giovedì 28 aprile 2022

Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza sosta nel passato.



E mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all’estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia… e una bella mattina… Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza sosta nel passato.


 


PERCHÉ L'UCRAINA Noam Chomsky

 


PERCHÉ L'UCRAINA

Noam Chomsky 

Commento

La tesi di Putin, ripresa da Chomsky, secondo cui l’ingresso dei Paesi dell’ex patto di Varsavia nella Nato avrebbe costituito una minaccia per la Russia non è affatto evidente, come attesta il fatto che nemmeno Paesi che avrebbero ottime ragioni per essere preoccupati della politica di Putin, come la Polonia, non hanno istallato armi nucleari sul loro territorio.
Anche è evidente il fatto che molti membri Nato hanno permesso alla Russia  di finanziare il proprio riarmo nucleare  con le ingenti importazioni del suo gas e del suo petrolio, consentendogli di conseguire persino una posizione di vantaggio militare. Per contro Putin ha mostrato un  comportamento sempre più aggressivo in Cecenia, in Georgia, in Siria.
Mi sembra più convincente come spiegazione della scelta di Putin d’invadere l’Ucraina un'altra: considerandola una provincia russa, ha temuto che i  cittadini dell'Ucraina potessero arrivare a godere di un benessere e di un livello di libertà di gran lunga superiori a quello di cui godono i russi, generando una protesta in casa che avrebbe contestato il suo potere.
Considerando inoltre la democrazia decotta e imbelle, alla luce del fatto che da quando lui è al potere, e comunque negli ultimi anni, non aveva mai incontrato ostacoli sostanziali né da parte dell’Europa da parte degli Stati Uniti, è probabile abbia pensato che avrebbe comunque potuto avere mano libera nel sottomettere l'Ucraina.
Chomsky considera anche la rivoluzione arancione di Maidan del 2014 “istigata dagli Usa” e i successivi armamenti inviati dagli Stati Uniti all’Ucraina come un effetto dell’imperialismo americano, trascurando il dettaglio che nel frattempo la Russia si era annessa la Crimea stracciando i trattati internazionali e aveva iniziato ad armare i filorussi del Donbass.

 PERCHÉ L'UCRAINA

1.
Europa unita: confini geografici e limiti politici1

VALENTINA NICOLÌ. Professor Chomsky, vorrei farle qualche domanda sull’Europa per conoscere il punto di vista di un autorevole intellettuale da una prospettiva non europea. Innanzitutto, l’impressione è che ciò che ha costituito un tempo la forza dell’Europa, ossia la sua complessità e la molteplicità delle sue tradizioni storiche e culturali, sia diventata oggi la sua debolezza. Che ne pensa?

NOAM CHOMSKY. L’Europa un tempo era separata in paesi indipendenti. Il processo di costruzione dell’Unione europea a partire dalla Seconda guerra mondiale ha assunto forme che per certi aspetti sono positive e costruttive ma per altri, specie dopo Maastricht, non sono coerenti con lo sviluppo e il progresso. Cosicché l’Eurozona semplicemente non dà agli Stati-nazione la possibilità di funzionare al di fuori del controllo di forze con cui non possono competere. Per esempio, l’Italia non può portare avanti le politiche che potrebbe realizzare se non ci fossero determinati vincoli economici, proprio come non ha potuto farlo la Grecia a causa delle condizioni generali imposte automaticamente  in prevalenza dal potere tedesco ma attuate tramite Bruxelles. Sono evidenti contraddizioni interne. Io credo che esistano dei modi per superarle. Tra gli approcci più sensati che io abbia visto c’è quello proposto da Yanis Varoufakis e dal movimento DIEM25, che mira a preservare ciò che di positivo e progressista esiste nell’Unione europea ma superando quelle contraddizioni interne che le impediscono di realizzarsi in una forma compiuta e vincente. Questo approccio potrebbe essere fatto maturare ulteriormente e potrebbe rappresentare una via d’uscita per l’Europa dai seri problemi con cui si confronta oggi. Che sono di vario tipo. Soprattutto, esiste una disparità troppo grande tra i singoli paesi. Esiste una frattura tra Nord e Sud, tra Europa occidentale ed Europa orientale... Per risolvere queste fratture servirebbe una concreta volontà di raggiungere un compromesso, di mettere da parte i conflitti nazionalistici. E non è facile.

Prendiamo gli Stati Uniti, osserviamo la loro storia. Fino alla Guerra civile il nome «United States» era declinato al plurale, com’è tuttora nella maggior parte delle altre lingue. A partire dalla Guerra civile esso è diventato singolare. Ciò significa che negli Stati Uniti, all’epoca, ci vollero ottant’anni e una delle più devastanti guerre della storia per superare conflitti profondi, che non sono stati del tutto risolti. Gli studi contemporanei sugli atteggiamenti politici ci restituiscono il quadro di una netta divisione tra Stati schiavisti e Stati non schiavisti. È talmente consolidata che se un particolare Stato dell’Unione un tempo era dedito allo schiavismo, oggi tende ad avere una posizione più conservatrice o reazionaria su un ampio spettro di questioni, non soltanto su quelle immediatamente connesse con la schiavitù. Sono spaccature che non sono state risolte in duecentocinquant’anni di storia. Pertanto, aspettarsi che l’Unione europea le risolva dopo settant’anni, e per giunta a partire da divisioni ben più profonde... è poco realistico. In fondo, il nostro come sappiamo divenne un paese omogeneo solo grazie allo sterminio di tutte le altre nazioni. È come se in Europa la Germania avesse sterminato tutti gli altri paesi: certamente si sarebbe raggiunta con più facilità una unificazione. Ma nonostante questo fattore che ti ho appena menzionato, gli Stati Uniti non sono mai diventati un paese davvero unito. Le cose sono molto diverse da regione a regione. Basta guardare la mappa della rete elettrica statunitense per rendersi conto, per esempio, che il nord-est e l’estremo ovest sono luoghi pressoché separati.

L’autorevole storico italiano Luciano Canfora ha affermato che non fu il processo di unificazione a porre fine ai conflitti europei, bensì il Patto atlantico, ma che oggi l’Europa dovrebbe affrancarsi dalla NATO per avvicinarsi di più alla Russia e all’Africa. Lei cosa ne pensa?

Be’, per la verità in tutto il mondo la fine del conflitto fu determinata dall’invenzione della bomba atomica, perché a quel punto non sarebbe rimasto in piedi nulla... anzi, non solo la bomba atomica ma anche le armi termonucleari nel 1953. Una volta inventate le armi termonucleari non ci sarebbero potuti più essere conflitti tra le grandi potenze, perché altrimenti saremmo morti tutti. Semplicemente non c’era altra scelta, non potevano scoppiare conflitti. Come la Germania e la Francia, che per secoli si erano massacrate tra di loro, ma adesso non potevano farlo più. Dunque, l’unica domanda che rimaneva era come trovare un accomodamento a questi attriti, ma questo era un processo lungo e ancora in corso. I due principali centri del potere militare, gli Stati Uniti e la Russia, erano molto diversi quanto a potenza economica e raggio d’azione, come pure quanto a grado di sviluppo, ma dopo gli anni Sessanta erano suppergiù comparabili rispetto alla capacità di distruggere il pianeta. Ed è quasi un miracolo se siamo sopravvissuti a tutto questo.

In effetti, oggi ci avviciniamo di nuovo a un altro conflitto. Ma internamente all’Europa una guerra era semplicemente inimmaginabile, dunque l’unica domanda era: come far avanzare l’Europa in un simile contesto? E sì, è giusto, una delle opzioni era di unirsi al sistema atlantista, sostanzialmente dominato dagli Stati Uniti. Ma c’erano anche altre strade, ci sono sempre state. Fin dall’inizio gli esperti di pianificazione strategica degli Stati Uniti temevano seriamente che l’Europa potesse diventare una cosiddetta «terza forza», un attore indipendente negli affari internazionali, magari secondo i principi gaullisti. Negli anni furono intraprese diverse iniziative come l’Europa di De Gaulle, dall’Atlantico agli Urali, l’Ostpolitik di Willy Brandt e altri tentativi di costruire qualcosa di diverso, un’Europa più indipendente.

Ogni volta questi progetti furono ostacolati dalla potenza soverchiante degli Stati Uniti, e necessariamente la scelta, la decisione dei leader europei doveva essere di accettare tutto questo. Fu molto chiaro nel 1990. Allora Gorbačëv aveva una visione molto diversa del periodo post-Guerra fredda. Egli, infatti, caldeggiava la costruzione di un’Eurasia unificata, con i suoi centri nevralgici a Bruxelles, Mosca, Vladivostok, Ankara e via dicendo, e l’eliminazione di tutte le alleanze militari. La sua era una visione di stampo socialdemocratico, per unificare i blocchi militari e muovere verso politiche socialdemocratiche.

Poi c’era la visione degli Stati Uniti, che era molto diversa. Ed emerse con evidenza rispetto al destino che sarebbe stato riservato alla Germania: la questione centrale. Ormai gli studiosi hanno chiarito con estrema accuratezza ciò che successe. Vi fu un accordo, un accordo verbale tra George Bush padre, James Baker e altri vertici statunitensi da una parte e Gorbačëv dall’altra.

L’accordo era che la Germania poteva essere unificata e persino militarizzata, il che dal punto di vista della Russia era una concessione incredibile. Prendiamo la storia moderna: negli ultimi secoli la Germania da sola ha praticamente distrutto più di una volta la Russia, che è sopravvissuta a stento. Ora invece Gorbačëv acconsentiva all’unificazione della Germania, addirittura alla sua adesione alla NATO, un’alleanza militare ostile... ma c’era un do ut des. La condizione era che le forze della NATO non si spostassero di «un centimetro verso est» («one inch to the East»). Quella fu la promessa di James Baker a Gorbačëv, che insomma non si sarebbero spinti verso Berlino Est, verso la Germania Est. Non c’era la minima intenzione di andare oltre, era fuori discussione.2

Era una promessa verbale, non fu mai messo nulla per iscritto. E infatti la NATO si mosse quasi immediatamente verso la Germania Est. Gorbačëv non ne fu certo contento, ma non c’era nessun accordo formale, solo un patto verbale, tra gentiluomini, che fu subito violato.

Con Clinton, poi, la NATO si spinse sempre più oltre, passo dopo passo, fino al confine russo. Nel 2008 la cosa continuò con Bush figlio, e poi ancora con Obama: vi furono proposte per far entrare l’Ucraina e la Georgia nella NATO.

Questa è una minaccia per la Russia, quasi inconcepibile per qualsiasi leader russo: nessuno, non importa chi, potrebbe accettarla. L’Ucraina, anche non volendo tenere conto delle lunghe relazioni storiche, culturali, linguistiche e di altro tipo, costituisce un fulcro geopolitico per gli interessi di sicurezza della Russia. Era destinata a causare seri problemi, che sono ancora lì sul tavolo e che ovviamente spiegano in parte ciò che sta avvenendo oggi nella regione ucraina.

Nel frattempo rimaneva il dilemma di cosa fare della NATO. Sin dalla sua formazione, la giustificazione teorica della NATO era la difesa dell’Europa occidentale da un attacco russo. Possiamo chiederci quanto fosse realistica, quanto fosse sincera. Io penso non del tutto. Molto era inventato. Ma checché possiamo pensarne, questa era la giustificazione ufficiale. In ogni caso, nel 1991 quella giustificazione venne a cadere: non era più concepibile un attacco russo all’Europa occidentale. Oggi ritorna in auge, ma è la conseguenza dell’espansione della NATO fino ai confini russi. Anche statisti come George Kennan hanno sempre messo in guardia da questo allargamento, giustamente. Equivale in pratica a riportare in vita quel tipo di scontri che erano ormai sepolti nel passato.

In ogni caso, nel 1991 rimaneva in piedi la domanda di cosa fare della NATO. La conclusione logica avrebbe dovuto essere che doveva essere sciolta: la sua giustificazione ufficiale non esisteva più. Invece, fu allargata e non solo a livello territoriale ma anche nella sua missione. La missione ufficiale della NATO fu modificata perché diventasse di portata globale, non soltanto il confronto con la Russia. Così, la missione della NATO divenne la protezione del sistema energetico globale, un mezzo per assicurare che esso rimanesse sotto il controllo occidentale: non c’è un’altra accezione di «protezione». Questo sistema includeva le vie marittime e i condotti di gas e petrolio, insomma il mondo intero. In questo modo la NATO è diventata sostanzialmente una forza di intervento a guida statunitense. E lo possiamo confermare agevolmente: basta pensare ai Balcani nel 1999, quando la NATO bombardò la Serbia per la questione del Kosovo. Già questo è un indizio forte del fatto che la NATO è semplicemente una forza di intervento statunitense che non presta la benché minima attenzione al diritto internazionale. Nel caso della reazione occidentale all’invasione irachena del Kuwait quantomeno si potevano addurre delle argomentazioni, io non credo che fossero valide, ma almeno si potevano immaginare, insomma che fosse una reazione difensiva.

Nel caso del Kosovo non c’era nessun pretesto plausibile, e tra l’altro esistevano chiaramente delle opzioni diplomatiche: le due parti avevano delle proposte che si sarebbe potuto vagliare. E infatti, dopo settantotto giorni di bombardamenti, fu raggiunto un accordo che era una sorta di compromesso tra le due posizioni, formalmente perlomeno. Ma, ancora una volta, accadde che la NATO si spinse più in là verso il confine russo, addirittura offrendosi di inglobare aree di cruciale importanza per la sicurezza russa, come l’Ucraina e la Georgia.

In sintesi, c’è stato un momento in cui la NATO ha cambiato la sua missione dalla difesa, almeno in teoria, dell’Europa occidentale al controllo del sistema energetico mondiale, oltreché fungere da forza di intervento degli Stati Uniti.

Per giustificare tutto questo sono stati architettati diversi stratagemmi, a livello di ideologia e di propaganda. È istruttivo analizzarli. Uno di questi, molto interessante, è la dottrina del cosiddetto «dovere di proteggere» – RtoP (Responsibility to Protect). Essa in verità prevede due versioni. Una è quella riconosciuta dalle Nazioni Unite, durante l’Assemblea generale ONU del 2005: una versione più ristretta del RtoP che è leggermente diversa da quella che esisteva prima...3

Cioè che deve applicarsi ai paesi non occidentali...

Be’, non la misero in questi termini. Affermarono una cosa un po’ diversa. Ciò che dice la versione dell’ONU del RtoP è che se un paese conduce azioni repressive contro una popolazione dovrebbero essere intraprese iniziative usando tutti i mezzi a disposizione in base al diritto internazionale vigente. Afferma esplicitamente che i principi della Carta ONU devono essere rispettati, ossia nessun intervento militare a meno che non sia autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questa è una versione del RtoP.

Poi c’è l’altra versione, che fu sviluppata più o meno nel periodo dei bombardamenti sulla Serbia del 1999 dalla commissione internazionale guidata dall’ex ministro degli Esteri australiano Gareth Evans.4 La versione di Evans è sostanzialmente identica a quella accolta dalle Nazioni Unite pochissimi anni dopo, ma con una differenza cruciale. In un paio di paragrafi si dice in sostanza: «Laddove non vi sia unanime consenso internazionale, né accordo in seno al Consiglio di sicurezza sull’autorizzazione a un intervento, le organizzazioni regionali nella loro area di giurisdizione possono effettuare un intervento militare che deve essere soggetto a una successiva autorizzazione da parte del Consiglio di sicurezza». Possiamo tradurre tutto questo in una realtà geopolitica. Significa in pratica che la NATO può effettuare interventi militari entro quella che essa stessa definisce come propria area di giurisdizione – che può anche essere il mondo intero – senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza. E se analizziamo i casi di ricorso al RtoP, è sconcertante vedere che cosa è avvenuto. La versione dell’ONU mirava a dimostrare la legittimità di un’azione, mentre la sua effettiva applicazione segue la versione della commissione di Evans. Dunque, in sostanza, ciò significa che gli USA-NATO possono usare la forza militare senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Poi, per giustificare questa cosa, vi è un riferimento al fatto che sono le Nazioni Unite ad aver autorizzato il RtoP, ma, lo ripeto, è una versione completamente diversa.

Questo va avanti da vent’anni, e di fatto è sostanzialmente uno strumento propagandistico per giustificare interventi statunitensi sotto l’ombrello della NATO, praticamente dovunque vogliano. È accaduto tante volte e continua ad accadere. Quindi sì, come dici tu, finisce con l’andare contro il Terzo Mondo naturalmente, perché certo non lo si applica contro i grossi paesi. Ed è ciò che sta minando qualsiasi cornice del diritto internazionale che ancora resisteva.

Ma le cose non dovevano andare necessariamente così. Nel 1991 potevano essere fatti dei passi nella direzione indicata da Gorbačëv, che avrebbe portato a un mondo molto diverso. Non avremmo avuto gli attriti ai confini russi che sono ormai estremamente gravi; non avremmo avuto il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces, «trattato sulle forze nucleari a medio raggio»), che possono aprire il varco alla costruzione di missili nucleari molto pericolosi, sistemi missilistici nucleari a corto raggio, come accadde nei primi anni Ottanta, quando ci ritrovammo sull’orlo di una guerra.

È uno scenario estremamente pericoloso. Ma queste evoluzioni derivano in fondo dal rifiuto degli Stati Uniti di accettare una soluzione di pace generalizzata in cui fossero smantellati i blocchi militari e l’Europa, o anzi l’Eurasia, fosse libera di seguire la propria direzione.

Ma queste opzioni rimangono in piedi per l’Europa. L’Europa può ancora... insomma, l’Europa è più grande, la sua popolazione è molto maggiore rispetto a quella degli Stati Uniti, è culturalmente più avanzata sotto molti aspetti, socialmente molto più avanzata, con politiche socialdemocratiche, sistemi di welfare funzionanti...

Qualcuno oggi avrebbe qualcosa da obiettare su questo...

Voglio dire, ovviamente non sono perfetti, ma rispetto agli Stati Uniti sono abbastanza avanzati. Possono essere ampliati, e sicuramente si stanno erodendo sotto i colpi dei programmi di austerità neoliberisti, ma questa è una scelta, non una necessità, le cose possono andare diversamente.

Dunque penso che l’Europa abbia le possibilità per muoversi in una direzione indipendente, ma non l’ha mai scelta, e oggi che ci sono consistenti fratture interne è molto difficile farlo...

All’Europa mancano gli organismi politici in grado di gestire questo tipo di corso politico. A tal proposito, per esempio, Thomas Piketty ha proposto qualche strumento più rapido per democratizzare quantomeno l’eurozona.5 Come da lui evidenziato, esistono istituzioni opache e informali – per esempio l’Eurogruppo, il Consiglio europeo ecc. – che prendono decisioni a livello centralizzato senza alcun consenso popolare, senza l’approvazione dei cittadini europei o alcun tipo di processo democratico...

Ciò che avviene oggi è radicalmente antidemocratico. Dunque, le decisioni che governano i programmi sociali e politici in generale, le misure economiche dell’Europa, sostanzialmente sono prese da gruppi non eletti. La Troika non è eletta; la Commissione europea non è eletta; né lo sono la Banca centrale europea e ovviamente l’FMI. Ma il margine di scelta c’è. Le cose non devono per forza andare in questo modo. Per esempio, il Parlamento europeo, o un’istituzione simile, potrebbe diventare un sistema, un’istituzione realmente funzionante. Ma è qualcosa che va costruito, non può accadere e basta.

Per questa ragione Piketty propone quello che egli chiama il T-DEM, un trattato di democratizzazione per l’eurozona, che potrebbe essere implementato senza modificare gli altri trattati dell’Unione europea. Oggi il Parlamento europeo assomiglia di più a un ente che si limita ad apporre un timbro.

Sì, lo è. Ma non deve essere necessariamente così. Ci sono modi per riorganizzare la governance in Europa. Innanzitutto, concedere ai paesi una certa flessibilità nel perseguire le proprie politiche economiche consentirebbe loro di sfuggire a una profonda recessione. Prendiamo per esempio la Grecia nel periodo della grave crisi. Ai greci furono imposte delle politiche che non fecero altro che aggravare la crisi e rimborsare le banche del Nord. Ma ciò fu il frutto di scelte ben precise. E se ci fosse stato, poniamo, un gruppo di paesi indipendenti, la Grecia avrebbe potuto semplicemente svalutare la sua moneta e trovare la propria strada per uscire dalla crisi. Non ha potuto farlo. Se ci fosse un sistema simile a quello degli Stati Uniti, gli Stati più ricchi potrebbero controbilanciare quelli più deboli. Per esempio, lo Stato di New York paga le tasse per migliorare le condizioni del Mississippi. Fa parte del sistema federalista, e potrebbe essere applicato anche in Europa, così come altre opzioni che consentano ai paesi di controllare la propria moneta fintantoché si tratta di uscire dalla recessione stimolando l’economia. Ma l’eurozona blocca tutto questo. Sono nodi che vanno risolti, e le strade per farlo ci sono eccome. Il sistema federale di tipo statunitense è una; un’altra è il controllo indipendente sulla moneta. Ce ne sono altre. Purtroppo, però, finora l’Europa ha fatto delle scelte che hanno imposto una specie di camicia di forza. E questo inevitabilmente porta all’aumento della rabbia e del risentimento che sfociano in sviluppi fortemente antisociali del tipo che stiamo vedendo diffondersi in tutto il continente.

2.
L’approccio irrazionale degli USA1

C.J. POLYCHRONIOU. Fra Russia e Ucraina continua a montare la tensione. Rimane poco spazio per l’ottimismo, dato che le proposte di stop all’escalation da parte degli USA non soddisfanno nessuna delle richieste russe sulla sicurezza. Non sarebbe allora più corretto dire che la crisi confinaria russo-ucraina deriva in realtà dall’intransigenza statunitense sull’adesione dell’Ucraina alla NATO? In questo stesso contesto, è difficile immaginare quale sarebbe stata la reazione di Washington a un’ipotetica volontà di adesione del Messico a un’alleanza militare capeggiata dai russi...

NOAM CHOMSKY. Sull’ultima domanda non abbiamo bisogno di soffermarci. Nessun paese oserebbe una mossa simile in quella che Henry Stimson, ministro della Guerra del presidente Franklin Delano Roosevelt – condannando ogni sfera d’influenza, tranne ovviamente la nostra, che eccede l’intero emisfero occidentale – definì «quella nostra regioncina laggiù». Il segretario di Stato Antony Blinken non è oggi meno esplicito, nella sua condanna della pretesa russa a una «sfera d’influenza», concetto che noialtri fermamente respingiamo (con la suddetta eccezione).

In un celebre caso, tuttavia, un paese della nostra «regioncina» stava quasi per allearsi con la Russia: parliamo della crisi dei missili del 1962. Le circostanze erano però piuttosto diverse dall’odierna Ucraina. Il presidente John F. Kennedy stava intensificando la propria guerra terroristica contro Cuba, fino a minacciare di invaderla; l’Ucraina – il contrasto è ovvio – subisce queste minacce per aver potenzialmente aderito a un’alleanza militare ostile. La sconsiderata decisione del presidente sovietico Nikita Chruščëv di rifornire Cuba di missili era anche un tentativo minimo di riequilibrare l’enorme preponderanza militare statunitense, dopo che JFK, nonostante una posizione già di grande vantaggio, aveva replicato alla proposta di mutua limitazione degli armamenti da parte di Chruščëv con la più massiccia corsa al riarmo che si sia mai vista in tempo di pace. Sappiamo quel che ne seguì.

La crisi ucraina ha raggiunto una tensione estremamente grave: la Russia concentra l’esercito ai confini del paese. La Russia ha assunto una posizione esplicita già da tempo, riaffermata da Sergej Lavrov, ministro degli Esteri, durante la sua conferenza all’ONU: «La nostra opinione sul punto fondamentale è chiara da tempo: sono inammissibili l’ulteriore espansione NATO verso est e lo schieramento di armi d’attacco in grado di minacciare il territorio della Federazione Russa».2 Poco dopo lo ha ripetuto Putin, come del resto aveva fatto più volte.

C’è un modo facile di affrontare lo schieramento di armi: non schierarle affatto. Del resto schierarle non trova giustificazione. Gli USA possono anche rivendicarne il carattere difensivo, ma evidentemente la Russia la vede in maniera diversa, non senza ragioni.

La questione di un’espansione ulteriore è anche più complessa, e rimonta a oltre trent’anni fa, alla caduta dell’Unione Sovietica. Fra Russia, USA e Germania si tennero fitti negoziati, centrati sull’unificazione tedesca. Si contrapponevano due visioni: Michail Gorbačëv, presidente sovietico, proponeva un sistema di sicurezza eurasiatico, esteso da Lisbona a Vladivostok, senza blocchi militari. Gli Stati Uniti respinsero l’idea: la NATO doveva restare, il Patto di Varsavia scomparire.

Per ovvie ragioni, la riunificazione tedesca all’interno di un’alleanza militare ostile non era un fatto banale per la Russia. Eppure, Gorbačëv dette il suo assenso, a una condizione: nessuna espansione a est. Il presidente George W.H Bush e il segretario di Stato James Baker accettarono. Per citarne le parole letterali, rivolte a Gorbačëv: «Non solo per l’Unione Sovietica, ma anche per altri Stati europei è importante la certezza che, se gli Stati Uniti manterranno la propria presenza in Germania sotto l’egida della NATO, questa non estenderà la propria giurisdizione verso est neppure di un centimetro».3

Per «est» si intendeva la Germania Est. Nessuno, per lo meno in pubblico, aveva mai neppure pensato più a oriente. Su questo erano tutti d’accordo. La dirigenza tedesca fu ancora più chiara al riguardo. Erano già appagatissimi dal consenso sovietico alla riunificazione: di sicuro non andavano in cerca di altri problemi.

Sulla questione si è prodotta molta letteratura accademica: Mary Sarotte, Joshua Shifrinson e altri hanno discusso a lungo su chi abbia detto che cosa esattamente, su quel che intendevano, sul valore che quelle affermazioni avevano eccetera. Opere interessanti e illuminanti, ma a conti fatti il tutto si riduce a quel che ho appena citato dai verbali desecretati.

George H.W. Bush si attenne agli impegni. All’inizio anche il presidente Clinton, fino al 199o, 50o anniversario della NATO; con un occhio ai risultati delle prossime elezioni polacche, secondo l’ipotesi di alcuni. Clinton ammise nella NATO Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Il presidente George W. Bush – l’amabile nonnetto rimbambito festeggiato dalla stampa per i vent’anni della sua invasione dell’Afghanistan – mollò le redini, ammettendo vari alleati, fra cui i paesi baltici. Nel 2008 invitò l’Ucraina a aderire, stuzzicando l’orso che dorme. Dal punto di vista geostrategico, l’Ucraina è un territorio fondamentale per la Russia, anche lasciando da parte gli stretti rapporti storici e l’ampia fetta di filorussi nel paese. Germania e Francia opposero il loro veto all’incosciente invito di Bush, invito che però non è mai stato tolto dal tavolo. Nessuna dirigenza russa l’avrebbe mai accettato, di certo non Gorbačëv, che al riguardo si era nitidamente espresso.

Come nel caso dello schieramento di armi offensive sul confine russo, esiste una soluzione semplice. L’Ucraina può avere lo stesso ruolo che l’Austria e alcuni paesi nordici ebbero durante la Guerra fredda: neutrali, ma strettamente legati all’Occidente e abbastanza protetti: partecipi dell’Unione europea nel grado in cui hanno stabilito di esserlo.

Gli Stati Uniti rifiutano questa prospettiva, proclamando un’appassionata devozione alla sovranità delle nazioni, che non può essere violata: il diritto dell’Ucraina ad aderire alla NATO va salvaguardato. Una posizione virtuosa, che può forse essere encomiata negli Stati Uniti, ma di certo sollecita sghignazzi ovunque nel mondo, Cremlino compreso. Il mondo ci conosce bene come modello di devozione alla sovranità, soprattutto nei tre casi che più degli altri hanno fatto infuriare la Russia: Iraq, Libia e Kosovo-Serbia.

Dell’Iraq non c’è bisogno di parlare: l’attacco statunitense ha fatto infuriare quasi tutti. La propaganda umanitaria americana ha ammantato l’assalto NATO a Libia e Serbia – altrettanti schiaffoni al potere declinante della Russia negli anni Novanta – di virtuosa terminologia umanitaria: rapidamente dissolta a un più attento esame, come abbiamo documentato altrove con ampiezza. E neppure passeremo in rassegna i ricchi precedenti americani quanto a rispetto delle sovranità nazionali.

Si afferma a volte che, nel caso della Polonia e di altri paesi, l’adesione alla NATO ne accresce la sicurezza. Ma si hanno molte più ragioni di sostenere che l’appartenenza alla NATO ne minacci la sicurezza, accrescendo le tensioni. Lo storico Richard Sakwa, specialista di Europa Orientale, ha osservato che «l’esistenza della NATO si giustifica col bisogno di gestire le minacce provocate dal suo allargamento»; un giudizio plausibile.

Sull’Ucraina ci sarebbe molto altro da dire, e su come andrebbe affrontata questa crisi, molto pericolosa e in grave ascesa, ma forse basta questo per capire che non bisognerebbe gettare benzina sul fuoco, col pericolo di innescare una guerra che potrebbe rivelarsi catastrofica.

Il rifiuto, da parte statunitense, di una neutralità simil-austriaca per l’Ucraina ha qualcosa di surreale. I politici americani sanno a perfezione che l’ammissione alla NATO dell’Ucraina è fuori discussione, per quanto ci è dato prevedere. E possiamo tranquillamente accantonare le ridicole esibizioni di rispetto per la sacrosanta sovranità. Dunque, in nome di un principio nel quale non credono neppure per un istante, e per perseguire un obiettivo che sanno essere portata, gli Stati Uniti corrono il rischio di disastrose sciagure. A tutta prima, si tratta di una mossa incomprensibile, che però rivela plausibili calcoli imperialistici.

Ci si potrebbe chiedere perché Putin abbia assunto un atteggiamento tanto apertamente bellicoso. Su questo mistero, si sprecano le chiacchiere da bar: è un folle? Costringerà l’Europa a diventare un satellite della Russia? Che cos’ha in mente?

Un modo per scoprirlo è ascoltare quel che ha da dire: da anni Putin prova a convincere gli USA a prestare attenzione alle richieste che, assieme al ministro degli Esteri Lavrov, ha formulato più volte: invano. Una possibilità è che la dimostrazione di forza sia un modo di raggiungere l’obiettivo, come hanno suggerito commentatori ben informati.4 Se questo è vero, sembra esserci riuscito, per lo meno entro certi limiti.

In occasione dei precedenti tentativi da parte degli USA di far aderire l’Ucraina, Germania e Francia hanno già posto il veto. Dunque, perché gli USA sono tanto attratti dall’espandere la NATO a est, al punto di trattare come imminente l’invasione russa dell’Ucraina anche quando gli stessi politici ucraini non ne sembrano convinti? E da quando l’Ucraina ha cominciato a rappresentare un vessillo della democrazia?

Quel che va accadendo è davvero curioso. Gli Stati Uniti soffiano vigorosamente sul fuoco, mentre l’Ucraina chiede loro di abbassare i toni. Ci si azzuffa per capire che cosa mai spinga Putin ad agire come agisce, ma sulle motivazioni americane di rado ci si interroga. La ragione è nota: esse sono nobili per definizione, anche quando i loro sforzi per metterle in atto sono maldestri.

Tuttavia, la questione merita un approfondimento, per lo meno da parte di «quei pazzi che attendono nell’ombra», per citare la definizione che McGeorge Bundy, ex consigliere alla Sicurezza Nazionale, dava agli incorreggibili che osano valutare il governo di Washington secondo i parametri utilizzati in ogni altro luogo.

Una risposta può esser suggerita dal celebre slogan sugli scopi della NATO: tenere la Russia fuori, la Germania buona e gli USA dentro. La Russia è alla larga. La Germania è buona. Rimane da chiedersi se gli USA rimarranno in Europa: o meglio, se rimarranno al potere in Europa. Non tutti hanno accettato senza opporsi questo assunto della politica mondiale; fra questi: Charles de Gaulle, che propose la sua idea di Europa dall’Atlantico agli Urali; l’ex cancelliere tedesco Willy Brandt, con la sua Ostpolitik; e il presidente francese Emmanuel Macron, con le sue attuali iniziative diplomatiche che tanto dispiacciono a Washington.

Se la crisi Ucraina trovasse una soluzione pacifica, sarebbe un affare tutto europeo, rompendo con la concezione «atlantista» postbellica che vede gli Stati Uniti saldamente al posto di guida. Si creerebbe anche un precedente per un’ulteriore indipendenza europea, se non addirittura per un avvicinamento alla visione di Gorbačëv. Inoltre, con la «Nuova via della seta» cinese che incombe da est, nell’ordine globale si aprono nuovi e più ampi scenari.

Com’è quasi sempre accaduto in passato, quando si tratta di Esteri, sulla questione ucraina assistiamo a una frenesia bipartisan. Mentre però i repubblicani al Congresso spingono il presidente Joe Biden a un atteggiamento più aggressivo verso la Russia, la base parafascista mette in dubbio la linea del partito. Perché? E che cosa ci dice sui processi in corso nel Partito repubblicano questa scissione?

Non è facile parlare dell’odierno Partito repubblicano come se si trattasse di un vero e proprio partito politico che giochi un ruolo in una democrazia pienamente funzionante. È più corretto descrivere quell’organizzazione come «una sollevazione estremista, ideologicamente esacerbata, che disprezza la realtà dei fatti e i compromessi e nega legittimità ai suoi oppositori politici».5 Questa definizione degli analisti politici Thomas Mann e Norman Ornstein dell’American Enterprise6 rimonta quasi a un decennio fa, all’era pre-Trump. Ma oramai è persino superata. Del «Grand Old Party» rimane solo l’Old.

Non sono certo che la base popolare che Trump ha frullato fino a farne una setta devota metta in questione l’atteggiamento aggressivo della dirigenza repubblicana, né che la questione le importi punto. Le prove sono scarse. Certi dirigenti di destra strettamente associati al «Gran Vecchio Partito» si spostano verso le destre europee, più a destra di altri che ancora sperano di mantenere qualche apparenza di democrazia negli USA. Sorpassano a destra persino Trump, con il loro entusiastico sostegno alla «democrazia illiberale» del presidente ungherese Viktor Orbán, celebrandola nientedimeno che come salvatrice della civiltà occidentale.

L’esuberante accoglienza riservata a Orbán e al suo smantellamento della democrazia può ricordare le lodi rivolte a Benito Mussolini, il capo del fascismo italiano, che aveva «salvato la civiltà europea [al punto che] i meriti acquisiti dal fascismo con la sua azione rimarranno in eterno nella Storia»:7 sono parole del rispettato fondatore del neoliberismo che ha regnato incontrastato negli scorsi quarant’anni, Ludwig von Mises, nel suo classico del 1927, Liberalismo.

Tucker Carlson, commentatore di «Fox News», è stato il più esplicito dei sostenitori. Molti senatori repubblicani o sono d’accordo con lui o affermano di ignorare quel che va facendo Orbán, una rimarchevole confessione d’analfabetismo ai vertici del potere globale. Il venerando senatore Charles Grassley ha dichiarato di aver appreso degli accadimenti ungheresi solo dai resoconti di Carlson, e di essere d’accordo con lui.8 Numeri del genere la dicono lunga sulla «sollevazione estremista». Per quanto riguarda l’Ucraina, in contrasto con la dirigenza repubblicana, Carlson si chiede perché mai sia il caso di prendere posizione in una lite fra «paesi stranieri a cui non importa nulla degli Stati Uniti».9

Comunque si vedano gli affari internazionali, siamo evidentemente usciti dal regno della razionalità pubblica; il territorio in cui stiamo facendo ingresso ha una Storia davvero poco attraente, per usare un eufemismo.

3.
La volontà di potenza degli Stati Uniti e il conflitto in Ucraina1

C.J. POLYCHRONIOU. La cultura politica negli Stati Uniti sembra avere una propensione per l’allarmismo ogniqualvolta emergono sviluppi politici che non sono in sintonia con gli interessi economici, l’ideologia e gli interessi strategici dei vari potentati. In effetti, dal panico anti-spagnolo di fine Ottocento al rancore odierno per le questioni di sicurezza della Russia in merito all’Ucraina e per il sempre maggior peso della Cina negli affari internazionali, l’establishment politico e i media di questo paese tendono a reagire con grande allarmismo alle evoluzioni che non sono in linea con gli interessi, i valori e gli obiettivi degli Stati Uniti. Puoi commentare questa caratteristica peculiare, con particolare riferimento a quanto sta accadendo in relazione all’Ucraina e alla Cina?

NOAM CHOMSKY. Tutto vero, anche se a volte è difficile da credere. Uno degli esempi più importanti e rivelatori ce lo fornisce la cornice retorica del maggiore documento di pianificazione interna risalente ai primi anni della Guerra fredda, il Memorandum 68 del 1950, poco dopo la «perdita della Cina» che mandò nel panico gli Stati Uniti.2 Quel documento costituì la premessa per un’enorme espansione del bilancio militare. Vale la pena di ricordarlo oggi che vediamo riverberare gli effetti di quella follia, e non per la prima volta. È così da sempre.

Le raccomandazioni politiche del Memorandum 68 sono state ampiamente studiate dalla ricerca accademica, mentre si è dato scarso rilievo all’isterismo del suo stile retorico. L’impianto è quello di una fiaba: il male assoluto da una parte e la purezza e il nobile idealismo dall’altra. Da una parte c’è lo «Stato schiavista» (l’Unione Sovietica), con il suo «progetto fondamentale» e la sua innata «coazione» a conquistare l’«autorità assoluta sul resto del mondo», distruggendo tutti i governi e la «struttura della società» dovunque. Al suo male assoluto si contrappone la nostra assoluta perfezione. «Scopo fondamentale» degli Stati Uniti è assicurare ovunque «la dignità e il valore dell’individuo». I leader americani sono animati da una «tendenza generosa e costruttiva e dall’assenza di cupidigia nelle relazioni internazionali»: atteggiamento particolarmente evidente nel luogo storico dell’influenza statunitense, ovverossia l’emisfero occidentale, da tempo beneficiario della tenera sollecitudine di Washington, come possono testimoniare i suoi abitanti.

Chiunque avesse familiarità con la storia e con i reali equilibri mondiali del potere dell’epoca avrebbe reagito a questa messinscena con totale sconcerto. Nemmeno gli autori del documento, presso il Dipartimento di Stato, credevano a ciò che scrivevano. Alcuni di loro, successivamente, lasciarono qualche indizio di ciò che intendevano fare. Il segretario di Stato Dean Acheson spiegò nelle sue memorie che, per poter imporre l’enorme espansione militare già pianificata, bisognava «ficcarlo in testa al governo» badando di essere «più cristallini della verità». Anche l’influente senatore Arthur Vandenberg lo sapeva, visto che consigliava al governo (già nel 1947) di «spaventare a morte il popolo americano» per risvegliarlo dalla sua arretratezza pacifista.3

I precedenti retorici sono tanti, e in questo momento il tasto su cui si batte è l’indolenza e l’ingenuità degli americani verso le vere intenzioni di quel «cane sciolto» di Putin, ossia distruggere la democrazia ovunque essa sia e sottomettere il mondo alla sua volontà, questa volta con l’appoggio dell’altro «Grande Satana», Xi Jinping.

Tutti hanno intravisto nel vertice tra Putin e Xi Jinping del 4 febbraio, in occasione dell’apertura dei Giochi olimpici, un evento di enorme rilevanza per gli affari internazionali. Un articolo in primo piano sul «New York Times» raccontava l’evento titolando «Un nuovo Asse», con un’allusione non troppo velata.4 Nel pezzo si riportavano le vere intenzioni di questa reincarnazione delle potenze dell’Asse: «Il messaggio che Cina e Russia hanno lanciato agli altri paesi è chiaro», scrive David Leonhardt. «Non faranno pressioni su altri governi affinché rispettino i diritti umani o indicano le elezioni». Con sgomento di Washington, l’Asse sta inoltre attirando a sé due paesi che rientrano nel «campo americano», l’Egitto e l’Arabia Saudita, esempi straordinari di come gli Stati Uniti rispettino i diritti umani e le elezioni all’interno del loro «campo», ossia garantendo un massiccio flusso di armi a queste brutali dittature o partecipando direttamente ai loro crimini. Il Nuovo Asse sostiene inoltre che «un paese potente dovrebbe poter imporre la sua volontà all’interno della sua conclamata sfera di influenza. Quel paese dovrebbe anche essere in grado di rovesciare un governo vicino più debole senza che il mondo interferisca»: un’idea che gli Stati Uniti hanno sempre aborrito, come ci rivela del resto la documentazione storica.

Venticinque secoli orsono l’Oracolo di Delfi pronunciò questa massima: «Conosci te stesso». Vale la pena di tenerla a mente, forse.

Come nel caso del Memorandum 68, c’è del metodo nella follia. La Cina e la Russia rappresentano davvero una minaccia concreta. E l’egemone globale non la prende alla leggera. Ci sono temi ricorrenti nel modo in cui i commentatori e la politica statunitense reagiscono a quella minaccia. E meritano qualche riflessione.

L’Atlantic Council definisce la formazione del Nuovo Asse uno «spostamento tellurico nelle relazioni internazionali» che sottende un progetto «da capogiro»: «Le parti hanno convenuto di creare legami più forti tra le loro economie mediante la cooperazione tra la Nuova via della seta cinese e l’Unione economica eurasiatica di Putin. Lavoreranno insieme allo sviluppo dell’Artico. Potenzieranno il coordinamento tra le istituzioni multilaterali e nella lotta ai cambiamenti climatici».5

Non dobbiamo sottovalutare la grande rilevanza della crisi ucraina, aggiunge Damon Wilson, presidente del National Endowment for Democracy: «La posta in gioco di questa crisi non coinvolge soltanto l’Ucraina, ma il futuro della libertà», nientedimeno che.6

Vanno prese delle misure forti al più presto, afferma il capogruppo della minoranza al Senato Mitch McConnell: «Il presidente Biden dovrebbe usare ogni strumento a sua disposizione e imporre dure sanzioni prima di un’invasione e non dopo».7 Non c’è tempo di baloccarsi con appelli macroniani all’orso furioso affinché moderi la sua violenza.

La dottrina ufficiale impone che affrontiamo la gravissima minaccia costituita dalla Cina e manteniamo una posizione salda sull’Ucraina, mentre l’Europa vacilla e l’Ucraina ci chiede di abbassare i toni e di ricercare la via della diplomazia. Fortunatamente per il mondo, Washington è incrollabile nella sua dedizione verso ciò che è giusto, anche se è quasi completamente isolata, come quando invade nobilmente l’Iraq e strangola Cuba nonostante la pressoché unanime contrarietà internazionale, per prendere solo due tra i numerosissimi esempi.

Ad essere onesti, il consenso a questa dottrina non è uniforme. Qualche deviazione c’è, soprattutto a estrema destra: penso a Tucker Carlson, forse il più influente giornalista televisivo. Carlson ha affermato che non dobbiamo perdere tempo a difendere l’Ucraina dalla Russia perché dovremmo dedicare tutte le nostre energie ad affrontare la ben più terribile minaccia rappresentata dalla Cina. Dobbiamo avere ben chiare le nostre priorità nella lotta contro l’Asse.

Gli avvertimenti sulla mobilitazione della Russia ai fini dell’invasione dell’Ucraina sono un evento mediatico annuale sin dalla crisi del 2014, con puntuali servizi che riferiscono di decine o centinaia di migliaia di soldati russi in procinto di attaccare. Oggi, tuttavia, queste grida d’allarme sono molto più insistenti e contengono un misto di paura e di scherno per Vlad il Matto («Mad Vlad»), come lo chiamano loro. Thomas Friedman sul «New York Times», per esempio, scrive: «Siamo di fronte a uno psicodramma individuale, a un gigantesco complesso di inferiorità verso l’America che lo porta a perseguitare il mondo intero perché si porta un rancore talmente grosso sul groppone che non si capisce come faccia a passare dalle porte».8 Volendola vedere da un’altra prospettiva, il leader russo cerca invano una risposta alle preoccupazioni espresse più volte dalla Russia. Da un’analisi di MintPress è emerso che il 90% degli articoli di opinione pubblicati dai tre maggiori giornali nazionali ha assunto una posizione oltranzista e di parte, con poche e isolate voci di dissenso: un fenomeno a noi familiare, come nei giorni che precedettero l’invasione dell’Iraq o, se è per questo, tutte le volte che lo Stato professa il verbo.9

Come nel caso del complotto sino-sovietico per conquistare l’«autorità assoluta sul resto del mondo» nel 1950, oggi il verbo è che gli Stati Uniti devono agire con decisione per contrastare la minaccia del Nuovo Asse all’«ordine mondiale fondato sulle regole» accolto con tanto entusiasmo dai commentatori statunitensi, un concetto interessante su cui ritornerò.

Lo «spostamento tellurico», in effetti, non è pura leggenda. Esso pone una minaccia reale agli Stati Uniti. Minaccia la primazia americana nella configurazione dell’ordine mondiale. È vero in entrambe le aree di crisi, ai confini della Russia e della Cina. In entrambi i casi una soluzione negoziata sarebbe assolutamente realizzabile, tramite accordi regionali. Se ciò si verificasse, gli Stati Uniti finirebbero col rivestire un ruolo ancillare che forse non sono disposti ad accettare, anche a costo di accendere scontri estremamente pericolosi.

In Ucraina i punti basilari di una soluzione sono ben noti da tutte le parti, come si è ripetuto più volte.10 Ripeto, il risultato ottimale per la sicurezza dell’Ucraina (e del mondo) sarebbe quel tipo di neutralità austro-scandinava che si impose negli anni della Guerra fredda, offrendo l’opportunità di far parte dell’Europa occidentale in qualunque forma desiderata e sotto ogni aspetto a eccezione della fornitura agli Stati Uniti di basi militari che sarebbero state una minaccia per quei paesi così come per la Russia. Quanto ai conflitti interni all’Ucraina, il Protocollo Minsk II garantisce già un’impalcatura di massima.

Come osservano molti analisti, l’Ucraina non entrerà nella NATO nel prossimo futuro. George W. Bush lanciò avventatamente un invito ad aderire, ma fu immediatamente bocciato da Francia e Germania. Sebbene essa rimanga sul tavolo per la pressione esercitata dagli Stati Uniti, non è un’opzione concreta. Tutte le parti lo riconoscono. L’acuto e competente esperto di Asia centrale Anatol Lieven afferma: «L’intera questione dell’adesione dell’Ucraina alla NATO, in realtà, è puramente teorica, quindi in un certo senso tutta l’argomentazione si fonda sul nulla. Da entrambe le parti, va detto: russa come occidentale».11

Questa osservazione ci riporta alla mente la descrizione di Jorge Luis Borges della guerra delle Falkland/Malvinas: due calvi che litigano per un pettine.

La Russia adduce problemi di sicurezza. Per gli Stati Uniti è una questione di alti principi: non si può violare il sacro diritto alla sovranità nazionale, quindi il diritto di aderire alla NATO, che Washington sa che non si verificherà.

Per quanto riguarda il fronte russo un impegno formale di non allineamento difficilmente aumenterebbe la sicurezza della Russia, non più di quanto la sicurezza russa fu consolidata quando Washington garantì a Gorbačëv che «l’attuale giurisdizione militare della NATO non si estenderà verso est nemmeno di un centimetro»; garanzia presto rimangiata da Clinton e poi ancora di più da Bush figlio. Nulla sarebbe cambiato se la promessa si fosse trasformata da un patto tra gentiluomini a un documento scritto e firmato.

L’istanza statunitense è quasi comica: gli Stati Uniti hanno in totale dispregio quel principio di sovranità che rivendicano con tanta fierezza, come la storia recente drammaticamente conferma.

Per Washington la questione è più profonda: un accordo regionale porrebbe una seria minaccia allo status globale degli Stati Uniti. Questa preoccupazione cova sin dagli anni della Guerra fredda: è possibile che l’Europa acquisisca un ruolo indipendente negli affari internazionali (e sarebbe possibile) magari seguendo la visione gollista, ossia di un’Europa dall’Atlantico agli Urali, ripresa poi nel 1989 da Gorbačëv con la sua idea di una «casa comune europea», di un «vasto spazio economico dall’Atlantico agli Urali»? Ancora più impensabile sarebbe la visione ulteriormente allargata di Gorbačëv di un sistema di sicurezza eurasiatico da Lisbona a Vladivostok senza blocchi militari: una proposta che fu rifiutata senza possibilità di appello durante i negoziati condotti trent’anni fa per ricercare un accomodamento post-Guerra fredda.

L’impegno a preservare l’ordine atlantista in Europa, in cui gli Stati Uniti regnano sovrani, ha avuto implicazioni politiche che vanno oltre l’Europa stessa. Un esempio emblematico fu il Cile nel 1973, all’epoca in cui gli Stati Uniti fecero di tutto pur di rovesciare il governo parlamentare, riuscendoci infine con l’insediamento della violenta dittatura di Pinochet. Una delle ragioni per distruggere la democrazia in Cile fu illustrata proprio dal suo principale artefice, Henry Kissinger. Egli sostenne che le riforme sociali per via parlamentare in Cile avrebbero funto da modello di riferimento per iniziative simili in Italia e Spagna che avrebbero sospinto l’Europa verso un percorso indipendente, lontano dalla subordinazione agli Stati Uniti e alla loro forma di capitalismo estremo. La teoria del domino, spesso rigettata con scherno, non è mai stata abbandonata, perché è un importante strumento del potere di Stato. La questione si ripresenta oggi rispetto a una possibile soluzione regionale al conflitto ucraino.

Più o meno lo stesso vale per gli attriti con la Cina. Come abbiamo discusso in precedenza,12 ci sono seri problemi riguardanti la violazione del diritto internazionale da parte della Cina nei mari vicini, anche se gli Stati Uniti, essendo l’unico paese marittimo a rifiutarsi persino di ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, non sarebbero nella posizione di muovere obiezioni. E di certo gli Stati Uniti non mitigano questi problemi nel momento in cui inviano una flotta navale in quelle acque o forniscono all’Australia una flotta di sottomarini nucleari per rafforzare la loro già schiacciante superiorità militare al largo delle coste della Cina. Tali questioni possono e devono essere affrontate dalle potenze regionali.

Come nel caso dell’Ucraina, il problema per gli Stati Uniti è che non sono loro a dettare legge.

E sempre come nel caso dell’Ucraina, gli Stati Uniti professano i loro alti principi nel fronteggiare la minaccia rappresentata dai cinesi: il loro ribrezzo per le violazioni dei diritti umani da parte della Cina, che pure sono senza dubbio gravi. Anche in questo caso non è troppo difficile valutare la sincerità di questa posizione. Un indicatore molto utile al riguardo sono gli aiuti militari inviati dagli Stati Uniti. In cima alla classifica troviamo due paesi che formano una categoria a parte: Israele ed Egitto. Quanto alle performance israeliane in materia di diritti umani possiamo fare riferimento ai dettagliati rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch, i quali passano in rassegna i crimini di quello che definiscono il secondo Stato segregazionista del mondo.13 L’Egitto è governato dalla peggiore dittatura della sua tormentata storia. Più in generale, da molti anni si registra una forte correlazione tra gli aiuti militari statunitensi e le torture, i massacri e altre gravi violazioni dei diritti umani.

Non serve indugiare sull’attenzione di Washington verso i diritti umani più di quanto occorra farlo sulla sua dedizione al sacro principio della sovranità. Il solo fatto che queste assurdità siano oggetto di discussione dimostra a quale profondità i voli retorici del Memorandum 68 siano penetrati nella cultura intellettuale.

Il docente dell’Università ebraica di Gerusalemme Guy Laron ci ricorda utilmente un altro aspetto della crisi ucraina: la lunga battaglia tra Stati Uniti e Russia per il controllo dell’energia europea, che oggi torna a occupare le prime pagine dei giornali.14 Anche prima che la Russia diventasse uno degli attori protagonisti, gli Stati Uniti cercavano di fare dell’Europa (e del Giappone) un’economia petrolifera, in cui essi avessero il controllo di tutto. Gran parte degli aiuti del Piano Marshall furono destinati a questo scopo. Da George Kennan a Zbigniew Brzezinski – quest’ultimo a proposito dell’invasione dell’Iraq (a cui si opponeva, ma di cui pensava che avrebbe conferito un vantaggio agli Stati Uniti grazie al controllo tempestivo sulle grosse risorse petrolifere) –, gli esperti politici statunitensi hanno sempre saputo che il controllo sulle risorse energetiche avrebbe garantito una «leva strategica» rispetto agli alleati. Negli anni successivi vi furono molti scontri entro questa cornice della Guerra fredda delineata da Laron, oggi molto pertinente. E l’Ucraina ha rivestito un ruolo importante in questi attriti.

La configurazione dell’ordine mondiale è sempre stata, ovviamente, una priorità assoluta dei decisori politici. Sin dal secondo dopoguerra per Washington è sempre esistita un’unica soluzione accettabile: un ordine sotto la sua leadership. Deve inoltre essere una forma particolare di ordine mondiale: l’«ordine internazionale fondato sulle regole» che ha sostituito il precedente «ordine internazionale fondato sull’ONU» costruito per iniziativa degli stessi Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Non è difficile discernere le motivazioni di questa mutazione nella politica e conseguentemente nel mondo intellettuale: nell’ordine fondato sulle regole a dettare le regole sono gli Stati Uniti.

Per la verità era così anche nell’ordine fondato sulle Nazioni Unite dei primi anni del secondo dopoguerra. La supremazia globale degli Stati Uniti era talmente schiacciante che l’ONU fungeva sostanzialmente da strumento della politica estera americana e da arma contro i loro nemici. Non deve sorprendere, dunque, che le Nazioni Unite fossero molto apprezzate nella cultura popolare e intellettuale degli Stati Uniti e di conseguenza anche l’ordine internazionale fondato sull’ONU che era retto da Washington.

Ma si rivelò una fase transitoria. L’ONU perse il favore delle élite statunitensi quando cominciò a sfuggire al controllo con la graduale ricostruzione postbellica delle altre società industriali e, soprattutto, con il processo di decolonizzazione: ciò introdusse voci di dissenso in seno alle Nazioni Unite e anche in strutture indipendenti come il Movimento dei paesi non allineati e altri — tutti molto pugnaci e dinamici, per quanto di fatto esclusi dall’ordine internazionale dell’informazione dominato dalle storiche società imperiali.

All’interno dell’ONU venne rivendicato un «Nuovo Ordine economico internazionale» che offrisse al Sud globale qualcosa di meglio della perpetuazione della depredazione planetaria, degli interventi violenti e degli atti sovversivi di cui il mondo colonizzato aveva goduto durante il lungo regno dell’imperialismo occidentale. C’erano altre minacce, come la richiesta di un Nuovo Ordine internazionale dell’informazione che desse ai rappresentanti delle ex colonie qualche chance di entrare nel sistema d’informazione internazionale, monopolio pressoché esclusivo delle potenze imperiali.

I «padroni dell’umanità» adottarono vigorose contromisure per contrastare queste iniziative: un capitolo importante ma perlopiù ignorato della storia moderna. Non del tutto però: qualche bel lavoro di inchiesta e di analisi c’è.15

Un effetto delle iniziative dirompenti del Sud globale fu quello di ritorcere la prassi e la cultura elitaria statunitensi contro l’ONU: non più un agente affidabile del potere statunitense come era stata nei primi anni della Guerra fredda. Inoltre, col passare degli anni i pilastri del diritto internazionale moderno nei pochi trattati ONU ratificati dagli Stati Uniti divennero del tutto inaccettabili, in particolare il divieto della «minaccia o dell’uso della forza» negli affari internazionali, una pratica in cui gli Stati Uniti detengono il primato assoluto. La vulgata comune è che sia gli Stati Uniti sia la Russia furono coinvolti in guerre per procura negli anni della Guerra fredda, ma si omette di dire che, tranne rare eccezioni, si trattava di conflitti in cui la Russia forniva un po’ di supporto alle vittime degli attacchi statunitensi. Tutti argomenti che dovrebbero avere molto più risalto.

In questo contesto l’«ordine internazionale fondato sulle regole» è diventato il pilastro privilegiato dell’assetto mondiale, e suscita parecchia irritazione l’esortazione della Cina a costruire invece un ordine internazionale fondato sulle Nazioni Unite, come ha fatto nell’astioso vertice Cina-Stati Uniti del marzo 2021 in Alaska (a prescindere dalla sincerità di quella richiesta).

È interessante vedere come venga ritratto il conflitto con la Cina nella politica e nel dibattito statunitensi. Un articolo in prima pagina sul «New York Times» titola: «La Camera approva una legge che destina miliardi aggiuntivi alla ricerca per competere con la Cina». E nel sommario: «Il voto innesca uno scontro con il Senato, che ha idee diverse su come gli Stati Uniti dovrebbero potenziare l’industria tecnologica per competere con la Cina».16 Il nome ufficiale della legge è The America Competes Act of 2022. Tradotto: l’America «compete» con la Cina.

L’approvazione della legge è stata accolta con grande entusiasmo dalla stampa della sinistra liberale: «Venerdì la Camera ha dato al presidente Joe Biden un altro motivo per festeggiare con l’approvazione di un disegno di legge volto a potenziare la competitività rispetto alla Cina».17

Non può darsi invece che il Congresso sostenga la ricerca e lo sviluppo per giovare alla società americana, come sicuramente questa legge fa? Evidentemente no; lo fa solo per «competere con la Cina». I repubblicani si sono opposti alla norma come al solito, in questo caso perché «fa troppe concessioni alla Cina».18 I repubblicani hanno avversato anche le iniziative di «estrema sinistra» – così le hanno definite –, tra cui quella per contrastare i cambiamenti climatici. Il capogruppo repubblicano alla Camera Kevin McCarthy l’ha bollata con scherno come «la legge sulle barriere coralline». Del resto, in che modo salvare l’umanità dall’autodistruzione può aiutare a competere con la Cina?

Una nota a margine: Pramila Jayapal, presidente del Progressive Caucus, ha presentato un emendamento al disegno di legge con l’intento di sbloccare i quasi dieci miliardi di dollari del governo afgano conservati nelle banche di New York e alleviare così la spaventosa crisi umanitaria subita dalla popolazione. È stato bocciato. Quarantaquattro democratici si sono uniti alla brutalità dei repubblicani votando contro. Pare che l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, guidata dalla Cina, abbia in programma di inviare aiuti: un altro esempio della minaccia cinese.

È innegabile che la Cina sia una superpotenza emergente in contrapposizione con gli Stati Uniti. Riferendo su uno studio del Belfer Center of International Affairs di Harvard, Graham Allison ha affermato che la cosiddetta trappola di Tucidide potrebbe portare a una guerra Stati Uniti-Cina.19

Non deve succedere. Una guerra tra Stati Uniti e Cina significherebbe soltanto una cosa: fine dei giochi. Vi sono questioni globali di enorme rilevanza su cui gli Stati Uniti e la Cina devono collaborare. O collaboreranno, o crolleranno insieme, trascinando con loro il mondo intero.

Uno degli sviluppi più sorprendenti sulla scena internazionale contemporanea è che, mentre gli Stati Uniti si ritirano dal Medio Oriente e da altre aree, la Cina vi fa il suo ingresso ma con un approccio strategico e un disegno generale differenti. Invece delle bombe, dei missili e della diplomazia coercitiva, la Cina va allargando la sua influenza mediante il soft power. In effetti, l’espansione degli Stati Uniti all’estero ha sempre fatto perlopiù affidamento sull’hard power; di conseguenza, era inevitabile che lasciasse dietro di sé dei buchi neri dopo la ritirata. Fino a che punto, come sostiene qualcuno, ciò è il risultato dell’ignoranza della storia di una nazione giovane e con scarsa esperienza negli affari internazionali (per quanto sia difficile trovare esempi di un imperialismo clemente)?

Non credo che gli Stati Uniti abbiano aperto una strada nuova in fatto di brutalità imperiale dell’Occidente. Basta considerare i loro immediati predecessori nel controllo mondiale. La ricchezza e il potere planetario della Gran Bretagna derivarono dalla pirateria (e da figure eroiche come sir Francis Drake), dalla depredazione dell’India con l’astuzia e la violenza, da una orribile schiavitù, dalla più grande rete di narcotraffico del mondo e da altri atti simili. La Francia non era diversa. Il Belgio ha battuto tutti i record quanto ad atrocità criminali. La Cina di oggi non è molto più clemente all’interno del suo, seppur più limitato, raggio d’azione. Difficile trovare eccezioni.

I due casi da te citati recano tratti molto interessanti, resi ancor più evidenti, seppur non intenzionalmente, dal modo in cui sono rappresentati mediaticamente. Prendiamo un articolo del «New York Times» sulla crescente minaccia cinese. Il titolo recita: «Mentre gli Stati Uniti si ritirano dal Medio Oriente, la Cina vi approda». E nel sottotitolo: «Intensifica i suoi legami con gli Stati del Medio Oriente mediante ingenti investimenti infrastrutturali e la cooperazione in materia di tecnologia e sicurezza».20

La sintesi è corretta, ed è un esempio di ciò che sta accadendo in tutto il mondo. Gli Stati Uniti stanno ritirando le forze militari che per decenni hanno tormentato la regione del Medio Oriente nel tradizionale stile imperiale. I cinesi malvagi stanno sfruttando questa ritirata espandendo la propria influenza con investimenti, prestiti, tecnologia, programmi di sviluppo. Il cosiddetto soft power.

Non soltanto nel Medio Oriente. Il più vasto progetto cinese è la Nuova via della seta che va prendendo forma nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, la quale riunisce gli Stati dell’Asia centrale, l’India, il Pakistan, la Russia, ora adesso anche l’Iran, arrivando fino alla Turchia e con uno sguardo anche all’Europa centrale. Potrebbe benissimo includere l’Afghanistan, se dovesse sopravvivere alla catastrofe che vive oggi. Gli aiuti e lo sviluppo cinesi potrebbero spostare l’economia afgana dalla produzione di eroina per l’Europa, fulcro dell’economia durante l’occupazione statunitense, allo sfruttamento delle sue ricche risorse minerarie.

La Nuova via della seta ha diramazioni nel Medio Oriente, compreso Israele. Esistono programmi di supporto in Africa e ora anche in America latina, tra le strenue obiezioni degli Stati Uniti. Di recente la Cina ha annunciato che rileverà gli impianti di produzione a San Paolo abbandonati dalla Ford e che avvierà la produzione su larga scala di veicoli elettrici, settore in cui essa è all’avanguardia.

Gli Stati Uniti non hanno modo di contrastare queste iniziative. Le bombe, i missili, i raid delle forze speciali nelle comunità rurali semplicemente non funzionano.

È un vecchio dilemma. Sessant’anni fa, nel Vietnam, le attività antinsurrezionali statunitensi furono ostacolate da un problema individuato con sgomento dai servizi segreti statunitensi e dagli uomini della Provincial Reconnaissance Unit: la resistenza vietnamita – i Viet Cong nel gergo statunitense – stava combattendo una guerra politica, terreno in cui gli Stati Uniti erano deboli. Gli Stati Uniti, da par loro, rispondevano con una guerra militare, il campo in cui sono forti. Ma essa non poté spegnere l’attrattiva che i programmi dei Viet Cong esercitavano sulla popolazione contadina.

L’unico modo in cui l’amministrazione Kennedy seppe reagire alla guerra politica dei Viet Cong fu bombardando le aree rurali, autorizzando l’uso del napalm, distruggendo colture e bestiame e avviando altri programmi per spingere i contadini in luoghi che erano di fatto dei campi di concentramento in modo da «proteggerli» dai guerriglieri che essi stessi appoggiavano, come gli Stati Uniti sapevano bene. Le conseguenze le conosciamo.

In precedenza questo problema lo aveva illustrato bene il segretario di Stato John Foster Dulles in un discorso al Consiglio di sicurezza nazionale sulle difficoltà degli Stati Uniti con il Brasile. In quel paese, affermò, gli esponenti della classe dirigente «sono come bambini, privi della capacità di autogestirsi». Peggio ancora, secondo lui, gli Stati Uniti erano «troppo indietro rispetto ai sovietici quanto alle tecniche per controllare la mente e le emozioni degli ingenui popoli» del Sud globale e persino delle loro élite istruite. Dulles fece presente al presidente quanto fossero abili «i comunisti a prendere il controllo dei movimenti di massa. Noi non riusciamo a replicare questo modello. È ai poveri che costoro si rivolgono, mentre da sempre vogliono depredare i ricchi».

Dulles, però, non disse l’ovvio, e cioè che i poveri non reagiscono bene alla richiesta dei ricchi di depredare i poveri; quindi, anche se malvolentieri, dobbiamo ricorrere allo strumento della violenza, area in cui dominiamo.

Non è dissimile dal problema che si presenta oggi che la Cina «approda» nel Sud globale «intensificando i suoi legami mediante ingenti investimenti infrastrutturali e la cooperazione in materia di tecnologia e sicurezza». È una componente centrale della minaccia cinese e alimenta tante paure e angosce.

Gli Stati Uniti reagiscono alla minaccia cinese spostandosi nel terreno in cui sono più forti. Ovviamente detengono una soverchiante supremazia militare in tutto il mondo, anche al largo delle coste della Cina. E tuttavia hanno deciso di potenziarla ulteriormente. Lo scorso dicembre, come riferisce l’analista militare Michael Klare, il presidente Biden ha firmato il National Defense Authorization Act.21 La legge mira a creare «una catena ininterrotta di Stati sentinella armati dagli Stati Uniti che si estende dal Giappone e dalla Corea del Sud nel Pacifico settentrionale fino all’Australia, alle Filippine, alla Tailandia e a Singapore a sud e all’India sul fianco orientale della Cina»: insomma una manovra di accerchiamento della Cina.

Klare aggiunge: «Un dato piuttosto allarmante è che anche Taiwan rientra nella catena di Stati sentinella armati». L’aggettivo «allarmante» è appropriato. La Cina ovviamente considera Taiwan parte del suo territorio. E anche gli Stati Uniti lo fanno, formalmente. La politica ufficiale degli Stati Uniti riconosce Taiwan come parte della Cina, con un tacito accordo che non verranno presi provvedimenti per modificare con la forza il suo status. Donald Trump e il segretario di Stato Mike Pompeo hanno scalfito questa formula. E adesso viene spinta sull’orlo del precipizio. La Cina può scegliere se soccombere o resistere. Non soccomberà.

Questa è solo una parte del piano per difendere gli Stati Uniti dalla minaccia cinese. Un altro elemento complementare è minare l’economia cinese con mezzi fin troppo noti per ripercorrerli. In particolare (nella prospettiva degli Stati Uniti) deve essere impedito alla Cina di progredire nella tecnologia del futuro e di consolidare la sua leadership in settori come l’elettrificazione e le energie rinnovabili, ossia quelle tecnologie che potrebbero salvarci dalla corsa folle verso la distruzione dell’ambiente che sostiene la vita.

Una delle manovre per ostacolare il progresso della Cina è fare pressione su altri paesi affinché rifiutino l’alta tecnologia cinese. La Cina ha trovato un modo per aggirare queste manovre. Sta progettando, infatti, di aprire scuole tecniche nei paesi del Sud globale per insegnare la tecnologia avanzata, la tecnologia cinese che i laureati potranno poi utilizzare. Anche questo è un tipo di aggressione difficile da contrastare.

È evidente che l’influenza degli Stati Uniti vada diminuendo nel sistema internazionale, eppure non si direbbe osservando l’attuale Strategia di sicurezza nazionale, ancora incentrata sulla dottrina delle «due guerre», anche se non viene detto espressamente. In questo contesto, possiamo affermare che l’impero statunitense andrà indebolendosi nel ventunesimo secolo e che la fine di questo impero potrebbe non essere un evento pacifico?

Da diversi anni gli ambienti della politica estera hanno previsto che la Cina è pronta a superare gli Stati Uniti e a dominare gli affari mondiali: una prospettiva ancora incerta, a mio parere, a meno che gli Stati Uniti non si ostineranno a perseguire il processo di autodistruzione, che probabilmente sarà accelerato dopo la vittoria al Congresso, secondo alcuni sicura, del partito negazionista a novembre.

Come abbiamo detto in precedenza,22 l’ex Partito repubblicano è stato definito giustamente un «movimento insurrezionale» che ha rinunciato alla normale politica parlamentare, per prendere a prestito l’espressione introdotta dagli analisti politici Thomas Mann e Norman Ornstein dell’American Enterprise Institute dieci anni fa, quando la presa del controllo da parte di Trump non era ancora un incubo che si traduce in realtà.

L’amministrazione Trump ha ripristinato la dottrina delle due guerre in tutto e per tutto, tranne che nel nome. Una guerra tra due potenze nucleari può rapidamente sfuggire al controllo, e questo significherebbe la fine.

Un passo verso l’irrazionalità totale è stato compiuto lo scorso 27 dicembre, forse per festeggiare il Natale, quando il presidente Biden ha firmato il National Defense Authorization Act, che potenzia la politica di «accerchiamento» della Cina: il termine «contenimento» ormai è obsoleto. Ciò include la formazione del Dialogo quadrilaterale di sicurezza (QUAD), un’alleanza strategica tra Stati Uniti, India, Giappone e Australia che integra l’AUKUS (Australia, Regno Unito, Stati Uniti) e i Cinque Occhi (Five Eyes) dell’Anglosfera: tutte alleanze strategico-militari che si contrappongono alla Cina. La Cina ha però un entroterra travagliato. Come già detto, l’enorme squilibrio militare a favore degli Stati Uniti viene accresciuto da altri atti provocatori che comportano gravi rischi. Non possiamo abbassare la guardia con le potenze dell’Asse di nuovo in marcia.

Non è troppo difficile tracciare una traiettoria che porta a una prospettiva tutt’altro che piacevole. Ma non va mai dimenticata la solita clausola: non dobbiamo essere spettatori passivi e agevolare così una potenziale catastrofe.

4.
Nessun vincitore in caso di escalation1

C.J. POLYCHRONIOU. Noam, l’invasione russa dell’Ucraina ha colto tutti di sorpresa e provocato un’onda d’urto in tutto il mondo, per quanto vi fossero numerosi segnali che Putin fosse indispettito dall’espansione a est Della NATO e dal rifiuto di Washington di ascoltare le sue richieste in merito a una «linea rossa» di sicurezza in Ucraina. Secondo te perché ha deciso di lanciare l’invasione proprio in questo momento?

NOAM CHOMSKY. Prima di rispondere, dobbiamo precisare alcuni fatti incontestabili. Il più importante di tutti è che l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra, al pari dell’invasione statunitense dell’Iraq e di quella di Hitler-Stalin della Polonia nel settembre del 1939, giusto per fare due esempi emblematici. È sempre opportuno ricercare delle spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.

Tornando alla tua domanda, molti elaborano con estrema sicurezza argute analisi sulla psiche di Putin. La versione più in voga è che sia colto da fantasie paranoiche, che agisca da solo, circondato da servili cortigiani del genere ben noto qui da noi, ossia gli ultimi residui del Partito repubblicano che si recano in pellegrinaggio a Mar-a-Lago a ricevere la benedizione del Capo.2

Questo genere di invettive può avere una sua fondatezza, ma forse possiamo prendere in considerazione anche altre possibilità. Forse ciò che Putin e i suoi collaboratori ripetono forte e chiaro da anni è proprio ciò che egli intende dire. Potrebbe essere, ad esempio, che «poiché la principale richiesta di Putin è sempre stata la rassicurazione che la NATO non ammettesse altri membri, e in particolare l’Ucraina o la Georgia, non ci sarebbe stato motivo di scatenare la crisi attuale se l’Alleanza atlantica non si fosse allargata dopo la fine della Guerra fredda, o quantomeno se questa espansione fosse avvenuta in armonia con la costruzione di una struttura di sicurezza in Europa che includesse la Russia».3 A scriverlo, poco prima dell’invasione, è l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Russia Jack Matlock, uno dei pochi veri esperti di Russia nel corpo diplomatico statunitense. Matlock aggiunge che la crisi «si può risolvere facilmente usando il buon senso [...]. Secondo qualsiasi criterio di buon senso, è nell’interesse degli Stati Uniti promuovere la pace, non il conflitto. Cercare di far uscire l’Ucraina dalla sfera d’influenza russa – obiettivo dichiarato di quanti si sono entusiasmati per le ‘rivoluzioni colorate’ – è stata una sciocchezza, e anche pericolosa. Abbiamo dimenticato così presto la lezione ricevuta dalla crisi dei missili di Cuba?»

Matlock non è certo l’unico a pensarla così. Sui temi di fondo, le stesse conclusioni possiamo ritrovarle nelle memorie del capo della CIA William Burns, anche lui tra i pochi veri esperti di Russia.4 Viene ampiamente, e tardivamente, citata la posizione ancora più forte di George Kennan, su cui concordano anche l’ex segretario alla Difesa William Perry e, al di fuori della cerchia diplomatica, il noto studioso di relazioni internazionali John Mearsheimer,5 così come numerose altre figure appartenenti a pieno titolo al mainstream.

Niente di ciò che affermano è oscuro. Da alcuni documenti riservati degli Stati Uniti, poi resi pubblici da WikiLeaks, emerge che subito dopo l’offerta sconsiderata di Bush figlio all’Ucraina di aderire alla NATO la Russia lanciò una serie di avvertimenti sul fatto che quella minaccia militare non sarebbe stata tollerata.6 Comprensibilmente.

Per inciso, prendiamo atto dello strano modo in cui viene usato il concetto di «sinistra» quando si tratta di stigmatizzare una critica ritenuta troppo blanda alla «linea del Cremlino».

Il punto è che, a essere onesti, non sappiamo perché quella decisione sia stata presa, e nemmeno se Putin l’abbia presa da solo oppure di concerto con il Consiglio di sicurezza della Federazione russa di cui lui è a capo. Ci sono invece alcune cose che sappiamo con una certa sicurezza, comprese quelle affermate dalle persone, appena citate, che sono ai vertici della pianificazione strategica statunitense. In parole povere, questa crisi ribolliva da almeno venticinque anni, mentre contemporaneamente gli Stati Uniti ignoravano sdegnosamente gli allarmi della Russia in merito alla propria sicurezza, e in particolare in merito alle loro linee invalicabili: la Georgia e ancor di più l’Ucraina.

Per questo abbiamo ogni ragione di ritenere che questa tragedia si sarebbe potuta evitare, fino all’ultimo. Ne abbiamo già parlato più di una volta. Quanto alle ragioni per cui Putin abbia lanciato la sua criminale aggressione proprio in questo momento, possiamo fare ipotesi finché vogliamo. Ma il contesto storico generale non è ignoto – sottaciuto ma incontestabile.

È comprensibile, ovviamente, che coloro che subiscono i colpi di questo crimine considerino un’inaccettabile oziosità indagare sulle cause che lo hanno scatenato e se si sarebbe potuto evitare. Comprensibile, ma sbagliato. Se vogliamo reagire a questa tragedia in un modo che sia d’aiuto alle vittime ed eviti catastrofi ancora più gravi, è saggio e necessario cercare di comprendere il più possibile che cosa è andato storto e come si sarebbe potuto correggere la rotta. I gesti eroici possono essere appaganti, ma non sono utili.

Come mi è già capitato altre volte, mi viene in mente una lezione che ho imparato molto tempo fa. Alla fine degli anni Sessanta partecipai a un incontro in Europa con alcuni rappresentanti del Fronte nazionale per la liberazione del Vietnam del Sud (i «Viet Cong» nel gergo statunitense). Fu in quella breve fase di fortissima opposizione agli orrendi crimini statunitensi in Indocina. I giovani erano talmente arrabbiati da pensare che solo con una reazione violenta si sarebbe data adeguata risposta a quelle mostruosità: rompere le vetrine per strada, lanciare molotov contro un centro addestramento ufficiali. Qualsiasi altra reazione sarebbe equivalsa a una complicità con quei crimini. I vietnamiti vedevano le cose in maniera completamente diversa. Erano fermamente contrari ad azioni di quel tipo. E infatti misero in atto il loro modello di protesta efficace. Alcune donne, per esempio, rimasero in piedi in silenziosa preghiera sulle tombe dei soldati americani uccisi in Vietnam. Non gli interessava ciò che faceva sentire retti e nobili gli oppositori americani alla guerra. Volevano solo sopravvivere.

È una lezione che mi è capitato di ritrovare spesso, in una maniera o nell’altra, tra le vittime delle atroci sofferenze subite dal Sud globale, bersaglio prediletto della violenza imperiale. Una lezione che dovremmo imprimere nella nostra mente, adattandola alle circostanze. Oggi, questa lezione ci esorta a fare uno sforzo per capire perché questa tragedia si è verificata e cosa si sarebbe potuto fare per evitarla, e per applicarla agli eventi futuri.

È un tema che scava in profondità. Non è il caso di ripercorrere adesso questa questione di fondamentale importanza, ma la reazione a una crisi reale o immaginaria è sempre stata quella di mettere mano alla pistola invece di porgere il ramoscello d’ulivo. È quasi un riflesso condizionato, e le conseguenze in genere sono terribili, per le vittime di sempre. Vale sempre la pena cercare di capire, di pensare alle probabili conseguenze dell’azione o dell’inazione. Sono cose scontate, che pure vale la pena di ribadire perché si tende facilmente a dimenticarle nei momenti di pur legittima partecipazione.

Le scelte che rimangono in piedi dopo l’invasione non sono molto esaltanti. La meno peggio è sostenere gli spiragli diplomatici che ancora esistono, nella speranza di pervenire a una soluzione non troppo distante da quella che solo fino a qualche giorno fa sarebbe stata probabilmente raggiungibile: un’Ucraina neutrale sulla falsariga dell’Austria, all’interno di una qualche forma di federalismo sul modello del Protocollo Minsk II. Un accomodamento molto più difficile da raggiungere oggi. E – di necessità – assicurare una via di fuga a Putin, altrimenti gli esiti saranno ancor più funesti per l’Ucraina e per tutti gli altri, forse oltre ogni immaginazione.

È una soluzione molto poco giusta, lo so. Ma quando mai la giustizia ha prevalso negli affari internazionali? Serve forse ripercorrere ancora una volta tutti i casi spaventosi che conosciamo?

Che piaccia o no, le scelte si sono assottigliate al punto di dover premiare, invece che punire, Putin per questo atto di aggressione. Diversamente, vi sarà la forte possibilità di una guerra finale. Magari può essere gratificante costringere l’orso in un angolo e lasciarlo sbraitare in preda alla disperazione. Ma non sarebbe granché saggio.

Nel frattempo dobbiamo fare tutto il possibile per dare sostegno a coloro che difendono valorosamente la loro patria dai crudeli aggressori, a coloro che fuggono dagli orrori e alle migliaia di coraggiosi russi che si oppongono pubblicamente al crimine del loro Stato con grande rischio per sé stessi: una lezione per tutti noi.

Dobbiamo però anche trovare il modo per venire in soccorso di una categoria ben più ampia di vittime: tutti gli esseri viventi del pianeta. Questo flagello arriva in un momento in cui tutte le grandi potenze, anzi tutti noi dobbiamo lavorare insieme per tenere sotto controllo il grande flagello della devastazione ambientale che già adesso esige un pesante tributo, e i cui effetti saranno molto più nefasti se non verranno prese al più presto misure decisive. Giusto per ribadire l’ovvio, l’IPCC ha appena pubblicato il suo ultimo e di sicuro più inquietante rapporto in cui si spiega che ci dirigiamo verso la catastrofe.7

Intanto le necessarie azioni di contrasto sono state bloccate, anzi sono addirittura destinate a una retromarcia, poiché le indispensabili risorse vengono dirottate verso la distruzione e siamo sulla buona strada per espandere l’uso dei combustibili fossili, compreso il più pericoloso, economico e abbondante: il carbone.

Una congiuntura più macabra non l’avrebbe potuta immaginare un demone malvagio. Ma non possiamo far finta di niente. Ogni istante è prezioso.

L’invasione russa è un’evidente violazione dell’Articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite, che vieta la minaccia o l’uso della forza contro l’integrità territoriale di un altro Stato. Ciononostante, Putin ha cercato di presentare giustificazioni giuridiche all’invasione nel suo discorso del 24 febbraio. La Russia cita il Kosovo, l’Iraq, la Libia e la Siria quali prove delle ripetute violazioni del diritto internazionale da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati. Puoi commentare le giustificazioni di Putin all’invasione e spiegarci in quale stato si trova il diritto internazionale nell’era post-Guerra fredda?

Non c’è nulla da dire sul tentativo di Putin di fornire una giustificazione giuridica alla sua aggressione. È pari a zero.

Certo, è vero che gli Stati Uniti e i loro alleati violano il diritto internazionale senza battere ciglio, ma questo non costituisce un’attenuante per i crimini di Putin. Tuttavia è innegabile che Kosovo, Iraq e Libia abbiano avuto ripercussioni dirette sul conflitto in Ucraina.

L’invasione dell’Iraq è stato un caso da manuale di quel crimine per il quale i nazisti furono impiccati a Norimberga: una pura e semplice aggressione non provocata. Oltre che un pugno in faccia alla Russia.

Nel caso del Kosovo, l’aggressione della NATO (cioè degli Stati Uniti) fu definita «illegale ma giustificata» (per esempio, dalla Commissione internazionale indipendente sul Kosovo presieduta da Richard Goldstone), poiché i bombardamenti furono effettuati per fermare le atrocità in corso nella regione. Per pervenire a quella sentenza si dovette ribaltare la cronologia dei fatti: vi sono infatti evidenze schiaccianti che l’ondata di violenze fu la conseguenza – prevedibile, prevista, anticipata – dell’invasione. Per giunta, erano percorribili diverse strade diplomatiche, come sempre però ignorate in favore dell’uso della forza.8

Alti funzionari statunitensi confermano che è stato soprattutto il bombardamento della Serbia, alleata della Russia (senza nemmeno informarla in anticipo), a far cambiare idea ai russi allorché erano intenzionati a collaborare con gli Stati Uniti per costruire una nuova struttura di sicurezza europea post-Guerra fredda; un’inversione di rotta poi accelerata con l’invasione dell’Iraq e il bombardamento della Libia, dopo che la Russia aveva accettato di non bocciare una risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU che la NATO immediatamente violò.

Ogni evento ha delle conseguenze, anche se i fatti possono essere occultati all’interno della dottrina dominante.

Lo stato del diritto internazionale non è cambiato nel periodo successivo alla Guerra fredda, nemmeno a parole, per non parlare delle azioni. Il presidente Clinton chiarì all’epoca che gli Stati Uniti non avevano intenzione di rispettarlo. La dottrina Clinton prevedeva che gli Stati Uniti si riservassero il diritto di agire «unilateralmente se necessario», e anche di ricorrere all’«uso unilaterale della potenza militare», per difendere interessi vitali come «garantire l’accesso illimitato ai mercati, alle forniture energetiche e alle risorse strategiche». Sulla stessa scia anche i suoi successori, come chiunque si trovi nella posizione di violare la legge impunemente.

Con questo non voglio dire che il diritto internazionale non abbia valore. Possiede un certo margine di applicabilità e in un certo senso è un criterio prezioso.

Scopo dell’invasione russa sembra essere quello di rovesciare il governo Zelens’kyj e insediarne uno filorusso. In ogni caso, comunque vadano le cose, l’Ucraina ha di fronte a sé un futuro scoraggiante per via della sua decisione di diventare una pedina nei giochi geostrategici di Washington. In tale contesto, quanto è probabile che le sanzioni economiche inducano la Russia a cambiare posizione nei confronti dell’Ucraina, oppure le sanzioni mirano forse a un obiettivo più ampio, per esempio indebolire il controllo di Putin all’interno della Russia e i suoi legami con paesi come Cuba, Venezuela e forse anche la Cina stessa?

L’Ucraina può non aver fatto le scelte più giudiziose, ma non aveva certo le opzioni a disposizione degli Stati imperiali. Sospetto che le sanzioni porteranno la Russia a una dipendenza ancora maggiore dalla Cina. Salvo un deciso cambio di rotta, la Russia è un petrol-Stato cleptocratico e fa affidamento su una risorsa che deve essere ridotta drasticamente altrimenti sarà la fine per tutti noi. Non è chiaro se il suo sistema finanziario possa resistere contro un forte attacco, con sanzioni o con altri mezzi.9 Un motivo in più per offrire, sia pur malvolentieri, una via di fuga.

I governi occidentali, i principali partiti di opposizione, tra cui il Partito laburista nel Regno Unito, e anche i grossi mezzi d’informazione hanno intrapreso una sciovinistica campagna antirussa. Tra i loro bersagli non ci sono soltanto gli oligarchi russi, ma anche musicisti, direttori d’orchestra, cantanti e persino proprietari di squadre di calcio come Roman Abramovič del Chelsea. La Russia è stata persino bandita dall’edizione del 2022 dell’Eurovision in seguito all’invasione. È la stessa reazione che i mezzi d’informazione e la comunità internazionale in generale hanno avuto nei confronti degli Stati Uniti dopo l’invasione e successiva distruzione dell’Iraq, vero?

Il tuo commento ironico è calzante, e potremmo citare molti altri esempi che conosciamo bene.

Pensi che l’invasione abbia inaugurato una nuova era di conflittualità tra la Russia (forse in alleanza con la Cina) e l’Occidente?

È presto per dire dove si poserà la polvere, e potrebbe non essere una metafora. Finora, la Cina sta giocando bene le sue carte ed è probabile che porterà avanti il suo ampio progetto di integrazione economica di buona parte del mondo all’interno del suo sistema globale: giusto qualche settimana fa ha incluso l’Argentina nella Nuova via della seta, mentre intanto osserva i rivali distruggersi tra di loro.

Come abbiamo già detto, questa conflittualità è una condanna a morte per la specie umana, e non ci sono vincitori. Ci troviamo in un punto critico della storia umana. Non possiamo negarlo. Non possiamo ignorarlo.

5.
I rischi incalcolabili di una no-fly zone1

C.J. POLYCHRONIOU. Noam, a quasi due settimane dall’invasione dell’Ucraina, le forze russe continuano a devastare città e paesi mentre più di centoquaranta Stati hanno votato a favore di una risoluzione non vincolante delle Nazioni Unite che condanna l’invasione e chiede il ritiro delle truppe russe. Alla luce del mancato rispetto da parte della Russia delle regole del diritto internazionale, non vale la pena di dire qualcosa sulle istituzioni e le norme dell’ordine internazionale del dopoguerra? È abbastanza ovvio che l’ordine mondiale statocentrico emerso dalla Pace di Vestfalia non possa regolare la condotta geopolitica degli attori statali rispetto a questioni di guerra e pace e persino di sostenibilità. Sviluppare una nuova architettura normativa globale non è quindi, a questo punto, una questione di sopravvivenza?

NOAM CHOMSKY. Se è davvero una questione di sopravvivenza, allora siamo spacciati, perché non può realizzarsi in tempi brevi. Il massimo in cui possiamo sperare, ora come ora, è consolidare l’esistente, che è molto debole. E già così sarà alquanto difficile.

Le grandi potenze violano costantemente il diritto internazionale, così come le più piccole quando riescono a farla franca, di solito sotto l’ombrello di un protettore più potente, come quando Israele annette illegalmente le alture del Golan siriano e la Grande Gerusalemme, il tutto con l’accondiscendenza di Washington e il beneplacito di Donald Trump, il quale ha anche autorizzato l’annessione illegale del Sahara occidentale al Marocco.

In base al diritto internazionale è responsabilità del Consiglio di sicurezza dell’ONU mantenere la pace e, se necessario, autorizzare l’uso della forza. L’aggressione da parte di una superpotenza non arriva nemmeno al Consiglio di sicurezza: le guerre statunitensi in Indocina, l’invasione anglo-americana dell’Iraq o l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, per prendere tre esempi da manuale del «crimine internazionale supremo» per il quale i nazisti furono impiccati a Norimberga. Più precisamente, gli Stati Uniti sono intoccabili. I crimini russi ricevono almeno una certa attenzione.

Il Consiglio di sicurezza può prendere in considerazione altre atrocità, per esempio l’invasione franco-britannica-israeliana dell’Egitto e l’invasione russa dell’Ungheria nel 1956. Ma poi interviene il veto a bloccare ulteriori azioni. La prima fu revocata solo per ordine di una superpotenza (gli Stati Uniti), che si oppose alla tempistica e alla modalità dell’aggressione. La seconda, compiuta da una superpotenza, fu solo condannata, ma non vi furono misure di altro tipo.

Il disprezzo delle superpotenze per il quadro giuridico internazionale è talmente generalizzato da passare quasi inosservato. Nel 1986 la Corte internazionale di giustizia condannò Washington per la guerra terroristica (nel gergo legalistico, «uso illegale della forza») contro il Nicaragua, ordinandole di desistere e di pagare sostanziosi risarcimenti. Gli Stati Uniti non solo respinsero sdegnosamente la sentenza (con il sostegno della stampa liberale) ma anzi intensificarono l’attacco. Il Consiglio di sicurezza ONU provò a reagire con una risoluzione che invitava tutte le nazioni a osservare il diritto internazionale: non ne menzionò nessuna in particolare ma tutte colsero il messaggio. Gli Stati Uniti posero il veto, proclamando forte e chiaro di essere immuni al diritto internazionale. Quella risoluzione è scomparsa dalla storia.

Raramente viene detto che lo spregio per il diritto internazionale implica anche quello verso la Costituzione degli Stati Uniti, che in teoria è venerata con la stessa devozione accordata alla Bibbia. L’Articolo VI della Costituzione stabilisce che la Carta delle Nazioni Unite è «la legge suprema del paese» ed è dunque vincolante per tutti i rappresentanti eletti, tra cui anche i presidenti che ricorrono alla minaccia della forza («tutte le opzioni sono aperte»), la quale è vietata dalla Carta. Dotti articoli della letteratura giuridica sostengono che quelle parole non significano quello che dicono. E invece sì.

Le conseguenze sono fin troppo evidenti. Una di esse, di cui abbiamo già parlato, è che nel dibattito statunitense, compreso quello accademico, oramai è di rigore ripudiare l’ordinamento internazionale fondato sulle Nazioni Unite in favore di un «ordinamento internazionale fondato sulle regole», laddove è implicito che siano gli Stati Uniti a dettarle.

Anche se il diritto internazionale (e la Costituzione degli Stati Uniti) dovesse essere rispettato, la sua portata sarebbe limitata. Non fu applicato, per esempio, nel caso delle efferate guerre russe in Cecenia, con la capitale Groznyj rasa al suolo, forse un terribile presagio del destino che aspetta Kiev se non verrà raggiunto un accordo di pace; né, negli stessi anni, nel caso della guerra della Turchia contro i curdi che uccise decine di migliaia di persone, distrusse migliaia di città e villaggi e costrinse centinaia di migliaia di persone nelle miserabili baraccopoli di Istanbul, il tutto con il fermo sostegno dall’amministrazione Clinton, che intensificò il già enorme flusso di armi mentre i crimini aumentavano. Il diritto internazionale non vieta la pratica in cui sono specialisti gli Stati Uniti, ossia le sanzioni assassine con cui viene punita qualsiasi «sfida vittoriosa», e nemmeno il furto dei fondi agli afgani mentre quelli devono vedersela con una carestia di massa. Né vieta di martoriare un milione di bambini a Gaza o un milione di uiguri mandati nei «campi di rieducazione». E molto altro.

Come si cambia tutto questo? È improbabile che si riesca a ottenere granché semplicemente innalzando una nuova «barriera di pergamena»: le parole messe per iscritto secondo l’espressione di James Madison. Una migliore impalcatura dell’ordinamento internazionale può essere utile per scopi educativi e organizzativi, come del resto è il diritto internazionale. Ma non basta per proteggere le vittime. Questo obiettivo si può raggiungere soltanto costringendo i potenti a cessare i loro crimini o, in un orizzonte temporale più lungo, proprio indebolendo il loro potere. È ciò che migliaia di coraggiosi russi stanno facendo proprio in questo momento con il loro lodevole sforzo di fermare la macchina da guerra di Putin. È quanto hanno fatto anche gli americani quando hanno protestato contro i tanti crimini del loro Stato affrontando una repressione molto meno grave, con buoni seppur insufficienti risultati.

Si possono adottare misure per costruire un ordine mondiale meno pericoloso e più umano. Nonostante tutti i suoi difetti, l’Unione europea ha fatto passi avanti rispetto a prima. Lo stesso vale per l’Unione africana, per quanto limitata essa rimanga. E nell’emisfero occidentale, si può dire la stessa cosa per iniziative come l’UNASUR (l’Unione delle nazioni sudamericane) e la CELAC (la Comunità degli Stati latinoamericani e dei Caraibi). Quest’ultima ricerca un’integrazione latinoamericana-caraibica separata dall’Organizzazione degli Stati americani dominata dagli Stati Uniti.

Sono problemi che si ripresentano sempre, in una forma o in un’altra. Quasi fino al giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, questo crimine molto probabilmente avrebbe potuto essere evitato perseguendo strade ben note: una neutralità in stile austriaco per l’Ucraina, una qualche versione di federalismo sulla scorta del Protocollo Minsk II che rispecchi gli effettivi impegni degli ucraini nel territorio. C’è stata poca pressione per indurre Washington a perseguire la pace. Né gli americani si sono uniti allo scherno del resto del mondo verso i peana a favore della sovranità nazionale da parte di una superpotenza che non ha eguali quanto a brutale dispregio per questo concetto.

Quelle strade rimangono aperte, per quanto rese più impervie dalla criminale invasione.

Anche Putin ha seguito l’istinto di ricorrere alla violenza, sebbene esistessero delle soluzioni pacifiche. È vero che gli Stati Uniti hanno continuato a ignorare le legittime preoccupazioni per la sicurezza della Russia – da tempo riconosciute come tali anche da alti funzionari e diplomatici statunitensi –, ma rimanevano comunque aperte delle opzioni diverse dalla violenza criminale. Gli osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) avevano segnalato un forte aumento della violenza nella regione del Donbass, che molti, non solo la Russia, denunciano essere in gran parte di matrice ucraina. Putin avrebbe potuto cercare di dare solidità a questa accusa e di portarla, se veritiera, all’attenzione internazionale. Ciò avrebbe rafforzato la sua posizione.

Fatto ancor più importante, Putin avrebbe potuto cogliere l’occasione, che era reale, di appellarsi a Germania e Francia per portare avanti il progetto di una «casa comune europea» sulla falsariga della proposta di De Gaulle e Gorbačëv, un sistema europeo senza alleanze militari dall’Atlantico agli Urali e anche oltre che sostituisse il sistema atlantista di subordinazione a Washington incentrato sulla NATO. È questa la questione di fondo da molto tempo, aggravata oggi dalla crisi in corso. Una «casa comune europea» offrirebbe molti vantaggi all’Europa. Una diplomazia intelligente avrebbe potuto far avanzare questo progetto.

Invece di perseguire la strada della diplomazia, Putin ha messo mano alla pistola, un riflesso condizionato del potere. Il risultato è devastante per l’Ucraina, e probabilmente il peggio deve ancora venire. Il risultato è anche un regalo molto gradito a Washington, poiché Putin è riuscito a consolidare il sistema atlantista ancora più di prima. Il regalo è talmente gradito che alcuni analisti moderati e ben informati hanno ipotizzato che fosse l’obiettivo di Washington da sempre.2

Dovremmo riflettere attentamente su tali questioni. Un utile esercizio è osservare quanto raramente ci si confronti «faccia a faccia» e quanto spesso invece si preferisca farlo «guerra a guerra», giusto per prendere in prestito un aforisma di Churchill.

Forse gli «operatori di pace» sono davvero «beati». Così il buon Dio non dovrebbe fare gli straordinari.

Parlando della necessità di una nuova architettura mondiale e di una prassi diplomatica da adattare all’attuale dinamica globale, Putin ha ripetuto, in una recente conversazione telefonica avuta con il presidente francese Emmanuel Macron, l’elenco delle lamentele della Russia contro l’Occidente, e ha accennato a una via d’uscita dalla crisi. Eppure, di nuovo, le richieste di Putin hanno ricevuto un secco no e, ancora più inspiegabilmente, questo raggio di luce offerto da Putin è stato completamente oscurato. Vuoi commentare questo fatto?

Purtroppo, non è inspiegabile. Anzi, è del tutto normale e prevedibile.

Sepolto da qualche parte nell’articolo sulla conversazione Putin-Macron, recante il solito titolone infuocato a proposito delle mire putiniane, c’era un pezzetto dedicato a ciò che Putin ha detto veramente: «Nella sua versione della telefonata il Cremlino ha fatto sapere che Putin ha detto alla sua controparte francese che il suo obiettivo principale è ‘la smilitarizzazione e lo status neutrale dell’Ucraina’. Quegli obiettivi, ha affermato il Cremlino, ‘saranno raggiunti in ogni caso’».3

In un mondo razionale queste ultime frasi avrebbero meritato il titolo e i commentatori avrebbero chiesto a Washington di cogliere quell’opportunità e di porre fine all’invasione prima che una grossa catastrofe devasti l’Ucraina e possa addirittura sfociare in una guerra finale se a Putin non viene offerta un via di fuga dal disastro che ha generato. Invece, ritroviamo i soliti proclami «guerra a guerra» praticamente su ogni versante politico, a cominciare dal celebre esperto di politica estera Thomas Friedman. Oggi il duro del «New York Times» avverte: «Vladimir, non hai ancora visto niente».4

L’editoriale di Friedman celebra in pratica la «cancellazione della Madre Russia». Lo potremmo raffrontare con le sue reazioni nel caso di atrocità comparabili o anche peggiori di cui lui condivide le responsabilità. E non è da solo in questo.

È così che vanno le cose oggi in una cultura intellettuale molto libera ma profondamente conformista.

Una risposta razionale alla reiterazione da parte di Putin del suo «vero obiettivo» sarebbe quella di coinvolgerlo e di offrire ciò che da lungo tempo è considerato il presupposto di base per una risoluzione pacifica: lo ripeto, «una neutralità in stile austriaco per l’Ucraina, una qualche versione di federalismo sulla scorta del Protocollo Minsk II che rispecchi degli effettivi impegni degli ucraini nel territorio». Un atteggiamento razionale implicherebbe anche fare questo senza adottare la patetica posizione di difesa dei diritti di sovranità che normalmente teniamo in totale spregio – e che non vengono violati più di quanto la sovranità del Messico sia violata dal fatto di non poter aderire a un’alleanza militare guidata dalla Cina né ospitare le manovre congiunte messicano-cinesi o le armi offensive cinesi puntate sugli Stati Uniti.

Sarebbe una strada percorribile, ma presupporrebbe un fatto utopistico, ossia un mondo razionale, un mondo, per giunta, in cui Washington non si rallegra per il meraviglioso dono che Putin le ha appena fatto: un’Europa pienamente subordinata, senza sciocche fantasie sul fatto di sfuggire al controllo del Padrone.

Il messaggio per tutti noi è sempre lo stesso, e come sempre di cristallina evidenza: dobbiamo dedicare ogni sforzo per costruire un mondo sostenibile e vivibile.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj ha condannato la decisione della NATO di non chiudere i cieli dell’Ucraina. Una reazione comprensibile vista la catastrofe inflitta alla sua patria dalle forze armate russe, ma dichiarare una no-fly zone non significherebbe fare un passo in più verso la Terza guerra mondiale?

Come dici tu, la richiesta di Zelens’kyj è comprensibile. Ma acconsentire porterebbe molto probabilmente alla cancellazione dell’Ucraina e ben oltre. Il semplice fatto che se ne parli negli Stati Uniti è sorprendente. È una follia. Con l’istituzione di una no-fly zone l’Aeronautica americana non soltanto attaccherebbe gli aerei russi, ma bombarderebbe anche le installazioni di terra che forniscono supporto antiaereo alle forze russe, con tutti i conseguenti «danni collaterali». È tanto difficile comprendere ciò che ne seguirebbe?

Allo stato attuale delle cose, la Cina potrebbe essere l’unica grande potenza in grado di fermare la guerra in Ucraina. In effetti, la stessa Washington sembra più che disposta a coinvolgere i cinesi, perché Xi Jinping potrebbe essere l’unico leader capace di costringere Putin a riconsiderare le sue azioni in Ucraina. Secondo te la Cina può svolgere il ruolo di mediatrice tra Russia e Ucraina, e magari imporsi nel prossimo futuro come mediatrice di pace globale?

La Cina potrebbe provare ad assumere questo ruolo, ma non sembra probabile. Gli analisti cinesi sanno bene quanto noi che c’è sempre stato un modo per evitare la catastrofe, secondo le modalità di cui abbiamo discusso ripetutamente e che abbiamo ripercorso brevemente in questa intervista. Si rendono anche conto che, per quanto le opzioni si siano assottigliate, sarebbe comunque possibile concedere il «vero obiettivo» di Putin con modalità che sarebbero vantaggiose per tutti, senza violare i diritti fondamentali. E sanno anche che il governo degli Stati Uniti non è interessato, né la nomenklatura degli opinionisti. Potrebbero essere poco inclini a gettarsi nella mischia.

Non è chiaro se la Cina nemmeno lo voglia. Tenersi fuori dal conflitto le giova. Sta continuando a integrare gran parte del mondo all’interno del sistema di investimento e sviluppo di matrice cinese, ed è probabile che la Turchia, un membro della NATO, sia la prossima della lista.

La Cina sa anche che il Sud globale non vede di buon occhio la «cancellazione della Madre Russia» e preferirebbe mantenere in piedi i rapporti. Il Sud può certamente condividere l’orrore per la crudeltà dell’invasione, ma le sue esperienze non sono quelle dell’Europa e degli Stati Uniti. I paesi di quell’area, dopotutto, sono i bersagli storici delle brutalità di Europa e Stati Uniti, rispetto alle quali le sofferenze dell’Ucraina perdono peso. Queste esperienze e ricordi, del resto, sono condivisi anche dalla Cina con il «Secolo delle umiliazioni» e via discorrendo.

Se l’Occidente sceglie di non vedere tutto questo, la Cina certamente lo fa. Presumo che si terrà a distanza e procederà lungo il suo corso attuale.

Supponendo che tutte le iniziative diplomatiche falliscano, la Russia è davvero in grado di occupare un paese delle dimensioni dell’Ucraina? L’Ucraina non potrebbe diventare l’Afghanistan di Putin? In effetti, nel dicembre del 2021, il capo del Centro di studi ucraini dell’Accademia russa delle scienze, Viktor Mironenko, ha messo in guardia sul fatto che l’Ucraina potrebbe diventare un altro Afghanistan. Che cosa ne pensi? Putin non ha imparato qualche lezione dall’Afghanistan?

Se la Russia occupa l’Ucraina, la sua miserabile esperienza in Afghanistan sembrerà un picnic nel parco al confronto.

Ma teniamo presente che i due casi sono diversi. Gli archivi storici ci svelano che la Russia invase l’Afghanistan con molta riluttanza, diversi mesi dopo che il presidente Carter aveva autorizzato la CIA a «fornire [...] supporto agli insorti afgani» che si opponevano a un governo appoggiato dalla Russia, con il forte sostegno, se non per iniziativa, del consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, come egli stesso rivendicò in seguito con orgoglio. Non c’è mai stata alcuna credibilità nelle isteriche dichiarazioni su un piano russo per conquistare il Medio Oriente e oltre. Anche in questo caso George Kennan fu uno dei pochissimi a respingere questa ipotesi in maniera acuta e circostanziata.5

Gli Stati Uniti fornirono appoggio ai mujaheddin che resistevano all’invasione russa, non per aiutarli a liberare l’Afghanistan ma piuttosto per «uccidere i soldati sovietici», come spiegato dal capostazione della CIA a Islamabad che dirigeva l’operazione.6

Per la Russia, il costo fu terribile ma ovviamente non fu nulla al confronto di ciò che subì l’Afghanistan allora e che continuò quando i fondamentalisti islamici sostenuti dagli Stati Uniti devastarono il paese dopo la ritirata dei russi.

Non osiamo pensare a ciò che l’occupazione dell’Ucraina potrebbe significare per il popolo ucraino, se non per il mondo intero.

Ma è un esito che può essere scongiurato. È questo il punto fondamentale.

6.
Necessità della partecipazione americana ai colloqui di pace1

C.J. POLYCHRONIOU. Noam, una quarta tornata di negoziati tra i delegati russi e quelli ucraini si sarebbe dovuta svolgere oggi, ma è stata rinviata a domani e una pace in Ucraina in tempi brevi sembra ancora un’eventualità improbabile. Gli ucraini non sembrano intenzionati ad arrendersi e Putin appare determinato a protrarre l’invasione. In tale contesto, che ne pensi della risposta del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj alle quattro richieste fondamentali di Vladimir Putin, ossia: a) cessare l’azione militare; b) riconoscere la Crimea come territorio russo; c) modificare la Costituzione ucraina per sancire la neutralità; d) riconoscere le repubbliche separatiste nell’Ucraina orientale?

NOAM CHOMSKY. Prima di rispondere, voglio precisare qual è il punto fondamentale che deve essere al centro di tutte le discussioni su questa terribile tragedia: dobbiamo trovare un modo per porre fine a questa guerra prima che ci sia un’escalation che può portare alla devastazione totale dell’Ucraina e a una catastrofe inimmaginabile anche al di fuori dei suoi confini. L’unico modo per farlo è mediante un accordo negoziato. Piaccia o no, ciò implica anche garantire una sorta di via di fuga per Putin, altrimenti accadrà il peggio. Non la vittoria, ma una via di fuga. Queste preoccupazioni devono essere al primo posto nelle nostre menti.

Non penso che Zelens’kyj avrebbe dovuto accettare supinamente le richieste di Putin. Penso che la risposta che ha dato pubblicamente il 7 marzo sia stata assennata e circostanziata.2

In queste sue dichiarazioni ha ammesso che l’adesione alla NATO non è all’ordine del giorno per l’Ucraina.3 Ha anche insistito, giustamente, sul fatto che l’opinione degli abitanti del Donbass, ora occupato dalla Russia, dovrebbe essere un fattore determinante nella definizione di una risoluzione di qualche tipo. In breve, ha delineato ancora una volta un percorso che con ogni probabilità avrebbe potuto prevenire questa tragedia. Ma non possiamo saperlo perché gli Stati Uniti si sono rifiutati di provarci.

Come si sa da molto tempo, in effetti da decenni, l’ingresso dell’Ucraina della NATO sarebbe un po’ come se il Messico aderisse a un’alleanza militare guidata dalla Cina, ospitando manovre congiunte con l’esercito cinese e armi puntate su Washington. Insistere sul diritto sovrano del Messico di farlo sarebbe un’idiozia (e, fortunatamente, nessuno lo fa). L’insistenza di Washington sul diritto sovrano dell’Ucraina di aderire alla NATO è ancora peggiore, poiché pone una barriera insormontabile alla risoluzione pacifica di una crisi che è già un crimine sconcertante e che diventerà ben più grave se non sarà superata – dai negoziati cui Washington si rifiuta di partecipare.

Questo al netto dello spettacolo comico offerto dalla difesa della sovranità nazionale da parte di un leader mondiale che viola sfacciatamente quella dottrina: un atteggiamento ridicolizzato in tutto il Sud globale benché gli Stati Uniti e l’Occidente in generale mantengano la disciplina e lo prendano sul serio, o almeno fingano di farlo.

Le proposte di Zelens’kyj riducono notevolmente il divario con le richieste di Putin e danno l’occasione di far avanzare le iniziative diplomatiche intraprese da Francia e Germania, con il limitato sostegno della Cina. I negoziati possono avere successo oppure possono fallire: l’unico modo per scoprirlo è provare. Naturalmente, i negoziati non andranno da nessuna parte se gli Stati Uniti persisteranno nell’irremovibile rifiuto di parteciparvi, appoggiati da tutta la nomenklatura, e se la stampa continuerà a tenere all’oscuro l’opinione pubblica omettendo persino di riportare le proposte di Zelens’kyj.

In tutta onestà, devo precisare che il 13 marzo il «New York Times» ha pubblicato un appello alla diplomazia affinché faccia avanzare il «vertice virtuale» di Francia-Germania-Cina, offrendo al contempo a Putin una «via d’uscita», per quanto sgradevole possa essere. Autore dell’articolo è Wang Huiyao, presidente di un centro studi non governativo di Pechino.4

A dire il vero la mia impressione è che in alcuni ambienti la pace in Ucraina non sia la massima priorità. Ad esempio, sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito ci sono numerose voci che esortano l’Ucraina a continuare a combattere (sebbene i governi occidentali abbiano escluso l’invio di truppe per difendere il paese), probabilmente nella speranza che la prosecuzione della guerra, in concomitanza con le sanzioni economiche, porti a un cambio di regime a Mosca. Ma non è forse vero che, anche se Putin dovesse effettivamente cadere, sarebbe comunque necessario negoziare un trattato di pace con qualunque governo russo dovesse succedergli, e che andrebbe ricercato un compromesso per il ritiro delle forze russe dall’Ucraina?

Possiamo solo avanzare ipotesi sulle ragioni per cui Stati Uniti e Regno Unito insistono tanto su misure guerresche e punitive e sul rifiuto di adottare anch’essi un approccio sensato per porre fine alla tragedia. Forse dietro si cela effettivamente la speranza di un cambio di regime. Se è così, non solo è un atteggiamento criminale ma anche sciocco. Criminale perché perpetua le violenze della guerra e fa crollare la speranza di porre fine agli orrori; sciocco perché è abbastanza probabile che qualora Putin venga deposto qualcuno anche peggiore ne prenda il posto. È uno schema ricorrente nella decapitazione dei vertici delle organizzazioni criminali: un tema esaminato in modo molto convincente da Andrew Cockburn.5

E, come dici tu, nella migliore delle ipotesi lascerebbe inalterato il problema del compromesso.

Un’altra possibilità è che Washington sia soddisfatta di come sta procedendo il conflitto. Come abbiamo detto, nella sua follia criminale, Putin ha fatto a Washington un grandissimo regalo: consolidare la cornice atlantista a trazione statunitense per l’Europa ed escludere la possibilità di una «casa comune europea» indipendente, una vecchia questione degli affari internazionali, sin dalle origini della Guerra fredda. Personalmente sono restio a spingermi al punto di confermare ciò che dicono le fonti informate che abbiamo già citato, ossia che Washington avesse pianificato tutto; tuttavia è abbastanza evidente che comunque si è verificato. E, forse, gli strateghi di Washington non vedono alcun motivo per agire in modo da mutare il corso degli eventi.

Dobbiamo anche rilevare che la maggior parte del mondo si tiene a distanza dal terribile spettacolo in scena in Europa. Un esempio emblematico sono le sanzioni. L’analista politico John Whitbeck ha elaborato una mappa degli Stati che hanno applicato sanzioni contro la Russia: gli Stati Uniti e il resto dell’Anglosfera, l’Europa e parte dell’Asia orientale. Nessun paese del Sud globale, che resta a guardare disorientato mentre le nazioni d’Europa tornano al loro tradizionale passatempo di massacrarsi a vicenda e intanto seguono la loro vocazione di distruggere tutto ciò che ritengono essere alla loro portata: Yemen, Palestina e tanti altri. Dal Sud globale si sono levate numerose voci di condanna del brutale crimine di Putin, che però non ignorano la suprema ipocrisia dell’atteggiamento dell’Occidente verso azioni che sono ben poca cosa rispetto alle sue prassi consolidate, ancora adesso.

L’invasione dell’Ucraina potrebbe davvero cambiare l’ordine globale, soprattutto con la probabile militarizzazione dell’Unione europea. Cosa significa per l’Europa e per la diplomazia internazionale il cambio di strategia della Germania verso la Russia, ovvero il suo riarmo e l’evidente fine dell’Ostpolitik?6

L’effetto principale, temo, sarà quello che ho già citato: l’imporsi del modello atlantista fondato sulla NATO e gestito dagli Stati Uniti e la marginalizzazione, ancora una volta, delle iniziative per costruire un sistema europeo indipendente dagli Stati Uniti, una «terza forza» negli affari internazionali, come è stata talvolta denominata. È rimasta una questione fondamentale sin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Putin ha risolto per il momento la faccenda facendo realizzare a Washington il suo desiderio più ardente: un’Europa talmente sottomessa che un’università italiana ha provato a vietare un ciclo di lezioni su Dostoevskij, giusto per citare uno dei tanti esempi eclatanti di come gli europei si stiano rendendo ridicoli.

Sembra probabile, intanto, che la Russia si sposti ulteriormente nell’orbita della Cina, diventando un cleptocratico produttore di materie prime ancor più decadente di quanto non sia ora. È probabile che la Cina persista nel suo progetto di incorporare altri paesi nel sistema di sviluppo e investimento basato sull’iniziativa Belt and Road, ossia la «Nuova via della seta marittima» che attraverso gli Emirati arabi uniti arriva in Medio Oriente, e sull’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Gli Stati Uniti sembrano intenzionati a reagire facendo leva sul loro vantaggio comparativo: la forza. Al momento ciò include il piano di Biden di «accerchiamento» della Cina mediante basi e alleanze militari, accompagnato forse dal tentativo di stimolare l’economia statunitense inquadrandola come concorrente della Cina. È ciò che vediamo avvenire proprio in questo momento.

Esiste ancora una breve finestra temporale per attuare delle correzioni di rotta. Ma potrebbe chiudersi presto se la democrazia statunitense, per come è ancora adesso, continuerà il suo corso autodistruttivo.

È possibile che l’invasione dell’Ucraina abbia anche inferto un duro colpo alla speranza di fronteggiare la crisi climatica, quantomeno in questo decennio. Hai qualche commento da fare su questa mia pessimistica osservazione?

I commenti appropriati superano le mie limitate capacità letterarie. Il colpo non è solo grave, ma può anche essere mortale per la vita umana organizzata sulla Terra e per le innumerevoli altre specie che stiamo distruggendo senza ritegno.

Proprio mentre scoppiava la crisi ucraina, l’IPCC pubblicava il suo rapporto del 2022: il grido d’allarme più inquietante che abbia mai prodotto. Nel documento si afferma senza mezzi termini che è indispensabile adottare delle misure decisive adesso, senza ulteriori indugi, per ridurre l’uso di combustibili fossili e passare alle energie rinnovabili. Questi avvertimenti hanno avuto scarsa risonanza, dopodiché la nostra strana specie è tornata a destinare le scarse risorse alla distruzione e a incrementare l’avvelenamento dell’atmosfera, frenando al contempo le iniziative per deviare dal suo percorso suicida.

L’industria del fossile nasconde a malapena la gioia per le nuove opportunità fornite dall’invasione di accelerare la distruzione della vita sul pianeta. Negli Stati Uniti è probabile che il partito negazionista, che ha bloccato con successo gli sforzi limitati di Biden per affrontare questa crisi esistenziale, torni presto al potere, così da riavviare la missione dell’amministrazione Trump di distruggere ogni cosa il più rapidamente ed efficacemente possibile.

Possono suonare parole dure le mie. Non lo sono abbastanza.

La partita non è finita. C’è ancora tempo per un radicale cambio di rotta. I mezzi per farlo li conosciamo. Se c’è la volontà, è possibile evitare la catastrofe e incamminarsi verso un mondo migliore. L’invasione dell’Ucraina è stata un duro colpo per queste prospettive, è innegabile. Sta a noi decidere se è il colpo di grazia oppure no.

7.
Guerra atomica e guerra giusta1

C.J. POLYCHRONIOU. Noam, è già passato un mese dallo scoppio della guerra in Ucraina e i colloqui di pace sono in una fase di stallo. Anzi, Putin sta intensificando la violenza mentre l’Occidente incrementa gli aiuti militari all’Ucraina. In una precedente intervista hai paragonato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia all’invasione nazista della Polonia. La strategia di Putin, quindi, deriva direttamente dal libretto di istruzioni di Hitler? Vuole occupare tutta l’Ucraina? Sta cercando di ricostruire l’impero russo? È per questo che i negoziati di pace si sono arenati?

NOAM CHOMSKY. Abbiamo poche notizie attendibili sui negoziati. Alcune delle informazioni che trapelano tradiscono un certo ottimismo. Possiamo ragionevolmente supporre che se gli Stati Uniti accettassero di parteciparvi seriamente, con un programma costruttivo, le chance di porre fine all’orrore aumenterebbero.

Quale debba essere questo programma costruttivo, quantomeno nelle linee generali, non è un segreto. L’elemento primario è l’impegno sulla neutralità dell’Ucraina: nessuna adesione a un’alleanza militare ostile, nessun alloggiamento di armi puntate sulla Russia (nemmeno quelle chiamate erroneamente «difensive»), nessuna manovra militare con forze armate ostili.

Non sarebbe nulla di nuovo negli affari internazionali, anche laddove non esiste un accordo formale. Tutti sanno, per esempio, che il Messico non può aderire a un’alleanza militare retta dalla Cina, né posizionare armi cinesi puntate contro gli Stati Uniti o effettuare manovre militari con l’Esercito popolare di liberazione.

In sintesi, un programma costruttivo dovrebbe essere agli antipodi rispetto alla Dichiarazione congiunta sul partenariato strategico Stati Uniti-Ucraina (Joint Statement on the U.S.-Ukraine Strategic Partnership) firmata dalla Casa Bianca il 1o settembre 2021.2 In questo documento, che ha avuto scarsa copertura mediatica, si dichiara con forza che le porte dell’adesione dell’Ucraina alla NATO sono aperte. In esso, inoltre, si «definisce il Quadro di difesa strategica che getta le basi del rafforzamento della cooperazione strategica in materia di difesa e sicurezza tra Stati Uniti e Ucraina», fornendo all’Ucraina avanzate armi anticarro e di altro tipo oltreché un «intenso programma di addestramento ed esercitazione in linea con lo status dell’Ucraina di Enhanced Opportunities Partner (‘partner avanzato’) della NATO».

Questa dichiarazione è l’ennesimo atto mirato per colpire l’orso in piena faccia. È un altro passo in un processo che la NATO (cioè Washington) ha perfezionato sin dalla violazione da parte di Bill Clinton, nel 1998, della ferma promessa fatta da George H.W. Bush di non espandere la NATO verso est: una decisione che indusse diplomatici di alto livello come George Kennan, Henry Kissinger, Jack Matlock, William Burns (l’attuale direttore della CIA) e molti altri a lanciare l’allarme e che portò il segretario alla Difesa William Perry a un passo dal rassegnare le dimissioni in segno di protesta, affiancato da un lungo elenco di figure più assennate. Tutto questo ovviamente in aggiunta alle azioni aggressive che hanno colpito direttamente luoghi d’interesse difensivo per la Russia (Serbia, Iraq, Libia e altri crimini minori), condotte in modo tale da massimizzare l’umiliazione.

Non è così peregrino sospettare che la Dichiarazione congiunta abbia condizionato la scelta di Putin e della ristretta cerchia di «duri» che lo attorniano di intensificare l’annuale mobilitazione militare al confine ucraino nel tentativo di ottenere un po’ di attenzione sulle loro priorità in materia di sicurezza, arrivando in questo caso fino a una criminale aggressione diretta che, sì, possiamo paragonare all’invasione nazista della Polonia (contemporaneamente a quella di Stalin).

La neutralizzazione dell’Ucraina dovrebbe essere il fulcro di tale programma costruttivo, ma c’è di più. Ci si dovrebbe muovere nella direzione di un assetto federale dell’Ucraina che comprenda un certo grado di autonomia per la regione del Donbass, seguendo le linee di massima del Protocollo Minsk II, o di ciò che ne resta. Nemmeno questa sarebbe una novità negli affari internazionali. Nella storia non esistono due casi identici e nessun esempio concreto è mai perfetto, ma esistono strutture federali in Svizzera e nel Belgio, tra gli altri,3 come pure negli Stati Uniti in una certa misura. Con un serio sforzo diplomatico si potrebbe trovare una soluzione a questo problema, o almeno circoscrivere l’incendio.

Un incendio molto reale. Si stima che circa quindicimila persone siano state uccise nei conflitti in quella regione dal 2014.

Un discorso a parte merita la Crimea. Sulla Crimea l’Occidente ha due scelte. Una è ammettere che l’annessione russa è semplicemente un dato di fatto per ora, irreversibile a meno di non intraprendere azioni che distruggerebbero l’Ucraina e non solo. L’altra è ignorare le probabili conseguenze e compiere gesti eroici per dimostrare che gli Stati Uniti «non riconosceranno mai la presunta annessione della Crimea da parte della Russia», come proclama la Dichiarazione congiunta, accompagnata da svariate dichiarazioni esplicite di altri soggetti che sono disposti a consegnare l’Ucraina alla catastrofe totale mentre pubblicizzano il loro coraggio.

Che piaccia o no, queste sono le scelte sul tavolo.

Putin vuole davvero «occupare tutta l’Ucraina e ricostruire l’impero russo»? I suoi obiettivi dichiarati (soprattutto la neutralizzazione) sono abbastanza diversi, inclusa la sua affermazione che sarebbe una follia cercare di ricostruire la vecchia Unione Sovietica, ma potrebbe aver avuto in mente qualcosa del genere. Se così fosse, difficile ipotizzare cosa hanno in mente di fare lui e la sua cerchia. Se la Russia occupasse l’Ucraina, la sua esperienza in Afghanistan al confronto sembrerebbe un picnic nel parco. Ormai è chiarissimo.

Putin ha la capacità militare – e, a giudicare dalla Cecenia e da altre bravate, la capacità morale – di ridurre l’Ucraina a una rovina fumante. Questo si tradurrebbe in: nessuna occupazione, nessun impero russo e niente più Putin.

La nostra attenzione è concentrata giustamente sugli orrori, in aumento, dell’invasione di Putin. Sarebbe un errore, tuttavia, dimenticare che quella dichiarazione congiunta è solo uno dei piaceri con cui la mente imperiale si sta trastullando nel silenzio generale.

Poche settimane fa abbiamo parlato del National Defense Authorization Act del presidente Biden, poco noto proprio come la dichiarazione congiunta. Questa brillante norma – e cito nuovamente Michael Klare – mira a creare «una catena ininterrotta di Stati sentinella armati dagli Stati Uniti che si estende dal Giappone e dalla Corea del Sud nel Pacifico settentrionale fino all’Australia, alle Filippine, alla Tailandia e a Singapore nel Sud e all’India sul fianco orientale della Cina», insomma ad accerchiare la Cina, comprendendo anche Taiwan (un «dato piuttosto allarmante»).

Potremmo chiederci come si sente la Cina in merito al fatto che il Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti sta pianificando di rafforzare tale accerchiamento, raddoppiando la spesa per l’anno fiscale 2022 in parte per installare «una rete di missili ad alta precisione lungo la cosiddetta prima catena di isole».4

A scopi difensivi, naturalmente, dunque il governo cinese non ha motivo di preoccuparsi.

Non v’è dubbio che l’aggressione di Putin non rispetti la teoria della «guerra giusta»5 e che anche la NATO sia moralmente responsabile della crisi. Ma come dobbiamo leggere la decisione dell’Ucraina di armare i civili per combattere gli invasori? Non è moralmente giustificato per lo stesso motivo per cui era moralmente giustificata la resistenza contro i nazisti?

La teoria della guerra giusta, purtroppo, nel mondo reale ha la stessa valenza dell’«intervento umanitario», del «dovere di proteggere» o della «difesa della democrazia».

A prima vista, sembra quasi una ovvietà che un popolo armato abbia il diritto di difendersi da un brutale aggressore. Ma, come sempre in questo triste mondo, se ci riflettiamo un po’ sorgono alcuni interrogativi.

Prendiamo la resistenza al nazismo. Difficile trovare una causa più nobile.

Si possono certamente comprendere e approvare le motivazioni di Herschel Grynszpan quando assassinò un diplomatico tedesco nel 1938; o quelle dei partigiani addestrati in Gran Bretagna che ammazzarono il feroce nazista Reinhard Heydrich nel maggio del 1942. Si può ammirare il loro coraggio e la loro sete di giustizia, senza riserve.

La storia non finisce qui, tuttavia. Il primo omicidio fornì ai nazisti il pretesto per compiere le atrocità della Notte dei cristalli e diede ulteriore slancio al progetto nazista e ai suoi esiti raccapriccianti. Il secondo portò all’atroce strage di Lidice.

Gli eventi hanno sempre delle conseguenze. Gli innocenti soffrono, spesso terribilmente. Tali domande non possono essere eluse da chiunque sia dotato di una spina dorsale morale. Non possono non sorgere tutte le volte che valutiamo se e come armare coloro che resistono coraggiosamente a un’aggressione omicida.

È il minimo che si debba fare. Nel caso in esame, dobbiamo anche chiederci quanto siamo disposti a correre il rischio di una guerra atomica, che non segnerà solo la fine dell’Ucraina, ma ben oltre, fino all’impensabile.

Non è incoraggiante che oltre un terzo degli americani preferisca «intraprendere un’azione militare [in Ucraina] anche se si rischia un conflitto nucleare con la Russia», magari influenzato dai commentatori e leader politici che dovrebbero pensarci due volte prima di atteggiarsi a novelli Winston Churchill.6

Forse si possono trovare dei modi per fornire le armi necessarie ai difensori dell’Ucraina per respingere gli aggressori evitando terribili conseguenze. Ma non dobbiamo illuderci di credere che sia una questione facile, risolvibile con spavalde dichiarazioni.

Prevedi evoluzioni politiche drammatiche all’interno della Russia se la guerra durerà a lungo o se gli ucraini resisteranno anche dopo la fine ufficiale del conflitto? Dopotutto, l’economia russa è già sotto assedio e potrebbe andare incontro a un tracollo senza precedenti.

Non conosco a sufficienza la Russia per poter azzardare un’ipotesi. Una persona che ne sa abbastanza quantomeno per «ipotizzare» – e solo questo, come ci ricorda lui stesso – è Anatol Lieven, le cui intuizioni si sono rivelate una guida utilissima fin dall’inizio. Egli giudica altamente improbabili le «evoluzioni politiche drammatiche» di cui parli tu per via della natura della rigida cleptocrazia che Putin ha edificato con cura. Tra le ipotesi più ottimistiche, «lo scenario più probabile – scrive Lieven – è una sorta di semi-golpe, la maggior parte del quale non diventerà mai di dominio pubblico: in quel caso Putin e i suoi più stretti collaboratori si dimetteranno ‘volontariamente’ in cambio di garanzie alla loro immunità personale rispetto a un possibile arresto e alle loro ricchezze familiari. Chi possa succedere alla presidenza in queste circostanze è questione del tutto aperta».7

Aperta e non necessariamente piacevole.

Note

1. Europa unita: confini geografici e limiti politici

1 Intervista di Valentina Nicolì a Noam Chomsky, 13 dicembre 2018

2 Joshua R. Itzkowitz Shifrinson, Deal or No Deal? The End of the Cold War and the U.S. Offer TO Limit NATO Expansion, in «International Security», vol. 40, n. 4 (primavera 2017), https://direct.mit.edu/isec/article/40/4/7/12126/Deal-or-No-Deal-The-End-of-the-Cold-War-and-the-U.

3 Risoluzione adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 settembre 2005, https://www.un.org/en/development/desa/population/migration/generalassembly/docs/globalcompact/A_RES_60_1.pdf.

4 The Responsibility to Protect, rapporto dell’International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS), dicembre 2001, https://idl-bnc-idrc.dspacedirect.org/bitstream/handle/10625/18432/IDL-18432.pdf?sequence=6&isAllowed=y.

5 Thomas Piketty, Stéphanie Hannette, Guillame Sacriste e Antoine Vauchez, Pour un traité de démocratisation de l’Europe, Éditions du Seuil, Parigi 2017 (trad. it. Democratizzare l’Europa! Per un trattato di democratizzazione dell’Europa, La Nave di Teseo, Milano 2018).

2. L’approccio irrazionale degli USA

1 Intervista con C.J. Polychroniou, pubblicata in «Truthout», 4 febbraio 2022, col titolo Chomsky: US Approach to Ukraine and Russia Has «Left the Domain of Rational Discourse».

2 U. Pavlova, T. John e V. Cotovio, USA and NATO responses fail to address Russia’s main concerns, says Foreign Minister LavrovCNN, 28 gennaio 2022, https://edition.cnn.com/2022/01/27/europe/ukraine-russia-news-thursday-lavrov-intl/index.html.

3 S. Savranskaya e T. Blanton, NATO Expansion: What Gorbachev Heard, in «National Security Archive», 12 dicembre 2017, https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/russia-programs/2017-12-12/nato-expansion-what-gorbachev-heard-western-leaders-early.

4 D. Jeurtrie, Standoff over Ukraine: Why This, Why Now?, in «Le Monde diplomatique», 2 febbraio 2022, https://mondediplo.com/2022/02/02ukraine.

5 T.E. Mann e N.J. Ornstein, Finding the Common Good in an Era of Dysfunctional Governance, in «Daedalus», vol. 142, n. 2 (2013), p. 15, https://www.amacad.org/publication/finding-common-good-era-dysfunctional-governance.

6 L’American Enterprise Institute for Public Policy Research è un think-tank liberista, di tendenza neoconservatrice (N.d.C.).

7 L. von Mises, Liberalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, p. 87 (ed. or. Liberalismus, Gustav Fischer, Jena 1927) (N.d.C.).

8 E. Relman e J. Haltiwanger, We asked Republican senators about Tucker Carlson’s favorite authoritarian leader: Their praise and dodges underscore the danger to the US, in «Insider», 13 agosto 2021, https://www.businessinsider.com/gop-senators-praise-hungary-orban-after-seeing-him-tucker-carlson-2021-8?r=US&IR=T.

9 W. Vaillancourt, Tucker Carlson Wonders Why the U.S. Would Side With Ukraine’s Fledgling Democracy Against Putin’s Russia, in «Daily Beast», 25 gennaio 2022, https://www.thedailybeast.com/tucker-carlson-wonders-why-the-us-would-side-with-ukraines-fledgling-democracy-against-putins-russia.

3. La volontà di potenza degli Stati Uniti e il conflitto in Ucraina

1 Intervista con C.J. Polychroniou, pubblicata in «Truthout», 16 febbraio 2022, col titolo US Push to «Reign Supreme» Stokes the Ukraine Conflict.

2 Sul Memorandum 68 (National Security Council Paper no. 68, NSC 68), all’origine della visione polarizzata del mondo e della creazione del complesso militare-industriale statunitense: https://www.encyclopedia.com/defense/energy-government-and-defense-magazines/nsc-68. Cfr. anche John Lewis Gaddis, Strategies of Containment: A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy, Oxford University Press, New York 1982.

3 James M. Lindsay, TWE Remembers: The Truman Doctrine», in «The Water’s Edge», blog del Council on Foreign Affairs, 12 marzo 2012, https://www.cfr.org/blog/twe-remembers-truman-doctrine.

4 David Leonhardt, A New Axis, in «The New York Times», 9 febbraio 2022.

5 Frederick Kempe, The world’s top two authoritarians have teamed up: The US should be on alert, Atlantic Council, 6 febbraio 2022.

6 John E. Herbst, Anders Åslund, David J. Kramer, Alexander Vershbow e Brian Whitmore, Global Strategy 2022: Thwarting Kremlin aggression today for constructive relations tomorrow, Atlantic Council, 8 febbraio 2022.

7 German Chancellor to Halt Nord Stream 2 Pipeline If Russia Invades Ukraine, Senator McConnell says, video: https://www.c-span.org/video/?c5000970/german-chancellor-halt-nord-stream-2-pipeline-russia-invades-ukraine-senator-mcconnell.

8 Thomas Friedman, Putin to Ukraine: «Marry Me or I’ll Kill You», in «The New York Times», 18 gennaio 2022.

9 Alan Macleod, MintPress Study: NY Times, Washington Post Driving US to War with Russia Over Ukraine, in «MintPress News», 4 febbraio 2022, https://www.mintpressnews.com/279612-2/279612.

10 Cfr. Noam Chomsky, Outdated US Cold War Policy Worsens Ongoing Russia-Ukraine Conflict, intervista con C.J. Polychroniou, in «Truthout», 23 dicembre 2021, https://truthout.org/articles/chomsky-outdated-us-cold-war-policy-worsens-ongoing-russia-ukraine-conflict.

11 Intervista video su Democracy Now!, Is a Peaceful Resolution Still Possible? Masha Gessen & Anatol Lieven on Ukraine, PUTIN & NATO, 7 febbraio 2022, https://www.democracynow.org/2022/2/7/ukraine_years_of_conflict_with_russia?utm_source=Democracy+Now%21&utm_campaign=ba07e01752-Daily_Digest_COPY_01&utm_medium=email&utm_term=0_fa2346a853-ba07e01752-192343593.

12 Noam Chomsky, US-China Cooperation Is Essential to Avert a New Cold War, intervista con C.J. Polychroniou, in «Truthout», 22 dicembre 2021, https://truthout.org/articles/noam-chomsky-us-china-cooperation-is-essential-to-avert-a-new-cold-war.

13 Richard Falk, Israeli Policies Satisfy the Definition of Apartheid Under International Law, intervista con C.J. Polychroniou, in «Truthout», 8 febbraio 2022, https://truthout.org/articles/israeli-policies-satisfy-the-definition-of-apartheid-under-international-law.

14 Guy Laron, The Ukraine Crisis: Another Chapter in the Russian-American Carbon Rivalry, in «American Prospect», 8 febbraio 2022, https://prospect.org/world/ukraine-crisis-another-chapter-in-russian-american-carbon-rivalry.

15 Cfr. William Preston Jr., Edward S. Herman e Herbert I. Schiller, Hope and Folly: The United States and UNESCO, 1945-1985, University of Minnesota Press, Minneapolis 1989; Adom Getachew, Worldmaking after Empire: The Rise and Fall of Self-Determination, Princeton University Press, Princeton 2019.

16 Catie Edmondson e Ana Swanson, House Passes Bill Adding Billions to Research to Compete With China, in «The New York Times», 4 febbraio 2022, https://www.nytimes.com/2022/02/04/us/politics/house-china-competitive-bill.html.

17 Grace Sagers, Democrats in Congress Are Poised to Hand Biden a Big Economic Win, in «The New Republic», 4 febbraio 2022, https://newrepublic.com/article/165286/competes-act-china-supply-chain.

18 Gopal Ratnam, House overcomes Republican opposition to pass competition bill, in «Roll Call», 4 febbraio 2022, https://rollcall.com/2022/02/04/house-overcomes-republican-opposition-to-pass-competition-bill.

19 Graham Allison, The Thucydides Trap: Are the U.S. and China Headed for War?, in «The Atlantic», 24 settembre 2015, https://www.theatlantic.com/international/archive/2015/09/united-states-china-war-thucydides-trap/406756.

20 As the U.S. Pulls Back From the Mideast, China Leans In, in «The New York Times», 2 febbraio 2022, https://www.nytimes.com/2022/02/01/world/middleeast/china-middle-east.html.

21 Michael Klare, Welcome to the New Cold War in Asia, in «TomDispatch», 13 gennaio 2022, https://tomdispatch.com/none-dare-call-it-encirclement.

22 Noam Chomsky, GOP’s Soft Coup Is Still Underway One Year After Capitol Assault, in «Truthout», 6 gennaio 2022, https://truthout.org/articles/noam-chomsky-gops-soft-coup-is-still-underway-one-year-after-capitol-assault.

4. Nessun vincitore in caso di escalation

1 Intervista con C.J. Polychroniou, pubblicata in «Truthout», 1o marzo 2022, col titolo Noam Chomsky: US Military Escalation Against Russia Would Have No Victors.

2 Una delle residenze di Donald Trump (N.d.C.).

3 ACURA Viewpoint: Jack F. Matlock, Jr.: Today’s Crisis Over Ukraine, in «Defend Democracy Press», 14 febbraio 2022, http://www.defenddemocracy.press/acura-viewpoint-jack-f-matlock-jr-todays-crisis-over-ukraine.

4 Peter Beinart, BIden’s cia Director Doesn’t Believe Biden’s Story about Ukraine, in «Defend Democracy Press», 7 febbraio 2022, http://www.defenddemocracy.press/bidens-cia-director-doesnt-believe-bidens-story-about-ukraine.

5 John J. Mearsheimer, Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault: The Liberal Delusions That Provoked Putinhttps://www.mearsheimer.com/wp-content/uploads/2019/06/Why-the-Ukraine-Crisis-Is.pdf.

6 https://wikileaks.org/plusd/cables/08MOSCOW265_a.html.

7 Sarah Kaplan e Brady Dennis, Humanity has a «brief and rapidly closing window» to avoid a hotter, deadly future, U.N. climate report says, in «Washington Post», 28 febbraio 2022.

8 Cfr. Noam Chomsky, A New Generation Draws the Line: Kosovo, East Timor, and the «Responsibility to Protect» Today, Routledge, Londra 2011.

9 Katie Martin, Tommy Stubbington, Philip Stafford e Hudson Lockett, Russia Doubles Interest Rates After Sanctions Send Rouble Plunging, in «Financial Times», 28 febbraio 2022, https://www.ft.com/content/f7148532-36cd-4683-8f1b-ea79428488c4.

5. I rischi incalcolabili di una no-fly zone

1 Intervista con C.J. Polychroniou, pubblicata in «Truthout», 8 marzo 2022, col titolo Noam Chomsky: A No-Fly Zone Over Ukraine Could Unleash Untold Violence.

2 Scott Horton, The History Behind the Russia-Ukraine War, AntiWar.com, 3 marzo 2022, https://original.antiwar.com/scott/2022/03/02/the-history-behind-the-russia-ukraine-war.

3 Aurelien Breeden e Anton Troianovski, A Putin-Macron Call Leaves France Persuaded that Russia Wants «Control of All of Ukraine», in «The New York Times», 3 marzo 2022, https://www.nytimes.com/2022/03/03/world/europe/putin-macron-call.html.

4 Thomas Friedman, The Cancellation of Mother Russia is Under Way, in «The New York Times», 6 marzo 2022, https://www.nytimes.com/2022/03/06/opinion/putin-ukraine-china.html.

5 David N. Gibbs, Reassessing Soviet Motives For Invading Afghanistan. A Declassified History, in «Critical Asian Studies», vol. 38, n. 2 (2006), https://dgibbs.faculty.arizona.edu/sites/dgibbs.faculty.arizona.edu/files/Afghan-coldwar_0.pdf.

6 Tim Weiner, Legacy of Ashes, Doubleday, New York 2007 (trad. it. Cia. Ascesa e caduta dei servizi segreti più potenti del mondo, Rizzoli, Milano 2010).

6. Necessità della partecipazione americana ai colloqui di pace

1 Intervista con C.J. Polychroniou, pubblicata in «Truthout», 14 marzo 2022, col titolo Chomsky: Peace Talks in Ukraine «Will Get Nowhere» If US Keeps Refusing to Join.

2 Natalie Musumeci e Abbie Shull, Ukraine’s Zelensky Says He Has «Cooled» on Joining NATO and Is Open to Discussions About Control of Russian-Backed Separatist Regions, in «Business Insider», 8 marzo 2022. (In un’intervista con l’ABC, Zelens’kyj si è detto disponibile al compromesso con i russi su Donbass e Crimea. Ha anche «raffreddato» la sua posizione sull’adesione alla NATON.d.C.)

3 Dave DeCamp, Zelensky Says He’s «Cooled» on Joining NATO, Ready for Talks With Russia on Crimea, Donbas, AntiWar.com, 8 marzo 2022, https://news.antiwar.com/2022/03/08/zelensky-says-hes-cooled-on-joining-nato-ready-for-talks-with-russia-on-crimea-donbas.

4 Wang Huiyao, It’s Time to Offer Russia an Offramp: China Can Help With That, in «The New York Times», 13 marzo 2022, https://www.nytimes.com/2022/03/13/opinion/china-russia-ukraine.html.

5 Andrew Cockburn, Kill Chain: The Rise of the High-tech Assassins, Verso, Londra-New York 2015.

6 Col termine Ostpolitik ci si riferisce politica di distensione verso i paesi orientali avviata dalla Germania Ovest alla fine degli anni Sessanta. Cfr. Encyclopedia Britannica, https://www.britannica.com/event/Ostpolitik.

7. Guerra atomica e guerra giusta

1 Intervista con C.J. Polychroniou, pubblicata in «Truthout», 24 marzo 2022, col titolo Chomsky: Let’s Focus on Preventing Nuclear War, Rather Than Debating «Just War».

2 Joint Statement on the U.S.-Ukraine Strategic Partnership, Casa Bianca, 1o settembre 2021, https://www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2021/09/01/joint-statement-on-the-u-s-ukraine-strategic-partnership.

3 Jan Wouters, Sven Van Kerckhoven e Maarten Vidal, The Dynamics of Federalism: Belgium and Switzerland Compared, in «SSRN Electronic Journal», gennaio 2014, https://www.researchgate.net/publication/272305825_The_Dynamics_of_Federalism_Belgium_and_Switzerland_Compared.

4 Ryo Nakamura, US to build anti-China missile network along first island chain, in «Nikkei Asia», 5 marzo 2021, https://asia.nikkei.com/Politics/International-relations/Indo-Pacific/US-to-build-anti-China-missile-network-along-first-island-chain.

5 Sulla teoria della guerra giusta, cfr. la Internet Encyclopedia of Philosophy, https://iep.utm.edu/justwar.

6 Pew Research Center, Public Expresses Mixed Views of U.S. Response to Russia’s Invasion of Ukraine, 15 marzo 2022, https://www.pewresearch.org/politics/2022/03/15/public-expresses-mixed-views-of-u-s-response-to-russias-invasion-of-ukraine.

7 Anatol Lieven, Russian oligarchs don’t have the power – or inclination – to stop Putin, in «Washington Post», 4 marzo 2022, https://www.washingtonpost.com/business/2022/03/04/russian-oligarchs-lack/.