domenica 8 agosto 2021

DICERIA DELL'UNTORE Gesualdo Bufalino

 


DICERIA DELL'UNTORE 

 Gesualdo Bufalino

Recensione

Di Daniela Della Corte

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Il romanzo racconta, ispirandosi alla reale esperienza di vita dell'autore, i giorni trascorsi dal ventenne protagonista in un sanatorio, la Rocca, vicino Palermo e i rapporti che si creano con la variegata umanità che lo anima.

Molto interessante a mio parere l'incontro-scontro tra l'io narrante e padre Vittorio, cappellano militare della Rocca, definito "un duello di ciechi" (pag. 32): esso realizza infatti una vera e propria contaminazione tra fedele e miscredente - i cui effetti sono evidenti nelle riflessioni al limite della blasfemia che il cappellano militare affida ad alcune pagine del suo personale "zibaldone": 

"Un penoso sospetto sulla passione: è venuto per salvarsi, prima ancora che per salvarci (parlarne ai miei superiori)": pag.36.

 Il contagio (l'"acida tabe") di cui è vittima lo porta fino ad una sfida suprema a Dio e alla sua onnipotenza: " Fatti vedere, Tu che mi spii" (pag.37).

Campeggia su tutti l'incontro con Marta, una novella Beatrice, misteriosa e inafferrabile, motrice di "uno stato d'estasi e vitanuova" per l'io narrante, il quale tuttavia vorrebbe umanizzarla per sentirla forse, mi si passi il termine, più fruibile nel tempo che gli resta e che crede breve:

"...volevo chiedere notizie di Marta, un'anagrafe quanto più meschina possibile, che la traesse dall'area di miracolo di cui m'era parso naturale circondarla [...] e [...] me la facesse respirare accanto come una creatura di tutti i giorni". (pag.45)

Ma non é facile per uno che ha "più letto libri che vissuto giorni" (pag.70) e che per sua stessa ammissione si abbandona alle "lusinghe" della memoria e cede al nostalgico vagheggiamento del "Riessere" del passato. (pag.82)

Il protagonista sembra attratto dalla morte tanto quanto gli altri personaggi del libro, suoi "compagni di prigionia", sembrano attratti invece dalla vita (alle pag. 18 e 19 colgo un'analogia con la novella "Il treno ha fischiato" di Luigi Pirandello, come è pure pirandelliano il tema dell'incomunicabilità: pag. 21). E il suo destino sarà beffardamente quello di sopravvivere a tutti loro, lasciando in modo inatteso la Rocca e portando via con sè un lacerante senso di colpa ("Io ne ero evaso, per chissà quale disguido o colpo felice di dadi, ma, anche se salvo, più derelitto e più triste" pag. 147).

Nell'edizione Bompiani è compresa un'APPENDICE, per la quale mi piace spendere qualche parola in più per chi come me ama anche l'aspetto più "filologico" di un'opera letteraria. Questa contiene ciò che secondo le intenzioni dell'autore avrebbe dovuto completare l'opera strettamente narrativa ma che poi fu eliminato prima della stampa per non "sovraccaricarla": si tratta, ad esempio, delle poesie che dovevano accompagnare i capitoli (alla maniera della Vita Nova di Dante), di epigrafi all'inizio di ciascuno di essi e di epitaffi dei personaggi più importanti (che strizzavano l'occhio alla moda dell'Antologia di Spoon River). Ma l'appendice si é rivelata anche uno strumento utilissimo per la comprensione delle ragioni profonde di alcune scelte dell'autore. Fornisce infatti la chiave di lettura di temi e personaggi, perfino "giustifica" per così dire il barocco espressivo che connota la scrittura, come a voler riequilibrare il rapporto - inevitabilmente sbilanciato - tra il lettore e l'autore, come a svelarne in un atto di grande generosità i trucchi del mestiere, "salve restando le sacrosante ambiguità che qualunque espressione comporta, e che son poi deleghe di libertà alla controparte".

Insomma un libro che merita senz'altro di essere letto ma io direi anche studiato nelle scuole come esempio di ottima "metaletteratura".


DICERIA DELL'UNTORE

 Nota (Bompiani)

Iniziata in tempi remoti e riscritta più volte, Diceria dell’untore incontrò subito, quando fu data alle stampe nel 1981, un unanime consenso di critica e di pubblico, sanzionato dalla vittoria al Premio Super Campiello nello stesso anno. Stupiva l’esordio tardivo e riluttante dell’autore, la sua distanza dai modelli correnti, la composita ragione narrativa tramata di estasi e pena, melodramma e ironia; non senza il contrappunto di una sotterranea inquietudine religiosa, come di chi si dibatte tra la fatalità e l’impossibilità della fede...

Stupiva, l’oltranza lirica della scrittura, disposta a compromettersi con tutte le malizie della retorica senza vietarsi di accogliere con abbandono l’impeto dei sentimenti più ingenui.

La vicenda racconta un amore di sanatorio, nel dopoguerra, fra due malati, un amore-duello sulla frontiera del buio.

L’opera è arricchita da un’appendice di pagine inedite escluse dalla primitiva edizione.


Prefazione

Nel 1981 Gesualdo Bufalino, professore sessantenne di Comiso al cui attivo erano le curatele di due volumi di cultura locale e una traduzione poetica, pubblica la sua opera prima, Diceria dell’untore, ed è subito caso letterario. Il libro rivisita l’esperienza, vissuta in prima persona dall’Autore, di una degenza in un sanatorio vicino a Palermo – la “Rocca” – nell’estate del 1946. L’io narrante, reduce dalla guerra, protagonistatestimone di disperazioni e speranze dei compagni di malattia, supera l’iniziale desiderio di isolamento e solitudine ed entra in “colluttazione” con gli altri ospiti del ricovero: soprattutto Marta, leggiadra e sfuggente ballerina del Nord dall’ambiguo passato, con cui intreccerà una sofferta storia d’amore; il Gran Magro, mefistofelico medico e regista della vita alla Rocca; Padre Vittorio con la sua inquieta religiosità. Sarà il protagonista l’unico a ricominciare, guarito, la vita di tutti i giorni, infrangendo il tacito e reciproco patto di non sopravviversi.

“Diceria: Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte”: così l’Autore in epigrafe al libro, riportando anche questa fra le definizioni del termine date dal Tommaseo-Bellini.

Il “poemetto narrativo”, la “fantamemoria” di Bufalino (ma si potrebbe dire di quasi tutta la sua opera), ha proprio come sua cifra distintiva una parola turgida, “alta”, certo non pronunciata “con troppo poca arte”, ricercata, vagheggiata fra le infinite combinazioni e preziosità della lingua (il libro che infatti Bufalino sceglierebbe per l’isola deserta, fedele al suo culto per la parola, è il vocabolario, custode del verbum e potenziale contenitore di tutti i libri). Non a caso due aforismi della sua raccolta Il malpensante, illustrano l’uno l’ansia e l’insoddisfazione (ma anche l’amorevolezza) di fronte alla propria pagina (“Rileggere ciò che si è scritto cinquanta volte ogni giorno, non fosse che per cambiarvi una parola, come si cambia un fiore in un vaso”), l’altro il dramma della scelta, la voluttà nei confronti della parola (“Varianti: non rifiutarne nessuna, ma recitarsele insieme, raddoppiando il testo e l’estasi di dominarlo. Un testo multiplo è più vero d’ogni perfezione finale”).1

La nevrastenia stilistica, il continuo ritorno sulla propria scrittura (varianti alternative, recupero di lezioni precedentemente cassate, sequenze più volte riscritte) emergono concretamente dall’analisi delle ben sette stesure (alcune delle quali incomplete) della Diceria donate da Bufalino al Fondo Manoscritti di Autori Moderni e Contemporanei dell’Università di Pavia: sterminato il patrimonio variantistico che ne risulta.

L’ambito in cui l’Autore interviene con maggiore frequenza è quello relativo al linguaggio figurato, tratto distintivo della scrittura bufaliniana (“La metafora è il cibo della mia prosa, e non starò a giustificarmene, né a vantarmene. È un procedimento tipicamente barocco, anche se nel mio caso io parlerei di barocco borrominiano” nel quale “l’ornato è una funzione, senza di esso l’architettura cadrebbe”).2

Nel corso dell’elaborazione3 Bufalino mette meglio a fuoco, ritocca, rende più perspicue, incisive e dense similitudini e metafore, attuando in alcuni casi un cambio di campo metaforico, sopprime quelle meno convincenti e originali, potenzia il linguaggio figurato. Minuziosa è inoltre la cura che rivolge a sostantivi, aggettivi e strutture verbali – spesso sostituiti per instaurare forme più sostenute e auliche – alla loro rispettiva posizione all’interno della frase nella ricerca di ritmo, musicalità o volute spezzature (quasi sistematica l’anastrofe; omoteleuti, allitterazioni, paranomasie costellano la sua prosa).

Questa parola esuberante e barocca non è solo cifra stilistica, ma si direbbe, per i personaggi del libro, esistenziale. In particolare per i tre principali. “Vivi in una ragna di parole e ti ci avvoltoli dentro” (qui) dice padre Vittorio al protagonista che ha “più letto libri che vissuto giorni”, “Mentre noi”, sentenzia la voce narrante (rispetto ai contadini, “veri”, in procinto di occupare le terre di un barone, incontrati durante la fuga dal sanatorio), “imbalsamati entro aromi di parole, non facciamo da mane a sera che carezzare le nostre vanitose agonie” (qui). La parola come surrogato di vita.

L’occupazione prima degli ospiti della Rocca è infatti parlare, divagare, raccontarsi, inventarsi, come Marta, “ipotesi di vite inesistite” e sempre “sopra le righe”, “ad alta voce”, con “trucchi di crome”.

“Parole [...] grasse umide calde, di cui mi farcisco ora e mi farcivo allora la bocca [...] come chi recita la prima volta” (qui). L’intonazione febbricitante è così ricondotta alla dimensione teatrale, che tanta parte ha nel libro e nel sentire di Bufalino, in senso proprio – un intero capitolo è dedicato alla recita organizzata dal Gran Magro, durante la quale Marta fa la sua prima apparizione; l’io narrante e la fanciulla assisteranno poi a una rappresentazione di pupi, la Morti di Acamennoni re – e in senso figurato – un sistema articolato di similitudini e metafore gravita intorno al campo semantico della teatralità, della recita, della finzione. “Condizione così teatrale, in bilico fra vanagloria e spavento” (qui), definisce il protagonista il suo vivere alla Rocca e “duello di ciechi che [...] si cercano impunemente [...] sulle tavole di un palcoscenico” (qui), le schermaglie esistenzial-religiose con padre Vittorio; gli atteggiamenti disinvolti e accattivanti di Marta sono uno “spettacolo tenuto in piedi per simulare una vita vera” (qui); il suo contegno “una commedia senza fine di equivoci e stratagemmi” (qui); le sequenze ritagliate della sua vita “recitativi” e “a parte” di un “copione destinato [...] a mescolarsi e concludersi insieme col mio” (qui); l’amore per, la fuga con, la morte di Marta “una storia di palcoscenico, stonata a turno, un po’ da ciascuno” (qui). E inaspettatamente salvatosi, dopo un lungo “apprendistato di morte”, l’untore dovrà abbandonare la guaina protettiva e l’atmosfera di eccezionalità del sanatorio per immergersi nella banalità del quotidiano, dovendo “al posto di una parte di prim’attore, già scritta, improvvisare le battute di una comparsa” (qui).

Queste sistematiche forzature antinaturalistiche hanno una doppia implicazione: da un lato innescano un processo di distanziamento, di straniamento dalla vicenda dei personaggi, (“ironie correttorie”, secondo la definizione bufaliniana, volte a far svaporare la tragedia), dall’altro questo eccesso espressivo, la sottolineatura del tono “declamante”, raddoppiano l’effetto, ingenerano un’intensificazione patetica. L’ambiguità trionfa: l’Autore attua sì filtri ironici per una decodifica critica, ma contemporaneamente scatta il meccanismo fascinatorio e coinvolgente della parola.

Vita come teatro – si diceva – e vita come partita, gioco, casualità. E anche a questa seconda ricorrente metafora dell’esistenza, ecco nel libro affiancarsi partite reali (le sfide scacchistiche fra il Gran Magro e il protagonista, che simbolicamente terminano col sacrificio della regina – limpida allusione alla morte di Marta-Euridice, che consente la salvazione dell’io narrante-Orfeo).

In entrambi i casi un’idea di “Universo palesemente inverosimile”,4 imprevedibile e inconoscibile (motivo questo che nelle prove successive di Bufalino andrà dilatandosi: si pensi ai finali aperti e depistanti delle Menzogne della notte e di Qui pro quo, emblematici fin dai titoli), nonostante la tormentata ricerca di un senso e di uno spiraglio religioso: nella Diceria è padre Vittorio, con il Gran Magro, suo controcanto blasfemo, il portavoce di quest’istanza; in Argo il cieco il professore-filosofo Iaccarino (vicino, per l’oltranza espressiva, al medico della Rocca); l’ultimo racconto di L’uomo invaso, Voci di pianto da un lettino di sleeping-car, è un inquietante “lagno” (con divagazioni su insonnia-malattia-morte), un ultimo confronto con il puparo dell’esistenza; nel Malpensante, gli aforismi di soggetto metafisico-religioso costituiscono un nucleo portante.

E si potrebbero rincorrere gli altri motivi che contraddistinguono la Diceria nella produzione successiva di Bufalino, coadiuvati fra l’altro dagli indici tematici che da attento e costante glossatore della sua opera l’Autore ha in più di un’occasione compilato: dalle Istruzioni per l’uso riportate in appendice, a una recentissima e articolata intervista su un numero unico a lui dedicato di Nuove effemeridi,5 a un volumetto che raccoglie gli atti di un seminario “sulle maniere e le ragioni dello scrivere” in cui Bufalino si fa “chirurgo e cavia” di se stesso.6

Scorrendo questi repertori, morte memoria amore Sicilia, variamente intrecciati e restituiti, risultano i cardini su cui ruota l’opus bufaliniano. La Diceria ha ambientazione siciliana (il sanatorio alla Conca d’Oro, una Palermo sconciata dalla guerra), seppure chi vive alla Rocca sembri sospeso in una dimensione al di fuori di spazio e tempo, siciliana è l’infanzia rievocata dall’io narrante nel capitolo XV, dal capitolo VI decollerà la storia d’amore del protagonista con Marta. Ma prevale il binomio morte-memoria nella prospettiva, più volte sottolineata dall’Autore, del ricordo come possibilità, pur debole, di sottrarsi alle “soperchierie della morte”, di riessere.

I temi privilegiati da Bufalino e la loro declinazione nelle diverse opere, mettono in luce come la sua sia una scelta di rappresentazione del reale in chiave autobiografica e antropologica, attenta innanzi tutto ai grandi nodi esistenziali, che acquistano spesso profondità dagli spazi chiusi in cui le vicende si svolgono – il sanatorio, il paese-teatro di Modica in Argo, il carcere nelle Menzogne, la Sicilia stessa in quanto isola –, rappresentazione incline a mettere in secondo piano la dimensione storica. Emblematica l’affermazione di Marta nella Diceria: “la storia non riguarda che voi, io non so cosa vuol dire. Capiscimi: nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte” (qui) a ribadire una centralità quasi egoistica delle ragioni dell’individuo.

Indifferente-insofferente alla storia maior, Bufalino mostra invece affettuosa sollecitudine per la storia minor, per la comprensione e salvaguardia del patrimonio linguistico e culturale della Sicilia, perché, come ribadisce nella Giustificazione a Museo d’ombre(tesoretto comisano di mestieri, luoghi, locuzioni, visi di una volta), “storia non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato”.7

La sua “terza storia”, amorevolmente coltivata e rivisitata è quella letteraria, quella che ha fornito all’Autore non solo modelli e archetipi da manipolare o capovolgere (dalla Montagna incantata per la Diceria al Decamerone e alle Mille e una notte per le Menzogne, ai protagonisti dei racconti dell’Uomo invaso), ma soprattutto una struttura profonda su cui poggiano i discorsi del narratore e dei personaggi.

La ricercatezza e preziosità della scrittura di Bufalino è alimentata infatti da un ricco sistema di richiami intertestuali che nella Diceria spaziano da Dante a Pascal, da Valéry a Montale, da Catullo a Shakespeare.8 Del Gran Magro l’io narrante mette in luce la predisposizione alla parola truccata, alla citazione occulta: “in lui ogni cosa, apoteosi o rovina, era sempre dannata a travestirsi in parole di libri” (qui), che è del personaggio ma anche del suo Autore. Il quale, peraltro indifferente alla verosimiglianza del linguaggio dei suoi attori, ammette: “Il fatto è che a me interessano più i colpi di scena delle parole che non i colpi di scena dei fatti, e che non cerco di mimare in nessun modo il reale [...]. Ciò spiega anche il fatto che i miei personaggi si esprimano tutti nello stesso modo eroico e sublime, spia ulteriore del mio lirismo, essendo essi non più che proiezioni esterne dell’io poetante”.9

Francesca Caputo

 

1 Il malpensante, Milano, Bompiani, 1987, p. 56 e p. 140.

2 Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid? Wordshow-seminario sulle maniere e le ragioni dello scrivere, Taormina, edizioni di “Agorà”, 1989.

3 Per genesi, tempi di stesura, struttura originaria si veda quanto l’Autore riferisce nell’intervista rilasciata all’uscita del libro a Leonardo Sciascia, qui di seguito riprodotta, e l’appendice in cui si forniscono materiali relativi alla fase avantestuale della Diceria.

4 Interv. di M. Onofri, “Gesualdo Bufalino: autoritratto con personaggio”, Nuove effemeridi, a. V, n. 18, 1992/2, p. 28.

5 Ibidem, pp. 17-33.

6 Cur? Cui? Quis? Quomodo? Quid..., cit.

7 Museo d’ombre, Palermo, Sellerio, 1982, p. 21.

8 Cfr. G. Traina, “Presenze linguistiche e tematiche della poesia montaliana in ‘Diceria dell’untore’ di Gesualdo Bufalino”, Siculorum Gymnasium, n.s., a. 43, n. 1-2, gen.-dic. 1990, pp. 239-241, e V. Sebben, “Diceria dell’untore” de Gesualdo Bufalino. La citation comme base d’une écriture funéraire et somptuose, Mémoire presentato alla Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Lovanio, giugno 1991.

9 Cur? Cui?..., cit. p. 43.


Intervista di Leonardo Sciascia

Palermo. L’introduzione a un libro di vecchie fotografie (Comiso ieri) lo ha tradito. Piacquero a tutti, quelle pagine; molti chiesero notizia di chi le aveva scritte; qualcuno ebbe il sospetto che dietro quelle pagine altre ce ne fossero chiuse nei cassetti, segrete. Gesualdo Bufalino tentò di difendersi; offrì, a schermo, una preziosa traduzione delle preziose Contrerimes di Toulet, poi un’antologia che acutamente raccontava vita, passione e morte del personaggio nella letteratura occidentale. Ma si insistette (e chi insisteva era Elvira Sellerio: e non c’è schermo o riparo, quando lei vuole qualcosa): e Gesualdo Bufalino tirò finalmente fuori la Diceria dell’untore: con esitazione e in tutti i modi sconsigliandone la pubblicazione. Ma tra qualche giorno, pubblicato dall’editore Sellerio, la Diceria sarà in tutte le librerie: e si può immaginare lo stato d’animo di Bufalino.

Questo stato d’animo lui lo analizza, lo spiega, lo racconta. “Parto da un punto fermo: che vi siano scritture morali che è un debito rendere pubbliche... Non è il mio caso, temo; e dunque perché esibirmi? In quello che scrivo sospetto sempre l’abbandono a un’operazione di bassa lussuria, una sorta di interminabile, falsificato pettegolezzo su di me, da destinare dunque a un uso strettamente privato. È una presunzione, lo ammetto: e forse messa avanti per non confessare una rara vigliaccheria; quella di patire la pubblicità come fosse un redde rationem, una gogna, un sentirsi nudi e umiliati come di fronte a una vestita commissione medica di leva. Chiamo questa mia sindrome col nome di Wakefield, quel personaggio di Hawthorne, che lasciò la propria casa per andare ad abitare in quella di fronte: per spiare, invisibile e suppongo felice, la vita della propria. ‘Sindrome di Wakefield’, dunque. Cui è da aggiungere un totale rifiuto del sentimento di agonismo. Perdere mi è sempre piaciuto. Perfino a scacchi (ero assai bravo da ragazzo) preferivo giocare un tipo d’impegno che si chiama automatto, e consiste nel costringere l’avversario a vincere suo malgrado... Ma a questo punto mi chiedo: sto dicendo la verità? In un mio copialettere ce ne sono una diecina dirette a editori, a critici. Non spedite, si capisce, ma... Ecco: anche con la signora Sellerio e con lei non sono stato io a muovere, sia pure pudicamente, le cose? D’altra parte, quando lei mi chiese notizie dei miei cassetti, ammisi le traduzioni ma tacqui del romanzo, che svelai mesi dopo, e non spontaneamente... Curioso ingorgo! Da un lato gli stimoli di un’onesta ambizione, dall’altro, con segno più forte, il presentimento che un eventuale destino di scrittore contenesse non so che semi di sinistra avventura...”

A questo punto della vita, dopo aver pubblicato una ventina di libri e aver conseguito un certo successo, una certa notorietà, posso dirle che la mia esperienza conferma il suo presentimento: si tratta di un’avventura davvero sinistra. Ma il fatto è che non si può non correrla. È statisticamente impossibile sfuggire a un simile destino; e il suo caso stesso è di incremento alla statistica. Tutto è accaduto, nei primi dieci anni della nostra storia: per quanto si temporeggi, si rimandi, si allontani, quel destino sta in agguato, pronto a coglierci al primo abbandono, alla prima distrazione; e, in certi casi, anche oltre la vita. Vero è che si può dire di ogni uomo, che tutto è avvenuto nei primi dieci anni di vita; ma di uno scrittore particolarmente.

“Sì, penso che i primi dieci o dodici anni di vita ci prefigurino interi, e ho qualche ricordo per confortare l’ipotesi: un giorno, a sei anni, trascino mia madre da una strada all’altra del mio paese per farmene leggere le targhette, imparare i nomi e abbozzare con essi un mio primo rudimentale Pantheon mnemonico. Una pulsione al censimento dell’universo assai forte sin da allora. Più tardi, tra i 35 e i 45 anni, lavorerò per mio semplice utile e gusto a un interminabile libro dei libri, una specie di summa di citazioni alla Bouvard e Pécuchet. Altro ricordo: rubo in una bottega di pescivendolo un fascio di giornali da avvolgere. Sono scoperto, svergognato. Soprattutto perché avrei potuto averli tranquillamente in regalo. Devo concludere che il mondo della scrittura m’appariva precocemente appetibile e proibito, connesso comunque a un’infrazione, a una pratica furtiva.”

Lei è nato a Comiso nel ’20 e vi ha passato quasi tutta la vita, fino a ora. Io sono nato a Racalmuto un anno dopo e ve ne ho passato mezza. Penso che la sua condizione e la mia, negli anni trenta in cui abbiamo cominciato a leggere il mondo attraverso i libri, sia stata la stessa. I pochi libri che si trovavano in casa, vecchie riviste, vecchi giornali, la Domenica del Corriere gli scrittori russi in edizione Barion o Bietti.

“Mio padre, fabbro ferraio, coltivava assai la lettura: possedeva un Dante-Dorè, un Ortis, un Melzi 1909, un Fabbro del convento, un Guerino, Il mistero del poeta di Fogazzaro; e I miserabili. Lo lessi non so quante volte. I miserabili: stranamente – ma forse no – ero affascinato dalle divagazioni epico-liriche, dagli sproloqui a tavola di certi personaggi, dai calembourssulle barricate... Poi ci fu Guerra e pace, Natascia in slitta sulla neve mi rapì...”

Perfetto. Una sola variante, per me: di Fogazzaro c’era, tra i pochi libri di casa, Malombra... A scrivere, immagino, cominciò con dei versi.

“Con un sonetto, a undici anni... Lo conservo, ho conservato qualunque inezia, della mia vita..: Poi, fino a vent’anni, scrissi poesie a centinaia: a rileggerle parrebbero di cinquant’anni prima. Ma nessuno in quegli anni mi parlò di Ungaretti, di Montale...”

E c’era il fascismo.

“Il fascismo a chi vi era nato dentro e non aveva la fortuna di un incontro eretico, appariva naturale come la famiglia a un bambino. Credo fosse, questo, uno dei suoi veleni più neri. Io lo accettavo col solo blando astio che poteva nascermi dalla renitenza ai salti e alle arti marziali. Solo quando mi occorse di vincere per la Sicilia (era il ’39) un premio di prosa latina e mi recai a Roma per essere ricevuto, assieme ad altri vincitori, da Mussolini; solo allora, mentre per la posa di rito tutti si precipitavano a mettersi in vista, un istinto e un ribrezzo mi spinsero a ritirarmi alle spalle di tutti. Aggiungo che mi sentii confusamente oggetto di una scaltra tecnica di persuasione, se non di un bluff, quando lui disse, a lode dell’universale Roma, che quella stessa mattina aveva conversato in latino con l’ambasciatore ungherese. Il quale, aggiunse per un di più di naturalezza, aveva però sbagliato una concordanza: nos, quae... Altro premio, sempre al liceo, lo vinsi per un tema sull’E42: all’inaugurazione dell’Esposizione, mi avrebbero fatto soggiornare a Roma per due settimane. Ma l’Esposizione non ci fu, ci fu la guerra.”

La guerra, la malattia. E dalla malattia questaDiceria dell’untore...

“Ma anche i tanti libri che lessi. A Scandiano, in ospedale, ebbi un colpo di fortuna: il primario, coltissimo uomo, aveva trasferito, a salvarla dalle bombe, la sua enorme biblioteca in un magazzino dell’ospedale. Me ne diede le chiavi. Fu il mio ingresso nell’Europa. Tra l’altro, lessi Proust in francese, braccandone i volumi senz’ordine, di sotto le pile gigantesche...”

E così, fuori dalla Sicilia e come casualmente, le è accaduto quel che a ogni siciliano colto accade nell’ordine delle cose: l’ancoraggio alla cultura francese.

“Appunto. Ma già, tra i sedici e i diciotto anni, avevo fatto un’esperienza fondamentale: da una traduzione in prosa italiana avevo ritradotto macaronicamente in francese Baudelaire. Inseguivo l’alito delle cadenze originarie. Più tardi, quando ebbi il testo originale, l’ho tradotto e ritradotto in italiano. Ma non ho soltanto tradotto Baudelaire, dal francese. Sulle Contrerimes di Toulet mi sono affilato lungamente. Sempre per il mio piacere, s’intende: anche se quella mia traduzione delle Contrerimes sta ora per pubblicarsi.

Abbiamo in comune anche Baudelaire nella traduzione in prosa di Decio Cinti, se non ricordo male, e in edizione Sonzogno. Non mi sono attentato a ritradurlo in francese, ma l’ho tradotto in italiano quando ho avuto tra le mani, nell’immediato dopoguerra, il testo francese curato da Giovanni Macchia. Mi è facile dunque immaginare che anche il cinema francese, tra il ’37 e il ’40...

“E anche oltre. Per molti anni il basco di Michèle Morgan e le calze di Arletty e Louis Jouvet che recita Verlaine mentre lo arrestano (“Dans le vieux pare solitaire et glacé”) oppure scende regalmente tra due infermieri le scale d’un ospizio declamando il Don Juan; per molti anni questi mi parvero i culmini d’ogni sentimento d’arte. Solo dopo la guerra entrai nella buccia più vera di una civiltà seducente: e furono allora Montaigne e Pascal, gli illuministi... Mi sento, e sono, un francesista selvaggio, dimezzato. Ma in Francia, purtroppo, non sono stato per più di quindici giorni.”

Questo le varrà l’accusa, da parte di qualche critico, di aver fatto, con la Diceria dell’untore, un libro molto francese. Certo, molto italiano non è. Ciò non toglie che sia – almeno io così lo sento – molto siciliano.

“Con la Sicilia i miei rapporti sono di qualità schizofrenica. E tuttavia, più mi sforzo di sbucciarmi di dosso la pelle indigena e di promuovermi ‘totus europeus’, più tendo a raccogliermi e ricucirmi dentro la mia terra e la mia civiltà. Mi ricordo che un giorno, a Colonia, nel ’64, durante un viaggio in macchina con un amico, fui colto da un così straziante crepacuore di fronte a un cielo che parlava una lingua lontana che rifuggii verso il Sud a precipizio, sentendo a ogni pietra miliare che mi ci avvicinava una vampata di felicità.”

E il libro: da quale esperienza è nato, per quale necessità?

“L’ho pensato e abbozzato verso il ’50, l’ho scritto nel ’71. Da allora, una revisione ininterrotta: fino alle bozze di stampa. Mi è venuto dall’esperienza di malato in un sanatorio palermitano: negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e segnava ancora come nell’Ottocento. Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo (ma La montagna incantata, è evidente, non ha giocato per nulla). E poi la dimensione religiosa della vita, il riconoscersi invincibilmente cristiano. M’importava esorcizzare quell’esperienza; ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro. Confesso che il primo capitolo che scrissi, fu come un gioco serio: e consisteva nel trovare intrecci plausibili fra 50 parole scelte in anticipo per timbro, colore, carica espressiva. Qualcosa di meno maniacale delle scommesse di Roussel, essendo nel mio caso il legame tra le parole scelte non casualmente ritmico, né esoterico o cabalistico, ma insorgente da una parentela e coalizione espressiva e musicale, così come da un re, da un sol minore premeditato, nasce una sinfonia...”

L’Espresso, 1° marzo 1981


I

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia – ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l’impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).

Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che ne partiva, e pareva col suo rigo chiaro rassicurarmi così del repentaglio che m’ero lasciato alle spalle come dell’orridezza nuova dell’aria, esitavo un momento, in attesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell’avventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visioni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità. Caduto il vento, la cui mano m’aveva a più riprese, come la mano di un complice, trattenuto o sospinto nella discesa, il silenzio era pieno; i miei passi, quelli di un’ombra. Non restava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sempre, purgatorialmente seduti a ridosso l’uno dell’altro, uomini vestiti d’impermeabili bianchi, e si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili. M’avvicinavo a loro con un turbamento che l’abitudine non rendeva minore. Essi levavano mestamente la fronte, tutt’insieme accennavano un divieto, mi gridavano con spente orbite: vattene via. Non mi riusciva di obbedire, ma in ginocchio, a qualche metro di distanza, torcendomi le dita dietro la schiena, aspettavo che uno si muovesse, il più smunto, il più vecchio, una serpaia di rughe fra due lembi di bavero, e semplicemente curvandosi a raccattare una pietra, rivelasse dietro di sé, sulla soglia di un sottosuolo finora invisibile, botola di suggeritore o fenditura flegrea, la dissepolta e rapida nuca di lei, Euridice, Sesta Arduini, o come diavolo si chiamava.

“Férmati”, gridavo “madre mia, ragazza, colomba”, mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che mi suggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissiparsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce. Soltanto in quell’istante, riaprendo gli occhi, capivo d’avere ancora una volta giocato a morire, d’avere ancora una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parola d’ordine che mi serviva.

Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere o disvolere morire, in quell’estate del quarantasei, nella camera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo, dopo essermi trascinata dietro, di stazione in stazione, con le dita aggranchite sul ferro della maniglia, una cassetta militare, minuscola bara d’abete per i miei vent’anni dai garretti recisi. Non avevo altro bagaglio, né vi era dentro gran che: un pugno di ricordi secchi, e una rivoltella scarica fra due libri, e le lettere di una donna che ormai divorava la calce, fra Bismantova e il Cusna, sotto un cespuglio di fiori che avevo sentito chiamare aquilegie. A me meno frigide ghirlande erano promesse, appena la franchigia fosse scaduta e mi fossi stancato di raccogliere in difesa, come un quadrato di veterani, i sentimenti superstiti che mi facevano vivo. Non mancava molto oramai: già erano scomparse l’incredulità e la vergogna dei primi tempi, quando ogni fibra è persuasa ancora d’essere immortale e si rifiuta di disimpararlo. Ma sopravviveva il rancore, anche se sotto la specie di una loquace pietà di me stesso. Un re forestiero m’era venuto ad abitare sotto le costole, un innominabile minotauro, a cui dovevo giorno per giorno in tributo una libbra della mia vita. E inutilmente il cuore, il quale possiede non meno che la vista, un suo prezioso potere d’accomodo, s’affannava a ripetermi ch’ero stato io a sceglierlo, quel male, per pulire superbamente col mio sangue il sangue che sporcava le cose, e guarire, immolandomi in cambio di tutti, il disordine del mondo. Non serviva. Non serve mai, solo al fine di consolarsene, nobilitare un destino che ci è giocoforza patire. E quindi, benché della mia cristiana assunzione di colpa io mi vantassi volentieri in versi su un quaderno di carta da macero, non cessavo, in una piega della mente, di considerarmi un ostaggio provvisorio in mano al sinedrio, spiavo di soppiatto le risorse di scampo che mi restavano, alzavo le braccia solo per finta. Sarebbero presto venuti a darmi di lancia, sotto il patibolo, fantaccini sudati, perché dovevano. Ma era bello, nel frattempo, consentire all’evidenza del giorno, all’ingiunzione d’esistere che intonavano a gara ogni mattina i centomila galli della Conca d’Oro con quelle loro fanfare. Ogni differimento, del resto, serviva a rendere sempre più cavillosa e tenera l’intimità con la prossima fine, tanto da farla rassomigliare un poco a una scherma d’amore: gli stessi allettamenti e ripulse e astuzie d’occhi e fiacchezze di fanciulla, prima della decisiva capitolazione nel buio. Così non c’era giorno o notte, alla Rocca, che la morte non m’alitasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza; ch’io non ne intravedessi, in una striscia di luce o in un mucchietto di polvere, le imbellettate fattezze, ora d’angela ora di sgherra. Lei era la meridiana che disegnava sul soffitto delle mie insonnie le pantomime del desiderio; lei, la tagliuola che mi mordeva il calcagno; il mare di foglie che il sole tramuta in brulichìo di marenghi; lei, la buca d’obice, l’in pace, le quattro mura di ventre dove nessuno mi cerca.

In una condizione così teatrale, in bilico fra vanagloria e spavento, trascorsi una settimana dopo l’altra, senza imparare quasi né un luogo né una persona, non vedendo altro che una faccia, la stessa, davanti a me: come chi cammina in un corridoio, e ha dietro un lume, e in fondo c’è uno specchio. Fossi riuscito a resistere così sino alla fine, avessi evitato di colluttare, oltre che con la mia, con la dannazione e salvezza degli altri tutti: del dottore, del frate, della ragazza!

II

Mariano Grifeo Cardona di Canicarao: così, senza economizzare una sillaba, usava firmarsi il dottore, prolungando il primo nel successivo cognome, non tanto forse per diritto di nascita, bensì fedele a quel pregiudizio mediterraneo (o quantomeno suo e mio), secondo cui l’interiezione e la pletora aggiungono alle parole – e ai climi, alle mimiche, ai cibi – non solo opulenza ma credito, come in un abbigliamento magico, dove maschere e piume, più ridondano, meglio si esaltano e si danno forza a vicenda.

Nessuno di tanti titoli gli era poi utile a nulla, per una furberia delle cose, essendo che, a memoria d’uomo, lo avevano sempre chiamato il Gran Magro, né v’era portantino o suora o malato che, scorgendone le lunghissime gambe sopravvenire per la corsia, non sentisse il bisogno di propagare l’avvenimento con un bisbiglio, il Gran Magro, il Gran Magro, la cui musica sempre uguale doveva certo, in tanti anni, essere arrivata almeno una volta sino alla conca pelosa del suo orecchio. Che poi un’impresa gentilizia – un nido d’api, col vocabolo Uberius al centro – pompeggiasse in cima al suo biglietto da visita, nessuno di noi smise mai di considerarlo un abuso, a dispetto delle commendatizie che si affannava a fornirgli la quercia dipinta, dalle radici come murene, appesa in alto dietro il suo scrittoio. Singolare pianta, davvero! Non protetta da vetro, ma da giustapposte lastre d’archivio, preventivamente nettate con acqua tiepida dalle macule e magagne di qualche ignoto defunto; e si levava dal suolo con tale energia e abbondanza di chiome da far temere che presto sarebbe evasa dall’effratta cornice per espandere liberamente i suoi cartigli nell’aria. Uno dei quali, in effetti, ove l’avessimo preso per buono, testimoniava dall’estremità d’una fronda che una goccia almeno di blu, spremuta da marchionali ispanici lombi, era scorsa fino a lui lungo i secoli, per deporgli nelle vene un lampeggio d’antica grandigia, seppure ormai malinconica e torva, come s’addice a un uomo di libri.

Bene, il falso o vero nobiluomo Gran Magro era il solo fra i medici della Rocca, all’infuori di quell’altro a cui toccava il turno di guardia, che restasse a dormire ogni notte con noi (dalla moglie s’era diviso anni prima: una siracusana di spaventosa bellezza, sulla cui foto sputava, dicevano, tutte le mattine, prima di lavarsi). Spesso, dopo cena, quando fummo diventati amici, me lo vedevo apparire al capezzale, senza camice, in piedi, chiuse sul pomo del bastone due mani di perfida esiguità. Alzavo gli occhi, ne investigavo da capo a fondo l’immagine, dalle spesse lenti verdacee ai borzacchini di capretto nero che gli coprivano quasi gli stinchi. Un vero e proprio dagherrotipo d’epoca: Herr Virchow fra colleghi e studenti nel giubileo della prima lezione; Monsieur Charcot in posa, sulla soglia della Salpêtrière, con le fedine spettinate dal vento...

Mi chiedo tuttora cosa cercasse nella mia compagnia, se gli servisse solo un ascoltatore acquiescente per le sue empiaggini d’ogni sera, oppure obbedisse alla professionale curiosità di censire da vicino i progressi del male dentro di me, le crepe neonate, i capisaldi persi, ripresi, ripersi; e tutto questo non su una di quelle gocciolanti pellicole che detestava, bensì attraverso più sottili spionaggi: una veemenza nella tosse che prima non c’era; una nota che la voce avesse improvvisamente fallito o riacciuffato a fatica sull’orlo; un’unghia spaccata, una roseola sul labbro, un lampo di febbre nell’iride. A meno che non venisse per bere, bere gli piaceva, gli dava la parlantina. E dunque io mi levavo dal letto, cavavo dall’armadio di ferro una bottiglia di porto e la mia caraffa privata (lui, a scanso di contagi, il suo bicchiere da tasca da una tasca della vestaglia, guardandomi di sbieco e scusandosi della precauzione con una sfacciataggine delle labbra). Uscivamo a bere sulla veranda, io anima, lui condottiero e arcidiavolo, fra sedie a sdraio nere di corpi distesi e sussurranti, dinanzi alla pineta che non stormiva, quasi, e nascondeva la lama di mare, laggiù.

Che giorni, che serate. Forse i soli giorni ricchi di un’esistenza che non ha avuto altre iperboli, dopo, e s’è fatta inaspettatamente interminabile. Mentre allora, a furia di contare e ricontare i miei spiccioli anni come scampoli di meccano o catturati pedoni disposti ai lati di una scacchiera, m’ero abituato a vedere nel tempo a venire nient’altro che l’imminentissimo explicit d’una partita già perduta dentro la mente; non poema di cavalieri dove si celassero mirabilie e salvataggi sino alla penultima pagina; ma sonetto veloce a cui mancava solo un verso, il sigillo di una rima che non era consentito cambiare.

“È un matto da manuale” spiegavo al mio compagno, rassegnatamente. “Già annunziato; in tre mosse e con sacrificio di Donna, sulla falsariga dell’Immortale di Anderssen, Torneo di Londra di or sono quasi cent’anni. Vorrei solo conoscere, prima di inchinarmi e cavarmi il cappello, il nome del vincitore.”

Mi divertiva provocarlo così, e che avrei potuto fare di meglio, considerando quanto fossero scarse le occasioni di spasso in quelle giornate inerti, e con quale facilità si poteva strappargli un’apostrofe delle sue, rivolta con voce di fumatore al suo diletto sempiterno interlocutore e nemico, il fabbriciere del mondo, Dio Padre o chi si spaccia per Lui. Piaceva difatti al Gran Magro, anziano com’era e di lunatico tratto, svogliarsi un poco, nelle ore d’ozio, dall’adocchiare alle spalle le lavandaie avventizie prone sul pavimento, o dalla terrazza, col cannocchiale da marina, i bastimenti che doppiavano Monte Pellegrino, per sfogarsi ad aggredire il busillis delle cose come un cruciverba della domenica, secondo i modi di una collera ilare che non mancava d’attrattiva e a cui non sapevo rifiutare il sorriso.

“Esiste”, gridava “esiste: non c’è colpa senza colpevole!” Oppure: “Che gaffeur, che cavadenti; che schiappa di un garzone di mago! Guarda!” e mi tirava la manica, mi mostrava con un gesto circolare l’universo. “Guarda che merda!” “Passa via!” faceva infine, come se ce l’avesse lì davanti, in forma d’idra o cerbero, l’Altissimo, e volesse salvarsene scoraggiandolo. Ma io, a sentirlo così imprecare e dolersi, da inquilino bisbetico, e ricondurre a ragioni di disservizio del personale ogni mio filosofico groppo e quello sconforto del cuore che non mi lasciava più da quando ero giunto alla Rocca, non dico che ne ricavassi medicina, ma distrazione certo, forse anche dal guasto fisico, dall’invisibile camola che mi brucava in silenzio, sotto la mammella destra, in un punto che ormai conoscevo a memoria.

“Hai letto” replicavo (era stato lui a pretendere che gli dessi del tu, benché più di trent’anni ci dividessero) “la storia dello scacchista che non perde mai e sta nascosto in una macchina? Ecco, a volte mi pare che qualcuno giochi con me alla stessa maniera, con occhi che scintillano dietro un morione di ferro.” “Lo aduli” rispondeva, imbaldanzito dall’alcole. “Forse noi, dico la Terra, Cassiopea, Alpha Tauri, quella stella cadente, tutti gli altri corpi e astri che vedi e non vedi, tutti noi, zodiaci e nature, siamo solo miliardi di calcoli nel rene di un corpacciuto animale, la sua colica senza fine, i quagli petrosi del suo difficoltoso smisurato emuntorio; e galleggiamo così, nell’etere e piscio che gli s’impantana per tutti i meati e lo fa gloriosamente ululare di dolore nel silenzio degli spazi eterni. È quella che chiamano l’armonia delle sfere. Ma in quanto a spostare un pezzo, lui, Dio Mannaro, non saprebbe che pesci pigliare. È solo una bestia che vuole sgravarsi di noi, e scalcia e si scogliona senza criterio. Un rimedio gli bisogna, uno squasso o un rutto, per mano di un altro, un Ur-Gott, un archiatra più antico e vasto di lui, che ci riduca in tritume di polvere, e lo liberi, finalmente. Ma la tua morte avviene al di fuori di tale disegno, seppure un disegno esiste che lo concerne...”

“Già pensato al liceo qualcosa di simile” mi piaceva irritarlo, ormai che c’ero. “Una catena di eoni e padreterni sempre più grandi, l’uno dentro dell’altro, come scatole di Cina. Ma, giustappunto, l’universo come cineseria è pensiero da liceali. Né Cristo...” Non mi lasciava finire: “Chi, Barbetta di Capra? Ma è solo un alibi, un prestanome! Ci vuole un prete come te per cascarci. Sì, un prete.” Ignorava le mie smorfie, le mie proteste. “E un giocatore che cerca scuse. No, non è un duello, ma un solitario che stai perdendo, e non c’è nessun elmo da togliere su nessun viso di guerriero o guerriera.”

“Indarno chiedi – quel che ho per uso di non far palese” declamavo io allora, scimmiottando la sua mania citatoria. “Così Clorinda a Tancredi, Monteverdi sonum dedit.”

Ma lui non mi badava: “No, ragadi siamo, ragadi sopra il grugnoculo di Dio, caccole di una talpa enorme quanto tutto, carni crescenti, pustole, scrofole, malignerie che finiscono in oma, glaucomi, fibromi, blastomi...”

Scoppiava a ridere e con la mano chiazzata di iodio scuoteva la mazza contro la Via Lattea, come si minaccia un bambino; poi, quando più non lo speravo, taceva. Accessi così, dov’era forse non meno ambascia che buffoneria, gli duravano poco, veramente, e doveva vergognarsene, se, subito dopo, con un asciutto saluto heidelberghiano (servus) mi lasciava solo, appoggiato alla balaustra, con il dorso rivolto al silenzio e alle innumerevoli orecchie della notte.

Lo guardavo mentre attraversava la veranda, scavalcando con destrezza di saltimbanco piedi e braccia in abbandono, e sgabelli, sedielunghe, cuscini. Ripensavo a una stampa trovata da bambino in solaio, Napoleone fra gli appestati di Giaffa, e gli gridavo dietro, sebbene più non potesse sentirmi, qualche ingiuria di caserma, così, per finire ridendo. Lui faceva in tempo a raccogliere, prima di scomparire nel suo laboratorio, fra matracci e brodi di bacilli in cultura, l’invocazione di uno al passaggio, oppure un bollettino senza speranza: “Garibaldi è sbarcato, dottore.” Che era, nel gergo del luogo, la più frequente, se non la più sfogata, fra le metafore dell’emottisi (ne ho altre in rubrica: bandiera rossa, la svinatura, il marchese; e ricordo qualcuna delle ulteriori manipolazioni di parole che il vivere insieme ci suggeriva: l’uomo delle caverne designava il radiologo Vasquez, esperto a descrivere con la matita i contorni delle medesime sui toraci stampigliati nella cartella clinica di ciascuno, ai piedi del letto; la va a pochi era un vecchio motto di burbe, traslato ora a significare meno liete maturanze di ferma).

Frattanto la Rocca s’andava spegnendo, un rettangolo dopo l’altro; già erano buie le finestre del padiglione femminile, dopo l’urlo cerimoniale di suor Benedetta, mentre noi, per pura disobbedienza, tornavamo ad accendere ogni cinque minuti. Infine il sanatorio sprofondava nella tenebra come in una coltre di pace; vecchia tartana in disarmo sul dosso del monte, oscillava piano, in un sonno rotto da scoppi rauchi che da una corsia all’altra, da una branda all’altra si rispondevano fraternamente: latrati di cani amici nella paura della campagna; marcia funebre di paese per tube del giudizio ingorgate da un escreato gigante.

Dormiva, la vecchia tartana, e pareva un’arca su un’altura, alla fine di un’inondazione; un’arca in secco, abbandonata dai vivi, con lo sterno corroso dal sale e malmenato dal vento, popolata solo di topi, come la cineclubica nave di Nosferatu. Da un grammofono, chissà dove, un disco d’antiche villeggiature ripeteva parole che per un secondo, non più, riuscivano a stringermi il cuore:

Les vieux billets, chérie, qui me rappellent

les nuits à bord du Normandie si belles...

Altre notti per me, altro Normandie era il mio, coi suoi neri oblò come pupille cucite, con la sua merce di topi di Giaffa stivata nelle cantine, venuto ad arenarsi sul poggio della Rocca.

Le parc au soir lorsque la cloche sonne,

le vieux boudoir où ne vient plus personne...

canticchiavo spogliandomi, prima di accoccolarmi nella mia muda di moribondo, a sognare una strada color cenere, una latomia in rovina, dove fra erbe e pietre confusamente crescevano alberi. Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita.


III

Ma chi potrà scordarsi dei compagni di prigionia, del fuoco che li spingeva, nelle prime ore dell’alba, in pigiama com’erano, a scendere in giardino per piangere finalmente da soli, con la guancia premuta contro la spalliera di una panchina; chi potrà levarsi dalla mente le loro facce malrasate, mentre le coglie e disorienta l’indorarsi fulmineo del mondo, al di là del muro di cinta?

Bastava talvolta, tra sonno e veglia, un fischio di treno addolcito dalla distanza, oppure il cigolio dei carri di zolfo in fila per la collina, e si balzava col cuore in tumulto, seduti sul letto, a origliare le invidiate informazioni e leggende di quella stella infedele in cui s’era trasformata la terra. Che cosa racconta un treno, un carro che va, fra bivacchi e lune sull’aia, lungo profumi d’aranci e paesi, in una notte d’estate? Niente, eppure so di occhi sbarrati nel buio, che non avevano altra vacanza se non di sorprendere, al séguito di quelle ruote, qualche guizzo di vita durante la via: un vecchio che prende il fresco, due teste che si parlano sotto il lume della cena...

Si tornava dall’immobile viaggio più lieti, più tristi, chi può dirlo, e tuttavia non delusi del nostro bottino di nuvole, l’unico che la sorte non aveva facoltà di vietarci. Allo stesso modo il pellegrino, a cui accade di sostare sotto un davanzale straniero, sospende il passo se mai gli giungano, in una pausa di canto, svogliatezze e amorosi sussurri di donna; e se ne riparte racconsolato, stringendosi nel pugno quel bene, quel pane rubato, di cui cibarsi più tardi.

E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d’aria per montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di vita. Almeno finché la babilonia della luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per chi se ne stava dimenticando, che un altro giorno ci aspettava dietro l’angolo, con la sua razione infallibile di dileggio e di pena. E sarebbe stato un giorno di meno, uno dei pochi rimasti.

La stessa cosa, più grigiamente, dicevano i rumori del risveglio, tutta una prammatica senza deroghe che, forzando lo spessore del sonno, tornava a celebrarsi ogni ventiquattr’ore accanto al nostro cuscino: era lo scorrere su e giù della spranga nell’anello della porta carraia; era la frenata del furgone del latte sulla ghiaia del viale; l’incespicare del carrello con le siringhe contro l’antica sporgenza dell’ammattonato, davanti all’infermeria... E ciascuno di questi avvisi, così aspettato com’era, sembrava scandire i tempi di uno sfratto senz’appello e ribadire lo stigma per colpa del quale eravamo in esilio. Una setta di sbanditi eravamo, e incapaci di amarci fra noi, o così ci pareva, benché chi si è salvato abbia capito anni dopo ch’era vero il contrario, e che era già amore la passione con cui s’imparava la morte degli altri come se fosse la propria. Dunque come dimenticarsene, dei compagni d’allora, se in ognuno mi riconosco e mi chiamo, se è mio ogni petto entro cui uno spettro di foglia solennemente si oscura? Mi basta rimormorarne i nomi in forma di filastrocca, da De Felice a Sciumè, e uno alla volta ritornano a fumare di frodo nella mia stanza, riaprono a caso per consultarlo, come un mazzo di arcani tarocchi, il Montale sul comodino. Luigi il Pensieroso conia, guardando in fondo a una sputacchiera di carta gli esiti della sua tosse, una freddura che mi commuove: “Rosso di sera, bel tempo si spera”; l’altro Luigi, l’Allegro, sale su una sedia a glorificare, con grandi manate nell’aria, le panacee recenti d’America che ci salveranno in extremis: “Arrivano i nostri” ride, imitando con le labbra i tatatà della mitraglia, “e addio, poveri cocchi!”

Chiama così i bacilli di Koch, familiarmente, da militare di carriera che s’affeziona ai nemici della trincea dirimpetto e ai loro passatempi e risaputi marchingegni di guerra. “Fanno massa all’apice” dice “ma è solo una diversione; è al lobo inferiore che mirano. Tu, lascia che arrivi la penicillina...” Il colonnello conserva le distanze (la nostra ala, di molte camere uguali, è tutta di reduci e rimpatriati, e lui si sente ancora il comandante della guarnigione, anche se la guerra è finita da un anno e ormai la nostra divisa è il pigiama); aspetta che ci alziamo quando fa l’ingresso in veranda, ligneo, cinereo, con un foulard di seta legato al pomo d’Adamo, e la manica vuota lungo il fianco destro, che pende; pronunzia poche parole, rotte presto da una furia di tosse: “Scusate, signori ufficiali” dice, e se ne va.

Dirò ancora del bambino Adelmo, il nostro giocattolo, figlio e portafortuna, che scendeva dal piano di sopra a chiederci racconti e dolciumi, nel suo dialetto difficile, tendendo fuori del rimbocco d’una camicia troppo grande una mano d’un biancore di gesso. Lo rivedo per i vialetti, che si sforza, allungando il passo, di stare a paro con noi; e gli mancano le forze nel bel mezzo di una favola. E ripenso come si stupisce e ride, mentre m’ascolta improvvisargli, sulle stelle che mi chiede, risposte con numeri a caso e nomi da scioglilingua, Erebo, Eros, Erine, noi due soli sulla terrazza della Rocca, come su un’arce lambita appena dai frangenti dell’esistere. Passavano in corsa le Orse sopra la nostra testa, battistrada di oscuri disastri. Lui cercava, col soccorso del mio dito, una filante d’oro là in alto, che lo guidasse in salvo dal malanno sino alla sua casa di Filicudi, lo scoglio dov’era nato.

Lo delusi solo alla fine. Credeva, per averlo sentito da suo padre una notte nella lampara, che il chinino guarisse ogn’incomodo, e prima di morire, a bassa voce, supplicava e supplicava, finché per contentarlo gli demmo una compressa purchessia. Se ne accorse, non volle più parlare, si limitò a buttarmi, prima di girarsi dall’altra parte, un’occhiata di debole astio...

Angelo diceva che la morte è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall’altra parte e trovare le solidali dita di chi ci ama. Purché si lascino péste, uste, minuzie che conservano il nostro odore. Fu forse questo pensiero che lo spinse ad affidare a una suora una filza di lettere con date fittizie, da spedire una alla volta due volte l’anno. In esse narrava il romanzo futuro di sé, vantava paternità, impieghi, successi; annunziava indisposizioni da nulla che nella puntata dopo erano già guarite e remote. Sua madre – ci spiegava – sarebbe vissuta più a lungo, aspettando a ogni scadenza il posticcio messaggio in cui si prolungava indefinitamente l’eco della cara voce scomparsa. Sarebbe stato per lei come avere un figlio oltremare, a San Paolo, a Little Italy. Lei morì subito dopo di lui, tuttavia, e suor Tarcisia, se non l’ha saputo, continua certo ancora oggi a impostare queste inferie di un morto a una morta, che nessun postino potrà mai restituire al mittente (ma fra noi vivi che ci scriviamo, le parole servono forse di più? Ed è poi sicuro che sia suono la vita e silenzio la morte, e non invece il contrario?).

Sebastiano si uccise senza lasciare un rigo, sfracellandosi nella tromba delle scale, e m’aveva detto inspiegabilmente un mattino, con un riso senza luce: “Quando mi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa.” È la sua, nel mio albo di croci, quella che tuttora fa male. Mentre mi suscita un moto di buon umore crudele, anche se tanto tempo è passato, il paradosso del sottotenente Giovanni, un perito agrario di Cefalù. Era stato alla Rocca, da ragazzo, e ne era uscito quasi subito, in salute, o così pareva. Al punto che nemmeno l’avevano riformato, s’era fatti tre anni di Cirenaica, tutte le andate e i ritorni. Ora era di nuovo in forza alla Rocca, floridissimo a guardarlo, ma con quegli scavi caseosi nel petto, la vecchia cicatrice ancora in succhio, come quando un pollone s’incaponisce a rigemmare su un tronco che pareva ormai quieto. Lui tuttavia – il male ha queste malizie – ingrassava sempre di più, a forza di lecitine e di zabaioni, persuadendosi ormai, non senza vanità, d’essere salvo. Lo vedo ancora il sabato mattina, quando era il suo turno di salire sulla bilancia per il controllo, volgere attorno sguardi sornioni e vispi, prima di imporre il piede sulla piastra come sul cippo terminale d’un podere ereditato. Udendo poi gridare il peso dall’infermiere, ed era sempre più alto, non sorrideva nemmeno ma con mani riconoscenti provava un movimento di carezza lungo i fianchi di sposa. Ignaro che qualcuno nel suo arcano regime l’aveva privilegiato su tutti, e che sarebbe stato il primo a morire.

Un altro ricordo è di un vecchio dell’astanteria, dagli occhi belli, celesti, che si medica da sé la fronte, specchiandosi nel vetro di una finestra, dopo essere stato picchiato da un compagno, senza motivo, per solo furore.

E Marta... Marta ha contato più di tutti, ne parlerò più avanti, quando non ne potrò più fare a meno.

Così, chi da poco chi da pochissimo, vivevamo alla Rocca insieme ad altri che non nomino, io che vi parlo, e il colonnello, Sebastiano, Luigi, Luigi, Giovanni, Angelo: cascami della storia, uno sfrido umano. Tutti già soldati, per mestiere o per forza; ora ugualmente colpiti e con pronostico uguale; custoditi, intorno, da un reticolato, noi e nessun altro in Europa, ormai. Ed eravamo qui giunti a frotta, sotto stracciate mantelline d’eroi, da mille posti diversi. Agli eterni protocolli e controlli davanti a un corpo di guardia ci eravamo una volta di più con disciplina piegati. Arrancando per scale senza fine, contando ogni pianerottolo col respiro sempre meno capace, avevamo preso posto su quest’ultimo spalto che ci era stato sortito, e qui rimesso a mani asettiche e svelte il nostro gruzzolo d’ossa, dove la febbricola quotidiana metteva dapprincipio una sorta di svigorito calore, ma sul tardi – lo stesso capita quando si beve – un esubero di parole, un gusto di cantarsi e compiangersi, di cui io per primo (ve n’accorgerete) non ho saputo guarire mai più...

Che dietro i suoi cavalli di Frisia, spinati come Cristi in croce, avesse accolto moribondi diversi dai soliti, il Magro lo capì subito: “La vostra è una generazione senza paragone” diceva, con un sussiego nell’inflessione, come se fosse merito suo. “Mai, da quando sto qui alla Rocca, m’era avvenuto di vedere tanti libri in giro e mutrie adorne d’occhiali. È il raccolto della guerra. Un tempo erano solo i pezzenti della Kalsa a cascarci. Ora anche i signorini s’ammalano, col loro petto senza peli, l’acqua di colonia, le ironie in italiano.”

Il Gran Magro giudicava i malati per annate, come un intenditore di vini o un maestro in pensione. Lo assecondavano essi, resistendo raramente alla Rocca per più di quattro stagioni. La durata media era quella, da un ottobre all’altro, il tempo di aggregarsi e imparare un linguaggio, consuetudini, un decalogo che valesse per tutti. Ciascuno, infine, quasi pretendendo alla nobiltà di una staffetta di lampade, appena si sentiva vicino a cadere, affidava a un successore il suo povero testimone: un cimelio, un trucco, un nomignolo. Così da vent’anni il Gran Magro continuava a esser chiamato il Gran Magro, dopo ch’erano morti in venti, insegnandoselo prima di morire.

Ma io – a tal punto m’avvilivano questi scambi di consegne e l’attesa supina del colpo – non so quante volte al giorno mi sentivo tentato di salvarmene con una inadempienza o bravata. Certo, fossi stato sicuro di non lasciarmi dietro a ogni passo le mie lumacature e polluzioni d’untore, non sarei rimasto a covare nel pagliericcio la febbre come una cimice, ma sarei sceso a consumarmi fra la gente, in fretta, ero troppo vigliacco per morire a rate. Questo nei primi mesi, poi alla esistenza smozzicata degli altri finii con l’assuefarmi, e dal loro consorzio non volli più disertare. Con essi ho spartito, all’ombra della stessa bandiera gialla, ogni elemosina dell’ora, tutti gli inganni e i disinganni delle loro carriere, benché non la fine repentina che le concluse. Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo, d’aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di non sopravviverci.

IV

Fra la Rocca e la città c’erano solo pochi chilometri, quanti non so, non era facile contarli, mentre si scendeva in tram per l’inflessibile via Calatafimi, così in fretta, quasi a ogni isolato, si seguivano le fermate. La più comoda era qualche metro più giù dall’ingresso grande, sotto una tettoia di eternit che ci ospitava in attesa, imbottiti di maglie o scamiciati, col mutare delle stagioni, ma impazienti sempre di imbarcarci per la nostra saltuaria Citera. Si scostavano un poco, senza farlo parere, i viaggiatori abituali, all’apparire del nostro drappello di lazzaroni cupidi e ossuti. Noi portavamo con un impaccio visibile – dopo tanto grigioverde di giubbe – gl’indumenti della vita borghese, su cui avevamo provato poc’anzi, dubbiosamente, le liturgie scordate della vestizione, scoppiando a piangere all’improvviso nell’atto di accomodare attorno alle fosse del collo una cravatta d’altri tempi, una bianca sciarpa da ballo.

Non era da tutti, peraltro, ottenere il lasciapassare da esibire al custode. E il più delle volte ci facevano difetto le forze. Allora, fra una spedizione e l’altra, ci acconciavamo a distrarre i sensi in qualche maniera, col pericolo, magari, di aizzarli ancora di più.

Si cercavano intrallazzi col reparto delle donne, attraverso lo steccato d’edere e pali che divideva il parco a metà e che, per la sua inettitudine, chiamavamo la Maginot. Ci s’intendeva prima a segni, durante la messa; si trovava poi modo, da una gronda della terrazza, di lasciare penzolare, attaccato a una funicella, un biglietto davanti a una finestra amica, nella fiducia che una mano raccogliesse l’invito. Oppure un giavellotto di malacca, da ragazzi, viaggiava nell’aria fino alla loro veranda e portava inastata, mediante un elastico o altra fettuccia, addirittura una rosa.

Altre volte ci si contentava di parlarne fra noi, di chiamarle con una canzone. La musica, appunto, non scarseggiava. Avevamo, in aggiunta ai dischi e alle nostre manufatte radio a galena, una cuffia ciascuno per ascoltare i programmi che il Gran Magro irradiava, sette giorni su sette, da una sua profonda officina, con la pretesa di assopirci o svegliarci a suo gusto secondo le decisioni di una manopola lontana. Un sopruso. Ma era facile staccare il contatto. Mentre non era facile eludere, al pianoforte del ricreatorio, le sue personali esibizioni di eterno tirocinante, con quelle scale da impazzire: Gradus ad Avernum correggevo io, per ferirlo, il frontespizio del suo Clementi.

Era una rivincita, dunque, suonare e cantare noi stessi, la sera, appena si sentisse la febbre defluire via piano, e nelle vene l’ambulare del sangue farsi fradicio e lento, un battito d’acquamorta contro la riva. Sedevamo allora insieme, in cerchio sul pavimento, con un’armonica, un mandolino, e due tre voci spossate a furia di rincorrersi e d’accordarsi, in uno sforzo quasi sempre deluso di raggiungerlo e imprigionarlo, quel filo di motivo evasivo che, al pari di ogni altra cosa, si rifiutava di appartenerci.

Begin’ the beguine, e dai balconi di lunga luna ragazze si sporgevano ancora, scendevano ad appendersi al filetto dorato del nostro braccio, ci camminavano accanto lungo un fiume, Tresinaro o Livenza, reggendo con una mano il manubrio di una bicicletta di nebbia. Curve sotto i baci, da arboscelli ch’erano, ma con un gusto di terroso rossetto sulle labbra, e nel solco del seno quell’odore di cotogne sbucciate appena. Mai più le avremmo riviste, mai più risentito le loro voci sotto la cupola del platano mescolarsi ai fruscii della notte. Ce le aveva regalate la guerra; la guerra se le era riprese. Di là dei monti e dei mari, loro: morte o smemorate o nemiche. E noi qui soli, con una sozzura sotto la giacca, un disonore da dissimulare.

La guerra era dietro di noi, ma sulla giacca era rimasto il segno della bandoliera, e l’agro della polvere nelle narici e nelle mani. Mani che avevano sparato, forse ucciso. E ora ci chiedevamo perché. Nell’asfissia del sentire, che a gara con l’altra del respiro ci soffocava le fauci, ogni parola grande stingeva, appariva una truffa di adulti. Anche la libertà, anche la verità. Di tanti giorni di ebbrezza e di felici rincorse sugli Appennini, coi fazzoletti di colore attorno al collo e i soprannomi da romanzo, restavano a galleggiare pochi scarabocchi e stemmi di atrocità o amore: un fischio d’intesa, un fumo di sera su una cascina, un crepito di parabellum davanti a noi, in un sentiero senza scampo. Mentre, sopra ogni altra cosa, soverchiando ogni lutto o splendore della memoria, ferinamente trionfava nel vento il tanfo della città bombardata, della sua bocca nera, nel turpe esibito suo pube d’uccisa. Lo stesso tanfo che sentivamo ora salire dai nostri guanciali, un’altra guerra ci toccava combattere contro Goti più solerti e feroci. Che contava se il mondo, altrove, era tornato ad avere vent’anni, a mormorare le venerande parole, lungo i fiumi, sui balconi di lunga luna? Noi, per avere una donna dovevamo attendere che tre volte di fila risultassimo innocui all’analisi, e che ci fosse concesso il salvacondotto di rito, e che i sensi accettassero l’alea e la ripulsione di un contatto comprato, e che...

Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, immortali... Osservare le mostre dei negozi, specchiarvi fino all’ultimo spigolo le scarnificate figure, e sentire con gratitudine che nessuno se n’accorge, nessuno si volta. Eccomi nell’accampamento nemico, travestito da vivo, invulnerabile come chiunque. Le ragazze passano a frotte, tenendosi allacciate, con ritornelli di risa. Hanno tacchi alti, gambe di rame nudo, un pettine fra i capelli o una spadina d’argento. Come mi guardano senza vedermi, come ciascuna apre e chiude il ventaglio del grembo a ogni passo! In piedi, nella fiumana di folla, è bello sceglierne una mentre si allontana, e battezzarla per poterla chiamare quando non c’è, e fare coppia con lei nella fantasia, seduti sulla spalletta di un fiume, Tresinaro o Livenza... Io accarezzo la curva della sua gota, le dico “D’accordo, domani”, le dico “Domani, alle sette. Davanti al Caffè dei Portici, davanti al cinema Odeon”, le dico “Ciao, Sesta”, “Ciao, Silvia”. Lei giunge fra tintinni di similori, con un passo di streghina, di gitanella. Lentigginosa da intenerire. Ha una bocca troppo dipinta, un berretto di paggio inclinato da un lato, la borsetta ad armacollo. Le piacciono i segreti che si sussurrano all’orecchio, gli oracoli, le stizze, le bugie. Non vuole in me che questo: un affiliato di cospirazioni e allegrezze. Si rammenta gli anniversari più futili, le cantafavole improvvisate una volta e lasciate a metà. M’incolpa di colpe inesistenti per potermele perdonare dopo un istante. Mi regala un garofano avvolto nella stagnola, un pacchetto di Tre Stelle, uno stupido Toi et moi. È la mia ragazza, guardatela, sta per attraversare la strada col semaforo rosso...

Oppure si finiva nel quartiere del porto, a cercarsene una qualunque, ma di carne vera. Bisognava pure ogni tanto, era anche il consiglio del Gran Magro. Bastavano già quei pochi scalini a stremarmi, e l’anchilosi del braccio attorno alla vita di lei. Chi riusciva poi a muoversi come si deve, con la magra dote d’ossigeno che mi restava. E allora, ti pago un extra, fa’ tu... Sentivo il suo corpo ricciuto e pieno di nei ingigantirmisi addosso, penetravo in lei col suo aiuto, accompagnando con avari sussulti i suoi, misericordiosi ed esatti, finché si sciogliesse in pioggia di fuoco e di miele in fondo al suo ventre la nube cieca che mi gonfiava le tempie.

Più tardi, sopra la coperta militare distesa a riparo della dubbia lindura del letto, mentre lei si lavava senza dolcezza in un angolo, e una tardiva goccia di seme mi correva stancamente per l’inguine, mi piaceva giacere ancora un poco, dissanguato e deserto come un ucciso, con gli occhi fissi al soffitto, a decifrarvi, in una screpolatura o salnitro dell’intonaco, le imboscate future della mia sorte.

Al mio ritorno avrei raccontato tutto ai compagni, seduti a mucchio sopra la stessa branda, avrei risposto ridendo alle loro domande da studenti, mentito anche un poco, forse. Avrei detto: “Era bellissima, ha gridato, non fingeva, vi dico; che donna; andateci, amici...”

V

Di padre Vittorio, il cappellano militare, diventai amico piuttosto tardi, benché ci accomunasse l’abitudine di uscire a sedere in veranda la mattina presto, per fare incetta d’aria buona, almeno fino a quando non fossero giunti a sconsigliarcelo i primi, tradizionalmente fatali, freschi d’autunno. E già più volte ci si era scoperti l’un l’altro a compitare da lontano i titoli dei libri che reggevamo con tre sole dita fuori del mucchio di felpa che ci copriva. Poi cominciammo a spostare, ogni giorno di un poco, le nostre sedie da riposo (la sua, stranamente, a dondolo, fuori ordinanza), come per una premeditazione di tutt’e due, una combutta innocente, che ci faceva sorridere gli occhi per il tempo di un baleno, quando si scontravano. Finimmo così col trovarci un’alba fianco a fianco di fronte allo stesso primo sbieco raggio di sole, senza più un pretesto che c’impedisse di parlare e di dire contemporaneamente la stessa cosa: “Come ti chiami?”

Strano che dopo tanto conoscerci e tante occasioni di domestichezza io non rammenti più nulla di lui se non qualche filamento di volto, una specie di inafferrabile sindone, e la macchia che faceva, passando fra me e la luce, il suo corpo di montanaro nell’atto di svilupparsi dal plaid a colori per venire a curvarmisi sopra e a stringermi rumorosamente la mano. E ancora meno spiegabile che in un luogo come quello, dove l’abbandono non tollera indugi o diplomazie, il nostro incontro abbia seguito una grammatica così curva e prudente. Quasi entrambi temessimo e desiderassimo insieme nell’altro il connivente e nemico che ci mancava e senza cui la partita non si sarebbe potuta giocare.

Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc’a tombola della nostra vita. Non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi capita, secondo che una mano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli, disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni. Così, per quanto io da moltissimi anni sia tornato, come già prima nell’adolescenza, a un’opaca negazione del Cristo, è a quell’incontro imprevisto, estratto da un calcolo o caso fra gl’infiniti possibili, che devo di averci pensato, per l’unica volta, con delicatezza e sgomento, fino al giorno in cui, nell’attimo stesso della morte del mio amico, mi ritrovai più asciugato di un ciottolo, e seppi che fin allora il mio cristianesimo non era stato che una gravidanza supposta, un’isteria di tre mesi. Oppure solo il vizio di ascoltare, a mezzo metro da me, commovente e barbuto, un giovane apostolo che mi raccontava nell’Altra la nostra stessa Passione.

Chissà com’era venuto a finire fra noi, lui del Nord, mentre avrebbe potuto farsi ricoverare nel sanatorio per religiosi che il Vaticano intrattiene, dicono, dalle parti di Trento, o in una clinica per ricchi, a due passi da casa (era figlio unico, i suoi possedevano ville, navi). Aveva invece preteso di scendere fino alle Madonie, senza temere di esporre alla laica facinorosa luce dell’isola le sue ferite che già galoppavano, che forse s’era lui stesso cercate. Perché, mi chiesi a lungo, dal momento ch’era da mettere in conto una minor resistenza al male in un posto dal clima così difficile, perché? Per compiere in qualche maniera il grande tour meridionale sognato a lungo da novizio in un triste convento veneto dal cancello a punte di lancia? Per lasciarsi alle spalle affetti e care lacrime e rimanere solo, uguale ai più reietti della nostra famiglia, nell’attimo dello sgombero finale, della definitiva partita a pugni con l’angelo? Forse non lo sapeva lui stesso, anche se una volta accennò balbettando a una missione e obbedienza ch’egli si sforzava, pur in quarantena, di adempiere, e per la quale gli pareva ci volesse uno scenario di crete e ulivi, una Giudea tutta triboli, come certe chiuse di qui, che uno scisma di venti minuziosamente dilania.

Fantasie, esorbitanze dette per riempirsene le labbra, una sera. E tuttavia fu allora che lo scopersi fratello, nella frode di voler prestare un senso d’elezione a una privata miseria del corpo: la stessa frode per cui anch’io porgevo volentieri ai chiodi le palme, illudendomi che bastasse l’orgoglio a cangiare una vergognosa sanzione nel privilegio di un dio. Fratello fu, perciò, e succubo e incubo, padre Vittorio per me, durante tutto il tempo che insieme lottammo, vincendo e perendo entrambi un poco, lui a persuadermi della Rivelazione, io a inquinare come potevo quando l’una quando l’altra delle sue certezze.

Fu un duello di ciechi, m’accorgo ora. Di spadaccini ciechi che s’inseguono e si cercano impunemente, con fendenti all’impazzata, sulle tavole di un palcoscenico. Traendo dal catafascio attorno a sé di tanti baldacchini e tramezzi di polvere un piacere disordinato; e accorgendosi alla fine di non essersi scambiati colpi ma solo contagi. Un contagio avvenne appunto fra noi, fra le nostre due barricate parallele e guerriere. Sicché, nel tempo stesso in cui io andavo accogliendo il fuoco delle sue speranze, il mio dubbio, sciogliendosi da me, e con esso la mia viltà, andava insinuando nella densità del suo corpo, lì accanto al mio, una seconda e più acida tabe che nemmeno i raggi di Vasquez avrebbero saputo svelare. Né me n’accorsi pienamente finché visse, e io non ebbi scoperto per caso un suo zibaldone a matita, dove ogni linea propalava i segni di una bruciatura, di una caduta.

Quanta strada, dunque, da Cividale alla Rocca, per smarrire la direzione lieta del proprio cammino e farsi trovare un’alba, con una sigaretta spenta nel pugno e i denti serrati contro il cuscino di crine, in una sedia a dondolo, alla quale l’estremo spasimo delle membra aveva impresso un moto che ancora, lievissimamente, durava.

Qualcuno, un compagno di corsia, mi disse poi d’averlo visto spesso, negli ultimi tempi, levarsi che era ancora scuro, e di averlo pedinato una volta e sorpreso attraverso i battenti, mentre celebrava nella cappella dell’ospedale, da solo e per uno solo, in amitto di lino e casula rossa, la messa di ringraziamento. Uno sforzo di risposta, forse, non tanto a me quanto alle sue proprie dimonia, di cui ecco qui taluna proposizione, come l’ho decifrata, con scrupolo di legatario, sui margini di una Filotea:

Non c’è cosa che Io non saprei perdonare. Molte gravi tentazioni si sviluppano da questo pensiero. Sarei dunque più buono di Lui?

Non ho domeniche, i miei giorni colano col colore dei fiumi e dei sogni, fra parapetti di ferro, in un silenzio che fa meraviglia. Fossero, una volta almeno, una fanfara di trombe o una disfatta gridata. Ma io temo che la mia voce accadrebbe in un’aria indifferente, nessuno è così benevolo da raccogliere i miei cartelli e molli colpi di guanto, sono prigioniero per sempre della prudenza con cui studio troppo a lungo i minuti senza osare mai viverli all’improvviso.

Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero mi conforta: sono un uomo involontario, dunque sono un uomo innocente.

Il peccato: inventato dagli uomini per meritare la pena di vivere, per non essere castigati senza perché.

Progetto di favola o reliquia di sogno: scendo alla stazione di una città di cui non conosco la lingua. Bambini con un coltello in mano improvvisamente si mettono a ridere.

Quando vado solo in città una figura col mantello mi segue.

Come il cieco di quel gioco di parole: il quale cerca una busta nera in una stanza nera, e la busta non c’è...

Abituarsi a guardare la vita come una cosa d’altri, rubata per scherzo, da restituire domani. Convincersi ch’è uno sbaraglio per temerari, che la precauzione suprema è morire...

La morte: un esilio? un rimpatrio?

Come s’affonda in un legno un chiodo, a piccoli colpi, la morte...

Pena di doversi lasciare a metà, dopo aver fatto con se stessi così poca strada, curiosità di conoscere il séguito (seppure esista altrove un copione completo...).

Com’è difficile, Dio.

Ripetersi cento volte ogni mattina per penso e fioretto il concetto predicabile che immaginai in occasione di un tema di seminario (“Orazione in morte di Bossuet, come l’avrebbe scritta Bossuet”):La morte è un taglialegna, ma la foresta è immortale.

Un bacillo di Koch si posò sopra il labbro di Adelmo. E Dio vide che questo era buono.

Il mio cuore, come non mi somiglia più. Di un altro, ora: una persona tragica in cui non so riconoscermi, che ha usurpato i miei ricordi, alla cui invasione piangendo dico di no.

Mi sveglio, talvolta, e per un minuto non so chi sono. Sarà così, la morte? Rincorrere tutta la notte un se stesso che fugge, cercandosi dentro, senza trovarlo, un nome dimenticato?

Signore, l’avarizia e la fecondità della notte. Scomparse tutte le cose, rammendato lo squarcio dei colori e dei suoni. E nei miei occhi solo la lava e il caos del Tuo viso, la fiammeggiante cecità del Tuo nome.

Nomi d’infanzia friulana, mentre dormo, soffiano un suono sul tenero palinsesto della memoria. Il nome di un paese, di una prostituta, di una stella...

Che ne sarà di me, di quel giorno di pioggia del trentanove, nel Suo cielo di cherubi esangui?

Dalla grazia alla disgrazia, a piedi nudi, come in sogno.

Il vino della messa è nero, un vino forte di Salaparuta che mi danno in cucina. Vino denso, dalle vene di un Dio saraceno, e che opera all’istante. Me n’accorgo in sacrestia, quando lo rivomito, dopo un colpo di tosse, fra le cocche del fazzoletto.

D’improvviso, stamattina, un frullo d’ali d’allodola in cuore. Simile a un presagio di non sperato riscatto.

Pregare, altro vizio solitario.

Un soldato per sbaglio, e sta bene. Ma se toccasse a un disertore, a un cecchino selvaggio, di colpire alla fronte il Conestabile?

Solo l’infelicità è degli uomini, la disperazione è di Dio.

Dio, gigantesco eufemismo.

Angelo arpia, il tuo volo goffo e greve, il tuo colpo di becco sul petto.

Con la mano sull’interruttore, di notte, nella mia stanza, gioco al Fiat lux, gioco a essere Dio: spengo e riaccendo, rispengo e riaccendo. Infine la lampadina quietamente si fulmina.

In sogno ho annusato la morte. Che graveolenza di bassa cucina. Che bisogno, dopo, di lavarsi ininterrottamente le mani.

Guardo due mosche amarsi sulla mia palma sinistra. Alzo l’altra piano piano, poi la calo, la vibro a tradimento. Mi dispiace fallire il colpo.

Un penoso sospetto sulla Passione: è venuto per salvarsi, prima ancora che per salvarci (parlarne ai miei superiori).

E se fossimo solo il Suo peccato originale, l’infrazione, la mela che non doveva mangiare?

La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassinio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente.

Scendo nella sala comune, a confessare i poveri, i vecchi. Non capisco i loro gerghi stretti, ma li assolvo lo stesso, naturalmente. Poveri, selvaggina di Dio.

È questo dunque il buon uso delle malattie che, sull’esempio di quell’altro, avevo chiesto supplicando al Signore? Lacrime, sì, ma di rabbia e rancore, bestemmia totale et douce. E selvaggi onanismi sotto le lenzuola.

Io diffiderei col dito nella Sua piaga.

Ancora una volta nel sonno una donna m’inforca. Aggressione funesta e sacra, roveto che non si spegne.

Se credo al secondino basta una stringa.

Et ecce cecinerunt tubae cataractarum Tuarum.

Fatti vedere, Tu che mi spii.

VI

L’Ucciardone, Monte Athos, la fortezza della Roccella... A quante clausure e solitudini mi piaceva paragonare il nostro stato alla Rocca. Né mi scordavo il castello di Atlante. Cioè un luogo di visioni destinate a non durare. Una di queste fu Marta.

Accadde il giorno di Santa Rosalia, ch’era anche il giorno del mio quindicinale rifornimento d’aria, altrimenti detto pneumotorace, più brevemente PNX, sigla araldica della speranza. Si tratta di un’iniezione d’aria sotto l’ascella, eseguita mediante un ago che sembra un pugnale, al fine di comprimere il polmone e consentire, frenandolo, che gli orli delle ferite si ricuciano da sé. Ma bisognerebbe, dopo l’intervento, starsene a letto e non muoversi. Solo che quella sera c’era rivista di gala nel ricreatorio del lazzaretto, tutto un programma a sorpresa, con attori e attrici dei nostri: regista unico, trovarobe e buttafuori, il Gran Magro. Costui difatti, lo avevo scoperto subito dopo il mio arrivo, non era solo in quel luogo il molto potente pontefice dal cui labbro di lepre, dal cui pugno scemato di stetoscopio, ci toccava aspettare ogni mattina la cresima o il viatico; bensì, nelle ricorrenze dell’anno, il procuratore di collettive letizie: luminarie, quadri animati, presepi, misteri buffi. Uno sfogo come un altro, per noi; per lui, forse, l’intempestiva rivincita di una vocazione, in forza della quale non esitava ora a trascurare i pazienti, a meno che non gli servissero nella baracca delle prove, fra le malve del giardino, in maschera di numi o di paladini. Io non ero della partita, tra loro ero appena arrivato, un novellino. Ma, se non a questa, alla prossima passerella non intendevo mancare; a costo di esibirmi da cartomante o pagliaccio. Il Magro mi capì. L’attesa della morte è una noia come un’altra, e che si nutre di pompe più assai della morte stessa. Dunque lui, com’era solito fare, promise a tutto spiano: per Capodanno, per Carnevale, per Pasqua; per l’altra estate, se ci arrivavo. A sentirlo, aveva già in mente il da farsi, un intreccio di dramma antico (non amava che i classici, lui) da ridurre in versicoli da burla e che parlasse di noi per ambage: un’Alcesti, un Filottete in bombetta, con agnizioni, qui pro quo, e torte sul ceffo bistrato di Tanatos. A questo tema avrei dovuto dare sugo io, che sapevo di lettere, e fare per intanto da vice a lui nella scelta e nell’addestramento delle persone dell’opera.

A una pensata cosiffatta, miscuglio di goliardia, supponenza e malignità, non avevo obiettato nulla. Se ne sarebbe potuto cavare qualche effetto di scherno e bile, con un gemito dietro, magro come un coltello. E dopotutto, che m’importava? Un calcolo diverso, se devo dire ogni cosa, suggerito da quel po’ di volpino e cialtrone ch’è in me, mi aveva convinto a dire di sì. Ed era, questo calcolo, che i preparativi dello spettacolo potessero offrirmi un’evenienza di promiscuità, la salvaguardia per accostarmi alle ignote dell’Ala Sud, fra le quali, di sicuro, qualcuna avrei saputo indurre, con una chiacchiera delle mie, a soddisfarmi i bisogni del sangue, da infetta a infetto, risparmiandomi i rimorsi e il sapore di terra che mi lasciavano sulle labbra ogni domenica le mie discese nella casba della città. In conclusione, alla festa di quella sera non potevo in nessun modo mancare, se volevo guardarmi in segreto, senza impegni di giudizio, le attitudini e le facce delle teatranti che mi sarebbero occorse domani per il mio doppio bisogno. Scivolai giù dal letto, mi rivestii, raggiunsi in fretta la sala.

Lo spettacolo era già cominciato, quando entrai finalmente, dopo aver brancicato alla cieca, in cerca della cesura, fra le tende di velluto cremisi che pendevano dalla sopraporta come i paramenti di un catafalco. Subito mi sorpresero le battute di Romeo che profondeva nell’aria una voce trapanese, di un mingherlino coi ginocchi nella polvere, la calzamaglia del quale, dono di un direttore del Politeama, doveva aver ospitato in altri tempi polpe più sode: “Era l’allodola, messaggera del mattino, non l’usignolo: guarda, amore, come quelle strisce di luce, invidiose della nostra gioia, cingono di una frangia radiosa le nuvole in fuga, laggiù nell’oriente. Io debbo partire e vivere, o restare e morire...”

Riconobbi non senza fastidio l’impronta digitale del Magro in questo voler imporre a un debuttante di campagna sublimità così cimentose, per trarne motivo di sogghigno nell’ombra di una poltrona, e tuttavia mi compiacqui della compunzione con cui tutti si protendevano verso il proscenio come a una tribuna o pulpito donde una verità fosse per discendere, un germe di salvezza, forse, per tutti. Ma già alla prima un’altra voce dava la replica, un giovine birignao di donna dalle impreviste inflessioni lombarde: “Sei dunque partito così? Amor mio, mio signore, ah, mio marito, amico mio!” E a queste altre parole seguivano, a soggetto, mi parve, e incongrue tra loro, con null’altro in comune se non che tutte proponevano amore e sulle labbra di lei si vestivano, sebbene pronunziate con lontananza, di un significato d’invito, diffondevano intorno un impetuoso aroma carnale.

Mi avanzai, raggiunsi accanto al Magro la sedia di prima fila che, in contraddizione coi suoi stessi interdetti di medico (un secondo Cottard, sorrisi fra me, la natura imita l’arte), aveva tenuto in serbo per me, e presi posto, in tempo per accrescere coi miei i battimani di tutti e per cogliere su un viso duro di ragazza china a ringraziare una sorta di strozzato sorriso, un passeggero umido lustro di sole estorto da una fessura di nuvole. “Chi è?” chiesi al mio ospite, senza riceverne in risposta che due sillabe, Marta, condite d’un alito senza pietà e presto dissolte nella rinnovata gragnuola d’applausi che accoglieva l’annunzio del numero successivo. Marta, anche, Marta Blundo, era scritto sul programma di sala che il vecchio mi porse più tardi, quando si accesero le luci dell’intervallo e potei volgermi indietro a osservare la popolazione della Rocca, schierata per intero a battaglia dinanzi a un sipario calato, coi visi lucidi di febbre eppure inevitabilmente felici. Che platea di pigiami a righe si pigiava nella sala, forse attori eravamo anche noi, da quest’altra parte, inceronati di rosa agli zigomi e pronti a intonare in coro il nostro cantabile requiem, gli spettatori veri s’erano nascosti, ci guardavano in silenzio da una barcaccia che sembrava vuota.

Ma a un tratto una cosa cominciò sul palcoscenico, in un silenzio totale. Era ancora lei, la ragazza di prima. In un numero di danza, stavolta. Non mi riusciva di vederne per intanto che le membra minute, vestite di molti colori e distese a terra come in una vignetta di libro: un’Arlecchina, magari, fintamorta nella sua abbagliante casacca. Non rimase così a lungo, ma alla prima scaramuccia che tentarono gli strame dietro le quinte – era soltanto un disco diffuso da un altoparlante, la Silfide o che so io – cominciò a sprigionarsi dal suolo lentamente, a forza di gesti meditati e chiusi, interrogando l’aria con una prudenza di cieca. Si rizzò infine di colpo, balzò verso il soffitto.

Un freddo nei capelli m’avvisò che si trattava dell’inizio di una partita d’armi assai seria, chissà quale ne era la posta, in quel cono d’aria lassù, che disegnavano i riflettori. Un gioco serio era, con qualche sottinteso abietto, di cui venivo tenuto all’oscuro. Allora mi feci più attento: la ballerina si sgrovigliava e guizzava nel cielo con presunzione e ferocia, accompagnando ogni slancio con un mugolo d’incitamento; e la coalizione di ellissi e vortici attraverso cui le sue membra commentavano il dirotto discorso della musica; le vacanze dove subitamente s’aboliva, senza necessità talvolta, quella aerea scrittura; tutto questo faceva un imbroglio, invocazione o beffa che fosse, a cui sentivo, con un refe nero, inestricabilmente cucirsi l’ordito stesso del mio destino.

In una pausa del pezzo, avvenendole di restare per un po’ in piedi e ferma al centro della scena, potei guardarla meglio, infine. La gola le si era tinta di fiamma, per una irradiazione sottopelle del sangue: “Come di lume dietro ad alabastro” citò dottamente e odiosamente il Magro al mio fianco. “Così sono i serafini.” Oh certo, un serafino era, dalla vita sottile e dalle ali roventi, con occhi come ciottoli d’ebano nel fiero ovale ammansito da una corta chioma di luce!

Ma già di nuovo volteggiava lontano e con tale pazienza pareva chiedere nei muri una breccia per andarsene che mi sorpresi a cercare dietro di lei la figura indispensabile di un persecutore. Quando ricadde, fu per più lungo tempo. Ora, dopo ogni scacco, ritornando sulla terra, non risaliva che a stento. Sull’ammattonato, sotto il verdetto delle lampade, con un viso che aveva insensibilmente cominciato a perdere colore, giaceva senza muoversi, respirava profondo, recuperava a una a una le linee di forza del suo essere per ricomporle di nuovo in una intenzione di volo (“Bestia!” m’indignai all’orecchio del medico. “Come puoi tollerare questo. S’ammazzerà”).

Chiusi gli occhi quando, dopo un tentativo che fallì ancora, precipitò e fu come se si fosse buttata da una finestra. Era chiaro a tutti che uno spacco era intervenuto, o il divieto di una legge, al limitare di un regno che lei sola scorgeva. Annaspando riprovò, ma senza fiducia, i preliminari dell’assunzione, non era altro ormai che un corpicino di lucertola, in un sentiero, diviso in due da una ruota. Fu allora che ad aiutarla l’orchestra irruppe con la sua cabala più potente: come su un’annegata archi e ottoni le si curvarono sopra, le sventolarono sulla fronte un lenzuolo di suoni amici, tutto un pandemonio preoccupato di note. Lei levò le braccia, quasi volesse sedarlo, poi per qualche istante non si mosse, si raccolse. Io pregavo fra me e me perché vincesse una volta di più, e con tanta passione che fui certo poi d’essere stato io a salvarla, e nella mente me ne vantai.

Si eresse senza sforzo, ora, dava l’impressione di essere diventata più alta, più forte. Non la vedemmo che in un lampo, mentre balzava in su, col colpo di tallone del marinaio che risale: nitida, inesplicabile: un angelo nunciante che se ne va.

Non ricomparve più né io riuscii a star lì ancora per molto, ma appena i pupi Pulicane e Buovo d’Antona si furono scontrati a morte per gli occhi di una bella di Trebisonda, e li ebbi visti cadere entrambi con le corazze a pezzi ai piedi di un sicomoro dipinto, mi alzai per uscire, benché il mio vicino mi guardasse con un malanimo di cui non capii la ragione. Non fu facile aprirsi la strada fra il pubblico dei ritardatari che si accalcava nel corridoio, mentre sulla scena appariva l’infermiere Panzera, truccato da re dei maghi, facendo prillare fra le mani, vertiginosamente, un numero di palline che mi sarebbe piaciuto contare.

Nello stanzino adibito a spogliatoio, alle spalle del palcoscenico, lei sedeva con modestia in un canto, a fianco d’uno specchio a muro, ancora con la divisa multicolore di prima. Senza la quale non l’avrei riconosciuta, tanto mi parve puerile e colmo di mai viste fossette il viso che offriva al giallo uovo di luce sospeso al soffitto. Un viso diverso, perfino più bello del cipiglio di matahari che avevo creduto di scorgere dalla mia guardiola di prima fila e al quale sarebbero meglio convenuti i meloeroici furori della mia mozione d’affetti. Quella che m’ero preparata prima d’entrare e che non fui capace di cambiare con un attacco più giornaliero quando mi fermai davanti a lei. “Marta” la chiamai, le posi avvampando la mano sopra la spalla. “Devi uscire con me” le intimai. “Ti resta poco tempo, ci resta poco tempo. E abbiamo vent’anni.”

Alzò la fronte, senza meraviglia, per quel che potei capire, né ira. Era come se non mi avesse sentito e le mie parole si fossero mescolate in lei alle altre di una canzone che giungeva dalla ribalta lì avanti e parlavano di settembre e di pioggia. No, non mi rispose ma con una camminata pigra i suoi occhi mi schivarono, trascorsero oltre, parvero aggrapparsi a una cosa che nella stanza non c’era, si chiusero infine nell’attimo in cui uno scoppio di tosse, secco come uno sparo, la piegò in due, la sconvolse, inchiodandole sulla faccia una maschera sdrucita di vecchia. Si alzò, fuggì via, con la bocca tappata da un fazzoletto, ma, prima di spingere col gomito l’uscio, si volse un momento verso di me, sorridendomi, domandandomi con lo sguardo non capii se di salvarla o di lasciarla in pace, di non pensarci più.

Ma il Gran Magro, sopravvenuto al mio fianco, m’aveva impugnato il braccio e mi trascinava con sé, ingiuriandomi a modo suo: “Quella, strichten verboten!” sibilò. “E non fiatarmi addosso, Almaviva tossicoloso.” Non aggiunse altro, salvo qualche grugnito di beatitudine quando, ritrovandosi dietro le quinte, udì daccapo, seppure attenuato dai tendaggi, scoppiettare un rombo d’applausi, ai cui invisibili esecutori una, due volte rivolse un rigido inchino di marionetta.

VII

La sera dopo non seppi resistere e chiesi al più giovane e sboccato dei miei compagni, a Luigi detto l’Allegro, o anche il Pascià di Patrasso, per via di una millantata sbornia d’amore in un postribolo greco, di lasciarmi scendere con lui di nascosto, dopo mezzanotte, in giardino. Aveva appuntamento, e non era la prima volta, con Adelina, una magretta già quasi salva, tribolata però da voglie che neanche il sonno era capace di rabbonire. Si toccavano come potevano attraverso la grata di separazione, si dicevano frottole, indecenze, concertavano raggiri senza numero per incontrarsi fuori, la domenica. A costei volevo chiedere notizie di Marta, un’anagrafe quanto più meschina possibile, che la traesse dall’aria di miracolo di cui m’era parso naturale circondarla nel corso della mia imbambolata serata, e mediante qualche rivelazione di ticchi, calze smagliate e sudori me la facesse respirare accanto come una creatura di tutti i giorni. Poiché, insomma, non s’accomodava con l’economia del mio tempo il prolungarsi di uno stato d’estasi e vitanuova, quando a me, al contrario, serviva solo un corpo da consumare subito, prima che il nostro vagone piombato si fermasse al deposito della stazione d’arrivo. E inoltre... inoltre io sono così fatto: rapidamente avvampo e rapidamente mi spengo. Spiando ogni volta con avidità nel ventre del fuoco il grigio nascosto della cenere futura. Così ora, riguardo a Marta. Mentre era appena alle prime battute il grande andante d’oro del mio innamoramento per lei, già dentro di me la desideravo refrattaria se non indegna, per prepararmi a disporre in anticipo i pretesti e gli svincoli della fuga di domani.

Ebbene, di quel che tacitamente speravo, l’Adelina, come se lo facesse apposta, mi diede soddisfazione sino alla feccia.

“La Petacci, vuoi dire? Ma è una delle più fradicie” soffiò attraverso le borraccine e il fildiferro che ci dividevano. “Non la curano quasi più, le lasciano fare quello che vuole, perfino ballare, l’hai visto.”

“Di dov’è?” chiesi. “Com’è finita alla Rocca? E perché la chiamate così?”

“Non so bene”, rispose “e lei parla a labbra strette, la principessa. Dicono ch’è una di su, e stava a Sondalo ma gli altri malati non ce l’hanno voluta. E che prima ballava alla Scala. A me pare una sciantosa. Del resto se ne dicono tante...”

La voce della giovane s’abbassò fino al sussurro, si tinse di un sorprendente pudore:

“Dicono di un capitano delle Esse Esse, di una villa su un lago. E cose peggiori. Certo i capelli le sono ricresciuti da poco sul capo rasato...”

Prosit, eccomi fin troppo servito. Due volte intoccabile, un record. Ero cascato bene a impressionarmene, io che per quelli dell’altra parte nutrivo fino a ieri, esclusivo come un amore, un livore da ragazzo, al di là di ogni condiscendenza, dubbio o perdono. Non restava dunque che dire basta, passare la mano e via. E nondimeno, tanto si contraddice in me il garbuglio dei sentimenti, proprio da quella sovrabbondanza di ragguagli ostili, in quel medesimo istante, quasi sotto l’irritazione di una frusta o di una brezza salata, cominciò a nascermi e a crescermi dentro una passione, non sembrandomi vero di aver trovato al posto di un elfo un uccello spennato e sozzo, e di poter mescolare alle indiscrezioni del desiderio un’oncia di incarognita pietà. E chi dunque avrebbe saputo oramai togliermi dalla mente, a dispetto d’ogni mio sotterfugio, quel luccichio d’affralito sorriso, se sorriso era, intravisto nell’attimo in cui s’era girata a guardarmi; e il boschetto dei rinati capelli; e il passo, mentre se n’andava?

Mi accomiatai, era tempo. Ma prima, e senza rimorso, acconsentii ai lenocini dell’Allegro che con la mano e con lo sguardo m’indicava nella massiccia tenebra dell’Ala Sud un minuscolo ritaglio di finestra ancora illuminato, davanti a noi. Attraverso lo spioncino del fogliame, allargato a forza di braccia, non potei vedere gran cosa, un labile bagliore, non so se di carni o di vesti, ma abbastanza per risentire nelle orecchie il solito mulino a vento del sangue e per dovermi appoggiare un momento al mio compagno che rideva. Poi lo lasciai con l’Adele, ai loro sfinimenti, rincasai attraverso un séguito segreto di scale e usci di riserva, dalla lavanderia sino alla mia stanza, scivolando lungo le mezze luci dei corridoi, come nei libri si dice facciano i lestofanti d’albergo calzati con soprascarpe di feltro.

Da allora divenne una favola, alla Rocca, il mio amore per Marta. Ne parlavo con tutti, chissà che m’aveva preso. Mi ridevano in faccia le ragazze in vestaglia che incrociavo sulla soglia del parlatorio, minacciandomi col dito; ci scherzava sopra il medico Vasquez, nell’atto di scribacchiarmi col lapis, come fiordalisi di Francia, i suoi circoli sul costato; una frase mi derise sul muro del cesso comune... Solo il Gran Magro, mai una volta che tornasse a pronunziare quel nome. Però ora mi trattava da cliente, con burbanza e pedanteria; né veniva più a trovarmi se non per la visita che mi doveva, come agli altri, nelle ore giuste; accompagnato da suore, assistenti, e guardandomi appena, con bulbi d’occhi gonfi come bubboni. Tutti segnali d’un ripicco e ingelosimento che in un uomo ironico non mi sapevo veramente spiegare. Non me ne turbai più che tanto, ma attribuii quel contegno agli scarti di un’indole zoppa, il cui fondo di funebre nevrastenia, sommosso dall’età, sobbolliva e sorgeva senza resistenza alla luce. D’altronde, dopo quell’incontro dietro le quinte, non avevo più rivisto la ballerina, contento abbastanza di pascere da solo, prima d’addormentarmi, uno svago della fantasia, in cui entrambi, guariti, ci baciavamo davanti a un mare. Non che mi trattenesse dal cercarla il pensiero del suo passato. Questo, me ne accorsi con meraviglia, non riusciva a ispirarmi che un blando orrore, profumato dalla lontananza. Come la notizia di un naufragio, in una vecchia bottiglia, a un solitario guardiano di faro. Che altro eravamo, del resto, noi qui della Rocca, se non, ciascuno, un guardiano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio di Mala Speranza? Non molti mesi erano trascorsi, pochi anzi, ma già, così dai mostri della guerra di ieri come dal nuovo patema di vita che faceva spuma d’attorno a noi, un braccio di mare morto ci aveva separati per sempre. E inutilmente alla rissa lieta per il mondo che rinasceva – quel subbuglio di speranze e certezze a cui tanti avrebbero poi pensato come alla stagione più colma della propria vita – ci chiamavano strepitando libri e giornali sulle lenzuola: il re delle nostre scalequaranta era più vero dell’Umberto giovinotto in questua di voti, venuto fin lassù a stringerci con spaventato coraggio la mano, qualche giorno prima del due giugno. Né v’era eroe di qualunque colore dei nostri discorsi, se non l’omuncolo di nome Robic, che scalava, ballando sui pedali, i tornanti del Tourmalet. Lo confesso: mortificati così gli odi come gli entusiasmi dall’oroscopo irrefutabile del mio respiro, ben altro che le sue colpe mi turbava, pensando a Marta. Era, piuttosto, l’incertezza se credere più alla visione di levità e vigore che m’aveva lasciato, malgrado tutto, negli occhi, la sera del ballo, o alle parole senza speranza ascoltate in giardino, che sembravano escluderla da ogni pratica amorosa. Parole di cui, per superbia e per paura, non osavo domandare conferma a nessuno che potesse rispondermi.

Finché un giorno, in Sala Raggi, il caso mi spinse a sapere. M’ero appena rivestito e restavo con gli altri, un bestiame di macilenti toraci sopra la panca; quand’ecco Vasquez fu chiamato via, lasciò senza guardia lo stanzino dello sviluppo, con la bacheca tutt’intera a portata delle mie mani. Sgusciai dentro senza esitare, godevo ancora agli occhi di tutti di qualche diritto in più, non s’erano accorti che il Magro aveva smesso di favorirmi; e in ogni caso non avrebbero detto nulla, per massoneria di forzati. Le radiografie erano in vista, a centinaia, coi nomi scritti secondo alfabeto all’esterno di ogni custodia. Feci presto a sceglierne due.

Quando fui nella mia stanza, le sollevai controluce. Abile com’ero diventato a decifrare le minime postille del male, bastò un’occhiata per inorridire.

Non scesi a refettorio, quel mezzogiorno, ma mi buttai bocconi sul letto a confrontare lungamente, appaiate sopra lo stesso cuscino, le mie posteme e le sue, e a misurarne, come un geografo di Scandinavie, ogni frastaglio e pozzanghera, dovunque sentissi battere una raffica più nera e venuta da più lontano. Ma mentre ero intento così a celebrare, non senza una funesta delizia, questa copula di larve fra noi, e un grido di misericordia mi gonfiava invano le labbra, la voce di padre Vittorio dietro la porta: “Mister Livingstone, I suppose?” mi colse alle spalle come una sassata.

Era del tutto fuori dell’ordinario, la visita, in un’ora di pietra com’è quella della siesta, e la mentita scioltezza dell’approccio non raccontava nulla di buono. Tanto più che il frate visibilmente soffriva. Finsi di non accorgermene, elusi in qualche modo le richieste del suo sguardo, e aspettai. Aveva in mano un volume, col medio dentro, a farvi da segnapagine. Sedette sull’orlo del letto, rimase a lungo così.

“Ho cercato di pregare” cominciò “ma me n’è rimasto in gola un sapore di fiele. Forse non so più pregare da solo.”

Giungeva in pessimo punto e m’irritò.

“La preghiera!” proruppi. “Il tuo covile caldo, il portone per ripararti quando cambia il tempo! Mi ripugna codesto Dio da indossare come una maglia pesante sopra le nostre pleure di cartavelina. A me è sempre piaciuto bagnarmi.”

Sorrise: “E ben per questo che sei finito fra noi.” E aggiunse in fretta: “Aiutami. Sàlvati. Salvandoti mi salverai. E non restarci troppo sotto la tempesta.”

Aprì il libro, cominciò a leggere, poi smise, seguitò a memoria: “Come gli uccelli costruiscono nidi sugli alberi per ritirarvisi quando ne hanno bisogno; come i cervi hanno cespugli e tane nel folto dove si nascondono e si mettono al coperto, godendovi, d’estate, la frescura dell’ombra; così, o Filotea, i nostri cuori devono prendere e scegliere ogni giorno un posto, o sul Monte Calvario, o nelle piaghe del Nostro Signore, o in qualche sito accanto a Lui, per farne il proprio riparo in qualsivoglia occasione, e ivi allietarsi e ricrearsi fuor delle cose del mondo, e costituirvi fortezza, a difesa delle tentazioni. Felice l’anima che potrà dire in verità a Nostro Signore: Tu sei il mio albergo e la mia sicura trincea. Tu il tetto contro la pioggia, l’ombra contro la canicola.” Lo ascoltavo appena. Marta, qualcuno ancora mi diceva all’orecchio, Marta. E sul cuscino quel dispiegato pulviscolo di fiordi e licheni, quella galassia di meduse morte, ripeteva Marta, si chiamava Marta. “Gli alcioni” recitava il frate “costruiscono i loro nidi in forma di palla e non lasciano in essi che una fessura sottile, in alto; li mettono sulla spiaggia del mare, e li fanno così solidi e impermeabili che, pur quando siano sorpresi dalle onde, non si lasciano penetrare dall’acqua; anzi, restando sempre a galla, rimangono in mezzo al mare, sul mare e padroni del mare. Così dev’essere il tuo cuore...”

S’interruppe, posò il libro. “Così dev’essere il tuo cuore...” ripeté due volte, e pareva parlare a se stesso. “Un tempo amavo queste parole.” Poi, riscotendosi: “No, non è solo una casa di pace, Dio, come temi. Ma anche un predone, un veltro celeste che c’insegue e ci sforza e ci ama.”

“Strano amore” ribattei, mentre andavo ostentatamente arrotolando le mappe rubate, per togliermele di sotto gli occhi e respingerne per un momento nel buio le miserie e le urla. “Io ero nel nulla, infinitamente nullo e tranquillo... I miei testi gli fanno causa di questo.”

“È per amore che ti ha tratto dal nulla” disse piano. E io: “Di Sé, non di me. Oppure per la fatica della propria impeccabile solitudine...”

Ci scambiavamo queste battute senza collera, ormai, ma anzi con un affetto nella voce, da avversari che sanno, ciascuno per la sua parte, d’essere nel giusto soltanto a metà.

“Creandoci s’è compromesso” ripresi, copiando non senza riluttanza un argomento del vecchio. “E infine... se il Suo non fosse stato che un conato amoroso, se potessi pensarLo curvo, con lacrime e pietà, sul refuso immenso dell’universo, pronto a raschiare tutto per riprovare un’altra volta...”

Vittorio mi prese il braccio. Avrei sempre poi ricordato la canizie precoce della sua barba, che le labbra facevano tremare, muovendosi, e risentito la spina del rimorso per non avergli saputo inventare il me stesso che s’aspettava.

“Lo perdoneresti, vuoi dir questo?” disse. “Osi voler dire questo? Non capisci che nel creare consiste appunto la bellezza della Sua morte, lo scandalo della Sua morte, l’ironia stupenda del Suo morire? Perché tu ti faccia Lui, Lui acconsente ogni giorno a farsi te, a morire ogni giorno in te la propria infetta divinità. Poiché la creazione avviene ogni giorno, capisci, come la Sua morte. Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo...”

Il suo zelo confuso mi commosse. E fu solo per provocarlo ancora a parlare che mormorai: “Parole, Pascal da seminario...” E lui: “Povero amico. Sei tu che vivi in una ragna di parole e ti ci avvoltoli dentro, quando una ne basterebbe, pronunziata in silenzio, qui in ginocchio, accanto a me. Soccombere ti bisogna per vincere. Chiudere gli occhi per poterti svegliare. È nella notte del tuo cuore che devi perderti, se vuoi ritrovare la luce. Dio non è l’assassino che credi. Tu supponi d’inseguirlo, t’affanni a leggere carponi, come i poliziotti dei romanzi, le piste oscure della Sua fuga, interroghi le macchie dei Suoi pollici unti. Mentre è Lui che incombe senza fine su di te, la Sua ombra ti è sopra e tu non la scorgi, il Suo fiato ti morde la nuca e tu lo confondi col vento...”

Arrossì violentemente appena si accorse, dopo qualche minuto, che non gli avrei più risposto. Quando ricominciò a parlare, il suo tono era di scusa, inerme:

“Non sono felice” disse “e mi chiedo perché. Forse questa consunzione che porto nella carne mi va guastando anche l’anima. E sempre più spesso dubito e mi spavento e mi sento un prete per finta. Seppure non grido contro di Lui. La sera scende, ma io non so trovarLo al mio fianco, né Gli parlo più che nel sonno, con le labbra del rinnegato. Potessi solo risentire come una volta nel cuore la Sua ferita, il Suo dolcissimo fulmine...”

Richiusi il libro che aveva lasciato aperto sul guanciale, glielo porsi.

“Mister Stanley”, gli dissi “avete fatto tanta strada, ma ora il vostro viaggio è giunto alla fine. Un’alba di queste Qualcuno verrà dal mare, dalle parti di Sferracavallo. Ve n’andrete con Lui, ve ne sono garante, coi sandali leggeri sull’acqua.”

“Voglia il cielo che tu parli sul serio” mi disse.

“Ma non vedi che sto piangendo” mentii.

VIII

I giorni dopo la morte del frate furono di fuoco. E io, sebbene per molti versi ci somigliamo, non riesco ad amare l’estate. È un tempo di ulcere e sfregi, collerico, tracotante; il tempo che nuoce di più a chi sente avvicinarsi la fine e vorrebbe muoversi nella penombra di decenti omertà, con un ordine nei suoi pensieri, e il sangue in pace, finalmente. Mentre il mio sangue, quell’estate, non c’era briglia che lo tenesse, e me lo sentivo battere nelle vene secondo un tempo scorretto, ora furioso ora languido, allo stesso modo di quando si diventa ragazzi e piace spiarne, con un dito sulla carotide, le misteriose maree. Una nuova pubertà, più difficile della prima, m’aveva dunque sorpreso, o che altro volevano dire quei rintocchi di tamburo da cui si spargeva su ogni mio risveglio un familiare lezzo di finimondo? Scorrevano sul quadrante le ore, grani di lenta insostenibile luce. Inutilmente sperai un inciampo nel cammino delle stelle. Troppo netto si staccava l’azzurro sui doccioni della Rocca, con un solo falchetto lassù, e nessuno scudo di nuvola che stornasse l’avvento del giorno di Dio. Poiché c’è un giorno, uno solo, di luglio, nell’isola, che si snatura dagli altri e non si dimentica più. Gli altri erano soltanto estate, il belvedere color kaki di cui discorrono le cartoline. Ma questo è una rabbia di Dio, l’esempio di una stagione che non esiste.

Comincia coi primi chiari dell’alba e si sentono attraverso il sonno i cani lamentarsi negli uliveti. Poi il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, ma stringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini a rompersi contro la sciara, dovunque fa luminello, e le illude, un inesistente palpito d’acqua. Ecco l’una, le due. Ora gorgoglia piano e si spegne la coda di vento che s’era levata dal mare, seminando sabbia africana in ogni piega della pelle e del suolo; accanto ai pozzi sono vuoti i secchi dove s’imbuca la vipera, sulle soglie i poveri dormono, e sembrano morti, con una pezza scura posata sopra le palpebre.

Alla Rocca non fu diverso, naturalmente. E il sindaco di Caccamo, che da un giornale invocava aiuto per un arrivo di cavallette, fece presto a parerci un faraone atterrito. Ma: “È ghibli di Tunisia” minimizzarono le suore, coraggiose nei soggoli di lana, passando fra letto e letto a deporre un fazzoletto bagnato sopra le tempie dei più sofferenti. “Si calmerà, vedrete. Domani staremo meglio.”

I malati annuivano, che potevano dire. Ma quelli che non avevano febbre scendevano in giardino, senza chiedere permesso a nessuno: stecchiti, a dorso nudo, per una disubbidienza o sgarro a chissà chi, avanzavano ansimando entro la ronzante caligine. Identici, certo, agli altri dell’anno prima e degli anni a venire: la stessa urgenza superflua dei gesti, le meraviglie di uno, stupido o giovane, e quelle bizze di coscritti assediati in un fortino senz’acqua, che si espongono sui merli e strillano, mentre il nemico dietro i palmizi se ne infischia, non spara nemmeno.

In quanto a me, che sarebbe servito imitarli? Meglio cercare di obbligarsi a uno stallo dei sentimenti, a una sorta di flemma o miopia, di fronte a tanta inimicizia del tempo, e all’oltranza di quelle morti che la calura disegnava in anticipo, smerigliando le sporgenze delle mandibole come sinopie di teschi. Dunque me ne restai sulla branda, quel giorno e quelli che seguirono, nudo sotto il lenzuolo, e a occhi chiusi più spesso, ma a volte guardando le foto d’attori incollate alla parete di fronte e almanaccando fatti fra loro, una fandonia da piangere, implausibile come la mia. Poiché certo la mia storia era un’invenzione da c’era una volta, bastava addormentarsi per non crederci più e ristabilire l’equità della vita, al di qua del sipario. Sì, questo era il segreto: scappare dentro il sonno e allogarcisi dentro, farci nido dentro, come chi indossa un vecchio maglione. Fuori ne restassero gli altri, e la loro salute, le loro gengive rosse, i passi che vanno non si sa dove e vogliono non si sa che. E smettesse una buona volta il cuore di suonare a martello, il metronomo della goccia di torturare nel lavandino la mosca cavallina a zampe in su, precipitata dalla cornice di porcellana. Insomma, che vogliono gli altri; la luce, che vuole? Io ho la mia parete, lì avanti, con una fandonia dipinta. E i miei sogni d’oro zecchino, prima di chiudere gli occhi. E il sonno, infine: sepolcro sprangato, placenta di madre antica, nave solare per andarmene come un re.

Non era vero. O almeno non lo era più. Da quando quella ragazza m’aveva annunziato d’esistere, di occupare un irrisorio incavo d’aria in mezzo a noi, a pochi metri dalle mie braccia. Lei con le fossette del riso, e la tosse, e le valve segrete del sesso sotto la buccia della veste fanciullina. Un’esclusa, un’anima persa: giusto la socia che mi serviva. Una socia, sì. Perché contro ogni creanza e verità io m’ostinavo a presumere d’avere tacitamente stretto patto con lei, e di possederne caparra nella radiografia trafugata che tenevo sotto il cuscino. Questa, mi bastava accarezzarla con un dito, la sera e ne ricavavo un raggricciarsi agrodolce dei nervi, quale dà a taluno la setagloria di un parapioggia, se gli sfiora per caso i capelli. Al punto che quell’esile celluloide, contro cui s’era premuto con forza il suo petto, piuttosto che continuare a sembrarmi, come all’inizio, la tela filata da una tarantola scura, s’era venuta mutando, non meno che guanto o stivaletto, in una sorta di inaudito feticcio amoroso...

Non durò molto così, le mie difese naturali si svegliarono; e al timore dell’irrisione, e ai rovi d’ogni genere che mi ributtavano dalla donna, s’aggiunse, e vinse, il timore di come avrebbe fatto presto a spezzarsi un vincolo che ai due capi tenessero due mani di così monca e debole presa. Ripensai a un film di tanti anni prima, al sorridevole piagnisteo del suo titolo: Amanti senza domani. Rividi i due su un ponte di transatlantico: William Powell, lui, un losco galante che la sedia elettrica attende alla fine della traversata, e a cui gli sbirri di scorta consentono benevolmente di passeggiare senza manette; Kay Francis, lei, spacciata dai medici, che ogni sera, per scordarsene, indossa una pelliccia più bella. S’incontrano, e ognuno sa della condanna dell’altro, ma finge di non saperlo. E ballano insieme in un grande salone deserto, e si dicono parole sotto la luna... Facili lacrime mie di ragazzo, altera tenera Kay! Chi avrebbe mai pensato che dovesse toccarmi a mia volta, all’ombra degli stessi umidi salici, di danzare una stessa tresca d’amore e di morte, su un motivo di fiacca pianola?

In un soprassalto di ragione volli strapparmi a quel miele, chiesi di tornarmene a casa per qualche giorno. Non stavo peggio del solito, non tossivo, mi fu concesso.

Partii col primo treno del mattino ed ero contento. Avrei rivisto i miei, ritrovato la mia stanza, i miei libri, i viavai con gli amici, da mezzanotte alle due. Basta meno, talora, per togliersi dalla mente una donna.

Il mio paese: chi se ne ricordava più, o me n’era rimasto uno schiocco di tende strepitose come vele, e asini in amore, e in una figura di quadriglia una ragazza bruna, con una rosa. Fu invece un luogo senza remissione, a cominciare dal plotone d’alberi rigidi sul viale della stazione, simili a fucilieri in attesa di un passeggero bendato, fino agli ossi di case sullo strapiombo marino, dove batteva la tramontana. “Non dovevo tornarci, ho sbagliato” mi resi conto, non appena dal finestrino ne scorsi fra due trafori lo scorporato profilo.

Solo mi ritrovai sul marciapiedi, quando fui sceso dal convoglio in sosta, e solo m’incamminai verso casa, sempre più certo a mano a mano che, se anche arrivavo senza preavviso e dal mio espatrio tanto tempo era trascorso, mille nemici vi erano, scaltri, svegli, feroci, che mi aspettavano al varco. Sicuro, mille e mille ricordi mi facevano la posta, in veste di mendicanti o sicari, né c’era verso di liberarsene. Davanti all’uscio dal noto colore, mentre la mia mano esitava, tenendo a mezz’aria un picchio di ferro imbrunito dal tempo, eccoli, prima l’uno, poi l’altro, poi tutti insieme: strabocchevole ciurma, le cui voci, insultando, supplicando, mi si rincorrevano nelle orecchie, sperando in una risposta che non sapevo trovare.

Poi fra me e mio padre tutto quell’alterco da piangere: io che non voglio abbracciarlo, sfiorarlo con le mie labbra nocive; lui che insiste, mentre il mento gli s’infossa e nell’iride balena e si rintana un allarme di preda sorpresa. Ma chi è ora quest’uomo canuto, minuto, con una lisa maglietta appiccata agli uncini delle scapole? Dov’è sepolto, con chi me lo hanno scambiato, il mio fuligginoso ciclope dalle risa di tuono? È un vecchio che trema, costui, e ripete il mio nome, e mi spinge senza forza verso la mia stanza di studente. “Tutto è come prima” mormora. “Non abbiamo toccato nulla.”

Certo, certo, tutto era come prima, non avevano toccato nulla: un nido di serpi, un pozzo di raccapriccio. Con ogni serpe al suo posto. C’è il calendario di allora, la chitarra, il letto di ferro. I tre sassi di calcare, scolpiti dall’aria, sulla scrivania che non ha smesso di gemere. In fondo a un cassetto, sempre quello, riempiti sino all’orlo d’un inflessibile inchiostro, senza guardare riconosco al tatto i miei sublimi quaderni di cadetto di Brienne. Quanto a lungo ho creduto in me, e quanto a torto, davanti a questo scrittoio di finta pelle, accanto a questa portafinestra, da cui si vede ancora la stessa piazzetta da niente, un fazzoletto di sole disabitato e fermo. Non c’è più l’alberello di acacia che vi cresceva, ma sempre le contrapposte panchine, lunghe quanto un corpo d’adolescente sdraiato. Qui ogni sera due sorelle gemelle tornavano ridendo a scoprire in uno spacco di corteccia l’occhio di una civetta. Affacciandomi mettevo in rotta senza scampo le loro vesti di mussola rosa. Gli dissi parole d’amore, una volta. Dove sono ora, che turbine se l’è portate via?

Ogni serpe era al suo posto, e mi piacque riaffondarci la mano. Ripresi a vivere nella casa, quasi sempre a letto, come in balìa di un vapore della mente che mi proibiva di alzarmi. Non guardavo che quelle panchine, dal mio letto, e non leggevo, non parlavo quasi, fumavo solo moltissimo, di nuovo, senza riguardo. C’era fumo dentro la stanza, fumo, lamette usate, capelli fra i denti del pettine. E un’incandescenza che non cambiava, come in un lago di sale. Ma non ci badavo, troppo preso ero in un pensiero. Mi distraeva solo talvolta, dalla strada, una sconsolata voce di donna che chiamava un acquaiolo, un arrotino. Oh avrei voluto che veramente tutto attorno a me franasse in un tracollo di polvere, ore creature parole: ogni istante era un affilato coltello di luce a cui offrivo pazientemente le mani. Un tempo era questa la mia terra, sapevo le travature dei tesori, le profezie delle erbe, parlavo a una capra dalle mammelle nere. Ora non oso andarmene a testa nuda fra tante muraglie avverse; attraversare senza una vertigine gli spopolati sagrati dove è avvenuto un miracolo o ammazzeranno qualcuno. Rimango dentro e non faccio nulla, mi lavo solo moltissimo, ma non serve, il corpo mi s’insudicia lo stesso, immediatamente, mi sento lungo la pelle aderire una patina di morchia e impastarmi i capelli, dietro la semiluna pallida dell’unghia un nero cresce di minuto in minuto, senza motivo. Com’è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande.

Mi stanarono gli amici, finalmente, che avevano saputo del mio ritorno. Parlammo, mi disprezzarono presto. Disprezzarono la mia voce, le evasioni dei miei occhi, i ricordi delle mie mani: mani che venivano dalla morte, superbe mani, ricche d’un capitale che, senza invidiarlo, non sapevano perdonarmi. Certe volte mi accusavano: “Che hai fatto con queste mani, perché resti chiuso tutto il giorno, come sei cambiato.” Oppure: “Perché non rispondi quando ti parliamo, perché non vieni alla sezione stasera, perché non vieni a serenate stanotte?”

Smisi di vederli, li barattai con una banda di giovani ladri, con un dolcissimo ubriaco, con loro mi piacque sedermi sui gradini del lungomare, al riparo delle pompe che innaffiavano inutilmente ogni due ore le basole della piazza. Furono queste le mie compagnie, nel paese, specialmente la sera, e non è che mi piacessero ogni sera, ma non potevo parlare sempre a me solo, nella mia stanza. Inoltre mi mancava la donna, una da dormirci, mormorandole cose fra i grappoli delle ciocche.

Uscivo all’alba a cercarmela, stanco della notte come di una battaglia combattuta per niente. Mi avviavo per le strade a passi lunghi, sentendo con un rifiuto di stomaco nascere nei forni ancora illuminati l’afrore del pane caldo, riconoscendo a ogni cantone, dal suo latrato di cane fedele, dall’assafetida del suo sudore, il mio vecchio spavento che mi diceva buongiorno. Finivo nel quartiere di Santa Venera, in chiassuoli senza uscita, dove, sbucando da un bosco di biancheria, la mia faccia di sconosciuto incuriosiva qui una soglia, lì un’altra, diventava la festa della giornata.

Ma un mattino rimasi dentro, aspettai Cristina, la serva di quarant’anni, brutta, che aiutava in casa e mi puliva la camera. Aspettai con un brivido che non sapevo reprimere il suo passo dietro la porta, le stetti goffamente vicino mentre rifaceva il letto, la toccavo con una scusa. Lei mi guardava meravigliata e contenta, senza parlare. D’improvviso le dissi di andarsene: “Va’ via, va’ via” le gridavo mentre fuggiva. “Lèvati dai piedi, vattene via.” Lei fuggiva piangendo, e non capiva, non riuscì ad aprire, rimase dinanzi all’uscio con la mano turbata sul chiavistello, e le spalle strette e secche che tremavano, finché le fui dietro, la sforzai a voltarsi, ad accovacciarsi sul pavimento, le rovesciai sulla faccia il grembiule come un bavaglio.

Più tardi mi affacciai a respirare il cielo di fuori, guardavo nella striscia fra le cimase passare uccelli di mare, bastò il loro grido a precipizio su di me a farmi fiorire nel cuore un singhiozzo di bufera abortita, irragionevole gemito di bambino che si rigira nel sonno.

Era come in un turno di sentinella, fra siepi di nemici che aspettano, quando gli occhi si fanno pesanti, ma uno sa che se li chiude è la fine, benché la luna gli si sciolga intorno in cipria di luce, in una mobile nebbia dove il corpo vorrebbe amorosamente affondare.

“Basta, basta” dissi ad alta voce. “Devo tornare alla Rocca, il mio posto non è qui.”

IX

Dire, schioccando le dita: Go, Stop, quando un ascensore sta per partire o fermarsi, e io sono solo nella cabina; dirigere con entrambe le braccia un attacco d’orchestra invisibile che s’ascolta davanti alla radio... sono debolezze che ho dall’infanzia, m’è sempre piaciuto, per scherzo o rivalsa, fingere di condurre chi mi trascina. E invece ora, rientrato alla Rocca, che sentimento m’aveva invaso, di delega totale e di sgravio felice! Era forse, a imitazione del tempo che si veniva via via rinfrescando, un bisogno di addolcire in qualche maniera le ustioni a cui avevo esposto senza pensarci mente e sensi nelle ultime settimane. Certo ora mi attraeva qualunque specola da cui si potesse passivamente osservare il guazzabuglio del mondo e riderne e piangerne con misura, come si conviene quando si fa eco alle risa e alle lacrime degli altri. Nemmeno al futuro pensavo più; né a governarne i maneggi nella fantasia. Oppure esso era sul mio capo un cielo chiuso da una cerniera lampo inceppata; un disco che s’incanta e sotto la puntina replica la stessa inerte risposta. In quanto a Marta, era abbastanza saperla a due passi, se ne sarebbe riparlato domani, secondo gli sbalzi della mia terzana d’amore. Più bello era per ora starsene a riposo dietro la ringhiera della veranda, nella sedia a dondolo che avevo ereditato dal frate, mirando in giardino le opere del giardiniere, o i giochi che i fanciulli malati improvvisavano sotto una pianta.

Amavano essi giocare soprattutto nelle ore vietate, quelle che secondo la legislazione del luogo si dovrebbero dedicare all’ozio in corsia: imposto lassù come altrove il lavoro (ma “come si fa” sospirava suor Casimira, cercandomi alleato con un sorriso di tutta la pròtesi, nel quale vanamente insinuava l’indulgenza di una madre carnale).

I fanciulli, da parte loro, da quando s’erano confusamente accorti di vivere sul rovescio della vita, e di possedere nel corpo solo un servo mancino e infedele, avevano provato a inventare un gioco in cui importasse correre poco e senza furore, una sorta di sfilata e gavottina d’angeli, che ballavano tenendosi per mano, quasi da fermi, attorno ai tronchi dei pini a ombrella. Pure, anche così, qualcuno si stancava presto, si slacciava dalle mani degli altri, si andava a sdraiare in disparte. Infine si arrendevano tutti, e insieme, sottovoce, discorrevano di misteri.

Così li osservavo dall’alto, un po’ di tempo dopo il mio ritorno, sforzandomi di riconoscere in mezzo a tante la figuretta di Adelmo, purché fosse sua la voce di cui mi giungeva di quando in quando un acuto, non diverso dallo stridere di una rondine in un girotondo di foglie. Pensavo di affidargli la lettera che avevo scritto alla donna la notte prima, in un assillo d’insonnia, per rompere l’armistizio e provocarla. Non avrei saputo procurarmi un corriere più comodo, essendogli ormai data dispensa, si capisce bene perché, di scorrazzare dove più gli piacesse, dalla camerata delle monache alla cella dell’obitorio, fra caprifogli e allori, in fondo al viale di mezzo.

Lo entusiasmò una missione tanto furtiva, il poter recitare da congiurato a fianco di un grande. Né, d’altronde, erano frequenti alla Rocca le occasioni di disubbidire una norma per un bambino incurabile, al quale nessuno proibiva più nulla!

Si avviò dunque col pugno stretto nella tasca, dove aveva immerso religiosamente la busta, pronto a inghiottirla e a mangiarsela, se un pellerossa o una guardia del Cardinale, come promettevano i libri che leggeva, l’avesse colto di sorpresa e torturato, per averla.

Quando tornò, e tornò quasi subito, cominciò a sventolare il braccio da lontano, da arrossirne, ora che il colonnello, coi nastrini delle campagne bizzarramente cuciti alle asole del pigiama, aveva operato una sortita dalla sua camera, e me lo sentivo dietro tossire in cadenza, rigoroso come una macchina.

Fu dopo, mentre gli altri s’erano messi con le carte ai quattro capi d’un tavolo, che potei appartarmi a leggere, in calce alle mie stesse grandiose parole, le due righe di risposta. Dicevano: “Grazie, ma che lettera d’anteguerra. Domenica scendo in città, col primo tram del pomeriggio. Andremo a cinema, se vuoi.”

A cinema non andammo. Sulla soglia del cinema Biondo, quando già eravamo sotto la cupola, un invito ci dissuase, che gridava alle nostre spalle il megafono, da una jeep a passo d’uomo. Sarebbe stato il primo comizio della nostra vita, e Piazza Castelnuovo non era lontana. C’incamminammo perciò a braccetto, col portamento di due giovani sposi, sostando solo di tanto in tanto, più per specchiarci insieme nelle vetrine degli argentieri che per vagheggiarne le inservibili magnificenze.

Mi mortificò scorgere, accanto ai suoi modi di cittadina, le mie rudezze di viso e di abito. E tuttavia m’incantavo a mirare con che nobile scaligero garbo, riflettendosi nel cristallo, si andasse a incastonare nel cavo esatto di una panoplia di gemme lo smilzo stelo del collo di lei, sorgente dalla goletta di trine, fuor della camiciola sbottonata a metà. La voce, poi... E le continentali malizie, i nonnulla del gesto che impreziosiva, come uno spolvero d’oro, il ricordo muschiato delle antiche serate di gala, dei damaschi, dei ventagli, delle Isolebelle sul lago...

Ne sarei stato intimidito fino alla paralisi, se non mi fossi accorto ogni tanto di una piega, plebea e ghiotta, che le sfigurava la bocca e mi lasciava supporre una intelligenza con i miei sensi in allerta. Seppure non ne venisse un ulteriore riverbero d’indecisione sul personaggio, complicandone il contegno in una commedia senza fine di equivoci e stratagemmi. Io non dicevo quasi nulla, di fronte alle viste tumultuose e diverse che lei mi veniva porgendo: ora con la pressione sulla mia mano della sua mano, una piuma di colomba incalorita un po’ dalla febbre; ora con la melassa delle parole e la gesticolazione sgargiante, da guitta; ma soprattutto attraverso l’impaurirsi degli occhi ogni volta che la guardavo.

Esitando dunque fra diffidenza e passione, camminavo con lei fra la folla. Fiero, anche: poiché avevo una donna con me, finalmente, che mi parlava, con cui parlavo. E tanto peggio per la voce bassa che da un nascondiglio in fondo a me monotonamente chiedeva: “Fino a quando?”

Ascoltammo solo per qualche momento l’avvocatino in occhiali e camicia, che perorava per il futuro del mondo sopra un mare di coppole attente. Anche se commuovevano, accanto al lutto degli abiti, le fiamme delle bandiere ai piedi del podio, e le facce in sudore, snudate e gravi, e tutto quelìl’esibito bollore di menti bambine che si sentivano crescere. A me, per istruzione, certo, ma più assai per rimorso, sarebbe piaciuto restare, fiutare più a lungo quello scialo sudicio e ingenuo, una forza della terra che mi lusingava credere si sarebbe salvata. Ma lei non volle, ripensava ancora alla contraffazione di sé intravista nello specchio di poc’anzi, a quel po’ d’osso e carne segnata che i suoi occhi erano ansiosi di sconfessare.

“Non sono io, diciamo che è la mia sorella cattiva” si scusò, guardandomi di sott’in su, e subito volgendo lo sguardo altrove, come quella sera nel camerino, dopo lo spettacolo. Poi fece: “Conversando con me, quella faccia, non servirtene. Sèrviti di quest’altra.” E trasse dalla borsetta, e mi tese, una foto dove lieta, seminuda, con una coscia sporca di sabbia, sorrideva a nessuno, davanti a sé.

“Così ero” aggiunse. “Così bella. Col mio sorriso del ’42. La mia annata migliore.”

“Lo preferisco invecchiato. Com’è ora” dichiarai eroicamente, e per dare colore di verità alle parole, subito declamai: “La malattia conferisce ai volti un presentimento, una luce che manca sulle guance dei sani; un malato non è meno bello di un santo.” M’impappinai, mi corressi in fretta: “Oh certo, preferirei farne a meno, star bene, esser con te una coppia qualunque, su una panchina della Favorita...”

“Questo non si può” disse lei, muovendo appena le spalle.

E io: “E allora cerchiamo di dare un senso alla nostra sentenza.”

“Un senso?” fece. “Un senso a una forza? Io so soltanto che patisco una forza che peggiore non ce n’è. Avevo una vita, un viso. Mi tolgono questo e quella. Era il mio balocco di scelta, il mio viso. E giocavo con cappelli, rossetti. Ancora oggi passo ore a truccarmelo, benché non lo senta più mio, ma di una che mi vuol male, come a tredici anni, quando mi venne il sangue la prima volta, che storia di emorragie, la mia storia... Me lo trucco, come no, e mi siedo sulla veranda, a guardare, oltre il cancello del parco, la strada dove passano uomini. Tu vedessi, nel mio armadio, quanti abiti da sera, che sciorino sul letto, quando sono sola. Flosce armature vuote dove s’ode a volte frusciare lo spettro della Marta che le abitò.”

“No” ribadii. “Mi piaci di più come sei. Con questo rosa ai pomelli, così vero che sembra finto. Un rosa di primadonna, Violetta o Mimì; un rosa da teatro d’opera” e la guardai con significato.

Rise: “Che mente tortuosa hai tu. Sì, sono stata alla Scala. Ma non cantavo, danzavo. Ho cominciato bambina, davanti a uno specchio che mi conteneva da capo a piedi. M’aiutavo con un grammofono a tromba. La canzone si chiamava Missouri waltz...

Ne accennò fiocamente il motivo. Poi, all’impensata, sul marciapiedi dove eravamo fermi a rilanciarci queste battute, compì una piroetta su se stessa, un elegantissimo turbine che le scoperse un poco i ginocchi e suscitò nei passeggiatori vicini un moto non capii se di cupidigia o d’ilarità.

Ero disorientato. “Via, via”, la rimproverai “non cercare applausi anche qui.”

“Macché”, fece lei “è solo un impulso a piacere, che mi guizza ancora dentro come la coda di una gatta bizzarra. Noi donne siamo spesso così: narcise e civette. Pensa”, e mi mise la mano sul braccio “che la stessa suor Crocifissa, la più anziana fra le nostre custodi, ha voluto in prestito da me una sera un golfino da quattro soldi, rosso ciliegia, con la scusa di studiarne le maglie e i nodi (lei lavora ai ferri, nei turni di riposo). Ebbene, l’ho vista poi infilarsi di soppiatto nel bagno e chiudervisi dentro due ore. Per provarlo, si capisce. Una monaca di sessant’anni, che ha più rughe di un elefante.”

S’interruppe un momento per attraversare la strada.

“A me è sempre piaciuto contraffarmi e mentire” m’informò con lealtà. “Tutto ciò che contiene un’ipocrisia mi seduce.”

E aggiunse altro, ma così piano da obbligarmi a indovinare le parole che perdevo o a chiederle ogni momento, non senza imbarazzo, di ripetere. Quando ci fece caso: “Un po’ è colpa di questo”, e s’indicò il petto col pollice, “di questo mantice guasto. Ma è anche un malvezzo dell’adolescenza che ho preso a furia di parlarmi da sola, a sussurri, davanti al casello dove abitavo, mentre aspettavo i treni, la notte. Ero come orfana, i miei stavano oltremare, vivevo con un parente vedovo e vecchio, che, quando aveva bevuto, timidamente mi toccava. Poi lo mettevo a letto, restavo a fare la guardia per lui, alle sbarre del passaggio a livello.”

“Dov’era il luogo?” chiesi. Esitò un attimo, quanto bastò per farmi sospettare che si accingeva a cancellare un’impronta.

“Oltrepò” disse poi vagamente, e continuò subito: “Per non farmi vincere dal sonno, mi parlavo senza riposo, mi raccontavo da me un racconto che già sapevo, e ne fantasticavo uno nuovo, finché mi mancavano i nomi e le parole. Se chiudo gli occhi, risento i rumori di allora, grilli, foglie al vento, fischi di convogli lontani, tutta una ninnananna, non ne ho avute altre, per cullare la mia contentezza di essere sola e regina in una notte così lunga. Altre volte, di giorno, passavo le ore sdraiata ai piedi del terrapieno, in una cunetta mia, fra l’erba, lungo la strada ferrata, a giocare con la terra e i suoi popoli, te li immagini?, formiche, papaveri, barattoli vuoti caduti da una Terza Classe e scivolati laggiù, immobili ora, nient’altro che cadaveri di cose. Una volta, in uno straccio di giornale, vidi il ritratto d’uno con occhi di selvaggio, e me ne innamorai, se quello si chiamava amore. Avrei voluto partire un mattino su uno di quei treni, alla ventura. Sapevo che di là dei monti una rotonda di giardino c’era, dove lui mi aspettava e aveva speroni d’ussaro, e un frustino nel pugno. Lo sognavo, anche, e non erano sogni belli. Morivo spesso in quei sogni, con le caviglie e i polsi legati ai ferri del letto, imbrattata, calpestata da grandi zoccoli, come l’erba lungo i binari, io col mio piccolo ventre bianco, la mia perversa verginità di bambina...”

Marta parlava, parlava, ma io non avanzavo di un passo verso il cuore della nebulosa ch’era lei. Oppure, se per un istante mi pareva di capire, arretravo immediatamente come davanti a una trappola. Quelle parole vischiose, insaporite d’una velenosetta dolcezza, mi sembravano, erano certamente, segni e minuzzoli di Pollicino, seminati apposta ai crocicchi di un labirinto. Per frastornarmi? Per aiutarmi? Mi venne in mente quel che avevo sentito da un mio attendente reduce d’Africa, di certi fiumi di là che scompaiono all’improvviso nella rena e rinascono dove càpita, fiumi senza sorgente, senza foce... Ecco, un uadi era anche lei, Marta, un simulacro di donna, lontana da me quanto una bambola senz’occhi, e tuttavia l’unico essere che mi restasse nel mio disabitato universo.

Ora lei si era appesa più forte al mio braccio, mentre con la mano libera faceva altalenare su e giù, secondo l’un due tre di una canzone che canticchiava a fior di labbro, una borsetta ricamata a rombi. Disinvolture di studentessa, spettacolo tenuto in piedi per simulare una vita vera, pensai. E intanto dirigevo i nostri passi, per evoluzioni scaltre e apparentemente fortuite, verso la marina e Santa Zita, nel quartiere più bombardato, dove l’ombra delle rovine fosse più propizia alle nostre effusioni che presentivo imminenti, se aveva un senso di voglia, come interpretavo, quel suo premersi irritato contro di me. Non mi sbagliavo: inoltrandoci per Via Squarcialupo, appena un’insolita maceria ci ebbe sorpresi – di un casamento a quattro piani, con la facciata spolpata e le interiora in mostra – Marta si sciolse da me, camminò sola e decisa verso un relitto di muro, vi si appoggiò con le spalle e con labbra bianche mi ordinò di baciarla.

Bevvi, prima che le sue labbra, l’afa e l’odore del suo morbo, l’accolsi dentro i polmoni con un giubilo e un grido taciuto, lo stesso che accompagna, mentre cala, il pugno del matricida. E una volontà di distruggere, empia e allegra, mi formicolava nelle mani, mentre cercavo gli anfratti e le dune magre delle sue membra. Infuocarsi e gemere la sentivo contro di me. Come una fascina che si consuma senza fiamme, per un avvampo di dentro, e si torce umanamente nell’aria.

Un riso ci riscosse, seguito da un flusso di maleparole e di grida. Aprimmo, alzammo gli occhi, e sopra i calcinacci dell’edificio, dove prima non s’era visto nessuno, a cavalcioni su ogni travatura risparmiata dai crolli, ci apparve una torma di miserabili e tuttavia cordiali presenze: bambini, mezzane, vecchi, un soldato solitario. E c’invitavano ridendo a raggiungerli, c’era un’alcova lassù da loro. Fuggimmo, ce ne andammo senza meta, evademmo in tassì dal gomitolo di straducce, scansando, non si sa mai, quel che restava di Palazzo Sclàfani, e l’affresco che parlava di noi, se era sopravvissuto alle bombe, con l’amazzone senza naso, armata di frecce, galoppante in trionfo su un’ecatombe d’illustri e d’oscuri.

Verso sera, giù al mare, seduta davanti a un gelato, vincendo a stento con la voce le folate di un’orchestrina, Marta ricominciò a parlare:

“Quell’uomo l’ho trovato poi, sai.”

Mi chiese una sigaretta, non osai rifiutargliela, prendemmo a fumare entrambi a larghi sorsi, fra un colpo e l’altro di tosse, come se ogni boccata fosse un ultimatum di carbonari al tiranno. Lei mi toccò il braccio, mi sfiorò il braccio con un dito, dal gomito al polso:

“Ricordo il suo braccio bruno, un’estate come questa, in una barca. Dondola avanti e indietro, davanti ai miei occhi, accompagnando un remo che non vedo. Io sono bella, snella, pulita; per metà riversa dentro il canotto, ma coi piedi nel solco della corrente. Guardo una nuvola su di me, e quel braccio che s’avvicina, che s’allontana. Io non so dove siamo né dove andiamo, ma il lago è buono attorno ai miei talloni, una bestia con mille dita buone che mi accarezza. Il mio costume è nero, con una àncora di filo d’oro nel petto. E lui mi chiama Garance...”

S’interruppe:

“Ma tu chi sei, chissà perché ti racconto questo, non so nemmeno come ti chiami.”

E aggiunse subito, balbutendo un poco e riparandosi con una mano la faccia contro un colpo immaginario:

“Non importa, scusami, se è vero che dobbiamo morire.” Una ragazzetta che fa le mosse allo specchio, nient’altro che questo.

“Ma poi è vero che dobbiamo morire?” interrogò, e mi guardava come se una veletta di garza si fosse frapposta fra noi. “Io non ci credo sempre, specialmente la sera, prima di addormentarmi, quando faccio pace col mondo e lo saluto: buona notte, vestiti, seggiole, macchie sul muro; buona notte, tutte le cose. So in quel momento di essere al sicuro, so che mi sveglierò domani, infallibilmente, coi polmoni nuovi, netti, senza più i bachi che mi ci avete messo dentro a mangiare.”

Sorrise, e io sorrisi con lei, fui preso da un trasporto d’intrepido, fulmineo amore per lei, tanto che per poco non m’inginocchiai sulla pedana da ballo, per ringraziarla di quella vaghezza d’arabesco e falsetto che lei, senza temere il ridicolo, riusciva ancora a dare, sul davanzale del buio, alle lacrimazioni della sua parte. Mentre io... Ma io avevo più letto libri che vissuto giorni, nel mio così fuggitivo, così inefficace passaggio lungo le strade degli uomini.

“Lo amavo, chissà se lo amavo” cinguettò ora, e aveva nella voce fatemorgane e moine, quali continuava a dettargliele l’antica abitudine di affascinare. “Era un re, e non c’è più. Spesso alla mattina faccio un gioco. Vado alla finestra e, mentre mi curo le mani, lo aspetto. Conto fino a cinquanta, fino a cento. Lui non viene e io ricomincio. Alla fine mi stanco, e tuttavia mi dico: verrà domani. Anche se so ch’è un gioco, e che non verrà. Certe volte, però, penso un pensiero sciocco e bello, guardando la notte sopra di me. Penso che se uno potesse correre più presto della luce e sopravanzarla e fermarsi ad aspettarla in qualche stazione di stella, vedrebbe replicarsi per intero tutto il rotolo del passato. Mi consola pensare che in un raggio ancora in cammino c’è lui che mi bacia e mi parla, e che qualcuno in capo al cielo non sa ancora ch’è morto.”

Era tardi, ci convenne rientrare. Seduti accanto, nella vettura, concertammo senza dircelo di fingerci due sconosciuti. Ma quando, alla fermata, nell’atto di suonare insieme al cancello della Rocca, sentimmo che ci seguiva alle spalle, ago pietoso e crudele, lo sguardo dei passeggeri rimasti, ci rattrappimmo come adulteri presi sul fatto.

Allora mi disse d’un fiato, ridendo:

“Non è vero nulla, sai. Ti ho raccontato un ricordo inventato, ti ho raccontato la vita di un’altra.”

X

Aveva promesso di venire a trovarlo nei giorni di ricevimento sotto specie di falsa parente, ma non si vide più, l’Adele, dopo che fu dimessa e se ne tornò a vivere di borsa nera – latte in polvere UNRRA e farina bianca – dalle parti dell’Olivella. Il Pascià non se ne dava pace, la bestemmiava ogni quarto d’ora: “Caiorda, panzaiarsa, malacumutta” la insultava da lontano. E a me che blandamente cercavo di scusarla, dava sulla voce: “Ma sì, dàlle ragione. Come se con le sue panzane non avesse infinocchiato anche te.” Io subito rizzavo le orecchie, sperando di apprendere intorno a Marta qualche grata addizione o correzione di testimonianza, e mi buttavo a inquisirlo, sebbene presto apparisse chiaro che aveva parlato a vanvera, un poco per dispetto e un poco per allegria, in accordo col soprannome che s’era dato da sé. Del resto il dispetto gli durò sì e no una settimana, poi lo rivedemmo trafficare con un’altra picciotta, poi con un’altra ancora; lo risentimmo nel refettorio, levato in piedi, rovesciarci sul capo, prima dei pasti, giaculatorie da ridere; oppure, di ritorno dalla libera uscita, illustrare alla vecchia cuciniera, sportasi ad ascoltare dalla feritoia del passavivande, le sue ciclopiche turgescenze del pomeriggio, in tram, a ridosso d’una sventurata commessa di Bellanca e Amalfi. Noi si rideva, senza badare troppo alle vampe sulla faccia di Adelmo, poi si risaliva nelle camere a finire la serata con un liquore alpino, che prima avevamo fatto fiammeggiare al buio lungamente, in un’illusione di stravizio del tempo di pace. Infine una sigaretta, un solitario, il silenzio e il sonno, quando veniva. Poiché io, da quando avevo conosciuto la ballerina, m’impuntigliavo a prendere sonno il più tardi possibile, piacendomi a occhi chiusi pensarla e farle domande e averne risposta. M’ero affezionato ormai a queste veglie, chiamiamole d’amore, di ruminazioni e fantasie d’amore. Ore di una lentezza e sospensione che non so dire, con quel viso e corpo ininterrottamente stampato sotto le palpebre. E io che lo assedio, lo invado, con carezze alla rinfusa, secondo i modi imparati di fresco, negli amori di guerra, con Sesta, Silvia, le altre. Queste, chissà dov’erano. Di una lo sapevo troppo, avevo visto chiudere in una cassa, con un po’ di panni, il mucchio di carbone e calce ch’era divenuta, dopo l’incendio della Bettola, e m’ero segnato il posto, all’ombra di un cespuglio d’aquilegie, se così si chiamavano, mentre contavo le palate. Sorte mia e dei miei di procedere sempre in un’aria di catastrofi: fasce nere al braccio e malocchi dietro la nuca; ostinandoci a vuoto con testate di giovini tonni contro le maglie della rete, mentre intorno ogni lancio d’arpione solleva spruzzi di schiuma vermiglia. Marta? Ebbene, l’amavo, né certamente meno di quanto avessi mai amato. Ma stavolta con una vena di terrore nell’abbandono: come chi pascola le bestie un mezzogiorno d’estate, e non so che lo turba, e vorrebbe correre alle case, chiamare aiuto, ma nessuno apre, nessuno ha pietà di chi bussa in quest’ora di ladri.

Poi ci fu quella passeggiata con Sebastiano. Sebastiano era un fuori corso di medicina, di ventotto anni, ma pareva addirittura più anziano, e mi metteva soggezione, col suo naso forte, e l’acciaio della barba sul mento, e i salti di sinistro umore dopo inerzie di sasso. Del resto mi trattava, e trattava tutti, con una bruschezza ch’era quasi inimicizia, e questo serviva a renderlo singolare fra noi, e a investirlo d’una sottintesa sovranità. Soprattutto da quando avevamo scoperto che non aveva più nessuno, la consunzione era un lascito di famiglia, l’ultima sorella gli era morta un mese prima, alla Rocca, dall’altra parte della palizzata.

Ora da un po’ di giorni taluna dubbia frase che gli era sfuggita, e l’irresolutezza del passo, e la vitrea decisione con cui ci guardava senza vederci; e altri indizi ancora, che nemmeno indizi erano ma solo aloni e aure di pensiero che parevano accompagnarlo; tutto questo, dico, aveva indotto i compagni e me a temere che in lui maturasse un che di minaccioso e superbo; e a pensare che si dovesse, che io dovessi, poiché gli volevo più bene degli altri, medicarlo in qualche maniera, non fosse che con parole. Così, per delega di tutti, come lo sorpresi solo, una mattina sul tardi, e miracolosamente arrendevole, m’impadronii del suo braccio e m’indirizzai verso l’angolo meno educato del parco, dove pruni selvatici e ciuffi di serracchi avevano straripato sul viale, scoraggiando i passi ma promettendo, se non comodo, solitudine.

La giornata era velata, finalmente, e si respirava, ma non c’era da fidarsi, il soffoco sarebbe tornato subito, coi lupi della controra. Io, nell’attesa e paura d’esso, m’ero fasciato il capo con una specie di turbante e, sarà stata la febbre, ma m’ero messo a sudare in anticipo, sentivo già alla pelle incollarmisi le ventose della camicia. Dalla borraccia del mio antico equipaggio di soldato, portata a tracolla, che bevevo a fare? Avrei subito sudato di più. Tanto più m’increbbe che Sebastiano, sciogliendosi da me e precedendomi, come se ci fossimo già accordati sulla destinazione, s’incamminasse sportivamente dove la strada s’impennava in salita verso un tumulo color ocra, a mezza via fra la capanna delle prove e la cella mortuaria, dal quale si poteva scorgere il mare. Lui mi camminava davanti, dunque, e si apriva il cammino con l’aiuto di un ramo a forca, pestando sotto il tacco – se li andava a cercare, lo faceva di proposito – i resti funebri del solleone: pigne sgranate, festuche strinate, locuste morte, spine come spade. Un camposanto in abbandono, controfigure del nostro domani. Così lampanti da spingermi a scansare, girandogli qualche metro al largo, l’uomo in grembiule di cuoio, ch’era intento a mondare con un falcetto il terreno e di cui, nonostante sapessi che si sarebbe limitato a chiedermi come al solito tabacco e fuoco, paventavo l’ombra adunca e la rapidità di beccaio.

Era la seconda volta, mi resi conto, a distanza di pochi giorni, che una scena o figura, sfiorata per accidente, mi si colorava di presagio e m’intimidiva, costringendomi alla scaramanzia di fuggire; solo che, nell’altro caso, per stornare la cavallerizza, era bastato affidarsi alla docilità dell’autista e a un tassametro vertiginoso; mentre ora la deviazione costava fiato e pedate in più e scavava altro vuoto fra me e il mio compagno. Vuoto e silenzio: non c’eravamo, infatti, rivolti finora una frase, Sebastiano e io, lui non so, io in conseguenza di un malumore per essermi lasciato pari pari trasformare da guida in guidato, ma soprattutto per una povertà, la solita, di coraggio e di forze. Fu così lui a parlare per primo, quando lo ebbi raggiunto sul cocuzzolo del poggetto e ci fummo accovacciati al riparo d’un muricciolo che faceva sperare ombra, ove tornassero a prenderci di mira, come pareva imminente, le lenti ustorie del cielo.

“Insomma”, mi affrontò Sebastiano “che m’hai fatto salire a fare quassù?”

A un’imputazione a tal punto iniqua non mi sentii di ribattere, ma umilmente gli chiesi come stava, e gli dissi ch’eravamo in pena per lui, e di sfogarsi, eccetera eccetera. Disprezzò le mie parole, senza salvarne una sola, ma mi mostrò con un dito la mole del Monte Pellegrino in fondo, e alle sue radici un orizzonte di mare che, colpito dal sole (s’era infine scarcerato dalle nuvole e dallo zenit lo guerreggiava crudamente, con intenzione), mandava guizzi di enigmatica luce, più o meno come un telegrafo di specchi, quando i genieri si parlano da una collina all’altra.

“Lì facevo i bagni da ragazzo” disse. “Avevo i polmoni di un palombaro. E ci ho negli occhi la pece dei fondali quando, a scenderci, ti senti di colpo tagliare le gambe, e non sai se è un gorgo gelato o la forbice di un pesce granchio. Pensa un po’ che loculo da sultani, lì, fra quattro assi d’acqua, lontano da queste pietre focaie e micce e scossoni di terra ballerina... Come?” concluse interrogativamente, era un modo dei suoi, sebbene io non avessi interloquito, ma solo sorriso. Il fatto è che Sebastiano aveva una voce balorda. Con toni rustici e rochi, fra cui, a bruciapelo, proprio nei momenti di maggiore concitazione, scoppiava un tremito, un dubbio, che si propagava alle ultime sillabe, facendole impennarsi come cavalli alla Croce di Sant’Andrea, sì da suscitare in chi l’ascoltava il sorriso, e in lui parlante un intasamento che diventava domanda, quando non si liberava in un’eruzione di sacramenti grandiosi. Per risparmiarmeli gli volsi le spalle, mi spostai di qualche passo e, bocconi a terra, ritrovando in quell’adesione la fisicità beata di tante soste di fanteria, ai tempi della salute, gli additai a mia volta, dirimpetto a noi, dalle rimesse ai comignoli, lo sviluppo della Rocca. “Brutta, no?” disse lui e, togliendosi gli occhiali, soggiunse: “È la mia casa, la so a memoria. Sono appunto oggi quattr’anni che ci sto, io sono un cronico lento. Ci venni direttamente dal fronte, ero qui il giorno che una Fortezza Volante la bombardò, supponendo falsa, voglio credere, la croce rossa pitturata sulla terrazza. Oppure proprio per far pulizia, dev’essere brutta anche dall’alto: una cacca di vacca sulla collina.”

“Bella rima” ironizzai, senza convinzione. Poiché veramente la Rocca, a guardarla così a fil di terreno, obesa e nana dietro una schiera di palme, sembrava ben altro dall’escuriale in fiamme che m’era apparso fra le sbarre del cancello, quel tramonto in cui una carrozza mi ci aveva deposto davanti; ma faceva pensare a una carogna d’animale o di monumento, dalla cui epidermide uno spurgo di doratura colava, lasciando che, sotto, tutti i dissesti e le carie dello scheletro si denudassero a uno a uno. Gli stessi aggetti delle verande, se mai eran riusciti a fingersi giardini pensili o camminamenti di ronda, affioravano ora dalla rutilanza di pomice e mica come ballatoi fatiscenti, donde galeotti a righe, appoggiati alle altre righe di un’inferriata verticale e nera, si protendessero.

Mentre col fazzoletto salutavo, senza aspettarne risposta, e solo per bizzarria, le sagome rimpicciolite, “Quattro candeline”, riprese Sebastiano “non è una ricorrenza da festeggiare? Banchetto di compleanno per bacilli a concilio. In onore del loro Decano e Papa, Sua Santità Verme Numero Uno. Grande un cinquecentesimo di millimetro, ma boffice e vitale come quando lo respirai la prima volta. Chissà come giunse fino a me, con quale sputo di vecchio o bacio di puttana o spora di vento, vallo a sapere. Impollinazione antropofila o impollinazione anemofila... Che volo, però, da una polvere nella carraia alla mia glottide compiacente!”

Boh, si stava sgelando, e il discorso era abbastanza peregrino per non dispiacermi. Né mi disturbò che suonasse pieno di maiuscole nella sua voce. Ho sempre avuto un debole per le maiuscole. Meno mi piacque il riso a garganella che lo seguì, e a cui feci eco fuori tempo, per semplice convenienza. E intanto lo guardavo. Doveva avere avuto un rialzo di febbre, gli occhi erano spiritati e neri, di scorpioncino. O forse era un cedimento di nervi, Sebastiano vi era soggetto, né escludevo una goccia di atrabile nel suo sangue da quando avevo letto, prima che me la strappasse dalle mani, l’introduzione-sproloquio della sua tesi di laurea, mai finita, sulle piaghe da decubito.

“Ho detto un bacio” riprese, alterandosi, “solo per bluff e millanteria. A dirti proprio come stanno le cose, sono vergine.”

“Per quello che hai perso” tentai di consolarlo, impulsivamente, e intanto mi sorpresi a pensare se quella confessione che a lui, c’era da giurarci, sembrava tragica, non lo fosse poi veramente; e se dolesse di più, dovendo morire, la punta di nostalgia, in me, dei pochi goduti piaceri, oppure la pena sua di averli solo sognati. Sicché, quando aggiunse, combattuto fra imbarazzo e insolenza: “Intendiamoci, non voglio che tu mi sia amico; se ti parlo, non è per sentirti parlare, ma per impedirtelo”, non gli risposi, come avrei voluto, che aveva fin troppo aspettato ad avere pietà di sé, ma tacqui e mi turbai, pensando attraverso quali svolgimenti di degradazione ci trovassimo lì nella luce noi due, così giovani, a esser divenuti spettatori inetti di noi stessi, senza aver la forza di opporre altro che bende di vanità all’aggressione dell’idea della fine. E me ne venne, verso entrambi, una sorta di rabbiosa tenerezza, come un cociore che mi saliva dal fondo della gola ed era, incomprensibilmente, simile a una felicità.

“Peccato” disse più tardi Sebastiano, e con gli occhi mi mostrò la luce. Alzai le spalle. Ricominciò: “Mi piacerebbe avere un figlio. Che dico? Una memoria qualunque in cui sopravvivere. Ma non ho nessuno. Voi stessi, tu, è questione di mesi. Voglio cercarmi uno, un bambino per la strada, per lasciargli una traccia lunga negli occhi. Gli darò uno schiaffo, gli dirò un’oscenità, una bestemmia di quelle che non si scordano. Voglio durare cinquant’anni ancora dentro di lui.”

Conoscevo quella solfa, era di moda alla Rocca venire a piangere sulla mia spalla, ma da lui non me l’aspettavo, e dunque con una certa brutalità: “Una donna, di questo hai bisogno” gli dissi, e mi vantai: “Io ne ho una, ci vuole poco.” E dopo un poco: “È Marta, sai, la bellissima che ballava.” E dissi questo perché alla Rocca tutti sapevano che m’ero incapricciato di Marta, ma nessuno che fossi uscito con lei, e, insomma, a qualcuno volevo dirlo.

Mi guardò curiosamente: “Era amica di Assunta, le teneva le mani quando è morta. Assunta era mia sorella e stravedeva per me. Anche Assunta diceva che una donna m’avrebbe aiutato, e ogni volta che l’andavo a trovare mi offriva una delle sue amiche. Marta, no. Mi diceva di starne lontano.”

“E tu?”

“Oh io volevo solo una grassa, una sana, che m’insegnasse, prima di morire. Non una come me, da tossirci insieme. Del resto mi sarebbe sempre mancato il coraggio. E ora è troppo tardi. Ma che importa tutto questo a un uomo la cui moglie è vedova?” concluse, con la facezia ch’era in uso fra noi, a derisione di chi incappava nella topica di discorrere del nostro futuro come se fossimo vivi.

A questo punto mi venne a mente che avevo finora tradito il mio compito di samaritano, e m’accalorai:

“Ma siamo vivi! In questo istante sei vivo. Guarda la luce, come ti grida nelle pupille. Sei vivo e non è stupefacente? Qui e ora, nel buco d’aria che riempi col volume del tuo corpo, e che possiedi tu solo nell’universo degli universi, non sei forse Dio? Questo è il miracolo, questo è il mistero!...”

Ero andato sopra le righe e mi punì sull’istante: “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza!” intonò a mezza voce, e soggiunse: “Non conoscevo quest’altra strofe. Scrivimi le parole, voglio cantarla a Natale, al microfono della rivista, vestito da Milite Ignoto!”

Allora tornai a tacere, abbastanza mortificato, e stanco, anche, di vederlo giocare a pari e a dispari con le due metà di sé, la fatua e la dannata, artefatte entrambe, come tutto era artefatto, perfino il silenzio, in quella specie di sala di vigilia e d’aspetto dove la sorte ci aveva fatto incontrare. Così restammo per un pezzo, finché lo intesi ridere da solo, ottusamente, e mi accorsi che gli stava succedendo qualcosa. S’era levato in ginocchio e, curvo su un monticello di formiche, aveva preso a recitare con loro non so che parte di Fortuna o Destino, ora facendole impazzire, ora rinsavire e ricomporsi in esercito, e tutto questo con la sola estremità di un fuscello.

“L’hai detto tu, sono Dio” disse, e col pugno chiuso, affondato nel terreno, sconquassò cripte e crateri, lasciando al loro posto una fistola nera, in fondo alla quale uno sterminio di zampine e d’antenne miseramente si torceva.

“Dresda o Nagasaki, voilà” mi disse, volgendosi frattanto a un lombrico scuro che catturò e stordì sotto un’unghia, e gli punzecchiava l’addome, lo issava sulla vetta di uno sterpo per farlo poi indi piombare di botto. Infine, con un rapimento improvviso, estrasse un fiammifero, gli diede fuoco.

Non potei che dargli un pugno, udendo lo sfrigolio degli anelli che s’incendiavano, senza avere però respiro né voglia di contrastarlo, quando mi s’abbrancò addosso trascinandomi a lottare nell’erba. Fu lui a lasciarmi, ma rimase, mentre io mi stropicciavo gli abiti, a fare atti di consolazione, picchiando capo e pugni contro il suolo e gemendo gutturalmente. Una scena penosa.

Fu fortuna che in quel momento, inopinatamente, gocce larghe e rade di pioggia, calde come gocce di pece, cominciassero a caderci sulla testa, obbligandoci a divallare e a cercare riparo insieme sotto la tettoia dell’obitorio, prima, e poi, quando ne fummo scacciati da una zaffata di miele marcio, che esalava, benché sepolto sotto lingotti di ghiaccio, l’ultimo morto della notte, sull’altro versante del poggio, a ridosso del padiglione-teatro dove il Magro preparava in segreto i figuranti dei suoi spettacoli. La cornetta sotto la pioggia aveva finito di stremarmi e, soffiando, con un grido di clacson che mi squillava dentro le orecchie, m’abbandonai contro la porta. Fu Sebastiano ad accorgersi che cedeva sotto la spinta dei dorsi, era chiusa solo a metà. Non restò dunque che entrare, di nuovo federati, e in qualche modo riconciliati, dalla fatica di or ora e dal comune impulso di esplorazione, a cui il grande ambiente offriva equamente le sue penombre, stipate di scene e casse per costumi e sacchi di iuta e attrezzi di giardiniere. Nessuna presenza umana, d’altronde. Non fosse che in un recesso, dietro una piramide di corde, un giaciglio a terra c’insospettì, gualcito un poco da una pressura recente di membra, e inoltre sparso di mucillagini e capelli, come un letto di nozze abbandonato all’alba. Ammiccai a Sebastiano, per darmi un contegno. Ma intanto volgevo gli occhi qua e là, disordinatamente, mentre un becco di bestia – un sospetto, che so, una gelosia – mi veniva mordicchiando il cuore. Sebastiano, fu peggio. La faccia gli si cangiò in una maschera losca, come di un bambino che piangerà fra un istante, mi volse le spalle, e mormorò: “Quando mi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa.”

Non capii cosa volesse dire, ma gli misi lo stesso una mano sulla spalla e pietosamente gli dissi: “Ti passerà.”

Al ritorno, sulla soglia del refettorio, ecco Adelmo che m’aspettava, con una lettera di Marta. Aveva deciso di rivedermi, l’appuntamento era per la domenica dopo.

XI

Quella domenica 18 agosto è, fra i giorni della mia vita, uno dei tre o quattro che mi recito da cima a fondo, quando voglio cercare di raggiungere l’estasi di rivivermi. Mi spiego: io col passato ho rapporti di tipo vizioso, e lo imbalsamo in me, lo accarezzo senza posa, come taluno fa coi cadaveri amati. Le strategie per possederlo sono le solite, e le adopero tutt’e due. Dapprincipio mi visito da forestiero turista, con agio, sostando davanti a ogni cocciopesto, a ogni anticaglia regale; bracconiere di ricordi, non voglio spaventare la selvaggina. Poi metto da parte le lusinghe, l’educazione, lancio a ritroso dentro me stesso occhi crudeli di Parto, lesti a cogliere e a fuggire. Dagli attimi che dissotterro – quanti ne ho vissuti apposta per potermeli ricordare! – non so cavare pensieri, io non ho una testa forte, e il pensiero o mi spaventa o mi stanca. Ma bagliori, invece... bagliori di luce e ombra, e quell’odore di accaduto, rimasto nascosto con milioni d’altri per anni e anni in un castone invisibile, quassopra, dietro la fronte... Sento a volte che basterebbe un niente, un filo di forza in più o un demone suggeritore... e sforzerei il muro, otterrei, io che il Non Essere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere...

Riessere, this is the question. Poiché non c’è gesto o scongiuro che non deluda, e quel tanto che riesce a ripetersi sotto le palpebre, nell’atto stesso che illumina, acceca. Alla fine mi lascia solo parole. E tanto peggio se sono le stesse, grasse umide calde, di cui mi farcisco ora e mi farcivo allora la bocca, incerto fra nausea e ingordigia, come chi recita la prima volta. Appoggiandomi con i due gomiti sull’inferriata del mio sequestro, spenzolandomi a guardare giù in basso il brulichio, l’argento vivo, la ringhiosa e innamorante canea della vita. Allegrie, fasti, gonfaloni, lacrime, infamie, e le impunità insperate, le pene spropositate, tutte le guerre e i processi di dolore contro dolore... Metafore, forse, ma non sapevo di che, e casuali, se nessuna divinità le aveva preparate o previste, se di ogni accidente e sostanza il cinema si cancellava a vista d’occhio, spruzzaglia d’acquazzone altrettanto presto caduto che sciolto... Non mi resta che bandire l’asta, offrirmi a chiunque in vendita, da ciarlatano eloquente e magnanimo: madamina, il catalogo è questo... (Con tutto ciò, capace ancora di concupire, smaniare, agire. Pronto sempre a divincolarmi pur con un piede o due nella fossa, perseverando nel movimento a rischio di stringermi al collo di un altro punto il capestro che mi ci avevano imposto...)

Mi radevo dunque in maglietta, quel mattino di bella domenica, specchiandomi approssimativamente nella vetrata della veranda, e fischiettando insieme, con disturbo di tutti, un Verdi di scherzo o follia. Né avevo evitato, durante la notte, di svegliarmi dieci volte a consultare la sveglia fosforescente sulla mensola, e di sognare lei, negli intervalli di sonno, come l’avevo vista la sera dello spettacolo, in quella figura d’elevazione che i ballerini chiamano ballon, vale a dire una mongolfiera che balza in aria e va su. Visione ch’era venuta facilmente a confondersi con altre mie, di Pasque infantili al paese: quando da una spalla di mio padre vedevo in cielo levarsi ondeggiando cammelli a colori, femmine incinte, botti panciute, uno squadrone di cartaveline velivole, nutrite di fuoco, che un debole vento, come aquiloni, succhiava verso una nuvola...

Mi sbarbai, dicevo, non senza spargimento di sangue e gloriosi cerotti maschili; indi mi avviai per andarmene, dedicando appena un brivido senza pietà al voluminoso feretro dalle maniglie di rame che su un carrello spingevano, lungo il corridoio, le morbide mani di suor Casimira. Il morto che l’avrebbe occupato non era dei miei, della mia cosca, e più svelto procedetti quindi a raggiungere appiè della scalinata il gruppetto in libera uscita. Troppo svelto: tanto da sbattere in pieno contro le scarse ossa del Magro e fargli cascare a terra le lenti che stava pulendo col fazzoletto. “Hai fretta?” mi chiese, mentre raccoglieva la stanghetta staccata, insistendo poi, dopo un mio equivocabile mugolo: “Sì o no?” Preso nella tenaglia dei due monosillabi, optai per il più cortese, di malavoglia peraltro, e con la riserva mentale che al medico non avrei concesso di trattenermi più di qualche minuto.

“Puoi fare” mi disse “una cosa per me in città? Basta scendere al porto”, e si aggiustava frattanto sul capo la mozzettina da usuraio, di seta, squilibrata dall’urto.

“Purché non mi porti via troppo tempo” feci freddo, e tuttavia ringalluzzito per quella specie di ulivo che pareva porgermi, dopo tante settimane di sostenutezza e di screzio; e incuriosito, anche, dalla richiesta, stante che, nel caso di un mio precedente permesso, la commissione era stata delle più rare: di fare lo spione, giù alla Martorana, all’uscita dalla messa di mezzogiorno, per riferirgli poi di sua moglie, com’era vestita, e se rideva, se dava il braccio all’amante.

Stavolta no, la voce che mi curvò all’orecchio, quando gli chiesi “Che cosa?”, non fece che ordinare “Bùttati in mare”, con così chioccia facezia e rancorosa golosità di lite da non lasciarmi altro scampo, poiché correvo a un convegno d’amore, se non di replicare senza fantasia “Bùttati tu”, scappandogli così dalle mani.

Alla porta Carabillò, il vecchio guardaporta, che amava proverbiare all’antica: “Va’, va’”, mi disse “petra smossa nun pigghia lippu”, e io me ne andai sorridendo, dicendomi che il forte muschio che m’era cresciuto sopra il sasso dell’anima, ci voleva altro che una corsa settimanale in città per scrostarlo. Ma intanto che mi dirigevo alla fermata del tram, non potei che intenerirmi alla vista d’un giovinetto, disceso appena da una vettura, il quale titubava, ed era certo una recluta del nostro convento, venuta a dare il cambio a quella salma in uscita, tanto era lo strazio con cui reggeva una valigia uguale affatto alla mia, e sulle spalle il peso della sua giovinezza cariata, l’ingombro d’una montagna che frana. “È qui che si entra?” mi fece con voce biondina e ansiosa, e io condiscesi col mento, lo lasciai davanti al cancello, col suo baule appeso a una mano, e nell’altra, ingenuamente, le carte dell’ammissione, una busta giallognola, gonfia di anamnesi, diagnosi, prognosi...

Aspettare una donna... C’è un piacere nell’agonia di aspettare chi non arriva, una passione abbastanza cattivante, che rassomiglia al gusto di perdere al gioco, un gettone dietro l’altro, un minuto dietro l’altro. E di questo piacere insaporivo ora le mie fantasie, appoggiandomi a un muretto di CHI LA VISTO? con foto di militari, mentre il tempo passava e Marta non si vedeva, lì, presso il chiosco di bibite e granite, dove secondo promessa m’avrebbe dovuto raggiungere.

Non si vedeva, e io pensavo, con un acido orrido aculeo di bramosia, alle sue membra emissarie d’umori, ai suoi sputi, colaticci, sudori, lacrime, essudati, ai suoi profluvi d’emorroissa dannata, alle sue emottisi trionfali. Che strano innamorarsi di un corpo che mangia, secerne, si svuota: denso di villi, papille, isole del Malpighi... Nomi del mio liceo di anteguerra, che mi ripetevo ora, recuperandoli al di sopra del frastuono degli anni, per servirmene a investigare la geologia di quell’umido sepolcro di carne, con la solerzia d’un generale che si curva, alla vigilia dell’invasione, su una carta di territorio nemico...

Così assorto, mi sorprese infine vederla d’improvviso attraversare la strada, e non solo per i modi cauti del passo, e il voltarsi due volte a guardarsi le spalle, ma soprattutto perché pareva sbucare da una direzione che non m’aspettavo, da un ronco laterale che non si capiva bene di quale itinerario costituisse lo sbocco.

“Ho fatto il giro lungo” si scusò. “M’è toccato buscar el levante por el poniente” scherzò. “C’era in tram Panzera, l’anima nera del dottor Grifeo, e mi osservava, ho avuto l’impressione che mi seguisse.”

Notai di sfuggita che non aveva chiamato Magro il Gran Magro, mentre feci più caso assai alla vesticciola di organza color gridellino, a pois bianchi, da cui le braccine esangui, nude, sorgevano, e lo zampillo del collo, e il volto, non so se più fiero o sonnambulo, con le pupille come timorose farfalle, e le labbra a falce, gonfie, da cui, qualunque cosa dicesse, una musica pareva udirsi di antica pavana.

Che copertina di eleganze, pensai, sopra un tale quaderno di escreti e fradici stagni, quanto mi repelle, quanto la amo. E la presi per mano, la trascinai quasi a correre con me sul marciapiedi. Lei protestava, rideva, per un po’ si lasciò portare, infine fu colta da un accesso di tosse, e mi costrinse a fermarmi, a sedere al suo fianco, all’uso dei ragazzi, su uno scalino di chiesa.

S’accorse in quel momento che un tacco era sul punto di saltarle via, e se la prese con me, m’ingiuriò per questo, senza smettere di tossire e di ridere, e premendosi ogni momento sulla bocca un fazzoletto di battista con una cifra in ricamo che non era sicuramente una Emme. Non ci casco, troppi indizi e troppo in mostra, mi dissi, da lettore usuale di gialli. Subodorando che, col fine d’una burla o d’un losco progetto, ma forse solo per farsi meglio ammirare, lei volesse convalidarsi ai miei occhi eroina di perversioni e misteri, quale s’era forse fino a ieri piaciuta in un fumo della fantasia. Meno che mai credetti al granello di polvere bianca che si mise subdolamente nella narice, traendolo da una bustina in borsetta. Non ci credetti, ma casomai tanto meglio: sarebbe valso a darle lo slancio...

Urgeva frattanto rimetterle la scarpa in sesto; benché lei si vantasse subito disposta a procedere scalza in aria, levitando sul lago d’asfalto, da Titania o Peri, scegliessi io: “Cammino sull’acque, io volo” proclamò. “Sono abituata a fare miracoli!”

In quanto a me, più in prosa, m’allontanai a piedi, la lasciai seduta i pochi minuti che mi ci vollero per andare a chiamare il ciabattino del quartiere, nella casupola sinistrata dove teneva letto e bottega, lietissimo di guadagnarsi, foss’anche giorno di festa, i pochi soldi dell’opera. Fornendo gratis, mentre lavorava all’aperto, la giunta dei suoi monologhi di filosofo spicciolo, insalivati dalla vanità di versarli nell’orecchio di una così attraente straniera. Uno d’essi la divertì, una storia di Firrazzano o altro furbo, non ricordo, quando voleva mettere il sale sulla coda della morte e la fece scappare via. Ma si accigliò, appena io chiesi all’uomo se aveva un pugno di sale da regalarci. Poi volle che andassimo a guardare – benché distanti – il Teatro Massimo e il Politeama, di cui accarezzò con la mano il portone come si accarezza una guancia.

Le mostrai le colonne su in alto. “Sono scolpite nella pietra del mio paese” le raccontai. “Fu mio nonno, che aveva una cava famosa nell’isola, a portare qui le moli bianche da lavorare. Attraversò tutta l’isola, da un capo all’altro, su un congegno per piramidi, di corde e rulli, trainato da dieci cavalli. E si aprirono tutte le finestre...”

Anche questa storia le piacque, ma, volubilmente: “Non m’incanti”, disse “ho avuto ciceroni più bravi, davanti a teatri più belli. Né mostravano quel lampo che mostri tu, d’impazienza e di voglia nera negli occhi.” Si accorse di avermi offeso e mi prese a braccetto.

Così girovagammo ore, e lei sembrava resistere, sebbene avesse una qualche febbre, alle fatiche della passeggiata. Dalla quale, anzi, ora traeva stimoli di semplice svago, ora occasioni a sforzare (era un suo vezzo) qualsiasi oggetto oppure evento, finché diventasse un emblema. Come quando da una bancarella scelse e mi regalò due volumi che le parvero fare al caso nostro: uno, sciolto e bisunto, di un Mattia Naldi, che parlava della peste e dei modi di guardarsene nell’anno Domini milleseicento e rotti; l’altro, che conservo e ho qui davanti, di un anonimo dell’Ottocento neonato: Guida per la Real Casa dei Matti in Palermo, scritta da un frenetico nella sua convalescenza, Stamperia degli Antichi Muratori...

Giunse così mezzogiorno, e cercammo una trattoria, dove, sospesa su una portata, e squadrando il cucchiaio che teneva in mano, Marta ricominciò a parlare, adagio, fra due puntate di tosse:

“Sì, l’analisi mi rassicura, dicono che fanno uscire solo i puliti. Eppure io sento, io so, che ogni mio fiato è un veleno, che tutto quanto tocco o mi tocca s’infetta. Anche quello stipite del Politeama, poc’anzi. Anche questa posata. E sento, so, di spargere e ungere dappertutto la morte, su intonaci, tovaglioli, orli di piatto. A volte mi viene un’idea: di usare di proposito un tale onnipotente potere d’incubazione e di semina; mi vedo entrare in una casa; e sia una casa felice; mi vedo sputare con diligenza ai quattro canti di ciascuna stanza, su una federa, su un biberon... Chissà, un’idea così, col suo intreccio di bambinaggine e nefandezza, che semi l’hanno nutrita in me fino a farla salire alla luce; da quali catacombe e sconosciuti Piombi è fuggita... M’incuriosisco di me sempre di più.”

L’interruppi: “Sai come si dice, nel mio dialetto, dare il contagio? Ammiscari, si dice. Cioè mescolare, mescolarsi con uno. Significa ch’è un travaso di sé nell’altro, altrettanto mistico, forse, di quello di due altre assai diverse solennità: voglio dire la comunione col sacro nell’ostia; e la confusione, su un letto, di due corpi amici.”

Così dicendo la baciai davanti a tutti, cercai di volgere in riso e in invito i capricci di rimorso che le turbavano il pensiero: dopotutto eravamo lì insieme per dare effetto a una cosa d’amore. “Macché amici, ogni volta per me è un cimento che mi fa male, e di cui sconto in anticipo l’esito” mi rispose, asciugandosi risoluta le labbra col tovagliolo. “Dai tempi del casello, da quelle notti. E tuttavia mi piace, oh come mi piace!” esclamò con le pupille illucidite da un ricordo o che so io. Poi si alzò di scatto, mi promise: “Più tardi, lo faremo più tardi. E non ti chiederò, come chiedono qui, carte annonarie! Per ora lasciami giocare, voglio giocare in tua compagnia un solitario mio di città, non è un solitario da tavolo, si fa camminando. L’ho inventato nei primi mesi ch’ero in città e non avevo nessuno, né amici né amiche. Uscivo di casa, la domenica, entravo nella folla, mi fissavo su una persona, solo che mi piacessero le sue spalle, la stanchezza del passo. Meglio se era un povero, un vecchio. Lo pedinavo senza parere, accrescendo ogni momento di un poco la mia scienza di lui, del suo destino, contenta della mia sinecura di spettatrice non vista, insuperbita di poterlo dirigere da lontano, inerme e ignaro fra due ali di sordomuti passanti. Di uno giunsi ad appurare dove stava, era un ferroviere in pensione, salii da lui, fingendomi una vagabonda che legge la mano, era forse uno dei macchinisti che vedevo scorrere via di notte, in un lampo, sul treno dell’una... La sua stanza, ci credi?, era identica – parati a righe rosa sbiaditi, pavimento di pece, piatti sporchi nell’acquaio – a quella che, solo seguendolo e guardandolo, m’ero formata dentro la mente...”

Sicché dovetti accontentarla, giocai con lei a seguire un uomo. E ci condusse, per viuzze e vie, fino al porto, quasi volesse ricordarmi la mala esortazione del Magro, sebbene né io a questa pensassi menomamente di obbedire né l’uomo potesse in qualche modo apparirmi un ambasciatore spedito da lui per tentarmi. Era invece con evidenza un sensale di porto, dall’aria metà sfiduciata metà guerriera, e portava una maglia alla marinara, calzoni rimboccati su due caviglie marrone di sole, camminava a piccoli balzi animali, lo perdemmo subito nella ressa della pescheria. Del resto lei s’era già stancata, sedette su una bitta del molo, senza smettere perciò di parlare, parlava come chi racconta i suoi sogni o le vicende d’una visione.

Ora io, che pur incappo così spesso nel medesimo vizio, sopporto poco chi racconta i suoi sogni. Ma con lei era diverso, e l’ascoltavo amorosamente. Era come se lei mi delirasse al fianco, referendaria di un al di là, dissipando nell’espanso delirio un subisso di monologazioni orecchiabili e artificiate, le stesse che amiamo nei dischi di canzonette o nelle querimonie dei poeti. Trucioli erano, i suoi discorsi, trucioli d’oro finto, un piumaggio che si spiuma, un pulviscolo di perline e minuzie d’una detronizzata dama di cuori, sotto il quale s’intravedeva – male ma s’intravedeva – l’implacabile osso della morte. Quello al quale volevo arrivare, non potendo altrimenti, con la spada curiosa del sesso...

Devo aggiungere ch’erano soprattutto le sue movenze a sedurmi? E che, indovinandole ligie a una musica a cui tendevo inutilmente l’orecchio, mi veniva spontaneo intitolarle col titolo d’un balletto immaginario? Fatto sta che, soccorrendomi la cornice del mare alle spalle di lei, ch’era d’un blu mitologico, mi venne in mente Sirena, la donna pesce, la donna uccello, nascosta sotto gli scogli, di cui sul traghetto avevo raccontato la favola ai contadini compagni di leva. Trovandoli creduli al punto da inventare che ormai l’avevano catturata, e stava a Napoli, in una grande vasca d’acquario...

Sirena, Siren, o non piuttosto Charybdis, l’orca di squame e spine, la micidiale orca marina? No, forse solo una poveraccia al bando, una famelica solitudine che mi tossiva vicino. Alzai gli occhi: la camionetta dei finanzieri avanzava adagio lungo la banchina, come per schivare uno scasso del lastricato; quando ci passò davanti, vidi sulla testa di uno in piedi, là sopra, ammanettato, un’incredibile paglietta rossa, un solecismo fra i chepì degli altri, ma che aveva l’energica esistenza e la letizia di un fiore. Marta lo accompagnò con una specie d’invidia negli occhi e il prigioniero ricambiò lo sguardo, si volse non senza sfrontatezza e allusione a fissarla, finché la vettura non fu scomparsa alla curva dei silos, lasciandosi dietro un odore di nafta cattiva.

“Hanno preso un contrabbandiere” commentò lei. “E noi che viviamo di frodo, e trasportiamo una morte di frodo, nessuno ci perquisisce.” E ricominciò, per quell’odore, a tossire, ma convenne ch’era sempre meglio del tanfo d’emulsione e cripta, su alla Rocca, quando ci si spoglia dietro il paravento, nel Gabinetto dei Raggi.

XII

Finalmente andammo in una camera a ore.

Stesi l’uno accanto all’altra, dopo il piacere (solo mio, non d’entrambi, mi parve), una luce senza vigore, gocciolando dal cartoccio di giornale avvolto attorno alla lampada, ci si smagliava addosso in matasse e garbugli tremanti, con effetti di lanterna magica che bastava la mia mano a turbare.

Cautamente mi sollevai, scavalcai il trascurabile involto del suo corpo, raggiunsi fra letto e muro la radio militare, lasciata forse in pegno alla tenutaria da qualche caporale americano in bolletta. La canzone che ne sgorgò – l’indice della stazione era fermo su Tunisi – parlava francese; una voce di ragazza, a bassissimo volume, era felice dirimpetto a noi, al di là del tenue braccio di mare, e sporgendosi dal rettangolo di luce, tutto numeri e nomi, ci chiamava a dividere giovinezza, salute e speranza:

Un monsieur que je ne connais pas

me prendra un soir dans ses bras...

Guardai Marta. Giaceva col lenzuolo sugli occhi: avversaria o assente. E allora tornai a stendermi lungo il suo fianco, m’assopii, la sentii nel dormiveglia rizzarsi un momento per tossire; poi curvarmisi sopra con un’asma materna, da far pensare che volesse dirmi una cosa e non osasse, mentre era chiaro che non aveva altra carta, quella era l’ultima che le restava.

Subii sulla fronte quel soffio come una tiepida, frettolosa razzia che, se mi scosse un poco, non bastò a strapparmi dal fondo di burrone dove un primo piano di vecchio mi fissava; una serpaia di rughe fra due lembi di bavero; e mi faceva segno d’andarmene, si curvava a raccogliere ai suoi piedi con mano pigra una pietra. “Chi sei, che vuoi?” gli chiesi nella mente, mentre, senza aspettare che mi rispondesse, riaprivo gli occhi, recuperavo il mio nome, il mio peso, il mio tempo, la mia cubatura d’aria dentro la stanza. Ma la musica pronunciava le sue ultime battute, non era passato che un minuto, dunque.

Ora lei s’era rimessa supina e sembrava guardare con ostinazione un punto del lenzuolo ai suoi piedi, dove da uno strappo della tela un alluce di cera infantilmente sbocciava, sola nudità visibile, insieme al volto e alla gola e alle braccia aperte in forma di croce.

“Baciamoci sulle labbra senza paura” disse poi. “Possiamo farlo.” Ma io mi strinsi solo di più contro di lei, insinuai una mano sulla sua pelle, cercai le lane dell’inguine, le timide eminenze del grembo e del seno, se mai potessi aprirmi la strada sino a stanarlo, il gheriglio di male che nascondevano sotto di sé.

“Da quanto tempo un uomo non mi toccava. Ricordo solo un orecchio freddo sulle mie costole, il mattino che giunsi alla Rocca.”

Diceva la verità? Se n’era stata in salvo dagli uomini per tutti questi mesi, lei che a me, dopo tutto, aveva ceduto con indifferenza? Esitai a crederlo, ma non persi troppo tempo a pensarci, ora che lei pareva decisa a parlare e mi sentivo così bene disposto all’ascolto.

Ero in quello stato d’ignavia e fiducia dei sensi che suole seguire l’abbraccio amoroso: quando si vorrebbe assecondare sopra una barca la fluenza lenta di un fiume, udendo a poco a poco diradarsi sotto la camicia le intemperanze del cuore. E mi piaceva lasciarmi prendere dalla lusinga della sua voce, nonostante mi desse pena il luogo, così ingombro com’era di presenze intruse, dai canterani di legno vile, usati dagli anni, alle specchiere a stampe ruffiane, al seggiolone di sparto a trecce, dove s’agitavano al vento d’un ventilatore i nostri abiti accatastati, come volessero simulare la siluetta d’un babau di stoffa, svolazzante al centro di un campo.

“Per questo” disse Marta “sono venuta con te stasera. Volevo andarmene dal mondo col ricordo di una carezza giovane addosso, dopo tante carezze di vecchio.”

Ahimè, si sforzava poco di non contraddirsi. Ma io, come poc’anzi avevo dubitato fra me e me della sua dichiarazione di antica astinenza, così non mi sorpresi ora di sentirle ammettere, e sia pure per enimmi, quello di cui m’ero persuaso sin da principio: che fosse stata col Magro, per debolezza o speculazione, su quel lettuccio del capannone o altrove... Ebbene, non me ne importava. Non m’importava più della Rocca, dei miei pietosi compagni, ognuno col capo sul ceppo, in attesa; oppure occupati, con lamette e legacci, a tentare rudimentali suicidii nelle latrine. Né di lui, di quell’orbo e bizzoso Geronte, un antipapa dalla mitra di cenere, accampato nel ventre della Rocca, come le sue culture di germi nelle pappe di gelatina. Anzi il pensiero di averlo forse tradito mi diede un sussulto di soddisfazione, mentre passavo adagio la mano sui capelli troppo corti di Marta.

“E questi?” chiesi solo.

“Oh” fece “ne avevo tanti sulle spalle quando giunsi nella città, nel freddo. Subito odiai la città, i banconi di zinco delle latterie, le scale a elice delle pensioni, i vetri appannati dall’umido, simili a lavagne che l’unghia riga di segni e il palmo pazientemente scancella. Ancora oggi scrivere sulla nebbia è una ginnastica che mi distrae. Solo che qui la materia prima fa difetto, e debbo pensarci a suscitarlo io stessa, col mio poco alito, quel visibilio di nuvole e veli, se voglio tracciarvi dentro il mio nome e circondarlo di piccole croci.”

Le piaceva commiserarsi, con evidenza. Senza che questo le impedisse di cercare, divagando, di depistarmi. Sicché mi misi in guardia, convinto che avrebbe ancora inventato, ma non dispiaciuto di ciò, poiché anzi mi venivano sempre più innamorando le sue cantilene, le sue ipotesi di vite inesistite.

“Non mi piace il mio nome” disse poi. “Meglio Isadora o Fanny. Come la Elssler, la mia dea. O Berta. È il nome di una signora in un romanzo che ho preso alla Biblioteca Circolare. Io ero nata per un destino così. Con tristezza e decoro. Un marito austroungarico in colletto di lontra, i sabati al concerto, le domeniche al Prater. Lo avrei tradito, ne sarei stata infelice. Bello. Di Körmendi” proclamò con tale autorità che non ebbi cuore di correggerla. Tanto più che ora s’era messa a piangere, effettivamente:

“Morire, Dio mio, andarmene. Senza più estati né balli d’estate. E dei passi dietro la porta del camerino, dei buchè, dei baci, dei segreti che so solo io, più niente, più niente... Scusami, è quella canzone di poco fa: un signore che non conosco ancora mi prenderà fra le braccia, una sera... Parole che per me non vogliono dire più nulla, oppure significano un signore vestito di nero.”

Andai a spegnere la radio, dove alla musica era subentrato un indignato monologo in arabo, e tornando:

“La morte” volli scherzare “non è un signore, ma una dama senza naso, ed è morta, le bombe dei bombardieri inglesi l’hanno sotterrata nel cortile di un vecchio palazzo, di fronte a Villa Bonanno, dove su un muro una mano d’ignoto la dipinse cinque secoli fa.”

Scosse il capo: “Sai bene che non è vero, l’affresco s’è salvato. L’ho letto sul giornale, c’erano le foto. Non lei, è Marta ch’è morta. Marta morta, elementare cambio di vocale, da Angolino della Sfinge, nella pagina dei giochi. Sono morta, un pezzetto per volta. Quel che rimane è un soffio, una brezza glaciale, un poco d’aria remota, come quella che i crociati riportavano dal Santo Sepolcro dentro un’ampolla di vetro: un niente incartato in un niente. Vuoi sapere a chi rassomiglio in questi giorni che sopravvivo? A una folaga impallinata, con moncherini cerulei che non smettono di sanguinare. E tuttavia saprò rassegnarmi, vedrai. Finivo sempre con l’alzarmi, le mattine d’inverno, al casello.”

“Ma questi?” tornai a chiedere, cocciutamente.

“L’ho visto morire” proruppe, e non capii per un pezzo di chi parlasse. “Ci presero insieme in un sotterraneo di campagna, scavato dietro la stalla per distillarci di nascosto la grappa. E loro cercavano nel deposito la grappa dell’anno prima, per questo ci hanno trovato. Lo fecero uscire con le braccia in su, lui trascinava un poco il piede, per un suo vecchio reuma o incidente di caccia, non mi ricordo. Feci in tempo a guardarlo mentre risaliva la scala di terra battuta, e lo accompagnavo alle spalle. Coi pantaloni borghesi, alla zuava, il collo chiuso da un camiciotto di tela grezza, i capelli attaccati dal sudore alla nuca, saliva verso la luce, sciancato, spaventato e smargiasso come un eroe. Era così alto, dovette chinarsi sbucando dal cunicolo, annaspare col braccio per appoggiarsi alla volta, misurando quasi l’aria sopra il suo capo. Rammento, a partire dall’ascella, sul camiciotto la stampa bianchiccia del suo sudore, l’odore di volpe della sua paura. Era lui, ora, la volpe circondata fra i fucili e i cani, e non gli restava che morire. Andava alto e stanco, parve a un tratto che avesse solo sonno e cercasse un posto giusto nell’erba per il suo corpo troppo lungo. Io venivo dietro, fra due che prima m’avevano tenuto i polsi e poi smisero, si staccarono da me sempre più, finché uno si volse a gridarmi furiosamente d’andarmene, che non rompessi più le scatole. Ma io ero serva della mia irragionevole pazienza, e del fruscio che facevano, ogni secondo, nel grano che già spigava, quei passi d’uomo davanti a me. E seguii dunque, benché da lontano.

“Varcammo il Ponte del Vecchio Mulino. Mi corse e si perse nella mente il pensiero che non gli sarebbe piaciuto farsi vedere da me mentre moriva, come non gli piaceva spogliarsi se lo guardavo. E intanto la compagnia s’ingrossava: dalle cascine usciva gente e imprecava contro di lui. Una bambina in sottana mi venne accanto, avida, leggera. Mi chiese chi ero, non so quante volte, poi s’avvilì e tacque, camminandomi al fianco con aria offesa, come una anziana dalle calze lunghe. Sudavamo sotto il sole, nelle nostre vesti ancora pesanti. Mi dissi ch’era come in tutti i cortei funebri dei poveri – sebbene stavolta il morto fosse lì, davanti a tutti, alto e tremante – quando si affretta il passo e qualcuno rimane indietro, lo perdiamo per sempre.

“Un latrato ci accompagnò da una roggia, un carro era in riposo presso il ciglione, con le braccia puntate al cielo e, sotto, nel piccolo astuccio d’ombra, un uomo che dormiva, aprì gli occhi, li richiuse. Non si turbò il cavallo al vederci passare, ch’era legato a una pianta, poco lontano. Andavamo. Lui si voltò, ma non mi vide. C’era in ogni suo atto, oramai, un segno di sollecitudine irosa, non più di paura. Come se avesse dimenticato un oggetto e tornasse in fretta in un luogo inutile. Mentre il treno già fischia, e l’alba è qui, e bisogna partire.

“Pensai che mi sarebbe piaciuto stargli accanto, dopotutto, legata alla sua mano, e aspettare insieme a lui il colpo di fiamma fra gli occhi, e il buio, dopo, il balsamo freddo nel sangue, per sempre. Come tutti sono intelligenti e cattivi attorno a lui, pensai. No, non sono cattivi, sono finti, hanno schioppi da giardino d’infanzia, non possono sparare che a salve. E intanto andiamo, e nessuno si ferma, nessuno dice di no. È un uomo, lui, che ne sanno loro. Hanno il palato di carta vetrata, hanno il sonno che gli mangia gli occhi, devono finire e dormire, e domani ricominciare. Hanno piedi di Cristo, stanchi, sporchi, questa scarpa morde, quest’unghia s’incarna e va in pus, la barba contro il bavero punge. E camminano, camminano. Ecco, io sono rimasta sola, prima dieci poi venti metri dietro di loro, con questa bambina avida che trotta al mio fianco. Che vuol vedere? Un uomo morto, un uomo nudo? Non sa che veder morire un uomo è più importante che dormirci insieme?

“Si fermarono sull’orlo del bosco. Vidi il comandante dare l’alt, spostarsi per usare l’ombra di un ippocastano, lo vidi in faccia, ora. Era giovane ma con barba e crini di vecchio, dove si scorgevano chiazze spelate, una malattia forse o un sigillo, una solenne tonsura. Passeggiava senza guardare nessuno, dinanzi al plotone, e agitava le labbra ma non parlava. Ora Andrea stava in piedi, e immobile, lo avevano bendato. Una benda immacolata, la sola cosa pulita addosso a lui. Non un fazzoletto, proprio una benda da ospedale, fresca, pulita, tranquilla, per chiudergli la vista come si chiude una piaga che butta.

“Un vento sorse, mosse l’erba attorno alle sue scarpe di città, egli dovette sentirne la tenerezza sulle mani e si baciò appena, per berlo, labbro con labbro. Passò qualche minuto. Non s’udiva più nulla, neanche quel cane di prima, dalla roggia. Lui parve innervosirsi, alzava il capo come lo alzano i ciechi, non vedeva niente sotto la benda. Il comandante si decise alfine, si volse a quelli con un gesto che sembrò stanco, ed essi levarono i fucili, puntarono le canne lucenti. Le loro larghe facce operaie, battute dal mezzogiorno, non avevano ormai più che noia e pietà.”

Bussarono, ribussarono: l’orario era scaduto. Marta continuò, mentre si rivestiva, con voce sempre più tarpata:

“Sì, i capelli me li tosarono per questo, qualche giorno dopo, in città. Per essere stata con lui sino alla fine. E dissero che lui aveva fatto una cosa. E che io, un motivo ci doveva essere se m’aveva salvata dal lager. Tu non chiedermi se era vero, potrei acconsentire. Mentre non so più niente, fra me e quei giorni è calata una saracinesca senza fine. Mi ricordo solo di dopo, del mese che seguì. Vivevo in una pensione di lusso, soldi ne avevo tanti. Ma uscire divenne un’avventura mortale, da quando contro una colonna dei portici, su una prima pagina, in mostra, ebbi riconosciuta una mia foto di scena, Gisella o Coppelia, e dalla voce degli strilloni seppi ch’erano tornati a cercarmi, che ci avevano ripensato. Allora cominciai a fuggire, è la cosa che più mi affascina al mondo. Cambiai abbigliamento, indirizzo, abitudini. Andavo confusamente da una pigione all’altra, non durando in un posto più di una notte, come suole accadere al principio, quando il pericolo è nuovo e la valigia fiammante. Poi, e me ne sentii sollevata, mi accorsi che non sarei mai riuscita a salvarmi e che fra me e quell’uscio ch’era la libertà si moltiplicavano a ogni passo distanze disabitate, inabitabili, un’Artide senza oggetti. E che per attraversarla mi ci volevano movimenti imperiosi e allegri, una bravura che avevo perduto. Continuai lo stesso, si capisce, a cercare gente che m’aiutasse a sconfinare, dazieri, guide alpine, pescatori di lago, e tuttavia i valichi e battelli che mi promettevano, non riuscivano a esistere altro che sottovoce, in un retrobottega, una sera, entro un gioco di date e di cifre inutilmente preciso. Come precari fantasmi che più tardi, uscendo nella strada, avrei avuto cura di respingere con la mano verso un orizzonte dubbioso di giorni, un’impossibile domenica di là da venire. In verità, dell’aria di trappola in cui vivevo, dei chiavistelli che m’aspettavano a casa, dei trilli di telefono simili a nitriti d’apocalisse, non avrei saputo più fare a meno. A tal punto è vero che tutto, perfino la disperazione, sa tramutarsi in vizio dentro di me.

“Andare fra la gente fu allora come esporsi a una gogna terribile e dolce. Camminavo furtiva, maldestra, ridotta a lesinare i miei gesti come un prestigiatore invecchiato. A volte, mentre aspettavo che il semaforo cambiasse colore, mi bastava restare chiusa fra gomiti e dorsi, ed ecco non sapevo che mettermi a tremare, fossero pure innocenti gli occhi che sentivo posarsi sulla mia zazzera scarsa, la mia spudorata flagranza. Finché poi, rincasando alla sera, lui, Andrea, mi aspettava sulle scale, seduto su un gradino, e si baciava, come quel giorno nel bosco, labbro con labbro. Si faceva da lato, stringendosi al muro, per lasciarmi passare, ma esitando, come se appena all’ultimo momento, per un ritegno improvviso, avesse rinunziato a parlare. Solo nell’atto di girare la chiave nella toppa, mi lasciavo convincere di non averlo visto, senza per questo voltarmi a cercarne la controprova sul pianerottolo vuoto. Quelle volte mi addormentavo tardi e con una certa sordida mansuetudine, sicura che m’avrebbero presa nel sonno, sicura e felice che durante il sonno avrei veduto la porta aprirsi lentamente, come in tanti film l’avevo veduto, e uomini come cucinieri entrare in silenzio, con un’accetta nelle mani guantate di gomma rossa. Nessuno veniva, ma svegliandomi pensavo: basta; l’indomani sarei uscita presto, mi sarei buttata a terra gridando il mio nome. Seppure non era meglio uccidersi in disparte, senza sporcare, senza biglietti nella borsetta, dopo avere abbandonato i bagagli in un bagagliaio. E sarebbe stato il modo più spiccio di nascondersi e lasciare tutti con un pugno di mosche.

“Infine sputai sangue, e l’epilogo si scrisse da sé.”

XIII

Tali, press’a poco, le parole di Marta. E posso averci aggiunto qualche trucco di crome, ci casco sempre. Ma l’intonazione era quella: febbricitante, tenera, pomposa. Un assolo di belcanto, che pareva invocare nello stesso tempo applausi e misericordia. Non diversamente nell’isola, nei giorni di fiera, un cantastorie vestito di velluto, in piedi davanti a un telone dipinto, bandisce al popolo che lo circonda i tristi casi della baronessa di Carini; oppure in chiesa, in occasione del lutto più amaro, un tenore paladino compiange a una a una le piaghe di Nostra Madre dei Sette Dolori, e ci conficca la spada per sette volte nel seno.

Solo che lei, la malata, mentre si lasciava muovere da una consimile ridondanza di sentimento, dove entravano in parti uguali crepacuore e teatro, non per questo dava meno l’impressione di aver predisposto ogni abbandono con oculatezza e pedanteria; sì da far sospettare che, nei suoi volteggi da un trapezio all’altro, nessun rischio di caduta intendesse correre, ma solo indurmi a credere fino all’ultimo che sarebbe caduta.

Ora io so – ora che Marta è scomparsa e il suo nome è solo una cicatrice nella mia mente – che, così giudicandola, la calunniavo abbastanza, e che nel suo falsificarsi con bussolotti e parrucche il tornaconto entrava per una assai piccola parte. Più vero è che lei dal suo passato (unico bene che non fosse ipotecato e malconcio) ritagliava senza farlo apposta talune privilegiate sequenze, mentre respingeva con tutt’e due le mani in un ripostiglio della coscienza il prima, il dopo, il perché. Ne veniva un rimpiattino perpetuo fra menzogne e omissioni e ammissioni imperfette, quanto bastava a dare alle sue confidenze un bagliore intermittente e maligno, come di un faro in una sirte, manovrato da un traditore. E dunque io che già da un po’ per mio conto m’ero sentito promosso a protagonista di casi altrettanto alteri, avidamente ascoltavo, ma non senza una curiosità poliziesca, i recitativi e gli a parte del suo concorde copione, destinato con ogni verosimiglianza a mescolarsi e concludersi insieme col mio.

Certo, l’ho sperimentato invecchiando, in ogni esistenza, anche la meno offerta, si nasconde un germe di finzione e d’allegoria. Ma questo io allora lo sapevo solo dai libri, ero poco più che un ragazzo, e nella vita mi muovevo a tentoni, con le mani cieche di chi, quando l’elettricità si guasta, cerca invano nei molti cassetti di un mobile un mozzicone di stearica dimenticato. E quindi è con sempre maggiore imbarazzo che le prestavo orecchio, non perdonandole dentro di me nessuna delle tante incongruenze di casi e stagioni; e chiedendomi a ogni momento in virtù di quali mitologie di educanda lei si ostinasse a decorare di medaglie, oltre che di pietà, quel barbarossa cavaradossi, dietro il cui martirio profano una truce patria e mansione si nascondevano male; e se vi fosse strazio vero o soltanto truffa sotto quella parola, lager, affiorata e sommersa immediatamente nel fiume delle altre sue mille.

Ricacciai indietro, e fu forse uno sbaglio, le domande utilitarie, meticolose e crudeli che m’erano venute alle labbra. Umiliarla, mi dissi, significava perderla. E tacqui, dunque: ma d’ora innanzi sarei stato più attento; avrei osservato le manipolazioni della donna con sospetto e rispetto insieme. Come le mosse d’una partita che mi premeva almeno pattare.

Accadde a questo punto, non ne seppi mai il motivo, che lei si rifiutò di continuare a vedermi. Un regalo di profumi francesi che feci la pazzia di comprarle in città e le mandai col ragazzo, mi ritornò suggellato. E così senza risposta rimasero i successivi messaggi. Infine Adelmo morì, ne ho già parlato, e ogni tramite di comunicazione si spense.

Seppi, interrogando con astuzia la caposala, che non stava peggio del solito e tuttavia non si muoveva più dalla sua camera. M’intrigò il pensiero di quell’ulteriore confino, anche se in certo modo me ne sentivo meno mortificato, potendo attribuire il suo disinteresse per me a un più vasto proposito di negarsi al mondo e alle misere feste del nostro vivere insieme, di tutti noi, dico, lassù alla Rocca.

D’altronde, di una eccitazione diversa ero preda in quelle settimane. Se n’era andata senza preavviso la febbre, quel tepore, oltraggio e memento di ogni minuto, e mi sentivo stranamente rifiorire, benché il Gran Magro, ogni volta che mi batteva con le nocche sul torace, si calasse sul volto una celata di nume, speculando perversamente (così cominciavo a credere) sulle tante insidie del silenzio, al solo scopo di spaventarmi. Da quando, dopo la sera della recita, aveva smesso ogni premura verso di me, cercava come poteva di farmi male, con ritorsioni e dispetti da coetaneo che mi restavano inesplicabili. Contro ogni apparenza mi rifiutavo di attribuire al vecchio un movente così frivolo come la gelosia. Di che, poi? Se io e la sua pupilla (o compagna di letto, o quel che era) avevamo diligentemente evitato che nulla gli arrivasse all’orecchio dei nostri convegni; se lei se ne stava là sopra, quattr’ossa in sudario di percalle, fra tosse e sciroppi, a marcire? Che inciampo poteva dargli il mio conclamato e probabilmente platonico invaghimento per la ragazza? Non capiva che era per me un modo di riempire la bolla vacante dei giorni; di viverli con forza, irrigidendo ogni corda dei nervi in un atto assoluto? Era, per traslato, un no alla morte che io gridavo attraverso quelle indiscipline focose; tutta una suprema farmacia cercavo nella chimica dei sentimenti, posto che dall’altra non osavo sperare più aiuto. Senza contare, ma questo a lui disgraziatamente non avevo modo di farlo né credere né sapere, che, in conseguenza dell’odierna lontananza, e col trascorrere dei giorni, in me il calore per Marta s’era venuto un poco degradando in un miscuglio di commiserazione e risentimento: in parte per questa sua ripulsa senza scuse; in parte per un suo apparirmi, dopo l’ultimo incontro, un’icona artifiziosa e fanatica, che sembrava incarnare in sé ogni suppurazione e insensatezza dei tempi. Devo dirlo? Man mano che m’andavo riattaccando alla vita e germogliavano in me sotterranee, sfibrate speranze, sentivo sormontare in me per lei come uno svogliamento e quasi un’ombra di fastidio, se così posso interpretare quel conato d’igiene che mi spingeva a sgombrare la mente di ogni espansione e a lasciarla immobile e bianca. Va’ a capire poi perché, stando così le cose, mi mordesse tanto di non vederla, di non aver potuto dare un séguito a quei nostri pomeriggi in città: ore nemmeno tutte felici, di cui m’era rimasto un ricordo tra mellifluo e sazio, come quando si odora per troppo tempo una rosa. Così sconclusionato e a me stesso problematico essendo il mio teatrino d’affetti, non poté che sorprendermi, e ancora di più irritarmi, trovare un giorno, rientrando dalla sala di ricreazione, scritte a mano su un foglio di ricettario e fermate con un bicchiere rovesciato sul piano di vetro del tavolo, le parole che subito qui appresso ricopio:

O disgraziato Giufà, rinsavisci ormai,

e se una cosa è perduta, non stare a sperare che torni.

Giorni belli ne avesti, e, si suppone, anche notti.

Ora lei più non vuole. Tu fa’ lo stesso, Giufà;

sta sulle tue, non vivere infelice.

Lesbia peggiora, ma tu non stai meglio,

né fra i vivi sei altro che solamente un ostaggio.

Bada: il ludo d’amore alle flussioni di petto

non giova, né ti scherma dall’omicida lombrico,

m’intendi?, l’omicida lillipuziano girovago

(Cfr. RE ORSOpassim, Universale Caddeo).

Basta, lasciala in pace. Ché, se mi spazientisco,

pedicabo te atque inrumabo.

Non c’era firma, e l’intestazione era strappata, ma la calligrafia, e il malesalso cibreo, non potevano che appartenergli, e dunque, senza che mi trattenesse la diffida di una suora a guardia del pavimento appena lavato, attraversai il corridoio e mi diressi a passi veloci e vendicativi verso la camera del Gran Magro, odorosa di lisoformio.

Se ne stava, con segni d’abbandono, sdraiato su una poltrona, e questo, conoscendone le abitudini di camminatore, mi stupì. Come anche la libertà del vestiario, il livore delle occhiaie sotto gli occhiali, lo schieramento dei flaconi sul mobiletto da gioco che gli serviva da scrivania. Tutto in verità nel suo aspetto di aggrondato e presbite lemure sembrava mettere in difficoltà il visitatore indiscreto. Tanto che al suo “Salute”, pronunziato con disamore, non contrapposi il fiotto d’improperi che m’ero portato sulle labbra, bensì un conforme e quasi servile “Salute”.

“Oh”, cominciò lui stucchevolmente, senza mutare l’ossimoro ch’era ogni volta il suo esordio, “oh il mio impaziente paziente. Suvvia, per quei versastri senza capo né coda non prendertela più di tanto. Non era un avvertimento mafioso, ma uno scherzo dei miei; un pretesto per inaugurare il verso libero. E soprattutto per fare la pace. Ma poi, sei sicuro d’essere tu il citrullo Giufà? Non potrebbe trattarsi addirittura di me? Ascolta:

O misero Mariano, smettila di fare il pazzo,

e se una cosa è kaputt, convinciti ch’è kaputt...

Ridacchiò: “Non è una variante più cotta?” E aggiunse, a voce più bassa: “Mariano kaputt, kappaò, per via di Lesbia kapò...

Mi guardai dal rispondere, con lui conveniva aspettare. D’altronde, non ci fosse stato altro motivo, ho sempre diffidato dei vecchi.

Ma lui: “Potresti almeno sorridere, no?” fece. “Non ti diverto?” E dopo un po’: “Va’ là, ti passerà giocando, togli quelle medicine, metti a posto la scacchiera. E prenditi pure la mossa, te la regalo.”

Eseguii, la collera m’era sbollita, lasciando in sua vece solo l’agrume di scoprire cosa significasse questa mess’in scena e che rapporto avesse con quel nostro scaleno triangolo, di me, lui e Marta. Quel che ci voleva perché mi distraessi dalla partita; e m’infuriassi, vedendo la sua Regina, col sussidio di un Alfiere alle spalle, penetrare entro i placidi tabernacoli del mio arrocco e venirsi a proporre impudicamente a una triplice presa in G uno, immolandosi sì ma non senza ribadire intorno al mio Re un soffocante cemento di pezzi. Tanto da permettere all’accorrente Cavallo di infliggermi il più ironico e doloroso dei matti: il matto affogato.

Ma mentre rovesciavo il mio Re, com’è d’uso: “Uberius” proclamò il mio avversario, e soggiunse, improvvisamente meditabondo: “Chissà perché il sacrificio di Regina dà a chi lo compie un così equivoco orgasmo, non lontano da quello amoroso?”

“Forse è un piacere da soriano” rispose dopo un po’ a se stesso. “Da gatto gesuita e boia. Il quale si diverte a prestare al sorcio una momentanea ilarità di salvezza, e lo disinganna poi di botto, vibrando la zampata mortale. Finge atti di pietà e intanto indossa il cappuccio nero.”

“C’è più di questo, suppongo” lo interruppi, e pensavo a me, a frate Vittorio, alla nostra riuscita, fallita, tentata imitazione della Passione. “C’è il prestigio e l’idea antica dell’olocausto, quella per cui il Figlio di Dio è sceso sulla terra a pagare per tutti, Lui solo; e ancora oggi qualche laico veggente promette sui giornali la redenzione perpetua all’umanità che verrà, a patto che una sola generazione, la nostra, si danni e perisca per tutte.”

Il riso fece fatica a forzare le sue labbra, i suoi zigomi bigi. E tuttavia affiorò, sia pure in forma di ghigno, e per poco.

“Figlio di Dio?” fece. “Di un centurione romano, vuoi dire. Sai come vanno subito in caldo le indigene coi militari in colonia.” E fischiettò Ziki Paki.

Ero abituato a laidezze così, fiori sparsi di quello che chiamavamo il Vangelo secondo Mariano, e mi vergogno di confessare che lo adulai con un’incauta risatina. Andò in sollucchero subito, smorfieggiando, e rincarò la dose con Un bel dì vedremo. Poi: “Oh sì”, riprese “non è che uno dei nostri, un pio galoppino, il rampollo di un presepe meticcio. E ti concedo ch’è morto bene, senza frignare troppo. Glorificando il gesto della morte altruista. Gli si potrebbe intitolare un complesso come m’insegnavano a Vienna. Il complesso di Cristo. Der Christuscomplex, suona benissimo, sembra il nome d’una vitamina. Sia dunque santificato l’Agnello pasquale, così in cielo come nel bosco, dove, legato a un palo, aspetta il trinciante del sacerdote. Ma dimmi, conosci la storia dei tre ladroni e dei cinque cappelli?”

“No” risposi, anche se era la terza volta che tornava a propormi l’abracadabra, e, quasi per scoraggiarlo dal proseguire, misi a caso sul grammofono un disco. Ma lui, mentre voci multiple strenuamente coniugavano Peccantem me cotidie, senza badarci o, tutt’al più, accordando al sottofondo qualche ammicco e lampeggio di connivenza, “I tre” disse “sono condannati a morte. Da un potente, in un tempo antico. Il luogo, lo preferisci in Asia, in Europa?”

“Importa?”

“No, non importa, ma è bene che ti pronunzi lo stesso. Mettiamo qualche puntello di circostanze alla favola.”

“Meglio il Vecchio della Montagna che il Grande Inquisitore” risposi, per contentarlo.

“Sia come vuoi, ma da te m’aspettavo Ponzio Pilato” fece il Magro e proseguì:

“Dunque il Signore degli Assassini offre a quelli un’opportunità. Dovranno, ciascuno a occhi bendati, indossare a caso un cappello fra i tre bianchi e due neri che sono a mucchio sul tavolo. Si salverà chi saprà con ragionate ragioni indovinare il colore del copricapo che ha scelto. Avviene che i tre, l’uno all’insaputa dell’altro, estraggano tutti, unanimi, il bianco. Sbendati, si guardano. Ora una cosa è chiara: che può salvarsi solo chi veda addosso ai compagni due cappelli neri, e possa quindi per esclusione dedurre il colore del proprio. Ma ognuno dei tre non scopre sulla testa degli altri che bianco, inesorabile bianco...”

“E allora?”

“I primi due riflettono a lungo, rinunziano. Vengono decappellati, decapitati. Ma il terzo indovina. Sta a te dirmi come e perché.”

“Se indovino anch’io, posso sperare in una sfinge benigna” chiesi, facendomi serio, mentre un sospetto mi balenava, che quell’arzigogolo fosse o pretendesse di essere una parabola. E aggiunsi:

“Anche per il mio male vale la stessa percentuale di sopravvivenza, lo dicono le vostre statistiche.”

(Era vero, l’avevo letto su un trattato di Sebastiano, e ne avevo fatto parola a lui e ad Angelo, insieme. “Uno su tre” avevo detto, e ci eravamo sorpresi tutt’e tre a guardarci malinconicamente ridendo e pensando tutt’e tre la medesima cosa.)

“Non è bassa, contentati. Era più bassa per Deucalione o Don Blasco” rispose, sbalestrandomi al punto che non stetti a chiedergli conto di avere schivato la mia domanda di prima, ma chiesi: “Don Blasco?” Al che lui: “Oh, un arcavolo mio di Tarragona, un almirante superstite dell’Invincibile Armata. Nuotò tre giorni e tre notti. Lo trovi dietro di te, sul quinto ramo a destra dell’albero...”

E a questo punto richiuse sugli occhi i macigni delle palpebre, parve assopirsi senza riguardo.

La musica s’era taciuta, intanto, e mi sforzavo, senza riuscirci, di sciogliere il rompicapo. Eppure non me n’andai, ero certo che non dormiva ma mi spiava dal suo buio, e aspettava. Allora mi distrassi, gironzolai per la stanza, perlustrando, occhieggiando, ora la fogliolina Don Blasco sulla quercia genealogica, ora la fotografia della moglie trafitta da spilli nel cuore, ora i grossi fascicoli manoscritti che teneva ammucchiati sul ripiano della stufa, legati con un elastico. Tuttavia ogni tanto mi voltavo di sorpresa, finché giunsi a ghermire le sue pupille puntate sulla mia schiena, un istante prima che tornassero a rintanarsi nella loro borsa tranquilla.

“Ti ho svegliato?” finsi, mentre mi veniva in mente che non gli avevo ancora chiesto cosa avesse e se stava così male come sembrava. Quasi avesse intuito il mio pensiero:

“Una cirrosi” disse. “Morirò prima di te.”

E ancora una volta, fra soffi e raschi e pizzicati di violoncello, un borboglio assai simile a un riso gli si mosse in fondo alla gola, mentre il consueto ghignetto gli tramutava la bocca.

Si era alzato, ora, aveva inforcato sui piedi scalzi, dopo aver tribolato senza profitto con le stringhe di Gordio delle sue polacchine, un paio di sformate calosce, e sulle spalle seminude, sulla canottiera appiccicata per il sudore e che bucavano i marziali pungiglioni del suo pelame, s’era buttato un asciugamano. Così camuffato, ciabattando e aiutandosi col bastone, attraversò la stanza, fino a me, venne a porsi al mio fianco dinanzi la libreria. Fu la prima volta che veramente mi ripugnò: quel riso, il pezzetto di carnagione decrepita e bruna sotto la calottina di seta, l’odore di bertuccia inutilmente dissuaso da un’irrigazione di brillantina recente, tutto veramente sapeva e parlava di sfacelo e di spregevole morte.

“Ragazzo”, disse il vecchio, e puntò il dito su un pacco inceralaccato che s’intravedeva sotto una pila di Testutt, “qui c’è l’unica e vera storia di Marta: testimonianze, certificati, interrogatori. Inventario clinico e catalogo dei suoi errori. Tutto su cuore, mente e polmoni. Con le mie pensate su questo, il mio colpo del cartoccio e arsenico lungo per te. Tra qualche settimana lo leggerai. Allora di noi tre sarai rimasto tu solo.”

Non nascosi la mia meraviglia. E lui:

“Guarirai” mi disse. “Ti salverai.”

Lo udii con molto più sospetto che gioia, e mi tornarono a mente i ladroni di prima. Anche perché una superstizione mi aveva colto proprio in quell’istante dal vedermi riflesso, ahimè decollato, in una specchiera di comò troppo bassa che gli stava dietro le spalle. Ma lui di nuovo mi precedette: “Intendimi, le probabilità per i tre non sono pari. Anzi per i primi due sono zero. Tuttavia è la loro sconfitta che garantisce al terzo di trovare la chiave. Per cui viene da chiedersi: essi se ne rendono conto? La loro rinunzia e morte sa di servire a chi verrà dopo di loro? Non è questo che i teologi chiamano soddisfazione vicaria? Perché, vedi, l’azzardo assai bello del ragionamento dell’ultimo è di puntare la vita sulla scienza di sacrificio dei due che l’han preceduto. Solo a questo patto il birillo casca e la palla va in buca. Te lo ripeto, è la morte dei primi che aiuta il terzo a salvarsi. È chiaro?”

Feci di no col capo, non si scoraggiò.

“Supponi” riprese “di essere rimasto solo col tuo cappello dal colore che non sai, e le due teste mozze, in bianco, ai tuoi piedi. Prova a chiederti che mai sarebbe successo se il tuo cappello fosse stato nero. Mettiti nei panni degli altri, pensa col loro cervello.”

Cominciai a intravedere una luce:

“Se il mio cappello fosse stato nero, ebbene, il secondo...”

“Si sarebbe salvato, avrebbe capito d’avere in capo un cappello bianco, di non poterlo avere che bianco. Poiché, se anche lui come te avesse avuto il nero, il primo...”

“Giusto, il primo, vedendo due neri...”

Qui la risata del Magro si fece clamorosa, impertinente: “Acqua, fuochino, fuoco!” gridò quasi, e concluse:

“Come vedi, ogni enigma ha il suo specchio. E in ogni trinità c’è una coppia di martiri e uno sciacallo che campa su loro. Sei tu, puoi rivestirti: non era per te la terza croce piantata sul Golgota della Rocca... E ora basta, vattene via. Se no c’è questo: argumentum baculinum.”

E mi puntò contro scherzosamente il bastone.

XIV