IL RACCONTO DELL'ANCELLA
(The Handmaid's Tale, 1985)
Il racconto dell’ancella è ambientato in un mondo devastato dalle radiazioni atomiche, un mondo in cui gli Stati Uniti sono diventati uno stato totalitario e in cui il controllo della donna, o meglio del suo corpo, è diventato maniacale. Sono rimaste poche donne in grado di procreare, loro sono le ancelle. Costrette a un’esistenza da prigioniere hanno l’onore della conservazione della specie. Tutte vestite nello stesso modo, abiti rossi lunghi fino ai piedi e copricapo anche durante il caldo torrido estivo, sono costrette a bisbigliare tra di loro, e a seguire restrittive regole. A raccontare questo incubo è Difred, un’ancella di cui però non conosciamo il nome vero. Difred infatti significa letteralmente proprietà di Fred. Costretta, come tutte le altre, ad avere rapporti sessuali con il suo comandante per dare a lui, e alla moglie, Serena Joy quel dono che tanto desiderano: un figlio.
IL RACCONTO DELL'ANCELLA
Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe, perciò Rachele divenne gelosa di sua sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, altrimenti muoio». Giacobbe si adirò contro Rachele e rispose: «Tengo io forse il posto di Dio che ti ha negato il frutto del grem- bo?».
Allora ella disse: «Ecco la mia serva Bilha. Entra da lei e lei partorirà sulle mie ginocchia; così anch'io potrò
avere figli per suo mezzo».
Genesi 30; 1-3
Ma quanto a me, essendomi per molti anni stancato di
offrire pensieri vani, futili e illusori, e disperando infine totalmente del successo, fortunatamente ebbi a imbat- termi in questa proposta...
Jonathan Swift, Una modesta proposta
Nel deserto non v'è nessun segnale che dica: tu non
mangerai le pietre.
Proverbio sufi
a Mary Webster e Perry Miller
I
Notte
1
Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L'impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt'attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l'aleggiare di un'immagi¬ne, l'odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C'erano state delle feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolvera¬re i ballerini di una neve lucente.
Sesso, solitudine, attesa di qualcosa senza forma né nome. Ricordo quello struggimento per qualcosa che stava sempre per succedere e non era mai la stessa cosa, come le mani che c'era¬no addosso lì per lì, nel piccolo spazio dietro la casa, o più in là nel parcheggio, o nella sala della televisione col sonoro ab¬bassato e soltanto le immagini, guizzanti sulla carne tesa. Ci struggevamo al pensiero del futuro. Come l'avevamo appresa, quella disposizione all'insaziabilità? Era nell'aria; e restava ancora nell'aria, un pensiero persistente, mentre si cercava di dormire, nelle brande militari che erano state disposte in corsie, con molto spazio tra l'una e l'altra, così che non si potesse parlare. Avevamo lenzuola di flanella leggera, come i bambini, e vecchie coperte di quelle in dotazione all'esercito, ancora con la scritta U.S. Ripiegavamo i nostri abiti per bene e li riponevamo sugli sgabelli ai piedi del letto. Le luci venivano abbassate ma non spente. Zia Sara e Zia Elisabetta vigilavano, camminando avanti e indietro; avevano dei pungoli elettrici di quelli che si usano per il bestiame agganciati a delle cinghie che pendevano dalle loro cinture di cuoio.
Niente pistole, però, neanche a loro venivano affidate le pistole. Le pistole erano per le guardie, scelte a questo scopo tra gli Angeli. Alle guardie non era permesso entrare nella casa se non vi erano chiamate, e a noi non era permesso uscirne, tran¬ne che per le nostre passeggiate, due volte al giorno, due per due, attorno al campo di calcio che adesso era cintato da una rete metallica bordata di filo spinato. Gli Angeli stavano dall'altra parte, voltati di schiena verso di noi. Erano oggetto di paura per noi, ma anche di qualcos'altro. Se solo ci avessero guardato. Se solo avessimo potuto parlare con loro. Si sarebbe potuto sta¬bilire uno scambio, pensavamo, un accordo, un baratto. Aveva¬mo ancora il nostro corpo. Erano queste le nostre fantasie.
Avevamo imparato a sussurrare quasi impercettibilmente. Nella semioscurità potevamo allungare le braccia, quando le Zie non guardavano, e toccarci le mani attraverso lo spazio tra un letto e l'altro. Leggevamo il movimento delle labbra, con le teste posate sul cuscino, girate di lato, osservando l'una la bocca dell'altra. In questo modo ci eravamo scambiate i nostri no¬mi, di letto in letto:
Alma. Janine. Dolores. Moira. June.
2
Una sedia, un tavolo, una lampada. Sopra, sul soffitto bianco, un motivo ornamentale in rilievo a forma di ghirlanda, e, al centro, un buco riempito di calce, come la cicatrice in un viso cui sia stato tolto un occhio. Lì doveva esserci un lampadario, un tempo. Hanno eliminato ogni cosa cui si possa legare una corda.
Una finestra, due tendine bianche. Sotto la finestra, un sedi¬le con un piccolo cuscino. Quando la finestra è aperta, in parte (si apre solo in parte), l'aria entra e fa muovere le tendine. Pos¬so sedere sulla sedia, o sul sedile della finestra, con le mani in grembo, e guardare. Anche il sole entra dalla finestra e cade sul pavimento che è di legno, a listelli, ben lucidato. Sento l'odore della cera. C'è un tappeto ovale sul pavimento, fatto di stracci intrecciati. Questo è il genere di cose che a loro piace: arte fol¬clorica, arcaica, cui si dedicano le donne, nel loro tempo libero, utilizzando cose che non servono più. Un ritorno ai valori tradi¬zionali. Non sprecare e non ti mancherà niente. Io non ho spre¬cato. Perché mi mancano tante cose? Alla parete sopra la sedia, un quadro, incorniciato ma senza vetro: è una riproduzione, un mazzo di giaggioli blu dipinti ad acquerello. I fiori sono ancora permessi. Mi chiedo se ognuna di noi ha l'identico quadro, l'i¬dentica sedia, le identiche tendine bianche. È un ordine del go¬verno?
Considera di essere sotto le armi, diceva Zia Lydia.
Un letto, a una piazza. Materasso semiduro, coperto da un copriletto bianco di lana. Null'altro avviene nel letto che il dor¬mire; o il non dormire. Cerco di non pensare troppo. Al pari di altre cose, adesso, il pensiero dev'essere razionato. Ci sono pen¬sieri che diventano intollerabili quando ci si sofferma troppo. Il pensare può nuocere, e io sono decisa a resistere. So perché non c'è il vetro sull'acquerello di giaggioli blu, e perché la fine¬stra si apre solo in parte, e perché è di cristallo infrangibile. Non temono che ce ne andiamo di nascosto. Non arriveremmo lontano. Temono altre fughe, quelle che puoi aprirti dentro, se hai un oggetto con un bordo tagliente.
Ecco. A parte i dettagli, questa potrebbe essere la stanza de¬gli ospiti in una università, la stanza degli ospiti di minor ri¬guardo; oppure la stanza di un pensionato dei tempi passati, o per signore dalle possibilità ridotte. Ciò che siamo ora. Le pos¬sibilità sono ridotte; per quelle di noi che hanno ancora delle possibilità.
Ma una sedia, la luce del sole, i fiori: queste cose non si pos¬sono ignorare. Io sono viva, io vivo, respiro, metto fuori la mano aperta alla luce. Non mi trovo in una prigione, ma in un luogo privilegiato, come ha detto Zia Lydia, entusiasta comun¬que dell'una o dell'altro o di entrambi.
Sta suonando la campana. Qui il tempo è misurato da campa¬ne, come una volta nei conventi di suore. E, come anche nei conventi di suore, c'è qualche specchio. Mi alzo, mi muovo nel¬la luce del sole, i piedi nelle scarpe rosse senza tacchi, per ri¬sparmiare la spina dorsale e non per ballare. I guanti rossi sono posati sul letto. Li prendo, me li infilo, dito per dito. Tranne le alette che porto ai lati del viso, tutto è rosso: il colore del san¬gue, che ci definisce. La gonna scende sino alle caviglie, ampia, raccolta in uno sprone piatto che si allarga sul petto, le maniche sono lunghe. Anche le alette bianche sono dotazione obbligato¬ria; servono a impedirci di vedere, ma anche di essere viste. Il rosso non mi ha mai donato, non è il mio colore. Prendo il ce¬sto della spesa, me lo infilo sul braccio.
La porta della stanza (non la mia stanza, mi rifiuto di dire mia) non è chiusa a chiave. Il battente non accosta bene. Esco nel corridoio lucidato, che ha una guida, al centro, di un rosa polveroso. Come un sentiero che attraversa la foresta, come un tappeto in una cerimonia regale, mi indica la strada.
Il tappeto svolta giù per la scala principale e io lo seguo, ap-poggiandomi al corrimano, un tempo albero, tornito in un altro secolo, reso lucido e scuro da tutte le mani che lo hanno strofi¬nato. La casa è tardovittoriana, un edificio costruito per una fa¬miglia ricca e numerosa. Nel corridoio c'è un orologio a pendo¬lo che, parco, amministra il tempo; poi la porta che immette nel salotto materno sul davanti della casa, con le sue sfumature color della carne e il suo fascino ambiguo. Un salotto dove non siedo mai, vi sto solo in piedi o inginocchiata. All'estremità del corridoio, sopra la porta d'ingresso, c'è una lunetta di vetro co¬lorato: fiori, rossi e blu.
Resta uno specchio, sulla parete del corridoio. Se giro la te¬sta, così che le bianche alette che m'incorniciano il volto diriga¬no il mio sguardo da quella parte, lo vedo mentre scendo le scale, tondo, convesso, uno specchio che è come l'occhio di un pesce, e con dentro me, un'ombra deformata, una parodia di qualcosa, una figura da fiaba in un mantello rosso, che si avvia verso un momento di noncuranza che è identica al pericolo. Una suora inzuppata nel sangue.
Ai piedi della scala c'è un attaccapanni-portaombrelli, di le¬gno ricurvo, lunghe stecche di legno che si curvano delicata¬mente a formare dei ganci dalla forma di felci che si aprono. Ci sono vari ombrelli lì: nero, per il Comandante, blu, per la Mo¬glie del Comandante, e quello assegnato a me, che è rosso. La¬scio l'ombrello rosso dove si trova, perché ho visto dalla fine¬stra che la giornata è serena. Mi chiedo se la Moglie del Co¬mandante sia seduta in salotto o no. Non sempre sta seduta. Talvolta la sento che cammina in su e in giù, un passo pesante e poi uno leggero, e il picchiettio leggero del suo bastone sul tappeto rosa polveroso. Cammino lungo il corridoio, oltrepasso la porta del salotto e quella che immette nella sala da pranzo, apro la porta al termine del corridoio ed entro in cucina. Qui l'odore non è più quello di cera per mobili. Rita è in piedi vici¬no al tavolo di cucina, che ha il ripiano di smalto bianco, scro¬stato. Ha indosso il solito vestito da Marta, verde smorto come il camice di un chirurgo del tempo precedente. L'abito è abba¬stanza simile al mio per foggia, è lungo e nasconde la forma del corpo, ma sopra ha un grembiulino a pettorina; mancano le alette bianche e il velo. Rita si mette il velo per uscire, ma non ha molta importanza che qualcuno veda la faccia di una Marta. Tiene le maniche rimboccate fino al gomito, che le lasciano scoperte le braccia brune. Sta facendo il pane, lavora la pasta, poi la divide e le dà forma.
Rita mi scorge e annuisce col capo, se per salutarmi o sem¬plicemente per indicare che ha preso atto della mia presenza è difficile a dirsi. Si pulisce le mani infarinate col grembiule e ro¬vista nel cassetto di cucina in cerca del libro dei buoni. Acci¬gliata, stacca tre buoni e me li porge. Avrebbe una faccia genti¬le se sorridesse, ma quell'espressione accigliata non è rivolta a me personalmente, è l'abito rosso che lei disapprova, e ciò che significa. Ritiene che io possa essere contagiosa, come una ma¬lattia o qualsiasi forma di cattiva sorte.
Talvolta origlio alle porte, cosa che non avrei mai fatto pri¬ma. Non molto a lungo, perché non voglio essere sorpresa. Una volta, però, ho sentito Rita dire a Cora che lei non si ab¬basserebbe in quel modo.
«Nessuno te lo chiede» diceva Cora. «Comunque, che po¬tresti fare?»
«Andare nelle Colonie» diceva Rita. «Loro possono sce¬gliere».
«Con le Nondonne, a morire di fame e sa Dio che altro?» ribatteva Cora. «Non ci proverei».
Stavano sbucciando i piselli; anche attraverso la porta soc¬chiusa udivo il lieve rimbalzare dei piselli che cadevano nella bacinella di metallo e Rita che rispondeva con un brontolio o un sospiro, di protesta o di assenso.
«Comunque, lo fanno per tutte noi» diceva Cora, «o così dicono. Se non mi avessero legato le tube, potrei essere io al lo¬ro posto, diciamo se avessi dieci anni di meno. Non è poi così brutto. Non è ciò che si chiama un lavoro duro».
«Meglio lei che io» stava dicendo Rita quando ho aperto la porta.
Avevano la faccia di chi sta sparlando alle spalle di qualcuno e teme di essersi fatto sentire: erano imbarazzate, ma anche un tantino sprezzanti, come volessero affermare un loro diritto. Quel giorno, Cora fu con me più amabile del solito, Rita più imbronciata.
Oggi, nonostante la faccia chiusa e le labbra strette di Rita, mi piacerebbe restare qui, in cucina. Potrebbe entrare Cora, da qualche altra parte della casa, con la sua bottiglia d'olio al limo¬ne e il suo strofinaccio, Rita farebbe il caffè (nelle case dei Comandanti c'è ancora del vero caffè) e ci si siederebbe al tavolo da cucina di Rita, che non è di Rita più di quanto il mio tavolo non sia mio, e si parlerebbe, di sofferenze, di dolori, di malattie, dei nostri piedi, della nostra schiena, di tutte le diverse sorti di scherzi che il nostro corpo, come un bimbo indisciplinato, esco¬gita. Si annuirebbe col capo come per mettere la punteggiatura alle reciproche voci, segnalando che sì, sappiamo tutto al riguar¬do. Ci scambieremmo rimedi e cercheremmo di superarci l'una con l'altra nella recita delle nostre afflizioni fisiche; ci lamente¬remmo pacatamente, le voci dolci, sommesse, desolate come il verso dei piccioni nelle docce delle grondaie. So che cosa vuoi dire, diremmo. Oppure useremmo un'espressione eccentrica che talvolta viene pronunciata ancora da parte di gente più an-ziana: sento donde provieni, come se la voce stessa fosse un viaggiatore, che giunge da un luogo distante. Com'era, com'è.
Come disprezzavo simili chiacchiere. Adesso le desidero. Al¬meno si parlava. C'era uno scambio, di qualche sorta.
Oppure spettegoleremmo. Le Marte sanno le cose, parlano tra di loro, fanno passare le notizie ufficiose di casa in casa. Come me, origliano alle porte, indubbiamente, e vedono tutto anche quando distolgono gli occhi. Le ho udite talvolta, ho af¬ferrato frammenti delle loro conversazioni private. Nato morto, era. Oppure, Pugnalata con un ferro da calza, direttamente al ventre. Per gelosia, una gelosia che la divorava. O, ancora più interessante: Lei ha usato un liquido per pulire i cessi. Ha fun-zionato che è una meraviglia, anche se lui avrebbe dovuto accorgersene dal sapore. Doveva essere ubriaco; ma l'hanno scoperta subito.
Oppure aiuterei Rita a fare il pane, affondando le mani in quel morbido tepore resistente che è così simile alla carne. De¬sidero ardentemente toccare qualcosa di diverso dalla stoffa o dal legno. Desidero commettere l'atto del toccare.
Ma anche se lo chiedessi, anche se venissi meno al decoro fi¬no a quel punto, Rita non lo permetterebbe. Avrebbe troppa paura. Non è previsto che le Marte fraternizzino con noi.
Fraternizzare significa comportarsi da fratelli. Me l'ha detto Luke. Diceva che non c'era una parola equivalente che signifi¬casse comportarsi da sorelle. Avrebbe dovuto essere sororizzare, diceva lui. Dal latino. Gli piaceva sapere queste cose. La deriva¬zione delle parole. Io lo prendevo in giro per la sua pedanteria.
Ricevo i buoni dalla mano tesa di Rita. Vi sono impresse le illustrazioni delle cose con cui si possono scambiare: dodici uova, un pezzo di formaggio, una massa scura che si ritiene sia una bistecca. Li metto nella tasca della manica, chiusa con una cerniera, dove tengo il mio lasciapassare.
«Di' che te le dia fresche le uova» si raccomanda Rita. «Non come l'ultima volta. E un pollo, di', non una gallina. Spiegagli per chi è e non faranno pasticci».
«Va bene» rispondo. Non sorrido. Perché invitarla all'ami¬cizia?
3
Esco dalla porta sul retro, che dà sul giardino, grande e ordina¬to: un prato al centro, un salice, amenti penduli tutt'attorno ai margini, aiuole dove le giunchiglie stanno appassendo e i tulipa¬ni aprono i loro calici, traboccanti di colore. I tulipani sono ros¬si, di uno scuro cremisi verso il gambo, come fossero stati recisi e stessero cominciando a rimarginarsi in quel punto.
Questo giardino è il regno della Moglie del Comandante. Guardando fuori dalla mia finestra dai vetri infrangibili l'ho vi¬sta spesso, in ginocchio su un cuscino, un velo azzurro chiaro gettato sopra il suo largo cappello da giardinaggio, un cestino di lato con dentro cesoie e pezzi di spago per tenere legati i fio¬ri. Un custode assegnato al Comandante fa i lavori più pesanti di vangatura; la Moglie del Comandante lo dirige, puntando il bastone per spiegarsi meglio. Molte Mogli hanno un giardino, qualcosa da organizzare, da tenere in ordine, da curare.
Una volta anch'io avevo un giardino. Ricordo l'odore della terra smossa, il senso di pienezza che davano le forme tonde dei bulbi chiusi nella mano, il fruscio secco dei semi tra le dita. Il tempo passava più in fretta in giardino. Talvolta la Moglie del Comandante fa portar fuori una sedia e si siede nel suo giardino.
La scena, vista da lontano, ha un'aria di pace.
Lei adesso non c'è, e comincio a chiedermi dove sia: non mi piace imbattermi inaspettatamente nella Moglie del Comandan¬te. Forse sta cucendo, in salotto, col piede sinistro su uno sga¬bello, a causa della sua artrite. O lavorando a maglia delle sciar¬pe per gli Angeli che sono al fronte. Stento a credere che gli Angeli abbiano bisogno di simili sciarpe; comunque, quelle fat¬te dalla Moglie del Comandante sono troppo elaborate. Non segue il disegno a croci e stelle usato da molte altre Mogli, ma non per polemica. Alberi di abete sfilano lungo i bordi delle sue sciarpe, oppure aquile, o rigide figure di umanoidi, un ra¬gazzo e una ragazza. Non sono sciarpe per adulti ma per bam¬bini.
Talvolta penso che non vengano inviate agli Angeli, ma di¬sfatte e trasformate in matasse per essere a loro volta di nuovo usate per altri lavori a maglia. Forse è semplicemente qualcosa per tenere occupate le Mogli, per dar loro uno scopo. Ma invi¬dio alla Moglie del Comandante il suo lavoro a maglia. È buona cosa avere delle piccole mete che si possono facilmente conse¬guire.
E lei che cosa m'invidia?
Non mi parla, a meno che non possa evitarlo. Per lei sono un'onta; e una necessità.
Ci siamo trovate faccia a faccia per la prima volta cinque setti¬mane fa, quando sono giunta a questa destinazione. Il Custode della destinazione precedente mi aveva condotta alla porta prin¬cipale. I primi giorni ci è permesso passare dalle porte principa¬li, ma dopo è inteso che noi usiamo quelle sul retro. All'inizio, quando le cose non si sono ancora sistemate, tutte sono incerte circa il loro rango, ma dopo un certo tempo si stabilisce se si passerà sempre dalle porte principali o sempre dal retro.
Zia Lydia diceva che lei stava cercando di ottenere per me il diritto alle principali. La tua è una posizione di privilegio, di¬ceva.
Il Custode ha suonato il campanello, ma prima che qualcu¬no sentisse e venisse celermente a rispondere, la porta si è aper¬ta verso l'interno. Credevo che mi sarei trovata di fronte una Marta, invece era lei già pronta ad aspettarmi, nella sua lunga veste grigio-azzurra, inconfondibile.
«Così sei la nuova» ha detto. Non si è fatta di lato per la¬sciarmi passare, è rimasta nel vano della porta, bloccando l'in¬gresso. Voleva che sentissi che non potevo entrare a meno che non me lo dicesse lei. È tutto un fare a spintoni e gomitate, in questi primi incontri, per il superamento di certe barriere.
«Sì» ho risposto.
«Lasciala sotto il portico» ha detto al Custode che traspor¬tava la mia valigia. La valigia era di vinile rosso e non molto grande. Ce n'era un'altra col cappotto e gli abiti più pesanti, ma sarebbe arrivata più tardi.
Il Custode ha deposto la valigia e ha salutato. Ho udito i suoi passi dietro di me che ripercorrevano il viale, lo scatto del cancello, e ho avuto la sensazione che un braccio protettivo si ritirasse. La soglia di una nuova casa è un luogo in cui ci si sen¬te soli.
Lei ha atteso che l'auto si allontanasse. Non le stavo guar¬dando la faccia, ma la parte di lei che potevo vedere col capo abbassato: la vita nell'abito azzurro, un po' appesantita, la mano sinistra sul pomo d'avorio del bastone, i grossi diamanti al¬l'anulare, che un tempo doveva essere stato grazioso ed era tut¬tora ben curato, l'unghia all'estremità del dito nodoso, limata in una curva perfetta. Era come uno sberleffo, lì su quel dito; co¬me qualcosa che la canzonasse.
«Tanto vale che entri» ha detto lei. Si è voltata e ha proseguito zoppicando per il vestibolo. «Chiudi la porta dietro di te».
Ho sollevato la valigia rossa fin dentro, come lei senza dub¬bio aveva inteso, poi ho chiuso la porta. Non le ho detto nien¬te. Zia Lydia ci aveva consigliato di non parlare a meno che loro non ci rivolgessero direttamente una domanda. Provate a vedere le cose dal loro punto di vista, diceva con le mani allaccia¬te strette e l'inquieto sorriso implorante, non è facile per loro.
«Qui dentro» ha detto la Moglie del Comandante. Quando sono entrata nel salotto lei era già alla sua poltrona, il piede si¬nistro sullo sgabello, col suo cuscino a petit point e, in un cesti¬no, delle rose appena colte. Il suo lavoro a maglia era per terra accanto alla poltrona, coi ferri infilati nel gomitolo.
Sono rimasta in piedi davanti a lei, le dita delle mani intrec¬ciate. «Bene...» ha detto. Aveva una sigaretta, se l'è messa tra le labbra e l'ha tenuta stretta mentre se l'accendeva. Ho visto che aveva le labbra sottili, con delle sottili rughe verticali ai lati, come si vedevano nella pubblicità dei cosmetici. L'accendino era color avorio. Le sigarette dovevano provenire dal mercato nero, ho pensato, e ciò mi ha dato una speranza. Anche ora che non esiste più una vera e propria moneta, c'è ancora un mercato nero. C'è sempre un mercato nero, c'è sempre qualco¬sa che può essere scambiato. Allora lei era una donna che poteva piegare le regole. Ma io che cosa avevo da scambiare? Guar¬davo la sigaretta con desiderio. A me, al pari di liquori e caffè, le sigarette sono proibite.
«Quindi il vecchio 'come si chiama' non c'è riuscito» ha detto.
«No, signora» ho risposto.
Lei ha riso, o quasi, poi ha tossito. «È stato sfortunato» ha detto. «Questo è il tuo secondo, vero?»
«Terzo, signora» ho risposto.
«Neppure a te è andata tanto bene» ha detto lei. E ha riso e tossito ancora. «Ti puoi sedere. Non è nelle mie abitudini, solo per questa volta».
Mi sono seduta sull'orlo di una delle sedie dallo schienale ri¬gido. Non ho voluto guardarmi intorno, non volevo sembrarle disattenta; così la mensola di marmo del camino alla mia destra, la specchiera e i mazzi di fiori sono rimaste semplici ombre, ai lati dei miei occhi. Più tardi avrei avuto anche troppo tempo per assorbire la loro immagine. Adesso il suo viso era alla stessa altezza del mio. Mi era parso di riconoscerla, o per lo meno c'e¬ra qualcosa in lei che mi era familiare. Le si vedevano un po' di capelli, di sotto il velo. Erano ancora biondi. Ho pensato che se li fosse tinti, che la tintura per capelli fosse qualcos'altro che poteva ottenere tramite il mercato nero, ma ora so che sono davvero biondi. Si era sfoltita le sopracciglia fino a formare del¬le sottili linee arcuate, che le davano un aspetto costante di sor¬presa, o indignazione, o curiosità, quali si potrebbero cogliere nell'espressione meravigliata di un bimbo, ma le palpebre ave¬vano un'aria stanca. Non così gli occhi, che erano dell'ostile az¬zurro piatto di un cielo di metà estate in piena luce, un azzurro che respingeva. Il naso un tempo doveva essere stato ciò che si definisce grazioso ma ora era troppo piccolo per la sua faccia, che non era grassa ma grande. Due rughe le scendevano agli angoli della bocca, ai lati del mento, stretto come un pugno.
«Desidero vederti il meno possibile» mi ha detto. «Mi aspetto che anche tu provi lo stesso nei miei riguardi».
Non ho risposto, perché un sì sarebbe stato insultante, un no sarebbe apparso polemico.
«So che non sei stupida» ha proseguito dopo aver aspirato e soffiato fuori il fumo. «Ho letto il tuo incartamento. Per quanto mi riguarda, questa è una transazione d'affari. Ma se avrò guai, restituirò guai. Mi capisci?»
«Sì, signora».
«Non chiamarmi signora» ha detto, irritata. «Tu non sei una Marta».
Non ho chiesto come dovessi chiamarla, perché capivo che si augurava che non avrei mai avuto l'occasione di chiamarla in nessun modo e mi è dispiaciuto. Avevo pensato di poterla tra¬sformare in una sorella maggiore, in una figura materna, in una persona che mi avrebbe capita e protetta. La Moglie, nella de¬stinazione precedente a questa, aveva trascorso la maggior parte del tempo nella sua camera da letto; le Marte dicevano che beve¬va. Volevo che questa fosse diversa. Volevo pensare che avrebbe potuto essermi simpatica, in un'altra epoca e luogo, in un'altra vita. Invece vedevo già che non mi sarebbe stata simpatica, né io a lei.
Ha spento la sigaretta, fumata a metà, in un piccolo portace¬nere a forma di conchiglia sul tavolino portalampada accanto a lei. Lo ha fatto con decisione, in un colpo solo, non con la serie di piccoli colpi garbati prediletti da molte Mogli.
«Quanto a mio marito» ha detto, «non è altro che questo: mio marito. Voglio che sia perfettamente chiaro. Finché la mor¬te non ci separerà. È stabilito così».
«Sì, signora» ho detto di nuovo, senza ricordarmi che non voleva che la chiamassi così. Un tempo c'erano delle bambole che parlavano se gli tiravi una cordicella sulla schiena; ho pen¬sato che era quella la mia voce, una voce monotona, da bambo¬la. Lei probabilmente mi avrebbe dato volentieri uno schiaffo. Loro possono colpirci, c'è un precedente nelle Scritture. Ma non con un arnese, solo con le mani.
«È una delle cose per cui abbiamo lottato» ha detto la Mo¬glie del Comandante. D'un tratto non stava guardando me, sta¬va guardando in basso le sue mani nodose tempestate di dia¬manti, e ho capito dove l'avevo già vista.
La prima volta l'avevo vista alla televisione. Avevo otto o no¬ve anni e quando mia madre dormiva, la domenica mattina, mi alzavo presto e andavo a guardare la televisione nel suo studio. Cambiavo continuamente canale, in cerca dei cartoni animati. Qualche volta, quando non mi riusciva di trovarne, guardavo L'Ora del Vangelo, dove spiegavano la Bibbia ai bambini e cantavano degli inni. Una delle interpreti femminili si chiamava Serena Joy. Era il primo soprano. Bionda, minuta, con un naso camuso ed enormi occhi azzurri che rivolgeva verso l'alto du¬rante gli inni. Sapeva sorridere e piangere nello stesso tempo, una o due lacrime le scivolavano graziosamente giù per le guan¬ce, come se venissero a darle l'imbeccata, mentre la voce saliva nelle note più alte, tremula, ma senza sforzo. Dopo si era dedi¬cata ad altre cose.
La donna seduta davanti a me era Serena Joy. O lo era stata, un tempo. Era peggio di quanto pensassi.
4
Cammino lungo il vialetto di ghiaia che divide il prato sul retro, con precisione, come una scriminatura. È piovuto durante la notte; l'erba da entrambi i lati è bagnata, l'aria umida. Qua e là ci sono dei vermi, prova della fertilità del terreno, che, sorpresi dal sole, giacciono mezzi morti, flessibili e rosei come labbra.
Apro il cancelletto di legno bianco e mi dirigo verso il can¬cello principale. Sul viale d'accesso, un Custode assegnato alla nostra residenza sta lavando l'automobile. Questo deve signifi¬care che il Comandante è in casa, nei suoi appartamenti, al di là della sala da pranzo e oltre, dove sembra passare la maggior parte del tempo.
L'automobile è un modello carissimo, una Turbine, meglio della Biga e molto meglio della robusta e pratica Ippopotamo. È nera, il colore di un'automobile di prestigio o di un carro fu¬nebre, è lunga e lucente. L'autista la lucida con una pelle di ca¬moscio, amorevolmente. Questo almeno non è cambiato, il mo¬do in cui gli uomini accarezzano le buone automobili.
Indossa l'uniforme dei Custodi, ma ha il berretto inclinato, di sghembo, e le maniche, rimboccate sino ai gomiti, mettono in mostra gli avambracci, abbronzati e ricoperti di una peluria nera. Ha una sigaretta all'angolo della bocca, ed è la prova che anche lui può barattare qualcosa al mercato nero. Conosco il suo nome: Nick. Lo so perché ho sentito Rita e Cora parlare di lui, e ho sentito anche il Comandante che gli diceva: «Nick, non avrò bisogno dell'auto».
Abita qui con noi, sopra il garage. Appartiene a un rango inferiore: non gli è stata assegnata una donna, neppure una. Ha un aspetto indefinibile, non ha difetti, manca di caratteri¬stiche. Ma sembra che non lo sappia o non gliene importi. È troppo noncurante, non è abbastanza servile. Può darsi che sia stupido, ma non credo. Ha un'aria sospetta, si diceva una volta di quelli come lui, oppure: ha un odore di frode, d'inganno. È uno spostato, lo si può fiutare a distanza. Mio malgrado, penso a come possa essere il suo odore. Ha la pelle abbronzata, mor¬bida, velata dal fumo della sigaretta. Sospiro, aspirando quel fumo.
Lui mi guarda, e vede che lo guardo. Ha la faccia di un francese, magra, tutta piani e spigoli, con delle rughe attorno alla bocca come chi sorride spesso. Aspira un'ultima boccata di fumo, lascia cadere la sigaretta sul viale, e la schiaccia col piede. Fischia. Poi mi strizza l'occhio.
Abbasso la testa, mi giro in modo che le alette bianche mi nascondano il viso, e proseguo. Lui ha affrontato un rischio. Perché? Non ha paura che vada a denunciarlo?
Forse voleva fare solo amicizia. Ha visto l'espressione della mia faccia e l'ha scambiata per qualcos'altro. In realtà quello che volevo era la sigaretta.
Forse si trattava di una prova, per vedere che cosa avrei fatto.
Forse Nick è un Occhio.
Apro il cancello principale e me lo chiudo alle spalle, guardan¬do in basso ma non indietro. Il marciapiede è di mattoni rossi. Un campo di rettangoli, che ondula lievemente dove la terra, sotto, si è deformata, per decenni e decenni di gelo invernale. I mattoni sono vecchi, eppure hanno un aspetto fresco e chia¬ro. I marciapiedi sono tenuti molto più puliti di quanto non si facesse prima. Cammino fino all'angolo e aspetto. Non ero brava ad aspettare. Serve anche sapere aspettare, diceva Zia Lydia. Ce lo faceva imprimere nella memoria. Diceva anche: Non tutte tra voi ce la faranno fino in fondo. Qualcuna cadrà su un terreno arido o spinoso. Qualcuna di voi ha radici su¬perficiali. Aveva una verruca sul mento che andava su e giù mentre parlava. Diceva: Consideratevi come dei semi, e in quell'istante la sua voce era carezzevole, cospiratoria, come le voci di quelle donne che tenevano corsi di balletto per bambini, e dicevano: Ora braccia all'insù, nell'aria, facciamo finta di essere degli alberi.
Sono lì sull'angolo, e faccio finta di essere un albero.
Una forma, rossa con ali bianche attorno al viso, una forma co¬me la mia, una donna indefinibile, vestita di rosso, con un ca¬nestro, viene lungo il marciapiede di mattoni verso di me. Mi raggiunge e ci scrutiamo in viso l'ima con l'altra, chiuse tra i nostri paraventi di stoffa bianca. È lei.
«Sia benedetto il frutto» mi dice, il saluto convenzionale tra di noi.
«Possa il Signore schiudere» rispondo io, la convenzionale risposta. Svoltiamo dietro un angolo e andiamo avanti insieme oltrepassando le grandi case, verso il centro della città.
Non ci è permesso andarci se non in due. Si dice che sia per proteggerci, ma è assurdo: siamo già ben protette. La verità è che lei è la mia spia, così come io sono la sua. Se una di noi passa tra le maglie della rete per via di qualcosa che accade du¬rante una delle nostre passeggiate quotidiane, l'altra sarà ritenu¬ta responsabile.
Questa donna è la mia compagna da due settimane. Non so che sia successo a quella che c'era prima di lei. Un giorno, sem¬plicemente, non l'ho vista più, e al suo posto c'era questa. Non è il genere di cose su cui fare domande, perché la risposta di solito non è quella che vuoi avere. Comunque, in questo caso, non ci sarebbe risposta.
Questa è un po' più grassa di me. Ha gli occhi castani. Si chiama Diglen, e questo è tutto ciò che so di lei. Cammina con¬tegnosamente, a capo chino, le mani inguantate di rosso e con¬giunte, procede a passettirii, come un maiale ammaestrato che si muova sulle zampe posteriori. Durante questa passeggiata non ha mai detto nulla che non fosse strettamente ortodosso, ma neppure io del resto. Può darsi che sia una vera credente, un'Ancella non solo di nome. Non posso rischiare.
«Ho sentito che la guerra sta andando bene» dice. «Sia lo¬de» rispondo.
«C'è stato mandato il bel tempo».
«E lo ricevo con gioia».
«Hanno sconfitto altri ribelli, da ieri».
«Sia lode» dico, senza chiederle come lo ha saputo. «Che cos'erano?»
«Battisti. Avevano una roccaforte sulle Colline Azzurre. Li hanno inceneriti».
«Sia lode».
In certi momenti mi augurerei che tenesse la bocca chiusa e mi lasciasse camminare in pace, ma sono affamata di notizie, di qualsiasi genere di notizie. Anche se sono notizie false, devono pur significare qualcosa.
Si raggiunge la prima barriera, che è come le barriere che bloccano i lavori stradali, o gli scavi delle fognature, un cavalletto ad assi incrociate, dipinto a strisce gialle e nere e un esa¬gono rosso che significa alt. Accanto al cancello ci sono delle lanterne, spente perché non è notte. Sopra di noi, lo so, ci sono dei riflettori, appesi ai pali del telefono, da usarsi in caso di emergenza, e degli uomini con le mitragliatrici nei fortini ai lati della strada. Non vedo né i riflettori né i fortini, per via delle alette che ho attorno al viso, però so che ci sono.
Al di là della barriera, ad aspettarci al cancelletto, ci sono due uomini, nella uniforme verde dei Custodi della Fede, con le mostrine sulle spalle e i berretti: due spade incrociate, su un triangolo bianco. I Custodi non sono dei veri soldati. Vengono usati per operazioni di polizia e altre funzioni secondarie, come zappare il giardino della Moglie del Comandante, per esempio, e sono stupidi o anziani o invalidi oppure giovanissimi, a pre-scindere da quelli che sono Occhi in incognito.
Questi due sono giovanissimi: uno ha i baffi ancora radi, l'altro il viso pieno di brufoli. La loro giovinezza è commoven¬te, ma so che non posso lasciarmi ingannare. I giovani sono spesso i più pericolosi, i più fanatici, i più imprudenti con le ar¬mi. Non hanno avuto il tempo di imparare a vivere. Con loro si deve andare cauti.
La scorsa settimana hanno sparato a una donna, proprio da queste parti. Era una Marta. Si stava frugando tra le pieghe del¬l'abito, per prendere il lasciapassare, e loro hanno ritenuto che stesse cercando una bomba. Hanno pensato che fosse un uomo travestito. Ce ne sono stati altri di questi incidenti.
Rita e Cora la conoscevano. Ho sentito che ne parlavano, in cucina.
«Facevano il loro lavoro» diceva Cora. «Per proteggerci».
«Nulla di più protetto che un morto» ribatteva Rita, con durezza. «Lei badava ai fatti suoi. Non c'era motivo di spararle».
«È stato un incidente».
«Non ci sono incidenti, qui. Ogni cosa è voluta». Sentivo sbattere le pentole, nell'acquaio.
«Be', comunque, qualcuno ci penserà due volte prima di far saltare in aria questa casa» diceva Cora.
«Comunque era una che lavorava senza risparmiarsi, e ha fatto una brutta morte».
«C'è di peggio. Almeno è stata una morte rapida».
«È vero, ma io vorrei avere un po' di tempo, prima. Per si¬stemare tante cose».
I due giovani Custodi ci salutano, portando tre dita alla visiera del berretto. Ci vengono accordati di questi omaggi. Si ritiene che ci si debba mostrare rispetto, a causa della natura del no¬stro servizio.
Esibiamo il lasciapassare togliendolo dalle tasche che sono inserite nelle ampie maniche dei nostri vestiti e chiuse da cer¬niere lampo. Loro lo controllano e lo timbrano. Un uomo entra nel fortino di destra, per trascrivere i nostri numeri sul Compucheck.
Nel restituirmi il lasciapassare, quello coi baffi radi, color pesca, piega il capo per cercare di guardarmi la faccia. Sollevo la testa un pochino, per aiutarlo, lui vede i miei occhi e io i suoi, lui arrossisce. Ha una faccia lunga e triste, come quella di una pecora, ma con i grandi occhi di un cane, uno spaniel non un terrier. La sua pelle è pallida e ha un aspetto molle e mala¬ticcio, come la pelle sotto una crosta. Ciò nonostante, sono tentata di porre la mano su quel viso scoperto.
È lui a ritrarsi.
È un avvenimento, una piccola sfida alle regole, così piccola da non poter esser scoperta, ma questi attimi sono le ricom¬pense che mi offro, come le caramelle che, da bambina, accu¬mulavo in fondo a un cassetto. Questi attimi sono possibilità, spiragli.
E se venissi di notte, quando è in servizio da solo (ma non gli sarebbe mai concesso di essere completamente solo) e gli permettessi di penetrare oltre le mie bianche alette? E se mi togliessi di dosso il sudario rosso e mi mostrassi a lui, a loro, al lume incerto delle lanterne? Forse anche loro ci penseranno tal¬volta, mentre stanno lì, all'infinito, accanto alla barriera da cui nessuno passa mai tranne i Comandanti dei Fedeli nel brusio delle loro lunghe vetture nere, o le loro azzurre Mogli, le figlie bianco-velate, nel loro ligio recarsi a Rigenerazioni o a Precivaganze, o le loro goffe Marte in verde, talvolta, in una Partomobile, o le loro rosse Ancelle, a piedi. Ogni tanto, dalla barriera passa anche un furgone verniciato di nero, con l'occhio alato di bianco sul lato. I finestrini dei furgoni sono oscurati e gli uomi¬ni sui sedili anteriori portano occhiali neri: una doppia oscurità.
I furgoni sono certo più silenziosi delle altre automobili. Quando passano, noi distogliamo gli occhi. Se vi sono suoni provenienti dall'interno, cerchiamo di non sentire. Nessuno ha un cuore perfetto.
Quando i furgoni neri raggiungono un posto di controllo, vengono fatti passare a gesti, non si devono fermare. I Custodi non si arrischierebbero a guardar dentro, a controllare, dubita¬no della propria autorità. Qualsiasi cosa pensino.
Se pensano; ma non basta guardarli per saperlo.
Non credo che pensino a vestiti abbandonati sul prato. Pen¬sare a un bacio vuol dire pensare immediatamente ai riflettori che si accendono, ai colpi di fucile. Forse pensano a compiere il loro dovere e a essere promossi al grado di Angeli, sperano di avere il permesso di sposarsi e, se riusciranno a raggiungere il potere e a vivere sino a un'età ragguardevole, di ottenere un'Ancella personale.
Quello coi baffi ci apre il cancelletto pedonale, si fa indietro, tenendosi ben distante, e noi passiamo. Mentre ci allontaniamo so che ci osservano, questi due uomini cui non è ancora per¬messo toccare donne. Toccano con gli occhi, invece, e io muo¬vo un poco i fianchi, sentendomi fluttuare addosso la lunga ve¬ste rossa. È come fare marameo da dietro un recinto o stuzzica¬re un cane con un osso tenuto a distanza, e mi vergogno di far¬lo, perché nulla di tutto quanto accade è colpa loro, sono trop¬po giovani.
Poi scopro che dopo tutto non mi vergogno. Mi piace il po¬tere; il potere di stuzzicare un cane con un osso, un potere pas¬sivo ma reale. Spero che, guardandoci, venga loro voglia di far l'amore con noi, e debbano strofinarsi contro le barriere verni¬ciate, furtivamente. Soffriranno, più tardi, la notte, nei loro letti tutti uguali. Non hanno sfoghi ora se non se stessi, e questo è un sacrilegio. Non hanno giornali, film, che sostituiscano quello che gli viene tolto, solo io e la mia ombra, che ci allontaniamo mentre loro sull'attenti, rigidi, presso il blocco stradale, ci guar¬dano scomparire.
5
Moltiplicata per due, cammino per la strada. Sebbene non sia¬mo più nella zona abitata dai Comandanti, ci sono anche qui case grandi. Davanti a una di queste un Custode sta tagliando l'erba di un prato. I prati sono ben tenuti, le facciate sono gra¬ziose, in buono stato di conservazione; simili alle belle riprodu¬zioni che si stampavano sulle riviste di case, giardini e arreda¬mento. C'è la stessa assenza di persone, la stessa aria ferma.
La strada è quasi simile a un museo, o alla strada di un pla¬stico di città, costruito per mostrare come si viveva un tempo. Come in quelle riproduzioni, in quei musei, in quei plastici, non ci sono bambini.
Questo è il cuore di Galaad, dove la guerra non può entrare tranne che attraverso la televisione. Non sappiamo con certezza dove siano i suoi confini, che variano a seconda degli attacchi e contrattacchi, ma questo è il centro, dove nulla si muove. La Repubblica di Galaad, diceva Zia Lydia, non conosce confini. Galaad è dentro di te.
Qui un tempo vivevano medici, avvocati, professori universi¬tari. Ora gli avvocati non ci sono più e l'università è chiusa.
Io e Luke camminavamo insieme, talvolta, per queste strade.
Si parlava di comprare una casa come una di queste, una vecchia casa grande, da ristrutturare. Avremmo avuto un giardi¬no, altalene per i bambini. Avremmo avuto dei bambini. Sape¬vamo che non era molto probabile che ci saremmo mai potuti permettere tutto quello che desideravamo, ma era qualcosa di cui parlare, un gioco per le domeniche. Una libertà che ora sembra del tutto effimera.
Imbocchiamo una strada larga, dove il traffico è maggiore. Passano delle automobili per la maggioranza nere, ma anche grigie o marroni. Ci sono altre donne con dei canestri, alcune in rosso, altre vestite del verde opaco delle Marte, altre ancora negli abiti a strisce rosse, blu, verdi, abiti dozzinali, miseri, che contrassegnano le donne degli uomini più poveri. Economogli, così sono chiamate. A queste donne non vengono assegnate sin¬gole funzioni, devono fare tutto, se possono. Talvolta c'è una donna tutta in nero, una vedova. Un tempo erano di più, sem¬bra che siano in diminuzione.
Non si vedono le Mogli dei Comandanti sui marciapiedi. So¬lo nelle automobili.
Qui i marciapiedi sono di cemento. Evito di camminare sulle fessure, come fanno i bambini. Ricordo i miei piedi su questi marciapiedi, nel tempo addietro, e le scarpe che portavo. Tal¬volta erano scarpe sportive, da corsa, con suole elastiche, fori per la traspirazione, e stelle di tessuto fluorescente che riflette¬vano la luce di notte, anche se correvo solo di giorno e lungo strade frequentate.
Allora le donne non erano protette.
Ricordo le regole, regole che non venivano mai enunciate apertamente ma che ogni donna conosceva: non aprire la porta a un estraneo, anche se dice che è un agente della polizia. Far¬gli infilare sotto la porta il suo tesserino di riconoscimento. Non fermarsi a soccorrere un automobilista che finga di essere in difficoltà. Tenere un atteggiamento riservato e proseguire per la propria strada. Se qualcuno fischia, non voltarsi a guar-dare. Non entrare in una lavanderia a gettoni, da sola, la notte.
Le lavanderie a gettoni. Ci andavo in pantaloni corti, jeans, mutandine da jogging. Portavo con me la biancheria, il sapone, i soldi, soldi che avevo guadagnato. Penso a quello che significa subire questo controllo continuo.
Ora camminiamo per la stessa strada, a due per due, vestite di rosso, e nessun uomo ci grida oscenità, ci parla, ci tocca. Nessuno fischia.
Esiste più di un genere di libertà, diceva Zia Lydia. La liber¬tà di e la libertà da. Nei tempi dell'anarchia, c'era la libertà di. Adesso vi viene data la libertà da. Non sottovalutatelo.
Davanti a noi, sulla destra, c'è il negozio dove ordiniamo i vestiti. Qualcuno li chiama, giustamente, costumi. I costumi, le usanze, sono difficili da cambiare. Sulla porta del negozio, c'è un'enorme insegna di legno a forma di giglio d'oro: Gigli di Campo, così si chiamava. Si può vedere il punto, sotto il giglio, dove i caratteri sono stati coperti di vernice, quando hanno de¬ciso che anche i nomi dei negozi erano una tentazione troppo grande per noi. Adesso i luoghi si riconoscono solo dalle loro insegne.
Gigli un tempo era una sala cinematografica. Gli studenti la frequentavano moltissimo; ogni primavera si teneva un festival di Humphrey Bogart, con Lauren Bacall oppure Katharine Hepburn, donne indipendenti, che disponevano liberamente della propria vita. Indossavano camicette con i bottoni sul da¬vanti che suggerivano le possibilità della parola aprirsi. Queste donne potevano lasciarsi aprire; oppure no. Sembravano in gra¬do di scegliere. Anche noi sembravamo in grado di scegliere, al¬lora. Eravamo una società che moriva per troppa libertà di scel¬ta, diceva Zia Lydia.
Non so quando hanno smesso di organizzare il festival. Do¬vevo essere già cresciuta. Così non ci ho fatto caso.
Non entriamo nel negozio Gigli, ma attraversiamo la strada e imbocchiamo una via traversa. La nostra prima sosta è presso un emporio con un'altra insegna di legno: tre uova, un'ape, una mucca. Latte e Miele. C'è una coda, e attendiamo il nostro tur¬no, a due a due. Noto che oggi hanno le arance. Da quando i Libertheos hanno perso l'America Centrale è difficile procurarsi le arance: talvolta ci sono, talvolta no. La guerra è un ostacolo al commercio di arance con la California, e non si può fare affi-damento neppure sulla Florida, quando ci sono blocchi stradali o quando vengono fatte saltare le ferrovie. Guardo le arance e ne desidero una. Ma non ho portato il buono necessario. Ritor¬nerò e ne parlerò con Rita, penso. Lei sarà contenta. Sarà qual¬cosa, un piccolo risultato, avere delle arance.
Quelle che hanno raggiunto il banco consegnano i loro buo¬ni ai due uomini in uniforme da Custode che si trovano dall'al¬tro lato. Nessuno parla molto, sebbene ci sia un fruscio, e le te¬ste delle donne si muovano furtivamente da un lato all'altro: è qui, mentre fai la spesa, che puoi vedere qualcuna che conosci, che hai conosciuto nel tempo addietro, o al Centro Rosso. Solo vedere di sfuggita un volto noto dà un po' di coraggio. Se po¬tessi vedere Moira, semplicemente vederla, sapere che è ancora viva. È difficile immaginarsi ora, di avere un'amica. Ma Diglen, accanto a me, non guarda. Forse non conosce più nessuno. Forse sono tutte sparite, le donne che conosceva. O forse non vuole essere vista. Sta lì ritta, in silenzio, a capo chino.
Mentre attendiamo in doppia coda, la porta si apre ed en¬trano altre due donne, entrambe con gli abiti rossi e le alette bianche delle Ancelle. Una di loro è visibilmente incinta; il ven¬tre, sotto l'ampia veste, è un trionfo di gonfiore. C'è un movi¬mento nel locale, un mormorio, una fuga di sospiri; nostro mal¬grado voltiamo il capo, apertamente, per veder meglio; ci pru-dono le dita dalla voglia di toccarla. Per noi è una presenza ma¬gica, un oggetto di invidia e ammirazione, la desideriamo. È una bandiera in cima a un colle, a mostrarci ciò che si può an¬cora fare, a dirci che anche noi possiamo essere salvate. Le donne nel locale bisbigliano, quasi a voce alta, tanto sono ecci¬tate.
«Chi è?» sento dire dietro le mie spalle.
«Diwayne. No. Diwarren».
«Esibizionista» sibila una voce, ed è vero. Una donna incin¬ta in quel modo non deve uscire, non deve fare la spesa. La passeggiata quotidiana non è più prescritta, per tenere in effi¬cienza i muscoli addominali. Ha bisogno solo di ginnastica da camera, di esercizi respiratori. Può starsene a casa. Ed è perico¬loso per lei stare fuori. Ci dev'essere un Custode, sulla soglia del negozio, ad aspettarla. Adesso che è portatrice di vita, è più vicina alla morte, e ha bisogno di una protezione speciale. La gelosia potrebbe perderla, è già successo. Adesso tutti i bambini sono desiderati, ma non da tutti. Forse la passeggiata è un suo capriccio, e loro assecondano i capricci, quando si è giunti a questo punto e non ci sono stati disturbi durante la gravidanza. O forse lei è una di quelle che dicono: Guardate, tutto sulle mie spalle, una martire. Le intravedo il viso, mentre lo solleva per guardarsi attorno. La voce dietro di me aveva ra¬gione. È venuta a far sfoggio di sé. È raggiante, rosea, gode di ogni istante.
«Calma» dice uno dei Custodi dietro il bancone, e noi ci zittiamo come scolarette.
Io e Diglen abbiamo raggiunto il banco. Consegnamo i no¬stri buoni, e un Custode trascrive i loro numeri sul Compubite mentre l'altro ci dà i nostri acquisti: il latte, le uova. Li riponiamo nei canestri e usciamo di nuovo, oltrepassando la donna in¬cinta e la sua partner, che accanto a lei sembra assottigliata e avvizzita come tutte noi. Il ventre della donna incinta è come un enorme frutto. Humungous, parola della mia infanzia. Le mani posate sopra come per difenderlo, o come se ne traessero calore e forza.
Mentre passo lei mi guarda dritto negli occhi, e io so chi è. Era al Centro Rosso con me, una delle preferite di Zia Lydia. Non mi è mai stata simpatica. Nel tempo addietro, si chiamava Janine.
Janine mi guarda, e agli angoli della sua bocca c'è la traccia di un sorriso compiaciuto. Dà un'occhiata in basso, dove il mio ventre è piatto sotto il vestito rosso, e le alette tornano a coprir¬le il viso. Le scorgo solo un po' della fronte, e la punta rosea del naso.
Poi andiamo al negozio Carne, che è contrassegnato da una grande cotoletta di maiale tagliata nel legno e appesa a due ca¬tene. Non c'è una gran coda qui; la carne è costosa, e anche i Comandanti non ne mangiano tutti i giorni. Diglen prende una bistecca, però, ed è la seconda volta questa settimana. Lo dirò alle Marte: è una di quelle cose che a loro piace sentire. Si inte¬ressano molto a come sono gestite le altre case; questi fram¬menti di pettegolezzo offrono loro un pretesto di orgoglio o di scontento.
Io prendo il pollo, avvolto nella carta da macellaio e già le¬gato con lo spago. Non si usa molto la plastica, non più. Ricor¬do quegli enormi sacchetti di plastica bianca del supermercato; mi dispiaceva sprecarli e li ammucchiavo sotto l'acquaio, finché veniva il giorno in cui erano troppi e se aprivo l'anta dello stipo uscivano e scivolavano sul pavimento. Luke protestava. Ogni tanto prendeva tutti i sacchetti e li buttava via.
Sono pericolosi, potrebbe mettersene uno in testa, diceva. Come fanno i bambini, per giocare. No, rispondevo, è troppo grande (o troppo sveglia, o troppo fortunata). Ma provavo un brivido di paura, e poi un senso di colpa per essere stata così incosciente. Era vero, davo tutto per scontato: avevo fiducia nel destino, allora. Li terrò in un armadio più alto, dicevo. Non te-nerli affatto, diceva lui, tanto non li usiamo mai. Servono per la spazzatura, dicevo. Lui diceva...
Non qui, non adesso. Non dove la gente ti guarda. Mi giro, vedo la mia immagine riflessa nel cristallo della vetrina. Siamo uscite, siamo in strada.
Un gruppo di persone sta venendo verso di noi. Sono turisti, vengono dal Giappone pare, forse è una delegazione commer¬ciale, in visita ai reperti storici o in cerca di colore locale. Sono minuscoli e ben fatti; sia gli uomini che le donne hanno la pro¬pria macchina fotografica, sia gli uomini che le donne il proprio sorriso. Si guardano intorno, con gli occhi vivaci, piegando il capo da un lato come pettirossi, aggressivi nella loro stessa alle¬gria, e non posso fare a meno di fissarli con curiosità. È da molto tempo che non vedo donne indossare gonne così corte, scendono appena oltre le ginocchia e le gambe sgusciano da sotto, quasi nude nelle loro calze sottili; le scarpe hanno i tacchi alti con dei cinturini fissati ai piedi come delicati strumenti di tortura. Le donne ondeggiano sui tacchi a spillo come su tram¬poli, sbilanciate; hanno il capo scoperto, e i capelli mostrano tutta la loro cupa sessualità. Portano un rossetto color carminio, che sottolinea le umide cavità della bocca, come gli scarabocchi sulle pareti dei gabinetti nel tempo addietro.
Smetto di camminare. Diglen si ferma, accanto a me, e so che neanche lei riesce a distogliere gli occhi da quelle donne. Siamo affascinate, ma anche disgustate. Paiono svestite. Ci è vo¬luto poco tempo per mutare parere, su cose come queste. Poi penso: anch'io mi vestivo così. Così era la libertà. Si chiamava moda occidentale.
I turisti giapponesi vengono verso di noi, cinguettanti, e noi distogliamo il capo troppo tardi: ci hanno viste in faccia. C'è un interprete, nel suo abito blu, con la cravatta a disegni rossi e la spilla. Si fa avanti, fuori dal gruppo, e ci blocca la strada. I turisti fanno capannello dietro di lui: uno di loro alza la mac¬china fotografica.
«Scusatemi» dice l'interprete rivolto a noi due, abbastanza educatamente. «Stanno chiedendo se possono fotografarvi».
Guardo in basso il marciapiede, scuoto il capo per dire No. Loro non devono vedere altro che le alette bianche, un tratto del viso, il mento e parte della bocca. Gli occhi no. Mi tratten¬go dal guardare l'interprete, perché si dice che quasi tutti fac¬ciano parte degli Occhi. Mi trattengo anche dal rispondere Sì. La modestia è nell'invisibilità, diceva Zia Lydia. Non scordate¬lo. Essere viste, viste (la voce le tremava), è essere penetrate. Voi ragazze, dovete essere impenetrabili.
Ci chiamava ragazze.
Accanto a me, anche Diglen sta in silenzio. Si è infilata le mani rossoguantate dentro le maniche, per nasconderle.
L'interprete si volta verso il gruppo dei giapponesi, parla con loro scandendo le parole. So quello che dirà, l'ho già senti¬to altre volte. Dirà loro che qui le donne hanno costumi diversi, che fissarle attraverso le lenti di una macchina fotografica equi¬varrebbe per loro a un atto di violenza.
Guardo in basso, sul marciapiede, attratta dai piedi delle donne. Una indossa sandali aperti in punta, ha le unghie dipin¬te di rosa. Ricordo l'odore dello smalto, che si arricciava quan¬do ci si dava la seconda mano troppo presto, la pressione del collant liscio e aderente sulla pelle, la sensazione delle dita dei piedi spinte verso l'apertura dei sandali da tutto il peso del cor¬po. La donna con le unghie smaltate si appoggia prima su un piede poi sull'altro. Vorrei mettermi quei sandali, me li sento addosso. L'odore dello smalto dalle unghie mi ha dato una sen¬sazione di avidità.
«Scusatemi» dice nuovamente l'interprete, per richiamare la nostra attenzione. Io annuisco, per mostrare di averlo sentito. «Chiede se siete felici». Posso immaginare la loro curiosità: So¬no felici? Come possono essere felici? Fissano i loro brillanti oc¬chi neri su di noi; si sporgono in avanti per afferrare le nostre risposte, specialmente le donne, ma anche gli uomini: siamo se¬grete, proibite, li eccitiamo.
Diglen non dice niente. C'è un attimo di silenzio. Ma talvol¬ta è pericoloso non parlare.
«Sì, siamo molto felici» mormoro.
Che altro potrei dire?
6
Diglen si ferma un isolato dopo il negozio Carne come se esi¬tasse sulla strada da prendere. Abbiamo la possibilità di sceglie¬re. Potremmo ritornare direttamente, oppure fare un giro più lungo, ma sappiamo già quale percorso faremo, perché sceglia¬mo sempre quello.
«Vorrei passare dalla chiesa» dice Diglen, in tono pio. «Be¬nissimo» rispondo, sebbene sappia quanto lei ciò che davvero vuole.
Procediamo con calma. C'è il sole, nel cielo bianche nubi la¬nose assomigliano a pecore senza testa. Con le nostre alette, i no¬stri paraocchi, è arduo guardare in su, arduo avere l'intera vista del cielo, a qualsiasi ora. Ma possiamo farlo, un poco per volta, con un rapido movimento del capo, su e giù, a destra e a sinistra. Abbiamo imparato a vedere il mondo a piccoli assaggi. A destra, se la si potesse percorrere, c'è una strada che scende verso il fiu¬me, fino a una rimessa di barche, dove una volta tenevano i remi a pagaia. Ci sono dei ponticelli, degli alberi, degli argini verdi, dove ci si poteva sedere a guardare l'acqua; c'erano dei ragazzi con le braccia nude, che gareggiavano, sollevando i remi nella lu¬ce del sole. Sulla strada che porta al fiume ci sono i vecchi dormitori, ora adibiti ad altri usi, con le loro torrette da fiaba, dipinte in bianco, oro e blu. Quando pensiamo al passato scegliamo di ricordare le cose belle, vogliamo credere che tutto fosse così.
Anche lo stadio si trova laggiù. Vi hanno luogo le Rigenera¬zioni Maschili. Oltre alle partite di calcio, che ci sono ancora.
Non vado più al fiume, o sui ponti. Neanche in metropolita¬na, sebbene ci sia una stazione proprio lì. Non ci è permesso di usarla, ci sono i Custodi adesso, non c'è un motivo ufficiale che giustifichi il nostro scendere per quei gradini, o il viaggiare sui treni sotto il fiume, verso la città principale. Perché mai do¬vremmo voler andare da qui a là? Solo per combinare qualcosa di male e loro lo verrebbero a sapere.
La chiesa è piccola, una delle prime che hanno costruito qui, centinaia di anni fa. Adesso è un museo. All'interno si possono vedere quadri di donne in lunghe vesti scure, con i capelli co¬perti da cuffie bianche, e di uomini dal portamento eretto, sen¬za sorriso, anch'essi vestiti di scuro. I nostri antenati. L'ingresso è gratuito.
Noi non entriamo, però, ci fermiamo sul viale, a guardare il cimitero. Ci sono ancora le vecchie pietre tombali consunte dal tempo, erose, coi teschi e le ossa incrociate (memento mori), i loro angeli dalle facce paffute, le loro alate clessidre a ricordarci del trascorrere del tempo mortale e poi, appartenenti a un seco¬lo più tardo, le urne e i salici del compianto per i defunti.
Non hanno manomesso le pietre tombali, e nemmeno la chiesa. È solo la storia più recente che li offende.
Il capo di Diglen è reclinato, come se stesse pregando. Fa così ogni volta. Forse c'è qualcuno, qualcuno di particolare, che è morto e che le era caro, un uomo, un bambino. Ma non ci posso credere del tutto. Penso che tutto quello che fa sia una esibizione, una recita, vuole fare bella figura e sfrutta al massi¬mo ogni sua azione, ogni suo atteggiamento. Ma probabilmente lei pensa lo stesso di me. Come potrebbe essere altrimenti?
Adesso voltiamo le spalle alla chiesa ed ecco che cosa in ve¬rità siamo venute a vedere: il Muro.
Anche il Muro è vecchio centinaia d'anni; o più di cent'anni almeno. Come i marciapiedi, è di mattoni rossi e un tempo de¬ve essere stato semplice ma bello. Ora ogni portale è custodito da sentinelle e sovrastato da colonne di metallo con in cima dei brutti proiettori moderni. Il filo spinato corre lungo la base e lungo la sommità vi sono dei cocci di vetro infissi nel cemento. Nessuno oltrepassa volentieri quei portali. Le precauzioni ri¬guardano chi tenti di uscirne, sebbene anche solo raggiungere il Muro, dall'interno, superando il sistema di allarme elettronico, sia pressoché impossibile.
Accanto al passaggio principale ci sono altri sei corpi appesi per il collo, le mani legate sul davanti, le teste, chiuse in sacchi bianchi, ripiegate di lato, sulla spalla. Ci deve essere stata una Rigenerazione Maschile stamattina presto. Non ho sentito le campane. Forse mi ci sono abituata.
Ci fermiamo, insieme, come a un segnale, e stiamo lì a guar¬dare i corpi. Non ha importanza se guardiamo. Ci è permesso guardare ed è per questo che i cadaveri sono appesi al Muro. Talvolta restano lì interi giorni, finché non ce ne sia una nuova infornata, perché possano vederli in molti.
Sono appesi a dei ganci. I ganci sono stati infissi nel Muro a questo scopo. Non tutti sono occupati. Sembrano uncini per gente senza braccia. O punti interrogativi d'acciaio, capovolti e sghembi.
Sono i sacchi sui capi la cosa peggiore, peggio di quanto sa¬rebbero le stesse facce, fanno sì che gli uomini sembrino bam¬bole su cui non sono ancora stati dipinti gli occhi, il naso, la bocca, simili a spaventapasseri, e in un certo senso lo sono, poi¬ché la loro funzione dev'essere, appunto, quella di spaventare. Oppure sembra che le teste siano dei sacchi imbottiti di una materia qualunque, farina o segatura. È evidente la pesantezza delle teste, la loro inerzia, per cui la forza di gravità le tira in giù e manca la vita a riportarle su. Le teste sono degli zeri. Però se si guarda attentamente, come stiamo facendo, si scorgono i contorni dei volti sotto il tessuto bianco, come ombre grigie. Sono teste di pupazzi di neve, gli occhi sono fatti col carbone e il naso è un buco dove c'era una carota che è caduta. Ora si stanno sciogliendo.
Ma su un sacco c'è del sangue, che ha imbevuto il tessuto bianco dove doveva esserci la bocca, e forma un'altra bocca, piccola e rossa, come le bocche dipinte coi pennarelli dai bam¬bini dell'asilo. L'idea infantile di un sorriso. Questo sorriso di sangue è ciò che ferma l'attenzione. Non sono pupazzi di neve.
Gli uomini appesi portano camici bianchi, come quelli dei medici o degli scienziati. Medici e scienziati non sono gli unici a portare camici bianchi, ma oggi è tra questi che devono aver col¬pito. Ognuno ha un cartello appeso al collo che indica la causa della condanna alla pena capitale: il disegno di un feto umano.
Erano medici, quindi, nel tempo addietro, quando l'aborto era legale. Non li chiamavano «fabbricanti di angeli»? Sono stati scoperti dalle indagini sui registri degli ospedali o, più pro¬babilmente, dato che quasi tutti gli ospedali sono stati distrutti quando è risultato chiaro quello che stava per succedere, hanno trovato degli informatori: una ex infermiera (anzi due, poiché non è più ammessa la testimonianza di una sola donna), un al¬tro medico che sperava di salvarsi la pelle, qualcuno che si è vendicato di un nemico, a caso, o qualcuno che tentava dispe¬ratamente di mettersi in salvo. Non sempre, tuttavia, agli infor¬matori viene concesso il perdono.
Ci hanno detto che questi uomini sono come dei criminali di guerra. Non è una scusante che le loro azioni fossero legali a quel tempo: i loro crimini sono retroattivi. Hanno commesso delle atrocità, e devono essere puniti in maniera esemplare per gli altri, anche se non sarebbe necessario, perché nessuna don¬na, sana di mente, in questi giorni cercherebbe di impedire la nascita del proprio figlio, se fosse così fortunata da riuscire a concepirlo.
Si vuole suscitare in noi, verso questi morti, odio e disprez¬zo. Non è quel che provo io. Questi corpi penzolanti dal Muro sono di viaggiatori giunti qui dal passato. Anacronismi. Quel che sento verso di loro è un senso di vuoto. Sento che non de¬vo sentire niente. Ma in parte sono sollevata perché nessuno di questi uomini è Luke. Luke non era medico. Non lo è.
Guardo quel rosso sorriso. Rosso come i tulipani nel giardino di Serena Joy, verso la base della corolla dove cominciano a ri¬chiudersi. Il colore è identico ma non c'è un legame tra questi due rossi. I tulipani non sono tulipani di sangue, i sorrisi rossi non sono fiori, nessuna delle due cose aiuta a capire l'altra. Il tulipano non è una ragione per non credere all'impiccato, o vi¬ceversa. Tutto qui è coerente e reale, è attraverso questa realtà che devo scegliere il mio cammino, ogni giorno e in qualsiasi modo. È faticoso penetrare una realtà così diversa, ma devo far¬lo. Ho bisogno di avere tutto molto chiaro nella mente.
Avverto un tremito nella donna che mi è accanto. Sta piangen¬do? Potrebbe il pianto farla apparire buona? Non mi è conces¬so di saperlo. Vedo che le mie mani sono chiuse, strette attorno al manico del canestro. Non concederò nulla. La normalità, di¬ceva Zia Lydia, significa ciò cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrarvi normale al momento, dopo un po' di tempo lo sarà. Diventerà normale.
III
Notte
La notte è mia, il mio tempo, posso farne ciò che voglio, pur¬ché me ne stia zitta e ferma. Purché giaccia immobile. La diffe¬renza tra giacere e dover stare a letto. Dover stare a letto è un concetto passivo, anche gli uomini dicevano: mi piacerebbe do¬ver restare a letto per un po'. Ma qualche volta dicevano: mi piacerebbe portarla a letto. Sono solo elucubrazioni. Non so davvero che cosa dicessero veramente gli Uomini. Avevo solo le loro parole per giudicare.
Giaccio, quindi, nella stanza, sotto l'occhio di gesso del sof¬fitto, dietro le tende bianche, tra le lenzuola, candide come le tende, e faccio un passo in là fuori dal mio tempo. Fuori dal tempo. Sebbene questo non sia tempo, né io ne sia fuori.
Ma la notte è il mio tempo libero. Dove andare?
In qualche posto piacevole.
Moira, seduta sulla sponda del mio letto, con una gamba sull'altra, una caviglia su un ginocchio, nel suo grembiule viola, con un orecchino ciondolante, le unghie dipinte con lo smalto color oro e una sigaretta tra le dita tozze, gialle in punta. Deci¬diamo di andare a bere una birra.
«Mi stai facendo cadere la cenere sul letto» dico.
«Se fossi tu a farla cadere non te ne importerebbe» rispon¬de Moira.
«Usciamo tra mezz'ora» dico. Avevo una ricerca da prepara¬re per il giorno successivo. Cos'era? Psicologia, inglese, econo¬mia. Studiavamo queste cose, allora. Sul pavimento della stanza c'erano libri, aperti a faccia in giù, qua e là, in maniera disordi¬nata.
«No, usciamo adesso» dice Moira, «non hai bisogno di truccarti, ci sono solo io. Di che tratta la tua ricerca? Ne ho ap¬pena fatta una sullo stupro durante gli appuntamenti amorosi».
«Lo stupro durante gli appuntamenti amorosi?» dico. «Co¬me sei alla moda. Sembra il titolo di un nuovo trattato sociolo¬gico sul porno-orrore».
Moira ride. «Vai a prendere il vestito».
Lo prende lei e me lo getta. «Dovresti prestarmi cinque dol¬lari, okay?»
Ricordo un'altra volta, in un parco, con mia madre. Quanti an¬ni avevo? Faceva freddo, si vedeva il fiato uscire dalla bocca, non c'erano foglie sugli alberi; cielo grigio, due anitre nel laghetto, tristi. Toccavo le croste di pane che avevo in tasca. Mia madre aveva detto che saremmo andate a dar da mangiare alle anitre.
Ma c'erano delle donne che bruciavano i libri, era questo il vero motivo per cui aveva voluto andare al parco. Per vedere le sue amiche; mi aveva mentito. Era inteso che il sabato fosse il mio giorno. Mi ero allontanata da lei, imbronciata, ed ero anda¬ta verso le anitre, ma il fuoco mi aveva costretto a tornare in¬dietro.
C'erano anche degli uomini, in mezzo alle donne e non bru¬ciavano libri, ma riviste. Dovevano averci versato sopra della benzina, perché le fiamme guizzavano alte, mentre loro vi getta¬vano sopra le riviste, tolte dalle scatole, poche per volta. Tra le donne qualcuna cantava.
I volti erano felici, quasi estatici. Il fuoco può fare questo ef¬fetto. Si erano avvicinati dei curiosi. Anche il viso di mia ma¬dre, solitamente pallido, emaciato, pareva rubicondo e allegro, come in una cartolina di Natale; ricordo un'altra donna, grossa, con la guancia sporca di fuliggine e un berretto arancione fatto a maglia.
«Vuoi bruciarne una anche tu, tesoro?» mi aveva chiesto. Quanti anni avevo? «Via, una buona volta, tutta questa im¬mondizia» aveva detto ridendo e, rivolta a mia madre, aveva aggiunto: «Glielo permetti?»
«Se vuole» aveva risposto mia madre. Parlava di me, con gli altri, come se io non fossi presente.
La donna mi aveva dato una rivista. Sopra c'era il disegno di una donna graziosa, senza vestiti addosso, appesa al soffitto con una catena che le stringeva le mani. L'avevo guardata con inte¬resse. Non ne ero rimasta impressionata, avevo pensato che si stesse penzolando da una liana, come Tarzan, in un film che avevo visto alla televisione.
«Non fargliela guardare» aveva detto mia madre. «Via» mi aveva ordinato, «gettala nel fuoco, svelta».
Avevo gettato la rivista nelle fiamme. Si era squadernata nel vento mentre bruciava; grandi fiocchi di carta si erano staccati, volteggiando nell'aria, ancora in fiamme, corpi di donne erano mutati davanti ai miei occhi in cenere nera.
Ma dopo, che è successo?
Ho dei vuoti di memoria.
Si devono essere aiutati con iniezioni, pastiglie, qualcosa del genere, altrimenti ricorderei.
«Hai avuto uno shock» mi hanno detto.
Sono rinvenuta in mezzo a rimbombi e confusione, come il ribollire di una risacca. Ricordo di essermi sentita molto calma. Ho gridato o forse mi è parso un grido ed era solo un sussurro, Dov'è lei? Che avete fatto di lei?
Non era né notte né giorno; c'era solo un barlume di luce. Dopo un po' ho avuto di nuovo delle sedie, un letto e una fine¬stra.
«È in buone mani» mi hanno detto. «Con gente capace. Tu non lo sei, ma vuoi il meglio per lei. Non è così?»
Mi hanno mostrato una sua fotografia, all'aperto, in piedi su un prato. Il volto era un ovale chiuso. Aveva i capelli chiari rac¬colti stretti sulla nuca. Una donna che non conoscevo la teneva per mano. Lei le arrivava solo al gomito.
«L'avete uccisa» ho detto. Sembrava un angelo, solenne, composta, fatta d'aria. Indossava un abito che non avevo mai visto, bianco e lungo sino a terra.
Mi piacerebbe credere che sto raccontando una storia. Ho bi¬sogno di crederci. Devo crederci. Coloro che possono crederlo hanno migliori possibilità.
Se è una storia che sto raccontando, posso scegliere il finale. Ci sarà un finale, alla storia, e poi seguirà la vita vera. Posso continuare da dove ho smesso.
Non è una storia che sto raccontando.
E anche una storia che ripeto nella mia testa.
Non la scrivo perché non ho nulla con cui scrivere e lo scri¬vere è comunque proibito. Ma se è una storia, anche solo nella mia testa, dovrò pur raccontarla a qualcuno. Non racconti una storia solo a te stesso. C'è sempre qualcun altro.
Anche quando non c'è nessuno.
Una storia è come una lettera. A voi. Comincerà così, sem¬plicemente, senza nomi. Un nome crea un collegamento col mondo fattuale, che è più rischioso, più azzardato: chi sa quali sono, fuori, le possibilità di sopravvivenza? Le vostre?
Dirò a voi, a voi, come una vecchia canzone, voi significa più d'uno.
Voi può significare migliaia.
Non mi trovo in nessun pericolo immediato, dirò. Farò finta che voi mi possiate udire.
Ma non serve, perché so che non potete.
IV
Sala d'attesa
8
Il bel tempo continua. È quasi come a giugno, quando si tirava¬no fuori gli abiti estivi e i sandali e si andava a comprare un ge¬lato. Ci sono altri tre corpi appesi al Muro. Uno è un prete, con la tonaca nera. Gli è stata messa addosso, per il processo, anche se da anni, da quando sono iniziate le guerre tra le sette, tutti i preti hanno smesso di portarla, per non essere ricono¬sciuti. Gli altri due hanno delle targhe viola appese al collo: Trasgressione sessuale. Indossano ancora le divise di Custode. Probabilmente li hanno presi insieme, ma dove? In una caser¬ma, in una doccia? Difficile dirlo. Il pupazzo di neve dal rosso sorriso è scomparso.
«Dovremmo tornare» dico a Diglen. Sono sempre io a dir¬lo. Talvolta ho la sensazione che se non lo dicessi, lei non si muoverebbe di qui. È addolorata o prova un piacere perverso? Ancora non lo potrei dire.
Senza una parola ruota su se stessa, come fosse telecomanda¬ta, come fosse su rotelline oliate, come fosse la ballerina di un carillon. Mi infastidisce questa sua grazia. Mi infastidisce il suo corpo remissivo, come piegato da un forte vento. Ma non c'è vento. Lasciamo il Muro, rifacendo il percorso dell'andata, nel tepore del sole.
«È un bellissimo giorno di maggio» dice Diglen. Più che vederla, sento la sua testa che si gira verso di me, in attesa di una risposta.
«Sì» rispondo io. «Sia lode» aggiungo soprappensiero. Giorno di maggio, Mayday, era un segnale di pericolo, tanto tempo fa, in una di quelle guerre che si studiavano al liceo. Io le confondevo tutte, per distinguerle bisognava pensare ai mo¬delli degli aeroplani. Era stato Luke a parlarmi del Mayday. Il Mayday era un segnale, per i piloti i cui aerei erano stati colpiti, o per le navi (anche per le navi?) in mare. Può darsi che fosse un SOS anche per le navi. Mi piacerebbe poter fare una ricerca. Ed era un brano di Beethoven, per una vittoria, in una di quel¬le guerre.
«Sai da dove viene» aveva detto Luke «il Mayday?»
«No» avevo risposto. «È una strana parola da usare come sos».
Giornali e caffè, la domenica mattina, prima che nascesse lei. C'erano ancora i giornali, allora. Li leggevamo a letto. «Vie¬ne dal francese» aveva detto lui. «Da M'aidez».
Aiuto.
C'è una piccola processione che ci viene incontro, un fune¬rale: tre donne, ciascuna con un velo nero trasparente sopra l'acconciatura. Un'Economoglie e due dolenti, anch'esse Economogli, forse sue amiche. I loro abiti a strisce hanno l'aria con¬sunta, come le loro facce. Un giorno, quando i tempi migliore¬ranno, dice Zia Lydia, nessuna dovrà più essere Economoglie.
La prima è la parente, la madre; regge un'anforina nera. Dalla grandezza dell'anfora puoi capire quanto tempo aveva quando è venuto meno, dentro di lei, rifluito alla propria mor¬te. Due o tre mesi, troppo piccolo per dire se era un Non-bambino oppure no. Per quelli più grandi o quelli che muoiono alla nascita vengono usate delle scatole.
Sostiamo, per rispetto, mentre passano. Mi chiedo se Diglen prova quel che provo io, un dolore, come una fitta allo stoma¬co. Ci posiamo una mano sul cuore per mostrare a queste don¬ne estranee che siamo con loro nella loro perdita. Di sotto il ve¬lo la prima ci guarda, torva. Una delle altre si gira, sputa sul marciapiede. Non piacciamo alle Economogli.
Oltrepassiamo i negozi e giungiamo di nuovo alla barriera. Ci fanno passare. Proseguiamo tra le grandi case dall'aria vuota, i prati senza gramigna. Sull'angolo, vicino alla casa che mi è stata assegnata, Diglen si ferma, si gira verso di me.
«Sotto il Suo Occhio» dice. Il giusto saluto.
«Sotto il Suo Occhio» rispondo io, e lei fa un piccolo cen¬no d'approvazione col capo. Esita, come per dire qualcos'altro, poi si gira e prosegue per la sua strada. La sto a osservare. È come il mio riflesso, in uno specchio da cui mi allontano.
Nel viale d'accesso, Nick sta ancora lucidando la Turbine. È arrivato alla cromatura sul retro. Poso la mano guantata sul sali¬scendi del cancello, lo apro, spingo verso l'interno. Il cancello mi si richiude alle spalle con uno scatto. I tulipani lungo il bor¬do sono più rossi che mai, schiusi, non più bicchieri di vino ma calici, che si levano in su, a che scopo? Dopo tutto sono vuoti. Quando sono vecchi si capovolgono, poi esplodono lentamente, i petali buttati lì come cocci.
Nick leva lo sguardo e comincia a fischiare. Poi dice: «È stata bella la passeggiata?»
Annuisco, in silenzio. Lui non dovrebbe rivolgermi la parola. Certo qualcuno di loro ci si proverà, diceva Zia Lydia, la carne è debole. La carne è forte, la correggevo dentro di me. Loro non ne possono fare a meno, diceva lei, Dio li ha fatti così ma non ha fatto così anche voi. Vi ha fatte diverse. Dipende da voi porre i limiti. Più tardi sarete ringraziate.
Nel giardino dietro la casa la Moglie del Comandante è se¬duta sulla poltrona che si è fatta portare fuori. Serena Joy, che stupido nome. È il nome di una lozione che ci si metteva sui capelli, in quell'altro tempo, il tempo addietro, per stirarli. Sere¬na Joy c'era scritto sul flacone, dove la silhouette di una testa femminile si stagliava su uno sfondo ovale rosa, coi bordi d'oro, dentellati. Fra tanti nomi, perché mai ha scelto quello? Serena Joy non era stato mai il suo vero nome, nemmeno allora. Il suo vero nome era Pam. Lo avevo letto in un articolo su un periodico di attualità, molto tempo dopo che l'avevo vista cantare per la prima volta, quando mia madre dormiva a casa la notte tra il sabato e la domenica. Era sul «Time» o su «Newsweek», mi pare, a quell'epoca si meritava ancora un articolo. Non can¬tava già più, teneva discorsi. Era brava. I suoi discorsi trattava¬no della santità della casa, di come le donne dovessero restare a casa. Lei non si atteneva personalmente a quei principi, ne par¬lava soltanto, ma dava a intendere questa sua manchevolezza come un sacrificio che compiva per il bene di tutti.
Circa a quell'epoca, qualcuno aveva tentato di spararle e l'a¬veva mancata. Era stata uccisa invece la sua segretaria, che sta¬va proprio dietro di lei. Qualcun altro allora le aveva messo una bomba nell'automobile, ma era esplosa troppo presto. Si era detto, però, che era stata lei a mettere la bomba nella pro¬pria automobile, per solidarietà. E la misura di quanto l'atmo¬sfera si andasse accendendo. Io e Luke la guardavamo talvolta al notiziario della notte. In accappatoio, bevendo l'ultimo bic¬chiere della giornata. Osservavamo i suoi capelli laccati e il suo isterismo, le lacrime che sapeva ancora produrre a volontà, e il mascara che le anneriva le guance. A quel tempo si truccava in modo più accentuato. La trovavamo buffa. O forse Luke pen¬sava che fosse buffa. A me faceva un po' paura. Era sincera.
Ora non tiene più discorsi. Ha perso la parola. Se ne sta nel¬la sua casa, ma non sembra che le piaccia. Chissà come sarà fu¬riosa di essere stata presa in parola.
Sta guardando i tulipani. Il bastone è accanto a lei, sull'erba. È voltata di profilo verso di me, le rivolgo una rapida occhiata nell'oltrepassarla. Non sarebbe opportuno fissarla. Non ha più un profilo nitido, ha il volto incavato, quasi assorbito in se stes¬so. Penso a quelle città costruite su fiumi sotterranei, dove case e intere strade scompaiono tutt'a un tratto, in sabbie mobili im¬provvise, o a città carbonifere che crollano nelle miniere sotto¬stanti. Deve esserle capitato qualcosa di simile, non appena ha scorto il vero aspetto delle cose che sarebbero avvenute.
Non volta la testa. Non dà a vedere di essersi accorta della mia presenza, sebbene sappia che sono lì. Sento che lo sa, lo avverto come attraverso un odore, un odore rancido, come di latte stantio.
Non sono i mariti che bisogna tenere d'occhio, diceva Zia Lydia, bensì le Mogli. Dovete sempre cercare di immaginarvi che cosa sentono loro. Certo che vi vedranno di malanimo. È più che naturale. Cercate di mettervi nei loro panni. Zia Lydia riteneva di essere bravissima a mettersi nei panni degli altri. Cercate di compatirle. Perdonate loro, poiché non sanno quel che fanno. E di nuovo quel sorriso tremulo, supplichevole, il ri¬petuto ammiccare degli occhi miopi rivolti verso l'alto attraver¬so le lenti rotonde cerchiate d'acciaio, come se il soffitto intona¬cato di verde si spalancasse e Dio su una nube di cipria Perla Rosa venisse giù, tra i fili elettrici e l'impianto di nebulizzazio¬ne. Dovete rendervi conto che sono donne sconfitte. Non sono state in grado di...
Qui la voce si interrompeva, e seguiva una pausa, durante la quale sentivo il sospiro collettivo di coloro che mi erano intorno. Era sconsigliabile mormorare o innervosirsi durante quelle pause. Zia Lydia poteva sembrare assorta ma era conscia del minimo sussulto. Così non restava che sospirare.
Il futuro è affidato a voi, riprendeva. Protendeva le mani verso di noi, nell'antico gesto che era a un tempo offerta e invi¬to a farsi avanti, in un abbraccio. Un'accettazione. Nelle vostre mani, diceva, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, come a trarne ispirazione. Ma non c'era niente nelle sue mani, erano vuote. Erano le nostre mani che si supponeva fossero colme, del futuro che si poteva stringere ma non vedere.
Proseguo fino alla porta d'ingresso sul retro, l'apro, entro, de¬pongo il mio canestro sul tavolo di cucina. Il tavolo è stato ri¬pulito, sgombrato della farina; il pane di oggi, appena cotto, si sta raffreddando sulla mensola. La cucina ha un odore di lievi¬to; che mi ricorda altre cucine, cucine che erano mie. Odore di madri, sebbene mia madre non facesse il pane. Odore di me, in altri tempi, quando ero una madre.
Questo è un odore traditore, e so che devo tenerlo lontano.
C'è Rita, seduta al tavolo, che sbuccia e affetta carote. Sono vecchie carote, dure, dello scorso raccolto, piene di filamenti. Le nuove carote, tenere e pallide, non saranno pronte che tra diverse settimane. Il coltello che usa Rita è affilato e lucido, at¬traente. Mi piacerebbe avere un coltello così.
Rita smette di tagliare le carote, si alza, estrae i pacchetti dal canestro, quasi trepidante. È impaziente di vedere cosa ho por¬tato, quantunque si rabbui sempre nell'aprire i pacchetti; nulla di ciò che porto le aggrada appieno. Pensa che avrebbe potuto far meglio. Preferirebbe fare lei la spesa, comprare esattamente ciò che vuole; m'invidia la passeggiata. In questa casa ci invidiamo tutte qualcosa l'una con l'altra.
«Hanno le arance» dico «da Latte e Miele. Ne è rimasta ancora qualcuna». Le porgo questa idea come un'offerta. Desi¬dero rendermi gradita. Avevo visto le arance ieri, ma non glielo avevo detto, ieri era troppo scorbutica. «Potrei comprarne qualcuna, domani, se mi darai i buoni acquisto». Tiro fuori il pollo. Oggi voleva la bistecca, ma non ce n'erano.
Rita mugugna, senza rivelare piacere o approvazione. Ci penserò, dice il mugugno, a tempo e comodo. Disfa lo spago attorno alla carta oleata. Palpa il pollo, piega un'ala, introduce un dito nella cavità, estrae le interiora. Il pollo giace lì, decapi¬tato e senza zampe, con la pelle d'oca come avesse i brividi.
«Oggi bagno» dice Rita, senza guardarmi.
Cora entra in cucina, dalla dispensa sul retro, dove tengono le scope e gli spazzoloni. «Un pollo» dice, quasi con gioia.
«Pelle e ossa» dice Rita, «ma dovrà andar bene per forza».
«Non c'era molta scelta» dico. Rita finge di non sentire.
«Mi sembra abbastanza grosso» dice Cora. Vuol darmi una mano. La guardo, per vedere se devo sorridere; ma no, lei sta pensando solo al cibo. È più giovane di Rita; i raggi del sole, adesso arrivano di striscio dalla finestra a ovest, le inondano i capelli, divisi e raccolti sulla nuca. Dev'essere stata carina, non molto tempo fa. Ha un piccolo segno, come una fossetta, su ciascun orecchio, dove i fori per gli orecchini si sono richiusi.
«Grande» ribatte Rita «ma tutt'ossi. Dovresti farti sentire» dice, guardandomi direttamente per la prima volta. «Non è co¬me se tu fossi una qualsiasi». Allude al rango del Comandante. Ma da un altro punto di vista, il suo punto di vista, pensa che io sia una qualsiasi. Ha più di sessant'anni, le idee precise.
Si avvicina all'acquaio, fa scorrere le mani sotto il rubinetto, se le asciuga con lo strofinaccio. Lo strofinaccio è bianco a stri¬sce blu. Gli strofinacci sono gli stessi di sempre. Talvolta questi barlumi di normalità mi giungono di sorpresa, come imboscate. Le cose comuni, abituali, mi colpiscono come un richiamo vio¬lento, quasi un calcio. Guardo lo strofinaccio, avulso dal conte¬sto, e trattengo il fiato. Per taluni, in qualche modo, le cose non sono poi tanto mutate.
«Chi fa il bagno?» dice Rita, rivolta a Cora, non a me. «Devo frollare questo pollo».
«Lo farò più tardi il bagno» dice Cora, «finito di spolvera¬re». «Mentre si cuoce il pollo» dice Rita.
Mi parlano accanto come se non sentissi. Per loro sono una faccenda di casa, una tra le tante.
Mi hanno congedata. Riprendo il canestro, esco dalla cucina e proseguo per il corridoio. In fondo c'è l'orologio a pendolo. La porta del salotto è chiusa, i raggi del sole filtrano dalla lu¬netta sulla porta, frangendosi sul pavimento: rosso e blu, viola¬ceo. Entro, mi fermo sulla soglia per un attimo, apro le mani con le palme rivolte in su; si colmano di fiori di luce. Salgo le scale, la mia faccia è lontana, bianca e distorta, incorniciata nello specchio del corridoio, che sporge come un occhio. Seguo la guida rosapolvere lungo tutto il corridoio di sopra, ritorno in camera.
C'è qualcuno in corridoio, accanto alla porta della stanza dove sto io. Il corridoio è in penombra. È un uomo, ha la schiena verso di me; sta guardando dentro la stanza, scuro con¬tro quella luce.
Adesso lo vedo, è il Comandante. Non dovrebbe essere qui. Mi sente arrivare, si gira, esita, avanza. Viene verso di me. Sta violando le usanze. Che cosa faccio adesso?
Mi fermo, si ferma anche lui, mi guarda, che vuole? Ma poi riprende a camminare, si fa di lato per evitare di sfiorarmi, in¬clina il capo ed è sparito.
Mi è stato trasmesso un messaggio, ma quale? Potrebbe es¬sere come la bandiera di un paese ignoto, scorta per un attimo sulla cima di un colle, una minaccia di attacco, o l'apertura di una trattativa, potrebbe indicare il confine di un territorio. Po¬trebbe essere come i segnali che gli animali si danno l'un l'altro: le palpebre azzurre abbassate, le orecchie all'indietro, le penne del collo ritte. Un luccichio di denti digrignati, che diavolo cre¬de di fare? Nessun altro l'ha visto. Spero. Era un'invasione? Era entrato nella mia stanza?
L'ho chiamata mia.
9
La mia stanza, dunque. Ci dev'essere qualche spazio, alla fine, da rivendicare come mio, anche in quest'epoca.
Attendo, nella mia stanza, che in questo momento è una sala d'attesa. Quando vado a letto è una camera da letto. Le tende ondeggiano ancora al lieve vento, fuori il sole brilla ancora, per quanto non più direttamente, attraverso la finestra. Si è sposta¬to a occidente. Cerco di non raccontare storie, o comunque non questa.
Una donna ha vissuto in questa stanza, prima di me. Una don¬na come me, o così preferisco credere.
L'ho scoperto tre giorni dopo che avevo traslocato qui.
Avevo un sacco di tempo da far passare. Ho deciso di esplo¬rare la stanza. Non in fretta, come si esplorerebbe la stanza di un albergo, senza attendersi sorprese, aprendo e richiudendo i cassetti della scrivania, le ante dell'armadio, svolgendo la sapo¬netta dalla carta, tastando i cuscini. Mi troverò mai ancora in una camera d'albergo? Quanto le ho sprecate, quelle camere, quella libertà dall'essere vista.
Libertà presa in affitto.
Nei pomeriggi, quando Luke stava ancora scappando da sua moglie, quand'ero ancora inafferrabile per lui. Prima che ci sposassimo e io prendessi consistenza. Arrivavo sempre per pri¬ma. Non che sia capitato tanto spesso, ma adesso mi pare come un decennio, un'era; ricordo tutto quello che indossavo, le ca¬micette, i foulard. Camminavo su e giù, aspettandolo, accende¬vo la televisione e poi la spegnevo, mi mettevo un po' di profumo dietro le orecchie, Oppio, si chiamava. Era contenuto in una boccetta cinese, rossa e oro.
Ero nervosa. Mi amava? Poteva trattarsi soltanto di una rela¬zione passeggera. Perché non ce lo siamo mai chiesto? A quel tempo gli uomini e le donne si provavano l'uno con l'altra, in¬differentemente, come vestiti, rifiutando tutto ciò che non an¬dava bene.
Sentivo bussare alla porta; aprivo, con sollievo, con deside¬rio. La sua presenza era limitata a quei brevi momenti, eppure pareva dovesse durare all'infinito. Stavamo sdraiati, di pomerig¬gio, in quei letti, tenendoci la mano, a parlare, di quello che era possibile, o impossibile. Che si poteva fare? Ritenevamo di ave¬re molti problemi. Come potevamo sapere che eravamo felici?
Adesso anche quelle camere mi mancano, perfino quei terri¬bili quadri appesi alle pareti, boschi di querce e faggi, in autun¬no con le foglie ingiallite, o d'inverno, coperti di neve; dame in costume di epoche remote, con volti da bambola, crinoline e parasoli; clown dagli occhi tristi, composizioni di frutta rigida, gessosa. Gli asciugamani puliti, pronti a essere spiegazzati, i ce¬stini dei rifiuti che spalancavano il loro invito, ammiccando a quello che gettavamo via con spensieratezza. Ero spensierata, in quelle camere. Sollevavo il ricevitore del telefono e il cibo com¬pariva su un vassoio, cibo scelto da me. Mangiavo e bevevo co¬se che mi facevano male. C'era sempre la Bibbia in un cassetto, messa lì da qualche istituzione caritatevole, anche se probabil¬mente nessuno la leggeva. C'erano anche delle cartoline, con le fotografie dell'albergo, e si poteva scrivere le cartoline e spedir¬le a chi si voleva. Sembra una cosa talmente impossibile, ades¬so; come qualcosa d'inventato.
Ecco. Ho esplorato questa stanza, non in fretta, però, come un stanza d'albergo, ma cercando di metterci quanto più tempo potevo. L'ho divisa mentalmente in sezioni. Mi sono assegnata una sezione al giorno. L'ho esaminata nel modo più minuto: l'irregolarità dell'intonaco sotto la carta da parati, le scalfitture nella vernice dello zoccolo e del davanzale sotto l'ultimo strato di vernice, le macchie sul materasso, poiché mi sono spinta fino a sollevare coperte e lenzuola dal letto, ripiegandole, ma poco per volta, così da poterle rimettere a posto rapidamente se fosse entrato qualcuno.
Le macchie sul materasso. Come petali secchi di fiori. Non recenti. Vecchio amore; non c'è altra sorta d'amore in questa stanza, adesso.
Quando ho visto quella traccia lasciata da due persone, una traccia d'amore o di qualcosa di simile, almeno di desiderio, al¬meno di uno sfiorarsi tra due esseri umani ora forse vecchi o morti, ho coperto di nuovo il letto e mi ci sono sdraiata sopra. Ho guardato in su, verso il cieco occhio di gesso sul soffitto. Volevo sentirmi Luke disteso accanto. Mi colgono, questi ricor¬di del passato, come uno svenimento, un'ondata che mi passa travolgente sulla testa. Talvolta è difficile da sopportare. Che fa-re, che fare, pensavo. Non c'è niente da fare. Serve anche sape¬re aspettare. Stare distese e aspettare. So perché il vetro della fi¬nestra è infrangibile, e perché hanno tolto il lampadario. Volevo sentirmi Luke sdraiato accanto, ma non c'era spazio.
Mi sono riservata l'armadio sino al terzo giorno. Per prima cosa ho guardato attentamente l'anta, dentro e fuori, poi le pareti coi loro ganci d'ottone. Come hanno potuto non pensare ai ganci? Perché non li hanno tolti? Erano troppo vicini al ripia¬no? Eppure basterebbe una calza. L'asta con gli attaccapanni di plastica e i miei abiti appesi, il mantello di lana rossa per la stagione fredda, lo scialle. Mi sono inginocchiata per esaminare il ripiano, ed ecco che, in caratteri minuti, incisi, pareva, abba-stanza recentemente con uno spillo o forse semplicemente con un'unghia, nell'angolo dove l'ombra era più buia, ho letto le parole: Nolite te bastardes carborundorum.
Non sapevo che cosa significasse, e neppure che lingua fos¬se. Ho pensato fosse latino, ma non conosco il latino. Comun¬que, era un messaggio, scritto a mano, proibito di per sé, e non era stato ancora scoperto. Tranne che da me, cui era diretto. Era diretto a chiunque fosse venuto a occupare quella stanza.
Mi piace meditare su questo messaggio. Mi piace pensare di cominciare con lei, questa donna sconosciuta, o almeno scono¬sciuta a me, perché nessuno me ne ha mai parlato. Mi piace sa¬pere che il suo messaggio tabù è giunto a destinazione, trascrit¬to qui sul fondo del mio armadio, letto da me. Talvolta mi ripe¬to quelle parole. Mi danno una piccola gioia. Quando immagi¬no chi le ha scritte, penso a lei come a una donna circa della mia età, forse un pochino più giovane. La faccio diventare Moira, Moira com'era al college, nella camera accanto alla mia: originale, vivace, atletica, con la bicicletta e lo zaino pronti per una gita. Con delle efelidi in viso, la penso; irriverente, intra¬prendente.
Mi chiedo chi fosse o sia, e che ne è di lei.
Ho provato a farmelo dire da Rita, il giorno che ho trovato il messaggio.
«Chi era la donna che stava in quella stanza prima di me?» ho detto. L'avessi chiesto in modo diverso, avessi detto: C'era una donna in quella stanza, prima di me? non avrei ottenuto niente.
«Quale?» ha detto lei; aveva un tono risentito, sospettoso, ma veramente è il tono che ha sempre quando mi parla.
Quindi ce ne è stata più d'una. Talune non sono rimaste l'intero periodo, i due anni completi. Sono state mandate via, per un motivo o per un altro. O forse non sono state mandate via, se ne sono andate.
«Quella piena di vita». Tiravo a indovinare. «Quella con le efelidi».
«La conoscevi?» mi ha chiesto Rita, più sospettosa che mai. «La conoscevo prima» ho mentito. «Mi hanno detto che era qui».
Ha accettato la mia risposta. Sa che ci dev'essere un tam¬tam, un movimento clandestino di qualche sorta,
«Quella non ha funzionato» ha detto.
«In che modo?» ho chiesto, cercando di sembrare il più possibile neutrale.
Ma Rita si è incollata le labbra. Io qui sono come una bam¬bina, ci sono cose che non mi si devono dire. «Ciò che non sai non ti farà soffrire» è stato tutto quello che mi ha detto.
10
Talvolta canto a me stessa, mentalmente, qualcosa di lugubre, di luttuoso, di presbiteriano:
Stupefacente grazia, quanto è dolce il suono
che salva un'infelice come me,
perduta un tempo, e ora ritrovata,
schiava, e adesso libera.
Non so se le parole sono giuste. Non riesco a ricordare. Questi canti non si sentono più in pubblico, specialmente quelli che hanno parole come libera. Sono ritenuti troppo pericolosi. Ap¬partengono a sette messe al bando.
Mi sento così solo, baby.
Mi sento così solo, baby.
Mi sento così solo, da morire.
Anche questa vecchia canzone è messa al bando. Era registrata su una vecchia cassetta e mia madre aveva un apparecchio ma¬landato e cigolante e la sentiva quando venivano a trovarla le sue amiche, dopo aver bevuto un po'.
Non canto spesso. Mi fa male alla gola.
Non c'è molta musica in questa casa, tranne quella che sen¬tiamo alla televisione. Rita talvolta canticchia, mentre impasta la farina o sbuccia le patate; un ronzio senza parole, stonato, in¬comprensibile. Talvolta dal salotto sul davanti proviene il suono sottile della voce di Serena, incisa su un vecchio disco, suonato a basso volume, in modo che non la si sorprenda ad ascoltarlo mentre è lì seduta a sferruzzare, nel ricordo della gloria di un tempo che adesso le è stata tolta. Alleluia.
Fa un caldo eccessivo per questo periodo dell'anno. Case come questa diventano dei forni sotto il sole, non c'è un isola¬mento termico sufficiente. Attorno a me l'aria è stagnante, no¬nostante la lieve corrente che arriva da dietro le tende. Mi pia¬cerebbe poter aprire la finestra completamente. Presto ci sarà permesso di indossare gli abiti estivi.
Gli abiti estivi sono già stati tolti dalle loro custodie e stanno appesi nell'armadio, sono due, di puro cotone, sono migliori di quelli più economici, fatti di materiale sintetico, ma anche così, quando il clima è afoso, in luglio e agosto, fanno sudare.
Nessuna paura di scottature da sole, però, diceva Zia Lydia. Che spettacolo le donne davano di sé! Si oliavano come carne da arrostire allo spiedo, schiene e spalle nude, per strada, in pubblico, e le gambe, senza neppure le calze, non c'era da me¬ravigliarsi che succedessero certe cose. Cose, la parola che lei usava quando qualsiasi altra era troppo disgustosa, o indecente o orribile per passarle sulle labbra. Per lei una vita riuscita era quella che evitava certe cose, escludeva certe cose. Cose che non succedono alle donne come si deve. E per di più non fanno be¬ne alla carnagione, no, ti fanno diventare tutta una ruga come una mela vizza. Si era dimenticata che noi non eravamo più te¬nute a curarci della nostra carnagione.
Al parco, ha detto Zia Lydia, sdraiati su coperte, uomini e donne insieme, e a quel punto ha cominciato a piangere, lì da¬vanti a noi, senza nascondersi.
Io faccio del mio meglio, cerco di darvi le migliori opportu¬nità possibili. Sbatteva le palpebre, la luce era troppo forte per lei, il labbro le tremava, sui denti anteriori, che sporgevano un po' ed erano lunghi e giallognoli, e mi facevano pensare al topo morto che avevamo trovato sulla porta, quando vivevamo in una casa, noi tre, quattro contando la gatta che ci portava di questi regali.
Zia Lydia si è premuta la mano sulla sua bocca di roditore morto. Dopo un secondo si è tolta la mano. Volevo piangere anch'io per quello che lei mi aveva ricordato.
«Se solo potessimo evitare che quella gatta se ne mangiasse subito una metà» dicevo a Luke.
Non crediate che sia facile nemmeno per me, diceva Zia Lydia.
Moira è entrata come un colpo di vento in camera mia, ha gettato per terra la giacca di cotone. «Hai qualche sigaretta?»
«Nella mia borsetta» ho risposto, «però non ho i fiammiferi».
Moira ha frugato nella mia borsetta. «Dovresti buttar via un po' di questa porcheria. Do una festa da sottobagasce». «Una che?»
Era inutile cercare di lavorare, Moira non te lo permetteva, era come un gatto che ti cammina pian piano sulla pagina men¬tre stai tentando di leggere.
«Capisci, come Tupperware, però in sottoveste. Roba da baldracche. Mutandine di pizzo, giarrettiere, reggiseni che ti ti¬rano in su le tette». Ha trovato il mio accendino, si è accesa la sigaretta che ha tolto dalla mia borsetta. «Ne vuoi una?» Mi ha buttato il pacchetto, con scarsa generosità considerando che le sigarette erano mie.
«Mille grazie» ho detto. «Sei pazza. Come ti è venuta un'i¬dea simile?»
«Facendomi strada all'università. Ho delle aderenze. Amici di mia madre. È di gran moda nei sobborghi, non appena co¬minciano ad avere i brufoli ritengono di dover battere la con¬correnza e vanno a fare spese nei Pornoempori».
Ho riso. Lei mi ha sempre fatto ridere.
«Ma qui» ho detto «chi verrà? Chi ne ha bisogno?» «Non sei mai troppo giovane per imparare» ha detto lei. «Su, sarà favoloso. Ci faremo tutte la pipì addosso dal ridere».
Era così che si viveva allora? Vivevamo di abitudini. Come tut¬ti, la più parte del tempo. Qualsiasi cosa accade rientra sempre nelle abitudini. Anche questo, ora, è un vivere di abitudini. Vi¬vevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà.
Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si ri¬scaldi gradatamente moriresti bollito senza nemmeno accorgertene. C'erano notizie sui giornali, certi giornali, cadaveri dentro rogge o nei boschi, percossi a morte o mutilati, manomessi, così si diceva, ma si trattava di altre donne, e gli uomini che com¬mettevano simili cose erano altri uomini. Non erano gli uomini che conoscevamo. Le storie dei giornali erano come sogni per noi, brutti sogni sognati da altri. Che cose orribili, dicevamo, e lo erano, ma erano orribili senza essere credibili. Erano troppo melodrammatiche, avevamo una dimensione che non era la di¬mensione della nostra vita.
Noi eravamo la gente di cui non si parlava sui giornali. Vive¬vamo nei vuoti spazi bianchi ai margini dei fogli e questo ci da¬va più libertà.
Vivevamo negli interstizi tra le storie altrui.
Da sotto, dal viale d'accesso, giunge il rumore della vettura che viene messa in moto. È tranquilla questa zona, non c'è molto traffico, si può sentire chiaramente il motore di un'automobile, di un tosaerba, lo scatto delle forbici che potano una siepe, una porta che sbatte. Potresti sentire un grido o uno sparo, se qui ci fossero simili rumori. Talvolta arriva il suono di una sirena, in lontananza.
Mi siedo sul sedile di pietra, nel vano della finestra; è molto stretto, e scomodo. C'è un cuscinetto duro dove, a piccolo pun¬to, è ricamata in stampatello la parola FEDE, circondata da un serto di gigli. Le lettere sono di un azzurro sbiadito, le foglie dei gigli sono verdognole. È un cuscino, questo, che un tempo è stato usato altrove e poi è stato messo da parte perché era consunto ma non abbastanza da buttarlo via.
Posso passare minuti, decine di minuti a scorrere con gli oc¬chi quei caratteri: FEDE. È l'unica cosa che mi abbiano dato da leggere. Se venissi sorpresa a farlo, avrebbe importanza? Non sono stata io a mettere qui il cuscino.
Il motore gira, e mi sporgo dietro il vetro, coprendomi la faccia con la tenda, come con un velo. È semitrasparente. Se premo la fronte sul vetro e guardo giù, vedo la metà posteriore della Turbine. Non c'è nessuno, ma mentre guardo ecco Nick che si avvicina alla portiera, la apre e resta lì accanto, irrigidito. Ha il berretto dritto, adesso, e le maniche abbassate e abbotto¬nate. Non riesco a guardargli la faccia perché lo vedo dall'alto.
Il Comandante sta uscendo. Lo intravedo per un istante, di scorcio, mentre raggiunge la vettura. Non ha il cappello, quindi non sta andando a una riunione ufficiale. Ha i capelli grigi. Ar¬gentei, si potrebbero definire a voler essere gentili. Non mi sen¬to d'essere gentile. Quello che l'aveva preceduto era calvo, quindi suppongo che lui rappresenti un miglioramento. Se potessi sputare fuori dalla finestra, o gettare qualcosa, il cuscino per esempio, riuscirei a colpirlo.
Io e Moira, con dei sacchetti di carta pieni d'acqua. Bombe ad acqua, si chiamavano. Sporgendoci dalla finestra del mio dor¬mitorio, li gettavamo sulla testa dei ragazzi di sotto. Era un'idea di Moira. Che avevano tentato di fare? Volevano arrampicarsi su per una scala, per rubare la nostra biancheria?
Un tempo quel dormitorio aveva fatto parte di una scuola mista, c'erano ancora degli orinatoi in uno dei gabinetti sul no¬stro piano. Ma all'epoca del mio arrivo avevano ripristinato le vecchie separazioni.
Il Comandante si piega, entra nell'auto, scompare, e Nick chiude la portiera. Un attimo dopo la macchina fa retromarcia, lungo il viale d'accesso, si immette nella strada, e sparisce die¬tro la siepe.
Dovrei provare odio per quell'uomo. So che dovrei provarlo, invece no, provo un sentimento più complicato. Non so come definirlo. Non è amore.
11
Ieri mattina sono andata dal medico. Mi ha accompagnata un Custode, uno di quelli con la fascia rossa al braccio cui vengo¬no affidati questi incarichi. L'automobile era rossa, lui stava se¬duto davanti, io dietro. Nessuna gemella è venuta con me, in queste occasioni sono sola.
Vengo portata dal medico una volta al mese, per le analisi: urine, ormoni, striscio citopatologico per il cancro, esame del sangue; tutto identico a prima, solo che adesso è obbligatorio.
Lo studio del medico è in un moderno palazzo di uffici. Sa¬liamo con l'ascensore, in silenzio. Il Custode mi sta di fronte. Nella scura parete a specchio dell'ascensore posso vedergli il dietro della testa. Quando entro nello studio lui aspetta nell'in¬gresso, con gli altri Custodi, su una delle sedie messe lì a quello scopo.
Nella sala d'attesa ci sono altre donne, tre, in rosso: questo medico è uno specialista. Ci guardiamo furtivamente, per misu¬rarci il ventre: che qualcuna di noi sia fortunata? L'infermiere registra i nostri nomi e i numeri dei lasciapassare sul Compudoc, per controllare se siamo quelle che dobbiamo essere. Lui è alto più di un metro e ottanta, sulla quarantina, ha una cicatrice diagonale sulla guancia; è seduto alla macchina da scrivere, ha le mani troppo grosse per la tastiera, porta ancora la pistola nella fondina a spalla.
Quando mi chiamano entro nella stanza interna. È bianca, anonima, come quella esterna, ma c'è un paravento formato da un telaio pieghevole dove è stata montata una stoffa rossa con un Occhio d'oro, dipinto sopra una spada di serpi attorcigliate, che sembra una specie di manico.
Le serpi e la spada sono frammenti di una simbologia del tempo addietro.
Dopo aver riempito la bottiglietta lasciata pronta per me nello stanzino da bagno, mi tolgo gli abiti, dietro il paravento, e li lascio ripiegati sulla sedia. Nuda, mi sdraio sul lettino sopra il lenzuolo di carta fredda e scricchiolante, da buttare una volta usato. Col secondo lenzuolo, di panno, mi copro il corpo. Al¬l'altezza del collo c'è un altro lenzuolo, che pende dal soffitto, e che serve da riparo, così che il medico non mi vedrà mai in fac-cia. Lui ha a che fare solo con un corpo.
Quando sono sistemata, allungo la mano, cerco a tastoni la levetta sul lato destro del tavolo, la spingo indietro. Da qualche altra parte suona un campanello, senza che io lo senta. Dopo un minuto la porta si apre, sento dei passi, un respiro. Non si suppone che mi si parli a meno che non sia assolutamente ne¬cessario. Ma questo medico è loquace.
«Come andiamo?» dice. C'è qualche accenno del tempo ad¬dietro nel suo modo di parlare. Il lenzuolo mi viene sollevato dalla pelle, ho un brivido.
Un dito freddo, avvolto nella gomma, gelatinoso, scivola dentro di me, vengo frugata e tastata. Il dito indietreggia, entra diversamente, si ritrae.
«Tutto normale» dice il medico, come parlasse a se stesso. «Nessun dolore, cara?» Mi chiama cara.
«No» rispondo.
Mi vengono palpati i seni uno dopo l'altro, per cercare se vi siano segni di mutamento, di maturazione. Il respiro si fa più vicino, sento un odore di fumo, dopobarba, polvere di tabacco. Poi la voce, bassissima, accanto alla mia testa: è lui, che smuove il lenzuolo.
«Potrei aiutarti» dice, in un sussurro.
«Come? Non ho sentito».
«Sss... Potrei aiutarti, ho aiutato anche altre». «Aiutarmi?» La mia voce è bassa quanto la sua. «In che modo?»
Sa qualcosa, ha visto Luke, che cosa ha scoperto, mi può li¬berare?
«Che cosa credi?» dice lui, ancora in un sussurro. È la sua mano, che mi scorre lungo la gamba? Si è tolto il guanto. «La porta è chiusa a chiave. Non entrerà nessuno. Non sapranno mai che non è suo».
Scosta il lenzuolo. La parte inferiore del suo viso è coperta dalla mascherina bianca di garza, secondo il regolamento. Due occhi castani, un naso, una testa, i capelli castani. Ha la mano tra le mie gambe. «Molti di quei vecchi non ce la fanno più» dice. «Oppure sono sterili».
Mi manca il respiro: ha detto una parola proibita. Sterili. Qui non esiste più un uomo sterile, non ufficialmente. Ci sono solo donne che sono fertili e donne che sono infeconde, questa è la legge.
«Moltissime donne lo fanno» continua lui. «Tu vuoi un fi¬glio, non è vero?»
«Sì» dico io. È vero, e non chiedo perché, perché so. Dam¬mi dei figli, altrimenti muoio. C'è più di un significato in queste parole.
«Sei pronta» dice lui. «È il momento giusto, oggi o doma¬ni, perché sprecarlo? Ci vuole solo un attimo, cara». Così chia¬mava sua moglie, una volta; forse ancora, ma in realtà è un ter¬mine generico. Siamo tutte care.
Esito. Mi sta offrendo i suoi servigi, in qualche modo lui stesso corre un rischio.
«Non sopporto di vedere che cosa ti fanno passare» sussurra.
È sincero, solidale e tuttavia si compiace della sua solidarie¬tà. Ha gli occhi umidi di compassione, la mano gli si muove su di me, nervosa e impaziente.
«È troppo pericoloso» dico. «No. Non posso». La pena è la morte. Ma devono coglierti sul fatto, con due testimoni. Che probabilità ci sono? Forse la stanza è controllata da microspie. Chi ci sarà in ascolto proprio al di là della porta?
La mano si ferma. «Pensaci» dice lui. «Ho visto la tua car¬tella. Non ti resta molto tempo. Ma la vita è tua».
«Grazie» dico. Devo lasciare l'impressione di non essere of¬fesa, di essere aperta ai suggerimenti. Toglie la mano, quasi con pigrizia, indugiando; questa non è l'ultima parola per quanto lo riguarda. Potrebbe falsificare gli esami, dichiararmi malata di cancro, infeconda, farmi spedire per mare nelle Colonie, con le Nondonne. Non è stato detto nulla di tutto ciò, ma la consape¬volezza del suo potere è comunque sospesa nell'aria mentre mi dà un colpetto sulla coscia, e poi si ritira dietro il paravento.
«Il mese prossimo» dice.
Mi rimetto gli abiti, dietro il paravento. Le mani mi trema¬no. Perché sono così spaventata? Non ho violato i confini, non ho ceduto alla tentazione, non ho corso rischi, tutto è salvo. È la possibilità di scelta che mi terrorizza. La possibilità di una via d'uscita, della salvezza.
12
Il bagno è accanto alla camera da letto. È rivestito di carta a fiorellini azzurri, non-ti-scordar-di-me, le tende hanno lo stesso disegno. C'è un tappeto di spugna azzurro e un coprisedile di pelo sintetico azzurro, tutto quel che manca a questo bagno ri¬spetto al tempo addietro è una bambola la cui gonna celi il ro¬tolo di carta igienica di scorta. Ma lo specchio sul lavabo è sta¬to tolto e sostituito con un rettangolo di latta, la porta non ha serratura, e non ci sono rasoi, ovviamente. Prima si erano verificati incidenti nei bagni; c'erano state rasoiate, annegamenti, pri¬ma che venissero appianati tutti gli inconvenienti. Cora siede su una sedia in corridoio, per vedere che non entri nessuno. In un bagno, in una vasca, siete vulnerabili, diceva Zia Lydia. Non spiegava vulnerabili a che.
Il bagno è una necessità, ma è anche un lusso. Togliermi semplicemente le pesanti alette bianche e il velo, toccarmi di nuovo i capelli, infilarvi le mani, è un lusso. Sono lunghi ora. I capelli devono essere lunghi, ma coperti. Zia Lydia citava san Paolo, o così o rapati. Rideva, con quella sua risata simile a un nitrito trattenuto, come se avesse raccontato una storiella.
Cora ha fatto scorrere l'acqua nella vasca. Fuma come una ciotola di minestra. Mi tolgo il resto degli indumenti, il vestito, la camicia e la sottoveste bianca, le calze rosse, i mutandoni di cotone. «I collant fanno venire male all'inguine» diceva Moira. Zia Lydia non avrebbe mai usato un'espressione come male al¬l'inguine. Lei diceva non sono igienici. Voleva che tutto fosse assolutamente igienico.
La mia nudità comincia ad apparirmi strana. Il mio corpo sembra appartenere a un'altra epoca. Ho davvero indossato co¬stumi da bagno, in spiaggia? Sì, senza pensarci, senza darmi pensiero che le mie gambe, le mie braccia, cosce e schiena fos¬sero in mostra, venissero guardate. Svergognata, impudica. Evito di osservare il mio corpo, non perché pensi che sia svergognato e impudico, ma perché non voglio vederlo. Non voglio vedere qualcosa che mi definisca così completamente.
Mi sdraio nell'acqua, lascio che mi abbracci. L'acqua è morbida come delle mani. Chiudo gli occhi, e lei è qui con me, tutt'a un tratto, senza preavviso, dev'essere l'odore del sapone. Affondo il viso nei morbidi capelli sulla sua nuca, e respiro d'un fiato, talco e pelle lavata di bambina, shampoo, e un vago odore d'urina. Questa è l'età che lei ha quando sono nella vasca. Torna da me a età diverse. È così che so che non è davvero un fanta¬sma. Se fosse un fantasma avrebbe sempre la stessa età.
Un giorno, quando aveva undici mesi, poco prima che co¬minciasse a camminare, una donna l'aveva rubata da un carrello del supermercato. Era un sabato, io e Luke il sabato facevamo la spesa per la settimana, perché lavoravamo entrambi. Lei era seduta sul seggiolino per bambini che mettevano allora sui car¬relli dei supermercati, con due aperture per le gambe. Era con¬tenta. Io ero girata, mi pare, verso il reparto del cibo per gatti. Luke si trovava all'altra estremità del locale, al banco della car¬ne. Gli piaceva scegliere la carne che avremmo mangiato duran¬te la settimana. Diceva che gli uomini hanno bisogno di carne più che le donne, e che non era un pregiudizio, c'erano degli studi che lo dimostravano. Ci sono delle differenze, diceva. S'appassionava nel dirlo, come se io cercassi di dimostrargli il contrario. Ma lo diceva soprattutto quando era presente mia madre. Gli piaceva canzonarla.
L'ho sentita piangere, mi sono voltata e lei stava scomparen¬do lungo il corridoio, in braccio a una donna mai vista prima. Ho urlato e la donna è stata fermata. Avrà avuto circa trenta¬cinque anni. Piangeva e diceva che era la sua bambina, gliela aveva data il Signore, le aveva inviato un segnale. Mi ha fatto pena. Il direttore del negozio mi ha chiesto scusa e l'ha tratte¬nuta fino all'arrivo della polizia.
È solo una povera pazza, aveva detto Luke.
Avevo pensato che fosse un incidente isolato, a quel tempo.
Si allontana, non la posso tenere qui con me, è scomparsa. Può darsi che davvero pensi a lei come a un fantasma, il fantasma di una bambina morta all'età di cinque anni. Ricordo le foto¬grafie di un tempo, io con lei in braccio, pose standard, la mamma e la figlioletta. Le mettevamo in cornice, per non sciu¬parle. Con gli occhi chiusi posso vedermi, adesso, seduta accan¬to a un cassetto aperto, o a un baule, in cantina, dove sono ri-posti i vestiti della bambina e una busta con una ciocca di ca¬pelli biondi, tagliata quando aveva due anni. Si erano fatti più scuri, dopo.
Non posseggo più queste cose, i vestiti e i capelli. Mi chiedo che cosa sia stato di tutte le nostre cose. Saccheggiate, buttate all'aria, portate via. Confiscate.
Ho imparato a fare a meno di moltissime cose. Se avete tan¬te cose, diceva Zia Lydia, vi attaccate troppo a questo mondo materiale e vi dimenticate dei valori spirituali. Dovete coltivare la povertà di spirito. Beati gli umili. Non proseguiva, non dice¬va «beati gli umili perché possederanno la terra».
Lambita dall'acqua, sto accanto a un cassetto aperto che non esiste, e penso a una bambina che non è morta quando aveva cinque anni, che esiste ancora, spero, sebbene non per me. Io esisto per lei? Sono una immagine sommersa nel buio della sua mente?
Debbono averle detto che ero morta. È così che pensavano di fare. Dicevano che sarebbe stato più facile per lei adattarsi.
Avrà otto anni, adesso. Ho calcolato il tempo, so quanto ne è passato. Avevano ragione loro, è più facile pensare a lei come morta. Non devo sperare allora, o compiere un inutile sforzo. A che scopo sbattere la testa contro il muro? diceva Zia Lydia. Talvolta parlava per immagini.
«Non ho tutta la giornata a mia disposizione» dice la voce di Cora fuori dalla porta. È vero, non ce l'ha. Non ha niente a sua disposizione. Non devo privarla del suo tempo. M'insapono, uso la spazzola e il pezzo di pomice per sfregare via la pelle morta. Ci vengono forniti questi conforti puritani. Desidero essere perfettamente pulita, priva di germi, senza batteri, come la superficie della luna. Non potrò lavarmi, dopo questa sera, al¬meno per un giorno. È un ostacolo, dicono, e allora, perché correre rischi?
Non posso evitare di scorgere, adesso, il piccolo tatuaggio che ho sulla caviglia. Quattro cifre e un occhio, un passaporto all'incontrano. Serve a garantire che non sarò mai in grado di scomparire in un altro paesaggio. Sono troppo importante, trop¬po rara. Sono una risorsa nazionale. Tolgo il tappo, mi asciugo; indosso il mio accappatoio rosso di spugna. Lascio l'abito di oggi, Cora lo raccatterà per darlo a lavare. Ritornata in camera mi rivesto. Il copricapo bianco non è necessario per la serata, perché non uscirò. Tutti in questa casa sanno che faccia ho. Il velo rosso lo metto, però, a coprirmi i capelli umidi, la testa, che non mi è stata rapata. Dove ho visto quel film, in cui certe donne, inginocchiate nella piazza di una cittadina, venivano te¬nute ferme, coi capelli che cadevano a ciocche? Che avevano fatto? Dev'essere stato molto tempo fa, perché non riesco a ri-cordare.
Cora mi porta il pranzo, coperto, su un vassoio. Bussa alla por¬ta prima di entrare. L'apprezzo per questo. Significa che pensa che abbia ancora diritto, almeno in parte, a ciò che si chiamava riservatezza.
«Grazie» dico, prendendole il vassoio; e lei mi rivolge un vero sorriso, ma si allontana senza rispondere. Quando siamo insieme, da sole, si intimidisce.
Depongo il vassoio sul tavolino verniciato di bianco e vi av¬vicino la sedia. Tolgo il coperchio dal vassoio. Una coscia di pollo, stracotta. È meglio che al sangue, che è l'altro modo in cui Rita lo cucina. Ha vari modi di comunicare il suo risenti¬mento. Una patata al forno, fagiolini, insalata. Pere in scatola per dessert. È un cibo abbastanza buono, sebbene insipido. Ci¬bo sano. Dovete avere le vostre vitamine, i vostri sali, diceva Zia Lydia, reticente. Dovete essere un degno contenitore. Nien¬te caffè o tè, però, niente alcol. Sono vietati dagli studi più re¬centi compiuti sull'alimentazione. C'è un tovagliolo di carta, co¬me alle tavole calde.
Penso alle altre, a quelle senza. Questo è il centro della ferti¬lità, qui sto conducendo una vita viziata. Possa il Signore renderci davvero grate, diceva Zia Lydia, o forse diceva «ricono¬scenti». Comincio a mangiare. Non ho fame questa sera. Ho la nausea. Ma non c'è posto dove nascondere il cibo, non ci sono piante in vaso, e non m'arrischio a gettarlo nel bagno. Sono troppo nervosa, ecco cos'è. Lasciarlo sul piatto e chiedere a Cora di non dirlo a nessuno? Mastico e inghiotto, mastico e in¬ghiotto, tutta sudata. Il cibo mi si appallottola nello stomaco.
A pianterreno, nella sala da pranzo, ci saranno delle candele sul tavolo di mogano, una tovaglia bianca, argenti, fiori, bic¬chieri di vino ricolmi. Ci sarà un suono metallico di coltelli sulla porcellana, un tintinnio mentre lei posa la forchetta, con un so¬spiro appena udibile, lasciando intatta la metà del contenuto dei suoi piatti. È probabile che dica di non avere appetito. È probabile che non dica nulla. Se dice qualcosa, lui le risponde? Se non dice niente, lui se ne accorge? Mi chiedo come riesca a farsi notare. Penso che debba essere difficile.
C'è un panetto di burro sul bordo del piatto. Strappo un ango¬lo del tovagliolo di carta, e, come ho fatto altre volte, vi avvolgo il burro e lo metto nell'armadio, infilato nella punta della scar¬pa destra del paio che ho di ricambio. Accartoccio il resto del tovagliolo: nessuno, di certo, si darà la pena di spianarlo, per controllare se ne manca una parte. Userò il burro più tardi que¬sta notte. Non andrebbe bene, questa sera, sapere di burro.
Attendo. Mi compongo. Io adesso sono una cosa che devo comporre, così come si compone un discorso. Devo presentare un prodotto preconfezionato, nulla che sia nato spontanea¬mente.
V
Il sonnellino
13
Occupare il tempo. Questa è una cosa alla quale non ero pre¬parata: la quantità di tempo vuoto, le lunghe parentesi di nien¬te. Il tempo come un canto fermo. Se solo potessi ricamare, tes¬sere, lavorare a maglia, se avessi qualcosa da fare con le mani. Voglio una sigaretta. Ricordo le visite ai musei, nelle sale del¬l'Ottocento: l'interesse che avevano allora per gli harem. Decine di quadri di pingui donne sdraiate su divani, con turbanti o berretti di velluto in capo, rinfrescate da ventagli di code di pa¬vone, un eunuco sullo sfondo che fa da guardia. Studi di carne sedentaria, dipinti da uomini che in un harem non erano mai stati. Si riteneva che fossero quadri erotici, e anch'io pensavo che lo fossero, allora, ma adesso capisco di che trattavano vera¬mente. Erano quadri sull'animazione interrotta; sull'attesa, su oggetti non in uso. Erano quadri sulla noia.
Ma forse la noia è erotizzante quando a viverla sono le don¬ne, per gli uomini.
Attendo, lavata, spazzolata, nutrita, come un maiale da fiera.
A un certo punto, negli anni Ottanta, avevano inventato del¬le palle per i maiali all'ingrasso nei recinti. Erano grandi e colo¬rate; i maiali le facevano rotolare coi loro grugni. I commercian¬ti di maiali dicevano che così migliorava il loro tono muscolare; i maiali erano curiosi, a loro piaceva avere qualcosa cui pensare.
L'ho letto nella Introduzione alla psicologia, dove c'era anche il capitolo sui topi in gabbia, che si davano delle scariche elettriche per avere qualcosa da fare. E quello sui piccioni, adde¬strati a beccare un bottone dal quale usciva un chicco di mais. Erano divisi in tre gruppi: il primo otteneva un chicco ogni beccata, il secondo un chicco una beccata sì e una no, il terzo più o meno chicchi secondo il caso. Quando l'uomo addetto al¬l'esperimento aveva bloccato l'uscita del mais, il primo gruppo aveva smesso di beccare quasi immediatamente, il secondo gruppo un poco più tardi. Il terzo gruppo non aveva mai smes¬so. Si sarebbero beccati a morte, piuttosto che smettere. Chi poteva sapere come funzionava quel meccanismo?
Avessi una palla per maiali.
Mi sdraio sul tappeto intrecciato. Potete sempre fare un po' di ginnastica, diceva Zia Lydia. Diverse sessioni al giorno, intra¬mezzate dalle vostre occupazioni quotidiane.
Braccia lungo i fianchi, ginocchia piegate, sollevare il bacino, inarcare la spina dorsale. Giù. Di nuovo. Inspirare contando fi¬no a cinque, trattenere il respiro, espirare. Lo si faceva nella sa¬la delle Scienze Domestiche, ora sgombra delle macchine per cucire e delle lava-essiccatrici; all'unisono, sdraiate sulle piccole stuoie giapponesi, con un nastro che suonava Les Sylphides. È ciò che sento adesso, nella testa, mentre mi sollevo, mi piego all'indietro, respiro profondamente. Dietro i miei occhi chiusi sottili ballerine bianche volteggiano graziosamente tra gli alberi, le gambe frullanti come ali di uccelli cui qualcuno impedisse di volare.
Nel pomeriggio ci sdraiavamo sui nostri letti per un'ora, in pa¬lestra, tra le tre e le quattro. Dicevano che era un periodo di ri¬poso e meditazione. Allora pensavo che lo facessero perché vo¬levano smettere di insegnare e avere un po' di tempo libero per sé. So che le Zie non di servizio se ne andavano nella sala inse¬gnanti per una tazza di caffè o qualsiasi altra bevanda chiamas¬sero con quel nome. Ma adesso penso che il riposo era anche un esercizio. Ci offrivano l'occasione di abituarci al tempo vuo¬to. Un sonnellino, lo chiamava Zia Lydia, nel suo modo lezioso. La cosa strana è che avevamo bisogno di riposo. Molte di noi si addormentavano. Eravamo stanche, gran parte del tempo. Ci davano delle pillole, penso, forse mettevano nel cibo dei farmaci, per tenerci calme. Ma può darsi di no. Forse era il trovarsi lì che metteva sonno. Dopo il primo impatto, dopo che si erano presi i necessari accordi, era meglio entrare in uno stato letargico. Potevi convincerti che stavi risparmiando le forze. Dopo tre settimane è arrivata Moira. È stata accompagnata in palestra da due Zie, mentre stavamo facendo il nostro sonnellino.
Aveva ancora indosso i suoi vestiti, i soliti jeans e una felpa blu, i capelli corti (come al solito aveva sfidato la moda), così l'ho riconosciuta subito. Anche lei mi ha visto, ma mi ha volta¬to le spalle, sapeva già che bisognava essere prudenti. C'era un livido sulla sua guancia sinistra, che stava diventando viola. Le Zie l'avevano portata verso un letto libero dove era già prepara¬to l'abito rosso. Si era spogliata, e aveva cominciato a rivestirsi, in silenzio, le Zie lì ai piedi del letto, il resto di noi a osservare di sotto le palpebre abbassate. Mentre si piegava ho visto spor¬gere la colonna vertebrale sulla sua schiena magra.
Non ho potuto parlarle per svariati giorni; ci davamo soltan¬to delle occhiatine, come piccoli sorsi. Le amicizie erano sospet¬te, lo sapevamo, ci evitavamo reciprocamente durante le code all'ora dei pasti, alla mensa e nei corridoi tra una lezione e l'al¬tra. Ma il quarto giorno si è trovata accanto a me durante la passeggiata, a due a due, intorno al campo di calcio. Non ci ve¬nivano date le alette bianche fino al diploma, avevamo solo i veli; così potevamo parlare, purché lo facessimo con calma, e non ci girassimo a guardarci l'una con l'altra. Le Zie cammina¬vano in testa e in coda alla fila, quindi il pericolo erano solo le altre. Alcune erano credenti e avrebbero potuto denunziarci.
«Questa è una casa di matti» ha detto Moira.
«Sono così contenta di vederti» ho detto io.
«Dove possiamo parlare?»
«Ai gabinetti, controlla l'ora. Ultimo scomparto, alle due e mezza».
È tutto ciò che ci siamo dette.
Mi fa sentire più sicura sapere che Moira è qui. Possiamo andare al gabinetto se alziamo la mano, quantunque ci sia un limite, perché loro segnano su una cartella quante volte ci sia¬mo andate in un giorno. Controllo l'orologio elettrico, rotondo, sulla parete sopra la lavagna verde. Le due e mezza arrivano proprio durante la Testimonianza. C'è Zia Elena, oltre a Zia Lydia, perché questa è una Testimonianza speciale. Zia Elena è grassa, un tempo era a capo di un centro autorizzato di Weight Watchers nello Iowa. È brava nelle Testimonianze.
È Janine che racconta di essere stata stuprata da una banda a quattordici anni e di avere poi abortito. Ha raccontato la stes¬sa storia la settimana scorsa. Sembrava quasi che ne fosse orgo¬gliosa. Potrebbe persino non essere vero. Durante la Testimo¬nianza, è più sicuro inventarsi qualcosa piuttosto che dire che non hai nulla da raccontare. Ma poiché si tratta di Janine, pro¬babilmente è vero, più o meno.
«Ma a chi va data la colpa?» chiede Zia Elena, sollevando un dito paffuto.
«A lei va data la colpa, a lei, a lei» salmodiamo all'unisono.
«Chi li ha provocati?» Zia Elena è raggiante, contenta di noi.
«Lei. È stata lei. Lei».
«Perché Dio ha lasciato che accadesse una cosa tanto terri¬bile?»
«Per darle una lezione. Darle una lezione. Una lezione».
La scorsa settimana, Janine è scoppiata a piangere. Zia Elena l'ha fatta inginocchiare davanti alla classe, le mani dietro la schiena, dove tutti la potevano vedere, la faccia rossa e il naso gocciolante. I capelli biondo opaco, le ciglia così leggere che sembrava non ci fossero, le ciglia di qualcuno che è uscito da un incendio. Gli occhi arsi. Aveva un aspetto disgustoso, debo¬le, il viso contorto, deformato, rosa come un topo appena nato. Nessuna di noi avrebbe voluto avere quell'aspetto, mai. Per un istante, benché sapessimo che cosa le si stava facendo, l'abbia¬mo disprezzata.
«Piagnucolona. Piagnucolona. Piagnucolona».
Non scherzavamo, ed è questo che è brutto.
Di solito pensavo bene di me. Ma non in quell'occasione.
È successo la scorsa settimana. Questa settimana Janine non aspetta che la prendiamo in giro. «È stata colpa mia» dice. «È stata solo colpa mia. Li ho provocati io. Ho meritato di soffri¬re».
«Molto bene, Janine» dice Zia Lydia. «Sei un esempio».
Devo attendere che tutto sia finito prima di alzare la mano. Talvolta, se lo chiedi al momento sbagliato, ti dicono di no. Se ci devi andare davvero è un guaio. Ieri Dolores ha bagnato il pavimento. Due Zie se la sono trascinata via, reggendola sotto le ascelle. Non c'era alla passeggiata pomeridiana, ma la sera era di ritorno nel solito letto. L'abbiamo sentita gemere tutta la notte, a intervalli.
«Che le hanno fatto?» sussurravamo, di letto in letto. Non so.
Non saperlo peggiora le cose.
Alzo la mano, Zia Lydia annuisce. Esco in corridoio, facen¬domi notare il meno possibile. All'ingresso dei gabinetti Zia Elisabetta monta di guardia. Fa segno che posso entrare.
Questi gabinetti un tempo erano per i ragazzi. Anche qui gli specchi sono stati rimpiazzati da rettangoli di grigio metallo opaco, ma gli orinatoi ci sono ancora, su una parete, sono di smalto bianco macchiato di giallo. Hanno uno strano aspetto, sembrano bare di neonati. Di nuovo mi meraviglio della impu¬dicizia della vita degli uomini: le docce all'aperto, il corpo espo¬sto alle ispezioni e ai confronti, l'esibizione in pubblico dei ge-nitali. Per che cosa? A quale scopo di rassicurazione serve? Il balenio di un distintivo: guardate, dico a voi, tutto è a posto, sono del gruppo. Perché le donne non devono provare l'una al¬l'altra di essere donne? Il modo di sbottonarsi i vestiti, qualche gesto, altrettanto casuale. Un annusarsi come i cani.
La scuola superiore è vecchia, gli scomparti dei gabinetti so¬no di legno compensato. Entro nel secondo a partire dal fondo, spingendo la porta a molla. Ovviamente non ci sono più serra¬ture. Nel legno c'è un piccolo foro, sul retro, vicino alla parete, circa all'altezza della vita, ricordo di qualche vandalismo prece¬dente o lascito di un antico guardone. Tutti al Centro sanno di questo buco nel legno; tutti tranne le Zie.
Temo di essere molto in ritardo, trattenuta dalla Testimo¬nianza di Janine: forse Moira sarà già andata, forse sarà dovuta rientrare. Non ti lasciano molto tempo. Mi piego a guardare at¬tentamente, di sbieco, sotto la tramezza e vedo due scarpe ros¬se. Ma come posso sapere chi è?
Avvicino la bocca al foro del legno. «Moira?» sussurro. «Sei tu?» dice lei.
«Sì». Mi sento pervadere dal sollievo.
«Dio, mi ci vorrebbe una sigaretta!» dice Moira.
«Anche a me».
Mi sento ridicolmente felice.
Affondo nel mio corpo come in una palude, un acquitrino, do¬ve io sola so dove tocco. Terreno infido, il mio territorio. Di¬vento la terra su cui premo l'orecchio, per cogliere i rumori di ciò che sta per arrivare. Una fitta, un dolore che brontola, sommesso, le increspature della materia che si disfa, i gonfiori e gli assottigliamenti dei tessuti, gli umori della carne, questi sono i segni, queste sono le cose che mi occorre sapere.
Ogni mese aspetto il sangue, impaurita, perché se arriva si¬gnifica incapacità. Sono stata di nuovo incapace di esaudire le attese altrui, che sono divenute mie.
Ero solita pensare al mio corpo come a un veicolo di piace¬re, o a un mezzo per spostarmi da un luogo all'altro o uno stru¬mento per compiere la mia volontà. Potevo usarlo per correre, premere pulsanti di qualsiasi tipo, per far sì che succedesse quello che mi era necessario. C'erano limiti, ma il corpo era, ciò nondimeno, agile, leale, solido, tutt'uno con me. Adesso la carne si dispone in modo diverso. Sono una nube congelata at¬torno a un oggetto centrale, in forma di pera, duro e reale più di me stessa e che riluce di rosso entro il suo diafano involucro. Dentro c'è uno spazio, vasto quanto il cielo di notte e altrettan¬to buio e ricurvo, sebbene rosso-nero più che nero. Puntini di luce si espandono, scintillano, scoppiano e avvizziscono all'in¬terno, innumeri come stelle. Ogni mese c'è una luna gigantesca, rotonda, pesante, un presagio. Transita, sosta, prosegue, scom-pare alla vista, e vedo lo scoramento venirmi incontro come una carestia. Sentirsi così vuota, daccapo, daccapo. Ascolto il mio cuore, onda su onda, onde salate e rosse, che segnano il tempo.
Sono nel nostro primo appartamento, in camera da letto, in piedi davanti all'armadio, che ha le ante pieghevoli, di legno. Attorno a me so che c'è il vuoto, tutti i mobili sono stati portati via, i pavimenti sono nudi, non ci sono più i tappeti, tuttavia l'armadio è colmo di vestiti. Penso che siano i miei vestiti, ma non sembrano miei, non li ho mai visti prima. Forse saranno i vestiti che appartenevano alla moglie di Luke, mai vista nean¬che lei; solo in fotografia l'avevo vista e avevo sentito la sua vo¬ce al telefono, una sera tardi, quando ci aveva chiamati, pian¬gendo, accusando, prima del divorzio. Ma no, sono davvero i miei vestiti. Mi occorrono, mi occorre qualcosa da indossare. Tiro fuori vestiti neri, blu, rossi, giacche, gonne; nessuno che vada bene, non sono neppure della mia taglia, o troppo larghi o troppo stretti.
Luke è lì, dietro di me, mi volto per vederlo. Lui non mi guarda, guarda in basso, sul pavimento, dove la gatta gli si sta sfregando contro le gambe, e miagola, querula. Vuole del cibo, ma come può esserci del cibo in un appartamento così vuoto? Luke, dico. Lui non risponde. Forse non mi sente. Mi viene in mente che forse non è vivo.
Sto correndo, con lei, tenendola per mano, spingendola, trasci¬nandola nel fitto delle felci, lei è mezza addormentata per via della pillola che le ho dato, perché non pianga o dica nulla, perché non ci tradisca. Lei non sa dove si trova. Il terreno è ac¬cidentato, pietre, rami secchi, si sente odore di terra umida, di vecchie foglie. Non può correre veloce, da sola farei più in fret¬ta, ho sempre saputo correre. Adesso piange, è spaventata, vo¬glio portarla in braccio, ma è troppo pesante. Ho gli scarponi da montagna e penso che quando raggiungeremo l'acqua dovrò togliermeli, farà freddo e lei sarà capace di nuotare fin lì? E la corrente? Questo non ce lo aspettavamo. Zitta, le dico, brusca¬mente. Ho paura che anneghi e il pensiero mi fa rallentare. Gli spari ci giungono alle spalle, non fanno un rumore forte come dei mortaretti, ma un rumore secco e nitido come rami secchi che si spezzino. Un rumore sbagliato, nulla ha mai il suono che ritieni debba avere. Sento la voce, giù, è una voce vera o una voce dentro la mia testa o la mia stessa voce, che grida?
La trascino per terra, e mi butto sopra di lei per ripararla, per farle da scudo. Zitta, dico di nuovo, il viso bagnato, bagna¬to di lacrime, mi sento calma e sospesa da terra, come non fossi più dentro il mio corpo: vicino ai miei occhi c'è una foglia ros¬sa, caduta precocemente. Ha delle venature splendenti. È la cosa più bella che abbia mai visto. Allento la stretta, non voglio soffocarla, mi raggomitolo tutt'attorno a lei, tenendole la mano sulla bocca. Ho il respiro affannoso, e il cuore mi batte come il martellare, di notte, alla porta di una casa dove si pensa di trovare rifugio. Va tutto bene, son qui io, dico, sussurro. Ti pre¬go sta' zitta, ma come può capire? È troppo piccola, è troppo tardi, ci separiamo, mi trattengono per le braccia, i contorni si oscurano e non rimane altro che una piccola finestra, una fine¬stra molto piccola, come il lato sbagliato del cannocchiale, co¬me lo sportello di un vecchio cartoncino di Natale, notte e ghiaccio di fuori, e all'interno una candela, un albero che brilla, una famiglia; sento persino le campane di una slitta, dalla radio viene una vecchia musica, ma attraverso questa finestra vedo, minuscola ma molto chiara, attraverso gli alberi che già stanno cambiando colore, diventando rossi e gialli, l'immagine di lei che tende le braccia verso di me, mentre la portano via. La campana mi sveglia; e poi Cora, che bussa alla mia porta. Mi metto a sedere, sul tappeto, mi asciugo con la manica la faccia bagnata. Di tutti i sogni questo è il peggiore.
VI
La famiglia
14
Quando la campana ha smesso di suonare scendo le scale, sono un relitto umano nell'occhio di vetro appeso al muro a pianter¬reno. L'orologio fa udire il suo ticchettio, il pendolo segna il tempo; i piedi nelle loro linde scarpe rosse contano i gradini. La porta del soggiorno è spalancata. Entro: non c'è ancora nes¬suno. Non mi siedo, ma prendo il mio posto, inginocchiando¬mi, accanto alla poltrona con lo sgabello dove Serena Joy tra poco si insedierà come su un trono, appoggiandosi al bastone mentre si lascia cadere sul sedile. Probabilmente mi metterà una mano sulla spalla, per sostenersi, come fossi un mobile. L'ha già fatto.
Il soggiorno un tempo si sarebbe chiamato salotto, forse; poi soggiorno.
O forse è sempre stato un salotto, di quelli con le ragnatele e le mosche. Ma adesso è ufficialmente un soggiorno, perché questa è la sua funzione, per qualcuna. Per altre è solo uno spa¬zio dove stare in piedi. La posizione del corpo è importante, qui, in questo momento: le piccole scomodità sono istruttive.
Il soggiorno è sobrio, simmetrico; uno degli aspetti assunti dal denaro quando si stabilizza a un certo livello. Il denaro è passato attraverso questa stanza per anni e anni, come attraver¬so una caverna sotterranea, incrostandosi e indurendosi in que¬ste forme come in stalattiti. Le varie superfici si presentano in sordina: il velluto rosa scolorito dei drappeggi chiusi, la patina delle poltrone Settecento, dello stesso colore, il silenzioso, folto, tappeto cinese, con le sue peonie rosa pesca, fissato a terra lun¬go un lato, il cuoio gradevole, morbido della poltrona del Comandante, il luccichio dell'ottone di una scatola su un tavolino, lì accanto.
Il tappeto è autentico. Certe cose in questa stanza sono autentiche, altre no. Due quadri, per esempio, entrambi di donne, ai lati del camino. Indossano abiti scuri, come quelle che si ve¬devano nelle vecchie chiese, sebbene d'epoca più tarda. I qua¬dri sono probabilmente autentici. Sospetto che quando Serena Joy li ha acquistati, dopo aver capito che avrebbe dovuto rio¬rientare le sue energie verso qualcosa di palesemente domesti-co, abbia avuto l'intenzione di farli passare per ritratti di ante¬nati. O forse si trovavano già nella casa quando è diventata di proprietà del Comandante. Non c'è modo di sapere queste co¬se. Comunque, eccole lì, spalle e bocca rigide, il petto compres¬so, il volto sofferto, la cuffia inamidata, la pelle bianco-grigia, vigilano sulla stanza con occhi raggrinziti.
Tra i due quadri, sulla mensola del camino, c'è uno specchio ovale, affiancato da due paia di candelabri d'argento, e, al cen¬tro, un cupido di porcellana bianca che, con un braccio, circon¬da il collo di un agnello. I gusti di Serena Joy sono uno strano miscuglio di forte cupidigia per l'oggetto di valore e languide brame sentimentali. C'è una decorazione di fiori secchi su en¬trambi i lati della mensola, e un vaso di narcisi freschi sul levi¬gato intarsio del tavolino accanto al divano.
La stanza odora di essenza di limone, di stoffe pesanti, di narcisi, degli odori lasciati dai cibi giunti sin qui dalla cucina, e del profumo di Serena Joy: mughetto. Il profumo è un lusso, Serena deve avere qualche cespite privato. Lo aspiro, pensando che dovrebbe piacermi. È l'aroma di ragazze prepuberi, dei do¬ni fatti dai bambini nel giorno della festa della Mamma, l'odore di calze bianche di cotone e sottovesti bianche di cotone, di polvere medicinale, dell'innocenza della carne femminile non ancora consegnata alla maturità e al sangue. Mi fa star leggermente male, come fossi in un'automobile chiusa, in un giorno afoso e umido con una donna più anziana stracarica di cipria. Ecco com'è il soggiorno, nonostante la sua eleganza. Mi piace¬rebbe rubare qualcosa da questa stanza, un piccolo oggetto qualsiasi: il posacenere a conchiglia, la scatolina portapillole d'argento che è sulla mensola del camino, un fiore secco; na¬scondermelo nelle pieghe dell'abito o nella tasca della manica con la cerniera, tenerlo lì per tutta la serata, portarlo di nascosto in camera mia, sotto il letto, o in una scarpa, in una spacca¬tura nel cuscino con la parola FEDE ricamata a piccolo punto. Lo tirerei fuori per guardarlo. Mi darebbe una sensazione di potere. Ma sarebbe un'illusione troppo rischiosa. Le mani mi restano dove sono, raccolte in grembo. Le ginocchia unite, i tal¬loni raccolti sotto di me schiacciati dal peso del mio corpo. Il capo chino. In bocca ho un sapore di dentifricio: menta artifi¬ciale e gesso.
Aspetto che la famiglia si riunisca. La famiglia: ciò che ap¬punto siamo. Il Comandante è il capo della famiglia.
Cora giunge per prima, poi Rita che si asciuga le mani col grembiule. Anche loro sono state convocate dalla campana e se ne sono risentite, perché avevano altre cose da fare, lavare i piatti per esempio. Ma bisogna che siano qui, bisogna che tutte siamo qui, la Cerimonia lo esige. Siamo tutte obbligate a restare sedute fino alla fine, in un modo o nell'altro.
Rita mi guarda, torva, prima di infilarsi dietro di me. È col¬pa mia, questo spreco del suo tempo. Non colpa mia, ma del mio corpo, se c'è una differenza. Persino il Comandante si as¬soggetta ai capricci del mio corpo.
Nick entra, saluta col capo tutte e tre noi, si guarda attorno per la stanza. Anche lui prende posto dietro di me, in piedi. È così vicino che la punta del suo stivale mi tocca il piede. Lo fa di proposito? In ogni caso, ci stiamo toccando, attraverso due forme di cuoio. Sento la scarpa ammorbidirsi, il sangue vi scor¬re, la scarpa si fa calda, diviene una pelle. Muovo leggermente il piede, spostandolo.
«Se quello almeno si affrettasse» dice Cora.
«Chi si affretta aspetta» dice Nick. Ride, muove il piede in modo da toccare di nuovo il mio. Nessuno lo può vedere, sotto le pieghe della mia gonna. Mi sposto leggermente, fa troppo caldo qui dentro, l'odore di profumo stantio mi fa stare male. Allontano il piede.
Sentiamo Serena che arriva, giù per le scale, lungo il corri¬doio, il sordo picchiettio del suo bastone sul tappeto, il tonfo del piede sano. Entra zoppicando, si guarda intorno senza ve¬dere. Annuisce col capo, rivolta a Nick, ma non dice nulla. Ha uno dei suoi abiti migliori, azzurro cielo con ricami bianchi lun¬go i bordi del velo: fiori e greche. Nonostante la sua età sente ancora il desiderio di adornarsi di fiori. A che serve, penso guardandola, ma con la faccia immobile, tu ormai sei appassita. I fiori sono gli organi genitali delle piante. L'ho letto da qual¬che parte, una volta. Va verso la sua poltrona con lo sgabello, si gira, si abbassa, si siede sgraziatamente. Solleva il piede sini¬stro e lo allunga sullo sgabello, armeggia nella tasca della mani¬ca. Sento il fruscio, lo scatto dell'accendino, l'odore del fumo, lo aspiro.
«In ritardo come al solito» dice. Noi non rispondiamo. C'è un rumore confuso mentre cerca qualcosa a tastoni sul tavolino portalampada, poi uno scatto, e il televisore si accende. Un co¬ro di uomini dalla pelle giallo-verdognola (il colore va messo a posto) sta cantando «Venite alla Chiesa nel bosco selvaggio». Venite, venite, venite, venite, cantano i bassi. Serena aziona il telecomando. Ondulazioni, zigzag colorati, un miscuglio di suo-ni: è la stazione satellite di Montreal, che si è bloccata. Un pre¬dicatore, zelante, con lucidi occhi neri, si protende verso di noi da una scrivania. Adesso hanno un'aria assai simile a uomini d'affari. Serena gli concede qualche secondo, poi passa oltre.
Diversi canali vuoti, poi il notiziario. È quanto andava cer¬cando. Si appoggia allo schienale, aspira il fumo profondamen¬te. Io, al contrario, mi curvo in avanti, un bambino cui è con¬cesso di stare alzato sino a tardi insieme agli adulti. Il bello di queste serate, delle serate della Cerimonia, è che mi è concesso di guardare il notiziario. Sembra una regola sottaciuta di questa casa: noi arriviamo sempre puntuali, lui è sempre in ritardo, Se-rena ci lascia sempre guardare il notiziario.
Dobbiamo prenderlo per quello che vale, chissà se è vero in ogni sua parte? Potrebbe trattarsi di vecchio materiale di reper¬torio, potrebbe essere falso. Ma lo guardo comunque, sperando di essere in grado di leggere tra le righe. Qualsiasi notizia, ora, è meglio di niente.
Notizie dalla prima linea. In realtà non c'è una prima linea, pare che la guerra divampi in molti punti contemporaneamente. Colli coperti di boschi, visti dall'alto, alberi di un orribile giallo. Almeno sistemasse il colore. I monti Appalachi, dice la voce del commentatore dove gli Angeli dell'Apocalisse, Quarta Divisio¬ne, stanno snidando col fumo una sacca di guerriglieri battisti, con il sostegno aereo del Ventunesimo Battaglione degli Angeli della Luce. Ci vengono mostrati due elicotteri, neri con ali argentee dipinte sui fianchi. Sotto di questi, esplode un gruppo di alberi.
Appare il primo piano di un prigioniero, la faccia sporca e ispida, tra due Angeli, nelle loro perfette uniformi nere. Il pri¬gioniero accetta una sigaretta da uno degli Angeli, se la porta impacciato alle labbra con le mani incatenate. Fa un sorriso sbi¬lenco. L'annunciatore dice qualcosa, ma non riesco a sentirlo: guardo gli occhi di quest'uomo, tentando di capire che cosa stia pensando. Lui sa che la macchina da presa è su di lui: quel sor¬riso è un atto di sfida, di sottomissione o esprime solo il disagio di chi non sa che atteggiamento prendere? Ci mostrano solo vittorie, mai sconfitte. Chi vuole cattive notizie?
Forse è un attore.
Adesso compare sul video il commentatore. I suoi modi so¬no garbati, paterni; ci fissa dallo schermo con la sua carnagione abbronzata, i capelli bianchi, lo sguardo candido, sagge rughe qua e là, come il nonno ideale di tutti noi. Quanto ci sta dicen¬do, implica il suo sorriso sereno, è per il nostro bene. Presto tutto andrà a posto. Lo prometto. Ci sarà la pace. Dovete aver fiducia. Dovete andare a dormire, come bravi bambini.
Ci dice ciò cui vogliamo credere. È molto convincente. Cer¬co di resistergli. È come una vecchia star del cinema, mi dico, coi denti falsi e una faccia stereotipata. Nello stesso tempo mi sento attratta da lui, come ipnotizzata. Se solo fosse vero. Se so¬lo potessi credere.
Adesso ci sta dicendo che un'organizzazione clandestina è stata scoperta da una squadra di Occhi, grazie a un informatore infiltrato. I clandestini contrabbandavano preziose risorse nazio¬nali al di là dei confini col Canada.
«Cinque membri della setta eretica dei Quaccheri sono stati arrestati» dice lui, con un blando sorriso, «e sono già previsti altri arresti».
Due Quaccheri compaiono sul video, un uomo e una donna. Hanno un'espressione terrorizzata, ma cercano di serbare un po' di dignità davanti alla macchina da presa. L'uomo ha un grande segno scuro sulla fronte, il velo della donna è stato lace¬rato, e i capelli le ricadono a ciocche sul viso. Entrambi sono sulla cinquantina.
Ora possiamo vedere una città, di nuovo dall'alto. Un tempo era Detroit. Al di sotto della voce dell'annunciatore c'è il borbottio dell'artiglieria. Sul profilo della città si innalzano colonne di fumo.
«Il reinsediamento dei Figli di Cam continua secondo il programma» dice rassicurante il volto roseo, sul fondo dello schermo. «Questa settimana ne sono giunti tremila alla Patria Nazionale Uno, e altri duemila sono in transito». Come fanno a trasportare tanta gente contemporaneamente? Coi treni? Gli autobus? Non ci viene mostrata nessuna fotografia. La Patria Nazionale Uno è nel Nord Dakota. Lo sa il cielo cos'è che si vuole che facciano, una volta giunti là. In teoria dovrebbero di¬ventare agricoltori. Serena Joy ne ha abbastanza del notiziario. Preme con impazienza il bottone per cambiare canale, e com-pare un anziano basso baritono, le gote come mammelle di mucca svuotate. Canta: «Sussurrando parole di speranza». Se¬rena spegne il televisore.
Aspettiamo, si sente il ticchettio dell'orologio nell'ingresso, Serena accende un'altra sigaretta, io salgo in automobile. È un sabato mattina, è settembre, abbiamo ancora un'automobile. Altra gente ha dovuto vendere la sua. Il mio nome non è Difred, ho un altro nome, che adesso nessuno usa perché è proi¬bito.
Mi dico che non è importante, un nome è come un numero di telefono, utile solo per altri; ma mi sbaglio, è importante. Tengo la coscienza di questo nome come qualcosa di nascosto, un tesoro che tornerò a scavare un giorno. È un nome sepolto, circondato di mistero come un amuleto, un amuleto sopravvis¬suto a un passato incredibilmente distante. La notte sto sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi, e il mio nome è lì, sospeso dietro gli occhi, non del tutto a portata di mano, che brilla nel buio.
Era un sabato mattina di settembre, mi portavo addosso lo scintillio del mio nome. La bambina che ora è morta era seduta sul sedile posteriore, con le sue due bambole più belle, il suo coniglietto imbottito, malconcio d'età e d'amore. Ricordo tutti i particolari. Sono particolari sentimentali, ma non posso fare al¬trimenti. Non posso pensare molto al coniglietto, però, per non mettermi a piangere qui, sul tappeto cinese, aspirando il fumo che è stato dentro il corpo di Serena. Non qui, non ora, questo lo posso fare più tardi.
Lei pensava che andassimo a fare un picnic, e infatti c'era un canestro da picnic sul sedile posteriore, accanto a lei, con dentro uova sode, thermos, tutto. Non volevamo che sapesse dove si andava davvero, temevamo che lo dicesse, per sbaglio, che rivelasse qualcosa, nel caso fossimo stati fermati. Non vole¬vamo sobbarcarla del peso della nostra verità.
Io indossavo i miei stivali da escursione, lei le scarpe di gomma. I lacci delle scarpe di gomma avevano dei cuoricini di¬segnati sopra, rossi, viola, rosa e gialli. Faceva caldo per quel periodo dell'anno, le foglie stavano già ingiallendo; Luke era al¬la guida, io seduta accanto a lui, il sole splendeva, il cielo era azzurro, le case che sorpassavamo avevano un'aria confortevole e familiare, man mano che ce le lasciavamo alle spalle svanivano nel passato, sfacendosi in un istante come non fossero mai esi-stite, perché io non le avrei più viste, o così pensavo allora.
Non abbiamo portato quasi nulla con noi, non vogliamo ave¬re l'aria di andare in qualche posto lontano o dove fermarci a lungo. Abbiamo i passaporti falsi, garantiti, pagati quel che ci hanno chiesto. Non potevamo pagare in denaro, ovviamente, o tramite la Compuconto: abbiamo usato altre cose, qualche gioiel¬lo che era di mia nonna, una collezione di monete che Luke aveva ereditato da suo zio. Queste cose si possono scambiare con dei soldi, in altri paesi. Quando si arriverà al confine fare-mo finta di varcarlo per un giorno. Prima di allora le darò un sonnifero, così che in quel momento starà dormendo. In questo modo non ci tradirà. Non si può pretendere che un bambino menta in modo convincente.
E non voglio che lei provi la paura che ora mi tende i mu¬scoli, m'irrigidisce la spina dorsale, mi rende tesa al punto che sono certa mi spezzerei se mi toccassero. Ogni semaforo rosso è un tormento. Trascorreremo la notte in un motel, o meglio in automobile, in una stradina secondaria, così che nessuno ci farà domande. Attraverseremo il confine di mattina, passando sul ponte, in tutta calma, come stessimo andando al supermercato in automobile.
Entriamo in autostrada, diretti a nord, scorrendo in mezzo a un traffico non molto intenso. Da quando è iniziata la guerra, la benzina è cara e scarseggia. Oltrepassata la città ci imbattia¬mo nel primo posto di blocco. Quel che vogliono è dare uno sguardo alla patente, Luke se la cava bene. Il passaporto corri¬sponde alla patente: a questo avevamo provveduto. Di nuovo in cammino, lui mi stringe la mano, mi dà un'occhiata. «Sei bianca come un lenzuolo» mi dice.
È così che mi sento: bianca, oppressa, fragile. Trasparente.
Di certo saranno in grado di trapassarmi con lo sguardo. Come sarò in grado di sostenere Luke, e lei, se sono così debo¬le, così bianca? Ho l'impressione che gran parte di me se ne sia andata; loro mi scivoleranno via dalle braccia, come fossi fatta di fumo, come fossi un miraggio che svanisce davanti ai loro occhi. Non pensare a queste cose, mi diceva Moira. Pensa alle altre e allora accadranno davvero.
«Coraggio» dice Luke. Sta guidando un po' troppo veloce, ora. L'adrenalina gli è salita alla testa. Ora sta cantando. «Oh che bella mattina!»
Anche il suo cantare m'inquieta. Ci hanno avvertiti che non bisogna sembrare troppo felici.
15
Il Comandante bussa alla porta. Il bussare è d'obbligo: il sog¬giorno è territorio di Serena Joy, ed è inteso che per accedervi lui chieda il permesso. A lei piace farlo aspettare. È una picco¬la cosa, ma qui le piccole cose significano molto. Stasera, co¬munque, Serena non ottiene neppure questo, perché, prima che possa parlare, lui si fa avanti dentro la stanza. Forse si è so¬lo scordato del protocollo, ma forse lo ha fatto apposta. Chissà cosa gli avrà detto lei, attraverso il tavolo da pranzo tutto co¬sparso di argenti. O non detto.
Il Comandante indossa la sua uniforme nera, simile a quella di un guardiano di museo. Sembra un uomo già quasi in pen¬sione, gioviale ma accorto, che cerchi di ammazzare il tempo. Ma solo a prima vista. A guardarlo meglio sembra un direttore di banca del Midwest, con i capelli argentei lisci e ben spazzo¬lati, le maniere sobrie, le spalle un po' cadenti, e poi ci sono i baffi, pure argentei, e il mento, che davvero è impossibile non notare. Quando si arriva a guardargli il mento il Comandante sembra una pubblicità per la vodka su una rivista patinata, dei tempi passati.
Ha modi gentili, le mani larghe, con le dita grosse, i pollici prensili, gli occhi azzurri incapaci di comunicare, falsamente in¬nocui. Ci guarda tutte come se stesse facendo un inventario. Una donna in ginocchio vestita di rosso, una donna seduta ve¬stita di blu, due vestite di verde in piedi e, sullo sfondo, un uo¬mo solo, con il viso magro. Cerca di apparire sconcertato, come se non gli riuscisse bene di ricordare in che modo tutte noi sia¬mo arrivate qui. Sembra che siamo un oggetto che gli è toccato in eredità, come un organo a mantice vittoriano, e che non ab¬bia deciso che cosa fare di noi, né quanto valiamo.
Annuisce, rivolto a Serena Joy, che non parla. Viene avanti verso l'ampia poltrona di cuoio riservata a lui, estrae la chiavet¬ta dalla tasca, prende la scatola d'ottone sbalzato e pelle che è sul tavolino accanto alla poltrona. Infila la chiave, apre la scato¬la, ne estrae una Bibbia con la copertina nera e le pagine filetta¬te d'oro, come se ne vedono tante. La Bibbia è tenuta chiusa a chiave, così come un tempo la gente teneva sotto chiave il tè, perché la servitù non lo rubasse. È un provvedimento parados¬sale: che faremmo di quella Bibbia, se mai vi mettessimo le ma¬ni? Possiamo ascoltare dei brani letti da altri, ma non ci è per¬messo leggere. Voltiamo la testa verso di lui, in attesa; ecco che arriva la nostra favola prima di dormire.
Il Comandante si mette a sedere e accavalla le gambe. I se¬gnalibro sono al loro posto. Apre il libro. Si schiarisce un poco la gola, come imbarazzato.
«Potrei avere un sorso d'acqua?» dice, a nessuno in parti¬colare. «Per cortesia» aggiunge.
Dietro di me, una di loro, Cora o Rita, lascia il suo posto nel quadro vivente e si avvia silenziosa verso la cucina. Il Coman¬dante resta seduto, a capo chino. Sospira, estrae dal taschino interno della giacca un paio di occhiali da vista cerchiati d'oro e se li infila. Adesso sembra un ciabattino in un vecchio libro di favole. Non ci sarà fine ai suoi camuffamenti che tendono a ostentare benevolenza?
Osserviamo ogni suo minimo tratto, ogni suo minimo movi¬mento.
Un uomo, osservato da donne. Dev'essere strano per lui vedere che lo guardano e si chiedono: adesso che farà? Vedere che si ritraggono quando fa un gesto sia pure impercettibile come al¬lungare la mano verso il portacenere. Vedere che lo soppesano. Sapere che pensano che sarebbe da scartare come un indumen¬to non più di moda o scadente, che tuttavia bisogna indossare perché non c'è nient'altro disponibile, e se lo mettono, se lo tolgono, mentre lui stesso le indossa sul piede come una calza, sul torace, sul suo sensibile pollice, sul suo tentacolo, sul suo occhio delicato di lumaca alla sommità dell'antenna, che sporge, si dilata, freme, e avvizzisce all'interno se toccato malamen¬te, poi s'ingrossa, di nuovo rigonfio in cima, si muove in avanti come lungo una foglia, dentro di loro, avido di vedere, di giun¬gere a compiere questo viaggio in un'oscurità composta di don¬ne, una donna, che sa vedere nell'oscurità mentre lui stesso è proteso in avanti alla cieca.
Lei lo osserva nel profondo. Tutte lo stiamo osservando. È l'unica cosa che possiamo fare, e non a caso: se lui dovesse ave¬re incertezze, o venire a mancare, che ne sarebbe di noi? Non ci sarebbe da stupirsi se fosse come uno stivale, duro all'ester¬no, che nasconde un piede molle e inesperto. Ma è solo un de¬siderio. L'ho osservato per qualche tempo e non ha dato segni di mollezza, il Comandante.
Ma, attento, gli dico mentalmente, ti tengo gli occhi addos¬so. Un passo falso e io sono spacciata.
Però, che inferno essere un uomo, in quel modo. Dev'essere bello.
Dev'essere un inferno.
Dev'essere un deserto.
Cora torna con l'acqua, il Comandante la beve. «Grazie» dice. Cora torna al suo posto con un fruscio di stoffa.
Il Comandante tace, con gli occhi bassi, legge tra sé, in si¬lenzio, la pagina della Bibbia.
Si comporta come se non ci fossimo. È come un uomo che gioca con una bistecca, dietro il cristallo di un ristorante, e fin¬ge di non vedere gli occhi che l'osservano dall'affamata oscuri¬tà, a non più di un metro dal suo gomito. Ci chiniamo un poco verso di lui, noi siamo il ferro e lui la calamità. Lui ha qualcosa che noi non abbiamo, ha la parola. Come l'abbiamo sperperata, un tempo.
Quasi con riluttanza, comincia a leggere. Non legge molto bene, ma forse è soltanto annoiato.
È la solita storia, le solite storie. Dio ad Adamo, Dio a Noè. Siate fecondi, moltiplicatevi, e riempite la terra. Poi arriva la sto¬ria della vecchia ammuffita Rachele, e di Lia. Ce l'hanno ben ficcata in testa al Centro. Dammi dei figli, altrimenti muoio. Tengo io forse il posto di Dio che ti ha negato il frutto del grem¬bo? Ecco la mia serva Bilha. Entra da lei e lei partorirà sulle mie ginocchia; così anch'io potrò avere figli per suo mezzo. E così via e così di seguito. Ci veniva letta a ogni colazione del mattino, mentre sedevamo alla mensa della scuola superiore, mangiando porridge con panna e zucchero di canna. Vi è stato riservato il meglio, sapete, diceva Zia Lydia. C'è una guerra in corso, tutto è razionato. Siete delle ragazze viziate. Strizzava l'occhio, come se stesse rimbrottando un gatto. Micette birichine.
A colazione era il momento delle Beatitudini. Beato questo, beato quest'altro. Erano incise su un disco, la voce era di un uomo. Beati i poveri di spirito, perché loro sarà il regno dei cieli. Beati i misericordiosi. Beati i mansueti. Beati i silenziosi. Sapeva che questo se l'erano inventato, che era sbagliato, e che inoltre tralasciavano molte cose, ma non c'era modo di verificarlo. Bea¬ti coloro che piangono, perché saranno consolati.
Nessuno diceva quando.
Guardo l'orologio, alla frutta, pere alla cannella, conservate, le danno sempre, a colazione, e cerco con lo sguardo Moira al suo posto, due tavoli più in là. Se n'è già andata. Alzo la mano, mi danno il permesso di uscire. Non è una cosa che facciamo troppo spesso, e sempre in diversi momenti del giorno.
Ai gabinetti entro nel penultimo scomparto, come al solito. «Sei lì?» sussurro.
«Sì, a grandezza naturale e due volte più brutta» risponde Moira sottovoce.
«Che cos'hai sentito?» le chiedo.
«Niente d'importante, bisogna che me ne vada di qui, sto impazzendo».
Vengo presa dal panico. «No, no, Moira» dico, «non tenta¬re di farlo. Non da sola».
«Fingerò di star male, così manderanno un'ambulanza a pren¬dermi; fanno così, l'ho visto».
«E non andrai più in là dell'ospedale».
«Almeno sarà qualcosa di diverso. Non dovrò ascoltare quella vecchia cagna».
«Ti scopriranno».
«Non temere, sono abilissima. Da ragazza a scuola ho smes¬so di prendere la vitamina C e m'è venuto lo scorbuto. I primi tempi non riescono a diagnosticarlo. Poi appena riprendi la cu¬ra stai bene di nuovo. Terrò nascoste le mie vitamine».
«Moira, no».
Non riuscivo a sopportare il pensiero che lei non fosse qui, con me. Per me.
«Mandano due accompagnatori con l'ambulanza. Pensaci. Chissà che smania hanno, non gli permettono neppure di met¬tersi le mani in tasca, c'è anche la possibilità che...»
«Ehi, voi, lì dentro. Il tempo è scaduto» dice la voce di Zia Elisabetta, dalla porta. Mi alzo, tiro lo sciacquone. Due dita di Moira sono comparse attraverso il buco nella parete, grande so¬lo quel che basta per farci passare quelle due dita. Il tempo di sfiorarle con le mie, in fretta. Via.
«Dio mi ha dato il mio salario, per avere dato io la mia ser¬va a mio marito» legge il Comandante. Lascia che il libro si ri¬chiuda, con un rumore soffocato, come una porta imbottita che sbatta, lontano, da sola, per un soffio d'aria. Il rumore fa pen¬sare alla leggerezza delle pagine di carta velina, a quello che si prova sentendole sotto le dita, lisce e secche, come il papierpoudre, rosa e rivestito di cipria che, nel tempo addietro, si com¬prava in librettini, per togliersi il lucido dal naso, in quei negozi che vendevano candele e saponi a forma di conchiglie. Come cartine per sigarette. Come petali.
Il Comandante sta seduto con gli occhi chiusi per un istante, come se fosse stanco. Lavora molto. Ha un mucchio di respon¬sabilità. Serena piange. La sento, da dietro le spalle. Non è la prima volta. Fa sempre così lei, la sera della Cerimonia. È certa che nessuno se ne accorga, vuole conservare la sua dignità da¬vanti a noi. Le imbottiture e i tappeti soffocano il rumore dei singhiozzi, ma noi li sentiamo distintamente. La tensione tra il desiderio e l'incapacità di controllarsi è orribile. È un versaccio sconcio in una chiesa. Come sempre sento l'impulso di ridere, ma non perché pensi che sia divertente. L'odore del suo pianto si diffonde su di noi e noi facciamo finta di ignorarlo.
Il Comandante apre gli occhi, se ne accorge, si rabbuia, cer¬ca di non farci caso.
«Ora pregheremo un attimo in silenzio» dice il Comandan¬te. «Chiederemo la benedizione e il successo per tutte le nostre imprese».
Chino il capo e chiudo gli occhi. Ascolto il respiro trattenu¬to di Serena, il suo ansimare quasi impercettibile, i sussulti soffocati dei suoi singhiozzi dietro le mie spalle. Quanto mi deve odiare, penso.
Prego in silenzio: Nolite te bastardes carborundorum. Non so che cosa significa, ma mi sembra la frase giusta e deve andar bene per forza, perché non so che altro posso dire a Dio. Non adesso. Non, come si diceva, in questo frangente. Le parole scalfite sulla parete del mio armadio mi danzano davanti agli occhi, le ha lasciate una sconosciuta, con la faccia di Moira. L'ho vista andare verso un'ambulanza, su una barella trasporta¬ta da due Angeli.
«Di che si tratta?» ho bisbigliato alla donna accanto a me; una domanda innocua alle orecchie di chiunque non fosse una fanatica.
«Febbre» ha risposto lei, schiudendo appena le labbra. «Appendicite, dicono».
Stavo pranzando, quella sera, polpette di carne tritata e ro¬solata. La mia tavola era accanto alla finestra, potevo veder fuo¬ri, fino ai cancelli d'ingresso. Ho visto tornare l'ambulanza, sen¬za sirene questa volta. Uno degli Angeli è sceso, ha parlato alla guardia. La guardia è entrata nell'edificio, l'Angelo è rimasto vi¬cino all'ambulanza con le spalle verso di noi, come gli è stato insegnato. Due Zie sono uscite dal portone con la guardia, han¬no tirato giù Moira dall'ambulanza, l'hanno trascinata per il cancello e la scalinata d'ingresso, reggendola sotto le ascelle, una per lato. Lei camminava con difficoltà. Ho smesso di man¬giare, non potevo mangiare; a questo punto tutte quelle di noi che erano sedute sul lato della tavola dove ero io, stavano con gli occhi fissi alla finestra. La finestra era verdognola, con quel¬la rete da pollaio che mettevano all'interno del vetro. Zia Lydia ha detto: «Finite di pranzare», e ha chiuso le persiane.
L'hanno portata in una stanza che un tempo fungeva da la¬boratorio di scienze. Era una stanza dove nessuna di noi entra¬va volentieri. Dopo lei non è stata in grado di camminare per una settimana, i piedi non le entravano nelle scarpe, tanto era¬no gonfi. Cominciavano sempre dai piedi, alla prima trasgressione. Usavano cavi d'acciaio, sfilacciati alle estremità. Poi le mani. A loro non interessava che cosa ti facevano ai piedi e alle mani, anche se la lesione era permanente. Ricordatevi, diceva Zia Lydia, ai nostri scopi i vostri piedi e le vostre mani non so¬no essenziali.
Moira era distesa sul suo letto, per servirci d'esempio. «Non avrebbe dovuto provarcisi, non con gli Angeli» ha detto Alma dal letto accanto. Abbiamo dovuto trasportarla alle lezioni. Ab¬biamo rubato altri pacchi di zucchero per lei, alla mensa, du¬rante i pasti, e glieli abbiamo fatti arrivare di nascosto, la notte, passandoli di letto in letto. Forse non aveva bisogno di zucche¬ro ma era l'unica cosa che si potesse trovare da rubare.
Da dare.
Sto ancora pregando ma ciò che vedo sono i piedi di Moira, il loro aspetto dopo che l'avevano riportata qui. Sembravano piedi d'annegato, gonfi e senz'ossa, tranne che per il colore. Sembravano polmoni.
Oh Dio, prego. Nolite te bastardes carborundorum.
È questo che avevi in mente?
Il Comandante si schiarisce la gola. Vuol farci sapere che se¬condo lui è ora che smettiamo di pregare. «Poiché gli occhi del Signore scrutano l'intera terra, per misurare la propria forza a favore di quelli il cui cuore è perfetto verso di Lui» dice.
È il segnale della fine. Si alza in piedi. Veniamo congedate.
16
La cerimonia procede come al solito.
Giaccio supina, completamente vestita tranne che per le mu¬tande, di sano cotone bianco. Se aprissi gli occhi potrei vedere solo il baldacchino bianco del grande letto a quattro colonne di Serena Joy, in stile coloniale, sospeso come una nube gonfia so¬pra di noi, una nube intarsiata di goccioline di pioggia che, a guardarle da vicino, sono fiori a quattro petali. Non vedrei il tappeto che è bianco, e le tende a fiorami e il tavolino da toilet¬te, rivestito di stoffa fino a terra, sul quale è posato un servizio di spazzole e specchio col dorso d'argento; vedrei solo il bal¬dacchino che, per la leggerezza del tessuto e insieme la pesan¬tezza che lo incurva al centro, suggerisce un'immagine tanto eterea quanto consistente.
Sembra la vela di una nave. Vele dal ventre gonfio, si diceva nelle poesie. Navi spinte in avanti dal ventre gonfio delle vele.
Un lieve profumo di mughetto ci circonda, fresco, quasi friz¬zante. Non c'è calore in questa stanza.
Più su, verso la testata del letto, è distesa Serena Joy, con le gambe divaricate. Io giaccio tra di esse, la testa sul suo stoma¬co, il suo osso pubico sotto la mia nuca, le sue cosce ai lati. An¬che lei è completamente vestita.
Tengo le braccia alzate, lei stringe le mie mani nelle sue, a significare che siamo un'unica carne, un unico essere. In realtà significa che è lei ad avere il controllo del processo e quindi del prodotto. Se ci sarà. Gli anelli che porta sulla mano sinistra mi tagliano le dita. Può darsi che sia o che non sia una vendetta.
La gonna rossa mi viene tirata su fino alla vita, non più su però. Lì sotto il Comandante sta fottendo. Ciò che sta fottendo è la parte inferiore del mio corpo. Non dico fare l'amore, per¬ché non è ciò che sta facendo. Anche copulare non è l'espres¬sione esatta, perché indica la partecipazione di due persone mentre qui solamente uno di noi è coinvolto. Neanche parlare di stupro sarebbe giusto, perché non sta succedendo nulla che io non abbia sottoscritto.
Non è che ci fosse molto da scegliere ma qualcosa sì, e io ho scelto.
Quindi giaccio immota e mi raffiguro il baldacchino sopra la mia testa. Mi ricordo del consiglio della Regina Vittoria a sua figlia. Chiudi gli occhi e pensa all'Inghilterra. Ma qui non siamo in Inghilterra. Vorrei facesse in fretta.
Può darsi che io sia pazza e che questa sia una nuova sorta di terapia.
Quanto vorrei fosse vero; allora potrei guarire e tutto scom¬parirebbe.
Serena Joy mi stringe le mani come fosse lei al mio posto e lo trovasse piacevole o doloroso. Il Comandante procede a pas¬so di marcia, a intervalli regolari come un rubinetto che sgoc¬ciola. È distratto, come uno che canticchia sotto la doccia senza sapere che cosa sta canticchiando; come uno che ha altro per la testa. È come se fosse altrove, in attesa di concludere un incon¬tro d'affari, tamburellando con le dita sul tavolo. Adesso c'è impazienza nel suo modo di muoversi. Ma non è questo il so-gno di tutti, avere due donne contemporaneamente? Così si di¬ceva. Si diceva che fosse eccitante.
Ciò che sta accadendo in questa stanza, sotto l'argenteo bal¬dacchino di Serena Joy, non è eccitante. Non ha niente a che fare con la passione o l'amore o l'avventura o qualsiasi altra situazione di cui eravamo abituati a compiacerci. Non ha nulla a che fare col desiderio sessuale, non per me almeno, e certamente neanche per Serena. Eccitamento e orgasmo non sono più ritenuti neces¬sari; sarebbero nient'altro che un sintomo di superficialità, come le giarrettiere vistose o i nei finti, cose superate. Sembra strano che un tempo le donne dedicassero tempo ed energie a leggere, a scrivere, a pensare, a occuparsi di questi diversivi.
Qui non si tratta di un diversivo, neppure per il Comandan¬te. Questa è una faccenda seria. Anche il Comandante sta com¬piendo il suo dovere.
Se aprissi gli occhi solo un po', sarei in grado di vederlo. Il viso non spiacevole, con qualche capello grigio che gli ricade sulla fronte, mentre è intento al suo viaggio interiore per un luogo verso cui si sta affrettando e che si ritrae come in sogno alla stessa velocità con cui lui s'avvicina. Vedrei i suoi occhi aperti.
Se fosse più bello mi piacerebbe di più quello che sta facen¬do, ma almeno rappresenta qualcosa di meglio rispetto a quello che l'ha preceduto e che odorava come una sacrestia in un gior¬no di pioggia: come una bocca nelle mani del dentista; come una narice. Il Comandante, invece, sa di naftalina, o è l'odore di qualche punitivo tipo di dopobarba?
Perché deve indossare questa stupida uniforme? Ma il suo corpo nudo bianco e peloso mi piacerebbe di più?
Baciarsi è proibito tra noi. Ciò rende questi incontri più sop¬portabili.
Si riesce a mantenere un certo distacco. Ci si osserva.
Finalmente emette un gemito soffocato, come di sollievo, ed è tutto finito. Serena Joy sospira profondamente. Il Comandan¬te, che si puntava sui gomiti, staccato dai nostri corpi congiunti, non si permette d'appoggiarsi a noi. Sta fermo un attimo, poi si tira indietro e si richiude la cerniera.
Saluta con un cenno del capo, poi si volta ed esce, accostan¬do la porta con cura esagerata, come se entrambe fossimo sua madre malata. C'è qualcosa di comico nei suoi gesti, ma non oso ridere.
Serena Joy mi lascia libere le mani. «Adesso puoi alzarti» dice. «Alzati ed esci». Secondo il regolamento dovrebbe farmi riposare per dieci minuti coi piedi su un guanciale per aumen¬tare le possibilità. Si intende che questo dovrebbe essere un tempo di silenziosa meditazione per lei, ma evidentemente pre¬ferisce farne a meno. C'è disprezzo nella sua voce, come se il contatto della mia carne le desse la nausea, la facesse sentire contaminata. Mi districo da lei, mi metto in piedi; l'umore usci¬to dal corpo del Comandante mi scorre lungo le gambe. Prima di allontanarmi la vedo sistemarsi la gonna azzurra, stringere le gambe, senza alzarsi dal letto, con gli occhi fissi sul baldacchino sopra di lei, rigida e dritta come una statua.
Chi di noi sta peggio, lei o io?
17
Sono di ritorno in camera mia, mi tolgo gli abiti e indosso la camicia da notte.
Cerco il mio pezzo di burro, dentro la punta della scarpa destra, dove l'ho nascosto dopo pranzo. L'armadio era troppo caldo, il burro è semiliquefatto e ha, in gran parte, impregnato il tovagliolino di carta in cui l'avevo avvolto. Adesso avrò del burro nella scarpa. Mi è già capitato, perché ogni qual volta mi danno del burro o anche della margarina, ne metto da parte un po' in questo modo. Domani pulirò l'interno della scarpa, con un asciugamano o della carta igienica.
Mi spalmo il burro sulla faccia, cerco di farlo penetrare nella pelle. Non ci sono più lozioni per le mani o creme per il viso, non per noi. Sono considerate vanità. Noi siamo dei contenito¬ri, è solo il dentro dei nostri corpi che è importante. L'esterno può indurirsi e divenire rugoso, come il guscio di una noce. È stata decretata dalle Mogli questa assenza di lozioni per le ma¬ni. Loro non vogliono che noi siamo attraenti. Per loro va già abbastanza male così.
Il burro è un trucchetto che ho imparato al Centro Rachele e Lia. Il Centro Rosso, lo chiamavamo, perché c'era tanto ros¬so. Chi mi ha preceduta in questa stanza, la mia amica con le efelidi e la bella risata, avrà fatto lo stesso, si sarà spalmata di burro la faccia e le mani. Lo facciamo tutte.
Finché ci imburriamo la pelle per mantenerla morbida signi¬fica che crediamo di poter uscire, un giorno, di poter essere an¬cora toccate, per amore o desiderio. Abbiamo delle cerimonie tutte nostre, private.
Il burro è unto, diverrà rancido e io puzzerò come un vec¬chio formaggio; ma almeno è organico, come si diceva una vol¬ta. A simili espedienti siamo arrivate.
Imburrata, me ne sto sdraiata sul mio letto, piatta come una fetta di pane tostato. Non riesco a dormire. Nella semioscurità fisso l'occhio cieco di gesso in mezzo al soffitto, che di rimando guarda in giù, sebbene non possa vedere. Non c'è vento, le mie tende bianche sono come bende di garza, che pendono esanimi, luccicando nell'aura proiettata dal riflettore che di notte illumi¬na la casa. O c'è la luna?
Scosto il lenzuolo, mi alzo senza far rumore, a piedi scalzi, in camicia da notte, vado alla finestra; come un bambino voglio vedere la luna sul grembo della neve appena caduta. Il cielo è sereno, ma il riflettore impedisce di capire se c'è la luna; ecco, nel cielo oscurato, una luna galleggia di nuovo, una luna dei de¬sideri, una scheggia d'antica roccia, una dea, un ammiccamento. La luna è una pietra e il cielo è pieno di strumenti esiziali, ma mio Dio, è stupenda.
Vorrei tanto che Luke fosse qui. Vorrei essere abbracciata e chiamata per nome. Vorrei essere valutata in un modo diverso, vorrei essere superiore a ogni valutazione. Ripeto il mio nome di un tempo, mi ricordo di ciò che una volta potevo fare, di co¬me gli altri mi vedevano.
Voglio rubare qualcosa.
In corridoio sono accese le luci notturne, il lungo spazio brilla appena di rosa; cammino, mettendo avanti un piede dopo l'al¬tro, con grande attenzione, lungo la guida, senza far scricchiola¬re il pavimento, come in un bosco. Furtiva, con il cuore che mi batte, attraverso la casa nella notte. Non sono in regola. Sto compiendo un'azione illegale.
In fondo alle scale passo davanti allo specchio convesso, sul¬la parete del corridoio, e vedo la mia bianca immagine, l'imma¬gine di un corpo nascosto da una tenda, i capelli sciolti lungo la schiena come una criniera, gli occhi che scintillano. Sono contenta. Sto facendo qualcosa per mio conto. Ho preso un'ini¬ziativa. Mi piacerebbe anche rubare un coltello dalla cucina, ma non sono pronta per questo.
Raggiungo il soggiorno, la porta è socchiusa, scivolo dentro, senza richiuderla. Non riesco a evitare uno scricchiolio, ma chi è tanto vicino da poterlo sentire? Sto lì nella stanza e lascio che mi si dilatino le pupille, come quelle di un gatto o di un gufo. Profumo stantio e odor di polvere mi riempiono le narici. Una luce impalpabile passa attraverso i tendoni accostati, fuori c'è un riflettore acceso, e due uomini di pattuglia. Li ho visti dalla finestra della mia camera, due figure scure, dai contorni netti.
Adesso comincio a distinguere meglio le sagome di ciò che mi sta intorno, le basi delle lampade, i vasi, il divano incomben¬te come una nube al tramonto.
Che cosa posso prendere? Un oggetto di cui non si debba avvertire la scomparsa. Nei bosco a mezzanotte, un fiore magi¬co. Un narciso appassito, ma non dal mazzo di fiori finti.
I narcisi saranno presto gettati via, cominciano a emanare un odore di marcio che si unisce al puzzo di fumo stantio delle si¬garette di Serena Joy, all'odore dei suoi lavori a maglia. Mi muovo a tastoni, trovo un tavolino, lo tocco, sento un tintinnio, devo aver urtato qualcosa. Trovo i narcisi, increspati ai bordi, dove sono già secchi, e flaccidi vicino dagli steli. Ne stringo uno tra le dita, lo metterò da qualche parte. Sotto il materasso. Lo lascerò lì per la prossima donna, quella che verrà dopo di me, perché lo trovi lei.
Ma c'è qualcuno nella stanza, alle mie spalle.
Sento un passo, calmo come il mio, lo scricchiolio dello stes¬so assito. La porta mi si chiude alle spalle, con un piccolo scat¬to, la luce non entra più. Mi sento gelare: il bianco è stato un errore. Sono come una massa di neve sotto la luna, anche nel¬l'oscurità.
Un sussurro: «Non gridare. Va tutto bene».
Come se potessi gridare. Come se tutto andasse bene. Mi volto: una forma, niente di più, l'incerto delinearsi di una ma¬scella, privo di colore.
È Nick. Si fa avanti verso di me. «Che fai qui?»
Non rispondo. Neanche lui dovrebbe essere qui con me, dunque non può tradirmi. Né io lui; in questo momento siamo l'uno lo specchio dell'altro. Mi mette la mano sul braccio, mi attira a sé. La sua bocca sulla mia. Che altro può provocare l'a¬stinenza? Non diciamo una parola, tremiamo entrambi. Quanto mi piacerebbe farlo, qui nel soggiorno di Serena, tra i fiori sec¬chi, sul tappeto cinese, con un uomo sconosciuto. Sarebbe co¬me urlare, come sparare a qualcuno. La mano mi va giù, potrei slacciare questi bottoni e poi... Ma è troppo pericoloso, lui lo sa, ci allontaniamo l'uno dall'altra, ma poco. Troppa fiducia, troppo rischio, troppe cose sono già avvenute.
«Stavo venendo a trovarti» mi dice all'orecchio, in un sof¬fio. Voglio stargli addosso, assaporargli la pelle. Le sue dita si muovono, mentre mi tasta il braccio sotto la manica della cami¬cia da notte, come se la mano non volesse dar retta alla ragione. È così piacevole, essere toccata da qualcuno, sentirsi desiderata e desiderare. Luke, tu lo capiresti. Sei tu qui, in un altro corpo.
Che imbecillità.
«Perché?» dico. Possibile che tenga tanto a me da correre il rischio di venire in camera mia di notte? Penso agli impiccati, uncinati al Muro. A stento mi reggo in piedi. Devo andarmene, prima che sia troppo tardi.
Sento la sua mano sulla mia spalla, ferma, pesante, come piombo caldo. È questo ciò per cui dovrei morire? Sono vile. Odio il pensiero del dolore.
«M'ha mandato lui» dice Nick. «Vuole vederti. Nel suo studio».
«Non capisco» rispondo. Deve trattarsi del Comandante. Vedermi? Che significa vedermi? Non ne ha avuto abbastanza di me?
«Domani» dice Nick, così sottovoce che riesco appena a sentirlo.
Nel soggiorno buio ci separiamo lentamente, come se fossi¬mo spinti l'uno verso l'altra da una forza magnetica e risospinti via da mani altrettanto forti.
Trovo la porta, giro la maniglia, sento la porcellana fredda sotto le dita, apro. È tutto ciò che posso fare.
VII
Notte
18
Giaccio a letto, ancora tremante. Se si inumidisce l'orlo di un bicchiere e lo si sfiora con un dito, emetterà un suono. Io sento di essere questo suono di vetro. Come la parola frantumare. Vorrei stare insieme a qualcuno.
Sdraiata sul letto, con Luke, la sua mano sul mio ventre ro¬tondo. Noi tre, a letto, lei che scalcia, rigirandosi dentro di me. Fuori c'è il temporale, per questo lei è sveglia; i bambini sentono, dormono, sussultano, anche là nella calma del cuore, tra le onde che battono sulla battigia attorno a loro. Il balenio di un lampo, piuttosto vicino, accende gli occhi di Luke per un istante.
Non ho paura. Siamo completamente svegli, la pioggia ades¬so batte contro i vetri, faremo piano, staremo attenti.
Se pensassi che ciò potrebbe non accadere più, morirei.
Ma è sbagliato, nessuno muore per mancanza di sesso. È per mancanza d'amore che moriamo. Non c'è nessuno qui che io possa amare, tutti quelli che potrei amare sono morti o altrove. Chissà dove saranno e quali saranno i loro nomi adesso. Po¬trebbero benissimo non esistere più, come io non esisto più per loro. Anch'io sono una persona dispersa.
Di tanto in tanto riesco a vedere i loro visi, nel buio, tremo¬lanti come immagini di santi in antiche cattedrali straniere, alla luce incerta delle candele, accese per inginocchiarvisi vicino, a pregare, la fronte sulla balaustra di legno, sperando in una ri¬sposta. Posso evocarli, ma sono solo miraggi, non durano. Mi si può biasimare se desidero un vero corpo, da stringere con le mie braccia? Senza di esso anch'io sono incorporea. Posso ascoltare i battiti del mio cuore, contro le molle del letto, posso accarezzarmi, sotto le lenzuola bianche, secche, al buio, ma an¬ch'io, se faccio scorrere una mano su di me, mi sento secca e bianca, dura, granulosa come un piatto di riso asciutto, come la neve. È una sensazione di morte, di abbandono. Sono come una stanza dove un tempo accadevano delle cose e adesso non accade nulla, tranne il polline delle gramigne che crescono là, fuori dalla finestra, e che viene soffiato all'interno come polvere sul pavimento.
Ecco quel che credo.
Credo che Luke sia sdraiato a faccia in giù in una siepe, in un groviglio di felci, le fronde marroni dell'altr'anno sotto quel¬le verdi appena aperte, o forse è cicuta, sebbene sia ancora troppo presto per le bacche rosse. Restano di lui i capelli, le os¬sa, la camicia di lana a scacchi verdi e neri, la cintura di cuoio, gli stivali da lavoro. So esattamente che cosa indossava. Mental¬mente posso vedere i suoi vestiti, nitidi come in una litografia o in una pubblicità a colori di una vecchissima rivista, ma non il suo viso, o almeno non così chiaramente. Il suo viso sta comin¬ciando a sbiadire, probabilmente perché non era sempre lo stesso, era imprevedibile, a differenza dei suoi abiti.
Prego che i fori dei proiettili (due o tre, ci fu più di uno sparo), siano stati uno vicino all'altro, prego che almeno un fo¬ro sia stato preciso, veloce, nel trapassare il cranio, il luogo do¬v'erano tutte le immagini, così che ci sia stato un solo unico at¬timo di dolore sordo, come la parola tonfo, soltanto quello e poi il silenzio.
Questo credo.
E credo anche che Luke stia seduto da qualche parte in un rettangolo di cemento grigio, su una sedia, o sul bordo di un letto. Lo sa Dio com'è vestito. Lo sa Dio che gli hanno messo addosso. Ma Dio non è il solo a sapere, quindi potrebbe esserci qualche modo di scoprirlo. È da un anno che non si fa la bar¬ba, sebbene gli taglino i capelli corti, ogni qualvolta ne hanno voglia, per evitare i pidocchi, dicono. Dovrò riflettere su que¬sto: se tagliano i capelli per evitare i pidocchi, allora tagliano anche la barba.
Comunque non lo fanno bene, i capelli sono tagliati a cioc¬che irregolari, troppo corti sulla nuca, ma questo non è il peggio, sembra che abbia dieci anni di più, venti, è curvo come un vecchio, ha le borse sotto gli occhi e piccole vene color porpora sulle guance, lungo il lato sinistro del suo viso c'è una cicatrice, anzi no, una ferita, perché non è ancora rimarginata, che ha il colore dei tulipani, verso l'estremità del gambo.
Il corpo è facilmente danneggiabile, facilmente eliminabile, è fatto di acqua e sostanze chimiche, è poco più di una medusa sulla sabbia.
È doloroso per lui muovere le mani, muoversi. Non sa di che cosa è accusato.
Strano. Ci dev'essere qualche accusa. Altrimenti perché lo tengono lì? Perché non è già morto? Saprà qualcosa che loro vogliono sapere. Non riesco a immaginarlo. Non riesco a imma¬ginare che non abbia già parlato. Io l'avrei fatto. È circondato da un odore, il suo, l'odore di un animale rinchiuso in una gabbia sudicia. L'immagino che si riposa, perché mi è insopporta¬bile immaginarlo in qualsiasi altro momento; così come non rie¬sco a immaginare altro al di sotto del suo colletto, al di sopra dei suoi polsini. Non voglio pensare che cosa hanno fatto del suo corpo. Ha le scarpe? No, e l'impiantito è freddo e bagnato. Lo sa che mi trovo qui, viva, e che penso a lui? Devo credere che sia così. Quando le possibilità sono così ridotte devi crede¬re ad ogni sorta di cose. Adesso credo nella trasmissione del pensiero, nelle vibrazioni nell'etere, in queste sciocchezze. Pri¬ma non mi capitava.
Forse non l'hanno preso o non sono riusciti a prenderlo, forse ce l'ha fatta, ha raggiunto la sponda, ha attraversato il fiu¬me a nuoto, ha varcato il confine, è riuscito ad approdare sulla sponda lontana dell'isola dove l'hanno considerato prima con sospetto, ma poi, una volta capito chi era, l'hanno accolto come un amico. Non era gente che sarebbe andata a denunciarlo, erano Quaccheri, lo hanno fatto passare all'interno, di casa in casa, una donna gli ha dato del caffè bollente e gli abiti di suo marito. M'immagino questi abiti, mi conforta pensare che fosse¬ro pesanti. Mi conforta vestirlo col calore di abiti pesanti.
Lui si è messo in contatto con gli altri, dev'esserci una resi¬stenza organizzata, un governo in esilio. Ci dev'essere qualcuno là, che ci pensa. Credo nella resistenza così come credo che non può esserci luce senza ombra, o meglio, nessuna ombra senza luce. Ci dev'essere una resistenza, altrimenti da dove ven¬gono tutti quei criminali, alla televisione?
In un qualsiasi giorno potrà arrivare un suo messaggio. Giungerà nel modo più inatteso, dalla persona meno probabile, da qualcuno che non avrei mai sospettato, sotto il piatto, sul vassoio del pranzo? Me lo faranno scivolare nella mano mentre prendo i buoni al banco di Carne?
Il messaggio dirà che dovrò avere pazienza: presto o tardi lui mi farà uscire e la troveremo, in qualsiasi posto l'abbiano mes¬sa. Lei si ricorderà di noi e saremo tutti e tre insieme. Nel frat¬tempo devo sopportare, mantenermi al sicuro per dopo. Ciò che mi è successo, ciò che mi sta succedendo adesso, per lui non farà nessuna differenza, lui mi ama comunque, lui sa che non è colpa mia. Il messaggio dirà anche questo. È questo mes¬saggio, che forse non giungerà mai, a tenermi viva. Credo nel messaggio.
Le cose in cui credo non possono essere tutte vere, ma una dev'esserlo per forza. Io però credo a tutte e tre le versioni sul destino di Luke, nello stesso tempo.
Questo modo contraddittorio di credere, in questo momen¬to, mi sembra l'unico possibile. Qualunque sia la verità, sarò pronta. Ci credo, anche se potrà non essere vero.
In una delle lastre tombali nel cimitero, accanto alla chiesa più antica, ci sono un'ancora e una clessidra, e la parola: Spe¬ranza.
Speranza. Perché l'hanno scritto sopra un morto? Era il ca¬davere a sperare, o quelli ancora vivi?
E Luke spera?
VIII
Nascita
19
Sto sognando di essere sveglia.
Sogno di scendere dal letto e di attraversare la stanza, non questa stanza, e di varcare la porta, non questa porta. Sono a casa mia, una delle mie case, e lei mi viene incontro di corsa con la sua camicina da notte verde col girasole sul davanti, i piedi scalzi. La sollevo, mi sento cingere dalle sue braccia e dal¬le sue gambe e comincio a piangere, perché capisco che non so¬no sveglia.
Sono di nuovo in questo letto, e cerco di svegliarmi. Mi sve¬glio, mi siedo sul bordo del letto, ed è mia madre che entra con un vassoio e mi chiede se mi sento meglio. Quand'ero ma¬lata, da bambina, lei doveva restare a casa dal lavoro. Nemme¬no questa volta sono sveglia.
Ma ora so di essere veramente sveglia perché vedo il festone, sul soffitto, e le tende ricadenti come i capelli bianchi di un an¬negato. Mi sento come narcotizzata. Penso: forse mi stanno drogando. Forse la vita che credo di vivere è un'allucinazione paranoica.
Non una speranza. So dove sono, e chi, e che giorno è. Queste sono le prove che sono sana di mente. L'essere sani di mente è un patrimonio che accumulo come un tempo la gente accumulava il denaro. Lo metto da parte, per quando sarà il momento.
Attraverso le tende passa un grigio, soffuso chiarore. Scendo dal letto, vado alla finestra, m'inginocchio sul sedile sotto la finestra, sul piccolo cuscino duro, FEDE, e guardo fuori. Non c'è nulla da vedere.
Mi chiedo che ne è degli altri due cuscini. Ce ne devono es¬sere stati tre, un tempo. Dove sono stati messi SPERANZA e CA¬RITÀ? Serena Joy è ordinata, non butta via nulla. Che abbia da¬to un cuscino a Rita e uno a Cora?
La campana suona, sono già in piedi, in anticipo. Mi vesto, senza guardare in basso.
Mi siedo sulla sedia. Sedia, chair. Chair serve anche a indicare chi presiede una riunione. Chair è anche un modo per eseguire la pena capitale. È la prima sillaba della parola charity. Chair in francese vuol dire carne. Nessuna di queste parole ha un nesso con le altre, sono le litanie che recito da sola.
Davanti a me c'è un vassoio e sul vassoio un bicchiere di succo di mela, una compressa di vitamine, un cucchiaio, un piatto con tre fette di pane nero tostato, un piccolo recipiente contenente miele, e un altro piatto con un portauovo, che somi¬glia al busto di una donna con la sottana. Sotto la sottana c'è il secondo uovo, caldo. Il portauovo è di porcellana bianca con una striscia azzurra.
Il primo uovo è bianco. Sposto un pochino il portauovo, co¬sì che adesso si trova nella luce trasparente che proviene dalla finestra e si rovescia a fiotti, accendendosi, indebolendosi, e riaccendendosi di nuovo, sul vassoio. Il guscio dell'uovo è liscio e insieme minutamente granuloso, piccoli cristalli di calcio sono evidenziati dalla luce, come crateri sulla luna. È un paesaggio glabro, però perfetto, come il deserto dove si rifugiavano i san¬ti, perché le loro menti non fossero distratte dal lusso e dalla mondanità. Penso che questo dovrebbe essere l'aspetto di Dio: un uovo. La vita sulla luna potrebbe non trovarsi sulla superfi¬cie, ma all'interno.
L'uovo adesso brilla, come se avesse una sua propria ener¬gia. Osservare l'uovo mi dà un intenso piacere.
Il sole se ne va e l'uovo svanisce.
Prendo l'uovo dal portauovo e lo tasto per un istante. È cal¬do. Le donne si tenevano le uova tra i seni, per incubarle. Una sensazione piacevole.
La vita minima. Il piacere è un uovo. Benedizioni che si possono contare sulle dita di una mano. Ma forse è così che mi si chiede di reagire.
Se possiedo un uovo, che altro posso desiderare?
In condizioni di vita limitate il desiderio di vivere si attacca a oggetti strani. Mi piacerebbe un uccellino, poniamo, o un gat¬to, un animaletto che mi sia familiare. Perfino un topo andreb¬be bene, ma non è possibile, la casa è troppo pulita.
Rompo la parte alta dell'uovo col cucchiaino, e mangio il contenuto.
Mentre mangio il secondo uovo, sento la sirena che, dapprima a grande distanza, si fa strada verso di me tra le grandi case e i prati dall'erba tagliata, un rumore sottile come il ronzio che si apra in una tomba. È un proclama, questa sirena. Poso il cuc¬chiaino, il mio cuore accelera i battiti, di nuovo vado alla fine¬stra: sarà azzurra l'automobile e quindi non per me? La vedo svoltare l'angolo, venire lungo la strada, fermarsi davanti al por¬tone, ancora con la sirena che urla, ed è rossa. Provo una sensa¬zione di gioia, rara in questi tempi. Lascio il secondo uovo a metà, vado di corsa all'armadio a prendermi l'abito, e già sento un rumore di passi per le scale e delle voci che chiamano.
«Presto» dice Cora, «non staremo qui ad aspettare tutto il giorno». Mi aiuta a mettermi l'abito, sta sorridendo. Scendo in anticamera di corsa, come se le scale fossero una pista da sci, la porta d'ingresso è larga, oggi posso varcarla, e il Custode è lì ritto che saluta. Ha cominciato a piovere, un'acquerugiola fitta, e l'odore della terra e dell'erba bagnate riempie l'aria.
La Partomobile è parcheggiata sul viale d'accesso. Gli spor¬telli sul retro sono aperti e salgo all'interno. Il tappeto è rosso, tendine rosse coprono i finestrini. Ci sono già tre donne, sedute sulle panche che corrono lungo il furgone. Il Custode chiude, controlla i doppi sportelli e sale davanti, accanto all'autista; at¬traverso la grata ricoperta di cristallo intravediamo le loro teste. Ci avviamo con un sobbalzo, mentre la sirena urla: Fate largo, fate largo!
«Chi è?» dico alla donna accanto a me; glielo dico nell'o¬recchio, o dove penso si trovi il suo orecchio, sotto il copricapo bianco. Devo quasi gridare, il rumore è molto forte.
«Diwarren» risponde a voce alta. Improvvisamente mi af¬ferra la mano, la stringe, mentre sobbalziamo sulla curva; si volta verso di me e vedo che ha il viso bagnato di lacrime, ma la¬crime di che? Di gelosia, di delusione? Ma no, sta ridendo, mi getta le braccia al collo, non l'ho mai vista prima, mi stringe, ha seni ampi, sotto l'abito rosso, si passa la manica sul viso per asciugarlo. Questo è un giorno in cui possiamo fare ciò che vo¬gliamo.
Mi correggo: possiamo fare ciò che vogliamo entro certi li¬miti.
Di fronte a noi, sull'altra panca, una donna sta pregando, con gli occhi chiusi, le mani sulla bocca. O forse non prega. Può darsi che si morda l'unghia dei pollici. Forse sta cercando di star calma. La terza donna è calma. Siede a braccia conserte, sorridendo. La sirena continua. Questo di solito era il suono della morte, per ambulanze o incendi. Forse sarà il suono della morte anche oggi. Presto lo sapremo. A che darà vita Diwarren? A un bambino, come tutte speriamo? O a qualcos'altro, un Nonbambino, con una testa a capocchia di spillo, o un mu¬so come quello di un cane, o due corpi, o un foro nel cuore, o senza braccia, o con le mani e i piedi palmati? Non si può sa¬pere. Un tempo potevano saperlo, con le macchine, ma questo adesso è proibito dalla legge. E a che scopo saperlo, comun¬que? Non ci si può far niente; le gravidanze devono essere por¬tate a termine.
Le possibilità sono una su quattro, ce l'hanno detto al Cen¬tro. L'aria si è riempita, in passato, di sostanze chimiche, raggi, radiazioni, l'acqua pullulava di molecole tossiche, per ripulire tutto ci vorranno anni, e nel frattempo i microbi seguiteranno a insediarsi nei corpi, a infiltrarsi nelle cellule adipose. Chi lo sa, può darsi che la tua stessa carne sia contaminata, lercia come una spiaggia coperta di petrolio, morte certa per gli uccelli e per i bambini non ancora nati. Può darsi che un avvoltoio muoia per averti mangiato. Può darsi che tu divenga qualcosa di luminoso nel buio, come un vecchio orologio. L'orologio del¬la morte. Una specie di scarabeo che seppellisce carogne.
Non riesco a pensare al mio corpo senza vederne lo schele¬tro: assomiglierei a un elettrone. Una culla di vita, fatta d'ossa; e all'interno, un guasto di proteine alterate, brutti cristalli fra¬stagliati come vetri rotti. Le donne prendevano medicine, pillo¬le, gli uomini spruzzavano gli alberi, le mucche mangiavano l'erba, un liquame denso scorreva nei fiumi. Per non parlare della centrale atomica esplosa lungo la falda del San Andreas, per colpa di nessuno, durante i terremoti, e dei ceppi mutanti della sifilide che nessuna muffa poteva intaccare. Qualcuna ha provveduto da sola, si è fatta suturare definitivamente o sfregia¬re con sostanze chimiche.
Come hanno potuto, oh come hanno potuto fare una cosa simile? Oh Gezebele! Spregiare i doni di Dio! diceva Zia Lydia, torcendosi le mani.
Correte un rischio, diceva, ma siete le truppe d'assalto, voi marcerete in avanscoperta, in territori pericolosi... Maggiore il rischio maggiore la gloria. Giungeva le mani, raggiante per il nostro falso coraggio. Noi abbassavamo lo sguardo sul ripiano dei banchi. Sopportare quelle traversie per dare alla luce un re¬litto: non era un bel pensiero. Non sapevamo di preciso che co¬sa sarebbe successo ai bambini che non venivano approvati, che erano dichiarati Nonbambini. Sapevamo che venivano messi, in fretta, da qualche parte.
Non c'è stata un'unica causa, diceva Zia Lydia. Era lì ritta in mezzo all'aula, nel suo abito cachi, in mano una stecca di legno. Srotolato sopra la lavagna, dove un tempo si sarebbe messa una carta geografica, c'era un grafico, che mostrava il tasso di nata¬lità per mille, attraverso gli anni: una china scivolosa, che scen¬deva oltre la linea zero e ancora più giù.
Certo, alcune donne credevano che non ci sarebbe stato fu¬turo, pensavano che il mondo sarebbe esploso. Questa era la scusa cui ricorrevano, diceva Zia Lydia. Ritenevano che averne fosse un controsenso. Le narici di Zia Lydia si dilatavano: che malvagità! Erano delle cialtrone, diceva, delle puttane.
Sul ripiano del mio banco c'erano delle iniziali, intagliate nel legno, e delle date. Talvolta le iniziali erano unite dalla parola ama. J.H. ama B.P. 1954, D.R. ama L.T. Mi sembravano simili alle iscrizioni incise sulle pareti di pietra delle caverne, disegna¬te con una mistura di cenere e grasso animale. Mi sembravano incredibilmente antiche. Il ripiano del banco era di legno chiaro inclinato e c'era un bracciolo sul lato destro, per appoggiarcisi quando si scriveva sulla carta, con la penna. All'interno del banco si potevano tenere tante cose: libri, quaderni.
Queste usanze del passato sembravano già follie, decadenti, immorali, come le orge dei regni barbarici. M. ama G. 1972. Quell'intaglio, fatto con una matita, scavando innumerevoli vol¬te nella vernice consunta del banco, aveva ormai il pathos di tutte le civiltà scomparse. Era come l'impronta di una mano sulla pietra. Chi l'aveva impressa, un tempo era vivo.
Non vi erano date dopo la metà degli anni Ottanta. Doveva essere stata una delle scuole chiuse allora, per mancanza di bambini.
Loro hanno commesso degli errori, diceva Zia Lydia, che noi non intendiamo ripetere. La sua voce era pia, suadente, la voce di coloro il cui compito è dirci cose spiacevoli per il no¬stro bene. Avrei voluto strangolarla, ma scacciavo questo pen¬siero non appena mi si affacciava alla mente.
Una cosa ha valore, diceva, solo se è rara e se la si ottiene con fatica. Vogliamo che voi siate valorizzate, ragazze. Assapo¬rava le pause. Ciascuna pensi a se stessa come a una perla. Se¬dute in fila, con gli occhi bassi, la lasciavamo sbavare moral¬mente. Eravamo sue, toccava a lei definirci, dovevamo soppor¬tarla.
Pensavo alle perle. Le perle sono sputo d'ostrica congelato. Lo avrei detto a Moira, più tardi.
Tutti noi qui vi plasmeremo a leccate, diceva Zia Lydia, con soddisfatta allegria.
Il furgone si ferma; gli sportelli posteriori si aprono. Il Custode ci fa uscire in gruppo. Sulla porta d'ingresso c'è un altro Custo¬de, porta a tracolla uno di quei mitra a canna corta. Ci dirigia¬mo in fila verso l'ingresso, sotto la pioggia sottile, i Custodi ci salutano. Il grande furgone Assistenza, quello coi macchinali e i medici che fanno servizio di ambulanza, è parcheggiato più in là, lungo il viale d'accesso circolare. Vedo uno dei medici che guarda dal finestrino. Mi chiedo che cosa fanno lì dentro, men¬tre aspettano. Giocano a carte, molto probabilmente, o leggo¬no; un passatempo maschile. Il più delle volte non c'è bisogno di loro; li lasciano entrare solo se non se ne può fare a meno.
Un tempo era diverso, un tempo era tutto in mano loro. Una vergogna, diceva Zia Lydia. Una vergogna. Ci aveva mo¬strato un film, girato in un ospedale dei vecchi tempi: una ge¬stante, collegata con dei fili a una macchina, con gli elettrodi che le uscivano da tutte le parti, così che sembrava un robot sconquassato; l'ago della fleboclisi nel braccio. Un uomo con una pila le guardava tra le gambe, dove era stata rasata. Una ra-gazza sbarbata, un vassoio di luccicanti bisturi sterilizzati, un medico con la mascherina sul viso. Una paziente disposta a collaborare. Una volta imbottivano le donne di farmaci, stabilivano il momento del parto, le aprivano, le ricucivano. Ora basta. Niente più anestetici. Zia Lydia diceva che è meglio per il bam¬bino, ma diceva anche: Io accrescerò i dolori del tuo parto e del¬la tua gravidanza, tu partorirai i figli con dolore. A colazione ab¬biamo avuto tramezzini di pane nero e lattuga.
Salgo i gradini dell'ampia scalinata che ha un'urna di pietra a entrambi i lati (il Comandante di Diwarren dev'essere di ran¬go più elevato del nostro), e odo un'altra sirena. È la Partomobile blu, per le Mogli. Sarà Serena Joy, che arriva con grande pompa. Niente panche per loro, a loro spettano veri sedili im¬bottiti. Sono rivolte verso la parte anteriore dell'automobile e non sono isolate da tendine. Loro sanno dove sono dirette. Probabilmente Serena Joy è già stata qui, in questo palazzo, per il tè. Probabilmente Diwarren (in altri tempi quella cagna la¬gnosa di Janine) è stata mostrata a lei e alle altre Mogli, così che le potessero vedere la pancia, tastarla forse anche, e congra¬tularsi con la Moglie. «Una ragazza forte, con dei buoni mu¬scoli. Niente Agente Arancione nella sua famiglia, abbiamo controllato la documentazione, non si è mai abbastanza pruden-ti». Forse una delle più gentili le avrà detto: «Vuoi un biscotto, cara?».
«Oh no, la vizi, troppo zucchero non va bene per loro». «Sicuramente non le farà male, solo per questa volta, Mildred».
E quella lecchina di Janine: «Oh sì, posso, Signora, per fa¬vore?»
«Quelle che si comportano così bene, non come certe altre, fanno il loro dovere, ecco tutto». «È più che una figlia, per te, una della famiglia». Soddisfatte risatine da matrona. «Adesso basta, cara, adesso puoi tornartene in camera tua».
E dopo che se ne è andata: «Puttanelle, tutte quante, però non si ha facoltà di scelta. Bisogna prendere quel che ci danno, vero?» dice la Moglie del Comandante, del mio Comandante.
«Oh, ma tu sei stata fortunata! Certe, caspita, non sono nemmeno pulite. E non ti sorridono, non spazzano le loro ca¬mere, non si lavano i capelli, hanno cattivo odore. Io per esem¬pio a volte obbligo le Marte a cacciarla a forza nella vasca, arrivo a corromperla perché faccia un bagno, sono costretta a mi¬nacciarla».
«Io ho dovuto prendere severe misure con la mia, così ades¬so lei non consuma mai il suo pranzo completamente, e quanto al resto nemmeno un boccone, eppure siamo stati sempre mol¬to corretti. Ma la tua ti fa onore. E qualsiasi giorno è buono, adesso, oh, devi essere così eccitata, lei è molto grossa, scom¬metto che non vedi l'ora».
«Ancora un po' di tè?» dice la Moglie del Comandante, modestamente, cambiando discorso.
So come vanno queste cose.
E Janine, su in camera sua, che fa? Sta seduta con ancora in bocca il sapore dello zucchero, leccandosi le labbra. Guarda fis¬so fuori dalla finestra. Respira a fondo, lentamente, regolarmen¬te. Si accarezza i seni gonfi. Non pensa a nulla.
20
Lo scalone centrale è più ampio del nostro, con una balaustra ricurva a entrambi i lati. Si ode il salmodiare delle donne che si trovano già là. Saliamo le scale, in fila indiana, attente a non calpestarci lo strascico. Sulla sinistra, i battenti della porta che dà in sala da pranzo sono spalancati, e all'interno vedo la lunga tavola coperta da un telo bianco su cui è allestito un buffet: prosciutto, formaggio, arance (loro hanno le arance), dolci e pa¬ne appena sfornato. Quanto a noi, ci verranno dati latte e tra¬mezzini, su un vassoio, più tardi. Ma loro hanno un bricco per il caffè e delle bottiglie di vino. Perché infatti le Mogli non do¬vrebbero ubriacarsi un po' in questo giorno di trionfo? Per pri¬ma cosa attenderanno il risultato, poi faranno baldoria. Adesso sono riunite nel salotto, dall'altro lato dello scalone, a occuparsi della Moglie di questo Comandante, la Moglie di Warren. È una donnina sottile, che sta supina sul pavimento, in una cami¬cia da notte di cotone bianco, coi capelli che le si stanno inca-nutendo sparsi come muffa sul tappeto, mentre loro le massag¬giano il ventre minuto, come fosse lei a partorire veramente.
Il Comandante, naturalmente, non si vede. Se n'è andato dove vanno gli uomini in tali occasioni, in qualche luogo appar¬tato. Probabilmente sta pensando a quando verrà pronunciata la sua promozione, se tutto va bene. Adesso è certo di ottener¬ne una.
Diwarren è nella camera da letto padronale (bella definizio¬ne) dove questo Comandante e sua Moglie si coricano ogni se¬ra. Janine è seduta sul letto matrimoniale, sorretta da cuscini. Le è stato aggiunto peso, volume, ma le è stato tolto il suo vecchio nome. Indossa una camicia di cotone bianco, rimboccata sulle cosce; i lunghi capelli color ginestra sono raccolti e legati dietro il capo, perché non siano d'ingombro. Tiene gli occhi chiusi e stretti, e così mi è quasi simpatica. Dopo tutto è una di noi, che altro ha voluto se non vivere il più gradevolmente pos¬sibile? Che altro ha voluto ognuna di noi? Si cerca di prendere quello che si può. A lei sta andando abbastanza bene.
Due donne che non conosco le stanno ai lati, le tengono le mani, o è lei che tiene le loro. Una terza le solleva la camicia, le versa dell'olio per neonati sul gonfiore dello stomaco e la mas¬saggia spingendo all'ingiù. Ai suoi piedi è ritta Zia Elisabetta, nel suo abito cachi con taschini militari; quella che insegnava Educazione Ginecologica. Di lei vedo solo un lato della testa, il suo profilo, ma so che è lei, con quel naso sporgente e quel bel mento severo. Accanto a lei c'è lo Scranno da Parto, col doppio sedile, quello posteriore innalzato come un trono dietro all'al¬tro. Non vi collocheranno Janine prima del tempo.
Le coperte sono pronte, e anche la vaschetta per il bagno e la ciotola del ghiaccio perché Janine lo succhi.
Le altre donne siedono sul tappeto a gambe incrociate, ce n'è un'intera folla, ogni Ancella del distretto deve essere pre¬sente. Saranno venticinque, trenta. Non tutti i Comandanti han¬no un'Ancella: qualcuna delle loro Mogli ha dei figli. Da ciascu¬no, secondo la sua capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno. Lo recitavano tre volte, dopo pranzo. Era nella Bibbia, o così dicevano. San Paolo, di nuovo gli Atti degli Apostoli.
Siete una generazione di transizione, diceva Zia Lydia. Per voi è più difficile. Sappiamo che da voi si attendono dei sacrifi¬ci. È duro subire l'oltraggio degli uomini. Per quelle che ver¬ranno dopo, sarà più facile, perché accetteranno il loro dovere con cuore volonteroso.
Non diceva: perché non avranno ricordi.
Diceva: perché non vorranno cose che non possono avere.
Una volta alla settimana c'era il film, dopo colazione e prima del sonnellino. Sedevamo sull'impiantito dell'aula di Scienze Domestiche, sulle nostre piccole stuoie grigie, e aspettavamo mentre Zia Elena e Zia Lydia armeggiavano con la macchina da proiezione. C'era solo da sperare che non montassero la pellico¬la all'incontrano. Mi ricordavo che, durante le lezioni di geografia, alla scuola superiore, migliaia di anni prima, proiettava¬no dei film su paesi lontani. Donne con lunghe gonne o con modesti abiti di cotone stampato, trasportavano fascine, o pa¬nieri, o secchi d'acqua, coi bambini al collo, avvolti in scialli o fasce, e guardavano con gli occhi socchiusi o impauriti, dallo schermo verso di noi; sapevano che veniva fatto loro qualcosa da una macchina con un occhio di vetro, ma non sapevano co¬sa. Quei film ci piacevano, ma ci annoiavano un po'. Io mi an¬noiavo anche quando sullo schermo comparivano degli uomini, con i muscoli in evidenza, che lavoravano terreni duri con zap¬pe e pale primitive, e rimuovevano pietroni. Preferivo i film do¬ve si danzava, si cantava, con maschere cerimoniali, rozzi stru-menti musicali intagliati, piume, bottoni di ottone, grandi con¬chiglie, tamburi. Mi piaceva guardare gente felice, non misera, affamata, emaciata o affaticata a morte da lavori semplici come scavare un pozzo o irrigare la terra. Pensavo che si dovesse for¬nire loro la tecnologia e poi lasciare che se la cavassero da soli.
Zia Lydia non ci mostrava questo genere di film.
Talvolta proiettava vecchi film pornografici, degli anni Set¬tanta o Ottanta. Donne inginocchiate, che succhiavano peni o pistole, donne legate o incatenate o con collari da cane al collo, donne appese agli alberi e capovolte, nude, con le gambe diva¬ricate, donne che venivano stuprate, percosse, uccise. Una volta eravamo state costrette a guardare una donna che veniva fatta lentamente a pezzi, le dita e i seni recisi con cesoie da giardinie¬re, lo stomaco squarciato e gli intestini fuori.
Considerate le alternative, diceva Zia Lydia. Vedete come stanno le cose? Questo era ciò che loro pensavano delle donne, allora. La voce le tremava d'indignazione.
Moira ci aveva spiegato, più tardi, che non era vero, che quelle erano attrici, modelle, ma non si poteva esserne certi.
Talvolta, invece, il film era quel che Zia Lydia chiamava un documentario Nondonna.
Pensate, diceva, sprecare il tempo così, quando avrebbero dovuto far qualcosa di utile. A quei tempi, le Nondonne spre¬cavano il loro tempo. Erano incoraggiate a farlo. Il governo da¬va loro del denaro proprio per quello. Intendiamoci, qualche loro iniziativa era piuttosto buona, proseguiva, con l'autorità compiaciuta di chi è nella posizione di giudicare. Dovremmo giustificarne qualcuna anche oggi. Solo qualcuna, badate, diceva, civettuola, levando il dito indice e facendolo oscillare davan¬ti ai nostri occhi. Ma erano senza Dio, e qui sta tutta la diffe¬renza, non siete d'accordo?
Sono seduta sulla mia stuoia, le mani giunte. Zia Lydia si scosta dallo schermo, le luci si spengono e mi chiedo se posso, al buio, piegarmi tutta sulla destra senz'essere vista, e sussurrare qualche parola alla donna che mi è accanto. Che cosa le dirò? Hai visto Moira? Nessuno ne sa niente. Non c'era alla prima colazione. Ma la sala, sebbene in penombra, non è abbastanza buia, così oriento la mia mente verso la fase di ritenzione, che sta per attenzione.
Nei film come questo manca la colonna sonora che invece c'è nei film pornografici. Vogliono che noi sentiamo le urla, i gemiti e le grida di quel che si ritiene essere un estremo dolore o un estremo piacere o tutt'e due contemporaneamente, ma non vogliono che noi sentiamo ciò che dicono le Nondonne.
Prima vengono il titolo e qualche nome, cancellato sulla pel¬licola a matita così che noi possiamo leggerli, e poi vedo mia madre. La mia giovane madre, più giovane di quanto la ricordi, giovane quanto dev'essere stata un tempo, prima che nascessi. Indossa quel tipo di abbigliamento che Zia Lydia ci ha indicato come caratteristico delle Nondonne in quei tempi: tuta di jeans con camicetta a scacchi verdi e malva e scarpe da tennis. Anche Moira si vestiva così. Anch'io. Ha i capelli raccolti in un fazzo¬letto color malva annodato dietro il capo. Il viso è giovanissimo, molto serio e anche grazioso. Non mi ricordavo che mia madre fosse, un tempo, così graziosa e seria. È in un gruppo di altre donne, vestite alla stessa maniera; ha in mano un bastone, il ba¬stone di sostegno di uno striscione. In una carrellata dall'alto vediamo la scritta, dipinta con la vernice su un lenzuolo: RI¬PRENDIAMOCI LA NOTTE. Non l'hanno cancellata, anche se noi non dovremmo leggerla. Le donne intorno a me trattengono il respiro, la sala è percorsa da un brivido, come una ventata sul¬l'erba. È una svista della quale abbiamo approfittato senza vole¬re, o l'hanno fatto apposta, per ricordarci l'insicurezza dei tem¬pi passati?
Dietro questa scritta ce ne sono altre, e la macchina da presa le coglie brevemente. LIBERTÀ DI SCELTA, OGNI FIGLIO UN FI¬GLIO DESIDERATO. RIPRENDIAMOCI I NOSTRI CORPI. IL POSTO DELLA DONNA NON È SUL TAVOLO DI CUCINA. Sotto quest'ultima scritta c'è la fotocopia di un disegno con un corpo di don¬na, disteso su un tavolo, e il sangue che cola di sotto.
Adesso mia madre cammina, sorride, ride, tutti vengono in avanti, col pugno alzato. La macchina da presa si sposta verso il cielo, dove si levano centinaia di palloncini, trascinando die¬tro le loro cordicelle: palloncini rossi, dov'è dipinto un cerchio con un tratto verticale attraversato da un altro in senso orizzon¬tale, come una mela appesa al ramo per il picciolo. I due segni formano una croce. Mia madre adesso è confusa tra la folla, e non riesco più a distinguerla.
Ti ho avuta quando avevo trentasette anni, diceva mia madre. È stato un rischio, avresti potuto essere deforme. Sei stata una figlia desiderata, verissimo, e me ne hanno tirata di merda ad¬dosso. La mia più vecchia amica, Tricia Foreman, mi ha accusa¬to di essere «natalista». Era gelosa. Altre sono state gentili, in¬vece, ma quand'ero incinta di sei mesi ho cominciato a ricevere articoli che spiegavano come le probabilità di malformazioni sa¬lissero vertiginosamente nei bambini nati da donne che avessero superato i trentacinque anni.
Altri articoli parlavano delle difficoltà di allevare un bambi¬no da sole. Stronzate, mi dicevo, ho cominciato e vado avanti. All'ospedale hanno annotato «Primipara attempata» sulla car¬tella clinica, li ho colti sul fatto. È così che ti definiscono quan¬do hai il tuo primo figlio dopo i trent'anni, dopo i trent'anni, sant'Iddio. Imbecilli, gli ho gridato, biologicamente ho ventidue anni, potrei avere tre gemelli e uscire di qui mentre state ancora tentando di rimettervi dall'emozione.
Nel dir questo spingeva il mento in fuori. La ricordo così, il mento proteso in fuori con un bicchiere davanti, sul tavolo di cucina; non più giovane, seria e graziosa, com'era nel film, ma tenace, coraggiosa, quel tipo di donna matura che non si fa ru¬bare il posto in una coda al supermercato. Le piaceva venire a casa mia a bere qualcosa mentre io e Luke preparavamo il pranzo e raccontarci che cosa non andava nella sua vita, che era poi quel che non andava nella nostra. A quel tempo aveva i capelli grigi. Non se li tingeva. Perché fingere, diceva, che biso¬gno ne ho? Non voglio un uomo. A che servono tranne che per quei dieci secondi che corrispondono a mezzo figlio? Un uomo è semplicemente la strategia di una donna per fare altre donne. Non che tuo padre non fosse una brava persona, ma non era all'altezza della paternità. Del resto me lo aspettavo. Fai il tuo dovere e poi va' dove vuoi, gli dicevo, ho un salario decente, posso permettermi di pagare l'asilo. Così lui è partito per l'Est. A Natale ci mandava gli auguri. Aveva dei begli occhi azzurri. Ma c'è qualcosa che manca, in loro, anche in quelli simpatici. È come se fossero sempre distratti, come se non riu¬scissero a ricordarsi del tutto chi sono. Guardano troppo verso il cielo e non sanno dove mettono i piedi. Non valgono più del¬le donne, tranne che per aggiustare l'automobile e giocare al pallone, proprio quello di cui abbiamo bisogno per il migliora¬mento della razza umana, giusto?
Era così che parlava, anche davanti a Luke. A lui non im¬portava, la prendeva in giro, fingeva di essere un maschilista, le diceva che le donne erano incapaci di astrazioni e lei beveva un altro bicchiere con un sorriso ironico. Porco sciovinista diceva. Non è stramba tua madre? diceva Luke, e lei assumeva un'aria sorniona, furtiva. Ne ho il diritto, diceva, sono abbastanza vec¬chia. Ho pagato il mio scotto, posso permettermi di essere stramba. Tu hai ancora il muso sporco di latte. Quanto a te, ag¬giungeva rivolta a me, sei troppo superficiale, un fuoco di pa¬glia. La storia mi darà ragione.
Ma queste cose le diceva dopo il terzo bicchiere.
Voi giovani non apprezzate quello che avete, diceva. Non sa¬pete quante ne abbiamo passate, solo per portarvi a dove siete. Guarda tuo marito che affetta le carote. Non sai quante vite di donne, quanti corpi di donne, ci sono voluti per arrivare sin qui?
Cucinare è il mio hobby, diceva Luke, mi piace.
Non parlare di hobby, diceva mia madre. Non devi scusarti con me. Una volta se ti avessero visto in cucina, ti avrebbero ri¬tenuto un finocchio.
Via mamma, dicevo, non litighiamo per un'inezia. Un'inezia, ripeteva amara, un'inezia la definisci. Tu non capisci, vero, non capisci di che sto parlando.
Talvolta piangeva. Ero così sola, diceva, non puoi immagina¬re com'ero sola. Avevo delle amiche, ero fortunata, ma ero sola lo stesso.
Ammiravo mia madre, sebbene i nostri rapporti non fossero mai stati facili. Lei si aspettava troppo da me. Si aspettava che io rappresentassi la conferma delle scelte che aveva compiuto, ma io non volevo vivere la mia vita secondo i suoi principi. Non volevo essere la figlia modello, l'incarnazione delle sue idee. Litigavamo su questo argomento. Non sono la giustifica¬zione del tuo modo di esistere, le avevo detto una volta.
Vorrei riaverla qui. Vorrei riavere tutto com'era. Ma non serve volere.
21
Fa caldo, c'è troppo rumore. Le voci delle donne mi si levano attorno, una blanda cantilena che per me è troppo forte, dopo giorni e giorni di silenzio. In un angolo della stanza c'è un len¬zuolo macchiato di sangue, avvoltolato e gettato lì, da quando si son rotte le acque. Non l'avevo notato prima.
Anche la stanza puzza, l'aria è chiusa, dovrebbero aprire una finestra, l'odore è quello della nostra carne, un odore organico, di sudore e in parte di ferro, a causa di quel sangue sul lenzuo¬lo, misto a un altro odore, più animale, che proviene, credo, da Janine: odore di tane, di caverne abitate, l'odore che aveva la coperta sul letto quando la gatta si era rifugiata a fare i gattini, una volta, prima di essere castrata. Odore di matrice.
«Respira, respira» salmodiamo, come ci è stato insegnato. «Rallenta, rallenta, rallenta. Spingi, spingi, spingi». Contiamo ogni volta fino a cinque. Respira fino a cinque, rallenta fino a cinque, spingi fino a cinque. Janine, gli occhi chiusi, cerca di rallentare il respiro. Zia Elisabetta è in attesa delle contrazioni.
Adesso Janine è inquieta, vuole camminare. Le due donne l'aiutano a scendere dal letto, la sostengono a entrambi i lati mentre lei cammina. Una contrazione la piega in due. Una don¬na si mette in ginocchio e le massaggia la schiena. Siamo tutte brave, ce l'hanno insegnato. Riconosco Diglen, quella che viene con me a fare la spesa, seduta due posti più in là. La blanda cantilena ci avviluppa come una membrana.
Sopraggiunge una Marta, con un vassoio: una caraffa di suc¬co di frutta, di quello che si prepara con la polverina, sembra pompelmo, e una pila di bicchieri di carta. Posa tutto sul tappeto, davanti alle donne salmodianti. Diglen, sempre attenta, riempie i bicchieri che vengono fatti passare di mano in mano. Prendo un bicchiere, mi sporgo in avanti per passarlo, e la don¬na accanto a me mi dice, a bassa voce nell'orecchio: «Stai cer¬cando qualcuno?»
«Moira» dico, a voce altrettanto bassa. «Capelli scuri, len¬tiggini».
«No» dice la donna. «Non la conosco, non era al Centro con me, però l'ho vista mentre faceva la spesa. Ma terrò gli oc¬chi aperti per te».
«Tu sei?» dico.
«Alma» risponde. «Qual è il tuo vero nome?»
Vorrei dirle che c'era un'Alma con me al Centro. Vorrei dirle il mio nome, ma Zia Elisabetta alza la testa, guardando tutt'attorno la stanza; deve aver sentito un'interruzione nella cantile¬na, quindi non posso più parlare. Talvolta si possono avere del¬le informazioni nei Partogiorni. Ma non ha senso chiederle di Luke. Non può trovarsi in un luogo dove una di queste donne avrebbe potuto vederlo.
La salmodia continua, comincia a prendermi. È una fatica, un lavoro di concentrazione. Identificatevi col vostro corpo, di¬ceva Zia Elisabetta. Sento di già dei lievi dolori, nel ventre, i se¬ni pesanti. Janine grida, un grido debole, a metà tra un urlo e un gemito.
«È in fase di transizione» dice Zia Elisabetta.
Una delle aiutanti asciuga la fronte di Janine con un panno inumidito. Janine adesso suda, i capelli le sfuggono a ciuffi dal¬l'elastico, e in parte le si appiccicano alla fronte e al collo. La pelle è umida, impregnata di sudore, lucente.
«Ansima! Ansima! Ansima!» salmodiamo.
«Voglio uscire» dice Janine. «Voglio fare una passeggiata. Mi sento bene. Devo andare in bagno».
Tutte noi sappiamo che è in fase di transizione, che non sa quel che sta facendo. Quale di queste affermazioni è vera? Pro¬babilmente l'ultima. Zia Elisabetta fa il segnale, due donne so¬no pronte accanto alla toilette portatile, Janine vi viene abbassa¬ta dolcemente. Un altro odore si aggiunge agli altri nella stanza. Janine geme di nuovo, il capo ripiegato, riusciamo a vederle so¬lo i capelli. Rannicchiata così, è come una bambina, una vecchia bambola sconquassata e abbandonata, in un angolo, con le mani sui fianchi.
Janine è di nuovo in piedi e cammina. «Voglio sedermi» dice.
Da quanto tempo siamo qui? Minuti e ore. Adesso sto su¬dando, ho l'abito fradicio sotto le braccia, sento un sapore sala¬to sul labbro superiore, i falsi dolori mi afferrano, anche le altre li provano, lo so da come le vedo ondeggiare. Janine sta suc¬chiando un cubetto di ghiaccio. Poi, con una voce a pochi centimetri o a molti chilometri da noi, urla: «No! Oh no, oh no, oh no». È il suo secondo figlio, ne ha già avuto un altro, una volta, questo lo so da quando eravamo al Centro, ci piangeva sopra tutta la notte, come tutte noi, solo più rumorosamente. Quindi dovrebbe essere in grado di ricordarsi com'è, che cosa succede. Ma chi può ricordare il dolore, una volta passato? Non ne resta altro che un'ombra, nemmeno nella mente, nella carne. Il dolore ti segna, ma troppo profondamente perché si possa vedere. E quello che è lontano dalla vista è lontano dalla mente.
Qualcuno ha messo dell'alcol nel succo di pompelmo. Qual¬cuno ha rubato una bottiglia, dal piano di sotto. Non è la pri¬ma volta che succede, in queste circostanze, ma loro ci passano sopra. Anche noi abbiamo bisogno delle nostre orge.
«Abbassate le luci» dice Zia Elisabetta. «Ditele che è ora».
Qualcuna si leva in piedi, si porta alla parete, la luce nella stanza sbiadisce come al crepuscolo, le voci scemano in un coro di stridii, di rochi sussurri, come di cavallette in un prato di notte. Due lasciano la stanza, altre due accompagnano Janine allo Saranno da Parto, dove lei siede sul più basso dei due sedi¬li. Adesso è più calma, l'aria le irrora in modo regolare i polmo¬ni, noi ci sporgiamo in avanti, con i muscoli della schiena e del ventre che dolgono tanto sono tesi. Arriva, arriva come una fanfara, una chiamata alle armi, come un muro che crolla, come un macigno che precipita, che si abbatte dentro di noi. Stiamo per prorompere in un grido. Ci afferriamo le mani reciproca¬mente, non siamo più sole.
La Moglie del Comandante giunge precipitosamente, nella sua ridicola camicia da notte bianca di cotone, con le gambe che vengon fuori come due stecchi.
Due Mogli nelle loro vesti e veli azzurri la sorreggono per le braccia, come se non ce la facesse a stare in piedi, ha in viso un sorrisino tirato, come una padrona di casa a una festa che preferirebbe di gran lunga non dare. Forse sa quel che pensiamo di lei. Si arrampica sullo Scranno da Parto, si siede sul sedile dietro, al di sopra di Janine, che è racchiusa tra le sue gambe come tra i braccioli di un'eccentrica poltrona. Indossa calze bianche di cotone, e pantofole azzurre, pelose, come i copriasse della tazza del water. Ma noi non badiamo alla Moglie, la ve¬diamo a malapena, i nostri occhi sono su Janine. In quella fie¬vole luce, nella sua camicia bianca, risplende come una luna tra le nubi.
Adesso emette dei suoni inarticolati nello sforzo. «Spingi, spingi, spingi» sussurriamo. «Rilassati. Fai un respiro profon¬do. Spingi. Spingi. Spingi». Siamo con lei, siamo esattamente come lei, siamo ubriache. Zia Elisabetta si mette in ginocchio, con un asciugamano aperto per afferrare il neonato, ecco il co¬ronamento, la gloria: la testa viola e imbrattata di yoghurt, un'altra spinta e scivola fuori, lustra di umore lattiginoso e san-gue, verso la nostra attesa. Oh, sia lode.
Tratteniamo il fiato mentre Zia Elisabetta ispeziona la crea¬turina: una femmina, povero esserino, ma fin qui tutto bene, ogni cosa è al suo posto, lo si può vedere, controlliamo in silen¬zio che mani, piedi, occhi siano dove devono essere. Zia Elisabetta, reggendo la neonata, leva gli occhi verso di noi e sorride. Sorridiamo anche noi, siamo un solo sorriso, le lacrime ci riga¬no le guance, siamo felici.
La nostra felicità è in parte memoria. Ricordo Luke, con me all'ospedale, in piedi accanto alla mia testa, che mi tiene la mano, col camice verde e la mascherina bianca che gli hanno dato. «Oh» diceva, «oh Dio mio», trattenendo il respiro per la me¬raviglia. Quella notte non aveva dormito tanto era felice.
Zia Elisabetta sta delicatamente lavando la neonata, che non piange molto, anzi dopo poco smette del tutto. Il meno rumo¬rosamente possibile, così da non spaventarla, ci leviamo in pie¬di, ci affolliamo attorno a Janine, dandole buffetti e carezze. Anche lei sta piangendo. Le due Mogli in azzurro aiutano la terza Moglie, la Moglie della casa, a scendere dallo Scranno da Parto e a portarsi al letto, dove l'adagiano e le rincalzano le co¬perte. La bambina, lavata e calma, le viene posta cerimoniosa¬mente tra le braccia. Le Mogli del piano sottostante entrano a frotte, adesso, facendosi largo tra di noi. Parlano troppo rumo¬rosamente, alcune hanno ancora in mano i piatti, le tazze del caffè, i bicchieri del vino, alcune di loro stanno masticando, si raggruppano attorno al letto della madre e della bambina tu¬bando e congratulandosi. Da loro si irradia l'invidia, posso sen-tirne l'odore, deboli zaffate acide, mescolate al loro profumo. La Moglie del Comandante abbassa lo sguardo sulla neonata come fosse un mazzo di fiori, un simbolo di vittoria, un tributo.
Le Mogli sono qui per fare da testimoni al conferimento del nome. Sono le Mogli che scelgono il nome.
«Angela» dice la Moglie del Comandante.
«Angela, Angela» ripetono le Mogli, cinguettando. «Che nome tenero! Oh, è una bimba perfetta! Oh, è meravigliosa!»
Siamo ritte tra Janine e il letto, perché lei non debba assiste¬re alla scena. Qualcuno le dà un bicchiere di succo di pompelmo, spero contenga anche del vino, sta ancora soffrendo per i dolori del dopo parto, piange disperatamente, convulse lacrime di sfinimento. Ciononostante noi siamo giubilanti, perché que¬sta è una vittoria per tutte noi. Ce l'abbiamo fatta.
Le sarà concesso di allattare la bambina per qualche mese, loro credono alle virtù del latte materno. Dopo verrà trasferita, per vedere se potrà ripetere la stessa cosa con qualche altro, ma non verrà mai inviata nelle Colonie, non verrà mai dichiara¬ta Nondonna. È la sua ricompensa.
La Partomobile attende fuori per riaccompagnarci alle no¬stre case. I medici sono ancora nel furgone, al finestrino ap¬paiono i loro volti, come chiazze bianche; sembrano facce di bambini malati segregati in casa. Uno di loro apre la portiera e viene verso di noi.
«È andato tutto bene?» chiede, ansioso.
«Sì» rispondo. Adesso sono stanca, esausta. Mi dolgono i seni, perdono un po' di latte. Latte finto, è così che succede a qualcuna di noi. Sediamo sulle nostre panche, l'una di fronte all'altra, mentre ci trasportano; senza più emozione, quasi senza più alcun sentimento, potremmo essere dei fagotti di panno rosso. Siamo tutte indolenzite. Ciascuna di noi tiene in grembo uno spettro, un bambino fantasma. Ciò che ci sta davanti, ades¬so che l'eccitazione è finita, è il nostro fallimento. Mamma, penso, ovunque tu possa essere, mi senti? Tu volevi una cultura delle donne. Bene, eccotene una. Non è ciò che intendevi, ma esiste. Accontentati di questa piccola gratificazione inattesa.
22
Quando la Partomobile giunge davanti a casa è pomeriggio inoltrato. Il sole fende debolmente le nubi, nell'aria c'è odore d'erba bagnata che si asciuga. Sono stata al Parto tutto il giorno e ho perso il senso del tempo. Avrà fatto la spesa Cora, oggi, io sono esonerata da tutti i compiti. Salgo le scale, sollevando pe¬santemente i piedi di scalino in scalino, appoggiandomi al corri¬mano. Ho la sensazione di essere stata sveglia per giorni e di aver corso forte, mi duole il petto, mi vengono i crampi ai mu-scoli come se fossi carente di zuccheri. Una volta tanto accetto di buon grado la solitudine.
Mi distendo sul letto. Mi piacerebbe riposare, dormire, ma sono troppo stanca, troppo eccitata, gli occhi non mi si chiudo¬no. Guardo il soffitto, seguo il disegno delle foglie sul festone. Oggi mi fa pensare a un cappello; i cappelli a tesa larga che le donne portavano un tempo: cappelli con enormi tese e grappoli di frutta e di fiori, o piume di uccelli esotici; cappelli come un'immagine del paradiso sospesa sulla testa, la sintesi di un'a¬strazione.
Tra un attimo il festone sul soffitto comincerà a colorarsi e io comincerò ad avere strane allucinazioni come quando, stan¬chi per aver guidato tutta la notte, fino all'alba, raccontandoci storie per tenerci svegli, mentre ci alternavamo al volante, si co¬minciava a vedere, al levarsi del sole, con la coda dell'occhio, animali violetti nei cespugli, a fianco della strada: il vago profilo di figure, che scomparivano se si fissava su di loro lo sguardo.
Sono troppo stanca per continuare con questa storia. Sono troppo stanca per pensare dove mi trovo. Ecco una storia di¬versa, migliore. La storia di cosa è successo a Moira.
Ne conosco una parte io stessa, l'altra l'ho sentita da Alma, che l'ha sentita da Dolores, che l'ha sentita da Janine. Janine l'ha sentita da Zia Lydia. Ci possono essere alleanze anche in luoghi simili, anche in simili circostanze. È una certezza sulla quale si può contare, ci saranno sempre alleanze, di un tipo e di un altro.
Pare che Zia Lydia avesse chiamato Janine nel suo ufficio.
«Sia benedetto il frutto del seno tuo, Janine» aveva detto, senza levare lo sguardo dal tavolo, mentre stava scrivendo. Per ogni regola c'è sempre un'eccezione, anche su questo si può contare: alle Zie è permesso leggere e scrivere.
«Possa il Signore schiudere» aveva risposto Janine, atona, con la sua voce trasparente come l'albume dell'uovo crudo.
«Sento di potermi fidare di te, Janine» aveva detto Zia Ly¬dia, levando finalmente gli occhi dalla pagina e fissando Janine al di là degli occhiali, con quello sguardo che appariva minac¬cioso e supplichevole al tempo stesso.
Aiutami, diceva quello sguardo, siamo tutte insieme sulla stessa barca.
«Sei una ragazza di cui ci si può fidare» aveva proseguito, «non come qualcuna delle altre».
Riteneva che tutto il pentimento e i piagnistei di Janine si¬gnificassero qualcosa, riteneva che Janine fosse stata piegata, che fosse una vera credente. Janine era come un cucciolo che tutti hanno sempre preso a calci, si sarebbe messa a pancia in su per chiunque e avrebbe detto qualsiasi cosa, solo per un atti¬mo d'approvazione.
«Spero di sì, Zia Lydia» aveva detto Janine. «Spero di esse¬re degna della sua fiducia». O qualcosa di simile.
«Janine» aveva soggiunto Zia Lydia, «è accaduto qualcosa di terribile».
Janine fissava il pavimento. Qualunque cosa fosse, sapeva che non ne sarebbe stata incolpata, lei era inattaccabile. Ma a che le era servito in passato, l'essere inattaccabile? Così, nono¬stante tutto, si era sentita colpevole e suscettibile di essere pu¬nita.
«Ne sai qualcosa Janine?» aveva domandato Zia Lydia a bassa voce.
«No, Zia Lydia». In quel momento Janine sapeva che era necessario alzare gli occhi e guardare in viso Zia Lydia. Dopo un attimo, ci era riuscita.
«Perché se così fosse saresti per me una grande delusione». «Il Signore mi è testimone» aveva detto Janine con fervore. Zia Lydia si era concessa una delle sue pause. Aveva giocherellato un po' con la penna. «Moira non è più con noi» aveva detto infine.
«Oh!» Janine era rimasta indifferente, Moira non era sua amica.
«È morta?» aveva chiesto dopo un istante.
Zia Lydia le aveva raccontato tutta la storia. Moira aveva al¬zato la mano per recarsi ai gabinetti, durante gli Esercizi. Zia Elisabetta stava sulla porta dei gabinetti, come al solito. Moira era entrata. Dopo un attimo Moira aveva chiamato Zia Elisabetta: la tazza era intasata, Zia Elisabetta non poteva venire a ripararla? Era vero che talvolta le tazze si intasavano. Qualcuno le riempiva apposta di mucchi di carta igienica. Le Zie si erano date da fare per cercare d'impedirlo, ma non avevano trovato il modo di mettere la carta igienica sotto chiave, forse avrebbero dovuto tenerla all'ingresso su un tavolino e consegnarne un fo¬glio o più di un foglio a chi entrava. Ma se ne sarebbe riparlato in futuro. Ci vuole un po' di tempo per escogitare gli accorgi¬menti necessari nelle cose nuove.
Zia Elisabetta, senza sospetti di sorta, era entrata nei gabi¬netti. Zia Lydia aveva dovuto ammettere che era stata una leg¬gerezza da parte sua. D'altro canto, vi era entrata in molte altre occasioni per riparare qualche tazza, senza incidenti. Moira non aveva detto una bugia, l'acqua scorreva sul pavimento, insieme a sostanze fecali in disfacimento. Non era piacevole e Zia Elisabetta era seccata. Moira si era fatta educatamente di lato, e Zia Elisabetta era entrata all'interno dello scomparto indicatole da Moira, e si era curvata sulla parte posteriore della tazza. Inten¬deva sollevare il coperchio di porcellana dello sciacquone, smuovere il galleggiante e la presa d'acqua all'interno. Aveva entrambe le mani sul coperchio quando aveva sentito qualcosa di duro, di affilato e probabilmente di metallico toccarla tra le costole, da dietro. «Non muoverti» le aveva detto Moira, «o te lo pianto più in fondo, so io dove, e ti trapasso il polmone».
In seguito avevano scoperto che aveva smantellato l'interno di uno sciacquone, aveva tolto la lunga leva puntuta, attaccata alla maniglia da un lato e alla catena dall'altro. Non è difficile, e Moira aveva questo genere di abilità meccanica, riparava an¬che i piccoli guasti della sua auto.
Per questo gli sciacquoni erano stati poi dotati di lucchetti e ora ci vuole molto tempo per aprirli, e ci sono stati molti allaga¬menti.
«Zia Elisabetta non era in grado di vedere ciò che aveva in¬filato nella schiena» aveva spiegato a Janine Zia Lydia. «È una donna ardita...»
«Oh sì» aveva detto Janine.
«... ma non temeraria» aveva soggiunto Zia Lydia corrucciandosi un poco perché Janine aveva assentito con un vigore che a volte può avere l'effetto di una smentita. «Ha obbedito» aveva continuato Zia Lydia. Moira si era impossessata del suo pungolo e del suo fischietto, ordinandole di toglierseli dalla cin¬tura. Poi aveva sospinto in fretta Zia Elisabetta giù per le scale verso il seminterrato. Si trovavano al secondo piano, non al ter¬zo, e c'erano solo due rampe di scale da scendere. Le classi era¬no riunite in sessione, quindi non c'era nessuno per i corridoi. Zia Elisabetta avrebbe potuto urlare, ma sapeva che Moira non scherzava, Moira aveva una brutta reputazione.
«Oh sì» aveva detto Janine.
«Moira si è portata Zia Elisabetta lungo il corridoio dov'era¬no gli armadietti vuoti, ha oltrepassato la porta della palestra fi¬no alla stanza della caldaia, poi le ha detto di togliersi i vesti¬ti...»
«Oh» aveva mormorato Janine, come a protestare contro questo sacrilegio.
... e Moira si era tolta i propri abiti e si era messa quelli di Zia Elisabetta, che non le andavano alla perfezione, ma abba¬stanza bene. Non era stata molto crudele con Zia Elisabetta, le aveva concesso di usare il suo abito rosso. Il velo lo aveva strappato in strisce, e con quelle aveva legato Zia Elisabetta dietro la caldaia. Le aveva riempito la bocca con parte del tes¬suto e gliel'aveva tappata con un'altra striscia, poi le aveva pas¬sato una striscia intorno al collo e gliel'aveva annodata attorno ai piedi. «È una donna furba e pericolosa» aveva detto Zia Lydia.
«Posso sedermi?» aveva chiesto Janine, come se quello che aveva sentito le fosse insopportabile. Finalmente aveva qualcosa da barattare, almeno simbolicamente.
«Sì, Janine». Zia Lydia era sorpresa, ma sapeva che a quel punto non poteva rifiutare. Stava richiedendo l'attenzione di Ja¬nine, la sua cooperazione. Le aveva indicato la sedia nell'ango¬lo. Janine se l'era portata vicino.
Potrei ucciderti, sai, aveva detto Moira, dopo aver messo al sicuro Zia Elisabetta dietro la fornace. Potrei ferirti malamente, potrei conciarti male, o cacciarti quest'affare in un occhio. Ri¬cordati che non l'ho fatto.
Zia Lydia non aveva ripetuto questi particolari a Janine, ma è probabile che Moira abbia detto qualcosa di simile. Comun¬que non aveva ucciso o mutilato Zia Elisabetta, la quale di lì a qualche giorno, dopo essersi ripresa dalle sue sette ore dietro la fornace e presumibilmente dall'interrogatorio, poiché la possibi¬lità di collusione non era stata scartata, era nuovamente in atti¬vità al Centro.
Moira si era drizzata in piedi, guardando dritta davanti a sé. Aveva inarcato la schiena all'indietro e compresso le labbra. Questa non era la nostra andatura abituale. Di solito noi cam¬minavamo a capo chino con gli occhi a terra. Moira non somi¬gliava molto a Zia Elisabetta, anche se si era messa il sottogola marrone, ma la sua postura, ritta sulla schiena, era stata suffi¬ciente a convincere gli Angeli di guardia, che non osservano mai nessuna di noi molto attentamente, neanche le Zie, forse soprattutto le Zie. Moira era uscita dall'ingresso principale con l'atteggiamento di una persona che sa dov'è diretta, era stata sa¬lutata, aveva presentato il lasciapassare di Zia Elisabetta, che nessuno si era dato la briga di controllare, perché sarebbe stato un affronto per una Zia, ed era scomparsa.
«Oh» aveva detto Janine. Chi può dire che cosa provava. Può darsi che esultasse, ma che lo tenesse ben nascosto.
«Ecco, Janine» aveva detto Zia Lydia, «che cosa voglio che tu faccia».
Janine aveva spalancato gli occhi, cercando di apparire inno¬cente e attenta.
«Voglio che tu tenga le orecchie aperte. Può darsi che qualcuna delle altre sia stata coinvolta nella fuga di Moira».
«Va bene, Zia Lydia».
«E tu me lo verrai a dire, non è così, cara, se sentirai qual¬cosa?»
«Sì, Zia Lydia». Janine ormai sapeva che non avrebbe do¬vuto starsene in ginocchio in fondo all'aula, ad ascoltare tutte noi che gridavamo che era colpa sua. Adesso sarebbe toccato per un po' a qualcun'altra. Lei, momentaneamente, non era più tenuta all'amo.
Il fatto che avesse raccontato a Dolores tutto di questo in¬contro nell'ufficio di Zia Lydia non significava nulla. Non signi¬ficava che lei non avrebbe testimoniato contro di noi, una qualsiasi di noi, se ne avesse avuto l'occasione. Questo lo sapevamo, ma la trattavamo come la gente di solito trattava i mutilati che vendevano matite agli angoli delle strade, la evitavamo appena era possibile ed eravamo caritatevoli con lei quando non ne po¬tevamo fare a meno.
Costituiva un pericolo, lo sapevamo.
Dolores, probabilmente, le avrà dato dei colpetti sulla schie¬na dicendole che era molto leale a raccontarcelo. Forse Janine si era confidata con lei in palestra, mentre ci stavamo preparan¬do ad andare a letto. Dolores aveva il letto accanto al suo. La storia era passata tra di noi quella notte, nella semioscurità, sot¬tovoce, di letto in letto.
Moira era all'aperto da qualche parte. Era alla macchia, op¬pure morta.
Il pensiero di ciò che avrebbe potuto fare si era dilatato fino a colmare la stanza.
Improvvisamente ci sarebbe potuta essere un'esplosione ter¬ribile; i vetri delle finestre sarebbero caduti all'interno, le porte si sarebbero spalancate... Moira adesso aveva il potere, era stata liberata, lei stessa si era liberata.
Adesso era una donna padrona di se stessa.
Era un pensiero che ci spaventava.
Moira era come un ascensore aperto sui lati. Ci dava le ver¬tigini. Stavamo già perdendo il gusto per la libertà, cominciava¬mo già a trovare sicure le pareti che ci rinchiudevano. Negli strati più alti dell'atmosfera ci saremmo disfatte, vaporizzate, non ci sarebbe più stata nessuna forza a tenerci insieme.
Ciononostante Moira era la nostra fantasticheria. Ce la strin¬gevamo al petto, abitava con noi in segreto, era lava sotto la crosta della vita quotidiana. Alla luce di Moira, le Zie erano meno temibili e apparivano figure prive di senso. Il loro potere aveva subito un'incrinatura. Si poteva strangolarle nei bagni. L'audacia, ecco quel che ci piaceva.
Pensavamo che l'avrebbero presa e trascinata a casa da un momento all'altro, come le era avvenuto prima. Non sapevamo immaginare che cosa le avrebbero potuto fare questa volta. Sa¬rebbe stato terribile, qualunque cosa fosse.
Ma non è successo nulla. Moira non è ricomparsa. Non an¬cora.
23
Questa è una ricostruzione. È tutta una ricostruzione. È una ricostruzione degli avvenimenti che in questo momento io fac¬cio nella mia testa, mentre sono distesa sul mio letto a una piazza ripetendomi ciò che avrei o non avrei dovuto dire, ciò che avrei dovuto o non dovuto fare. Se mai uscirò di qui... Basta. Io voglio uscire di qui. Non posso restarci in eterno. Altri hanno compiuto questo atto di volontà in tempi infelici prima d'ora e hanno sempre avuto ragione, in un modo o nel¬l'altro si sono liberati, la loro infelicità non è durata in eterno, anche se può essere durata tutto il tempo che gli era stato concesso.
Quando uscirò di qui, se mai sarò in grado di raccontarlo in qualsiasi forma, anche nella forma di una voce che racconta, anche allora sarà una ricostruzione. È impossibile descrivere una cosa esattamente com'era, perché ciò che dici non può mai essere esatto, devi sempre trascurare qualcosa, ci sono troppe facce, lati, fattori che si intersecano, sfumature; ci sono troppi gesti, con questo o quel significato, troppe forme che non si possono mai descrivere completamente, troppi sapori, nell'aria o sulla lingua, troppe mezze tinte, troppe. Ma se sei un uomo in un qualsiasi tempo futuro, e ce l'hai fatta sin qui, ti prego ricorda: non sarai mai soggetto alla tentazione del per¬dono, tu uomo, come lo sarà una donna. È difficile resistere, credimi. Ricorda, però, che anche il perdono è un potere. Chiederlo è un potere, e negarlo o concederlo è un potere, for¬se il più grande.
Non si tratta del controllo di una persona sull'altra. Forse non si tratta di chi può stare seduto e di chi deve invece ingi¬nocchiarsi, alzarsi o sdraiarsi, a gambe divaricate. Forse si tratta del potere di fare qualcosa e poi essere perdonato. Non mi si venga a dire che una cosa è l'equivalente dell'altra. «Voglio che tu mi baci» ha detto il Comandante.
Certo qualcosa è successo prima di arrivare a questo. Simili richieste non giungono mai improvvise.
Mi sono addormentata, e ho sognato che portavo degli orecchi¬ni, uno era rotto; nulla oltre a questo, il cervello attraversava i suoi archivi. Sono stata destata da Cora col vassoio del pranzo, e il tempo è ritornato alla sua dimensione. «È bello il bambi¬no?» chiede Cora nel posare il vassoio. Lei deve già saperlo, lo¬ro hanno una sorta di telegrafo che va di bocca in bocca, di ca¬sa in casa, le notizie circolano, ma le dà piacere sentirne parla¬re, come se le mie parole rendessero la cosa più reale.
«Sì, bella» rispondo. «Una Custode. Una bambina».
Cora mi sorride, un sorriso che coinvolge. Questi sono i mo¬menti che sembrano dar significato alla sua esistenza.
«Mi fa piacere» dice. La sua voce è quasi ansiosa, e io pen¬so: certo. Le sarebbe piaciuto essere presente. È come una festa cui non è potuta andare.
«Forse noi ne avremo uno, presto» aggiunge, timidamente. Con noi lei intende dire me. Dipende da me ripagare la squa¬dra, giustificare il mio cibo e il mio mantenimento, come una formica regina con le uova. Rita forse mi disapprova, ma Cora no. Lei al contrario dipende da me. Lei spera, e io sono il vei¬colo della sua speranza.
La sua speranza è del genere più semplice. Lei vuole un Partogiorno, qui, con invitati, cibi e regali, lei vuole un neonato da viziare in cucina, da accudire, stirandogli i vestitini, facendogli scivolare in bocca i biscotti quando nessuno guarda. Io dovrò provvedere a queste gioie per lei. Preferirei la sua disapprova¬zione, sento di meritarla di più.
Per pranzo c'è stufato di manzo. È difficile mangiare stasera, improvvisamente ricordo tutto quello che la giornata aveva can¬cellato.
È vero quel che dicono: è uno stato di trance, partorire o essere presenti a un parto; si perde la traccia del resto della pro¬pria vita, ci si focalizza su quell'unico istante.
Adesso sto per lasciarmi riprendere dalla stessa sensazione e so di non essere preparata.
L'orologio nell'ingresso suona le nove. Mi premo le mani ai fianchi, mi avvio lungo il corridoio e scendo piano le scale. For¬se Serena Joy sarà ancora alla casa dove ha avuto luogo il Parto; è una fortuna che lui non poteva prevedere. Di questi tempi le Mogli se ne stanno lì per ore, aiutano ad aprire i regali, spette¬golano, si ubriacano. Devono far qualcosa per dimenticare la loro invidia. Torno indietro lungo il corridoio del piano inferio¬re, oltrepasso la porta che conduce alle cucine, fino alla porta successiva, la sua. Resto fuori, come una scolara convocata nel¬l'ufficio del direttore. Che ho fatto di male?
La mia presenza lì è illegale. Ci è proibito stare sole coi Co¬mandanti. Noi esistiamo per scopi di procreazione, non siamo concubine, geishe, cortigiane. Al contrario: è stato fatto il possi¬bile per allontanarci da quella categoria. Non dobbiamo avere qualità di intrattenitrici, non è lasciato spazio al risvegliarsi di desideri segreti, nessun allettamento speciale dev'essere conces¬so da parte loro o nostra, né ci dev'essere il più piccolo appiglio per l'amore. Noi siamo dei grembi con due gambe, nient'altro: sacri recipienti, calici ambulanti. Allora perché lui mi vuole ve¬dere, di notte, sola?
Se verrò presa, sarà alla tenera mercé di Serena Joy che ver¬rò consegnata. Lui non è tenuto a immischiarsi della disciplina interna, questa è una faccenda che riguarda le donne. Dopo ci sarà la riclassificazione. Potrei diventare una Nondonna.
Rifiutare di vederlo potrebbe essere peggio. Non ci sono dubbi su chi è il detentorc del vero potere.
Ma ci dev'essere qualcosa che lui vuole da me e volere significa avere una debolezza.
È proprio la debolezza, qualunque essa sia, che mi attira. È come una piccola crepa in un muro prima impenetrabile. Pre¬mendo l'occhio contro questa sua debolezza, forse sarò in gra¬do di vedere la mia strada.
Voglio sapere quello che lui vuole.
Alzo la mano, busso alla porta della stanza proibita, dove non sono mai stata, dove le donne non entrano. Nemmeno Serena Joy. Sono i Custodi a fare le pulizie. Quali segreti, quali totem maschili vi sono conservati?
Mi vien detto d'entrare. Apro la porta, entro.
Dall'altra parte c'è la vita normale. Dovrei dire: ciò che c'è dal¬l'altra parte ha l'aspetto della vita normale. C'è una scrivania, naturalmente, con un Computalk e, dietro, una poltrona di cuoio nero. Sulla scrivania c'è una pianta, un portapenne, dei fogli. A terra, un tappeto orientale. Il camino è spento. C'è un piccolo divano coperto di panno marrone, un televisore, un ta¬volino ribaltabile, un paio di sedie.
Tutt'intorno le pareti sono rivestite di scaffali colmi di libri. Libri e libri e libri, ben visibili a tutti, niente serrature, niente scatole. Non c'è da stupirsi che noi non possiamo venire qui. È un'oasi del proibito. Cerco di non soffermare lo sguardo su niente in particolare.
Il Comandante è in piedi, volta le spalle al camino senza fuoco, un gomito appoggiato sulla mensola di legno intagliato, l'altra mano in tasca. È una posa studiata, una posa da genti¬luomo di campagna, ispirata a qualche vecchia fotografia da ri¬vista patinata per uomini. Deve aver deciso in anticipo che si sarebbe fatto trovare così. Quando ho bussato probabilmente è corso al camino e si è messo in posa. Gli manca solo una pezza nera sopra un occhio e una cravatta disegnata a ferri di cavallo.
È un bene che io pensi così rapidamente a tutte queste cose. Vuol dire che il cervello funziona. È anche l'autoironia. Ma ho paura. Sono terrorizzata.
Non parlo.
«Chiudi la porta dietro di te» dice lui, in modo abbastanza piacevole. Obbedisco.
«Salve».
È una vecchia forma di saluto. Da tanto tempo non la sento, da anni. In queste circostanze sembra fuori luogo, persino co¬mica, un piccolo volo all'indietro nel tempo, una bravata. Non riesco a pensare a niente di appropriato da rispondere.
Forse sto per piangere.
Lui deve averlo notato, perché mi guarda, perplesso, si oscu¬ra un pochino in viso, voglio pensare che sia preoccupato, ma potrebbe essere semplicemente irritato. «Qui» dice, «puoi se¬derti qui». Prende una sedia e l'avvicina, va a sedersi alla scrivania, in modo da starmi di fronte. Si muove deliberatamente con lentezza e ne deduco che non mi abbia chiamata qui per fare qualche cosa contro la mia volontà. Il sorriso non è né sini¬stro, né predatorio. È solo un sorriso formale, amichevole, un pochino distante, come se fossi un gattino in una vetrina che lui guarda ma non intende comprare.
Mi siedo dritta sulla sedia, le mani intrecciate sulle ginocchia. Ho l'impressione che i miei piedi nelle loro scarpe rosse senza tacchi non arrivino a toccare il pavimento. Ma non è così, naturalmente.
«Lo troverai strano» dice lui.
Lo guardo. L'eufemismo dell'anno, diceva mia madre. Dice¬va. Diceva.
Mi sento come zucchero filato: zucchero e aria. Strizzatemi e mi trasformerò in un disgustoso batuffolino roseo e gocciolante.
«Effettivamente è strano» dice, come se avessi risposto. Penso che dovrei indossare un cappello, legato con un nastro sotto il mento.
«Voglio...» dice.
Cerco di non protendermi verso di lui. Sì? Sì, sì? Che cosa vuole, allora? Che cosa vuole?
Non mostrerò questa bramosia di sapere. Siamo qui per mercanteggiare, per operare uno scambio. Chi è imprudente è perduto. Non sto dando quel che possiedo, lo sto solo venden¬do.
«Vorrei...» dice, «potrà sembrare sciocco...» E ha quell'aria imbarazzata, quasi colpevole che, un tempo, qualche volta ave¬vano gli uomini. È abbastanza vecchio da ricordarsi come assu¬mere quell'aria, e da ricordarsi anche come reagivano allora le donne attraenti. I giovani non conoscono quei trucchi. Non li hanno mai dovuti usare.
«Vorrei che facessi una partita a Scarabeo con me» dice.
Mi mantengo assolutamente rigida. Non muovo un muscolo del viso. È questo che nasconde la stanza proibita! Lo Scara¬beo! Mi vien voglia di ridere, a più non posso fino a cadere dalla sedia. Questo una volta era il gioco delle vecchie, dei vec¬chi nelle ville estive e negli ospizi, che si faceva quando non c'e¬ra niente di buono alla televisione. O degli adolescenti, tanto tempo fa. Mia madre ne aveva uno, che teneva in fondo al cas¬setto della credenza, insieme agli addobbi dell'albero di Natale, nelle scatole di cartone. Aveva cercato d'insegnarmi a giocare, quando avevo tredici anni, ero triste e mi annoiavo.
Adesso è diverso. Adesso è proibito, per noi. È pericoloso. È indecente. Qualcosa che lui non può fare con sua Moglie. È un piacere. Lui si è compromesso. È come se mi avesse of¬ferto della droga.
«Va bene» rispondo come se mi fosse indifferente, ma in realtà non riesco quasi a parlare. Non dice perché vuole giocare a Scarabeo con me. Non glielo chiedo. Estrae semplicemente una scatola da un cassetto della scrivania e la apre. Ci sono le tessere di legno plastificato, me le ricordo, la tabella divisa in quadrati, i piccoli leggii sui quali disporre le lettere. Lui butta le tessere sopra il ripiano della scrivania e comincia a capovol-gerle.
«Sai come si gioca?» chiede.
Faccio segno di sì con la testa.
Giochiamo due partite. Compongo le prime parole. Laringe. Drappeggio. Cotogna. Zigote. Tengo in mano le lucide tessere dai bordi lisci, palpo le lettere. La sensazione è voluttuosa. Questa è la libertà, uno sprazzo di libertà. Floscio, sillabo. Gola. Che lusso. Le tessere sono come certe caramelle al sapore di menta che si chiamavano Sorpresa. Mi piacerebbe mettermele in bocca. Sapevano anche di cedro, quelle caramelle. Lettera A. Aspre, acidule sulla lingua, deliziose.
Vinco la prima partita e gli lascio vincere la seconda: non ho ancora scoperto quali sono i termini della contrattazione, ciò che sarà in grado di chiedere, in cambio.
Alla fine mi dice che è ora di andare a casa. Sono queste le parole che usa: andare a casa. Intende dire in camera mia. Mi chiede se per me va bene, come se la scala fosse una strada. Di¬co di sì. Apriamo la porta del suo studio, solo uno spiraglio, e stiamo in ascolto nel caso vi fossero rumori in corridoio.
È come essere stati a un appuntamento sentimentale. È co¬me tornarsene furtivamente in dormitorio molto tardi la notte.
È una cospirazione.
«Grazie» dice lui, «per la partita» e aggiunge: «Voglio che mi baci».
Penso a come potrei aprire la cassetta dello sciacquone nel mio bagno, in fretta e senza rumore, così che Cora, fuori sulla sedia, non possa sentirmi. Potrei prendere la leva acuminata, nascondermela nella manica, e portarla di nascosto nello studio del Comandante, la prossima volta, perché dopo un invito co¬me questo c'è sempre una prossima volta, sia che tu abbia det¬to di sì o di no. Penso a come potrei avvicinare il Comandante, per baciarlo, qui soli, e togliergli la giacca, come a concedere o suggerire un possibile seguito, una parvenza di vero amore e, stringendolo tra le braccia, far scivolare fuori dalla manica la le¬va e affondargli all'improvviso l'estremità appuntita tra le costole. Penso al suo sangue che, caldo come minestra, sensuale, mi colerebbe sulle mani.
In realtà non penso a nulla di questo genere, sono solo diva¬gazioni a posteriori. Forse ci avrei dovuto pensare allora, ma non l'ho fatto. Come ho detto, questa è una ricostruzione.
«Va bene» dico. Vado da lui e metto le mie labbra, chiuse, sulle sue. Il profumo abbastanza comune di una lozione dopo¬barba, un vago odore di naftalina, che mi è familiare. Ma lui mi è quasi sconosciuto.
Si scosta, mi guarda di nuovo con quel sorriso impacciato, senza malizia. «Non così» dice. «Come se lo desiderassi davve¬ro».
Era molto triste.
Anche questa è una ricostruzione.
IX
Notte
24