Arriva un momento della vita, che di solito coincide con l’anzianità, in cui senti il bisogno di riconoscere e ringraziare i maestri che ti insegnarono, a loro insaputa, gli autori che hai letto e che hai amato, che ti hanno fatto pensare e ti hanno suscitato nuovi e antichi pensieri o che ti hanno fatto trascorrere ore di luce e di gioia. Un momento in cui senti la voglia, il bisogno, il dovere di ripensarli a uno a uno e poi tutti insieme, uniti e distinti come grani di un rosario dell’intelligenza. Sono i Fratelli Maggiori, per distinguerli dai Padri Antichi, i venerati classici, da Platone a Omero, da Plotino a Seneca, solo per citarne alcuni che ci sono più cari. Definirli fratelli non significa mettersi al loro livello. Nella differente statura e varietà di piani sono giganti, e noi siamo nani sulle loro spalle. Anzi, sono ciclopi, perché i grandi non hanno due occhi come gli altri uomini, ma un solo grande occhio centrale, collegato direttamente alla mente, che vede più in profondità e legge dentro gli uomini, i fatti e le cose. Vista più acuta e lungimirante.
Gran parte di loro può essere iscritta a una famiglia speciale che Cristina Campo chiamò «gli Imperdonabili», definizione che ricorre come un mantra in queste pagine. Irregolari del pensiero e della scrittura, salvo qualcuno; autori sconvenienti che non s’accontentarono del loro tempo ma lo contraddissero, spesso creando nuove visuali o attingendo a tradizioni più antiche o perenni. L’intelligenza si acuisce nel pericolo, e le loro sono intelligenze pericolose. Gli ambiti sono diversi, dal pensiero alla letteratura fino al grande giornalismo, ma compongono un grande album di famiglia, seppure di una famiglia allargata ed eterogenea con un fiorente albero genealogico. Ci sono gli antenati, che sono poi fratelli molto maggiori, da Dante a Petrarca, da Machiavelli a Vico e Leopardi, fino a Nietzsche. E non mancano i fratellastri, ossia autori che non rientrano nell’universo degli imperdonabili, coi quali non sono in sintonia ma che aiutano il pensiero a farsi adulto, tramite il critico confronto. In coda, oltre ai cento autori, c’è una spoon river della sponda sbagliata, ovvero intelligenze scomode che conobbi di persona e frequentai, a cui più si addice il titolo anagrafico e affettivo di fratelli maggiori.
C’è un movente profondo che spinge a ripensare e testimoniare la loro impresa. È la guerra all’oblio, la rivolta contro la disattenzione e la dimenticanza. L’oblio di autori, opere e pensieri nasce da due carenze. La prima è l’incomprensione della grandezza, di chi vale davvero, l’incapacità di distinguere tra gloria e successo; non saper riconoscere altezza, durata e profondità. La seconda è l’incapacità di serbare memoria, la condanna alla labilità, perché vige solo il presente e il vivente, e si rimuove tutto ciò che fuoriesce dal suo cono di luce. I due malefici, combinandosi, cancellano ogni conato di grandezza e demotivano ogni impresa, ogni opera che possa restare nel tempo. Ricercare la grandezza, riconoscere le sue tracce e rianimare l’attenzione verso chi le lasciò, significa mettere in salvo non solo quegli autori, quelle opere, ma la civiltà, l’humanitas, a cui apparteniamo. Classici a parte, queste pagine mettono in salvo nel nostro Pantheon le persone e le opere migliori che abbia finora frequentato. Non le più care, naturalmente, ma le migliori.
Cento ritratti disuguali per taglio, tenore e lunghezza, qualcuno non è poi un ritratto ma uno spicchio della loro vita e della loro opera; un tratto saliente, un aspetto intrigante, una chiave di lettura. Di alcuni di loro mi ero già occupato altrove. Molti ritratti sono inediti, altri rielaborano scritti precedenti, sparsi in pagine culturali di giornali, qualcuno proviene da un libro del 1996, l’Antinovecento. Gran parte di questi autori visse, scrisse e si contaminò nel Novecento, che è poi il secolo in cui siamo nati, voi e io. La sequenza dei ritratti parte in chiave cronologica, però cammin facendo s’intreccia a percorsi tematici o criteri di affinità. Mutano i registri narrativi trattando di autori così diversi. Il viaggio risponde a un itinerario della mente del curatore. Pur nelle differenze, compongono nel giudizio di chi li ha messi insieme un ideario coerente. Riflettono la sensibilità di un conservatore curioso, a tratti reazionario, che ama la Tradizione e pratica la ribellione, ama i maledetti in rivolta contro il proprio tempo e le sue dominazioni, e nel suo percorso spirituale insegue il sacro e il mito. Quanti libri di questi autori ho ricomprato, risottolineato e riletto per errore… Duole notare assenze e imperdonabili omissioni; sono carenze, dimenticanze o criteri selettivi di chi scrive e mi scuso se taluno non condividerà la cernita. Anche a me i conti non tornano, autori cari e importanti furono sacrificati, mi trattengo con fatica dal citarli per tentare un ridicolo risarcimento. Mi dispiace. Ma cento ritratti rimandano a migliaia di testi letti e sottintesi; una cospicua bibliografia orientativa che ho voluto lasciare implicita, da scoprire, per non aggravare la lievità narrativa dei profili. Un variegato atlante delle idee, di autori e opere e non solo un personale compendio di formazione, educazione e letture. A un certo punto bisogna chiudere il cerchio.
Vivo in una piccola casa con mille fratelli maggiori. Non occupano molto spazio perché i loro corpi sono di carta; chi mezzo, chi un intero ripiano, chi lo spazio di un libro. Come avrete capito, sono gli autori dei libri che gremiscono la biblioteca che ho sparso e tosato negli anni. A volte più antichi di Cristo, come Omero e i filosofi greci, altri più vicini, qualcuno l’ho conosciuto e taluno è vivente. Tra loro c’è pure uno scaffale con trenta costole di libri miei, figlioli immaginari. Mi piace organizzare coi mille fratelli feste a sorpresa e passare serate in affollata solitudine, fermandomi ora con un fratello maggiore ora con un altro, per una rimpatriata, una riscoperta; scampoli, ricordi, atmosfere. Sono compagni di solitudine. C’è chi vorrebbe la loro cremazione, conservando la cenere nell’urna dell’e-book, di una pendrive, o affidando la memoria alla clemenza della rete o di una nuvola (l’i-cloud) che tanto contiene e troppo ricorda, anche robaccia. Ma l’esperienza tattile del libro è imparagonabile, insostituibile; non basta vedere un testo su uno schermo, va toccato il suo corpo plasmato dal tempo, chiosato, va sentita la sua età, il suo odore, la sua cartilagine.
Il libro somiglia al tappeto di seta, elaborato a mano: più è usato e più ha valore. Affettivo, storico e commerciale. Anzi, non chiamiamolo più libro usato, ma libro vissuto. Ogni lettore vi aggiunge uno strato di vita. Ci sono libri logorati dal tempo, ridotti a degradante vecchiaia. Ma i libri che odorano di vita e lettori sono più ricchi, crescono con l’uso. I grandi libri sono tappeti volanti, portano in alto e lontano, come per magia. Spesso si leggono annunci di morte per il libro cartaceo. Talvolta gli stessi scrittori si compiacciono a soffrire facendo soffrire, annunciando la fine del libro. Mi auguro che finisca prima l’uomo del libro e che il postlibro riguardi i postumani, non noi umani e umanisti. È bello il sapere fluttuante nell’etere, i testi disincarnati sul video e i saperi visti e toccati sul display; ma è più bello avere più fonti di sapere e di vita, anche antiche. Salviamo i fratelli in carte e ossa e le loro creature. Carta canta, non sopprimete quel canto.
Dante
Visionario e fondatore
Dante Alighieri, per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho. C’è tutto Dante, la sua vita, la sua grandezza, la sua grazia, la sua professione umana e divina in queste tre righe di Marsilio Ficino che precedono la sua traduzione del De Monarchiadal latino in lingua toschana. In quella definizione manca solo il suo spirito ribelle e passionale, che lo rese imperdonabile agli occhi di molti potenti e scomodo a se stesso.
Nel 1314 naufragava il sogno di Dante d’una monarchia universale a cui aveva dedicato non solo quel testo, ma anche le sue speranze imperiali riposte in Arrigo VII, deceduto l’anno prima. Quel Dante che fu non solo massimo poeta e filosofo, innamorato di Sophia, ma anche pensatore politico e profeta, come lo definì Giovanni Gentile nel mirabile saggio Profezia di Dante. In modo più colorito, Papini definisce il suo Dante vivo «un profeta ebreo, un sacerdote etrusco e un imperialista romano». Profeta per via dei suoi annunzi messianici, etrusco per i suoi viaggi nell’oltretomba, prefigurati nelle pitture sepolcrali etrusche, e imperialista romano perché Dante considera Roma la sua vera patria, l’impero il suo orizzonte, la giustizia e l’unità la sua missione. Per Papini, Dante lotta contro il presente corrotto e si rifugia nel passato e nel futuro, «come tutti i poeti è un nostalgico e come tutti i profeti un messianico». In lui confluiscono la sapienza orientale e musulmana, il logos greco, la caritas cristiana e la civilitas romana. Il suo pensiero ha un cuore agostiniano-platonico e una testa aristotelico-averroista-tomista.
Non è questo il Dante che conoscemmo e detestammo a scuola, quella piaga da studiare, quei versi alieni a cui eravamo costretti. Imporre a tutti Dante fu una necessità didattica per la scuola, ma condannò all’inferno la sua grandezza. Dante dovrebbe citarla per i danni. Amai Dante appena smisi di studiarlo a scuola, lo amai prima di nascosto e poi leggendolo per gusto mio e non per obbligo di leva. Un itinerario di bellezza e intelligenza che a scuola deragliava nella nausea e nella noia. Ma del Dante scolastico restò al mondo un curioso privilegio: è l’unico autore che chiamiamo per nome, come facciamo solo per gli antichi e per i santi. Meglio tacere il Dante vituperato come «reazionario» dalle avanguardie (e da Sanguineti) o la più recente versione di Dante, malato di narcolessia e allucinazioni, secondo studi medici…
L’Italia risorgimentale, desanctisiana e carducciana si nutrì del culto di Dante e sognò il Veltro. Ruggiero Bonghi fondò la società Dante Alighieri, il fascismo lo celebrò come precursore d’Italia e della risorta romanità («La vision de l’Alighieri oggi brilla nei nostri cor», cantava Giovinezza), ma nessun grande poeta o scrittore italiano osò mettersi nel suo solco (D’Annunzio stesso, benché Vate, percorse altre vie). Chi si pose sulla scia di Dante nella modernità fu più la letteratura anglosassone, da Milton a Blake e ai romantici, fino a Eliot e Edgar Lee Masters con Spoon River e sopra tutti Ezra Pound, che fu l’unico poeta dantesco del Novecento. I suoi Cantos sono forse la sola opera moderna che si accosta a Dante e ne fa temerariamente il verso.
Il De Monarchia fu bruciato dal fallimento del progetto imperiale e poi fu realmente bruciato in pubblico, per ordine del cardinale Bertrando del Poggetto, dopo che fu sottoposto a dotta inquisizione dal frate Guido Vernani (riportata fra i documenti del De Monarchia). Dante era già morto ma furono insidiate dalla damnatio memoriae pure le sue ossa. Nel Convivio, dolendosi dell’esilio, Dante avvertiva i fiorentini che lo avevano cacciato da Firenze, «figlia di Roma», nel cui «dolcissimo seno» è «nato e nudrito fino al colmo della mia vita, e nel quale, con buona pace di quelli, desidero con tutto il cuore di riposare l’animo stanco, e terminare il tempo che mi è dato». Desiderio mai esaudito, le sue spoglie restarono a Ravenna.
De Monarchia è un’opera capitale non solo perché ebbe l’ardire «ghibellino» di rivendicare – nonostante la Donazione di Costantino, all’epoca di Dante considerata ancora autentica – l’indipendenza della potestas imperiale da quella papale. L’autorità del monarca temporale per Dante discende dalla Fonte divina senza intermediari pontificali. «Ah, Costantin, di quanto mal fu matre / Non la tua conversion, ma quella dote» (XIX canto dell’Inferno). Ma il De Monarchia di Dante fu soprattutto il ponte tra l’antico e il moderno, tra la romanità e l’umanesimo, tra la cristianità e la città terrena e si situa come punto di equilibrio tra il De civitate Dei di sant’Agostino e Il Principe di Machiavelli. Se per Agostino la civitas terrena è civitas diaboli e se per Machiavelli bisogna entrare nell’inferno per reggere le sorti dei popoli, Dante figura l’impero come paradiso in terra. L’autonomia della politica nasce con Dante, anche se la sua legittimazione resta celeste. Il diritto umano posto a fondamento dello Stato nasce con lui, anche se discende dal sacro. Dante prefigura lo Stato universale, quel sogno imperiale che attraversò i secoli, fino a noi. Fonte divina ma senza mediazione clericale.
La sua visione universale fondata sulla romanità passava dall’unificazione dell’Italia. La scala dantesca verso l’impero è nei tre canti sesti delle tre cantiche: all’Inferno è Ciacco che ricorda la corruzione politica, in Purgatorio è Sordello che lamenta la servitù d’Italia e in Paradiso è Giustiniano a celebrare l’impero che governa il mondo. Dante è politico anche nell’ispirazione poetica e la scelta di Virgilio come sua guida nell’oltretomba è motivata non solo dal suo essere altissimo poeta, ma dall’aver cantato la missione romana e il mito imperiale, da Enea ad Augusto.
In quel contesto sorge in Dante il mito del Veltro che restò poi per sette secoli la vana speranza d’Italia, l’invocazione del principe salvatore e del condottiero liberatore, del Dux e del Partito-Principe, del Capo che è sempre mancato. Il Veltro resta avvolto nel mistero, si sa solo che sarà mosso da «sapienza ed amore e virtute. E sua nazion sarà tra Feltro e Feltro. Di quell’umile Italia fia salute». Oracoli oscuri, ma che restarono impressi come l’archetipo delle utopie venture. Il Veltro, più che uomo della Provvidenza è Katechon, colui che affronta l’Anticristo e ricaccia nell’inferno la Bestia, colei che «fa tremar le vene e i polsi», che «non lascia altrui passar per la sua via» e «dopo il pasto ha più fame che pria».
La profezia di Dante si proietta come un ideale regolativo nei cieli vuoti della nostra Europa. Il sogno del Veltro significa oggi autonomia della politica dalla tecnica e dalla finanza, il nuovo clero e il nuovo papato di quest’epoca atea, e ritrova in sé, nel suo carisma, la fonte di legittimazione sovrana, senza passare per la Chiesa del nostro tempo, la Banca, i suoi ordini religiosi, le agenzie di rating, e la sua Trinità, la Troika.
Il Veltro dantesco resta ancora sospeso nei cieli dell’Utopia, necessario e impossibile.
L’Italia non fu fondata da un condottiero ma da un poeta. Non Garibaldi, non Vittorio Emanuele e tantomeno la Costituzione repubblicana, ma Dante. Fu lui a dare dignità al terreno primario e comune di una nazione, la lingua. Fu lui a riannodare l’impero e il papato, la civiltà cristiana e la civiltà romana, riconoscendoli come i genitori dell’Italia, con ruoli ben distinti. Fu lui a generare l’Italia dal suo mito. Certo, Dante vagheggiava la monarchia universale, ma fu il primo a considerare il fulcro di una rinascenza in Roma, nella Roma cattolica ma non clericale dove l’impero ha dignità pari a quella del papato. E fu ancora Dante a dare un mito di fondazione e una narrazione su cui costruire l’Italia, riannodandosi a Virgilio. Dante generò un’aspettativa d’Italia che altri scrittori – da Petrarca a Machiavelli, da Ariosto ad Alfieri, da Foscolo a Leopardi – poi coltivarono nei secoli. La nostra è una nazione culturale, nata non con la forza delle armi ma con la forza della poesia; da qui lo Stato fragile e l’identità tenace. Ma quel che resta, dice Hölderlin, lo fondano i poeti.
Da dove nasce il ruolo postumo di Dante come profeta dell’Italia? Certamente da una lunga tradizione culturale, da Byron che nella Profezia di Dante lo riconosce come il precursore e fondatore dell’Italia ventura, e prima di lui Vincenzo Monti e suo genero Giulio Perticari che scrisse Dell’amor patrio di Dante… E poi Mazzini che scrive anch’egli Dell’amor patrio di Dante e Goffredo Mameli che compone l’inno mazziniano Dante e l’Italia: «Del cener dell’Italia / La nuova prole è uscita. / Salve, sublime apostolo / Del verbo della vita, / Che il nuovo sogno errante / Stringi al pensier di Dante». Il dantismo nazionale prosegue con Cesare Balbo e Francesco De Sanctis, fino a Ruggiero Bonghi, e culmina con Giovanni Gentile. Fu Gentile a sostenere che «Il Risorgimento comincia con la stessa storia d’Italia» e trae il suo presentimento proprio da Dante, «nella cui storia si celano molti secoli della storia futura d’Italia» (I profeti del Risorgimento italiano).
Il riferimento a lui emerge nella riflessione dell’ultimo filosofo italiano che pensò l’Italia dentro la sua tradizione civile e religiosa, a partire da Dante. Mi riferisco ad Augusto Del Noce, cattolico e filosofo di un Risorgimento dantesco e civile, oltre che giobertiano e rosminiano. Per fondare la sua idea dantesca d’Italia, Del Noce si rifece in particolare al poeta e letterato veneto Giacomo Noventa e allo stesso Gentile. Per Noventa fu Dante a fondare l’idea dell’Italia sulla tradizione romana e cattolica, mediterranea e poetica. Ma fu soprattutto Gentile a vedere in Dante il profeta dell’Italia risorgimentale e moderna, in uno scritto dantesco del 1918. Egli vide in Dante non solo il sommo poeta ma anche il filosofo civile. A differenza di Croce, Gentile riconobbe, al «giornalista» ed economista Marx, e su un piano differente ai poeti e letterati Dante e Leopardi, dignità e potenza di filosofi e di profeti. A questa linea gentiliana si rifece Del Noce, quando considerò, da un verso la potenza filosofica di Marx, e dall’altro la valenza filosofica di Dante e Leopardi. Lui, cattolico, si riconobbe nella linea italiana di Gentile discesa da Dante, Petrarca e Machiavelli. Una linea non laica ma ghibellina (anche se Dante, come è noto, fu guelfo bianco, benché definito da Foscolo «ghibellin fuggiasco»); e una linea che, senza cedere al neopaganesimo e all’idolatria dello Stato, riconosceva una connotazione religiosa, giobertiana, al Risorgimento. Il nostro padre della patria eccelleva in un’arma immateriale: la parola. Nei momenti alti l’Italia si lascia guidare dai poeti, in quelli bassi dai parolai. Il pensiero, la poesia e la visione politica in Dante concordano e si muovono verso l’alto, con intelletto d’amore. Agli uomini restano le imperfezioni della loro vita terrena; i tormenti, le delusioni, gli affanni, l’esilio, gli amori mancati o solo sfiorati.
Petrarca
La solitudine come ascesi e rifugio
«Solo et pensoso i più deserti campi andòmesurando». Fu la solitudine il passo decisivo che portò Francesco Petrarca oltre Dante, fuori dal Medioevo. Sembrava un passo indietro, nel monachesimo degli anacoreti d’Oriente, e invece fu un passo verso la solitudine moderna del singolo, anche se ancora vestiva i panni curiali dell’eremita e poi dell’umanista. Ma era il prologo in cielo e poi nell’anima di quel destino di solitudine che secolarizzandosi, entrando cioè nella dimensione terrena e temporale, è il cuore profondo dell’individualismo, del soggettivismo, dell’atomismo che caratterizzano la condizione moderna. E se vogliamo, è il nucleo individuale di quella riforma protestante che ritroverà nella coscienza individuale il nocciolo del rapporto con Dio e col mondo, senza mediazioni ecclesiastiche, comunitarie o gerarchiche.
La traccia poetica di quel memorabile cambio di passo si può rintracciare in un giudizio celebre che divise Dante da Petrarca. Riguarda l’eremita Pietro da Morrone, più noto come papa Celestino V. Dante, si sa, lo collocò all’inferno tra gli ignavi per il suo vile rifiuto; la prospettiva era ancora sacrale, superiore alla dimensione personale, e rinunciare alla chiamata di Dio e all’elezione di Santo Padre restava comunque un’imperdonabile diserzione. Petrarca invece ritenne che il papa della rinuncia avesse agito nobilmente, «da uomo d’animo libero, ignaro d’imposizioni e davvero divino». Ma era il senso del divino di un uomo legato alla sua sensibilità personale, alla sua vocazione particolare, in definitiva al suo io, pur d’animo elevato.
Alla solitudine dell’animo nobile e colto, oggi diremmo alla solitudine dell’intellettuale, Petrarca dedicò uno splendido testo, De vita solitaria. Petrarca distingue tre tipi di solitudine: del luogo, del tempo e dell’animo. Il suo è il ritratto di un asceta umanista che legge le opere degli antichi e ne scrive «altre che saranno lette dai posteri», «portare gli antichi nel cuore, averli sulle labbra come qualcosa di dolce […] vivo con l’anima in mezzo agli antichi». L’eternità in Petrarca si converte nel tempo, si fa connessione di generazioni e trasmissione di opere; si volge al passato, ripensato nella solitudine dell’eremo di Valchiusa, dove in età matura ma non ancora grave Petrarca si è ritirato. Petrarca non è tuttavia solo un umanista, come sarà un Machiavelli, e non si limita a dialogare con i classici; è frate minore, è cappellanus continuus commensalis e alterna nella sua vita periodi di mondanità a periodi di ascesi. Da un verso c’è la vita di corte e l’intenso viaggiare, ma anche i figli illegittimi e le vicende amorose. Dall’altro verso c’è l’eremita del pensiero e la Provenza è il suo luogo eletto del ritiro, non lontano da Avignone dove in quegli anni ha sede il papato. Al di là della bellezza del testo in magnifico latino, De vita solitaria può essere letto anche con un significato ulteriore e allusivo alla crisi presente: la percezione di vanità dell’impegno spirituale e intellettuale nel mondo, la frustrazione di non poter incidere nella realtà tramite il pensiero e gli scritti, il bisogno di appartarsi e sottrarsi al baratro e alla barbarie che avanza: «Ciechi guidati da ciechi ci lasciano trascinare per luoghi dirupati […] tutto questo male è generato dalla non conoscenza dello scopo». Oggi diremmo la sostituzione degli scopi della vita con i mezzi. Qui sorge il piacere della vita solitaria, la gioia del presente pur nel rimpianto del passato e nella percezione della decadenza. La solitudine di Petrarca è anche lontananza dalla donna, «fabbrica perpetua di liti e di tormenti», incompatibile con la vita mite. Adamo, nota il poeta, era in paradiso da solo; appena ebbe la compagnia decadde dal paradiso. Quando siamo soli, dice Petrarca, noi ci offriamo a Dio, gli apriamo la nostra anima e deponiamo «il velame dell’inganno». Sembra questa la spiegazione del gran rifiuto di Celestino V, la verità raggiunta in solitudine, l’ascesi come premessa per l’incontro con Gesù Cristo. Una via che sconfessa la missione della Chiesa e la comunione dei fedeli. L’itinerarium mentis in Deum non passa da Santa Madre Chiesa.
Petrarca scrive che «Fra tanti solitari solo con lui –Pietro l’eremita – avrei desiderato vivere» e critica chi filosofeggia dalle cattedre ma «nella vita pratica fanno i pazzi». Il rifiuto della cattedra di Pietro diventa rifiuto di ogni cattedra. Paragonando la scelta di Pietro l’eremita a quella di Maria e di Marta sua sorella, Petrarca nota che Cristo predilige il modello di vita contemplativa scelto dalla Maddalena pentita rispetto alla vita attiva di sua sorella Marta. Petrarca distingue tra solitudine e desolazione, ritenendo che la vera solitudine sia benefica a molti e non solo a colui che la pratica. Splendida è la pagina petrarchesca di abbandono del vivere urbano: «Lasciamo la città ai mercanti, agli avvocati, ai sensali» e l’elenco continua puntiglioso, non risparmiando nessuno, neanche parassiti, ladri e perdigiorno. «Lasciali perdere, sono diversi da noi» e a nulla vale tenere al patrimonio, che finirà ad eredi ingrati o perfino a nemici; al corpo, platonicamente considerato nostro carcere, che sarà «preda dei vermi e delle upupe»; all’anima, che finirà nel Tartaro e al nome, che sarà dimenticato. Un soprassalto di malinconia che ricorda il medievale homo? humus, fama? fumus, finis? cinis (l’uomo sarà terra, la fama fumo e la fine cenere). Ma alla gloria terrena, storica e letteraria, Petrarca teneva più di ogni cosa, il De Africa fu il suo volo più ambizioso, l’alloro la sua aspirazione, più dell’aureola. Ma quando il suo sguardo volgeva dalla vita nei tempi alla vita eterna, ritrovava il senso di Dio.
Il motivo ascetico-religioso s’intreccia al ritiro dalla vita pubblica, al disincanto per la storia e alla disillusione verso i poteri mondani. Preludi di Montaigne, se volete.
La riflessione di Petrarca spiega la scelta di Celestino V (e quella di Benedetto XVI, molti secoli dopo), conforme alla sua indole intellettuale e spirituale che lo porta alla solitudine dello studioso e dell’umanista e a rifuggire dalla vanità dei poteri, col suo strascico di veleni. Ma la rinuncia ha due chiavi di lettura: una, escatologica ed ecclesiale, richiama la crisi spirituale della Chiesa in un mondo che le volta le spalle, l’irreligione che avanza in Europa e i dubbi che tormentano anche gli spiriti più religiosi. L’altra lettura, laica e umanistica, sottolinea il disagio dell’intellettuale estraneo alle logiche di potere e agli intrighi di corte e di curia. Il chierico si fa monaco. Sentirsi fuori luogo e fuori tempo, in un posto che non è quello che gli si addice e in un’epoca che volta le spalle al sacro. In quel preciso punto d’intersezione fra le due ragioni si situano il gesto di Ratzinger-Pietro e il testo di Petrarca. Un gesto che volta le spalle al magistero pastorale della Chiesa e al ruolo di Pontifex, ponte tra i fedeli e il divino, ed è proteso a incontrare Dio senza mediazioni ecclesiali, ma tramite preghiere, meditazioni e mediazioni intellettuali. Da solo a Solo.
Machiavelli
I mali chiodi della politica
La chiave dell’opera di Machiavelli è nel suo cognome e nel suo stemma di famiglia: nel simbolo araldico che spiega l’origine del suo cognome campeggiano i mali clavelli, i «quattro mali chiodi» che crocifissero il Signore e insanguinano la storia del mondo. La spiegazione migliore di quel blasone si può desumere da una sua lettera a Guicciardini: gli altri vorrebbero «un predicatore che insegnasse loro la via del Paradiso, et io vorrei trovarne uno che insegnassi loro la via di andare a casa il diavolo», perché «io credo che questo sarebbe il modo di andare in Paradiso, imparare la via dello Inferno per sfuggirla». Conoscere l’inferno, frequentare i diavoli, ma per ritrovare la strada e rivedere le stelle. È la via dantesca indicata da Machiavelli.
C’è in Machiavelli un intreccio di cinismo e candore che trova il suo equilibrio nel realismo politico. Cinismo nel valutare l’agire politico e i suoi moventi, rifuggendo i moralismi puritani; candore nel ritrovare la purezza nello studio dei classici e la venerazione per gli antichi, che poi sostanziano il suo amor patrio. Come scrisse in una memorabile lettera al Vettori, quando la sera rientra nel suo scrittoio, egli si libera della sua veste sporca del quotidiano, si mette panni reali e curiali e conversa «con le antique corti degli antiqui homini», e si pasce di quel cibo che «solum è mio» e «sdimentico ogni affanno», perfino la morte. Le ciniche impurità del giorno, in cui si è «ingaglioffato», vengono redente e obliate dal ritorno dell’umanista tra i suoi studi.
Al centro dell’opera di Machiavelli c’è la patria, e la sua concrezione politica e istituzionale, lo Stato; gli uomini ne sono locatari, sovrani provvisori, sudditi. Quando teorizza che si possono usare mezzi aspri per fini supremi, è meno cinico di quanto appaia: pone la priorità dell’amor patrio sull’amor di sé, sacrifica il bene personale al bene comune, propone di forzare i sentimenti e perfino la propria coscienza, l’anima, nell’interesse supremo della res publica. Più volte accostato a Lutero, Machiavelli in realtà indica la via opposta, la preminenza dello spirito pubblico sulla coscienza privata del singolo. Ed è sempre più alta l’etica del fine che giustifica i mezzi, con cui di solito si volgarizza e brutalizza il machiavellismo, rispetto alla più frequente antimorale dei mezzi che si sostituiscono ai fini (Simone Weil: «Il male essenziale dell’umanità è la sostituzione dei mezzi ai fini»): la corruzione nasce quando i mezzi diventano i fini e pervertono la politica, quando il potere e la ricchezza, non la patria e il bene comune, diventano gli scopi dell’agire. In una lettera a Soderini, messer Niccolò spiega il rapporto tra mezzi e fini, sostenendo una cosa assai diversa: «Si habbi nelle cose ad avere el fine et non el mezzo», ovvero bisogna concentrarsi sullo scopo e non fermarsi ai modi per conseguirlo. Il fine trascende i mezzi, non sempre li giustifica.
«Dove è religione», nota il segretario fiorentino, «si presuppone ogni bene, così dove ella manca si presuppone il contrario». Gli uomini senza timor di Dio, aggiunge nel Principe, «non hanno fede con li uomini». Basterebbe leggere la sua Esortazione alla penitenza per trovar conferma di questo atteggiamento. O la denuncia dell’Italia che ha perduto se stessa perché ha smarrito «ogni divozione o religione». Quando Machiavelli avverte che «se gli uomini fussero tutti buoni questi precetti non sariano buoni», traduce in termini politici l’idea dell’imperfezione costitutiva dell’umanità, come nel peccato originale. Il principe, per lui, «non deve partirsi dal bene, potendo; ma saper intrare nel male, necessitato», giacché «uno Principe per mantenere lo Stato è spesso forzato a non essere buono». Gli uomini lasciati allo stato naturale sono portati alla malvagità; lo Stato assume a livello civile un ruolo analogo a quello della Chiesa in senso pastorale. Tutto questo era già in nuce in sant’Agostino, che Prezzolini in un lucido saggio accostò proprio a Machiavelli (e in san Gregorio Magno). Ambedue avevano infatti concepito lo Stato come un’auctoritas necessaria per correggere il male di una società allo stato naturale. Ireneo osservava che il governo era necessario agli uomini perché essi si erano distaccati da Dio, odiavano i loro simili e vivevano nel disordine. E così Dio impone il potere per costringere gli uomini alla giustizia. Machiavelli non si discosta da questa tradizione realista e pessimista sulla natura umana. A differenza dei predecessori, Machiavelli sancisce l’autonomia della politica; ma è la stessa autonomia che Dante nel De Monarchia riconosceva all’Imperium rispetto al papato. Lo Stato è inteso da molti autori cristiani come il male minore per rimediare al peggiore dei mali, l’anarchia dello stato primitivo che richiama il peccato originale. «Mantenere incorrotte le cerimonie religiose e tenerle sempre nella loro venerazione», scrive nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, è priorità assoluta di ogni Stato. Non è solo visione opportunistica e strumentale della religione, ma è riconoscere in essa la scaturigine e il collante del legame sociale. Vera re-ligio, dunque, la religione appare a Machiavelli, costitutiva dell’essere umano: nasce con l’uomo, «dove l’uomo è nato».
Al politico, secondo messer Niccolò, occorre «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique». Da una parte egli sconsiglia l’introduzione «di nuovi ordini», ma dall’altra freme in lui la tensione ideale verso «un omo che di nuovo surga» e «faccia le nuove leggi e li nuovi ordini». «Di nuovo surga» si tradurrà poi con Ri-sorgimento. Il conservatore Machiavelli, nutrito di pessimismo sulla natura umana, diverrà perciò agli occhi dell’arciconservatore Guicciardini «ut plurimum extravagante di opinione dalle commune et inventore di cose nuove et insolite». Del resto, lo stesso Machiavelli che sottolinea l’impossibilità di deviare dalla natura e dall’esperienza storica, e di uscire dal «medesimo ordine», esalta poi il conflitto politico e sociale come motore dell’innovazione e garanzia di libertà. Ripudia il conflitto permanente che diviene «cagione della rovina del vivere libero», ma ammette che in certe fasi i conflitti siano necessari. Laddove non ci sono mai conflitti muore la libertà, laddove si eternizzano i conflitti muore la comunità. La permanenza delle controversie conduce la res publica alla rovina.
Dall’Europa degli Stati moderni all’Italia risorgimentale, fascista e gramsciana, dagli Stati Uniti alla Cina di Mao, Il Principe di Machiavelli è il capolavoro riconosciuto alle origini della politica moderna e dei suoi studi. Un’opera scientifica e letteraria che assegna a Machiavelli il ruolo che Colombo, Lutero e Galilei hanno avuto in altri ambiti. Scopritori di nuovi mondi. Molto citato, troppo frainteso, qual è la lezione che Machiavelli ci ha dato cinque secoli fa? Proviamo a dirlo in sintesi.
Innanzitutto il realismo, malamente tradotto in cinismo. Occorre la forza per consolidare il consenso, non bastano i virtuosi sermoni, i profeti disarmati come Savonarola vanno in rovina. Realismo vuol dire anche duttilità: «le diverse operationi qualche volta equalmente giovino e equalmente nuochino»; ordini e tempi sono vari, può accadere pure che «dua diversamente operando abbino uno medesimo fine». Insomma, meglio seguire «la verità effettuale della cosa» che «l’immaginazione di essa». La realtà contro l’utopia.
In secondo luogo, l’essenza del politico, dicevamo, è nel conflitto. Prima di Hobbes e secoli prima di Carl Schmitt, Machiavelli insegna che «lo stare neutrale» non è utile a nessuno, che i conflitti rinvigoriscono gli Stati, le milizie mantengono gli uomini fedeli, pacifici e timorati di Dio; ma pure i conflitti sociali sono fecondi. Prima di von Clausewitz, Machiavelli già ritiene che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi. L’arte della guerra è centrale nel suo pensiero: in lui si profila, rispetto ai soldati di ventura – i mercenari del suo tempo –, la preferenza per una leva popolare che costituisca l’esercito degli Stati, spezzando così la diretta dipendenza dei soldati dalle ricchezze dei principi. È il passaggio alla guerra e allo Stato moderni. Ma messer Niccolò ritiene che il conflitto giovi anche a livello sociale. In polemica con Guicciardini, egli osserva che gli scontri nell’antica Roma tra plebe e Senato produssero i tribuni a guardia della libertà del popolo romano. Per lui i conflitti sociali esaltano le virtù repubblicane e giovano ai popoli al pari della concordia sui beni condivisi. «Se i tumulti furono cagione della creazione de’ tribuni meritano somma laude; perché oltre al fare la parte sua all’amministrazione popolare, furono costituiti per guardia della libertà romana».
In terzo luogo, il decisionismo. Machiavelli ribadisce il primato dell’azione sulla teoria, sull’ideologia e sul moralismo. Affermando la decisione come norma sovrana dell’agire, Machiavelli ricorda in una lettera al Vettori: «è meglio fare e pentirsi che non fare e pentirsi». O come scrive nel Principe: «Meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». Dio lascia nelle nostre mani il libero arbitrio per non toglierci «parte di quella gloria che tocca a noi». «Credevano i nostri principi italiani», scrive nell’Arte della guerra, «che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi, pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude… volere che le parole loro fussero responsi d’oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano a essere preda di qualunque gli assaltava». Il sovrano deve usare l’arte suprema della decisione, da cui scaturisce l’autonomia della politica. La politica è un’arte e i principi, come gli artisti, devono sporcarsi le mani. Il governo è la loro opera d’arte. Il sovrano è dux, è condottiero.
A far da contraltare al decisionismo c’è in Machiavelli – quinto punto – il rispetto dell’ordine naturale. Non si può deviare «da quello a che la natura lo inclina». Anzi, «gli uomini nacquero, vissero e morirono sempre nel medesimo ordine». Il naturalismo machiavellico non è sinonimo di immobilismo; la storia procede, l’agire è necessario, lo scontrarsi pure. Ma alcune costanti dell’agire umano si ripeteranno sempre, l’ordine naturale delle cose non sarà modificato, ogni progresso su un piano costerà qualche regresso su un altro. E l’uomo non nasce buono: Machiavelli è più vicino a sant’Agostino che a Rousseau.
Infine, dicevamo, Machiavelli coglie l’importanza civile della religione per la coesione sociale e la salvezza della res publica. «Nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino». La politica attinge energie e coesione dalla tradizione. Il rinnovamento è concepito come ritorno alle origini. Una repubblica «è necessario ritirarla spesso verso il suo principio», in modo che i suoi cittadini riconoscano la fonte comune. La società di Machiavelli è un corpo organico, dunque una comunità, e ogni rinnovamento «è una purgazione la quale è salute del corpo». I suoi esempi di renovatio sono proprio gli ordini religiosi, domenicani e francescani, che vogliono ricondurre la fede allo spirito delle origini. «Una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique». Ecco il principe e le sue sette vite, secondo messer Niccolò. Cosa muove Machiavelli e anima il suo principe? Di solito si risponde: la volontà di potenza. In realtà Machiavelli ha un ideale politico a cui sacrifica pure se stesso: «Amo la Patria mia più che l’anima mia». Dietro il principe c’è il patriota, e dietro di lui si cela l’umanista, innamorato dei classici coi loro fulgidi esempi. Nelle sue pagine si respira più grandezza che cinismo.
Quando Villari descrive un Machiavelli onesto e retto, fervente patriota, amico leale e generoso, perfino devoto e preoccupato dei figli, cede probabilmente all’oleografia di maniera per nobilitare i precursori del Risorgimento e i padri della patria. Ma questo ritratto non è meno vero di quello cinico e gaudente che solitamente si descrive di lui, metà volpino e metà leonino. Non è un paradosso se nell’ultimo decennio della sua vita egli abbia trovato più ascolto e sostegno presso papi e cardinali che presso i governanti. La sua lezione trovò udienza tra i gesuiti, che capirono la cruda realtà del potere e i suoi cinici meccanismi ma, a differenza sua, non ebbero l’ingenuità di svelarla e di riconoscerla come inevitabile. Machiavelli, l’Imperdonabile.
Machiavelli donò e dedicò il primo esemplare del Principe al duca Lorenzo, insieme a due cani da caccia. Il sovrano apprezzò molto i due segugi, trascurando il libro. Ma Il Principe di Machiavelli restò nei secoli e nel mondo; di quel Lorenzo, invece, non si ricorda nulla, quasi come i suoi cani.
Vico
Una luce oltre la modernità
Gli costò un anello di famiglia la pubblicazione a sue spese, in edizione ridotta per risparmiare, della sua opera capitale, La scienza nuova (1725). Giambattista Vico pensò la sua Scienza al tempo del soggiorno in palazzo de Vargas a Vatolla, il castello «di bellissimo sito e di perfettissima aria» dove per una decina d’anni fu precettore della famiglia Rocca; qui s’innamorò della figlia del signore, che non ricambiò, e lui ne cantò perfino le nozze, scrivendo con la morte nel cuore un elogio alla sposa che si maritava.
Vico esordì da avvocato per volere del padre, e la sua prima causa fu in difesa di lui; poi difese pure il genero. Abbandonò il foro, cercò senza fortuna un posto fisso al municipio di Napoli; poi ebbe la cattedra di Retorica, un ripiego rispetto all’ambita cattedra di Diritto romano. E il matrimonio, il lagnarsi continuo dei suoi malanni, la sua fama di seccatore dal parlare troppo forbito; malato di scorbuto o, come lui diceva, «di natura malinconica e acre, qual dee essere degli uomini ingegnosi e profondi». Le sue opere pubblicate con difficoltà e spesso ignorate. Poi raddoppiò lo stipendio diventando stenografo regio. Infine, con familismo amorevole, lasciò la cattedra al figlio Gennaro. Da intellettuale della Magna Grecia, Vico riconosceva di avere «poco spirito» nelle cose che riguardano «le utilità». Bocciato all’unanimità al concorso di Diritto civile, fu umiliato come autore per l’insuccesso del suo testo sul Diritto universale: «Sfuggo tutti i luoghi celebri per non abbattermi in coloro ai quali l’ho mandata… non dandomi essi né pure un riscontro di averla ricevuta, mi confermano l’oppinione di averla io mandata al diserto». Vico ebbe tormentati funerali, replicati il giorno seguente, con la salma rimandata a casa dopo le esequie – una grottesca metafora dei suoi corsi e ricorsi in sceneggiata napoletana – per un conflitto tra i docenti d’ateneo e i confratelli della congregazione di Santa Sofia. Solo nel fatidico 1789, cioè quarantacinque anni dopo la sua morte, grazie a suo figlio Gennaro, ebbe adeguata sepoltura.
Profeta delle proprie sventure, Vico fu però profeta anche della propria grandezza. «Vico», scrisse di sé, «con gloria della cattolica religione, produce il vantaggio alla nostra Italia di non invidiare all’Olanda, l’Inghilterra e la Germania protestante».
Vico è l’unico filosofo riconosciuto come padre nobile dalle culture che dominarono il Novecento: laico-liberale, cattolica, nazionalfascista e italomarxista. Non è accaduto a nessun altro autore. Salvo poi dimenticarlo, nella rimozione collettiva della tradizione crociana, gentiliana, gramsciana e cristiana. Crocevia di idealisti, spiritualisti, storicisti e materialisti, Vico ha pagato lo scotto dell’amnesia culturale d’Italia, scontando ideologie e storie di cui non ha colpe. E diventò imperdonabile. Vico incarna al più alto livello la tradizione italiana, mediterranea, cattolica e comunitaria rispetto all’Europa nordica, protestante, calvinista, individualista. Conciliò nel suo pensiero autorità e libertà, tradizione e modernità, cattolicesimo e classicità, monarchia e popolo, leggi tribunizie e consolari, filosofia e storia, Platone e Tacito, Machiavelli e Agostino.
Prima di Hölderlin e Heidegger, riconobbe la poesia come fondazione del linguaggio. Vichiana fu la concezione della storia come una spirale che concilia la visione lineare e progressiva ebraico-cristiana con la visione circolare e sferica dell’antichità pagana e orientale, tratta dai cicli cosmici e naturali. I ricorsi della storia non sono ripetizioni, ma analogie cicliche, su un piano più alto. Vichiana fu l’intuizione dell’eterogenesi dei fini, secondo cui le conseguenze storiche rovesciano le intenzioni originarie: nella storia «agisce una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi particolarii ch’essi uomini si avevan posti». O l’idea, evidenziata da Isaiah Berlin, che l’uomo possa comprendere se stesso e i propri simili solo se comprende il passato. Solo in virtù di quell’esperienza o tradizione, ricostruita tramite l’immaginazione, egli è in grado di comprendere i suoi simili, comunica con loro e diventa pienamente umano. Per Vico le cose nascono, vivono e muoiono in un processo di sistole e diastole; la storia, scriveva nel De Antiquissima Italorum Sapientia, segue una specie di moto cardiaco in cui contrazione e distensione, sistole e diastole, corrispondono a continuità e innovazione.
Nella Scienza nuova, d’intorno alla comune natura delle nazioni difese le tradizioni volgari che «nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempo». Fu scritta per «ritrovarne i motivi del vero», col volger degli anni «ricoverto di falso». Il cuore delle tradizioni e del diritto naturale è nella loro universalità; popoli «tra essoloro non conosciuti» coltivano lo stesso patrimonio di idee, riti e simboli. Sotto le tradizioni c’è il senso comune ch’è «un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito»; la storia sacra è invece «la storia ideal eterna sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni». La scienza nuova è una «teologia civile ragionata della provvidenza divina», ma anche filosofia dell’autorità, che è «il senso comune del genere umano sopra il quale riposano le coscienze di tutte le nazioni». Per Vico sia i governi sia i poeti devono essere organici ai loro popoli. La poesia è grande se riflette, suscita e rigenera la tradizione della comunità, ovvero se sa «ritrovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco» e sa insegnare al volgo a «virtuosamente operare». È la riscoperta filosofica del mito, come origine e fondazione del mondo.
La sua prima critica al pensiero cartesiano nasce sulla sponda di un bigliardo in un salotto napoletano, dove naufraga la teoria cartesiana di un matematico applicata a una partita di bigliardo. L’elogio in poesia dell’emigrato intellettuale, la descrizione dei nobili del Sud come ingegni addormentati nei piaceri della vita allegra, il Sud pensoso ma inoperoso, il culto della famiglia «seminario delle repubbliche», il legame geostorico fra satira e vendemmia, quando si consentiva ai contadini, anzi ai «vendemmiatori della nostra Campagna felice», di dire villanie ai nobili nella «stanza di Bacco». La sua teoria meridionale dell’ingegno fantasioso, l’elogio della quiete – stato metafisico –, mentre il moto è fisica bruta, l’idea di costituire «una metafisica adatta alla debolezza umana», sartoriale, a misura d’uomo… l’amor fati baciato dalla Divina Provvidenza in un crocevia tra corsi cristiani e ricorsi pagani, la fantasia creatrice e l’anima poetica, l’ideale convertito alla realtà anzi calato nella storia come un vento che anima e scuote le piante, il divino come un raggio di sole sulla terra; il fruttuoso intreccio di storia e natura, gli ingegni sprecati e il familismo, lo spirito dell’emigrante e la fervida malinconia del meridionale d’intelletto. Tutto è condensato nel pensiero mediterraneo di Vico, non c’è luce, pianta, umanità che non sia rifratta nella metafisica vichiana.
La Provvidenza, a cui Vico si richiamò costantemente, non fu generosa con lui, «non volle costituirlo in agiata condizione», come scrisse nella sua autobiografia; ebbe una vita difficile dalla nascita alla morte. Nacque in una modesta famiglia di origini contadine, in un angolo di Napoli dove il padre aveva una piccola libreria. Un referto medico lo indicava da piccolo, in seguito a una caduta, destinato a morire presto o a restar «stolido». Da qui il nomignolo di Tisicuzzus per il suo corpo esile e cagionevole. Ma neanche da sposato sfuggì a una vita infelice, tra un nugolo di figli (otto, come la famiglia da cui proveniva) che gli impedivano di concentrarsi tra «gli strepiti domestici» e qui ricordo una testimonianza analoga del siciliano Gentile (questi filosofi del Sud con famiglia numerosa e rumorosa che continuavano le loro letture e le loro scritture tra gli strepiti infantili e le incombenze domestiche); una moglie «dotata di puri e ingenui costumi», analfabeta e anche poco pratica delle faccende domestiche, che lo costringeva a prendersi cura delle cose di casa e perfino dei «vestimenti» della prole, dalle fasce in poi; due figlie amatissime, che gli davano «leggiadro trastullo», ma pure un figlio «traviato», Ignazio, per il quale fu costretto a invocare i birri per imprigionarlo, salvo urlargli, in un sussulto di amore paterno, di mettersi in salvo mentre lo stavano acciuffando su sua denuncia.
Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni… fu una difesa delle tradizioni volgari che «devono aver avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempo». Compito della scienza nuova dovrà essere quello di «ritrovarne i motivi del vero, il quale col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso». A livello più basso delle tradizioni c’è il senso comune che è «un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito»; la storia sacra è invece «la storia ideal eterna sulla quale corrono in tempo tutte le nazioni». Le repubbliche per Vico reggono sul «tradizionismo», la religione e le consuetudini civili; si scorge un’eco della tradizione italica, pitagorica, fiorita al Sud. Il suo simbolo è musicale, la lira, discesa da Apollo, Mercurio e Orfeo, «l’unione delle corde de’ padri, onde si compose la forza pubblica che si dice imperio civile». Quella sapienza originariamente portata dagli egizi, per poi espandersi nel meridione «e riuscitovi dottissimo li sarebbe piaciuto fermarsi nella Magna Grecia, in Crotone, ed ivi fondar la sua scuola».
Vico ebbe mente intuitiva e letteraria più che analitica e scientifica. Realismo metafisico è il pensiero che anima la sua Scienza nuova, che ebbe fama solo alla seconda edizione, quando per Vico stava calando la notte e lui, «aggitato e afflitto, come ad ultimo sicuro porto, lacero e stanco, finalmente ritragge». Tipico ma non ingiustificato vittimismo meridionale. Vita oscura di un luminoso pensatore.
Leopardi
La verità è dolore ma si fa poesia
Nessun autore ha saputo guardare in faccia la verità della vita e del mondo come Giacomo Leopardi. Ci sono più grandi filosofi, grandi scienziati ed eminenti poeti, ma nessuno ha svelato la condizione umana con la sua implacabile e acutissima lucidità, senza concedere alibi o ripari. La sua opera è la più alta rivelazione dell’«umanità»; oltre c’è solo la Rivelazione divina. Il pensiero che s’inoltrò sulla sua strada e affrontò i suoi temi –Schopenhauer, Nietzsche, l’esistenzialismo – non superò il suo punto d’arrivo, se non mediante il salto nella fede o nella follia. La sua visione della vita e del mondo esclude che anche il dolore, come la gioia, possa essere un pregiudizio soggettivo che altera la sostanza pura della vita, il suo gioco cosmico al di là del bene e del male; a noi tocca solo scommettere che sia mero caso nel caos o destino che si collega a un ordine. Leopardi si ferma alla disperazione che precede la scommessa e degrada la scommessa a illusione. Imperdonabile. E tuttavia Leopardi è il poeta e il pensatore più religioso della modernità. Religioso non vuol dire credente né devoto. La sua è una visione radicale e universale della vita in rapporto alla morte e al dolore. Leopardi resta religioso anche nella disperazione: il desiderio ardente di morire che accompagnò la sua breve vita non lo indusse al suicidio. Corteggiò la morte per anni, la invocò tante volte, ma non si lasciò mai conquistare dall’idea di togliersi la vita. Perché, spiegò nel dialogo tra Plotino e Porfirio, suicidandosi «tutto l’ordine delle cose saria sovvertito». La certezza che tutto sia connesso in un ordito è l’essenza propria della religio e l’idea che infrangere quell’ordine sia il supremo sacrilegio è quanto di più religioso si possa pensare. Che poi dietro la Trama del cosmo, dietro l’ordine di tutte le cose ci sia un Autore o un’Intelligenza e dopo la morte vi sia la resurrezione, questo riguarda la fede o il suo rovescio, l’illusione, non il pensiero inesorabile di Leopardi. In lui lo scacco della Fede non segna il trionfo della Ragione, perché il naufragio riguarda ambedue, anch’essa si rifugia nelle illusioni: da qui il suo pensiero tragico, divergente dai Lumi e da ogni storicismo, progressismo o razionalismo. E da qui la sua ultrafilosofia, che al sistema filosofico preferisce il canto, la poesia, lo zibaldone di pensieri sparsi. Perché è rivolta alla vita e al mondo, non alla pura teoria e alle sue architetture concettuali.
Oltre che religioso, il pensiero di Leopardi ha una relazione intensa con l’amor patrio. Sono tante le pagine leopardiane contro il paese natio, contro l’Italia e gli italiani cinici e irridenti, privi di costumi; tutto il pensiero leopardiano e la linea che poi ne discese condannò la retorica patriottarda e le sue pompose finzioni. Ma è come se volesse rendere l’amor patrio più vero e severo, essenziale, antiretorico, privo di fanfare, raccolto nella gloria dei «nostri padri antichi» e nel rimpianto di tanta altezza caduta «in così basso loco». Risuona l’amore per l’Italia nei suoi versi e affiora una concezione eroica della vita che si esprime nel culto dei vinti; Ettore ne è il simbolo.
Sagaci e penetranti sono le osservazioni leopardiane sull’amore astratto per l’umanità, la filantropia e il cosmopolitismo, esaltati dall’illuminismo: «Non si odia più lo straniero? Ma si odia il compagno, l’amico, il padre, il figlio […]. Non si odiano, non si opprimono i lontani e gli alieni? Ma si odiano, si perseguitano, si sterminano i vicini, gli amici, i parenti, si calpestano i vincoli più sacri». E sempre nello Zibaldone aggiungeva: «L’amore universale, distruggendo l’amor patrio non gli sostituisce verun’altra passione attiva, e quanto più l’amore del corpo guadagna in estensione, tanto più perde in intensità ed efficacia […]. Quando cittadino romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo. L’amor patrio di Roma, divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo; e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono coi fatti». Una critica ante litteram alla globalizzazione, allo sradicamento e alla cittadinanza aperta.
Anche il Leopardi in fuga dalla casa paterna, dalla famiglia e dai suoi precetti, dedica poesie, lettere e pagine di un amore intenso e raro al suo Carissimo Signor Padre, che poi diventa Mio Caro Papà, a sua sorella Paolina, a suo fratello Carlo. Un amore tenerissimo verso la famiglia, non privo di asprezze e di rigetti, ma autentico, ardente, devoto. Soprattutto verso i fratelli. La famiglia resta l’alveo affettivo leopardiano, la sua solitudine trova rifugio, anche nella lontananza, nei suoi familiari.
Al di sopra dell’amore per la famiglia, per la patria e per la religio, non c’è che l’amore disperato per la verità. Se deve scegliere tra Dio e il Vero, tra la Famiglia e il Vero, tra l’Italia e il Vero, Leopardi sceglie senza indugi il Vero. Ma sul piano dell’amore tutto resta inalterato, anzi, la contraddizione con la verità carica l’amore di un pathos altrimenti inattingibile. La verità diverge dall’amore come la realtà dall’illusione. Quanto all’amore deluso verso le donne, sconcerta la cosmica grandezza dei pensieri suscitata da amori non corrisposti. Mobilitare i cieli, l’eterno e l’assoluto, la mente e il cuore, per un’ignara, comune mortale che a lui si nega… Che sproporzione, che spreco, che grandiosa incongruità. Ma di queste incongruità è ricca la vita di Leopardi: piccole gioie e più piccoli sollievi attenuarono a volte la sua disperazione e i suoi neri propositi, una granita di limone tardò o addolcì il suo appuntamento con la morte. I sussulti puerili del cuore alleviarono la sua mente acuta.
Sul piano storico Leopardi colse l’importanza dei pregiudizi e delle illusioni, detestò la politica giacché gli individui «sono infelici sotto ogni forma di governo». Sul piano etico Leopardi lodò la nobiltà dell’inutile, la gloria delle imprese vane. Sul piano estetico riconobbe commosso il primato della bellezza, ma sul piano umano contraddisse l’ideale classico del bello e buono, notando che la bellezza insuperbisce chi la possiede mentre la bruttezza incammina verso la virtù. Sul rifugio nelle illusioni si può forse obiettare qualcosa: e se tra la verità e l’illusione, la realtà e la menzogna, ci fosse una terra di mezzo alla quale affidare il nostro approdo e forse la nostra salvezza? Su quella terra di mezzo, per esempio, sorgono i miti, che non sono verità ma nemmeno finzione, solo un modo diverso di concepire la vita e intendere il mondo sotto altra luce, con altri occhi.
Leopardi filosofo, come lo riteneva Gentile, è il vero padre, patrigno o fratello maggiore dell’individualismo tragico e della linea antitaliana anche quando sposa il patriottismo; si oppone al trionfante spirito del conformismo, sia esso arcitaliano che esterofilo. Come in Leopardi, anche l’individualismo tragico oscilla tra pensiero poetante e frammento, il modello è lo zibaldone, non la teoria generale dello spirito. La linea leopardiana si esprime su due versanti: quello propriamente filosofico ed esistenziale, attraverso la disperata metafisica dell’Io in un cosmo disabitato di senso; e quello civile e sociale, critico verso la dimensione retorica, consolatoria, apparente della vita pubblica. Un’amara diagnosi dei costumi ipocriti della borghesia filistea, un amor patrio sobrio e severo, antiretorico, un disincantato sguardo, a grande distanza, dalla storia dei vincitori e dal potere. Anche la patria non è solo un’eredità da difendere o un grumo di verbosità da ostentare: l’autenticità è l’antidoto contro la retorica, il trionfalismo e la cialtroneria. In una parola, contro l’inautenticità e la volgarità trionfante; quello che poi Hermann Broch riconoscerà nel Kitsch. Ma la polemica antiretorica non risparmia nemmeno la retorica del progresso e della tecnica, del socialismo e del filantropismo umanitario. Una polemica conservatrice e scettica, antifuturista e antiprogressista. Tracce leopardiane si ritroveranno nel Papini precristiano e nei suoi sodali, a partire da Prezzolini; in Otto Weininger e Carlo Michelstaedter, Giuseppe Rensi, in parte Tilgher, fino ad Andrea Emo. E lontani echi nel kulturpessimismus. Il torrente tragico del leopardismo ha continuato a scorrere sommerso sotto il trionfante storicismo degli idealismi in conflitto.
Il pensiero negativo di Leopardi ha un approdo finale: è l’Oriente, inteso come il luogo simbolico in cui si dissipa ogni illusione legata all’individuo per rifluire e disciogliersi nel grembo assoluto della Natura. Oblio immoto del mondo e «già ci par che sciolte giaccian le membra mie, né spirto o senso più le commuova, e lor quiete antica co’ silenzi del loco si confonda» (La vita solitaria). La tragedia del vivere per Leopardi risiede nell’individualità che separa dal tutto; viceversa la salvezza, o almeno la pace, è rientrarvi sciogliendosi nel tutto, estinguere la vita individuale nell’oceano dell’essere. «E il naufragar m’è dolce in questo mare…».
Prima di poetare sulla vita e sulla morte, Leopardi adolescente le affrontò sul piano della filosofia; prima d’illuminarsi di luna e d’infinito, studiò gli astri e il cosmo. Versi che sembrano sgorgati da stati d’animo provengono da lontano, da studi precoci e pensieri sofferti. Stringe il cuore a leggere i tanti passi in cui Leopardi confessa il suo disagio di essere al mondo e di sentirsi rifiutato. Deriso dai giovinastri di Recanati o additato a Napoli come o’ scartellato. Ma se non fosse stato gobbo, brutto, respinto dalle donne e irriso dalla gente, se avesse avuto una vita e un corpo come gli altri, avrebbe mai raggiunto quelle altezze e quelle profondità? Su quali sentieri lo avrebbe dirottato la vita? Non dobbiamo, con la morte nel cuore, benedire crudelmente l’amore negato, il fuoco della vita negato, il corpo deforme, per i doni sublimi che provocarono? Del resto lui stesso era consapevole del nesso tra bruttezza e grandezza, forse intuì quel che poi la psicanalisi avrebbe chiamato sublimazione, e si dispose a barattare la vita con la gloria: «Voglio essere infelice piuttosto che piccolo e soffrire piuttosto che annoiarmi». «Il ritratto è bruttissimo: nondimeno fatelo girare costì, acciocché i Recanatesi vedano cogli occhi del corpo (che sono i soli che hanno) che il gobbo de Leopardi è contato per qualche cosa nel mondo». Ma pure alla gioia Leopardi aspirò invano: «Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita; il mondo non mi par fatto per me». Inadeguato al mondo, senza consolanti vie di scampo, Leopardi mise a nudo la verità della vita. Implacabile. Benché solitario, resta il più fraterno tra i poeti e pensatori. Nei secoli fratello.
Schopenhauer
Il genio è un bambino malinconico
Ma chi è un genio, cosa lo distingue dal resto degli uomini? Non è una domanda fuori posto e fuori tempo. La nostra epoca fondata sulla mediocrità di massa è la negazione del genio. Conta l’abilità, il calcolo, la furbizia, al più il talento, ma la genialità è un’anomalia imperdonabile. Però, dall’altra parte, serpeggia l’illusione d’una genialità di massa, attraverso l’uso estroso della trasgressione: si ritiene che la sregolatezza decreti il genio. È il frutto estremo di quell’onda lunga chiamata Sessantotto: la creatività diffusa, la fantasia al potere, la vita come capriccio e stravaganza. C’è oggi uno spreco di aggettivi esagerati, e geniale è tra i più abusati. Dunque la nostra epoca disprezza l’Eccellenza, ma è popolata di geni estemporanei per autoacclamazione o per decreto esagerato di chi li ama (ogni scarrafone è genio a mamma sua). A parlarci del genio lasciate dunque che non sia un osservatore scientifico, uno studioso immune, ma un genio vero. Anzi un genio filosofico che visse con la frustrazione del genio incompreso. Dico di Arthur Schopenhauer, catalogato negli inventari liceali come il padre del pessimismo, il fratello di Leopardi, lo zio putativo di Nietzsche. Ma anche il nemico giurato di Hegele degli idealisti, colui che osò tener lezioni di filosofia alla stessa ora di Hegel nella stessa università a Berlino, col risultato disastroso di perdere il confronto o la controprogrammazione, come diremmo oggi col linguaggio dei palinsesti televisivi. Di Schopenhauer potremmo soffermarci sull’opera e sui pensieri, sulla grande breccia orientale che aprì nella mente occidentale, attaccando tre giganti in un colpo solo: la storia, la ragione e la religione. Perché lui riuscì nella grande impresa di scuotere l’albero della cristianità e della fede annessa, così come delle sue istituzioni, e insieme l’albero della razionalità, dall’illuminismo all’idealismo. E segnò la fuoruscita dalla storia, e dalla sua febbre, che avrebbe invece pervaso il pensiero e la vita dei due secoli seguenti, oltre che del tempo suo. Qui invece ci interroghiamo su un tema che lo investì personalmente, il genio.
Schopenhauer vide andare al macero il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione. Salvo vedersi riconoscere in tarda età la sua grandezza e morire in odore di genialità. Oggi molta della sua fortuna è dovuta a una serie di libretti curati da Franco Volpi che estrapolò dall’opera di Schopenhauer pagine scintillanti sull’arte di trattare le donne, la vecchiaia, l’insulto e così via, pubblicate da Adelphi. Sulla scia del culto romantico del genio, Schopenhauer dedicò, oltre che la personale frequentazione di Goethe, il genio della sua epoca per antonomasia, alcune pagine del Mondo, dei suoi supplementi, ma anche dei suoi Parerga e paralipomena, un titolo spaventoso per una lettura invece piacevole e meno professorale dei testi hegeliani.
Dunque, chi è il genio? Sintetizzo le sue riflessioni sparse, lasciando da parte le spiegazioni fisiologiche, un po’ datate. Genio è colui che sa vedere l’assoluto nel particolare, sa andare oltre i fenomeni e trascende la soggettività nello sguardo oggettivo. Il genio procede da una conoscenza intuitiva, sottratta alla sua volontà; il suo cervello non appartiene a lui ma al Mondo. Il genio è come se vedesse le cose da una postazione più alta, dove si perde il soggettivo punto di vista, in cui le cose appaiono collegate e rischiarate dalla luce oggettiva del giorno e non dal lume personale. La sua lanterna è il sole, non il lume della candela.
Il genio ha un’energia intellettuale superiore applicata a ciò che vi è di generale nell’essere. La concezione intuitiva, spiega Schopenhauer, è l’atto generativo di ogni autentica opera d’arte o pensiero immortale. La fantasia è un suo strumento indispensabile per trascendere il reale nel possibile. Vedere sempre il generale nel particolare, ecco il tratto distintivo del genio rispetto all’uomo comune e alle donne. Egli coglie l’essenza delle cose, andando contro la natura che invece congiunge intelletto e volontà. Quella separazione porta la genialità a somigliare alla follia. Il genio non è mai un moderato o un flemmatico, spiega Schopenhauer, ma è sempre un eccessivo, frutto di un’esaltazione anormale della sua vita nervosa e cerebrale.
Il genio è poi per definizione inutile, i suoi frutti saranno colti al più nel futuro; come i fichi e i datteri che si gustano più secchi che freschi. Un’opera geniale non è mai utile, è il suo rango di nobiltà, come la fioritura. Gli alberi più belli e maestosi sono infecondi, nota Schopenhauer, le piante da frutto hanno invece tronchi piccoli e rinsecchiti (non conosceva gli ulivi pugliesi, i melograni e altre splendide piante fruttuose). Di conseguenza il genio, non servendo al suo tempo ed eccedendo dalla norma degli uomini, è destinato a essere incompreso. Le persone comuni possono apprezzare il talento o il tipo brillante, difficilmente il genio, che vive in perenne discordanza col mondo e col proprio tempo. Avvertenza d’obbligo: per un genio incompreso ci sono mille presunti incompresi che geni non sono.
Poi, il genio è per natura solitario. È troppo raro per poter incontrare suoi simili e troppo diverso dagli altri per poter stare in compagnia e pensare in comune. Perciò si apparta, si trova a disagio con gli altri. Se il genio è misantropo, anche qui non vale l’inverso, che la misantropia denoti superiorità. Il genio poi è malinconico, anche se trae delizia abbandonandosi alla propria ispirazione. Lo diceva già Aristotele, lo ripeteva Cicerone e poi anche Goethe. Schopenhauer lo spiega non solo con la solitudine e l’incomprensione, ma col fatto che più è viva la luce che illumina l’intelletto, più è in grado di percepire la miseria della sua condizione. Dunque il genio non può che essere pessimista, come lo era lui. Vi risparmio la controtesi: se il genio è malinconico, non tutti i tristi e i depressi sono potenziali genialoidi.
Infine il genio è come un bambino, come lui ha uno sguardo puro e disinteressato sul mondo. Anzi, ogni bambino è in un certo senso un genio e ogni genio è in un certo senso un bambino. Nel fanciullo, secondo Schopenhauer, l’intelletto prevale sulla volontà (ma i suoi capricci non prefigurano piuttosto la volontà?). Al bambino come al genio manca l’arida serietà tipica degli uomini comuni; c’è una vena giocosa e grottesca. Qui si affaccia la sindrome di Peter Pan (ma l’infantilismo in sé non è sintomo di ingegno superiore). Schopenhauerosserva che la genialità originaria del bambino viene poi rubata dalla genitalità, ossia dalla pulsione sessuale, che è il focolaio della volontà e dunque nemica della conoscenza. Come dire che il genio tende a restare sessualmente bambino e dunque immune o poco tentato da eros, istinto della specie.
Il genio, insomma, è un bambino malinconico che trascura sé e si cura del mondo. A differenza dei bambini solitamente egocentrici, il genio è proiettato oltre se stesso e riversato nel mondo. Il suo soffitto è il cielo, la sua vista è la visione del mondo, che è poi la sua penetrazione. Schopenhauer fa notare che l’orangutan è intelligente da piccolo e diventa poi rozzo e brutale da adulto, in un rapporto inverso fra età e intelligenza. Un implicito sostegno alla rottamazione dei vecchi e un largo ai giovani per ragioni biocerebrali. In realtà non mancano capolavori del genio in età senile, come dimostrano Goethe col suo Faustin età grave e lo stesso Schopenhauer, vecchio impertinente. Se il genio è sregolatezza, pure l’età precoce non può essere una regola. Il genio è puer aeternus.
Hegel
Mago e padre putativo del Novecento
Hegel fu croce e delizia della modernità. A lui si risale quando si cerca il Padre spirituale degli Stati totalitari e dello Stato come Dio in terra, che fu il sogno in rosso e in nero del Novecento. O riportandolo al suo tempo, parte con lui la genealogia dello Stato potente che poi diventerà onnipotente. Hegel diventa, a torto o a ragione, il filosofo di Napoleone, perché lo ritrae a Jena come lo Spirito del Mondo a cavallo. L’Eroe, il Grande, l’Io Trascendentale che realizza il primo grande Stato centralista moderno. Poi la lezione di Hegel discende dal pensiero all’ideologia e dalla filosofia alla storia. E dal versante sinistro sorge Marx, dal versante destro l’hegelismo fiorisce in Italia con Spaventa e poi Gentile. Non va certo dimenticata la lezione di Fichte, ma è a Hegel che si attribuisce l’identificazione dello Stato con Dio in terra. Qualcuno, ancora più radicale, fa risalire – è il caso di Popper – la pulsione totalitaria a Platone, ritratto come una specie di Hegel dell’antichità. Dimenticando che la follia totalitaria è proprio nel tradire Platone e costringere il cielo in terra: le idee platoniche risolte nella storia generano «paradisi infernali». Ma la matrice degli Stati totalitari è nello spirito giacobino della Rivoluzione francese più che nelle lezioni hegeliane. C’è più Rousseau che Hegel, pur da giovane entusiasta della Rivoluzione e poi maturo difensore dello status quo. L’ultimo Hegel apparso nel Novecento aveva gli occhi a mandorla del nippo-americano Francis Fukuyama, che, riprendendo l’Hegel di Kojève, decretava nel 1989 la fine della Storia. Caduto il Muro di Berlino e ogni antagonista globale all’impero Usa, si realizzava la profezia hegeliana e moriva al tempo stesso la teofania storica dell’hegelismo. Fine e compimento coincidono. La Storia come divinità è finita e Hegel muore con lei.
Ma dalle ceneri della storia rinasce un nuovo, inedito, sorprendente Hegel. Non più legato all’idea di Stato, al Dio che si fa Storia, ma alla tradizione ermetica, fino a scorgere le radici magiche e occulte dell’idealismo moderno. Non è l’Hegel redivivo di Slavoj Žižek, che a suo parere «ci salverà» e che resta dialettico ispiratore del materialismo. Ma l’opera in questione, in sintonia con lo spirito del nostro tempo, è di uno studioso americano di filosofia, Glenn Alexander Magee, col suo ponderoso volume Hegel e la tradizione ermetica a cura di Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, con un’introduzione di Massimo Donà. Il titolo è originale, non è tradotto ad hoc per i lettori di Julius Evola, che nelle stesse Edizioni Mediterranee trovano la sua opera completa. L’Hegel Mago che ne esce, in effetti, ha qualche somiglianza con Evola, appare un suo precursore. Magee allinea nella sua ampia ricerca molti elementi per sostenere che Hegel è un pensatore ermetico: egli avrebbe sostituito il filosofo col sapiente e la filosofia con la teosofia, facendo tesoro della cabala, dell’alchimia, dei Rosacroce, della gnosi e del filone ermetico, da Ermete Trismegisto in poi, in una linea ampia che va da Meister Eckart a Böhme, da Agrippa a Lullo e a Paracelso, da Pico della Mirandola a Giordano Bruno, fino all’occultismo e allo spiritismo, all’astrologia e all’esoterismo della Massoneria. Hegel si riferisce a una Chiesa invisibile nei suoi carteggi con Schelling e con Hölderlin. Non dimentichiamo che l’epoca di Hegel è romantica, l’età di Novalis ma anche di Mesmer; filosofia e magia s’intrecciano, a volte tramite la poesia. La sua opera centrale, in questo senso, è La fenomenologia dello spirito. La tesi, pur suggestiva, e non priva di riferimenti fondati (seri studiosi come Voegelinavevano collegato l’hegelismo e i suoi derivati alla gnosi), è però un po’ forzata. Hegel è più figlio del romanticismo che dell’illuminismo, ma da qui a considerarlo un pensatore che si fonda sull’occulto, sull’idealismo magico o sulla tradizione ermetica, ce ne corre. C’è Hölderlin– suo compagno di studi – nella sua formazione, non Ermete Trismegisto. In realtà Hegel si concepisce, prima che come filosofo, come riformatore religioso nella convinzione – che accomunerà larga parte dell’idealismo, fino a Gentile – che la religione sia una specie di stadio infantile, immaturo, di una filosofia dello spirito. Da riformatore religioso Hegelconcepisce la filosofia come la continuazione della religione cristiana con altri mezzi storicamente e razionalmente più fondati e più maturi. Anche lo Stato e la politica si realizzano alla luce della riforma religiosa della filosofia. Se vogliamo, il riferimento più pertinente è a Gioacchino da Fiore e alla sua teoria delle Tre età, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Alla logica trinitaria è improntata tutta la filosofia hegeliana e all’avvento dell’età dello Spirito Santo è rivolta la tensione escatologica del suo storicismo. Nel suo itinerario verso l’età dello spirito, Hegel convoglia saperi vari e tradizioni diverse. La tradizione cristiana innanzitutto, poi la tradizione ellenica coi misteri di Eleusi e la sapienza platonica e presocratica, quindi i filoni sommersi della tradizione ermetica e del pensiero magico. E magari negli anni giovanili l’influenza dell’esoterismo massonico. Ma è forte in lui l’impronta del pietismo svevo, di matrice cristiana, incessante è il confronto con Gesù, a cui dedica da giovane una biografia, permane l’impianto storico-temporale lineare, che deriva dall’escatologia cristiana. Qualcuno troverà inquietante l’assonanza fra il Terzo Regno dello spirito e il Terzo Reich (regno, appunto). Ma l’idea di un Dio che si fa nella storia sorge dalla visione provvidenziale della teologia cristiana fino a configurarsi come sua eresia. L’Astuzia della Ragione è la versione hegeliana della Divina Provvidenza, anche se perde i suoi tratti benefici per acquistare tratti beffardi. Egli traduce il dogma della Trinità in teoria dello spirito e nella sua dialettica trinitaria. Il compito che Hegel si assegna è riunire la filosofia e il sentire comune in una nuova religione fondata sulla storicizzazione e l’umanizzazione del divino. L’eresia di Hegelsecolarizza il cristianesimo. Ma Hegel resta cristiano e professore, non mago o esoterista. S’ispira più a Lutero che a Paracelso. Respira la passione storica del suo tempo, esalta la ragione. E tuttavia il testo di Magee ha il merito di riaprire nuove frontiere nella comprensione di Hegel. Un pensatore grande, polivalente come Hegel non lo si può imbottigliare nel Novecento e negli Stati totalitari, ritenerlo – parafrasando quel che disse Croce di Vico – secolo XX in germe. Semmai bisognerebbe fare l’inverso, ritrovare dietro le ideologie del Novecento, alle loro radici, quella pulsione romantica tesa agli assoluti, che è quasi il prologo in cielo – per dirla con Goethe – del prometeismo sovrumanista e del faustismo di massa esplosi nel secolo scorso. Una pulsione che Hegeltradusse in teoria e sistema. Come scrive in alcuni versi leopardiani il giovane Hegel: «E io mi abbandono all’immenso; sono in lui, sono tutto, sono solo lui». Un romantico a caccia di assoluti nel terreno fragile della storia e della ragione.
Dostoevskij
Bellezza e dolore
C’è qualcosa che spaventa di Fëdor Dostoevskij: la certezza che per andare in paradiso devi passare per l’inferno. O, se vogliamo restare sulla terra, che la vera felicità e la vera gloria vengano solo dalla sofferenza e dal sacrificio. È un pensiero terribile che non accettiamo, che non possiamo più accettare. E quel rifiuto è forse alle origini dell’irreligione occidentale e della stessa modernità. Di quella dolorosa grandezza Dostoevskij fu profeta, narratore e testimone. La visse sulla propria pelle, la espresse nella sua scrittura. La vita è bellezza – e «la bellezza salverà il mondo» –, ma solo nella sofferenza trova un senso: così scrisse Stefan Zweig facendo il ritratto di Dostoevskij all’indomani della prima guerra mondiale. Il suo profilo di Fëdor è un po’ ampolloso e ridondante, ma Zweig coglie l’essenza tragica e gloriosa di Dostoevskij, dell’uomo e dell’opera, in perfetta corrispondenza tra vita e scrittura. E coglie dello scrittore russo la vicinanza con l’abisso, la dimestichezza coi demoni, il rasentare il baratro per risalire in cielo, l’esperienza di Dio come tormento, il male e la perdizione come occasione di salvezza e redenzione, l’oscillazione tra generosità e dissolutezza, la centralità assoluta dell’anima. Kirillov, Satov, Raskol’nikov, Karamazov: i suoi personaggi, per Zweig, vivono nell’agitazione, intorno all’anima si forma il loro corpo, le passioni plasmano le loro figure. Mai carne e spirito sono in armonia. L’uomo è il frutto di quel conflitto incessante. Il suo è pensiero pericoloso. Se Tolstoj è scrittore visivo, Dostoevskij è scrittore uditivo, nota Zweig: nella sua parola risuona l’anima, non emerge il paesaggio. E anche i volti dei suoi personaggi sono solo espressioni dei loro stati d’animo, mai sono ritratti puramente fisici, esteriori. Anche in questo senso, oggi diremmo psicanalitico, Dostoevskij è davvero lo scrittore del sottosuolo, a cui dedicò le celebri Memorie. Il sottosuolo è l’interiorità della terra e la metafora della profondità dell’anima. Quel cupo senso di oppressione, quella mancanza di cielo, quella vicinanza agli inferi, quel senso della terra concepito a rovescio, non legame concreto con un suolo su cui siamo piantati e camminiamo, ma un carcere, un soffitto incombente sulle nostre teste che impedisce la libertà, costringe all’introspezione e toglie il respiro. Sono questi i sintomi di una vita vissuta nel sottosuolo. Ciò non toglie che il sottosuolo possa col tempo presentarsi un gradevole underground, farsi accessoriato e illuminato, come una metropolitana o una galleria farcita d’ipermercati e vetrine scintillanti, come accade oggi a molti passaggi sotterranei. Ma resta quella sensazione claustrofobica di vivere lontani dal cielo e dalla terra, in prossimità degli inferi, dove non s’incontrano anime vive ma merci, fantasmi e automi. E dove non si cammina liberamente ma si procede su scale mobili, a senso unico, allineati nell’automatismo dei percorsi. Nel sottosuolo, spiega Dostoevskij, si sopravvive arroccandosi nel proprio io, negandosi a ogni spiraglio di cielo, a ogni legame con la terra, in una cosmopoli sepolta e subreale, vedendo nel prossimo solo un rivale da dominare, da distruggere o semplicemente da cancellare allo sguardo. È nel sottosuolo che abita l’uomo del nichilismo, che ha perduto insieme il cielo e la terra, l’orizzonte trascendente e la realtà vitale. A ben vedere, il sottosuolo è una condizione ben più tragica di quella che delineava il suo contemporaneo Marx, che risolveva l’alienazione rimettendo in piedi quel soggetto che Hegel faceva camminare con la testa. L’umanità alienata di Dostoevskij non si redime con la rivoluzione o col puro capovolgimento del sovrano o del potere; perché l’alienazione più vera sorge dalla separazione dell’anima dalla vita. Sono sagaci le critiche di Dostoevskij all’utopia rivoluzionaria e cosmopolita che procede «verso il regno astratto di un’umanità universale che non è mai esistita in nessun luogo, e così facendo taglia ogni legame col popolo». È una critica ante litteram al bolscevismo, una critica che diventò profezia. Questa gente «sostanzialmente astratta», scrive in una lettera a Griscenko, esprime «uno sconfinato amore per l’umanità, ma solo se considerata in generale. Ma poi, se l’umanità s’incarna in un uomo concreto, in una persona, allora essi non sono capaci di tollerarla», anzi, provano avversione. E in un’altra lettera a Strachov, fustigava il sogno rousseauviano e illuminista «di rifare daccapo il mondo sulla ragione» o sull’idea di una natura astratta, fino a tagliare le teste, perché è la cosa più facile, non potendo cambiarle. L’amore per l’umanità, scrive Dostoevskij, è inconcepibile senza la simultanea fede nell’immortalità dell’anima. Senza l’immortalità i legami con la terra si spezzano, la perdita di un senso superiore alla vita porta al suicidio o al delitto: «Perché dovrei astenermi dallo sgozzare il prossimo, dal rubare, o dal rifugiarmi nel mio guscio?» scrive a Ozmidov. Posizioni che lo scrittore ribadì anche al Congresso della pace di Ginevra, indetto sotto l’egida massonica e socialista (vi partecipò anche Garibaldi). Dure le sue critiche al socialismo, che recide tutti i legami e sostituisce la carità con la violenza, ma aspre pure le sue critiche all’usura, al potere economico e ai suoi circoli finanziari, alla «barbarie del comfort» e alle élite atee e cosmopolite, «tutti questi liberalucci e progressisti». A queste figurazioni del nichilismo Dostoevskij oppone l’idea di un risveglio religioso, nazionale e popolare, un vero e proprio risorgimento dell’anima russa. Ma sullo sfondo riemerge la sua convinzione che «come l’oro si forgia col fuoco», così non può esserci resurrezione senza croce. Quella terribile visione fa di Dostoevskij un profeta tragico, apocalittico, imperdonabile agli occhi del mondo, così lontano dall’umanità presente e pure così vicino alla ragione più profonda della sua crisi. Martire di se stesso, Dostoevskij si è crocifisso, ma qui c’è il suo segreto, nota impietosamente Zweig: ha bisogno di Dio e non lo trova. Tende verso di Lui, smania di folle ardore, urla, cerca di afferrarlo con la logica, lo ama di una passione quasi indecente; ma di Dio a Fëdor resta la sete e l’inquietudine. Così si ritrova riverso per terra, come dopo una delle sue crisi epilettiche, ad aspettare invano la Sua visita e la visione mistica. E a gridare come Cristo in croce: Signore, perché mi hai abbandonato? A volte hai la sensazione che la sua inattualità non sia legata a un mondo ormai passato, ma a una condizione umana in fieri, non ancora rivelata. Profetico Fëdor, tra l’attesa di Dio e la visione del nulla.
E tuttavia ci resta, del suo messaggio cristiano più alto, un fondo di sgomento e di dissenso: quando afferma che dovendo scegliere tra Cristo e la Verità lui sceglierebbe Cristo, lo potremmo accettare solo col sottinteso che Cristo coincida poi con la Verità e quella che si oppone a Lui sia solo la nostra fallace presunzione del vero. O dovremmo collegarlo a quel particolare amor folle di Dio che in Russia spinse i monaci asceti a definirsi pazzi di Cristo e a seguire la sapienza del cuore contro ogni ragione. Ma è troppo pretendere che nel nome della fede si accechi la vista, l’evidenza e la ragione. Dio rende folli coloro che vuol perdere, dicevano gli antichi; è difficile pensare al contrario, che Dio esiga la follia da coloro che vuol portare via con sé. La religione in Dostoevskij rasenta l’abisso, la sua fede è un urlo nero che sconcerta.
Nietzsche
Quel che è vivo e quel che è morto
Nella sacra oscurità dell’infanzia in cui si stava immergendo negli ultimi anni e che diventò pazzia, Friedrich Nietzsche profetizzò: mi si comincerà a comprendere con il 1900 ma sarò davvero compreso nel 2000. La luce delle stelle più lontane, egli aggiungeva, è quella che impiega più tempo per raggiungere la terra; mentre brilla, i contemporanei negano che in quel punto vi sia una stella. Ma poi gli anni luce resero ragione della sua oscurità oracolare. A giudicare dagli esiti del suo pensiero la profezia di Nietzsche si è avverata: il secolo che abbiamo lasciato alle spalle è popolato di nietzschianesimi aurorali o dimezzati, accennati o fuorviati. Cosa è morto di Nietzsche, cosa è stato sepolto di lui con il Novecento? Sappiamo cos’è stato Nietzscheallo sguardo delle vulgate scolastiche, della media istruzione, delle culture del Novecento: è l’Anticristo, è il Superuomo, è la Bestia bionda, è la Razza di Signori, è la Volontà di Potenza. Si può interpretare mezzo Novecento alla luce di quelle parole: e non solo il secolo delle guerre e della volontà di potenza, del razzismo e del nazismo; ma anche il secolo faustiano e titanico, il secolo della tecnica onnipotente e del prometeo scatenato; il secolo dei Signori della finanza e delle Oligarchie di Superuomini, il secolo dionisiaco di massa, tra sconfinamento e hybris. Non ci furono poi solo armi e divise per figurare la Volontà di potenza e il Superuomo nella storia; il mondo trabocca di superometti, il sovrumanismo ispira la volontà di dominio della finanza e della tecnica globale. Il mito della razza superiore sembra oggi rispecchiarsi nel mondo dei divi e delle top model; il culto del corpo e della salute dilaga nel nostro tempo; e così l’ebbrezza della trasgressione e dell’irreligione, il culto della velocità e dell’emozione forte, il sogno bacchico e pagano, l’elevazione della biologia a valore, il mito di Superman, la vita protesa ad accrescersi al di là del bene e del male. Tutto questo non è il pensiero di Nietzsche, ma ha trovato nel suo pensiero suggestivi punti di appoggio. L’ateismo pratico di massa, il nichilismo, massifica l’anticristianesimo ascetico d’élite derivato da Nietzsche. In questo senso la sua impronta ben figura con quella di Freud e Marx tra i maestri del Sospetto e i maieuti del Novecento.
Ma non è questo il Nietzsche che abbiamo amato e meditato, non è il Nietzsche che ancora ci sussurra qualcosa. Anzi, contro quei mali del Novecento ci rifugiavamo nel suo pensiero, come antidoto e terapia. Allora proviamo ad accennare a quel che di vivo Nietzsche ha lasciato. Innanzitutto la testimonianza più lucida della vacua disperazione di una vita irreligiosa, in preda al nichilismo, regredita al rango della natura e dei suoi impulsi. Chi sogna di reincantare il mondo e di ripensare il sacro dopo le devastazioni del Novecento e del nichilismo, deve partire da Nietzsche: questa è la ragione per cui pensatori cristiani come Del Noce, Thibon e Sciacca considerarono Nietzsche come la rivelazione del male moderno e il punto più alto dell’ateismo, dopo il quale c’è solo la fede nel soprannaturale, il ridestarsi della trascendenza. Dopo la fisica nietzschiana non c’è che il suicidio (nella variante della follia) o la metafisica (nella variante del mito o della religione). Non è colpa dei suoi occhi miopi o della sua mente delirante quel che vide e previde. Il nulla avanza ed esige ripensamenti originari, risposte radicali. Nietzsche scrutò in quell’abisso.
In secondo luogo, l’aver pensato fino in fondo il declino dell’ultimo uomo e l’aver prefigurato non l’Uomo-super ma l’uomo-Oltre, è un’intuizione profonda e profetica che ci chiama a un compito decisivo per l’avvenire. Un’epoca finisce insieme ai suoi valori e alle sue credenze, non è più tempo di restare attaccati agli antichi ormeggi; si tratta di inventare, di generare, di fecondare l’avvenire e di affrontare il transumano. Nietzsche è l’unico filosofo che riesca a pensare l’uomo oltre la fine della storia, annunciata da Hegel e dai suoi epigoni (Marx incluso) e oggi divenuta senso comune.
Nietzsche fu biosofo più che filosofo, pensatore della vita più che della logica. Oggi è inchiodato soprattutto a una citazione, «Non esistono fatti ma interpretazioni», che vorrebbe essere il riassunto cinico di un’epoca che nega la verità, la realtà, e insieme nega le regole, per affidarsi solo all’arbitraria e soggettiva interpretazione personale. Nietzschepolemizzava col positivismo del suo tempo, col feticismo assoluto dei fatti; intendeva negare che i fatti isolati dal contesto, dalle cause e dai soggetti che li vivono potessero da soli spiegare la realtà. Nietzsche non invoca la distruzione dei valori ma la loro trasvalutazione, e aggiunge un’osservazione decisiva: in mancanza di valori tocca a noi essere valorosi, cioè caricarci sulle spalle tutto il peso di quella perdita. Titanismo tragico, sorto da una fatale orfanità.
Dobbiamo poi a Nietzsche il rinato rapporto con la dimensione vitale, estetica e sensibile dell’esistenza; il ridestarsi del senso della terra, della bellezza, la vita nobile. Non mediante l’utilitarismo biologico o l’immanentismo razionalistico, ma attraverso il senso dell’arte e del bello, il gioco e il sogno, il mito e la geofilosofia. Quel pensare nel paesaggio, quel pensare passeggiando, quel respirare i pensieri sui monti e sui mari, attraverso il genius loci, ridestano un rapporto significativo e fondativo col mondo. È bello vedere i paesaggi dell’Engadina con gli occhi di Nietzsche, vedere le cime della Volontà di potenza e i tramonti dell’Amor Fati, le passeggiate di Zarathustra al mattino e al meriggio e gli Eterni Ritorni del sole. Nietzsche come filosofo della luce e della leggerezza contro l’oscura pesantezza della modernità e dei suoi pensatori. Egli è il filosofo del gioco, del dono e del mito in antitesi a un’epoca votata al calcolo, al mercato e allo storicismo assoluto, venato dal seme maligno delle utopie più o meno messianiche.
Nietzsche critica la modernità da posizioni non riducibili al pensiero reazionario e premoderno; critica i suoi feticci, non rimpiange l’epoca andata e l’ordine antecedente, naviga nel caos, cercando di suscitare la forma dall’informe, il senso dall’insensato. La sua critica alla modernità è anche critica all’illuminismo e alla democrazia, all’individualismo borghese e al socialismo egualitario. Non sostituisce Dio con la dea Ragione, sa bene che la sconfitta di Dio sarà poi la sconfitta del pensiero, dopo la teologia tramonterà la filosofia, dopo la religione anche l’etica. In positivo prefigura una nuova aristocrazia fondata sul dono più che sul possesso, sulla piccola povertà che libera dalle dipendenze del mondo più che sulla grande ricchezza; aristocrazia dello spirito e del carattere, legittimata sul campo dalla disponibilità al rischio esistenziale.
Resta infine inesplorato il curvo sentiero dell’eterno ritorno che non è soltanto l’antagonista del pensiero lineare progressista (e di quello speculare, involuzionista), nostalgico della visione sferica del paganesimo; ma è la traccia che Nietzsche lascia per trascendere la terra e il destino dell’uomo oltre il suo tramonto, il ridestarsi di un senso superiore oltre il caos e la vita, l’evocazione di un’origine che riposa nel nostro futuro, oltre che nel passato, perché non appartiene né all’uno né all’altro. Un principio metafisico, dunque. Ecce Nietzsche, vivo o non ancora nato.
Natale in solitudine e intorno al collo una «catena» di capelli intrecciata da sua madre, unico legame con la famiglia lontana. Così Natale «è riuscito a essere un giorno di festa», scrive Friedrich ai suoi familiari raccontando il suo Natale solitario a Nizza, nel 1885. Nell’aprire il pacco materno, l’impazienza di scartare i doni e la sua vista precaria gli giocano un brutto scherzo: sgusciano via i soldi che gli ha mandato sua madre. «Perdonate il vostro animale cieco», scrive a sua sorella, e poi spera che i soldi li abbia raccolti «una povera vecchietta e che abbia così trovato per strada il suo “Gesù bambino”». Voi pensate al Superuomo ma trovate nelle sue lettere la grandezza di un pensiero unita alla dolcezza di un animo delicato, che si preoccupa di comprare un anellino per donarlo alla piccola Adrienne, una bambina a lui molto affezionata a Sils-Maria. È umano troppo umano, Nietzsche, nel suo Epistolario 1885-1889. Tenero quando scrive a sua madre e chiede «cassettine di viveri», prosciutti salmonati di cui vive per settimane intere, salami non secchi, fette biscottate e calze, vestiti, firmandosi «la tua vecchia creatura». O quando con i suoi risparmi fa ricoprire con una gran lastra di marmo la tomba di suo padre, pastore; là, dice, verrà sepolta anche sua madre. O quando sbaglia treno e anziché andare a Torino si ritrova a Genova e soffre non tanto per il tempo perduto, che anzi è l’occasione per ritrovare il fascino di Genova («Me ne sono andato in giro come un’ombra in compagnia solo di ricordi»), ma per il biglietto del treno che ha dovuto ricomprare. Lui, modesto pensionato-baby dell’università di Basilea, con cronici problemi di salute che attribuisce al clima. La sua vita, e in parte il suo pensiero, sono meteoropatici e partoriscono una geofilosofia legata al sole e alla luce, amante del Sud. Qui definisce il suo Zarathustra il libro più meridionale e più orientale che esista. «La compatisco nel suo nord», scrive al danese George Brandes, «a Pietroburgo sarei un nichilista, qui a Nizza, credo nel sole, come ci crede una pianta… Dio fa risplendere il sole più bello su di noi fannulloni, filosofi e greci». La filosofia s’intreccia ai luoghi e alla salute, che dipende dal clima. Una pianta per Nietzsche esprime il genius loci. In questa luce immagino l’emozione di Nietzsche quando riceve da Atene una foglia d’alloro e una di fico dal luogo in cui c’era l’accademia di Platone, come scrive in una lettera. Lui, mediterraneo per elezione.
È struggente l’epistolario di questo homeless sui generis, pensatore ambulante, filosofo randagio nella sua piccola povertà, prima che sopraggiunga la notte della pazzia. La sua modesta contabilità per sopravvivere, le stanze piccole e fredde, la stufa che porta con sé, il suo amore del sole e la sua fotofobia. E la sua abissale solitudine: «la mia disgrazia è che non ho nessuno […]. Quasi tutti i miei rapporti umani sono nati da attacchi di solitudine […]. È assolutamente orribile essere soli fino a questo punto […] una vita da cani». Ma la sua è anche solitudine d’autore, nell’assoluta incomprensione del proprio tempo. «I miei libri passati senza quasi lasciar traccia». Lo vedi solo, al freddo, che scrive disperatamente, stampa i libri a sue spese, di cui si vendono poche decine di copie. Poi si fa il suo tè con le fette biscottate, raziona i suoi cibi, goloso di cioccolata e gelati… Vorresti fargli sentire il fiato di amici e lettori venturi. Vorresti rispondere alle sue lettere e raccontargli la gloria di dopo e il riconoscimento postumo della sua grandezza. È euforico Nietzschequando sente che Brandes in Danimarca fa conferenze su di lui con trecento ascoltatori. Lo ripete a tutti i destinatari delle sue lettere. Ed è grato a Brandes per avergli ridato il gusto di esistere, anzi per avergli dimostrato che «sto vivendo». Poi le autoesaltazioni, un caso di fondata mitomania, il credersi destinato a lasciare un segno nel mondo, ripeterselo di continuo in solitudine; ma non sbagliava. Follia e lucidità si intrecciano nelle ultime lettere, fino agli estremi biglietti della follia, prima di impazzire a Torino. Alle soglie di quel tragico inverno del 1889 scrive: «Sono molto contento di avere l’inverno libero». Libero da impazzire.
La Tragedia della nascita. Disumano, troppo Disumano. Tramonto. La Triste Scienza. Così tacque Zarathustra. Necrologia della morale. Al di sotto del bene e del male. Finis Homo. Gli idoli del crepuscolo. La marcia funebre di Dioniso. La Volontà impotente. Ho provato a rovesciare i titoli euforici delle opere di Nietzsche e non per puro divertissement, perché, come spiegava Pirandello, l’umorismo sorge dal sentimento del contrario. Ho immaginato cosa potrebbe scrivere Nietzschenell’epoca del nichilismo stanco. Un Nietzschein cui l’esaltazione ceda il passo alla depressione. Non scriverebbe sulla nascita della tragedia, ma più cupamente sul dolore di venire al mondo, la tragedia della nascita nel tempo della denatalità. Non cercherebbe di andare oltre l’umano troppo umano, ma constaterebbe il trionfo del disumano. Non scriverebbe Aurora ma Tramonto, né la Gaia scienza ma la Mesta scienza, vista la tristezza che prevale. Il suo Zarathustra non avrebbe più parlato ma avrebbe taciuto, perché la parola ha perso senso e valore, e ai profeti ora si addice il silenzio. E non scriverebbe la Genealogia della morale, ma la sua necrologia. Non istigherebbe ad andare Al di là del bene e del male davanti allo spettacolo di una società caduta al di sotto del bene e del male. Non saluterebbe il sorgere dell’Oltre-uomo in Ecce Homo, piuttosto scriverebbe della fine dell’uomo. Non descriverebbe il grandioso Crepuscolo degli idoli, piuttosto vedrebbe sorgere gli idoli e idoletti del Crepuscolo. Non intonerebbe Ditirambi per Dioniso ma una mesta marcia funebre. E infine, non penserebbe di scrivere La volontà di potenza ma constaterebbe l’impotenza della volontà nell’eterno perdersi del mondo, più che nell’eterno ritorno. Con Zarathustra Nietzsche aveva pensato di fondare una nuova religione segnata dall’apparizione del sovrumano in terra. Ma l’avvento del sovrumano profetizzato da lui non si è avverato; è il dominio del subumano a occupare la scena e a tradire il messaggio di Zarathustra.
Se cerchiamo i testimoni della crisi esistenziale e religiosa del nostro tempo, i sismografi e martiri del deserto che cresce, dobbiamo accostare Nietzsche non a Marx e Freud ma ad altri due angelici visitatori dell’inferno: Dostoevskij e Rimbaud. Sono loro che descrivono la condizione di chi ha perso la fede ma non riesce a riempire il vuoto gigantesco che resta. Loro, imperdonabili, ci fanno capire il senso della catastrofe, e non ci forniscono alibi, illusioni o conforti. Pur sapendo che la strada di Nietzsche è senza sbocchi, torno sui suoi passi da una vita. Il mio primo articolo, da ragazzo, fu dedicato a lui e al suo tempo venturo, che non venne mai. Eppure mi ritrovo ancora, dopo svariati anni, a parlare di lui e del suo Zarathustra, la bibbia dei miei diciott’anni, ferita dal tempo. L’eterno ritorno di Nietzsche, il principe degli imperdonabili, e la sua vana speranza che ci si possa salvare da soli aggrappandosi al futuro. E partorire da soli, al nostro tramonto, l’oltreuomo che verrà.
Stirner
Preludio cinico dell’egoismo
Io. Doveva essere il lapidario e programmatico titolo di un’opera maledetta ma cruciale per capire la modernità atea, l’individualismo, l’anarchia e il nichilismo. Poi al secco Ich l’autore preferì L’unico e la sua proprietà. Parliamo di Johann Caspar Schmidt, più noto come Max Stirner, pseudonimo che evoca la sua alta fronte. Di quel titolo fu ammirato Carl Schmitt, che in Ex captivitate salus lo definì il titolo più bello e più tedesco di tutta la letteratura filosofica tedesca.
Forse non era un complimento per Stirner,che non dette mai peso all’estetica e ancor meno all’appartenenza nazionale. Ma quel libro partorito nel 1844 è un crocevia del pensiero tedesco, europeo e mondiale e non solo per il pensiero anarchico. Stirner attecchì non solo nel mondo rivoluzionario, oggi anarco-insurrezionalista, o tra le avanguardie e i situazionisti, ma lasciò traccia anche nel cuore più radicale del liberalismo, tra i libertarians, ed ebbe ammiratori sorprendenti anche nel pensiero conservatore e reazionario. Dicevamo di Schmitt, potremmo dire di Evola e di altri autori. Sul piano politico il lettore più entusiasta in gioventù fu Mussolini, figlio di un anarchico che gli dette il nome Benito in onore dell’anarchico Benito Juarez. Del resto, Stirnerebbe l’ammirazione implicita di Nietzsche e la stroncatura esplicita di Marx (ed Engels), nell’Ideologia Tedesca. Ma ambedue a lui si riferirono. Nietzsche per fondare, senza citare Stirner, il Superuomo al di là del bene e del male. E Marx per criticare, sulle tracce di Feuerbach, l’essenza umana come concetto fumoso.
La prima biografia, non filosofica ma quasi agiografica, dedicata a Stirner la scrisse oltre un secolo fa un poeta anarchico di origine scozzese, John Henry Mackay, morfinomane ed eversore, fondatore del movimento omosessuale. Max Stirner, vita e opere, narra la parabola di quel pensatore che visse una vita tormentata, tra morti precoci dei suoi genitori, della sua compagna e di suo figlio (unico, naturalmente), manicomi e povertà, e morì neanche cinquantenne nel 1856.
Stirner potrebbe definirsi il riassunto cinico della modernità e il suo esito più coerente e più radicale. La modernità nasce dalla scoperta dell’assoluta autonomia dell’Io, via via considerando oppressive e alienanti l’idea di Dio, di natura, di tradizione, di patria, Stato e comunità, fino alla famiglia. L’Io si autocrea, muta la natura ed è il solo arbitro del bene e del male. Stirner, come il pensatore reazionario de Maistre e come lo stesso Schmitt, svela il fondamento teologico della politica e rifiuta il formalismo giuridico che nella modernità tempera il potere dell’Io tramite il limite della norma e l’osservanza della legge. Invece per Stirner, dietro il diritto e la politica non c’è la legge o il consenso, ma la forza e l’irrazionale. Lo stesso Marx intravedeva nel pensiero eversivo di Stirner l’esito conservatore e reazionario. Quando Stirner scrive: «Che io abbia o no un legittimo potere-diritto non mi interessa affatto, se sono potente, ho autorità, non ho bisogno di altra autorizzazione e legittimazione», giustifica tanto l’anarchia che il suo contrario, l’autoritarismo, il decisionismo assoluto. Proprio su questa linea Mussolini scrisse un saggio dedicato a Nietzsche su La filosofia della forza. E un filosofo socialista, libertario e ateo come Giuseppe Rensi, fondò su quelle basi di sapore stirneriano la sua filosofia dell’autorità. Ma Stirner è il riassunto cinico della modernità non solo nei suoi esiti estremi, ma anche nell’esito liberale che ne radicalizza il suo perno, l’individualismo. Egli annuncia «il compimento del liberalismo nell’Unico», dove «ogni essere supremo, compresa l’umanità, viene annientato, e la teologia si ribalta in antropologia». Presupposto teologico dell’individualismo è il protestantesimo, che, dice Stirner, ha reso non solo la fede, ma «anche la schiavitù più interiore». Stirneresorta i liberali ad affrancarsi dai paramenti sacri e normativi e a presentarsi allo stato puro, come assoluta rivendicazione dell’io e del suo utile. Micidiale è pure la sua demistificazione della «buona coscienza» umanitaria. L’altruismo non è rivolto ad alleviare le altrui sofferenze ma a eliminare lo spettacolo del dolore davanti ai miei occhi: «Se io soccorro l’altro non è per lenire il suo dolore ma solo per allontanare la mia pena», scrive con implacabile sincerità, sconfessando la filantropia umanitaria. Tutto ruota intorno all’io, Individuo Assoluto. «Io ho fondato la mia causa sul nulla» è l’incipit ma anche l’epilogo dell’Unico stirneriano. Il suo è il primo, vero manifesto del nichilismo, anche se l’espressione affiorerà solo diciotto anni dopo, nel romanzo Padri e figli di Ivan Turgenev riferito ai giovani atei e anarco-rivoluzionari russi. Il nichilismo ha un cuore russo e una testa tedesca, ma i suoi arti, le sue arti, per allungarsi nel pianeta saranno angloamericane. Stirner fu davvero il concentrato, anzi il distillato del nichilismo. Imperdonabile per eccellenza, elevò gli Stati Uniti a simbolo di società più libera rispetto a quelle europee, che lascia «al singolo la decisione di attirare o no su se stesso» le conseguenze del suo comportamento. Nell’America Stirner arrivò a vedere la società reale che più si avvicinava al suo modello ideale, l’Unione degli Egoisti. Sfuggiva a Stirner l’afflato ideale e religioso americano, il suo rigorismo etico e l’amor patrio, ma coglieva la radice individualista in una società non fondata su originarie appartenenze, ma su un libero e «occasionale» contratto che mira non al bene comune ma al bene di ciascuno. Però anche l’Unione degli Egoisti per funzionare dovrà accettare alcune leggi, alcuni limiti e alcune reciprocità, per cui non potrà essere anarchia pura né assoluto egoismo, ma egoismo depotenziato, delimitato e regolato, inevitabilmente retto sulla reciprocità. L’anarchia resta nel fondo l’utopia della società liberale, la sua aspirazione ideale. Il suo freno è appunto il realismo. È il sogno di estinguere l’idea stessa di società, residuo platonico – direbbe Popper –, concetto metafisico inesistente, secondo certo liberalismo anglosassone. Per il liberale puro esistono solo gli individui, non la società. L’idea di società è l’ultimo residuo di quel Noi su cui si fondano lo spirito religioso, lo spirito tradizionale e lo spirito comunitario. Dissolto ogni legame sociale cosa resta se non l’unione degli egoisti? Per uno di quei paradossi della storia, un individualista isolato come Stirner diventa il filosofo dell’egoismo di massa, il fenomeno più vasto e lampante d’Occidente. L’Unico di Stirner, col suo egoismo assoluto, è l’orizzonte, la barbarie e la disperazione del presente globale di massa.
L’Io è tutto, il resto è nulla; ma dell’io non resta poi nulla. È come se il mondo fosse andato in pezzi, miliardi di schegge taglienti e ormai incomponibili. A ogni frammento corrisponde un io. Apoteosi e vanificazione dell’Ego, l’ultimo dio breve che torreggia nella desolazione del mondo. Stirner, rispondi con la tua spietata sincerità: ti riconosci nell’applicazione radicale di massa della tua egocrazia?
Marx
Fallito a Est trionfa in Occidente
Marx ha vinto e vive con noi. Non è una boutade o un paradosso, è la realtà. Il marxismo separato dal comunismo – la sua utopia scissa dalla sua profezia – è lo spirito del nostro tempo. Viviamo in piena epoca marxista. Non mi riferisco alla crisi economica presente né solo al fenomeno previsto da Marx e ora effettivamente avveratosi della ricchezza concentrata in poche mani, con una minoranza sempre più ricca e ristretta e una maggioranza sempre più vasta e povera. Dobbiamo rifare i conti con Marx, e non solo perché ci siamo formati in un’epoca – come scrive Dürrenmatt – in cui «essere marxisti era una specie di dovere» – un dovere a cui noi trasgredimmo. Ma soprattutto perché il marxismo impregna il nostro oggi. Scrive Marx nel Manifesto: «Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti». È la prefigurazione più precisa della nostra epoca globale, volatile, e del mondialismo vigente.
Il marxismo fu il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione; una teoria che si fece prassi pervasiva. Fu una deviazione la sua realizzazione in paesi premoderni e a prevalenza agricola e pastorale, come la Russia e la Cina, la Cambogia o Cuba. Contrariamente a quel che si pensa, il marxismo non si è realizzato nei paesi che hanno abbracciato o subito il comunismo, dove invece ha fallito e ha resistito attraverso l’imposizione poliziesca e totalitaria; si è invece realizzato nel suo spirito laddove nacque e si rivolse, nell’Occidente del capitalismo avanzato. Non scardinò il sistema capitalistico, ma fu l’assistente sociale e culturale nel passaggio dalla vecchia società cristiano-borghese al neocapitalismo nichilista e globale, e dal vecchio liberalismo al nuovo spirito liberal. La società dei consumi, dei desideri e dei mondi virtuali ha realizzato, nella libertà, il compito e la definizione che Marxdava del comunismo: «È il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». L’utopia marxiana è stata realizzata a livello planetario, ma sul piano individuale e non collettivo. Nel segno dell’individualismo di massa e non del comunismo, abolendo lo Stato, la proprietà privata e le diseguaglianze. Non sconcerti questa lettura individualistica di Marx. Nell’Ideologia tedesca, Marx dichiara che il fine supremo del comunismo «è la liberazione di ogni singolo individuo» dai limiti locali e nazionali, familiari e religiosi, economici e proprietari. Gli individui, scrive Marx, «prendono parte della società in quanto individui». Non le comunità, le famiglie, le tradizioni, solo gli individui. Il giovane Marxonora un solo santo e martire nel suo calendario: Prometeo, l’individuo eroico e liberatore. Uno dei primi scopritori dell’essenza individualistica che si celava dentro la buccia collettivista di Marx fu Louis Dumont in Homo aequalis, che sottolineò l’apoteosi dell’individualismo nel cuore del marxismo. Un’antica matrice protestante rigurgita nel marxismo occidentale, separato dal bolscevismo «asiatico».
Marx è il filosofo che auspica nei Manoscritti economico-filosofici l’avvento dell’ateismo pratico. «Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo», scrive nell’VIII Tesi suFeuerbach, «trovano la loro soluzione razionale nell’attività pratica umana». E famoso resta il suo passo nella Critica della filosofia del diritto di Hegel: «La religione è il sospiro della creatura oppressa […] essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire poterne esigere la felicità reale». La liberazione da Dio e dalla religione per Marx ci libera dall’alienazione e ci restituisce la felicità in terra. Lo spettacolo odierno di una società atea ma depressa, irreligiosa ma alienata, succube di ben altri oppiacei terreni, smentisce l’edonismo marx-occidentale. L’utopia di una società «libertina», dove ciascuno svolge la sua attività quando «ne ha voglia», che abolisce ogni fedeltà anche coniugale e introduce «una comunanza delle donne ufficiale e franca» piuttosto che camuffata nell’ipocrisia borghese, fa di Marx un antesignano della società permissiva.
Lo stesso principio ugualitario, venendo meno l’escatologia comunista, si realizza in negativo come uniformità e negazione dei meriti, delle capacità e delle differenze. Senza la sua carica profetica, l’egualitarismo si fa omologazione, standardizzazione. Attuali appaiono pure alcune sue previsioni, come la «decomposizione del ceto medio» di cui scrive introducendo il saggio sulla filosofia del diritto hegeliana e nel Manifesto quando prefigura «la proletarizzazione della piccola borghesia»; è quel che sta avvenendo oggi, ma per ragioni che non dipendono dalla «concorrenza», come pensava Marx, bensì dalle speculazioni del capitalismo finanziario, dalla crescita della popolazione di pensionati e da altri fattori impensabili nel suo tempo.
La società capitalistica globale ha realizzato le principali promesse del marxismo, seppur distorcendole: nella globalizzazione ha realizzato l’internazionalismo contro le patrie; nell’uniformità e nell’omologazione ha inverato l’uguaglianza e il livellamento universale; nel dominio globale del mercato ha riconosciuto il primato mondiale dell’economia posto da Marx; nell’ateismo pratico e nell’irreligione ha realizzato l’ateismo pratico marxiano e la sua critica alla religione; nel primato dei rapporti materiali, pratici e utilitaristici rispetto ai valori spirituali, morali e tradizionali ha sposato il materialismo marxiano; nella liberazione da ogni legame organico e naturale ha realizzato il prometeismo di Marx nella sfera individuale; nella società libertina e permissiva ha inverato la liberazione marxiana dai vincoli familiari e matrimoniali; e, come Marx voleva, ha realizzato il primato della prassi sul pensiero. È la società occidentale a decretare il primato del divenire sull’essere, della mutazione sulla natura, dello sconfinamento sul limite. Il marxismo, fallito come apparato repressivo a Est, si è compiuto come radicalismo permissivo a Occidente, separandosi dal comunismo anticapitalista, messianico e profetico. E tende a realizzarsi anche nel Sudest asiatico, in Cina e Corea, nella forma del mao-capitalismo, il comunismo mercatista. Repressione politica e liberismo economico.
La spinta ideologica del marxismo si condensa in forma di mentalità; la sua avanguardia intellettuale assume il controllo del potere culturale, come una setta giacobina che vigila sulla conformità al politically correct; mentre, nei rapporti sociali ed economici, il marxismo aderisce alla società globale e neocapitalistica di massa. Fino a diventare la sua Guardia rossa, a presidio della rimozione della Tradizione e dell’ordine naturale. Lo spirito del marxismo si realizza in Occidente, facendosi ideologicamente radical, economicamente liberal, geneticamente modificabile. Ha perso i toni violenti del marxismo – la cruenta lotta di classe e la dittatura del proletariato –, lasciati alle rivoluzioni del Terzo Mondo e alle frange estreme d’Occidente; ma con essi ha attenuato anche l’anelito alla giustizia sociale e il radicamento nel proletariato e nella classe operaia. La società di massa dell’Occidente ha portato a compimento la previsione di Marx: la proletarizzazione dei ceti medi dopo l’imborghesimento del proletariato. La borghesia si universalizza come stile di vita e modello, ma il suo allargamento coincide col suo abbassamento di status socio-economico al rango proletario. Tra il 1858 e il 1861 Marxpubblica sul «New York Tribune» una serie di articoli, poi raccolti dalla figlia Eleanor con il titolo The Eastern Question, usciti in Italia col più suggestivo titolo Contro la Russia, di tono antirusso, filoamericano, occidentalista. E descrive la fuoruscita della Russia dall’arretratezza come se stesse descrivendo la fuoruscita recente dai regimi comunisti da una visuale liberal, auspicando l’avvento del mercato libero e del pensiero emancipato.
L’ultima frontiera del proletariato si ritrova nell’accoglienza e nella tutela degli immigrati, dove il marxismo può esercitare in forme catto-umanitarie il suo ruolo di veicolare le masse sradicate dai loro paesi d’origine per sradicare a loro volta le residue popolazioni d’Occidente. Quel che chiamano integrazione è orwellianamente la disintegrazione delle identità popolari nel segno di una società globale. Ma la difficile integrazione, la maligna convivenza rischia di resuscitare gli spiriti animali di allogeni e indigeni e di rianimare negli uni il fanatismo religioso d’appartenenza e negli altri, per reazione, un nazional-egoismo da società chiusa. E non si esclude il sospetto che l’accoglienza propugnata dai nuovi marxisti sia funzionale al disegno di un nuovo capitalismo, in cerca di nuove masse sradicate e da asservire.
In Marx sono prefigurati due scenari presenti: la morte della filosofia, auspicata nelle Tesi su Feuerbach, in cui il pensare si risolve nell’agire, e la fine della storia, dopo l’apoteosi del progresso. Per Marx la storia si risolve con l’avvento del comunismo, anche se la storia che precede il suo trionfo viene declassata al rango di preistoria. Così è avvenuto in Occidente: la società tecno-capitalistica globale è ritenuta il non plus ultra, il modello insuperabile, epifania della storia. Aveva acutamente notato il giovane Gentile, nella Filosofia di Marx, che un materialismo storico non è possibile, perché la storia è attività spirituale incessante, dialettica e dinamica, e cessa laddove domina il materialismo: «Questo materialismo», scrive Gentile, «per essere storico è costretto a negare nella sua costruzione speculativa il proprio fondamento: che non siavi altra realtà fuori della sensibile e a rifiutare quindi i caratteri essenziali di ogni intuizione materialistica». Del resto, lo stesso Marx aveva notato nell’Ideologia tedesca: «Fintanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fintanto che prende in considerazione la storia non è materialista. Materialismo e storia sono per lui del tutto divergenti». Analisi perfetta, c’è solo un per lui di troppo. Nella società occidentale il materialismo trionfa ma si separa dalla tensione storica e spirituale: laddove vince il materialismo cessa la storia e si neutralizza la politica («Il pubblico potere perderà il suo carattere politico», prevede il suo Manifesto).
Marx non aveva previsto che il disincanto, la secolarizzazione, l’ateismo non avrebbero risparmiato nemmeno il comunismo e il suo messianismo profetico. Il comunismo dell’Est è stato sconfitto dal marxismo occidentale, col suo materialismo pratico, la sua irreligione e il suo primato dell’economia che hanno sradicato più che nelle società comuniste il seme vitale dei principi e degli assetti tradizionali. Realizzandosi in Occidente, il marxismo ha rovesciato le premesse del comunismo, in virtù di quella legge vichiana che Wundt e Del Noce chiamavano «eterogenesi dei fini» e Monnerot«eterotelia». Non a caso i marxisti d’Occidente si sono convertiti allo spirito radical e liberal, all’individualismo, al mercato e alla liberazione sessuale, dismettendo la questione sociale. La lotta di classe ha ceduto alla lotta di bioclasse nel nome dell’antisessismo e dell’antirazzismo. Anche la difesa egualitaria delle masse di poveri ha ceduto alla tutela prioritaria dei «diversi». Il marxismo resta attivo sotto falso nome e falsa identità, quasi in forma transgenica, come spirito dissolutivo della realtà e dei suoi limiti, del sacro e dell’origine, dei principi e delle strutture su cui si è fondata la società tradizionale. La fine del marxismo, a lungo enunciata, è un caso di morte apparente. Marx, con passaporto americano, sorride sornione sotto la barba.
Le idee che mossero il secolo
Spengler
Tra Faust e il Fato
L’opera che più di tutte condensa lo spirito e l’esito della prima guerra mondiale e che dette il nome alla letteratura della crisi che poi ne seguì, in realtà fu scritta prima del conflitto. Era infatti il 1914 quando Oswald Spenglerconcluse Il tramonto dell’Occidente; poi quel titolo divenne l’epigrafe del dopoguerra e il suo compendio mitteleuropeo. L’opera vide la luce sul finire della prima guerra mondiale e fu un trionfo di vendite e commenti. Uscì in ritardo per via del conflitto, e questo permise a Spengler di rielaborare il testo. Era stata scritta e pensata non alla luce della guerra e del suo esito, ma prima, in uno sguardo epocale alle civiltà del passato e del presente. Per l’avvenire Spengler prevedeva lo scontro finale tra la dittatura del denaro e la civiltà del sangue, del lavoro e del socialismo. Alla fine, vaticinava, la spada trionferà sul denaro perché una potenza può essere rovesciata solo da una potenza. La profezia fu azzeccata se consideriamo che di lì a poco andarono al potere comunismo, fascismo e nazionalsocialismo. Spengler aveva visto lontano; ma non lontanissimo. La rivolta del sangue contro l’oro, del lavoro contro il capitale, fu spazzata via in Occidente da guerre, tragedie e fallimenti. Dopo il conflitto tra politica ed economia, il denaro restò a dominare incontrastato. Ma dietro il denaro, notava Spengler, è la tecnica che prima serve l’uomo faustiano e poi lo assoggetta. Il dominio della tecnica, previde Spengler, «detronizzerà pure Dio». All’uomo e la tecnica Spenglerdedicò un penetrante saggio, parallelo e divergente rispetto all’Operaio di Ernst Jünger,che vide la luce poco dopo, e alle riflessioni sulla tecnica di Heidegger. Fu profetico Spengler quando intuì un conflitto finale tra il sistema finanziario dittatoriale e il cesarismo della volontà politica, ma poi non nascose l’ammirazione per il cesarismo tecnico-finanziario e i suoi militi: ingegneri, inventori, imprenditori, finanzieri. A suo dire i filosofi sono misera cosa rispetto ai manager e ai signori della finanza; «ogni riga che non è stata scritta per servire all’azione mi pare superflua». Si spinse a dire che preferiva «un acquedotto romano a tutti i templi e le statue di Roma».
La storia per Spengler è una costellazione di mondi conclusi chiamati civiltà, ciascuna obbedisce al suo sistema di valori e al suo fato, in un determinismo ferreo; ma ciascun sistema è poi relativo rispetto agli altri e ai tempi; conosce l’alba, l’apice e il tramonto. Una civiltà è assoluta al suo interno, ma non è eterna. Così il senso del destino si capovolge nel suo inverso, in relativismo storico e in darwinismo, l’etica della fedeltà si rovescia in titanismo, il vitalismo antirazionalistico si fa puro attivismo, il cesarismo separato dal sacro impero si fa volontà di potenza.
Come per i marxisti, anche per Spengler la teoria è al servizio della prassi, il pensiero è al servizio della storia. La comune matrice è nel Faust di Goethe: In principio fu l’azione. In Marx prende corpo il soggettivismo rivoluzionario nel nome di Prometeo, in Spengler il soggettivismo eroico nel nome di Faust e della sua civiltà. Ma quando la rivolta del sangue contro l’oro prese corpo in Germania col nazionalsocialismo, Spenglerprese le distanze da Hitler e dal suo partito: «Volevamo liberarci dei partiti ma è rimasto il peggiore». Il razzismo per lui è «un’ideologia del risentimento verso la superiorità ebraica» e denota «povertà spirituale», stroncò l’opera di Rosenberg. Si perse il seguito perché morì nel 1936. A sua volta Hitler non si professava seguace di Spengler e rifiutava l’idea del Tramonto dell’Occidente. Il regime nazista, su ordine di Goebbels, osteggiò il filosofo. Grande accoglienza ebbe invece Spengler nell’Italia fascista, verso cui nutrì un giudizio positivo che espresse anche in dediche ammirate al suo duce. Mussolini leggeva Spengler, lo recensì, fece tradurre Anni decisivi e, come notò De Felice, fu sempre più spengleriano anche in polemica antitedesca. Trovò in Spenglerl’elogio dei popoli giovani, dello spirito mediterraneo e della romanità. Ma gli idealisti italiani, a cominciare da Croce, lo considerarono un dilettante. Per i cattolici era un autore intriso di paganesimo. Il Dizionario di Politica della Treccani liquidò Spengler come pseudofilosofo (l’autore della voce era Felice Battaglia). Lo ammirò invece Evola che tradusse Il tramonto (De Felice definì curiosamente Evola «mistico spengleriano») e lo amarono Rensi e Tilgher, Giusso e Beonio Brocchieri. Nella cultura italiana più recente ha prevalso la tesi di Furio Jesi, che ridusse Spengler a un protonazista, barbaro erudito, ostile alla cultura nel nome della vita; fautore del linguaggio radicale delle «idee senza parole».
A prenderlo sul serio fu Theodor Adorno, che definì stupefacenti le sue prognosi e lo ritenne un Machiavelli del Novecento. «Spengler», scrive Adorno, che pure altrove lo giudicò uno sprovveduto, «appartiene a quei teorici dell’estrema reazione la cui critica al liberalismo in molti punti si è rivelata superiore a quella progressista». All’idea spengleriana di decadenza e destino, Adorno oppose l’idea marxista di utopia rivoluzionaria. Heidegger lo ammirava ma rifiutava il suo storicismo. Thomas Mann restò impressionato dalla potenza del Tramonto, un affresco grandioso che definì «un romanzo intellettuale», paragonando Spengler a Schopenhauer. In effetti Spengler fu un pensatore tragico e al pessimismo dedicò un intenso saggio (che curai nella raccolta di Scritti e pensieri). Un pessimismo storico preludio al fatalismo eroico. Spengler era pessimista nell’indole prima che nella teoria. Dietro la durezza prussiana e l’elogio dell’acciaio batteva un cuore delicato, incline alle lacrime, di salute cagionevole; era un solitario malinconico, come rivela il suo scritto autobiografico A me stesso. Visse in ristrettezze, coi lasciti di un’eredità familiare cospicua che la crisi economica tedesca del dopoguerra falcidiò.
Spengler però ricordava ai suoi critici che «tramonto» non significa «apocalissi» ma «compimento»: l’Occidente tramonta compiendosi, nelle braccia della globalizzazione. Egli concluse la sua opera nel segno del fatalismo eroico (ducunt fata volentem, nolentem trahunt, sono le parole conclusive del Tramonto). Memorabile resta la figura della sentinella di Pompei che Spenglerevocò nell’Uomo e la tecnica, che muore nell’eruzione del Vesuvio perché non era stata sciolta dalla consegna. Spengler cercò di tradurre in visione storica il pensiero di Nietzsche e la visione di Goethe; condusse Zarathustra in battaglia, portando nella storia La volontà di potenza e l’Eterno ritorno, il Superuomo e l’Amor fati. Ma restò il profeta della decadenza dell’Occidente, cantò la gloria dei tramonti e l’onore delle sconfitte, più che il veggente precursore della rinascita. Il pessimismo tragico ingoiò il suo banditore e rese imperdonabile la sua visione storica. Il mito di Faust portò il pensiero spengleriano al naufragio: perché il faustismo alla massima potenza (come il prometeismo scatenato) si affranca dalla filosofia e si realizza nella Tecnica unita alla Finanza. Il nichilismo che ne derivò sconfisse e spazzò via il faustismo epico ed eroico figurato da Spengler, retaggio romantico delle civiltà antecedenti. Faustvendette l’anima al diavolo e il faustismo rubò l’anima a Spengler, lasciandogli in cambio l’aura melanconica del profeta perdente. Il tramonto di Spengler.
Bergson
L’energia vitale va in guerra
Il filosofo più celebre del suo tempo che si schierò apertamente a favore della prima guerra mondiale fu Henri Bergson. Ebreo parigino, già famoso per opere come Materia e memoria, Il riso e L’evoluzione creatrice, Bergson avallò il nazionalismo francese. Nel 1914, in un discorso pronunciato da presidente dell’accademia di Scienze morali e politiche, Bergson spiegò «il significato della guerra» alla luce della sua filosofia, e vide opporsi in armi la fluida vitalità dello spirito alla rigida meccanicità della materia, la creatività dell’evoluzione all’automatismo ripetitivo dei processi, l’intuizione alla macchina. Proiettò il suo pensiero nel conflitto tra le nazioni, fino a identificare la Francia con lo slancio vitale, la potenza creatrice e spirituale, e la Germania prussiana col sordido intreccio di «militarismo e d’industrialismo, di macchinismo e meccanismo e basso materialismo morale». Per lui la Prussia era la patria della rigidità e dell’automatismo, imprigionata in un’armatura imposta dal «genio del male», come egli definì Bismarck. Tutto era sottomesso nei tedeschi alla volontà di dominio. Bergson rinfacciò loro già nella prima guerra mondiale, ben prima del nazismo, una visione razzista che celebrava la forza brutale come segno divino. Una specie ante litteram di Gott mit uns, Dio con noi; o, se vogliamo, un rigurgito barbarico dell’ordalia e del giudizio di Dio. Già allora Bergson notava che la Germania aveva adottato uno scrittore francese «che noi non avevamo letto» e che teorizzava l’ineguaglianza delle razze: Arthur de Gobineau. Ma, oltre alla denuncia precoce del razzismo tedesco, Bergson vide nella guerra mondiale il conflitto tra lo spirito e la tecnica, tra lo slancio vitale e la macchina d’alta precisione. Francamente è difficile ritenere gli imperi centrali i veicoli della Macchina e dell’automatismo industriale e non piuttosto l’America. Ed è arduo accusare i tedeschi di disprezzare lo Spirito per far vincere la Materia. Un perverso vitalismo si nascondeva nel razzismo biologico tedesco e tanto tuoneggiante spiritualismo hegeliano accompagnava il militarismo prussiano. Ma Bergson era ancora ignaro della rivoluzione bolscevica e dell’intervento americano. Vide la guerra con gli occhi del precedente conflitto franco-prussiano e con la mente acuta nel cogliere le energie profonde della vita; ma poco incline a capire la temperie storica, ideologica e rivoluzionaria dell’epoca. Bergson non colse la portata catastrofica del conflitto mondiale. Bergson venne nel 1911 a Bologna al IVCongresso internazionale di filosofia e spiegò l’intuizionismo, ma il suo pensiero era stato già introdotto in Italia da Papini.
Al di là delle sue intenzioni, Bergsoninfluenzò il nazionalismo nascente, il sindacalismo rivoluzionario ispirato a Sorel e anche il fascismo. Fu con Nietzsche e Ortega y Gasset, padre del vitalismo che percorse il Novecento. Il pensiero come movimento. Riaffiorava in lui l’esprit de finesse pascaliano in lotta con l’esprit de géométrie cartesiano. Il pensiero di Bergson ha influenzato ambiti assai diversi, da Proust a Deleuze. Il suo testo Materia e memoria è un’acuta dimostrazione dell’autonomia dello spirito, dell’anima e della mente, dalla materia, dal corpo e dal cervello. Lo spirito non risiede in alcuna parte del corpo, sostiene Bergson, perché il corpo agisce nello spazio, lo spirito no. Lo spirito si coglie invece nel tempo, la memoria è sintesi del passato e del presente in vista del futuro, e il ricordo è il punto d’intersezione tra spirito e materia, tra l’anima e le cose. In Bergson c’era già la madeleine di Proust e il suo universo.
Nel saggio sul riso, Bergson sostenne che la società si serve del ridere per scoraggiare o deplorare i comportamenti devianti, asociali. Dunque è uno strumento di controllo sociale più che di opposizione e di rivolta; produce conformismo più di quanto lo condanni. La società si difende deridendo l’eccezione, mettendo alla berlina l’abnorme, il deforme e il difforme. Però la matrice del ridere, la sua fonte primaria, è per Bergson l’automatismo. «La rigidità è il comico, il riso ne è il castigo». La ripetizione uccide la vita, il riso la deride, ne rivela l’insensatezza e il lato grottesco, riaprendo il flusso vitale. Bergson vede il riso come un gesto che svela la meccanicità e la rigidità del carattere, dello spirito e del corpo, laddove la vita è elastica, flessibile, animata dalla possibilità di mutare. Il comico produce interferenze tra avvenimenti indipendenti fra loro (l’esempio del qui pro quo); segna l’irruzione dell’assurdo nello stereotipo. Il senso del comico sorge dall’esagerazione oppure quando si prende alla lettera un’espressione figurata, o si fraintende, come nella commedia degli equivoci. Comico per Bergson è quando irrompe la fisicità, il corpo, in luoghi impropri: lo starnuto del conferenziere in piena, ispirata oratoria, ne è un esempio classico. La comicità per Bergsonnon ammette emozione o commozione, non commisera ma è «un’anestesia momentanea del cuore», puro esercizio dell’intelligenza. Il riso produce complicità, intesa. La comicità deforma il reale come in un sogno comune, socialmente condiviso. Il riso, seguita Bergson, è un gesto sociale che sottolinea e castiga «una distrazione speciale degli uomini o degli avvenimenti». Ridendo, come dicevano i latini, castigat mores. Bergson distingue tra ironia e umorismo, entrambi figli della satira. L’ironia, per il filosofo, è una forma oratoria, eloquente, anche retorica; l’umorismo invece descrive, scava nella realtà. Per Bergson l’ironia sale, va verso l’alto; l’umorismo invece scende, va verso il basso. Il riso non è né arte né vita, è a metà tra le due. Il riso disarma, colpisce chi si isola. La tragedia, secondo Bergson, rappresenta la vita degli individui, la comicità invece descrive i tipi, porta in scena i caratteri; affermazione discutibile che si può capovolgere senza perdere fondatezza. Quante volte nelle commedie si deridono le eccezioni, i casi patologici e abnormi e, viceversa, si rappresentano nelle tragedie eventi universali, dolori condivisi dal genere umano, attraverso la rappresentazione scenica di una storia e l’esperienza singolare?
Al tempo della guerra, Bergson partecipò a svariate missioni diplomatiche e scrisse dopo la guerra un testo, L’energia spirituale, che costituì un’acuta lettura filosofica della psiche dopo Freud. Bergson infranse la concezione quantitativa e progressiva del tempo, distinguendo fra intensità e durata. C’è un tempo interiore che si dilata, si contrae e non corrisponde alla misurazione del tempo. Bergson calò la metafisica nella vita tramite l’intuizione. Fu tra i rari filosofi che vinse il Nobel per la letteratura per la sua prosa scintillante (gli altri furono Russell e Sartre, che lo rifiutò).
Nello stesso 1914 in cui era stato chiamato a presiedere l’accademia, Bergson vide le sue opere messe all’indice dalla Chiesa. Eppure ebbe come allievo il filosofo cattolico Maritain e come amico lo scrittore Péguy, morto in guerra proprio nel 1914. Fu sul punto di convertirsi al cattolicesimo, ma si trattenne per solidarietà con gli ebrei dopo le prime persecuzioni. Per il suo prestigio, il regime di Vichy dispensò Bergson dalle epurazioni antisemite; ma lui volle condividere il destino degli ebrei e si dimise da tutte le cariche; aveva ormai ottant’anni. Quando morì, nel 1941, volle però un prete cattolico e un funerale cristiano.
In un discorso all’accademia del 1915, Bergson previde che dopo il secolo dedicato alle scienze fisiche, il Novecento sarebbe stato il secolo delle scienze morali. Dopo la macchina e la materia avrebbe trionfato lo spirito, lo slancio vitale, l’energia creativa. Non fu una felice intuizione, visto il seguente dominio planetario della Tecnica, evidenziato da pensatori tedeschi come Spengler, Jünger e Heidegger. La tecnica trionfò, eppure i tedeschi persero anche l’altra guerra…
Sorel
La rivoluzione sorge dal mito
C’è un pensatore che ha teorizzato nel primo Novecento la rivoluzione separandola dall’idea di progresso e ha figurato la lotta dei lavoratori, dei proletari e degli oppressi separandola dal materialismo storico-economico, spingendola verso un volontarismo eroico, fondato sul mito. Georges Sorel fu l’unico autore conteso nelle sue idee e perfino nelle sue spoglie terrene da Lenin e Mussolini, amato da Croce e da Gramsci, ma anche da Malaparte, da Gobetti e dai sindacalisti rivoluzionari. Sorel espresse e sintetizzò gli spiriti animali del Novecento, che produssero il comunismo e il fascismo, il sindacalismo e la rivolta antiborghese, antidemocratica e antiliberale che lo percorse. A lui si deve, nel 1908, il proposito di scindere la rivoluzione politica e sociale dalle Illusioni del progresso, come si intitolava la sua opera. A suo giudizio, il socialismo avrebbe dovuto liberarsi dalla subalternità al progetto illuminista e borghese veicolato dagli intellettuali, che egli già vedeva, ben prima che Gramsci teorizzasse l’egemonia culturale, come «un’oligarchia di professionisti dell’intelletto e della politica» tesa a monopolizzare le idee dominanti. Sorel aveva già scritto, da poco, le sue Riflessioni sulla violenza, che fu il manifesto del radicalismo rivoluzionario del Novecento e che attirò socialisti e nazionalisti, sindacalisti e futuristi. Quel libro fu poi ripubblicato nel 1919, con un’appendice dedicata a Lenin e alla sua rivoluzione. Sorel scagliò l’anatema contro «le potenze plutocratiche» e «le democrazie borghesi», lanciando una vera e propria maledizione: «possa prima di scendere nella tomba vedere umiliate le democrazie borghesi, oggi cinicamente trionfanti». Fu accontentato, perché fece in tempo ad assistere alla rivoluzione bolscevica e alla nascita del fascismo, anche se la sua morte precedette di due mesi la marcia su Roma. E Roma e Mosca si offrirono di elevargli un monumento funebre, contendendosi le sue spoglie. L’anatema soreliano contro le plutocrazie risuonerà anche da un altro versante e con altri toni più scientifici a opera del conservatore disincantato Vilfredo Pareto, elitista e ingegnere come Sorel(e Comte). Mussolini riconobbe: «Quel che sono lo devo a Sorel»; e poi: «Per me l’essenziale era agire. È a Sorel che io debbo di più. È questo maestro del sindacalismo che, con le sue rudi teorie sulla tattica rivoluzionaria, ha contribuito di più a formare la disciplina, l’energia e la potenza delle coorti fasciste». A sua volta Sorel, pur tributando elogi alla figura «eccezionale» di Lenin, riconosceva a Mussolini, che vedeva come un condottiero rinascimentale, il merito «d’avere inventato la sintesi del dato sociale e del dato nazionale che io ho studiato ma non ho approfondito». Sorel fu un autore più seguito in Italia che in Francia, partecipò al dibattito sull’inveramento del marxismo che coinvolse la cultura filosofica e sociale italiana di fine Ottocento e lasciò un’impronta decisiva sull’interventismo culturale. Ma curiosamente Sorel si schierò contro la grande guerra, che, a suo dire, avrebbe ridotto l’Italia a terra di conquista e criticò l’impresa fiumana che pure esaltava il sindacalismo eroico da lui teorizzato. Sorel resta la dogana che separa e unisce il marxismo e le esperienze rivoluzionarie del Novecento dal sindacalismo al nazionalismo, fino alla rivoluzione gobettiana, liberale e giacobina, che teorizzò il ricorso alla violenza, giustificando la rivoluzione d’Ottobre. Il suo pensiero prosegue la sintesi dei radicalismi perseguita dai circoli Proudhon. Sorelirrazionalizza il marxismo, lo invera in chiave mitica e «spirituale», si appella non alla necessità storica ma alla volontà eroica. Lui, ingegnere, ritiene che il mito abbia priorità sulla scienza, l’intuizione sulla dialettica, l’immediato sul mediato, l’energia sulla teoria, la mistica e la libera creatività sul determinismo storico ed economicista, la tradizione sul progresso, l’azione sul pensiero. Sorel riconosce il ruolo trainante delle minoranze attive anziché appellarsi al protagonismo delle masse. Concepisce il socialismo come «una metafisica dei costumi» anziché una «fisica storico-economica». C’è Bergson nel suo pensiero, che è quasi l’applicazione storico-sociale dell’intuizionismo e dell’evoluzione creatrice, che in lui diviene rivoluzione creatrice e poi rivoluzione permanente, adottata da Trockij ma anche da Mussolini; c’è la rivincita dell’esprit de finessedi Pascal sull’esprit de géométrie di Cartesio; c’è Nietzsche, il pragmatismo separato dall’utilitarismo e la filosofia dell’azione. Il mito soreliano degli homines novi congiunge le rivoluzioni del Novecento. L’antagonista è lo stesso, il capitalismo borghese. Ecco il nemico. Fu Croce, con Lanzillo e Missiroli, a divulgare e tradurre in Italia con Laterza gli scritti di Sorele a suggerirlo al fascismo, anche se poi nel 1933 disse a Louis Grillet che «i libri di Sorelsono stati breviari del fascismo».
Il mito dello sciopero generale in Sorel viene liberato dalla pura rivendicazione economica e visto come una sorta di catarsi sociale che libera energie eroiche come le forze motrici della storia. Il proletariato passa da classe sociale a idea-forza, il socialismo diventa populismo radicale, il sindacato si fa falange.
Sorel vide nei rivoluzionari i nuovi «eroi spartani, difensori delle Termopili, che contribuirono a tener viva la civiltà del mondo antico». Homines novi, sì, ma a presidio della Civiltà e della Tradizione. Occhieggia in lui la passione per gli eroi classici. Per Sorel il fallimento della democrazia prova l’impossibilità di fondare la polis sul capitalismo, da cui scaturisce solo anarchia individuale. La città nuova si fonderà sul Lavoratore, che è l’erede dell’Eroe antico e del Santo medievale, e il vero successore del cittadino borghese moderno. Toni non diversi userà poi Jünger. Sorel non esita a definire la sua visione «un nuovo paganesimo rivoluzionario», ma in nuce c’è già il fascismo. Sorel, sulla scia di Comte e de Maistre, ritiene che «non bisogna avere la fobia del soprannaturale» e prevede che il cristianesimo non perirà, perché la facoltà mistica è insita nell’uomo e lo sviluppo tecnico-scientifico non potrà indebolirla. Netta è la frattura con la linea Feuerbach-Marx, con l’ateismo militante e con l’illuminismo scientista. Sorel riconosce «il vigore straordinario del cattolicesimo» e condanna progressisti, modernisti e protestanti («cristiani rilassati»), che risolvono la fede nell’orizzonte storico e terreno, preferendo i cattolici intransigenti nel segno della tradizione, i frati e i mistici. Rara avis tra i rivoluzionari, non rinnega ma riconosce l’afflato messianico e la fede alle fonti della rivoluzione sociale ed economica. Per lui l’avvenire rivoluzionario ha un cuore antico. Imperdonabile pensiero.
Sorel rovescia la teoria marxista nella prassi. Con più finezza teorica è quel che aveva compiuto Gentile riversando il marxismo nell’idealismo e poi fondando l’attualismo; ed è quel che vorrà fare Gramsci con la sua Filosofia della prassi. Da lì sorgerà il fascismo che è «attivismo assoluto trapiantato sul terreno della politica» per Tilgher, o «dinamo» secondo Camillo Pellizzi. Con Sorel il cogito ergo sumdiventò, usando una definizione di Hans Kohn, agitamus ergo sumus. Pare d’intravedere qualche germe di Sessantotto… La rivoluzione con Sorel trovò ardimento ma perse discernimento, guadagnò il cuore ma perse la testa.
Croce
Gran scrittore di filosofia e varia umanità
Benedetto Croce esercitò il suo papato laico sulla cultura italiana nei primi vent’anni del Novecento, poi fu forte la sua presenza nel primo fascismo e a latere durante il regime, per rifulgere nei primi anni della repubblica e poi declinare, cedendo infine al papato postumo di Gramsci. Secondo Sciacca, più che originale filosofia quella di Croce fu metodologia della cultura. Croce comincia dove finisce Hegel sul piano della logica e dove finisce Vico sul piano della storicità, ma a lui fu estraneo il carattere metafisico e teologico di ambedue. Croce riparte dalla vita, dopo che Hegel aveva risolto l’Assoluto nella storia (Gott im werden, Dio si fa). E riparte dalla storia lasciandosi alle spalle la Provvidenza vichiana (del resto, lui che perse da ragazzo l’intera famiglia nel terremoto a Casamicciola, non credette alla Provvidenza, come Voltaire dopo il sisma di Lisbona). Di Hegel e Vico, Croce accolse lo storicismo ma rigettò il divino, sia nella versione immanente del primo che nella versione trascendente del secondo. E su questa linea romperà poi con Gentile, accusandolo di misticismo e di irrazionalismo. Gentile resta pensatore e riformatore religioso, perché intende religare le attività dello spirito (unirle in un metafisico fascio), Croce, al contrario, intende separare, discernere, da cui la dialettica dei distinti. In Gentile libertà e autorità coincidono, in Croce sono distinte, anche se ambedue necessarie. Nel furore della polemica, Croce riduce Gentile a filosofo di Mussolini e complice delle nefandezze fasciste: è come ridurre Croce a filosofo di Giolitti, ministro della malavita, secondo Salvemini, e dunque complice della corruzione e della politichetta. Una reductioinaccettabile, in ambo i casi.
Quando Croce scrive Perché non possiamo dirci cristiani, Gentile scrive perché non possiamo non dirci cattolici (nella Mia religione). Gentile considera la fede uno stadio infantile dello spirito, la cui maturità è la filosofia; Croce considera il cristianesimo una kultur, una civiltà, ma la libertà dell’uomo resta affidata al pensiero e non alla fede, all’individuo e non alla dottrina, all’ecclesia o all’istituzione. Si ritiene Gentile autore di una teologia politica; in realtà Gentile, come Vico e Gioberti, e come il capostipite, Platone, delinea una filosofia civile proprio in quanto pensatore religioso, e concepisce la riforma politica come una riforma morale e religiosa. Quella è la differenza «politica» col pensiero laico di Croce.
Nella polemica crociana con Einaudi le parti s’invertono: Croce il liberale è il metafisico della libertà, Einaudi il liberista è l’empirista della libertà. Croce mostra quasi una teologia della libertà, l’impronta di Hegel riaffiora (ma Croce ha una visione pratica dell’autorità, laddove in Hegel l’autorità è metafisica come la libertà). Einaudi, invece, cala la libertà nell’esercizio della vita pratica, economica, nel mercato. Ma permane in Croce il primato dello Stato e la convinzione, tutta idealista, hegeliana e fichtiana, che sia lo Stato a determinare la nazione, a fare gli italiani. Qui è la sua divergenza con Volpe, che invece riteneva la nazione preesistente allo Stato, e nel caso italiano con le radici nella romanità e nel Medioevo. Croce era vicino alla destra storica italiana, divergente dalla tradizione liberale anglosassone e favorevole a uno Stato autorevole, se non autoritario, e dirigista, se non interventista in economia. Croce fu un conservatore prima che un liberale e un liberale prima che un democratico. Diffidava del parlamentarismo, presiedette nel 1914 il Fascio d’Ordine. Era nemico dei regimi totalitari a partire dal comunismo, e non fu solo antifascista; anzi, prima di diventare il padre nobile dell’antifascismo, don Benedetto sostenne inizialmente il fascismo, lo votò in parlamento anche subito dopo il delitto Matteotti, ritenne che ci volessero le sue maniere forti per affrontare la crisi e la minaccia bolscevica. Forse fu davvero Croce a suggerire a Mussolini di chiamare Gentile a proseguire la sua riforma della scuola. Croce non era un liberal e gli era familiare lo Stato etico hegeliano, nella versione della destra storica e di Silvio Spaventa; veicolò in Italia autori come Sorel, teorico della violenza e principale ispiratore di Mussolini e del sindacalismo rivoluzionario, e fece pubblicare da Laterza autori tutt’altro che liberali, come Julius Evola. Ciò non toglie nulla al suo essere liberale, antifascista ed europeista, gran filosofo e grand’uomo di lettere, anche in senso epistolare, e padre costituente. Croce fu un grande scrittore di filosofia e di storia, di letteratura e di varia umanità, un gran cultore di aneddotica, meridionalismo e civiltà della conversazione, un magnifico lettore e scopritore di talenti e un prolifico scrittore di lettere che profuse generosamente. Lasciò un’onda lunga di crociani ma non ebbe eredi significativi. A differenza dei gentiliani, che fiorirono tra i cattolici, i marxisti, i liberalsocialisti, oltre che in figure solitarie come Spirito, Emo, Severino.
Croce definì Spengler un dilettante. La stessa definizione, depurata dell’alone negativo che lui stesso vi infuse, si può usare anche per lui, e non solo perché non fu mai accademico e filosofo di professione. Croce fu il più grande dilettante di filosofia del Novecento italiano, fu il capofila; a lui seguirono Prezzolini e Papini, Gramsci e Gobetti, più pervasi di pensiero militante.
A conoscerlo dai suoi scritti e dalla sua autorevole vecchiaia non si direbbe, ma anche Croce fu giovane e innamorato, benché compassato, claudicante e poco attraente. Nella sua vita l’amore per Angelina, una bella e allegra sciantosa, durò vent’anni e ha contato più di quanto dicano i suoi biografi; ma contò soprattutto il dolore per la sua perdita, per la morte precoce di lei. Perfino la rottura con Gentile fu legata a quell’amore perduto. Ne accenna Mircea Eliade nel suo Diario portoghese. Eliade racconta che aveva conosciuto nel 1941 all’ambasciata italiana a Lisbona il figlio di Giovanni Gentile, Benedetto. E questi gli aveva raccontato di donna Angelina, bella e piena di vita, che rallegrava la vita a Croce e viveva con lui more uxorio, uno scandalo per l’epoca. Angelica e don Benedetto ebbero uno stretto sodalizio con Gentile e la sua famiglia e furono ospitati a casa del filosofo siciliano. Quando morì Angelina, Croce fu distrutto, e in seguito a questo grande dolore – un altro grave lutto della sua vita – diventò irascibile e intrattabile, riferisce Eliade, si isolò dagli amici. Poi sposò una torinese «rigida e severa» che voleva cancellare il passato amore con Angelina e allontanare gli amici che ricordavano quel tempo, quella donna gioviale e quella relazione amorosa. Così, secondo Benedetto Gentile, si raffreddarono i rapporti con suo padre. A volte, dietro solenni rotture filosofiche si celano, almeno come concause, motivi insondabili e reconditi, dettagli legati alla vita, ai sentimenti e alle sofferenze. Dietro il grande divorzio idealistico nella storia della filosofia italiana del Novecento c’è pure il travaglio di una vicenda privata e l’avvicendarsi di due donne al fianco di Croce. «La mia vita è spezzata, perché io amavo Angelina più assai forse che ella non comprendesse», scrisse Croce a una cugina. Angelina Zampanelli era una romagnola gioviale che Giuseppe Prezzolini descriveva «di imperiale bellezza, più alta di lui, rassomigliante alla Teodora dei mosaici di San Vitale a Ravenna». Il suo fascino aveva stregato lo stesso Prezzolini e Renato Serra. Con Croce si erano incontrati a Salerno nel 1893, al caffè della stazione, gestito dai parenti di lei. Vissero insieme per molti anni, anche nell’ex dimora di Goethe. Viaggiarono spesso insieme. Per la cagionevole salute di lei, che dal 1905 scoprì di avere problemi cardiaci, andarono in villeggiatura per sette anni consecutivi in un piccolo paese abruzzese, ospiti della cugina Teresa, a Raiano. Croce pensava che l’aria fina del paese avrebbe giovato alla sua Angelina. Ma fu proprio a Raiano, alla fine dell’estate 1913, che Angelina morì. Nel registro dei morti, in data 1913, Angelina Zampanelli risulta come «moglie del Senatore Benedetto Croce». Non si sa se fu la pietosa aggiunta di un impiegato comunale per salvare la memoria di lei e la rispettabilità di ambedue dall’infamia della convivenza. O se, come scrissero i filosofi Nicola Abbagnano e Augusto Guzzo, Croce abbia sposato davvero in punto di morte l’amata Angelinella, che al paese chiamavano la «principessa» per il portamento giunonico. Il crociano Gennaro Sasso escluse l’ipotesi di un Croce vedovo. In una memoria pubblicata sul «Tempo» negli anni sessanta, il fedele allievo di Croce, Edmondo Cione, noto come «il vaccariello» perché andava sempre dietro alla Vacca Sacra, don Benedetto, definisce Angelina «un’antica attrice di café chantant». Si deve invece ad Abbagnano la perfida definizione di sciantosa; impressiona pensare all’austero Croce innamorato di quel che oggi si direbbe una «velina»… Nell’ebbrezza del ménage con Angelina, il giovane Croce arrivò perfino, lui menomato dal sisma alla gamba destra, a sfidare a duello il duca Riccardo Carafa di Andria in seguito a una divergenza sulla figura dantesca di Piccarda. Naturalmente perse il duello al primo sangue nonostante avesse preso lezioni di sciabola, alla presenza di D’Annunzio; e donò come pegno della sconfitta i suoi occhiali alla moglie del duca, donna Errichetta. Ma il ménage con Angelina lo aveva riconciliato con la vita e lo avevo accostato perfino allo stile dannunziano del suo opposto conterraneo, il divo Gabriele. Lo studioso d’estetica visse con Angelina un po’ da esteta, il filosofo dello spirito si lasciò trasportare dalla carne e dal cuore. Quando morì Angelina, raccontò Enrico Ruta a Prezzolini, Croce si disperò e pianse «con tutte le sue lacrime… non ho mai visto un uomo che ama la sua donna con tale passione». Alla cugina Teresina, don Benedetto confidò che la ferita aperta nel cuore «non si rimarginerà mai». Si sposò, disse, per non impazzire o non suicidarsi e per colmare l’insopportabile vuoto nella sua casa. Così pochi mesi dopo, per dimenticare Angelina, Croce sposò Adelina, decisamente meno avvenente e florida di Angelina, e sua conoscente quando era laureanda e si affacciava da Croce, da cui ebbe poi vari figli. Il ricordo di Angelina fu meticolosamente rimosso dalla vita di casa Croce, trasferito a palazzo Filomarino. Restò come unica traccia di lei, di quella ferita e del romanticismo nascosto e sofferto di don Benedetto, un ritratto di Angelina nella biblioteca del palazzo, colta da Salvatore Postiglione nello splendore dei suoi ventinove anni. Quante volte, nella solitudine del suo scrittoio, il vecchio Croce avrà sollevato gli occhi dai libri a vedere quel ritratto florido di un tempo gioioso e avrà ripensato alle perfide imboscate del destino, che ti dà l’amore quando sei immerso nella vita solitaria della mente, e poi te lo toglie quando senti di non poterne più fare a meno. Non mancarono tormenti e drammi dietro la posa cauta e pacata del Maestro.
Gentile
L’Italia come pensiero in atto
Gentile pensò l’Italia e nel pensiero trovò l’anima, il destino e la missione della nazione. La pensò prima dell’avvento del fascismo. Gentile cercò di tracciare quasi un’escatologia italiana che corre parallela alla storia d’Italia, come una storia della redenzione spirituale d’Italia. Uso l’espressione escatologia nel suo senso pieno e religioso, perché in Gentile vi fu l’ultimo poderoso tentativo di pensare l’Italia mediante una teologia civile, nel solco di Vico, una riforma religiosa rivolta alla politica e una religione civile legata all’amor patrio, allo spiritualismo politico e al pensiero nazionale. I precursori del pensiero unitario Gentile li chiama infatti profeti, a partire da Dante; il Risorgimento lo vede come la resurrezione dell’Italia, attuare l’Italia è per lui una missione fondata sulla religione della patria e sul suo primato morale e civile, ma anche culturale. Mazzini e Gioberti rivivono nel pensiero gentiliano come dioscuri di un’Italia pensata col cuore.
Secondo Gentile è Dante, «pervaso da una filosofia di gran lunga superiore» ai poeti classici, il precursore del pensiero italiano e dello Stato unitario; è lui «padre nostro, primo degli italiani», scrive Gentile nel suo commento al canto di Sordello. Prima che poeta, Dante è filosofo, devoto a quella madonna filosofia «figlia d’Iddio, regina di tutto, nobilissima e bellissima filosofia», come scrive Gentile citando Dante in una prolusione del 1907 all’università di Palermo. Per realizzare la sua impresa Gentile convoca nella sua opera gli stati generali dell’Italia antica e moderna – filosofi, artisti, poeti ed eroi – e ne rintraccia il pensiero vivente, come già lo chiamava Mazzini; un pensiero vivente e vibrante nel suo eterno, incessante divenire. Impresa concepibile dentro la sua filosofia dell’attualismo, dove il pensiero ravviva il passato e lo pone in atto. Il 10 febbraio 1921 Piero Gobetti organizzò una conferenza di Gentile a Torino, in un ciclo di incontri con Croce, Salvemini e Prezzolini. Scrisse per l’occasione Gobetti su «l’Ordine Nuovo»: «Questo insegnamento di vitalità intensa, d’operosità necessaria, di serenità, d’umanità scaturisce dall’opera di G. Gentile. Egli ha fatto scendere la filosofia dalle astruserie professorali nella concretezza della vita. È giusto che in lui gl’individui riconoscano un maestro di moralità, e tutta una nuova generazione s’ispiri al suo pensiero per rinnovarsi». Due anni dopo, facendo in I miei conti con l’idealismo attuale, Gobetti si rimangiò quel giudizio, a suo stesso dire compromettente, dicendo che voleva solo propagandare la conferenza. Ma non si possono scrivere quelle cose e poi attribuirle a una promozione pubblicitaria… Quale dei due Gobetti era sincero? Nel frattempo Gentile era diventato ministro della Pubblica istruzione con Mussolini. Peggio fu Togliatti, che pubblicando in Italia la monografia di Lenin su Marxcancellò il riferimento che Lenin faceva a Gentile, unico interprete filosofico di Marx da lui citato.
Nessun filosofo prima di Gentile ha avuto la possibilità di trasferire la sua teoria nella prassi, il pensiero nell’azione di governo, disseminarlo nella scuola, nell’università, nella cultura e nelle istituzioni del suo tempo. Salvo brevi esperienze ministeriali di De Sanctis, Bonghi e Croce, nessun intellettuale ebbe la possibilità di incidere nella storia e nella cultura italiana come Gentile, né prima né dopo di lui. E Gentile incise, ampiamente, profondamente, efficacemente. Raro caso di filosofo al potere che realmente produsse effetti concreti, nonostante il regime autocratico (o proprio per questo?). Delle sue eredità ancora si parla. Come in un corpo coerente e proteso all’unità, l’impianto teorico dell’attualismo si annoda alla filosofia civile, anzi si unisce nel nome di quella filosofia dell’identità che è la sua impronta principale. C’è in Gentile lo sforzo di dar compimento consapevole al motto postrisorgimentale di fare gli italiani dopo aver fatto l’Italia e di esprimere un pensiero italiano dopo aver dato un corpo allo Stato unitario. Quasi una visione organicistica del pensiero italiano che compone in unità le sue sparse membra, come è accaduto col processo storico che ha riunito le sparse membra locali nel corpo intero dello Stato. Gentile pensa l’Italia attraverso la sua tradizione, i suoi poeti che considera anche filosofi, da Dante a Leopardi, la circolazione del pensiero nella filosofia italiana e il formarsi dell’idealismo, la costruzione concettuale del Risorgimento come categoria filosofica ed etica, la filosofia della guerra e lo spiritualismo politico, la centralità della scuola e del processo educativo, la formazione di una coscienza civile nazionale, il rapporto con la religione, l’umanesimo del lavoro e la visione comunitaria. Nel pensiero italiano Gentile convoglia la storia, l’arte e la vita spirituale della nazione.
Premessa inevitabile, anzi precondizione assoluta, del suo pensiero filosofico e civile, è il suo carattere, la sua indole personale: quella specie di fiducia nella storia, nella cultura e negli esiti della vita, quell’ardore a cimentarsi, di tempra rinascimentale e risorgimentale, quel confidare nella forza costruttiva e audace del pensiero. Gentile esplicitò nella sua opera teoretica maggiore una vera professione di ottimismo filosofico. «Una coerente concezione religiosa del mondo dev’essere ottimistica, senza negare il dolore e il male e l’errore», scrive nella Teoria generale dello Spirito come atto puro. E in tutte le sue pagine si respira questa fiducia nel pensiero ardente che innalza l’uomo attraverso le opere e lo fa eterno. L’ottimismo gentiliano non si arresta neanche davanti al padre del pessimismo, Leopardi, che Gentile prima vede come contraltare tragico all’idealismo, ma poi, passando dall’«astratta obiettività» alla «vita reale», Gentile ravvisa un effetto opposto al suo pessimismo, al punto da concludere, spingendosi oltre De Sanctis: «La filosofia leopardiana si converte in una delle più vigorose forme di ottimismo altamente umano». Ecco di nuovo quella fiducia baldanzosa e gioviale nell’affrontare la vita e il pensiero, «quella sorta d’ingenuità fanciullesca ed eroica» di cui parlò poi suo figlio Benedetto. Non solo della sua potenza di pensiero, ma anche della sua fiducia eroica e fattiva nella vita e nelle opere avrebbe bisogno l’Italia smorta per risorgere. E invece, Gentile resta ancora un frutto proibito per l’Italia presente; che è poi un’Italia sempre più assente.
Chi uccise Giovanni Gentile, chi furono i mandanti e perché fu ucciso? Non sono tre domande di un ingiallito thriller filosofico, ma ruotano intorno a un evento simbolico cruciale per la storia intellettuale e civile d’Italia. Perché su quell’assassinio poi si legittimò la repubblica ideologica del nostro paese, si fondò l’egemonia culturale e il ruolo dell’intellettuale organico. Su quelle tre domande si fonda la ricerca di Luciano Mecacci, che non è uno storico e nemmeno un filosofo, ma uno psicologo (La ghirlanda fiorentina). Chi uccise Gentile il 15 aprile 1944 a Firenze? Lo sappiamo da sempre: un commando comunista dei Gap. Sull’esecutore materiale del delitto la versione canonica dice Bruno Fanciullacci, ma Mecacci propende per un partigiano minore, Giuseppe Martini, nome di battaglia Paolo. Ma delle tre domande da cui siamo partiti, è forse la meno importante. Non cambia molto sapere chi materialmente eseguì la sentenza di morte. Ci basta sapere che furono i gappisti del Pci. E ci basta notare che all’assassino ufficiale di Gentile, Fanciullacci, è dedicata a Firenze una strada; invece non è dedicata una strada alla vittima, l’ultimo grande filosofo d’accademia, gran ministro, gran promotore della cultura e tutore di molti studiosi antifascisti. Chi ordinò l’uccisione di Gentile? Qui il quadro si complica e Mecacci per includere tutte le ipotesi ricorre alla metafora dei cerchi nell’acqua, dal cerchio dei mandanti ai più periferici, per arrivare agli esecutori. Una metafora che potrebbe adottarsi anche per altri delitti, come il caso Moro, passando dal cerchio delle Br ai poteri interni conniventi e ai servizi segreti stranieri. Mecacci non esclude nulla: il Pci «fu il principale attore dell’organizzazione materiale dell’attentato», che poi rivendicò apertamente, ma pure i servizi segreti britannici e americani, Radio Londra, Radio Bari e Radio Cora, gli intellettuali fiorentini e milanesi, senza escludere alcuni azionisti vicini ai servizi segreti alleati, i fascisti intransigenti e i massoni. Non un complotto o una convergenza di interessi, precisa l’autore, ma «una concatenazione di decisioni strategiche». Però una sintesi più calzante si può fare. Gentile fu ucciso dall’Intellettuale collettivo, che è la definizione di Gramsci del Partito comunista, ma è anche il gruppo di professori e intellettuali organici al Pci, vicini a Secchia, Longo, Li Causi e Togliatti, rientrato un mese prima dell’uccisione di Gentile dall’Urss. Fu proprio il leader del Pci a rivendicare l’esecuzione, usando definizioni infami di Gentile: canaglia e camorrista, immondo e corruttore, bandito e bestione. Più deprimenti furono i giudizi, le condanne e il plauso all’assassinio provenienti da quegli intellettuali. Le spregevoli parole scritte da Concetto Marchesi, da Antonio Banfi, che fino a pochi mesi prima seguitava a chiedere e ottenere favori da Gentile, da Eugenio Curiel. E poi il ruolo di Bianchi Bandinelli, amico di Gentile e accompagnatore deferente di Hitler in visita a Firenze nel 1938. E il ruolo di Mario Manlio Rossi, di Giorgio Spini e di Carlo Ludovico Ragghianti e quello di Eugenio Garin, prima devoto a Gentile e poi compiacente verso il Pci; di Cesare Luporini, reticente sul delitto Gentile, e di tanti intellettuali. I loro nomi e le loro storie rimbalzano nelle pagine di Mecacci. Quasi tutti debitori verso Gentile o verso il suo pensiero, come del resto Gramsci e Togliatti. L’ho sottolineato curando gli scritti gentiliani raccolti in «Pensare l’Italia», e dedicandovi un’ampio saggio introduttivo. Fu disgustoso come poi denigrarono Gentile come filosofo e come uomo. Ai suoi funerali, scrisse il giovane Spadolini, non c’erano accademici (solo tre), non c’erano intellettuali, ma c’era un’immensa e commossa partecipazione di popolo.
Ma la trama si complica ancor più se ci chiediamo perché fu eliminato. Certo non fu punito per il passato, semmai fu un modo per eliminare attraverso lui il loro passato, per occultare le loro compromissioni col regime. Chi lo uccise volle troncare il suo appello dal Campidoglio alla pacificazione tra fascisti e antifascisti, che da Mosca Togliatti aveva attaccato duramente. Lo uccisero non per l’adesione alla Rsi, ma non gli perdonarono l’appello alla concordia nazionale. Era la tesi che un tempo circolava solo nelle ristrette vulgate di destra, negli opuscoli missini; oggi è la più credibile motivazione storica del suo assassinio. Non fu il solo omicidio culturale antifascista se si pensa a Goffredo Coppola e Pericle Ducati, grandi studiosi del mondo antico.
Mecacci allude a un ruolo futuro che avrebbe potuto avere Gentile. Qui il mistero s’infittisce e si collega a due circostanze: cinque giorni prima era stato ucciso il suo segretario in accademia, Fanelli, da cui si cercavano documenti riguardanti Gentile. E il 18 aprile Gentile avrebbe dovuto incontrare Mussolini a Salò. Gentile non fu ucciso per il suo passato ma per quel che avrebbe potuto rappresentare nell’avvenire. Fu un parricidio rituale e un esempio per il codice ideologico di comportamento futuro. O gli intellettuali si redimevano passando al Pci, come i Banfi, i Garin, i Bianchi Bandinelli, i Bilenchi, in parte gli Spirito e i Malaparte; oppure sarebbero stati emarginati e rimossi, come accadde ai Volpe, i Pellizzi, i Soffici, i Papini, Evola e altri. L’uccisione di Gentile, la denigrazione postuma, la rimozione della memoria, fu il peccato originale su cui si fondò il sistema ideologico-mafioso italiano, fu il parametro per misurare gli ammessi e gli esclusi, in accademia e non solo, fu il preambolo alle omertà successive e alle perduranti miserie partigiane della cultura italiana. Sacrificarono sull’altare dell’Intellettuale collettivo la più potente mente filosofica d’Italia.
Gramsci
Tra Lenin e Mussolini
«Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario. Il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà […] il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale». Il ritratto che Piero Gobetti fa di Gramsci spiega con efficacia fisiognomica l’ideologia gramsciana e la subordinazione della realtà alla volontà di pianificazione. Quel fisico si farà più piccolo ed esile alla fine della sua vita, quasi a segnare l’egemonia del capo sul corpo, lo svanire della fisicità sotto il peso schiacciante dell’intelletto.
Tutta l’opera di Antonio Gramsci è stata il poderoso tentativo di tradurre il marx-leninismo in italiano. Per compiere questa traduzione, Gramsci mobilita la storia d’Italia e i suoi principali teorici, da Machiavelli a Gioberti, da Gentile a Croce, dai sociologi delle élite alla letteratura nazionale. Le sue idee chiave, i suoi concetti cardine derivano da Lenin. Perfino l’adozione della via nazionale al comunismo e della democrazia come fase transitoria verso la dittatura del proletariato deriva da Lenin, anzi, l’ascoltarono dalla sua viva voce nel corso della permanenza di Gramsci a Mosca tra il 1922 e il 1923, mentre in Italia andava al potere Mussolini. Gramsci si propose di far combaciare Il Principe di Machiavelli col Manifesto del Partito Comunistadi Marx ed Engels. I due traduttori del marxismo in filosofia della praxis per Gramsci sono Sorel e Gentile. Sorel è citato all’esordio delle sue Noterelle su Machiavelli come l’autore che eleva Il Principe a Mito, cioè a creazione della «fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva». Gentile, invece, è il filosofo che reinterpreta Marx, anzi per Gramsci «è il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero lo sviluppo ultimo dell’idealismo». Era il 1918, e poco dopo Gramsci, Tasca e Togliatti daranno vita a «l’Ordine Nuovo», una rivista di marxisti gentiliani. Il riferimento a Gentile poi sparisce e nei Quaderni dal carcere si fa critico, perché Gentile nel frattempo è diventato il filosofo del fascismo. Resta in lui l’impronta gentiliana nello Stato pedagogico e totalitario nel primato del noi, nella centralità della cultura, nell’identità di teoria e prassi, filosofia e politica, nella riforma morale, intellettuale e civile. Ma i riferimenti a Sorel e Gentile non tradiscono il leninismo, anzi sono ambedue rigorosamente iscritti dentro il leninismo. Gentile è citato da Lenin come unico esegeta di Marx. Quanto a Sorel, lo dicevamo, Mussolini e Lenin lo consideravano ambedue maestro e precursore. Il perimetro Marx-Sorel-Gentile-Machiavelli unisce Gramsci a Mussolini, per non dire di Oriani e Prezzolini. Li separerà la lotta di classe che in Mussolini si fa lotta tra le nazioni. Anche il nazionalpopolare è farina russo-leninista, ma Gramsci la riversa nell’impronta giobertiana e gentiliana; sostituisce l’ispirazione romantica e risorgimentale dei primi con la linea illuministica e rivoluzionaria. Il progetto di Gramsci è portare l’illuminismo alle masse, tramite il partito giacobino, nuovo Principe, che Gramsci incarna nel Partito comunista. Quel partito giacobino che, a suo dire, mancò al tempo del Risorgimento, privando l’unità di una direzione progressiva. Il giacobinismo riporta Gramsci a Lenin e alla linea radicale illuminista e lo separa da Sorel e da Gentile, che furono antigiacobini. Il pensiero di Gramsci non si discosta da Lenin neanche quando teorizza l’egemonia, ferma restando la meta della dittatura del proletariato, o quando definisce il partito totalitario erede rivoluzionario del Principe. Gramsci pensa a Lenin quando oppone il cesarismo progressivo dei bolscevichi al cesarismo regressivo dei fascisti, la violenza progressiva degli uni alla violenza reazionaria degli altri, il totalitarismo comunista al totalitarismo repressivo. Ma chi stabilisce quel che è progressivo e quel che è regressivo, la violenza terapeutica e quella sistematica, il totalitarismo buono e quello cattivo? Il Partito: «ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita». Mirabile sintesi di un processo che porta dal relativismo all’assolutismo: non esistono valori oggettivi né principi superiori, ma tutto è commisurato all’utilità del soggetto-principe che decide sui princìpi, sui valori, sulla morale. E dunque uno stesso atto può diventare legittimo o illegale, ammissibile o inammissibile, eroico o infame, morale e immorale, vero o falso se compiuto dal Principe o dai suoi nemici. Quanto abbia inciso questa concezione, relativista e assolutista al tempo stesso, sull’ideologia dell’Intellettuale collettivo, il Partito, e dei singoli militanti, è ancora sotto i nostri occhi.
Precorrendo la svolta giudiziaria dei nostri anni, Gramsci auspica sull’«Avanti!» torinese del 18 febbraio 1920 il controllo della forza armata nelle mani dell’ordine giudiziario. Poi critica lo Stato unitario italiano con gli stessi argomenti dell’odierna vulgata antirisorgimentale. Per Gramsci «lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di briganti» (Il Lanzo ubriaco, in L’Ordine Nuovo, Einaudi, 1954).
Il destino tragico di Gramsci ebbe un risvolto paradossale: una dittatura ostile lo costrinse al carcere, una dittatura comunista lo avrebbe eliminato; e, in mezzo ai due regimi totalitari, Gramsci teorizzava in prigione un altro sistema totalitario. Senza il carcere, Gramsci avrebbe probabilmente guidato una scissione nel Partito comunista. Quando è in carcere, sotto il regime fascista, Gramsci accusa il fascismo non di aver instaurato una dittatura totalitaria, ma di aver tradito la rivoluzione nel compromesso con la borghesia, la monarchia, il capitale e la Chiesa. Ovvero accusa il fascismo di essere un totalitarismo incompiuto, imborghesito, arreso ai poteri forti.
La fortuna di Gramsci culminò nell’Italia degli anni settanta, dopo Togliatti. Poi sorsero due letture revisioniste di Gramsci: a sinistra il cosiddetto gramsciazionismo, ovvero un Gramsci letto come la prosecuzione di Gobetti, una versione radical-liberal che sbarcò poi negli Stati Uniti. Dall’altra parte si affacciò nella nuova destra il gramscismo di destra. La matrice era nell’idealismo militante e Gramsci teorizzava in carcere quel che lo stesso Gentile e Bottai realizzavano nel fascismo. Il progetto fu ripreso nel dopoguerra da Togliatti, che gettò le basi all’egemonia culturale del Pci.
Alla caduta del comunismo è sorto un Gramsci surreale, d’inverosimile innocenza, grazie a una serie di scritti apologetici, perfino fumetti su di lui bambino, annunci di gramscismo in tv, in America e in Oriente. È tornato il mito di Gramsci in versione disabile di genio, bambino prodigio, santo liberale, nemico della dittatura. In realtà Gramsci opponeva alla dittatura e alla violenza fascista non la libertà e la legalità ma la dittatura di Lenin e la violenza «progressiva», ritenendo che il male non fosse la dittatura o la violenza, ma il suo indirizzo. Mentre a Carl Schmitt nella Germania liberata e democratica era vietato accedere alla biblioteca e perfino scrivere, a Gramsci in carcere il regime fascista consentì di ricevere libri, riviste e scrivere i Quaderni.
Il teorico del nazionalpopolare massacrò nei suoi scritti la tradizione nazionale e popolare italiana e la nostra letteratura, esaltando al suo confronto quella russa, giudicando la cultura del passato con le categorie ideologiche del suo presente e auspicando una pedagogia intollerante. Da tempo Gramsci è venerato come il fautore del primato della cultura, il maestro ideale per i nostri docenti, l’elaboratore appassionato di una cultura nazionale e popolare. Dimentichiamo, invece, che sant’Antonio Gramsci, come lo definì Rosario Romeo, demolì la tradizione nazionale, religiosa e civile, letteraria e culturale, sulla base del suo canone ideologico. Nel 1980 uscì sul tema un documentato libro di Gigliola Asaro Mazzola, Gramsci fuori dal mito. Gramsci liquidò Dante come un reazionario, «un vinto dalla guerra delle classi che sogna l’abolizione di questa guerra sotto il segno di un potere arbitrale […] egli vuol superare il presente ma con gli occhi rivolti al passato». Dante è letto con amore dai «professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta e scrittore» (già, Dante era solo «un qualche poeta e scrittore»…). Sbrigò Petrarca come «un intellettuale della reazione antiborghese» e il suo Canzoniere «una manifestazione di cultura elitaria, cortigiana, insincera… un fenomeno puramente cartaceo». Anzi, per Gramsci l’umanesimo «fu un fatto reazionario della cultura». Considerò Foscolo un autore retorico, «esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato», e inchiodò Leopardi al «calligrafismo» e crudelmente aggiunse: «nascono già vecchi di 80 anni, senza freschezza e spontaneità di sentimento», malati di «torbido romanticismo» e di una visione «passatista e reazionaria». A Manzoni Gramsci rimprovera di prendere in giro e canzonare i popolani, mentre hanno una vita interiore solo i signori: «Il popolo nel Manzoni nella sua totalità è bassamente animalesco». Mentre Tolstoj è per Gramsci evangelicamente vicino al popolo, il cristianesimo di Manzoni «ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco gesuitico». E la mattanza continuava. Mazzini è animato da «un mito puramente verbale e cartaceo, retorico, fondato sul passato», Carducci è salvato solo per il suo Inno a Satana, a Pascoli rimprovera ancora la retorica e «la bruttezza di molti componimenti», «la falsa ingenuità che diventa vera puerilità». D’Annunzio «è stato l’ultimo accesso di malattia del popolo italiano». Verga e il verismo sono stroncati perché si limitano «a descrivere la “bestialità” della così detta natura umana (un verismo in senso gretto)» e non offrono «apprezzabili rappresentazioni del lavoro umano e della fatica». È strage poi nel Novecento: Soffici scrive opere «intimamente ripugnanti», Ungaretti è «un buffoncello di mediocre intelligenza», Montale – e così Comisso – «esercita la professione di sacrestano letterario e nulla più»; Papini è un «boxeur di professione della parola qualsiasi» e «un grande fabbricatore di luoghi comuni rovesciati», Prezzolini si adatta in un comodo cinismo per «la propria inettitudine organica»; i letterati vociani tradiscono «tendenze carnevalesche e pagliaccesche»; su Malaparte nota «uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco». Se questa è la cultura secondo Gramsci, non resta che rifugiarsi nella barbarie…
Il pedagogo Gramsci scrive in una lettera del 1929 che «l’uomo è una formazione storica ottenuta con la coercizione», allineandosi alle tesi del sovietico Makarenko e respingendo le teorie di Gentile, più aperte alla personalità del ragazzo. Gramsci disprezza i docenti, oggi in buona parte di formazione gramsciana: «noiosissima caterva di saputelli», «i professori canagliuzze, insaccatori di leggiadra pula e di perle, venditori di cianfrusaglie». Il Gramsci maturo auspica la cancellazione di latino e greco per «la loro inessenzialità come contenuto esclusivo e privilegiato» e propone che la scuola sia organizzata come una fabbrica, esattamente come nell’Urss di Stalin tentava di fare il ministro della Pubblica istruzione Lunačarskij. Lombardo Radice notava a tale proposito: «Gramsci si poneva», come Stalin e non contro Stalin! «sul terreno del marxismo creatore (è stato proprio Stalin a dire: “esiste un marxismo dogmatico e un marxismo creatore: io mi pongo sul terreno di quest’ultimo”)».
In definitiva cosa resta da fare, si chiedeva Gramsci, e si rispondeva così: «Nient’altro che distruggere la presente forma di civiltà: distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite». «Non aver paura dei mostri», «non spaventarsi della distruzione». Puro sfascismo. Sarebbe contento Gramsci di vedere la scuola semidistrutta e i mostri danzare sulle rovine della cultura?
C’è poi l’altro Gramsci, acuto e appassionato, eroe della cultura e martire delle sue idee, che merita ogni rispetto. Ma non va trascurato il Gramsci distruttore e intollerante, e la sua nefasta influenza. Gramsci va letto e riconosciuto per quel che fu, un grande ideologo; non fu un gesù bambino. Quanto alla dittatura, Gramsci patì la padella ma sognava d’imporre la brace.
Resta viva di Gramsci la lucidità intellettuale di una visione ideologica che rilegge la storia, il pensiero e la letteratura; il primato civile della cultura, la centralità del nazionalpopolare, la fragilità del fisico unita al vigore eroico del suo pensiero, la tenerezza dei suoi sentimenti intimi. Tra le sue struggenti lettere ai familiari ce n’è una scritta a sua madre Peppina per l’onomastico. Era il 1934 e non avevano detto a Nino che sua madre era morta un anno e mezzo prima. Il Natale precedente aveva ricevuto un pacco di biscotti e lui aveva spiegato ai carabinieri: «Li ha fatti certamente mammà», non sapendo che era deceduta da tempo. Il carcere negò a Gramsci la verità nella sfera degli affetti più cari.