ULTIMO APPELLO
Salvo Toscano
1
Racconto di Roberto Corsaro
I vecchi amici sono come quegli aliti gentili di brezza che salgono dal mare nell’afa dei pomeriggi di giugno. Quando te li vedi comparire davanti, nei percorsi misteriosi che la vita ti impone, ti pervade un senso di ristoro che dalla bocca dello stomaco galleggia su fino ai muscoli facciali, distendendoli in un sorriso. Solo in un secondo momento, che segue con sorprendente rapidità alla prima reazione, il cervello si prende la briga di far calcoli sul tempo trascorso dall’ultimo incontro con la persona in questione e decreta verdetti di invecchiamento con una semplice sottrazione.
Questo fu quanto mi accadde il pomeriggio di settembre che Santo Miraglia venne a farmi visita allo studio. Ora, che Palermo viva a maggio e settembre i suoi periodi di massimo splendore è per il sottoscritto verità dogmatica. Le tiepide temperature settembrine, il sole delle cinque del pomeriggio che si posa su Monte Pellegrino, il venticello che si fa sentire nelle giornate più fortunate. Un idillio che mi mette in pace con il mondo e fa pendere dal lato buono la mia bilancia odio-amore per la Felicissima Città.
Dunque, il mio umore gravitava già a grandi livelli e l’apparizione del buon Santino lo allietò ulteriormente. Almeno per i pochi secondi nei quali il senso di ristoro di cui ho appena parlato percorreva il tragitto stomaco-bocca per trasformarsi in sorriso. Poi, inevitabilmente, il cervello si intromise e si avventurò in calcoli. E stabilì che erano almeno dieci anni abbondanti che il faccione pieno di Santino Miraglia, detto Mitraglia, non si faceva vedere dalle mie parti. Dieci anni, eravamo invecchiati.
Conservava più o meno la stessa fisionomia dei tempi del liceo classico. Rotondo, bassotto e stempiato. Gli occhi grandi e furbi ora erano marcati da qualche ruga leggera ma conservavano la stessa contagiosa simpatia. Per un paio d’anni dopo la maturità mi era capitato di incontrarlo in qualche locale. Poi, chissà come funzionano queste cose, niente più, un black-out totale. Santo Mitraglia, compagno di banco di Manlio Passalacqua detto Sifone e di Duilio La Marca in arte Petardo. Tempi d’oro, gli anni di Maradona e del grande Ayrton. E Santino, con il suo vespone truccato che scoppiettava mitragliando come il suo proprietario.
«Avvocato, ma che ne hai fatto dei capelli?», fu la prima cosa che Santino mi disse dopo dieci anni. Ma incassai il colpo senza accusarlo, ben conscio di conservarne comunque più di lui.
«E tu, che ne hai fatto del vespone, Mitraglia?»
«Non ci crederai, ma è posteggiato qua sotto», rispose sedendosi di fronte a me, dall’altra parte della scrivania.
Qualcosa di quegli anni d’oro, allora, era scampato all’usura del tempo. Trovai confortante quel pensiero. Scambiammo due chiacchiere con Mitraglione, che mi raccontò di essersi sistemato alla Regione grazie alla raccomandazione del suocero, un possidente di Bagheria vicino a un pezzo grosso dell’assessorato all’Agricoltura. Si era sposato un anno addietro e viveva una vita tranquilla. Aveva avuto notizia di me da qualche compagno di scuola incontrato per caso. Poi venne al sodo.
«Roberto, quante volte mi hai salvato il culo?».
Mitraglia non era un granché a scuola, e il sottoscritto più di una volta lo aveva soccorso passandogli compiti di qualsiasi genere.
«Parecchie, direi, ma mi pare che tu mi abbia già ringraziato».
«Avvocato, mi serve che tu lo faccia un’altra volta. Siamo in guai seri».
L’espressione del suo viso e il repentino cambio del tono della voce non lasciavano presagire niente di buono.
Mitraglia riprese a parlare.
«Ti dice niente il nome di Francesca Raimondo?».
Feci cenno di no con il capo. Lui infilò una mano nella tasca posteriore dei jeans ed estrasse un ritaglio di giornale che spiegò sulla mia scrivania. L’articolo, che portava una firma a me ben nota, era di quello stesso giorno. Dava notizia dell’omicidio di una giovane donna, avvenuto in viale Strasburgo, a Palermo. La ragazza, sposata e madre di una bambina, era stata uccisa con cinque coltellate alla schiena.
Nessun segno di effrazione alla porta, lei stessa aveva aperto all’assassino e gli aveva voltato le spalle. Non sembrava ci fossero tracce di violenza carnale e nulla di prezioso mancava dall’abitazione. Gli inquirenti non escludevano nessuna pista. Era stato il marito a trovare il cadavere e ad avvisare la polizia.
Staccai lo sguardo dal giornale e lo rivolsi a Santino.
«Mia cognata», disse gelido, «la moglie di mio fratello Giuseppe».
«Mi dispiace».
«Sì, ma c’è dell’altro. Ieri hanno interrogato mio fratello. E quel poveraccio ha l’impressione che gli sbirri sospettino di lui».
«Be’, andiamoci piano, a delitto appena scoperto si sospetta di tutti, non lasciarti ingannare dalle apparenze».
«Roberto, hanno condotto l’interrogatorio in un certo modo… insomma, noi abbiamo quest’impressione. Non abbiamo mai avuto problemi nel penale, io non saprei a chi rivolgermi. Ho parlato con il mio civilista, lui mi ha detto che poteva consigliarmi un collega penalista, e ha fatto il tuo nome. Piccolo il mondo, no? Vorrei che fossi tu ad assistere Giuseppe».
«Certo, di questo si può parlare. Ma ora devi raccontarmi un po’ meglio questa storia. Sai, quattro righe scritte sul giornale non è che siano molto indicative».
«E poi i giornalisti non fanno altro che raccontare minchiate».
Incassai anche questa senza accusare più di tanto il colpo. Perché sì, l’articolo in questione l’aveva scritto mio fratello, ma l’accusa a suo carico era di cazzàro, quella a carico del fratello di Santino era di potenziale omicida.
Santino mi spiegò l’accaduto. Il giorno prima, alle sei di pomeriggio, il marito entra in casa. Sente piangere la bambina che ha un anno. Apre la porta e trova in cucina la moglie distesa in un lago di sangue, prona sul pavimento. Rimane interdetto, lancia un urlo. Un vicino sente il rumore e suona il campanello. Miraglia apre e i due cercano di soccorrere la donna che però è già morta. Il marito telefona alla polizia e dà notizia dell’accaduto.
«Tuo fratello rientra a casa a quell’ora ogni giorno, giusto?»
«Di solito torna più tardi».
«A che ora è morta tua cognata?»
«Era ancora calda quando l’hanno trovata».
Pausa meditativa. Mi tolgo gli occhiali e mi premo pollice e indice sul naso. Un rito che precede una sfaticata.
«Ok, e ora dimmi, in tutta sincerità, tu come la vedi».
Santino non esitò un attimo.
«È strano. Non hanno rubato nulla, mio fratello ci giurerebbe.
E poi è stata lei ad aprire la porta…».
«…e allora?»
«Be’, c’è qualcosa… ma vorrei che fosse Giuseppe a parlartene di persona».
«Quando può venire a trovarmi?»
«Anche subito», rispose Santino, sfoderando un microscopico cellulare di ultimissima generazione.
2
Giuseppe Miraglia toccava in continuazione gli oggetti posati sulla mia scrivania. Insopportabile. Ma viste le circostanze sfoderai tutta la mia cristiana comprensione nei confronti del soggetto che altrimenti avrei probabilmente bacchettato sulle nocche, come una volta mi era capitato di fare con un giovane cliente.
L’uomo era agitato e impaurito, piuttosto che addolorato. Il panico prevaleva sul dispiacere della prematura perdita della consorte. Nei tratti del volto somigliava al fratello Mitraglione e anche nella parlantina palermitana vagamente snob. Per il resto la natura era stata più magnanima con il Miraglia junior, concedendogli parecchi capelli in più e altrettanti chili in meno. Non era assai più giovane di Santino. Ricordavo bene dai tempi del liceo che tra i Miraglia brothers c’era poco più di un anno di differenza, proprio come tra me e quel teppista di mio fratello. Peppino Miraglia non mi fece gran simpatia.
«Vogliono incastrarmi», disse. Una frase ridicola, da poliziesco americano, non mi piacque per niente. E credo che nel tono della mia risposta si lesse poi una certa irritazione.
Sarà che quando la gente mi indispone lo stomaco comincia a bruciarmi, forse è la gastrite che mi fa venire la voce antipatica.
«Senta, non arrivi a conclusioni assurde», dissi. «Io posso tentare di immaginare lo stato di confusione in cui si trova, ma mi creda, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è delle manie di persecuzione. Atteniamoci ai fatti, per favore».
Fui un po’ troppo duro. A quell’uomo avevano ammazzato la moglie il giorno prima. Una ragazza di ventotto anni, madre di una creatura di un anno. A ogni modo ottenni ciò che volevo, il Miraglia si quietò e tornò in sé.
«Adesso vorrei che mi raccontasse tutto. Partendo da ieri pomeriggio».
«Posso fumare?», domandò.
No che non potresti, Peppiniello, io odio il fumo e tu ci stai mettendo l’anima a guastarmi la giornata.
«Prego». Almeno me l’hai domandato.
Diana rossa, sigaretta atroce, di quelle che appestano gli scompartimenti di seconda classe sui treni. E passi, mi dissi attingendo alla mia proverbiale gentilezza.
«Erano più o meno le sei». Pausa e boccata di Diana. Qui non ne usciamo più. «Sono salito a piedi, noi stiamo al secondo piano. Stavo per entrare e ho sentito la bambina piangere come una forsennata. Sono entrato in cucina». Altra massiccia boccata di fumo, giù giù fino ai bronchi, «e Francesca era lì, per terra. La bambina accanto a lei piangeva. C’era un lago di sangue sul pavimento…».
Qui Miraglia si fermò, vinto dall’emozione. Santino gli assestò una pacca sulla spalla. Una microdose di nicotina venne in soccorso al vedovo, che ripartì: «…restai immobile, paralizzato. Gridai, non ricordo neanche cosa. Poi trovai il coraggio di chinarmi su di lei, la girai, ma era morta. Dopo suonò il signor Brucato, il mio vicino. Gli aprii…».
«Ha telefonato lui alla polizia?»
«No, ho chiamato io il 113».
«Dov’è la bambina adesso?»
«A casa mia», intervenne Santino.
«Lei è stato interrogato?»
«Mi hanno fatto delle domande. Prima un poliziotto, poi il commissario». Ultimo, avido tiro e spegnimento della cicca (due centimetri di filtro) sul mio immacolato posacenere.
«Ma se ho ben capito si è trattato di una cosa informale. Non è stato piacevole».
«Sì… ma ne parliamo dopo. Mi dica, piuttosto, mancava qualcosa di valore?»
«No». Telegrafico.
«Mi perdoni per la domanda, sua moglie era vestita?»
«Sì, da casa. Una camicetta e i jeans».
«L’ha trovata faccia a terra. Rivolta verso…?»
«Come?»
«Verso dove era rivolta? Un mobile, il frigorifero, la porta?»
«Verso la vetrina dove teniamo piatti e bicchieri».
«Sua moglie, che lei sappia, aspettava visite ieri?»
«No».
Santino ascoltava in silenzio, con un’aria insofferente più che sofferta. Non avevo dimenticato quello che mi aveva detto. C’era dell’altro e voleva che fosse Giuseppe a parlarne, ma il fratello non arrivava al sodo.
«Da quanto tempo eravate sposati?»
«Due anni e mezzo. Un anno fa è nata Roberta».
«Sua moglie lavorava?»
«Sì, era maestra. Insegnava in una scuola privata».
«E la bambina con chi restava?»
«I miei genitori abitano vicino. Francesca la lasciava a mia madre».
Sante nonne. Cosa sarebbe il mondo delle donne in carriera senza di loro? Pensai a mia madre che a tale occupazione si sarebbe dedicata con diletto e disponibilità. Se solo mia moglie fosse stata d’accordo.
Terminate le domande di routine, che ben poco avevano aggiunto a quanto scritto dal mio fratellino sulle pagine del giornale, urgeva passare alla fase due, entrare nell’intimo, e lì potevamo farci male.
«Mi descrive sua moglie?».
Lui estrasse il portafoglio senza dire una parola con lo stesso identico movimento con cui il fratello aveva tirato fuori il ritaglio di giornale. Tirò fuori una fotografia un po’ sgualcita, un primo piano.
Bella era stata Francesca Raimondo. Biddunaanzi, con quegli occhioni neri neri e i capelli scuri e lisci, con quelle sopracciglia inarcate minacciosamente e il naso dritto e severo.
Bella, Monica Vitti ne La ragazza con la pistola, una bellezza sicula dalle labbra carnose, serrate in un sorriso chiuso, beffardo.
«È di tre anni fa, quand’eravamo fidanzati».
«Sì… ma io intendevo dire: che carattere aveva?».
Miraglia tacque. E stavolta senza chiedere il permesso tirò fuori un’altra sigaretta. Stava abusando della mia cristiana misericordia.
«Francesca era una donna forte, decisa», disse. «Aveva un carattere intraprendente. Per questo mi ero innamorato di lei».
Anche questa un’uscita infelice, a mio parere. Un po’ troppo melò.
«Andavate d’accordo?».
Silenzio. Due boccate, aspira ed espira con nuvoloni di fumo ad avvolgere il sottoscritto, ormai al limite della sopportazione. Fronte corrugata e grattatina alla nuca. Poi ancora silenzio e finalmente una risposta dal Miraglia junior.
«Avevamo dei problemi, ma chi non li ha?»
«Problemi di che tipo?»
«Mah, in tutte le coppie… non è che…».
Preferii interromperlo io perché mi dava troppo sui nervi.
Quell’uomo avrebbe potuto farmi impazzire, questo era ormai appurato.
«Caro signor Miraglia, chiariamo subito un punto. Io sono un avvocato, un difensore, se ha ben chiaro il significato del termine. Lei a me racconta tutto, per filo e per segno, senza tergiversare o stare sulla difensiva, perché io non sto qua a giudicarla o a farmi strane idee sul suo conto. Non pensi a me come a un uomo, suo coetaneo, cerchi di vedermi come avvocato, una sorta di entità davanti alla quale può spogliarsi senza pudore».
Cercai di essere il più convincente possibile nella solita tiritera dell’avvocato Pisciotta, mio mentore e secondo padre. Servì a qualcosa, visto che il vedovo vuotò il sacco, o come si dice alle nostre latitudini, scatasciò: «C’era un uomo di mezzo. Mia moglie aveva un amico».
La dignità con cui lo disse lo riabilitò ai miei occhi.
Un’ammissione di corna per un siciliano è cosa più straziante di un’estrazione dentale. Ma Giuseppe Miraglia si proclamò becco con voce ferma e maschia, tirando fuori il meglio di sé.
«Lei come lo sapeva?»
«All’inizio l’avevo solo intuito. Poi…».
…poi cominciò a non passare più sotto le porte… ma questa è un’osservazione degna di mio fratello, non certo dell’avvocato Corsaro.
«Poi?»
«Un giorno l’ho seguita. E l’ho vista incontrarsi con uno… un fango con occhiali da sole e macchina sportiva».
Ahi, quel genere di personaggio per il quale mi verrebbe di usare il trattamento che Raymond Burr riserva alla moglie ne La finestra sul cortile, se non fossi cattolico, ovviamente.
«Ne aveva parlato a sua moglie?»
«Sì». Pausa di silenzio. Temetti che Miraglia stesse per accendere un’altra sigaretta, ma il cielo non volle. «Sì, fu circa un mese fa. Questa storia andava avanti da un po’, secondo me. Il tipo è il padre di uno dei bambini della sua classe».
Come resistere al fascino delle maestrine? Me lo sono sempre chiesto. Sarà che quando ci penso mi viene in mente Suzanne Pleshette neGli uccelli, donna per la quale io mi sarei fatto amputare anche tutte le dita dei piedi. E non ditemi che non l’avete presente, perché era la moglie o fidanzata di Dean Jones in non so quanti film della Disney e da bambini ve li siete sciroppati tutti di sicuro.
«E cosa disse lei?»
«Da principio negò, poi…». Solita pausa. «Non lo ammise espressamente, ma lasciò capire che era vero. Mia moglie era fatta così. Passò al contrattacco accusandomi di trascurarla, diassicutare le femmine, eccetera».
«Ed era vero?»
«Sì, forse la trascuravo. Ma pi’ travagghiu, non certo per le femmine».
«E dopo questa discussione i rapporti tra sua moglie e quest’uomo cessarono?»
«Credevo di sì, ma mi sbagliavo. Un pomeriggio, una decina di giorni fa, ho avuto l’impressione di vederlo. Ero rincasato con un po’ d’anticipo e notai la sua macchina sotto casa. Credo proprio che dentro ci fosse lui».
«Ne parlò a sua moglie».
«Sì, ci fu una discussione molto accesa, un litigio. Ma lei negò tutto».
«Le credette?»
«No, ero sicuro che mentisse».
«E dunque, ieri pomeriggio, mi corregga se sbaglio, lei dice che rientra alle otto, o forse più tardi, e invece rincasa prima, alle sei, nella speranza di beccare i due sul fatto».
Miraglia annuì. Gli occhi fissi nel vuoto in una smorfia sconsolata. Mi fece pensare a Joseph K. asfissiato e smarrito negli angusti solai delProcesso.
«Lei ha anche solo un’idea di chi può aver ucciso sua moglie?»
«No, davvero. Un pazzo, un maniaco…».
«…a cui sua moglie ha aperto la porta di casa, l’ha fatto accomodare in cucina e gli ha voltato le spalle? Non credo. Secondo me sua moglie conosceva il suo assassino».
«Magari quel porco… ma perché poi? Non riuscirei a capire il motivo».
«Nemici, nemiche?»
«Ma quando mai, non diciamo sciocchezze».
Io non dico mai sciocchezze, bellezza.
«Le faccio ancora tre domande. Avete il portiere nel vostro palazzo?»
«No, niente portiere».
«Due: l’arma del delitto?»
«Era per terra, accanto a Francesca. Un coltellaccio da cucina. Non l’ho toccato».
«Tre, e mi ascolti bene perché questa è la più importante: quello che mi ha detto corrisponde esattamente alla verità?»
«Sì», rispose deciso. Mi bastò.
A questo punto si intromise Santino, con aria preoccupata.
«E allora, cosa pensi, Giuseppe può avere dei guai?»
«È presto per dirlo e non voglio allarmarvi. Sapete già chi è il magistrato che indaga, il sostituto procuratore?»
«Purtroppo sì», disse Mitraglione con una specie di sorriso amarognolo.
«Perché dici purtro… no, non me lo dire…». Fece segno di sì con il capo. «Carletto Maniscalco!».
«In persona», rispose funereo Santino.
3
Molti nemici, molto onore, diceva uno. E la fine che poi gli è toccata è cosa nota. Carletto Maniscalco sembra abbia fatto suo questo motto. Per un breve periodo della mia vita ho considerato Carletto una specie di mio antagonista, per poi rendermi conto che si trattava di una disfida immaginaria e impossibile. E non tanto e non solo per la netta superiorità di uno dei due contendenti, quanto piuttosto per l’appartenenza a due pianeti diversi. Maniscalco è un elemento che sarebbe stato bene a bordo della Morte Nera di Guerre stellari, o forse, per certi versi, nella stanza dei bottoni dello Stranamore di Kubrick.
Carletto era il primo della classe. Al quarto ginnasio andavo forte anch’io ma alla breve distanza lui venne fuori come i purosangue. A quattordici anni aveva letto tutto Shakespeare e conosceva a memoria almeno due terzi della Divina Commedia. A quindici leggeva per diletto Omero in metrica e componeva concerti per pianoforte e violino. A sedici aveva scritto tre trattati filosofici e un poema epico in latino.
Insomma, un individuo pericolosissimo.
Carletto era horribilis visu negli anni del liceo. Raggiungeva a stento il metro e sessanta ed era sempre pallido, bianco latte, e magrissimo. Aveva capelli fini e radi di un biondo pallido e il viso solcato da occhiaie, frutto del leopardiano studio matto e disperatissimo. I suoi occhi erano di un celeste sbiadito e parevano sempre assorti in qualche pensiero profondo e assai triste. Era detestato dai miei compagni e ricambiava questa antipatia con cipiglio. Viveva nel suo isolamento senza patire più di tanto la solitudine, sfogando nella lettura e nei solitari concerti al piano o al violino i suoi giovanili ardori. L’unico eletto al quale a volte rivolgeva la parola era il sottoscritto.
In realtà, solo con il tempo scoprii che Manetta (così lo chiamavano in classe, insinuando una sua rassegnata dedizione all’autoerotismo), dotato senz’altro di un’intelligenza fuori dal comune, si ammazzava la vita in una guerra all’ultimo sangue ai fantasmi. I fantasmi dei suoi avi: nonni, bisnonni e via dicendo per Dio solo sa quante generazioni, tutti magistrati e illustri studiosi del diritto, il marchio di fabbrica della casata dei Maniscalco.
Una iattura che aveva segnato la sua vita sin dalla più tenera età. Era nato giudice e aveva bruciato le tappe in una corsa contro il tempo per diventarlo anche davanti allo Stato.
Dopo gli esami di maturità sparì senza dire una parola a nessuno. Nessuno, me compreso.
Poi ci rivedemmo all’università. Ma Carletto nel chiostro della facoltà di via Maqueda raramente degnava di un saluto gli ex compagni. A ventidue anni si laureò, ovviamente con lode, pubblicazione della tesi, bacio accademico, fuochi d’artificio e standing ovation. A ventiquattro era già magistrato. Magistrato, o “magistronzo”, come lo chiamano i colleghi del tribunale.
Il Palazzo di Giustizia di Palermo è un pachiderma fascista piantonato da uno spiegamento di forze di polizia giustificabile solo da una guerra. Una guerra che di fatto è in corso. Per fortuna a qualche centinaio di metri, passeggiando al fresco degli alberi di via Volturno, ti ritrovi al Teatro Massimo, e ti bei della vista di una delle più strabilianti meraviglie di questa città.
Sulla scalinata del tribunale mi accorsi che il cielo azzurro del giorno prima si era annuvolato, filtrando il sole in modo indisponente, e percepii che anche sul mio buonumore si erano addensati nuvoloni minacciosi. La mia meteoropatia non è congenita: mi venne trasmessa dalla buonanima dell’avvocato Pisciotta, che in una giornata dimalo tempo era capace di farsi scappare anche qualche soffocata bestemmia, lui che dietro la scrivania teneva la foto di Padre Pio.
Speravo di beccare Carletto e di riuscire a scambiarci due parole. E il pensiero concorreva ad avvelenarmi la giornata, perché a dispetto dell’evangelico precetto ama i tuoi nemici, io a una chiacchierata con il magistronzo preferisco, anche se di stretta misura, un’emorroide. In realtà mi premeva parlargli per carpire le sue intenzioni riguardo all’omicidio. Perché le paure dei Miraglia brothers, se non ci fosse stato di mezzo un Maniscalco, sarebbero risultate eccessive. O almeno premature.
Insomma, dal punto di vista legale, Giuseppe Miraglia fino a quel punto non aveva che farsene di un avvocato. Ma tra il dire e il fare c’era di mezzo Carletto.
Infatti, nonostante il sottoscritto non possa negare la sconfinata intelligenza di Maniscalco e la sua enciclopedica conoscenza del diritto, non può fare a meno di rimpiangere che egli non sia rimasto nell’ovattato ambiente accademico a rovistare tra volumazzi polverosi di Penale, avendo a che fare solo con sé stesso (e non è poco) e con qualche ragnetto giurista ospite degli scaffali del dipartimento. Sì, perché come magistrato, a mio parere, Carletto lascia alquanto a desiderare. E per fortuna fa il sostituto procuratore, perché altro non potrebbe fare: l’idea che uno come lui possa decidere della vita della gente è raccapricciante.
Carletto è un misantropo imbottito, suo malgrado, di pregiudizi figli di complessi coltivati in tre decenni di emarginazione sociale. In una situazione come quella del nostro delitto, sapevo bene, visti i precedenti, che i sospetti di Manetta si sarebbero subito diretti verso il vedovo. Un classico: il presupposto di partenza era che di matrimoni felici non ce ne sono e che l’amore sponsale è una favola da non prendere sul serio.
Intendiamoci, un percorso mentale, questo, che nel mio ex compagno si sviluppava a livello subconscio, condizionandolo però più di quanto avrebbe potuto un ragionamento lucido. E la presenza di un amante sulla scena faceva precipitare la situazione del povero Giuseppe Miraglia, perché toglieva a Carletto persino l’incomodo di ricercare un movente, che stava lì, pronto in tavola.
Lo trovai al bar con un colpo di fortuna. Ovviamente solo, sorseggiava un’aranciata e leggeva con espressione nauseata il giornale della città. Aveva due occhiaie così nere che sembrava Paperinik. Anzi a guardarlo bene, quel viso segnato e l’aria sconsolata, mi ricordò Peter Lorre in Casablanca, e quasi mi intenerì, perché il vecchio Ugarte è un criminale che mi sarebbe piaciuto difendere.
«Ciao, Carlo».
«Ciao, Roberto», replicò senza quasi guardarmi, tutto preso dal pezzo di giudiziaria che stava leggendo.
«Ho saputo che dirigi tu le indagini sulla morte di Francesca Raimondo».
Preferii venire al sodo subito, piuttosto che avventurarmi in giri che, con una mente come la sua, si sarebbero rivelati vani.
«Sì, perché?», e finalmente mi guardò negli occhi. Dal basso verso l’alto, ovvio. Perché dai tempi del ginnasio, Carletto aveva guadagnato solo una manciata di centimetri. Ed era rimasto magro, pallido e brutto come allora, con quel capello biondo piscio che gli si afflosciava sulla faccia triste.
«Era la cognata di Santo Miraglia, lo sai?»
«Sì, certo».
«Niente, è venuto a trovarmi per chiedermi un parere».
«Sei l’avvocato del fratello?»
«Be’, devi dirmelo tu se ha bisogno di un avvocato difensore», rilanciai sperando di ottenere uno spiraglio. Ingenuo.
Carletto posò il giornale.
«Avvocato Corsaro, che vuoi?»
«Vorrei sapere che cosa ne pensi».
«Non trovi che sia prematuro?», rispose con voce impastata.
«Non ti ho chiesto una requisitoria».
«Lo devo risentire, so ancora troppo poco».
«Sospetti di un maniaco?», bluffai.
«Roberto, è troppo presto. Stamattina aspetto le prime informazioni sull’autopsia, siamo ancora agli inizi. Per i risultati ufficiali ci vorrà molto di più e tu lo sai. Sto sentendo delle persone per ricostruire quel pomeriggio e quello che c’è dietro. Certo, potrebbe anche essere stato un maniaco, uno che suona alla porta, si fa aprire con un pretesto e l’ammazza. Magari lei gli voltava le spalle per scappare. Non si può dire nulla ancora. C’è qualche segno di violenza sul viso della donna, ma niente sperma né tracce di attività sessuale. Non posso dirti di più».
E lo scandì con un tono crudele, che significava tutto il contrario: sì, potrei dirti di più, ma non lo farò. E allora dovevo cavarglielo io, in un modo o nell’altro.
«Lo convocherai oggi il marito?»
«Sì, più tardi, penso, nel pomeriggio».
«È distrutto quel poveraccio, non infierire», buttai lì facendo per andarmene. Abboccò.
«Sinceramente fatico a provare compassione per uno che picchia le donne». Pausa, giornale sotto l’ascella, sguardo demoniaco.
«Ma questo, s’intende, è tutto da provare, avvocato».
E ciò detto si dileguò tra la folla. Ordinai un caffè, e mentre lo sorbivo scottandomi le labbra mi domandavo se dovessi cominciare a preoccuparmi sul serio per il vedovo Miraglia, alla luce della rivelazione di Carletto. Perché se davvero il mio cliente aveva le mani lunghe, considerate anche le sporgenze lignee sulla sua testolina di cervo, allora le cose potevano mettersi male. E da Carletto non c’era da aspettarsi sconti. Sembrava che Miraglia gli stesse sulla punta del piffero, per quanto questo possa far notizia, visto che al mondo non esistono luoghi comparabili, per densità demografica, all’estremità del suo coso.
Anche questa, in fondo, era un’osservazione più degna di mio fratello, e fu a lui che pensai mentre il caffè scatenava nel mio stomaco martoriato i primi spasmi da gastrite.
4
Racconto di Fabrizio Corsaro
Ci sono pezzi che si scrivono con il cuore e pezzi che si scrivono con il computer. La storia della donna accoltellata in viale Strasburgo appartiene alla seconda categoria. E non perché fosse una brutta notizia, anzi, ci si poteva montare su un bell’articolo. Ma quel giorno buttava male e quando mi girano, io non riesco a lavorare.
Me lo ricordo bene quel pomeriggio: Giulia aveva messo la gonna, ed era bella da rincoglionire. E giù, al bar, prendendoci il caffè, non riuscivo a staccarle gli occhi dagli occhi, e mi dicevo che quella era la sera buona, che stavolta l’avrei espugnata quella fortezza. E le proposi un gruppo tosto, di Bologna, che faceva funk jazz a Pallavicino, giusto all’orario in cui saremmo usciti dal giornale. Non puoi dirmi di no, baby. Col cazzo. Scusa, sai, ma ho già un impegno, Marcello mi porta allo Spasimo, c’è un concerto per arpa e flauto, sai, per l’estate palermitana. Ancora l’estate? Ma se siamo a settembre inoltrato?
Ed è lì che a uno come me si guasta la giornata. Perché, bellezza, è un crimine rinunciare a una serata di musica di quella suonata con i controcazzi e alla compagnia dell’one and onlyFabrizio Corsaro, bello, colto e simpatico, che ti corteggia più o meno spudoratamente da anni, per andarti a fare un’endovenosa di Lexotan allo Spasimo e sorbirti, oltre all’arpa, anche quell’abominio incravattato di Marcello Alaimo, che peraltro di musica classica ne capisce quanto io di algebra booleana.
Giornata nera. Che poi per un cronista di nera fa pendant. Tanto più che a quel punto non avevo nessun alibi per scansare l’invito di Valentina, che non poteva non tradursi in una maratona notturna di sesso, di quello cattivo. E io di lunedì – perché era lunedì, lo ricordo bene – le energie preferisco risparmiarle in vista delle fatiche settimanali a venire. Solo che poi la bimba ci sarebbe rimasta male ed è riprovevole deludere certe benefattrici dell’umanità come Valentina Vullo, che hanno una concezione leninista della propria sessualità, del tipo “a ciascuno secondo il proprio bisogno”.
Quando in redazione arrivò la notizia dell’omicidio stavo appunto chiacchierando con lei. Cazzeggiavo al tavolo di Valentina sperando in fondo al mio cuore infantile di far ingelosire almeno un po’ Giulia, che sembrava fottersene di tutta la scena, immersa nello schermo del suo computer, persa nelle sue pallosissime cronache del consiglio comunale.
Fu Ivan il Terribile in persona a richiamarmi al dovere, dandomi notizia dell’omicidio. Ivan Bosco, solo sette anni più di me, caporedattore e tiranno di questo giornale, chiamato anche ’o Animale per la sua voracità sessuale che conosce nel sottoscritto l’unico degno concorrente. Ci odiamo: secondo me, se potesse, mi sfonderebbe l’orifizio con i missili Tomahawk, e avrebbe anche il coltello dalla parte del manico, essendo il mio boss. Ma purtroppo per lui il dottor Fabrizio Corsaro rimane l’enfant prodige di questo giornalaccio, pupillo e luce degli occhi del Grande Capo, Sua Maestà Tucci, direttore, guru e sire. Con buona pace di Bosco, il sottoscritto è un intoccabile, e lui lo sa bene.
Che ne diresti di andare a lavorare, Corsaro Nero? Occhei Animal, quand’è tua, è tua. Scusami baby (Vale), ma il dovere mi chiama. E così vengo a sapere che c’è scappato un morto, anzi una morta dall’altra parte della città e che il traffico panormita non mi consente di raggiungere il posto in meno di tre quarti d’ora, visto che sono le sette e questo è l’orario in cui i palermitani sono tutti come babbaluci (lumache, se non masticate il siculo, ma nella fattispecie da masticare c’è ben poco, visto il viscidume del soggetto) usciti dal guscio, e io sono pure senza motorino, perché lo stronzo mi ha lasciato a piedi, e il meccanico mi ha guardato male quando gli ho detto che quel gioiellino ce l’ho dal 1984, infatti lo chiamo Winston, come l’eroe di Orwell.
E allora anzitutto chiamo al telefono il mio corvo, che mi racconta per sommi capi la vicenda. Poi mi detta un numero di telefonino. È un altro tipo che qualche volta mi ha dato una mano. Da lui vengo a sapere tutto quello che alla fine metterò nel pezzo. Mi tocca comunque andare a vedere di persona l’ammazzatina e allora mi metto in marcia senza perdere altro tempo.
Per fortuna che Pippo Nocera mi presta il suo Vespone, visto che lui è impegnato con l’arresto di un ultralatitante uccel di bosco dai tempi del cinema muto. Raggiungo il luogo del delitto e mi presento alla sbirraglia al lavoro. Non scopro niente, se non che la poveretta che sta ancora lì era davvero una gran bella donna, mora di quelle che piacciono a me, tipo Stefania Sandrelli inSedotta e abbandonata.
Disgraziata, manco trent’anni aveva. Brutta cosa fare il cronista di nera. Non tanto perché hai spesso a che fare con i morti ammazzati, quanto perché con il tempo ti ci abitui. «Al momento non si esclude nessuna possibilità, indagheremo a 360 gradi», è l’originalissima dichiarazione che raccolgo. E c’era bisogno di farmi venire dall’altro capo del mondo?
Al mio ritorno al giornale passai dalla stanza di Bosco per fare il punto della situazione. Ci trovai Marcello Alaimo ed ebbi l’impressione che i due stessero parlando di Giulia.
Quando entrai in quella stanza, se avessi potuto trasformarmi in qualcosa avrei tanto voluto essere gas nervino.
Mi raccordai rapidamente con il capocronista, Vito Giacalone, uomo innocuo che tanto mi ricorda il vecchio indiano di Piccolo grande uomoche un giorno sale sulla collina e si distende immobile ad aspettare la morte, proprio come Vito con la pensione. E infine mi sedetti e di malavoglia misi mano al pezzo, che venne fuori un aborto.
Peccato, perché la notizia c’era tutta, e con un pizzico di mestiere si poteva anche seminare un po’ di panico tipo “c’è un maniaco tra noi?” o altra monnezza del genere. Ma non riuscivo a togliermi dalla testa che Giulia continuava a dare filo a quello squallido individuo, che pare un ragioniere, tutto impettito e incravattato, con quegli occhialini da finto intellettuale, e che a forza di sguazzare nel guano della politica regionale, di cui scrive da anni con gusto, ne è diventato parte, assimilandosi alla melma che da cronista dovrebbe limitarsi a raccontare.
Ma non vorrei dipingermi da martire. In fondo il personaggio dell’innamorato sfigato di certe canzoncine anni Sessanta non mi si addice un granché. E infatti quella sera finì che mentre la mia Giulia si appisolava al suono dell’arpa allo Spasimo, io mi sottoponevo a una lunga seduta del trattamento Valentina Vullo nel mio appartamentino nel centro storico, sulle note di Nina Simone.
Svegliarsi una mattina di sole, a settembre, intravedendo il verde della cupola della Cattedrale, con il buon odore della generosa carne di Valentina, Palermo che carbura e strombazza e tu che poltrisci a letto. Queste sono le cose che ti mettono in pace con il mondo. Anche se parlare di pace forse è eccessivo, più adeguato sarebbe dire tregua armata.
Il primo dilemma fu se alzarsi dal letto per coronare quel risveglio con il caffè, o poltrire nel mio lettone, trastullandomi con i capelli di Valentina, lasciando al mondo pensieri e frenesie, come il profeta John Lennon in I’m only sleeping.
Le curve della schiena di Valentina erano adorabili, soprattutto per come andavano a finire, quel culo da picciridda tondo e sodo, a dispetto dei suoi trentacinque, quasi trentasei. Prodiga Valentina, nel cuore e nel corpo, con quel seno fin troppo abbondante e quel neo proprio lì, una finezza da intenditori. La Vullo rimaneva una delle migliori femmine materassabili che avesse varcato la soglia del giornale. E io, a modo mio, le volevo anche bene, non mi univo mai alle malignità che spesso si sussurravano sul suo conto, non mi piacevano certe battute sboccate, e una volta ho quasi alzato le mani a quello stronzo di Pietro Caltagirone, un collega dello sport, perché si era permesso in mia presenza di riferirsi a lei con l’epiteto di troia. A parte che certa gente è talmente malata del complesso d’Edipo che si ritrova sempre in bocca il nome di mamma, comunque io credo che Vale-baby sia nient’altro che una benefattrice, che ama gli uomini e la vita, e chi ne parla male, soprattutto chi dei suoi amorosi servigi ha beneficiato, meriterebbe per contrappasso un’impotenza fulminante.
Alla fine optai per la variante A, mi alzai dal letto, mi sparai un caffè e misi su una delizia di album, Elvis Costello e Burt Bacharach. Aspettai che Valentina si svegliasse, mangiammo una cosa insieme e la guardai rivestirsi. A quel punto, visto che erano ancora le dieci e io non volevo neanche pensare al giornale, decisi che una giornata da cartolina come quella meritava un salto a Mondello.
Winston l’aveva ancora il meccanico, dovetti prendere la macchina. Non c’era neanche tanto traffico, e in pochi minuti fui dentro il parco della Favorita. Il borgo marinaro mi accolse pacifico. Sì, c’erano ancora bagnanti, residuo del carnaio di luglio-agosto, ma tutto sommato poteva andare.
Mi accucciai sul mio moletto preferito a contemplare il golfo dell’Addaura slinguazzandomi un cono gelsi e banana del bar in piazza. Protetto dal mite gigante sdraiato sul mare (Monte Pellegrino secondo Goethe, ma l’aggettivo è mio), mi ritrovai a pensare al delitto di viale Strasburgo.
Chi è che ammazza una bella ragazza di ventott’anni madre di una bimba e perché?
Uno, un maniaco che bussa, dice di essere quello del pane, della spesa, o di voler parlare di Dio, dei Santi e dell’Apocalisse, o magari non dice niente perché la padrona di casa gli apre lo stesso. Entra, la spaventa, lei fa per scappare, gli volta le spalle e lui, con il coltellone da Shiningche trova in cucina, le cafudda un paio di coltellate. Però a violentarla non ci prova nemmeno, o almeno così parrebbe.
Due, un marito cornuto. E perché no, in fondo l’ha trovata lui. Il vicino lo ha praticamente visto con il coltello in mano. Una gran bella femmina come quella doveva avercelo qualche pretendente e, con tutto il rispetto per i defunti, non c’era da stupirsi se a qualcuno di questi l’avesse fatta tastare, e scusate il francese.
Tre, un amante incazzato. Magari un tipo manesco, o nevrotico. O proprio mezzo pazzo, sai quanti ce n’è a piede libero. Il corrispondente maschietto di Glenn Close in Attrazione fatale.Però senza stufato di coniglio.
Quattro, varie ed eventuali. Parenti, amici, nemici, ricattati e ricattatori, amanti lesbiche, spacciatori, papponi e pappine… ne ho sentite tante in sette anni di nera.
Però c’era qualcosa che mi frullava per la testa. La scena, la cucina. Un particolare che non mi sovveniva, che non mettevo a fuoco. Qualcosa che non quadrava con tutto il resto. Sì, forse c’ero arrivato. A capire cos’era fuori posto in quella cucina. Niente. Già, niente, era questo il punto. Niente sedie rovesciate, o tovaglie strappate o qualcosa di rotto per terra, quel genere di casino che si trova dopo una colluttazione o un inseguimento. Tutto troppo calmo, troppo in ordine. Potevo sbagliarmi, ma quella ragazza era stata presa alle spalle e a tradimento, niente maniaco insomma.
Bisognava tornarci su quella storia e con un po’ più d’impegno.
Passò qualche giorno. Era mezzo pomeriggio, al giornale una noia asfissiante. Di mattina avevo giocato a tennis con Ivan Bosco, massacrandolo. Ancora un po’ stanco e fiacchissimo per il clima soporifero che aleggiava in redazione, lavoricchiavo di malavoglia torturandomi il pizzetto come faccio sempre quando stanno per cominciarmi a girare. Giulia aveva il viso segnato da una nottata insonne. Temetti il peggio quando notai una smorfia di soddisfazione stampata sulla faccia anale di Marcello Alaimo. Poi fu lei stessa a tranquillizzarmi spiegandomi che la bambina aveva avuto la febbre alta per tutta la notte.
Giulia ha una bimba di due anni, Alessia, quasi più bella della madre. Il regalo di un figlio di madre disattenta che un tempo collaborava con il giornale, recensendo spettacolini di quart’ordine. Un bastardo che, saputo dell’inaspettata nascitura, aveva pensato bene di chiamarsi fuori sparendo dalla circolazione. Ora lavora in uno sfasciatissimo quotidiano concorrente con tirature da depressione. L’anno scorso abbiamo fatto un torneo di calcetto tra giornalisti e io al match di ritorno gli ho spezzato la tibia, un capolavoro che mi ha regalato sensazioni estatiche. Sì, a freddo poi mi è anche dispiaciuto, ma non per molto tempo: io e il senso di colpa stiamo bene insieme come Mick Jagger e Claudio Villa.
Quando Roberto mi telefonò, ricordo che stavo parlando di libri con Pippo Nocera. Mi recensiva con poco entusiasmo l’ultimo Kundera letto.
«Pronto».
«Fabrizio, la segui sempre tu la storia della ragazza ammazzata in viale Strasburgo?»
«Magari un ciao non ci starebbe male, non trovi?»
«Ciao. E allora?»
«Perché ti interessa, fratello, vuoi andarti a costituire?»
«Dai stronzetto, non mi fare perdere tempo che ho da lavorare, io».
«Diciamo di sì», risposi mansueto, che non mi andava di fare incazzare il mio fratello preferito nonché unico.
«Vorrei parlarne con te, quando ci vediamo?»
«Diciamo stasera da te?»
«Ti aspettiamo per cena?»
«Cucina tua moglie?»
«Certo…».
«Non disturbarti, vengo già mangiato».
5
Mio fratello e io abbiamo lo stesso cognome. A parte questo, la laurea in giurisprudenza e gli occhi di mio padre, nient’altro in comune.
Roberto ha un anno e mezzo più di me, è bacchettone come tutti i primogeniti, e come tutti i primogeniti è più brutto di me, che ho preso da mamma l’ovale, il naso francese e le gambe lunghe. A me piacciono il pop inglese e il rhythm & blues americano, a lui la lirica. Io amo la narrativa contemporanea, lui preferisce i classici. Io sono un cultore del cinema trash, mi faccio impudiche scorpacciate di b-movies e spaghetti western, ho tutta la filmografia di Bud Spencer e Terence Hill, lui inorridisce solo al pensiero. Roberto è cattolico, io se entrassi in una chiesa verrei risucchiato verso il centro della Terra. Ma soprattutto, il fratellone è sposato, dovrei dire sposatissimo, io ho fatto della poligamia uno stile di vita.
Io e mia cognata Monica ci vogliamo bene, d’altronde condividiamo la stessa croce. Ma quando m’accoglie a casa sua ho sempre il dubbio di rompere le scatole, mi guarda quasi infastidita, sarà che mi porto dietro “puzza di femmine” come dice lei. È uno dei suoi vezzi a cui guardo con una certa dose di comprensione. Non che la tolleranza sia mai stato il pezzo forte del mio repertorio ma con Monica mi sento di sforzarmi più del solito perché si parla comunque di un essere umano che sopporta da anni un ménage prolungato e quotidiano con un individuo pesantissimo come mio fratello maggiore e questa è una signora attenuante per qualsiasi eventuale mancanza.
La cognatina si dileguò presto nella sua stanza off limits per il resto del mondo, persa in qualche traduzione dall’arabo o magari semplicemente nella lettura, vallo a sapere, di una delle sue amate narratrici giapponesi. Io e Roberto ci buttammo di peso sul divano come nostra abitudine.
«È di cattivo umore», mi sussurrò lui con aria rassegnata.
E dov’era la novità? Mia cognata è una persona particolarmente amabile quando le gira per il verso giusto. Ma questo non accade troppo spesso. E se la curva dell’umore di Monica punta verso il basso, mio fratello ne viene sistematicamente travolto.
«Vi siete sciarriati di nuovo per la storia dei figli?»
«E certo, non lo senti com’è vuota questa casa? Ma ci pensi tu a un picciriddo che corre, parla, gioca…». Piange, si caca addosso, distrugge quei deliziosi soprammobili di cristallo e si inventa ogni giorno un sistema nuovo per farti impazzire.
«Bevi qualcosa?»
«Un whisketto. Non mi fai compagnia?»
«No, no, non posso». E lo disse come se gli avessi proposto un’orgia o una capatina in un bordello tailandese per pedofili.
«Che t’hanno trovato stavolta, transaminasi, trigliceridi, scolo, beri-beri?».
Mio fratello ha vissuto i primi vent’anni della sua vita da ipocondriaco. Poi è stato accontentato e nel giro di poco tempo ha collezionato tutta una serie di patologie di ogni tipo.
In ordine sparso: gastrite spastica, ipertrigliceridemia, steatosi epatica, ernia del disco, lombosciatalgia, lieve insufficienza polmonare e me ne scordo sicuramente qualcuna. Al suo laboratorio d’analisi l’hanno di casa, fa tre-quattro ecografie ogni dodici mesi ed è sempre a dieta per un motivo o per l’altro.
«Il fegato… si è ingrossato di nuovo, la steatosi peggiora e le transaminasi impennano. Trecento di trigliceridi! È l’anticamera del diabete».
«E solo questo ti manca, poi ti portiamo all’università e ti facciamo studiare. Ma come lo vuoi fare un figlio, che hai un piede e mezzo nella fossa…».
«Forse hai ragione tu…», disse Roberto sconsolato. Poi si tolse gli occhiali e si premette la parte alta del naso con pollice e indice: «…questa storia si va mettendo male, Fabrì. E il peggio deve ancora arrivare, secondo me».
«Cos’è che ti preoccupa?»
«Hai saputo le novità?».
Mentii: «Sì, più o meno». Ma lui non abboccò.
«Vabbè ho capito, non sai niente. Dunque, il medico dice che la ragazza era appena morta quando il marito l’ha trovata, o sostiene di averla trovata».
«Appena morta che vuol dire?»
«Vuol dire meno di un’ora. L’hanno ammazzata con cinque coltellate. Due gliele hanno date mentre era in piedi e voltava le spalle all’assassino. Le hanno squarciato il polmone sinistro e reciso un’arteria. Poi, secondo la ricostruzione del medico, lei è caduta bocconi ed è stata colpita altre tre volte, come se avessero voluto infierire. L’hanno massacrata. Il coltello poi è stato buttato a terra accanto al cadavere».
«Impronte?»
«Niente impronte. Era un coltellaccio da cucina, quindici centimetri di lama. Il marito ha raccontato che stava sul lavello e che lei lo aveva usato la mattina per cucinare. Chi l’ha uccisa l’ha pulito dopo averlo utilizzato, o si è protetto in qualche modo, magari indossando i guanti».
«Alt, aspetta un attimo. Se chi l’ha ammazzata lo ha fatto con un coltello trovato lì per caso, sottomano, vuol dire che non c’è premeditazione».
«Così sembra. E c’è ancora una cosa. La donna aveva un brutto ematoma sul viso. Ed era fresco, perché le hanno trovato in faccia altri segni, ma più vecchi».
«Segni di che?»
«Di percosse. Pugni, timpulate, che risalgono a qualche giorno fa. Il mio cliente è un po’ manesco».
«Che figlio di buttana».
«Sì, però nega di averglielo fatto lui quel livido, l’ultimo. E allora potrebbe essere stato l’assassino. Cioè, lui la colpisce al volto, lei si gira per scappare, lui afferra il coltello che si ritrova lì a portata di mano e l’ammazza».
«È una ricostruzione plausibile».
«Sì, però lei non è caduta rivolta esattamente verso la porta, l’unica via di fuga che dà sul corridoio. Il cadavere era disteso in direzione della vetrina dove ci sono piatti e bicchieri».
«E ti sembra un elemento importante?»
«Be’, è una delle poche cose a cui posso attaccarmi per sostenere che Francesca Miraglia sia stata uccisa a tradimento, di sorpresa. Insomma, non a seguito di una lite, perché in quel caso il marito sarebbe proprio inguaiato».
«E come se lo sarebbe fatto quel livido sul viso secondo te, Perry Mason?»
«In un sacco di modi. Anche semplicemente cadendo dopo la coltellata e sbattendo la faccia per terra».
Annuii. E mi versai un altro Laphroaig. Roberto si torturava il ciuffetto di peli che gli usciva dalla camicia sbottonata.
«Perché la picchiava?», domandai.
«Perché è uno di quei vigliacchi violenti che lo fanno. Era geloso. La nostra vittima non era proprio una monaca di clausura. I pretendenti non le mancavano. Dopo manco due anni di matrimonio mette le corna al marito. Se la fa con il padre di un suo alunno».
«Che tipo è lui? L’amante, intendo».
«Fa il rappresentante di gioielli, è un gran magnaccione di trentasette anni, con occhiali da sole firmati, decappottabile e scarpe da fighetto».
«E il becco sapeva?»
«Sì, lei a volte addirittura se lo faceva venire a casa, il suo amichetto, tanto la bambina è piccola e non parla ancora. Oppure lui la prendeva a scuola di pomeriggio e si andavano a infrattare al parcheggio di viale Francia, quello alle spalle del…».
«…sì, sì, lo conosco».
«Non ne dubitavo». Roberto, ovviamente, mi considera un pervertito.
«Sai altro sulla cara estinta?»
«Piaceva agli uomini e non era amata dalle donne. Le sue colleghe a scuola non impazzivano certo per lei, era un tipo con le cornicchia dure». Che in siciliano significa più o meno una dritta, una «che ci sa fare».
«Una bella senz’anima?»
«Diciamo una donna intraprendente e indipendente. A quel cretino del marito lo teneva per le palle».
«I tuoi soliti clienti fessi…».
«Sì, ma qui le cose si mettono male. Carletto è malintenzionato, e se ho ben afferrato, domani aprirà un’indagine sul vedovo».
«Minchia, nel giro di ventiquattr’ore lo arresta. Il tuo compagnuccio è un fulmine, le manette più veloci della Procura di Palermo».
«Vabbè, là dentro ci sono anche degli elementi da Santa Inquisizione. Per quelli il garantismo è una malattia, tipo il botulismo o che ne so…».
«Mah…», dissi, «non buttiamola sulla politica ora. Spiegami perché mi hai chiesto di venire. Ti serve qualcosa?»
«No, volevo solo sentire che ne pensavi tu, visto che avevi scritto dell’omicidio, che idea ti eri fatto, ammesso che tu te ne sia fatta una».
«Io all’amante ci avevo pensato. Bisognerebbe scoprire se il rappresentante di gioielli quel pomeriggio ha fatto una visita all’amica».
«Niente sperma né tracce di attività sessuale», puntualizzò Roberto.
«Stronzate, il sesso si può fare in un sacco di modi, fratellino, e non tutti lasciano tracce. Fatti servire da un esperto. Piuttosto, ce le aveva le mutande?»
«Come?»
«La Raimondo le indossava le mutandine quando l’hanno trovata?»
«Sì, ce le aveva».
«E il reggiseno?»
«Non lo so».
«Scoprilo».
Fu solo un paio di giorni dopo quella sera. Non so se certe cose capitano per caso o se c’è qualcuno dietro le quinte che le fa accadere per farmi girare le biglie. Dovevo portare Giulia al cinema. C’era una rassegna a Tommaso Natale sull’adolescenza nel cinema e proiettavano Lolitadi Kubrick alle dieci e mezza. Lei aveva il giorno libero, io avrei finito prima che potevo al giornale e sarei andato a prenderla.
Mi ero chiuso le mie paginette alle otto di sera. Tutta robetta, ordinaria amministrazione. Avevo detto a Vito Giacalone che dovevo andare via presto e che non mi rompesse i coglioni (ancora questo francese, ogni tanto mi scappa).
Insomma ero lì che contemplavo le cosce di Isabella De Luca, una ventenne pettoruta, collaboratrice del nostro glorioso quotidiano, la quale mi si era seduta vicino con il suo portatile e sfoderava una minigonna fantasma e un toppino così scollato che le si vedeva la cistifellea. La ragazza mi lanciava qualche sguardo, io me la immaginavo già in tenuta adamitica a spasso per la mia cucina (e per vedere concretizzarsi questa scena dovetti attendere poco più di una settimana da quella sera).
Poi alle nove, quando m’apprestavo a sbaraccare, mi giunse all’orecchio la voce del mio capocronista. Mi chiamò alla sua scrivania.
«Che vuoi, Vito? Stavo giusto per andarmene».
«Senti, Fabrì, c’è stato un incidente mortale. Facci un salto».
«Vito, ma porco il mondo, t’ho detto che stasera ho da fare…».
«Figghiu miu, io c’ho tre cronisti di nera, Nocera oggi è libero, Ciccio Leone mi sta scrivendo dell’agguato a Partinico, Fabrizio Corsaro non ha un cazzo da fare».
«Ma è un incidente stradale… Ciccio può farlo in dieci minuti…».
«Tu lo sai quanto mi manca per andare in pensione?».
Era la fine delle comunicazioni, chiudeva la trattativa. E il Corsaro Nero si arrese. A dire il vero ebbi un lampo, un’ideazza, mandarci Isabella coscialunga, lei me ne sarebbe stata grata per sempre: darle la chance di debuttare in nera era una mossa magistrale per accelerare i tempi di ammaterassaggio.
Ma, a pensarci bene, non avrebbe aiutato per la serata con Giulia. Perché Vito mi avrebbe fatto rimanere lo stesso, per controllare il lavoro della brava ma inesperta Isabella. E si sarebbe fatta notte comunque.
«Chi è morto?», domandai.
«Una ragazza, investita da un pirata della strada. Cinque minuti fa in via De Giorgi, sai dov’è?»
«Traversa di viale Regione Siciliana, zona Motel Agip».
«Bravo, vai, che prima vai, prima torni».
Per le scale incrocio Totuccio, il mio fotografo preferito. Vieni con me, ragazzo, il dovere ci chiama. Totuccio Salardino è un filosofo mancato. Su tutto si interroga, riflette e formula sue personalissime teorie. Che alle volte rasentano la follia, ma spesso coincidono sorprendentemente con le conclusioni di illustri pensatori che Totuccio, con il suo diploma dell’ITI, non ha mai studiato.
Montammo sul mio redivivo Winston e partimmo alla volta del Motel Agip. Spiegai a Totuccio dell’incidente.
«E certo, perché le femmine prima si insegnano a fumare e poi si prendono la patente, così possono guidare con la sigaretta in mano».
«No, guarda che la ragazza era a piedi quando l’hanno investita».
«Certo, perché oggi andiamo tutti di premura, è un mondo troppo frenetico, e ci colpano gli americani».
«Che c’entrano gli americani, scusa?»
«E chi lo inventò ’u Mecchiddònad, ’un fu l’americano? Ti hanno stabilito che un cristiano, pure quando deve mangiare, deve andare di premura. Il fast food, lo chiamano. Tutta questa frenesia ce la portano gli americani a noi. Pensa a tutti ’sti film di sparatorie, tipo Arno Sparzenever e Silver Stallone, ma in Italia ’ste cose chi le aveva viste mai? Noi ci avevamo ’u bello Canzoniere cu’ Mario Riva, Carosello, e tutti a nanna…».
Il Totuccio-pensiero aveva deragliato dai binari della logica.
La ragazza era morta sul colpo. Centrata in pieno, aveva fatto un volo di quasi dieci metri. Testimoni, manco a dirlo, nessuno. A quell’ora, in effetti, la strada è già deserta, soprattutto nel tratto dove c’è la scuola da un lato e dall’altro una vecchia fabbrica. Diverse persone avevano sentito il botto, ma accorse alla finestra non avevano fatto in tempo a vedere l’auto pirata. Tranne una vecchietta che stava affacciata al balcone. A suo dire l’auto non aveva neanche rallentato alla vista della malcapitata e dopo l’urto non si era fermata. Ma alla domanda “che macchina?” l’ottantenne signora era stata in grado di dire solo che “forse era scura”. Non era una gran traccia.
La ragazza aveva ventotto anni e lavorava in una ditta di contabilità. Stava uscendo dall’ufficio per tornare a casa, si avvicinava una scadenza importante e aveva fatto tardi.
Rosaria Cangelosi, segretaria, sposata da quattro anni, madre di un bambino di due anni e mezzo. Timida, schiva, lavorava la mattina, tranne il mercoledì, quando le toccava il turno pomeridiano.
Riesco a chiudere tutto in poco più di un’ora. E il pezzo, anche se scritto di corsa, viene pure bene. Alle dieci e mezza sono già sotto casa di Giulia. Lolita è andato a puttane, ma la serata si può ancora recuperare.
E mentre la mia piccola, tenera Giulia fa la sua apparizione con quel tailleurino gessato che mi piace tanto, io mi accarezzo felice il pizzetto, ignaro del casino in cui la mia vita sta per piombare per quella povera crista investita in via De Giorgi.
6
Racconto di Roberto Corsaro
Adesso Giuseppe Miraglia di un avvocato aveva proprio bisogno. Carletto non ci aveva pensato due volte a iscriverlo nel registro degli indagati dopo aver saputo quello che aveva saputo. I condomini dello stabile di viale Strasburgo si erano premurati di comunicare al pm di aver più volte sospettato che il mio assistito picchiasse la moglie. Soprattutto il loro dirimpettaio, quello che aveva scampanellato quel pomeriggio (inguaiando altresì il mio vedovo), raccontò di aver più volte sentito “rumori inequivocabili” provenire dall’appartamento accanto. E tutta una serie di persone aveva visto la signora Miraglia con brutti segni sul viso, graffi, piccoli lividi. Le colleghe della scuola poi ci misero la loro, e la situazione precipitò.
Carletto aveva ormai deciso com’erano andate le cose. E a quel punto ogni tentativo di smuoverlo dalla sua convinzione si sarebbe rivelato vano. Occorreva tracciare una linea difensiva. La mia idea contemplava, tra l’altro, l’ipotesi di tirare in ballo l’amante. Si chiamava Maurizio Ponte, mi aveva detto Peppino Miraglia. Poteva tornarci utile.
In sostanza l’accusa asseriva che quel pomeriggio Giuseppe Miraglia, dopo l’ennesima lite con la moglie, l’aveva fatta fuori. Poi, resosi conto di ciò che aveva combinato, in stato confusionale, aveva aperto la porta al vicino che bussava, preoccupato per il rumore che aveva sentito dal suo appartamento.
Anzitutto si poteva attaccare questa ricostruzione in almeno un paio di punti. Se sul coltello non erano state trovate impronte digitali, voleva dire che l’assassino le aveva eliminate. Ma allora perché il vedovo ammazza la moglie a coltellate, poi pulisce il coltello in modo che non si possa risalire a lui e dopo, però, apre la porta al vicino mostrandogli il cadavere? E poi, il vicino diceva di avere sentito tante volte “rumori inequivocabili” in altre occasioni, eppure non gli era mai saltato in testa di andare a suonare il campanello per capire cosa stava accadendo, come aveva fatto in questo caso. Forse raccontava balle sulle presunte violenze subite in passato dalla vittima.
Poi si poteva tirare in ballo l’amante, ripeto. Ma prima sarebbe stato meglio scoprire se quel pomeriggio il nostro uomo si fosse fatto vedere dalle parti di viale Strasburgo. Un alterco che sfocia in una lite violenta, la signora Miraglia che magari gli dice di non volerne più sapere di lui. A me bastava provare la possibilità che una cosa del genere fosse avvenuta.
Era una vicenda della quale si parlava sui giornali, eravamo esposti, non potevamo permetterci di uscirne con le ossa rotte. Delegai a Valeria tutto quello che potevo, per concentrarmi al meglio sul caso. Valeria è la giovane avvocatessa che lavora nel mio studio, brava, anche lei svezzata dall’avvocato Pisciotta buonanima. Chiesi a Gaetano di informarsi sui movimenti del signor Maurizio Ponte nel giorno del delitto. Gaetano è un mio fondamentale collaboratore, testata d’angolo dello studio legale. È un carabiniere cinquantenne in pensione, si è beccato una pallottola che l’ha praticamente azzoppato. Gli delego tutte le indagini ed è un segugio all’antica, altro che il Paul Drake del mio più celebre collega americano.
Mi sembrava interessante battere la pista di mister Ponte, fornicatore e fedifrago, e mi andavo convincendo che quel pomeriggio una passeggiata dalle parti di viale Strasburgo il nostro se la fosse fatta. Avevo dato ascolto a mio fratello e mi ero informato sulla biancheria intima che la vittima indossava al momento del delitto. Niente reggiseno in effetti, libera come l’aria. E secondo il marito non era normale, perché Francesca di solito lo portava il reggiseno, per levarselo solo quando andava a letto, dove per sua abitudine l’unico indumento che indossava era una fascia tergisudore sulla fronte. Allora era plausibile che quel pomeriggio tra i due ci fosse stato l’ennesimo incontro clandestino, interrotto bruscamente per qualche ragione, e che lei si fosse rivestita in fretta. Poteva funzionare.
Monica, quella sera, sembrava di buon umore. Io, dopo una giornata da incubo, mi guardai bene dall’irritarla, non ero nelle condizioni fisiche per reggere uno scontro.
Mia moglie è una delle poche donne che a casa, senza un filo di trucco, senza lenti a contatto e con i suoi occhiali tondi, senza tacchi e con le pantofole da picciridda, è assai più bella di quando la mattina esce tutta in ghingheri per andare a lavorare. Mi accucciai sul divano poggiandole la testa in grembo senza fiatare. Lei mise da parte il romanzo sudamericano che stava leggendo e prese a giocare con i miei pochi capelli.
«Stanco?»
«Distrutto. Sono preoccupato, amore».
«Perché, che succede?»
«No, niente di grave. Una cosa di lavoro».
«Per il fratello di Santino?», indovinò subito lei.
«Sì… oggi è arrivato l’avviso di garanzia. Deve essere interrogato, stavolta sarà sentito come indagato. Carletto Maniscalco nel giro di due giorni lo fa arrestare».
«È innocente?», mi chiese togliendosi gli occhiali e poggiandoli sul libro.
«Bah, lui dice di sì, ma non sarebbe il primo a raccontare una minchiata al suo avvocato. Io gli credo, però».
«E perché?», mi domandò la mia Monica, che – quando è in giornata sì – sa ascoltare come nessuno al mondo.
Mi sollevai poggiando la guancia sul suo seno, in modo da guardarla negli occhi.
«Allora, immagina che tu e io litighiamo in malo modo, ma proprio una sciarra feroce».
«Questo non fatico a immaginarmelo».
«Perfetto». Sorrisi. «Ora ipotizziamo che io cominci a gridarti paroline dolci tipo troia e sinonimi vari».
«Cos’è, vuoi eccitarmi?»
«Smettila, scema. Ora cerca di vedere la scena. Io sono infuriato e sono pure manesco. Che faccio? Cerco di colpirti, probabilmente. Tu come reagisci?»
«È un’esperienza che mi manca… Credo che ti assesterei un calcio nelle palle».
«Mettiamo invece che mi volti le spalle e scappi. Secondo te, io che sono un fallocrate picchiatore abitudinario, mi privo di darti una manciata di bastonate, di spezzarti le ossa, per colpirti piuttosto con cinque coltellate? No, non ci sta, non è nel personaggio. Che bisogno ho di un’arma se ti posso massacrare con le mie mani?»
«E se la ragazza avesse avuto visite quel pomeriggio?»
«Dici l’amante?»
«Forse, ma non necessariamente. Un’amica, un conoscente, il ragazzo del panificio… di questa donna sai poco e nulla, Roberto. Che passato aveva? E che futuro desiderava?».
Monica aveva ragione. È una prerogativa delle mogli avere ragione. Riprese a parlare.
«Uno uccide per soldi, o per amore, o per vendetta, o per follia, o perché c’è costretto. Tu escludi il primo movente e non credi a quello della follia. Concentrati sugli altri».
«E se ci concentrassimo su un figlio?».
Lei mi prese il viso tra le mani e mi baciò.
«Avevo pensato di vedere Marnie, ti va?», disse.
«Certo, come no», mi arresi.
Tippi Hedren che tira fuori una voce da bambina rivivendo la scena dell’assassinio del marinaio che l’ha segnata a vita. Maestro Hitchcock. Monica con la testa sulla mia spalla mi dice: «Nel passato di ognuno può esserci un segreto terribile. Cerca di scoprire se la tua Marnie di viale Strasburgo ne aveva uno».
7
Racconto di Fabrizio Corsaro
Fu tutta un’idea di Giulia. Era tardi per Lolita ed essendo ancora digiuno le proposi di andare a cena. Settembre volgeva al termine ma il clima era ancora da bassa estate e così, nonostante l’ora tarda, partii a colpo sicuro per Porticello.
Autostrada, uscita di Bagheria, poi un pezzo di statale e finalmente Porticello e Sant’Elia. Nel tragitto, sottofondo di Selling England by the Pound. Errore, errore, perché certa musica o la ascolti in sacro silenzio o niente, che Peter Gabriel mi fulmini. Adoro quel ristorante: una terrazza sul mare, una caletta fra due faraglioni, le stelle ruffiane e l’odore della salsedine. E il lume di candela, che non stona mai.
In auto avevamo cianciato raccontandoci gli ultimi pettegolezzi della nostra Sodoma e Gomorra. A tavola, in attesa della pasta con pescespada e melanzane, commentavamo i vari scoop.
«Come fa a non accorgersene?», mi domandava sgranando gli occhi castani. Si riferiva a Pietro Occhipinti, la cui attraente signora amoreggiava da tempo con un collega di una TV locale. Testimone oculare del misfatto era stato Marcello Alaimo, informatore numero uno di Giulia.
«Credo che non voglia accorgersene. La ama».
«Poveretto. Mi sa che prima o poi Simona La Paglia lo consolerà».
«Eh, ma questa non si ferma. Ha cominciato a bazzicare il giornale sei mesi fa e già se n’è fatti fuori quattro».
«E chi sarebbe il quarto?»
«Mimmo Pignatone. Quello, zitto zitto, se n’è passate un bel po’».
«Be’, ma neanche l’amico suo scherza».
«Ma chi, Salvo Tedesco, perché?»
«La tua tanto amata Vania, sederino d’oro, ce l’hai presente?».
Domanda retorica. Vania è un sogno proibito per mezza redazione. Vergine di ferro, biondissima segretaria di Sua Maestà Tucci, sfodera il lato b più conturbante che i miei occhi abbiano visto dal vivo.
«Che c’entra Vania?»
«Marcello m’ha detto che Salvo se la porta a letto».
«Ma Salvo sta con mia cugina!».
«Oh… scusa». Giulia si morse il labbro inferiore sollevando le sopracciglia. «Forse Marcello si sbaglia. D’altronde lui è quello che ha messo in giro la voce che Giovanni Pugliese era omosessuale, quella fu proprio…».
«Salvo Tedesco sta con mia cugina… come ha potuto?»
«Non fare così».
«No, no, io devo parlargli, deve dirmi come ha potuto…».
«Mi dispiace se ci rimani così male».
E certo che ci rimango male. Vania Carnevale, il culo più tondo di Palermo, disegnato da Giotto. Ma come ha potuto Salvo? E sì che dovevo parlargli, mi doveva spiegare il punto debole della ex vergine di ferro. E soprattutto: Salvo Tedesco stava con mia cugina, ma perché accollarsi quella rompipalle se poteva portarsi a letto cotanta femmina?
Fu tutta un’idea di Giulia, dicevo. Il discorso cadde sulla ragazza investita quella sera. Che morte tinta, ingiusta.
«Quanto hai scritto?», mi chiese.
«Sessanta righe, regolari».
«Attacco alla Corsaro?»
«Ovvio, baby».
«E dai, fammelo leggere».
«Dovrai aspettare domani mattina, mica me li porto dietro i pezzi che scrivo».
«Bugia», mi disse lei stropicciandomi il naso con l’indice.
Giulia sa della mia fissa di stamparmi gli articoli per rileggermeli a casa la sera, prima che escano sul giornale.
«Ce l’ho nella borsa, in macchina».
«Dai, muoviamoci, che voglio andare al mare».
Lo schianto e poi un volo di dieci metri. È morta sul colpo Rosaria Cangelosi, travolta da un’automobile ieri sera vicino alla rotonda di via Leonardo Da Vinci. Un’auto che nessuno ha visto, che non ha fermato la sua corsa dopo aver spezzato la vita della giovane donna. Si sono spenti sull’asfalto di via De Giorgi i ventotto anni di Rosaria, che lascia il marito e un bambino di due anni e mezzo. Una morte insensata, per mano di un pirata della strada senza volto. Qualcuno parla di un’auto scura, di piccola cilindrata. Troppo poco, al momento, per seguire una qualsiasi pista investigativa…
A rileggerlo non era poi un granché. Era stato scritto di fretta e si vedeva. Ma a Giulia piacque. Eravamo arrivati al mare e cominciammo a passeggiare sulla sabbia.
«Sai cos’è che andrebbe fatto?», mi chiese. Ma non si aspettava una risposta, e riprese: «Raccontare chi era questa ragazza. Non solo che lavoro faceva o che aveva un bambino. Qualcosa di più, darle un’anima, farla vivere, perché è di una vita che stiamo parlando. Spezzata da un vigliacco…».
«Be’, ci si può sempre tornare su».
«Sì, ma tu non lo fai mai, o quasi. Nessuno di noi lo fa. Non scendiamo in profondità, restiamo sempre in superficie. Sai che potenzialità avrebbe il quotidiano di Palermo, quanti temi da approfondire. Ma sembra quasi che abbiamo il terrore di arrivare all’intimo delle cose».
«Forse in realtà non spetta a noi».
«Ma così non facciamo informazione!», sbottò Giulia.
«La facciamo, ma non ci sbilanciamo più di tanto. Sembra molto comodo, ma ha un senso. Non inculchiamo opinioni alla gente. In questo modo, lasciamo uno spazio libero a chi vuole fare un giornalismo diverso. Il problema è che questa città è rassegnata, amore mio, con buona pace di chi pensa il contrario».
«Non è vero».
«Ma di cosa parli? Dei “fermenti culturali”? Del maquillage tentato organizzando qualche sfasciata kermesse provinciale? Giulia, ma guardati attorno: da una parte i nuovi ricchi arroganti e ignoranti che adesso vantano persino nobili appartenenze politiche… E dall’altra le caricature di “uomini di cultura”, che solo a dirlo ti viene da ridere, con quella spocchia da figli della nuova sinistra che vantano tutti ’sti post-sessantottini supponenti, guarda, l’altro giorno m’è capitato per le mani un libro scritto da uno di questi sfasciati, una nausea… E anche volendo sorvolare su questa varia umanità, andiamo al sodo, Giu’. Questa città è in agonia. Un posto dove sei ragazzi su dieci non lavorano è un posto senza futuro».
Giulia non disse niente per un po’. Non c’era luna.
«Non lo so, forse hai ragione», fece poi, unendo i palmi delle mani, «siamo dei privilegiati. Io non ho neanche trent’anni, ho un lavoro ed è quello che ho sempre sognato di fare…».
Com’era bella con quel suo tailleur pantalone e gli occhi castani fissi sulla sabbia. «Ma allora perché mi sento così insoddisfatta?».
Occhi lucidi, minaccia di pianto. L’abbracciai, lei tirò un respiro profondo. Poi si staccò da me con dolcezza e mi sorrise.
E sorprendendomi cominciò a sbottonarsi la giacca.
Non saprei dire quanti pensieri mi attraversarono il cervello a velocità ultrasonica nei cinque secondi che intercorsero tra il primo bottone e la prima parola.
«Il mare è splendido, voglio fare il bagno».
Si sfilò i pantaloni. Bellissima eri, Giulia, bella come mai ti avevo vista. L’intimo nero, minimo, le cosce lisce, ancora abbronzate, il seno piccolo, la pancia piatta. E quando mi voltasti le spalle per entrare in acqua, quel culetto, minuto ma tondo, una dolcezza.
Senza riflettere troppo sul fatto che fossi in piena digestione e che non avevamo nulla con cui asciugarci, mi tolsi i vestiti e le corsi dietro. La raggiunsi in acqua, faceva un freddo pinguino, le cinsi la vita e provai a baciarla. Lei rise e schizzò via come un pesce, fuori dall’acqua, e io dietro a rincorrerla sulla spiaggia finché non l’acciuffai e rotolammo giù uno sopra l’altra, tutti bagnati e la sabbia diventava una fanghiglia appiccicosa fra i peli del mio petto. E così finimmo occhi negli occhi, lei stava sotto di me e io m’imbarazzavo per il cuore che mi batteva troppo forte e per tutto il resto laggiù che pulsava pure e non lo si poteva controllare.
Poi lei parlò.
«Dormiamo qui, così».
«Sulla spiaggia?»
«Fa un po’ freddo. Che ne dici della macchina?».
E macchina fu. Ci accoccolammo per un po’. Restammo stretti, e basta, ma l’indomani ascoltai Jacques Brel a oltranza, come mi succede ogni volta che entro in una fase di caos sentimentale-ormonale.
Mon amour, mon doux, mon tendre, mon merveilleux amour…
Insomma fu per un’idea di Giulia che andai a casa della madre della ragazza investita. Il marito non volle parlare con me, ma la mamma non si tirò indietro. Un bell’appartamento in via Petrarca, pieno centro, due passi da via Libertà. La donna era vedova di un palazzinaro che forse a ben pensarci era pure stato amico di mio padre. Una donna moscia e smunta sulla sessantina andante mi aprì la porta.
Ma si accomodi e cazzi vari, finimmo in un salottino un po’ tascio (palermitano, ma la gente fine preferisce dire kitsch) e la signora pensò bene di offrirmi acqua e anice. In effetti tirava scirocco e quella era la bibita adatta.
Mi faceva tenerezza quella donna piccola e sciupata, forse aveva l’età di mia madre ed era semplicemente ridotta come mia madre se avessero arrotato il suo figlio prediletto (non Roberto, obviously). Parlava, parlava e parlava della figlia, ogni tanto si commuoveva e tirava su con il naso, «chiedo scusi», e ripartiva.
«…e non lo voleva quel turno di pomeriggio, perché ogni settimana aveva il problema del bambino. Me lo lasciava a me, ma non avrebbe voluto lavorare fuori dalle ore di scuola».
«Ma mi dica, cosa faceva sua figlia nel tempo libero, se ne aveva?»
«Guardi, lei ha detto giustissimamente. Non ce ne aveva proprio. Le era rimasto solo quello per andare dal parrucchiere una volta a settimana. Io ce lo dicevo che questa vita non la poteva fare…». Tirata di naso e «chiedo scusi». «Si voleva iscrivere in palestra, figghia mia, in un posto di questi per dimagrire, che dopo il parto era un po’ appesantita. Manco questo il Signuruzzu ha voluto».
Il quadro che la signora Cangelosi forniva della figlia era parecchio noioso. Una ragazza timida e timorata di Dio, ingenua, ingenuissima, tutta casa, chiesa e travagghiu.
Sarebbe piaciuta tanto a mio fratello. Il marito lavorava all’Amat, l’azienda dei trasporti pubblici cittadini. La madre non avrebbe voluto che la figlia lavorasse, avrebbe preferito che Rosaria si dedicasse alla famiglia e al bambino. Ma lei aveva trovato quest’occupazione e a Palermotravagghiu cinn’è picca – lavoro ce n’è poco – e come dire di no. Con due stipendi si vive meglio, disse, anche se lei non pagava l’affitto perché la casa di proprietà la buonanima di suo marito gliel’aveva lasciata.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. E fu per un mio errore, una leggerezza che pagai cara, visto tutto quello che ne conseguì.
Avevo notato una foto in un picoglass, appesa sopra il televisore.
Era Rosaria in età scolare, quindici-sedici anni, indossava la divisa blu della scuola delle suore e cercava di nascondere gli incisivi da coniglietto in un sorriso innaturale.
Mi feci scappare quella fatale domanda.
«Sua figlia ha studiato dalle suore?».
E lì un altro pianto soffocato, povera donna. La mia picciridda, sì che ha studiato là, quant’era bedda, gioia mia, e quant’era buona e brava e studiosa, guardi… e quasi mi prende per mano e mi porta in una cameretta. La stanza della figlia, ci sono ancora il poster di George Michael e la locandina di Pretty Woman, e io penso che se sono sopravvissuto agli anni Novanta, questa insulsa prima decade di terzo millennio, con tutti i suoi casini, non può farmi certo paura. La donna comincia a commentare le fotografie appese alle pareti, la ragazza prima neonata, bambina, ragazzina pedicellosa, poi quindici-sedicenne, belle gambe e seno pieno ma denti sporgenti di quelli che complessano un’adolescente assai più di una prima di reggiseno o della cellulite.
Poi maggiorenne e un po’ maggiorata, ma garbata, affruntusa, o timida come dicono in Italia. E nelle foto della pubertà ecco i jeans con i risvolti Naj Oleari degli orrendi anni dei paninari, che a conti fatti dovevano essere al loro tramonto, e i ragazzi con quei ridicoli cinturoni con le borchie. Era assai meglio nelle foto della scuola, con la blusa e la gonna blu delle monache. E guardale le sedicenni dei tempi, ancora con i brufoli e i culoni, non come quelle che ti sfornano oggi, cosce lunghe, minigonne e stivali, corpicini da modelle che ti fanno chiedere cosa mangiano per diventare così.
Continuai a scorrere le foto. La scuola, festicciole casalinghe, di quelle dove si pomiciava che era una bellezza, gita scolastica a Roma con San Pietro alle spalle, foto con cane, spiaggia di Mondello, carnevale con parrucca di Candy Candy. E non so come fu che notai quello che notai. Era un primo piano di due amiche, sullo sfondo Monte Pellegrino.
A sinistra Rosaria, un sorriso più aperto del solito e gli incisivi in evidenza, a destra un fiore di sedicenne dallo sguardo duro, il naso diritto e un sorriso beffardo. Grandi occhi scuri, sopracciglia dal disegno perfetto e i capelli lisci e nerissimi che le scendevano ai due lati dell’ovale, appena mossi dal vento. Conoscevo quella ragazza, ne ero sicuro, ma non l’avevo mai vista così giovane. Mi accarezzavo il pizzetto sforzandomi di ricordare, poi comparve il fumetto con la lampadina: eureka, Stefania Sandrelli in Sedotta e abbandonata o magari nel ruolo di Angela inDivorzio all’italiana.
Non ci avevo fatto caso, tanto ero concentrato sulle foto, ma la madre intanto stava parlando, illustrandomi le tappe salienti della vita di Rosaria. La interruppi in modo brusco.
«Signora, questa ragazza qui», la indicai, «era un’amica di sua figlia?».
Lei parve esitare un attimo.
«Sì, andavano a scuola insieme».
«Una compagna di classe?»
«La sua compagna di banco».
«Si chiamava Francesca Raimondo?»
«Sì, a quel tempo Rosaria le era molto legata».
E a quel tempo io ero un ragazzo, giocavo a ramino e fischiavo alle donne.
«Si frequentano ancora?»
«No», sicura como la muerte, «da diversi anni, praticamente dai tempi della scuola».
«Sa che Francesca Raimondo è morta?».
La donna sembrò atterrita.
«Ma… ma che mi dice?»
«È stata uccisa nel suo appartamento meno di un mese fa».
«Uccisa? Mischina, Gesù mio, ma cose da pazzi…».
La vedova Cangelosi, se davvero non sapeva dell’omicidio di Francesca Raimondo, non solo non leggeva il giornale, ma scansava con cura anche i TG, perché di quell’episodio se n’era parlato per un pezzo in TV.
«Signora, è certa che sua figlia e questa ragazza non fossero più in rapporti?»
«Sì, non si vedevano da tempo».
«Magari lei non ne è a conoscenza, ma…».
«Guardi, non credo. E poi mia figlia veniva a trovarmi un paio di volte a settimana, gioia mia, e parlavamo tanto, me lo avrebbe raccontato se si fosse incontrata con Francesca dopo tutti ’sti anni».
E lì, amici miei, il mio bel nasino alla francese cominciò ad avvertire un tanfo di bruciato, e vorrei dire feto, ma ce la metto tutta ad evitare il francese.
«Come mai avevano interrotto i rapporti?». Mi sedetti sul bordo del letto. La donna si appoggiò all’armadio.
«Non li avevano interrotti… si erano perse di vista. Erano molto diverse fra loro», e marcò quel “molto” in grassetto.
«Perché?»
«Rosaria era un angelo…».
E l’altra una troia? Era qui che voleva arrivare?
«…ancora una bambina a quell’età. Francesca era più sveglia, più grande, capisce?».
Intuivo. Francesca era almeno un paio di gradini più avanti dell’amica nella scala De Canzio della perversione, elaborata dal mio compagno di liceo che le diede il nome.
Insomma, se Rosaria pomiciava, l’amica si dava al petting spinto e quando Rosaria arrivava a quel punto, l’amica probabilmente aveva già perso la virtuosa membrana. Almeno era così che la vedevo io.
«E Rosaria, a quanto le risulta, non sapeva niente della morte della ragazza, altrimenti ne avrebbe parlato con lei».
«Sicuro».
Puzza di bruciato. Al fuoco, pompieri! Troppo agitata mi sembrava, c’era qualcosa, doveva esserci. L’avrei scoperto.
8
Due vecchie amiche che muoiono di morte violenta a meno di un mese di distanza. Puzzava,feteva, stava prendendo corpo una notizia.
A casa misi su il mio best degli Who e mi rilassai un po’ sul divano concentrandomi sul gran lavoro di basso di John Entwistle e unendomi alle voci di A Quick One while He’s Away. Poi mangiai un panino e per rinfrescarmi il cervello mi sottoposi alla visione di Lo chiamavano Trinità per la ventisettesima volta. Mi fece pensare a Roberto.
Alle tre e un quarto ero già seduto al desk al giornale, con un solo pensiero: far scoppiare la bomba. E telefonai a un gran brutto tipo.
«Buonasera, dottore. Fabrizio Corsaro, giornale».
«Sì».
«Desideravo parlarle della signora Rosaria Cangelosi in Lo Bue. Sa chi è?».
Un milionesimo di secondo di esitazione, poi Carletto inquadrò.
«La donna investita al Motel Agip».
Risposta esatta! (Applausi).
«Era la compagna di banco della ragazza accoltellata in viale Strasburgo».
Devo ammettere che lo dissi bene, perché Carletto esitò per un paio di secondi prima di parlare.
«E con ciò?»
«Be’, non le pare curioso? Muoiono entrambe di morte violenta in circostanze misteriose a venti giorni di distanza. E se ci fosse un legame?»
«Lo escludo».
«Come fa? Ha appena saputo di questa connessione e già si sente di escludere ogni rapporto fra le due morti, senza neanche indagare?»
«Le indagini sono in stato avanzato e vanno in tutt’altra direzione».
«E se fosse la direzione sbagliata?»
«Guardi, Corsaro». Carletto mi conosce da quando aveva dodici anni e s’ammazzava di pippe e mi chiama Corsaro. «Se ognuno di noi cercasse di fare bene il proprio lavoro senza ingerire in quello altrui sarebbe un’ottima cosa, non trova?».
Trovo, trovo. Tu, per esempio, lo stronzo lo sai fare benissimo.
«Qui c’è un fatto: le due ragazze si conoscevano».
«Senta, onde evitare spiacevoli equivoci, le devo chiedere di astenersi dallo scrivere qualsiasi cosa che sottintenda un legame tra i due omicidi». Alla cortesia delle singole parole si accompagnava la minacciosità del tono.
«Io ho trovato una notizia, lei non può impedirmi di darla», reagii, «è il mio lavoro, e se ognuno di noi cercasse di fare bene il proprio lavoro senza inge…».
«Amico mio, non ho tempo per giocare. Lei scriva pure che le ragazze si conoscevano, se vuole, ma per la Procura di Palermo tra le due morti non c’è alcun collegamento e se lei lascerà intendere altro se ne accollerà le conseguenze».
«Intesi. È sempre un piacere, dottore Maniscalco, arrivederla».
Carletto chiuse.
Giulia arrivò alle tre e mezza, gonna nera, camicetta bianca e faccia provata. Dopo la nottata in macchina di due sere prima non c’eravamo sentiti. Avevo avuto il mio giorno libero e non l’avevo chiamata. Passò dalle mie parti concedendomi un salutino con la mano. Poi, a metà pomeriggio, mi chiamò al mio interno e mi chiese di scendere al bar per il caffè. Andammo.
«Grazie per l’altra sera, sono stata molto bene».
«È stato un bel fuoriprogramma», dissi io.
«Non lo so. Ci ho pensato e credo di aver capito».
Che mi ami, baby? Era ora.
«Capito cosa?», le chiesi mettendo il terzo cucchiaino di zucchero. Io il caffè lo prendo quasi amaro.
«Perché ti ho chiesto di dormire con me. Non volevo tornare a casa, non volevo…», e qui la voce si fece incerta, «…tornare da Alessia».
Tacqui, cos’altro potevo fare?
«Sai, è dura alle volte», riprese. «Alessia è ciò che di più caro ho al mondo, la adoro. Ma alla fine ho sempre ventotto anni e sono sola. E avrei bisogno di tante cose che non ho. Ma quando ti capita quello che è capitato a me, sei portata ad aspettarti il peggio dalla vita e ti freni. Così finisce che mi butto sul lavoro e sulla bambina, Alessia e giornale, giornale e Alessia, e certi giorni mi chiedo chi sono e che cosa voglio e quasi non lo ricordo più».
Le accarezzai i capelli dietro la nuca, ma non parlai.
«Comunque mi dispiace per la tua macchina», disse. «Con tutta quella sabbia l’abbiamo ridotta una schifezza».
«Già lavata, stai tranquilla. Piuttosto, ci sono novità sull’incidente di via De Giorgi. È stata una tua idea, volevo sapere qualcosa di più sulla ragazza, come avevi detto tu, e sono andato dalla madre».
«E allora?»
«Guarda, è stranissimo. La Cangelosi era la compagna di banco della donna ammazzata in viale Strasburgo».
«Sul serio?»
«Sì, compagne di classe, amicone, ma secondo la madre non si vedevano da una decina d’anni. Puzza, vero?»
«E dove andavano a scuola?», chiese lei seguendo i suoi pensieri.
«Dalle suore».
«Che scuola facevano?»
«Boh… Aspetta, la ragazza dell’incidente, Rosaria, era diplomata ragioniera».
«Ma quell’altra non faceva la maestra elementare?».
Già, vero. La maestra ragioniera? Puzzava sempre più.
«Sì, era diplomata al magistrale, almeno credo».
«C’è qualcosa che non quadra, non trovi?».
In che cazzo di casino mi stavo andando a impelagare.
Poca voglia di lavorare quel giorno. I napoletani dicono faticà, ma noi siciliani siamo più drastici e questo mostro divora-vita lo chiamiamotravagghiu, che più che la fatica richiama proprio la sofferenza. Mi toccò una rapina a mano armata da quattro soldi, una minchiata di quelle che si scrivono in dieci minuti. Ma non riuscivo a concentrarmi, dovevo sentire una persona. E così chiamai.
«Ciao, Bambino».
«Hai visto di nuovo Trinità?», mi chiese mio fratello. Fa il superiore, ma da ragazzini lo guardavamo sempre insieme e lui ci andava pazzo.
«Qualcosa in contrario?»
«Quante volte l’hai visto?»
«Credo ventisette, una più una meno».
«Che vuoi?». Era incazzato.
«Ho notizie interessanti».
«Anch’io, ti stavo telefonando».
«Dimmi».
«L’hanno arrestato. Carletto ha chiesto l’autorizzazione e il gip gliel’ha data».
«Figurati. Motivando la carcerazione preventiva per…».
«Pericolo di inquinamento delle prove, ovviamente. Quando non hanno altro da inventarsi…».
«Mi dispiace».
«Anche a me. Ma la guerra comincia adesso».
«Sei sempre convinto che sia innocente?»
«Io non faccio il prete, faccio l’avvocato, devo salvargli il culo, non l’anima. Finché quello stronzo non mi prova la sua colpevolezza, per me e per il diritto è innocente. E comunque, detto per inciso, io gli credo».
Quando Roberto s’incazza, s’intravede una qualche affinità con il fratellino minore.
«Ora senti questa…», gli dissi, «l’hai letto sul giornale della donna investita in via De Giorgi?»
«Io non leggo i tuoi articoli, ho la gastrite».
«Senti, locco, la ragazza è stata uccisa da un pirata della strada. Oggi vado a casa della madre e cosa ti scopro? La poveretta era la compagna di banco della tua Francesca Raimondo. Praticamente inseparabili ai tempi delle superiori».
«Be’, questa è interessante».
«Sì, lo penso anch’io. E poi la madre mi è sembrata un po’ reticente. Una cosa l’ho capita, la tua signora Raimondo in Miraglia doveva avere intrapreso la carriera di femme fatale già molti anni fa, in tenera età, perché la signora Cangelosi ce l’aveva in antipatia. Sai, le brutte compagnie, le amiche traviate che consumano le figlie buone e sante…».
«Ho già afferrato. Senti, io adesso chiedo a quel fesso del mio cliente se la moglie gli ha mai parlato di questa Rosaria».
«Chiedigli anche un’altra cosa, già che ci sei».
«Dimmi».
«Vorrei capire se la moglie era diplomata al magistrale. Perché la ragazza investita invece era ragioniera».
«Fabrì, ma non hai detto che erano compagne?»
«È proprio quello che mi interessa chiarire. Io intanto faccio una telefonata alla madre della mia investita».
«E vediamo di scoprire il segreto delle nostre Marnie, se esiste», disse lui, ma io non afferrai in pieno. Ci salutammo, però il fratellone mi bloccò.
«Ehi, aspetta. Come la metti sul giornale questa storia?»
«Il tuo compagnetto pm mi ha diffidato dallo scrivere che i delitti sono collegati. Però qualcosa si può fare».
«Bravo, butta l’amo», mi disse lui.
«Ma quale amo?»
«Ciao, fratello, devo lavorare».
«Ciao, Bambino».
«E non chiamarmi Bambino!».
Riattaccò.
Mi toccò fare un bel giro di telefonate per scrivere dell’arresto di Giuseppe Miraglia. Il poveretto, mi spiegò Nicola Galanti, il nostro cronista di giudiziaria, era incappato nel peggior triangolo immaginabile, che aveva ai tre vertici il terribile pm Maniscalco, il commissario Azzarello detto “lo sceriffo” e il giudice per le indagini preliminari Bruno, che per Maniscalco nutriva incondizionata fiducia.
Il pezzo lo scrissi con la massima attenzione, era importante. Fui interrotto solo una volta da Valentina che mi propose di andare a pranzo insieme, a Mondello, l’indomani.
Declinai l’invito.
Telefonai alla Cangelosi per chiarire la faccenda del diploma di ragioniera della figlia.
«Dottore, mi dica».
«Signora mi perdoni, vorrei capire una cosa».
«Prego», mi invitò, interdetta.
«Sua figlia era diplomata in ragioneria, vero?».
Silenzio e poi una specie di disturbato sì.
«Dalle suore?»
«No». Anche questo secco e irritato.
«Dunque ha cambiato scuola?»
«Sì, alla fine del terzo anno del magistrale».
Cioè a un anno dal diploma. E perché? Non si era detto che era una picciuttedda brava e studiosa?
«Come mai?».
Esitazione. Vocalizzo monotono. Respiro. Poi la risposta.
«Non si trovava più bene. Diceva che non le piaceva più. Non voleva fare la maestra o l’università. Io e suo padre cercammo di convincerla ma non ci fu verso… E si iscrisse a ragioneria».
Tornava la puzza di bruciato.
«Ma c’era stato un episodio, non so, qualche evento che l’aveva spinta…».
«Senta, dottore», mi interruppe, «sono cose vecchie di cent’anni fa, io per ora ho la testa da un’altra parte. Mi scusi».
Salutai, mi bastava così. Adesso sapevo con certezza che c’era sotto qualcosa. Dovevo solo gettare l’amo, come aveva detto Roberto. E lo feci in televisione, al notiziario.
Il nostro editore, negli anni Ottanta, all’epoca del boom delle TV private, aveva pensato bene di creare la sua. Per lo più nel notiziario si riversa il lavoro del giornale. E nell’edizione della sera si anticipano le principali notizie del quotidiano dell’indomani. In televisione era più facile dire e non dire, parlare fra le righe, o quantomeno era più facile che il messaggio venisse afferrato. E allora quando la bella Giovanna Maggio mi passò la linea, io parlai in breve dell’arresto e poi, in coda, buttai lì la coincidenza delle compagne di banco morte a distanza di tre settimane. Non accennai neanche a un collegamento tra i due episodi, parlai della cosa come di uno scherzo del destino (Carletto era servito). Ma prima di terminare aggiunsi malandrinamente che di quell’amicizia saremmo tornati a parlare, perché la storia presentava degli aspetti ancora da chiarire.
Che era come non dire nulla. Per chi non sapeva nulla. Per gli altri pochi intimi era un amo, l’amo di mio fratello.
E il pesce abboccò subito.
9
Racconto di Roberto Corsaro
Per raggiungere l’Ucciardone dal mio studio di via Dante attraversai piazza Politeama con le sue palme e il suo flusso di autobus e ciclomotori e poi giù diritto al mare per via Emerico Amari, presa di mira da vigili urbani che stampavano multe a raffica alle auto in sosta vietata. Risalii per il breve tratto fino a via Francesco Crispi e posteggiai a piazza Giachery, a due passi dal mare che a Palermo non vedi quasi mai, ma sai che c’è, nascosto dietro qualche muro.
Settembre era finito e ottobre si era presentato capriccioso. Il sole giocava a nascondersi tra nuvolette maligne e all’ombra pizzicava la gola perché la temperatura si era parecchio abbassata. Il mio umore si adattava al tempo, ed era cangiante come quel cielo indeciso.
L’Ucciardone è il vecchio carcere di Palermo, a cui si è aggiunto in tempi più recenti, da un’altra parte della città, il penitenziario di Pagliarelli. Il suo nome nasce da uno dei tanti francesismi del nostro dialetto bastardo di mille popoli e lingue.Chardon, “il cardo” che probabilmente un tempo abbondava nella zona, in quell’angolo tra via Duca della Verdura e via Francesco Crispi, proprio di fronte al mare, al porto e ai cantieri navali.
È un postaccio, come tutte le prigioni. E come tutte le prigioni ti segna, e ti squarcia le viscere se sei innocente, ogni minuto dietro le sbarre è un ago piantato nello stomaco. La gente non ha idea di cosa sia la galera. A volte, quando in qualche conciliabolo mi tocca di sentire il genio di turno che, commentando qualche fatto di cronaca, si lamenta perché un tizio ha avuto una pena troppo leggera, magari sei o sette anni di reclusione, mi verrebbe da prenderlo e condannarlo a un mese, un mese solo di arresti, anche solo domiciliari. Per fargli rendere conto di quanto sia lunga un’ora, un’ora sola, privati della libertà. Ma non lo faccio mai, mi mordo la lingua e ci passo sopra.
Giuseppe Miraglia era distrutto. Aveva gli occhi infuocati di pianto e il viso stravolto. Appena mi vide, esplose in lacrime.
«Non ho fatto niente… io non ho fatto niente».
«Coraggio, cerchi di calmarsi». Mi sfilai gli occhiali.
«Che facciamo adesso?», singhiozzò Miraglia.
«Intanto presentiamo istanza di scarcerazione, ma è bene che lei sappia che non ci spero molto. Qui non abbiamo di fronte gente dal cuore tenero. E le accuse che le rivolgono sono molto serie. Dobbiamo mantenere la calma. Contro di lei non ci sono prove, c’è qualche indizio e il fragile teorema di un pubblico ministero», l’aggettivo fragile era l’unica bugia, «quindi non è il caso di disperare».
«Avvocato, m’hanno chiuso in galera. Che succede a mia figlia adesso?».
Questo era un problema serio. Ma io non potevo farci molto.
«È con suo fratello per ora», mi limitai a dire.
Lui guardava il pavimento e odorava di paura e sudore, ogni tanto tirava su con il naso e si stropicciava gli occhi con il dorso della mano. Presto gli si sarebbe appiccicato addosso un altro puzzo, quello di prigione, che ti accompagna per un pezzo anche quando esci dall’incubo, lasciandoti alle spalle il suono di un cancello pesante.
«Signor Miraglia, vorrei sapere che titolo di studio aveva sua moglie».
«Era maestra. Diplomata al magistrale», rispose senza staccare gli occhi da terra.
«Ha studiato dalle suore, vero?»
«Sì, ma poi ha cambiato scuola. Si ritirò, perse l’anno e si riscrisse alla scuola pubblica».
Anche lei, come l’amica, aveva lasciato l’istituto. Le vite di Francesca Raimondo e Rosaria Cangelosi sembravano scorrere in parallelo, fino alla fine.
«Perché si era ritirata?».
Miraglia staccò gli occhi arrossati dal pavimento e li diresse su un qualche altro punto alle mie spalle.
«Francesca non amava suore e parrini, aveva un pessimo ricordo di quegli anni. Diceva che si era trovata male e che se n’era scappata perché non li sopportava più».
«Ma si trattava di un malessere generico o le aveva raccontato qualche episodio?»
«Non lo so», e finalmente tornò a guardarmi in faccia, «io non la conoscevo allora. Ci siamo incontrati diversi anni dopo».
«Ha mai conosciuto Rosaria Cangelosi?»
«Chi?»
«Rosaria Cangelosi, una compagna di classe di sua moglie. Si chiama Lo Bue da sposata».
«No, mai sentita. Perché?»
«Niente, è morta anche lei qualche giorno fa».
«E c’entra qualcosa con mia moglie?»
«Vorrei tanto saperlo», risposi.
In macchina mi iniettai una sana dose di Puccini, Tre sbirri, una carrozza, Renato Bruson. Amo molto questa Tosca con Domingo, Scotto, Bruson, però quel pomeriggio non servì un granché, perché ero troppo nervoso e la gastrite bruciava e pungeva spietata. Pensavo alle parole di Monica su Marnie e i segreti del passato. E a Giuseppe Miraglia, chiuso in carcere per un reato che giurava di non aver commesso. E che volevo un figlio, e avevo aspettato abbastanza.
E così finì che quella notte sognai Giuseppe Miraglia-Cavaradossi, fucilato senza processo, con Carletto nei panni del perfido Scarpia, tutto nero, intabarrato e cattivo che se la rideva grassamente.
Ma non c’era nessuna Tosca a pugnalarlo.
10
Racconto di Fabrizio Corsaro
Il mio appartamento da single implorava una ripulita epocale. Non sono un granché come casalingo, ma quella mattina mi misi di santa pazienza a riordinarmi la baracca. Per una sfaticata del genere ci volevano i Beatles, scelsi l’Album bianco e mi feci una tirata di un disco e mezzo. Mi arresi arrivato a Helter Skelter, quando Ringo Starr lancia le bacchette e grida di avere le vesciche alle dita. Anch’io, come il buon Ringo, ero esausto.
In tarda mattinata feci un salto al giornale. Beccai un corteo sindacale in via Maqueda ma sgattaiolai con il mio Winston (ormai in gran forma) prendendo la via del mare. Pippo Nocera, piedi sulla scrivania, leggeva un classico di Camus, Marcello Alaimo, incravattatissimo, parlava al telefono con qualcuno dei suoi deputati regionali, Valentina parlottava con il suo caposervizio, per il resto calma piatta e scrivanie deserte.
La gente non ha idea di quanto moscia possa essere l’aria che tira dentro una redazione di un giornale. Tutti quei film americani con reportercool e incravattati, pieni di frenesia ed eccitazione con il sottofondo del ticchettio delle macchine da scrivere, hanno portato l’immaginario collettivo molto ma molto lontano dalla realtà.
Mi misi a sfogliare il giornale, poi il telefono mi interruppe.
Era un’esterna.
«Il dottore Corsaro?».
Sembrò non crederci molto al “dottore”, da come lo disse, ma si sa, in Italia un dottore non lo si nega a nessuno. Io però lo ero sul serio.
«Sì, mi dica».
«Buongiorno, sono don Gaetano Lombardo».
Il “don” stava per padrino o per parrino (prete in Italia)?
«Ssssì, mi dica pure… Ci conosciamo?»
«No, io la disturbo perché l’ho vista ieri in televisione».
Sono telegenico, vero? Ma non lo dissi. Perché sì, mi piace fare lo scemo, ma pur sempre con dei limiti.
«Sì», mi limitai a monosillabare.
«Cosa intendeva dire quando ha parlato del legame fra le due ragazze uccise?».
Il famoso amo di Roberto. Non bisognava fare altro che tirare la lenza.
«Quello che ho detto. Che ci sono aspetti da chiarire».
«E sarebbero?». Avvertivo una certa ansia nella sua voce.
«Ammesso che io voglia dirglielo», risposi molto antipatico, «lei chi è per chiedermelo?»
«Io dirigevo l’istituto in quegli anni».
Mi presi due secondi. Nei quali concentrai al massimo la mia capacità di elaborazione mentale. Questo tipo, dopo dodici anni, si ricordava ancora delle due fanciulle e le aveva riconosciute sul giornale, aveva riconosciuto i loro nomi, le loro facce. Ora, quando sei il direttore di un istituto con tre-quattrocento ragazze, e ogni anno ci sono i ricambi, e chissà per quanti anni hai insegnato e quante studentesse hai visto, come cazzo fai a ricordarti due nomi dopo tutto quel tempo? Evidentemente ci doveva essere qualcosa che non gli aveva fatto dimenticare Francesca e Rosaria. Per forza. Tutto in due secondi.
«Ma allora credo che lei sappia benissimo a cosa mi riferivo».
Tie’, prete, prendi questa. Io non gioco a poker perché con il mio bluff mi basterebbero due-tre partite per diventare miliardario e non voglio rovinarmi l’esistenza con i soldi. Il parrino ansimò. Era chiaro che avevo a che fare con un soggetto ansioso. E che il mio bluff era stato grande.
«Lei conosce la storia nei dettagli?», mi domandò alla fine.
«Più o meno. Certo, lei potrebbe dirmi qualcosa di più preciso. E potremmo rendere un servigio alla verità». Tredici anni di scuola cattolica, non so se mi spiego.
Il parrino esitò. Poi cedette.
«Vuole venirmi a trovare? Io abito vicino alla stazione, per lei dovrebbe essere una passeggiata».
«Mi dia l’indirizzo».
Era una traversa di via Roma, non lontano dal giornale. Una zona antica della città, la Palermo della Magione, della Kalsa, dello Spasimo. Era quella parte di centro storico popolata da immigrati e indigeni della Palermo popolare fra cui negli ultimi anni, dall’alba del nuovo millennio, si era insediata anche una certa borghesia attratta dallo status symbol della casa “al centro storico”. Solo che il concetto di centro storico a Palermo è un po’ sfuggente, viste le dimensioni enormi della parte vecchia della città, e per come la vedevo io un conto era stare dirimpetto alla meravigliosa Cattedrale, come il sottoscritto, un altro era rincasare la sera nel bel mezzo di quel bordello a cielo aperto che diventava la zona attorno alla stazione, facendo la gimkana tra prostitute, papponi e travestiti. Ma contenti loro…
Posteggiai Winston senza patemi d’animo: è questo uno dei vantaggi di circolare con un Sì del 1984, a nessuno verrebbe mai in mente di rubare un trabiccolo del genere.
Era una palazzina a tre piani, risaliva perlomeno a un mezzo secolo addietro, ma da allora i proprietari non sembravano essersi premurati di garantirle un minimo di manutenzione.
All’interno faceva un’impressione migliore. E io per le scale cominciavo già a sentire odore di prete.
Quando ti fai un intero cursus honorum alle scuole private, dalle elementari alle superiori, ti si prospettano due possibili reazioni. La prima, più rara, è quella che dopo tanti anni di santi precetti e preghiere mattutine, tu decida di far tua la lieta novella e diventi un cristiano di prim’ordine, di quelli con i controcazzi d’acciaio inox che leggono la Bibbia come si legge Topolino e si attengono scrupolosamente alle regole in materia sessuale. Questo è il modello che io chiamo Roberto Corsaro, e incide su circa il dieci per cento del campione, almeno secondo me.
Poi c’è l’altro novanta per cento, nel quale io sguazzo come un pesce nell’acqua, coloro che sviluppano nei confronti della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana un’epidermica insofferenza, una cordiale antipatia per monache, preti e affini e una personalissima e poco ortodossa religiosità.
Fatta questa premessa racconterò del mio incontro con don Lombardo. Cominciando dalla sorpresa nel vederlo aprirmi la porta. Mi aspettavo un pretonzolo canuto, come il mio vecchio professore di chimica, don Ficarra, che mi odiava cordialmente, e invece mi apparve un bell’uomo, almeno sessantenne, ma assai giovanile. Fisico possente, spalle larghe, un po’ di pancia. Per la mascella e certe smorfie della bocca mi ricordava Robert De Niro in Sleepers, ma il naso e gli occhi erano quelli di Spencer Tracy. E se ci fosse stato mio fratello avrebbe confermato.
Mi invitò a entrare in un appartamento piccolo ma accessoriatissimo.
Mobilia antica, televisore da sballo, stereo con casse da discoteca, cyclette che si intravedeva dalla stanza da letto. Tutto in perfetto ordine, non un pelo fuori posto, tutto lindo e profumato, quel pavimento brillava. E io invidiai moltissimo quell’uomo.
Ci sedemmo su un paio di poltroncine molli, di quelle in cui affondi dentro e ci anneghi, sotto l’immagine familiare di Maria Ausiliatrice (Vergine bella di nostra vita tu sei la stella… E continuai a cantarmela tutta in testa). In automatico il cervello proiettò un amarcord dei miei giorni da liceale, le feste care ai salesiani, il Cucciolone distribuito all’uscita della chiesa il giorno di Don Bosco, la partita di calcio tra professori e alunni. Il parrino si schiarì la voce con un colpetto di tosse, riportandomi alla realtà, e partì.
«Allora, lei forse dovrebbe dirmi quello che sa. Potremmo cominciare da qui».
«Preferirei che fosse lei a raccontarmi nei dettagli lo spiacevole episodio. Vorrei avere un quadro preciso. Magari partendo da Francesca Raimondo, la nostra ragazzina “precoce”…».
Colpito e affondato. Il prete sbuffa, alza gli occhi al cielo e poi m’illumina su tutta questa storia.
«Sì, in effetti fu lei la prima. Almeno così credo. Era una ragazza molto avvenente e molto più sveglia rispetto alle compagne di classe. Sa, le ragazzine a quell’età hanno fretta di sentirsi grandi, di diventare donne, e una cosa come quella, ai loro occhi, è un modo per diventare donna…».
Occhei, che si parlava di scopare c’ero arrivato. Andiamo avanti.
«Immagino che fu la Raimondo a cominciare. Poi probabilmente la sua amica Rosaria la seguì per spirito d’emulazione. Tanto che poi fu lei stessa a pentirsene e a fare scoppiare la bomba».
Allora, due ragazzine di sedici anni, il sesso e lo scandalo. Due possibilità: il classico caso di lesbismo adolescenziale da scuola femminile, oppure il professore porcellone di turno.
«Quanto all’altra ragazza…». E chi era? C’era sfuggito qualche cadavere nell’ultimo mese? «In fondo somigliava a Francesca, per certi versi. Ma c’era qualcosa di più profondo in lei, tanto che visse l’esperienza nel modo più traumatico».
«Cosa si ricorda di quei tempi?», domandai per cercare di arrivare al sodo.
«Furono giorni difficili e spiacevoli», rispose, «io ancora oggi non so se mi sono comportato nel modo giusto. Ho passato anni a chiedermelo e tuttora non ho una risposta. Posso offrirle qualcosa da bere? Le piace il marsala?».
Bah, non tanto, ma dammene un sorso, parrì, che qui facciamo notte. Esaurita la pratica marsala, il prete riparte, forse finalmente andando al nocciolo della questione.
«Il professore Scaffidi era una persona distinta, un fervente cattolico, un docente preparato. Insegnava italiano ed era con noi già da due anni. Un ragazzo educato, schivo, riservato. Fu una grande sorpresa per me».
Eccolo il prof porcellone. Finalmente entravamo nel vivo.
«Continui, la prego».
«All’inizio, credo, fu proprio la ragazza, la Raimondo, a stuzzicarlo. Come le ho già detto, lei era una bella giovane con tanta fretta di sentirsi donna. Lui ovviamente avrebbe dovuto dissuaderla, purtroppo non fu così e cedette alla tentazione. Ci furono due, tre incontri, secondo quello che raccontò in seguito la ragazza. Poi la cosa si chiuse là, ma il nostro professore probabilmente ci aveva preso gusto e cominciò a frequentare l’altra».
«Rosaria».
«No, l’altra, la Denaro. Con lei non so quanto durò. Sicuramente ai tempi dell’episodio con Rosaria Cangelosi la cosa andava ancora avanti».
Io annuivo con l’aria di chi la sa lunga, cercando di dare l’impressione di seguirlo, quando invece non avevo la minima idea di ciò di cui parlava.
«E che mi dice di Rosaria?»
«Di certo lei era l’unica con la quale la Raimondo si fosse confidata. Rosaria sapeva, e seguiva in tutto e per tutto l’amica, la emulava, perché vedeva in lei quello che non riusciva ad essere. E quindi io credo che sia stata proprio la Cangelosi, in qualche goffa maniera, a fare la prima mossa con Scaffidi. Poi, quando lui passò ai fatti, lei si tirò indietro impaurita, rimase scioccata, ebbe quella crisi di pianto a casa e raccontò la storia ai genitori».
«E così ci fu lo scandalo».
«No, quello io riuscii a evitarlo. E ancora oggi mi chiedo se ho fatto la cosa giusta. Un altro marsala?».
Il prete trincava di gusto. Sarebbe stato scortese non fargli compagnia.
«Riunii tutti gli interessati», riprese mentre versava il vino nei bicchieri, «parlai con le ragazze, con l’insegnante e con i genitori. Era una faccenda delicatissima, lei capisce, si trattava di minorenni, ne andava del prestigio e del buon nome della scuola. Alla fine, anche nell’interesse delle ragazze, si riuscì a mantenere un certo riserbo sulla storia. Sì, corsero in giro delle voci, come sempre, ma non se ne parlò per molto. Credevo di avere aggiustato le cose allora, capii presto che da quella situazione ne erano usciti tutti sconfitti. Il professor Scaffidi fu allontanato dalla scuola e credo abbia avuto dei problemi di esaurimento nervoso. Le tre ragazze si ritirarono quell’anno e immagino che si siano portate un peso per molto tempo».
E mandò giù di un fiato il vino, versandone automaticamente un altro bicchiere.
«E adesso due di loro sono morte, a breve distanza», dissi io.
Lui fece schioccare la lingua sul palato, un no alla siciliana.
«Le morti drammatiche di quelle ragazze non sono legate. Stiamo parlando di un episodio di oltre dieci anni fa. Quelle due povere figlie s’erano fatta la loro vita, avevano una famiglia e dei figli. Gli eventi di cui le ho parlato appartengono alla preistoria. Li lasci dove stanno. Quelle ragazze ci hanno messo con fatica una pietra sopra, non la smuova questa pietra, potrebbe far del male a qualcuno».
Mi fermai per una decina di minuti ancora. Chiesi al prete dove poter rintracciare il professore Scaffidi e la terza ragazza, questa signorina Denaro. Di Scaffidi don Lombardo sapeva solo che era mezzo imparentato con la professoressa Barca, che insegnava ancora nella stessa scuola. Quanto alla ragazza, ricordava che la famiglia era di un qualche paese dell’entroterra, infatti dormiva nell’istituto. Il prete non era in grado di dirmi molto altro.
Ci facemmo fuori un altro paio di bicchierini di marsala.
Poi padre Lombardo mi liquidò, io sarei rimasto ancora poiché ci avevo preso un certo gusto e contavo di finirmi la bottiglia.
Prima di lasciarlo, dovetti fargli una domanda che mi tormentava dal primo momento in cui ero entrato in quella casa.
«Ma come fa a tenere questo posto così in ordine?»
«Non ha mai letto I promessi sposi?»
«Una perpetua?»
«Già».
Certo, una perpetua. Cazzo, avrei dovuto fare il prete.
11
Avrei voluto risolvere tutto in giornata, ma avevo anche un lavoro da fare, in fondo il mio editore mi paga per questo. Così me ne tornai al giornale a guadagnarmi la pagnotta. Incrociai all’entrata Vania Carnevale che sfoggiava in un jeans attillatissimo la sua parte migliore. Tirai fuori l’agenda e segnai, sotto la voce “importante”, “parlare con Salvo Tedesco (come ha potuto?)”. Quel viscido lacchè di Marcello Alaimo già insidiava la mia Giulia e non erano ancora le quattro, io mi raccordai con Vituzzo, quel giorno stranamente pimpante. Attorno a me ronzavano sfatti i colleghi da poco arrivati. Entrare al lavoro alle tre del pomeriggio è una delle non poche cose davvero detestabili di questo porco mestiere. Ci sono volte che verso le tre e mezza mi metto assorto a guardare Totò Favuzza, centodieci chili di trippa e buonumore, che si sforza di non addormentarsi mentre nella panza cova i pranzi luculliani che sua madre gli prepara quotidianamente, sempre roba leggera tipo quarume, sasizza con le patate, carciofi con la tappa dell’uovo, peperonate e così via. Mi piace osservare i miei colleghi, soprattutto quelli più anziani, anche se certi giorni mi prende l’angoscia, perché mi rendo conto dell’ineluttabile fato che mi attende: anch’io diventerò come loro. Come Tano, che ormai dorme tre ore a notte da decenni, perché quando rientra a casa alle undici la fame lo sbrana e lui si fa fuori mezzo frigorifero, solo che poi non prende più sonno prima dell’alba. O come Ciccio, che è sposato da sedici anni ma da una quindicina sua moglie vive a Enna e in dodici mesi passeranno insieme sì e no quattro settimane. O come Michele, che ha accumulato qualcosa come tre mogli e sette figli e per camparli tutti fa tanti di quegli straordinari che a casa ci va solo per dormire. Giornalisti, in una sola parola.
Dovevo lavorare, ma la testa viaggiava altrove. Così, nel bel mezzo di un articoletto di taglio basso, mi fermai per sentire la vedova Cangelosi.
«Mi perdoni, signora. Ho saputo perché sua figlia ha dovuto lasciare la scuola. Desideravo parlarne con lei».
La donna reagì male, mi aggredì.
«Ma che cosa vuole?», ringhiò. «Non avete nessun rispetto per un cuore di madre, siete verosciacalli, siete!».
«Signora, io credo che quegli eventi potrebbero…».
«Ma quali eventi, ma che ne sa lei? Che ne sa di quel porco vigliacco che inquietava», “disturbava” in italiano, «le picciridde? E di quell’altro ruffiano di parrino che ammugghiò tutte cose, e io e mio marito come dei cretini a calargli la testa, che ne sa lei? Di quelle due che gli aprivano le cosce? Io non ne voglio sapere più niente, mia figlia non c’è più…», e cominciò a piangere.
Pensai che ammugghiare tutte cose, letteralmente avvolgere tutto, era davvero una bella espressione palermitana per dire di chi nasconde la polvere sotto al tappeto. E pensai anche che in fondo, la signora aveva ragione. Ma stavolta non era solo lavoro per me. O meglio, era anche lavoro, ma c’era qualcosa in più.
E non mi arresi a quelle lacrime.
«Signora, io credo che sua figlia non sia morta per un incidente. È per questo che mi permetto di farle certe domande».
Lei continuò a singhiozzare senza dire neanche una parola.
«C’è una ragazza, un’altra amica, una compagna di classe, con cui posso parlare?»
«C’era Eleonora…», balbettò lei, «…Eleonora Giordano. Una brava picciuttedda, tanto educata, a Rosaria ci voleva bene».
«Come posso rintracciarla?»
«Abitavano… in via… non mi viene il nome in questo momento».
«Zona?»
«Vicino alla Statua, dove c’è quel cinema grosso… che poi si arriva in viale Strasburgo».
«Via Ausonia?»
«Bravo, via Ausonia».
Almeno da qualche parte si poteva cominciare.
Si erano fatte le sei e mezza. Io avevo ancora parecchio da scrivere. Mi ronzavano intorno le solite coppiette più o meno clandestine della redazione, la giornata scorreva fiacca.
Procace e sempre meno vestita, Isabella De Luca mi passava e spassava davanti con cadenze di cinque minuti, sculettando e sballottando il davanzale in bella mostra. E siccome mi distraeva troppo, e se io devo lavorare il mio testosterone deve lasciarmi in pace, pensai di porre fine a quell’andirivieni fermandola con un pretesto e invitandola a cena per il fine settimana. Lei si dileguò soddisfatta e si tolse dalle scatole per un pezzo.
Cominciai la mia ricerca. Ben conscio che di Giordano a Palermo ce n’è quanto la sabbia a mare, come diciamo da queste parti. Sull’elenco telefonico ne comparivano tre in via Ausonia. Al primo tentativo mi rispose un ultraottantenne, che si rivolse a me chiamandomi Franco, Mario e infine Pietro, per poi dirmi che a casa non c’era nessuna Eleonora.
Al secondo mi rispose una voce di donna.
«Buona sera, sono Fabrizio Corsaro, desidero parlare con Eleonora».
«Sono io. Ci conosciamo?». Bella voce.
«No, sono un giornalista. Sto seguendo le indagini sulle morti di Rosaria Cangelosi e Francesca Raimondo».
«Sì».
«Ecco, vorrei parlare con lei, scambiare due chiacchiere su certi episodi che lei forse ricorda».
«Non capisco», disse. Non era esattamente un tipo loquace.
«Lei era una loro compagna di classe, no?»
«Sì, lo ero. Ma più di dieci anni fa».
«Lo so. Mi piacerebbe parlare di quegli anni con lei».
«Non credo di avere molto da dirle, ma se proprio ci tiene…».
«Quando possiamo incontrarci?»
«Domani mattina?»
«Perfetto. Vengo da lei in via Ausonia».
«No, guardi, preferisco raggiungerla io al giornale».
Affare fatto. Al giornale alle undici.
Fui puntuale. Un po’ assonnato, perché la sera prima avevo cenato a casa della mia amica Sabrina, una separata, ottima cuoca, che per sei mesi alla fine dei Novanta era stata la mia ragazza. Con Sabrina abbiamo un bel rapporto, ci confidiamo. Ogni tanto, specie se beviamo, ci apriamo un po’ troppo e finiamo sul lettone, ma non capita spesso.
Fui puntuale, dicevo, e arrivai alle undici spaccate.
Eleonora Giordano stava già lì, in piedi davanti alla portineria del giornale. Occhiali tondi, naso a patatina, labbra sottili, capelli biondicci, mossi. Giacca a quadri e jeans attillati, coscia lunga e tacco basso, statura rispettabile. Seno latitante, culo non pervenuto.
La invitai a salire su in redazione, mi rispose che con quel bel sole era un crimine andarsi a rinchiudere. Allora le proposi di fare due passi per la villa comunale, non lontano dalla redazione. Accettò.
«Come ha saputo della morte delle sue compagne?», domandai.
«L’ho sentito in televisione», rispose.
Passeggiavamo all’ombra di alberi rari e antichissimi. Maleducato io, mano in tasca, braccia distese parallele ai fianchi lei. Palermo era accarezzata dalla sua luce migliore, l’aria era fresca, il caldo estivo aveva lasciato posto a una temperatura dolcissima.
«Non l’ha stupita il fatto che siano morte a così breve distanza?»
«Certo. Quando ho saputo di Francesca sono rimasta sconvolta. Una fine orribile, Dio, non posso pensarci. Poi Rosaria. La vita a volte è davvero strana».
«Non le sembra che le sue compagne abbiano condiviso lo stesso destino in più di un’occasione?»
Lei si fermò. Io feci un passo e poi mi girai fissandola.
«Cosa sa?», mi domandò senza giri di parole. Questa Eleonora Giordano, faccia da studentessa mezza bacchettona, parlava poco, ma parlava chiaro.
Le sintetizzai il racconto del parrino-beone, lei ascoltò attenta, senza interrompermi. Poi parlò.
«Le cose andarono più o meno come ha detto lei».
«Vorrei capire questo “più o meno”».
«Scaffidi era un tipo curioso». Eleonora riprese a passeggiare.
«Ai tempi aveva una trentina d’anni. Non era bello, neanche interessante, ma noi eravamo pur sempre ragazzine di sedici anni, in una scuola femminile per giunta. Francesca era un tipetto precoce, aveva già avuto un paio di esperienze, diciamo… complete. Era carina, ben fatta e si sentiva già donna».
«Eravate amiche?»
«Non direi. Le dirò senza ipocrisia che non la sopportavo. Lei fece qualche avance più o meno esplicita a Scaffidi e quello, che era un gran porco, non ci pensò due volte ad approfittarsene».
«Poi toccò all’altra ragazza».
Eleonora si fermò. Voltò indietro la testa, come a guardare il passato remoto.
«Angela, Angela Denaro. Era la mia migliore amica, sa? Ed è per questo che conosco la storia nei dettagli. Le altre sapevano solo i pettegolezzi, per lo più fantasie. Con me, invece, Angela si confidava. Angela non era come Francesca, lei era davvero innamorata di quel porco. Era una ragazza semplice, per certi versi ingenua. Credeva che Scaffidi l’avrebbe portata via, che sarebbero fuggiti insieme o cose del genere».
«E Rosaria Cangelosi?»
«Guardi, di Angela le ho detto che era ingenua, ma era comunque una persona intelligente e profonda. Rosaria era proprio una bambina di dodici anni: immatura, succube di Francesca Raimondo, che idolatrava. Io qualche volta studiavo con lei e, mi creda, mi ero quasi convinta che Rosaria fosse lesbica, che si fosse presa una cotta per l’amica».
«E invece?»
«E invece, un po’ per emulazione, un po’ per liberarsi di certi suoi complessi, cercò anche lei di attirare l’attenzione del professore di italiano. Quel disgraziato prese la palla al balzo. Un giorno la incrocia in corridoio, a ricreazione. La convince a seguirlo in un’aula deserta e la palpa. Lei a quel punto scoppia in lacrime e scappa via. Il pomeriggio stesso Rosaria raccontò tutto ai genitori e scoppiò il casino».
«Secondo padre Lombardo non ci fu uno scandalo».
«Sì, lui fu abile a mettere le cose a posto ma le voci su quello che era accaduto girarono lo stesso. Poi le tre ragazze si ritirarono e Scaffidi fu buttato fuori dalla scuola».
«Come reagirono le ragazze?»
«In modi diversi, ciascuna secondo il proprio carattere. Rosaria piagnucolò per mesi. Cambiò scuola, lasciò il magistrale e si iscrisse all’ITC, al Crispi. Francesca invece sembrò provarci un gran gusto. Si era vendicata di Scaffidi che l’aveva snobbata per Angela. E soprattutto aveva lanciato un siluro ai suoi genitori, e questo era ciò che più contava».
«Era in rotta con loro?». Mi sedetti su una panchina, lei rimase in piedi di fronte a me.
«Dovrebbe aver capito ormai che tipo di ragazza fosse. Si sentiva una specie di ribelle e per legittimare questo ruolo pensava fossero sufficienti le sue sigarette o le sue scopate… scusi».
Io risi.
«Potremmo smettere di darci del lei?», le chiesi.
«Certo, se preferisci. Come ti dicevo, per Francesca fu come fare un dispetto a suo padre e a sua madre. D’altronde, se lei avesse semplicemente voluto che Scaffidi passasse dei guai sarebbe stata sufficiente Rosaria con la sua storia. E invece Francesca volle parlare, raccontò tutto, tirò in ballo perfino Angela, e la sua vendetta fu completa».
«E come si comportò Angela?»
«All’inizio negò. E non lo fece, sia chiaro, per proteggere sé stessa, o almeno non solo per questo. Proteggeva Scaffidi. Negò, negò, finché non cedette. La sua era una famiglia molto all’antica, erano di un paese delle Madonie. Immaginati che tipo di reazione ebbero i genitori. Si può dire che lei perse la sua famiglia per quell’episodio».
«Siete rimaste in contatto?»
«No, purtroppo no. Lei tornò in paese, il padre la tenne in regime di clausura per non so quanto tempo. Continuammo a sentirci per un po’, ma saltuariamente. Poi persi le sue tracce, andò via da casa, non so proprio che fine abbia fatto. Di certo tutta quella storia fu un trauma pesantissimo per lei, era una ragazza molto fragile».
«Dunque, se io volessi parlarle non avrei come fare?»
«Telefonare ai genitori sarebbe fatica sprecata, secondo me. E sull’elenco telefonico non c’è il suo nome, lo so perché ogni anno mi viene la curiosità di controllare. Mi sento comunque legata a lei, anche dopo tutto questo tempo».
«E di Scaffidi che mi dici?»
«Di Scaffidi ti dico tutto quello che vuoi, se mi offri un caffè».
Al bar ci sedemmo uno di fronte all’altra, cominciava a far caldo.
Accettò la mia idea di farci fuori una brioche con il gelato senza troppi scrupoli da femmina attenta alla linea. Ciò mi piacque assai, un po’ meno la sua scelta del gusto: zuppa inglese, obbrobrio che ritenevo piacesse solo a quello stravagante di mio fratello Roberto. Lei si tolse la giacca, confermando che la sua parte migliore stava tutta lì, dalla vita in giù. Cervello a parte, si intende, perché la ragazza di materia grigia era senz’altro ben fornita.
Spezzammo il suo amarcord con cinque minuti di chiacchiere futili, poi io pressai per tornare allo Scaffidi.
«Un introverso, timido, uno di quelli che con le donne non funziona un granché. E dunque, quando si vide sbattere su un piatto d’argento la freschezza di una bella sedicenne come Francesca, gli parve di aver fatto tredici al totocalcio».
«Che fine fece?»
«Non lo so. Credo che nessuno lo sappia. Sparì nel nulla, puff», si soffiò sulla punta delle dita, come Kevin Spacey nei Soliti sospetti, «dileguato».
E così erano due i fantasmi spariti in questa storia, la bella sedicenne sedotta e abbandonata e il maniaco. In qualche modo i protagonisti erano tutti usciti di scena.
Smisi di lavorare tardi. Me ne tornai mogio a casa e mi abbandonai sul lettone. Scelsi Etta James che cantava Billie Holiday, sprofondai nel sonno più o meno su The Man I Love. Padre Lombardo mi versava litri di marsala, riempiendomi di continuo il bicchiere. Nella stanza accanto vedevo entrare e uscire ragazzine seminude una dopo l’altra. Una di loro camminava verso di noi. Si fermò a un passo da me e cominciò a piangere. Io cercai di consolarla cingendole la schiena ma ritrassi di colpo la mano: grondava sangue.
Gridai ma senza emettere suoni, poi cominciarono ad arrivare le sirene, polizia, pompieri, ambulanze.
Era il mio cellulare che squillava, incazzato.
Risposi con la voce impastata dal sonno e gli occhi ancora appiccicosi.
«Sì?»
«Dormiva?». Voce matura di donna.
«Mamma?»
«Mi scusi, sono la signora Cangelosi, non volevo disturbarla».
«Oh, signora…». Balzai seduto sul letto. «Si immagini».
«Mi dispiace per come ho reagito alle sue domande. Deve scusarmi, sono distrutta, la mia vita è finita».
«Non deve scusarsi per niente, signora».
«C’è qualcosa che non le ho detto».
«Prego». E mi scappò uno sbadiglio da ippopotamo.
«Un paio di mesi fa mia figlia mi ha raccontato di avere rivisto quelle ragazze».
Minchia (o caramba, se preferite il latino-americano).
«Si erano viste tutte e tre insieme?», domandai.
«No. Rosaria aveva incontrato Francesca in vacanza, a Ustica. Pensi, per dodici anni non si erano nemmeno incrociate pur abitando nella stessa città e si ritrovarono lì. Questo era successo ad agosto e quando me lo raccontò, mi disse anche di avere rivisto l’altra».
«Angela Denaro? Dove? Quando?»
«Era luglio, credo. Non mi disse dove, ma deve essere stato a Palermo perché negli ultimi mesi, a parte la gita ad Ustica, mia figlia non si è mossa da qua».
Dunque almeno uno dei due dispersi non era lontano. Tre ragazze erano cadute nelle grinfie del vorace professor Scaffidi. Due erano morte, ne rimaneva una sola, e io dovevo trovarla. Ma dove? Ne avrei parlato l’indomani con il mio avvocato.
12
Racconto di Roberto Corsaro
Mio fratello è un infantile cronico senza speranza di redenzione. La sua vita è la sintesi di tutto ciò che un essere umano può fare per non rassegnarsi a crescere. Ma è pur sempre mio fratello germano e se nostro Signore soleva desinare alla stessa tavola di Giuda, volete che io nel mio piccolo mi rifiuti di cenare con Fabrizio?
Era stata una giornataccia, di quelle in cui il mio apparato digerente si riduce a una Caporetto. Mattinata con udienza in tribunale, causa difficile, il mio affezionato cliente Ignazio Cuffari, topo d’appartamento, gran brav’uomo e padre di famiglia. E il pomeriggio perso appresso a cartacce e scartoffie di Peppino Miraglia, sempre più nei guai. Valeria, la mia socia, quel giorno nervosa per i fatti suoi, mi aveva pure trascinato in un mezzo battibecco per una questione da nulla. Gaetano, il mio collaboratore, era sparito dalla circolazione adducendo non so quali scuse. In compenso un povero disgraziato torna a casa e trova la moglie che a stento gli rivolge la parola e si barrica nella sua stanzetta perché “oggi non è giornata”. Il mio umore, insomma, rasentava i livelli di James Stewart ne La vita è meravigliosaquando si butta dal ponte. E così accolsi come un arcangelo il mio scapestrato fratello quando mi invitò a prendere un boccone fuori.
Finimmo a mangiare pesce di quello buono, in via Messina Marine, in un posto in cui il proprietario ti impone le pietanze che decide lui, un dittatore culinario spietato che si ferma solo quando ti vede colare il rosso dei ricci dalle orecchie. Ci facemmo fuori un paio di bianchi leggiadri come ballerine del Bolscioi, alla faccia delle mie transaminasi e di tutto il resto. Ne uscimmo che era quasi mezzanotte, distrutti nel fisico, ma appagati nello spirito. La serata non poteva coronarsi che in un modo: dalle parti del Politeama per giocare a biliardo.
Tra una buca e l’altra, Fabrizio mi raccontò tutte le novità apprese da don Lombardo e dalla signorina Giordano.
«Gran brutta storia», commentai piazzando un colpo da maestro.
«Che ne pensi, Bambino?».
Quando vuole farmi incazzare, Fabrizio mi chiama come il fratello mancino di Trinità. Da quando eravamo piccoli. E ci riesce quasi sempre.
«Guarda, chiamami un’altra volta Bambino e ti spacco la stecca in testa».
«Avanti, rispondimi».
«Penso che per fare uscire il mio cliente di galera questa storia dei pedofili e ragazzine imputtanite non mi serve molto».
«Ci riesci a ragionare per cinque minuti senza il codice di procedura penale? Devi ammettere che ci sono delle strane coincidenze».
«Nessuno lo nega… Ma porca di quella…». Avevo sbagliato una palla che già puzzava di cadavere.
«Diceva, duca?»
«Dicevo che non capisco in che modo, secondo te, gli scabrosi segreti di una scuola cattolica femminile possano entrarci con la morte della moglie di Giuseppe».
«Io lo andrei a chiedere al nostro professore pedofilo».
«Che è sparito dalla circolazione una decina d’anni fa».
«Troviamolo».
«Dove proponi di cercare, ufficio oggetti smarriti, sezione maniaci?»
«Ma davvero non ti interessa sapere che fine ha fatto?»
«Fabrizio, io ho un disgraziato all’Ucciardone, senza un alibi e con un movente. E con Carletto Maniscalco che progetta di farlo rimanere dov’è, vita natural durante. Ma vuoi che mi metta adassicutare il tuo professor Scafidi o come minchia si chiama?»
«Io voglio trovarli. Lui e la ragazza. Lo capisci che erano in tre e due sono già morte?». Fabrizio era serio, ma quando è serio non è credibile. Soprattutto con la stecca in mano.
«E vorresti che io ti aiutassi in questa ricerca, se ho ben capito».
«Non è tempo perso, secondo me».
Zitto zitto, mi aveva lasciato indietro di dodici punti.
«Vedrò di fare qualche ricerchina», gli concessi poco convinto.
«Sguinzaglia il tuo setter, quello lo trova».
«Dammi i dati precisi suoi e della ragazza».
«No». Steccò penosamente. «Quella me la vorrei cercare io. Mi sento tagliato per la missione».
«E dove?»
«Questo è il problema». E fece la sua solita faccia da picciriddo smarrito. «Non ho idea di dove andarla a pescare».
«Io ti direi di cominciare dai posti che frequentava la tua investita».
«Ma quella era tutta casa e putìa, usciva solo per andare al lavoro o dalla madre».
«E allora parti da lì. Dal suo posto di lavoro».
«Non aveva rapporti con il pubblico, io lo escluderei. Secondo me Rosaria l’ha incontrata altrove, magari al supermercato…».
«O dal parrucchiere», aggiunsi.
«Ehi, aspetta…», e mi puntò la stecca al petto, «la madre mi disse che Rosaria andava dal parrucchiere ogni settimana».
«Visto? Magari è lo stesso coiffeur della signorina scomparsa».
«Grande idea, bravo Perry! Quattro in buca d’angolo».
Alla fine Fabrizio perse, come sempre. Il teppistello gioca meglio di me, ma nel finale sbaglia sempre di proposito i colpi più elementari per lasciarmi vincere. Credo sia uno dei suoi modi per manifestarmi il suo affetto.
A casa trovai Monica ancora sveglia che si godeva in cassetta La grande guerra di Monicelli, contemplando con devozione il suo Gassman. Mi guardò entrare di sottecchi, poi come se niente fosse, mi disse che si era rotta una cassa dello stereo. Bofonchiai un buonanotte e mi isolai a riflettere su pregi e difetti della vita matrimoniale.
13
Racconto di Fabrizio Corsaro
Cherchez la femme, era un lavoro per me. E così partii alla caccia. Per prima cosa mi informai sul parrucchiere di fiducia di Rosaria. Costosissimo, in via Libertà, il centro del centro di Palermo.
Dissi che cercavo un’amica, Angela, trentenne, belloccia e mora, non palermitana. Lui non ricordava: sì, c’è qualche Angela, ma sono signore di una certa età, se è giovane non è una cliente abituale.
Sarebbe stato troppo facile. E a ben pensarci, sarebbe stato strano, se Angela fosse stata una cliente abituale come l’ex compagna, che in tutti quegli anni le due si fossero incontrate solo una volta.
E allora dove cercare? Amicizie comuni, forse. Ma, a detta della madre, la vita sociale di Rosaria tendeva allo zero assoluto.
In qualche negozio magari? Cominciai a battere la zona di via Petrarca, prima, e quella di viale Lazio, dove abitava la ragazza, poi. Con scarso successo, purtroppo. Alcuni negozianti mi pigliavano per pazzo, i più mi liquidavano in dieci secondi senza darmi troppo credito. Una commessa mi fece gli occhi dolci, ma aveva un osceno eye-liner nero, rossetto e smalto dell’identico colore, chewingum in bocca e vocali spalancate alla palermitana.
Cominciavo a rassegnarmi. S’era fatto mezzogiorno e io e Winston ne avevamo abbastanza di girare come trottole per la città. Tra l’altro il cielo s’era coperto e c’erano certi nuvoloni grigi che promettevano pioggia. Decisi insomma di tornarmene all’ovile ma, mentre cercavo di mettere in moto il mio bolide, mi vidi sfilare davanti un paio di quarantenni ossigenate, in gran forma. Certi culi tondi e sodi e gambe tornite, tutto stretto in tutine aderentissime. Vecchi zaini a tracolla, magari smessi dai figli studenti, falcata decisa ed espressione soddisfatta.
Guarda queste, pensai, che fresche fresche se ne vanno in palestra come ragazzine. Il moto e il sudore, valida risposta delle donne più toste al silicone. Ed eccone un’altra più giovane e corpulenta, tuta e fascia tergisudore. Nello sguardo, il fiero proposito di vincere la guerra alla propria trippa. Vai tesoro, vai a dimagrire, bella.
A dimagrire… un posto di questi per dimagrire, così aveva detto la signora Cangelosi. Figghia mia, si voleva iscrivere in palestra, che dopo il parto si era appesantita, manco questo ha potuto fare.
La palestra, già, perché no? Era lì a due passi, nella traversa di viale Lazio dove abita mio fratello.
Mi accolse una mora sul metro e sessantacinque, occhi scurissimi, capello corto, due belle rughe d’espressione ai lati della bocca. Mi disse un “buongiorno, desidera” accattivante guardandomi negli occhi.
Un ceffo gonfio come un materassino da spiaggia, rapato a zero e con tanto di piercing al naso, stava uscendo dalla palestra e si voltò verso di lei.
«Ciao, Angela», disse.
Ecce mulier! Devi, devi essere tu. Sei belloccia, mora, trentenne. Non puoi non essere tu. E intanto rimango muto a guardarla.
«Desidera?», mi ripeté dopo qualche secondo. Io ritornai alla realtà.
«Desidero lei, almeno credo».
Lei mi si avvicinò con aria sorniona e mi parlò sottovoce.
«Se vuoi provarci con una donna che non conosci, cerca almeno di farle credere che sei convinto».
Ci sorridemmo a vicenda. Aveva un buon profumo di muschio.
«E funziona?», le chiesi io.
«Questo dipende dalla donna. Con me potrebbe funzionare».
Aveva un accento curioso, a tratti captavo delle sfumature longobarde, ma il substrato era genuinamente paesano, delle parti nostre.
«Vuoi iscriverti in palestra?», mi chiese.
«Trovi che ne abbia bisogno? Credevo di sfoggiare un fisico aitante».
«Mi scusi, mister Bond, non volevo essere offensiva».
Io raccolsi al volo il riferimento all’immortale James, uno dei due-tre inglesi a saperci fare con le donne (non per niente è un personaggio immaginario e l’unico uomo che lo ha incarnato in modo credibile era scozzese).
«Mi chiamo Corsaro, Fabrizio Corsaro». Le tesi la mano.
«Piacere signor Corsaro-Fabrizio-Corsaro, Angela Denaro».
Bingo. O tombola, per i tradizionalisti più intransigenti.
«Avrei voluto iscrivermi», mentii, «ma adesso sono sopravvenute delle complicazioni».
«Quali, se è lecito?». Mi stava quasi appiccicata: in piedi, di fronte a me, occhi negli occhi.
«Non penso che questo posto sia giusto per il sottoscritto, a forza di venire qui temo che potrei innamorarmi perdutamente di te, poi tu mi spezzeresti il cuore e io finirei i miei giorni a tracannare whisky come Nicolas Cage in Via da Las Vegas».
«Poverino». Mi diede un buffetto sulla guancia. «Non ti faccio il tipo da cuore spezzato. E a ogni modo non posso permettere che si perda un cliente per colpa mia».
«Ma la mia decisione è quasi irrevocabile».
«Quasi», sottolineò Angela.
«Certo, forse davanti a una birra in un posticino dove suonano buona musica, magari stasera stessa, potresti anche riuscire a farmi cambiare idea».
«Stasera è un po’ difficile. Magari un altro giorno».
«Te la stai tirando?»
«Sì», mi rispose ridendo, i suoi denti quasi brillavano.
Il più era fatto. La chiacchierata proseguì per un pezzo, la ragazza trascurò volentieri i suoi impegni lavorativi, io fui buffone quanto si conviene in tali circostanze, ma seppi trasmettere la mia immagine di ragazzaccio di buona famiglia.
Insomma, alla fine la spuntai senza troppi sforzi e incamerai il suo numero. E mi ci volle solo una lunga chiacchierata telefonica by night per rimediare un appuntamento. Alle nove e mezza, davanti alla palestra.
Bello come il sole, uscii dal giornale alle nove e venti, quasi in orario per il mio appuntamento. In redazione era stata, tanto per cambiare, una giornata di grigia routine. Pippo Nocera mi sembrava sprofondare sempre più nella depressione. Solo qualche giorno dopo mi avrebbe confidato al cesso, in lacrime, che la moglie lo aveva buttato fuori di casa.
Giulia aveva assunto nei miei confronti un atteggiamento curioso, direi di cordiale distacco. Non le diedi molta importanza, tutto preso dall’eccitazione per la mia indagine privata.
Posteggiai ed entrai in palestra, ma non c’era Angela ad aspettarmi. Domandai di lei al tipo che stava al suo posto, mi spiegò che la ragazza staccava alle otto quel giorno, era andata via da un pezzo. Bidone, e forse me lo meritavo pure. Uscii mesto e mi avviai alla macchina. Stavo aprendo lo sportello quando una manina mituppuliò, come diciamo da queste parti, sulla spalla. Era lei, tutta in ghingheri, vestitino nero scollato e corto sopra il ginocchio, trucco poco ma buono.
«Sei appena arrivato?».
Niente ciao, stesso vizio di mio fratello.
«Sì», monosillabai.
«E allora?», mi disse tutta pimpante.
«E allora sei bellissima».
«Vabbè, questa non fa testo. Dove mi porti?»
«Sali, dai, ti faccio sentire un po’ di musica».
Ce ne andammo in un posticino simpatico ma un po’ troppo affollato. A Palermo, se vuoi far soldi, apri una bettola, dai da bere e da mangiare all’orda e la spunterai. Tutti aprono pub da qualche anno, che se anche rifilassero bicchieri di urina con l’oliva che galleggia, la gente ci andrebbe lo stesso. È fatta così questa città.Mancia, vivi e tinni futti, dove vivi, bene precisarlo, sta per bevi. I pochi teatri chiudono e diventano cinema, qualche cinema diventa sala bingo o megastore, insomma una decadenza travolgente. Ad ogni modo, nel locale in questione suonava un quartetto palermitano specializzato in cover dei Beatles. Dopo un po’ di anticamera riuscimmo a conquistare un tavolino. Lei prese un cocktail, io uno scotch di quelli che bruciano le corde vocali.
La serata filava liscia. Angela era una conversatrice affabile, un tipo molto lontano dalla sempliciotta che Eleonora Giordano mi aveva raffigurato. Capiva di musica e questo era già tanto, e anche lei, come me, amava Bufalino e Sciascia. Ragazza colta, intelligente, dalla battuta pronta, di quelle che in giro scarseggiano.
«Cosa fai per vivere, signor Corsaro?»
«Io sarei laureato in giurisprudenza, ma faccio il giornalista».
«Interessante», commentò lei senza crederci molto.
«Meno di quanto immagini, in realtà. Anche nel mio lavoro prima o poi subentra la noia. Comunque non potrei fare altro».
«Vuoi intervistarmi?», mi domandò Angela scherzando.
«Be’, qualcosa del genere», feci io. Lei mi squadrò perplessa, era ora di togliersi la maschera. «Vorrei parlarti di un paio di persone».
«Dici sul serio?»
«Sì, vorrei parlare con te di Francesca Raimondo e…».
«Ah, è per questo che mi hai invitata», sbottò lei. «Ma lo sai che sei un bastardo, siete proprio una razza di merda, perché non mi parlavi chiaro l’altra mattina, invece di mettere in scena questa farsa?». S’era incazzata.
«Non è come pensi».
«No? E com’è? Dimmelo. Anzi, guarda, non dirmi nulla, me ne vado proprio». Fece per alzarsi. Io la fermai con decisione.
«Siediti e finiscila. Non ti ho invitata solo per questo. Se avessi voluto parlarti e basta lo avrei fatto in palestra, non ti avrei chiesto di uscire. Con la tua amica Eleonora Giordano non l’ho fatto».
«Eleonora…», farfugliò lei con lo sguardo perso altrove.
«Se vuoi possiamo anche non parlarne per stasera», le dissi bluffando.
«Cos’è che vuoi sapere?», mi chiese accigliata.
«Quelle ragazze sono morte».
«Quelle?»
«Francesca e Rosaria».
«Rosaria è morta? Ma che dici, quando è successo?»
«Venti giorni dopo Francesca, un incidente stradale».
«Mi dispiace», sussurrò incredula. «Sapevo di Francesca, avevo letto il giornale. Che cosa orribile…».
«Non le vedevi da molto tempo?»
«Da una vita».
«Invece io so che Rosaria l’hai incontrata di recente. Non è così?»
«Senti, stronzetto, non metterti a fare il Torquemada con me. L’avevo vista quest’estate, era venuta per iscriversi in palestra. Ma non abbiamo parlato molto. Un paio di minuti».
«E come mai? Dopo tanto tempo chissà quante cose avevate da raccontarvi».
«Mi disse che si era sposata, che aveva un figlio e che lavorava. Nient’altro».
Si accese una sigaretta.
«Non ti ha fatto piacere rivederla? Ti sono tornati alla mente brutti ricordi?».
Lei mi lanciò un’occhiata al veleno.
«Dov’è che vuoi arrivare?»
«Conosco la storia del professor Scaffidi», sparai.
Lei bevve d’un fiato il cocktail che le restava nel bicchiere.
«Guarda», mi disse pacata, «proprio di questo non vorrei parlare. Tu non hai idea di cosa abbia significato per me quell’esperienza. Ti prego, chiudiamo qui il discorso».
«Ma non capisci che cosa sta succedendo? Un professore senza scrupoli seduce tre ragazze e oggi, a distanza di dieci anni, due muoiono nel giro di tre settimane in circostanze misteriose. Due su tre, te ne rendi conto? Non ti senti in pericolo?»
«Smettila di dire sciocchezze, che c’entra quella storia con la morte delle ragazze? Stai prendendo un abbaglio».
«Guarda che a volte certa gente è capace di aspettare una vita prima di consumare la propria vendetta».
Lei mi guardò preoccupata. Forse cominciava a recepire le mie parole.
«Che intendi dire?»
«Non lo so bene. Ma vorrei trovare questo professore e fintantoché non lo trovo, voglio tenerti d’occhio, perché sono preoccupato per te, e anche tu dovresti esserlo».
«Ma di chi, di Scaffidi che è scomparso nel nulla, che è un fantasma? Dovrei spaventarmi dei fantasmi, a ventott’anni? Tu non sai nemmeno di cosa parli. Lorenzo Scaffidi era un galantuomo».
«Era un pedofilo!».
«Minchiate, cattiverie di gente di merda», e s’accese un’altra sigaretta.
Incredibile, continuava a difendere quel maniaco. Proprio come aveva fatto dodici anni prima. Che mistero, le donne. Trattale male e ti saranno schiave per la vita, dai loro amore e dolcezza e ti cornificheranno appena beccano il primo che le tratta male. E poi mia madre ha il coraggio di criticarmi perché non mi sposo.
«Minchiate? E quale sarebbe la verità?».
Aspirava la sigaretta con avidità e mi guardava storto.
«La verità!», ridacchiò sprezzante. «Quid est veritas?».
Ci si mettevano anche le citazioni evangeliche.
«Dai, sono ansioso di sentire la tua».
«Sei proprio un bel tipo, Corsaro. Secondo te, io ti conosco ieri mattina e stasera ti racconto, magari nei dettagli, l’esperienza più dolorosa della mia vita. Per favore, andiamo via».
«Occhei, ferma, ferma. Hai ragione, lasciamola perdere questa storia, per stasera».
«Perché dici stasera? Non credo ci sarà un’altra sera».
«Io sì».
E Fabrizio Corsaro, quanto a donne, raramente si sbaglia.
Angela volle essere accompagnata alla macchina posteggiata vicino alla palestra. Io per il resto della serata evitai di accennare al suo passato. Lei rimase di malumore fino a quando non arrivammo alla palestra. Spensi il motore e la guardai negli occhi.
«Non volevo essere invadente o ferirti. Perdonami, sono fatto così, è deformazione professionale. Ma non è solo lavoro con te, credimi».
Lei finalmente mi concesse un sorriso, increspando le sue belle rughe ai lati delle labbra.
«Pensi che queste scuse da quattro soldi ti bastino per rivedermi un’altra volta?».
Io tirai fuori una delle mie migliori facce da paraculo e sorridendo annuii. Lei a quel punto mi si avvicinò e fece come per colpirmi con uno schiaffo. Io chiusi gli occhi d’istinto, preparandomi all’urto, ma la sua mano s’arrestò a un centimetro dalla mia guancia. Mi accarezzò il viso, era liscia e calda. Angela mi passò l’altra mano intorno al collo e mi baciò. La sua lingua sapeva ancora di alcol e arancia. Le strinsi i fianchi che si aprivano rotondi e le feci scivolare le dita sotto il vestito, lei con gentilezza le tolse da lì. Pensai che per la serata di sesso non se ne parlava e non provai a insistere.
Lei però mi baciò sul collo e poi ancora sulla bocca, un bacio affamato, selvatico. Mi infilò la mano sotto la maglietta e mi accarezzò il petto a lungo, poi si fermò quasi di colpo, emise una specie di sospiro e si sistemò un ciuffo di capelli fuori posto guardandosi nello specchietto retrovisore. Mi sfiorò le labbra con un bacio veloce e uscì dalla macchina dicendomi semplicemente “ti chiamo io”. Ma in quel frangente non feci tanto caso al fatto che non m’avesse detto ciao.
14
Avevo trovato la ragazza. E mi tornavano in mente le parole di Beatle John: I once had a girl or should I say she once had me. Non avevo ancora ben chiaro cosa fare con Angela. E non solo perché certe pratiche amatorie appannano la mente maschile. Mi sentivo, metaforicamente parlando, il seduttore di quel pipparolo di Kierkegaard, che dopo aver acchiappato la donna non si sente appagato. Cosa avrei dovuto fare con Angela? Cosa potevo fare per lei?
In cuor mio sentivo che la ragazza correva dei pericoli.
Certo, non riuscivo a indovinare con precisione da quale direzione questi pericoli avrebbero dovuto colpire, ma ognuno di noi è libero di innamorarsi delle proprie paranoie. E io ormai mi ero abbandonato alla mia, anem’e core.
Si fece venerdì. Giornata drammatica e memorabile. Iniziata bene per il sottoscritto, con un sole energico sulla mia finestra, il caffè sul fuoco, i biscotti della mamma che mi strizzavano l’occhio e Think of Me with Kindness dei Gentle Giant sul piatto del giradischi, ammaliante e catartica come sempre.
Prima ci si mise il lavoro. Un bambino di otto anni morto per un aneurisma, i medici del pronto soccorso lo avevano liquidato con una pillola per il mal di testa. E per quanto dura io possa avere la pellaccia del miocardio, quando muore un bambino m’incazzo ancora, anche dopo sette anni di nera, e la giornata è segnata.
Secondo, Pippo Nocera. Come ho già detto mi portò al cesso e piangendo come un seienne mi raccontò di aver rotto con la moglie. E io non posso resistere quando mi vedo davanti una bestia di un metro e ottantacinque per novantasei chili come SuperPippo che mi singhiozza per una strega che è più acida dello yogurt e più frigida di un ascaretto.
Terzo, fu il turno di Giulia, e questo rappresentò un po’ il climax della giornata. Erano le cinque e io per gli episodi sopradetti ero entrato in una incontenibile crisi da caffè.
Chiesi alla mia bella se voleva unirsi a me. Mi seguì riluttante, covava qualcosa.
«Ho saputo», disse sorseggiando dalla tazzina che scottava, «che stasera hai un nuovo impegno galante».
«Che? Chi te l’ha detto?», dissi con finta aria distratta.
«La fortunata», fece lei sbattendo le ciglia a mo’ d’ochetta. «Ti andava carne fresca oggi, eh?».
Parlava di Isabella De Luca, sempre più svestita e sempre più abbondante. Prenotata per le nove e mezza di quella sera.
«Sì, andiamo a mangiare una cosa».
«Era elettrizzata al pensiero».
«Posso capirla», stronzeggiai io.
«Fabrizio, ma guardati in faccia», e con la mano indicò la specchiera del bancone del bar. «Hai trent’anni, quella ragazzina ne ha dieci meno di te».
«È maggiorenne e vaccinata. E anche se non fosse vaccinata, io uso le mie precauzioni». Sorrisi, ma Giulia non ricambiò.
«Sei così indisponente…».
«Ma qual è il problema, Giuggiù». Odia quando la chiamo così. Ma io ho una certa propensione a chiamare le persone nel modo che detestano. «Mi stai facendo una scenata di gelosia?».
Lei s’incazzò sul serio.
«Lo vedi che coglione che sei? Hai trent’anni e continui a fare il ragazzino, te ne esci sempre con queste sparate per scansare i discorsi scomodi».
Esaurii l’ultima goccia di caffè e mi voltai verso di lei.
«Di che discorsi parli, Giulia? Ma cos’è, vuoi farmi un predicozzo, vuoi portarmi sulla retta via? Sei diventata Testimone di Geova?»
«Quanto sei stronzo… Volevo solo che tu tornassi con i piedi per terra. Fino a quando continuerai a vivere come un picciutteddo di diciotto anni? Dovresti avere più rispetto di te e prendere la tua vita un po’ sul serio».
«Da quale pulpito arriva la predica!», esplosi. «Ma che diritto hai per venirmi a insegnare come vivere la mia vita, tu che non hai saputo fare altro che mandare a puttane la tua! Cos’è, vuoi scaricare su qualcuno le tue frustrazioni da mammina in carriera? Non è giornata, guarda».
«Vaffanculo», mi gridò lei, scandendo sillaba per sillaba, facendo esplodere la doppia effe e singhiozzando sul gruppo “nc”.
Scappò via piangendo. Nino il barista mi scrutava con compatimento.
Quarto, toccò a Isabella. La portai vicino alla Fiera del Mediterraneo, la serata era calda, lei ne aveva approfittato per svestirsi più del solito. Isabella era una ragazza intelligente e ambiziosa, tutta presa dal sacro fuoco che infiamma tutti noi quando iniziamo questo lavoro.
Mangiammo bene e passammo un’ora piacevole. Certo, mi fece un po’ impressione quando tra l’antipasto e il primo la collega mi raccontò dei preparativi per il suo imminente ventesimo compleanno. Stavo consumando un pasto, con ogni verosimiglianza un pasto pre-coito, con una creatura che alla voce età aveva un numero che cominciava per 1 e la cosa per un attimo mi fece pensare al professore Scaffidi e alla storia delle compagne di classe. Ma il vino e il conforto del codice penale, in quel caso tutto dalla mia parte, aiutarono a cacciar via il pensiero. Poi in macchina, mentre decidevamo dove concludere la serata, misi un CD di canzoni varie ci propose Under the Bridge. Lei mi disse che adorava quest’album dei Red Hot, non è che ce l’hai, oh sì? Quanto mi piacerebbe sentirlo. Vabbè, ho capito, andiamo a casa.
E sul mio divano, complice I Could Have Lied, la bacio. Un bel bacio lungo, a mestiere. E poi con delicatezza le tolgo i vestiti, per quel poco che c’è da togliere, e lei è bellissima, tutta quella carne morbida, quella pelle soffice e scura. Isabella è proprio tanta. Ma non è mai troppa, come la pazienza. Poi, si sa come vanno certe cose, finisco seminudo anch’io, ma sul più bello mi accorgo che c’è qualcosa che non va e mi sembra di tornare a situazioni lontane e antichissime, un déjà vu da capogiro.
«Isabella, scusami… ma non è che, per caso… cioè…».
«Sì, sono vergine», fa lei, arrossendo, sotto di me.
«Be’, allora credo che dobbiamo fermarci qua», le dico nel miglior modo che mi riesce. Le do un lungo bacio e l’abbraccio.
Lei ci rimane male, forse, ma io conservo ancora uno straccio di dignità, sebbene molto ben nascosta. Però mi consola sapere che le vergini esistono ancora, è come vedere i panda in televisione. E io il mio esemplare di specie a rischio per quella sera l’avevo salvato. No, non mi andava di sentirmi lo Scaffidi di turno.
Saranno state le dodici e mezza. Isabella ciondolava nuda per la cucina, io me ne stavo buono sul divano, in mutande.
Il mio telefono squillò. Chi diavolo è a quest’ora?
«Pronto!».
«Ehi, bell’uomo». Voce di donna giovane. Linea disturbata.
Poteva essere chiunque.
«Giulia?», sussurrai, perché speravo fosse lei.
«Mi dispiace deluderti, non sono Giulia».
«Angela!».
«Bravo, risposta esatta!».
«Ciao», dissi. Quella parolina che lei sembrava disconoscere.
«Scusa l’orario, ti disturbo?»
«No», bisbigliai. Non m’andava che Isabella mi sentisse.
«Senti, sono con certi amici in una specie di balera dove si balla latino-americano, mi sto facendo due palle così, perché non mi passi a prendere? È dietro al Massimo».
«Arrivo in un quarto d’ora», risposi e attaccai, ma continuai a tenere il telefono all’orecchio, alzai la voce per farmi sentire bene e tirai fuori il peggio di me.
«Mamma, stai calma. In quale ospedale hai detto che è?».
Pausa. «Ah, va bene, al Civico. Reparto?». Pausa. «Come?».
Pausa. «Ortopedia? Vengo subito».
Isabella si piazzò di fronte a me, completamente nuda, per capire cosa stesse accadendo.
«Mio fratello ha avuto un incidente automobilistico. Pare che si sia rotto tutte e due le gambe».
«Oddio», fece lei portandosi le mani al volto. Per l’emozione le si inturgidirono i capezzoli.
«Su, vestiamoci che ti lascio a casa».
Angela mi aspettava all’ingresso del locale. Mi regalò un sorriso appena mi vide arrivare. Ma ovviamente non mi disse ciao.
«Non ce la facevo più a stare qui, è noiosissimo».
La capivo, era capitato anche a me di incappare un paio di volte in queste serate di salsa e merengue, dove tutti ballano divinamente, tutti professionisti o quasi, che si attorcigliano tra loro come serpenti e ti fanno sentire un impedito, relegandoti in un angolo a guardarli. E fra di loro si conoscono tutti e si salutano a passo di salsa, sono una specie di setta.
Posteggiai in via Cavour, la strada che dal Teatro Massimo scende giù dritta fino al mare, e ce ne andammo un po’ a spasso per il centro a chiacchierare e cazzeggiare. Angela era un tipo loquace ma al contempo riservato, parlava poco di sé e del suo passato.
Mi aveva detto di aver vissuto per anni a Brescia – da qui il suo accento spurio – lavorando con una cugina il cui marito gestiva una specie di discopub. Per un lungo periodo aveva convissuto con un uomo, poi era finita e lei, per lasciarsi tutto alle spalle, se n’era tornata in Sicilia all’inizio dell’anno.
Alla fine ci sedemmo ai tavolini di via Principe di Belmonte.
«Mi pare che facciamo progressi», dissi, «questa sera non hai cercato di andartene».
Lei sorrise.
«Mi dispiace per l’altra volta», rispose. Notai un suo impercettibile tic, un rapido contrarre le labbra a destra. «Ma mi hai riportato alla memoria un brutto periodo. Tu non c’entri niente».
«Non volevo turbarti, ma lo sai che sono preoccupato per te…».
«E stai facendo preoccupare anche me», ribatté lei alzando il palmo della mano. «Mi hai suggestionata. A casa sento sempre rumori strani, dormo pochissimo, ho gli incubi. E ieri pomeriggio, quando sono uscita dalla palestra, ho avuto l’impressione che qualcuno mi seguisse».
«Come?»
«Sì, sarà stata solo suggestione, ma mi sembrava di essere seguita. Tanto che ho cominciato a correre come una cretina verso la macchina e me ne sono scappata con una sgommata che parevo Schumacher».
«Angela, perché non andiamo alla polizia e raccontiamo questa storia?»
«Non cominciare. Andiamocene al mare, invece».
E mare fu. Mondello, la spiaggia, e nascosti tra le cabine come due adolescenti, ci scappò il bis dell’altra sera. E mentre le accarezzavo la schiena, presi l’iniziativa e cercai di approfondire la nostra conoscenza (in senso biblico,obviously). Lei mi fermò.
«Ti prego, non mi sento di andare oltre», disse con aria sofferta.
E sia, ma i tempi di ammaterassaggio cominciavano a dilatarsi un po’ troppo per i miei gusti.
Congedatomi da Angela, sentii forte dentro di me la necessità di chiudere la serata alla palermitana, con la mangiata in notturna. Scartata la pur allettante opzione panino con la milza, mi rifugiai nel porto sicuro della rosticceria nostrana.
Divorai un paio di arancine, poi mi concessi una passeggiata solitaria dal Massimo a piazza Croci e ritorno, su via Libertà illuminata. Riesco ad amarla ancora, Palermo, in questi momenti di intimità, quando torna a svelarmi il suo fascino offuscato dagli anni, forse è così che funziona con le mogli.
Respiravo l’aria fresca delle due di notte, ripensavo alla scenata di Giulia, alle sue parole. Sapevo bene che aveva ragione da vendere, sapevo che le mie abitudini da galletto latino cominciavano a starmi strette, che odiose ragioni anagrafiche mi costringevano spalle al muro in quella stagione della vita nella quale “ci si aspetta” che tu combini qualcosa, nella quale un regolamento non scritto di un gioco al quale non ho avuto il piacere di iscrivermi ti impone una condotta lontanissima dal mio censurabile modus vivendi. Sapevo tutto e fin troppo bene, e i miei trent’anni e passa cominciavano a pesare. E mi chiedevo se fosse possibile in qualche modo buggerarli, questi disgraziati trent’anni, che disorientano schiere di ex giovani, precipitati nel caos.
Come Francesca Raimondo e consorte, lei adultera e lui cornuto, o magari Angela, fragile e segnata, come Giulia con la sua angoscia di mamma sola, o persino come Roberto, solidamente attaccato alla sua fede, fortunato, eppure infelice per non potere avere il figlio che desiderava.
Inutile sperare di dormire in una notte come quella. A casa misi su il live di De André con laPFM, mi preparai un autista con limone e bicarbonato per disintegrare le arancine e rilessi quasi per intero I ragazzi del massacro di Scerbanenco.
Crollai poco dopo le sei.
15
Racconto di Roberto Corsaro
Alle volte mi domando perché, dopo trent’anni, io dia ancora ascolto a mio fratello. Impelagato nel pantano in cui stavamo sguazzando con Peppino Miraglia, con tutto il lavoro che avevo da fare, mi convinsi di cercare il professore scomparso. Forse solo perché quella storia di misteri del passato mi ricordava certi magistrali lavori del mio amato Hitchcock, come Io ti salverò, che è da sempre tra i miei preferiti (anche perché in campagna avevamo una cancellata con gli offendicula che ricordava quella su cui Gregory Peck per sbaglio accoppa il fratellino, e tante volte da bambino mi ero ritrovato a immaginarmi la scena con me e Fabrizio protagonisti).
Con tutta la buona volontà non potevo occuparmi di persona della caccia all’uomo. Delegai il compito a Gaetano, il mio segugio, che come sempre si mise all’opera con dedizione.
«Allora, avvocato, questo Scaffidi mi sta facendo diventare pazzo», mi disse dopo qualche giorno. Eravamo nel mio studio in un orario morto. Il cielo era coperto, c’era afa e da un paio di giorni m’era tornata a dolere la schiena.
«Che hai scoperto, Gaetano?»
«Ora ci racconto tutto per filo e per segno», debuttò. «Dunque, lei mi disse che questo qua era imparentato con una professoressa, che era sua cugina. Io ci ho parlato, con quella femmina, una befana scorbutica da impiccicarla al muro».
«E allora?»
«Niente, questa appena sente la parola cugino, a momenti mi sbrana. Ma quale cucino e cucino? Dice che a lei Scaffidi non gli viene niente, che con lei non ci trase niente e che non vuole rotta la minchia. Allora io ci vado con le buone e dopo un po’ di manfrina la professoressa ammette che in effetti sono mezzi parenti, lo sa come si dice,parente di parente ca ’un ti viene niente. Lei però non ne ha notizie da dieci anni. L’ultima volta che l’ha visto fu all’ospedale, perché, a quanto ho capito, il professore era tutto esaurito e aveva cercato di ammazzarsi».
«E come?»
«Ah, sap’iddu». Che in palermitano sarebbe come dire “boh”, ma ti riempie la bocca.
«E a questo punto?»
«A questo punto ho mandato a quel paese la vecchia e mi sono messo a travagghiare a modo mio. E ho scoperto alcune cose. Praticamente il signor Scaffidi Lorenzo, dopo questo famoso suicidio mancato, spirì dalla circolazione, in Palermo non lo vide più nessuno. L’amico nostro, alla fine delle sue belle avventure, si fece armi e bagagli e sinni ìu in continente».
«Dove?»
«Ddà ’ncapu». Cioè, là sopra. Espressione tipica usata dai siciliani per indicare genericamente il Settentrione, con tutto ciò che esso richiama alla mente degli isolani.
«Dda ’ncapu unni? Dove?»
«A Torino».
«E che ne sai tu?»
«Avvocà…», mi disse lui come a dire “ma con chi minchia credi di avere a che fare?”. Gaetano è fatto così. Mi racconta le cose che scopre ma raramente mi partecipa il come le ha sapute. È gelosissimo dei ferri del mestiere. E poiché tende già a perdere troppo tempo, per i miei gusti, a raccontarmi quello che deve, il fatto che ometta dei dettagli non mi può certo dispiacere.
«E che ci andò a fare a Torino?»
«C’erano dei parenti. ’U Scaffidi non aveva più né padre né madre. ’U patri murìu ca iddu era picciriddu. Alla madre ci venne un infarto dopo qualche mese che lui perse il lavoro a scuola. Ci aveva uno zio, un mezzo parente, che travagghiava a Torino, alla Fiat. E iddu ci ìu».
«E ancora a Torino sta?»
«Nonsi. Io ci ho parlato con questi parenti torinesi. Scaffidi se ne andò da un giorno all’altro qualche mese fa, diciamo verso giugno».
«Ma abitava con loro?»
«No, stava pi i fatti sua. Travagghiava in un negozio di libri. Però si frequentavano. Poi un giorno, chistu si fa li pezzi e sinni va. Senza dire né a né ba».
Bella questa, era un pezzo che non mi capitava di sentirla.
«Senza salutare?»
«Sì, li salutò, e ci disse che aveva delle cose urgenti da fare, che doveva sistemare dei vecchi affari, sap’iddu».
«Ma non comunicò dove andava?», chiesi sempre più interessato.
«No, non disse niente».
«E tu dove pensi sia andato?»
«Mah, io spero che se ne sia andato a fare in c…».
Aveva imbroccato il congiuntivo giusto.
«Vabbè, ho capito».
«No, aspetti, non ho finito. Il cugino di Torino mi disse che manco un mese fa gli arrivò una lettera. Che poi deve essere una cartolina, perché mi spiegò che c’era la foto del duomo di Cefalù».
«Cefalù? Ma allora è in Sicilia!».
«E mi facissi parlare, avvocato. Nella cartolina lui diceva che stava meglio, perché stava chiudendo certi conti con il passato».
«Minchia», mi limitai a dire.
«Minchione», rilanciò lui. «Ora sto andando a Cefalù, vediamo se scopro qualcosa».
«Vai, Tanino, che qua la cosa si fa seria».
Già, cose serie. Perché a questo punto le farneticazioni di mio fratello potevano avere un significato. Le parole di Scaffidi, riportate agli eventi di settembre-ottobre, suonavano inquietanti. E poteva davvero aprirsi una pista alternativa da servire a Carletto, tutto a vantaggio del mio cliente. Il quale, nel frattempo, ammuffiva in carcere, dimagrendo a vista d’occhio. Era una bella notizia quella portata da Gaetano, tanto che decisi di festeggiarla a modo mio, concedendomi un panino con panelle e crocchè alla friggitoria.
Una frittura atroce, puro veleno per il mio colon. Ma non sarebbe stato quel peccato di gola a farmi perdere la salute o peggio l’anima, pensai.
Tornato a casa, trovai Monica che mi aspettava vestita di tutto punto.
«Amore, a cosa devo questa mise da grande soirée?»
«Avevi detto che stasera ti andava di cenare fuori», mi rispose lei.
Già nel mio stomaco era esploso un conflitto termonucleare e avevo tanto bisogno di un Maalox o almeno di un canarino. Ma non me la sentii di confessarlo a Monica e così andammo a cena fuori e terminai di sfasciarmi il colon.
Correva troppo in quei giorni la mia Monica. Aveva delle brutte occhiaie e un’espressione stanca.
«Amore, dovresti rallentare un po’ con il lavoro, hai una brutta cera».
«Lo so, sono stressata, ma devo rispettare una scadenza. Guarda, ho una nausea… E mi sono pure sballate le mie cose».
«Ah, m’era parso».
«Ma zitto, che tu non ti accorgi mai di niente. Dammi un bacio, avvocato Corsaro».
È in momenti come questi che mi convinco che il mestiere del marito non è poi tanto male.
Fabrizio intanto aveva trovato la sua Angela e mi teneva informato. Andai a far visita al povero Giuseppe Miraglia in compagnia di Santino. Aveva un aspetto orrendo. Mi confidò la sua amarezza per l’atteggiamento della famiglia della moglie, che sembrava non credere alla sua innocenza e già discuteva di mettere le mani sulla bambina. Era il pensiero della figlia rimasta priva dei genitori a tormentarlo più di qualsiasi altra cosa, mi disse.
E soprattutto fu questa sua sofferenza da genitore a renderlo meritevole di compassione ai miei occhi. Perché Miraglia era pur sempre un uomo che con ogni probabilità aveva più volte percosso la propria donna e questo è uno di quei comportamenti che suscita in me il disgusto più profondo. Non potevo cancellare quel pensiero ma in quel momento era il padre a mostrarsi, non il vedovo o peggio ancora il presunto uxoricida. E forse anche perché in quei giorni io non desideravo null’altro quanto essere padre, il suo dolore si fece strada nel mio intimo, facendomelo sentire vicino.
«Le porto delle notizie incoraggianti», gli comunicai, tentando di tirarlo su. Ma Giuseppe non sembrava molto reattivo.
Mitraglione era rimasto fuori ma in quel momento sarebbe stato d’aiuto, magari tenendogli una mano sulla spalla, da bravo fratello maggiore. Era molto protettivo verso Giuseppe.
«Si sta aprendo un’altra pista», ripresi, «sto conducendo delle ricerche su un personaggio ambiguo che potrebbero portare a una svolta».
Il mio cliente mi squadrò con poco, pochissimo entusiasmo, la faccia smunta, lo sguardo spento, la barba incolta, marciava spedito verso l’immagine del galeotto dagli occhi svuotati che si incontra in ogni prison movie che si rispetti. Non disse una parola, mi fissava con aria inespressiva.
«Ha mai sentito nominare Lorenzo Scaffidi da sua moglie?»
«No», mormorò Miraglia.
«Negli ultimi tempi c’è stata qualche telefonata, una lettera di un vecchio conoscente di sua moglie?»
«Non lo so».
«Si sforzi di ricordare».
Peppino si concentrò per qualche istante.
«No, non mi ricordo niente del genere. Ho la testa che mi scoppia».
Così esausto e avvilito, mi fece pensare a James Stewart ne La donna che visse due volte; e quando un uomo riesce a incarnare ai miei occhi, anche se per pochi secondi, l’eroe di un film di Hitchcock, io comincio a volergli bene sul serio.
«Vabbè, magari ne riparliamo», gli dissi, e mi congedai.
Nel salutarlo mi avvicinai un po’ troppo e fui sopraffatto dal tanfo di sigaretta.
Fuori dal carcere mi ricongiunsi al mio vecchio compagno di classe e avvertimmo un’improvvisa afa. Sentivo il fastidio del sudore che gocciolava sulla schiena, mi avrebbe giovato tanto denudarmi. Santino, con la fronte imperlata, si accese una puzzolente sigaretta, aspirando la prima boccata con avidità, come chi riemerge da una lunga apnea e riempie i polmoni d’ossigeno.
Mitraglia era afflitto, sì, eppure dal suo volto traspariva una specie di serenità costruita a fatica. Intuii che voleva fermarsi un po’ a parlare e rimasi lì a contemplarlo mentre fumava. Dopo qualche boccata mi rivolse la parola, tossicchiando: «Come ti è sembrato?»
«Insomma. È un’esperienza molto difficile, è normale che sia in queste condizioni. Non è solo la prigione, c’è anche il trauma della moglie…».
«I primi giorni non voleva mangiare». Santino sputò fuori colonne di fumo dalle narici, poi gettò via quel che rimaneva della sigaretta e infilò le mani in tasca.
«E adesso?», gli chiesi.
«Ci ho parlato io, l’ho convinto. Gli ho detto che deve tenersi su, per la picciridda, che avrà bisogno di lui appena tutto ’sto schifìo finisce. Mi ha ascoltato. Io lo so come lo devo prendere mio fratello, lo conosco a memoria. L’altro giorno gli ho portato Tex, che lui è stato sempre maniaco di ’sto fumetto, praticamente da quando ha imparato a leggere».
Santino sorrise e cominciò a guardare verso il porto. Poi, senza spostare lo sguardo da quel punto lontano, alle mie spalle, riprese a parlare.
«Manco lo voleva Tex Willer. Mi disse che non ci aveva testa per queste cose e che me lo potevo tenere. Alla fine se l’è preso e lo sai che mi domandò oggi? Se la prossima volta gliene porto qualcun altro da casa sua, che ha la collezione…».
Lo premiai con un sorriso ma lui non lo notò. Continuava a fissare il porto alle mie spalle.
Passammo la serata a Mondello, a casa di certi amici di mia moglie. Non che mi stiano proprio antipatici, ma non era quella la compagnia adatta al mio umore. A occhio e croce in tutta la serata avrò detto una trentina di parole. Mi sforzai di ascoltare le deliranti dissertazioni politiche anarcoidi del padrone di casa lasciandogliele passare tutte, persino quando equiparò la Chiesa cattolica allo stalinismo. In un altro stato d’animo lo avrei demolito, ma quella sera la mente viaggiava altrove e mi limitai a una lieve smorfia senza interromperlo.
Monica capì e tagliammo la corda dopo il gelato. Nel parco della Favorita c’era un gran viavai di auto, si avvertiva un’aria pesante in città, i palermitani come sempre si muovevano in gregge a caccia di fresco e magari di cibo.
Guidavo sprofondato in un mutismo totale, continuavo a sguazzare nei miei pensieri.
«Quando pensi che interromperai il tuo sciopero del silenzio?», mi domandò Monica.
Abbozzai un sorriso ma non risposi subito. Eravamo usciti dalla Favorita. A piazza Leoni svoltai a sinistra e poi a destra, in piazza Don Bosco, davanti alla mia scuola, la splendida Villa Ranchibile, la cui vista sa sempre trasmettermi una sensazione di ristoro.
Accostai e spensi il motore, poi mi voltai verso Monica che si era tolta gli occhiali e aspettava che io vuotassi il sacco.
«Oggi sono stato in carcere da Giuseppe Miraglia. C’era anche Santino».
«Come li hai trovati?»
«Il fratello sta sempre male, Santino si sforza di mantenersi sereno. Ma non è questo il punto».
«E qual è il punto, tesoro?»
«Santino gli sta vicino. È bravo. Gli ha portato Tex. Non lo so, forse ti può sembrare una cosa da poco, ma io ci penso da ore. Lui sa di cosa ha bisogno suo fratello…».
«Ti ascolto», disse Monica inserendosi nella mia pausa.
«Lo sai cosa penso? Che io forse sono tutto sommato un buon avvocato, come marito sono dignitoso, posso dire anche di essere un bravo figlio per mia madre. Però non sono mai stato un bravo fratello. È difficile fare il fratello…».
Forse quello che dicevo suonava senza senso, ma Monica mi fissava con attenzione.
«Voglio dire che quello tra fratelli è un rapporto particolare. Cioè, magari con un amico ti confidi, gli racconti le cose e lui fa lo stesso con te. Ma tra fratelli è diverso, certe confidenze mancano. In qualche modo, anzi, io credo di conoscere pochissimo Fabrizio. Solo che, vedi, io ho sempre pensato che fosse una cosa normale», e sottolineai l’aggettivo. «Che funzionasse così per tutti. E invece Santino oggi mi racconta di Tex Willer… È una minchiata, va bene, ma lui sapeva di cosa aveva bisogno suo fratello. E io?».
Monica mi prese la mano. Io continuai a ruota libera.
«Vedi, per esempio, tu lo sai quanto credo in Dio, quanto questo è indispensabile nella mia vita. Per me è ciò di cui si ha bisogno più di tutto. Ma cosa ho fatto perché anche Fabrizio se ne rendesse conto? Niente».
«Ma questo è quello di cui hai bisogno tu, Roberto, magari Fabrizio ha bisogno di altro».
«E no… se non fossi cristiano potrei anche liquidare la faccenda così. Ma il cristianesimo non è una cosa che ti tieni per te e buonanotte, gli altri si arrangino. È il contrario, capisci, il vero cristiano dovrebbe essere uno che ha trovato il tesoro più grande e non vede l’ora di mostrarlo agli altri perché tutti ne possano godere. E io invece non l’ho diviso nemmeno con mio fratello».
Sapevo bene che su quest’ultimo passaggio delle mie elucubrazioni ero condannato a rimanere almeno parzialmente incompreso da Monica, ma sentivo nel contatto delle sue dita sulle mie tutta la sua partecipazione al mio stato d’animo.
Monica aveva aperto il cuore per accogliermi e permettermi di trovare rifugio nel suo amore silenzioso.
Mentre mi si distendevano i muscoli del viso che a lungo, senza accorgermene, avevo contratto in una smorfia dolorosa, mi trovai a ripensare a Giuseppe Miraglia e al suo odore di sigarette amarognolo e stagnante. E fui folgorato da un’idea, un’immagine accantonata in un angolo della mente che avevo colpevolmente trascurato. Urgeva passare all’azione.
16
Racconto di Fabrizio Corsaro
Lo scorrere dei giorni era già un dato positivo. Perché non veniva ammazzato nessuno, s’intende.
Il mio rapporto con Angela si era intensificato, quello con Giulia non esisteva più. Mi ignorava, e le poche volte che ci ritrovavamo faccia a faccia, lei tirava diritto con aria sostenuta. Mi sarebbe piaciuto parlarle, persino scusarmi, ma quel suo atteggiamento tagliava i ponti per qualsiasi tipo di contatto.
Angela si stava lasciando andare lentamente. Molto lentamente, devo dire, ma notavo dei progressi. Con il passare dei giorni realizzai che non era stato un caso se i nostri primi incontri amorosi avevano avuto scenari poco privati. Angela infatti prediligeva questo genere di situazioni, forse le trovava eccitanti.
Pippo Nocera da un paio di giorni viveva a casa mia. Una sera, uscendo dal giornale, scendiamo insieme e lo vedo con dei borsoni nel portabagagli. Te ne vai all’estero, SuperPippo? No, completo il trasloco in albergo. Mi si impenna la tristezza in questi casi e il cuore mio di pietra diventa di burro, perché io conosco bene la potenza distruttiva delle donne. E allora perché non vieni da me, mica puoi vivere da profugo, finché non ti sistemi almeno, e pirituppi e piritappi, alla fine il Pippo cede e io mi porto dentro casa questi novantasei chili di tenerone abbandonato.
Un pomeriggio scendo giù in strada per una pausa caffè e chi t’incontro? Il mio compagno di merende (rectius, di bevute) don Lombardo. Mi saluta con una zaffata di alcol micidiale. Ha una sorta di sorriso sornione e lo sguardo infido.
«Ha lasciato perdere le sue indagini?», mi domanda.
«No, non direi».
«Ah, figlio mio, le avevo dato un consiglio. Ad ogni modo, faccia un po’ come vuole. Beve qualcosa?».
E qui t’aspettavo, parrì. Io qualcosina la berrei pure, ma tu mi svacanti il bar, se ho ben capito i tuoi standard, quindi facciamo che offri tu. C’è caldo e io allora mi limito a un prosecchino, così, per gradire. Il prete si fa fuori un whisky da quaranta gradi.
«Ha davvero continuato a dare la caccia ai fantasmi?», mi chiede.
«Immagino che lei creda ai fenomeni paranormali. Io al riguardo sono molto scettico, invece, e quindi escludo che si tratti di fantasmi, avendone toccato uno con mano».
«Di chi parla?»
«Di una delle sue belle ex allieve, la signorina Denaro».
«Come sta?»
«Bene, direi».
«E dove l’ha vista, qui a Palermo?»
«Be’, diciamo che questi non sono affari suoi». Alle volte provo un insano gusto nell’essere scortese.
«La prego di non esagerare con questa storia, potrebbe ferire qualcuno». Don Lombardo fa un cenno al barista: «Ragazzo, fammene un altro».
«Comunque, devo dire, caro padre, che le sue allieve m’hanno fatto una buona impressione. Donne intelligenti e dalla forte personalità».
«A chi si riferisce?»
«A tutte. Prenda Francesca Raimondo, non l’ho conosciuta di persona ma doveva essere un bel tipo. E Angela lo è di sicuro. E poi anche quell’altra, Eleonora, è proprio in gamba».
«Chi?», chiede il prete ingollando whisky.
«Eleonora Giordano, gran bella testa».
«Ha parlato con lei?»
«Sì, è stata molto disponibile».
«E che cosa le ha detto?», mi domanda con fare inquisitorio.
«Be’, non molto di più di quello che mi aveva già detto lei. Però mi ha fatto un bel quadro psicologico dei personaggi».
«È rimasto in contatto con le due ragazze?»
«Sì», rispondo.
«Non esageri, amico mio. Ci beviamo l’ultimo?».
Accetto, figurandomi per un attimo in che stato deve essere il fegato di quell’uomo. Poi noto sul suo collo, vicino alla nuca, un segno scuro, una specie di ematoma.
«Si è fatto male, padre?»
«Niente, un piccolo incidente…», liquida lui con troppa fretta per sembrarmi naturale.
«Com’è che ha quel livido?»
«Sono scivolato sulle scale di casa». E giù il terzo whisky, stavolta con ghiaccio. Il prete s’è accaldato.
Passarono un paio di giorni. La mia convivenza con Pippo Nocera procedeva tranquilla (ma chi si azzarda a litigarci con un bestione come quello?). Cucinava bene e a pranzo ci sbafavamo ogni delizia, pasta con melanzane e pesce spada, parmigiana, bucatini con i broccoli arriminati, persino le sarde a beccafico sapeva fare. Una volta mi aveva portato pure a Ballarò a fare la spesa ed era stata un’esperienza notevole vederlo interagire con i mercatari con cui ostentava una navigata confidenza.
Con Giulia continuava la guerra fredda e io non avevo nessuna intenzione di fare il primo passo verso l’armistizio, almeno finché lei non si fosse tolta quella faccia di minchia che sfoderava ogni volta che incrociava il mio sguardo. Brutta bestia l’orgoglio.
Dopo il mio incontro con il parrino m’ero ritrovato più volte a pensare a Eleonora. A quello che mi aveva detto su Angela, a come lei si sentisse legata all’amica perduta nonostante gli anni. Sapevo che ad Angela avrebbe dato molto fastidio se avessi parlato di lei a Eleonora. Aveva inteso chiudere del tutto quell’episodio, lasciandosi per sempre alle spalle luoghi e persone che potevano ricordarglielo. Ma pensai che avrei potuto almeno dire a Eleonora che la sua vecchia amica era viva e stava bene. Non lo so com’è che mi vengono certe pensate del cazzo.
Telefonai al numero di via Ausonia. Rispose una voce maschile.
«Buonasera, sono Fabrizio Corsaro, un amico di Eleonora. È in casa?»
«No», rispose, e poi aggiunse: «Quando è stata l’ultima volta che l’ha vista?»
«Non so… Una decina di giorni fa, forse. Perché?»
«Niente… Buonasera».
«Aspetti», lo fermai, «le è successo qualcosa?»
«Manca da ieri», disse angosciato l’uomo. «Se dovesse avere sue notizie, la prego di avvisarmi, sono il padre», aggiunse. E chiuse il telefono.
Questa proprio non me l’aspettavo.
Il centro storico di Palermo illuminato è uno spettacolo. Sì, ogni tanto crolla una palazzina e per i vicoli, avvicinandosi al mare, è tutto un mercato del sesso mercenario, per lo più africano, ma la maestosità della cattedrale o la meraviglia della fontana di piazza Pretoria non possono essere scalfite da questi insignificanti particolari di degrado sociologico.
Palermo è una vecchia aristocratica caduta in miseria che nessuno si fila più e che vive di ricordi, dei fasti dei gloriosi giorni che furono, e contemplando i gioielli di famiglia e la mobilia d’antiquariato si scorda per un po’ che le mura di casa sono crepate e il tetto sta cadendo a pezzi.
Passeggiavo con Angela per via Roma, vicino al mercato della Vucciria. Cominciava a fare fresco, eravamo ormai in ottobre inoltrato e l’estate era finita sul serio.
«Eleonora Giordano è sparita», le dissi di botto.
«Chi?», fece lei cadendo dalle nuvole.
«La tua amica Eleonora. Scomparsa».
«Che vuol dire scomparsa?»
«A casa non ne hanno notizie. Comincio a preoccuparmi anch’io».
«Fai il duro e poi sei ansioso peggio di una vecchia zitella», mi rispose Angela. «Che cazzo ti preoccupi a fare, quella magari ieri sera se l’è andata a spassare con il suo fidanzato e a quest’ora è già tornata».
«Be’, la faccio un tipo un po’ troppo precisino per questo genere di minchiate».
«Ma che ne sai tu di Eleonora Giordano! Solo perché ha un visino da santuzza ed era la prima della classe non vuol dire che non possa andarsi a fare le sue scopate».
«Non mi piace quando parli sboccato», le rimproverai tra il serio e il faceto.
«Devi andare oltre le apparenze. Eleonora era molto sveglia. Era lei che ci copriva…». E si interruppe.
«Copriva chi? Te e Scaffidi?»
«Eleonora ci tradì. Lui non glielo perdonò». Angela fissava il vuoto, sembrava che parlasse con sé stessa e non con me. «Lei era gelosa».
«Gelosa? Di te, come amica?»
«No». Lei scosse il capo continuando a guardare altrove.
«Non dirmi che anche Eleonora era andata con quel…».
Angela annuì sospirando, si fermò.
Io le cinsi le spalle e la guardai negli occhi. «Ma questo non era saltato fuori… Com’è possibile che…».
«Ti prego, Fabrizio», mi interruppe con la voce spezzata, «abbiamo già parlato troppo, mi ha fatto male abbastanza così…».
In quel momento, dal cinema davanti al quale ci eravamo fermati venne fuori una fiumana di picciriddi eccitatissimi.
Era appena finito il film di animazione del momento e pargoli e genitori defluivano disordinatamente, alla palermitana.
Un paio di marmocchi si sciarriavanoinseguendosi e gridando, si contendevano un album di figurine. Uno di loro andò a sbattere contro Angela, che lo spinse via in malo modo, farfugliando qualcosa. Poi scoppiò a piangere e si mise a correre. Dovetti inseguirla per via Roma finché non la raggiunsi e riuscii a calmarla.
«Tutto a posto?», le chiesi asciugandole le lacrime con il mio fazzoletto.
«Sì, scusami, i bambini mi danno sui nervi».
«A chi lo dici…».
«Tu non ce l’hai?»
«Cosa, un bambino?» La guardai perplesso.
«La smania di fare figli che tortura certuni, soprattutto certe femmine: sembra non riescano a pensare ad altro…».
«No», sorrisi, «quello è mio fratello».
Io padre? Non deliriamo! Magari zio sì, l’avrei gradito. Un pargoletto corsarino con gli occhioni scuri che vado a prelevare nei pomeriggi liberi a casa di Roberto e me lo spupazzo un po’ in giro per la città, al mare, al luna park, pure al giornale me lo porterei, a imbottirlo di gelati, caramelle e cioccolata, a insegnargli a giocare a biliardo e a cacciare le femmine… Forse avevo capito perché mia cognata non voleva farlo, quel figlio.
17
Racconto di Roberto Corsaro
Il fantomatico signor Ponte, disinvolto puttaniere nonché amante della scomparsa Francesca Raimondo, se l’era passata liscia fino a quel punto. Carletto lo aveva messo sotto torchio dopo essere venuto a conoscenza della sua esistenza.
Avevano trovato le sue impronte in casa Miraglia. Lui aveva ammesso di essere andato più volte a far visita alla sua maestrina infedele a domicilio; da qui si spiegavano le impronte. Ma aveva negato di essere stato in viale Strasburgo il pomeriggio dell’omicidio. A sostegno della sua versione vantava un alibi, peraltro fragile, in quanto la moglie affermava che il coniuge era stato a casa con lei quel pomeriggio. Certo, che una consorte tradita mentisse per proteggere il licenzioso marito poteva sembrare strano a qualcuno ma non a chi come me ha qualche dimestichezza con le indagini penali. Perché se c’è un luogo dove si mente che è una bellezza, quello è proprio il processo, soprattutto nella sua fase preliminare.
Carletto aveva lasciato perdere Ponte troppo presto, tutto preso dalla sua crociata contro Giuseppe Miraglia. Io invece avevo cercato di scoprire per conto mio se il nostro “mister Bridge” si fosse fatto vivo dalle parti della morta, quel dì. E l’osservazione di Fabrizio sul reggiseno di Francesca Raimondo, per quanto frutto di un perverso ragionamento induttivo da fornicatore di lungo corso, mi aveva ulteriormente convinto al riguardo.
Ma la ricerca di un qualsiasi testimone che potesse affermare di aver visto quel giorno Maurizio Ponte nello stabile di viale Strasburgo era stata vana. Gaetano aveva tormentato negozianti, condomini, passanti, ma nessuno ricordava con precisione. L’appartamento dei coniugi Miraglia era stato passato a setaccio da Carletto. La Scientifica l’aveva rivoltato da cima a fondo. C’erano diverse impronte digitali in cucina e nelle altre stanze ma niente capelli o roba simile che potesse far risalire all’assassino. Sempre ammesso che questi non fosse Giuseppe Miraglia.
Quel pomeriggio, all’Ucciardone, avvertendol’odore amaro delle sigarette del mio cliente, m’era sovvenuto un particolare che avevo trascurato. Nella spazzatura della cucina erano stati trovati fra l’altro un bel po’ di mozziconi di sigarette. I coniugi Miraglia erano fumatori incalliti. Io, a furia di andar dietro a testimoni inesistenti, vicini cazzari, vecchie compagne di scuola e professori zozzoni, quei mozziconi me li ero dimenticati. E così telefonai al mio vecchio compagnuccio.
«Carletto, sono Roberto».
Era più forte di me chiamarlo con quel vezzeggiativo. Anche se forse non era opportuno. Ma d’altro canto, quella era una conversazione informale, che solo la nostra antica frequentazione poteva giustificare.
«Che vuoi?»
«Che mi dici delle cicche nella spazzatura di casa Miraglia?»
«Cos’è che vuoi sapere?»
«Era sempre la stessa marca di sigarette?»
«No». Scatarrata, s’era preso una tosse brutale. «Marito e moglie fumavano marche diverse».
«E c’erano solo quei due tipi di sigaretta, nell’immondizia?»
«No», rispose con il tono di chi si aspetta la domanda, «abbiamo trovato anche una cicca di Marlboro».
«Che tu chiaramente hai ignorato…».
Sgradevole, ma mi scappò. Era arduo per me conversare da avvocato a pm con uno con cui avevo giocato a calcetto da ragazzino. Carletto, però, non si scompose. Glaciale, rispose pronto senza che si avvertisse una minima esitazione nelle sue parole.
«Non c’è nessun mistero. Il signor Ponte ha ammesso di essere stato a casa dell’amica nei giorni precedenti all’omicidio. Lui fuma Marlboro e quindi tutto quadra».
«Sì, ma quel sacchetto di spazzatura non poteva risalire a giorni prima, era mezzo vuoto e, se non ricordo male, c’erano i resti del pranzo di quel giorno», obiettai, sicuro di averlo messo in crisi. Ma lui replicò con tutta la calma del mondo.
«Sì, ma un posacenere lo si può svuotare anche dopo un giorno. Comunque, avvocato, queste acute osservazioni risparmiatele per il processo, fra sette giorni c’è l’udienza preliminare, non avere fretta. Ti saluto».
Sempre amabile il vecchio Carletto.
L’ultima volta che avevo visto Santino, il buon Mitraglione, prima di salutarmi, aveva tirato fuori dallo sgabuzzino della memoria un episodio che avevo quasi dimenticato.
Gli stavo spiegando il punto di vista di Carletto Maniscalco, illustrandogli come mi aspettavo che si sarebbe mosso al processo. Mitraglia mi aveva ascoltato assorto fino a un certo punto, poi avevo notato che i suoi occhi e la sua attenzione erano finiti altrove. Mi ero fermato.
«Santino, mi segui?»
«Carletto se lo scordò che ancora cammina sulle sue gambe grazie a te», aveva detto lui con un sorriso amaro.
«In che senso?»
«Te lo scordasti a Giovanni Gatto?».
Il Gatto, grande amico mio, nostro compagno di classe, ora brillante collega del sottoscritto. Era un “capetto” negli anni della scuola, buono e generoso, ma anche autorevole e temibile.
«Che c’entra Giovanni Gatto?»
«Tu forse te lo sei dimenticato. Io no. Stavamo giocando a pallone tra di noi, a scuola. Tu e Carletto eravate nella stessa squadra, io e Giovanni nell’altra. Il Gatto era lanciato in corsa verso la porta, palla al piede. Maniscalco gli si parò davanti e gli fece lo sgambetto. Giovanni volò, riuscì ad atterrare con le mani, poteva spaccarsi la faccia. Quando si alzò, aveva quegli occhi da pazzo che facevano paura e che gli venivano quando si incazzava. Io mi dissi: ora l’ammazza. Lo fissò per un secondo, lo bruciò con quella taliata. Poi fece un passo, il primo passo verso di lui. Lo ammazza, pensavo. E lo pensavano tutti. Ma nessuno, porco il mondo, nessuno si mosse per fermarlo. Quello si sarebbe rovinato, lo buttavano fuori dalla scuola, sicuro. Carletto era una mezza sega, Giovanni con un pugno solo lo avrebbe lasciato a terra. Maniscalco era più bianco del solito, mica era un cretino, lo sapeva benissimo che era fottuto. E lì sei arrivato tu».
Avevo cominciato a ricordare. Il campo di pallamano che usavamo per le nostre partite nelle ore di buco o quando il prof di educazione fisica non aveva voglia di far niente.
Santino, dopo una pausa, riprese a parlare.
«Non eri lì vicino. Me lo ricordo. Guardasti Giovanni e capisti quello che tutti avevamo capito. Che lo ammazzava e che si sarebbe fottuto con le sue mani. Facesti qualche passo, dritto, deciso, mettendoti tra Carletto e Giovanni e con quella voce da uomo fatto che avevi, fissasti il Gatto negli occhi e gli dicesti: “Sulla palla”. Minchia, mi sembrasti Gesù Cristo che dice “alzati e cammina” per quanto eri solenne. Il Gatto non si mosse. Ti fulminò con lo sguardo. Ti voleva troppo bene Giovanni. E ti stimava. Eri l’unico, minchia, l’unico che si sarebbe potuto permettere di contraddirlo così, davanti a tutti. Perché tu non gli dicesti “amunì, lassalu perdiri che è un piscialletto”, no, perché lo sapevi che così non si sarebbe fermato. Tu gli dicesti “sulla palla”, cazzo, e lo sapevi benissimo che quello era un fallo grande quanto una casa. Tu tirasti fuori la tua autorità». Santino aveva scandito sillaba per sillaba quella parola. «Il Gatto ti guardò fisso e io glielo lessi nello sguardo quello che ti stava dicendo, “lo sai cosa mi stai chiedendo?”, dicevano quegli occhi di fuoco. Tu lo fissasti, impassibile. Ti voltasti verso il vostro portiere e gli dicesti di battere la rimessa. Nessuno fiatò. E tu salvasti la pelle a Maniscalco e il culo al Gatto. Io non me lo scordo, Robè, e quando penso che mio fratello è nelle mani tue mi sento più tranquillo».
Io sulla storia delle sigarette non ci dormii la notte. Tanto che Monica, sentendomi agitare nel letto, accese l’abat-jour ed erano le tre.
«Che c’è, amore? Stai male? Ti faccio un canarino?»
«Le sigarette, Monica, le sigarette».
«Ti sei messo pure a fumare? Andiamo bene…».
Le spiegai nel dettaglio la questione. Lei si arruffò i capelli come fa sempre quando riflette su qualcosa.
«Sei sicuro che l’immondizia nel sacchetto fosse quella del giorno stesso in cui hanno ammazzato la moglie di Miraglia?»
«Sì, ti dico. Anche se qualcuno ha obiettato che questo non prova che le sigarette “estranee” fossero state fumate proprio quel giorno. Magari risalivano al giorno prima e Francesca aveva svuotato il posacenere solo…».
«Aspetta, mi sembra un problema abbastanza semplice», mi interruppe Monica. «Basta vedere quante cicche ci sono in quel sacchetto. Se ce n’è una decina non è realistico pensare che lei abbia svuotato il posacenere dopo due giorni, perché in due giorni tra marito e moglie quelli si facevano fuori quattro pacchetti di sigarette».
Monica era arrivata esattamente dove ero arrivato io.
«Io ho fatto lo stesso ragionamento, mi fa piacere che tu la pensi come me, vuol dire che è una teoria plausibile. Ma non è una prova schiacciante…».
«Sei preoccupato per quest’udienza, vero?»
«Sì», ammisi poggiandole la testa sul grembo.
Il buon Dio doveva darmi una mano.
E me la diede sul serio. Perché ciò che accadde ebbe del miracoloso, un prodigio senza precedenti. Carletto, che non torna sui suoi passi nemmeno se glielo chiede il procuratore capo, fece qualcosa di impronosticabile. Riconvocò mister Ponte e lo tenne sotto per due ore.
Evidentemente la mia telefonata aveva insinuato nel suo cervellone il tarlo del dubbio. Le mie preci a Don Bosco dovevano aver avuto effetto, perché Carletto, che del prete santo è in fondo anch’egli un figliolo, si era convinto che forse il signor Ponte ci aveva raccontato un pacco di minchiate.
Mi telefonò di sabato mattina. Stavo leggendo un libercolo di Zweig sugli scacchi, Monica completava una traduzione dall’arabo e ascoltava uno dei suoi dischi sofisticati, non ricordo se fosse David Sylvian o Sakamoto o chi altro.
«Roberto, ciao, sono Carlo».
Non realizzai subito, lui avvertì la mia esitazione, poi inquadrai e lo salutai, stupito.
«Signor procuratore, buongiorno, a cosa devo l’onore?»
«Mi è sembrato corretto avvisarti. Chiedo la scarcerazione del tuo cliente».
Ammetto che per pochi secondi avvertii un tremore alle gambe. Poi mi ricomposi.
«Come mai?»
«Dopo aver parlato con te ho voluto risentire il Ponte: effettivamente c’era qualcosa che non quadrava. L’ho tenuto sotto per un po’, insieme al commissario, insomma l’abbiamo fatto un po’ spaventare, e alla fine ha cantato. È stato lì, quel pomeriggio».
Lo sapevo, lo sapevo. Ebbi cinque secondi buoni di esaltazione.
«E allora?», gli dissi.
«È andato a trovare la donna attorno alle quattro e mezza. Si è fumato la famosa sigaretta in cucina. Poi si sono trasferiti in camera da letto, ma quando si sono messi per fare le loro cose, sono stati interrotti».
«Da chi?»
«Hanno suonato al citofono. Lei ha risposto e ha chiesto a Ponte di sparire».
«E presumo che non si trattasse del marito».
«No, infatti. Era una visita inaspettata. Ponte le chiese chi fosse e lei rispose semplicemente “una vecchia conoscenza”. Il Ponte se la squagliò per le scale mentre il nostro visitatore misterioso stava salendo in ascensore».
«Perché non ne ha parlato prima?»
«Temeva di non essere creduto e di passare dei guai. Deficiente, il guaio lo passa adesso, ha intralciato le indagini, gli faccio un culo quanto una capanna». Era questo il Carletto che conoscevo.
«Dunque la visita a sorpresa arriva dopo le cinque».
«Sì, tutto collima con l’ora del decesso. Qualcuno è andato lì apposta per ammazzare Francesca Raimondo. Ci tocca ricominciare daccapo».
Lo disse con la voce affaticata di chi sta scalando una montagna. Povero Carletto. Quanto mi fece sentire un miserabile avergli dato dello stronzo, quando dopo quella telefonata mi fermai a pensare al suo scrupolo e alla sua correttezza.
«Senti, Carlo, lunedì mattina ti vengo a trovare in procura, forse ho scoperto qualcosa che ti può aiutare».
«Ti aspetto, buona domenica», si congedò lui.
Chiusi il telefono e cominciai a esultare come Tardelli per il due a zero alla Germania al Bernabeu. Monica mi fissava perplessa.
18
Racconto di Fabrizio Corsaro
Non sentivo Roberto tanto su di giri da quando l’Inter dei record aveva vinto lo scudetto. Mi telefonò dopo cena, io avevo già finito al giornale, ero a casa e mi dedicavo a un’accurata toletta con il sottofondo dei Jethro Tull. Angela mi aveva dato il bidone, quel sabato, e io avevo deciso di lasciar perdere le femmine per quella sera e di andarmene a zonzo tranquillo in compagnia del mio nuovo convivente.
Al telefono rispose proprio Pippo, che molto carinamente domandò a Roberto se gli avessero tolto il gesso alle gambe (Isabella gli aveva raccontato tutto). Poi me lo passò.
«Ma che cavolo diceva Pippo? Quale gesso mi dovevano levare?»
«Niente», feci io abbassando il tono della voce, «lascialo perdere, è distrutto».
«Ho grandi notizie», principiò, invasato. E mi riferì tutte le novità. Dopo fu il mio turno e gli raccontai di Eleonora Giordano e delle ultime notizie.
«Adesso voglio prendermi una bella vacanza da questa storia di morte ammazzate e misteri scolastici», fece lui.
«E no, fratello, tu non mi puoi mollare adesso. Che cosa ha trovato il tuo segugio a Cefalù?»
«Niente. Fabrì, se non l’ha trovato Gaetano, non hai speranza».
«Senti, tu conservi sempre la sana e virtuosa abitudine della messa domenicale?»
«Anche di quella feriale, se è per questo».
«Allora domani ti passo a prendere, voglio farti vedere una persona».
«Ma domani andiamo a Trabia con la mamma».
«Ottimo, vengo anch’io. Passo da te alle dieci».
Solo venti minuti di ritardo. Roberto scese raggiante nonostante questo. Si era persino tolto gli occhiali. «Siamo in gran forma, eh?»
«Direi di sì». Mi sorrise.
«Che ti sei mangiato ieri sera?»
«Una pasta speciale, zucchine fritte e cozze, accostamento coraggioso e delizioso. Una spigola che ancora sembrava che nuotasse. E Monica ha preso i gamberoni, me ne sono fatti fuori un paio: da estasi».
«Anch’io me la sono passata bene, Pippo ha cucinato gli involtini di melanzane».
«Dove andiamo?»
«Voglio farti conoscere un parrino».
Guidai rilassato fino alla stazione. Il cielo era coperto, una giornata picchiusa, diciamo a Palermo, espressione che se dovessi cercare di tradurre forse potrebbe essere resa con “da piagnisteo”.
La messa era iniziata da poco. Don Lombardo celebrava con voce impastata, assistito da un chierichetto settantenne. La chiesa non era colma, prevalevano gli anziani, per lo più vecchiette e vedovelle. Io e Roberto prendemmo posto vicino a un paio di queste.
«Sai che non entravo in chiesa dal tuo matrimonio?», bisbigliai. Mio fratello mi fece segno di tacere, tutto preso dall’ascolto delle letture. Il prete mi pareva già bevuto, aveva le guance rosse e gli occhi segnati. Le donne anziane sedute accanto a me sembravano guardarlo con antipatia.
«È bravo don Lombardo, vero?», domandai alla donna che mi sedeva più vicino, indossando la mia migliore faccia di bronzo.
«Insomma…», fece quella.
«Lassamu perdiri», aggiunse l’altra più giovane, senza essere interpellata. Capii che era lei la mia interlocutrice ideale.
«Ma perché, signora, non se ne dice bene?»
«È un ’mbriacuni», sbottò secca.
«Sì, ma con i parrocchiani va d’accordo, no?»
«Pure troppo, io a ’mme figghia non ce la manderei al catechismo».
«Ma cos’è quel segno che ha sul collo?», domandai bluffando, perché – da dove eravamo – il livido non lo si poteva proprio vedere.
«Il regalo di qualche padre, o di qualche fratello… accussì non se lo scorda che i manuzzi se le deve tenere in sacchetta», cioè nelle tasche. E detta quest’ultima velenosità tirò fuori dalla borsa un rosario e cominciò a sgranarlo.
«Hai sentito?», mormorai a mio fratello.
«Sì, e ora vorrei seguire la messa», rispose disturbato.
Alla fine della cerimonia attendemmo al varco il nostro uomo. Roberto era molto prudente, anzi direi proprio scettico, sulle voci delle parrocchiane, che insinuavano certe attenzioni del prete per le donne. Io propendevo più per il vox populi vox dei, che parlando di un prete, poi, cadeva pure a fagiolo. Don Lombardo uscì dalla sagrestia in tonaca, viso rubizzo e valigetta in mano. Sembrò più infastidito che sorpreso nel vedermi. Lo salutai e gli presentai il fratellone.
«Qual buon vento?», mi domandò.
«Volevo chiederle una cosa».
«Gioca ancora a fare il detective?»
«Lo sa che Eleonora Giordano è scomparsa?».
Mi guardò esitante. Non disse una parola.
«Le risulta», ripresi, «che anche Eleonora fosse coinvolta nella storia del professore Scaffidi?»
«No, non mi risulta», disse seccamente. «E stavolta glielo dico sul serio, lasci perdere questa faccenda. E se proprio non ci riesce, lasci perdere me».
E se ne andò accigliato. Si avvicinò a passi decisi a un taxi, che era arrivato giusto mentre il prete parlava con noi. Al volante un uomo sulla quarantina, stempiato e intento a esplorarsi con l’indice le cavità nasali. Quando don Lombardo montò a bordo, quello mise in moto e partì. Chissà dove se ne andava in taxi. Non a casa sua, immaginai, il suo appartamento era solo a pochi passi da lì. Memorizzai il numero della vettura.
«Che te ne pare?», chiesi a Roberto.
«Somiglia a Spencer Tracy».
«L’avevo pensato anch’io».
Sulla strada per casa di Roberto, mi squillò il telefono. Era Giulia.
«Ciao», le dissi preso alla sprovvista.
«Possiamo vederci?»
«Lascio a casa mio fratello e sono da te».
«Ma non dovevi venire con noi a Trabia?», mi chiese Roberto.
«Certo, vediamoci al bar all’imbocco dell’autostrada, tra un’ora. Tu, intanto, vai a prendere la mamma».
Giulia mi aspettava sotto casa. Si tormentava le mani. Ci salutammo con un bacetto casto.
«Buongiorno», le dissi.
«Ciao, Fabrizio».
Ci guardammo negli occhi per un po’, sorridendoci a vicenda.
«Abbiamo esagerato», fece lei, «ci siamo comportati da bambini».
«Sì».
«Mi dispiace. Abbiamo tutti una tale tensione addosso che poi la scarichiamo sempre in modo sbagliato».
«Siamo una generazione alla deriva», replicai con ironia.
Tirava una brezzolina fresca, il cielo s’era fatto azzurro-grigio, ma più in là, verso Catania, le nuvole sparivano e spuntava ancora il sole. Giulia mi si avvicinò e si appoggiò al mio petto.
«Allora abbiamo fatto pace?», miagolò.
«Per questa volta», dissi io.
«Lavori, oggi?»
«No, non mi tocca».
«Vuoi pranzare con me e Alessia?»
«Certo, si va a Trabia».
Mentre Giulia preparava la piccola, io rimasi giù a spulciare la rubrica del cellulare. Sperando che il cognome del tizio che avevo in mente mi sovvenisse, leggendolo tra gli altri. Com’era? Sanfilippo, De Filippo, qualcosa del genere… Era un pezzo grosso di una coop di taxi, amico di un mio mezzo parente. Qualche mese prima lo avevo messo in contatto con degli sbirri giusti che gli avevano dato una mano a incastrare un dipendente infedele che arraffava quattrini. Filippone! Eccolo là, Massimiliano Filippone. Provai, cosa mi costava tentare, del resto?
«Pronto» grugnì il tizio al sesto squillo. Il verbo non è casuale perché ricordavo bene i suoi lineamenti da suino.
«Ciao, sono Fabrizio Corsaro, il giornalista».
«Oh, ciao Corsaro».
«Disturbo?»
«No, tranquillo. Dimmi tutto».
«Senti, solo una cortesia… Questa macchina è una delle vostre?». E gli dissi il numero del taxi su cui era salito il prete.
«Sì, è una delle nostre. Perché? Problemi?»
«Sai dove è andata stamattina?»
«Perché?», grugnì Pipitone. Lo immaginai accigliato. E bruttissimo.
«È una storia un po’ lunga… Puoi dirmelo? Una corsa iniziata alle undici e mezza, più o meno. Zona stazione. L’ha chiamato un mio amico che non riesco a rintracciare e sto un po’ in pensiero».
«Non lo so, vediamo. Ti faccio sapere», rispose brusco. E chiuse, senza salutare.
Ci ritrovammo al bar all’imbocco dell’autostrada per Catania, dove i palermitani si danno appuntamento per le gite fuori città. Mia madre non mi rimproverò per non essermi fatto vedere nelle ultime due settimane, non disse nulla, come sempre, e ciò mi fece sentire, come sempre, ancora più in colpa. Mamma è bellissima, come il suo secondogenito: è una donna forte e delicata nel contempo, spigolosa e dolcissima, discreta ma presente. Disapprova in toto la mia vita ma non fa niente o quasi per farmelo pesare. Si limita ad amarmi, del suo amore silenzioso e riservato, di quell’amore perfetto e rassicurante che temo nessuna donna saprà darmi mai.
Cazzeggiammo per qualche minuto tra saluti e convenevoli vari, tutti a coccolare Alessia, la picciridda di Giulia, che bella, due occhi, che amore e così via, ad libitum. Poi finalmente partimmo per Trabia, paese di mare a una ventina di minuti di autostrada da Palermo, nel quale sin dall’infanzia trascorriamo le vacanze.
Andammo a pranzo da Giuseppe, il compare d’anello dei miei genitori, nel suo ristorante dove un tempo c’erano solo nespoli. Mi feci fuori due spaghetti alla Tarantina che erano qualcosa di poetico, poi mi buttai sul pesce spada innaffiando tutto con un bianco siciliano, che accompagnò il pesce in modo egregio. Entrando al ristorante avevo ricevuto un sms. Con una sola parola: “Trabia”. Era di Filippone. La coincidenza mi diede un brivido.
Giulia parlottava con mamma e Monica, Roberto si rincoglioniva appresso alla bambina, dando libero sfogo al suo frustrato istinto paterno. Passammo un’ora piacevole godendoci il fresco, poi facemmo un salto in campagna, al villino, immersi in una pace irreale. Avevamo preso dei dolci al bar e ce li stavamo facendo fuori con voracità, certi cannoli e sfince e cassatine al forno che t’accarezzavano il palato e l’anima. In fondo al cuore, sono un sentimentale, seppure quel pezzo di me sia celato da una robusta corazza di stronzaggine. Le riunioni di famiglia mi rallegrano, sebbene anche dopo tutti questi anni avverta sempre in momenti come questi l’assenza di mio padre. Ingozzarsi di dolci, poi, era un gran bel piacere da condividere e mi riportava alla memoria sensazioni molto tenere, come quando da bambini mamma preparava a me e Roberto una fetta di pane spalmata di burro e cosparsa di zucchero: sarà, ma il dolce più buono per me resta ancora il ricordo di quel sapore casereccio.
«Domani ci mettiamo a dieta», fece Monica pappandosi l’ennesimo cannolicchio, «sono due giorni che mangiamo».
«Sì, ma ieri sera si doveva festeggiare», disse Roberto, che giocava a cavalluccio con Alessia. E raccontò alla mamma di Giuseppe Miraglia.
«Chissà chi l’ha ammazzata quella poveretta», commentò mia madre alla fine.
«Io lo vorrei tanto chiedere a una persona», dissi.
«E chi sarebbe?», fece Giulia.
«Il professore fantasma. Una specie di entità ectoplasmatica».
«Fabrizio, tu ci stai perdendo la salute», farfugliò Roberto con la bocca piena. Ingordo.
«Intanto è sparita un’altra ragazza, ti sembra una minchiata? E lo sai che il nostro prete oggi è venuto proprio qua a Trabia? A fare che?»
«Quale prete?», domandò Monica.
«Lascia stare, Monica. Fissazioni di mio fratello», liquidò con poca convinzione Roberto. Ma io avevo notato che la notizia lo aveva colpito.
«Magari quello ci porta dritti da Scaffidi», gli dissi a voce bassa.
«E chi sarebbe questo Scaffidi?», chiese ancora mia cognata.
«Lorenzo Scaffidi, un professore», risposi io prima che quell’impiastro di suo marito potesse zittirla.
«Ma che età ha?», chiese mamma.
«Una quarantina d’anni, perché?»
«Perché una volta da queste parti ci stava uno che si chiamava così. Ma era vecchio, credo sia morto».
«E hai detto che si chiamava Lorenzo Scaffidi?»
«Sì, era un tipo strano, aveva una decina di cani. Abitava qua vicino, nella strada per Ventimiglia, dopo l’Arbulazzo».
«All’Acquagrande?»
«Sì, proprio là».
«E scusa, ma’, questo Scaffidi aveva figli?», chiese Roberto.
«Come no».
«E nipoti?», domandai al volo io, bruciando sul tempo Roberto che là voleva arrivare.
«Non lo so, non è che io lo conoscessi di persona. Mi pare di sì».
«Spiegami come ci si arriva», disse Roberto alzandosi in piedi.
«Minchia, ti immagini se è lui?»
«Sarebbe una gran botta di culo».
Eravamo sulla macchina di Roberto. Mio fratello guidava spedito. Un vecchio Lorenzo Scaffidi poteva avere un nipote omonimo, come si usa in Sicilia. E Trabia è a soli venti minuti da Cefalù, da dove il nostro uomo aveva spedito la cartolina ai parenti di Torino. E il fatto che quella mattina don Lombardo fosse andato in taxi proprio a Trabia, come avevo riferito a mio fratello, era un elemento che rendeva tutta la faccenda ancora più interessante.
La strada era dissestata, una mala trazzera di campagna tutta fossi e buche, con certi balatonisparpagliati qua e là come mine in un percorso di guerra. Mi tornarono alla memoria certe giornate estive della nostra infanzia, quando sulla Ritmo di papà si veniva da quelle parti, a trovare certi amici, per interminabili serate gioiose, tra pizze fatte in casa, partite a carte, chiacchiere spensierate. Erano solo frammenti confusi di memoria, perché quei ricordi risalivano davvero alla mia prima infanzia, eppure il senso di leggerezza e benessere che quelle immagini mi trasmettevano dopo tutti quegli anni era ancora intatto. È davvero un peccato che di tutte le stagioni della nostra porca vita, sia proprio l’infanzia quella di cui si conservano nella memoria i ricordi più sfuggenti.
Arrivammo.
Era un casone su due piani, assai malandato, pezzi di calcinaccio caduti qua e là, pilastri rosicchiati dal tempo, erbacce cresciute tra le mattonelle del pavimento. Il cancello arrugginito era socchiuso. Entrammo, poco convinti di trovare anima viva. Con circospezione attraversammo il vialetto di ingresso, salimmo i tre gradini e ci fermammo sul patio.
Bussai alla porta senza ottenere risposta. Riprovai un paio di volte. Poi Roberto si mise a chiedere «c’è nessuno?», ma senza ottenere replica.
«No, non c’è nessuno», disse.
«Chissà da quanto tempo è chiusa ’sta casa. Andiamocene».
E rassegnati girammo i tacchi e tornammo indietro. Io avevo già sceso i gradini ma non sentivo più Roberto accanto e mi girai per capire che minchia stesse facendo. Stava accarezzando, mi sembrava, una piantina di violetta in un vaso poggiato su un davanzale.
«Che fai, ti metti a parlare con le piante?»
«La terra è bagnata», disse lui scrollandosela dalle dita. «Qualcuno l’ha annaffiata questa violetta».
E sparì a passi decisi sul retro della casa. Questi scatti di operatività di mio fratello mi spiazzano. Lo inseguii. Stava là, dritto e fiero, pronto a mostrarmi la sua scoperta.
«Tatà!», fece con tono solenne.
Era una Panda, forse più sfasciata del mio Winston. Una Panda bordeaux della prima serie.
«Qui ci abita qualcuno», disse Roberto.
«Forse sono usciti».
«Se è così, torneranno».
Tornammo sul patio e ci sedemmo sul primo gradino ad aspettare, non sapevamo neanche bene chi o che cosa.
Roberto si stava pulendo gli occhiali quando, a un tratto, sentimmo un rumore alle nostre spalle. Mio fratello fu più rapido di me nel voltarsi e lo vidi balzare in piedi, spaventato. La porta di ingresso di casa Scaffidi si era aperta.
19
Racconto di Roberto Corsaro
La porta si aprì con il più classico dei cigolii da film horror.
Fabrizio si alzò di scatto, impaurito, io mi voltai a guardare.
E vidi un fantasma.
Era l’ombra di un uomo, un individuo sul metro e settanta che non poteva pesare più di cinquanta chili. La faccia ossuta era segnata da solchi profondi, gli zigomi sporgenti, le occhiaie scavate. Sembrava nuotare nei suoi abiti, una camicia dai colori spenti e un paio di jeans. Alle sue spalle, l’interno della casa era al buio. L’uomo era emerso da un’oscurità irreale.
Ci squadrò con aria interrogativa, le mani appoggiate ai fianchi, mentre avanzava lentamente verso di noi.
«Chi siete?», domandò infine senza alcuna intonazione.
Ci presentammo. L’uomo continuava a fissarci, immobile.
«Chi cercate?»
«È lei il professore Lorenzo Scaffidi?».
Lui voltò il capo altrove e per qualche secondo contemplò i campi e i filari di ulivi. Poi, senza guardarci, rispose alla mia domanda.
«Lorenzo Scaffidi è morto».
Per scansare ogni equivoco di omonimia, Fabrizio volle essere più preciso.
«Noi cerchiamo un uomo sulla quarantina, che insegnava italiano in una scuola privata a Palermo».
«Esatto», mormorò l’uomo, muovendo qualche passo verso la piantina di violetta e continuando a non degnarci di uno sguardo. «Lorenzo Scaffidi, il professore. È morto».
«E quando è morto?», chiese Fabrizio.
«Mah… fra due o tre settimane, penso».
Io e Fabrizio ci guardammo in faccia con una smorfia fin troppo esplicita. Lui, che adesso ci dava le spalle, riprese a parlare.
«No, non prendetemi per pazzo. Lorenzo Scaffidi per il mondo è morto già da qualche mese. La sua esistenza rimane ormai una faccenda privata tra lui e il Padreterno. E nel giro di due o tre settimane questa faccenda sarà chiusa».
Entrò in casa lasciando la porta aperta. Noi restammo immobili dove eravamo, poi lui ci chiamò, invitandoci a entrare.
Era uno stanzone freddo, le pareti divorate dall’umidità e dalla muffa. La mobilia risaliva ad almeno un trentennio addietro, bei mobili solidi, alle pareti decine di quadri. Si trattava per lo più di tempere dai colori cupi e dai segni confusi, ritratti di donne, in maggior parte. Impilati in un angolo della stanza, una decina di giornali. Sul tavolo piazzato al centro della camera stavano poggiati un libro di Seneca, un paio di occhiali, i resti di un pranzo e una bottiglia di zibibbo.
L’uomo ci fece cenno di sedere su un sofà vicino alla finestra.
Poi sparì in cucina per tornare dopo pochi secondi, con due bicchieri. Vi versò lo zibibbo e ce li porse. Infine si sedette di fronte a noi, su una poltrona di vimini. Tutto in assoluto silenzio.
Io e Fabrizio bevemmo il vino, interdetti. L’uomo adesso ci guardava con aria compiaciuta, aveva accavallato le gambe, ai piedi portava sandali alla francescana. Tirò fuori un sigaro dal taschino della camicia, un mezzo toscano di quelli che fumava nostro padre, e lo accese non senza averci chiesto licenza.
«Noi non ci conosciamo», disse con voce stanca. «Come mai siete venuti qui?»
«Dobbiamo parlare di una cosa importante con Lorenzo Scaffidi», dissi. «Lo abbiamo cercato a lungo».
«E alla fine», fece lui alzando lo sguardo verso la muffa sulla parete, «lo avete trovato. O almeno avete trovato quel che ne resta».
«Sta qui da quando è tornato da Torino?», gli domandai.
Scaffidi mi guardò sorpreso e tirò una boccata profonda dal suo toscano.
«Vedo che lei è informato di ogni mio movimento», disse con un mezzo sorriso. «Sì, abito qui da allora. Ho scelto questo posto per morire e ho avuto i miei buoni motivi per farlo».
«È malato?», chiese Fabrizio oziosamente.
«Nel giugno scorso mi hanno diagnosticato un tumore. Incurabile, mi hanno dato tre o quattro mesi di vita. Volevano che mi ricoverassi in ospedale. Ho rifiutato. Volevo tornare qui, nella mia terra, dalla quale mancavo da dieci anni, un esilio lunghissimo…».
E riprese a guardare altrove, carezzandosi la guancia irsuta con il dorso della mano.
«Ho scelto questo posto dimenticato dagli uomini perché volevo morire da solo, riservare queste ultime ore a me stesso e a Dio. Ho tanti conti in sospeso con entrambi. Per questo ho deciso di anticipare di qualche mese la mia morte per il mondo. Qui ho tutto il tempo che mi serve. Uso l’auto soltanto per andare a fare la spesa a Trabia».
Gli si era spento il sigaro. Io e Fabrizio restavamo muti sul divano, perplessi sul da dirsi e sul da farsi, spiazzati dalle parole del moribondo Scaffidi. Il quale, riacceso il sigaro, tornò a guardarci in faccia.
«E adesso, signori, posso chiedervi cosa ci siete venuti a fare a casa mia?».
Gli spiegai che eravamo arrivati a lui indagando sulle morti di Francesca Raimondo e Rosaria Cangelosi. Scaffidi s’irrigidì a sentire quei nomi. Tirò un paio di boccate, poi si alzò di scatto dalla poltrona e prese a camminare per la stanza.
«E da me cosa volete?», domandò con tono pacato, fermandosi vicino alla finestra.
«Lei era stato coinvolto in un episodio…», aveva principiato a dire mio fratello, ma Scaffidi, mantenendo il suo tono di voce, lo interruppe.
«Quell’episodio appartiene al passato. Mi ha accompagnato per ogni giorno della mia vita e l’ha condizionata. Ho dovuto lasciare il lavoro che amavo, sono scappato via dalla mia città. E per tutto questo tempo mi sono sentito un mostro, ho odiato l’uomo che vedevo riflesso nello specchio ogni mattina. Sapete che da allora non ho più avuto una donna?».
Scaffidi aprì le imposte, lasciando la finestra chiusa, e fissò per qualche secondo il proprio viso nel vetro.
«Ma adesso, in questi mesi, quest’inferno, questa tortura sono finiti. Ho capito, ho capito di non essere un mostro. Sono un uomo che ha sbagliato e che ha pagato».
«Padre Lombardo è venuto da lei stamattina?», s’intromise Fabrizio.
Scaffidi lo osservò vagamente stupito.
«Vuole sapere quante Ave Maria mi sono toccate per penitenza?», rispose.
«Ha rivisto quelle ragazze?», chiese mio fratello.
«Basta, vi ho detto fin troppo. Non ero tenuto a rispondervi, l’ho fatto perché siete le prime persone con cui parlo da mesi. Ma adesso non ne ho più voglia».
«Lei ha ucciso quelle ragazze?», incalzò Fabrizio noncurante delle sue parole.
Scaffidi lo guardò in faccia per un attimo lunghissimo.
«Vi prego, andate via. Non voglio più pensare a questo, non ho nessuna intenzione di parlarne. Lasciatemi in pace».
Fabrizio stava per aggiungere qualcos’altro, ma gli diedi il tempo di dire solo mezza parola e lo fermai posandogli la mano con forza sul braccio. Mi alzai e feci qualche passo verso Scaffidi.
«Se lei non parla con noi, dovrà comunque parlare alla polizia», dissi con voce ferma.
«Ripeterò loro quello che ho detto a voi. Sempre che mi trovino vivo. E adesso, signori, vi prego di andare, comincio a sentirmi male».
Presi per un braccio Fabrizio, che già si mostrava recalcitrante all’invito del professore. Prima di uscire buttai l’occhio su un dipinto, una donna con i capelli blu e gli occhi gialli.
Alle sue spalle, un paesaggio gotico, una civetta volava nella notte senza luna. Sul seno della donna uno squarcio rosso. Mi fermai sulla soglia a contemplarlo. E notai un’altra opera, un’Annunciazione con tutte le tonalità del blu: al posto dell’arcangelo Gabriele, un prete con il volto da demonio e la tonaca impudicamente corta. La ragazza che stava al posto della Madonna portava scarpe da ginnastica bianche.
«Li ho dipinti io», disse Scaffidi salutandomi. E sparì dietro la porta come un fantasma, esattamente come era apparso.
«Perché sei voluto andar via?», mi domandò Fabrizio in macchina.
«Perché quello non parlava, Fabrì. Lasciatelo dire da me».
«Che ne pensi?»
«Hai notato il dipinto della donna con il seno squarciato?», gli chiesi.
«No».
«Era Francesca Raimondo. Stesso naso, stessi occhi».
«Hai visto! Dovevamo insistere, Roberto. Ti ricordo che una ragazza è scomparsa».
«Domani mattina parlo con Carletto, gli spiego tutta la storia. La polizia con questi elementi dovrebbe risolvere il caso».
«È venuto a regolare i suoi conti sospesi… Macchina scura, lo hai notato almeno? E il parrino… Lo dicevo che non la contava giusta».
«C’è qualcosa che mi lascia perplesso, Fabrizio. Intendo, se quell’uomo ha veramente fatto quello che tu pensi, perché negare? Di cosa può avere paura una persona a cui restano pochi giorni da vivere?».
Perché di pochi giorni si trattava, ne ero abbastanza certo. Ne avevo viste di persone divorate dalla maledetta malattia, che avevo visto da vicino troppo presto nella mia vita. E sapevo riconoscere i segni della morte imminente su una faccia scavata, purtroppo.
«Infatti lui non ha negato niente. Comunque non credere che io non sia perplesso», mi concesse mio fratello grattandosi il pizzetto.
«Quella vicenda gli ha proprio sconvolto la vita…».
«A lui come alle altre persone coinvolte. Sono ferite che non si rimarginano», convenne Fabrizio.
«Eppure tutti in un certo senso avevano trovato il modo di ricominciare. Le due ragazze si erano sposate, avevano dei figli, una vita tranquilla. E persino lui, anche se dopo molto tempo, è riuscito in qualche maniera a riconquistare un po’ di pace».
Fabrizio mi guardava accigliato. E si torturava il pizzetto, come sempre.
«Non lo so, Robè, mi sei sembrato troppo indulgente con questo tizio», disse infine. «Anche adesso, da come ne stai parlando, sembra che ti scordi che è uno che molestava le ragazzine».
Non gli risposi subito. Presi tempo, per dare anzitutto una risposta a me stesso.
«L’errore e l’errante», dissi infine, concludendo i miei pensieri mentre un’auto ci superava.
«Che dici?»
«L’errore e l’errante. È la dottrina della Chiesa, ne ha scritto Papa Giovanni. Non va confuso l’errore con chi lo commette. Molestare le ragazzine è una cosa che fa schifo. Chi lo fa è pur sempre un essere umano e gli va concessa la possibilità di riscatto. Si chiama anche conversione, non so se hai presente…».
«Ora non mi venire a parlare di scannare il vitello grasso, per favore».
Sorrisi. Capivo Fabrizio e fin troppo bene. Gioire per il “ritorno a casa” di un farabutto ci costa. E non solo perché ci costa amarlo e perdonarlo. Prima ancora, ci pesa privarci del gusto di appiccicargli l’etichetta di farabutto, come se poi ne avessimo il diritto. Ci fa sentire dritti e fieri come il fariseo che pregava nei primi banchi e ringraziava Dio per non averlo fatto come i peccatori.
«È comodo pensare che c’è qualcuno peggiore di noi. Qualcuno che fa cose che non faremmo mai. Così ci sentiamo migliori e più indulgenti verso noi stessi. Guardare il male altrui è la via più comoda per distogliere lo sguardo dal male che abbiamo dentro».
Forse avrei potuto dire di meglio. O semplicemente avrei potuto dire la stessa cosa ma con un altro tono. Però io non appartengo all’eletta schiera di quelli che sanno sempre cosa fare e cosa dire. Se mettessi nero su bianco tutte le minchiate che ho detto e fatto nella mia vita,Guerra e pace a confronto sembrerebbe un bignamino. Comunque, le mie frasi morirono nel silenzio e solo dopo un pezzo ripresi a parlare, mentre mio fratello fissava accigliato le campagne.
«Sai cosa mi è venuto da pensare mentre uscivamo da quella casa? Te lo ricordi il finale diBianca?», chiesi, e Fabrizio emise un suono di approvazione. «Quando Nanni Moretti sale sul cellulare della polizia e dice: è triste morire senza figli. Non so perché, quell’uomo mi ha fatto ripensare a questa frase».
Fabrizio si grattava nervosamente la barba.
«Che c’è?», gli chiesi.
«No, niente. Dicevi?»
«La storia dei figli… forse è che comincio a essere ossessionato da questo pensiero. Lo desidero troppo».
Fabrizio sembrava non ascoltarmi più, guardava inebetito fuori dal finestrino, sembrava Dustin Hoffman sulla Buick guidata da Tom Cruise in Rain Man. Eravamo quasi arrivati quando il teppistello si voltò di scatto verso di me.
«Senti, Roberto, le accompagneresti tu a casa Giulia e la bambina? Io devo sbrigare delle cose urgenti».
«Ma che ti piglia?»
«Niente… devo andare in un posto, subito. Appena posso ti telefono e ti spiego tutto».
«Non fare minchiate», gli intimai dall’alto della mia primogenitura.
20