domenica 5 dicembre 2021

SOGNI E FAVOLE estratto LINEAMENTI Emanuele Trevi


l’inconscio è un cretino. Che si tratti di un cretino individuale o di un cretino collettivo, a seconda delle correnti di pensiero che se ne occupano, come tutti i cretini è solo buono a complicare un’esistenza già difficile e sottoposta a innumerevoli pressioni e necessità,

                 SOGNI E FAVOLE

Emanuele Trevi 

Il libro

In Sogni e favole Trevi racconta di sé che incontra, frequenta ed esplora tre grandi maestri scomparsi: il fotografo Arturo Patten, specialista della comunicazione attraverso i ritratti, Amelia Rosselli grande poetessa e anima tormentata, Cesare Garboli, geniale letterato. Trevi ci racconta  come i loro diversi talenti  lo hanno  ispirato : la lirica, la critica d’arte, l’arte del ritratto.  Ritratto, critica e poesia sono anche i tre generi che Trevi da sempre  combina, un po’ dentro e un po’ fuori dal tempo, fusi in una scrittura che  mi affascina. La riflessione su Metastasio sull’artificio insito nell’arte: «sogni e favole, io fingo» appare come un pretesto per raccontare, la presa di coscienza della follia della vita «Tutto è menzogna e delirando io vivo!». Le parole di Metastasio sono il vero filo conduttore della narrazione che si alterna tra il saggio, l’analisi psicologica e la critica letteraria. «Sogni e favole» è la sintesi magica di qualsiasi vita: senza l’artificio dell’arte, la spinta del sogno, lo stimolo del desiderio, l’esistenza apparirebbe priva di senso.

LINEAMENTI

Estratto da SOGNI E FAVOLE 
Di Emanuele Trevi 

[...]l’inconscio è un cretino. Che si tratti di un cretino individuale o di un cretino collettivo, a seconda delle correnti di pensiero che se ne occupano, come tutti i cretini è solo buono a complicare un’esistenza già difficile e sottoposta a innumerevoli pressioni e necessità, [...]


Roma, 30 dicembre 2017

Un ventaccio che viene da nord, rabbioso e pungente, ha lacerato la coltre delle nuvole, scoprendo qualche limpida stella invernale nella volta del cielo disertata dalla luna. Alla fine di via del Corallo, lo slargo di piazza del Fico è stranamente silenzioso e deserto, vuoti e fradici di pioggia i tavolini del bar dove di solito si assiepano i giocatori di scacchi. Invece di resistere al freddo e alla stanchezza, è bene farsi completamente conquistare da queste due divinità propizie, accoglierle sotto i vestiti e poi sotto la pelle, non c’è niente di male nell’essere stanchi e nell’avere freddo, è per questo che vale sempre la pena camminare quando il tempo è brutto e non c’è nessuno in giro, il pensiero si assottiglia acquistando la sua lucidità, l’anatomia finisce per prevalere sulla psicologia. Noi viviamo in una specie di sacro timore, di eccessivo rispetto per la cosiddetta vita interiore, ci curiamo poco della digestione e della respirazione, tanto per fare un esempio, sembrano cose che non ci riguardano, meglio non pensarci affatto perché significa che tutto va bene, la nostra attenzione è sempre rivolta alla cosiddetta vita interiore, a una serie di fatti opinabili come l’innamorarsi o l’essere allegri senza i quali si può benissimo andare avanti, mentre non si può andare avanti senza bere e pisciare, o senza mantenere la pressione del sangue entro dei limiti accettabili. Così che alla fine ci illudiamo di essere venuti al mondo per provare delle emozioni e tentare di descrivere a noi stessi e al prossimo tutte queste delicate e impalpabili fibrillazioni e sfumature dell’umore. E visto che non siamo nemmeno capaci di comprendere chi siamo, quali limiti si impongono al nostro desiderio, cosa diavolo intendiamo quando ci riferiamo a noi stessi, abbiamo del tutto svalutato l’unico timone che poteva aiutarci nella tempestosa navigazione a cui siamo condannati, cioè la nostra coscienza, riducendola a uno strumento del tutto servile, infarcito di idee banali e di antichi timori, incapace di renderci felici. Se solo ci fosse qualcosa di meglio a disposizione, ci rinunceremmo senza rimpianti, alla povera coscienza e ai suoi prosaici calcoli. Semmai, è all’inconscio che volentieri tributiamo un rispetto che sconfina facilmente nella venerazione e nella superstizione. Lui sì che capisce tutto, lui sì che sa la verità. Se non siamo in grado di comprendere i capricci di questo bambino viziato, acquattato nell’ombra, siamo fottuti. Già, ma il bello è che lui non si degna nemmeno di esprimersi in maniera diretta. Ci devi sempre pensare tu, a capire i suoi scherzi da prete: che siano sogni da decifrare laboriosamente, dimenticanze, atti mancati, parole sbagliate. Ci gode, il piccolo delinquente, il teppistello degli abissi, a parlare difficile. Proprio come quelle persone insopportabili che a forza di riempire i loro discorsi di allusioni e di metafore finiscono per risultare noiose e inutilmente oscure al prossimo. Perché è proprio questo il punto: l’inconscio è un cretino. Che si tratti di un cretino individuale o di un cretino collettivo, a seconda delle correnti di pensiero che se ne occupano, come tutti i cretini è solo buono a complicare un’esistenza già difficile e sottoposta a innumerevoli pressioni e necessità, senza nessun bisogno di covare nell’ombra le sue inutili fanfaronate, prima tra tutte quella storia di andare a letto con la mamma e uccidere il papà, storia che dovrebbe bastare da sola a far capire con chi abbiamo a che fare quando parliamo dell’inconscio e dell’inspiegabile benevolenza di cui gode. Ma tutti i suoi stucchevoli giochetti possiedono lo stesso sapore goliardico, la stessa prepotenza da sociopatico, la stessa sostanziale mancanza di credibilità. Tanto per dirne una, ci viene spiegato con abbondanza di esempi che per lui, l’indomabile cretino, che una cosa accada o che, pur potendo accadere alla fine non accada, è esattamente la stessa cosa. E un’altra caratteristica che gli ottiene la simpatia delle classi agiate e degli intellettuali è la sua ignoranza delle norme più elementari della logica, così che per lui una certa frase può essere vera e falsa nello stesso tempo, e pacchianate del genere. Nella sua impunità, lui può mischiare a piacimento tutte le carte, il prima e il dopo, il sopra e il sotto, e tutti ad applaudire, a compiacersi, che bella cosa, ma che enfant prodige, facciamo un brindisi. Nel frattempo la povera coscienza, senza che nessuno si degni nemmeno di ringraziarla, sta lì a rassettare come una vecchia serva a cui nessuno presta più attenzione, che nessuno ringrazia per la fatica di mandare avanti dignitosamente la baracca. Non va di moda, non ispira filosofi o pittori, e nel tempo si è acquistata una fama immeritata di ottusità, di grettezza. Percorrendo via della Pace e poi via di Tor Millina in direzione di piazza Navona, dopo aver gettato un’occhiata sulla sinistra alla facciata di Santa Maria della Pace, mi sorprende l’improvvisa animazione. Finita la pioggia, i turisti hanno ripreso a vagabondare nelle vecchie strade, a studiare i menù degli innumerevoli ristoranti, a decifrare le cartine prese in albergo. I più anziani già cenano, coppie silenziose e vagamente perplesse di fronte al loro piatto di spaghetti alle vongole, chissà perché queste gite invernali a Roma, a giudicare dalle espressioni sconfortate, sembrano sempre sul punto di trasformarsi in una penitenza se non in una catastrofe, una manciata di brevi giorni e lunghe notti di cui ci si riporterà a casa un’impressione mista di fatica e rischio imminente. Come se invece di una città si fossero visitate le fauci di un’enorme bestia addormentata, le zanne incrostate di cibo in decomposizione secolare. Nell’inconscio, a ben vedere, non c’è bellezza, non c’è poesia. La cosa che mi sembra più ammirevole, nella vita e nell’arte di una persona come Amelia Rosselli, è il resistere della coscienza alla forza contraria che senza tregua la insidia e finisce per travolgerla. La durata di questa resistenza è lo spazio vitale del verso, del canto. L’opera come un delicatissimo castello di carte, una pagoda di stecchini edificata nell’occhio del più violento dei cicloni.

* * *

Per confonderle definitivamente le idee, i persecutori hanno utilizzato varie «personificazioni», scrive Amelia Rosselli nella Storia di una malattia. Particolarmente efficace, per un certo periodo, sembra essere stata quella di Richard Burton, accompagnato da un suo «gruppo cineastico».

Nell’estate del 1975, la seguono a Malta, dove è andata per una vacanza assieme a degli amici. Sulla via del ritorno, in una stanza di albergo a Paola, in Calabria, Amelia sente distintamente due voci italiane che immagina appartenere a «carabinieri mafiosi dell’Ufficio Politico». Sono preoccupati per la loro sorte, nel caso si venga a sapere che lei si è innamorata di Richard Burton.

Quando la situazione diventa insostenibile, lei minaccia di denunciarli tutti – «in quale loco non mi era ben chiaro», peraltro.

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good good good good good

GOOD

Nell’estate del 1979, quando Amelia Rosselli apparve sul palco del festival di Castelporziano, con i capelli corti e un leggero vestitino estivo, aveva già dieci anni di guerra contro la CIA sulle spalle magre. Una guerra che mai avrebbe potuto vincere, su questo non nutriva nessuna illusione. Sembrava una bambolina fragilissima, tirata fuori dal fondo di un armadio, imbottita di crine rinsecchito. Era già notte quando impugnò il microfono, le dune alle sue spalle e la folla di fronte che riempiva lo spazio della spiaggia fino al mare scuro e immobile. A quindici anni non sapevo nulla di poesia, ero lì per caso, trascinato da una mia amica più grande, che voleva vedere da vicino Allen Ginsberg, a quei tempi l’hippy più famoso del mondo. Non avevo nessuna idea del fatto che quel festival sarebbe a lungo durato nella memoria come un fatto leggendario, l’equivalente di Woodstock nella storia della poesia italiana del Novecento. Il nome di Amelia Rosselli, però, quando fu annunciato, non mi suonava affatto nuovo, fin da quando ero un bambino ne avevo sentito parlare a casa, sempre circondato da un’aura di stranezza e di minaccia. Era stata, in un oscuro passato, un’amica di mio padre. Tra i tanti nomi che i bambini sentono pronunciare nei discorsi degli adulti, quello mi era rimasto in testa per un motivo ben preciso. Il fatto è che una volta avevo sentito mia madre raccontare a qualcuno un fatto che mi era rimasto impresso. Un giorno, quando ero appena nato, Amelia era venuta a casa nostra per vedermi. Mi aveva preso in braccio, accostandosi a una finestra aperta. E mia madre, che evidentemente odiava quella donna, era stata afferrata dalla certezza che stesse per buttarsi dal quarto piano portandomi con lei. L’istinto di difendermi era prevalso su ogni altra considerazione razionale, e mi aveva strappato dalle braccia dell’estranea a costo di sembrare scortese o peggio ancora. Tutto qui. Sono cose che capitano, immagino, a una donna che ha appena partorito il primo figlio e sviluppa un particolare, ferino senso del pericolo che può tradursi in gesti apparentemente incomprensibili. Però se ne era ricordata a distanza di anni, ed è così che anche io ero venuto a conoscenza di quel frammento di memoria abbastanza insignificante, a conti fatti. Si sa che i germi di tutti i futuri racconti si radicano nei bambini in modo del tutto misterioso, e per mille cose che dimenticano appena dopo averle ascoltate una comincia a fermentare dentro di loro, trasformandosi in una fantasia complessa, dotata di un’inesauribile capacità di riproporsi alla mente, di caricarsi di significati imprevedibili. È così che quel volo dal quarto piano in braccio ad Amelia Rosselli, presagito dall’immaginazione di mia madre, diventò un sogno ad occhi aperti, la cui componente essenziale era quella dell’essere ghermito, rapito, trascinato nell’aperto, fatto certamente angoscioso, ma non solo angoscioso, anche allegro, speziato dal senso dell’avventura e della sfida, tanto più che mai e poi mai ci spiaccicavamo al suolo, come aveva presagito mia madre, ma andavamo su e giù, godendo di un pericolo che tutto sommato era il finto pericolo delle giostre e delle montagne russe. Dell’amica di mio padre, della famosa poetessa, nella fantasia ricorrente non esisteva che il nome, Amelia, inevitabilmente associato all’unica Amelia che mi fosse familiare, ovvero l’eterna nemica di Paperone, la fattucchiera che ammalia, con la sua casa nascosta sulle pendici del Vesuvio.

Per arrivare fino alla spiaggia di Castelporziano da Roma si prendeva il trenino per Ostia, che arrancava verso il mare con i suoi vagoni sempre strapieni e scalcagnati. Usciti dalla stazione, si procedeva in linea retta verso gli stabilimenti, attraversando uno spiazzo, una specie di giardino pubblico. Su un muro, sbiadiva lentamente al sole e alle intemperie una grande scritta a vernice nera, un verso del ritornello di Brain damage dei Pink Floyd, tipico arredo urbano da tossici:

I’LL SEE YOU ON THE DARK SIDE OF THE MOON

Non avevamo avuto bisogno di chiedere la strada per il festival, io e la mia amica. Era bastato accodarsi alla marea umana che, scesa dal treno, si incamminava verso il litorale e poi proseguiva a sinistra, in direzione delle dune. Pochi luoghi erano così malfamati come quei monticelli di sabbia ricoperti da grandi cespugli di mirto e ginepro, frequentati a ogni ora del giorno e della notte da una variegata e ingegnosa fauna di pervertiti, puttane, guardoni, malfattori. Siamo arrivati che il sole aveva iniziato a tramontare, affondando nella bruma sospesa sull’orizzonte. Correva voce di un incidente tra due navi, al largo, forse una collisione, un grosso guaio.

Per capire la profonda emozione che la brevissima performance di Amelia Rosselli poteva suscitare anche in un ragazzino ignaro di tutto come me, bisogna tenere presente che la situazione, ben prima che arrivasse il suo turno, era degenerata in una specie di turbolenza psichica collettiva ingovernabile. Non era mai capitato, né mai sarebbe capitato in futuro, un fatto del genere. A farla breve, i poeti invitati ad esibirsi, soprattutto i poeti italiani previsti nel programma della prima notte, erano costretti ad affrontare, se se la sentivano, un pubblico ostile, incapace della minima attenzione, intenzionato solo a zittire e umiliare chiunque gli si presentasse di fronte. Fossero anche apparsi Dante e Shakespeare, sarebbero stati trascinati nel gorgo di quella sfrenata, incomprensibile, imprevista pazzia. Una parte consistente di quella marmaglia di scoppiati si era accampata sul palco stesso, che nel giro di poco tempo si sarebbe imbarcato finendo per crollare sulla sabbia della spiaggia. Cosa intendevano contestare? Il ruolo sociale del poeta? I suoi privilegi materiali e simbolici? L’esistenza stessa di un criterio distintivo come il talento? A posteriori, si può sempre analizzare il comportamento di una folla, e attribuirle un pensiero, una qualche forma di intenzione. Ma in una folla, nel momento in cui si scatena, non esiste nessuna intenzione e nessun pensiero. Ogni individuo che si mischia a una folla cede, più o meno volentieri, una parte consistente della propria libertà e della propria responsabilità, ricevendo in cambio la forza bruta dell’anonimato, l’oscura energia dell’unanime. Ognuno crede di essere più forte, di poter retrocedere al ruolo di testimone, di sfilarsi riacquistando la propria sovranità, ma il peggio, in una folla, è già sempre accaduto. Devo anche dire che, stando il mezzo al mucchio, la cosa poteva essere divertente. Uno dopo l’altro, come in quelle fiabe in cui i pretendenti alla mano della principessa falliscono la prova e fanno una brutta fine, i poeti si presentavano per perdere quell’impossibile braccio di ferro. Cominciavano a leggere i loro versi, districandosi dalla folla dei contestatori, e nel giro di pochi secondi dovevano rinunciare. Oppure continuavano imperterriti, sommersi dai fischi e dai cori goliardici, finché uno dei mentecatti gli toglieva il microfono di mano. C’era una ragazza che spiccava tra gli altri, la si può vedere a lungo anche nel film di Andrea Andermann sul festival. In bikini nero e maglietta bianca, animata da un turpe esibizionismo, si era arrogata il ruolo di portavoce, di rappresentante della contestazione. Interrompeva tutti, biascicava domande insensate, esercitava un presunto diritto di parola al quale non corrispondeva nulla di reale da esprimere. Una figura decisamente profetica, a ben vedere: solo gli imbecilli in effetti hanno il potere di anticipare, nei loro pensieri come nei loro comportamenti, il peggio che verrà. E i poeti, impararono qualcosa da quel bagno nella moltitudine? Erano tutti più o meno giovani, era una notte d’estate del Novecento. La più intelligente, senza dubbio, fu Dacia Maraini, che fece una vera e propria finta: aprì la bocca come se volesse iniziare, ma un attimo prima di essere sommersa dai lazzi rinunciò, prendendo tutti in controtempo – avete ragione voi, disse, la poesia non serve a nulla, buonanotte. Un colpo magistrale. Ma qualunque fosse la strategia adottata, l’errore di fondo era identico, ci cascavano tutti: volevano interagire con quella gente, instaurare una relazione. È per questo motivo che l’apparizione di Amelia Rosselli, a notte ormai inoltrata, quando la baraonda era diventata ingovernabile, rappresentò un vero dislivello, il manifestarsi di un piano di realtà totalmente diverso e inconciliabile con le circostanze. Non nego che il gregge umano abbia bisogno di conformità, e la singola pecora fa bene a tenere presente ciò che fanno gli altri. A che altro servono i neuroni specchio, il linguaggio, l’educazione? Ma esistono anche i caratteri inviolabili, come il vertice di una montagna scoscesa, circondato da nuvole in tempesta. Una poetessa, un’anima in pena. L’ago magnetico di queste persone è sempre puntato al di là delle apparenze immediate: la sua punta trema nel vuoto sidereo dell’inconcepibile, dell’impercepibile. Tutto il loro modo di essere ci induce a pensare che la vita non si risolve... nella vita!, che i conti non tornano mai: e questa potrebbe essere una buona definizione del sentimento del sacro. Come un reagente chimico appropriato, fu la stessa situazione del festival, degradata oltre ogni limite, a rendere evidente a tutti che quella donna dall’aspetto fragile e frastornato, con l’aria di avere imboccato la porta sbagliata, quella dinoccolata Mary Poppins, quell’elfo nella canaglia, incarnava un assoluto. So che un severo studioso storcerebbe il naso di fronte a una simile conclusione, ma io sono convinto che un vero poeta, o una vera poetessa, siano qualcosa in più della loro opera, della somma aritmetica dei loro libri e dei loro versi, e che quell’opera è la diretta conseguenza, la manifestazione concreta sia della loro vita che della loro incapacità di vivere. Nella sua essenza più profonda, la poesia è la forma suprema della biografia. Al contrario, le epoche di mediocrità letteraria sono caratterizzate da una generale estraneità delle opere all’esistenza che le produce. Non si tratta necessariamente di libri brutti, ci mancherebbe, sempre si scrivono bei libri, ma di libri che potrebbero, con minime differenze, essere stati scritti anche da altre persone, tanto in loro è prevalente il carattere di «prodotto», e tanto la vita che ne è il presupposto si riduce a una «carriera». Dunque incontrare fisicamente un grande poeta è un’esperienza illuminante, una grande fortuna, una cosa che dovrebbe accadere almeno una volta nella vita, come vedere un cucciolo di giraffa tra le zampe della madre, ascoltare dal vivo un maestro del piano o del violino, fumare dell’oppio, annusare la pelle di un neonato.

Come accennavo, quello stato di eccezione ambulante che era Amelia Rosselli si rendeva tanto più palese – nella sua bellezza, nella sua insubordinazione, nella sua selvaggia autenticità – quanto più era circondata, come quella notte sulla spiaggia di Castelporziano, dal più brutale conformismo, dall’ignoranza più compiaciuta di sé. Avete presente la vecchia storia dell’albatro di Baudelaire? Beh, è un’allegoria memorabile, ma la verità è un’altra. Il grande uccello, una volta catturato dai marinai, perde solo in apparenza la sua regalità. Il ponte della nave, e tutte le umiliazioni che subisce, sono il suo vero cielo, il luogo del suo trionfo. Accanto ad Amelia Rosselli, al posto della ciurma sadica della poesia di Baudelaire, c’era un tizio barbuto totalmente sbronzo, avvolto in un lenzuolo che periodicamente spalancava per mostrare il cazzo floscio, tra ovazioni entusiaste. Ma a lei, di tutto questo, non importava nulla. Era lì perché qualcuno le aveva chiesto di leggere le sue poesie, sicuramente dietro un compenso che chiedeva sempre – poche lire di sicuro, ma preziose nella sua economia da profuga. Aveva scelto una poesia dalla sua terza raccolta, Documento. Il microfono esaltava il timbro inconfondibile della sua voce – «voce calda, tenera, aspra, spietata», come ha scritto Elio Pecora, «tastiera d’organo, viola vibrante, flauto avanzante in un’Erebo sconfinato, viatico amabile e doloroso». La cosiddetta «realtà» è una stratificazione infinita di realtà particolari, e la più grande consolazione della vita consiste nel rendersi conto che in qualunque situazione possono coesistere dimensioni inconciliabili dell’umano, forme di grandezza imperturbabili, regni che nessuno può violare come quello delimitato dalla voce di Amelia mentre leggeva la sua poesia. La mentecatta in maglietta e bikini, anche se sembrava intimidita, non la risparmiò. Impadronitasi del microfono, cominciò a porle qualche insulsa domanda, come fai a scrivere così, come fai a sentire le cose in questo modo. Più alta di una spanna, Amelia si piegò verso di lei, come per capire bene, con un gesto per lei naturalissimo di gentilezza. Ma in quel clamore sguaiato, non c’era nessuna possibilità di comunicazione. Della gente che le stava intorno, del perché si comportassero così, non capiva assolutamente nulla. Non più di quanto la mezza luna alta nel cielo di giugno poteva capire di un festival di poesia sulla spiaggia di Castelporziano. I suoi versi si erano consumati rapidi come un fuoco di sterpi, e nell’aria ne rimaneva uno spettrale chiarore, un’insondabile vibrazione.

Piazza Navona è piena dei soliti chioschi che ci sono in questi giorni fra l’otto dicembre e la Befana – le statuette per i presepi, il tiro a segno con gli orsacchiotti in premio, le mele ricoperte di cioccolato, le macchine dello zucchero filato. All’estremità della piazza, dalla parte di palazzo Braschi, i cavalli e i delfini di una giostra si inseguono ruotando su un asse scintillante di specchi e lustrini, non esiste un’immagine della vita umana e del suo posto nel cosmo più fedele di una giostra, nemmeno le grandi cattedrali gotiche con le loro simmetrie sapienziali possono pareggiare questo emblema rotante, nemmeno le piramidi, l’uomo che ha inventato la prima giostra doveva essere il figlio di un dio, il più illuminato degli illuminati, tu guardi una giostra vuota una sera d’inverno e quello che vedi è il tempo, il Grande Invisibile che si mostra, un moto circolare, qualcosa di gratuito e scintillante, senza meta, una specie di scherzo, ma uno scherzo di quelli che ci ridi e ci rimani pure male, cos’altro significa stare in groppa al cavallino, qualcuno ci ha messo lì sopra e non siamo mai scesi, pensavamo di esserci lasciati l’infanzia alle spalle ma non facciamo che galoppare verso l’altra infanzia, quella vera, niente scorre via, tutto torna, gira e torna, op op op cavallino.

* * *

Fino al pomeriggio in cui l’ho incontrato per caso seduto su una delle panchine di marmo bianco che orlano il perimetro interno di piazza Navona, esattamente quella in prossimità della Corsia Agonale, non lontana dalla Fontana dei Fiumi, che da quel giorno per me è diventata la Panchina di Arturo – fino a quel pomeriggio non sapevo nulla della sua malattia. La peste, è vero, infuriava già da molto tempo. Si accampava nelle zone più delicate della coscienza, proprio lì dove il desiderio e la paura si avvitano fino all’indistinzione. L’aids, che di per sé esisteva da secoli, e non era certo uscito dal laboratorio di uno scienziato pazzo, si era accontentato per tanto tempo di un numero talmente esiguo di vittime che nessuno aveva sospettato la sua esistenza. Come i serial killer più resistenti, quelli che muoiono nel loro letto senza che nessuno sia riuscito a beccarli, era discreto e anonimo. Quella che gli scienziati avrebbero definito la sua natura «opportunistica» gli permetteva di manifestarsi attraverso un ventaglio di sciagure che nessuno poteva collegare a un principio unico: polmoniti, sarcomi, guasti del sistema nervoso, si serviva di tutto. Per sferrare il suo attacco e mettere in ginocchio il mondo, aveva aspettato l’epoca di maggiore promiscuità sessuale mai conosciuta dalla storia umana. La corrente calda di turgidità e lubrificazione che percorreva le città e allagava le notti si trasformò nella sua grande occasione. Tutto andava a suo vantaggio: il ritmo della disco music, le regine e i superdotati del porno, la coca e l’alcol, i viaggi economici, la semplice certezza di essere giovani e vivi, una notte d’estate in un mondo sul quale Dio stesso, stufo di sé e delle sue colpe del cazzo, sembrava aver deciso saggiamente di chiudere un occhio. È lì che il maledetto retrovirus piantò le sue radici per gettare la maschera discreta tanto a lungo indossata, e rivelare i suoi piani megalomani di annientamento. Tutto questo lo sapevamo, si può dire che la storia dell’epidemia è sempre stata la storia di quello che si sapeva e di quello che si sarebbe dovuto sapere, così come fin da subito era stato palese che gli omosessuali come Arturo erano più esposti al pericolo, non perché omosessuali, ma a causa della straordinaria ricchezza della loro vita sessuale, che da sempre è stata meno impacciata di quella degli etero, più casuale e avventurosa, e anche più ruvida e per così dire più intima, con tutte le lacerazioni del sesso anale, i giochi, i gruppi, le saune, le intese rapidissime, l’assenza di preoccupazioni legate alla gravidanza che rendeva del tutto inutile l’uso del preservativo. Nemmeno una rapida presa di coscienza della situazione poteva mettere del tutto al riparo le persone, perché quel demonio era capace di rimanere acquattato nell’organismo per molti anni prima di iniziare a devastarlo, facendogli pagare piaceri ormai dimenticati o sepolti in qualche anfratto remoto della memoria, nell’album innocuo delle follie di gioventù. Allegri viaggetti ad Amburgo o a San Francisco o ad Haiti che si trasformavano nelle oscure premesse di tragedie ineluttabili.

Non ricordo il motivo per cui stavo attraversando piazza Navona, quel giorno d’inverno. Ero ancora distante una decina di metri quando mi sono accorto che l’uomo seduto sulla panchina di marmo era Arturo. Mi ero fermato ad ammirarlo. Era una di quelle persone geneticamente predisposte all’eleganza delle posture, dei gesti. Non lo vedevi mai fare nulla di volgare o di eccessivamente affrettato, ma questo non toglieva nulla – qui stava il bello – alla sua spontaneità. La schiena leggermente inclinata, i gomiti sulle ginocchia, teneva in mano un libro. Il profilo perfetto, da moneta antica, era coronato dal solito ciuffo abbondante ripiegato sulla fronte. Leggeva con tanta intensità che la sua concentrazione si percepiva materialmente, come una guaina di silenzio che lo separava dagli innumerevoli rumori della piazza. Era lì, certo, seduto sulla panchina, ma nello stesso tempo era lontano, irraggiungibile, nel punto di fuga di una prospettiva siderale. Era bellissimo. Una delle proprietà, o per meglio dire delle conseguenze più notevoli della bellezza è un rapporto particolare con lo spazio circostante, che ne viene letteralmente saturato, come se le tre dimensioni fossero lì apposta per contenerla senza eccesso e senza difetto. Fosse stato ai giorni nostri, gli avrei fatto una foto con il telefonino, sperando che non si voltasse verso di me proprio in quel momento. Ma non c’era nessuna possibilità del genere, e così ho tirato fuori dalla tasca uno dei quadernetti che mi porto sempre dietro e su due piedi ho disegnato un piccolo e rozzo profilo di quella figura così nobile e assorta. Molti anni dopo, ho ritrovato casualmente il taccuino, e guardando il ritratto del mio amico, quel ritratto del ritrattista di cui mi ero totalmente dimenticato nel frattempo, ho pensato che con quei rapidi colpi di penna avevo catturato l’immagine di un essere umano – come dire? – ghermito dal suo fato.

Visto che non si distoglieva nemmeno un secondo dalla lettura, e invece che su una normale panchina lo si sarebbe detto appollaiato in cima alla sua concentrazione, mi ero deciso a sedermi accanto a lui, con l’intenzione di fargli uno scherzo quando si fosse riscosso. C’era, tra noi, il sacchetto della libreria francese, che sta ancora oggi a pochi metri di lì, oltre corso Rinascimento, accanto alla chiesa di San Luigi, dove in certi pomeriggi d’inverno, quando non c’era quasi nessuno, con una scorta di monete per le lampade a tempo, andavamo a vedere la Vocazione di san Matteo di Caravaggio, quel covo di brutti ceffi all’improvviso sommerso da un’onda di luce che Gesù sembra scagliare con il movimento quasi impercepibile della mano tesa verso il fondo del tugurio e il suo prescelto. Dunque – ricordo di aver pensato – sta leggendo qualcosa di così importante da essersi fermato su questa panchina, che è esattamente a metà strada fra la libreria francese e casa sua? Ed è stato in quel momento che ho fatto caso al titolo dello smilzo libretto che Arturo teneva fra le mani.

HERVÉ GUIBERT

Cytomégalovirus

Journal d’hospitalisation

Anche se non l’avevo letto, sapevo tutto di quel libro terribile, di quel diario d’ospedale scritto da Hervé Guibert all’inizio dell’autunno del 1991, e pubblicato pochi mesi dopo che era morto, a dicembre di quell’anno. È un quaderno di brevi appunti, rubati alla stanchezza e alla disperazione: ritratti di medici e infermiere, frammenti di pura angoscia, note sul gergo ospedaliero, ricordi che affiorano alla coscienza. Sfidando il pericolo concreto di perdere la vista (è questa la causa immediata del ricovero) Guibert sembra affinare lo sguardo come fosse il filo di una lama da affondare nell’oscurità, nel grande mare insondabile che ha davanti a sé. Di tutti i libri sull’aids di questo eroe della scrittura in prima persona, di questo estremista del narcisismo, Cytomégalovirus è senza dubbio quello che si è spinto più oltre, e non solo per le circostanze terminali in cui è stato scritto. Leggiamo queste pagine come se calpestassimo un terreno arido e friabile: qualcosa di simile all’argilla disseccata, o a un giacimento di detriti organici: conchiglie in frantumi, ossa calcinate. Quello che resta, quando tutto il superfluo si è volatilizzato. Giusto: ma la vita, il piacere, la bellezza stessa non sono forse tutti sinonimi di ciò che è superfluo? Cosa possiamo supporre di noi oltre quel confine? Ovviamente, non era necessario avere l’aids per leggere i libri di Hervé Guibert con la partecipazione e l’intimità che sono le conseguenze quasi naturali del suo stile impudico e leale. Con un minimo sforzo di astrazione, si può arrivare a dire che quel diario di ospedale è l’autoritratto di un uomo che non sa quando e di cosa morirà: come tutti i suoi simili. Nemmeno l’imminenza evidente della fine è così eccezionale, in teoria. Camminiamo tutti su un precipizio. Eppure, mentre stavo lì a spiarlo, e la voglia di fargli uno scherzo era del tutto passata, ero stato colto dalla certezza irrefutabile che Arturo guardasse in quel libro come in uno specchio. Per questo motivo, e non per una generica impazienza, non aveva aspettato di arrivare a casa sua, che era così vicina, ma si era seduto lì, nel cuore di quell’anonimato pomeridiano che a volte rende Roma un luogo più remoto e raccolto di ogni camera chiusa a chiave. Non c’è solitudine più estrema di quella che ci può circondare mentre siamo a diretto contatto con il flusso della vita, nel cuore di una città del tutto ignara di qualunque nostro affanno o felicità o paura. Avevo deciso di andarmene, lasciandolo solo a meditare sul diario di Guibert, così breve che bastava una mezzora a leggerlo da capo a fondo, tutto il tempo che gli fosse sembrato necessario. Ma proprio nel momento in cui avevo deciso di muovermi con delicatezza, Arturo mi strinse forte la gamba, per farmi capire di rimanere ancora fermo lì. Aveva percepito la mia presenza, e con totale naturalezza mi chiedeva ancora un momento, forse voleva arrivare all’ultima pagina. Poi posò il piccolo libro sulla panchina, e mi guardò annuendo, come per dissipare ogni dubbio residuo. Non c’era bisogno di nessuna spiegazione e di nessuna consolazione. Non ci pensiamo mai, impegnati come siamo a ingabbiare nel linguaggio e nelle sue definizioni ogni minima inezia che ci passa per la testa, eppure, a conti fatti, non c’è niente di così importante da dire, o meglio quello che si dice consiste di informazioni, di opinioni, di rassicurazioni che configurano una specie di capacità di vivere sovrapposta più o meno efficacemente a un nucleo di silenzio privo di nomi, piaccia o non piaccia l’identità è quella, e la sua caratteristica più evidente è l’incapacità di vivere, la perpetua girandola del dolore e del piacere e della paura della morte. Già, la paura della morte – quell’argomento che Hervé Guibert lascia in sospeso alla fine della sua opera, non perché gli sia mancato il tempo di affrontarla in un nuovo libro, ma perché, da vero scrittore, sa cosa appartiene al linguaggio e cosa al suo contrario, sa cosa è possibile raccontare e ciò che invece può solo accadere. E in tutto questo dove si collocano le malattie? Beh, la scienza medica, che è il più potente alleato della capacità di vivere, individua e seleziona i sintomi, li collega in un insieme dotato di senso e infine li nomina. Un esempio insigne di questo processo di astrazione è proprio la sigla che designa la sindrome dell’aids. Che si tratti di alleviare o addirittura di guarire, nominare è sempre il primo passo. Ma tra tutte le malattie, se ci si riflette, non ne esiste una che come l’aids possieda una riserva così cospicua di singolarità, e dunque di innominabile. Il suo stesso «opportunismo» lo lega all’individuo, ai suoi punti deboli, alle sue abitudini di vita, alla sua età, in un nodo così indissolubile che alla fine, perché capissimo di cosa si trattava, perché intuissimo la profonda somiglianza tra quella malattia e l’esistenza umana considerata in sé, sana o infetta che fosse, l’arte medica doveva cedere il passo all’arte del ritratto. La malattia si rese visibile nei lineamenti così come una stagione si rende visibile saturando di sé un paesaggio.

Il diario d’ospedale di Hervé Guibert era uscito pochissimo tempo dopo la sua morte, come l’autore stesso aveva previsto. Appena pochi giorni prima di Guibert, il 16 dicembre del 1991, era morto anche Pier Vittorio Tondelli. Non si potrebbe immaginare due atteggiamenti esteriori più diversi: Tondelli, arrivato nei paraggi della fine, si rivelò un uomo riservatissimo, chiuso in un nido di affetti familiari. Tutto quello che voleva si sapesse, passò attraverso il filtro della trasformazione artistica realizzata nelle pagine di Camere separate, che senza dubbio è il suo romanzo più bello. Guibert invece testimoniò il testimoniabile nei libri, e anche in tv, in una famosa puntata di Apostrophes, dove apparve già stremato, ma lucidissimo e ancora seducente. Non solo per la morte così precoce a pochi giorni l’uno dall’altro, non solo per la natura così acuta e fremente della loro sensibilità, il confronto tra Guibert e Tondelli è illuminante: in realtà non c’è nessuna differenza sostanziale tra l’esibizione di sé e delle proprie piaghe e il ritirarsi nell’ombra di una inviolabile privacy. In quei mesi d’inverno, mentre il rogo del contagio divampava con tutte le sue morti orribili, non erano né le confessioni né le reticenze a darmi la misura della realtà – quella che avevo visto sul volto di Arturo a piazza Navona. E non era solo un’esperienza privata, dovuta a una circostanza fortuita come quel nostro incontro. Le stesse cose che avevo visto io sui lineamenti del mio amico erano evidenti nel ritratto indimenticabile che Marco Delogu aveva fatto di Giovanni Forti per la copertina dell’Espresso del 9 febbraio 1992. Giovanni Forti era un giornalista di grande livello, un uomo colto e curioso, che aveva accettato di scrivere un diario della sua malattia da pubblicare sulla rivista prima che fosse troppo tardi. Nel ritratto di Marco Delogu appare stanco, sereno, così consunto che basterebbe un soffio di vento a sollevarlo. Il naso è già affilato come quello dei morti, e sembra indossare dei vestiti troppo grandi per il suo corpo come se fossero diventati all’improvviso, dopo essere stati usati per tantissimo tempo, quelli di un altro. Un lievissimo sorriso accompagna la fissità dello sguardo nell’obiettivo, animando impercettibilmente gli altri tratti del volto coronati dalle orecchie sporgenti, di un rosa quasi diafano. Tutto l’insieme della sua presenza fisica sembra possedere la consistenza della paglia o delle foglie secche. La fotografia di Marco Delogu mi fa pensare non tanto alla visione frontale tipica del ritratto, ma a qualcuno che si volta indietro per l’ultima volta, salito a cavalcioni fino alla sommità di un muro – il muro che separa il visibile dall’invisibile – prima di calarsi dall’altra parte. Riprodotta in migliaia di copie, quell’immagine così eloquente, così satura di caducità e umanità, ha rappresentato per moltissime persone un accesso immediato, intuitivo alla verità della malattia nel suo strato più intimo e vero, là dove effettivamente impariamo qualcosa della vita e del suo contrario, un piede che scende nella fossa senza mai toccare il fondo, l’altro ancora imbiancato dalla polvere del mondo.

Vienna, primavera 1733

Sogni, e favole io fingo; e pure in carte

mentre favole, e sogni orno, e disegno,

in lor, folle ch’io son, prendo tal parte,

che del mal che inventai piango, e mi sdegno.

Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,

più saggio io sono? È l’agitato ingegno

forse allor più tranquillo? O forse parte

da più salda cagion l’amor, lo sdegno?

Ah che non sol quelle, ch’io canto, o scrivo,

favole son; ma quanto temo, o spero,

tutto è menzogna, e delirando io vivo!

Sogno della mia vita è il corso intero.

Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,

fa’ che trovi riposo in sen del vero.

Alla fine, questo è un poeta: non certo qualcuno che ne sa più degli altri, o è più saggio, ci mancherebbe altro. È solo il fatto che l’abitudine di fingere lo predispone a capire di che stoffa sono fatte tutte le altre cose5. La stessa identica stoffa che riveste il re nudo, nella favola. Lui, Metastasio, il più famoso scrittore di drammi per musica di tutti i tempi, il maestro supremo delle peripezie, il mago dei colpi di scena, non è più vero delle sue immaginazioni. Sogna di essere sveglio mentre finge i suoi sogni e le sue favole. Ma non è così. Sogno della mia vita è il corso intero. Dall’inizio alla fine. Non sappiamo nemmeno, a rigore, se siamo noi a sognare noi stessi o siamo il sogno di un altro. Il testo, su questo punto, è ambiguo come un insegnamento taoista, consente entrambe le interpretazioni. Ma non è nemmeno una questione così rilevante. Quello che conta veramente è che per uscire da questa fuga prospettica di illusioni, non c’è che una porta, e questa porta è la morte, la puoi imboccare solo una volta e in una sola direzione. Di quel «vero», allora, se vogliamo essere rigorosi, non sappiamo niente e mai nulla sapremo, fino al momento in cui, svegliandoci dalla condizione di vivi, ne raggiungeremo una abbastanza simile, a ben pensarci, a quella dei personaggi di un dramma quando tutti i nodi dell’avventura sono sciolti, la musica si è spenta, la scena è vuota e anche l’ultimo perditempo ha imboccato l’uscita. Questa analogia è così evidente da fare dell’uomo di teatro, ancora più del prete o del filosofo, del medico e del boia, il vero esperto della morte, colui che senza tregua conduce gli spettatori lungo l’itinerario che dal sogno della vita conduce al risveglio, alla luce silenziosa del vero, dove finalmente le cose smettono di accadere. E come se volesse rappresentarsi anche lui al centro di una scena immaginaria, Metastasio negli ultimi versi non inventa quasi nulla, si limita a tradurre un grande pezzo di repertorio, il monologo di Sigismondo alla fine del secondo atto della Vita è un sogno, quando l’eroe di Calderón sembra spremere dalla sua esperienza tutto ciò che un uomo può imparare, ovvero che chiunque vive sogna di essere ciò che è fino al momento in cui si risveglia –

y en el mundo, en conclusion,

todos sueñan lo que son.

Il personaggio e il poeta parlano la stessa lingua, la loro sapienza di mortali si esprime con parole identiche. Vita. Risveglio. Sogno. Finzione. Sono vivi, non sanno nient’altro. Finché dura lo spettacolo, sono avviluppati in una trama, dormono nell’illusione di essere qualcuno. E se anche sognano di aver compreso che la vita è un sogno, pure questo è sempre un sogno.

Prima o poi, più prima che poi, la storia di un ritratto diventa una storia di spettri. L’immagine che rimane è una casa in cui non vive più nessuno. È così che guardiamo il musicista di Pontormo o il ritratto di Amelia Rosselli di Arturo. Di ogni casa vuota, noi possiamo solo dire che qualcosa, lì dentro, è accaduto. Nodi della vita che si sono stretti e si sono sciolti con amore e dolore e curiosità e malizia e tristezza e coraggio e disperazione e di cui nessuno più sa nulla.

Se contemplo la fotografia in bianco e nero con la necessaria concentrazione e il necessario abbandono, ciò che vedo non sono più i lineamenti di Amelia Rosselli o il talento di Arturo nel catturarli, ma un frammento di tempo, il tempo necessario a realizzare questo ritratto, all’ultimo piano della casa di Arturo in via del Corallo, così vicina a casa di Amelia che a contare i passi dall’una all’altra non si arriva a venti. Vedo un pomeriggio degli anni Novanta del Novecento. Vedo un cielo che potrà assomigliare a milioni di altri cieli ma fino alla fine del mondo non sarà mai più esattamente lo stesso. Perché questo è il mondo, un insieme di circostanze irripetibili, una sconfinata elegia, una marcia funebre.

Mi viene in mente l’inizio di un libro di Annie Ernaux: tutte le immagini scompariranno. Non le immagini in sé, è ovvio, quelle possono sempre sopravvivere da qualche parte come un coltello di selce o una punta di freccia nel fondo di una caverna, che importa. Annie Ernaux vuole dire che tutto quello che vediamo in un’immagine scomparirà con noi, senza rimedio, nessuno ci vedrà mai più le stesse cose.

Erano entrambi, Amelia e Arturo, abbastanza vicini alla fine di quella vita che hanno deciso di togliersi in maniera così classica, diciamo pure all’antica, come poteva succedere in una tragedia greca, in una saga di vichinghi: lei buttandosi nel vuoto, lui impiccandosi. In teoria, queste circostanze non dovrebbero avere nessun peso, di tantissimi ritratti non sappiamo assolutamente nulla, né sull’artista che li ha fatti né sul suo modello, eppure ne apprezziamo la bellezza, o almeno l’interesse storico. Come un’orfana, l’immagine vive la sua vita, ne ha il diritto, mentre gli esseri umani che l’hanno prodotta, Amelia che guarda nell’obiettivo e Arturo leggermente chino sul mirino della sua Hasselblad, sono diventati polvere sospesa nell’incertezza dei ricordi: condizione di per sé ambigua e transitoria, perché arriva sempre il giorno in cui non c’è più nessun vivo a ricordare il morto. Che c’è di così strano?

Tutto il senso dell’arte di Arturo, considerata sia dal punto di vista dei risultati raggiunti che da quello del margine di insoddisfazione che lo pungolava, è contenuta in una frase del Nipote di Rameau. Me la citava nel suo francese perfetto e se ben ricordo l’aveva ascoltata la prima volta conversando con Marguerite Yourcernar, sua grande amica6, ricavandone l’emozione profonda delle illuminazioni decisive. L’eroe di Diderot è un brillante parassita urbano, che vive alla giornata guadagnandosi un posto alla tavola dei ricchi con la sua maldicente intelligenza, il cinismo delle sue battute, l’arte del pettegolezzo. È un personaggio immenso e terrificante, un vero prototipo dell’uomo sociale moderno, che ha scambiato l’identità per un groviglio inestricabile di relazioni ed espedienti. Il suo vuoto è così irrimediabile che l’unica cosa stabile che gli si riconosce è un legame di parentela con un artista famoso – e così a Parigi tutti lo chiamano il Nipote di Rameau, avrà pure un nome suo ma nessuno lo conosce. Un giorno appare pasciuto e ben vestito, il giorno dopo ha l’aspetto di qualcuno che ha dormito in un fienile. È l’ostaggio della più crudele e incostante delle forze, il successo mondano. Non sa fare nulla. Ebbene, Diderot osserva che un uomo del genere finisce per smarrire anche i tratti che ci rendono riconoscibili dal prossimo. Non assomiglia più a lui stesso, scrive Diderot, nessuno gli assomiglia meno di lui stesso. Se l’essere dissimili è ciò che ci distingue dagli altri, permettendoci di vivere la nostra vita, quel demone meschino che è il Nipote di Rameau ha finito per albergare al suo interno questo confine, diventando qualcuno che assomiglia sempre a un altro. E se è fin troppo evidente che il Nipote di Rameau rappresenta un caso eccezionale, tale da ispirare in Diderot quel miscuglio di attrazione e repulsione che anima il suo capolavoro, è anche vero – così la pensava Arturo e non si può che dargli ragione – che tutti noi, vivendo fra gli altri, desiderandoli e temendoli, sviluppando infinite forme di aggressività e dipendenza, orgoglio e sottomissione, finiamo per smarrire, in maniera più o meno grave, la strada della somiglianza a noi stessi. Come cani che a forza di fiutare tracce non sono più in grado di tornare a casa. E questo è esattamente il lavoro del ritratto: ricondurre i lineamenti, lungo una strada fatta di luci e ombre, alla loro identità essenziale, sanare la lacerazione del dissimile. Tutti i volti di Arturo mi fanno pensare a frammenti di ceramica ricomposti con infinita pazienza da un archeologo così abile da cancellare totalmente le linee di sutura.

«...rien ne dissemble plus de lui que lui même...»

«Macchine scalcagnate di marca americana con tipi un po’ loschi dal fisico infatti americano a volte m’attendevano al portone o infastidivano per strada. Ma a ciò ero ormai abituata» (Storia di una malattia).

Il punto più delicato del processo artistico di Arturo: la relazione esatta, l’accordo musicale tra la la luce e i lineamenti. Se la posta in gioco è sempre un ritorno a sé, da un luogo di esilio che può essere più o meno remoto, la luce non è un’atmosfera, o un trucco, o ancora una specie di cosmetico, ma una strada da percorrere. Lui offriva questa strada, la percorreva insieme ai suoi modelli. Aveva la sensazione di incontrare individui lontani chilometri dal punto in cui si sarebbero finalmente assomigliati, e altri che erano vicinissimi, sarebbe bastato un solo passo. Una volta gli ho chiesto chi, di tutte le persone che si era trovato di fronte, gli avesse dato l’impressione di essere più vicino a sé stessa, meno dissimile. Mi rispose senza pensarci nemmeno un secondo: Emmanuel Lévinas. Quel grande filosofo, che aveva scritto pagine così profonde e sorprendenti sul volto umano, era già lì dove il lavoro del ritratto doveva portarlo. «Capisci??? Niente più maledetto ego, come un re di tempi antichi!!!». Qualche giorno dopo, per il mio compleanno, mi spedì a casa una bellissima stampa del suo ritratto di Lévinas. Era proprio così.

«Si udì tra gli americani menzionare l’uso del radar sulla testa, e tra molte minacce di stile mafioso (in un italiano di stile fascistico), notavo rialzarsi e abbassarsi a punta la cima del cranio (la calotta), a volte molto dolorosamente» (Storia di una malattia).

Una poetessa, un’anima in pena. È quasi incredibile come tutti noi, anche se non rifiutiamo la compagnia e il soccorso del prossimo, anche nel caso in cui finiamo per essere apprezzati e addirittura amati come più non si potrebbe, diventando magari scrittrici e scrittori studiati nelle storie letterarie, o celebri attrici, cantanti, giuristi... finiamo comunque per rimanere soli e sole, quella è la regola, così va la vita, la coperta che ci offre il prossimo è sempre troppo corta, non arriva mai dove in effetti ne avremmo il bisogno. La realtà è che sul più bello non c’è nessuno. Proprio come nei film horror dove vediamo un gruppo di persone, le vittime designate, che farebbero molto meglio a rimanere da qualche parte tutte insieme ad affrontare il maleficio, il mostro, e invece no!, per un motivo o per l’altro, finiscono sempre per separarsi, uno va a esplorare la cantina, l’altro si perde, l’altro ancora ha una crisi di nervi e zac, si fottono ognuno per conto proprio spingendosi ben oltre le più rosee aspettative del maniaco, dello spirito malvagio, o di chiunque sia lo stronzo nascosto nell’ombra.

Good. Goooooood.

Quando voleva evitare un eccesso di «onde magnetiche» Amelia usciva in motorino. Idea tutt’altro che stupida: l’agilità e la rapidità dei movimenti permessa da un mezzo simile «rendevano difficile» – così si legge nella Storia di una malattia – la localizzazione. Era più un palliativo che una soluzione. «I commenti di ordine ossessivo-ironico», infatti, «si susseguivano anche durante la guida e rendevano la marcia un poco pericolosa». Sulla mappa secolare della città, gli itinerari di queste corse in motorino tracciano curve e rettilinei che fanno pensare a un’arcana sapienza, come i gesti e le prescrizioni minuziose di un rito vedico. La marcia pericolosa produce una figura, il perimetro di un bastione opposto all’avanzare di forze malvage, onnipotenti. Non è una fuga, ma una storia. Solo un angelo di passaggio nel cielo di Roma sarebbe stato in grado di apprezzarla, osservandola dall’alto. Avrebbe sicuramente meditato, l’angelo, sulla disperata bellezza degli esseri umani e delle loro guerre.