausi e una voce maschile. Un’orchestra che suonava, un’elegante orchestra da ballo. La voce del cantante alitò nell’aria notturna, in un confidenziale, rilassato ma pastoso baritono, che aveva un che di familiare.

Cinque minuti dopo, scesero dalle auto e si avvicinarono a cauti passi all’ingresso del Sahara Hotel. Dall’atrio ben illuminato, ma deserto, i suoni dello spettacolo erano udibili nitidamente: l’entusiastica partecipazione del pubblico, la voce sicura e suadente dello showman che, tra una canzone e l’altra, annunciava i titoli e li commentava. Wayne rassicurò con un gesto i nomadi rimasti tremebondi a bordo delle tre vetture, poi entrò nell’albergo. Precedette Anne e McNair tra le roulette e i tavoli silenziosi del black-jack. Ovunque, pile di fiches scintillanti sotto le luci, perfettamente allineate sull’immacolato panno verde dei tavoli.

Mentre entravano nella sala dalla porta sul fondo, Anne afferrò Wayne per un braccio. Lo guardò con improvvisa preoccupazione, cercando di svegliarlo da un sogno pericoloso.

“Wayne, è... Tu lo ricordi!”

Indugiarono tra l’ombra profonda dei tendaggi, guardando il palcoscenico illuminato. La sala era piena, un pubblico ben vestito, di mezz’età, stava seduto ai tavoli apparecchiati per la cena. Un cantante in lucido smoking nero era ritto nel cerchio del riflettore, il microfono alle labbra, il capo reclinato all’indietro, cantando le parole appassionate di My Way: “E più, molto di più di questo, ho fatto...”.

Il pubblico scoppiò in applausi e grida a sovrastare le ultime parole della canzone. Anche i camerieri si univano, parecchi dell’orchestra avevano abbassato i loro violini per battere le mani. Un uomo grande e grosso in abito a quadretti scattò in piedi e si tolse lo Stetson, e lo sventolava, mentre il cantante si inchinava ringraziando. Alcune donne si pulivano dal trucco gli occhi inumiditi dalle lacrime.

“Buon Dio!” McNair sgusciò oltre Wayne, in subbuglio per aver riconosciuto il cantante. “È Sinatra!”

Wayne aveva già identificato l’uomo col microfono, dalla corporatura arrotondata ma compatta, la testa in lotta con la calvizie e il parrucchino color ferro. Quello era il Sinatra del tardo periodo, il Sinatra dalle infinite esibizioni d’addio, dei concerti in cui presentava altri colleghi, quando l’America si aggrappava alle proprie ultime icone, agli emblemi da sempre riveriti, obbligandoli a tornare ancora e ancora sul palcoscenico. Mentre l’applauso si prolungava, i camerieri corsero veloci a rifornire i tavoli di bevande. L’orchestra attaccò un altro motivo.

“Wayne...” Anne Summers si guardò intorno, incerta, cercando l’uscita. “Dove siamo?”

“Aspetta!” Wayne indicò il riflettore che vagolava sulla scena. “Guarda questo, Anne.”

Sinatra si era girato verso le quinte, un ampio gesto di invito con la mano che teneva il microfono, mentre con le dita dell’altra mano batteva il tempo della musica. Una bella figura, in elegante smoking, venne avanti, sigaretta in una mano, bicchiere nell’altra.

“Signore e signori...” Sinatra sollevò il microfono per chiedere silenzio al pubblico. “Vorrei presentarvi un mio vecchio amico, un ragazzo che Bogie chiamò una volta il bevitore dei bevitori... Dean Martin!”

Trasportato dagli applausi e dalla musica, Wayne non staccava gli occhi dal palcoscenico, che il riflettore attraversava sciabolando. Il direttore d’orchestra sollevò la bacchetta, e un crescendo salutò una terza figura che era apparsa timidamente tra le quinte: una ragazza graziosa, dal viso fresco, con un abito di percalle e due treccine irresistibili. Lasciò che Sinatra la baciasse, si sbirciò le scarpe, quasi ad assicurarsi che fossero sempre al loro posto, fece un caratteristico saltello.

Di nuovo, Wayne riconobbe il personaggio: Judy Garland. Gli spettatori esplosero in applausi frenetici, il texano dall’abito a quadretti sventolò l’ampio cappello e agitò il sigaro, le donne si tamponarono coi fazzoletti gli occhi truccati. Sinatra rimise il microfono sull’asta. Prese per mano i suoi due ospiti, con i quali attaccò la canzone finale.

Wayne, circondando con un braccio le spalle di Anne in una stretta affettuosa, guardò il palcoscenico rutilante di luci. Dominava la propria eccitazione, a differenza di McNair che sembrava momentaneamente fuori di sé, e si contorceva come un matto da legare che tenti di nascondersi dentro la propria barba.

Anne si liberò dall’abbraccio. “Wayne, ma che sta succedendo? Siamo tornati indietro nel tempo?”

“Non credo, Anne. Però, è un bel trucco...”

L’idea lo fece sorridere. Tornare indietro nel tempo, al 1976, diciamo, una prospettiva felice, l’appagamento di tutti i suoi sogni, che in un qualche punto di questo continente fosse rimasto intatto un pezzo d’America. Anche in questa Las Vegas soffocata dalla giungla... Sinatra e Dean Martin, perché no? Ma Judy Garland? Avrebbe dovuto essere lì sua figlia, con i maturi Sinatra e Martin: Judy era morta di droga e alcol troppi anni prima per poter cantare, quale interprete adolescente, con quei capelli color paglia, i motivi del Mago di Oz. A parte che, la furba giovane Judy Garland non avrebbe mai cantato questa canzone di sfacciato autoincensamento. Era stata una della sua generazione, la ragazza di Kansas City, anche lei una sorta di clandestina. Anche Wayne veniva dal Kansas, ma da un Kansas molto diverso.

Staccatosi da Anne, si guardò attorno, con l’improvvisa sensazione che tutta la faccenda potesse essere un gioco contro se stesso, un giudizio tutt’altro che benevolo. In un certo senso, i tre stavano cantando la sua canzone, e lui ne era compiaciuto non meno del vecchio Sinatra...

“Lo sai, Anne, ho sempre desiderato vedere Sinatra.”

“Wayne, non mi dirai...”

Ignorandola, Wayne si mise a correre giù per la corsia centrale. I camerieri non fecero nulla per fermarlo, né alcuno tra gli spettatori parve accorgersi di lui mentre saliva la scaletta che dava sul palcoscenico. I tre cantanti, tutti impegnati nell’atmosfera del motivo musicale, mentre l’orchestra ascendeva in un assordante parossismo di suoni, parevano non vederlo, lì esitante nel raggio del riflettore, sebbene lo stessero fissando in volto. Le loro facce abbronzate, dal trucco perfetto, erano esattamente le stesse che Wayne ricordava dalle riviste di cinema.

“Mr. Sinatra...” Wayne allungò la mano, gridando per sovrastare l’orchestra. “Posso presentarmi?”

Sinatra mosse un passo in avanti, coi suoi duri occhi che ignoravano Wayne, schioccando le dita ad accompagnare le ultime battute della musica. Colpì con una gomitata le spalle del giovane. Prima che questi potesse intervenire, Sinatra girò su se stesso e perse l’equilibrio sulle gambe rigidamente unite. Urtò contro Dean Martin, a cui il bicchiere sfuggì di mano, scalciò elegantemente una caviglia di Judy Garland, e poi cadde riverso sul palcoscenico, dove giacque, ancora cantando e gesticolando, gli occhi privi di qualsiasi segno di emozione per quell’imprevisto cambio di posizione.

I riflettori quasi si smorzarono, palpitando. Come si addiceva a quell’albergo di lusso, tutto stava muovendosi in un ovattato pandemonio. Gli orchestrali avevano perso il filo della musica, i violinisti stavano placidamente facendo a pezzi i loro archetti e strappando le corde dei loro strumenti, uno dei suonatori di trombone ingoiava il bocchino del suo ottone, il direttore d’orchestra era intento a cacciarsi la bacchetta in un occhio. Sinatra era disteso a terra, di schiena, scalciando e gesticolando verso il soffitto.

“My way my way my way my wayiii...!” cantava in falsetto.

Vicino a lui, Dean Martin tirava frenetiche boccate dalla sigaretta, rovesciandosi sulla faccia il whisky. Il liquido ambrato gli colava giù per il naso a bagnare il sorriso amabile e ironico. Intanto, Judy Garland si agitava come un’epilettica. Si guardò le scarpette magiche, poi abbozzò un sorriso demenziale, si produsse in una serie di saltelli ancor più sussultanti che la lanciarono sulla scena, come una funambola.

“Di più di più di più di più...” tartagliò Sinatra, poi si fermò come una bambola inerte.

Mentre la musica andava trascinandosi in un penoso alternarsi di alti e bassi, i riflettori presero a roteare a casaccio sulla sala. Camerieri che correvano a vanvera come impazziti; una delle signore si assestò un pugno sull’occhio; il grosso texano con la giacca a quadretti si alzò, con una mano si ficcò il sigaro in gola, con l’altra si decapitò. Quando Dean Martin si irrorò la faccia con le ultime gocce di whisky, il pubblico applaudì con tanta frenesia da farsi staccare le mani dai polsi. I vezzosi saltelli di Judy Garland erano diventati un tremolante ballo di San Vito; infine si accostò all’orlo del palcoscenico e cadde nella sezione dei fiati, i cui componenti andavano compitamente scambiandosi pugni in viso.

Dopo un ultimo sussulto, tutto piombò nel silenzio. Nel giro di un secondo, come se fosse stato tolto un tappo, gli spettatori si irrigidirono in un’immobilità inamidata. I riflettori si spensero, un silenzio irreale pesò sulle file dei tavoli, camerieri senza più la testa giacquero tra vassoi e bicchieri.

“Wayne... forse è ora di piantarla di scherzare.”

Si accesero le luci di emergenza, mentre McNair lanciava il suo avvertimento. Alla luce incerta, Wayne scorse sulle porte posteriori un gruppo di figure in uniformi color oliva, i volti nascosti dalle visiere dei berretti. Sei di loro circondarono McNair e Anne Summers. Figure minute e strette di spalle, poco più che fanciulli, ma con pistole in pugno.

Il capo venne avanti e fece segno a Wayne. Un capo che aveva perlomeno diciott’anni, ma che sembrava molto più giovane di Wayne, il viso truce nascosto dalla mascherina di plastica di un grosso casco giallo da pilota di elicottero.

“Lo show non è finito, Mr. Wayne,” disse con voce piatta dall’accento spagnolo. “Ma Mr. Manson desidera che lei assista al finale in altra sede.”

Il tono della voce era meccanico e indifferente al punto da far pensare a Wayne che quei giovincelli in divisa color oliva fossero essi stessi dei robot, come tutti gli spettatori, i camerieri e i simulacri da cartone animato Garland, Sinatra e Martin. Erano forse capitati in una Las Vegas popolata da automi, macchine per tener caldi i tavoli da gioco in attesa che arrivassero i giocatori veri? Ma, mentre esitava, il giovane con il casco giallo puntò la pistola in un modo che Wayne aveva visto fare troppe volte in passato, il gesto annoiato ed eloquente della polizia federale europea. Quell’imberbe messicano lo guardava con occhi sospettosi che nessun fabbricante di robot sarebbe riuscito a riprodurre.

Quando Wayne gli fu davanti, il capobanda gli fece alzare le braccia e lo perquisì con fare esperto. “Le è piaciuto lo spettacolo, Mr. Wayne? Non male, vero? Il genere di maestria cibernetica che voi americani del Vecchio Mondo non vedevate da tempo. Allora, dove ha nascosto le sue armi?”

Wayne alzò le spalle, e il messicano scattò: “Andiamo! Abbiamo dei filmati in cui lei usa un Winchester, impallinando serpenti e... carogne. Vero, Wayne?”. Fissò Wayne negli occhi con uno sguardo che non era affatto fanciullesco, quasi fosse del tutto consapevole del perché Wayne volesse attraversare l’America. Aveva i lineamenti forti ma inquieti dei giovani studenti messicani che Wayne aveva osservato nella mensa dell’università americana a Dublino, a meditare in silenzio – così aveva supposto Wayne erroneamente – i loro sogni di tequila, corride e mañana. Ma questo giovane era di matrice diversa, dava l’idea di una miccia a combustione lenta che stesse arrivando all’innesco... Wayne pensò, perché no?... Se avesse provato a stenderlo con un diretto...

Colei che sembrava il vicecapo, una bella ragazza sui diciassette anni, con un paio di occhialoni da motociclista rialzati sui folti capelli neri, agitò significativamente un’argentea radio portatile.

“Paco, il presidente ci ha detto di lasciarli stare. Li vuol vedere stasera. Paco...”

Gli occhi di Paco si ritrassero dietro la maschera di plastica, nel racchiuso e privato universo del casco. “D’accordo, Ursula, se è questo che vuole il presidente.”

McNair si fece avanti, respingendo un giovane armato che stava grattandosi la barba incipiente. “Il presidente? Che presidente?”

“Già, che presidente?” ripeté Anne Summers. Si disancorò dalla stretta di due minorenni in divisa, e girò lo sguardo sul cerchio di quegli adolescenti, armati e incuriositi, come un’insegnante alle prese con un elaborato scherzo della propria scolaresca. “Di che presidente state parlando?”

“Del presidente degli Stati Uniti,” replicò Paco tranquillamente. “Il presidente Manson.”

19. 
L’eremo di Hughes

In seguito, e dopo una breve colluttazione – come doveva ricordare Wayne –, il gruppo degli adolescenti lo portò fuori dall’albergo, oltre le roulette e i tavoli silenziosi del black-jack, nella notte scesa all’improvviso. Innumerevoli insegne al neon splendevano tra il fogliame della giungla che circondava i grandi casinò della Strip, accendendo di luce la parte inferiore di milioni di foglie. All’esterno del Sahara Hotel erano parcheggiate tre berline nere, le griglie del radiatore come armoniche cromate. Wayne le riconobbe immediatamente, filanti e capaci carrozzerie, tipiche dell’ultima grande era dell’automobile: una vera Buick, una Pontiac e una Dodge degli anni sessanta.

Un gruppetto di giovanissimi, armati e in divisa, aspettava vicino alle auto, conversando amichevolmente con i quattro tremebondi nomadi. Una macchina della polizia, con le caratteristiche portiere verniciate di bianco, passò a tutta velocità lungo la Strip, seguita dagli occhi attoniti di Pepsodent. GM protesse moglie e bebè dalla sirena ululante, circondandoli con le braccia e sospingendoli sotto il cruscotto. Da parte sua, Heinz faceva del suo meglio per rispondere alle domande dei giovani messicani circa i pistoni e le trasmissioni delle vetture a carbone.

“Bene, i tuoi amici verremo a prelevarli più tardi.” Paco spinse Wayne sul sedile del passeggero della Pontiac, poi salì dietro, mentre Ursula avviava la macchina, che partì immediatamente, quasi avesse il motore già caldo. Wayne riuscì a scorgere con la coda dell’occhio Anne Summers e McNair che venivano sospinti dentro la Dodge. Poi si allontanarono nella notte, seguendo veloci le sponde di un lago illuminato. Un chiarore sfarinato che si dissolveva nell’acqua, festoni di zucchero candito che fluivano dalle facciate dei grandi night club, simili a scolorite cattedrali.

Ursula accese la radio sul cruscotto. Ne uscì un sottofondo di crepitii, mescolato a una conversazione. Un controllore di volo dalla voce infantile parlava di copertura di nuvole sulle Montagne Rocciose, per poi passare all’elenco dei punti di rifornimento carburante a Flagstaff e a Phoenix. Ursula sfiorò un altro tasto, e subito l’auto fu riempita del potente ritmo di Elvis Presley. Subentrò un disc jockey vecchio stile, in un commento che affastellava concitato gossip su personaggi dello spettacolo, informazioni di partenze e arrivi aeroportuali e pubblicità per le candele di un concessionario d’auto.

“Ursula, per l’amor di Dio...” Paco si afferrò rintronato i bordi del casco. “Guarda che siamo in servizio.”

Sbuffando, Ursula abbassò il volume della radio, inarcando le belle sopracciglia a beneficio di Wayne. “Paco, sei troppo serio e barboso... sempre questi Stravinskij Stockhausen e John Cage. Quand’è che verrai a ballare? Wayne, ti farò vedere i miei passi di jive. O magari, sei un tipo da tango?”

“Forse,” concordò prontamente Wayne, ansioso di ingraziarsi quella beltà dalle spalle possenti, con tanto di occhialoni e tenuta di guerra. “Una stazione radio... Non scherzate, voi. Quanti siete qui?”

“Non abbastanza,” replicò Paco, alquanto tetramente. “Un centinaio, forse di più. Abbiamo bisogno di nuove reclute, ma l’America non piace a nessuno. E non mi sorprende. Quella musica spaccatimpani è vecchia di cent’anni, un nastro che abbiamo trovato in un programma dell’emittente locale. Come riuscivano a sopportarla?”

“Be’, ha una sua vitalità,” sottolineò Wayne. Non gli era mai venuto in mente di criticare gli Stati Uniti, e i giudizi negativi di Paco lo contrariavano. “Siete tutti della stessa tribù... i Gamblers?”

“No!” Mentre Ursula scoppiava a ridere, dando una pacca cordiale sulla spalla di Wayne, Paco sbuffò con disprezzo. “Ursula e io veniamo da Chavez, il porto franco chicano della Bassa California. Il gringo sei tu, amico, sei tu l’americano. Ricordalo, furono schiene di messicani a costruire questi alberghi. Oh, non agitarti... non ho intenzione di recriminare per Montezuma. Ma stavolta non saremo affatto camerieri e fattorini.”

“Hai ragione. Anch’io ho dovuto fare il clandestino per venire in America.” Wayne guardò gli alberghi che sfilavano via veloci, ognuno circondato da ettari di parcheggi deserti. Un centinaio di questi adolescenti e un tale che si faceva chiamare presidente. Si sentì sollevato, il numero era abbordabile. A parte l’ululante macchina di “servizio” e lo sfolgorio di luci, Las Vegas era quasi vuota. “Comunque, partite bene. Già avete un’aeronautica militare.”

Fu un’intuizione astuta. Paco fece un gesto a minimizzare. “Soltanto l’apparecchio personale del presidente, un Sea King, e qualche scassone. Di carburante per aviazione ce n’è un fottio nei depositi governativi, sufficiente per un paio d’anni, ma ci vuol tempo per addestrare il personale. Il tuo amico McNair, lui è un buon tecnico. Ci sarà utile. E anche la professoressa.”

Pensando al grande deserto del Kansas, alla morte di Orlowski e alla propria quasi catastrofe a Boot Hill, Wayne domandò aspramente: “Avete visto tutto quanto? Perché non siete venuti ad aiutarci?”.

“Sta’ calmo...” Paco sbirciò Wayne con aria conciliante, sulla difensiva, incerto se fosse saggio ammettere il nuovo venuto nel loro privato dominio adolescenziale. “Io vi ho visto solo nel film – abbiamo qualche cinepresa robotizzata sull’altro versante delle Montagne Rocciose, che zuma su qualsiasi cosa si muova. Comunque, una bella iella per quei due amici tuoi.”

“Due? Hai visto Steiner? Il capitano?”

Il viso di Paco si rifugiò nelle ombre del casco. “Non l’abbiamo visto. Dev’essere morto quasi subito, Wayne. Se si fosse mosso, il presidente lo avrebbe filmato.”

La Pontiac stava entrando nel parcheggio di fianco a un grande albergo. I tre scesero e si avviarono verso i cancelletti di un ascensore privato, munito delle insegne presidenziali.

“Il Desert Inn Hotel,” commentò Paco mentre salivano. “Ti dice niente? Il nome di qualcuno, magari?”

“Naturale: Howard Hughes.”

“Bravissimo, Wayne. Sei ben documentato. Ma Mr. Manson preferirà...”

Erano arrivati all’attico, e l’ascensore li depositò su un silenzioso corridoio con la moquette. Una luce anonima rischiarava una scrivania cromata a cui sedeva un ragazzo in camice bianco, intento a leggere un fumetto.

“Ciao, Paco. Il vecchio sta scalpitando.”

“E noi siamo qui.” Paco sbirciò il fumetto – Batman e Robin contro Catwoman – e lo buttò nel cestino della carta straccia.. “Che ne hai fatto del libretto di manutenzione che ti ho dato?”

“Oh, Paco...”

Con un sospirone teatrale, il ragazzo schiacciò un pulsante sulla parete. Le porte si aprirono sul vestibolo di un grande ma sobriamente ammobiliato appartamento privato. Lì, un secondo ragazzo in camice bianco da laboratorio stava controllando una linea di consolle elettroniche, di colore blu acciaio, addossate a una delle pareti. Sebbene le finestre dessero sulle luci della città notturna, l’aria dell’appartamento risultava stranamente sterile. Nei locali era stato installato un complicato sistema di condizionamento d’aria, i cui tubi rasenti al soffitto correvano dall’attigua camera da letto a un nido di filtri a ventola inseriti nelle finestre. Le ventole frusciavano ininterrottamente, in disciplinata risposta alle più piccole fluttuazioni dell’umidità e della temperatura.

Facendo segno a Wayne di seguirlo, Paco aprì la porta della camera da letto. Una metallica luce azzurra, come quella di un reparto di terapia intensiva di una clinica, si posava sul corpo bianco come marmo di un uomo di mezz’età, sdraiato su un lettino chirurgico, di fronte a una batteria di schermi televisivi. L’uomo era nudo, tranne per un asciugamano che gli avvolgeva i lombi, e teneva in mano un inalatore d’aerosol. Nell’altra mano, un telecomando. La luce azzurra tremolava sulla pelle bianchissima, dandole un palpito congestionato e malsano, quello di sangue venoso compresso che lotti per tornare a un cuore troppo frenetico. Gli occhi dell’individuo erano fissi sulla sfilata degli schermi, quasi la sua vera esistenza risiedesse nel loro afflusso ionizzato di immagini, piuttosto che nel fremito irrequieto della sua muscolatura.

“Presidente Manson...” Mentre in anticamera Ursula sfogliava il fumetto di Batman, Paco spinse avanti Wayne. Gli indicò la linea bianca verniciata sul pavimento in corrispondenza della soglia, affinché Wayne non la superasse. “Mr. Wayne – il presidente degli Stati Uniti.”

Wayne esitò, tentando di identificare la spiritata figura mezza nuda. La fronte pronunciata, il naso e le guance carnose gli ricordarono di colpo il vecchio presidente Nixon, ospite adesso, in un esilio secolare, nell’eremo di Howard Hughes a Las Vegas. La somiglianza era inquietante, come se l’uomo davanti agli schermi televisivi fosse un abile attore, specializzatosi nell’impersonare presidenti, e avesse scoperto di poter imitare Nixon in modo più convincente di ogni altro. Di Nixon esibiva le lunghe occhiate, le palpebre abbassate di colpo, quel misto di idealismo e cinismo, la profonda malinconia e la diffidenza accoppiate allo stesso tempo a una potente sicurezza di sé.

Sopra la testa di Wayne, allineato con la striscia bianca sul pavimento, c’era il pannello metallico di un ventilatore, che tambureggiava sommesso nella luce azzurrina, succhiando l’aria dal corpo del visitatore, a decontaminare la stanza sterilizzata.

“Entra, Wayne! Aspetto di conoscerti fin dal momento in cui hai lasciato Washington.” L’uomo sul lettino si girò e regalò a Wayne un sorriso irreale. Ma quando il giovane venne avanti, superando la linea bianca, l’altro, con un rapido gesto meccanico, sollevò l’inalatore, mentre correva con le dita sui tasti del telecomando, per impedire che Wayne si accostasse troppo. Controllandosi, ripeté quel suo strano sorriso.

“Non è stato un viaggio da niente, il tuo, Wayne. Mi sono sentito orgoglioso di te... Paco, puoi andare. Controlla il Sea King e i mezzi volanti d’assalto, domani ci aspetta una lunga giornata.”

Dopo che Paco ebbe fatto il saluto militare e fu uscito, Manson indicò col telecomando uno degli schermi televisivi. L’immagine mostrava la sala da concerto – ora silenziosa – del Sahara Hotel, gli spettatori-robot collassati tra i tavoli.

Manson scosse malinconicamente la testa. “Che disastro, il vecchio professore sta perdendo il suo tocco. È un bene che siano arrivati i tuoi amici, Wayne, posso utilizzarli a dovere. McNair, in special modo: mi piacciono le sue auto a carbone e quell’aliante a pedali. Ma per lui ho un lavoro più importante, il più importante di tutti. La NASA e Von Braun avrebbero potuto avere uomini preziosi come McNair, se l’opinione pubblica americana non si fosse rammollita davanti a un’Era spaziale – e rammollita davanti a tutto il resto... Tu hai lo spirito del pioniere, Wayne, ti ho studiato, ragazzo mio. In effetti, ero preoccupato per te, forse hai preteso troppo da te stesso, ma è questa la stoffa di cui abbiamo bisogno qui. Se solo fossi più giovane anch’io...”

Manson andò avanti, divagando, inseguendo pensieri privati, da cui Wayne adesso era escluso. Adagiato sul lettino, con l’aerosol e il telecomando in mano, incarnava un moderno faraone, che reggeva il globo e lo scettro del suo ufficio. Il mosaico delle immagini si rifletteva baluginante sul suo viso malaticcio.

Wayne esaminò, uno per volta, gli schermi. A parte lo sfascio nella sala da concerto del Sahara, i video mostravano un aeroporto semilluminato in un qualche punto di Las Vegas; un ristorante sul lago, sulla cui terrazza sedevano Anne Summers e McNair, come due turisti abbandonati; una stanza dall’alto soffitto e mappe plastificate alle pareti, con la bandiera a stelle e strisce a far da sfondo a un’enorme roulette; la sala operativa di una centrale nucleare, dove due ragazzi stavano spazzando il pavimento piastrellato; una veduta aerea della Strip, dal tetto di un albergo, le finestre illuminate e chiaramente visibili dell’attico del Desert Inn.

Le immagini si susseguivano, colorando col loro riflesso la pallida pelle di Manson, un’epidermide spettrale. Sulla parete alle spalle del “presidente” c’era un gruppo di foto incorniciate, copie di vecchi documentari della metà e della fine del ventesimo secolo. Wayne le riconobbe tutte: la navicella spaziale Apollo, i missili Titan e Minuteman, un bombardiere strategico B-52, e un uomo d’alta statura, dal viso assorto sotto l’ala del cappello, un uomo in posa al fianco di un grosso idrovolante plurimotore.

Manson, con i suoi occhi circospetti e con un sorriso astuto sulle labbra, stava adesso osservando Wayne. “Quello, lo sai chi è? L’uomo nel cui appartamento ci troviamo? Certo che lo riconosci. È Howard Hughes, l’ultimo dei grandi americani. L’uomo di cui occupo l’impero, quello che ne è rimasto dopo lo scempio fattone da quei pigmei. Questo era il suo eremo, Wayne. Esattamente dove ti trovi tu in questo momento, all’ultimo piano del Desert Inn, Las Vegas, egli chiuse la porta sul mondo. La decisione più lungimirante mai presa da un americano...” Gli occhi di Manson erano umidi, di un’emozione chiaramente presente e tenace. “Sono felice che tu sia qui, Wayne, mi piace il tuo aspetto. Hughes mi avrebbe esortato ad averti caro. Chiunque sia stato capace di attraversare l’America in tre mesi, deve avere nelle vene un sangue pulito come il vento.”

D’impulso, Wayne mosse oltre la linea bianca. Il fruscio febbrile delle pale del ventilatore parevano volerlo respingere. Ma Manson si era seduto sul lettino, lisciandosi i capelli neri. Gli sorrise con indubitabile compiacimento, quasi identificando in Wayne una versione più giovane di se stesso.

“Ti abbiamo seguito passo passo nel tuo viaggio in terra americana, Wayne. Sapevo che ce l’avresti fatta, fin dal primo momento che ti ho visto a spasso per Broadway, avevi stile e slancio. Tre mesi... Avevo la tua età quando venni fin qui, lo sai che mi ci vollero due anni per arrivare? Dovetti trascinarmi, carponi, nella polvere. E ne sono rimasto avvelenato, Wayne, un virus sconosciuto mi è entrato nel sangue, un bacillo che la nazione morente si lasciò dietro, un microbo fatto di fallimenti e di sogni di seconda scelta...”

Manson si guardò il corpo esangue, un intruso infetto nel suo spazio mentale. Con una smorfia di disgusto, proseguì: “Restate qui qualche settimana, tu e i tuoi amici avete bisogno di riposarvi. Potreste decidere di fermarvi più a lungo, a dare una mano alla Società Hughes a rimettere in piedi i vecchi Stati Uniti; ma prima dobbiamo impedire che il virus si propaghi. Sì, Wayne, il virus. Credimi, ci sono vettori della malattia che avanzano dall’Est. I ragazzi del laboratorio non l’hanno ancora identificato, ma esiste, purtroppo, e c’è un unico antidoto. Una volta che l’avremo bloccato, qui ci sarà un grande avvenire. Prima o poi avrò bisogno che qualcuno mi subentri, sono presidente già da sette quadrienni. Potresti essere vicepresidente, Wayne, anche presidente degli Stati Uniti...”.

La voce di Manson si fece indistinta, le braccia gli ricaddero lungo i fianchi. La porta si aprì di uno spiraglio, e Paco fece segno a Wayne di lasciare la camera da letto. Il suo viso era privo di espressione, come se fosse più che abituato a vedere visitatori di passaggio onorati dalla promessa di una presidenza.

Sulla porta, Wayne si girò a guardare. Manson giaceva sul lettino, semiaddormentato, la mano sinistra stretta sull’aerosol quasi fosse stato un biberon, la destra a tormentare i tasti del telecomando, traendo dagli schermi un susseguirsi di immagini a singhiozzo.

Ciò nondimeno, pur con tutte le sue manie, la sua ossessione per i germi e le malattie, Manson era riuscito a costituire la sola base di potere organizzato che, in cent’anni, fosse esistita nel Nord America. La bonifica di quella città nella giungla, i milioni di luci colorate che splendevano tra felci e palmizi, l’elaborato sistema televisivo e di comunicazioni, il ripristino di almeno una parte del vecchio impero di Hughes, tutto riportava in vita qualcosa della potenza statunitense, e preludeva a quanto si sarebbe potuto fare in futuro. Per quel che sconcertante potesse risultare, Manson aveva riconosciuto lo stampo di Wayne, il suo carattere nel lungo viaggio attraverso il continente, l’ambizione che aveva portato il giovane clandestino, figlio bastardo di una segretaria di Dublino, a diventare il capo della spedizione dell’Apollo.

Ma, si chiedeva Wayne, doveva rimanere lì con quello strano recluso, oppure ripartire e raggiungere la California?

Sulla porta, udì l’ultimo richiamo di Manson, quasi un’implorazione annebbiata dal sonno incipiente.

“Rimani qui, Wayne. Resta con me e diventa presidente...”

20. 
Il diario di Wayne: parte seconda

2 novembre. Sands Hotel, Las Vegas

Una settimana stupefacente. Rientro adesso da una visita, assieme ad Anne e McNair, alla centrale nucleare del lago Mead. Loro ne sono rimasti impressionati quanto me. Il reattore ad autorigenerazione veloce rifornisce di energia elettrica tutta Las Vegas: tutti i tubi al neon, gli impianti televisivi, il telex. Riposando qui, nel mio appartamento al decimo piano del Sands, ho tutto l’albergo per me: gli altri unici ospiti sono due giovincelli, Chavez ed Enrico, che occupano l’attico e hanno il compito di scarrozzarmi in giro su una Cadillac modello 1956 nuova di zecca (alette di coda, parabrezza avvolgente, carrozzeria pastello). Anne alloggia all’Hilton, McNair allo Stardust.

Ho visto un bel po’ dell’operazione Manson, con in più qualche puntata lungo le strade nella giungla che portano in California. Veri e propri Stati Uniti in miniatura, inseriti qui nel mezzo di questa foresta tropicale amazzonica, alimentati dal genio paradossale e discreto di Manson. Lui se ne sta dietro le quinte, di rado emerge dall’appartamento di Hughes al Desert Inn, ma io mi convinco sempre più che il futuro dell’America, e forse del mondo intero, è qui a Las Vegas, con Manson. È un nucleo denso di possibilità che potrebbe espandersi fino a trasformare il pianeta, a cominciare ogni cosa ex novo. Manson sta comunque lavorando con questo fine, e, per molti aspetti, ha ogni diritto di arrogarsi la carica di quarantacinquesimo presidente. Nell’ipotesi che io rimanga qui con lui, e divenga il suo braccio destro – che sembra essere ciò che lui vuole – non riesco a smetter di pensare a chi potrebbe essere il quarantaseiesimo...

5 novembre. Sands Hotel, Las Vegas

Sotto molti aspetti, questo è un posto ben strano. Ho trascorso la mattinata all’aeroporto internazionale McCarran, la principale base ingegneristica dell’operazione Manson, e al vecchio Hughes Executive Air Terminal, che si occupa del settore comunicazioni. Ho notato che, fatta eccezione per Manson, qui nessuno supera i vent’anni di età. Il che vuol dire che lui ha fatto tutto quanto da solo. È circondato da questo seguito di giovanissimi entusiasti, per lo più messicani che ha reclutato dai piccoli insediamenti della Bassa California. Li ha addestrati sulle macchine pilota nell’officina Hughes, a un alto livello di efficienza nella pratica e nella manutenzione dei computer, nell’elettrotecnica, nelle trasmissioni e via dicendo. C’è una flotta di elicotteri, in massima parte adibita alla ricognizione fotografica della California meridionale; e non manca una piccola scuola di addestramento al volo, di cui è capo istruttore Paco.

Difficile dire con esattezza quanta gente ci sia qui. Metà delle forze di Manson è in giro di continuo, o a fare prospezioni per il carburante (tutta la benzina proviene da cisterne segrete, lasciate dagli enti governativi o dalle multinazionali), o a setacciare l’area di Los Angeles alla ricerca di barre di alimentazione per l’installazione nucleare e componenti elettronici. Ultimamente, la caccia si è estesa ancora di più, fino alla vecchia base della marina a San Diego e alle fabbriche già specializzate in computer nei pressi di San Francisco.

Il resto degli effettivi è qui a Vegas, la maggioranza lavora nell’aeroporto, a ripristinare i vecchi elicotteri negli hangar-officina, a ricavare da camion e automobili tutto quanto possa servire a specializzarsi in radio e TV. E nonostante la dovizia di fumetti tipo Batman, l’atmosfera è assolutamente puritana. Questi ragazzi sono impegnatissimi nei loro compiti, è indubbio. Mentre Enrico ci portava in visita, loro non sono stati affatto propensi a perder tempo per rispondere alle nostre domande.

Erano, però, interessati alle notevoli cognizioni tecniche di McNair e alla competenza di Anne Summers in campo nucleare. I più dotati dei ragazzi e delle ragazze lavorano alla centrale nucleare del Lago Mead – non è impresa da poco farla andare avanti, e la loro preoccupazione è evidente. McNair e Anne domani tornano lì a dare una mano. Ed è anche chiaro che le luci di Las Vegas sono deliberatamente tenute accese senza risparmio, non perché qualcuno abbia interesse a reclamizzare le case da gioco, ma per far funzionare il reattore a pieno regime. Il programma di Manson è che, una volta messo completamente in sicurezza l’impianto del Lago Mead, si possa procedere a utilizzare quelli di Phoenix e Salt Lake City, per la successiva spinta rigeneratrice verso l’Est. Rischioso, naturalmente – secondo il parere di Anne, un sottoprodotto del reattore veloce del Lago Mead equivarrebbe a una quantità considerevole di armi al plutonio.

16 novembre. Sands Hotel, Las Vegas

Un leggero fastidio. Sono ormai due settimane che non vedo Manson a quattrocchi, e comincio a pensare che Paco mi tenga lontano dal presidente. Tre giorni fa c’è stato un fuggevole contatto con Manson nell’atrio del Desert Inn – dopo ore che stavamo aspettando per discutere su un possibile viaggio a San Francisco per accertare i danni del terremoto. Manson è apparso all’improvviso, con uno strano vestito blu, e con un sorriso imbarazzato. Ha salutato Anne e McNair, augurando loro buona fortuna, e poi è sparito nella sua auto. Da allora non l’ho più visto. McNair e Anne ne sono rimasti un po’ sconcertati, ma i ragazzi gli piacciono e apprezzano l’impegno che ci mettono nel loro lavoro. Dicono entrambi di essere pronti a restare qui per un paio di mesi, finché non arrivi una missione di soccorso e non comincino le trattative per approvare ufficialmente tutta l’impresa di Manson.

Loro due, perlomeno, hanno un ruolo attivo. Ma io sono lasciato piuttosto ai margini, senza nulla da fare. Dato che sono irrequieto, sto diventando un po’ troppo curioso di Paco. I miei tentativi a fin di bene di rendermi conto della reale portata dell’impero di Manson sembrano indisporre il ragazzo. Non credo che si renda conto di quale sia la posta in gioco, e di come Mosca possa reagire. Ovviamente, Manson dispone di mezzi a vasto raggio, con almeno due elicotteri sull’altro versante delle Montagne Rocciose, con la possibilità di controllare le centrali disattivate sulla costa orientale. La spedizione dell’Apollo dev’essere stata avvistata non appena siamo arrivati al porto di New York, per essere poi segnalata a Manson grazie alle antenne della vecchia emittente televisiva, grandi torri con collegamenti microonde che abbracciano il continente.

Ancora stamattina, quando ho sollevato casualmente l’argomento con Paco, lui si è fatto silenzioso, e mi sono accorto all’improvviso della Colt 45 che porta alla cintura. Ho cercato di farlo parlare dell’esplosione nucleare che ha devastato Boston, ma lui è stato piuttosto evasivo, ha cominciato a prospettare i pericoli della malattia, guardandomi come se fossi uno dei portatori del virus che affligge Manson. È evidente che un qualche nuovo virus particolarmente aggressivo è rimasto in incubazione nei vecchi laboratori di armi biologiche, e che l’unica soluzione sicura è cancellare l’intera area urbana che ne è stata colpita.

Ma in che modo? Manson ha messo le mani su qualche arma nucleare? Il vecchio poligono atomico sperimentale è a soli cinquanta chilometri a nord di Vegas. Ne ho parlato con Anne e McNair, anche loro sono preoccupati, ma nessuno sembra saperne di più. Manson è oltremodo riservato, e ovviamente non ha detto molto a questi ragazzi, per paura di terrorizzarli e indurli a disertare.

Sono ragazzi che fanno tenerezza, ma sono estremamente provinciali e non credo che resisterebbero a lungo nel mondo reale. Un’ora fa, quando sono uscito a prendere una boccata d’aria, una jeep di pattuglia, con a bordo Ursula e due fanciullette armate, era ferma sulla Strip davanti al Caesar’s Palace, ridotto a un grande decrepito mausoleo. Il trio stava minacciando Heinz e Pepsodent, che avrebbero tentato di entrare nell’atrio, puntandogli in faccia le pistole! Questi giovani messicani nutrono speciale disprezzo per i protoamericani, neri o bianchi che siano, considerandoli aborigeni degeneri. Per fortuna è arrivato McNair sulla sua grande Rolls-Royce, e ha evitato il peggio, precisando di aver nominato Pepsodent suo autista personale. Sollievo e gratitudine indicibili. Xerox, con GM e il bebè a rimorchio, è diventata la cameriera di Anne, mentre Heinz sembra riluttante a considerarsi addetto alla mia persona. Continua a guardare le alture della giungla: secondo me la vecchia lenza ricalca le orme di Davy Crockett.

18 novembre. Sands Hotel, Las Vegas

Un altro tassello si aggiunge al puzzle. Questa sera Manson ha organizzato uno spettacolo in nostro onore, di un tipo molto speciale. Ci aveva invitato a cena al Desert Inn, ma, inutile dirlo, non si era fatto vedere. Mentre ci riposavamo sulla terrazza, da una sorta di proiettore c’è stata un’improvvisa sciabolata di luce accecante a spazzare il lago, un vivido raggio largo quanto un’autostrada. Una dozzina di arcobaleni palpitanti nell’aria notturna, che si sono poi spostati a formare un’immensa figura tridimensionale, alta quanto un grattacielo. Siamo rimasti tutti a guardare quell’immagine: un animale vibrante, uscito dalla vecchia tappezzeria di un asilo infantile, con una faccia rotonda e sorridente, le orecchie sporgenti come neri ventagli, un naso a bottone.

Mickey Mouse, il glorioso Topolino, naturalmente. Anne e McNair ne sono rimasti sbalorditi, ma io avevo già visto qualcosa del genere, là nel deserto, a Boot Hill. Sul tetto del Silver Slipper c’erano due dei ragazzi di Manson intenti a manovrare il proiettore e a scaricare tutta una serie di questi cartoni animati olografici, a mezzo laser. Dopo Topolino, è stato il turno di una grande statua di donna, a piedi nudi, in abito rosa sollevato in modo provocante al di sopra delle cosce. Incombeva a gambe divaricate sopra Las Vegas, i biondi capelli rovesciati all’indietro, la fredda luce della fontana del casinò a inargentarle le gambe. Marilyn Monroe, ovviamente.

È stato uno straordinario spettacolo di luci. Per un’ora, le icone nazional-popolari del passato americano si sono succedute in parata: Superman e Paperino, Clark Gable e l’Incredibile Hulk, una bottiglia di Coca-Cola alta venti piani, la nave spaziale Enterprise come una raffineria di petrolio aviotrasportata, tutta tubazioni e cilindri d’argento, una banconota da un dollaro grande quanto un campo da football e di un verde smagliante. Chiudeva il corteo una successione di presidenti: Jefferson, Lincoln, F.D. Roosevelt, Eisenhower e Jack Kennedy, enormi teste maestose a riempire il cielo notturno. La fine in dissolvenza ci ha mostrato l’immagine inquietante di un uomo, cupo in viso e vestito di blu, l’eminenza grigia di questa un tempo spensierata città di milioni di luci: il nostro anfitrione...

Ad ogni modo, adesso conosco la sorgente delle visioni terrificanti che hanno fatto fuggire le tribù nomadi dai loro territori di caccia verso la costa orientale, e so cos’è la nave spaziale che GM, Heinz e Pepsodent hanno visto nel cielo di Boston. La squadra di giovani di Manson era andata di città in città, irradiando quelle visioni laser per indurre gli indiani ad andarsene. La potenza di queste immagini è sconvolgente – ricordo fin troppo bene i giganteschi Fonda, Wayne, Ladd e Cooper troneggiare sopra Boot Hill. I ragazzi di Manson dovevano essere stati lì. Forse Manson voleva mettermi alla prova, spingermi verso l’Ovest, cercare di darmi la forza di attraversare le Montagne Rocciose? Penso che lo spettacolo di questa sera fosse il suo modo sottile di dirmi di ignorare Paco e ogni banale problema che qui mi venga frapposto.

23 novembre. Beverly Hills Hotel, Los Angeles

Ieri, finalmente, Manson si è fatto vedere! Si è materializzato dall’umido cielo di Las Vegas come un angelo in fuga, all’inizio di una rinvigorente puntata di tre giorni in California. Subito dopo la prima colazione nel mio appartamento al Sands – uova di quaglia, tartufi, pancetta di cinghiale (le foreste attorno a Vegas abbondano di selvaggina; c’è di tutto: dagli apali ai mandrilli, ai leopardi delle nevi e agli ibis scarlatti, tutti fuggiti dagli zoo della California meridionale) –, c’è stato un fracasso assordante sul soffitto, come se l’intero albergo stesse sollevandosi da una rampa di lancio. Il Sea King di Manson era atterrato sul tetto rinforzato. Intanto, un elicottero ambulanza, con le insegne presidenziali, e pilotato da Paco in persona, decollava: un giorno di vacanza dalla scuola di volo.

Al citofono mi è arrivata la voce, strana e distorta, di Manson che mi invitava a raggiungerlo per un giro d’ispezione ai progetti di bonifica a Los Angeles. Con l’ascensore, mi sono portato subito sul tetto, ingobbendomi sotto un uragano di petali di orchidee scaturite dalla giungla sottostante, per infilarmi nell’abitacolo, di fianco a Paco ai comandi. Manson era seduto dietro una tramezza di vetro, su una speciale cuccetta da pescatore d’altura, orientabile, attraverso un perno, a babordo e tribordo. Aveva un aspetto assai presidenziale, una fulva tenuta da safari; a me pareva un eccentrico proprietario terriero che pregustasse una battuta di caccia. Già in attesa di noi, nel cielo sopra il centro di Vegas, nostra scorta armata: due elicotteri senza pilota ma muniti di bocche da fuoco, e telecomandati da Paco, essendo la loro strumentazione radiocollegata a quella del Sea King.

Ci siamo messi in formazione e siamo partiti veloci verso sud-ovest, lasciandoci ben presto alle spalle Las Vegas, una corona illuminata, un buco risplendente nella giungla. Paco manteneva la rotta a un centinaio di metri circa al di sopra delle cime degli alberi, affiancato dai due elicotteri robot. Di lì a poco, abbiamo raggiunto il confine tra California e Nevada, e abbiamo puntato verso il Deserto del Mojave. Sotto di noi si stendeva l’ininterrotto baldacchino della foresta, alberi a stretto contatto, divisi dal nastro di cemento delle strade. Strano pensare che un tempo quello era stato un deserto arido. Adesso una sconfinata foresta amazzonica protendeva i suoi contrafforti dalle montagne alla costa. La Valle della morte è fiorita in un incredibile parco botanico. Mentre deviavamo dalla Interstatale 15 e scendevamo verso Glendale, ho potuto osservare i piani più alti degli edifici emergere dal fogliame. A tratti, al di sotto del baldacchino vegetale, potevo scorgere il sottobosco, un regno ombroso di negozi e casette squassati dalla prepotenza di palmizi e querce. Numerosissimi i tumultuosi corsi d’acqua che si aprivano la strada diretti al mare, incidendo profondi solchi tra magazzini e case non più tali, per poi finire nel nuovo grande delta del fiume Los Angeles a Long Beach, in un intrico di canali salini e intasati di tronchi d’albero, un delta di quasi due chilometri di diametro. Strano vedere le Watts Towers campeggiare su un’isoletta ingioiellata a trecento metri da entrambe le sponde. La Queen Mary siede su un mare di fango, coperta di piante rampicanti e buganvillee dai fumaioli alla linea di carico.

La prima visione dell’Oceano Pacifico mi ha dato una profonda emozione, quest’enorme tinozza d’acqua piovana, fumante come un infinito Mare di Giava. Finalmente avevo attraversato l’America! Guardandomi attorno, ho visto Manson rivolgermi un cenno di evviva, pollice all’insù. Abbiamo seguito il corso del fiume Los Angeles, che curva giù attraverso Burbank e Glendale, e poi segue la linea delle superstrade di Hollywood e Harbour verso Long Beach.

Paco ha indicato i suoi maggiori tributari, il fiume Bel Air e il fiume Hollywood, entrambi possenti canali giallastri larghi una trentina di metri, alimentati dalla calda pioggia del Pacifico e dalle migliaia di piscine strabordanti, quasi tutte trasformate in cisterne di fanghiglia verde ricoperta di ninfee, dormitori per schiere di gru e fenicotteri. Mentre compivamo evoluzioni sopra Bel Air e Beverly Hills, ho visto alligatori crogiolarsi al sole ai bordi delle piscine, ed eleganti uccelli sostare sul ciglio dei trampolini, in attesa che qualche talent scout li filmasse nella loro posa di suprema noncuranza, sullo sfondo di giardini lussureggianti di ville abbandonate.

Dall’alto, Los Angeles offre un panorama bizzarro. Le grandi arterie sono rettifili di vegetazione, con festoni di muschio interminabili che pendono dai sovrappassi di cemento. Un’immensa colonia di scimmie ha preso possesso dell’Hollywood Bowl, un esercito di quadrumani insofferenti e litigiosi come un pubblico annoiato, che al nostro passaggio si è immobilizzato a guardarci. Ho visto bradipi penzolare dalle circonvoluzioni del Magic Mountain, acquattati nei nastri di Möbius della ferrovia panoramica. Palmizi spuntano dalla sommità del Brown Derby, puma passeggiano all’angolo tra Hollywood e Vine, in attesa di incauti turisti; iene e sciacalli hanno lasciato le loro impronte nel fango, fuori dal Chinese Theatre.

Quando siamo atterrati nel parcheggio del Beverly Hills Hotel – ora adibito a centrale di comunicazioni di Manson –, una tribù di garruli babbuini era appollaiata sui lettini attorno alla piscina stagnante, berciando e litigando come una banda di produttori. Paco ha esploso sulle loro teste una raffica di pallettoni, ed essi si sono allontanati con irritata malavoglia verso la giungla, digrignando i denti e mostrandoci il posteriore. Manson ne è stato oltremodo divertito, ha anche permesso che lo aiutassi a scendere dall’elicottero, ridacchiando in quel suo modo aspro e innaturale.

24 novembre. Beverly Hills Hotel, Los Angeles

Abbiamo passato la notte in questo vecchio albergo di lusso, dove la crème del firmamento cinematografico e televisivo usava un tempo radunarsi. Nulla è cambiato, tranne lo schieramento di attrezzature per le comunicazioni e l’antenna di cento metri che sbuca dalle felci sul tetto. Nell’area di Los Angeles ci sono parecchie squadre di ricognizione e reperimento che vanno a caccia di componenti specifici per l’aeronautica e l’elettronica. Quando sono rientrate, Manson le ha interrogate meticolosamente, e si è poi ritirato nella sua suite al terzo piano, su una poltrona, con la maschera dell’ossigeno sulla faccia e la bombola tra le ginocchia. Difficile dire quale sia in realtà il suo malanno fisico, forse una sorta di asma psicosomatica – ho quasi l’impressione che sia stato solo per così tanto tempo che la gente gli sembra una totale intrusione in quello che, a buon diritto, dovrebbe essere un pianeta vuoto.

Ho scoperto che Paco è introverso, ma simpatico e intelligente. “Ti troveremo una macchina, Wayne, così potrai vedere di più di Los Angeles. Il vecchio sistema stradale è sempre qui, potrebbe resistere quanto le piramidi.” Con notevole franchezza, mi ha detto che considera le operazioni di Manson a Vegas e Los Angeles come la base per un nuovo regno messicano che occuperà tutto il Nord America a ovest delle Montagne Rocciose.

Ho cercato di spiegargli il mio sogno di rinascita degli Stati Uniti, ma chiaramente mi considera un visionario folle, aggrappato a vecchi feticci e a un sacco di infantili illusioni su una crescita illimitata su scala continentale. Ai suoi occhi, è stato un eccesso di fantasia a uccidere i vecchi Stati Uniti, tutta la leggenda su Topolino e Marilyn, le tecnologie più avanzate impiegate per delle banalità, come le macchine fotografiche a stampa istantanea e le chimere aerospaziali, degne al massimo di figurare nei libri di fantascienza. A sentir lui, alcuni degli ultimi presidenti degli USA sembrano essere stati reclutati da Disneyland. Paco legge i fumetti di Batman, ma si considera un freddo realista. Abbastanza strano, non credo riponga troppa fede in Manson, non quanta ne ho io, perlomeno; lo ritiene un eccentrico, tipo Lloyd Wright, Edison o Land.

Paco, tuttavia, ha ragione circa la viabilità. Quando stamattina siamo ripartiti per un periplo a nord-est della città, ho visto che il sistema stradale lì è ancora intatto. Oltre gli isolati con gli uffici e gli alberghi, le sole cose che emergono dalla foresta sono i ponti e i terrapieni viabili. Tutto il resto, tutte quelle ville e abitazioni civettuole che ero tanto ansioso di vedere, è scomparso sotto migliaia di colate di fango.

Sorvolando la Hollywood Freeway, abbiamo individuato un’auto solitaria che procedeva lungo la strada deserta: una Continental Mark V color rosa che trainava un grosso rimorchio con sopra quella che sembrava un’enorme cisterna per l’acqua. “Il secondo stadio per la messa in orbita di un missile Atlas,” mi ha detto Paco. Con la ricetrasmittente si è messo a parlare con Miguel e Diego che sono qui a Los Angeles da due mesi e adesso stanno tornando a Vegas con il loro trofeo. Manson era molto eccitato, non l’avevo mai visto così su di giri. Ha ordinato a Paco di abbassarsi sulla superstrada a non più di tre metri dalla Continental, tant’è che ho avuto la sensazione che saremmo rimbalzati sul suo tettuccio per finire poi dritti nella giungla. Manson gridava come un ragazzino, dimenandosi sul sedile girevole. Mi chiedo se non abbia in mente di lanciarsi in orbita di persona, magari per costruirsi una stazione spaziale dove vivere finalmente al sicuro, in quel vuoto privo di germi e di umani.

Di certo, ha un acceso interesse per tutto ciò che gli armamenti abbiano di insolito. Gli Stati Uniti – o perlomeno questa parte di essi, la California e il Nevada, la terra di Hughes – devono essere difesi, il che è adesso fattibile. Non c’è motivo di offrirli a Mosca su un piatto d’argento. Siamo atterrati sullo stabilimento della Lockheed a Burbank; ettari di screpolate piste di cemento coperte di palmizi nani, hangar e officine enormi e tetri. Ho subito notato che Manson non era interessato a nessuno dei grossi aerei civili – i TriStar – ancora in fase di montaggio. Più precisamente, la Lockheed era tra i principali fornitori governativi di sistemi missilistici speciali. Paco, mediante il suo cannello ossiacetilenico, ci ha aperto un varco per accedere al reparto top secret, e ci siamo accodati, a debita distanza, a Manson che esplorava il reparto progettazione e produzione, osservando minuziosamente gli ICBM e i missili Cruise parzialmente montati – testate e sistemi di guida.

La vista di questo armamentario potenzialmente distruttivo ha reso Manson quanto mai agitato. Sulla rotta di ritorno, mentre sorvolavamo le colline di Hollywood, una grossa nuvola di fenicotteri spaventati è scaturita dalle piscine sottostanti. Manson ha fatto un segno a Paco, il quale, con un’occhiata di rassegnazione rivolta a me, ha commutato all’abitacolo posteriore i comandi che davano a Manson il controllo manuale dei due elicotteri robotizzati e armati. E si è scatenato l’inferno: di colpo i due velivoli si sono messi a roteare di fianco a noi, con le mitragliatrici che rovesciavano raffiche contro gli sciami di indifesi volatili. L’aria si è trasformata in un caos terrificante di fracasso e piume sanguinolente, migliaia di brandelli di fenicotteri spiaccicati sul baldacchino della foresta come vernice rosa da una pistola a spruzzo. Ma Manson non era ancora soddisfatto; per i sessanta minuti successivi, abbiamo ondeggiato sulle colline e le valli massacrando ogni cosa che si muovesse – daini che pascolavano tranquilli nel parcheggio posteriore della Paramount, un gruppo di lama che brucavano in pace foglie di vite in una stazione di servizio in Ventura Boulevard, persino un elefante che tentava di proteggere il suo branco che sguazzava in una piscina del Bel Air Hotel. La femmina e il suo piccolo, per fortuna, hanno trovato scampo tra il folto degli alberi, ma il maschio è morto nella piscina rossa di sangue, ancora strombettando nell’acqua sconvolta, mentre i due elicotteri gli ruotavano attorno come squali impazziti.

Paco e io siamo rimasti sconvolti dal massacro. Rientrati al Beverly Hills Hotel, siamo scesi in silenzio dal Sea King. Manson, invece, appariva sazio e soddisfatto come un boa, mentre scarabocchiava lo schizzo di una testata nucleare sul blocco appoggiato sulle ginocchia. Ho avuto la paurosa sensazione che per lui la vita sia di per sé una sorta di malattia...

4.00 a.m., 25 novembre. Beverly Hills Hotel

Uno strano ma importante colloquio di mezzanotte con Manson. Si è concluso qualche minuto fa, e mi ha lasciato confuso ma determinato a fare qualcosa. C’è il rischio di rimanere bloccato qui, e forse più presto di quanto io creda. Basta un solo aereo da ricognizione da una delle navi di sorveglianza nel Pacifico, e non soltanto la Hughes Enterprise Inc., ma tutti i miei stessi sogni di diventare il quarantaseiesimo presidente faranno la fine di quell’elefante.

A mezzanotte me ne stavo sdraiato insonne nella mia stanza al quinto piano, ad ascoltare la rumorosa fauna di Beverly Hills, una turba di rauchi pavoni in adorazione di se stessi. Dalla finestra potevo vedere le sagome scure dei due elicotteri robotizzati, giù nel parcheggio, ancora impiastrate di sangue rappreso e piume di fenicotteri. Proprio in quel momento il citofono ha ronzato e Manson mi ha chiesto di raggiungerlo nel suo appartamento.

Indossava ancora la sua divisa da safari, ed era seduto davanti ai suoi schermi TV – immagini vividamente colorate della Las Vegas notturna, riprese dalla telecamera sul tetto del Desert Inn. Manson risultava pallido ma vispo, quasi avesse deciso da tempo, mediante un semplice decreto esecutivo, di fare a meno del sonno.

“Accomodati, Wayne...” e mi ha indicato una sedia. “Un giro interessante, finora, anche se probabilmente non hai apprezzato il tiro al piccione. Un vero peccato per quell’elefante, ma un po’ di tiro a segno è ciò di cui Paco ha bisogno, specie sui bersagli a cui non gli piace mirare.” In quel momento il telex si è messo a ticchettare un messaggio in arrivo. Manson ha sbirciato il foglio, ha avuto un piccolo sussulto ed è rimasto immobile un istante, con gli occhi opachi, fissando un qualche sogno irrealizzabile, celato dietro la parete. “Cattive notizie riguardo al virus, Wayne, sembrano imminenti nuovi focolai a Miami e Baltimora. Grazie a Dio, finora la costa ovest ne è rimasta indenne...”

“Il virus, signore?” ho chiesto. “Cos’è esattamente questa malattia?”

Una domanda che intendeva metterlo con le spalle al muro, ma i suoi occhi si son fatti sfuggenti. “Un nuovo tipo particolarmente virulento, Wayne. Gli piace arrivare sulle ali del vento dell’Est. È stato in incubazione per cento anni, in attesa di dilagare su quelle vecchie città morte.”

“Ma, signor presidente, noi siamo sbarcati a New York. Ne eravamo esposti?”

Manson mi ha fissato, come se mi vedesse per la prima volta. “Sì, Wayne, ma ritengo ne foste immuni. Ecco perché ho voluto che vi uniste a me, qui, dove c’è tanto da fare. Questi ragazzi messicani sono in gamba, e McNair ci sarà di grande aiuto per quanto riguarda il settore tecnico-meccanico, per non parlare della professoressa Summers. Ma io ho bisogno di qualcuno che possa succedermi. Ho lavorato tanto duramente, Wayne, per così tanti anni, non voglio vedere tutto svanire.”

Una pioggia nera e pesante stava flagellando la giungla, danzando sulle pale degli elicotteri, lavando le canne delle mitragliatrici dal sangue. Manson se ne stava lì seduto, una statua di cera trasudante sul cui viso i lampi gettavano sprazzi di luce. Nel tentativo di scuoterlo da quel torpore, mi sono complimentato con lui per tutto quanto è riuscito a fare, per la avveniristica base, industriale e di telecomunicazioni impiantata nella giungla del Nevada. “È stupefacente, signor presidente. Non so come abbia fatto, tutto da solo.”

Lui mi ha guardato con un sorriso malizioso. Quel “signor presidente” gli era piaciuto, ma l’uomo non è uno sciocco.

“Un po’ di aiuto l’ho avuto, Wayne. Il mio socio originario mi ha aggiunto a Las Vegas, quindici anni fa. Un tecnico eccezionale, finché non è entrato in crisi. È stato lui a insegnare a Paco a pilotare l’elicottero.”

“E dov’è adesso?” ho domandato. Quindici anni? Poteva darsi... “È stato lui a costruire i robot del Sahara Hotel?”

Manson ha fatto un gesto vago. “Uno dei suoi lavori meno importanti. È a Las Vegas, ma non sta bene... le conseguenze di quel viaggio attraverso il continente.” Uno strano sguardo è apparso nei suoi occhi, il sogno defunto di tutte le strade vuote e di tutte le piscine prosciugate d’America. “Adesso se la prende comoda, un po’ di terapia occupazionale con i suoi bambolotti. Qualsiasi lavoro extra lo mette in agitazione.”

Il temporale continuava accanito, un torrente di pioggia che bombardava i palmizi come se un migliaio di mitragliatrici stessero vomitando le loro pallottole. Ho chiesto a Manson quando è arrivato qui la prima volta. Con una spedizione di quei tempi? Ma lui ha evitato ogni particolare, ha citato, con evidente disgusto, Brema, Anversa e Liverpool – deve aver trascorso mesi e mesi facendo la spola di porto in porto, in attesa di riuscire a imbarcarsi. Ha accennato alla propria giovinezza nel ghetto americano a Berlino, ha menzionato il sobborgo di Spandau.

“Ma per me, Wayne, l’Europa ha cessato di esistere – tranne che adesso la vedo come un vecchio cane che si sveglia, ci fiuta qui dove siamo e cerca di ficcare il muso in questa nuova America, l’America che ho costruito. È stata una scommessa, Wayne, una scommessa che aveva per posta la mia vita. Ho messo ogni cosa su quell’unico giro di roulette che è concesso a ognuno di noi, una piccola puntata di sogni e speranze. E adesso cercheranno di rubarmela. E di rubarla anche a te, Wayne.”

Che cosa aveva in mente? Azzardai un’ipotesi.

“Signor presidente, i missili che lei sta radunando, e i disastri atomici a Boston, Cincinnati e Cleveland, sono stati le esplosioni di vecchie centrali nucleari?”

Gli occhi di Manson erano fissi sugli schermi televisivi. Nella sala di controllo di Las Vegas aveva luogo una speciale attività.

“Sono stato costretto, Wayne, c’era la minaccia della pestilenza all’Est. Ho usato i vecchi missili Cruise. Prima di entrare in crisi, il mio socio aveva rimesso in sesto le testate e i sistemi di guida. Sono lenti ma affidabili, come piccioni viaggiatori che tornano a casa per un pasto caldo. Considerala come una necessaria misura profilattica. Ma abbiamo bisogno di missili supplementari. Ci sono rimasti soltanto due Titan e sei Cruise.”

“E le immagini laser, signore?”

“Un monito per gli indiani. Strana gente, cenciosa e degenerata, ma perlomeno è rimasta fedele alla sua terra quando tutti gli altri sono scappati. Non voglio far loro del male, mi hanno aiutato quando ho fatto la traversata fin qui. Ma dovevamo bloccare la pestilenza, lo dobbiamo fare tuttora, prima che raggiunga le Montagne Rocciose. Wayne, è indispensabile che attiviamo i missili Minuteman, sono installati in tutto il Nevada. I tuoi amici potrebbero farlo, ne hanno le capacità tecniche...”

Lo ascoltavo, mentre la pioggia insisteva sul fogliame. Sapevo che stavo razionalizzando i miei dubbi, e che Manson andava deliberatamente rivelandomi i suoi veri motivi, per mettermi alla prova. Pestilenza...? Patogeni mutati, erano una possibilità, però... Era presumibile che Manson intendesse costituire un cordone sanitario, un deserto di città radioattive, dai Grandi Laghi al Golfo del Messico, che avrebbe rallentato l’avanzata dall’Est. Mentalità da Linea Maginot, una struttura psicologica più che una difesa fisica. Ma quanto al fianco sul Pacifico, quello esposto? Ovviamente, una protezione mediante casematte e punti fortificati, in successione, da Malibu fino a Newport Beach, e Manson doveva essere pronto a difendere Marina del Rey fino all’ultimo antiquario e agente immobiliare.

“Con il tuo incoraggiamento, Wayne, se ci metti una buona parola, McNair e la professoressa Summers ti daranno retta.” Manson si è volto a guardarmi, gli occhi fermi contro i lampi. “I Titan e i Minuteman hanno una potenza di cinquecento kiloton e sufficiente portata. New York, Parigi... Mosca...”

“E oltre, signore.” Ho esitato, ricordando la mia conversazione con Orlowsky alla Casa Bianca. “Signor presidente, potremmo eliminare la Diga di Bering, invertire la corrente dell’Artico. Il Mississippi potrebbe scorrere di nuovo, il grano tornerebbe a crescere tanto da soddisfare i fabbisogni mondiali, costituire un’efficace partita di scambio.”

Manson si è illuminato di un sorriso contorto. “Wayne, tu sei un giocatore nato.” Lo ha detto con sincero orgoglio. “E sei venuto nel posto giusto.”

25 novembre. Malibu Beac.

Una strana notte. Ci credevo davvero quando ho suggerito a Manson di distruggere la diga sullo stretto di Bering? O ero contagiato dalla sua ossessione? Stranamente, non è un’idea sballata – dopotutto è quella diga, è lo sconvolgimento climatico di tutto un continente ciò che tiene in vita, artificialmente, la divisione attuale dell’America tra giungla e deserto. Un campionario di sfruttamento, una perversione ai danni dell’America “naturale”, altrettanto brutale ed egoistica quanto un fumetto fantascientifico che Paco disapprova.

Ero tornato nella mia stanza mentre l’ultima coda del temporale stava fuggendo su per la costa della California. Manson mi aveva impressionato parecchio. Con tutta la sua ambiguità, ha le virtù del vecchio yankee. Vuole vedere l’America tornare grande, e il divenirne presidente è poco più che la ciliegina sulla torta. Di contro, ci sono le sue ossessioni... angosce, a essere indulgenti. La presenza fisica di altre persone ovviamente lo mette a disagio, e, come Nixon, ha quel peculiare disgusto per la propria carne. Paco e i ragazzi lo vedono come un eccentrico sprofondato in se stesso, ma Hughes e Henry Ford erano uguali. Il genio di Hughes incombe su Manson, ma altri, che non riesco a identificare, hanno lo stesso effetto... Ho nella mente l’immagine di occhi che fissano il vuoto con una luce folle, messianica...

Pensando a Manson, mi ero addormentato, per essere poi svegliato alle otto del mattino da un fragore assordante e da un vociare confuso. Paco che, giù nel parcheggio, riscaldava i motori degli elicotteri, un eccitato chiacchiericcio di giovani voci nei telefoni interni. Tre dei ragazzi messicani, in servizio di pattugliamento, erano sopraggiunti su una rossa Buick decappottabile. Sono sceso nell’atrio in tempo per vedere Manson sparire dentro il Sea King. Paco mi ha detto di non muovermi, mi avrebbero prelevato l’indomani con un’auto. Chiaramente, c’era in ballo qualche missione lontano da occhi e orecchi indiscreti. Ho sentito i ragazzi gridarsi l’un l’altro “Edwards” – vale a dire, la base aerea Edwards. Ho cercato di salire nell’abitacolo, mentre Manson fingeva di non vedermi, ma Paco mi ha chiuso il portello sulle dita e ha gridato: “C’è un’altra nave! È approdata ieri a Miami!”. E sono partiti, sconvolgendo le cime degli alberi mentre sparivano tra le colline di Hollywood.

Rientrato nell’albergo deserto, mi sono sentito inutile e impotente. Quindi era arrivata una spedizione, a rimorchio della nostra. Sebbene i suoi componenti fossero a cinquemila chilometri da qui, ero convinto che avrebbero potuto raggiungere Las Vegas da un momento all’altro, prima di darmi il tempo di organizzare tutto quanto. Nell’appartamento di Manson, gli schermi dei televisori riflettevano la luce vivida del sole. Ho abbassato le tende, e sono rimasto per tre ore a osservare, mentre i radar dell’aeroporto scandagliavano il cielo sopra Las Vegas, in attesa di un attacco.

Visto che non succedeva niente, mi sono calmato e sono sceso giù nel parcheggio. La Buick rossa era posteggiata in un viale, con una famiglia di babbuini spaparanzata sul sedile posteriore, intenta a litigare come turisti della domenica. Mentre mi avvicinavo si sono messi a fischiare e a gesticolare, aspettandosi evidentemente che fossi l’autista pronto a scarrozzarli in giro per Los Angeles. Poi, quando ho schiacciato il clacson, sono fuggiti.

Ho avviato il motore, e mi sono diretto lungo un Sunset Boulevard vuoto, per imboccare l’autostrada sulla costa del Pacifico, sotto un cielo che era diventato basso e gonfio di pioggia. Mi sono alla fine fermato a Malibu, solo davanti all’oceano ai margini di questa grande città. Mi sono spinto tra i boschetti di palmizi, e mi sono seduto sulla spiaggia, una frangia di sabbia coperta di noci di cocco marcescenti e dei resti di centinaia di distillatori artigianali. Un buon posto per riflettere. Ho vagabondato tra gli scheletri delle abitazioni delle stelle del cinema, gusci di sogni impalati sulle palme. Sto scrivendo le ultime righe di questo diario – d’ora in poi non avrò più tempo per tenerlo aggiornato.

C’è una chiara decisione da prendere: o sottrarmi a Manson, portando con me Anne e McNair, o buttarmi anima e corpo nella sua impresa. Anche se Manson è un pazzo, la seconda alternativa può tornare utile. È una pazzia che probabilmente posso far fruttare. Ci vorranno mesi prima che una spedizione organizzata possa raggiungere Vegas, e per allora dovremmo già esserci insediati al potere. Mosca sarà costretta a venire a patti, a tollerare il nostro ruolo qui, come tollera i regimi militari e dittatoriali in Sud America.

Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sono dieci anni per far di nuovo grande questo paese.

Presidente Wayne... suona meno strano di quanto poteva sembrare.


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