domenica 5 dicembre 2021

LA ROSA Robert Walser



LA ROSA 
Robert Walser

[...] mi spiace di non essere un eroe da romanzo. Non sono all’altezza di un simile ruolo, solo, talvolta, leggo un po’ troppo.[...]

titolo originale:
Die Rose
Traduzione di Anna Bianco
Prima edizione: ottobre 1992
Seconda edizione: marzo 1996
© 1992 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO
ISBN 88-459-0868-2


«Dai briganti ho imparato a lavare, a cucire, a cucinare e a sonare Chopin, ma pregherei di non prendere troppo alla lettera questa dichiarazione. Ho l’impressione che io qui stia fantasticando non poco, per la qual cosa mi sia concessa indulgenza. Non deve forse il poeta avere il diritto di sonare lo strumento delle sue illuminazioni con lo stesso agio con cui, per esempio, un musicista suona il pianoforte?.»



LA ROSA


WLADIMIR

Noi lo chiamiamo Wladimir perché questo è un nome raro e lui in effetti era un unicum. Quelli ai quali appariva strambo andavano a caccia di uno sguardo, di una parola da parte sua, di cui faceva parco uso. In abiti andanti si comportava con più sicurezza che in abiti di prima qualità, e in fondo era un buon uomo che commetteva soltanto l’errore di attribuirsi, di appiccicarsi difetti che non aveva. Era soprattutto cattivo verso sé stesso. Questo non è imperdonabile? Una volta alloggiò presso una coppia di coniugi e non era più possibile cacciarlo. «Sarebbe ora che ci lasciasse soli» gli fu accennato; lui sembrò quasi non potersene capacitare, vide la donna sorridere e l’uomo sbiancare. Wladimir era la cavalleria in persona. Servire gli dava sempre un alto concetto della gioia dell’esistenza. Non poteva vedere donne graziose cariche di valigette, pacchi e via dicendo, senza accorrere e manifestare il desiderio di essere d’aiuto, ma sempre prima lottava contro un lievissimo timore di essere invadente.
Da dove veniva Wladimir? Certo da nessun altro che i suoi genitori. Sembra singolare che lui confessi di essere stato spesso allegro nella sfortuna, di malumore nel successo, e dica che il tratto fondamentale della sua natura sia la laboriosità. Mai si vide un uomo così soddisfatto e insoddisfatto allo stesso tempo. Nessuno fu più pronto e in un battibaleno più indeciso.
Una volta una ragazza gli chiese d’incontrarsi il giorno tale all’ora tale e lo fece aspettare. La cosa gli parve sorprendente. Un’altra commentò: «A lei piace essere abbindolato. Non ha forse una particolare predilezione per gli scherzi che rasentano la sconsideratezza?.» «Si sbaglia» fu tutto ciò che rispose lui. Non serbava rancore a nessuno, poiché «pure io ho spesso giocato brutti tiri alla gente.» Al «Caffè delle signore» lo divertivano la mimica e le osservazioni delle clienti. Per il resto non era amante del troppo svago, anche se, in via eccezionale, lo apprezzava. Pensava a ogni cosa per dimenticarla all’istante, era un buon calcolatore perché non permetteva al suo cuore di esercitare potere su di lui.
Le donne lo tenevano in scarsa considerazione, pur seguitando di continuo a interessarsene. Gli davano del timido, ma altrettanto lui diceva di loro. Scherzavano con lui e lo temevano.
Con una signora che gli metteva davanti agli occhi, forse in modo troppo furbo, la propria ricchezza, fu così cortese come lo si è quando non si prova nulla. Trovava ragazze incolte animate dal bisogno di imparare, e, dall’altra parte, certune che avevano letto tutto e ora quasi desideravano essere ignoranti. Mai si vendicava per un torto subito, e forse in tal modo si vendicava a sufficienza. Coloro che non lo trattavano come voleva, li lasciava, come si dice, cadere, il che significa che si abituava a non pensare a parecchie cose spiacevoli. Così proteggeva la sua vita interiore dall’inselvatichirsi, i suoi pensieri da una durezza malsana. La musica lo inteneriva, ma questo succede ai più. Se si vedeva favorito da una ragazza, aveva l’impressione che questa lo volesse legare e allora la evitava. Era diffidente come un meridionale, tanto verso di sé che verso gli altri; spesso era geloso, ma non a lungo, poiché il rispetto per sé stesso lo liberava presto dalle persecuzioni dell’invidia, la quale, appena desta, gli appariva infondata, inconsistente.
Allorché perse un amico si disse: «Perde tanto quanto me.» Adorò una tale finché lei commise un errore e a lui non fu più possibile pensarla con nostalgia. Un’avventatezza da parte della donna ebbe come conseguenza che lui se la ridesse di lei, e di ciò fu contento. Compiangendo l’amica, non aveva più bisogno di compiangere sé stesso. Rimaneva giovane e utilizzava questa forza per acquistare rispetto, e farne uso, verso coloro che più di tutti hanno bisogno di non essere guardati di sfuggita, con occhio insensibile: i deboli e gli anziani. Parliamo di lui troppo bene?
Talvolta si comporta come un gaudente, frequenta le cosiddette bettole. Ci sono alcuni che per questo lo biasimano, ma anche loro talvolta vorrebbero spassarsela, cosa che non sempre il loro ambiente permette. C’è chi lo ha imitato, ma l’originale resta ciò che è. Imitare del resto è affatto naturale. Anche le copie possono attrarre, ma soltanto dalla originalità scaturisce quel che ha grande valore.

PASSEGGIATA DOMENICALE (I)


Era domenica, un tale andava a spasso. Cammin facendo si deliziava al pensiero di certe stampe che aveva visto esposte chissà quando e chissà dove, e di certe poesie il cui testo gli era rimasto nella memoria. «Buongiorno» gli si rivolse posato e serio un tizio, ma pur sempre in tono amichevole: «Quand’è che esce il tuo nuovo libro?.» «Ci vuol pazienza» rispose l’interessato, e aggiunse che essere semplicemente un uomo e andarsene a spasso gli sembrava non meno bello che star seduto alla scrivania e sfornare libri di successo.
Lasciatasi alle spalle una mandria di mucche al pascolo, s’inoltrò, alla dolce luce del sole, nella serenità di un allettante paesaggio. Due gattini su un albero si davano visibilmente buon tempo. Da una finestra stava a guardare una donna che disse: «Chiunque tu sia, aiutami, dicono che non dovrei più essere giovane. Non mi vogliono concedere il piacere della vita, vogliono spingermi nell’età ineluttabile.» «Chi fa questo?.» «I miei stessi figli.» Il poeta – come tale lo si sarà riconosciuto – diede per risposta: «Sii tranquilla, vivi da persona posata, sii saggia, il resto verrà da sé.» Fiori splendevano ancora nei giardinetti disposti come meglio capitava. Dopo un poco iniziava una discreta salita. Persone distinte stavano sedute nel loro parco; bimbi si divertivano giocando; abeti attorniavano con sussiego una casa dall’aspetto dignitoso; dietro una porta a vetri stava una domestica vestita tutta linda. Le finestre erano aperte e colui che vedeva tutto questo pensava: «Anche a me non dispiacerebbe abitare qui e gustare questa pace. Per sdebitarmi potrei magari recitare una novella a mio capriccio ma pur sempre con tutto il garbo possibile.» E lui, quando passeggiava, fantasticava, poetava sempre! Ma proprio questo gli rendeva prezioso il passeggiare e sempre ogni volta gradito. Subito al margine del bosco c’era una fattoria, lì appresso una casa d’abitazione con una modesta bottega di calzolaio; e nel bosco c’era qualcosa che induceva alla tenerezza.
Di nuovo in aperta campagna, vide gente seduta nella quiete domenicale davanti a un podere e udì qualcuno che strombettando si puliva il naso col fazzoletto. Poi giù nel villaggetto squillarono vere e proprie trombe, una banda veniva avanti a passo di marcia, e a questo punto al nostro viandante venne in mente un’idea magnifica: poteva invitarsi a uno spuntino pomeridiano. Detto fatto, entrò subito in un’osteria; già entrarvi lo rallegrò. «Signorina, tutto quel che desidero è un caffè completo, e suppongo che nulla sia d’intralcio alla richiesta.» La ragazza sorrise, e a lui parve che l’intero locale facesse altrettanto davanti a chi si presentava con aria così pacifica e con pretese così alla buona.
L’oste leggeva in un libriccino. L’ostessa, una donna imponente seduta a un tavolino, attendeva a qualche sua faccenda. Due tavoli erano occupati da famiglie. Uno degli avventori tirò fuori un discorso che sollevò un animato botta e risposta per trasformarsi poi in un acceso e prolungato dibattito sull’attività delle sette.
«Fra i settari» intervenne l’oste «non ci sono brave persone.» La moglie, avanzando verso il bancone e mettendo così nettamente in valore la propria figura – ciò che faceva con tanto maggiore effetto quanto meno intenzionale sembrava – rammentò al marito, metà seria e metà ridendo, l’opportunità di un po’ più di prudenza a proposito di quel che il suo schietto parere gli aveva dettato, e osservò che persino la signora dottoressa di tanto in tanto prendeva parte alle riunioni di settari.
Al poeta, impegnato sia ad ascoltare sia a mangiare, piacque molto il contegno garbato e accorto dell’ostessa, e fra sé pensò: i suoi modi rispecchiano perfettamente il suo bell’aspetto, da un lato evita di trattare il marito con bruschezza, dall’altro non gli consente di dare giudizi troppo sprezzanti sui suoi concittadini senza provare prima a sviarlo.
A un cane dal pelo arruffato che gli chiedeva l’elemosina lui diede un pezzo di pane che venne prima disdegnato, ma dopo un po’ preso in considerazione e divorato con garbo, forse per il semplice fatto che contentarsi di meno sia preferibile al nulla. Allorché fece per andarsene l’ostessa lo ringraziò, lui replicò che non ce n’era motivo, attraversò il paese, incontrò giovanotti che cantavano, anziani che avanzavano a passi lenti, sollevò il capo qua e là, lasciando che la vista dei dintorni agisse su di lui, quindi arrivò, per vie principali e secondarie, dove c’era una signora all’apparenza colta, vale a dire di buone letture, che tuttavia si torceva le mani e disse: «Sono tormentata, anche se sono benestante. Mio figlio non mi obbedisce.» «Questo probabilmente dipende dal fatto che lei non osa imporgli nulla. Sia per lui una autentica madre, e vedrà che non le mancherà di rispetto.» «È proprio questo che non riesco a fare.» «Allora nessuno può aiutarla» e si allontanò rapidamente da lei, come da un’indebitata che chiede un prestito.
Abbandonandosi capricciosamente a ogni sorta di speculazioni affiorate da campi diversi, giunse su un’altura, riccamente adorna di edifici, che consentiva la vista del panorama intorno, e qui si fermò, per tutto il tempo di chi non ha fretta, davanti al monumento di un uomo al cui volto pieno di senno, al cui atteggiamento fra il partecipe e l’esplicativo, due bimbi alzavano lo sguardo con fiduciosa familiarità.
Era il monumento a un pedagogo, e il viandante disse fra sé: «Ancora io non posso registrare che poche buone azioni o nessuna. Questo dovrebbe mettermi di malumore. Ma troppo volentieri lascio ai grandi la loro gloria per farmi scoraggiare dalle loro immagini. Finora ho vissuto come ho ritenuto più giusto e opportuno, e non mi ha spaventato la possibilità che qualcuno mi dimostrasse che m’ero sbagliato, poiché a buon diritto io dico: errare è umano. Tuttavia riconosco che sia bello adeguarsi a una nobile concezione e sottrarre qualcosa alla gioia di vivere a vantaggio dell’adempimento dei doveri, che sia bello intendere la felicità anche in un’altra forma che non sia il buonumore, non rendendosi dipendenti da quest’ultimo, temendo ogni ora per esso, preoccupati di conservarlo: no, piuttosto, mettendolo a nudo, meglio sacrificare la propria felicità e forse perciò riconquistarla.» Come si vede, egli ammetteva di mancare ancora di saggezza, ma fidava nello spirito che porta al perfezionamento.

MANUEL


Manuel stava in piedi tra la folla; sulla piazza, di fronte al palazzo, veniva dato un concerto. La gente in parte rimaneva ferma, in parte andava avanti e indietro nella calca cercando di disturbare il meno possibile. Qualcosa lo divertiva; lo starsene lì modestamente lo metteva a suo agio. Passare inosservato può risultare assai delizioso. Con lentissimo piacere fumava un mezzo sigaro locale, cosa per cui non si distingueva da nessuno. Noi non sappiamo di preciso in che modo avesse impiegato il pomeriggio. Lì nella quieta serata, in piedi fra gente come lui, aveva da fare con due ragazze, peraltro senza troppa fatica. La prima si trovava per caso addosso a lui e gli lasciava sentire il fresco morbido della seta e il calore del suo corpo. Quel che gli era dato non lo voleva, gli si offriva da sé. In alto, da una finestra aperta, si mostravano figure conosciute e sconosciute, fra queste una ragazza alla quale lui aveva, in certo modo, promesso fedeltà, e neanche fino allora le era stato infedele, neanche in quel momento un poco critico in cui il contatto di un’altra donna non gli era sgradevole. «Forse che non accarezzano anche le note di questo concerto? Non deve piacermi nient’altro perché una cosa mi è piaciuta tanto?.» Diceva questo fra sé e sé? Può essere! Lui la guardava tranquillo, e lei, che di lassù un paio di volte si era resa visibile, portava in volto quel tratto a lui ben noto di apprensione, di lieve malumore, di sottile sospetto. «Teme sempre qualcosa. È sensibile. È ingiusto sentirsi di buon umore, riderle in faccia da quaggiù; lei ignara, io qui fra il pubblico pieno di birichina sicurezza e superiorità. Il bello così venerato, posto così in alto. L’adoratore vicino e non trepidante?.» Manuel, nella sua imperturbabilità, somigliava a un albero carico di frutti strettamente avvolti, quieti e grevi, nella loro buccia. Era padrone di sé, si riteneva una persona capace, non aveva fretta con le spiegazioni, per il momento si beava di quello che, nella sua modestia, il cuore gli forniva. Il concerto era finito, la gente si disperdeva. Credeva di aversi in pugno. Prima di darsi, lui osa creare difficoltà. Si guarda dentro poiché non gli piacerebbe offrire poco.

GINEVRA


Da Berna a Friburgo ci vogliono a piedi circa sei ore. In quest’ultima città mi sono comprato, per ogni evenienza, delle calze e col pacchettino ho accarezzato testoline di bimbi. Il sabato sera le ragazze sono felici, perché per le strade tutti vanno e ristanno con l’intenzione di fare acquisti, e così si schiudono le porte al riposo e alla gioia della domenica. Ho chiesto a un giovanotto la via per Romont; egli mi ha guardato le scarpe come se avesse voluto controllare se erano buone per la marcia.
«È lunga per arrivarci» ha detto. «Non fa niente» ho replicato, e ho conquistato la posizione in quattro ore, ho mangiato formaggio, ho bevuto un goccio di vino e mi sono messo a dormire. Prima di chiudere gli occhi, ho pensato all’amata e la cosa mi ha divertito.
Il tragitto fino a Losanna ha richiesto otto ore. Può capitare d’incontrarvi un sacerdote davanti al quale ci si leverà il cappello, consapevoli che è bene portare gentile rispetto al ceto ecclesiastico. Una cittadina situata su un’altura si chiama Rue. Nei pressi di Losanna mi si è fatta incontro la folla del passeggio domenicale. Ma il cammino prosegue, e in due ore sono a Morges, la sua chiesa mi colpisce gradevolmente, le sue osterie mi paiono incantevoli. Impiego ancora due ore per arrivare fino a Rolle; qui, sotto una volta, fra un rivenditore di castagne e uno stuolo di ragazzini, mi arrotolo una sigaretta, quindi entro alla «Tête noire», una locanda risalente all’anno 1628, che trovo pulita e dignitosa. Già alle otto del mattino mi rimetto in movimento. Dopo aver toccato Nyon, nonché svariati castelli di campagna, sono arrivato, verso le undici, a Coppet, dove mi sono concesso carne e insalata. L’oste, un sudamericano, mi ha rivolto domande di ogni tipo. In piedi al banco c’era una donna vestita all’ultima moda; per tre minuti i miei occhi si sono assai goduti la vista della sua persona, lei lo ha sentito e si è strofinata la schiena. Alle tre del pomeriggio sono entrato a Ginevra, mi sono diretto a un caffè e m’imbatto allora in un vecchio che abita qui, presso i suoi figli, e non vi si trova bene. «Capitano dei contrasti» cerco di tranquillizzarlo. Su un manifesto a caratteri ben visibili si legge: Borgia s’amuse. Riguarda uno spettacolo cinematografico. Cosa si può fare a Ginevra? Di tutto! Per esempio andare in una pasticceria e chiedere se è permesso rifocillarsi all’istante con delle pasterelle.
Dopo si visita la città vecchia, si alzano gli occhi stupefatti sulle chiese e si pensa a Calvino. Una lapide di marmo ricorda lo scozzese John Knox, che un tempo predicò lì.
Si può regalare una tavoletta di cioccolata a uno scolaretto che è sul punto di varcare una porta, quindi visitare una bottega d’arte, fare onore ad alcune osteriucce, incontrare una donna dell’Appenzell e domandarle dove si trova il teatro.
Fra i monumenti fanno spicco le statue del generale Dufour e del duca di Brunswick. Un altro celebra l’ingresso di Ginevra nella Confederazione Elvetica. Si notano i musei, le eleganti case private, nel frattempo si trovano carine certe ragazze, poi si arriva all’Hotel de Ville, si entra nell’atrio e si rimane colpiti dalla sua bellezza. Mi è sembrato giusto dire qualche gentilezza a una chellerina del Giura, e l’incontro con un giovane argoviese l’ho preso come un capriccio del caso. Insieme attraversiamo un grande magazzino gigantesco, e secondo l’uso cittadino ci sediamo fuori di un caffè all’aria fresca della sera.
Gli abitanti di Ginevra appaiono gente di mondo e affabile. Compro delle mandorle, le offro ai ragazzini, mi sottraggo al mio accompagnatore giacché ogni volta mi familiarizzo in fretta con un nuovo ambiente; più tardi mi sono seduto al «Petit Casino» dove si recita una commedia, e scovo infine un locale notturno dove si balla. Vagabondando nella notte mi sono ritrovato sull’isoletta del Rodano che è abbellita dal monumento a Rousseau, e mi sono tolto il cappello davanti a quest’irremovibile che suscitò tanto movimento.
La sua posizione sul lago conferisce alla città un che di dolce, di quieto. Eleganti alberghi costeggiano la riva. I ponti su cui cammini ti rallegrano. A lungo ho seguito con lo sguardo una tale dalla figura slanciata, somigliava a qualcuno.
Allo «Schweizerhof» ho trovato a un’ora più avanzata l’ambito alloggio a un prezzo modico. Il viaggio di ritorno si è svolto in treno, che ha coperto il percorso, per il quale avevo impiegato due giorni, in quattro ore e mezza.


L’IDIOTA DI DOSTOEVSKIJ.


Mi rincorre il contenuto dell’Idiota di Dostoevskij. I cagnolini da salotto m’interessano molto. Non cerco nulla così ardentemente come un’Aglaja. Ma lei purtroppo prenderebbe un altro. Indimenticabile resta per me Marie. Già da giovane non mi sono fermato, una volta, commosso davanti a un asino? Chi mi presenterà a una generalessa Epancin? Anche di me si sono già stupiti dei domestici. Mi rimane il dubbio se sarei capace di scrivere come il rampollo di casa Myskin e di ereditare milioni. Sarebbe magnifico venire scelto da una bella donna come confidente. Perché non ho ancora mai visto una casa di mercanti come quella di Rogozin? Perché non soffro di attacchi convulsivi? L’idiota era mingherlino, faceva solo una modesta impressione. Un bravo giovane, ai cui piedi una sera la demi-mondaine cadde in ginocchio. Io aspetto di sicuro qualcosa di simile. Di Kolja ne conosco due o tre. Non ci sarebbe da incontrare anche un Ivolgin? Di rovesciare un vaso sarei capace; dubitarne significherebbe sottovalutarsi. Tenere un discorso è tanto difficile quanto facile; dipende dall’ispirazione. Di gente mai contenta di sé ne ho incontrata spesso. Qualcuno non sta bene perché vuole piacersi troppo. A un certo punto finirei all’Istituto Schneider. Per prima cosa dovrebbe venire placata Nastas’ja. Io non sono assolutamente idiota, anzi sono sensibile a ogni cosa ragionevole; mi spiace di non essere un eroe da romanzo. Non sono all’altezza di un simile ruolo, solo, talvolta, leggo un po’ troppo.

GIORNALI PARIGINI


Da quando leggo giornali parigini, i quali emanano un profumo di potenza, sono una persona così distinta che non ricambio il saluto, e neanche me ne stupisco. Con «Le Temps» in mano mi trovo assai elegante. D’ora in poi non degnerò più di uno sguardo la brava gente. I giornali parigini sostituiscono per me il teatro. Nemmeno il ristorante più raffinato onoro ormai col mio piede, tanto sono diventato difficile. Per le mie labbra non passa più neanche un sorso di birra. Il mio orecchio approva ormai soltanto la melodia del francese. In passato amavo ardentemente una signora, una vera lady; oggi la trovo goffa nella misura in cui «Le Figaro» mi ha viziato. «Le Matin» non mi ha reso mezzo matto? Mentre i miei colleghi, nell’odierno tempo di crisi, si stancano a furia di scrivere, io, per merito dei miei giornali, sono imbaldanzito. Un viaggio a Parigi, che mi proponevo di fare, lo considero compiuto, ho imparato a conoscere la capitale della Francia attraverso la lettura. È piacevole essere in buona compagnia. E non ce n’è una migliore dei giornali dei vincitori. Il prodotto linguistico tedesco non trova più alcun favore presso di me. Ho disimparato a parlare tedesco; che sia in qualche modo dannoso?

GERDA


Che ci sia sempre qualcosa che m’ingombra la mente? Non si finisce mai, e in più sono malaticcio. Un altro si preoccuperebbe. Stavolta è una Gerda. Che nome ingenuo, graziosamente increspato. Suo padre si distingueva per i suoi modi soldateschi. La madre di Gerda, una cantante, resistette accanto a quell’uomo rude fino a quando non si furono accumulati un numero tale di motivi schiaccianti da darle il diritto di dire: «Bene, ora ci dividiamo.» Lei calcava le scene, e tutte le sere, o meglio ogni volta che aveva la bontà di non addurre scuse per non venire, bensì si esibiva, strappava frenetiche ovazioni a un pubblico conquistato dal suo canto.
Frattanto l’uomo dalle rozze maniere conduceva l’esistenza più noiosa. Una sera padre e figlia stavano seduti sulla terrazza avvolta dagli allettanti sussurri di un’aria piacevolmente mite, abbellita da una graziosa balaustrata, lei sognando da brava figlioletta un lontano futuro pieno di promesse, lui leggendo un annuncio sul giornale.
«Possibile che sia lei?» proruppe il padre, e l’indomani si mise subito in cammino e andò a trovarla, andò cioè a trovare colei che era passata all’arte, e che lui naturalmente continuava ad amare, anche se non le aveva mai riservato altro che un comportamento da villano.
«Chi devo annunciare?» chiese il servitore. «Un uomo d’onore» rispose lui, che si riteneva assolutamente tale. Ci volle molto perché fosse ammesso alla presenza di colei contro cui innumerevoli volte aveva dato ordini spadroneggiando, cosa che per prudenza sarebbe stato opportuno evitare.
«Desidera?» domandò lei con tutte le modulazioni d’oro e d’argento della sua quanto mai esercitata voce di cantante, mentre in quel momento – e aperta rimane la questione se ciò fosse disdicevole o no – teneva in braccio il suo amante con la forza che è propria delle signore che cominciano a invecchiare e che di questo, nel loro intimo, non vogliono sapere.
Costui era un coltivatore di nome Horst!*1 Non è vero, lettore, che è impossibile non sorridere un pochino, di sfuggita, sul ben noto nome dell’amante? Horst pareva come schiacciato dall’abbraccio, non si vedeva quasi più niente di lui. Riconoscendo chi le stava davanti, la padrona della situazione disse all’irruente: «Che altro vuoi dopo che con le mie sole forze mi sono fatta strada verso una nuova forma, un nuovo modo di vita?.» Per un tratto lui rimase senza parola, poi non proferì molto altro che: «Non so proprio qui cosa ci sto a fare.» «Lieta che tu lo riconosca.» «Solo una cosa ancora: pensa a tua figlia che ti ama, e per la quale il tuo amante, che dovrà certo diventarti infedele, costituisce presumibilmente un partito.» «Sei venuto qui, screanzato, uomo insopportabile, per gettarmi in viso cose tanto villane quanto verosimili, un viso di fronte alla cui trionfante espressione dovresti tremare? Vedi di sparire!.» Lui se ne andò; la sua missione gli sembrava compiuta, e tutto avvenne, seppure a poco a poco e lentamente, così come egli aveva lasciato intendere.
In Gerda, quest’incantevole pianticella di un orticello smembrato, si sviluppò, con l’entusiasmo di colui che l’accompagnava al pianoforte, un talento insospettato: cantava splendidamente come sua mamma. Horst la udì alla sua prima esibizione, e nulla da quel momento fu in lui così potente come il più spontaneo proposito di matrimonio. Però, cosa ho dimenticato? Ho tralasciato di dire che si chiamava Salvatini colei che, con suo cocentissimo dolore, dovette liberare dai ceppi il suo Horst, da lei spesso quasi divorato per amore. Innumerevoli sospiri accompagnarono il riconoscimento della necessità di darsi un contegno e agire nobilmente; lei si dedicò per intero alla sua attività musicale, lasciando -con respiri angosciati e col petto trafitto, ma che forse proprio per questo faceva ancora più bello il canto – alla piccola Gerda il piccolo ruolo di una felice donnina di casa. Horst passò una meravigliosa notte sulla spiaggia, tutta di giochetti e gorgoglii. Gerda gli disse più volte: «Su, ragiona!.» Adesso lui coltiva fiducioso la sua terra, tanto che campi e terreni fumigano e trasudano per il razionale trattamento che tocca loro. Può esserci qualcosa di più bello dell’esaltazione amorosa, prima dirupata, torreggiante come una montagna, poi spianata, alleggerita, allisciata dalla saviezza?

CAVALLO E ORSO


IL CAVALLO

Un cavallo del genere, strigliato a puntino, sellato, può andare orgoglioso. Quale creatura possiede gambe più tese? Del nobile portamento del cavallo non c’è da dubitare. Talvolta i suoi occhi fedeli guardano quasi un po’ tristi. Perché? Forse deplora la sua forma che ci allieta, forse non capisce sé stesso o si capisce fin troppo? Sopporta il suo cavaliere con dignità, con impazienza e mansuetudine, con incantevole riottosità e in pari tempo con rassegnazione. Una bella donna dai lunghi capelli sciolti sulle spalle, con il frustino leggero nella mano inguantata, sognando non so che cosa, lo afferra al collo e alla testa, gli liscia il manto marrone, lo guarda, parla con lui, e il cavallo sembra che senta quel che gli viene confidato.

L’ORSO

Com’è diverso l’orso. Bello nel senso più rigoroso non è, anzi piuttosto un po’ comico nei suoi movimenti impacciati; abile e goffo, non si sa bene come bisogna prenderlo. Vuole porgerti la zampa, tu involontariamente ti tiri indietro. Non consideri che con la tua paura potresti ferirlo? Un orso possiede amor proprio. Stanotte ho sognato di un orso; mi ero tutto arruffato per la sua buffa immagine. Avevo compassione di lui: allungava il braccio verso una ragazza, lei, la sensibilità fatta persona, lui, sgraziato, neanche pettinato; di questo avrebbe dovuto preoccuparsi. «Lasciami in pace» disse lei, lui se ne andò via dritto come un uomo che capisce una parola, un cenno, andò a letto e si tirò addosso la coperta.

LA NOVELLA DI KELLER


Recentemente, sentendomi un tantino allegro – sempre che ciò non sia detto troppo eufemisticamente, ma ci si esprime volentieri in modo ricercato -, mi trovavo in uno dei nostri ristoranti, e bevevo caffè per ricuperare un più lucido giudizio. Notai che abbastanza vicino, di fronte a me, sedeva una signora dall’aspetto assai florido che stava mangiando una costoletta con fagioli. Cominciai a osservarla, e assaporai la soddisfazione di percepire come lei, con l’espressione del viso e un lento movimento del piede, consentisse al tentativo di far conversazione. Mio Dio, con qualcosa si dovrà pure passare il tempo! Lo scambio di messaggi procedeva a meraviglia. Mi venne l’idea di fare due passi fino al portagiornali, e in tal modo, pensavo, avrei forse potuto sfiorare dolcemente l’adorabile creatura. Speravo che lei, benevola, lasciasse cadere qualcosa, magari il fazzoletto, io gliel’avrei raccolto e avrei raggiunto rapporti di più simpatica familiarità. Aveva un viso rotondetto e bonario, abbellito dalla più graziosa delle boccucce. Quale animo sensibile, di fronte a una simile vista, non avrebbe avvertito la voglia di adeguarvisi! Con mia non piccola sorpresa, il giornale che mi ero andato a prendere riproduceva la novella di Keller Romeo e Giulietta nel villaggio. Trovai il caso interessante e presi a leggere quel che esso mi aveva fatto cadere nelle mani; mi sprofondai a tal punto nella lettura, e pensieri di ogni specie mi avvolsero in modo tale che dimenticai del tutto l’ambiente angusto che mi circondava, compresa la bella lì dentro. Una sorta di sacralità viveva intorno a me, salendo naturale da quelle righe meravigliose, le quali, nel loro placido ascendere, non parevano scritte, no, ma fatte, davvero, pura poesia. Ogni tanto mi guardavo in giro: le figure quotidiane diventavano più semplici e significative, e me stesso sentivo come il risultato di un serio ringiovanire, né del resto poteva succedere altrimenti se mi alimentavo di un così nobile contenuto narrativo. Particolarmente bello mi appariva il passo in cui l’autore, maneggiando la penna con una perizia che unisce in modo più che incantevole il massimo peso alla grazia, si diffonde incidentalmente sulla maledizione che, nella vita umana, l’illecito appropriarsi di un bene si trae dietro per necessità; e altrettanto bello, se non ancora più toccante, l’inciso o la notazione che mostra come i bevitori, nella trattoria per vagabondi situata in quel romantico paesaggio, compativano sinceri, e al tempo stesso invidiavano, Verena e Sali, i poveri infelici baciati dalla fortuna, per il loro visibile, profondo affetto. Io ero quasi diventato quietamente orgoglioso di me perché, nonostante le molte esperienze vissute, ero tuttora in grado di seguire, proprio come negli anni giovanili, il corso e le anse del fiume di quella storia – che, per la forma grandiosa che la contraddistingue, sicuramente appartiene al nostro patrimonio nazionale più prezioso -, sentendo quanto, non solo per me, ma in generale per tutti i compatrioti, sia importante un tale ubbidire e godere; e non mi meravigliai neanche minimamente del fatto che poi, guardandoci intorno, non vidi più nella sala la signora cui avevo fatto gli occhi dolci; trovai anzi del tutto ragionevole, persino fine da parte sua, l’essersene andata via nel tempo che io avevo così bene utilizzato per vivificare il cuore e lo spirito, evidentemente riconoscendo, grazie al suo intuito femminile, che mi ero lasciato influenzare da qualcosa di più potente, e anzi ancora più piacevole, di quanto lei potesse offrire. Essendole sfuggito involontariamente, non era necessario che mi rimproverassi di averla trattata male: qualcosa di più bello mi aveva strappato al bello…

KURT


Kurt era un villanzone, quanto meno veniva sentito come tale. Si migliorò e divenne uno snob. Come snob era più villano che come villanzone. Ma io non voglio raccontare aneddoti bensì condurre analisi. Da qualche parte c’è una rivista sulla quale solo a persone sposate è permesso comparire. Io devo fare in fretta a sposarmi. Cunegonda siede sola al caffè, piange calde lacrime per via della mia inflessibilità. Io sono convinto: il mio spirito celebrerà nel letto matrimoniale la sua risurrezione. Di recente ho ricevuto una lettera. Cosa conteneva? La commovente preghiera ch’io non segua il cattivo esempio di Gottfried Keller. Essere il gallo della Checca è così bello. Ho risposto: «Una florida paesana sta a mia disposizione.» Mi viene raccomandato di arrivare sia a una consorte che a un’opera d’arte. La cosa migliore sarà generare un figlio e offrire il prodotto a una casa editrice, che difficilmente lo rifiuterà. Mia moglie mi coprirà ogni giorno di rimproveri, di un soprabito si può anzi adesso aver bisogno. Dal bambino imparerò. Che futuro ricco di promesse!

NORA DI IBSEN, OVVERO IL RÒSTI


Una volta un attore debuttò nel ruolo di Helmer. Al quinto atto, allorché ebbe letto la fatidica lettera, sorrise, era evidente che non prendeva affatto la situazione al tragico, anzi disse flemmatico: «Cara Nora, sai una cosa? Svelta, preparami un rösti.» Linguaggio singolare che lasciò il pubblico senza fiato. Nora era atterrita. Come poteva il marito deporre di colpo il suo abituccio di pusillanime? Fra gli spettatori si fece avvertibile l’inquietudine. Il suddetto, così prosaico desiderio, espresso in un momento altamente significativo, pareva a tutti assai strano, ma nessuno zittiva. Era grave parlare di patate arrostite là dove i valori dovevano essere trasvalutati. Tutte quante le grandiose parole di Nora le restarono in petto. Noncurante, come un collaudato uomo di mondo, Helmer si sedette all’angolo della tavola. Che davvero lui adesso desiderasse un rösti, Nora riusciva a crederlo a stento, balbettava e appariva incantevole nel suo sbalordimento. «Quel che ho detto è vero» tagliò corto il suo collega. La platea della gente in piedi dondolava la testa. All’improvviso Nora fu pervasa dal prodigio; il pubblico era esterrefatto. Lei era contenta perché Helmer aveva detto qualcosa d’inaspettato. Certo lui non fu applaudito, fu però tollerato.


VETRINE (I)


Guardare curiosi nelle vetrine, chi non si divertirebbe? Di sfuggita con lo sguardo si pilucca del cioccolato.
Qui t’interessano dei cappelli, là delle cravatte, da un’altra parte delle salsicce viennesi e francofortesi. Ogni tanto si ottengono gratis cose bellissime, come ad esempio la vista di riproduzioni di famosi artisti. Attraenti mazzetti di viole mammole stanno con il loro colore gentile accanto alle arance. I nostri occhi ci procurano un mucchio di gioie.
Nelle botteghe di antiquari sono esposte delle battaglie degli Svizzeri. Si rimane stupiti per quel che vi succedeva di brutto. La possibilità di godersi la vita dal lato migliore dev’essere conquistata con le unghie e con i denti.
Scorgo qualcosa di sostanzioso, come il formaggio Emmental e il Greyerzer. I negozi di moda fanno pensare ai vantaggi di un bell’aspetto. Essere ben vestiti non può mai far male. Non mi sono mangiato già spesso, in una panetteria sulla Aarbergergas-se, un fagottino di mela? Le caffetterie seducono il passante frettoloso con dolcetti vari e frittelle. Osservare attentamente corsetti o roba del genere non è fine per un signore. Ma a un giornalista sarà concesso.
I fazzoletti da naso per le ragazze sono ricamati in modo delizioso. Per colpa di un fazzoletto Otello fece una scenata a sua moglie.
Già per tempo mi venne detto che non si devono regalare scarpe alle signore: convenienza vuole che se le comperino da sé. Le gioiellerie brillano di anelli, fermagli e collane. Le cartolerie tengono sotto i tuoi occhi l’utilità di scrivere di tanto in tanto una lettera.
Ultimamente ho visto da un rigattiere un piccolo Cristo in avorio, le braccia tese orizzontalmente, i piedi bucati. Qui, ancora una volta, ho soltanto fatto un abbozzo; veramente, sarei tenuto a qualcosa di più.


WÖRISHÖFER.

   

  Nella mia fanciullezza leggevo i libri di Wörishöfer e uno di questi mi è rimasto nella memoria per le illustrazioni che conteneva. Un giovane tedesco prese commiato da sua madre, tutta stretta in un costume dei tempi di Bismarck, e s’imbarcò per il Madagascar, dove gli si presentò l’occasione di dare prova della sua abilità, poiché col suo schioppo, che sempre fedelmente lo accompagnava -espressione forse non del tutto appropriata in quanto non è che i fucili ti seguano ma vengono portati a tracolla – abbatté un coccodrillo che cercava di addentare un indigeno. Il mostro aveva già aperto le fauci per fare ciò di cui a stento si sarebbe reso conto, quando tempestivo partì il colpo, lo stagno cosiddetto sacro si tinse di rosso, la vorace creatura stramazzò, e il povero individuo, destinato a cadere vittima di un’idea folle, si salvò. Invece venne allora a trovarsi in pericolo la vita del nostro giovanotto: il popolo riteneva un sacrilegio ciò che egli aveva fatto per umanità; tutt’attorno si levò un mormorio: doveva morire. Ma per fortuna riuscì a fuggire, e ancora una volta lo vediamo fare uso della fedele appendice – per non dire accompagnatore – e precisamente per l’abbattimento di un serpente. Il rispettabile rettile non aveva in mente niente di meno che ingoiarsi il suo servitore, ma ne fu impedito dallo schioppo allorché questo gli diede il colpo di grazia. La storia proseguiva attraverso foreste festonate di liane, chiazzate di leopardi, domicilio di scimmie. In un reame, o meglio un villaggio di negri era morta la sovrana. Di conseguenza il signor consorte si sbronzò: era un’usanza, già i bisavoli la praticavano. Ed ecco che il re cominciò a danzare, gli schiavi dovettero imitarlo, ed egli, per quanto malvolentieri quelli lasciassero che ciò accadesse, tagliò loro la testa. Un capotribù, in mancanza di un tovagliolo, si pulì le mani unte di cibo sulla splendida testa ricciuta di un suddito. Dopo che un aspide, che di notte si stava attorcigliando sulla zampa di un cammello, era stato reso inoffensivo, il nostro eroe poté reimbarcarsi per l’Europa, sostanzialmente purificata da nefandezze, e dove la madre, orgogliosa di un figlio tanto intraprendente, lo prese fra le braccia con un grido di gioia pregandolo per il futuro di rimanere a casa.

   UNO SCOLARO MODELLO.


  Uno dei miei compagni di scuola era, già da fanciullo, paurosamente rispettabile. Noi altri lo tenevamo in poco conto; la sua ubbidienza ci era antipatica. Inoltre non aveva quasi carne addosso, dalla magrezza sembrava trasparente; camminava come un bastoncino, tremendamente affettato e perbene. Agli scherzi non si prestava. Degli altri, ad esempio di Grùring, che incespicava sulla poesia «Firdusi», si poteva ridere. Quello invece non dava motivo nemmeno alla minima risatina, sicché era quasi come se non ci fosse, anche se la sua gracilità, per cui pareva aspirare all’eccelso, saltava agli occhi. I suoi genitori abitavano nel quartiere nuovo. Il padre era notaio; la madre lesinava talmente nel dar mostra di floridezza fisica da assomigliare al suo modello di figlio. Il ricordo di quanto quest’ultimo era posato mi fa star male. È lecito a noi uomini essere così privi d’interesse? Come ci facevano ridere gli scherzi di uno scolaro che passava per un monello, e a cui questa reputazione non ha impedito di diventare un brav’uomo. Oggi si comporta come se non avesse mai in animo qualcosa di turbolento. L’altro venne castigato per la sua impeccabilità. A Dio non importa molto che gli uomini siano irreprensibili.

  Quale divertimento ininterrotto ci procuravano i cosiddetti stupidi. Li ringraziavamo per questo? No; ma gli volevamo bene, li rispettavamo senza che facessero niente per impressionarci. Contavano qualcosa; mentre l’altro, nulla più che diligente, era sentito come un estraneo. Quanto è brutto essere così impeccabili. Tornando nella città che mi ha visto crescere dopo una prolungata assenza, ho saputo che lo ha colpito la sfortuna. La sua ascesa lo ha portato a cadere, e la buona opinione di cui godeva presso i suoi concittadini è caduta con lui. Forse che la freccia non può puntare anche sugli inappuntabili?


   

PRIME IMPRESSIONI TEATRALI.


Una delle prime rappresentazioni teatrali che ho veduto fu il Fiesko di Schiller. Il ruolo principale lo interpretava il direttore in persona e sfoggiava i più magnifici costumi. Le dame vestivano di velluto rosso e nero. Che volti incantevoli! Quanto ricche ci sembrano, in età più avanzata, le nostre prime impressioni. Arte e vita appaiono così interessanti alle teste giovani. Fiesko aveva dei graziosi baffetti arricciati e recitava con straordinaria fierezza. Trovai insuperabile il suo modo di parlare, mentre l’austero padre, che certo trattava sua figlia molto duramente, strappava il mio rispetto. più difettoso, di minore effetto mi parve un gruppo formato da gente del popolo. Il duca, tirato per il mantello, cadeva fragorosamente in acqua. Una tela spiegazzata rappresentava il mare. Basta poco per credere a uno scenario. Nel Franco cacciatore un cantante, nell’impeto dell’esecuzione, fece delle Gole del Lupo le Gale del Lupo. Che veste da camera variopinta portava nell’Otello il geloso moro! Jago avanzava ipocrita con le sue languide ciocche di capelli; gli davano l’aspetto di un pensatore davvero assai ottuso: un sempliciotto che si arrovella. L’innamorato Otello, durante l’atto della vendetta, diceva parole meravigliose al cui suono il letto sontuoso tremolava. Anche a una rappresentazione dell’Amleto partecipai ai tempi in cui non ardivo usare la favella in presenza di persone che in una certa misura m’interessavano. Veneravo l’attore «espressamente invitato» per interpretare Amleto già per via del suo nome altisonante, e avrei dato molto per poter credere che, durante la recita, egli si accorgesse di me. Il suo gesto era così bello, Ofelia così dolce. Il re parlava sussurrando, la madre di preferenza in tono ansioso. Laerte era alto, il volto come imporporato dall’amore per la giustizia. Pronunciare parole quali ad esempio: «La dolcezza delle dolcezze…» con quel che segue, non dev’essere per un’attrice quasi una felicità?

INSEGNANTE E FATTORINO.

Mai diventare un fattorino, questo no e poi no, e perché no? Perché il fattorino, davanti al precettore che una volta aveva cacciato di casa, deve inginocchiarsi. Quando era stato cacciato, l’insegnante glielo aveva garantito, e così anche avvenne.
Seguire la propria figlia portandole i pacchi! Dovessi fare qualcosa del genere morirei sul posto, anzi, alla semplice pretesa renderei l’anima a Dio.
I figli perduti sono del tutto concepibili. Ma un padre perduto perde la barba dalla vergogna. Lui la raccoglie, se la rimette sul mento e si asciuga gli occhi. Ho sopportato con dignità lo spettacolo di quel dramma lacrimoso, ho resistito paziente all’incredibile. Un’attrice singhiozzava; la commozione ha costretto un macchinista ad andarsene via. Come si dice nelle critiche, le parti erano in buone mani. L’elegante di un tempo ha superato tutti in ineleganza, si guardava attorno tremando per vedere se arrivasse l’uomo modesto di prima, che aveva ormai raggiunto un’eleganza senza pari.
Colui che un tempo aveva uno sguardo orgoglioso, gettava ora occhiate compassionevoli, e colui che prima faceva l’umile adesso faceva il padrone.
«Babbo, sei decaduto a giornaliero» disse la figlia. Il babbo rispose: «Figliola, per il cruccio mi è caduta la barba.» La commozione sulla scena e l’intenerimento nella sala combaciavano come le due metà di una mela.
Trovando tollerabile il padre che chiedeva perdono al precettore, sono stato costretto ad ammirarmi. Il mio contegno era da lord. Il direttore mi ha sussurrato: «Winkler ogni volta riesce a cavarsela.» Io ho annuito. In sala non si sentiva volare una mosca. Ah, è stata un’esperienza, ve l’assicuro! Mai ne ho avuta una più preziosa! Ora si applaudiva; gli attori ringraziarono e incamerarono la loro paga.


LO ZIO.


Una certa signora Taccalappio aveva due figlie in età da marito e inoltre si ricordava ancora di uno zio di cui avrebbe potuto approfittare. Il nostro zio si chiamava Citrullis, e si rallegrava della sua citrullaggine come del sole. Perché costui non si annoiasse, la signora Taccalappio gli mandò in casa una delle figlie, una casa circondata da un giardino pieno di uccelli da cui si levava per tutto il giorno un gran cinguettare. Zio grazia-di-Dio seppellì sotto un fottio di regali la nuova arrivata, così che poi in questa storia non volarono intorno se non oggetti regalo. In ogni foglio stampato veniva impacchettato qualcosa. Lo zietto ricevette, come prova dell’assenza di ogni volgarità, un bacetto di nipotina, che gli corse per le vene. Indi, per giunta, il diavolino gli si sedette in grembo, quel grembo che per il cospicuo numero di anni raggiunto quasi tremava dalla gioia di vivere, e gli occhi gli si fecero grossi come monete da cinque franchi per l’inatteso successino con l’uccelletto. Il seggiolino ziesco procuratosi piacque molto a Helma, ma ecco che si aprì all’improvviso la porta e s’introdusse una figura che si rivelò essere quella di un giovane praticante, cosa per cui fu posto termine all’esultanza dello zio. Lei sentì di essere fatta per qualcosa di meglio che l’essere citrullizzata, andò incontro al suo futuro marito e, tanto lo zio quanto gli uccelli fuori in giardino, convalidarono l’evento.

   

LO SCIMMIOTTO.


Con delicatezza, non priva però di una certa durezza, bisogna affrontare una storia che rende noto come un giorno a uno scimmiotto sia venuto in mente di andare in un caffè per starsene lì seduto a oziare. Sul capo per nulla inintelligente egli portava un cappello duro, potrebbe anche essere stato un cappello floscio, e sulle mani i guanti più eleganti che mai siano stati esposti in un negozio di moda maschile. L’abito era impeccabile. In un paio di balzi di particolare agilità, leggerissimi e in sé degni di nota, ma che però lo compromisero un tantino, lo scimmiotto si trovò nella sala da té in cui stormiva, simile a un mormorio di foglie, una musica invitante. Lo scimmiotto era in imbarazzo su dove si dovesse sedere, se discretamente in un angolo o con disinvoltura al centro. Optò per quest’ultima soluzione poiché gli apparve chiaro che alle scimmie, sempre che si comportino come si deve, è concesso mostrarsi in pubblico. Melanconico eppure anche contento, spregiudicato e al tempo stesso timido, si guardava intorno scoprendo parecchi graziosi visetti di fanciulle, con labbra come fatte di succo di ciliegie, e guancette modellate in pura panna montata o crema. Begli occhi e soavi melodie gareggiavano fra loro, e io vengo meno alla dignità e al piacere del narratore se comunico che lo scimmiotto, parlando nel suo accento nativo, chiese alla chellerina che lo serviva se poteva grattarsi il pelo. «Faccia pure come le aggrada» rispose gentilmente quest’ultima, e il nostro cavaliere – sempre che meriti quest’appellativo – fece del permesso un uso tanto esteso che le dame presenti in parte ridevano, in parte guardavano altrove per non essere costrette a vedere quanta libertà lui si prendeva. Allorché una di esse, visibilmente amabile, si sedette al suo tavolo, lui cominciò subito a intrattenerla nel modo più arguto; parlò del tempo, quindi di letteratura. «È un tipo insolito» pensò lei fra sé, mentre l’altro, come un monellaccio, lanciava i suoi guanti in aria e li riprendeva al volo con destrezza. Quando si mise a fumare, storceva la bocca in una smorfia incantevole. La sigaretta contrastava assai col colore forte del suo viso. Preziosa era il nome della fanciulla che, come una ballata o una romanza, faceva ora il suo ingresso nella sala in compagnia di una balena gioconda, sua zia, e d’orinnanzi fu la fine per la pace dello scimmiotto, che non aveva mai provato cosa fosse amore. Adesso lo provava. D’un colpo ogni balordaggine venne cancellata dalla sua testa. Con passo fermo si diresse verso la prescelta e la chiese in sposa, altrimenti avrebbe combinato cose da cui si sarebbe visto di che pasta era fatto. La giovane dama disse: «Accompagnaci a casa. Come marito è ben difficile che tu sia adatto. Ma se ti comporti bene, riceverai ogni giorno un buffetto sul naso. Sei raggiante! Questo te lo permetto. Dovrai aver cura che io non mi annoi mai.» Così parlando ella si alzò con tale sussiego che lo scimmiotto proruppe in una sonora risata, cosa per cui ricevette un ceffone. Giunti a casa l’ebrea, dopo che con un cenno della mano ebbe congedato la zia, si sedette su un lussuoso sofà dai piedi dorati, e sollecitò lo scimmiotto, che le stava davanti in posa pittoresca, a raccontarle chi fosse, al che quel concentrato di vanità scimmiesca attaccò: «Una volta sul Zurichberg ho scritto poesie, che qui presento stampate all’oggetto della mia ammirazione. Sebbene i di lei occhi cerchino di scaraventarmi a terra – cosa impossibile, poiché il di lei aspetto di continuo mi risolleva -, pure in passato io andavo sovente nel bosco dalle mie amiche, le cime degli abeti e, alzando su di esse lo sguardo mi stendevo nel muschio finché non ero stanco dall’eccitazione e malinconico dall’allegria….» «Poltrone!» interloquì Preziosa. L’amico di casa, come tale lui già osava considerarsi, proseguì dicendo: «Una volta lasciai insoluto un conto dal dentista, convinto che ciò nonostante nella vita mi sarebbe andata bene, e sedetti ai piedi di dame dell’alta società, le quali, nella loro benevolenza, mi concessero parecchio. Dopo di che posso informarla che in autunno raccoglievo mele, in primavera coglievo fiori, e di tanto in tanto vivevo là dove era cresciuto uno scrittore di nome Keller, di cui lei ben difficilmente avrà già sentito qualcosa, anche se certo ne avrebbe bisogno….» «Che sfacciataggine!» esclamò la gentildonna. «Avrei voglia per questo di renderla infelice mettendola alla porta, ma avrò pietà di lei. Ma se tu verrai meno alle regole della galanteria, avrai finito di respirare in mia presenza una volta per tutte, e potrai struggerti per me invano. Adesso continua.» Egli riprese e fece sapere: «Alle donne non diedi mai molto, per questo mi stimano. Anche in lei, signorina, noto considerazione per il più ingenuo dei sempliciotti che da sempre va dicendo scortesie alle signore perché si arrabbino con lui e poi si dimostrino di nuovo contente. Mi recai, in veste di ambasciatore, a Costantinopoli….» «Non dire fandonie, signor spaccone….» «…e un giorno, a una stazione di Berlino, scorsi una dama di corte, o, per meglio dire, la vide un tizio, io sedevo accanto a lui nello scompartimento ed egli mi comunicò la visione che io le sto scodellando, anche se soltanto in senso figurato, perché qui non c’è nessuna tavola per quanto io ne desideri una ben imbandita, essendomi venuto appetito dopo la prova che ho dato della mia arte oratoria.» «Va’ in cucina e metti i piatti in tavola. Nel frattempo voglio leggere i tuoi versi.» Fece quel che gli veniva ordinato, andò nella cucina, ma non gli riuscì di trovarla. Ci entrò senza che gli venisse fatto di vederla? Qui si è insinuato un errore di scrittura. Tornò da Preziosa, che si era addormentata sulle sue poesie e giaceva simile a un’immagine di una fiaba orientale. Una delle sue mani pendeva come fosse un grappolo d’uva. Avrebbe voluto riferirle come era andato in cucina senza prima averla trovata, e come in lui a lungo, a lungo, tutto si era fatto muto, ma una spinta imperiosa lo aveva ricondotto a colei che aveva piantato in asso. Stava in piedi davanti alla dormiente, s’inginocchiò davanti al santuario della bellezza e sfiorò quella mano, che gli appariva simile a un Gesù bambino, troppo bella per essere toccata, sia pure soltanto col suo respiro.
Mentre lui perseverava nel suo timore reverenziale, cosa di cui non lo si sarebbe detto capace, a lei si aprirono gli occhi. Voleva chiedergli molte cose, ma disse solo: «Tu non mi sembri una vera scimmia. Dimmi, sei monarchico?.» «E perché mai dovrei esserlo?.» «Perché sei così paziente, e hai parlato di dame di corte.» «Desidero soltanto essere beneducato.» «Sembra che tu lo sia.» Il giorno seguente volle sapere da lui come si diventa felici. Egli le diede la risposta più stupefacente. «Vieni, voglio dettarti una lettera» disse lei. Mentre lui scriveva, ella guardava sopra le sue spalle se vergasse tutto fedelmente. Perbacco, come scriveva lesto, e con quale concentrazione ascoltava ognuna delle sue sillabe. Noi li lasciamo alla corrispondenza.
In gabbia si pavoneggiava un cacatua. Preziosa pensava a qualcosa.

L’ANGELO.


Un angelo così fa bene se aspetta finché non gli si comunichi che si ha bisogno di lui. Ciò dura talvolta più a lungo di quanto egli presuma, ma anche lui deve appunto moderarsi, non può pensare di essere insostituibile. Non mi piacerebbe essere colui che ho fatto angelo. Io l’ho divinizzato perché non m’incontri più da nessuna parte, perché sia immutabile come un’immagine, e io possa guardarla sempre, secondo il mio bisogno e il mio piacere, traendo coraggio dalla sua vista. Mi fa quasi pena, l’angelo ha creduto ch’io fossi curioso, che gli sarei corso dietro, mentre in un certo senso, io l’ho in tasca o come un nastro attorno alla fronte. Io non vado più da lui, il suo valore mi circonda, tutt’intorno mi vedo illuminato dalla sua luce. Chi è stato capace di dare, ha saputo anche prendere. Occorre esercitare entrambe le cose. Egli è sorto dalla compassione, eppure può accadere che io, l’implorante, giochi con lui. Egli dubita, ha paura. Io ora credo ora non credo, ed egli deve sopportarlo, povero caro.

LETTERA A EDITH.


Nel caso tu mi prestassi ascolto ti farei sapere che durante il pasto di mezzogiorno, che constava di caffè e dolce, ho ucciso tre vespe. Il fatto mi addolora, ma quelle mi rendevano così nervoso coi loro corpi dall’aspetto maligno. Non si espone volentieri ciò che si ha caro a sfrontati avvicinamenti, per questo forse troverai perdonabile la mia condotta. Poi sono corso in campagna, e ho attraversato boschetti dove ho avuto con te una complicata conversazione. Non ti fai un’idea di quanto io trovi bello il tuo viso serio. Andando così come un cavallo, ti dicevo molte cose tenere. Forse sei per me la più cara perché con te non ho parlato, ti sono rimasto debitore di ogni parola.
Uno sciame di scolari con allegre faccine mi ha sorriso. Ho sentito un fanciullo dire a un altro più giovane: «Cattivo che non sei altro.» Avresti dovuto vedere l’effetto di questo complimento. Non ci rendono spesso più orgogliosi i rimproveri che la lode? Mangiare pane e formaggio in una locanda di campagna procura un piacere non minore che essere serviti di qualcosa di più raffinato in un ambiente elegante. Di fronte a una partita di calcio mi sono detto: «Prendi esempio da questo fervore.» Due torri mi sono emerse davanti a un tratto, su un fabbricato si poteva leggere: Impianto-Radio-Marconi.
Due persone che mi venivano incontro le ho prese per un infermiere e un’infermiera; sapevo infatti vicino un ospedale psichiatrico. Con un bastoncino oppure un ramoscello spiccavo le foglie autunnali che pendevano isolate e provocatorie. Ciò che salta all’occhio si espone facilmente a una nostra voglia di dargli una lezione, di lasciargli il cosiddetto ricordino. Certo non era uno svago granché delicato.
Una casa signorile ha destato in me il desiderio di abitarci. In camera ci sarebbe una biblioteca, là io me ne starei tutto il giorno a leggere e commetterei il torto di sprofondare nel godimento spirituale fino a dimenticare la realtà. Per un bel pezzo mi beavo al pensiero che a suo tempo, nel Texas, dei negri venivano attaccati alle carrozze su cui sedevano delle signore agitando la frusta. Devi sapere che anni fa mi fermavo ogni tanto davanti alla vetrina di una libreria berlinese, nel quartiere animato da caffè e teatri, e dedicavo il mio interesse a volumi che portavano titoli come Costumi della Louisiana. In negozio sedeva una donna imponente e, detto senza pregiudizio, al tempo stesso un po’ sfatta dagli anni. Poco lontano c’era un ristorante frequentato soprattutto da svizzeri.
Uno dei locali si chiamava «La stalla delle mucche.» Vi sonava un’orchestrina femminile la cui direttrice mi disse che era originaria di Biel, al che le dissi a mia volta che la cosa mi toccava simpaticamente, io pure ero cresciuto là.
Da Aschinger c’era insalata di patate con wurstel, oppure, per desideri più raffinati, piccioni arrostiti. Questi ultimi mi procurano ancora una gioia retrospettiva. I prodotti dell’arte culinaria possono restarci cari come il ricordo di un bel libro. Proprio da quelle parti c’era un cimitero con tombe che risalivano al tempo dei romantici. Il traffico metropolitano vi rintronava davanti senza pietà, ma spesso sono i contrasti, non le consonanze, a imporsi alla nostra attenzione.
A sera sono giunto in una città e sono andato di osteria in osteria; in una di queste sedeva solo una ragazza che scriveva chissà cosa. Nella «Taverna spagnola» mi sono lasciato versare vino catalano, mettere in tavola del salame e propinare musica di contorno. C’era un pianino elettrico, che mi dava sommamente sui nervi. L’ostessa ha rifiutato il vino che le ho offerto; aveva occhi carini e mi ha onorato di qualche civetteria. Il marito ha cominciato a puntare l’attenzione su di me. Sul tavolo ovale c’erano delle riviste. Il salame era squisito. Ho lasciato il locale con nessun altro proposito che fare un rapido giro attorno alla casa. La delicatezza delle mie intenzioni non è stata capita. L’oste mi ha seguito di soppiatto e mi ha costretto alla resa dei conti, al che l’ho placato esibendogli un biglietto da cinquanta. Un portafogli ristabilisce i rapporti e fa cambiare le opinioni. Ciò che è caduto in pezzi, il denaro lo rincolla con incredibile rapidità.
Nell’osteria successiva si parlava“ di politica, immediatamente ho dato il mio contributo. La chellerina mi ha detto che le avrebbe fatto piacere se avessi tenuto conto il meno possibile del discorso e, meglio ancora, se magari me ne fossi andato via presto. Il desiderio venne soddisfatto.
Ho barcollato fino a una pasticceria e vacillando ho persino bevuto ancora del cognac. Due musicisti, con mio piacere, sonavano Grieg, ma il proprietario mi ha dichiarato guerra; mi ha invitato a uscire in un corridoietto. Qui mi ha messo in chiaro che lo avrei fatto felice se mi fossi“ reso conto di svariate cose. Il diverbio si è mutato in un modello di reciproca delicatezza. La situazione aveva tutta la mia comprensione, ho detto nella parlata di quelli che perdono temporaneamente la scioltezza della lingua. Sulla strada che, rivedendola, mi ha rallegrato come se avessi ritrovato un’amica, mi sono buttato da un marciapiede all’altro e la gente di buon cuore pietosamente ne inorridiva. «Non potremmo offrirle un letto? La preghiamo calorosamente, si affidi a noi.» Come replica, dalla mia bocca è venuto fuori: «La loro bontà m’inebria, ma il buon Dio mi verrà in aiuto.» «Ha ragione, però….» «Nessun però» ho detto io tagliando corto con voce suadente, e me ne sono andato, ho trovato abbastanza bene la strada, ho estratto dalla tasca una monetina da venti centesimi, una specie di piccolo amaretto, e l’ho mangiata.