sabato 28 agosto 2021

IL RAZZISMO Pierre-André Taguieff



IL RAZZISMO

Pierre-André Taguieff

Quello che di solito è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto. Con questo passo di Hegel, Pierre-André Taguieff ci introduce al problema del razzismo, delle sue origini e dei suoi presupposti, così come delle sue attuali metamorfosi. Mettendoci subito in guardia dal considerarlo, in quanto noto, un fenomeno conosciuto. Dopo la sconfitta del nazismo e del suo credo nella superiorità della razza ariana, nessuno oggi potrebbe definire il razzismo come una dottrina che si fonda sull’affermazione di una gerarchia tra le razze umane. Si tratta allora, se si vuole combattere un fenomeno così diffuso, di pensare a una sua ridefinizione. E ciò comporta, contemporaneamente, la necessità di una ridefinizione dell’antirazzismo. il quale si trova di fronte alle nuove forme di razzismo dell’epoca post-nazista: la persecuzione delle minoranze, la xenofobia anti-immigrati, le manifestazioni e le guerre etnonazionaliste.

Prefazione

Ci proponiamo di rispondere a una domanda solo in apparenza semplice: in quale modo si pone oggi il problema del razzismo? Cercare di rispondervi significa ripensare il razzismo ma anche l’antirazzismo. Nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito (1807), Hegel lancia questo avvertimento profondamente filosofico usando una sorta di gioco di parole: “Il noto in genere, appunto perché noto, non è conosciuto” Il “razzismo” è ben noto, eppure non lo si conosce. Né lo studio del razzismo né la lotta contro le sue attuali manifestazioni potrebbero fondarsi semplicemente su una definizione del seguente tipo: “Il razzismo è la dottrina che afferma l’esistenza di una gerarchia tra le razze umane”. Nel razzismo non abbiamo a che fare solamente con una dottrina, e non tutte le pratiche razziste presuppongono l’esistenza di una scala di valori tra gruppi umani, in parte biologici in parte culturali, chiamati “razze”. Dobbiamo partire da un apparente paradosso, ben noto per quanto non ben sondato: mentre la parola “razza” è diventata “tabù”, ed è comunque ideologicamente sospetta e quindi viene evitata, dopo la sconfitta del regime nazista che l’aveva massicciamente sfruttata a fini propagandistici, la parola “razzismo”, al contrario, non solo è comunemente utilizzata, ma viene applicata a un numero indefinito di situazioni, ed assume quindi una funzione vaga, come approssimativo sinonimo di esclusione, di rigetto, di ostilità, di odio, di paura fobica o di disprezzo. L’abuso della parola “razzismo” e la desemantizzazione che l’accompagna sono in contrasto con la delegittimazione scientifica e politica della nozione di “razza”, e con il carattere di “tabù” del termine, che non viene più utilizzato nello spazio pubblico se non tra virgolette. È come se, in modo quasi impercettibile, il linguaggio ordinario e il pensiero comune avessero scoperto che il razzismo si poteva manifestare in modo non esplicito e, più precisamente, che nella maggior parte dei casi ci si trovava di fronte a delle modalità d’esclusione rilevanti una sorta di razzismo senza razza(e), senza il minimo riferimento a delle categorie razziali definite e, aggiungo, alla tesi della diseguaglianza. Il che non significa soltanto che la parola “razzismo” appare impropria rispetto ai nuovi modi in cui viene utilizzata, ma che anche le sue definizioni classiche sono insufficienti. In realtà, nel campo delle formulazioni ideologico-politiche del razzismo, il vecchio si mescola al nuovo: il sostenitore di un discorso razzisteggiante, che di solito insiste sull’incompatibilità delle culture, delle mentalità o delle civiltà (come, ad esempio, l’europeo-cristiana e l’arabo-musulmana), al fine di giustificare delle misure di espulsione degli immigrati ritenuti “inassimilabili”, in una particolare congiuntura può far ricorso a formulazioni meno eufemistiche e dichiarare pubblicamente che egli crede nella “diseguaglianza delle razze”. Nei loro discorsi anti-immigrati, molti leader degli attuali movimenti nazionalisti e xenofobi oscillano tra l’affermazione “classica” della diseguaglianza delle razze e le nuove varianti sulla differenza culturale, o sul fatale antagonismo tra le diverse civiltà.

Si tratta, in questo caso, di uno dei tanti paradossi concernenti la definizione, e sul quale bisognerà ritornare. “Tutto è stato detto. Probabilmente. Se le parole non avessero cambiato senso, e i sensi, parole.” Scelgo questa frase di Jean Paulhan perché essa esprime perfettamente, e in modo del tutto involontario, la prima e la maggiore difficoltà incontrata da chi cerca di comprendere qualcosa dei cosiddetti fenomeni “razzisti” di cui parla e che analizza. Sulle terre mobili del razzismo, o meglio, dei razzismi, tutto è in continua ridefinizione, tutti i dati subiscono delle metamorfosi, mentre gli elementi simbolici si rinnovano. Non solo i contesti sociopolitici non sono più quelli di un tempo, e permettono dunque nuovi usi degli stessi termini o il parziale rinnovarsi del vocabolario razzisteggiante, ma le rappresentazioni e gli argomenti di cui ci si serve non sono più sempre direttamente identificabili come “razzisti”. Quando il razzismo non è più evidente, si pone, allora, il problema di quali siano i criteri per identificare o riconoscere le sue diverse forme.

Bisogna innanzitutto sapere se il razzismo può essere considerato come un fenomeno universale, che, di conseguenza, si confonderebbe con l’etnocentrismo* di cui riattiverebbe certe caratteristiche: autopreferenza di gruppo, ostilità o intolleranza rispetto ad altri gruppi, tendenza a svalutare le loro forme culturali. Il maggior inconveniente di questa definizione estremamente ampia del razzismo consiste nel fatto che le frontiere di quest’ultimo con la xenofobia*, il tribalismo o l’imperativo territoriale diventano impercettibili.

Ma se il razzismo riattiva alcuni atteggiamenti propri all’etnocentrismo, esso non può comunque essere ridotto a quest’ultimo. Certe sue caratteristiche hanno un luogo e una data di nascita: che sia considerato come un sistema di dominio o come un modo di pensiero, il razzismo costituisce un fenomeno storico, che si può osservare emergere in Europa all’alba della modernità. Invenzione occidentale, il razzismo come ideologia e insieme di pratiche sociopolitiche si è in seguito universalizzato. I suoi schemi costitutivi si sono diffusi in tutto il mondo attraverso l’imperialismo coloniale, il sistema schiavistico e il nazionalismo*, e, più di recente, attraverso la banalizzazione delle utopie eugenetiche ed etniciste — “purificare” la razza, difendere o realizzare la “purezza” di un’origine etnica* o culturale.

Ma, d’altra parte, restringendo troppo la definizione del razzismo, si rischia di non tener conto né delle sue metamorfosi ideologiche, né della diversità dei suoi nuovi contesti sociopolitici. Si tratta, allora, constatata la diversità delle dottrine e delle pratiche razziste, così come la loro interferenza con numerosi altri fenomeni sociostorici, di porre il problema dell’unità del razzismo. L’ipotesi del “neorazzismo” non sembra escludere la costruzione di un modello di intelligibilità del razzismo.

Ma dopo questo lavoro di ridefinizione del razzismo, ci sembra necessario porre anche la questione dei fondamenti della lotta contro il razzismo. L'antirazzismo deve essere interrogato rispetto ai suoi principi, ai suoi fini, ai valori che si sforza di incarnare o di realizzare. Fenomeno ideologico e istituzionale relativamente recente, la cui attuale legittimità deriva dalla generale condanna delle dottrine naziste, l’antirazzismo è destinato a ripensare se stesso dinanzi alle nuove forme di razzismo dell’epoca postnazista, legate alla persecuzione delle minoranze, alla xenofobia anti-immigrati, alle mobilitazioni etniche o etnonazionaliste violente. Come etica, l’antirazzismo non può sfuggire a certi dilemmi, che è necessario formulare in modo chiaro. Come politica, viene catturato dall’effetto perverso delle passioni o degli interessi politici e strumentalizzato da essi. Oltre alla questione filosofica dei suoi fondamenti, l’antirazzismo pone il problema pratico della sua reale efficacia.

Parte prima

Problemi di una teoria del razzismo

1

Un fenomeno inerente
alla natura umana?

Il paleontologo Stephen Jay Gould non esclude che i pregiudizi* razziali possano essere “altrettanto antichi quanto la storia a noi nota”. Si avvicina così alla tesi dello storico Joel Kovel, che suggerisce che “i fenomeni razzisti sono onnipresenti nella storia”, e che “l’odio razziale è ancorato nella natura umana”. In questa prospettiva, il razzismo non si distingue fondamentalmente dall’etnocentrismo, né dalla xenofobia. Più precisamente, per coloro che riconoscono alcune caratteristiche propriamente moderne nel razzismo, quest’ultimo appare come la forma assunta nella modernità dagli atteggiamenti, dalle tendenze e dai comportamenti etnocentrici. Si tratta della visione continuistica del razzismo, su cui si basa la definizione molto ampia di quest’ultimo. Essa consiste nell’identificare l’etnocentrismo, fenomeno antropologico universale, come fonte o origine del razzismo, il quale viene ridotto, di conseguenza, a una delle sue manifestazioni storiche, al suo ultimo “derivato” moderno.

Proprio all’inizio del suo libro, Folkways(“Costumi popolari”), apparso nel 1906, il sociologo americano William Graham Sumner introduce e definisce nel seguente modo il concetto di etnocentrismo: “Il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è il centro del mondo e il campione di misura a cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri, nel linguaggio tecnico va sotto il nome di ‘etnocentrismo’. Ad esso corrispondono dei costumi popolari che sono destinati a giustificare sia le relazioni all’interno del gruppo sia quelle del gruppo con l’esterno. Ogni gruppo esercita la propria fierezza e vanità, dà sfoggio della sua superiorità, esalta le proprie divinità e considera con disprezzo gli stranieri (outsiders). Ogni gruppo pensa che i propri costumi (folkways) siano gli unici ad essere giusti, e prova soltanto disprezzo per quelli degli altri gruppi, quando vi presta attenzione”.

Questa definizione dell’etnocentrismo come un fenomeno globale (insieme cognitivo, affettivo, valutativo, normativo) e come un atteggiamento-comportamento universale presuppone la distinzione elementare tra il proprio gruppo (il gruppo d’appartenenza del soggetto) e gli altri gruppi, tra “noi” e “gli altri”/“loro”. Ma “il fatto essenziale”, continua Sumner, è “che l’etnocentrismo conduce ogni popolo a esagerare, ad accentuare i tratti particolari che appartengono ai propri costumi e che lo distinguono dagli altri popoli”. Questa concentrazione sulla differenza del proprio gruppo è contemporaneamente una sopravalutazione delle qualità ad esso attribuite in modo esclusivo. L’autopreferenza del gruppo implica il disprezzo o l’intolleranza nei confronti degli altri gruppi.

Il fatto di definire se stessi come rappresentanti dell’umanità, ad esclusione di tutti gli altri, di erigere il “Noi” (io e i miei simili, i miei prossimi, ecc.) come l’Uomo stesso, in opposizione ai “non:Noi’’, corrisponde all’atteggiamento che classicamente viene definito come etnocentrico. Esso consiste nel porre una distinzione fondamentale tra due categorie opposte e di valore diverso: “Noi, i civilizzati” contro “loro, i selvaggi”, in cui possiamo riconoscere l’opposizione tra natura e cultura (barbarie, primitività). Ma proprio la scissione “umani/selvaggi” è un’eredità del pensiero selvaggio, come suggerisce Claude Lévi-Strauss; “Quest’attitudine di pensiero, in nome della quale i ‘selvaggi’ (o tutti coloro che si decide di considerare come tali) vengono respinti al di fuori dell’umanità, è proprio l’attitudine più rimarchevole e più caratteristica di questi stessi selvaggi”. In breve, il vero selvaggio è colui che non relativizza le evidenze del proprio gruppo di appartenenza, che non pensa in modo decentrato.

Lévi-Strauss lascia intendere che “questo punto di vista ingenuo, ma profondamente ancorato nella maggior parte degli uomini” sia universale: il rigetto dell’alterità culturale al di fuori della cultura, nella natura, ossia il gesto etnocentrico, è “la più antica attitudine”, che “poggia probabilmente su fondamenti psicologici solidi, poiché tende a riapparire in ognuno di noi quando ci troviamo dinanzi a una situazione inattesa”. Non essere più selvaggi significa, innanzitutto, uscire dal tunnel cognitivo dell’etnocentrismo. Infatti, la naturalizzazione delle forme culturali “più distanti da quelle con cui noi ci identifichiamo” implica una disumanizzazione dell’altro. È questa, dunque, la tesi: l’etnocentrismo porta alla disumanizzazione dell’altro. Lo testimonia la natura delle metafore bestializzanti e patologizzanti impiegate: gli altri, in quanto stranieri, “cattivi” o “malvagi”, vengono assimilati a delle “scimmie” o a delle “uova di pidocchi”, o semplicemente ai “pidocchi”, a dei “vermi umani”, e, scorrendo la letteratura giudefobica e biologizzante a partire dalla fine del XIX secolo, a dei “parassiti”, a dei “ratti”, dei “virus” o dei “bacilli”, a delle “tenie” o a dei “vermi solitari”, ecc. In breve, nella maggior parte dei casi, a degli animali inferiori, ripugnanti e pericolosi, parassiti e/o predatori. Bisogna, allora, “pulire”, “disinfestare”, “spidocchiare”, “disinfettare”, “purificare”, “epurare”, “eliminare”. A questo punto, la continuità tra etnocentrismo e razzismo sembra balzare agli occhi.

Nella modernità, la disumanizzazione dell’altro si compie attraverso la creazione politico-scientifica di categorie di “sottouomini”, cioè di quasi-bestie. L’invenzione della “sottoumanità”, etichettata dalla scienza classificatoria, è il volto oscuro dell’umanesimo moderno, il suo rovescio negativo.

Se si segue quest’analisi dell’etnocentrismo, quest’ultimo sembra costituire un protorazzismo, e la lotta contro il razzismo sembra dover seguire le vie dello sradicamento delle evidenze etnocentriche. Il relativismo culturale, principio metodologico dell’antropologia, diventa la visione dell’umanità che sembra costituire il grande rimedio all’etnocentrismo così come al razzismo. Basterebbe, allora, la saggezza di Montaigne, che fonda la tolleranza pratica sul piacere del diverso e sul relativismo scettico. Si inizierà, dunque, affermando con il filosofo, come fa ogni etnologo: “La diversità di costumi tra una nazione e l’altra mi interessa solo per il piacere della varietà. Ogni uso ha la sua ragione”. E si sosterrà, poi, che “ognuno chiama barbarie un’usanza che non gli è propria”.

Ma è importante notare che l’etnocentrismo adempie a una funzione socialmente positiva: favorisce le attitudini e i comportamenti altruistici all’interno del gruppo d’appartenenza. Si tratta, però, di un altruismo limitato: i legami di simpatia e il sentimento di solidarietà non oltrepassano le frontiere dell’endogruppo. Vari studiosi, dal biologo Arthur Keith ai teorici della sociobiologia, con diverse argomentazioni, hanno sostenuto la tesi che i legami di gruppo non sono che un’estensione dei legami di sangue, che “lo spirito di gruppo” non è che un’estensione dello “spirito di famiglia”, o che l’etnicità non è che un’estensione dei legami di parentela. David Hume aveva avanzato la seguente ipotesi: “L’amore è una parentela mascherata”. L’“amore” preferenziale che l’etnocentrismo implica consiste nel privilegiare il proprio gruppo, o in ragione di una prossimità genetica (tesi sociobiologica), o, più verosimilmente, in ragione dell’efficacia simbolica dei valori e delle norme socialmente ammesse.

Un sociologo specialista del razzismo, Pierre L. Van den Berghe, dopo la sua conversione epistemologica alla sociobiologia, ha tentato di applicare il paradigma di quest’ultima allo studio dell’etnicità, interpretata come un’estensione della parentela, e fondata dunque su delle proprietà genetiche comuni. Quanto all’etnocentrismo, esso viene interpretato come un’attitudine fatta propria dalla selezione naturale, e, di conseguenza, si suppone che esso abbia una funzione o un valore di sopravvivenza, che rappresenti un “vantaggio selettivo” per i gruppi umani. L’etnocentrismo viene così ridotto alla preferenza per le persone imparentate dal punto di vista genetico. Il razzismo, in questa prospettiva, può essere definito come un’estensione impropria della preferenza endogruppale, fondata sulla selezione di certi segni di “razza” (fenotipici*), in contesti moderni variabili, in cui la norma somatica è a sua volta variabile.

Il genetista William Donald Hamilton, in uno studio apparso a metà degli anni Settanta, enunciava chiaramente l’ipotesi di una base genetica della xenofobia e della discriminazione* razziale. Nello stesso senso, i sociobiologi Edward O. Wilson e Richard Dawkins ammettono che i pregiudizi di gruppo, compresa la xenofobia, possono essere geneticamente determinati. L’idea guida, in questo caso, è che i membri di gruppi rivali, che si mostrano aggressivi gli uni verso gli altri per favorire, a quanto sembra, i loro rispettivi gruppi di appartenenza nella lotta per le risorse limitate e la difesa del territorio, realizzino più fondamentalmente un programma di azione che tende a favorire la conservazione e la moltiplicazione dei loro apparentati prossimi, ad assicurar loro un “successo riproduttivo” globale. I comportamenti xenofobi e razzisti, derivati dal “tribalismo” e dall’imperativo territoriale, rappresenterebbero, così, un “vantaggio selettivo” per il gruppo, in quanto contribuirebbero ad accrescere le chances di riproduzione dei suoi membri. È chiaro che un simile approccio, che riduce i comportamenti sociali e politici a degli schemi geneticamente determinati, non può spiegare la specificità, e a fortiori la singolarità, delle mobilitazioni xenofobe e razziste osservabili nella storia, né i movimenti etnonazionalisti contemporanei.

Se il pregiudizio razziale viene definito nel modo più ampio possibile, come l’affermazione o la convinzione che “gli altri popoli siano inferiori a noi in quanto sono differenti da noi”, il pregiudizio razziale appare, allora, come una componente dell’attitudine etnocentrica, o come un suo derivato. Ma il pregiudizio razziale non rappresenta il razzismo nella sua interezza, non ne esaurisce affatto il contenuto. Perciò, la riduzione del pregiudizio razziale a una figura (moderna) dell’attitudine etnocentrica, per quanto giustificata si consideri quest’ultima, non implica la riduzione del razzismo all’etnocentrismo.

2

Un fenomeno moderno
di origine europea

Si può sostenere l’ipotesi che l’impiego della parola razzismo sia legittimo soltanto per caratterizzare un fenomeno ideologico e sociopolitico apparso in Europa e nelle Americhe in epoca moderna. Ciò significa supporre che il razzismo, nel senso stretto del termine, costituisca un fenomeno occidentale e moderno, dotato di una certa complessità. È questa la visione modernista, del razzismo che noi distinguiamo dalla visione antropologica, la quale, invece, non gli riconosce un luogo di nascita storica e, in un certo senso, attribuisce il razzismo alla natura umana o alla natura della società. Si tratta della più fondamentale opposizione per ciò che concerne i diversi approcci al razzismo: se i sostenitori della modernità europeo-occidentale del razzismo possono divergere sulla datazione e l’identificazione delle sue forme originarie, essi si oppongono comunque in blocco ai partigiani dell’iscrizione del razzismo nelle attitudini e nei comportamenti primordiali dell’uomo. L’antitesi più profonda può essere enunciata nel seguente modo: coloro che pensano il razzismo come una derivazione dell’etnocentrismo o di un istinto primordiale (d’autoconservazione o d’autodifesa del gruppo), contro coloro che lo pensano come un prodotto della modernità, identificata come capitalista, individualista, egualitaria o scientista. Secondo l’antropologo Louis Dumont, per esempio, l’apparire del razzismo presuppone la disintegrazione delle società tradizionali, fondate sul valore della gerarchia, e sul dominio dei valori individualisti/egualitari: il razzismo, che si manifesta attraverso la somatizzazione e, più ampiamente, la biologizzazione delle differenze, è interpretabile come un riapparire patologico della “tendenza a gerarchizzare” in uno spazio sociale e culturale in cui gli uomini sono concepiti come “uguali e identici nella loro essenza”.

Sarebbe del tutto ingenuo, e falso, supporre che il razzismo esista solo dal momento in cui è stato nominato tale — per quanto concerne la lingua francese, per esempio, è noto che il termine, nella sua accezione divenuta corrente nel corso degli anni Trenta, data all’inizio degli anni Venti. La comparsa di un termine, che in più è un termine in “-ismo”, nel vocabolario generale, non costituisce un buon indicatore dell’emergere di un sistema di rappresentazioni e di credenze, come “il razzismo”, la cui particolarità è di rinviare a molteplici contesti storici, all’interno dei quali designa degli atti, delle pratiche sociali, delle forme istituzionali (dal moderno schiavismo al colonialismo, dai sistemi di sfruttamento o di segregazione alle imprese di sterminio sistematico).

Nei discorsi, l’esplicito gemellaggio della “dottrina delle razze” o della “mistica delle razze” con una visione manifestamente ostile nei confronti di certe categorie razziali o razzializzate*, preesisteva alla formazione del termine “razzismo” sin dal secondo terzo del XIX secolo. Il fenomeno razzismo ha preceduto il sorgere del termine che vi si riferisce esplicitamente.

Quello che noi chiamiamo “razzismo” emerge, dunque, in vari modi, nella modernità, a partire dal XV e dal XVI secolo, e tali modi vanno distinti fra loro. Tuttavia, il fatto che si consideri la molteplicità delle fonti o delle origini di questo fenomeno, non significa avanzare l’ipotesi secondo cui esse si sarebbero fuse tra di loro per un processo cumulativo. Queste diverse origini del fenomeno “razzismo” hanno dato luogo a tradizioni che sono rimaste molto indipendenti le une dalle altre, prima della formazione dei sincretismi “razziologici” della seconda metà del XIX secolo, amalgami più o meno riusciti di diverse eredità politico-intellettuali. Ma il pensiero razzista come fenomeno occidentale moderno presenta comunque un’invariante: la messa in questione dell’unità del genere umano, la tendenza a concepire le varietà della specie umana, le “razze” in senso tassonomico, come delle “specie umane” distinte, cioè come delle “specie” differenti. Il vacillamento dell’evidenza d’origine biblica dell’unità dell’uomo, nell’Europa erudita del XVIII e del XIX secolo, non ha potuto prodursi che, da una parte, a causa della radicale naturalizzazione dello statuto della specie umana all’interno dell’ordine del vivente (e più precisamente nel regno animale) attraverso l’iscrizione dell’umano nel sistema zoologico (Linné, Buffon), e, dall’altra, a causa del progresso dell’irreligiosità, dell’ateismo e dello spirito della libera ricerca. Questa congiunzione di fattori ha prodotto l’indebolimento della tesi biblica della creazione, da parte di un Dio unico, di un’unica coppia da cui deriverebbe l’intera umanità (monogenismo*). La radicalizzazione del pensiero razzista è stata, dunque, favorita dalla decristianizzazione degli spiriti, che ha trasformato in leggenda o in mito la tesi monogenista la quale dava un fondamento culturale alla visione della fraterna unità di tutti gli uomini. Allorché, secondo le classificazioni naturaliste, l’uomo si iscrive nella serie animale, la tesi poligenista* può allora imporsi, per alcuni, come la nuova evidenza fondatrice, garantita dalla scienza. Pensata come differenza di natura o come diseguaglianza irrimediabile, la distinzione tra le “razze umane” diventa comunque l’argomento principale contro la tesi dell’unità, attuale o originaria, del genere umano. Alla biologizzazione si affianca la frammentazione della specie umana.

Si possono distinguere tre varianti della teoria del razzismo in quanto fenomeno moderno. In primo luogo, la teoria modernista ristretta, che identifica il razzismo come un immediato successore dell’attività di classificazione delle “razze umane” (distinte in base ai loro caratteri morfologici ritenuti ereditari), diffusasi nel corso del XVIII secolo; il razzismo, in questo caso, sarebbe, dunque, debitore delle tassonomie elaborate dai primi naturalisti-antropologi (Linné, Buffon, Blumenbach, Camper, ecc.). In secondo luogo, la teoria modernista ultraristretta, che riduce il razzismo alla dottrina esplicita del determinismo razziale delle attitudini, ossia degli atteggiamenti e dei comportamenti, la quale, da un lato, fornirebbe un fondamento scientifico alla tesi della “diseguaglianza delle razze umane”, e, dall’altro, permetterebbe di trovare una chiave della storia o dell’evoluzione umana. In terzo luogo, la teoria modernista ampia, descrivibile a sua volta facendo riferimento a tre modelli o tipi di protorazzismo apparsi all’inizio dell’epoca moderna occidentale, in cui, nel contesto delle società fondate sulla gerarchia, le società “d’ordres”, il riferimento al “sangue” o alla “razza” era inseparabile dal riferimento alla casta o alla classe. Si tratta dei tre seguenti modelli di protorazzismo: il mito del “sangue puro” nella Spagna (e nel Portogallo) del XV e del XVI secolo; le legittimazioni europee dello schiavismo e dello sfruttamento coloniale dei “popoli di colore”; la dottrina aristocratica francese che ha preso il nome di dottrina delle “due razze” (in cui “razza” significa “stirpe”, “lignaggio”), per la quale tali razze erano costitutive, nel loro conflitto, della popolazione della Francia (i discendenti dei vincitori, i Franchi, incarnati dalla nobiltà, e i discendenti dei vinti, ossia i Galli o i Gallo-romani, incarnati dai plebei, dal terzo stato). Questi tre modelli di protorazzismo hanno in comune, nelle sue diverse varianti, il mito del sangue, della “purezza del sangue”, il quale è inseparabile dall’ossessione della perdita della purezza attraverso i matrimoni misti o gli incroci, ritenuti fonte di impurità o di una degradazione irrimediabile. La fobia dell’incrocio delle “razze”, delle stirpi o dei “ceppi”, la mixofobia*, costituisce il cuore del razzismo ancor prima dell’elaborazione delle classificazioni razziali (XVIII secolo) e delle concezioni razziste del mondo (XIX secolo).

La teoria modernista ristretta

Tale prospettiva considera il razzismo come immediato successore delle prime classificazioni delle “razze umane”. Tra gli specialisti delle scienze sociali, sono numerosi coloro che sostengono che non ci può essere razzismo se non sulla base del moderno concetto di “razza umana”, in quanto varietà della specie umana definita, nel quadro del pensiero classificatorio dei naturalisti del XVIII secolo in Europa. Si sostiene, allora, che, per evitare di cadere nell’anacronismo, non bisogna più pensare che il razzismo fosse in germe nei secoli precedenti alla formazione del concetto tassonomico di “razza umana”. E si aggiunge, talvolta, non a torto, che l’emergere del razzismo, oltre all’iscrizione dell’uomo e dell’animale in una stessa classificazione — a classificazione nel sistema zoologico che toglie all’uomo il suo statuto di imago Dei -, presuppone la riformulazione delle classificazioni antropologiche che si compie sotto l’impulso della teoria darwiniana, che conduce, nell’ultimo terzo del XIX secolo, all’instaurarsi di una nuova evidenza suffragata dalla scienza: la correlazione tra i caratteri fisici e i caratteri mentali, ritenuti fissi ed ereditari, e, più in generale, l’intreccio tra il biologico e il culturale. Si giunge, così, a una naturalizzazione delle differenze tra gli esseri umani. L’equazione “una razza-una civiltà” (molto prima della formula “una razza-una cultura”) comincia a circolare nel cielo delle evidenze erudite. Le differenze tra le civiltà o le culture vengono percepite come differenze naturali, all’interno di sistemi di classificazione che identificano gli esseri in base al genere, alla specie e alla varietà (equivalenti alla razza o a una suddivisione di quest’ultima).

La migliore esemplificazione di questa naturalizzazione scientifica dell’uomo che, integrato nel regno animale e considerato come una specie naturale tra le altre perde o tende a perdere il suo statuto di eccezione, si può trovare nel Sistema della natura (1735) di Carl von Linné (1707-1778), il quale, nella seconda edizione del suo libro, del 1758, espone un sistema di classificazione in cui il genere Homo, appartenendo all’ordine dei Primati (degli Anthropomorpha), viene posto in cima al regno animale e, nello stesso tempo, suddiviso in specie e varietà. Nel genere Homo, Linné distingue due specie: l’uomo diurno (Homo sapiens) e l’uomo notturno (Homo troglodytus). Il Troglodita (derivato dalla mitologia antica) sembra designare l’orangutan (“uomo delle foreste” in malese), o Homo sylvestris. L’illusione classificatoria persisterà: per diversi decenni, fino verso il 1830-1831, verranno pubblicate delle classificazioni delle “razze umane” che faranno riferimento agli orangutan (e, in modo generale, alle grandi scimmie).

Quanto alla specie Homo sapiens, essa viene suddivisa da Linné in sei varietà “diurne”. Da una parte, l’Homo ferus o uomo selvaggio (“muto, quadrupede, villoso”), e l’Homo monstrosus o uomo teratologico, mostruosi (l’insieme delle forme devianti). Dall’altra, le quattro varietà d’uomini, diciamo “normali”, identificabili innanzitutto dal colore della pelle: l’uomo europeo (bianco), l’uomo americano (rosso), l’uomo asiatico (giallastro) e l’uomo africano (nero). In questa descrizione delle varietà umane, Linné mescola i caratteri fisici, mentali, sociali e culturali.

L’attribuzione alla “razza negra” dell’“apatia” o della “pigrizia” come uno dei suoi caratteri fissi ed ereditari, viene così elevata a una forma di verità ritenuta scientifica. Dopo essersi fissate in pregiudizi razziali, le accuse che i coloni e i missionari rivolgevano ai neri, nelle società schiavistiche del XVII e del XVIII secolo, diventano caratteristiche scientificamente provate. Infatti, i tentativi di resistenza che gli schiavi neri avevano opposto al sistema disciplinare dei loro padroni bianchi, erano stati interpretati da quest’ultimi come prove d’indolenza, di pigrizia, di stupidità e di perfidia naturali. Nelle caratterizzazioni razziali si ritrova dunque, del tutto o in parte, l’immagine negativa dello schiavo nero. Nel XIX secolo, eminenti naturalisti, come Louis Agassiz o Karl Vogt, riconosceranno che tale attribuzione è fondata sulla descrizione oggettiva dei fenomeni umani. Il pregiudizio persiste, dunque, persino tra la comunità degli scienziati.

Queste classificazioni delle razze umane che ricorrono a diversi criteri (somatici, geografici, psicologici, culturali, e soprattutto linguistici e religiosi) sono classificazioni gerarchiche, le quali collocano ogni “varietà” o “razza” a un preciso rango definito in base a una scala di valori, che va dal mostro, dall’orangutan e dal selvaggio, al bianco europeo, passando per gli ottentotti, i lapponi e i neri africani.

Nelle loro classificazioni, i successori di Linné crederanno così di aver individuato il posto dell’africano nella lunga ininterrotta catena degli esseri creati dalla Natura: i neri, posti all’ultimo gradino della gerarchia degli esseri umani “normali”, formano l’anello intermedio tra le grandi scimmie e la razza bianca. Coloro che si trovano al rango più basso della scala, in virtù di un’inferiorità ereditaria, devono dunque essere considerati come imperfettibili, posti al di fuori della storia del progresso umano, al di fuori della “civiltà”. Tale classificazione produce, dunque, degli “irrecuperabili” e nello stesso tempo legittima il loro statuto (quello di sottouomini). L’inferiorità della sottoumanità è irreversibile, irrimediabile. Da tale rigida categorizzazione derivano delle logiche d’esclusione: gli inferiori, catturati nelle categorie della classificazione scientifica, non possono più sperare di essere liberati dal loro abbassamento, né essi stessi migliorare la loro natura subumana.

Se il nero viene posto al gradino più basso della scala degli esseri umani, il bianco si colloca in cima ad essa. Arthur Gobineau (1816-1882), per esempio, pensa che la generale superiorità degli europei o dei rappresentanti della “razza bianca” sia provata “dalla loro superiorità per quanto concerne la bellezza, la giusta proporzione dei membri, la regolarità dei tratti del volto”. La bellezza dell’apparenza fisica viene percepita come un segno d’elezione: i migliori esseri umani, coloro che sono considerati come maggiormente atti alla civiltà, sono necessariamente i più belli. La forza, l’intelligenza e la bellezza sono per così dire monopolizzate dalla “razza bianca”.

L’argomentazione estetica, del resto, era corrente sin dalla fine del XVIII secolo. Christoph Meiners, per esempio, nella sua opera Abbozzo di una storia dell’umanità, apparsa in tedesco nel 1785, proponeva la classificazione più semplice delle razze umane, ridotte a due categorie di ordine estetico: da una parte, la “bella”, ossia la razza bianca; dall’altra, la “brutta”, ossia tutti gli altri.

Nella sua Dissertazione, tradotta e pubblicata a Utrecht nel 1791, Petrus Camper, l’inventore dell’“angolo facciale”, crede di poter classificare le razze umane in base a misure anatomiche, che a suo avviso forniscono un criterio estetico sicuro (di “bellezza comparativa”), e di dimostrare così la superiorità degli europei bianchi (“il più bel prodotto della razza umana”). Nel 1799, nel suo libro di “storia naturale” in cui difende la tesi poligenista, il chirurgo inglese Charles White, nella sua classificazione delle specie, privilegia a sua volta il criterio estetico, per cui salendo i gradini della sua scala, si passa dagli animali inferiori alle scimmie e da queste agli europei bianchi, collocati al vertice della creazione. Conclude che per ciò che riguarda “la struttura e l’economia corporee, il nero è più vicino alla scimmia dell’europeo”.

La teoria modernista ultraristretta

Tra i sostenitori della teoria moderna ristretta, alcuni autori, come Michael Banton o Claude LéviStrauss, sono più esigenti, e permettono che si parli di “razzismo” in senso stretto solo nel caso in cui sia reperibile l’affermazione di un rapporto causale tra razza e cultura, razza e civiltà, razza e intelligenza. Il razzismo si definisce, allora, come una teoria, oggi rifiutata come pseudoscientifica, stabilita sulla base del determinismo biologico delle attitudini, degli atteggiamenti o delle disposizioni, caratteristiche del tratto ereditario di ogni razza umana. È il principio “una razza-una civiltà” (o meglio, una costellazione di attitudini di civilizzazione). Nel corso del XIX secolo, infatti, il termine razza, senza perdere il suo senso di “stirpe”, viene ridefinito dagli antropologi e dagli etnografi, e inteso come se designasse principalmente un insieme, ritenuto tipico, di differenze morfologiche postulate come ereditarie, messe in correlazione con le differenze mentali e morali. La “razza”, come gruppo umano particolare e naturale, viene definita contemporaneamente in base a un’origine e a una forma, nel quadro di un determinismo ereditario delle caratteristiche specifiche. L’unità del genere umano si trova, così, ad essere messa in questione, ossia negata.

Chiameremo tale concezione la teoria ultraristretta del razzismo, che riduce quest’ultimo alle teorizzazioni “scientifiche’’ della razza e alle loro conclusioni normative, osservabili nel XIX secolo e durante la prima metà del XX secolo. Il razzismo viene dunque iscritto in una cronologia breve.

In tale prospettiva, il termine “razzismo” viene usato solo per rinviare alle dottrine e alle pratiche che si riferiscono esplicitamente a quelle teorie antropologiche, che pretendono di essere scientifiche, delineatesi alla fine del XVIII secolo e sviluppatesi nel corso del XIX. Va da sé, allora, che il pensiero razzista — inteso come ciò che le dottrine razziste hanno in comune — può essere ridotto a un nucleo duro, l’assioma della diseguaglianza delle razze umane, e che le pratiche razziste sono delle semplici applicazioni sociopolitiche delle dottrine razziste, tutte pratiche che implicano il principio di un trattamento diseguale o di discriminazione, secondo dei criteri variabili (che variano in base alle scale gerarchiche postulate tra le razze umane). In breve, il razzismo è fondamentalmente non egualitario, è un determinismo biologico e nello stesso tempo un non egualitarismo teorico e pratico, che pretende di fondarsi su un nuovo principio di autorità: la conoscenza scientifica. Lo dimostrano bene nella seconda metà del XIX secolo il razzialismo* di Gobineau e il razzialismo evoluzionista (Haeckel, Le Bon, Vacher de Lapouge), il quale prende a prestito termini e nozioni dalla teoria darwiniana. Il razzismo appare allora come un prodotto della secolarizzazione, come un fenomeno generato dalla modernità scientifica e irreligiosa. La sua norma fondamentale è la seguente: dal momento che gli uomini sono di valore ineguale a causa della loro naturale appartenenza a delle razze di valore ineguale (più o meno “evolute”) devono essere trattati in modo ineguale.

Bisogna notare che il postulato fondamentale del razzismo classico, l’equivalenza tra razza e cultura (o l’equazione “una razza-una cultura”), viene empiricamente rifiutato, anche nel caso in cui si supponga l’esistenza delle “razze umane”, grazie al duplice fatto messo in luce da Claude Lévi-Strauss, nel suo libro Razza e storia del 1952, al fine di stabilire l’irriducibilità della diversità culturale alla diversità biologica: “Sono molte più le culture umane che le razze umane, le prime, infatti, sono migliaia e le seconde solo poche: due culture elaborate da uomini appartenenti alla stessa razza possono differire in eguale misura, o in misura maggiore, di due culture proprie a dei gruppi razzialmente distanti”.

La teoria modernista ampia

Nel quadro della teoria della modernità del razzismo, viene fatto notare che alcune figure di quest’ultimo sono apparse indipendentemente dalle classificazioni naturaliste delle “razze umane” e prima di esse. Queste forme prerazziali del razzismo, se vengono riconosciute come tali, portano ad allargare la teoria modernista: da un lato, riconoscendole come oggetto tutti quei modi di esclusione che fanno intervenire il “sangue”, l’eredità o il colore della pelle nel quadro dei contesti culturali che, a partire dalla metà del XV secolo sino all’inizio del XVIII, hanno preceduto l’epoca del pensiero classificatorio; dall’altro, ponendo in primo piano il problema delle relazioni tra pratiche sociali di esclusione (segregazione, discriminazione) o di dominio (colonialismo, schiavismo) e le configurazioni ideologiche che legittimano tali pratiche. Queste forme prerazziali di razzismo rientrano in ciò che chiameremo il “protorazzismo” moderno, e funzionano sulla base di un piccolo numero di ideologismi: il mito del sangue puro” e la correlativa ossessione di un’“impurezza del sangue”; la convinzione di una naturale inferiorità di alcuni gruppi percepiti come infra-umani, a causa dei loro costumi giudicati “selvaggi” e “barbari”, anche in virtù del colore della loro pelle (neri d’Africa, indiani d’America); la visione, nella dottrina aristocratica francese-cosiddetta delle “due razze”, di una differenza gerarchica tra stirpi distinte e opposte tra loro in base alle loro qualità ereditarie, da cui consegue l’idea di una Fatale “lotta” tra i nobili, discendenti dagli antenati vincitori, e gli altri, così come la prescrizione di evitare ogni “incrocio” affinché il sangue “chiaro e puro”, proprio ai gentiluomini, non sia alterato da un sangue “vile e abietto”, quello dei plebei discendenti dai vinti.

L’invenzione iberica del “sangue puro” può essere considerata come il primo tipo di protorazzismo occidentale. Essa appare alla svolta tra il XV e il XVI secolo nella penisola iberica (Spagna e Portogallo), in breve, nel Secolo d’oro spagnolo, in cui l’impresa generale di un’ortodossia religiosa orientata, nel suo universalismo*, alla conversione dei non-credenti, non ha affatto impedito l’istituirsi di “statuti di purezza del sangue” (estatutos de limpieza de sangre) volti a impedire innanzitutto l’accesso degli ebrei convertiti al cristianesimo, dei conversos, alle cariche, privilegi e onori pubblici.

Questi “statuti” di esclusione erano rivolti, in teoria, tanto contro i discendenti degli ebrei quanto contro quelli dei mori, ma sono stati rigidamente applicati unicamente contro i giudeo-cristiani. Questi “statuti” hanno permesso di mantenere un sistema di discriminazione e di segregazione, che escludeva i discendenti, anche lontani, degli ebrei convertiti, dal “sangue impuro”, dalla maggior parte delle cariche pubbliche, dai collegi universitari, dalle confraternite, dai capitoli, ecc. La rappresentazione del “nuovo cristiano” o converso è razzializzata, nel senso che essa giunge al punto di far rientrare in questa categoria qualsiasi individuo che abbia un antenato ebreo (o moro). Il criterio della “purezza del sangue” diventa più importante di quello della purezza della fede. Viene così a costituirsi un mito del “sangue puro”, indipendentemente dal campo religioso in cui il concetto di “purezza” era stato elaborato. L’origine impura viene ritenuta ereditaria.

Si tratta dunque di un protorazzismo in cui il mito del “sangue puro” costituisce il nucleo ideologico, e che funziona al servizio degli interessi della casta dirigente, che mira a preservare i suoi privilegi in una società cattolico-monarchica. Il fatto importante è che, in tal modo, a partire dalla seconda metà del XV secolo (il primo “statuto” viene adottato nel 1449), si sia fondata una legislazione discriminatoria non più sulla purezza della fede ma sulla “purezza del sangue”. Tali “statuti” hanno eretto una barriera razziale ante litteram (prima della costituzione del concetto classificatorio di “razza”): il “sangue”, lungi dall’essere una metafora ornamentale, aveva a che fare con dei caratteri ereditari; l’impurezza o la purezza del “sangue” era pensata come una qualità gerarchicamente trasmissibile, tanto per via maschile che per via femminile. E la conversione religiosa non poteva cambiare nulla. Si può dunque formulare l’ipotesi che si tratti qui della prima attestazione storica di un “antisemitismo” razziale, politicamente funzionale, o di un “prerazzismo” antiebraico distinto dall’antigiudaismo cristiano tradizionale, ereditato dai Padri della Chiesa. Tale ipotesi permette di mettere in dubbio la tesi fondamentale della teoria modernista ristretta del razzismo: né la definizione tassonomica della nozione di “razza umana”, né le classificazioni gerarchiche delle “razze” appaiono più come i presupposti epistemologici del razzismo, inteso contemporaneamente come dottrina e come pratica sociopolitica.

I due principali tratti del protorazzismo iberico sono i seguenti: innanzitutto, una visione fondamentalmente negativa, ossia ripulsiva, degli ebrei (demonizzati, criminalizzati o bestializzati); in seguito, e soprattutto, la tesi secondo cui i difetti o i vizi attribuiti agli ebrei sono permanenti, consustanziali alla loro natura pensata come invariabile, trasmessi cioè ereditariamente come una vergognosa e incancellabile macchia. I discendenti degli ebrei sono dei maculados(macchiati, impuri), perché il loro sangue contiene un’impurezza (manchao una “macchia” (macula) indelebile; essi sono intrinsecamente “impuri” (impuros). È quanto le inchieste genealogiche, cosiddette di “limpieza”, che assumeranno un’importanza sempre maggiore nel corso del XVI e del XVII secolo, dovevano stabilire. Alla fine del XVI secolo, a un candidato che chiede una dignità si richiede abitualmente una limpieza de sangre de tiempo immemorial(una purezza di sangue da tempo immemore), e una minima diceria contraria basta a colpirlo come indegno. Basta solo il sospetto di impurezza per infangare l’intera stirpe, per farle perdere l’onore, in virtù di una “fatale correlazione” tra la “purezza del sangue” e l’onore, il quale è a sua volta fondato sulla fama(reputazione). Si dà così via libera alla calunnia e alle false accuse.

Delineando una dottrina della predestinazione biologica, Juan Escobar Del Corro, nella sua difesa degli statuti di “purezza del sangue” apparsa nel 1637, afferma che il feto eredita alcune qualità morali dai genitori nel momento del concepimento, e che, di conseguenza, il fatto che un unico membro della famiglia commetta un peccato significa che nelle vene dell’intera famiglia scorre sangue impuro. Quanto alla scelta delle nutrici per allattare i figli dei re e dei principi, precisa Francisco De Torrejoncillo nel 1691, essa deve essere accorta e dirigersi verso persone che non siano “persone infette” (personas infectas), bisogna dunque assicurarsi attraverso delle minuziose inchieste genealogiche che esse siano “cristiane di antica data” e non delle nuove convertite dal “sangue infetto”, che non potranno che dare un “vile latte ebreo” generando, così, “inclinazioni perverse”. La trasmissione della “macchia” avviene dunque anche attraverso il latte delle nutrici.

I pregiudizi e gli stereotipi* antiebraici, fusi ora nel quadro di una dottrina prescientifica della trasmissione ereditaria in base all’opposizione tra il puro e l’impuro, sono stati, dunque, “razzializzati” senza fare riferimento ai fenotipi*, all’apparenza fisica tipica degli ebrei rispetto a quella dei “vecchi cristiani”. Il tema dell’ebreo invisibile e mascherato (nuovo convertito) sorge, così, proprio nello stesso tempo in cui si attua un bricolage intellettuale sulla questione della trasmissione dei vizi e delle virtù nella stirpe. La funzione sociale di questa dottrina protorazzista è quella di legittimare la marginalizzazione di una parte della popolazione non in base (e con il pretesto) del colore della pelle, affatto visibile, ma a causa di una natura malvagia, invisibile, nascosta, e, quindi, da smascherare. Di qui, il particolare stile dell’antisemitismo attivo, miscuglio di un sospetto permanente e di una costante vigilanza, in netto contrasto con quello delle dottrine protorazziste dello schiavismo moderno: la pratica del “pregiudizio del colore” non implica, infatti, una continua indagine. Bisognerà attendere la comparsa di una popolazione di meticci bianchi/neri nelle Antille e nelle due Americhe, per ritrovare un equivalente dell’ossessione dell’“impurezza” negli atteggiamenti mixofobi dei razzisti bianchi, convinti che “un po’ di sangue nero” sia sufficiente a “macchiare” irrimediabilmente l’intera stirpe.

Tra la metà del XV secolo e l’inizio del XVIII, in una parte dell’Europa (Spagna, Portogallo) viene dunque a costituirsi una visione razzista di tipo manicheo (“noi i puri versus loro gli impuri”) affiancata da pratiche di esclusione. Questa prima o emergente forma di antisemitismo razziale (più esattamente: di giudeofobia razzializzata) si è trasformata in un’invalicabile frontiera posta dinanzi alla conversione religiosa. Siamo dunque in grado di identificare un criterio pratico del razzismo, anche nei suoi effetti: esso istituisce le categorie di inconvertibili e di inassimilabili, condanna, senza esclusione, tutti coloro che vengono considerati come rappresentanti di un gruppo “impuro” a essere rifiutati dal gruppo “puro”, erige una barriera assoluta tra “Noi” e “gli Altri”. Così, il sorgere di un protorazzismo antiebraico segna i limiti dell’assimilazione sociale e culturale operata, in linea di principio, dalla conversione, forma storica di assimilazione e di acculturazione. Il protorazzismo iberico avrebbe creato, dunque, degli inassimilabili, sulla scia, per così dire, dell’esclusivismo religioso che aveva contemporaneamente prodotto delle persone atte ad essere espulse e delle persone atte ad essere convertite.

Il fatto è che la conversione non ha messo fine alle discriminazioni e che, in modo ancor più significativo, il sospetto “razziale” ha comportato lo scacco della conversione come modo di integrazione sociale e di normalizzazione culturale. Un ebreo battezzato resta un ebreo, ossia un “figlio di Satana”. L’eredità satanica che la tradizione cristiana ha imputato agli ebrei che rifiutavano il nuovo patto viene, così, estesa agli stessi ebrei convertiti. È il trionfo del pensiero essenzialistico: nel protorazzismo iberico si può riconoscere tanto “l’essenzializzazione* somatico-biologica del diverso” quanto “la pratica della marginalizzazione che assume il segno della permanenza”, aspetti, questi, che contraddistinguono ogni forma di razzismo. Inoltre, l’istituzionalizzazione del mito della “purezza del sangue”, in quanto metodo di selezione sociale, ha costituito un terreno favorevole al riciclaggio dei pregiudizi e degli stereotipi antiebraici d’origine medioevale (sobillatori, predatori, traditori, cospiratori). E dal momento che la natura degli ebrei viene pensata come totalmente e irrimediabilmente corrotta, si suppone che essi siano inconvertibili, e, quindi, sempre falsamente convertiti. Questa essenziale corruzione li rende imperfettibili, per usare il linguaggio dei Lumi, che contribuirà a sua volta a ritradurre la dottrina religiosa della predestinazione e della dannazione eterna in una teoria biologizzante della fatalità dei caratteri ereditari.

Non occorre, forse, precisare che la dottrina della “limpieza de sangre” è in assoluta opposizione con l’universalismo cristiano espresso nella tesi dell’unità di tutti gli uomini in Cristo, dottrina enunciata in un famoso passo dell’Epistola ai Galati (III, 27-28) di san Paolo: “Tutti voi […] poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Il che ci porta a reinterpretare globalmente la comparsa del protorazzismo antiebraico prima dell’epoca della secolarizzazione, in una società strutturata in base al modello gerarchico tradizionale e alle norme della cultura cristiana. Proprio questo contesto, caratterizzato dall’ambivalenza degli atteggiamenti cristiani nei confronti degli ebrei, ha imposto dei limiti alle passioni antiebraiche. Se dunque la secolarizzazione non ha creato l’antisemitismo razziale moderno, contrariamente alla tesi avanzata da alcuni sostenitori della teoria ristretta, il processo di secolarizzazione ha tuttavia “liberato” l’immaginario razzista dagli interdetti religiosi che ne limitavano lo sviluppo, e, soprattutto, ha favorito la comparsa di una stretta alternativa: espulsione o sterminio. La secolarizzazione ha “contribuito a erodere gli interdetti che il cristianesimo, nella sua profonda ambivalenza rispetto all’ebraismo, era riuscito a imporre alla sua ostilità nei confronti degli ebrei”. Comunque sia, la comparsa del protorazzismo antiebraico, che ha preceduto di quasi due secoli l’apparizione delle prime classificazioni sistematiche delle “razze umane”, sembra un elemento in grado di contestare la principale tesi della teoria modernista ristretta.

La considerazione del razzismo schiavista e antinegrista, così come quella del razzismo aristocratico alla francese, fornisce degli argomenti che vanno nella stessa direzione. Li incontriamo soprattutto negli autori che situano l’inizio del pensiero razzista nell’epoca della scoperta dell’America, e, più precisamente, in America Latina, con l’introduzione delle nuove forme di schiavitù nelle Antille, lo sfruttamento degli indiani e dei neri africani, e la comparsa dei meticci nella società coloniale. Il protorazzismo occidentale è, in questo caso, il razzismo coloniale e schiavista, strutturato in base alla relazione tra dominanti e dominati, o in base al rapporto padroni/schiavi. La tesi della superiorità razziale dei conquistatori si fonda innanzitutto sull’interpretazione delle particolarità culturali dei dominati, particolarità più o meno immaginarie: l’idolatria, il cannibalismo e la resistenza al cristianesimo. In secondo luogo, essa si fonda sul fatto che il criterio della “purezza del sangue” viene esteso ai meticci, poiché tale criterio permette di giustificare la stigmatizzazione e la discriminazione dei meticci bianchi/neri o dei bianchi/indiani. La formulazione normativa del pregiudizio razziale ci viene fornita da un passo di un’ordinanza reale contro i negri ribelli, che porta la data del 24 aprile 1545: “[…] poiché i neri sono persone che necessitano di grandi punizioni e di soggezione”. I neri sono pensati come privi di libero arbitrio, privi della disposizione all’autodeterminazione e all’autonomia.

Anche il razzismo coloniale del XVI e del XVII secolo ha, quindi, preceduto il periodo durante il quale si è installato il pensiero tipologico, e i suoi ideatori non hanno avuto bisogno di ricorrere alla scienza per sacralizzare le differenze gerarchiche tra le “razze”, che facevano riferimento a delle eredità di gruppo assunte come destini.

La tesi di Eric Williams, divenuta ormai classica, sostiene che la schiavitù è stata all’origine del razzismo, dal momento che quest’ultimo è nato dalle esigenze economiche delle piantagioni. In tale prospettiva, il “pregiudizio del colore” viene spiegato secondo un modello funzionalista: la sua funzione è di legittimare una modalità di sfruttamento che presuppone un sistema di dominio reso naturale dal pregiudizio razziale. La condizione servile si assomma, per così dire, alla segregazione legata al colore. Ma tale modello interpretativo non porta affatto a negare l’esistenza di pregiudizi europei contro gli africani neri prima della comparsa dello schiavismo nel Nuovo Mondo, pregiudizi antinegristi in seguito rafforzati, legittimati e resi coerenti in un’ideologia dal loro stesso funzionamento nel quadro dell’ipersfruttamento capitalistico della manodopera “di colore”. Eric Williams, prima di Oliver C. Cox (1948), ha formulato la semplice ipotesi secondo cui lo sfruttamento razziale, nei sistemi schiavistici, è innanzitutto uno sfruttamento economico, e l’inferiorizzazione dei neri è una variante della proletarizzazione dei lavoratori. La sua tesi pone l’accento sulla ricerca di una manodopera poco costosa e docile, totalmente sottomessa, nel quadro della logica del capitalismo. Il risultato dell’interazione tra il pregiudizio e la razionalità economica fu la comparsa di un “ordine sociorazziale”, in cui la segmentazione razziale (bianchi/neri) si intrecciava con la stratificazione socioeconomica (padroni liberi/lavoratori schiavi). Le relazioni tra padroni e schiavi, all’interno di quest’ordine schiavista razzializzato, verranno regolamentate dal Codice nero, promulgato dall’amministrazione regia nel 1685 (riguardante soprattutto le Antille e la Guiana) e ripreso e rafforzato, in seguito, nel codice del 1724 (riguardante la Luisiana). Nell’articolo 6 della versione del 1724 il Codice nero introduce l’esplicita condanna dei matrimoni interrazziali. Nelle colonie, la paura che la società bianca sia sommersa dal moltiplicarsi dei meticci, continuerà a intensificarsi nel corso del XVIII secolo, mentre la rappresentazione del meticcio come “un prodotto mostruoso della natura” diventerà abituale. L’immaginario razzista, fondato sulla “macchia” ereditaria come incancellabile impurezza e strutturato sull’evidenza della invalicabile barriera del colore, viene espresso con grande chiarezza in un editto del Ministro della Marina del re Luigi XV, datato 13 ottobre 1766, in risposta a una domanda del governatore della Caienna:

“Tutti i negri sono stati portati nelle colonie come schiavi; la schiavitù ha impresso un’indelebile macchia sulla loro posterità; e, di conseguenza, i loro discendenti non possono mai appartenere alla classe dei bianchi. Se in futuro essi venissero considerati bianchi, potrebbero pretendere gli stessi posti e la stessa dignità, il che sarebbe del tutto contrario alle costituzioni delle colonie”. L’equazione reversibile “schiavo=nero” era diventata una verità data, certa e legittima.

Nella società schiavista è venuta dunque a costituirsi una barriera di razza o una linea di colore (color line) che stabilisce una divisione binaria tra due categorie: i bianchi (“puri” da ogni “contaminazione” di “sangue nero”), e tutti gli altri (i neri e tutte le varietà di meticci bianchi/neri, di “mulatti”, a loro volta gerarchizzati in base alle loro più piccole differenze). Moreau de Saint-Méry dà una testimonianza di come la linea di colore faccia ormai parte del senso comune: “L’opinione […] vuole, di conseguenza, che una linea prolungata all’infinito separi l’intera discendenza bianca dall’altra”. La fobia della macchia e dell’impurezza si esprime nelle ossessioni genealogiche, motivate dall’indiscernibilità tra i fenotipi dei bianchi “puri” e di certi meticci dalla pelle particolarmente “chiara”. Il sospetto di un’ascendenza mista è la fonte delle inchieste genealogiche che, nella seconda metà del XVIII secolo, devono provare la “purezza” delle origini europee.

La teoria modernista ampia sembra dunque più conforme alla realtà storica. All’origine del razzismo moderno non c’è, quindi, il sapere scientifico moderno, nella sua componente tassonomica e metrica, sebbene esso abbia fornito al razzismo una copertura scientifica, e abbia contribuito, nel XIX secolo, a legittimarlo e a diffonderne gli ideologismi.

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Limiti ed effetti indesiderati
di una definizione stretta

Di fronte all’indefinita estensione del termine di “razzismo” per stigmatizzare idee, atteggiamenti o comportamenti considerati detestabili, dinanzi agli innumerevoli usi impropri e alla “banalizzazione” della parola, svuotata di ogni preciso significato, molti specialisti (delle scienze sociali hanno reagito fornendo dei criteri più stretti e definendo un certo numero di condizioni o dì presupposti storici, di diverso ordine, che permettono di individuare o di circoscrivere meglio il fenomeno “razzismo”. Viene così abbozzata una definizione forte o stretta del razzismo, circoscritto a un fenomeno ideologico proprio alla modernità più recente (dalla fine del XVIII secolo alla metà del XX), ossia alla dottrina pseudoscientifica dell’ineguaglianza delle razze umane.

Razzismo, etnocentrismo e xenofobia

Ma questa definizione forte fa sorgere numerose difficoltà. Iscrivendo il “razzismo” negli stretti limiti della modernità scientifica, economica e politica, lo si taglia dalle sue radici antropologiche, si impedisce, per esempio, di avanzare l’ipotesi che il razzismo sia una rielaborazione moderna/occidentale dell’etnocentrismo, o che sia apparso più di due secoli prima del formarsi della concezione tipologica delle “razze umane”. Ma soprattutto, tale definizione impedisce di pensare che il razzismo non sia scomparso insieme alla forma in cui esso si è manifestato nel XIX secolo. In una prospettiva pluralista e relativista, Claude Lévi-Strauss è colui che maggiormente si è spinto in tale direzione. Questo eminente pensatore ha avuto il merito di una enunciazione chiara ed esplicita della teoria ultraristretta del razzismo. Tuttavia, le sue analisi ci sembrano portare a una impasse. Nella sua prefazione a un’importante raccolta di studi, Le regard éloigné, uscita nel 1983, Lévi-Strauss fornisce la seguente definizione, la quale riduce il razzismo alla forma classica della sua dottrina: “Il razzismo è una dottrina che pretende di scorgere nei caratteri intellettuali e morali attribuiti a un insieme di individui, in qualsiasi modo li si definisca, l’effetto necessario di un comune patrimonio genetico”. Questa definizione ristretta del razzismo in quanto costruzione ideologica ha una funzione critica, ossia polemica: è una replica e una precisazione dinanzi “all’abuso linguistico con cui, in modo sempre maggiore, si confonde il razzismo definito in senso stretto con degli atteggiamenti normali, legittimi persino, e in ogni caso inevitabili”. Sappiamo che tali attitudini e disposizioni che non dovrebbero più, quindi, essere identificate come “razziste”, e che l’etnologo ritiene “legittime”, appartengono a ciò che si è deciso di chiamare etnocentrismo o xenofobia, i quali mettono entrambi in gioco delle forme di intolleranza rispetto a modi di vita diversi o estranei.

Ora, la norma incondizionata dell’assiologia del radicale pluralismo culturale, difeso da Lévi-Strauss, consiste nel preservare la diversità culturale. È una posizione che chiamo differenzialista. Secondo l’antropologo, l’intolleranza implicata dall’etnocentrismo possiede un valore positivo, per il fatto che svolge il ruolo di un meccanismo di conservazione e insieme di differenziazione: “Si deve riconoscere — scrive Lévi-Strauss — che questa diversità [quella delle “società umane”] deriva in gran parte dal desiderio appartenente ad ogni cultura di contrapporsi alle culture che la circondano, di distinguersi da esse, in una parola, di essere se stessa”. Ciò permette di giustificare la “relativa incomunicabilità” tra le culture, e di erigere a valore e a norma di esistenza “una certa impenetrabilità” tra di esse. Che una cultura non esista e non perduri se non alla condizione che i suoi rappresentanti privilegino certi valori, a cui rimangono “fedeli”, implica e legittima il fatto che i rappresentanti di tale cultura si mostrino “parzialmente o totalmente insensibili rispetto ad altri valori”, e cioè ai valori scelti dalle altre culture.

Ma Lévi-Strauss si spinge oltre: “Ogni vera creazione implica una certa sordità nei confronti di altri valori, la quale può arrivare sino al loro rifiuto se non alla loro negazione”. Tali affermazioni stanno alla base di una critica radicale dell’idea stessa di una comunicazione tra le culture e dell’ideale di un dialogo tra culture e civiltà. Esse contribuiscono a riabilitare antropologicamente, “in nome della Scienza”, certe forme di intolleranza, legate all’esclusivismo delle identità culturali e delle identità nazionali. È noto, infatti, che il neonazionalismo contemporaneo è un etnonazionalismo*, che pensa all’elemento nazionale in base a dei modelli etnici e/o culturali. Ed è proprio in nome del diritto alla differenza culturale o del diritto all’identità etnica di una nazione che attualmente il nazionalismo xenofobo si manifesta e si legittima nello spazio pubblico. Questa breve parentesi dedicata alla lettura critica di un testo di Lévi-Strauss ci ha permesso di entrare nel cuore della difficoltà fondamentale, quella di definire la reale estensione e comprensione della categoria di “razzismo”.

Il razzismo come sopravvivenza di un passato ormai trascorso

Si può facilmente comprendere come la riduzione storicista del razzismo a una dottrina o a un’ideologia biologica non egualitaria apparsa nel XIX secolo, consideri il “razzismo”, nello stesso tempo, come una cosa del passato e come qualcosa di ormai completamente superato dallo stato del sapere scientifico, e, dopo i giudizi pronunciati a Norimberga, di universalmente condannato. L’analisi di Lévi-Strauss si accorda dunque con la dichiarazione dell’UNESCO sulla razza e i pregiudizi razziali, del 26 settembre 1967, che nell’articolo 3 dichiara: “Gli esperti riuniti a Parigi, nel settembre del 1967, hanno riconosciuto che le dottrine razziste sono sprovviste di qualsiasi base scientifica”.

Si tratterebbe dunque di un rifiuto scientifico del razzismo. Ma definire il razzismo in modo così stretto, significa lasciare intendere che la lotta contro il razzismo deve rimanere confinata alla denuncia delle sue sopravvivenze o delle sue riapparizioni: Alla cancellazione delle semplici tracce del passato. Tesi apparentemente quanto mai ottimista, che giunge a giustificare quelle manifestazioni di intolleranza generate dall’etnocentrismo e dalla xenofobia, ritenute “inevitabili” dall’antropologo, assolvendole da ogni accusa di razzismo. Su questo punto, Lévi-Strauss non nasconde il suo tentativo di riabilitare le tendenze e le passioni esclusiviste, né il suo relativo fatalismo: “Dal momento che tali inclinazioni e tali attitudini sono, in un certo senso, consustanziali alla nostra specie, non abbiamo il diritto di nasconderci che esse svolgono un ruolo nella storia: sempre inevitabili, spesso feconde, e nello stesso tempo piene di pericoli nel loro esacerbarsi”. Viene, così, riconosciuta l’ambivalenza di queste “normali” attitudini e inclinazioni: ma ad essere condannate sono soltanto le loro derive o le loro esacerbazioni, senza un’eccessiva illusione quanto all’efficacia delle possibili condanne. L’ottimismo storico, che consisteva nel felicitarsi di essere entrati nell’epoca postrazzista, lascia scorgere un radicale pessimismo antropologico, che postula la naturalità o la normalità delle pulsioni di esclusione e di autopreferenza di gruppo. Il fatto è che Lévi-Strauss postula l’esistenza e il perdurare di qualcosa come una natura umana.

Nel 1988, in un colloquio con Didier Eribon, l’antropologo ritorna sulla questione, e definisce il razzismo come “una precisa dottrina, che può essere riassunta in quattro punti”:

“Uno: esiste una correlazione tra il patrimonio genetico, da una parte, e le attitudini intellettuali e le disposizioni morali dall’altra. Due: questo patrimonio, da cui dipendono tali attitudini e tali disposizioni, è comune a tutti i membri di certi gruppi umani. Tre: questi raggruppamenti chiamati ‘razze’ possono essere gerarchizzati in funzione della qualità del loro patrimonio genetico. Quattro: tali differenze autorizzano le cosiddette ‘razze’ superiori a comandare, sfruttare, ed eventualmente a distruggere, le altre”.

Considerando tale definizione forte, bisogna allora convenire che, se si riduce ad essa, fortunatamente il razzismo non esiste più, o, meglio, che esso sopravvive solo in alcune pubblicazioni estremamente marginali e in alcune ristrette sette neonaziste prive di qualsiasi influenza ideologica e importanza politica. Una simile definizione fa scomparire il razzismo dall’orizzonte contemporaneo, per lo meno in quanto fenomeno socialmente e politicamente significativo. E, in base al diritto alla differenza, ossia al dovere di preservare le differenze culturali a qualsiasi prezzo, essa conduce anche a considerare come un’evidenza la posizione antirazzista. La lotta contro l’etnocidio* tende a sostituirsi alla memoria preventiva del genocidio*. Definire il razzismo in base alla tesi dell’ineguaglianza tra le razze e alla tesi del determinismo ereditario delle attitudini, significa definire l’antirazzismo, positivamente, attraverso la duplice celebrazione del culturale e del differenziale e, negativamente, attraverso la lotta contro le sopravvivenze del gobinismo, del razzismo evoluzionista o dell’hitlerismo. La lotta contro il razzismo si riduce, allora, a un ingrato lavoro di cancellazione delle ultime tracce, le più persistenti e visibili, di un secolo e mezzo di credenze pseudoscientifiche nell’ineguaglianza tra le razze.

I limiti della repressione legale

Occorre invece partire da una diagnosi del razzismo presente, o, meglio, dei razzismi, delle modalità di razzistizzazione osservabili, identificare e analizzare le nuove forme argomentative e praticosociali di razzismo, le quali non sempre risultano evidenti a uno sguardo ingenuo. Il razzismo, infatti, innanzitutto non appare mai allo stato puro, ma sempre in modo mascherato: esso, nelle sue diverse forme, può essere mascherato o implicato nel nazionalismo (in questa o quella forma di nazionalismo), nell’imperialismo coloniale, nell’etnismo*, nell’eugenismo* e nei campi ad esso legati (la psicologia differenziale dell’intelligenza*), o ancora nel darwinismo sociale* (e cioè nell’elittismo estremo implicato dal liberalismo economico selvaggio), ecc. Si può dunque chiamare razzismo solo ciò che appare dopo un’analisi, una scomposizione della formazione sincretica in cui esso rientra come ingrediente. Inoltre, il razzismo si presenta sempre meno sotto forma di teoria esplicita, o sotto forma di atti flagranti accompagnati da chiare rivendicazioni o legittimazioni, come se si trattasse, dunque, di una dottrina razziale espressa in una serie di tesi immediatamente decodificabili e, quindi, condannabili.

Ci troviamo, dunque, di fronte al problema del razzismo implicito. Esso non si offre a una facile denuncia nella forma ben riconoscibile di comportamenti o di tesi condannabili per legge. Non si richiama né all’ineguaglianza, né alla razza biologica. Non fa riferimento alle dottrine naziste. Non ingiuria, né fa esplicito appello all’odio. Lo si può individuare e identificare solo attraverso un lavoro di decifrazione e un esame critico. Esso è, infatti, una formazione di compromesso tra le pulsioni di ostilità e il rispetto della norma antirazzista, interiorizzata per effetto dell’educazione. Dinanzi a questa consistente metamorfosi ideologica del razzismo, la cui causa principale è il passaggio al simbolico — che è il modo di aggirare le legislazioni antirazziste e di evitare di essere socialmente identificati come “razzisti” — si pone il problema dei limiti della repressione legale del razzismo. Proprio come gli antropologi o gli storici, nemmeno i legislatori avevano previsto la comparsa del razzismo mascherato o simbolico. Ma il tentativo di far emergere, con metodi razionali, le intenzioni soggiacenti, i presupposti o i sottintesi, insomma, le forme implicite del razzismo, si scontra con vari ostacoli. In tale contesto, il problema della prova sorge come una difficoltà quasi insormontabile. Un buon esempio delle difficoltà incontrate dagli avvocati e dai magistrati che vogliono applicare la legislazione antirazzista ci è dato dai riformulatori del mito del “complotto ebraico mondiale”: basta, infatti, sostituire il termine “sionista” o “cosmopolita” a quello di “ebreo” in tutti i contesti, per eludere i criteri di identificazione dell’antisemitismo. Si passa dal senso agli effetti del senso, dal significato letterale alle connotazioni. I riciclaggi e le ricontestualizzazioni dei modi “classici” di stigmatizzazione antiebraica possono rendere inapplicabile la legge, anche quando l’intenzione antiebraica è percettibile, con il solo cambiamento del vocabolario. Lo stesso accade per numerose pratiche discriminatorie (relative al lavoro, all’alloggio, ecc.) che colpiscono alcune categorie di “immigrati” ma che non vengono rivendicate o legittimate “in nome della razza”.

Un’aria di famiglia

Il razzismo si modifica, dunque, rispetto ai propri oggetti e ai propri bersagli, rispetto agli interessi e alle passioni che lo animano, e rispetto ai modi d’azione. Non lo si può considerare semplicemente come se fosse uscito già tutto armato dal colonialismo europeo, tra il XVI e il XVIII secolo, né come una conseguenza tra le altre della secolarizzazione, del pensiero classificatorio e del positivismo scientista — alla fine del XVIII secolo e durante il XIX -, e nemmeno come una mitologia omicida che ha raggiunto il suo punto culminante con il genocidio nazista degli ebrei d’Europa, di fronte a cui il nostro compito attuale sarebbe soltanto quello di riconoscerne e denunciarne le tracce. Dobbiamo dunque ridefinire il fenomeno nei suoi molteplici aspetti, seguendo le vie del suo riciclarsi, e reperendo le forme delle sue ricontestualizzazioni. Il nuovo razzismo ideologico si è progressivamente riformulato come un culturalismo e un differenzialismo*, entrambi radicali, aggirando così l’argomentazione antirazzista basata sul rifiuto del biologismo e dell’inegualitarismo, pensati come i due caratteri fondamentali del razzismo dottrinale, a cui si credeva ingenuamente di poter opporre il relativismo culturale e il diritto alla differenza. Il principio della recente metamorfosi ideologica del razzismo consiste proprio nel fatto che l’argomento dell’ineguaglianza biologica tra le razze è stato sostituito con quello dell’assolutizzazione della differenza tra le culture. Di conseguenza, e ritorneremo su questo punto nella seconda parte del nostro lavoro, l’antirazzismo classico, imperniato di culturalismo e di differenzialismo, non può più funzionare da dispositivo critico efficace, dal momento che le sue tesi e argomentazioni tendono a confondersi con quelle del neorazzismo, differenzialista e culturale. Di qui, la presa di coscienza della necessità di ripensare l’antirazzismo e di abbandonare la funzione rituale e il significato strettamente commemorativo di quest’ultimo. L’antirazzismo non può limitarsi all’indignazione morale retrospettiva e all’anatema commemorativo se non per autosqualificarsi, collaborando alla propria scomparsa per mancanza di “razzisti” corrispondenti a un identikit desueto. Né i Gobineau né gli Hitler possono oggi essere trovati lì dove li si cerca, e i nuovi razzisti non assomigliano più a queste figure del passato. L’antirazzismo militante deve finalmente cessare di commettere degli errori tattico-strategici, il principale dei quali è quello di sbagliare nemico, di non identificare il nuovo vero nemico, e di continuare a prendere come propri obiettivi i luoghi ripugnanti della memoria.

Per quanto riguarda la determinazione del razzismo non classico, la strada è sicuramente difficile: si tratta di evitare di diluire il concetto di razzismo estendendolo in modo indefinito, ma anche di dissolvere la sua realtà attuale preoccupandosi eccessivamente di darne una definizione ristretta. Occorre dunque riconoscere delle somiglianze o un’“aria di famiglia” tra i diversi fenomeni designati dai termini, dal contenuto variabile, di razzismo, etnocentrismo, xenofobia, così come da quelli di etnismo, etnonazionalismo o antisemitismo. Si tratta di termini politetici, che non possono essere oggetto di una definizione concettuale perfettamente soddisfacente, e di cui bisogna accettare una certa equivocità, una vaghezza dei loro rispettivi significati, che spesso si sovrappongono. Ma bisogna anche cercare di padroneggiare tale equivocità e tale vaghezza.

Come filo conduttore scegliamo una schematizzazione orientativa, la definizione di razzismo proposta nel 1972 da Colette Guillaumin: si tratta di una definizione articolata e ampia, secondo la quale il razzismo designa “ogni atteggiamento di esclusione che assume il carattere di permanenza”. Tale carattere di permanenza può essere trovato o inventato attraverso un procedimento genealogico, nel quadro di una filiazione o di un’origine comune, oppure attraverso una caratterizzazione morfologica, o, ancora, facendo ricorso tanto all’origine quanto alla forma visibile (al fenotipo). In quanto reazione contro la mobilità degli esseri umani, che provoca la loro mescolanza, l’atteggiamento razzista si pone l’obiettivo di “rimettere al loro posto” gli individui usciti dalla loro categoria di gruppo.

Se si può definire un nucleo duro dell'immaginario razzista, diciamo che esso, non è altro che l’ossessione della mescolanza, quella paura panica della non differenziazione o della perdita d’identità che si ritraduce in un’esaltazione della differenza. In Francia, per esempio, il neorazzismo culturale e differenzialista è stato introdotto nel campo politico dal Fronte nazionale, il cui discorso mostra bene l’integrazione del neorazzismo nel nazionalismo: “Rivendichiamo, per noi francesi, il diritto alla differenza, […] il diritto del nostro popolo di disporre di se stesso, […] il diritto di difendere la nostra identità” (Carl Gang, Antenne 2, 13 giugno 1989). Resta il fatto che l’identità nazionale che viene difesa è pensata come etnicamente omogenea, essendo definita da una comune eredità biologica e da una comune eredità culturale su base religiosa (cattolicesimo).

La stigmatizzazione, la discriminazione e l’esclusione radicale possono così essere praticate in nome di valori e di norme come la tolleranza, il rispetto dell’altro, il diritto alla differenza: altrettanti sotterfugi per il nuovo razzismo ideologico, che è un razzismo simbolico, sottile e indiretto, attento alla rispettabilità “culturale”, e che gioca sui sottintesi per modificare e rovesciare le “ammirevoli parole” che sfrutta. Il neorazzismo, simbolico o velato, è il razzismo proprio all’epoca dell’antirazzismo, un razzismo riadattato all’epoca postnazista caratterizzata da un consenso di base sul rifiuto del razzismo. Esso è strutturato, perciò, in modo da eludere i tradizionali modi di riconoscimento sociale del razzismo (discorsivo o comportamentale) e da aggirare le barriere simboliche stabilite dalle legislazioni antirazziste. È caratterizzato, quindi, innanzitutto dal rovesciamento dei valori propri al relativismo culturale (passaggio dalla “razza” alla “cultura” e affermazione della radicale incommensurabilità delle culture); in secondo luogo, dall’abbandono del tema non egualitario e dal fatto di assumere come un elemento assoluto la differenza culturale, da cui deriva la condanna della mescolanza e l’affermazione della reciproca e irremissibile non assimilabile tra le “culture”; infine, dal suo carattere simbolico, in quanto rispetta le regole dell’accettabilità ideologica (di qui una certa complessità retorica: si rifiutano i diversi pur celebrando la differenza).

Gli strateghi dottrinali del Fronte nazionale hanno essi stessi descritto pedagogicamente i principi del neorazzismo “loft”, rivelando così il carattere calcolato e mascherato del loro discorso. “Per sedurre, occorre innanzitutto evitare di far paura e di suscitare un sentimento di ripulsa. Nella nostra società loft e timorosa, i discorsi eccessivi creano inquietudine e suscitano la diffidenza o il rifiuto di larga parte della popolazione. Quando si parla in pubblico, è dunque essenziale evitare i discorsi estremisti e volgari. Si può affermare la stessa cosa con altrettanto vigore in un linguaggio posato e accettato dal gran pubblico. Per fare una caricatura, invece di dire ‘gettiamo a mare i negroni’, diciamo che bisogna ‘organizzare il rimpatrio nei loro paesi degli immigrati del terzo mondo’.” L’ideale del “vivere nel proprio paese” viene così strumentalizzato dalla xenofobia anti-immigrati. Per esprimersi fino in fondo il razzismo re inscritto nell'internazionalismo non ha bisogno né di “razze”, né di “ineguaglianza”, e neppure dell’esplicito appello all’odio. Questo consiglio linguistico è una sorprendente confessione: enuncia chiaramente, in modo crudo, ciò che i leninisti ortodossi o sfegatati hanno in mente nei confronti degli immigrati d’origine non europea (e in particolare dei magrebini).

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Verso un modello di intelligibilità

Prima di abbozzare un modello di intelligibilità del “razzismo”, e di rispondere così direttamente alla domanda che ci siamo posti — che cos’è il razzismo? —, bisogna fare un certo numero di distinzioni fondamentali. Diciamo, innanzitutto, che ciò che chiamiamo “razzismo” si distribuisce in tre diverse dimensioni: le attitudini (opinioni, credenze, pregiudizi, stereotipi, disposizioni o predisposizioni), i comportamenti (atteggiamenti, atti, pratiche, istituzioni o mobilitazioni) e le costruzioni ideologiche (teorie, dottrine legate ai nomi di alcuni autori, visioni del mondo, miti moderni). Il razzismo si esprime per lo meno in tre modi diversi, il che rende problematica la sua presunta unità: il razzismo-ideologia, il razzismo-pregiudizio e il razzismo-comportamento.

Pregiudizi, dottrine, atteggiamenti

Ora, numerose opere specialistiche hanno stabilito che non esisteva alcuna relazione causale tra il razzismo-pregiudizio (la sfera delle opinioni, delle attitudini, delle credenze) e il razzismo-comportamento (le pratiche di discriminazione, di persecuzione, e persino di sterminio), e cioè tra il razzismo come configurazione ideologica (un insieme organizzato di rappresentazioni e di credenze) e il razzismo della persecuzione e dell’annientamento. L’esperimento di Richard T. La Piere, compiuto nel 1934, illustra bene l’ipotesi di un’assenza di relazione causale. Il sociologo, viaggiando con una coppia di cinesi attraverso gli Stati Uniti, si fermò in sessantasei hotel e in Centottantaquattro ristoranti. Uno solo di essi rifiutò di servirli. Inviò poi un questionario in tutti gli hotel e ristoranti in cui si erano fermati, chiedendo ai loro direttori se accoglierebbero dei clienti cinesi: il 92% degli albergatori e il 93% dei ristoratori risposero di no. Non si potrebbero dunque prevedere i comportamenti sociali definiti razzisti unicamente a partire dalla conoscenza dei pregiudizi razziali, delle attitudini o delle opinioni “razziste” o “xenofobe” (simili a quelle che il sondaggio, per esempio, permetteva di valutare), né a partire dalla conoscenza, per quanto erudita, degli scritti ideologici giudicati “razzisti”. Questo scarto è in diretto contrasto con l’opinione comune sul razzismo, per la quale il fatto che il pregiudizio “conduca inevitabilmente all’atto violento”, che l’atto implichi il pregiudizio razziale o la visione razzialista del mondo (la teoria dell’ineguaglianza delle razze come “chiave della storia”) è un’evidenza indubbia. Un indottrinamento razzista non è il presupposto necessario dei comportamenti razzistici, i quali a volte non realizzano intenzioni coscienti, come dimostra la maggior parte delle forme di segregazione residenziale.

In secondo luogo, bisogna notare che il “razzismo” opera con o senza riferimento alla “razza” in senso biologica (e cioè come varietà di una specie), e trarne una prima conseguenza: la distinzione tra razzismo biologico e “razzismo” culturale, senza pensare che quest’ultimo nasca sempre come un successore sociostorico o una maschera del primo. Il razzismo biologico — razzismo “classico” — si fonda sui caratteri somatici (colore, della pelle, altezza, forma del cranio, ecc.) per elaborare delle categorie umane tra cui vengono poste delle relazioni di ineguaglianza (e talvolta di incommensurabilità). Oggi, i progressi tecnici della genetica rendono possibili nuove discriminazioni (per quanto concerne il lavoro, la sanità, ecc.) fondate sulle caratteristiche genetiche degli individui. Il “razzismo” culturale — pseudorazzismo o neorazzismo — fonda le proprie spiegazioni del corso della storia o del funzionamento sociale su delle categorizzazioni elaborate a partire dai tratti culturali (costumi, lingua, religione, ecc). I suoi confini con l’etnismo, o anche con certe forme di comunitarismo*, sono indeterminabili. La differenza delle sue argomentazioni rispetto alle forme plurietniche o multiculturali dell’antirazzismo diviene talvolta impercettibile. Che si richiami all’elemento biorazziale o a quello etnoculturale, il razzismo crea e mette in funzione delle categorie di distinzione (dalla “razza bianca” agli “ariani”, dagli “indoeuropei” agli “occidentali”, per esempio), che permetterebbero di spiegare, o persino di prevedere, le attitudini, le disposizioni o gli atteggiamenti degli individui che le rappresenterebbero: si crede di poter dedurre un determinato pensiero o un determinato comportamento di un individuo in base alla sua appartenenza a una “razza”, a un’etnia, a una nazione, a una cultura. In questo senso, il razzismo rivela un modo di pensare “essenzialista” o tipologico.

 




 

La pratica della segregazione razziale. Illustrazione del modello della separazione delle “razze” o della “linea di colore” messo in atto negli stati del sud degli Stati Uniti a partire dal 1870, prima di estendersi negli stati del nord dove i neri giungeranno in cerca di lavoro. Tale modello lo si ritroverà in Sudafrica, dove il sistema di “sviluppo separato” verrà politicamente applicato a partire dal 1948 sino al 1990.

Foto © E. Elliott/Magnum Photos.

In terzo luogo, bisogna distinguere il razzismo dello sfruttamento (il razzismo coloniale, schiavista, imperialista, ecc.), spiegabile in base alla teoria marxista o a quella della scelta razionale, dal razzismo dello sterminio che, al di là di tutti i calcoli razionali sugli interessi economici, predica il totale annientamento di un gruppo umano (come l’antisemitismo genocida di tipo nazionalsocialista). Il primo mette in moto un’ineguaglianza tra razze ritenute superiori e inferiori, tende a disumanizzare o a bestializzare le razze inferiorizzate, e riconosce maggiori diritti alle razze superiori, legittimando così il profitto tratto dallo sfruttamento delle cosiddette razze inferiori. Il secondo presuppone una visione mitica dello straniero-nemico assoluto, spesso patologizzato (in quanto portatore di un male contagioso, di qui le ossessioni fra loro intrecciate del contatto e della mescolanza), sempre trasformato in figura demoniaca, che incarna la minaccia suprema, e cioè la distruzione della propria identità: la demonizzazione prepara, senza per questo produrlo in modo causale, i comportamenti di eliminazione, legittima il genocidio preventivo presentandolo come un istinto di sopravvivenza da parte di coloro la cui stessa esistenza sarebbe minacciata. Non bisogna dunque confondere la volontà di dominare con il desiderio fobico del puro rigetto: la prima tende a realizzarsi nello sfruttamento economico, il secondo nell’espulsione e nello sterminio. Ma qui bisognerebbe aggiungere un’altra distinzione funzionale tra il razzismo concorrenziale e il razzismo del contatto: più precisamente, tra le reazioni razziste legate a una situazione di concorrenza, nutrite da interessi contrastanti e dal risentimento, e quelle che sorgono da una fobia del contatto, alimentate dalle rappresentazioni dell’impurezza, del contagio o della contaminazione.

In quarto luogo, si possono mettere in evidenza le due forme, irriducibili fra loro, del razzismo-ideologia. Il razzismo universalista, fondato su una negazione dell’identità, il quale si esprime attraverso un disprezzo più o meno accentuato, tradotto in scala di valori, per le forme culturali particolari e attenua o rifiuta la differenza, è sospettoso rispetto ad essa, la condanna. È eterofobo*. È il razzismo differenzialista, fondato su una negazione dell’umanità comune, il quale si esprime attraverso l’assolutizzazione delle identità o delle differenze di gruppo (razziali, etniche, culturali, e anche nazionali), che percepisce come incarnazioni di valori positivi. È eterofilo*, ed è, per principio, sospettoso di ogni forma d’universalismo.

Razzismo ordinario e razzismo elaborato

Occorre dunque, in quinto luogo, determinare il principio comune tra il pensiero razzista ordinario (il razzismo diffuso, vago, non tematizzato) e il razzismo dottrinale elaborato (il razzismo dei razzisti patentati). La più semplice descrizione del pensiero razzista ordinario, quella cioè di un insieme di rappresentazioni coscienti o non coscienti, ma non elaborate in dottrine, è la seguente: il razzismo consiste nell’interpretare la distinzione tra Noi e Loro, o tra Noi e gli Altri, come una distinzione tra due specie umane, la prima delle quali — quella dell’enunciatore della distinzione — viene giudicata più umana della seconda, o persino la sola veramente umana tra le due. Intrecciate fra loro, questa interpretazione e questa gerarchizzazione continuano a ripresentarsi nel pensiero comune, malgrado le smentite e le confutazioni, che non fanno altro che ripetere, mediante nuove argomentazioni, l’affermazione di Johann Gottfried Herder: “Qualsiasi sia la varietà delle forme umane, sull’intera superficie della terra c’è un’unica specie d’uomini”. Questa affermazione universalista è stata pubblicata nel 1785. Essa mirava a confutare una volta per tutte l’evidenza etnocentrica primordiale, che consiste nel disumanizzare spontaneamente gli Altri, nel barbarizzarli, nell’inferiorizzarli o nel pensarli come incivili. Al prezzo, è vero, di una certa astrazione, e, nel caso di certi universalisti estremisti, della scelta di mettere tra parentesi la diversità culturale ed etnica. Ma tale tesi, unitarista e universalista al contempo, non è l’unica che si possa opporre alla visione etnocentrica comune a tutte le forme di rifiuto o di messa al bando di diverse categorie d’“Altri”. Ad essa continua a fare concorrenza la tesi pluralista e relativista, presentata a sua volta nell’opera di Herder: in tale prospettiva, la pluralità culturale etnica o razziale di fatto viene trasformata di per sé in valore, si afferma l’uguaglianza di tutte le diverse culture o civiltà, e si fa appello al rispetto di tutte le diverse forme collettive di vita o di pensiero. Il relativismo si spinge al di là del dominio della pura conoscenza e diviene un’etica. Ma ciò comporta una contraddizione interna, che caratterizza la debolezza argomentativa del relativismo etnico-culturale insieme assoluto e (assolutamente) egualitario: per porre il valore in sé di ogni “cultura”, e impedire ogni paragone gerarchico (o ogni giudizio di valore comparativo), bisogna presupporre l’incommensurabilità delle suddette culture; ma, d’altra parte, per affermare la loro fondamentale eguaglianza di valore (la loro pari “dignità”), bisogna postulare che esse siano paragonabili, che abbiano dunque qualcosa in comune.

Rimane comunque il fatto che l’identificazione del razzismo in quanto derivato dell’etnocentrismo rischia di destoricizzare il problema. Un approccio sociologico permette tuttavia di salvare il modello di intelligibilità. Max Weber, interrogandosi sulle relazioni tra il sentimento di parentela “etnica” e la credenza di un “onore” proprio al gruppo sociale di appartenenza (classe o rango), ha delineato un modello psicosociale fondato sull’ossessione del declassamento. Quest’ultimo viene immaginato come una forma specifica di degrado prodotta dalla cancellazione delle differenze socialmente percettibili tra il gruppo “superiore” (dominante) e il gruppo “inferiore” (subordinato). L’eterofobia “popolare” — ossia il razzismo “populista” — deriva, in tale prospettiva, dal sentimento che una minaccia di declassamento incomba sulla comunità che si immagina unita e superiore (o “eletta”). Weber postula un’analogia tra il meccanismo dell’etnocentrismo e quello del disprezzo di classe che si trasforma in risentimento: “La convinzione — di cui si nutre l’onore etnico — dell’eccellenza dei propri costumi e dell’inferiorità dei costumi estranei è del tutto analoga ai concetti d’onore del ‘rango sociale’ (ständlich). L’onore etnico’ è l’onore proprio alla massa poiché esso è accessibile a tutti coloro che appartengono alla comunità d’origine a cui credono soggettivamente di appartenere […] I Bianchi del sud degli Stati Uniti, che non possedevano nulla e che, quando mancavano le occasioni di lavoro libero, conducevano spesso una vita miserabile, all’epoca dello schiavismo erano i veri portatori dell’antipatia razziale — totalmente estranea ai proprietari delle piantagioni — poiché il loro ‘onore’ sociale (sozial) dipendeva direttamente dal declassamento dei neri”.

Si genera così un risentimento proprio ai membri della classe “superiore”, che sta subendo un processo di indifferenziazione, contro quelli della classe “inferiore”. L’ossessione della decadenza etno-classista è la paura di cadere nell’elemento percepito come “inferiore”. L’ossessione del declassamento si trasforma in una difesa della propria identità razziale o etnica. È questa la genesi della repulsione eterofoba contro il gruppo “etnico” che, posto come “inferiore”, sembra innalzarsi verso il proprio gruppo per inglobarlo, sommergerlo (il gruppo minacciato può anche percepire se stesso come se stesse precipitando verso il gruppo “inferiore”, “risucchiato” da esso). Questo intreccio di declassamento e di risentimento costituisce uno dei meccanismi che stanno alla base della xenofobia contro gli immigrati, specialmente contro i magrebini, nelle classi popolari francesi minacciate dalla disoccupazione di lunga durata e dalla precarizzazione.

Un modello ideale di razzismo

Possiamo, infine, cercare di elaborare un modello ideale di “razzismo” elencando i tratti comuni a tutte le forme di razzismo. A tale fine, bisogna cominciare con il distinguere le caratteristiche cognitive del razzismo dalle sue caratteristiche pratiche. Di qui la seguente schematizzazione idealtipica. Per quanto concerne le caratteristiche cognitive, possiamo individuare tre generi di operazioni o di attitudini ricorrenti.

Innanzitutto, una categorizzazione essenzialista degli individui o dei gruppi, che implica la riduzione dell’individuo allo statuto di un qualsiasi rappresentante del suo gruppo di appartenenza o della sua comunità d’origine elevata a comunità di natura o d’essenza, fissa e insormontabile. Nascere tali, significa essere e dover rimanere tali. L’appartenenza non viene pensata solamente come se potesse predisporre il pensiero, come uno stile e come un insieme di contenuti, ma anche come normativa. Da questa essenzializzazione delle identità e delle differenze di gruppo deriva la negazione, più o meno accentuata, di una coappartenenza degli esseri umani. La negazione della loro comune natura. Essenzializzazione che si esprime specialmente in pseudotautologie del tipo: “Un ebreo è un ebreo”, il cui senso è: tale individuo non è che un ebreo, è la personificazione dell’ebreo. Il che porta a disindividualizzare l’individuo. La conseguenza decisiva di questa essenzializzazione è l’assolutizzazione della differenza tra i gruppi umani distinti o percepiti come reciprocamente irriducibili. Ciò che fornisce il criterio più sicuro dell’immaginario razzista, indipendentemente da ogni teorizzazione sulle razze (“razzialismo”), è proprio l’elevazione ad assoluto della differenza concernente l’origine o l’appartenenza.

In secondo luogo, una stigmatizzazione, ossia un’esclusione simbolica degli individui categorizzati in tal modo, che comporta la creazione di un certo numero di stereotipi negativi. Tutti i rappresentanti di una categoria di appartenenza assolutizzata, senza alcuna eccezione, vengono marchiati con diverse stigmate, “tare” o “macchie”. Li si pensa come impuri o in grado di rendere impuri gli altri. Il principale modo di stigmatizzazione consiste nell’attribuire a questo o a quel gruppo “estraneo” una natura pericolosa per il proprio gruppo o per il gruppo di appartenenza. Incarnazione della minaccia, persino di una minaccia di morte, la categoria resa estranea rientra in quella di nemico assoluto, rispetto al quale tutte le misure di autodifesa vengono giustificate, o addirittura esaltate. I maggiori effetti di condizionamento ideologico dovuti a una propaganda razzista, che costruisce il nemico come un demonio o un animale pericoloso, si manifestano in un contesto di guerra, in cui la polarizzazione sulla coppia “Noi versus Loro” (“i nostri” / il nemico) anima il “delirio del campo di battaglia”, e favorisce la “brutalizzazione” dei soldati, trasformando degli uomini comuni in assassini di professione. La disumanizzazione del nemico, demonizzato o bestializzato, crea una distanza psicologica tra il carnefice e la vittima, senza cui l’assassinio di massa, più o meno camuffato, non può aver luogo.

Alla strategia di demonizzazione si può opporre o affiancare una strategia di patologizzazione metaforica dell’entità stigmatizzata (“bacillo”, “virus”, “cancro”, “aids”, ecc.), centrata sull’ossessione del contatto o della mescolanza, i quali vengono pensati come processi che rendono impuri o come modi di contaminazione. Di qui il manifestarsi di ciò che chiamo la mixofobia. La fobia del misto o dell’ibrido verte principalmente sulla discendenza: viene rifiutata una discendenza mista, percepita come un’interruzione della continuità della stirpe, come una perdita della somiglianza, una dissoluzione dell’identità transgenerazionale. Il razzismo del contatto, nutrito d’immaginario, è più originario rispetto al razzismo della competizione, il quale deriva dai conflitti di interesse.

In terzo luogo, la convinzione che certe categorie di esseri umani non siano civilizzabili (e, dunque, come presupposto, che non siano civilizzate), che siano imperfettibili, non educabili, inconvertibili, inassimilabili: altrettanti modi di messa al bando che realizzano una parziale o totale disumanizzazione delle categorie prese di mira. La tesi della ineguaglianza tra le razze è solo una traduzione storica di questo postulato della non civilizzabilità che sta al centro dell’accusa di “barbarie”. L’inferiorità viene fissata in destino dell’altro e giustifica il suo rifiuto. All’interno di questa antropologia differenzialista immaginaria, le razze, le etnie o le culture vengono scambiate per specie o quasispecie differenti, tra le quali la comunicazione e la fecondazione non possono essere normali e non sono dunque auspicabili. È questa l’eredità del pregiudizio etnocentrico.

Al centro del pensiero razzista troviamo dunque due assiomi. Da una parte, la credenza che esistano delle categorie di esseri umani che non soltanto sono differenti, ma che lo sono in modo “anomalo”; ad essi non si rimprovera dunque la loro differenza, ma la loro cattiva differenza, il loro cattivo modo di differire. Il “barbaro” non è il differente in quanto tale, ma colui che mischia le distinzioni più significative, colui che incarna l’indifferenziazione minacciosa, la “differenza fuori sistema”.

Dall’altra, la convinzione che questi esseri umani, questi collettivi di individui che differiscono male, siano contemporaneamente inutili e pericolosi per il proprio gruppo. Essi devono, perciò, essere rifiutati incondizionatamente come inassimilabili (secondo la logica del nazionalismo razzializzato) o come inadatti (secondo la logica dell’utilitarismo capitalista, che incontra l’immaginario eugenista). C’è un filo ininterrotto che collega gli “inadatti al lavoro” agli “inadatti alla civiltà”, sino ai “sottouomini” (gli “inadatti all’umanità”).

In questa prospettiva, il “pensiero razzista” è definito dalla compresenza di tre operazioni o attitudini cognitive — essenzializzazione, esclusione simbolica, barbarizzazione — articolate in diversi modi tra loro. Ma “il razzismo” non si riduce a un insieme più o meno organizzato di attitudini, di convinzioni o di posizioni. Rinvia anche a dei comportamenti, a delle azioni e a delle pratiche.

Per quanto riguarda le caratteristiche pratico-sociali, si possono distinguere tre gruppi di azioni non necessariamente legati a delle intenzioni o a delle visioni razziste, ma legittimati in modo ottimale, a priori o a posteriori, da quest’ultime.

In primo luogo, la segregazione (la messa ai margini, allo scarto), la discriminazione (ossia le disparità di trattamento, giudicate illegittime, in base alle origini razziali, etniche, nazionali, o in base alle appartenenze culturali), l’espulsione degli “indesiderati” (definiti o come “inassimilabili”, o come “inadatti”, o ancora come “pericolosi”).

In secondo luogo, la persecuzione di tipo essenzialista, e cioè l’uso della violenza fisica contro i membri di un gruppo, non in base a ciò che fanno o non fanno, ma in virtù della loro appartenenza di gruppo, diciamo, di “ciò che sono, sono stati e saranno”.

In terzo luogo, lo sterminio di tutti i rappresentanti di una categoria di popolazione, ritenuta “di troppo”, sulla base di una demonizzazione o di una bestializzazione. È questo il principio delle pratiche genocide.

Questo modello ideale di razzismo non presuppone l’adesione dei razzisti a una teoria delle “razze” esplicita e dalle pretese scientifiche. Lo stesso vale, nella sua struttura formale, aggiungendovi una forte dimensione mitica, per quello che, a partire dagli ultimi due decenni del XIX secolo, viene chiamato “antisemitismo”. L’espressione non è corretta, poiché nei suoi usi ideologico-politici essa si applica unicamente agli ebrei, e, dunque, essere “antisemiti” significa essere “antiebraici”. Presa in senso stretto, l’espressione “antisemitismo” fa riferimento all’ideologia antiebraica ricostruita nel XIX secolo sulla base della teoria delle razze divenuta corrente (“semiti”/“ariani”). Ma attualmente, essa rinvia, con molti abusi, a tutte le forme di comportamenti o di attitudini antiebraiche, di discorsi o di rappresentazioni giudeofobiche.

Possiamo così vedere che il razzismo non si riduce a un discorso dall’apparenza teorica o dall’aspetto scientifico. Non si riduce nemmeno a un discorso dal contenuto ideologico-politico, che veicola delle opinioni, delle rappresentazioni, delle credenze. Costituisce anche, e forse soprattutto, ciò che Memmi chiama un’“esperienza vissuta”, mista di motivazioni non coscienti e di “buone ragioni” legittimatone per il razzista, un’esperienza vissuta nella quale si intrecciano affetti (emozioni, passioni), racconti leggendari, convinzioni e interessi legati a delle situazioni, a dei contesti istituzionali, così come a delle pratiche sociali dotate di valore funzionale (legittimare, razionalizzare).

Parte seconda

I fondamenti dell’antirazzismo

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“Che cosa c’è in un nome?”

Nonostante la banalizzazione del termine, ciò che si è deciso di chiamare “razzismo” ha continuato a porre problemi di definizione. La lotta contro il razzismo deve ancora essere interrogata non solo rispetto alla sua efficacia, all’utilità di alcune delle sue forme, ma anche e soprattutto rispetto ai suoi fondamenti. Non ci si può, infatti, limitare a riferirsi in modo vago, con la necessaria indignazione, al “razzismo” come a uno dei nomi ideologici del Male, persino del Male assoluto, supponendo ingenuamente che, per il fatto che esiste il sostantivo “razzismo”, si possa inferire che esista necessariamente un’unica entità, omogenea e invariabile, definibile come “razzismo”, chiaramente riconoscibile e che si potrà tentare di estirpare. Bisogna forse pensare, innanzitutto, che esistano più razzismi, passare dal singolare al plurale; e, in secondo luogo, che le concezioni razziste varino, si trasformino, si adattino a diversi contesti, si riciclino, che, insomma, subiscano delle metamorfosi. Di conseguenza, la definizione dei compiti e dei fini dell’antirazzismo deve essere ripensata facendo riferimento alle trasformazioni delle rappresentazioni razzistizzanti e alle riformulazioni degli argomenti razzisti.

“E che è un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo soave profumo.” Così Giulietta dice a Romeo, nel dramma di Shakespeare. Si può forse affermare, con altrettanta certezza, che ciò che chiamiamo “razzismo”, con un altro nome avrebbe lo stesso cattivo odore? Rispondendo affermativamente a questa domanda, si trascurerebbe la forza plasmatrice del linguaggio comune, e specialmente il fatto che le categorie di quest’ultimo impongono surrettiziamente, agli attori, modi di individuare e di percepire i fenomeni sociali che implicano dei giudizi di valore e trasmettono delle norme. Si trascurerebbe il fatto che i termini possono suscitare dei sentimenti intensi, risvegliando dei ricordi o alimentando un aspetto dell’immaginario sociale. In breve, una determinata parola non nomina nello stesso modo, non compie gli stessi atti, e non produce gli stessi effetti di un’altra qualsiasi parola.

Se “le parole sono delle armi”, alcune parole possono funzionare come frecce avvelenate, capaci di far morire il nemico, di “neutralizzarlo”. Le parole delle xenofobie e dei razzismi, che demonizzano o bestializzano, funzionano d’abitudine proprio in questo modo. Ma, nell’uso attuale, accade spesso così anche per lo stesso termine di “razzismo”: si pensa che esso designi con disprezzo, timore, repulsione, o persino con orrore, una supposta caratteristica dell’individuo o del gruppo preso di mira, percepito come avversario o nemico, denunciato come pericoloso e disprezzabile. Il che significa presupporre che ci sia sempre la possibilità di nominare e di qualificare il “razzismo” e i “razzisti” per coloro che li denunciano. Per quanto concerne gli usi contemporanei del termine “razzismo”, si pone, dunque, il problema della parola legittima, del ruolo che essa svolge e del gruppo o dei gruppi che hanno la possibilità di usarla (o che ne hanno il monopolio). Bisogna forse supporre che esistano dei gradi di legittimità nell’uso della parola legittima, e quindi nel potere di nominare. Il diritto e il potere di nominare il razzismo e di designare qualcuno o qualcosa come “razzista” apparterrebbe pienamente, di conseguenza, a coloro che si trovano ai vertici della gerarchia della credibilità.

Dall’educazione scientifica dell’umanità alla repressione giuridica

Questo enorme problema della padronanza della parola, e più generalmente quello del potere d’applicare e di definire i termini “razzismo” e “razzista”, si pone in senso più ristretto nell’ambito del diritto e della legge per quegli Stati che hanno adottato una cosiddetta legislazione “antirazzista”: rientrano nel campo del “razzismo” le attitudini e i comportamenti discriminatori considerati come “crimini” e che in quanto tali sono puniti per legge. È il caso, per esempio, della legislazione francese. Il primo articolo della legge numero 90/615 del 13 luglio del 1990 afferma: “Ogni discriminazione fondata sull’appartenenza o la non appartenenza a un’etnia, a una nazione, a una razza o a una religione è proibita”. Tale enunciato presuppone che le razze esistano allo stesso titolo delle etnie, le nazioni o le religioni. In questo quadro, la discriminazione in base alla “razza” (o la rappresentazione sociale dell’identità razziale) appare unicamente come una delle discriminazioni “proibite”. L’antirazzismo giuridico implica dunque, nello stesso tempo, da un lato, un allargamento dell’ambito di ciò che si chiama “razzismo” (nell’estensione del termine, oltre alla discriminazione in base alla “razza”, vengono esplicitamente citate le discriminazioni in base alla religione, alla nazionalità, all’etnia), e, dall’altro, il fatto di porre un interdetto.

Interpretando formalmente l’articolo della legge, si potrebbe concludere che il nazionalismo sia proibito quanto il razzismo, e che costituisca un crimine. Il che vale anche per l’etnismo e per tutte le forme di integralismo o di fondamentalismo religioso, e persino per l’anticlericalismo o per l’ateismo militante, poiché mancherebbero di rispetto nei confronti delle pratiche o delle credenze religiose. È come se la criminalizzazione del razzismo (sempre più o meno confuso con la xenofobia) si fosse surrettiziamente estesa a ogni forma di credenza giudicata esclusivista. Il razzismo è diventato l’eponimo implicito di tutti i cattivi “ismi”, che vengono percepiti come se avessero “un’aria di famiglia” con esso. In ogni caso, il razzismo è diventato un crimine che deve essere punito dall’applicazione della legge. Questa riduzione giuridica del razzismo, questa visione strettamente repressiva di ciò che si chiama “razzismo” costituisce una relativa novità. L’azione repressiva sembra aver preso il posto di quella preventiva.

Dopo questo rapido sorvolo sul recente processo di ricezione giuridica del problema del razzismo — processo in fase di accelerazione — possiamo valutare meglio il modo in cui è cambiata la problematica nel programma antirazzista istituzionale dopo le prime dichiarazioni dell’UNESCO (18 luglio 1950, giugno 1951, ecc.), fondate soprattutto sulla lotta intellettuale e sull’istruzione scientifica. In mezzo secolo, il trattamento antirazzista del “razzismo” è completamente cambiato, passando da un programma universalista di educazione scientifica alla pratica sistematica della sanzione giuridica. Alla fine degli anni Quaranta, infatti, l’UNESCO si impegnava in “un programma di diffusione di fatti scientifici atti a far scomparire i cosiddetti pregiudizi di razza”. Gli scienziati, i biologi e gli antropologi, sollecitati dall’UNESCO, si impegnavano a denunciare “un mito assurdo […], il razzismo”. Essi erano d’accordo nell’individuare al centro di tale “mito” il “dogma dell’ineguaglianza delle razze”, nel presupporre che “gli odi e i conflitti razziali si nutrono di nozioni scientificamente false e vivono di ignoranza”. Il programma antirazzista si configurava, di conseguenza, come un programma pedagogico, di universale trasmissione e di diffusione dei “dati scientifici” sulle diverse caratteristiche della specie umana, al fine di lottare contro lo sfruttamento dell’“ignoranza” e del “pregiudizio razziale”, concependo quest’ultimo come effetto dell’ignoranza e dell’irrazionalità. Infatti, si credeva anche che il “razzismo” fosse “l’espressione di un sistema di pensiero fondamentalmente antirazionale”. La lotta contro il razzismo si confondeva, dunque, con l’appello ai Lumi della scienza e alla chiarezza dello spirito razionale. L’ideale antirazzista doveva realizzarsi attraverso l’istruzione e l’educazione, e non attraverso la proibizione e la sanzione.

Ma il relativo ottimismo dell’antirazzismo sostenuto dall’UNESCO si è ben presto scontrato — già verso la fine degli anni Quaranta — con le conclusioni delle ricerche svolte dagli psicologi sociali sui pregiudizi e sugli stereotipi, ricerche profondamente influenzate dai concetti della psicoanalisi. Infatti, la messa in luce del carattere funzionale dell’irrazionalità attribuita al “pregiudizio razziale”, che sembra spiegare la resistenza di quest’ultimo ai tentativi di attenuarlo attraverso la verifica di fatti e di dati “scientifici”, non può che contrapporsi all’ideale educativo. Il soggetto incline ai pregiudizi si rifiuta di ammettere i fatti, sembra tenere ad ogni costo alle sue false idee: tale constatazione ha portato molti studiosi di psicologia sociale a richiamarsi al concetto psicoanalitico di meccanismo di difesa, che riuscirebbe a rendere conto della funzione psicosociale svolta dal pregiudizio (o dallo stereotipo). Ma ci si richiama anche ai concetti di spostamento e di proiezione, di rimozione e di ritorno del rimosso. Si ricorre, dunque, per esempio, al modello della “frustrazione-aggressione” con cui si riformula il ben noto modello del “capro espiatorio”* o quello della “personalità autoritaria”. In ogni caso, si presuppone che il reale fondamento del pregiudizio razziale non debba essere cercato semplicemente nell’ignoranza da parte del soggetto incline ai pregiudizi rispetto al “fuori-gruppo” che viene rifiutato, e nemmeno nelle caratteristiche della situazione sociale (concorrenza economica, sfruttamento, ecc.), ma innanzitutto nei conflitti psichici del soggetto stesso. In breve, si suppone che il pregiudizio funzioni come un sintomo, una formazione di compromesso. In questo senso, il pregiudizio esprime e realizza un modo di razionalizzazione.

Consideriamo, per esempio, i meccanismi di difesa espressi dall’estremo rigorismo morale degli “antisemiti puritani” studiati da Else Frenkel-Brunswik e da R. Nevitt Sanford: questi soggetti antisemiti immaginano l’ebreo come un criminale sessuale, un violentatore e insieme un pericoloso seduttore, capace di insudiciare le giovani cristiane, pure e innocenti. Tali meccanismi di difesa svolgono la funzione di “ridurre l’ansia e la colpevolezza cosciente”. Se tale descrizione è corretta, si deve concludere che la conoscenza e l’esperienza sono impotenti nell’eliminare il pregiudizio aliofobo, qualsiasi ne sia l’obiettivo. In tale prospettiva, Marie Jahoda, nel 1960, ha proposto una definizione ampia del cosiddetto pregiudizio razziale: “C’è pregiudizio quando l’attitudine ostile verso un ‘fuori-gruppo’ non può essere modificata dall’esperienza e svolge una funzione psicologica in colui che l’adotta”. Solo una psicoterapia può dunque permettere a un soggetto razzista (antisemita, xenofobo, ecc.) di uscire dal suo triste stato. La cura psicoanalitica sarebbe, allora, l’unica via di salvezza. Ma basta la constatazione ironica del militante rivoluzionario dei neri americani Eldridge Cleaver, fatta nel 1968, per vedere la ristrettezza interpretativa dell’approccio psicoanalitico (o psicologizzante) del razzismo: “Quando gli parlo dei miei problemi con i bianchi, il mio psichiatra si interessa soltanto della mia famiglia e mi dice che odio mia madre”. Rimane comunque il fatto che questo modello psicopatologico del pregiudizio ha per lo meno il merito di mostrare i limiti di una lotta strettamente cognitiva contro il razzismo.

Ma è un modello a sua volta limitato, come dimostra una breve analisi della teoria della “personalità autoritaria”. Secondo i suoi sostenitori (Adorno, ecc.), i soggetti razzisti sono “dotati di tratti psicologici ‘stabili’, reperibili attraverso dei questionari, delle interviste e dei test di personalità”. La personalità razzista è formata da diversi elementi: etnocentrismo, antisemitismo, “fascismo”, conservatorismo, stile cognitivo rigido (il pensiero per cliché), ecc. La personalità autoritaria e la cosiddetta personalità “antidemocratica”, pressappoco assimilabili l’una all’altra, sono profondamente correlate all’etnocentrismo. Questi tratti di personalità provengono da un’originaria plasmazione dovuta all’educazione e sono il derivato di una socializzazione fatta di repressione e di frustrazione. Ci si limita poi a supporre l’esistenza degli inevitabili ritorni del rimosso e a descrivere gli spostamenti e le proiezioni delle pulsioni o degli affetti rimossi su dei capri espiatori. Ritroviamo così il modello della “frustrazione-aggressione”. Il razzismo, insomma, ha a che fare con la patologia individuale su uno sfondo di socializzazione autoritaria e repressiva. I razzisti vengono, dunque, patologizzati, trattati come se, nella loro infanzia, fossero stati le vittime di un “virus” ideologico. Ma questa concezione del pregiudizio razzista come sintomo di determinate esperienze di frustrazione si scontra con il fatto che “è impossibile provare che le persone che hanno dei profondi pregiudizi abbiano subito maggiori frustrazioni delle altre”. Né verificabile, né confutabile, tale concezione sembra molto debole. E la categorizzazione del razzismo come malattia mentale implica anche un’essenzializzazione: un soggetto dichiarato razzista tende ad essere definito come essenzialmente razzista, il razzismo gli viene attribuito come una natura e come un’impurezza.

Inoltre, alcune critiche mosse, nel corso degli anni Cinquanta, al modello della “personalità autoritaria”, hanno dimostrato che Adorno e i suoi collaboratori avevano stabilito un indebito legame tra etnocentrismo, autoritarismo e “conservatorismo”. Nel 1960, Milton Rokeach, ha messo in luce che l’autoritarismo si riscontra sia nella sinistra che nella destra, che i tratti della “personalità autoritaria” potevano essere riscontrati tra i rivoluzionari nella stessa misura che tra i conservatori o i reazionari. È invece osservabile una rigidità mentale, ossia un insieme di tendenze alla dogmatizzazione che si possono fissare su qualsiasi posizione ideologico-politica. Gli antirazzisti non vi sfuggirebbero più di quanto vi sfuggano i razzisti. Ma anche con l’opposizione tra “apertura” e “chiusura” mentale, si rimane tuttavia nel campo dei modelli che tendono alla psicologizzazione. Il fattore sociale interviene soltanto come fattore di un’originaria socializzazione dei soggetti “rigidi”…

Infine, le ulteriori difficoltà incontrate dagli psicosociologi o dagli psicoanalisti nei loro tentativi di attenuare i pregiudizi facendo ricorso a contatti interrazziali ritenuti terapeutici, hanno impercettibilmente fatto sì che negli ambienti antirazzisti, colti da un oscuro pessimismo sulla natura umana, si cominciasse a sostenere la preservazione dei “tabù”, o persino la loro reintroduzione, attraverso l’elogio del limite simbolico rappresentato dalla legge. Quando non si crede più ai poteri trasformatori dei Lumi, né agli effetti di tolleranza del dialogo, si elogia l’interdetto, deplorando la “fine dei tabù”, e proponendo la loro reintroduzione. La repressione giuridica tende a divenire, allora, l’unico metodo di lotta contro il razzismo.

Antirazzismo e pessimismo

Occorre dunque interrogarsi sul perché di questo ritorno (o di questo accentuarsi) del pessimismo nell’ambito del militantismo antirazzista. C’è pessimismo in quanto il razzismo viene attribuito alla natura umana, o in quanto le origini delle attitudini e dei comportamenti cosiddetti “razzisti” (discriminazione, segregazione, ecc.) vengono identificate come tendenze o disposizioni originarie della specie umana. Gli scritti di Memmi sul razzismo mostrano bene questa visione antropologica del razzismo, le cui “funzioni psichiche e sociali” o le cui “radici” sembrano essere consustanziali alla specie umana. Vengono individuati due elementi di legittimazione del razzismo: la “paura dell’Altro”, retaggio “di tempi antichi”, e gli interessi legati al dominio o allo sfruttamento (schiavismo, colonialismo, capitalismo, imperialismo, ecc.). Il razzismo è dunque un’eredità della xenofobia pensata come originaria e un effetto delle logiche sociali di dominio. Ma si tratta di due motivazioni (la paura e l’interesse) universali e transtoriche, e facendo riferimento ad esse si destoricizza il razzismo, si postula che nell’uomo ci siano dei “germi di razzismo”. Memmi sembra, infatti, assumere tutte le conseguenze logiche di questa teoria estremamente ampia del razzismo: “Se lo spirito umano ha queste tendenze a essere razzista, è molto probabile che un simile comportamento si perpetui. […] La cosa naturale è il razzismo, non l’antirazzismo: quest’ultimo può essere solo una conquista, frutto di una lotta lunga e difficile, e sempre minacciata, come avviene per ogni acquisizione culturale”. Lo schema “cultura contro natura” permette, dunque, di elaborare la definizione dell’antirazzismo: quest’ultimo diventa una permanente insurrezione contro l’eterno ritorno della cattiva natura nel fragile ordine della cultura. L’antirazzismo consisterebbe dunque in una padronanza della natura insita nell’uomo, nella duplice padronanza delle sue paure irrazionali e dei suoi smodati interessi. La lotta contro il razzismo è una lotta infinita contro la natura umana. Non siamo molto distanti dal mito di Sisifo.

Il pessimismo consiste qui nel naturalizzare il male o l’origine del male, nel postulare come insormontabile “il lato cattivo” dell’essere umano. Il pessimismo antropologico e sociopolitico degli antirazzisti disillusi, si esprime innanzitutto, nei loro discorsi, attraverso alcune considerazioni sui legami necessari tra la solidarietà interna di un gruppo e la stigmatizzazione di un “fuori-gruppo” posto come nemico. Per citare nuovamente Marie Jahoda, essa afferma: “È noto quanto la presenza di un nemico esterno contribuisca a rafforzare la solidarietà del gruppo, di modo che, quando questo nemico non esiste, lo si inventa”. Si insiste poi, correlativamente, sulla necessità funzionale dei confini tra i diversi gruppi, affinché la distinzione intergruppale sia garantita dalla distanza. L’imperativo della distanza, o della “buona distanza”, sociale e territoriale, è stato formulato come un principio antropologico da Sigmund Freud che, con un certo umorismo e con amarezza, scriveva nel 1929: “È sempre possibile unire una maggior massa di uomini attraverso i legami dell’amore, a condizione, però, che altri uomini restino al di fuori di tale massa per riceverne i colpi”.

In breve, al di fuori dei confini del gruppo di appartenenza, predomina lo stato di natura, retto dal principio homo homini lupus. Sostenendo l’ipotesi che ci sia una continuità tra le attitudini e i comportamenti primordiali di tipo xenofobo (implicati dall’etnocentrismo, fenomeno ritenuto universale) e le moderne forme di inferiorizzazione o di esclusione (di cui il razzismo è la manifestazione per eccellenza), si lascia intendere che il razzismo abbia un fondamento naturale, che esso appartenga alla natura delle società umane. La lotta contro il razzismo, allora, si scontra con la costituzione affettiva e mentale dell’uomo, e con il funzionamento ritenuto elementare di tutti i raggruppamenti sociali. Che la si individui nell’etnocentrismo, nel tribalismo o nell’aggressività come istinto o tendenza specifica, l’origine del male viene comunque naturalizzata.

L’errore di interpretazione “disposizionalista

Le spiegazioni del senso comune o le teorie implicite degli attori sociali sulle cause del comportamento dei loro simili fanno scattare dei meccanismi cognitivi ed emotivi complessi, i cui risultati osservabili e analizzabili mostrano il permanere e il resistere di alcuni errori di interpretazione e di alcune illusioni. Un gran numero di essi possono essere spiegati attraverso la comune sopravalutazione delle cause “disposizionalistiche” del comportamento. Questo errore interpretativo è condiviso dalle teorizzazioni che appartengono all’ambito della conoscenza ordinaria e da alcune teorie esplicative proposte dagli psicologi o dagli psicologi sociali, specialmente da coloro che fanno riferimento ai modelli psicoanalitici o ai modelli etnologici.

L’“errore fondamentale d’attribuzione” consiste nella tendenza ad attribuire il comportamento di un attore quasi esclusivamente alle disposizioni di quest’ultimo e nell’ignorare, correlativamente, la situazione in quanto fattore determinante del comportamento. Si può supporre che questo “errore fondamentale” sia spiegabile attraverso l’efficacia simbolica di una teoria “disposizionalista” generale, intrecciata alla trama della cultura occidentale. Uno studio genealogico dell’errore d’interpretazione “disposizionalista” potrebbe, più esattamente, identificare l’origine di quest’ultimo nell’ideologia individualista moderna.

Inoltre, le rappresentazioni sociali impongono spiegazioni precostituite; offrono immediatamente, ancor prima di qualsiasi ricerca e analisi dettagliata, delle risposte già pronte alle domande che vertono sul comportamento sociale. In breve, gli attori sociali formulano delle attribuzioni o delle imputazioni sulla base di un sapere precostituito formato dalle rappresentazioni sociali disponibili. Così, delle risposte automatiche, caratterizzate dal semplice operatore “perché”, impediscono che sorgano degli interrogativi su dei fenomeni sorprendenti, imprevisti, atipici o scandalosi: “Gli ebrei sono criticati perché…”, “i poveri sono sfruttati perché…”, “i neri sono inferiori perché…”. Ritroviamo qui il meccanismo di disumanizzazione descritto da numerosi storici a proposito della situazione coloniale, ossia il ritornello che nega “tutte le qualità che fanno del colonizzato un uomo”. La disumanizzazione, modo di legittimazione dello status quo, presuppone la categorizzazione globalizzante di una popolazione a cui si attribuisce un’identità sostanziale comune, come se tutti gli individui appartenenti al gruppo essenzializzato manifestassero l’identità del gruppo, come se fossero tutti cloni gli uni degli altri. Il “plurale” imposto ai membri del gruppo essenzializzato lo testimonia: “Essi sono questo… essi sono tutti uguali”. La norma logica della categorizzazione indifferenziante è la seguente: “Tutti gli x (membri della classe x) sono degli y (classe di caratteristiche)”. Tale essenzializzazione implica un’indebita generalizzazione (il passaggio da “un x” o da “qualche x” a “tutti gli x”).

È forse necessario precisare che questa analisi critica dell’errore di interpretazione “disposizionalista” vale anche per la nota teoria della “personalità autoritaria”, in cui i cosiddetti comportamenti fascisti, razzisti/xenofobi e antisemiti vengono collegati a degli insiemi di disposizioni a essere fascisti, razzisti/xenofobi e antisemiti? Una teoria esplicativa chiaramente antirazzista può dunque cadere nell’illusione “disposizionalista”.

Non si è razzisti, lo si diventa. E dunque si può anche non esserlo più, pur essendolo stati. Il razzismo manifestato dal comportamento di un attore sociale non può essere spiegato attraverso le tendenze o le disposizioni di quest’ultimo. Il principale elemento di spiegazione di un’attitudine o di una disposizione sociale è la situazione. Di recente, Memmi ha indicato il meccanismo di generazione del colonialismo in un processo di interazione: “La situazione coloniale genera sia colonialisti sia colonizzati”.

La causa del sistema coloniale non si trova nelle disposizioni dei colonialisti. Sono proprio le spiegazioni razziste che ricorrono sistematicamente alla “natura” degli individui per spiegare i loro comportamenti, in quanto tale “natura” è particolare, appartiene alla loro “razza” o alla loro “etnia”: si afferma allora che i membri di un determinato gruppo umano hanno fatto questo o quello a causa della loro “natura”, delle loro specifiche predisposizioni. Si tratta di un “pregiudizio fondamentale”, come è stato ben dimostrato da Memmi, il quale ne dà la seguente descrizione: “Gli europei hanno conquistato il mondo perché la loro natura li ha predisposti a farlo, i non europei sono stati colonizzati perché la loro natura li condannava ad esserlo”. La conclusione razzista/razzialista va da sé: i conquistatori/dominanti sono di natura superiore, i conquistati/dominati sono di natura inferiore. L’illusione “disposizionalista” va di pari passo con le pseudospiegazioni essenzialiste e con il ricorso a modelli di legittimazione attraverso la naturalizzazione dei fenomeni sociali.

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Perché essere antirazzisti?

Poniamoci subito una domanda apparentemente semplice: perché essere antirazzisti? Le risposte fondamentali a tale domanda non possono essere strettamente d’ordine politico o giuridico-politico; mettono in gioco dei presupposti morali, metafisici e religiosi, o teologico-religiosi. Si tratta, infatti, di determinare il fondamento dell’azione contro il razzismo, e, dunque, i fini dell’antirazzismo. Rispetto a tale domanda — “perché essere antirazzisti?” — distinguerò sei risposte teoriche o speculative, seguendo la logica delle quali sorgono delle contraddizioni, dei paradossi o delle aporie, e che, analizzate attentamente, non sembrano tutte compatibili le une con le altre.

In nome dell’Illuminismo

Perché essere antirazzista? Prima risposta, sulla scia dell’Illuminismo, in nome della Civiltà, del Progresso o dell’Umanità vera, compiuta, dell’avvenire: per lottare contro la Barbarie, e, più ambiziosamente, per porre fine alla Barbarie nel mondo degli uomini. L’antirazzismo è un umanesimo. Si tratta di superare il passato dell’umanità, le forme di comportamento arcaico degli esseri umani. Rompere con il passato tribale, superare definitivamente la barbarie delle origini. La “barbarie” è la categoria che raggruppa tutte le figure del passato ripugnante della specie umana. Si tratta di impedire il ritorno del primitivo nel presente. Ne conosciamo le principali formulazioni: porre fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, all’ineguaglianza tra gli uomini, al dominio delle maggioranze sulle minoranze, alla discriminazione e alla segregazione, e, ovviamente, alla violenza in tutte le sue forme. Radicalizzata, tale volontà di realizzare le promesse della Civiltà, di civilizzare radicalmente l’umanità, comporta il tentativo di sradicare le passioni negative della natura umana, di eliminare, nell’uomo, la sua parte cattiva o patologica. Essere antirazzisti, in questo senso, significa postulare che il “razzismo” designa l’insieme di tali passioni, di tali attitudini e di tali comportamenti condannabili, o che ne caratterizza le manifestazioni estreme. L’antirazzismo può allora presentarsi come un progetto di riumanizzazione di un’umanità difettosa. In questo senso, è una sorta di migliorismo: è una delle dottrine di “coloro che vogliono rendere migliore l’umanità”. Ma può anche essere solo una particolare espressione del progressismo, ossia di quella forma di storicismo che consiste in una visione essenzialista del progresso, secondo cui il cammino verso il meglio si compirà in virtù delle leggi della storia. Essere antirazzisti, non significa più lottare per iscrivere dei valori superiori o dei fini propriamente umani nella realtà sociale e storica, ma collocarsi nel corso stesso della storia, aderire alla buona direzione del corso storico, in un tempo lineare e vettoriale.

Questa prima risposta alla domanda presuppone l’esistenza di un limite definibile tra la barbarie e la non-barbarie, e, più precisamente, l’esistenza di una differenza gerarchica tra barbarie e civiltà, o tra gli esseri umani incompleti, ossia inumani, e coloro che sarebbero propriamente umani. Di qui il fatto di postulare una scala di valori — un’ineguaglianza interumana o dei gradi di umanità — che, per un effetto perverso, offre il proprio contenuto a un contro-razzismo elementare. Quest’ultimo opera surrettiziamente una categorizzazione razziale o razzoide. L’antirazzista, infatti, pone se stesso, grazie alla sua posizione antibarbarica, tra i civilizzati e i civilizzatori; si attribuisce il titolo dell’essere più umano tra gli esseri umani; e pone i “razzisti”, coloro che egli percepisce come tali, tra i semiumani da migliorare, gli inumani da controllare, gli umani decaduti da curare e salvare, i semiumani da rieducare, o persino tra i sottoumani da mettere al bando, da sorvegliare e da punire. Ora, non c’è razzismo che non presupponga l’esistenza di un’opposizione tra “Noi” e “Loro” (o “gli Altri”), i quali ultimi, nel razzismo biologico-inegualitario classico, vengono rigettati dalla parte dei selvaggi o dei barbari, abbassati in quanto rappresentanti di una natura primitiva e pericolosa, o di una sottoumanità. La visione evoluzionista del progresso (o della “civilizzazione”), implica la proiezione, nella storia lineare, di una scala di valori (dagli inferiori ai superiori, dal peggio al meglio), e risulta dunque compatibile tanto con un impegno antirazzista quanto con un impegno razzista. L’antirazzismo progressista o migliorista è dunque l’ombra proiettata dal razzismo evoluzionista. Di qui il singolare faccia a faccia inegualitario e reversibile tra coloro che si autodichiarano rappresentanti dell’umanità stessa e coloro che incarnano la barbarie, e cioè gli inumani che tendono a essere trattati come sottoumani. Scorgiamo, allora, che in tale configurazione, la posizione antirazzista non sfugge all’ombra di ciò che essa denuncia e condanna: il razzismo. L’antirazzismo prende a prestito dal razzismo alcuni aspetti della sua configurazione; ricostituisce, attraverso la (o la sua) polemica nei confronti del razzismo, una scala gerarchica di valori. L’antirazzismo, così come il razzismo, si richiama a una ben determinata e suddivisa differenza di valore tra i superiori e gli inferiori, i buoni e i cattivi, gli “evoluti” e i “selvaggi” (arcaici, primitivi). L’antirazzismo sembra così aver ereditato l’ambivalenza e la reversibilità dell’umanesimo, culto della suprema Umanità. Questa prima risposta non è dunque soddisfacente, essa non ci permette di uscire dal cerchio delle evidenze cognitive, valutative e normative del pensiero razzista classico.

In nome della verità scientifica

Seconda risposta, in nome della verità, ossia della verità scientifica e del progresso della conoscenza: per lottare contro la potenza della falsità e della menzogna. L’antirazzismo si definisce, e così fonda se stesso, come un discorso di verità che deriva dal dovere di combattere le idee false, i giudizi erronei, i ragionamenti sbagliati, le teorie pseudoesplicative o le pseudoteorie scientifiche. In tal modo, l’antirazzismo lega il proprio destino a quello delle verità scientifiche, inseparabili dalle teorie che evolvono, variano, o scompaiono per far posto ad altre teorie. Tuttavia, se è vero che attualmente, dal punto di vista della genetica delle popolazioni, nulla permette, di suddividere la specie umana in razze distinte definite in modo tipologico (in quanto varietà bioculturali della specie), nulla ci assicura che sarà sempre così anche un domani. L’attuale sconfitta di numerose teorie razzialiste dalla pretesa scientifica non pregiudica affatto un futuro statuto scientifico di eventuali nuove teorizzazioni della differenza intergruppale (“razziale” o non). Limitarsi ad affermare che il “razzismo” — ridotto a un insieme di tesi, e dunque a un razzialismo dogmatico — è scientificamente falso, non significa soltanto avventurarsi nel cattivo infinito del relativismo epistemico, ma ricorrere anche all’uso scientista di un argomento d’autorità (“la scienza dice che…”). A un dogmatismo scientista — quello del preteso “razzismo scientifico”, che, per esempio, fonda la tesi dell’“ineguaglianza delle razze” sui risultati dei “bianchi” e dei “neri” americani ai test del Quoziente intellettivo — si replica, così, inevitabilmente, con un altro dogmatismo scientista, fondato su basi necessariamente provvisorie e incerte (“la razza non esiste”, “le razze non hanno fondamenti genetici”, ecc.). Ma in tal modo si confina la posizione antirazzista nei ristretti limiti del sapere biologico, e di un biologismo o di un naturalismo scientisti, come se la scienza dovesse fondare la morale e la politica, e sostituire le forme di percezione comune (per le quali le “razze” esistono) con dei modelli formali. Di fronte a coloro che credono di potersi limitare a lottare contro il razzismo spiegando agli ignoranti che le razze umane sono delle finzioni poiché attualmente appaiono prive di qualsiasi fondamento genetico, il genetista Pierre-Henri Gouyon pone il vero problema, riformulandolo in tal modo: “E se ne avessero uno? Bisognerebbe dunque essere razzisti? No. Un’enorme parte dell’attività umana consiste da sempre nel battersi contro ciò che il suo ambiente le vuole imporre. Qualsiasi cosa si possa dimostrare, la Natura non deve dettare la mia morale”. Il rifiuto morale del razzismo sembra più solido, indipendentemente da ogni riferimento alla scientificità attuale o futura di questa o quella tesi “razzista”. L’imperativo morale è incondizionato, e il suo messaggio antirazzista è estremamente chiaro: in quanto abolisce o nega la dignità umana, il razzismo deve essere assolutamente condannato. Ma bisogna anche chiarire in quale modo la dignità umana viene colpita dalle diverse espressioni del razzismo. La negazione dell’unità biologica, mentale e morale del genere umano può, infatti, essere operata o attraverso la negazione dell’umanità (si dichiara come infraumano un determinato gruppo d’appartenenza umana), oppure attraverso una negazione dell’identità (non si riconosce come degna di rispetto una determinata cultura, si disumanizza una determinata comunità umana).

In nome del Bene

Poniamo di nuovo, allora, la domanda: “perché essere antirazzisti?”. Terza risposta, in nome del Bene, della volontà o della speranza che si compia il regno del Bene, il che significa porre fine a tutte le figure o le cause del Male o dell’infelicità umana, a tutto ciò che divide o oppone gli uomini, a tutto ciò che li ferisce e li umilia. L’antirazzismo derivato dall’ideale del bene di tutti gli uomini sarà dunque in rivolta contro un certo numero di fatti o di fenomeni osservabili, che si ritiene che frappongano un ostacolo all’avvento del regno del bene in terra: da un lato, il particolare, il limitato, il conflittuale, l’ineguale; dall’altro, l’odio, il disprezzo, la guerra, la violenza in tutte le sue forme, il dominio, lo sfruttamento, l’esclusione socio-economica o culturale, ecc. L’antirazzismo morale si configura così come un umanitarismo, che mira ad assicurare la felicità o la salvezza indistintamente a tutti gli uomini, in un mondo infine pacifico e fraterno. La metafora della “fraternità universale” colora il messaggio universalista di un riferimento ai legami del sangue: l’Umanità deve “realizzare” la propria unità — nel doppio senso del verbo: compiere e prendere coscienza —, deve divenire, insomma, quello che è, ossia una grande famiglia. Si ritrova qui la lezione teologico-religiosa d’origine biblica: l’unità della specie umana è fondata sulla credenza secondo cui siamo tutti figli (o figlie) dello stesso Padre. La metafora della fraternità assume il suo pieno significato dalla filiazione metaforica sostenuta dalla tradizione monoteista. L’antirazzismo fraterno è quindi d’origine giudaico-cristiana, affonda le sue radici in un immaginario unitarista, estraneo e ostile ad ogni pluralismo.

Rimane, però, il fatto che la dolcezza fraterna ha un proprio rovescio: la durezza dell’unica via implicata dalla triplice tesi del Dio unico, della verità unica e dell’unità/unicità dell’umanità. Una violenza simbolica contro la diversità: quest’ultima non viene riconosciuta come valore, dal che derivano l’esclusivismo e lo spirito d’ortodossia così come l’appello alla crociata. Talvolta appaiono, allora, delle formulazioni paradossali e inquietanti dell’imperativo antirazzista, sebbene esso derivi dalla pura legge dell’amore: odiare l’odio, disprezzare il disprezzo, escludere l’esclusione, dichiarare guerra alla guerra, mostrarsi intolleranti non solo di fronte all’intolleranza, ma di fronte alla tolleranza stessa, sospetta di essere unicamente una forma di compiacenza (del falso), ecc. La legge della spada sarebbe, dunque, il rovescio della legge dell’amore? È la terribile via, ricca delle migliori intenzioni caritatevoli, aperta da tante idee “generose”, la via della purificazione ideologica, mentale, etica, giuridica… L’unico rimedio può essere trovato solo nella tolleranza. Ma non appena si voglia descrivere nella pratica quella “scomoda virtù” che è la tolleranza, essa genera degli effetti paradossali: la tolleranza richiede di non tollerare affatto l’intolleranza, di rifiutare l’intollerabile, e dunque di limitare se stessa, sino a trasformarsi in intolleranza. La volontà di cancellare l’intollerabile, di eliminare dal mondo umano tutte le forme di intollerabile — senza alcuna distinzione — si trasforma in una volontà assolutamente intollerante. Il dovere della tolleranza si rovescia in dovere di intolleranza: “Nessuna tolleranza per i nemici della tolleranza!”… Ma, secondo la formulazione di Anatole Leroy-Beaulieu, ‘l’intolleranza genera l’intolleranza”. Circolo vizioso. Il che ci conduce a porci nuovamente la domanda del “perché”.

In nome del fatto di evitare il peggio

In quanto identifica il razzismo come il peggiore degli “ismi” e come la pratica politica più inumana, questa quarta risposta è anch’essa d’ordine morale: evitare il peggio, o, per lo meno, limitarne gli effetti. Il suo fondamento normativo non è più la buona volontà di eliminare tutto il male, ma quella di eliminare le sue peggiori manifestazioni. Il campo dell’intollerabile non viene più caratterizzato globalmente per essere totalmente denunciato e condannato, ma viene analizzato nelle sue figure definite più o meno intollerabili. L’intollerabile non viene più percepito come un blocco, ma come una graduazione. Di qui la visione di una scala graduata che va dal più intollerabile al meno intollerabile.

La volontà di realizzare il Bene, o l’insieme dei valori positivi, nel mondo storico in cui vivono gli uomini, costituiva una risposta morale forte, e immodesta, alla domanda: “Perché essere antirazzisti?”. Sulla base del principio di tolleranza si può tuttavia formulare una risposta morale modesta, che si limita alla seguente prescrizione: tutto può e deve essere tollerato, salvo il peggio. Di conseguenza, non si cerca più di realizzare il bene ma di evitare il peggio. Se il peggio è il razzismo, assimilato al Male assoluto, il dovere di lotta contro il razzismo si definisce come il solo imperativo incondizionato. La cosa assolutamente intollerabile che deve essere negata — sia a livello speculativo che a livello pratico — è il razzismo. Mentre ciò che rimane comunque al di fuori dell’ambito del Bene, viene considerato come relativamente intollerabile, e dunque come tollerabile.

Si possono, allora, distinguere formalmente tre tipi di tolleranza, che implicano norme e prescrizioni non necessariamente compatibili, e ancor meno sommabili:

  • sopportare gli insopportabili: è la posizione di un fatalismo scettico, dinanzi a un’umanità imperfetta per natura;

  • riconoscere il valore di tutto ciò che differisce: attitudine benevola nei confronti del mondo, che è quella del pluralismo egualitario radicale, e che può spingersi sino al culto della differenza, essenzialmente sacralizzata;

  • sopportare unicamente le differenze che differiscono bene, e rifiutare le differenze intollerabili, quelle che differiscono male (in base a criteri variabili): l’attitudine tollerante è qui indissociabile da una certa autolimitazione. Si blocca dinanzi all’intollerabile. Ma la definizione della soglia di quest’ultimo non sfugge alla fluttuazione dei giudizi di valore. Come evitare, allora, il relativismo e il soggettivismo, che rendono arbitraria ogni definizione dell’intollerabile, gettando discredito su coloro che pretendono di denunciarlo?

Si può, infatti, osservare come la pratica della tolleranza oscilli incessantemente, in modo significativo, tra due poli: da una parte, la tolleranza tollerante, espressione del pluralismo (sia il pluralismo delle opinioni che quello delle culture o delle mentalità), che ingiunge di sopportare ciò che non può essere impedito, il che significa accettare la diversità, pensata come costitutiva del reale, che non si riesce ad abolire; dall’altra, la tolleranza intollerante, che esclude dal proprio campo di applicazione ciò che viene considerato indegno di essere tollerato. Quest’ultima posizione, intrinsecamente paradossale, spinge a porre dei confini insuperabili, e tuttavia variabili, tra il tollerabile e l’intollerabile, il cui fondamento ultimo è la soggettività: “sono io a definire e a stabilire ciò che è intollerabile”; il rischio è dunque quello dell’arbitrario… Ma l’ultima parola non spetta al soggettivismo, più di quanto spetti al conformismo, che riduce l’intollerabile a ciò che è sconveniente, non corretto. La definizione dell’intollerabile, infatti, viene data dai soggetti socialmente o culturalmente qualificati o autorizzati, il che implica il rischio di limitare il campo della tolleranza a seconda delle convenienze personali, o persino di sospendere volontariamente la tolleranza in nome delle “migliori” intenzioni.

La domanda si ripropone. E arriviamo così all’ultima formulazione, al più recente “slogan” dell’antirazzismo, che ho proposto di chiamare antinazionismo. Si tratta, infatti, della principale corruzione ideologica contemporanea dell’antirazzismo, che deriva da uno spostamento di categoria (dal razziale al nazionale) e da un amalgama polemico (ciò che è nazionale o lo stato-nazionale viene ridotto al nazionalismo xenofobo, al “tribalismo”, a un convulso ritorno dell’arcaico nel presente supposto “civilizzato”, e cioè postnazionale); tutto ciò che è nazionale viene demonizzato. È questa la conclusione a cui si giunge estendendo in modo indefinito il principio dell’abolizione dei limiti (barriere, frontiere, distinzioni) tra gli esseri umani.

In nome della pace e dell’uguaglianza

La quinta risposta alla domanda del “perché” viene formulata in nome del dovere universalista di realizzare ad ogni prezzo la pace e l’uguaglianza, attraverso l’unificazione definitiva del genere umano. Si esorta la soppressione di tutte le barriere razziali, etniche, culturali, nazionali, ecc., che dividono gli uomini e li contrappongono gli uni agli altri, o che si pensa che li contrappongano. Si suppone che ogni divisione o differenziazione sia un’intollerabile esclusione, una discriminazione scandalosa. La visione normativa dell’indifferenziazione universale, pensata come il movimento stesso del Progresso, può spingersi sino alla messa in questione delle differenze di classe e di “genere” (di sesso), o persino di generazione (attraverso il sorgere dell’ambivalente esigenza del diritto di procreare dopo la menopausa, ma anche dei “diritti dell’infanzia”, poi dei “diritti del feto” o “dell’embrione”), assimilate alle differenze di razza, e perciò condannabili. Così esteso, ridefinito come imperativo antidiscriminatorio, l’antirazzismo diviene un’attività teorica e pratica finalizzata alla realizzazione della “civilizzazione mondiale”. I suoi strumenti privilegiati sarebbero gli scambi e le mescolanze: la mondializzazione dell’economia e dell’informazione e la mescolanza planetaria vengono così elevate a imperativi antirazzisti. Dai doveri di scambio e di mescolanza deriva il dovere negativo di rifiutare tutto ciò che si oppone alla realizzazione del progetto unitarista, a cominciare dagli Stati-nazione. Le identità nazionali diventano degli ostacoli allo stesso titolo delle identità culturali, qualsiasi siano le loro definizioni. È scandaloso persino il fatto che esistano diversi gruppi umani, poiché ciò impedirebbe la formazione di un gruppo umano unico e unificato.

Possiamo qui riconoscere la retorica antinazionalista e più radicalmente “antinazionista” di alcuni militanti antirazzisti contemporanei (meglio definiti neo-antirazzisti, per il fatto che essi non si occupano più in modo prevalente del classico “pregiudizio di razza”), che esaltano la mescolanza planetaria e la totale abolizione delle frontiere come i due fondamenti del loro metodo di salvezza. Occorre qui ricordare, come risposta a un’accusa xenofoba proferita da uno stalinista (“l’ebreo tedesco Cohn-Bendit”), il famoso slogan lanciato nel maggio del ’68 e scandito durante le manifestazioni, in difesa di Daniel Cohn-Bendit: “Les frontières, on s’en fout; nous sommes tous des juifs allemands” (“Delle frontiere ce ne freghiamo, siamo tutti ebrei tedeschi”). In tale contesto, è chiaro che il genere “ebreo tedesco” equivale, per sineddoche (ossia prendendo la parte per il tutto), al genere essere umano in quanto tale, pensato al di là di tutte le frontiere, in breve, denazionalizzato, cittadino della Terra-patria, privo di madrepatria. Più di recente, tra gli slogan scanditi dai manifestanti di estrema sinistra durante la manifestazione del 15 giugno 1996 in difesa dei “sans-papiers”, c’era questa dichiarazione priva di qualsiasi ambiguità: “Les Français, on s’en fout, on veut plus de frontières du tout” (“Dei francesi ce ne freghiamo, non vogliamo più alcuna frontiera”). Ma abbiamo il diritto di domandare: perché chiedere “des papiers pour tous les immigrés” (“documenti per tutti gli immigrati”, altro slogan della manifestazione del 15 giugno del 1996), quando si vogliono abolire le frontiere che danno un senso e un valore ai documenti d’identità? Si tratta di una contraddizione interna del pensiero militante, allorché parla senza pensare. È una fuga verso l’astrazione e verso un radicalismo del tutto retorico. Possiamo riconoscervi quel “piacere dell’estremismo” caro agli intellettuali impegnati, secondo la formulazione di Jacques Julliard, la forma ideologico-politica di una posizione massimalista in cui si scorge la seduzione di un estremismo angelico, unitarista, pacifista, umanitarista, un insieme di buoni sentimenti e buoni pensieri trasfigurato in una visione escatologica (porre termine al Male).

Antinazionismo, etnofobia, mixofilia: il paradosso deriva qui dal fatto che alcuni antirazzisti, seguaci dell’utopia unitarista, arrivano al punto di praticare essi stessi l’eterofobia e, talvolta, di predicare persino il rifiuto fobico di ogni differenza, rifiuto comunemente attribuito ai cosiddetti soggetti “razzisti”. Nuova figura della rivalità mimetica tra “razzisti” e “antirazzisti”, consacrati al culto dello Stesso.

A una simile impresa antirazzista possiamo muovere, allora, un’obiezione ancor più fondamentale: il prezzo della costruzione di una “civiltà mondiale” non rischia, forse, di essere troppo elevato? È una domanda che è stata posta con forza da Claude Lévi-Strauss. Non si rischia, forse, di pagare l’unità o l’unificazione finale del genere umano con il prezzo più alto, quello della totale soppressione della sua diversità culturale, e cioè con una delle condizioni della sua vita propriamente umana? Volendo unificarla e pacificarla ad ogni costo, non si rischia, forse, di disumanizzare l’umanità? Tanto più che tale unificazione potrebbe realizzarsi solo prolungando e radicalizzando un’attuale tendenza della mondializzazione, che impone a tutti i popoli un unico modello di civiltà, derivato da alcuni tratti della civiltà occidentale, la neociviltà generata dalla pseudo-democrazia del mercato e della società della comunicazione/consumo, priva di cittadini, priva di valori che non siano quelli della merce e del profitto nato dalla speculazione finanziaria… La lezione di Hegel rimane preziosa: “Ogni passaggio al di là dei limiti non è una liberazione”. Ci sono dunque valide ragioni per percepire un mondo umano omogeneo come un mito ripugnante.

Inoltre, l’idealizzazione antirazzista del tipo “ibrido” o “meticcio”, la sua trasfigurazione etica e estetica, comporta il fatto che esso venga elevato surrettiziamente, e in modo inquietante, in tipo umano “superiore”, in quanto esso sarebbe, per esempio, più “ricco di differenze”. In causa non è la buona intenzione: lottare contro la pregnanza di immagini negative (in questo caso, quella della mescolanza) diffondendo altre immagini, positive, correggendo cioè gli stereotipi. Il problema è che, purtroppo, anche qui il risultato dell’azione non è conforme all’intenzione, di per sé pregevole. Questa idealizzazione culturale del meticcio, inseparabile dal nuovo esotismo di massa che ha favorito la moda “multietnica”, tende a generare un nuovo razzismo (o un contro-razzismo) estetico, di cui le immagini pubblicitarie non hanno mancato di appropriarsi per sfruttarlo non senza cinismo.

Si può infine supporre, sulla scia di René Girard e altri autori (Jean-Pierre Dupuy o Franck Tinlad), che i conflitti giungano all’estremo non appena le differenze vengono cancellate e l’omogeneità si fa minacciosa. Come se fosse necessario ricreare la differenza, ossia l’ordine. Non riconoscere le differenze, significa esacerbare il desiderio di differenziazione, rendere patologico il bisogno dell’identità distintiva. Sono questi i limiti e gli effetti perversi di un programma antirazzista di tipo universalista non accompagnato da un’autoriflessione critica. L’appello a una marcia forzata del genere umano verso un’unità indifferenziata è una violenza all’umanità dell’uomo. L’esigenza di universalità si lascia, così, catturare dalla corruzione ideologica.

In nome del diritto alla differenza

Sesta risposta, in nome della preservazione della diversità e del rispetto delle identità collettive: per affermare e mantenere le differenze culturali tra gli uomini, per difendere ed esprimere il diritto alla differenza, per fare in modo che le identità collettive (etniche o culturali) siano rispettate. Si suppone, allora, che la diversità culturale sia un attributo della natura umana, o che faccia parte dell’umanità dell’uomo, della sua essenza. Dal che risulta che la cancellazione della variabilità culturale dell’umanità sarebbe una negazione di ciò che forma la specificità dell’umano, di ciò che dà al modo d’essere degli uomini la possibilità di un’esistenza dotata di senso e di valore. Riconoscere la dignità di un essere umano, significa riconoscere la dignità della sua comunità d’appartenenza, o anche il valore della sua identità collettiva, quella che assume, che privilegia o che ha scelto. Una simile visione antropologica può essere caratterizzata come un essenzialismo pluralista, il quale si fonda sul postulato secondo cui la diversità culturale è iscritta nell’essenza stessa dell’umanità. La disumanizzazione si compie, allora, con la negazione dell’identità; non riconoscere il valore della comunità d’appartenenza di un essere umano equivale a non riconoscere quest’ultimo come propriamente umano. L’appartenenza al genere umano è mediata dall’appartenenza comunitaria. La visione antropologica assume così un senso morale.


La strategia separatista nella lotta contro il “razzismo bianco”. Da Marcus Garvey a Malcom X, dal movimento Black Power alla politica di identità sostenuta da Louis Farrakhan, la lotta dei neri americani contro il razzismo bianco ha assunto la forma di un nazionalismo etnico e separatista. La deriva di questo antirazzismo differenzialista verso un razzismo antibianco costituisce il rovescio dell’elogio esclusivo della negritudine. (Million man March, Washington, 1995)

Foto © B. Glinn/Magnum Photos.

Se il valore è rappresentato dalle identità culturali prima di essere rappresentato dagli individui in quanto persone, la lotta contro il razzismo è interamente fondata sull’incondizionato rispetto delle comunità d’appartenenza. L’antirazzismo è un differenzialismo. Questa posizione antirazzista è esplicitamente pluralista, si presenta come una morale e come una politica pluralista. Storicamente, tale concezione differenzialista della lotta contro il razzismo è venuta a costituirsi, innanzitutto negli Stati Uniti, come un’interpretazione militante del relativismo culturale metodologico degli etnologi e degli antropologi sociali (Franz Boas, Ruth Benedict, Melville J. Herskovits). Traendo delle lezioni etiche e politiche dal relativismo culturale, i militanti antirazzisti hanno diffuso la tesi secondo cui il razzismo è una negazione dell’identità, un rifiuto della differenza, e un non riconoscimento della dignità di ogni gruppo umano preso nella sua specificità. È questo il nucleo principale dell’antirazzismo differenzialista o “eterofilo”, che si riconosce nel fatto di credere di trovare nel relativismo culturale il principio di tolleranza che costituisce l’arma assoluta contro il “razzismo scientifico”.

Eppure, l’antirazzismo differenzialista implica una sorta di atto di intolleranza velata, un radicale anti-universalismo fondato sulla convinzione che il razzismo sia una forma di universalismo, il quale incarnerebbe la violenza dell’astrazione che riduce tutto allo stesso, o anche, che il razzismo si fondi principalmente sulla negazione della differenza e sull’estirpazione delle identità collettive. Il razzismo viene dunque ridotto a un’eterofobia biologizzante. Il che permette di coglierlo come rivelatore del segreto o della “verità” di ogni universalismo, il quale, dietro al suo rifiuto delle differenze, non sarebbe altro che un particolarismo travestito, un etnocentrismo mascherato, l’estensione ingannevole di un semplice narcisismo di gruppo. I diritti dell’uomo, espressione per eccellenza dell’universalismo dottrinale, non sarebbero, allora, che una violenta imposizione a tutti gli uomini dei diritti dell’uomo occidentale, appartenente alla razza bianca e alla tradizione giudaico-cristiana. In breve, dal punto di vista dell’antirazzismo differenzialista radicale, l’universalità è solo un’impostura, e l’universale un’illusione o una finzione. Il razzismo, di conseguenza, non appare soltanto come un universalismo, ma come la forma ideologico-politica per eccellenza dell’universalismo. La sua forma propriamente moderna, e la più detestabile.

Confrontando tra loro le due ultime risposte (la quinta e la sesta), che definiscono entrambe ciò che è o che deve essere l’antirazzismo, arriviamo a formulare il fondamentale dilemma dell’antirazzismo, considerato nei suoi fondamenti e nei suoi fini: dovere di rispettare le differenze, al fine di preservare la diversità umana; oppure, dovere della mescolanza al fine di realizzare l’unità della specie umana. O si ritiene che le differenze siano buone in se stesse, e che di conseguenza occorra rispettarle in modo incondizionato (il che vale anche per le identità di gruppo di cui esse garantiscono l’esistenza); oppure si ritiene che solo l’unità del genere umano costituisca un fine in sé, che occorre sforzarsi di realizzare in modo incondizionato, attraverso la cancellazione delle differenze. Il dilemma deriva dallo scontro di due obblighi morali opposti, fondati rispettivamente su due principi pratici distinti: il principio deontologico e il principio consequenzialista, entrambi di genere universalista. Il primo principio stabilisce di non assumere mai determinati comportamenti nei confronti di altri (mentirgli, non rispettare la sua identità, ecc.), qualsiasi siano le conseguenze, e, dunque, anche “nel caso in cui, in linea generale, ne risulti un bene minore o un male maggiore”. Quanto al principio consequenzialista, esso stabilisce di agire in base “a ciò che, in linea generale, produrrà il bene maggiore rispetto a tutti coloro che sono toccati dalla nostra azione”. Al rispetto incondizionato delle identità collettive o delle differenze culturali si oppone, dunque, il dovere imperativo di contribuire a realizzare l’unità della specie umana, che deve avvantaggiare tutti gli uomini. Tra questi due presupposti non c’è alcuna sintesi, né è possibile determinare una terza strada.

Ma, allora, non dobbiamo forse, a qualsiasi costo, riconoscere la difficoltà speculativa? Si tratta dell’estrema aporia incontrata dal pensiero antirazzista allorché si spinge sino al limite delle sue esigenze fondamentali, le quali sono contraddittorie. Il conflitto dei doveri e dei valori sembra, dunque, insormontabile.

L’antirazzismo, tuttavia, non può essere analizzato solo dal punto di vista dei suoi fondamenti, così come il razzismo non può essere ridotto a qualcosa che costituisce un problema per il pensiero. Il razzismo è anche qualcosa che deve essere imperativamente combattuto nell’ambito dell’azione, anche nel caso in cui lo si conosca in modo insufficiente o lo si comprenda in modo non corretto. Le difficoltà speculative incontrate dal tentativo di fondare la lotta contro il razzismo possono e devono essere messe tra parentesi in tutti quei casi in cui l’azione non può farsi attendere. In breve, per le situazioni in cui bisogna agire d’urgenza si possono fare delle scelte assiologiche e normative. Si tratta, allora, soltanto di una questione d’opportunità, e la finalità è unicamente quella di ottenere alcuni risultati, adattandosi alle condizioni del contesto. L’efficacia della strategia adottata si impone allora come un criterio provvisorio della scelta che verte sull’orientamento generale — universalista o differenzialista — dell’azione antirazzista, alla sola condizione di difendere il diritto alla differenza subordinandolo all’esigenza dell’universalità. Bisogna, quindi, fare delle scelte tattiche, rispetto a quello che viene valutato come il pericolo principale. È la scelta del male minore, che presuppone il fatto che non ci siano mai soluzioni semplici e definitive. Per questo la lotta contro il razzismo è un compito infinito. Pascal ce l’ha insegnato una volta per tutte: “Non si deve dormire”. Bisogna guardarsi dai pensieri illusori, tranquillizzanti e consolatori. Pensare l’aspetto tragico dell’esistenza, ossia l’insormontabile conflitto dei valori, non significa necessariamente ritrarsi dall’esistenza, e nemmeno impedirsi d’agire.

Glossario

Capro espiatorio (teoria o modello del): Teoria o modello esplicativo fondato sull’ipotesi secondo cui la frustrazione costituisce una condizione necessaria e sufficiente dell’aggressività (“teoria della frustrazione-aggressione”). Si ritiene che certi contesti (crisi sociali ed economiche) favoriscano l’aumento del sentimento di frustrazione, e dunque d’aggressività, la quale si sposta e si fissa sugli appartenenti ai gruppi più marginali, percepiti come dissimili e deboli, ed erroneamente identificati come cause delle frustrazioni. La vittimizzazione di questi gruppi minoritari permetterebbe di ridurre la tendenza all’aggressione.

Comunitarismo: 1. Visione essenzialista dei gruppi umani (vedi essenzialismo). 2. Politica a favore delle identità di gruppo, culturali o etniche. 3. Termine sinonimo di “multicomunitarismo”, che si riferisce alle dottrine della società multiculturale o plurietnica (“etnopluralismo”). Vedi etnismo.

Darwinismo sociale: Dottrina sociopolitica secondo la quale la concorrenza tra gli uomini (individui e gruppi) deve avvenire senza ostacoli (quali, per esempio, le misure di protezione e d’assistenza dello stato assistenziale, o i comportamenti caritatevoli), affinché l’esito sociale della lotta per l’esistenza e della selezione naturale sia la sopravvivenza dei “più adatti” e l’eliminazione dei “meno adatti”. Teorizzazione estremista del lasciar fare, dottrina dello stato-minimo, che predica il non intervento nella lotta per la vita. I darwinisti sociali razzisti sostengono che ogni “razza umana” può essere disposta su una scala unilineare in base alle sue cosiddette attitudini e che il motore della storia sia la lotta per la sopravvivenza tra le differenti “razze”.

Differenzialismo: Insieme di attitudini e di comportamenti che fanno prevalere le appartenenze particolari rispetto all’appartenenza al genere umano. Più precisamente: 1. Visione dell’umanità che privilegia le differenze tra i gruppi (razze, etnie, popoli, nazioni, civiltà), e che tende a essenzializzare le identità collettive (vedi etnismo). 2. Dottrina fondata su un radicale relativismo culturale, che postula l’incommensurabilità delle culture (o delle mentalità di gruppo) e la loro chiusura in se stesse, o anche la pluralità delle “nature culturali” dell’umanità, che formano, dunque, delle quasispecie mentali (vedi poligenismo). 3. Etica e politica fondate sulla differenza intergruppale come supremo valore, che afferma il diritto alla differenza e il dovere della differenza, e che può sfociare o in una forma di etnismo, o in un etnonazionalismo xenofobo, o in un modello multicomunitarista (o “multiculturalista”), il quale implica un diverso trattamento degli individui in funzione delle loro appartenenze razziali o etniche. Vedi comunitarismo, discriminazione, etnonazionalismo.

Discriminazione: Trattamento differenziale e ineguale delle persone o dei gruppi a causa delle loro origini, delle loro appartenenze, delle loro apparenze (fisiche o sociali) o delle loro opinioni, reali o immaginarie. Il che comporta l’esclusione di certi individui dalla condivisione di determinati beni sociali (alloggio, lavoro, ecc.).

Essenzialismo (o essenzializzazione): Modo di pensiero che consiste nell’attribuire a tutti i membri di un gruppo, e tendenzialmente solo ad essi, alcune caratteristiche, spiegandole in base alla natura o all’essenza del gruppo (in base alle sue disposizioni naturali) più che in base ai fattori relativi alla situazione.

Eterofilia: termine costituito sul modello di eterofobia nel 1985 (da P.-A. Taguieff). Valorizzazione smodata della differenza (razziale, etnica o culturale), che può giungere all’elevazione ad assoluto (a valore supremo) della differenza tra “noi” e “loro”, così come all’affermazione dell’imperativo incondizionato del mantenimento delle differenze, qualsiasi esse siano. Vedi differenzialismo.

Eterofobia (o allofobia): 1. Rifiuto della differenza in quanto tale o di ogni segno di alterità. 2. Più precisamente: “Il rifiuto dell’altro a causa di una qualsiasi differenza” (Albert Memmi). Secondo alcuni autori, l’eterofobia costituisce la categoria generale di cui il razzismo classico rappresenta una variante, definita dal rifiuto degli altri in quanto portatori di differenze “razziali”.

Etnico (gruppo): Insieme di individui che si percepiscono o che vengono percepiti come se formassero un gruppo umano distinto, dotato di un’identità collettiva (indicata da un nome proprio) fondata su un’autoidentificazione che implica la credenza in un’origine e in una cultura (lingua, religione, costumi) comuni. Il mito fondatore di ogni gruppo etnico è il mito di un antenato comune.

Etnismo: 1. Dottrina secondo cui l’identità etnica è l’elemento primario nel quadro dei modi di identificazione di un soggetto. 2. Teoria giuridico-politica secondo cui ogni gruppo etnico deve essere rispettato nella sua “dignità” e nella sua “integrità” nell’ambito di una società-pluralista (plurietnica, multiculturale, ecc.). Difesa dei diritti delle minoranze etniche (vedi comunitarismo). 3. Dottrina politica fondata sul principio secondo cui ogni gruppo etnico deve costituirsi in una comunità politica autonoma, dotata di uno stato sovrano, al fine di preservare la propria identità collettiva. È la strada dell’autonomismo o del separatismo, la strada dei nuovi movimenti identitari che rientrano nell’ambito dell’etnonazionalismo (vedi).

Etnocentrismo: Attitudine di autopreferenza di gruppo universalmente osservabile. 1. Tendenza a valutare ogni cosa secondo i valori e le norme proprie al gruppo di appartenenza del soggetto, come se questo gruppo fosse l’unico modello di referenza. 2. Tendenza propria ai membri di ogni gruppo umano a credersi migliori dei membri degli altri gruppi, o a immaginare di essere i soli veri esseri umani. 3. Coppia di attitudini favorevoli nei confronti all’endogruppo e di attitudini sfavorevoli rispetto agli esogruppi, i quali sono oggetto di pregiudizi e di stereotipi negativi, accompagnati da disprezzo o avversione. Vedi xenofobia.

Etnocidio: Termine costituito sul modello di “genocidio” per designare l’atto di distruzione di una cultura o di una civiltà, attraverso vari tipi di misure, che vanno dall’assimilazione forzata ai modelli della cultura dominante o conquistatrice alla cancellazione violenta di tutte le tracce della cultura minoritaria o dominata.

Etnonazionalismo: 1. Termine che designa l’insieme delle nuove mobilitazioni identitarie che, fondate sulla difesa più o meno convulsa di identità etniche più o meno inventate o reiventate, assumono la forma di micro-nazionalismi separatisti i quali mirano al dissolvimento degli Stati-nazione costituiti o che vivono della disintegrazione degli imperi (come l’impero sovietico) o degli Stati federali plurietnici (ex-Iugoslavia). 2. Dottrina politica che applica a ogni gruppo etnico il principio del diritto dei popoli a disporre di se stessi e, contemporaneamente, quello del dovere da parte delle etnie di rimanere se stesse, di preservare a qualsiasi prezzo le loro rispettive identità o di realizzare, all’occorrenza con la forza, un’omogeneità etnica percepita come minacciata dai flussi migratori o dalla cultura planetaria di massa. Vedi il terzo significato di etnismo.

Eugenismo: Termine creato nel 1883 (eugenics) da Francis Galton per designare la “scienza”, la tecnica e la politica del “miglioramento” delle “qualità ereditarie” delle popolazioni umane attraverso il controllo della procreazione. Quest’ultimo, a lungo limitato alla scelta dei procreatori e alle sterilizzazioni forzate, si è ridefinito attraverso la selezione “terapeutica” dei feti e alla scelta “preventiva” degli embrioni (nel quadro delle procreazioni medicalmente assistite), potrebbe estendersi alla scelta dei geni.

Fenotipo: L’insieme dei caratteri apparenti di un individuo, dei suoi tratti somatici visibili. Vedi genotipo, concetto ad esso correlato.

Genocidio: Termine creato nel 1944 dal giurista Raphaël Lemkin. 1. Sterminio sistematico, in nome di una concezione ideologica, di un gruppo umano in quanto tale, considerato “di troppo”. 2. In senso lato: azione/i, impresa/e in vista della distruzione, completa o parziale, di un gruppo razziale, nazionale, etnico, religioso, ecc.

Genotipo: Costituzione genetica globale di un organismo; patrimonio genetico individuale. Vedi fenotipo.

Mixofobia: Neologismo introdotto all’inizio degli anni Ottanta da P.-A. Taguieff. Attitudine e comportamento di rifiuto nei confronti dell’incrocio, orrore delle mescolanze tra gruppi umani, che esprime un’ossessione nei confronti dell’impurità, e, più precisamente, della perdita di purezza identitaria del lignaggio. Ossessione nei confronti di una discendenza incrociata, posta al cuore dell’immaginario razzista propriamente moderno, la mixofobia costituisce il rovescio del desiderio di autoriproduzione dell’identico, centrato sul mantenimento delle somiglianze nella discendenza.

Monogenismo: 1. Dottrina secondo cui tutti gli esseri umani, o tutte le varietà umane, derivano da un ceppo comune o da un solo e identico tipo primitivo. 2. Credenza, d’origine biblica, nell’unità d’origine di tutti i gruppi che formano la specie umana: gli esseri umani sono tutti “figli di uno stesso Padre”. 3. Dottrina dell’unità fisica, intellettuale e morale della specie umana, che presuppone l’esistenza di una “natura umana” così come il carattere accidentale o contingente della differenziazione razziale, spesso considerata come trascurabile. Vedi universalismo.

Nazionalismo: 1. Ideologia politica moderna fondata sul principio dell’autodeterminazione dei popoli, o sul “diritto dei popoli di disporre di se stessi”, che implica contemporaneamente la sovranità popolare, l’indipendenza dello Stato nazionale territorializzato, così come l’unità e l’omogeneità culturale della popolazione nazionale. 2. Insieme di comportamenti diretti alla difesa degli interessi della nazione al di sopra di tutto. 3. Dottrina della conservazione incondizionata dell’identità nazionale (definita in termini di cultura, d’etnicità o di razza), fondata sul dovere da parte dei popoli di rimanere se stessi. Vedi etnocentrismoxenofobiaetnonazionalismo.

Poligenismo: 1. Dottrina secondo cui la specie umana attualmente osservabile deriva da più ceppi distinti, da cui proverrebbero le razze umane. 2. Dottrina della creazione o della comparsa separata delle razze umane, secondo cui la specie umana è apparsa in diversi luoghi e in epoche diverse. 3. Teoria della pluralità delle “specie umane”, che identifica le razze umane come specie distinte e che nega l’esistenza di una “natura umana”. Vedi differenzialismo.

Pregiudizio: 1. Opinione preconcetta, socialmente appresa, condivisa dai membri di un gruppo, e che può essere favorevole o sfavorevole alla categoria presa di mira. 2. Attitudine negativa, sfavorevole, o persino ostile, e carica di affettività, nei confronti di individui etichettati sotto una determinata categoria. 3. Credenza rigida che si fonda su un’impropria generalizzazione e su un errore di giudizio, che consiste nell’attribuire tratti stereotipati a diversi gruppi umani (razze, etnie, nazioni, ecc.). Vedi stereotipi, etnocentrismo.

Proiezione: (Psicoanalisi) “Operazione con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri e persino degli ‘oggetti’” (J. Laplanche e J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi). La proiezione funziona come un meccanismo di difesa riscontrabile sia nella gelosia o nella superstizione sia nella paranoia e nei deliri di interpretazione o di persecuzione. La demonizzazione e la criminalizzazione degli ebrei, attraverso e nella leggenda dell’“assassinio rituale”, implicano, da parte del soggetto giudeofobico, la proiezione delle sue pulsioni di distruzione.

Psicologia differenziale dell’intelligenza: Campo della psicologia differenziale (che studia le differenze tra gli individui e tra i gruppi umani), consacrata in particolar modo all’analisi e alla valutazione delle attitudini intellettive o delle attività cognitive. Sede privilegiata delle incessanti controversie sui fattori “ereditari” (e più ampiamente genetici) e sui fattori ambientali di ciò che è stato convenuto di chiamare intelligenza, a proposito degli studi comparati sul quoziente intellettivo dei diversi gruppi (classe, “razza”, ecc.).

Razzializxazione: Rappresentazione delle differenze tra i gruppi umani come derivanti da fattori biologici, in base al modo in cui essi sono definiti o pensati nelle dottrine razziali. La gerarchia sociale o le classi sociali possono venire razzializzate. La razzializzazione, che biologizza le interazioni sociali, deve essere distinta dall’etnicizzazione, che considera alcune caratteristiche culturali (lingua, religione, costumi) come attributi essenziali dei gruppi.

Razzialismo: Costruzione ideologica fondata sull’idea di “razza umana”. Più precisamente: 1. Dottrina secondo cui la razza determina la cultura, nel senso che le differenze tra le razze determinerebbero le differenze tra le attitudini mentali, i comportamenti e i costumi. 2. Visione della storia o dell’evoluzione sociale, che si presenta come una teoria esplicativa, fondata su una qualsiasi classificazione delle “razze umane” disposte gerarchicamente su una scala di valori.

Spostamento: Nella psicologia sociale, meccanismo per cui l’aggressività si dirige su un bersaglio diverso rispetto alla fonte della frustrazione, per fissarsi sui devianti o sulle minoranze.

Stereotipo: Immagine rigida, che fa parte delle rappresentazioni sociali disponibili. Più precisamente, nell’ambito della psicologia sociale: 1. Idea fissa standardizzata associata a una categoria: “pigrizia” associata ai “neri”, “cupidigia” agli “ebrei”, “violenza” agli “arabi”, sono tutti stereotipi negativi. 2. Modo di categorizzazione rigido e persistente (che resiste ai cambiamenti) di questo o quel gruppo umano, che deforma e impoverisce la realtà sociale di cui fornisce una griglia di lettura semplificatrice, e la cui funzione consiste nel razionalizzare il comportamento del soggetto nei confronti del gruppo categorizzato. 3. Il processo di categorizzazione stereotipante implica, da una parte, un’accentuazione delle differenze tra il gruppo di appartenenza e gli altri gruppi (effetto di contrasto), e, dall’altra, un’accentuazione delle somiglianze sia all’interno del gruppo di appartenenza che all’interno degli altri gruppi (effetto d’assimilazione). Vedi pregiudizio, essenzialismo.

Universalismo: Visione dell’umanità che si fonda sull’affermazione dell’esistenza di una natura comune a tutti i gruppi umani e della legittimità delle esigenze universali. In modo più specifico: 1. Dottrina della fondamentale unità del genere umano, al di là di tutte le differenze biologiche e culturali. Vedi monogenismo. 2. Etica o morale fondata sulla determinazione di valori o norme transculturali, universalmente condivisi o condivisibili, ossia comunicabili, e perciò universalizzabili, il che viene negato dal relativismo culturale radicale.

Xenofobia: Ostilità nei confronti degli stranieri e di tutto ciò che viene percepito come straniero. Un’attitudine è xenofoba allorché vede l’altro, colui che non appartiene al proprio gruppo, come una minaccia per quest’ultimo. Percepito in quanto nemico, lo straniero suscita paura o odio, o entrambi.