1 - BASILEA
Sin da quando il medico curante, nel corso di un’ordinaria visita di controllo, aveva scoperto qualcosa di anormale nel suo elettrocardiogramma e lui, quindi, si era immediatamente sottoposto al cateterismo delle coronarie che rivelò l’entità del male, Henry si era adeguatamente curato con farmaci che gli avevano consentito di portar avanti il lavoro e la vita in famiglia esattamente come prima. Non lamentava neppure quel dolore al torace e quell’affanno che il medico si sarebbe aspettato di riscontrare in un paziente affetto da ostruzione arteriale così avanzata. Non aveva manifestato alcun sintomo, prima della visita rivelatrice dell’anomalia, e seguitò a non accusarne per un anno intero, finché non decise di farsi operare: nessun sintomo cioè, a parte un tremendo effetto collaterale delle medicine che controllavano la cardiopatia e riducevano, sensibilmente, il rischio di un infarto.
I guai cominciarono un paio di mesi dopo l’inizio della cura.
“L’ho già sentito mille altre volte,” gli rispose il cardiologo, quando Henry gli telefonò per riferirgli quel che gli stava succedendo.
Il medico, non oltre la quarantina come Henry e, al pari di lui, professionista di successo e uomo vigoroso, si mostrò estremamente comprensivo. Avrebbe cercato di ridurre la dose per far sì che il farmaco, un beta-bloccante, pur seguitando a tener a bada il disturbo coronarico e a ridurre l’ipertensione, non interferisse però con la funzione sessuale di Henry. Con un opportuno dosaggio si riesce a volte, disse, a stabilire un ‘compromesso’.
Fecero esperimenti per sei mesi, dapprima variando le dosi poi, quando ciò non sortì alcun effetto, cambiando tipo di medicina.
Inutile: non si svegliava più, la mattina, con il membro in erezione né aveva sufficiente potenza per avere rapporti con la moglie, Carol, o con l’assistente, Wendy, la quale era convinta di esser lei, e non la medicina, responsabile di quell’increscioso mutamento.
Alla fine della giornata lavorativa, chiusa a chiave la porta dell’ambulatorio, abbassate le tapparelle, Wendy usava tutto il suo savoir-faire per eccitarlo, ma era fatica sprecata, e dura fatica per entrambi, e quando lui le disse che era inutile, e la pregò di smettere, e gli toccò addirittura aprirle le mascelle per scalzarla di là, lei rimase più che mai convinta che la colpa fosse sua. Una sera, quando lei, scoppiando in lacrime, gli disse che era solo questione di tempo, poi lui si sarebbe cercata un’altra, Henry le diede uno schiaffo.
Fosse stato il gesto di un forsennato, in preda a frenesia d’orgasmo, o la reazione di un bruto, Wendy si sarebbe mostrata, da par suo, accomodante; era, invece, una manifestazione non di estasi, bensì di estrema stanchezza di fronte alla cecità di lei. Non capiva, quella stupida ragazza! Del resto, neanche lui riusciva ancora a comprendere la confusione che cotanta perdita poteva procurare a una donna che lo adorava.
Immediatamente dopo, Henry fu sopraffatto dal rimorso. Tenendola fra le braccia, assicurò a Wendy, che ancora piangeva, ch’essa era virtualmente l’unica cui pensasse, ora, ogni giorno: anzi (sebbene questo non potesse dirglielo), se Wendy fosse andata a lavorare presso un altro dentista, lui non avrebbe dovuto rammentarsi ogni cinque minuti di quello che non poteva più avere. C’erano tuttavia momenti, durante le ore di lavoro, in cui Henry l’accarezzava di sfuggita o rimirava con l’antica bramosia le sue forme sotto il camice attillato, ma poi - ripensando a quelle pillole rosa per il cuore - ripiombava nella disperazione. Non tardarono a venirgli le più diaboliche fantasie sulla giovane donna che l’adorava e avrebbe fatto di tutto per ridonargli la perduta potenza e allora la immaginava posseduta, sotto i suoi occhi, da tre, quattro, cinque altri uomini.
Non riusciva a controllarle, quelle fantasie di Wendy e i cinque uomini senza volto, e tuttavia al cinema, con Carol, preferivano adesso abbassare le palpebre e riposare gli occhi finché le scene d’amore non fossero finite. Non sopportava i rotocalchi procaci a disposizione dei clienti dal suo barbiere. Doveva fare un duro sforzo su se stesso per non alzarsi da tavola se, durante una cena conviviale, uno dei commensali si metteva a raccontare una barzelletta spinta.
Cominciò a provare le emozioni tipiche di una persona tutt’altro che attraente, un astioso disdegno puritano per gli uomini virili e per le donne appetitose intente ai loro giochi di seduzione erotica.
Il cardiologo, dopo avergli prescritto quel farmaco, gli aveva detto: “Dimentichi adesso il suo cuore, e viva.” Senonché lui non ci riusciva: cinque giorni alla settimana, dalle nove alle cinque, non poteva dimenticare Wendy.
Tornò dal dottore per avviare un serio discorso, riguardo a un intervento chirurgico. Il cardiologo aveva già sentito anche questo mille volte. Pazientemente, spiegò che non si era propensi a operare persone che non accusassero sintomi e in cui la malattia desse chiari segni di venir stabilizzata mediante farmaci. Se Henry avesse alla fine deciso di farsi operare, non sarebbe stato il primo lui a trovar ciò preferibile a un numero indefinito di anni privi d’attività sessuale; nondimeno, il medico gli consigliava decisamente di aspettare ancora e vedere in che modo il passaggio del tempo incidesse sul suo “adattamento”. Sebbene Henry non fosse il peggior candidato a un by-pass, l’ubicazione degli innesti necessari non faceva di lui neppure il candidato ideale. “Cosa significa questo?” domandò Henry. “Significa che questa operazione non è una cosa da ridere, nelle migliori delle circostanze, e le sue non sono proprio le migliori. C’è anche il caso di rimetterci la pelle, Henry. Si tenga quel che ha.”
Tali parole lo spaventarono talmente che, tornando a casa, rammentò severamente a se stesso tutti coloro che per necessità vivono senza donne, e in circostanze assai più dure delle sue - uomini in prigione, uomini in guerra...- senonché di lì a poco ricominciò a pensare a Wendy, figurandosi ogni posizione in cui essa poteva essere infilzata dal pinco ritto che lui non aveva più, sbavando per lei come un ergastolano sognatore, solo privo di quel rapido rimedio selvaggio che mantiene semisano di mente un recluso. Rammentava a se stesso com’era vissuto felice senza donne, da ragazzo prepubere - era forse mai stato più contento e soddisfatto che negli anni quaranta, d’estate, al mare? Immagina di avere ancora undici anni... Ma ciò non giovava più di quanto giovasse pensarsi incarcerato a Sing Sing. Rammentò allora a se stesso il terribile sregolamento che deriva da desideri incontrollati: le trame, le tresche, la brama, poi l’atto pazzamente impetuoso, il sognare senza requie dell’altra e, allorché una di queste ammalianti altre diviene finalmente l’amante clandestina, gli intrighi e l’ansietà e l’inganno. Ora lui poteva essere, invece, un marito fedele per Carol. Non avrebbe più dovuto mentire a sua moglie non avendo più nulla su cui mentire. Si sarebbero di nuovo goduti il loro semplice, onesto, fiducioso matrimonio com’era stato prima che Maria fosse comparsa, dieci anni addietro, nel suo gabinetto per farsi riparare una capsula.
Era rimasto lì per lì tanto preso dal vestito verde di seta e dagli occhi turchese e dall’aria sofisticatamente europea di quella donna che a stento riuscì a parlarle del più e del meno, lui che di solito era così brillante con i clienti, e men che meno riuscì a fare il galante con lei allorché, seduta in poltrona, obbediente apriva e chiudeva la bocca. Dal puntiglioso riserbo con cui si trattarono a vicenda durante le quattro visite, Henry non avrebbe mai immaginato che, alla vigilia del suo ritorno a Basilea, dieci mesi dopo, Maria gli avrebbe detto: “Non avrei mai creduto di poter amare due uomini.” Né che il loro addio sarebbe stato tanto atroce - era stata un’esperienza così nuova per entrambi che avevano fatto dell’adulterio qualcosa di assolutamente virgineo. Non era mai passato per la mente a Henry, prima che arrivasse Maria a dirglielo, che un bell’uomo come lui poteva come niente portarsi a letto qualsiasi donna piacente della città. Lui era privo di vanità sessuale e molto timido, un uomo giovane ancora animato da quel senso del decoro di cui si era imbevuto, che aveva interiorizzato e mai posto in forse. Di solito, più la donna era attraente, più ritirato e chiuso era Henry; al cospetto di una sconosciuta che trovasse particolarmente desiderabile si faceva rigidamente formale, perdendo ogni spontaneità, e spesso non riusciva neppure a presentarsi senza avvampare. Tale era stato da marito fedele: e proprio per questo era stato fedele. Adesso era condannato a esser di nuovo fedele.
Quanto ad adattarsi al farmaco, il peggio risultò essere l’adattamento stesso. Lo sconvolse constatare che poteva vivere senza sesso. Ci si riesce, lui ci riusciva, e questo lo faceva morire: proprio come una volta, a farlo morire, era l’esser incapace di farne senza.
Adattarsi significava rassegnarsi a esser così, e lui rifiutava di essere a quel modo, e lo demoralizzava ulteriormente doversi abbassare all’eufemismo “a quel modo”. Tuttavia, tanto bene procedeva l’adattamento che, otto o nove mesi dopo che il cardiologo l’aveva sollecitato a non precipitarsi in chirurgia prima di aver constatato l’effetto del passaggio del tempo, Henry non ricordava neanche più che cosa fosse un’erezione. Se ci provava, lo soccorrevano immagini tratte dai vecchi fumetti pornografici, dai blasfemi “libri caldi” che avevano rivelato ai ragazzi della sua generazione i segreti e i sottofondi della carne. Era angustiato da immagini mentali di cazzi spropositati e dalle fantasie di Wendy con altri uomini. La immaginava spompinarli. Immaginava se stesso a far pompini. Cominciò segretamente a idolatrare tutti gli uomini potenti come se lui, come uomo, non contasse più nulla. Nonostante il suo bel viso bruno, l’alta statura e il fisico atletico, sembrava essersi trasformato da un giorno all’altro da trentenne in ottuagenario.
Un sabato mattina, dopo aver detto a Carol che andava a far due passi in collina - “per stare un po’ solo”, le aveva spiegato, asciuttamente - si recò invece in macchina a New York per parlare con Nathan. Non lo preavvertì per telefono, poiché voleva essere in grado, eventualmente, di ripensarci all’ultimo momento e far macchina indietro. Non erano più adolescenti, non erano più i tempi in cui, in camera da letto, si scambiavano esilaranti segreti; anzi, dopo la morte dei genitori non si comportavano neanche più come due fratelli. Però Henry aveva bisogno disperatamente di consultarsi con qualcuno. Tutto quello che Carol era capace di dirgli era che non ci pensasse neppure, di andare sotto i ferri, se ciò avesse comportato il benché minimo rischio di lasciar orfani di padre i loro tre figli. La malattia era sotto controllo e a trentanove anni egli era un uomo di grande successo, sotto ogni riguardo. Come poteva quella cosa, d’un tratto, contare così tanto, se erano ormai anni che di rado facevano l’amore con vera passione? Lei non si lagnava, è una cosa che capita a tutti - diceva - e non c’era alcun matrimonio che facesse, a quel che ne sapesse lei, eccezione.
“Ma ho soltanto trentanove anni,” replicò Henry.
“Anch’io,” diceva lei, cercando di aiutarlo mostrandosi sensata e sicura, “ma dopo diciotto anni non pretendo che il matrimonio sia ancora una torrida storia d’amore.”
Era la cosa più crudele ch’egli potesse immaginare, una moglie che dice al marito: “A che ci serve il sesso, dopotutto?” La detestava per averlo detto, la prese tanto in odio che là per là decise di sentire Nathan. Odiava Carol, odiava Wendy e, se adesso fosse stata accanto a lui, avrebbe odiato anche Maria. Eppoi odiava gli uomini, gli uomini dall’enorme pinco ritto che si induriva solo a guardare Playboy.
Trovò un garage sulla Ottantesima Strada dove parcheggiò, e da una cabina pubblica telefonò a casa di Nathan, leggendo, mentre il telefono squillava, quel che era stato scribacchiato sui resti di una guida telefonica appesa a una catena: “Vuoi venirmi in bocca? Melissa 879-0074”. Riappese prima che Nathan rispondesse e fece l’879-0074. Rispose un uomo. “C’è Melissa?” chiese Henry e riattaccò. Poi rifece il numero di Nathan e contò venti squilli.
Non puoi lasciarli orfani di padre.
A casa di Nathan, si piazzò nell’atrio e gli scrisse un biglietto, che subito stracciò. In un albergo sulla Quinta Avenue, da un telefono pubblico, rifece l’879-0074. Nonostante il beta-bloccante che avrebbe dovuto impedire all’adrenalina di sovraccaricare il cuore, questo gli batteva come quello di una creatura selvaggia in scorreria (al dottore non sarebbe stato necessario lo stetoscopio per auscultarlo). Henry si afferrò il petto, contando alla rovescia, in attesa del colpo finale, finché una vocina che sembrava di bimba rispose: “Pronto?”
“Melissa?”
“Quanti anni hai?”
“Chi parla?”
Riappese giusto in tempo. Altri cinque, dieci, quindici battiti, il respiro gli tornò regolare e il cuore somigliava ora più che altro a una ruota che gira a vuoto nel fango dov’è impantanata.
Sapeva di dover telefonare a Carol, per non farla stare in pensiero, invece si diresse verso Central Park, sull’altro lato della strada.
Avrebbe dato un’ora a Nathan; se non fosse rincasato entro quel tempo, avrebbe lasciato perdere l’operazione e sarebbe tornato a casa. Non poteva lasciarli orfani di padre.
Imboccando il sottopassaggio dietro il museo, vide all’altra estremità un ragazzotto bianco sui diciassette anni, con una radio in equilibrio sulla spalla che attraversava la galleria su pattini a rotelle, pigramente. La radio a pieno volume trasmetteva Lay, lady, lay... lay across my big brass bed, cantata da Bob Dylan: Sdraiati, signora, sdraiati di traverso sul mio letto d’ottone... Proprio quel che ci voleva per Henry. Quasi si fosse imbattuto per caso in un caro vecchio amico, il ragazzotto sorridente levò un pugno in aria e, passando accanto a Henry, gridò: “Potessero tornare gli anni Sessanta, uomo!” La voce echeggiò cupa nella buia galleria e Henry, affabilmente, rispose: “Sono con te, amico.” Ma quando il ragazzotto fu passato oltre, non potendo più tener dentro tutto, scoppiò a piangere. Potessero tornare tutti quanti, pensò, gli anni sessanta, cinquanta, quaranta... Potessero tornare quelle estati sulle spiagge del New Jersey, il pane appena sfornato che profumava la panetteria negli scantinati dell’albergo Lorraine, la spiaggia dove vendevano i pesci appena pescati... Soffermandosi in quella galleria dietro il museo, riandò alle più innocenti memorie dei più innocenti mesi dei suoi anni innocenti, ricordi che nulla avevano di confidenziale ma erano estaticamente rievocati - e abbarbicati a lui come le scorie organiche che gli occludevano le arterie intorno al cuore. Il villino poco lontano dal pontile, con la piccola canna a lato, per lavarsi la sabbia dai piedi. Il chiosco con la pesa sotto i portici di Ashbury Park. Sua madre che si sporge dal davanzale, allorché attacca a piovere, e tira dentro i panni stesi. Aspettare, al crepuscolo, l’autobus per tornare a casa dopo il cinema, al sabato. Sì, l’uomo cui stava succedendo tutto questo era stato il ragazzo che aspettava il bus 14 insieme al fratello maggiore. Non riusciva a capacitarsene: tanto valeva cercar di capire la fisica delle particelle. D’altro canto, non riusciva a credere che l’uomo al quale tutto questo succedeva fosse lui stesso e che, qualsiasi cosa quell’uomo dovesse patire, doveva patirlo lui pure. Potesse tornare il passato, il futuro, potesse tornare il presente - ho solo trentanove anni! Non ritornò da Nathan, quel giorno, a far finta che nulla di importante fosse intervenuto, fra loro, da quando erano i cocchi di papà e mamma. Durante il tragitto si era detto che doveva vederlo perché Nathan era il solo consanguineo che gli restava, laddove non c’era più - lo sapeva - una famiglia; la famiglia era finita, lacerata, disunita. A ciò aveva provveduto Nathan quando aveva coperto tutti loro di ridicolo in quel libro, e poi Henry aveva fatto il resto, a furia di selvagge accuse, dopo la morte del padre per infarto, in Florida.
“L’hai ucciso tu, Nathan. Nessuno te lo dirà - hanno troppa paura di te per dirlo. Ma l’hai ucciso tu, con quel libro.”
No, confessare a Nathan quello che c’era stato fra lui e Wendy per tre anni sarebbe servito solo a rendere felice quel bastardo, a dargli ragione: e fornirgli argomento per un seguito a Carnovsky! Era stato già da idioti dirgli tutto, dieci anni prima, riguardo a Maria, riguardo ai soldi che le aveva dato e alla biancheria intima di lei che conservava in cassaforte...
“Ma dovevo pur dirlo a qualcuno, sennò scoppiavo: e come potevo sapere, allora, che mio fratello campava sfruttando e distorcendo i segreti di famiglia? Non mi commisererà per quel che patisco adesso, non mi starà neanche a sentire. ‘Non voglio saperlo,’ mi dirà dietro lo spioncino, senza neanche aprirmi il portone. ‘Lo metterei in un libro e questo a te non andrebbe giù’. E poi ci sarà una donna da lui: o una moglie che gli è ormai venuta a noia, in partenza, oppure una gruppettara letteraria in arrivo. O ambedue. Non potrei sopportarlo.”
Anziché tornare direttamente a casa, nel New Jersey, si recò da Wendy e la costrinse a far finta di essere una negretta dodicenne a nome Melissa. Ma benché lei acconsentisse - a essere negra, dodicenne, decenne, qualunque cosa lui le chiedesse - non andò diversamente. Henry pretese che, nuda, si mettesse carponi sul pavimento e, quando Wendy obbedì, la picchiò. Ma neanche questo giovò. Quella sua ridicola crudeltà, lungi dall’eccitarlo, lo ridusse alle lacrime per la seconda volta quel giorno. Wendy, depressa e disperata, gli carezzava una mano, mentre lui singhiozzava: “Non sono io, questo! Non sono fatto così, io!”
“Oh, tesoro” ella disse, seduta ai suoi piedi in reggicalze e mettendosi a piangere a sua volta, “devi farti operare, devi... sennò diventi matto.”
Era uscito di casa alle nove di mattina o poco più e non vi fece ritorno che alle sette o poco meno, quella sera. Temendo che fosse da qualche parte moribondo e solo - o già morto del tutto - alle sei Carol aveva avvertito la polizia chiedendo che cercassero l’auto di Henry: era uscito per recarsi a fare una passeggiata in collina, in mattinata, disse loro e li pregò di andare a controllare seguendo le tracce dell’automobile. Henry si allarmò quando seppe che sua moglie aveva avvertito la polizia: contava su di lei, sperava che non andasse in pezzi come Wendy, e invece, ecco, col suo comportamento lui aveva fatto perdere anche a Carol la tramontana.
Era tuttavia troppo intontito e mortificato per poter afferrare la natura della perdita subita da tutte le parti interessate.
Quando Carol gli chiese perché mai non avesse telefonato che non tornava fino all’ora di cena, lui rispose accusatorio: “Perché sono impotente!” Quasi fosse colpa della moglie e non del farmaco.
Colpa della moglie. Ne era sicuro. Dover restare con lei e assumersi le responsabilità dei figli, ecco la causa di tutto. Avessero divorziato dieci anni prima, avesse lasciato Carol e i tre figli per cominciare una nuova vita in Svizzera, non si sarebbe mai ammalato. Lo stress - dicono i medici - è fattore precipuo nel mal di cuore, e abbandonare Maria gli aveva procurato quell’intollerabile stress che adesso lo aveva ridotto in questo stato. Non c’era altra spiegazione di un simile morbo in un uomo altrimenti così giovane e sano. Era la conseguenza del non esser riuscito a trovare la spietata durezza per prendersi quel che desiderava anziché arrendersi al senso del dovere. La malattia era la ricompensa per un padre, un marito e un figlio troppo ligi.
Languisci nello stesso posto per anni e anni, senza possibilità d’evasione, poi arriva una donna come Maria e, anziché mostrarti forte ed egoista, tu fai invece il buono e il bravo.
Il cardiologo gli tenne un discorsetto molto serio quando Henry si presentò per il successivo controllo. Gli rammentò che, da quando prendeva il beta-bloccante, il suo elettrocardiogramma denunciava una notevole diminuzione dell’anormalità che aveva primamente segnalato il disturbo. La pressione sanguigna era tranquillamente sotto controllo e, a differenza di tanti altri pazienti che non erano in grado di lavarsi i denti senza che lo sforzo provocasse angina, lui era invece capace di lavorare dalla mattina alla sera, stando in piedi, senza che si sentisse fiacco o gli mancasse il respiro.
Gli fu di nuovo assicurato che, in caso di peggioramento, questo sarebbe stato quasi certamente molto graduale e l’elettrocardiogramma lo avrebbe rivelato per tempo, oppure ne avrebbe fatto la spia un mutamento nei sintomi. In tal caso si sarebbe ripresa in esame l’opzione chirurgica. Il cardiologo gli rammentò inoltre che poteva tirare avanti tranquillamente, con quel regime, per quindici o venti anni, allorché un’operazione di by-pass sarebbe stata, con ogni probabilità, una tecnica superata; gli predisse che dopo il 1990 si sarebbe stati in grado di correggere un blocco delle arterie con mezzi non chirurgici. Poteva anche darsi che il beta-bloccante venisse rimpiazzato tra non molto da un farmaco che non incidesse sul sistema nervoso centrale e non causasse, quindi, quell’increscioso in- conveniente: un progresso del genere era inevitabile. Nel frattempo - glielo aveva già consigliato e non poteva quindi che ripetersi - Henry doveva, semplicemente, dimenticare il cuore e vivere la sua vita.
“Lei deve vedere la cura nel suo contesto,” disse il cardiologo, dando una leggera manata sulla scrivania.
Ed era tutto quel che c’era da dire? Doveva adesso alzarsi e andare a casa? Cupo, Henry disse al cardiologo: “Ma non posso accettare lo scompenso sessuale”.
Sua moglie conosceva la moglie del cardiologo, quindi non disse nulla riguardo a Maria o a Wendy o alle altre due frammezzo, né confidò cosa avesse significato, per lui, ognuna di loro. Disse soltanto: “E’ la cosa più difficile che abbia mai dovuto affrontare.”
“Quindi non ha avuto una vita tanto difficile, lei, dico bene?”
Restò di stucco alla crudeltà di questa frase: dire una cosa simile a un uomo vulnerabile come lui! Adesso odiava anche il medico.
Quella sera, dallo studio, telefonò di nuovo a Nathan, sua ultima consolazione superstite, e stavolta lo trovò in casa. A stento si trattenne dallo sciogliersi in lacrime quando disse al fratello di essere gravemente malato e gli chiese se poteva andare a trovarlo.
Gli era impossibile continuare a vivere da solo con quella tremenda carenza.
Inutile dirlo, non erano queste le tremila parole che Carol si attendeva da Nathan Zuckerman, allorché aveva telefonato al cognato alla vigilia del funerale e, nonostante i trascorsi dissapori fra i due fratelli, gli aveva chiesto un necrologio. Né lo scrittore, Nathan, ignorava cosa si addicesse e cosa no, o cosa fosse indifferente alle convenzioni che governano siffatte occasioni; nondimeno una volta partito non c’era stato verso di fermarsi e così era rimasto alla scrivania gran parte della notte a ricostruire la storia di Henry, da quel poco che ne sapeva.
Quando arrivò nel New Jersey, l’indomani mattina, raccontò a Carol più o meno la verità su quanto era accaduto. “Mi spiace, se contavi su di me,” le disse, “ma tutto quello che mettevo sulla carta era sbagliato. Non funzionava e basta.” Supponeva che lei ora supponesse che se uno scrittore professionista s’impantana e non sa cosa dire al funerale del fratello, ciò può solo dipendere o da emozioni irrimediabilmente ambigue o da una inveterata cattiva coscienza. Ebbene, era meno dannoso che Carol pensasse questo di lui che non pronunciare, davanti alla mesta assemblea di congiunti e amici, un discorso così grossolanamente inadeguato.
Tutto quel che Carol disse fu quello che diceva abitualmente: si rendeva conto; lo baciò persino, lei che non era mai stata la sua più sfegatata ammiratrice.
“Non fa niente. Non stare a preoccuparti, per favore. Solo, non volevamo lasciarti fuori. I litigi non contano più nulla. È tutto finito. Quel che conta, oggi, è che eravate fratelli.”
Bene, bene. Ma, e le tremila parole? Il guaio era che parole come quelle, moralmente inadeguate a un funerale, erano proprio del tipo che più l’impegnavano. Henry era morto da meno di ventiquattr’ore quando quella narrazione cominciò a scottargli in tasca. Zuckerman avrebbe stentato molto a trascorrere la giornata senza vedere tutto ciò che accadeva come qualcosa di più, una continuazione non della vita ma del suo lavoro, o lavoro in fieri. Già non essendo riuscito a usare il cervello e a buttar giù alcuni ricordi d’infanzia conditi con qualche buon sentimento convenzionalmente consolatorio, ecco che aveva reso impossibile, a se stesso, prendere il proprio posto in mezzo agli altri, un brav’uomo di età matura che piange un fratello prematuramente scomparso: era invece di nuovo la pecora nera della famiglia. Entrando nella sinagoga con Carol e gli orfani pensò: “Questo mestiere distorce persino il dolore.”
Sebbene la sinagoga fosse ampia, tutti i sedili erano occupati e assiepati ai lati e in fondo c’erano una trentina di adolescenti, giovani del posto i cui denti Henry aveva curato fin da quando erano bambini. I ragazzi guardavano stoicamente a terra e alcune delle ragazze già piangevano. In una delle ultime file, in maglione e gonna grigia, sedeva discretamente una esile bionda, fanciullescamente giovane, cui Zuckerman non avrebbe certo fatto caso se non l’avesse espressamente cercata; e che non avrebbe neppure riconosciuto, se non per via della foto che Henry si era portato dietro, alla seconda visita. “Questa foto,” avvertì, “non le rende giustizia.” Nondimeno Zuckerman la ammirò. “Molto graziosa. Mi metti invidia.” Un’immodesta smorfietta da fratello minore lusingato non poté venir soppressa interamente, pur mentre Henry replicava: “No, no, non è affatto fotogenica. Non ci si rende conto, da qui, di com’è veramente di persona.”
“Invece sì,” disse Nathan, sorpreso e non al contempo del fatto che Wendy fosse bruttina. Maria, anche se non risultava stupenda dalle foto come Henry l’aveva descritta, era abbastanza attraente, nel suo genere, severamente teutonico, simmetrico. Invece questa scialba sorcetta... Insomma, Carol con i suoi riccioli neri e le lunghe ciglia appariva eroticamente più promettente. Era naturalmente con la foto di Wendy ancora in mano che Zuckerman avrebbe dovuto parlar chiaro e tondo a Henry, dirgli tutto quel che aveva in animo; magari era proprio per questo che il fratello aveva portato la foto di Wendy con sé, per dargli l’abbrivo, per udire Nathan dirgli: “Idiota! Somaro! Assolutamente no! Se non te la sei sentita di piantare Carol e scappare con Maria, una donna che amavi sul serio, non è proprio il caso che ora affronti una rischiosa operazione solo perché una sgrinfia, in studio, ti spompina ogni sera prima che torni a casa per la cena! Sono stato a sentirti perorare la causa dell’intervento chirurgico e, finora, non ho detto una parola: ma il mio verdetto è no!”
Dato però che allora Henry non era morto, bensì vivo - vivo e inviperito, perché a un uomo con le sue credenziali morali veniva negata quell’unica, lieve, innocua trasgressione, dato che avendo accettato il compromesso di Wendy laddove quello che aveva sognato e si era precluso era una rinascita in Europa, con una moglie europea, per diventare, a Basilea, un robusto, adulto americano senza pastoie, dentista espatriato - Zuckerman aveva seguito piuttosto un altro ragionamento: “Questa è la sua ribellione al patto che ha stipulato, lo sfogo della passione bruta che gli avanza. Non è certo venuto da me per sentirsi dire che la vita pone ostacoli e divieti e che non resta altro da fare che accettarli. È qui per discutere la cosa in mia presenza, poiché lo non sono considerato certo un mostro di abnegazione: io, secondo la loro dottrina, sono lo scatenato, l’impulsivo, lo scavezzacollo della famiglia, a me la famiglia ha assegnato il ruolo dell’Es, mentre lui è il fratello esemplare. No, un incosciente matricolato non può, ora, assumere un tono paterno e dirgli, con dolcezza: ‘Non hai bisogno di quello che pensi, ragazzo mio; lascia perdere la tua Wendy e soffrirai meno.’ No, Wendy è la sua libertà e la sua virilità, anche se, ai miei occhi, sembra esser la noia fatta persona. E’ una brava ragazza, con la sua brava fissazione orale, la quale - lui ne è certo - non telefonerà mai alla moglie... Quindi, perché dovrebbe rinunciare a lei? Più guardo questa foto, più gli do ragione. Chiede in fondo così poco, il poverino! Però ragioni assai diversamente accanto alla bara del tuo unico fratello, tanto vicino che, praticamente, potresti appoggiare la guancia al lucido legno di mogano”.
Quando Nathan compì l’inevitabile sforzo di immaginare Henry composto dentro il feretro, non vide, ridotto al silenzio, l’adultero evirato, sovreccitato, che non aveva voluto rassegnarsi all’impotenza, bensì un ragazzo di dieci anni, chiuso l’ dentro in pigiama di flanella.
Una vigilia d’Ognissanti, quand’erano piccoli, un bel pezzo dopo che Nathan aveva ricondotto a casa Henry, al termine della tradizionale, fanciullesca questua - trick or treat!, o il regalo del dispetto - in giro per tutto il quartiere e quando già da un pezzo tutti in casa erano andati a letto, Henry era sgusciato fuori della sua stanza e, discese le scale, infilata la porta, era uscito per strada dirigendosi verso l’incrocio di Chancellor Avenue a piedi scalzi, immerso nel sonno. Per miracolo un amico di famiglia passava di lì in auto e vide Henry mentre stava per scendere dal marciapiede, col semaforo rosso. L’uomo frenò, riconobbe nel bambino sotto il lampione il figlioletto di Victor Zuckerman, ed Henry fu riportato a casa sano e salvo. Pochi minuti dopo era sotto le coltri di nuovo. Fu una cosa da brivido, per lui, apprendere l’indomani quel che aveva combinato nel sonno e udire della strana coincidenza che lo aveva salvato; per anni, fino all’adolescenza - quando comincerà ad avere un concetto più spettacolare dell’eroismo personale, da corridore a ostacoli nella squadra d’atletica del liceo - avrà ripetuto a un centinaio di persone almeno la storia di quell’ardita escursione notturna dalla quale lui stesso era stato completamente assente.
Ma adesso era invece nella bara, il ragazzo sonnambulo. Stavolta nessuno lo aveva riportato a casa e rimesso a letto, dopo ch’era uscito a vagare nel buio da solo, quasi non volesse credere che lo spasso di Halloween era finito. Ugualmente invasato, come in trance, in preda a una eccitante smargiasseria da Far West, ecco come era apparso a Nathan quando si presentò a casa sua, quel pomeriggio, subito dopo aver consultato il cardiochirurgo. Zuckerman restò sorpreso: mai avrebbe immaginato che uno uscisse in quello stato dallo studio di un medico che ti ha comunicato come e quando intende tagliarti.
Henry dispiegò sulla scrivania di Nathan quel che sembrava la pianta di un quadrifoglio autostradale. Era lo schizzo che il chirurgo aveva tracciato per mostrargli dove sarebbero avvenuti gli innesti. L’operazione non era, a sentire Henry, più rischiosa di una protesi dentaria. Sostituisce questa qui e questa qua, e poi le aggancia qui, poi scavalca queste tre piccoline che affluiscono in quella grande là dietro e questo è tutto. Il chirurgo, un famoso specialista di Manhattan di cui Zuckerman aveva controllato le referenze, disse a Henry che aveva eseguito quintupli by-pass dozzine di volte e che non era affatto preoccupato; era Henry che doveva fugare i propri dubbi e sottoporsi all’operazione con estrema fiducia in una riuscita felice al cento per cento. Sarebbe uscito di sotto i ferri con un sistema circolatorio nuovo di zecca: vasi non intasati che riforniscono di sangue un cuore ancora forte in sé e per sé come quello di un atleta, senza menomazioni di sorta.
“E dopo non occorreranno medicine?” gli domandò Henry.
“Lo deciderà il suo cardiologo,” gli fu risposto; “probabilmente occorrerà qualcosa per una lieve ipertensione, ma niente di simile al farmaco massacrante che prende adesso.”
Zuckerman pensò che forse, dopo aver udito una prognosi così meravigliosa, Henry, trascinato dall’euforia, aveva fatto dono al cardiochirurgo di una foto patinata, con dedica, di Wendy in reggicalze. Sembrava infatti abbastanza su di giri per aver fatto una cosa del genere, quando gli si presentò; ma, probabilmente, è così che devi armarti per accingerti a una prova tanto spaventosa. Quando Henry aveva finalmente trovato il coraggio di smettere di chiedere rassicurazioni e si era alzato per prendere commiato, il fiducioso chirurgo lo aveva accompagnato alla porta. “Se lavoriamo insieme, noi due,” gli disse nello stringergli la mano, “non prevedo alcun problema. Entro una settimana, dieci giorni, lei lascerà l’ospedale per far ritorno in seno alla famiglia, come nuovo.”
Ebbene, dal punto di vista di Zuckerman si sarebbe detto che Henry non aveva fatto una gran bella figura, sul tavolo operatorio. Quello che (qualunque cosa fosse) si pretendeva da lui, per assistere il chirurgo, gli era evidentemente scappato di mente.
Può succedere questo quando sei privo di sensi. Il mio fratellino sonnambulo! Morto! Ci sei tu, lì, veramente? Un ragazzino ammodo e obbediente come te! Tutto questo per stare con Wendy una ventina di minuti, prima di correre a casa, dalla famiglia che amavi? O facevi lo spaccone con me? No, non può darsi che il tuo rifiuto di adattarti a una vita asessuata fosse quel che per te equivaleva all’eroismo poiché, semmai, era la tua capacità di repressione a darti diritto di aspirare alla fama. Dico sul serio. Contrariamente a quel che pensavi tu, io non fui mai tanto sdegnoso delle restrizioni entro le quali tu prosperavi e dei confini che tu rispettavi quanto lo eri tu delle eccessive libertà che credevi io mi prendessi. Ti confidasti con me perché eri convinto che avrei capito, io, i pompini di Wendy, e avevi ragione. Andava ben al di là del succoso piacere. Era il tuo goccio di esistenza teatrale, il tuo disordine, la tua evasione, il tuo rischio, la tua piccola insurrezione quotidiana contro tutte le tue asfissianti virtù: far porcherie con Wendy per venti minuti al giorno e poi tornare a casa la sera a goderti le gioie della ordinaria vita familiare. La bocca servile di Wendy ti dava il gusto dell’avventura spericolata. Dai tempi dei tempi, il mondo intero funziona a questo modo... e tuttavia dev’esserci dell’altro deve per forza esserci dell’altro! Come avrebbe potuto sennò un bravo ragazzo come te, col tuo feroce senso del dovere, dell’opportunità, finire in questa bara per amor di quella bocca? E perché non t’ho fermato, io? Zuckerman aveva preso posto in prima fila, di lato, accanto a Bill e Bea Goff, i genitori di Carol. Carol sedeva al centro della stessa fila, accanto alla madre; dall’altro lato aveva i figli: Ellen di undici anni, poi il maschio quattordicenne Leslie e infine Ruth di tredici anni. Ruth teneva il violino sulle ginocchia e guardava fisso il feretro. Gli altri due, annuendo muti quando Carol gli parlava, preferivano stare a capo chino. Ruth si accingeva a suonare, col violino, un pezzo che tanto piaceva a suo padre e alla fine delle esequie avrebbe preso la parola Carol.
“Ho chiesto allo zio Nathan se voleva dire qualcosa lui, ma mi ha risposto che è troppo sconvolto, al momento. È come inebetito - dice - e lo capisco. Quello che terrò io,” spiegò ai figli, “non sarà un necrologio vero e proprio. Dirò solo due parole su papà, qualcosa che voglio che sentano tutti. Niente frasi fiorite, ma parole che per me sono importanti. Poi lo accompagneremo al cimitero, solo i nonni, lo zio Nathan e noi quattro. Gli diremo addio al cimitero, noi della famiglia, quindi torneremo qui per stare insieme con gli altri parenti e gli amici.”
Il ragazzo indossava un blazer dai bottoni dorati e un paio di stivaletti nuovi di cuoio e le ragazze, sebbene si fosse alla fine di settembre e il sole facesse i capricci, indossavano abiti leggeri, color pastello. Erano ragazzi alti, bruni, dai tratti sefarditi come il padre, dalle sopracciglia piuttosto imperiose per dei ragazzi così ingenui, così coccolati. Avevano tutti e tre begli occhi color caramello, un tantino più chiari e meno intensi di quelli di Henry: sei occhi esattamente uguali, liquidi e lustri di stupore e sgomento. Somigliavano a cerbiatti spaventati, presi in trappola, addomesticati, calzati e vestiti. Zuckerman era particolarmente attratto da Ruth, la mezzana, che diligentemente s’industriava di imitare la calma della madre nonostante l’entità della perdita. Leslie, il maschio, sembrava il più molle, il più femmine, il più prossimo a crollare, sebbene al momento di uscire per recarsi alla sinagoga avesse preso la madre in disparte e Zuckerman lo avesse sentito chiedere: “Ho una partita alle cinque, mamma. Posso andare a giocare? Ma se pensi che non sia il caso...”
“Aspettiamo, Leslie,” gli rispose Carol, ravviandogli lievemente i capelli sulla nuca con una mano, “e vediamo se, dopo, ne avrai ancora voglia.”
Mentre la gente si assiepava in fondo alla sinagoga e si piazzavano sedie pieghevoli per far sedere qualche ritardatario anziano e non essendoci altro da fare che sedere in silenzio a pochi palmi dal feretro e decidere se guardarlo o no, Bill Goff cominciò a chiudere a pugno le dita e a dischiuderle, ritmicamente, come se la mano destra fosse una pompetta mediante la quale infondersi coraggio o drenare la paura. Non somigliava quasi più ormai all’agile, benvestito, accanito giocatore di golf che Zuckerman aveva conosciuto diciotto anni addietro e che, alle nozze di Henry, aveva danzato con le damigelle d’onore della sposa. Dianzi, quella mattina, quando Goff era venuto ad aprirgli la porta, Nathan non si era neppure reso conto, lì per lì, a chi stesse stringendo la mano. L’unica cosa in lui che non appariva sminuita era la gran chioma di capelli ondulati. In casa, rivolto malinconicamente alla moglie - e con un’aria appena appena offesa - Goff le aveva detto: “Povero me! Non mi ha nemmeno riconosciuto! Tanto sono cambiato.”
La madre di Carol si appartò con le ragazze per aiutare Ellen a decidere quale vestito mettersi, Leslie tornò in camera a lustrarsi di nuovo gli stivali, e i due uomini uscirono a prendere una boccata d’aria. Dal patio guardarono Carol recidere i crisantemi che i figlioli avrebbero portato al cimitero.
Goff prese a dire a Nathan perché aveva dovuto vendere il suo negozio di scarpe ad Albany. “Erano cominciati ad arrivare i negri. Come potevo cacciarli via? Non è nella mia natura.
Ma ai miei vecchi clienti cristiani, che si servivano da me da venti, venticinque anni, la cosa non andava a genio. Me lo dissero in faccia chiaro e tondo: ‘Senti, Goff, non mi va di star qui ad aspettare mentre tu fai provare dieci paia di scarpe a un nigger. E poi non voglio i suoi scarti, io.’ Quindi, a uno a uno, mi piantarono, i miei magnifici amici cristiani. Fu allora che ebbi il primo attacco. Perciò vendetti e mi ritirai pensando che il peggio fosse passato. Si metta tranquillo, mi aveva raccomandato il medico. E così tagliai corto. Un anno e mezzo dopo, in vacanza giù a Boca, mentre giocavo a golf, ebbi il secondo attacco. Al dottore ho dato sempre retta. Il secondo attacco fu peggiore del primo. E adesso questo colpo. Carol è una fortezza: pesa quarantacinque chili, ma ha la forza di un gigante. Era così quando morì il fratello. Perdemmo il gemello di Carol quando frequentava il secondo anno di giurisprudenza. Prima Eugene a ventitré anni, adesso Henry a trentanove.” Di punto in bianco disse: “Che ho fatto?” e dalla tasca estrasse un flaconcino di plastica. “Pillole per l’angina,” spiegò. “La mia nitroglicerina. Mi è saltato di nuovo il coperchio, mannaggia.”
Mentre lamentava la perdita del negozio, della salute, del figlio, del genero, le sue mani, affondate nelle profonde tasche dei calzoni, facevano nervosamente tintinnare gli spiccioli e le chiavi. Ora, svuotata una tasca, prese a piluccare le pillolette bianche tra le monete, le chiavi e altri oggetti. Quando andò per riversarle dentro il flaconcino, però, una metà ne cadde in terra. Zuckerman si chinò a raccattarle, ma ogni qual volta Goff tentava di rimetterle dentro il flaconcino, ne lasciava cadere qualcuna. Alla fine ci rinunciò e tenne tutto nelle mani a coppa mentre Nathan prelevava le pillole a una a una e le infilava per lui nella boccetta.
Erano ancora intenti a questo quando Carol tornò dal giardino con i fiori e disse che era ora di muoversi. Guardò il padre con aria materna, sorridendogli dolcemente per calmarlo. La stessa operazione per la quale Henry era morto a trentanove anni attendeva anche lui, a sessantaquattro, se l’angina fosse peggiorata. “Ti senti bene?” lei gli chiese. “Benone, cocca,” rispose lui, ma quando Carol distolse lo sguardo inghiottì una pillola di nitroglicerina.
L’assolo di violino di Ruth fu introdotto dal rabbino. Questi era un uomo affabile, senza pretese, grande e grosso, dalla faccia quadrata, i capelli rossi, con occhiali montati in tartaruga, dalla voce pacata, melliflua: “La figlia di Carol ed Henry, la tredicenne Ruth, eseguirà ora il largo dall’opera Serse di Haendel,” disse. “Quando ho fatto due chiacchiere con lei, ieri sera, Ruthie mi ha detto che, per suo padre, questa era la musica più consolante del mondo. Ora intende suonare questo pezzo in sua memoria.”
Presso l’altare, Ruth si sistemò il violino sotto il mento, raddrizzò la schiena e guardò i presenti con aria, avresti detto, di sfida. Un attimo prima di sollevare l’archetto, si concesse una fugace occhiata al feretro e parve, allo zio, simile a una donna fatta sui trent’anni: in quell’attimo egli vide l’espressione che essa avrebbe avuto poi per tutta la vita, la grave faccia adulta che impedisce alla smarrita faccia infantile di andare in pezzi fra lacrime di rabbia.
Sebbene non ogni nota fosse impeccabilmente scandita, l’esecuzione fu intonata e tranquilla, lenta e solenne nel fraseggio e quando Ruthie finì ti saresti aspettato, voltandoti, di vedere seduto là il padre della giovane musicista, orgogliosamente sorridente.
Carol si alzò a sua volta. Percorse il corridoio. La sua unica concessione alle convenzioni era una gonna nera di cotone. Il bordo però aveva per guarnizione un gaio motivo indiano ricamato in verde, scarlatto e arancione, e la blusa era d’un pallido color cedro dall’ampio collo a giogo che rivelava la prominenza delle clavicole nel suo busto delicato. Intorno al collo portava una collana di coralli che Henry aveva di nascosto comprato per lei a Parigi, dopo che lei l’aveva ammirata in una vetrina ma ne aveva trovato il prezzo ridicolmente alto. Anche la gonna gliel’aveva comprata lui, in un mercatino all’aperto di Albuquerque, quando si era recato là per un congresso.
Sebbene dei fili grigi avessero cominciato a screziare i suoi capelli alle tempie, Carol era così esile e vivace che a vederla salire i gradini dell’altare l’avresti presa per la sorella maggiore dei suoi figli. In Ruth era sembrato a Zuckerman di intravedere la donna che sarebbe in futuro divenuta; in Carol vide l’audace, frizzantemente graziosa studentessa adolescente che era stata, l’ambiziosa, decisa borsista che gli amici, ammirati, chiamavano non Carol ma J. C. (le sue iniziali) finché Henry non aveva posto fine a questo imponendo a tutti di usare il nome proprio. A quell’epoca, Henry aveva semiserio confidato a Nathan: “Non sarei certo riuscito a eccitarmi con una chiamata J. C.” D’altro canto, neanche con una chiamata Carol la lussuria non sarà mai uguale a quella suscitata da una Maria o da una Wendy.
Quando Carol raggiunse il leggio sull’altare, il padre estrasse di nuovo di tasca le pillole alla nitroglicerina e accidentalmente le sparse tutt’intorno per terra. Il largo di Haendel non lo aveva calmato come era solito fare invece con Henry. Nathan riuscì a infilare un braccio sotto il sedile e, a tastoni, a raccattare alcune pillole. Ne porse una a Goff e decise di tenersi le altre in tasca per il cimitero.
Mentre Carol parlava, Zuckerman di nuovo immaginò Henry in pigiama di flanella a pagliacci e trombette, lo vide maliziosamente origliare dal buio della bara, così come allora tendeva l’orecchio dal letto quando c’erano ospiti in casa, la porta socchiusa, per udire i discorsi dei grandi da basso. Zuckerman ripensava al tempo in cui nelle stanzette dei ragazzi non si sapeva assolutamente nulla di tentazioni erotiche o di scelte che sfidano la morte, quando la vita non era altro che un innocente passatempo e la felicità familiare sembrava eterna. Ingenuo Henry. Se avesse potuto udire quel che Carol stava dicendo, si sarebbe messo a ridere, a piangere, oppure avrebbe pensato, con sollievo: ‘Così nessuno saprà mai nulla’.
Ma Zuckerman sapeva tutto, s’intende, Zuckerman che non era poi tanto ingenuo. Che farne, di quelle tremila parole? Tradire la fiducia del fratello, divulgare le sue estreme confidenze, infliggere alla famiglia un colpo simile a quello che gliel’aveva in primo luogo alienata? La sera avanti, dopo aver ringraziato Carol per la sua cortesia e averle detto che si sarebbe messo subito a scrivere un necrologio, aveva scovato, fra i diari accatastati sugli armadietti-archivio, il quaderno in cui aveva trascritto un resoconto della storia di Henry con la sua paziente svizzera.
Doveva proprio ora mettersi a saccheggiare quegli appunti che aveva misericordiosamente pressoché dimenticati - avevano essi atteso tutti questi anni un’ispirazione imprevista come questa? Fra quelle pagine manoscritte c’erano - sparse qua e là - dozzine di brevi annotazioni su Henry e Maria e Carol: alcune non più lunghe d’un paio di righe, altre quasi d’una pagina.
Prima di chiedersi cosa dire al funerale, Zuckerman, seduto allo scrittoio, aveva letto lentamente da cima a fondo quelle note, pensando, mentre sottolineava le frasi più promettenti: “Ecco, questo fu l’inizio della fine. Cominciò come un’avventura banalissima e tutt’altro che originale... All’inizio ci fu la scoperta del piacere carnale.”
H. a mezzanotte. “Dovevo telefonare a qualcuno. Dovevo dirlo a qualcuno, che amo quella donna. Ti secca... a quest’ora?”
“No. Di’ pure.”
“Io perlomeno ho te, cui raccontarlo. Lei invece non ha nessuno. Vorrei dirlo a tutti. Muoio, anzi, dalla voglia di dirlo a Carol. Vorrei tanto farle sapere quanto sono felice, felice da matti.”
“Carol può farne benissimo a meno, di questa confessione.”
“Me ne rendo conto. Ma seguito ad aver voglia di dirle: ‘Lo sai cos’ha detto oggi Maria? Lo sai cos’ha detto ieri sera la piccola Krystyna, mentre Maria le faceva il bagnetto?’ ”
“Mi sembra lontana, distante, così come mi sembravano distanti le colonnine del letto, nella nostra camera, quand’ero piccolo. Ricordi i pomelli in cima a quelle colonnine d’acero? Io per conciliarmi il sonno ero solito immaginare che fossero lontani lontani, finché lo erano davvero, e dovevo smettere poiché mi spaventavo da solo. Ebbene, ella sembrava lontana proprio a quel modo, come se non potessi allungare una mano e toccarla. Era sopra di me, ma distante, e ogni volta che veniva le dicevo: ‘Ancora? Ne vuoi ancora?’ E lei faceva sì con la testa e ricominciava, rossa in faccia, a cavalcarmi, e io desideravo solo che lei godesse ancora, e ancora, e ancora... ma seguitavo a vederla lontana, distante.”
“Dovresti vederla quant’è bella. Dovresti vedere questa stupenda donna bionda, con quei suoi occhi, sopra di me, in camiciola nera.” Maria credeva di doversi recare a New York per trovare della biancheria intima nera; invece l’aveva poi trovata sul posto. Secondo H., avrebbe fatto meglio a recarsi comunque a New York.
Sabato, H. ha visto il marito di lei per la strada. Gli è sembrato una brava persona. Un bell’uomo robusto. Più grosso anche di H. Molto giocherellone con i figli.
“Gliela farai vedere, quella biancheria nera?”
“No.”
“Non te la metterai mai, quando stai con lui?”
“No.”
“Soltanto per me.”
“Soltanto per te.” A H. lui fa pena. Un’aria così fiduciosa, ha!
In una camera di motel, lui la guarda rivestirsi per tornare a casa.
H.: “Sei la mia puttana, vero?”
Maria ride: “No. Non lo sono. Le puttane si fanno pagare.”
H. ha del contante in portafogli per pagare il motel ecc., senza dover usare la carta di credito. Estrae due biglietti da cento dollari, nuovi di zecca, e glieli porge.
Lì per lì Maria non sa cosa dire. Poi, evidentemente, sì. “Li devi gettare per terra,” gli dice. “Mi sa che è così che si usa.”
Lui li lascia cadere. In camiciola di seta nera lei si china a raccattarli e li infila nella borsetta.
“Grazie.”
H. a me: “Pensai: ‘Mio Dio, ci ho rimesso duecento dollari. È una bella somma.’ Ma non dissi parola. Pensai: ‘Li vale, duecento dollari, soltanto per vedere che effetto fa’.”
“Che effetto fa?”
“Non lo so ancora.”
“Se li è tenuti i soldi?”
“Sì. Mi ha detto: ‘Sei un matto’.”
“Pare che anche lei voglia vedere che effetto fa.”
“Tutt’e due, mi sa. Voglio dargliene altri.”
Maria gli confida che una donna che aveva avuto una storia con suo marito prima che lei lo sposasse aveva confidato a un’amica: “Mai mi sono tanto annoiata in vita mia.” Ma è un uomo stupendo con i figli. Ed è lui a tenerla a freno. “Sono un’impulsiva, io,” dice Maria.
Maria dice che ogni qual volta non riesce a credere che H. sia reale e che la loro storia stia realmente accadendo, prende e sale su di sopra a guardare i due biglietti da cento dollari che tiene nascosti nel cassetto della biancheria intima. Ciò la convince.
H. si meraviglia di non provare sensi di colpa né tormenti per il fatto di essere così allegramente infedele a Carol. Ma come fa - si chiede - uno che tanto vuol essere buono - uno che è davvero buono - a far tranquillamente una porcheria del genere?
Carol parlava senza seguire degli appunti, ma non appena ebbe iniziato fu chiaro, a Zuckerman, che ogni parola era stata pensata, studiata e mandata a memoria, senza lasciare nulla al caso. Se mai Carol era apparsa misteriosa al cognato, questo mistero aveva eventualmente a che fare con qualcosa che si celava dietro la sua indole estremamente accomodante; egli non era mai stato in grado di calcolare precisamente quanto ingenua ella fosse e quel che adesso stava dicendo non giovava certo all’uopo. La storia che Carol aveva deciso di raccontare non era quella che aveva messo insieme lui pezzo per pezzo (e preferito - per ora - tenere per sé); l’infelicità di Henry aveva, nel ricordo di Zuckerman, un significato e una rilevanza del tutto diversi. Quella di Carol era la storia che si intendeva porre come la versione ufficialmente autorizzata, ed egli si chiese se - mentre la raccontava - Carol stessa ci credesse.
“C’è qualcosa nella morte di Henry,” ella esordì, “che voglio che voi tutti, qui raccolti, sappiate. Voglio che lo sappiano i figli di Henry. Voglio che suo fratello lo sappia. Voglio che lo sappiano tutti coloro che gli hanno voluto bene. Potrà alleggerire - credo - la durezza di questo terribile colpo, se non stamattina almeno in futuro, quando tutti saremo meno tramortiti.
“Se così avesse deciso, Henry avrebbe potuto seguitare a vivere senza sottoporsi a quella tremenda operazione. E non fosse stato per quell’operazione a quest’ora sarebbe al lavoro nel suo studio e, tra poche ore, tornerebbe a casa da me e dai figlioli. Non è vero che l’intervento fosse indispensabile. Le medicine che i dottori gli avevano prescritto non appena diagnosticato il male erano sufficienti a tenere sotto controllo il disturbo cardiaco. Non soffriva dolori né correva pericolo immediato. Ma il farmaco aveva drasticamente influito su di lui come uomo e posto fine ai nostri rapporti fisici. E questo Henry non poteva accettarlo.
“Quando cominciò a prendere seriamente in esame l’intervento chirurgico, io lo scongiurai di non rischiare la vita al fine di salvare quel lato del nostro matrimonio, per quanto ne sentissi anch’io la mancanza. S’intende, mi mancavano il calore e la tenerezza e l’affetto intimo, ma con ciò ero venuta a patti. Ed eravamo per altri versi così felici, nella nostra vita insieme e con i nostri figli, che era impensabile, per me, che lui dovesse subire un’operazione che avrebbe potuto distruggere tutto. Ma Henry ci teneva tanto a che il nostro fosse un matrimonio completo che nulla l’avrebbe sgomentato.
“Come tutti sapete - come molti di voi mi hanno detto in queste ultime ventiquattr’ore - Henry era un perfezionista, non solo nel suo lavoro in cui era, come tutti sapete, un meticoloso artigiano, ma anche in tutti i suoi rapporti con le persone. Dava tutto, ai suoi pazienti, ai figli, a me, senza riserve. Era inconcepibile per un uomo così dinamico, così pieno di vita che, ancor giovane, dovesse trovarsi tanto crudelmente menomato. Devo confessarvi, cosa che a lui non ho mai confessato, che per quanto fossi contraria all’operazione a causa del rischio a volte mi chiedevo titubante se sarei riuscita a seguitare a essere una moglie affezionata e utile, sentendomi così tagliata fuori da lui. Nel corso di quest’ultimo anno, quand’era chiuso e incupito e depresso, talmente tormentato dalla sua menomazione da temere che il nostro matrimonio dovesse soffrire a causa della cosa sconcertante che era accaduta, io pensavo: ‘Se solo avvenisse un miracolo!’ Ma io non sono una che fa accadere i miracoli; io sono una che tende ad adattarsi a quello che c’è a disposizione, persino, temo, alle proprie imperfezioni. Ma Henry non accettava imperfezioni in sé, come non le accettava nel lavoro. Se io non avevo il coraggio di tentare con un miracolo, Henry invece ce l’aveva: aveva il coraggio - lo sappiamo tutti - di far fronte a qualsiasi cosa che la vita può richiedere a un uomo.
“Non vi dirò che seguitare a vivere senza Henry sarà facile per noi. I figlioli sono spaventati da un futuro senza un padre affettuoso che li protegga e anche a me spaventa la mancanza di Henry al mio fianco. Mi ero abituata a lui, sapete. Tuttavia, mi infonde forza tenere presente che la sua vita non ha avuto una fine insensata. Cari amici, cari parenti, miei cari, carissimi figlioli, Henry è morto per recuperare la pienezza e la bellezza della vita coniugale. Era un uomo forte, coraggioso e affettuoso il quale voleva disperatamente che il vincolo della passione fra marito e moglie seguitasse a essere saldo, inscindibile. E carissimo Henry, dolce compagno, così sarà: il vincolo della passione fra questo marito e questa moglie resterà saldo finché io avrò vita.”
Solo gli intimi, insieme al rabbino Geller, seguirono il carro funebre fino al cimitero. Carol non voleva che i figli prendessero posto a bordo di una di quelle limousine da corteo funebre, quindi li portò lei stessa con la giardinetta di famiglia, insieme ai Goff e a Nathan. La sepoltura avvenne in brevissimo tempo.
Geller recitò la preghiera di rito e i figli deposero i crisantemi colti in giardino sul coperchio della bara. Carol chiese se qualcuno di loro volesse dire qualcosa. Nessuno rispose. Carol si rivolse al figlio maschio: “Leslie...” Questi esitò un momento, per prepararsi. “Volevo solo dire...” ma per la paura di scoppiare a piangere si interruppe.
“Ellen...” chiese Carol, ma Ellen in lacrime, aggrappata alla mano della nonna, scosse la testa in segno di diniego. “Ruth...” disse Carol.
“Era il migliore dei padri,” fece Ruth, a voce alta e chiara, “il migliore.”
“Va bene,” concluse Carol e i due robusti addetti calarono il feretro. “Resto qualche minuto,” disse Carol ai parenti; e rimase sola presso la tomba, mentre gli altri tornavano al parcheggio.
Carol e i figli si recano ad Albany per festeggiare l’anniversario dei genitori di lei. Per ragioni di lavoro H. non può andare con loro. Maria, parcheggiata l’auto a tre isolati di distanza, va a trovarlo a casa. Si presenta, come richiesto, in abito nero di jersey con biancheria intima nera. Ha portato con sé il suo disco prediletto. Annaffia le piante che Carol ha dimenticato di annaffiare prima di partire. Spicca anche le foglie secche. Poi a letto, amore anale.
Dopo le iniziali difficoltà estatici entrambi. H.: “È così che io ti sposo, è così che io faccio di te mia moglie!”
“Sì, e non lo sa nessuno, Henry! Non sono più vergine, ora, lì, e nessuno lo sa! Tutti mi credono buona e brava e rispettabile. Nessuno sa niente!” In bagno con lui, dopo, mentre si ravvia i capelli con la sua spazzola, lei vede il suo pigiama appeso alla porta e allunga una mano per toccarlo. (“Non mi ero reso conto, fino a quella sera, di quel che aveva fatto. A mia volta accarezzai il mio pigiama, per provare quel che aveva provato lei.” Inoltre, Maria tolse dalla spazzola i propri capelli, affinché Carol non li scoprisse.) Sedendo con lei in soggiorno a luci spente H., affamato, mangiò un gelato enorme, mentre lei metteva su il disco che aveva portato.
Maria: “Questo è il più bel movimento lento del 18esimo secolo.”
H. non ricorda cosa fosse: Haydn? Mozart “Non lo so,” mi disse. “Non so niente di quel tipo di musica. Ma era bellissimo solo guardare lei ascoltarla.”
Maria: “Mi fa pensare all’università star seduta qui così, piena di te in ogni maniera, e niente altro al mondo.”
“Sei mia moglie, adesso,” dice H. “la mia altra moglie.” Mise su un disco di Mel Tormé per lei (doveva ballare con lei avendone l’occasione). Ballano incollati pancia a pancia, come lui ballava, ai liceo con Linda Mandel. Dorme solo, quella notte, nel letto macchiato di baby oil, con il vibratore non lavato sul guanciale accanto alla sua testa. Lo portò con sé al lavoro il giorno dopo. Lo nascose assieme a una copia della Svizzera di Fodor che aveva comprato per leggere e a una foto di lei. Inoltre, portò con sé i capelli tolti dalla spazzola. Tutto nella cassaforte. Le lenzuola le mise in un sacco di plastica nera che scaricò in un bidone per rifiuti alla Millburn Mall, a cinque chilometri dalla scena del loro matrimonio. Il Dostoevskij di Fodor.
Era un pomeriggio di fine settembre; dalla carezza fresca della brezza e dal lieve calore del sole e dal secco stormire non estivo degli alberi avresti facilmente indovinato il mese a occhi chiusi: fors’anche la settimana. Dovrebbe importare a un uomo, per quanto giovane e virile, di venir condannato al celibato a vita quando, ogni anno, finché camperà, ci saranno giornate d’autunno come questa da godere? Be’, era una domanda da porsi a un vecchio dalla barba folta, amante di enigmi impossibili, laddove l’affabile Mark Geller era un rabbino, a giudizio di Zuckerman, di tutt’altra specie; quindi declinò l’invito di tornare a casa sulla macchina di Geller e attese con i bambini e i nonni presso il cancello del cimitero dove la giardinetta era parcheggiata.
Ruth, dall’aria esausta, si avvicinò allo zio e gli prese una mano.
“Che c’è?” le chiese lui. “Ti senti poco bene?”
“Sto pensando che quando i compagni di scuola parleranno dei loro genitori, io potrò dire soltanto ‘mia madre’”.
“Potrai dire i tuoi genitori, al plurale, ogni qual volta parlerai del passato. Ne hai avuto per tredici anni. Nulla di ciò che hai fatto con Henry verrà mai cancellato. Lui sarà sempre tuo padre.”
“Papà ci portava due volte all’anno, da soli, senza la mamma, a far compere a New York. Era una festa per lui. Solo lui e noi bambini. Prima si andava per negozi e poi all’albergo Plaza a pranzare nel Cortile delle Palme, dove suonano il violino. Non molto bene, fra l’altro. Una volta in autunno e una volta a primavera, ogni anno. Adesso toccherà alla mamma fare quello che faceva papà. Dovrà fare il mestiere di entrambi.”
“Non credi che ci riuscirà?”
“Senz’altro. Un giorno forse si risposerà. Le piace veramente esser sposata. Lo spero, che si risposi.” Poi, con molta gravità, soggiunse subito: “Ma solo se troverà qualcuno che sia buono come lei con noi figli.”
Attesero quasi una mezz’ora, prima che Carol, di buon passo, uscisse dal cimitero per riaccompagnarli a casa in macchina.
Il cibo era stato imbandito, da un servizio rinfreschi del quartiere, sotto le tende da sole, nel patio, quando i partecipanti alle esequie si trovavano ancora dentro la sinagoga, e nelle sale a pianterreno erano state disposte qua e là sedie pieghevoli noleggiate dalle pompe funebri. Le ragazze della squadra di softball di Ruth, che avevano preso un pomeriggio di libertà dalla scuola per aiutare gli Zuckerman, sparecchiavano i piatti di cartone usati e riempivano i vassoi di portata, attingendo alle riserve in cucina. Zuckerman si mise a cercare Wendy.
Era stata proprio Wendy - temendo che Henry cominciasse a perdere il senno - a proporre per prima Nathan come confidente. Carol dal canto suo, convinta che Nathan non potesse più esercitare alcuna autorità sul fratello, aveva invece consigliato a Henry di rivolgersi a uno psicoterapeuta. E ogni sabato mattina - fino al sabato di quell’orrenda spedizione a New York - Henry vi si era recato per un’ora, durante la quale parlava con estrema sincerità della sua passione per Wendy, fingendo però con il terapeuta che tale passione avesse per oggetto Carol, da lui descritta per l’occasione come la più giocosa, fantasiosa partner sessuale che un uomo potesse sperare di avere. Ciò provocava lunghe e profonde discussioni su un matrimonio che sembrava interessare enormemente il terapeuta ma deprimeva Henry ancor di più poiché era una crudele parodia del proprio rapporto coniugale. Per Carol, Nathan era all’oscuro della malattia del fratello fino al momento in cui aveva appreso della sua morte. Quindi, attenendosi scrupolosamente alle volontà di Henry, Nathan aveva fatto il tonto, quando Carol gli telefonò, atteggiamento assurdo che valse solo ad accrescere il suo sgomento e che gli rivelò chiaramente come Henry fosse incapace di prendere alcuna decisione, razionalmente, da quando il male era cominciato. Al cimitero, mentre i figli di Henry, presso la tomba, si sforzavano di parlare, Zuckerman aveva finalmente capito che il motivo per cui avrebbe dovuto dissuaderlo era che Henry desiderava venir dissuaso. Henry non si sarebbe mai immaginato che Nathan potesse tranquillamente accettare, come giustificazione di una operazione così rischiosa, l’inconsulta bramosia di soddisfare quella stessa maniacale lussuria da lui (Nathan) descritta in maniera farsesca in Carnovsky. Henry si sarebbe aspettato che il fratello sbottasse a ridere. Naturale! Era venuto dal New Jersey apposta per confessare al burlesco romanziere la ridicola assurdità del suo dilemma e invece si era trovato di fronte un fratello indulgente, sollecito a dargliela vinta, un fratello che non era più capace né di dare consiglio né di arrecare offesa. Era corso a casa di Nathan per sentirsi dire quanto insignificante fosse la bocca di Wendy in confronto ai doveri di un uomo maturo, cosciente, ordinato, e invece l’autore di satire sessuali era stato ad ascoltarlo seriamente. L’impotenza - aveva pensato allora Zuckerman - ha distorto la sua visione della vita, del più semplice e prevedibile suo corso. Fintanto che era potente, lui poteva sfidare e minacciare, sia pure per sport, la solidità del rapporto coniugale; fintanto che era potente c’era una sorta di intercapedine, nella sua vita, fra il lecito tran-tran e i tabù. Ma, privo di potenza, egli si sente condannato a una vita ferreamente prestabilita, in cui tutte le questioni sono risolte.
A render chiaro ciò nulla valeva meglio del modo in cui Henry era diventato l’amante di Wendy. Gliel’aveva raccontato lui stesso. A quanto pare, fin dal primo momento, quando lei si era presentata per un colloquio preliminare e lui aveva richiuso la porta alle sue spalle, ogni parola che si erano scambiati aveva fatto, virtualmente, da incentivo. “Salve,” le aveva detto lui, nello stringerle la mano, “ho sentito cose meravigliose sul tuo conto dal dottor Wexler. E ora che ti guardo, mi pare che tu sia quasi troppo in gamba. Sarai fonte di distrazione, tanto sei graziosa.”
E lei, ridendo: “Sarà meglio che me ne vada, allora.”
Quello che aveva deliziato Henry non era tanto la rapidità con cui l’aveva messa a suo agio, quanto l’essersi sentito lui, subito, a proprio agio. Non succedeva sempre così. Nonostante la ben nota affabilità dei suoi rapporti con i pazienti, egli era ancora capace di comportarsi in modo ridicolmente formale con le persone che non conosceva, sia uomini che donne, al punto che nel corso di un colloquio nel suo studio con una persona in cerca di lavoro gli era parso sovente di essere lui quello che aspirava a farsi assumere. Ma un nonsoché di vulnerabile nell’aspetto di quella giovane donna - qualcosa di particolarmente stuzzicante nei suoi piccoli seni - lo aveva reso ardito, sebbene non fosse, quello, un momento propizio agli ardimenti.
Sia a casa che allo studio tutto stava procedendo così bene che un’avventura extraconiugale era quanto di meno potesse augurarsi. Eppure, proprio perché ogni cosa andava a gonfie vele, non riusciva a tener tirate le briglie a quella robusta, virile sicurezza di sé che, lo sapeva bene, stava appunto cercando uno sfogo. Era uno di quei giorni in cui Henry si sentiva come un divo dello schermo che recita chissà quale grandiosa vicenda. Perché reprimersi? Ce n’erano persino troppe di giornate in cui invece si sentiva un verme.
“Siediti,” le disse. “Parlami di te e di quello che vuoi fare.”
“Quello che voglio fare?” Qualcuno doveva averle consigliato di ripetere la domanda dell’interlocutore, per darsi il tempo di pensare alla risposta giusta o ricordare quella preparata. “Vorrei fare un sacco di cose. Ho fatto già pratica nel gabinetto dentistico del dottor Wexler. E un uomo magnifico... un vero gentiluomo.”
“È una brava persona,” disse Henry, pensando intenzionalmente, per via di quell’eccesso di fiducia e forza, che prima o poi le avrebbe fatto vedere lui cosa vuol dire magnifico.
“Ho imparato molte cose da lui in fatto di odontoiatria.”
Egli l’incoraggiò gentilmente. “Dimmi quello che sai.”
“Quello che so? So che un dentista deve, prima cosa, scegliere il tipo di studio che vuole mandare avanti. È un commercio, occorre quindi scegliere il mercato, ma al tempo stesso si ha a che fare con qualcosa di molto intimo. Si tratta della bocca della gente, di quel che ognuno prova al riguardo, di quel che prova riguardo al suo sorriso.”
Le bocche sono un commercio, un affare, appunto - anche quella di lei - e tuttavia a parlarne a quel modo, a porte chiuse, con quella giovane, esile biondina in cerca di un impiego risultava una cosa tremendamente stimolante. Ricordò il timbro della voce di Maria quando gli diceva quant’era magnifico il suo cazzo. “Ti infilo la mano dentro i pantaloni e resto sbigottita, tanto è grosso, e tondo, e duro.”
“Il controllo che ne hai,” gli diceva, “il modo in cui lo fai durare... non c’è nessuno come te, Henry.” Se Wendy gli si fosse avvicinata, adesso, e gli avesse infilato una mano dentro i pantaloni, avrebbe capito subito cosa intendeva Maria.
“La bocca,” stava dicendo Wendy, “è realmente la cosa più personale che un dottore abbia a curare.”
“Sei una delle poche persone che abbiano mai detto una cosa del genere,” le disse Henry. “Te ne rendi conto?” Quando vide che l’adulazione le imporporava le gote, portò il discorso su un terreno assai più ambiguo, ben sapendo, tuttavia, che nessuno, se li avesse sentiti, avrebbe potuto legittimamente accusarlo di parlare con lei d’altro che dei suoi requisiti per quel posto di lavoro. Ma certo nessuno avrebbe potuto sentirli.
“La davi per scontata, la tua bocca, un anno fa?” le chiese.
“In confronto a quello che ne penso adesso, sì. Beninteso, mi sono sempre presa cura dei denti, ci ho sempre tenuto al sorriso…”
“Ci tieni a te stessa,” disse Henry in tono d’approvazione.
Sorridendo - ed era veramente un bel sorriso, distintivo di innocente, infantile abbandono - lei colse felice la palla al balzo. “Ci tengo a me stessa, sì, certo, ma non avrei mai immaginato che il lavoro del dentista comportasse tanta psicologia.”
Lo diceva per tenerlo a freno? Gli chiedeva educatamente di lasciar perdere la sua bocca? Forse non era tanto ingenua quanto pareva, ma ciò era ancora più eccitante. “Dimmi qualcosa, al riguardo,” disse Henry.
“Be’, come dicevo dianzi... Quel che provi riguardo al tuo sorriso è un riflesso di quel che provi nei tuoi stessi confronti, è quello che presenti di te agli altri. Ritengo che un’intera personalità possa svilupparsi intorno ai tuoi denti. In un gabinetto dentistico si ha a che fare con la persona intera, anche se sembra che si abbia a che fare soltanto con la bocca. In che modo soddisfare l’intera persona, compresa la bocca? E quando si parla di odontoiatria estetica si parla di vera e propria psicologia. Abbiamo avuto qualche problema, dal dottor Wexler, con persone che volevano che i denti falsi fossero bianchissimi, anche se gli altri denti non erano altrettanto bianchi. Bisogna far loro capire che i denti devono sembrare naturali. Devi dirgli: ‘Le ci vuole un sorriso che si addica perfettamente a lei; non può scegliere dal campionario il sorriso perfetto e metterselo in bocca, eh, no’.”
“E ci vuole una bocca,” soggiunse Henry, per aiutarla, “che abbia l’aria di appartenere proprio a te.”
“Assolutamente.”
“Ti prenderò a lavorare con me.”
“Oh, che bello.”
“Penso che c’intenderemo,” disse Henry, ma prima che ciò assumesse un significato eccedente, si affrettò a illustrare alla giovane donna le proprie idee come se, mostrandosi perfettamente serio sull’odontoiatria, egli potesse in qualche modo impedirsi di essere troppo allusivo. Si sbagliava. “Perlopiù le persone, come ormai saprai, non pensano neppure che la bocca faccia parte del corpo. O che i denti ne facciano parte. Consciamente non lo pensano. La bocca è un buco e basta, non è niente. Perlopiù le persone, a differenza di te, non ti diranno mai cosa significa per loro la bocca. Se hanno paura del trapano è, tante volte, a causa di precedenti esperienze spaventose, ma soprattutto è per via di ciò che la bocca significa. Chiunque te la tocchi, è uno che invade o uno che aiuta. Levar loro dalla testa che chi lavora su di loro sia un invasore e convincerli invece che li aiuta, a buon fine, è quasi come avere un rapporto sessuale. Per la maggior parte della gente, la bocca è segreta, è il loro nascondiglio. Proprio come i genitali. Devi tener presente che, embrionicamente, la bocca è collegata agli organi genitali.”
“L’ho studiato, questo.”
“Davvero? Bene Allora ti renderai conto che le persone pretendono che si sia molto teneri con la loro bocca. La dolcezza è la cosa più importante da tenere presente. Con ogni tipo di persona. E, sorprendentemente, gli uomini sono più vulnerabili, specie se hanno perso dei denti, poiché la perdita di un dente per un uomo è un’esperienza molto dura. Il dente, per un uomo, è un piccolo pene.”
“Non me n’ero resa conto,” lei disse, ma non sembrava affatto offesa.
“Be’, che ne pensi, tu, delle capacità sessuali di un uomo senza denti? Cosa credi che lui pensi? Ho avuto qui un uomo molto eminente. Aveva perso tutti i denti e aveva un’amica giovanissima. Non voleva che lei sapesse che aveva la dentiera, poiché ciò avrebbe significato che lui era un vecchio e lei invece... aveva circa la tua età. Ventun anni?”
“Ventidue.”
“Lei ventuno. Quindi, anziché mettergli una dentiera, gli feci un impianto. Così lui fu felice. E lei pure.”
“Il dottor Wexler dice sempre che la soddisfazione è tanto maggiore quanto più rischiosa è la prova, il che spesso si traduce in un disastro.”
Se l’era scopata, Wexler? Henry finora non si era mai spinto al di là della civetteria con le assistenti, di qualsiasi età: non solo era contrario all’etica professionale, ma fonte di continua distrazione, in uno studio ben avviato, e poteva benissimo tradursi in un disastro per il dentista. Si rese subito conto che non avrebbe mai dovuto assumerla; si era comportato troppo impulsivamente e adesso non faceva che peggiorare le cose con quel discorso sul mini-pene che gli stava procurando una enorme erezione. Tuttavia, dato che tutto congiurava in quel periodo a renderlo ardito, non riusciva a fermarsi. Al peggio, cosa poteva succedergli? Ardito come si sentiva non ne aveva idea. “La bocca, non devi scordarlo, è l’organo primario dell’esistenza...” E così via su questo tono, guardando arditamente, senza batter ciglio, quella di lei.
Nondimeno, passarono sei intere settimane prima che egli accantonasse i suoi dubbi, non solo di essersi spinto tanto oltre durante il colloquio preliminare, ma anche riguardo all’opportunità di tenerla ancora presso di sé in studio, nonostante il lavoro eccellente da lei svolto. Tutto quello che aveva detto sul conto di Wendy a Carol era vero, sebbene a lui apparisse come una trasparentissima razionalizzazione del motivo per cui l’aveva assunta.
“È intelligente e attenta, è graziosa e si fa ben volere dalla gente, con cui comunica, e quindi mi è di enorme aiuto: grazie a lei, appena arrivo posso mettermi subito al lavoro. Questa ragazza,” diceva a Carol più spesso di quanto non avrebbe dovuto durante quelle sei settimane, “mi fa risparmiare due, tre ore al giorno”.
Poi una sera, dopo il lavoro, mentre Wendy puliva le vaschette e metteva tutto in ordine, come di consueto, lui le si piazzò davanti e, siccome non era più il caso di menare il can per l’aia, si mise a ridere. “Senti,” le disse, “facciamo finta che tu sia l’assistente e io il dentista.”
“Ma io sono davvero l’assistente,” disse Wendy.
“Lo so,” replicò lui, “e io sono davvero il dentista. Ma facciamo finta lo stesso.”
“E così,” racconterà poi Henry a Nathan, “questo è quel che facemmo.”
“Tu hai recitato la parte del dentista,” disse Zuckerman.
“Mi sa di sì,” disse Henry; “lei faceva finta di chiamarsi ‘Wendy’ e io di chiamarmi ‘dottor Zuckerman’, e facevamo finta di trovarci nel mio gabinetto dentistico. E poi facemmo finta di scopare, e scopammo.”
“Interessante, pare,” commentò Zuckerman.
“Lo fu, fu una cosa selvaggia, ci fece uscir pazzi, fu la cosa più strana che avessi mai fatto. Seguitammo per settimane, poi, a far finta così e lei badava a dire: ‘Perché è tanto eccitante, dal momento che quel che fingiamo di essere è quello che siamo?’ Dio, che stupendo! E lei, che calda!”
Ebbene, quegli svaghi, quel calore, erano acqua passata adesso, non ci si divertiva più a trasformare maliziosamente ciò-che- era in ciò-che-non-era, o ciò-che-avrebbe-potuto-essere in ciò-che-era: adesso c’era solo il ferreo e triste ciò-che-è e questo-è-quanto. Nulla un uomo di successo energico, alacre predilige più di una piccola Wendy a tempo perso, e nulla a una piccola Wendy potrebbe dar più gusto che chiamare il suo amante “dottor Z.”: è giovane, ha voglia, si trova nel suo studio, lui è il principale, lei lo vede - in camice bianco - adorato da tutti, vede sua moglie portare i bambini a scuola e diventar grigia mentre lei ha un vitino da 50 centimetri... È una pacchia per lei.
Sì, quelle sessioni con Wendy erano state l’arte di Henry; quello studio da dentista, dopo l’orario di visita, il suo atelier; e la sua impotenza, pensò Zuckerman, fu come l’esaurirsi dell’estro in un artista. Gli venne di nuovo assegnato il compito dell’uomo serio e responsabile che, purtroppo, era ormai una routine dalla quale aveva bisogno di andare sempre più spesso e più a lungo in vacanza, se voleva sopravvivere. Era stato restituito al suo talento per il prosaico: precisamente quello in cui era stato ingabbiato per tutta la vita. Zuckerman aveva provato per lui tanta di quella pena che, stupidamente - stupidamente - non aveva fatto niente per fermarlo.
Giù in soggiorno si aprì un varco attraverso la folla, accettando le loro condoglianze, ascoltando certi loro ricordi, rispondendo a domande - dove viveva adesso, cosa stava scrivendo - finché non ebbe raggiunto la cugina Essie, la sua parente prediletta e, un tempo, la roccaforte della famiglia. Sedeva su una poltroncina accanto al caminetto, con un bastone di traverso sulle ginocchia. Sei anni addietro, quando l’aveva vista per l’ultima volta ai funerali di suo padre in Florida, Essie aveva un nuovo marito al fianco - un anziano giocatore di bridge di nome Metz - ora defunto, che pesava una quindicina di chili meno di lei e non si appoggiava a un bastone. Essie era sempre stata, a memoria di Zuckerman, grande e grossa e vecchia, e adesso era ancor più grossa e più vecchia, ma tuttora - avresti detto - indistruttibile.
“Dunque hai perso tuo fratello,” gli disse quando lui si sporse a baciarla. “Una volta vi portai, da bambini, al luna-park, insieme ai miei figli. A sei anni Henry era il ritratto di Wendell Willkie, col suo bravo ciuffo di capelli neri. Quel ragazzino ti adorava, allora.”
Devono tornare a Basilea: Jurgen è stato trasferito in sede. Maria non riesce a smettere di piangere. “Tornerò a essere una brava moglie e una brava madre!” Fra sei settimane, a casa in Svizzera. Dove avrà solo quei 200 dollari come prova di non aver sognato tutto.
“Davvero?”
“Cristo, non c’era verso che ti mollasse la mano.”
“Be’, adesso ha mollato tutto. Noi siamo qui, in casa sua, ed Henry è al cimitero.”
“Non parlarmi dei morti,” disse Essie. “Mi guardo allo specchio la mattina, e ci vedo l’intera famiglia che mi guarda. Vedo la faccia di mia madre, vedo mia sorella, vedo mio fratello, vedo i morti vicini e lontani, tutti quanti nel mio brutto muso. Senti, parliamo un momento a quattr’occhi, io e te,” e, dopo che lui l’ebbe aiutata ad alzarsi dalla poltroncina, Essie lo condusse fuori della stanza di soggiorno arrancando, procedendo come un grosso veicolo dall’asse spezzato.
“Che c’è?” le chiese, quando furono nell’atrio “Se tuo fratello è morto per andare a letto con sua moglie, allora a quest’ora è già in mezzo agli angeli, Nathan.”
“Ma lui è stato sempre il figliolo modello, Esther. Il migliore, il non plus ultra dei figli, il migliore dei padri che furono, sono e saranno... e, be’, a quanto pare, anche il migliore di tutti i mariti.”
“A quanto pare, lo schmuck più schmuck di tutti gli schmuck.”
“Ma i figli, la gente di casa... A papà gli verrebbe un colpo. Come farei a fare il dentista a Basilea?”
“Perché devi proprio andare a stare a Basilea?”
“Perché a lei piace, ecco perché. L’unica cosa - dice - che le ha reso South Orange tollerabile sono io. La Svizzera è la sua patria.”
“Ci sono posti peggiori della Svizzera.”
“Facile per te parlare.” Quindi non parlo più, mi limito a ricordarla cavalcioni a lui in camiciola di seta nera lontana, lontana, come i pomelli della testiera del letto, quand’era bambino.
“Non è certo uno scherzo ritrovarsi impotente a trentanove anni,” disse Zuckerman, “e ho motivo di credere che la sua fosse una condanna a vita.”
“Anche al cimitero ci starà per sempre, però.”
“Lui contava di farcela, Essie, di vivere ancora. Altrimenti non sarebbe andato sotto i ferri.”
“Tutto ciò per la cara mogliettina.”
“Così dice la storia.”
“Mi piacciono di più quelle che scrivi tu.”
Maria gli dice che chi resta soffre ancora di più di chi parte. Per via di tutti i luoghi familiari.
Dietro di loro, mentre scendevano le scale, c’erano due uomini anziani che lui non vedeva da tanto tempo: Herbert Grossman, l’unico profugo europeo del clan, e Shimmy Kirsch, definito anni addietro dal padre di Nathan “cognato di Neanderthal”, e probabilmente il più stupido di tutto il parentado. Ma siccome era anche il più ricco di tutti, c’era da domandarsi se la stupidità di Shimmy non fosse una dote; guardandolo sospettavi che la passione per la vita e la forza necessaria a prevalere fossero, in sostanza, alquanto stupide. Sebbene la mole fosse stata erosa dall’età e la faccia rugosa recasse i segni della diuturna fatica, egli era ancora più o meno la persona che Nathan ricordava dall’infanzia: un enorme, inattaccabile nulla, dedito al commercio all’ingrosso, uno di quei rapaci figli dei vecchi emigrati che non arretrano davanti ad alcunché pur essendo, per la fortuna della società, schiavi di atavici tabù. Per il padre di Zuckerman, il coscienzioso pedicure Victor, la vita era stata una tenace ascesa, su su dall’abisso della povertà paterna, non solo allo scopo di migliorare la propria sorte, ma anche di soccorrere i parenti in veste di messia della famiglia. Shimmy non aveva mai sentito il bisogno di tanta assidua abnegazione. Non che ambisse necessariamente a degradare se stesso, no: tutta la sua tenacia era stata impiegata per diventare quello che era per indole ed educazione, Shimmy Kirsch. Mai si era chiesto chi-sono-io, cosa-conto, dove-sono, né fregnacce del genere, mai aveva cercato scuse, mai provato un grammo di sfiducia in se stesso, né il menomo impulso alla distinzione spirituale; piuttosto, al pari di tanti della sua generazione usciti dai vecchi bassifondi ebraici di Newark, era uno che respirava lo spirito dell’opposizione pur restando completamente in armonia con gli usi e costumi della terra.
Fin dai tempi in cui Nathan si era primamente innamorato dell’alfabeto e aspirava, compitando, a eccellere a scuola, codesti Shimmy avevano già cominciato a insinuare in lui il dubbio che il vero disadattato fosse lui, specie quando sentiva raccontare in che modo, tutt’altro che intelligente, essi riscuotevano successo e battevano la concorrenza. A differenza dell’encomiabile Victor Zuckerman che aveva frequentato le scuole serali per assurgere a dignità di professionista, quegli Shimmy, così squallidamente banali, così stereotipati, davano prova di tutta la spietata avidità del rinnegato, lacerando coi denti e staccando un bel tocco di carne dalla cruda culatta della vita e poi trascinandolo ovunque con sé, mentre il significato di ogni altra cosa impallidiva in confronto alla sanguinolenta vettovaglia nelle loro fauci. Non possedevano assolutamente alcuna saggezza; interamente saturi di sé, del tutto di sé immemori, non avevano nulla su cui regolarsi tranne i più elementari istinti umani, e tuttavia grazie soltanto a essi arrivavano maledettamente lontano. Anche loro facevano tragiche esperienze e subivano perdite e scacchi cocenti: venir bastonati a morte era tanto una loro specialità quanto bastonare gli altri. Fatto sta però che il dolore e il cordoglio non li hanno mai distolti, neanche per mezz’ora, dalla loro intenzione di vivere. Impervi com’erano al dubbio, ignari di sfumature, privi dell’ordinario senso della vanitas vanitatum o della disperazione che è di tutti i mortali, eri a volte indotto a considerarli inumani, e tuttavia erano uomini di cui era impossibile dire che fossero altro che umani: erano proprio ciò che umano realmente è. Mentre suo padre aspirava senza tregua a impersonare il meglio del genere umano, codesti Shimmy erano semplicemente la spina dorsale della razza umana.
Shimmy e Grossman stavano discutendo di Israele, della politica estera israeliana. “Bombardarli, bisogna,” disse Shimmy, piatto, “bombardare quegli arabi bastardi finché non gridano basta. Vogliono ancora tirarci per la barba? Noi moriamo, piuttosto!” Essie, astuta, sagace, cosciente, una “sopravvivente” di tutt’altra pasta, allora gli disse: “Lo sai perché ‘do’ a Israele?”
Shimmy, indignato: “Tu? Tu non hai mai donato un soldo in vita tua.”
“Lo sai perché?” le ripeté, rivolta a Grossman, che era una “spalla” assai migliore.
“Perché?” fece Grossman.
“Perché in Israele si raccontano le migliori barzellette sugli ebrei. Si sentono migliori barzellette antisemitiche a Tel Aviv che non persino in Collins Avenue.”
Dopo cena, H. ritorna allo studio - ha da fare in laboratorio, dice a Carol - e passa la serata a leggere la Svizzera di Fodor, cercando di prendere una decisione. “La città di Basilea ha un’atmosfera tutta sua, in cui elementi tradizionali e residui del medioevo si mescolano, inaspettatamente con il moderno... Dietro e intorno ai suoi splendidi edifici antichi e bei palazzi nuovi, un dedalo di pittoresche viuzze e strade molto animate... Il vecchio si fonde impercettibilmente con il nuovo...” E lui pensa: “Che bella vittoria, se riuscissi a staccarmi da qui!”
“Ci sono stata tre anni fa, insieme a Metz,” stava dicendo Essie. “Andiamo dall’aeroporto in taxi all’albergo. Il tassista, un israeliano, si volta e in inglese ci fa: ‘Perché gli ebrei hanno il naso molto grosso?’ ‘Perché?’ domando io. ‘Perché l’aria è gratuita,’ risponde. Là per là staccai un assegno da mille dollari per il Fondo ebraico.”
“Ma dai!” le disse Shimmy. “Chi ti ha mai carpito un soldo?”
“Le ho chiesto se era disposta a lasciare Jurgen. Le dicessi prima io - mi ha risposto - se ero disposto a lasciare Carol.”
Herbert Grossman, la cui ostinatamente lacrimosa concezione del mondo era l’unica sua costante, aveva frattanto cominciato a riferire a Zuckerman le ultime cattive notizie. La malinconia di Grossman era una cosa che faceva quasi impazzire il padre di Nathan non meno della stupidità di Shimmy; Grossman era probabilmente l’unica persona sul conto della quale Victor Zuckerman fosse stato alla fine indotto a dire: “Poveretto, è più forte di lui. Non può farci niente.” Gli alcolizzati potevano farcela, gli adulteri potevano farci qualcosa, gli insonni, gli assassini, persino i balbuzienti potevano farcela: secondo Victor Zuckerman, chiunque poteva cambiare qualsiasi cosa in se stesso con la forza di volontà; ma Grossman, dato che era dovuto sfuggire a Hitler, sembrava non avere alcuna volontà. Non che, domenica dopo domenica, il dottor Victor Zuckerman non si adoprasse, da parte sua. Ottimisticamente, si alzava da tavola, dopo la lauta colazione, e annunciava ai familiari: “È ora di telefonare a Herbert!” ma di lì a dieci minuti, eccolo di ritorno in cucina sconfitto, borbottando fra sé: “Poveretto, non può farci niente.” Colpa di Hitler, non c’era nessun’altra spiegazione. Il dottor Zuckerman non riusciva altrimenti a capire uno che, semplicemente, “non c’era”.
A Nathan, Herbert Grossman sembrava adesso, come allora, un profugo delicato e vulnerabile, un ebreo, per aggiornare la formula di Isaac Babel, con lo stimolatore al cuore e gli occhiali sul naso. “Tutti si preoccupano per Israele,” stava dicendo Grossman ora a Nathan, “ma lo sai di che cosa mi preoccupo io? Qui, proprio qui. In America. Qualcosa di terribile sta avvenendo qui da noi. Lo sento, come in Polonia nel 1935. No, non l’antisemitismo. Verrà, quello, verrà. No, è la criminalità, è il disordine sociale, a preoccuparmi, è la paura della gente.
Il denaro: tutto è in vendita, e questo, soltanto questo, conta.
I giovani sono pieni di disperazione. La droga non è altro che disperazione. Nessuno avrebbe voglia di tanta euforia se non fosse profondamente disperato.”
Telefona H. e, per mezz’ora, non mi parla che delle virtù di Carol. Carol è una donna delle cui grandi qualità si può rendere conto soltanto chi, come lui, le è vissuto per tanti anni accanto. “È interessante, dinamica, curiosa percettiva...” Un lungo elenco. Un impressionante elenco.
“La sento, la paura, per le strade,” disse Grossman “Non puoi neppure andare all’emporio. Esci per fare la spesa e, in pieno giorno, i negri ti saltano addosso e ti rubano tutto.”
Maria è partita. Un terribile lacrimoso scambio di regali d’addio. Dopo essersi consultato con il colto fratello maggiore, H. le ha regalato la raccolta in astuccio, delle Sinfonie londinesi di Haydn. Maria gli ha dato la sua camiciola di seta nera.
Quando Herbert Grossman chiese “Con permesso”, per andare a mangiare un boccone, Essie confidò a Nathan: “La sua ultima moglie soffriva di diabete. Gli ha reso la vita infelice.
Le hanno amputato le gambe, tutt’e due, poi è diventata cieca, però non la smetteva di rimbrottarlo dalla mattina alla sera.”
Quindi il superstite fratello Zuckerman trascorse il lungo pomeriggio ad aspettare Wendy - chissà se sarebbe comparsa mentre prestava ascolto agli anziani della tribù e andava rammentando certe pagine di diario che non sembravano, quando le aveva scritte, essere né più né meno che degli appunti, carichi di sventura, per un Tristano e Isotta.
Maria ha telefonato a H. in studio la vigilia di Natale. A lui il cuore aveva cominciato a dar martellate non appena gli avevano annunciato una chiamata dall’estero, e non smise se non un bel pezzo dopo i saluti. Maria voleva augurargli buon Natale, un felice Natale americano. Era stata molto dura per lei - gli disse - in quei sei mesi, ma Natale ora era d’aiuto. I figli erano tutti eccitati, c’erano i parenti di Jurgen, sarebbero stati sedici a tavola l’indomani. Anche la neve - gli disse - era un po’ d’aiuto. Nevicava, o non ancora nel New Jersey? Gli seccava che lei gli telefonasse così, in studio? I figli stavano bene? E sua moglie? E lui? E il Natale, a lui, rendeva le cose più facili? O non era più tanto dura? “Cosa le hai risposto?” gli chiesi io. H.: “Avevo paura di dire qualsiasi cosa. Avevo paura che mi sentisse qualcuno in studio. Andai in oca, suppongo. Le dissi che noi non lo festeggiamo, il Natale.”
Poteva essere quella la ragione per cui l’aveva mollata: perché Maria osservava il Natale e noi no? Avresti detto che, fra gli ebrei atei e istruiti della generazione di Henry, una fuga d’amore con la shiksa, la donna non ebrea, avesse cessato ormai da anni di essere alto tradimento e che fosse, semmai, percepita come un finale romanzesco in una vicenda sentimentale. D’altro canto, il guaio era forse, per Henry, che dopo essere passato per tanto tempo per un uomo modello si era trovato ridicolmente prigioniero di quel brillante travestimento proprio nel momento in cui era destinato a mostrarsi qual era: un uomo assai meno ammirevole e assai più disperato di quanto non si immaginasse. Che cosa atroce, che cosa assurda se, mettiamo, la donna che aveva destato in lui il desiderio di vivere in modo diverso, che significava per lui una rottura con il passato, una rivolta contro il vecchio tenore di vita giunto ormai a un emozionale punto morto - in antitesi alla tesi che la vita sia una serie di doveri da eseguire puntualmente - se, mettiamo, quella donna dovesse ridursi a essere solo l’umiliante memoria della sua prima (e ultima) grande avventura perché lei osservava il Natale e noi no. Se Henry non si era sbagliato, riguardo alle origini della sua malattia, se questa era davvero il risultato dello stress di quella pesante sconfitta e di quegli ardui sensi di disprezzo per se stesso che a lungo lo tormentarono, accanitamente, dopo il ritorno di Maria a Basilea, allora, per bizzarro che paia, era stato proprio l’essere ebreo a ucciderlo.
Se/allora. Col trascorrere delle ore pomeridiane, Nathan si sentiva via via sempre più tentato da un’idea che avrebbe prosciolto quei vecchi appunti dalla loro nuda e cruda fattualità per trasformarli in un rompicapo da risolversi con la fantasia. Mentre faceva pipì, al gabinetto del piano di sopra, pensò: “Metti che quel pomeriggio, quando lei si recò segretamente a casa sua, dopo che si furono uniti in matrimonio mediante la copula anale, si fosse svolta la scena seguente. Lui sta a guardarla, mentre lei si tira su i capelli, e li punta con le forcine, proprio in quella stanza, prima di fare la doccia insieme. Vedendolo in adorazione - vedendolo guardare, pieno di meraviglia, quella strana donna europea che incarna, simultaneamente, sia l’innocente domesticità che lo sfrenato erotismo - ella gli dice, sorridendo fiduciosa: ‘Ho davvero un aspetto esteriormente ariano, io, con i capelli tirati su e la mascella in evidenza’. ‘E che c’è di male, in questo?’ lui le chiede. ‘Be’, c’è un nonsoché, negli occhi ariani, che non è tanto attraente, come la Storia ha dimostrato’. ‘Senti,’ le dice lui, ‘non mettiamo di mezzo la Storia, contro di te’...”
No, non sono loro, si disse Zuckerman, e ridiscese le scale tornò in soggiorno, dove di Wendy non c’era ancora neppure l’ombra. D’altro canto però non occorreva che fossero ‘loro’ davvero: potrebbe trattarsi di me, si disse. Di noi. Metti che anziché mio fratello, la cui esistenza era l’opposto speculare della mia, fossi io, invece, lo Zuckerman in preda a quei tormenti? Qual è il vero senso di quel dramma? Quale morale trarne? Potrebbe essere presa sottogamba da chicchessia? Se è vero che quei farmaci menomano buona parte degli uomini costretti a prenderli per vivere, allora dev’esserci proprio una bizzarra epidemia di impotenza, in questo paese, le cui implicazioni sull’individuo nessuno prende in esame, né sulla stampa, né ai caffè, e men che meno nei romanzi...
In soggiorno qualcuno gli stava dicendo: “Sa, io tentai di conquistare suo fratello alla crionica. Non che questo possa essere di qualche consolazione, ormai”.
“Alla crionica? Davvero?”
“Non sapevo neppure, allora, che fosse malato. Sono Barry Shuskin. Sto cercando di far proseliti e mettere su un centro di crionica, qui nel New Jersey. Quando mi presentai a Henry, lui sbottò a ridere. Era un’idea troppo strampalata per un razionalista come lui. Nei suoi panni, io sarei stato di tutt’altro avviso. A trentanove anni non poter più scopare... questo sì che è strampalato!”
Shuskin era un cinquantenne giovanile: molto alto, calvo, col pizzetto nero e una dizione scandita, un uomo vigoroso che ha molte cose da dire, che Zuckerman lì per lì aveva scambiato per un avvocato, un esperto in liti, o magari un funzionario esecutivo di gran polso. Risultò essere invece un collega di Henry, un dentista che aveva lo studio nello stesso edificio, la cui specializzazione era impiantare denti, ancorare denti su misura alla mascella anziché applicare ponti o dentiere. Quando il lavoro relativo agli impianti era troppo complicato, o gli richiedeva troppo tempo, intralciando il suo normale lavoro di dentista generico, Henry lo passava a Shuskin, il quale era anche specializzato nel ricostruire la bocca alle vittime di incidenti o ai malati di cancro. “Lei s’intende di crionica?” domandò Shuskin, dopo essersi qualificato collega di Henry. “Dovrebbe. Dovrebbe iscriversi. C’è uno schedario. Gli iscritti ricevono opuscoli, riviste, libri, ogni sorta di documentazione. Adesso hanno inventato la maniera di congelare senza danneggiare le cellule. In questo modo viene sospesa l’animazione. Non muori, vieni messo nella stiva, per un paio di secoli, se tutto va bene. Cioè fino a quando la scienza non avrà inventato la maniera di scongelare gli organismi crionati. È possibile venir congelati, sospesi da ogni funzione e poi resuscitati. Le parti guaste vengono riparate o sostituite... Ed eccoti come nuovo, se non ancora meglio.
Metti che sai di stare per morire, hai il cancro, il cancro sta per intaccarti gli organi vitali, ebbene, ti si offre una scelta. Ti metti in contatto con gli esperti in crionica, dici loro che vuoi essere risvegliato nel 22esimo secolo: datemi - gli dici - un’iperdose di morfina, al contempo drenatemi, profusatemi, e sospendetemi. Non sei morto. Neanche vivo: sei passato dalla vita al dopo-morte senza stadi intermedi. Il sangue, drenato, viene sostituito da una soluzione crionica, la quale impedisce che la cristallizzazione danneggi le cellule. Loro infilano il corpo surgelato in una sacca di plastica, la sacca l’inseriscono in un contenitore di acciaio inossidabile, che riempiono di azoto liquido. -130 °C. Il congelamento viene cinquantamila dollari, poi tu istituisci un fondo fiduciario per pagare la manutenzione. Costa niente, mille dollari l’anno, millecinquecento. Il guaio è che centri crionici ci sono solo in California e Florida... là dove la rapidità è tutto. Ecco perché io vado esplorando la possibilità di creare un’organizzazione non avente scopo di lucro, qui nel New Jersey, e fondare un centro di crionica per quelli che come me non vogliono morire. Nessuno ci farebbe soldi, tranne alcuni stipendiati aventi mansioni tecniche e di gestione del centro, ma non incarichi dirigenziali. Tanti mi direbbero: ‘Cavolo, Barry, ci sto... Mettiamo su st’impresa e guadagniamo un sacco di soldi, e chi ci crede vada a farsi friggere’. Ma io no, io non voglio smerdarmi con ‘sto tipo di merda. Il mio intento è quello di mettere insieme un gruppo, dei soci, uomini che intendono preservarsi per un lontano futuro, gente che non ha la fissa del guadagno, il profitto come principio. Una cinquantina di soci. Magari si potrebbe arrivare a cinquemila. Ci sono tipi in gamba, molto energici, che si godono la vita e hanno molto potere e molta esperienza, i quali ritengono che è una cazzata andare sotto terra, o in fumo, perché dunque non farsi congelare?”
In quella una donna prese Nathan per mano, una donnetta anziana, minuta, dagli occhi azzurri molto belli, gran petto, il viso pieno, tondo, allegro. “Sono la zia di Carol, la sorella di Bill Goff, da Albany. Ti faccio le mie condoglianze.” Lasciando capire che si rendeva conto delle sue incombenze sentimentali, in quanto fratello del defunto, Shuskin si limitò nel tirarsi in disparte, a dire sottovoce a Zuckerman. “Mi lasci il suo indirizzo, prima di andar via.”
“Dopo, dopo,” disse Zuckerman. E Shuskin, che si godeva la vita, aveva un bel po’ di energia e di esperienza e nessuna intenzione di farsi sotterrare o cremare - ché preferiva esser messo in frigo come una cotoletta d’abbacchio fino al 22esimo secolo, allorché destarsi, scongelato, e seguitare a essere se stesso per un altro miliardo di anni - lasciò Zuckerman alle condoglianze della zia di Carol, che ancora gli teneva stretta una mano. Shuskin l’eterno. È questo il futuro, quando il frigo avrà rimpiazzato la fossa?
“È una gran perdita,” disse la donnetta a Zuckerman, “e si stenta a capacitarsene.”
“Lo è, lo è.”
“Molti sono rimasti di stucco a sentirla parlare così, sai.”
“Alludi a Carol? Sul serio?”
“Capirai, pronunciare un discorso del genere al funerale di tuo marito! Io appartengo alla generazione di quelli che di certe cose non ne parlavano neanche in privato. Non tutti sentono la necessità di essere tanto espliciti e aperti su una faccenda così intima. Carol però è sempre stata una ragazza sorprendente e non mi ha affatto deluso, quest’oggi. La verità per lei è sempre stata la verità, e nulla ha da nascondere.”
“Io ho trovato bello quello che ha detto.”
“S’intende. Tu sei un uomo istruito. Conosci la vita. Fammi un favore,” bisbigliò. “Quando hai un minuto, dillo - questo - al padre.”
“Perché?”
“Perché se continua così si farà venire un altro infarto”. Si trattenne ancora un’ora, fin quasi alle cinque, non tanto per tranquillizzare il signor Goff, la cui confusione era compito di Carol, quanto nella vaga speranza che Wendy si presentasse.
Una brava ragazza, pensò: non vuole imporsi alla moglie e ai figli, anche se ignari della parte da lei svolta in questa vicenda.
Aveva pensato a tutta prima che Wendy avesse una gran voglia di parlargli, essendo lui l’unica altra persona che sapeva perché le cose erano andate così e quel che lei doveva soffrire, ma forse era proprio perché Henry aveva raccontato ogni cosa a Nathan che Wendy si teneva alla larga: non sapeva se sarebbe stata redarguita da lui, o controinterrogata per motivi letterari, o magari perfidamente sedotta da quel fratello morboso, alla Riccardo terzo. Col passare dei minuti, si rendeva conto che se aspettava Wendy non era solo per vedere come lei si sarebbe comportata con Carol, né per rendersi conto de visu di qualche cosa nel suo aspetto che la foto non aveva rivelato, no: era un po’ come aspettare che compaia una diva del cinema, o come vedere il papa di sfuggita.
Shuskin lo intercettò proprio quando andava per prendere il cappotto in camera (adesso) della vedova. Salirono insieme le scale e Zuckerman pensò: Strano, Henry non mi aveva mai accennato a questo suo visionario collega, questo specialista in impianti, strano che, nello stato in cui si trovava, non fosse neppure stato tentato dalla proposta. Ma probabilmente non era stato neppure a sentire. Il sogno di Henry non era quello di vivere, una volta scongelato, nel secondo millennio. Persino una vita a Basilea con Maria era roba da fantascienza, per lui. No, lui aveva chiesto, in confronto, molto meno: chiedeva di stare tranquillo e contento, vita natural durante, con Carol, Wendy e i figli. O quello, o tornare a essere il ragazzo undicenne nel villino di Jersey Shore con la canna vicino alla porta per lavarsi la sabbia dai piedi. Se Shuskin gli avesse detto che la scienza stava lavorando per un ritorno all’estate del 1948, lui si sarebbe magari iscritto.
“C’è un gruppo, a Los Angeles,” gli stava dicendo Shuskin.
“Le manderò il loro bollettino. C’è gente molto in gamba. Filosofi. Scienziati. Ingegneri. Molti scrittori, anche. Però badi bene: poiché là da loro, in California, si ritiene che il corpo non abbia tanta importanza e che l’identità stia tutta nel cervello, cosa fanno? Ti tagliano la testa. Sanno che, per allora, avranno trovato la maniera di riattaccare le teste ai corpi, riallacciare le arterie, la spina dorsale e così via. Avranno risolto, per allora, i problemi di rigetto, immunologici, oppure saranno in grado di clonare nuovi corpi. Tutto è possibile. Quindi, surgelano solo le teste. Viene a costar meno che congelare e conservare l’intero corpo. Si fa più in fretta. Si riducono le spese di immagazzinaggio. Lo trovano seducente, questo, nei circoli intellettuali.
Forse sedurrà anche lei, se mai si venisse a trovare nei panni di Henry. Io, per me, non ci tengo. Voglio che mi congelino tutto intero. Perché? Ma perché io, personalmente, credo che l’esperienza individuale sia legata ai ricordi di ogni singola cellula del corpo. Non si può separare la mente dal corpo. Corpo e mente son tutt’uno. Il corpo è la mente.”
Non si discute su questo - pensò Zuckerman - non oggi, non qui. E dopo aver localizzato il suo cappotto sul grande letto matrimoniale che Henry aveva barattato con una bara scrisse il proprio indirizzo su un foglietto. “Semmai mi trovassi nei panni di Henry,” disse, porgendolo a Shuskin.
“Ho detto ‘se’? Mi scusi la finezza. Volevo dire ‘quando’ ”.
Sebbene Henry fosse un po’ più pesante, più muscoloso del fratello maggiore, avevano entrambi grosso modo la stessa taglia, la stessa corporatura, e questo forse spiega perché Carol lo tenne tanto a lungo stretto a sé quando scese da basso per prendere congedo. Fu per entrambi un momento di tale intensità emotiva che quasi quasi Nathan s’aspettava che la cognata gli dicesse: “So tutto di lei, Nathan. L’ho sempre saputo. Ma Henry sarebbe impazzito se glielo avessi detto. Anni fa, scoprii la sua storia con una paziente. Non riuscivo a crederci. I bambini erano piccoli, piccolissimi, e a me importava terribilmente, allora. Quando gli dissi che sapevo, lui perse la tramontana.
Gli venne una crisi isterica. Pianse per giorni e giorni. Ogni sera, tornando dallo studio, mi implorava piangendo di perdonarlo, mi scongiurava in ginocchio di non cacciarlo via di casa, dava a se stesso i peggiori epiteti e ripeteva: Non mandarmi via! Non volevo certo rivederlo in quello stato un’altra volta. Ho sempre saputo di loro, di tutte, ma l’ho lasciato in pace, che facesse pure i suoi comodi, fuori di casa, purché in casa fosse sempre un bravo papà per i figli e un bravo marito per me.”
Ma fra le braccia di Zuckerman, stretta al suo petto, tutto quello che disse, con voce incrinata, fu: “Mi è stata di enorme aiuto la tua presenza qui.”
Perciò lui non aveva motivo di rispondere: “Ecco quindi perché ti sei inventata quella storia,” ma disse né più né meno quel che andava detto: “È stato di aiuto per me essere fra voi tutti.”
Al che Carol non rispose: “S’intende che è per questo che ho detto quel che ho detto. Quelle troie là a piangere come viti tagliate... a piangere per il loro uomo. Al diavolo!” ma disse invece: “Ha voluto dir molto, per i figlioli, averti qui. Avevano bisogno di te oggi. Sei stato molto caro con Ruth.”
Nathan non domandò: “E hai lasciato che andasse sotto i ferri, pur sapendo per chi ci andava?” Disse: “Ruth è una ragazzina stupenda.”
Carol replicò: “Le andrà tutto bene... come a noi tutti,” e da brava gli diede un bacio d’addio, anziché dirgli: “Se voleva rischiare la vita per quella scema, quella servile sgualdrinella secca secca, affar suo, non mio,” anziché dirgli: “Gli è stato bene, morire così dopo quello che mi ha fatto passare. Giustizia poetica. Possa marcire all’inferno, a sconto di tutti quei pompini serali!” O quel che aveva proclamato a tutti dall’altare era quello che realmente pensava, e dunque era una buona, coraggiosa, cieca, leale compagna ingannata da Henry fino all’ultimo, oppure era una donna più interessante di quanto Nathan non avesse mai supposto, un’accorta e persuasiva scrittrice di romanzi domestici, la quale aveva astutamente reinventato un bravo, ordinario, adultero umanista per farne un eroico martire del talamo nuziale.
Non sapeva realmente che pensarne finché, a casa, quella sera stessa, prima di sedersi alla scrivania a rileggere quelle tremila parole scritte sul taccuino la notte avanti - e per annotare le sue impressioni sul funerale - di nuovo tirò fuori il diario di dieci anni addietro e ne sfogliò le pagine finché non ebbe trovato quella che cercava: l’ultima annotazione relativa alla grande passione di Henry. Era sepolta in mezzo ad appunti riguardanti tutt’altre cose; ecco perché la sera prima gli era sfuggita.
Quella pagina recava una data di vari mesi successiva alla telefonata natalizia di Maria da Basilea, quando Henry cominciava a pensare che, se c’era qualcosa che poteva consolarlo in tanta disgrazia, era che perlomeno la tresca non era stata mai scoperta; a quell’epoca la debilitante depressione aveva finalmente cominciato a passare per lasciar posto all’umiliante percezione di ciò che la storia con Maria aveva così dolorosamente messo a nudo: il fatto che egli non era abbastanza rude da dar retta alle proprie voglie e, insieme, non abbastanza fine da trascenderle.
Carol va a prenderlo all’aeroporto di Newark, al suo ritorno da un congresso di odontoiatria a Cleveland. Lui si mette al volante, al parcheggio dell’aeroporto. È notte e soffia un vento di burrasca, siamo alla fine dell’inverno. Carol, che è scoppiata d’un tratto in lacrime, si slaccia l’impermeabile foderato di alpaca e accende la lucetta. Sotto è nuda, a parte reggiseno, mutandine, reggicalze e calze nere. Lì per lì lui si eccita, ma poi nota l’etichetta del prezzo ancora attaccata al reggicalze e vede, in ciò, tutta la disperazione di quella sorprendente messinscena. Quel che vede non è una miniera di passione in Carol, da lui mai scoperta finora e che potrebbe finalmente cominciare a sfruttare, bensì la pateticità di quelle compere ovviamente fatte, quello stesso giorno, dalla prevedibile, sessualmente tutt’altro che avventurosa moglie, alla quale resterà sposato per il resto dei suoi giorni. La disperazione lo ammosciò, poi lo fece andare in bestia: mai aveva provato tanta nostalgia per Maria! Come aveva potuto mollare quella donna? “Scopami!” grida Carol, e non in quell’incomprensibile tedesco-svizzero che tanto lo eccitava, bensì in semplice e chiaro inglese: “Fuck me! Scopami, sennò muoio! Sono anni che non mi scopi come si scopa una donna!”