mercoledì 22 dicembre 2021

CRY MACHO N. Richard Nash



CRY MACHO

N. Richard Nash

Da questo libro datato 1975 è stato tratto un film con la regia di Clint Eastwood, che veste i panni anche del protagonista Milo.

“Gli farò un’offerta che non potrà rifiutare”. No, non è una scena con la famosa battuta da Il Padrino, ma uno dei momenti chiave del romanzo Cry Macho scritto da Richard Nash. È una battuta del  dialogo tra Howard Polk e Mike Milo dove il primo propone al secondo di prelevare, o ancora meglio rapire, il proprio figlio che vive in Messico sotto tutela della madre. Milo è un vecchio, ex-star del rodeo, costretto ancora ad esibirsi in show sempre più pesanti per il suo fisico,  che discute con il suo prepotente ex boss. Milo si dovrà attivare, prelevando in Messico quel ragazzino poco amato dai genitori. Il rapporto burrascoso tra Milo e il ragazzino si svilupperà tra incognite caratteriali, inseguimenti, infine una curiosa empatia perché i due scoprono di avere qualcosa di molto profondo in comune.

CRY MACHO


 Il canyon non era ancora in vista quando Mike udì il primo sparo. Una volta qualcuno gli aveva detto –Howard, forse? –che quando la polizia messicana spara, il primo colpo è di avvertimento, il secondo ad altezza uomo. Ma questa non era la polizia di Città del Messico, questi erano agenti statali e il primo colpo non era di avvertimento, nemmeno un po’. Il proiettile fracassò il lunotto posteriore del furgone e trapassò lo schienale del sedile di destra. Se ci fosse stato seduto Rafo, sarebbe morto. Ma non sparavano al ragazzo, era Mike che volevano. Tuttavia, avevano accuse anche contro Rafo e dato che era la loro ultima possibilità di catturarlo…Alzò leggermente il piede dall’acceleratore e poi schiacciò a tavoletta, mandando su di giri il motore. Per il momento manteneva il distacco dall’autopattuglia, ma non bastava. Se fosse arrivato al canyon, avrebbe dovuto rallentare e avrebbe perso troppo del vantaggio che aveva. Un’altra pallottola. Quasi come la prima: vetro, schienale del sedile. Mirata a Rafo. Ha soltanto undici anni, bastardi che non siete altro, smettetela di sparare al ragazzino! Il ragazzino che non c’era. Che piega imprevedibile aveva preso, quella storia. Da quando aveva conosciuto Rafo, era andato tutto storto. Due colpi, quasi simultanei. Più vicini a Mike, stavolta. Quindi non era il ragazzo che volevano. Prendete il gringo. Inchiodatelo prima che arrivi al confine, spiaccicatelo nel canyon. Il canyon poteva anche non esserci. Magari ricordava male: la strada messicana non gli era familiare. Conosceva l’arroyo solo dal lato del Texas; il terreno da questa parte sembrava diverso. La differenza principale, lo sapeva, stava in lui: in Messico sentiva di poter essere preso in trappola facilmente. Mentre in Texas altrettanto facilmente poteva far perdere le sue tracce... se lo avesse voluto. Uno sparo. Un altro. Sempre più vicini. Se solo avesse potuto essere sicuro che il ragazzino stava bene. Non c’era alcuna certezza, soprattutto se Mike stesso non ce l’avesse fatta. Qualunque cosa fosse successa a Rafo, lui non l’avrebbe mai saputo. Non avrebbe mai saputo se il ragazzo se l’era cavata, quale strada aveva preso, quale casa aveva scelto alla fine. Città del Messico o Janasco? Vai da Marta, si ritrovò a dire, come se Rafo fosse accanto a lui; vai nella dolce cittadina di Janasco…era la fine dell’arcobaleno, il paradiso. Se era il paradiso, perché Mike non l’aveva scelta? Il paradiso, ricordò mentre gli spari si facevano sempre più vicini, era il posto dove andavi dopo la morte, la dimora riservata ai defunti. E lui non aveva ancora i requisiti

Tre mesi prima…  

Il braccio gli faceva un male d’inferno e il telefono non la smetteva di suonare. Che chiamino pure, quegli impazienti figli di puttana, lui non sarebbe servito a nessuno finché non si fosse liberato del dolore. Immerse la compressa nella bacinella di acqua calda, la strizzò e la applicò al braccio. L’acqua si stava raffreddando e rifletté se gettarla via e ricominciare oppure se mettersi un linimento. Niente linimento, decise: avrebbero sentito l’odore e fatto domande. I primi tempi, avrebbe potuto farci il bagno, in quella roba, e nessuno ci avrebbe fatto caso. Ma adesso al minimo sentore si sarebbero mostrati tutti comprensivi e premurosi. Salvo poi scambiarsi sguardi irrisori alle sue spalle e scommettere sul giorno non lontano in cui un cavallo selvaggio gli avrebbe spezzato il collo. Il telefono smise di suonare e ad alimentare la rabbia rimase solo il dolore. Si chiese se prendere una pillola. No, troppo rischioso. Lo avrebbe rallentato tutto il pomeriggio o, peggio ancora, gli avrebbe fatto perdere il ritmo di qualche cavallo selvaggio. Non voleva trovarsi col culo per terra dopo qualche metro sull’arena. E poi, le pillole non servivano a niente. Ne aveva presa una la notte prima e poi anche una seconda, alla faccia degli ordini del dottore, ma al dolore si erano uniti gli incubi. Un altro medico, ecco quello che gli serviva. Uno che gli facesse una bella iniezione et voilà, niente più male. Gomito del tennista…che etichetta ridicola da affibbiare a un dolore come quello. Mike la odiava. Era troppo ricercata, troppo fasulla per un uomo come lui. Di certo non rendeva l’idea di quella tortura assassina, dalla spalla alla punta delle dita in ogni muscolo, nervo, osso. Sì, avrebbe dovuto consultare un altro medico, ma temeva che quest’altro l’avrebbe chiamata esattamente come Mike sospettava: artrite. E lui non ce l’avrebbe fatta a sentire quella parola. Significava mezza età, e non esisteva qualcosa come una stella del rodeo di mezza età. Le fitte stavano peggiorando, adesso erano spasmi lancinanti che gli artigliavano tutto il braccio come pugnalate, paralizzandolo. Aprì la scatoletta e fissò le pilloline gialle triangolari…poi la richiuse senza prendere niente. Quella cosa della notte scorsa, quell’orribile cosa senza nome. Sapeva che erano state le pillole perché era andata avanti finché non era svanito l’effetto. Due ore dopo essere andato a letto si era alzato e si era messo a vagare nel buio. Stranamente, non voleva accendere la luce. Mancava qualcosa, non sapeva cosa, qualcosa che aveva il sospetto di aver perso. All’inizio si era messo a frugare nell’oscurità, come se la luce fosse un dettaglio ininfluente quando stai cercando qualcosa. Poi aveva acceso le luci, ogni singola luce accecante dell’appartamento, e aveva frugato ovunque; meno era sicuro di quello per cui rovistava in giro, più era deciso a trovarlo. Alla fine, dopo aver cercato sistematicamente, armadio dopo armadio e cassetto dopo cassetto, chiedendosi chi lo aveva derubato di cosa, e come avrebbe potuto ritrovarlo, si era reso conto di essere stanco morto. Faceva giorno ormai quando la smania si era placata, e lui sapeva di essersi comportato in modo bizzarro. Era tornato a letto ma non era riuscito a dormire per via del dolore. Il telefono aveva ricominciato a suonare. Sbraitò contro quell’arnese assordante. Chiudi il becco! Quando mai ho mancato uno spettacolo? Ci sarò e monterò qualunque sgroppatore cazzuto abbiate in serbo e il pubblico si spolmonerà a urlare Milo, Mike Milo! Basta…sto arrivando! In quale altro posto avrebbe potuto passare il pomeriggio? Di sicuro non lì, nell’appartamento; quel posto lo deprimeva. L’arredamento era tutto sbagliato, quando l’aveva scelto viveva in un incubo, era ridotto uno zombie. Da maschio in calore lo aveva definito Donna quando era passata a trovarlo, appena finito. Da quel momento in poi aveva provato solo imbarazzo per le corna di manzo appese alla parete del salotto, per i reggilibri a forma di ferro di cavallo, per i poster di rodeo, per i trofei nella vetrinetta. Eppure non aveva toccato niente: era una specie di espiazione per un periodo della sua vita che non aveva ancora scontato del tutto. La cosa che detestava di più era che non ci fosse un angolo tranquillo per leggere. Non che fosse più un lettore avido; quei giorni erano finiti…era un’incongruenza ridicola, il cowboy col naso nei libri, come portare occhiali con la montatura di corno mentre domavi un cavallo selvaggio. Ma certe volte provava un’irrequietezza, una sensazione di vuoto…e quel posto non lo lasciava leggere. Non c’entrava nien- te il fatto di non avere la poltrona giusta o la luce giusta, né che gli scaffali fossero troppo in alto. Era qualcosa di ostile nella stanza, qualcosa che gli impediva di sedersi a pensare…o semplicemente a ricordare. L’appartamento gli consentiva a malapena un singolo pensiero: incubo o no, cosa lo aveva spinto ad arredare casa sua in quel modo? Che uomo era quando lo aveva fatto? Adesso il dolore si era spostato nell’avambraccio; tutta la sofferenza si era concentrata lì. Se lo massaggiò con la mano sinistra, premendo un po’, ma senza ricavarne alcun sollievo, così chiuse il pugno e lo picchiò sul muscolo ripetutamente, tirando cazzotti con violenza. Doveva prendere la pillola? L’indecisione lo dilaniava: era sul punto di prenderla, poi rinunciò di nuovo. Infine scagliò la scatola dall’altra parte della stanza e riprese a sferrare pugni al braccio. La vaschetta cadde rovesciando l’acqua. Aveva il respiro troppo accelerato per riuscire a stargli dietro. Il telefono continuava a suonare e lui continuava a farsi male al braccio perché smettesse di fargli male e non sapeva se avrebbe retto le due sofferenze sommate. Poi il telefono si azzittì. La stanza piombò nel silenzio. Adesso non riusciva a sopportare né un dolore né l’altro. A malapena poteva tollerare il silenzio.   Se guidava con la sinistra tenendo il braccio destro abbandonato lungo il corpo non sentiva quasi male. C’era una seccatura peggiore: il rumore dell’auto. Era un’auto da competizione, una Porsche decappottabile. Quando era nuova ne aveva apprezzato il ruggito sfacciato, ma ultimamente il rombo si era trasformato in un frastuono. Be’, aveva le sue ragioni: aveva quasi sei anni e a Mike pareva che un’auto da corsa vecchia fosse una contraddizione in termini. Mentre svoltava in Galveston Street e si immetteva nel traffico più sostenuto in direzione dello stadio, lo vide. Howard Polk, anche lui su una decappottabile, nuova, una grossa Mercedes personalizzata, con design e colore speciali. Era stranamente brunita, grigio rame, come una pallottola vergine. Anche se Mike sospettava che non volesse intonarsi a un proiettile ma al colore dei capelli del proprietario, quel bastardo vanitoso. Vedere Polk era allarmante. Non veniva mai alle matinée della domenica, era un animale notturno. Si sarebbe tenuto alla larga anche dagli spettacoli serali, si rese conto Mike, non fosse stato che era il proprietario; era un americano dell’Est fin nel midollo ed era caustico verso i cowboy, il rodeo e il Texas. La presenza di Polk quel giorno significava guai. Qualcuno doveva averlo chiamato –il responsabile delle gabbie, forse, o Andy, l’usciere –e avergli detto che Mike non si era fatto vedere. Il proprietario doveva essere furente e pronto a dare battaglia. Un giorno o l’altro, pensò Mike, lo farò incazzare al punto da spingerlo a colpirmi e allora…Mike strinse il pugno del braccio malato, che gli diede una fitta di piacere maligno. L’auto di Howard zigzagava nel traffico, lasciandolo indietro. Ovviamente non aveva idea che Mike fosse dietro di lui; non guardava nello specchietto retrovisore…che fossero gli altri a guardare lui. Un attimo dopo la macchina di Howard svoltò nella viuzza dello stadio mentre Mike rimaneva bloccato dal semaforo appena fuori dall’arena. La gente arrivava a frotte dal parcheggio. La domenica sembravano sempre più felici, e più chiassosi. Anche gli ambulanti erano più rumorosi –programmi, palloncini, hot dog –e quasi sovrastavano la musica folk-rock-country registrata e gli altoparlanti che annunciavano l’imminente inizio dello show. Il gigantesco striscione –Polk’s Cow Stadium, di luccicante raso psichedelico –schioccava al vento. Costringeva a rivolgere lo sguardo dal parcheggio alle due arcate d’ingresso in mezzo alle quali era appeso un poster gigantesco con la foto di Mike, un ritratto a figura intera su uno stallone rampante, con il cappello sollevato in aria e il ghigno di plastica del cowboy tonto. Si era allenato a non farci caso, mai. La foto era stata scattata prima che arrivasse lì, l’ultimo anno di gare. Era stato un anno terribile: aveva vinto poco denaro e nessun premio. Si era infortunato due volte: una gamba rotta,poi una rotula fratturata. Ogni cavallo stava iniziando ad avere le sembianze della catastrofe, il tragitto in auto fra un’arena e l’altra sembrava sempre più lungo, ogni stanza di motel significava meno sonno della precedente, e più bourbon. Poi aveva sentito parlare dei Macmillan Brothers. Erano proprietari di uno stadio troppo grande in una città troppo piccola. I centri maggiori attiravano i rodei più importanti e qualunque attrazione che i Macmillan riuscivano ad assicurarsi era troppo saltuaria per la creazione di un pubblico stabile. L’arena stava morendo. Carly, il fratello maggiore, aveva avuto l’idea di istituire una compagnia di rodeo permanente. Anche se era già stato tentato altrove senza chissà quale successo, Carly era convinto di poterla far funzionare. Diciotto mesi dopo che Mike era entrato a far parte del rodeo permanente come salariato, la società era fallita e lo stadio era finito nelle mani dei creditori. I creditori erano Polk. Per Howard Polk, il damerino che aveva studiato all’Ivy League e che si faceva fare gli abiti a New York, assumer- si la gestione di un rodeo era peggio che arroganza; era stupidità bella e buona. Lo dicevano tutti. Non conosceva neanche le parole. Diceva cavallo anziché bronco, maneggio anziché arena e chiamava paddock i recinti del bestiame. Eppure nel giro di due anni la compagnia stabile si esibiva non solo nei fine settimana ma tutte le sere tranne il lunedì. Il fatto che Howard fosse riuscito a far funzionare il rodeo avrebbe dovuto suscitare l’apprezzamento degli uomini, che invece lo odiavano. Solo Clyde, il suo vice nonché leccapiedi, lo difendeva. «Grazie a Polk abbiamo avuto più cavalli e meno palate di letame». Eccoli serviti. Howard levava di mezzo le bugie che i cowboy si raccontavano, faceva piazza pulita del castello di illusioni. Loro volevano vedersi come eroici cowboy che gareggiavano nelle competizioni importanti, concorrenti del National Finals. Ma Howard li scherniva: se avessero davvero voluto il massimo livello, avrebbero lavorato nel circuito competitivo; dato che erano ancora lì, con lo stipendio assicurato, non avevano il talento o il fegato per la competizione vera. No, non erano cowboy eroici –ci teneva a precisare Howard, caustico –erano attori. Gli uomini si sentivano nudi. Trasformare un rodeo texano in un teatro di Broadway era come portargli via gli stivali con gli speroni e dargli in cambio scarpette da ballo. Era iniziato con le firme. Neanche un mese dopo aver rilevato lo stadio, Polk aveva annunciato che non sarebbero più stati tollerati ritardi. I cowboy dovevano firmare un registro presenze a un orario preciso. Come le comparse di un musical. Gli uomini si erano arrabbiati e avevano imprecato, sputando tabacco alle sue spalle. E avevano obbedito. Mike Milo non aveva mosso neppure mezza obiezione; semplicemente, non aveva mai firmato la presenza. Lo stupiva che Howard non gliene avesse chiesto conto, ma sapeva che prima o poi si sarebbe preso la rivincita. Era arrivata sotto forma di una riduzione dello stipen- dio. Era toccata a tutti, un taglio del venticinque per cento, prendere o lasciare. Nessuno aveva lasciato. Mike si era seccato, ma l’idea di tornare alle competizioni era ancora meno allettante; quindi era rimasto anche lui. Era convinto che Howard lo volesse fuori dai piedi; per il boss Mike era un cavallo bizzoso, mal domato. Ma nessuno dei due aveva alterato l’equilibrio: Howard non l’aveva licenziato e Mike aveva accettato la decurtazione. E tutti e due l’avevano preso come un segno della debolezza dell’altro. Per Mike, Howard era un enigma. Certe volte gli pareva un dilettante che affrontava il rodeo come se fosse un gioco di società. Certe altre aveva la sensazione che fosse un uomo determinato e pericoloso, ossessionato dall’avere successo quando tutte le probabilità gli erano contro, che si aggrappava disperatamente alla speranza di fare soldi in fretta. Probabilmente era questa l’interpretazione più vicina al vero; erano girate voci di una moglie divorziata che lo aveva alleggerito di un considerevole patrimonio. Una donna vendicativa e violenta, che stava da qualche parte in Messico. La parte peggiore della perplessità di Mike stava nel fatto che non sapeva quali fossero i suoi veri sentimenti nei confronti del capo. Non appena iniziava a rispettarlo –per la sua immaginazione, le sue capacità –si ritrovava disgustato da lui. Non si fidava neanche della sincerità di Howard, perché quell’uomo usava la franchezza per sminuire le persone; la sua onestà era un vizio. Uno dei primissimi battibecchi era stato sul nulla, su una parola. Howard era uomo di parole, arrogante riguardo alla propria scioltezza con la lingua, orgoglioso della propria eloquenza. Ma nemmeno imparare i termini nuovi pareva offrirgli il minimo barlume sul reale linguaggio dei cowboy. Interveniva in una conversazione –parlavano di una cosa semplice, il peso di un lazo –e gli uomini lo guardavano con aria assente come se parlasse un’altra lingua. Sapeva che esisteva un segreto riguardo al gergo dei cowboy, ma ne era escluso in maniera umiliante. Mike avrebbe potuto svelarglielo. Il segreto consisteva di un’unica parola. Poteva essere detta o sottintesa, ma era sempre presente: cazzo. Anche se i cowboy non stavano parlando di donne, anche se non ci stavano nemmeno pensando, quella era la parola d’accesso al loro circolo. Un pessimo cavallo era uno scopapecore, un buon cavallo era dolce come un pompino anche se era una giumenta; una bottiglia di whisky non dava alla testa di un uomo né gli scendeva nello stomaco, andava dritta all’uccello; e per il doposbronza una tazza di caffè nero era uno strizzapalle. Dietro quella parola c’era un patto tacito: il riconoscimento reciproco della loro prodezza. Un riconoscimento che non accordavano a Howard. Senza quello, non aveva alcun apriti sesamo al loro gergo. Irritato perché lo escludevano dal loro linguaggio segreto, Howard ne aveva inventato uno suo. Aveva coniato un vocabolario di soprannomi. Affibbiava agli uomini etichette che non capivano e li costringeva a rispondere ai loro nomignoli, indipendentemente da quanto fossero paternalistici o offensivi. Clyde, per esempio, lo chiamava Merico, contrazione di emerito coglione. Il vecchio Andy, che si muoveva troppo lentamente per i gusti di Howard ed era l’essenza della decrepitezza, lo chiamava Deky. Ed era felice come una pasqua, tanto quanto Mike era scocciato, che gli uomini, perfino quando erano venuti a sapere il significato dei loro nomignoli, avevano cominciato a usarli anche fra di loro. Un giorno Mike si prese la sua rivincita. Howard lo trattava come un analfabeta, come faceva con gli altri. Fino a quel momento non aveva ancora scovato un soprannome per lui e Mike sapeva che sarebbe stato insopportabile. Quando Howard alla fine ci arrivò, Mike era pronto. C’era stato un incidente nel campo. Due tori nell’arena anziché uno, entrambi diretti verso un solo buttero, un ragazzo tonto di nome Grundy. I clown e i pickup men, i cowboy che si occupavano di far uscire dal campo i cavalli e i tori selvaggi, erano in difficoltà. Mike aveva aperto il cancello della sua gabbia ed era sfrecciato in mezzo ai tori in groppa a un bronco, unendo due numeri in un unico show. Che lo stallone fosse riuscito a passare indenne fra i due tori era stata pura fortuna, la strategia non c’entrava niente, ma il pubblico lo aveva scambiato per un numero ben congegnato. Quando Mike era tornato sotto gli spalti, Howard aveva detto: «Finalmente ho trovato un nome per te, Milo. Penso che ti chiamerò Jenny, sta per ingenuo». Poi, certo che Mike non conoscesse il significato di ingenuo, aggiunse: «Sai, vuol dire intelligente». «Forse ti sei confuso con Gene per ingegnoso, vero?» Howard arrossì. Che probabilità c’era di fare quell’errore? Eppure l’aveva commesso. Poi sorrise. I suoi occhi non erano fatti per sorridere, erano come pericolo congelato, e Mike rimpianse di avergli negato quella piccola soddisfazione. Howard lo avrebbe licenziato. Però non lo aveva fatto perché quel pomeriggio Mike se n’era uscito con la Doma selvaggia. Ecco com’era stata inserita nel programma: la Doma selvaggia, un evento speciale. Il rodeo non riusciva a sfondare, non abbastanza almeno. Serviva un numero galvanizzante, qualcosa capace di tenere con il fiato sospeso. Mike si era chiesto –ad alta voce, davanti a Howard –cosa sarebbe successo se un cowboy avesse montato un cavallo selvaggio con un obiettivo preciso. Fino a quel momento avevano usato le regole delle competizioni: montare a pelo per otto secondi e con la sella per dieci. E se invece avessero preso un buon cavallo, non troppo selvaggio, ovviamente –una mammoletta, in realtà –e l’avessero montato finché il cavaliere non fosse stato gettato a terra o l’animale si fosse calmato? La Doma selvaggia aveva avuto successo immediato. Era una novità, era finita sui giornali, attirava folle di spettatori. L’evento speciale chiudeva lo show e la gente usciva vociando entusiasta. Mike era tornato a essere una stella. Ultimamente, però, per movimentare la parte iniziale dello spettacolo, Howard aveva introdotto un’altra Doma selvaggia, subito dopo la Grand Entry. E più di recente ancora, per renderla più eccitante, Polk aveva cominciato a comprare cavalli nuovi da far montare a Mike. E nessuno di loro era una mammoletta.   Distratto dai suoi pensieri, non si accorse che il semaforo era diventato verde. Un camion strombazzò alle sue spalle. Lui pestò il piede sull’acceleratore, per poco non andò a sbattere contro la macchina davanti, la aggirò e svoltò nel vicolo dello stadio. L’auto di Howard era parcheggiata a metà della stradina, davanti all’ingresso della selleria. Mike si fermò dietro la Mercedes e mentre attraversava vide Howard dall’altra parte della finestra che discuteva con Andy. Non era una vera e propria lite, più una passata di frusta, come la chiamavano i ragazzi, e il vecchio aveva la faccia accartocciata in una smorfia. A Mike non piaceva passare per la clubhouse; detestava l’odore di Andy, il tanfo rancido del tabacco masticato e la puzza di vecchiaia. Lo infastidiva la visione patetica della grandeur tremebonda del vecchio, il modo in cui spadroneggiava con il registro presenze, la rastrelliera con le chiavi, le caselle della posta. In quel momento della grandeur non c’era traccia: Andy, rampognato, aveva un’aria spaurita. Mike aprì la porta ed entrò. Non si affrettò, non diede segno di essersi accorto della presenza di Howard. Passò accanto al suo datore di lavoro, girò attorno all’estremità del bancone, allungò la mano per prendere le chiavi, le ultime rimaste, tirò fuori la posta dalla casella. C’erano alcune lettere. Rimase lì in silenzio, come se fosse solo, sfogliando la corrispondenza. Pubblicità, una circolare, qualche cartolina che girò per leggere, dopodiché finì tutto nel cestino accanto all’arco. Alla fine, con tutta la calma del mondo, si prese la briga di notare il custode. «Ciao, Andy». «Sei in ritardo», disse Howard. «In ritardo per cosa?», chiese senza scomporsi. Howard indicò l’altoparlante da cui usciva a tutto volume la musica della Grand Entry: The Eyes of Texas suonata a ritmo di marcia. «La Grand Entry è quasi finita», disse Howard tranquillamente. «E tu non ci sei». «Mai stato». «In questa compagnia, devono esserci tutti». Mike fece per ribattere ma Howard lo precedette: «Lasciamo stare». La retromarcia colse Mike di sorpresa. Polk era chiaramente lì per metterlo sulla graticola. Perché aveva rinunciato? Indicò il registro delle presenze. «Firma», disse. «Non lo faccio mai». «Ah, no?», chiese Howard simulando stupore. Il figlio di puttana, pensò Mike, finge di non esserne al corrente; lascia che a occuparsi di queste faccende siano il suo manager e il portiere. Howard non mollava l’osso. «È vero, Andy?» Aveva l’aria scioccata. «Consenti ai membri della compagnia di entrare senza firmare?» La bocca del vecchio tremolò e un rivolo di succo di tabacco gli colò sul mento. «Mr Polk», disse in tono implorante e non riuscì a finire la frase. Spostò lo sguardo da Howard a Milo, inespressivo e immobile. Poi spinse il registro di qualche centimetro in direzione di Mike, prese la penna e gliela porse. Gli tremava la mano. Mike pensò: Howard non avrebbe potuto escogitare messinscena migliore. Dannazione, vecchio, smettila di tremare. Andy disse: «Per favore, Mike». La voce gli tremava quantovent’anni fa…l’ho vinta tre anni fa. Tre anni, stronzetto! La vedi? La vedi?» «Sì!» Tremando. «Sì!» «Leccala!» «Dio santo…» «Leccala, bastardo!» Gli altri non si mossero, ma il ritmo del loro respiro cambiò impercettibilmente. Videro il terrore di Frank, poi la testa che si abbassava. Qualcuno ridacchiò. «Avanti, Frankie…leccalo!» Fu quello a salvare il ragazzo. Come lo sentì Frank, lo udì anche Mike. E lo fece rinsavire di colpo. «No…non farlo!», disse. Voltò le spalle all’umiliazione come se non tollerasse di averci a che fare. Borbottò qualcosa che sarebbe potuto essere il rumore di un conato, poi disse qualcosa con in mezzo le parole mi dispiace. Frank si allontanò, passò dietro le file di equipaggiamento e sparì. Anche gli altri se ne andarono alla spicciolata, senza una parola, chi in una direzione chi nell’altra. Mike chiuse la porta dell’armadietto e girò la chiave nella serratura. Aveva la mano malferma ed ebbe difficoltà a estrarre la chiave. Angelo, un tuttofare dell’arena, un adolescente con la faccia allegra, arrivò di corsa. «Tailkite è malato, Mike. Monti Tabasco». Il ragazzo rimase perplesso dalla sua mancanza di reazioni. «Tabasco, Mike», ripeté. «Tabasco?» Iniziava ad afferrare. Non gli era mai piaciuto montare Tabasco: con quel cavallo si sentiva sempre insicuro e, doveva ammetterlo, un po’apprensivo. Fece per prendere il borsone da terra ma Angelo lo precedette. «Dobbiamo sbrigarci, Mike». Il ragazzo uscì di gran carriera nel prato. Milo fletté e distese il braccio destro. Doveva scaldare i muscoli o rischiava di perdere la presa durante l’esibizione. Poi si gettò su una spalla i sovrapantaloni in pelle e uscì dietro Angelo. Il ragazzo era molto più avanti di lui, aveva già oltrepassato la piattaforma sotto gli spalti e si affrettava verso uno dei vialetti. Mike lo seguì alla stradina che correva lungo i recinti, con le gabbie dei tori a sinistra e quelle dei cavalli a destra. Mentre imboccava il lungo corridoio vide diversi cowboy che si riscaldavano. Uno provava un nuovo lazo, un altro faceva schioccare una frusta, un terzo, appena arrivato dal campo, si stava togliendo una camicia sudata e stracciata. Molti si limitavano a vagare senza meta. Una parata di su e giù. Nervosa. Mani che toccavano senza un vero motivo la cintura dei pantaloni, la cerniera, la fascia del cappello. Puntatine al bagno degli uomini: la paura non fa bene ai reni. Sudore, polvere, sterco, terrore. Mike arrivò in fondo al vialetto e guardò nell’arena. C’era un bronco sauro montato da un giovane cowboy, uno di quelli bravi: era stato licenziato due volte per ubriachezza e supplicato due volte di tornare. Quel giorno montava particolarmente bene, pensò Mike, quasi anticipando le sgroppate e le impennate dell’animale, accompagnandone il movimento. Però sembrava troppo facile; gli spettatori non sapevano quanto fosse bravo ed erano avari di acclamazioni. Mike prese il vialetto dove Angelo lo aspettava con il borsone dell’equipaggiamento. Vedeva il cavallo nella gabbia. Tabasco. Uno stallone sauro, turbolento, bizzoso, con lo sguardo selvaggio. Un animale splendido, troppo grosso per la monta a pelo e troppo piccolo per la sella, era più veloce e più energico di tutti gli altri; era anche più intelligente, probabilmente troppo per un cavallo da rodeo. Mike si era ripromesso di farlo scendere a patti con la Doma selvaggia, ma finora non c’erano segni di progresso. Con lui era sempre più teso del solito e si sentiva strano, come se la muscolatura di Tabasco fosse diversa da quella degli altri stalloni. Gli diede una pacca sul fianco. «Ciao, bestione». Dopodiché iniziò a prepararsi. Lavorava perlopiù in silenzio, borbottando una parola smozzicata quando i cenni non bastavano, muovendosi con rapidità ed efficienza, fiero della propria eleganza. Prese la bardatura da Angelo –un pezzo di cuoio duro, incurvato, con una maniglia –e la cosparse di pece greca in polvere. Quando il ragazzo gli porse il guanto di camoscio, lui se lo legò al polso con un laccio che strinse usando i denti. I pantaloni si erano allentati dentro gli stivali così li sistemò meglio e, sempre usando dei lacci, legò la cima delle calzature. Mise un piede sul bordo della piattaforma e fece scorrere lo sperone sul legno. Tutto a posto. Fece lo stesso con l’altro. Poi si tolse i sovrapantaloni dalla spalla, li ripulì da alcuni fili di paglia, legò sul davanti le mezze brache e le girò sistemandole dietro. Si materializzò dal nulla il responsabile delle gabbie, Barrows. Era un uomo basso e tozzo che arrivava a malapena al muso di Tabasco. Mentre Mike bardava l’animale, Barrows iniziò ad attaccare il sottopancia sul fianco. Non appena lo stallone percepì la vicinanza della striscia di cuoio, sbuffò e fece per impennarsi. Mike gli diede una pacca decisa per distrarlo e Angelo lo afferrò per la criniera. Il sottopancia andò al suo posto. Mike saltò sulla gabbia. Sopra Tabasco, a gambe larghe ma non ancora in groppa all’animale, infilò la punta degli stivali tra le assicelle. Barrow teneva una mano sulla cinghia del sottopancia, pronto a stringerlo. «Adesso?» Mike scosse la testa. Non aveva intenzione di lasciarsi prendere dalla fretta e farsi disarcionare nella gabbia solo per finire calpestato da quel bastardo di cavallo. E comunque il campo non era ancora pronto. C’era una giumenta che sgroppava, lanciata al galoppo, consentendo al buttero che la montava di dare spettacolo. La folla era rispettosa ma nessuno suonava la campana dello show, sul tabellone non si vedevano bandierine dorate e sugli spalti l’interesse della gente era ancora concentrato sulla birra, gli hot dog e le mele candite. Perfino la voce dell’annunciatore era monotona mentre riferiva fiaccamente il punteggio del cavaliere. Tabasco aveva percepito la tensione e si era fatto irrequieto; si inarcava con rapidi movimenti che sfioravano l’interno delle cosce del cowboy. «Buono, zuccone», disse Mike. «Non hai nessuno in groppa». La giumenta era uscita dal campo. L’arena era libera. La musica si alzò e poi tacque. La voce dagli altoparlanti risuonò di colpo più forte. «Il prossimo numero, signore e signori, l’evento speciale: montare il bronco finché l’uomo non viene scaraventato a terra o il cavallo si calma! La Doma selvaggia! Protagonista la stella del rodeo –vincitore di tre National Finals, della Dallas Buckle per il bareback, di nove Cattlemen Trophies –che monta a pelo il focosissimo Tabasco! Signore e signori, il campione: Mike Milo!» La folla applaudì, fischiò, urlò. Mike rivolse un cenno del capo a Barrows. Il responsabile delle gabbie strinse la cinghia laterale del sottopancia. Non appena Tabasco avvertì la costrizione del cuoio, si impennò e scalciò. In quel momento Mike si lasciò cadere in sella all’animale. Tabasco scalpitò e sgroppò, colpendo con gli zoccoli le tavole della gabbia. «Ce l’ho». Barrows spalancò il cancello della gabbia e Tabasco si slanciò nell’arena. In mezzo al campo il cavallo si impennò, scalciò, sgroppò, girò su stesso come un tornado mentre la folla urlava a ogni movimento dell’animale. È la prima volta, pensò Mike mentre lo stallone si slanciava in aria staccandosi dal terreno, è sempre la prima volta, sempre terrore ed eccitazione insieme, sempre a giocarsi l’osso del collo, sempre lo stare in sella per l’orgoglio dell’imperturbabilità. Su, su, bastardo che non sei altro…giù, giù, figlio di puttana…scaricami, fetente di un ronzino…brutto bastardo figlio di buona donna, ammazzami, ammazzami…sgroppa, sgroppa, figlio di troia…gira su te stesso, impennati! Giù!…Giù, stronzo, aumenta ’sta cazzo di andatura, cerca di sbarazzarti del cavaliere, provaci, provaci…provaci, fammi vedere! E d’improvviso era finita. Lui era rimasto in sella e l’animale si era calmato. Lo stallone sbuffò, protestando per far vedere che non era ancora una bestia da soma e scuotendo la testa per schiarirsela, con la bocca ricoperta di schiuma bianca. Ma era domo. Una vittoria per Mike. Adesso montava la bestia con facilità, come se lo stallone selvaggio fosse un cavallo da passeggio per signore, un animale elegante dall’andatura impettita. Anche Mike era elegante. Quanto era stato rude prima di domare il bronco, tanto adesso era delicato. Sollevò un braccio con grazia per rivolgere un saluto cavalleresco alla folla e lo tenne alzato per mostrare con quale facilità riusciva a gestire un cavallo selvaggio con una mano sola. La folla non mancò di cogliere il messaggio e lo acclamò. Lui si tolse il cappello bianco latte e lo agitò in aria. Altre grida di esultanza. Muovere il braccio non gli faceva male. Niente artrite, nessun dannato gomito del tennista, niente di niente. Il dolore era sparito. Agitò il braccio con più decisione. Nessun dolore. La folla gridò più forte. Non avrebbero smesso di acclamarlo, pensò. Era il momento del trucchetto per far salire ancora di qualche decibel le urla esultanti. Seduto tranquillamente sullo stallone sauro, eseguì il numero che era la sua firma, il gesto plateale per cui lo conoscevano e che si aspettavano da lui. Lanciò in aria il cappello, più in alto che poteva, e spronò il cavallo verso il punto in cui stava ricadendo. Lo prese al volo e lo sventolò con forza, sfidando il dolore a ripresentarsi. La folla impazzì. «Milo!», urlavano. «Milo! Milo! Milo!» Ricevette la sua dose di applausi, adulazione e bottigliette di Pepsi lanciate nell’arena. Fece fare a Tabasco una brusca svolta a destra, verso i recinti, per l’uscita di scena. E fu quando vide il cancello grigio aprirsi per accoglierlo che successe. Il cavallo si impennò con un nitrito trionfante. Scartò con violenza e Mike, che non se lo aspettava, venne disarcionato. Sbattuto a terra, a mordere la polvere. Dalla folla si levarono urla costernate. Mike le udì. Rimettiti in piedi, si disse, rimettiti in piedi. Ma non poteva alzarsi, non ancora. Quando stava per provarci, il cavallo si impennò e ricadde, troppo vicino. Impazzito, con gli anteriori sollevati, gli zoccoli che si abbassavano a martellare il terreno, a calpestare il cavaliere. Dagli spalti si levarono delle urla, diverse questa volta. Un assistente sbucò di corsa da una delle gabbie, cowboy arrivarono dai vialetti, i pickup men si riversarono nel campo. Gli spettatori si alzarono in piedi strillando di paura. Alzati, disse Mike a se stesso, alzati, fagli vedere che puoi rimetterti in piedi. E poi il miracolo: riuscì a mettersi in ginocchio, poi si alzò. Aveva i vestiti bianchi sudici, zoppicava e si avviò incespicando in cerca del cappello. Sono in piedi, pensò, ma ho bisogno del mio cappello, devo sventolare il mio cappello. Lo trovò, lo raccolse, lo lasciò cadere, lo raccolse di nuovo. Adesso lo reggeva con sicurezza e lo sventolò. Così gli dimostrerò che è tutto a posto, pensò, che sto meglio di ieri, in forma come sempre. Agitalo, sventola il cappello, fagli vedere, sventolalo più forte, sventolalo. A quell’esibizione di coraggio la folla impazzì. La gioia, l’adorazione sfrenata, ti amiamo, Mike, ti amiamo, ti amiamo –battere di piedi, applausi, scandito in coro –ti amiamo, ti amiamo, ti amiamo! Mike cadde. Questa volta non si rialzò. Giacque immobile.

Giaceva immobile nel letto d’ospedale, con il gesso sulla gamba duro come pietra e, mentre l’effetto dell’anestesia svaniva, dolori ovunque ma non alla gamba. Forse non era la sua gamba, pensò, magari apparteneva a qualcun altro. Il corpo era di sicuro il suo, perché gli faceva male, e il dolore sancisce la proprietà. Comunque, non aveva importanza se era sciancato; ben presto sarebbe arrivato il veterinario a puntargli una pistola alla tempia: bang, bang. Spara sempre due volte ai cavalli azzoppati, concedi sempre la pallottola in più. Bang bang. Già, i cavalli. Ma lui non era un cavallo, doveva aggrapparsi a questo, gli avrebbe schiarito le idee se fosse riuscito a tenerlo a mente. Gliele avrebbe schiarite ancora di più riuscire a sbrogliare la matassa degli eventi della sua vita: cosa era successo prima, cosa dopo, e cosa mai. Parti dai fatti: che ingessatura è questa? Ce n’erano state diverse: il polso sinistro, il braccio destro, la gamba destra. Era sempre la gamba destra della prima volta, quando Donna aveva cercato di fargli da balia? No, la confondeva con una madre che ricordava a stento. I suoi genitori erano morti prima che compisse cinque anni. L’unica cosa che ricordava del padre era il grigiore e della madre un orologino d’oro in un medaglione, conigli bianchi e mani morbide. E perdita. La sofferenza che non era mai riuscito a definire, se non come perdita. Però ricordava i genitori di sua madre, sì, molto bene. Ottimo. Aggrappati a questo, risale piuttosto indietro nell’ordine delle cose; gli eventi remoti dovrebbero venire prima. Presentava un vantaggio ulteriore –suo nonno e i cavalli –c’era un nesso. Seguilo. Il vecchio era un sellaio. Più di questo. Gli piaceva vantarsi di avere qualcosa a che fare con qualunque cosa riguardasse i cavalli –selle, briglie, staffe, morsi, ferramenta, cuoio –e di essere in grado di guarire qualunque animale a patto che lo si chiamasse per tempo. I primi ricordi distinti di Mike erano del nonno e dei cavalli. «Scendi da quello stallone, piscialletto che non sei altro», lo udì urlare Mike. «Non è nostro e ti romperai il muso». Mike adorava i cavalli e voleva bene a suo nonno. Ma lui e il vecchio non facevano che litigare. Una volta il ragazzino gli aveva sputato in faccia della liquirizia e un’altra volta gli aveva tirato un calcio nelle palle. Il vecchio si era messo a ridere. «Per poco non polverizzi i sassi, zuccone». La nonna si comportava come se avesse paura del marito: il caratteraccio, il linguaggio scurrile, la voce tonante. Si fingeva dimessa, sbadata e non del tutto in sé. Solo all’ultimo anno delle superiori Mike si era reso conto di essere stato ingannato. Era più istruita del marito e, per dirla con le sue parole, si teneva aggiornata. Diceva che la differenza tra lei e suo marito era che quando lei si metteva una mano in testa si grattava i pensieri, mentre lui grattava la ruggine. Ciononostante, l’ossessione di Mike per i cavalli e il suo totale disinteresse per i libri non l’avevano preoccupata finché il ragazzo non era arrivato alle soglie dell’adolescenza. Quando si era accorta della sua ossessione per la peluria sul mento, per le camicie pulite ogni giorno e per le polluzioni notturne, aveva visto uno spiraglio e dato il via all’offensiva. Inveiva contro le nuove tendenze letterarie –“lascive e sporche”–e gettava nell’immondizia i libri osceni. Sapeva che Mike li avrebbe ripescati. Gli era toccato leggere tantissimo per individuare le pagine sporche cui lei si riferiva, e non ne aveva trovate granché. Una scena in cui un ragazzo aveva un’erezione e faceva qualcosa di cui non si parlava; un marito che baciava i capezzoli della moglie; e la ragazza che, cercando di imitare il fratello, si era messa in piedi mirando a una lattina vuota di salsa di pomodoro, finendo per pisciarsi sulle scarpe. Roba scialba di quel genere. Si rese conto solo a diciassette anni che la vecchia signora aveva usato come esca i libri osé per indurlo con un trucco a leggere Dickens e Thackeray. Suo nonno lo chiamava secchione, sua nonna ignorante. Non era nessuna delle due cose, ma aveva deciso che, indipendentemente dai desideri della nonna, non si sarebbe fatto coinvolgere da una cosa tanto idiota come l’università. Quello che voleva erano i cavalli, non i professori, i cavalli. «I cavalli sono le creature più stupide del pianeta», diceva lei. «Sono bellissimi!» «Sì…e stupidi», ripeteva. «Monta un cavallo verso un muro di pietra e se lui si fida di te ci si fracasserà quella sua testa vuota». «Be’, io mi fido di te, nonna, ma che mi prenda un colpo se ti permetterò di fracassarmi la testa nell’università». Suo nonno aveva trovato il compromesso. Università e cavalli. «Fai veterinaria. Zootecnia e quella roba lì. Non vale una cicca: non imparerai niente che non puoi imparare in una stalla. Ma otterrai un pezzo di carta da incorniciare e il diritto di chiedere più soldi di quelli che vali». Mike si era trasferito a milleseicento chilometri di distanza per frequentare la facoltà di agraria e aveva seguito corsi propedeutici di medicina, lezioni di mascalcia e veterinaria equina, e il primo Natale era tornato a casa di umore cupo, sentendosi solo e confuso. Ma alla fine del primo anno, a metà giugno, aveva ottenuto voti eccellenti. Le cose andavano meglio all’università e peggio a casa, e aveva suggerito al nonno che forse la selleria era troppo piccola per tutto il lavoro che c’era e di pensare seriamente a elettrificare la forgia; doverla alimentare di continuo era una scocciatura, una roba superata, e poteva essere una buona idea ammodernarsi, tenere il passo coi tempi. Per il resto della giornata il vecchio era stato odioso con lui e all’ora di cena si era alzato da tavola urlandogli: «Che cavolo di faccia tosta, a crescere così in fretta! Ti dispiaceva così tanto restare bambino?» Era stata la volta in cui era andato più vicino a dirgli che gli voleva bene. Alla fine del secondo anno, proprio mentre stava per affrontare l’ultimo esame, aveva ricevuto un messaggio che la fucina del vecchio aveva preso fuoco la notte prima, la casa era bruciata e i nonni erano morti. Perdita. La nostalgia di tutte le cose non dette, perfino le discussioni lasciate a metà, irrisolte, le mezze frasi che ancora aleggiavano sospese nell’aria. E i gesti d’affetto che non c’erano stati. Se solo avesse avuto un’altra possibilità di toccarli…Continuava a non sentire la gamba. Sparate al cavallo azzoppato. «Un cavallo zoppo non vale una bolla in una pozza di urina». No, non era suo nonno a parlare; il vecchio non aveva mai usato la parola urina in vita sua. Era Mr Croag. Il suo primo datore di lavoro, l’estate in cui erano morti i nonni, quando aveva mollato l’università. Mike era diventato apprendista di un “uomo di medicina”, come Croag amava definire se stesso, anche se non era un dottore e neppure un veterinario autorizzato. Era più o meno un ispettore dell’ufficio zootecnico del dipartimento dell’agricoltura della contea. «Pollame, bovini, cavalli», gli aveva detto al primo incontro. «Ispezioniamo, inoculiamo, fumighiamo». Poi aveva aggiunto con una punta di soddisfazione: «E condanniamo». Era un uomo alto e sottile, inflessibile, come l’ago di una siringa ipodermica. Dimostrava più dei suoi cinquant’anni, perché la faccia scavata era spruzzata di grigio, come se fosse cosparsa di cenere. Teneva una Bibbia logora nella tasca sinistra della giacca di alpaca; in realtà non gli serviva, la sapeva a memoria. Mike viveva in una stanza sul retro della tetra casetta di Croag alla periferia di Fredericksburg e spesso, a notte fonda, udiva lo scapolo solitario declamare il Deuteronomio con voce stentorea, quasi fosse Mosè che rampognava una montagna. Mike aveva lavorato per l’ispettore tutta l’estate, occupandosi del furgone che trasportava l’attrezzatura, tenendo l’inventario dei prodotti chimici e dei farmaci, pulendo gli strumenti per i test, di tanto in tanto praticando le iniezioni, facendo vedere come usare i fumiganti e i disinfettanti, mostrando agli allevatori come individuare muffe, funghi, pustole, carbonchio, licheni, parassiti. Aveva detestato il lavoro fin quasi dall’inizio; alla fine dell’estate lo odiava. Non si trattava solo della sofferenza degli animali. C’era dell’altro, qualcosa di pressoché indefinibile che aveva a che fare con l’arbitrarietà del rapporto dell’uomo con i cosiddetti animali inferiori. A che punto della coabitazione con la famiglia di creature che dipendono da lui l’uomo ne diventa il carnefice giustificato? Quando vuole mangiarle? O quando stanno male e non sono curabili? Ma Mike aveva visto animali malati che in realtà erano curabili bruciati a migliaia o seppelliti in fosse profonde con i bulldozer. Perché non curarli? Non vale la pena di sprecarci una pallottola, diceva Croag, non vale la pena di perderci tempo. E sicuramente non vale la pena mettersi a discutere di questa correzione degli equilibri della natura; solo uno sciocco romantico insorge davanti a cose del genere. E così, prima ancora dello scoppio dell’epidemia di antrace, Mike aveva deciso di trovarsi un altro lavoro. Il carbonchio non aveva fatto altro che mettere la parola fine. Era iniziata in un allevamento di cavalli distante poco più di trecento chilometri dalla sede della contea. A mezzanotte, quando Croag era stato informato, ce l’avevano ventidue animali. Ora dell’alba, quando erano arrivati al ranch, l’avevano contratta cinquanta capi. «Babesiosi!», l’aveva chiamata Croag. «Una piaga dell’Esodo!» L’immensa scuderia, con tutte le porte e le finestre spalancate, puzzava della malattia. Un tanfo che prendeva alla gola, terrificante, acre e dolce al tempo stesso, penetrante eppure diffuso ovunque come un velo di umidità putrida. I cavalli che avevano la malattia esterna non erano messi così male, pur orrendi alla vista con i carbonchi arrossati, le lesioni nere e le piaghe purulente. Ma guardare gli altri, quelli con la malattia ematica, era intollerabile. Vomitavano di continuo e dalle narici colava un catarro insanguinato, gli escrementi erano rossastri, i vasi sanguigni dell’ano parevano sul punto di scoppiare. Eppure, a differenza della maggior parte dei cavalli che si sdraiano ai primi segni della malattia, molti degli animali erano ancora in piedi. Circostanza che infondeva nell’allevatore una speranza esagitata. «Sono in piedi!», continuava a urlare. «Non moriranno…sono in piedi!» «Abbattili», aveva detto Croag. «No!» «Abbattili e dai fuoco alla scuderia», aveva detto l’ispettore. «No!», aveva gridato il proprietario. «Posso salvarli! Posso salvarne la metà!» «D’accordo, porta fuori quelli sani». Con l’aiuto di Mike, l’allevatore aveva portato fuori i cavalli sani e li aveva lasciati liberi di andarsene dove volevano. Potevi farlo prima, stupido bastardo, aveva pensato Mike. Mentre gli ultimi capi sani uscivano dalla scuderia, Mike aveva sentito il primo sparo. Era corso dentro e aveva visto Croag uccidere un secondo animale prostrato, poi un terzo e un quarto. Quando aveva finito i proiettili, anziché ricaricare l’arma, ne aveva tirata fuori un’altra dalla tasca destra del giaccone di alpaca. Aveva ricominciato a sparare e Mike si era affrettato ad andarsene. Poco prima di mezzogiorno il dipartimento aveva mandato due bulldozer e tre pale caricatrici che avevano iniziato a scavare un’enorme fossa dove dovevano essere bruciati e seppelliti i cavalli. Alle tre del pomeriggio una delle pale stava spostando i cavalli morti dal pavimento della scuderia per spingerli, un metro insanguinato dopo l’altro, verso la fossa. Quando si furono accumulati una decina di cavalli morti uno sopra l’altro in un mucchio sanguinolento e ce n’erano ancora molti altri da abbattere, Croag aveva deciso che sparargli nella scuderia richiedeva troppo tempo. Aveva indicato la fossa. «Li portiamo qui. Li abbatteremo quando scendono nel buco». Aveva tirato fuori di tasca una pistola, l’aveva caricata e l’aveva porta a Mike. «Ti darò altre cartucce quando ti serviranno», aveva detto. Poi lo aveva indirizzato verso la tomba. «Vai giù». «No!» «Io li porto fuori e tu li abbatti», aveva detto con rabbia. «Adesso vai giù». «No…no!» «Vai giù, brutto bastardo!» Mike aveva guardato gli autisti dei bulldozer, gli uomini delle ruspe, il proprietario dell’allevamento, ma nessuno aveva aperto bocca; si erano limitati a fissarlo. Aveva

preso l’arma ed era sceso lungo il pendio creato dai bulldozer. Era in piedi sui cavalli morti, ci camminava sopra, calpestando i fianchi insanguinati, le teste, verso l’estremità più lontana della fossa. Poi era arrivato il primo animale. Quando aveva fiutato la carneficina davanti a sé, aveva stronfiato e aveva tentato di arretrare, ma Croag era dietro di lui con la frusta, i bulldozer erano a sinistra e le pale a destra, così l’animale si era trascinato avanti, scendendo il pendio. Mike l’aveva visto scendere, diretto verso di lui. Non sapeva cosa fare. Non aveva mai ammazzato niente in vita sua, non sapeva quanta forza ci voleva per premere il grilletto. Il cavallo era quasi arrivato. «Spara, stupido figlio di puttana…spara!», aveva sbraitato Croag. Aveva premuto il grilletto. L’animale aveva tremato ma era rimasto in piedi. «Di nuovo…sparagli di nuovo». Un altro colpo. Il sangue che schizzava dalla testa del cavallo era finito in faccia a Mike, accecandolo. «Spara a tutti due volte!», aveva urlato Croag. «Bang, bang…capito? Bang, bang!» Oh, Cristo santo. Bang, bang. Dovevano essere cinquanta cavalli. I capelli, la camicia, tutto ciò che indossava era zuppo di sangue e di pus. Quando l’ultimo cavallo malato era stato abbattuto, si era arrampicato fuori dalla fossa. Era stato in quel momento che si era verificato l’evento liberatorio. Uno dei cavalli sani, terrorizzato da tutto il sangue che c’era nell’aria, si era messo a correre all’impazzata ed era inciampato. Era un puledro di un anno, un sauro elegante, la grazia spezzata dalla gamba fratturata. Croag e alcune altre persone erano in piedi vicino all’animale caduto che si dimenava. Poi Mike aveva visto il suo capo tirare fuori l’altra pistola. «No!», aveva urlato, scattando di corsa verso il gruppetto. «Levati di mezzo, mollaccione», aveva borbottato Craig. «Ha la gamba rotta». «Non è malato!» «È azzoppato». «Non è malato, non è malato!» Aveva afferrato la pistola e l’aveva lanciata più lontano che poteva. Quando Croag aveva fatto per recuperarla, Mike lo aveva colpito. L’ispettore aveva reagito e Mike se lo era tirato addosso in un abbraccio violento, sporcandolo di sangue e malattia, poi aveva continuato a picchiarlo, spargendo altro sangue, spargendo l’ultimo sangue della giornata. Non aveva mai più rivisto Croag. In autunno era diventato inserviente al Keeley’s Rodeo, imparando a usare il lazo, lottando coi tori, montando i manzi. Quell’inverno, in Oklahoma, aveva iniziato a montare i bronco, i cavalli non addestrati. La primavera seguente aveva vinto la sua prima medaglia, non un granché, un bronzo. Un anno dopo aver vinto la sua prima fibbia d’oro aveva avuto il primo incidente e si era rotto una gamba. Aveva pensato che sarebbe rimasto storpio, che gli avrebbero amputato la gamba. Diventerò storpio per sempre, storpio, storpio. Ha la gamba rotta. Abbattetelo. Bang, bang. Ho la gamba rotta, pensò mentre giaceva nel letto d’ospedale, a trentotto anni. Non rotta, amputata. Ecco, ecco perché non sento niente, perché me l’hanno amputata. Non riesco a sentire niente. Bang, bang. Poi, grazie a Dio, la gamba iniziò a fargli male. 3 Era fuori dall’ospedale, senza gesso, e stava camminando verso lo stadio. Zoppicando, cioè, perché glielo avevano tolto solo quattro settimane prima e ce ne sarebbero volute altrettante prima che fosse in grado di camminare bene. Ma doveva ricordarsi, una volta dentro il corridoio dello stadio diretto all’ufficio di Polk, di nascondere la zoppia e camminare senza scatti. A costo di qualunque fitta e bruciore, non vacillare. Sorrise all’ironia della situazione; com’era diverso adesso. A diciannove anni, il trucco era stato di zoppicare più vistosamente possibile, così il boss e gli altri cowboy avrebbero detto: che fegato, il ragazzino, montare con una gamba conciata in quel modo. Ma se zoppicasse ora, cosa direbbero? Il vecchio è finito, le ossa vecchie non si aggiustano. Merda, gliel’avrebbe fatta ve- dere lui. Era praticamente guarito. Perfino il braccio, il dolore al gomito, era sparito. Due iniezioni, era bastato quello –proprio come aveva sperato –e quarantott’ore dopo la seconda, il dolore al braccio era quasi dimenticato. Stava meglio di quanto non si sentisse da anni…a parte le vertigini. Aprì la porta che dava nell’ampio atrio dell’edificio dello stadio. Era lunedì, il giorno di riposo, quello in cui si faceva manutenzione. Il corridoio era ingombro di prodotti ed equipaggiamento, finimenti e selle da aggiustare, sovrapantaloni e abbigliamento della compagnia da riparare. L’addetto alla manutenzione, Earl Knobley, serioso e privo di senso dell’umorismo, stava verificando le cose da fare aiutato da Marge, una segretaria di mezza età. Mike sperò di riuscire a passare inosservato mentre udiva Earl mormorare: «Quattro da lavare, uno da riparare e lavare». Ma Marge lo vide. «Be’, se non è…! Santo cielo! Come va la gamba?» Mike fece un sorriso forzato. «Quale gamba?» Earl disse qualcosa che somigliava a bravo ragazzo e tutti si misero a ridere, una risata eccessiva, senza allegria. Mike ne colse il riecheggiare vuoto e raddoppiò l’andatura verso l’ufficio di Howard. Bussò alla porta e la voce di Polk lo invitò a entrare. L’ufficio di Howard lo metteva sempre sulle spine. C’era immancabilmente una traccia elusiva di profumo nell’aria, come se Polk avesse spruzzato del deodorante un attimo prima del suo arrivo. E l’arredamento era eccessivamente raffinato, pezzi d’antiquariato troppo delicati per accogliere uomini rudi: Mike era sicuro che fosse intenzione del damerino dell’Est far sentire i cowboy a disagio. Howard non si alzò dalla scrivania; lo faceva di rado. «Bene! Michael! Risorto dalla polvere, eh? E la zoppia è sparita». Mike disse, con troppo entusiasmo: «Cristo santo, è sparita più di una settimana fa». Howard lo guardò socchiudendo gli occhi. «Bene». La parola ci aveva messo un po’ad arrivare. «Pensavo che potrei ricominciare domani», disse Mike. Howard aspettò che la frase di Mike si spegnesse. Poi disse in tono piatto: «Sei finito, Michael». Aveva parlato quasi senza inflessioni, al punto che Mike non era sicuro di aver sentito bene. «Cosa intendi, che sono finito?» Stava sorridendo, fingendo di aver udito una battuta, la voce disinvolta come quella di Howard. Ma l’uomo non rispose, limitandosi a lasciar aleggiare le sue parole mentre acquistavano significato. «Perché ho por- tato il gesso qualche settimana? Che diamine, ho montato col gesso. Decine di volte. Ho vinto la Dallas Buckle ingessato». *