Il momento cruciale è verso la fine della Seconda guerra mondiale, quando Olga, vedova di Antonio Panini, decide, insieme ai suoi otto figli, di acquistare l’edicola di corso Duomo, nel centro di Modena.
Il “prima” è la storia di Antonio Panini, scampato miracolosamente alla Grande Guerra, combattuta in trincea; del suo amore infinito per Olga, detta “la Caserèina”, perché figlia del casaro; e di come nel durissimo momento tra le due guerre i due abbiano costruito una famiglia tanto numerosa quanto movimentata. Fino alla sua morte prematura, a quarantaquattro anni, nel 1941.
Il “dopo” è una grande saga famigliare, la storia di una delle più affascinanti avventure imprenditoriali italiane, fatta di spirito d’iniziativa, fiuto per gli affari, passione, lavoro, inventiva. Una storia che poteva avvenire solo nell’Italia che rinasce dopo la guerra, e nell’Emilia Romagna del boom economico, della Ferrari e della Maserati e delle prime lotte operaie, delle donne “di zigomo forte” e del calcio che diventa fenomeno popolare, e che poteva avere come protagonista solo una famiglia come quella dei Panini.
Dal più vecchio, Giuseppe, al “piccolo” Franco Cosimo, passando per tutti gli altri fratelli e sorelle, in quegli anni crescono, imparano, si innamorano, fanno figli, si ammalano, guariscono, e soprattutto lavorano, e l’edicola di corso Duomo si ingrandisce, le nuove idee si susseguono, fino a quando non arriva “l’idea” che cambierà tutto, le figurine che hanno fatto sognare milioni di italiani.
Luigi Garlando con quest’opera tocca senza dubbio un vertice della sua fortunata produzione letteraria, e accompagna i lettori attraverso un mondo che tiene insieme la concretezza della ricostruzione storica e il fascino della dimensione romanzesca.
Telefona allo skipper dalla cabina del suo yacht ancorato in una baia di Tenerife, alle Canarie. Si lamenta in modo brusco per la temperatura troppo bassa. Ordina di alzarla immediatamente.
Strano che sia uscito in mare con così poco equipaggio a bordo. Non rientra nelle sue abitudini.
Sono le 4 del 5 novembre 1991.
Prova a prendere sonno, non ci riesce. Sale sul ponte. Di notte è abituato a urinare dalla fiancata del panfilo, questa volta prosegue fino a poppa. Anche questo è inconsueto. Si massaggia le braccia per riscaldarle.
Alle 11 del mattino il figlio lo cerca per comunicargli un appuntamento urgente a Londra con una banca. Il cellulare suona a vuoto. Contatta l’equipaggio. Il proprietario dello yacht non è nella sua cabina e in nessun’altra parte della barca. Viene allertata la polizia spagnola, che inizia subito le ricerche.
Alle 18 i sommozzatori recuperano un corpo nudo di centoquaranta chili che galleggia sull’oceano, a trentadue chilometri da Gran Canaria.
Unica ferita visibile: una graffiatura alla spalla sinistra.
L’autopsia, che non ha rinvenuto acqua nei polmoni, esclude l’annegamento e certifica la morte naturale per attacco cardiaco.
La vipera del corno
Il cielo blu di maggio gli vortica sopra la testa come un mulinello di fiume, e il fante Antonio Panini, classe 1897, va giù lungo disteso sulla pietraia del Carso, davanti al San Michele.
«Tonino!»
«L’hanno beccato!»
Ma non si è sentito lo sparo del cecchino, nulla. Neppure un sibilo. Solo il tonfo pesante di un corpo che non sanguina e non ha ferite.
Due soldati attraversano la trincea di corsa, curvi come virgole. Lo raggiungono. Un medico di Viterbo, lungo e secco come una baionetta, e un contadino di Como senza collo. Gli tolgono l’elmetto Adrian, gli sfilano la buffetteria delle giberne, gli sbottonano la giubba grigio-verde per farlo respirare meglio. Ha la fronte imperlata di sudore e sta tremando.
Gli spruzzano acqua sul viso da una borraccia.
Il giovane apre gli occhi e solleva lentamente il braccio destro con una smorfia di dolore.
«È vivo» annuncia il comasco.
Il medico, che gli rimbocca la manica, scopre un avambraccio gonfio come una coscia. Si notano due puntini ravvicinati al centro di un’isola di pelle livida e dura.
«Vipera del corno. Ma non l’hai vista?»
«Ho sentito una fitta, non pensavo...» si scusa quasi Antonio.
«Del corno?» chiede il contadino lombardo.
«Ha una specie di corno sul muso, come un rinoceronte, e gli occhi stretti dei gatti. Brutta bestia» spiega il medico, che usa una delle sue mollettiere per fasciare il braccio del giovane. «Qui al sole, tra le pietre, è casa sua.»
«Velenosa?»
«L’avesse morso al collo, non l’avrebbe raccontato a casa. Il braccio è più lontano dal cuore. Abbiamo tempo per salvarlo, ma non troppo. Portatelo giù in fretta.»
Due soldati aiutano il comasco a caricare Antonio sull’autocarro Fiat 15 Ter che fa la spola con l’ospedale da campo. Nel momento in cui ci mette piede sopra, il ragazzo vomita anche l’anima. Il veleno sta galoppando.
«Antonio!» esclama l’autista del Fiat 15.
Antonio, che ha appena smesso di vomitare, quasi ricomincia per lo stupore di ritrovarsi davanti a uno dei suoi dieci fratelli: «Ciola! Cosa ci fai in guerra?».
«Mi hanno mandato... E tu cosa ci fai conciato così? Ce l’abbiamo con gli austriaci, mica con le vipere.»
«Non era una vipera italiana.»
«Parti!» urla il contadino comasco.
Il Ciola mette in moto e parte. Incrocia le truppe e l’artiglieria che il generale Cadorna sta ammassando al fronte in vista dell’attacco estivo. Ha rastrellato compagnie e battaglioni in ogni modo, ha sottoposto a una nuova visita di leva i riformati per arrivare a schierare oltre un milione e mezzo di soldati. Le fabbriche stanno sfornando ordigni mai visti: bombe a mano e bombarde che sparano granate, dotate di alette da 400 mm con tiro indiretto. In questa estate 1916 il generale vuole assestare una delle sue famose “spallate”, forse quella decisiva, e arrivare in fretta a Gorizia. La sesta offensiva isontina.
Il giovane Antonio Panini sta scendendo dal fronte su un carro ambulanza guidato dal fratello, contromano rispetto alla storia, avvelenato da una vipera. Prova rimorsi da inetto o, peggio, da disertore, che gli bruciano più della ferita, perché ha abbracciato il conflitto con tutti i sentimenti, ben oltre il semplice senso del dovere. Non l’hanno trascinato di forza alla chiesa di Sant’Agostino e all’educatorio di San Paolo, dove reclutavano, ma ci è corso con le sue gambe e la sua testa. Erano giorni di grande eccitazione a Modena, tanto che uno sconosciuto dai capelli troppo biondi ha rischiato il linciaggio. Se ne stava lì, fermo sotto i portici, a osservare la fila dei futuri soldati. Aveva l’aria di una spia. Buon per lui che è riuscito a dimostrare in fretta di essere soltanto un commerciante di Cremona.
Antonio vuole contribuire alla costruzione della sua patria, attaccare i pezzi d’Italia che mancano, aggiustarla come fa suo padre con le cose rotte nell’officina di Pozza. Solo che le macchine di Mami non entreranno nei libri di storia, l’Italia tutta intera invece sì.
Partire per la gloria e poi farsi cecchinare da una vipera... che figura. Ma sa di essere giovane e forte ed è sicuro che ne verrà fuori, anche se la fronte scotta e il cuore si è messo a sparare mitragliate di battiti. Nel sangue, insieme al veleno, scorrono l’irruenza dei vent’anni e la fede visionaria nel futuro di un padre inventore. Sua madre Veronica, nella speranza che fosse il tredicesimo e ultimo figlio, lo ha allattato fino a due anni e mezzo. Ce la farà.
Ne è sicuro anche il Ciola, che lancia il Fiat 15 Ter in discesa tra bocche di fuoco e due ali di facce scarne: «Non ti lascio morire, fratello. Tranquillo. Non possiamo. A casa c’è troppo lavoro che ci aspetta. Se moriamo, Mami ci ammazza».
Antonio ha il corpo in guerra. Sta male. Chiude gli occhi.
La Casarèina
«Andàmm a tór i dù?»
L’estate si è attardata a chiacchierare sulla soglia dell’autunno. È stata una giornata così afosa che il calendario sembrava berciare come un impostore da mercato, un ciocapiàt della fiera di San Geminiano. Ma quale settembre?
Per farsi perdonare, siore e siori, ecco in omaggio questa serata fresca che i contadini di Maranello hanno riempito di musica. Se la meritano perché alla fattoria Cuoghi si è lavorato duro dall’alba al tramonto.
Sulla stessa aia battuta ora dai ballerini e coronata dalle sedie degli spettatori sono cadute le foglie di granoturco e sono state esposte al sole le pannocchie, appese a tralicci di legno, in attesa della sgranatrice. Hanno partecipato alla spannocchiatura anche le famiglie delle fattorie vicine. I Cuoghi ricambieranno alla prima occasione, e intanto ringraziano con musica e Lambrusco. Perfino la fisarmonica sembra a corto di fiato dopo tanto lavoro.
Per tradizione, può partecipare al ballo anche chi non ha preso parte alla spannocchiatura, ma può assaggiare solo una fetta della festa: due balli, non di più. Una porzione che rispetta il dovere dell’ospitalità e insieme il sacrificio del lavoro.
«Andiamo a prendere i due?» chiede Antonio Panini.
«Sono stanco» risponde Gualtiero.
«Anch’io, ma ballando passa.»
«In licenza dovresti riposare, non ballare. Poi ti addormenti al fronte, quando sparano.»
«Al fronte si muore, in licenza bisogna pensare a vivere. Dài, andàmm a tór i dù...»
Antonio, oltre che a vivere, pensa alla Casarèina, alla figlia del casaro Primo Cuoghi. L’ha incontrata una volta al mercato di Pozza con due amiche, un’altra volta a Modena dove ha imparato che si chiama Olga. Ma non le ha mai parlato.
Gualtiero sbuffa e sdraia la bici sull’erba del fosso. Ha un mento poderoso e il naso lungo, come se una palla di cannone gli avesse ricacciato indietro la bocca, al centro del volto. Calza scarpe di cuoio che sembrano nuove. Invece Antonio, che non si è portato dietro un ricambio, indossa pantaloni da lavoro e scarponi logori. Nel pomeriggio hanno riparato una trebbiatrice Orsi nella fattoria di un cugino di Mami, a Maranello. Le mani sporche di grasso portano ancora i segni della lunga battaglia contro il motore che è durata fino a notte.
«Vai prima tu, poi mi presti le scarpe e ballo io» propone il giovane Panini, che si toglie la camicia e va a sciacquarsi al pozzo.
Si stira i pantaloni con i palmi, si ravvia i capelli, spinge indietro il ciuffo che gli taglia la fronte. Si sbianca le mani. Incontra un amico che lavora a bottega da Iattici, un oste di Modena. Parlano della guerra e del raccolto.
«Vieni a bere un bicchiere?»
«Più tardi. Sto aspettando un amico» si nega Antonio che non vuole avvicinarsi all’aia con quei ruderi ai piedi.
Eccolo Gualtiero. Si sfila le scarpe.
Non ha la faccia di uno che si è divertito: «Fai in fretta che ho sonno».
Antonio s’incammina verso la luce.
La Casarèina balla al centro di un cerchio con una pezzola bianca in pugno che sventola sorridendo mentre ondeggia, salta e si avvita. Un tempo si danzava soprattutto così. Ball stacc, i piedi si staccavano dal suolo per piroette, balzi, evoluzioni. Erano manfrine e tresconi, poi i valzer, le polche e le mazurke hanno avvicinato i corpi, le suole delle scarpe hanno cominciato a scivolare come carezze e i preti a maledire quei sabba del demonio.
Olga lascia cadere a terra la pezzola. Antonio è il più lesto a entrare nel cerchio e raccoglierla. Ne afferra un lembo, la Casarèina l’altro, tengono il fazzoletto sollevato sopra le teste mentre i ballerini passano sotto e intanto saltellano, girano su se stessi, così che la pezzola si attorciglia come la fune di una nave.
Il giovane Panini osserva il piccolo ponte di stoffa e vede vorticare il cielo sopra di sé, come sul Carso. Olga gli sta sorridendo con gli occhi stretti di una vipera. Sente un morso al collo, troppo vicino al cuore. Non guarirà mai più.
Vanno a sedersi, lui le versa acqua da una brocca. Chiacchierano, si raccontano.
«Tuo padre è quel signore che va in giro con tutte le medaglie sulla giacca, vero?»
«Si chiama Antonio come me, ma lo chiamano Mami.»
«Ha fatto il soldato?»
«No, le medaglie le ha prese per le sue invenzioni. Ha un’officina meccanica.»
«E cos’ha inventato?»
«Un torchio per le vinacce, per esempio. E poi una pompa per irrorare le viti contro la peronospera e una macchina che riscalda gli abbeveratoi delle stalle.»
«A cosa serve?»
«A non far ghiacciare l’acqua per le mucche. Così tuo padre può fare il formaggio anche d’inverno e non il gelato al latte. Ma la vera invenzione capolavoro di Mami è un’altra...»
«Quale?» chiede la Casarèina che abbocca, incuriosita.
Antonio si alza in piedi e allarga le braccia con un sorriso da rappresentante di spazzole: «Me!».
Olga scoppia a ridere a occhi stretti: «Tsè un ciocapiàt...».
«Tuo padre invece è quel signore con i baffoni che non mi toglie gli occhi di dosso, vero?» chiede Panini.
«Sì.»
«È armato?»
«Lui no, ma mio fratello va a caccia e ha buona mira.»
«Allora non ballo.»
«No, dài, vieni. Questo è un bel valzer.»
«Me ne resta uno.»
«Nessuno li conta.»
Ballano senza smettere di raccontarsi, con la frenesia della sfogliatura. Una parola dopo l’altra per aprirsi e conoscersi.
«Cosa ti piace?»
«Leggere i libri» risponde Olga.
«I libri?»
«Ero brava a scuola. Ho fatto anche la sesta e mi hanno premiato.»
«Una medaglia?»
«No, un romanzo. I promessi sposi. Me l’ha regalato la maestra dopo la sesta perché ho passato l’esame con il massimo dei voti. Diceva che dovevo continuare a studiare.»
«Perché non hai continuato?»
«Perché ho troppi fratelli. Se studiamo tutti, poi mio padre deve fare il formaggio da solo.»
«Lo aiuti?»
«Faccio anche lavori da sarta. Però continuo a leggere i libri. A te cosa piace?»
«I motori. Aggiustare le cose e magari inventarle, come mio padre. Ho messo un motore alla glicerina a una bici e adesso sembra una moto. So anche disegnare. Vedrai, ti spedirò delle lettere. E poi mi piacciono gli aerei. Ho chiesto di passare all’aeronautica militare per prendere il brevetto di volo.»
«Non hai paura?»
«Ho più paura delle vipere.»
La Casarèina si china a raccogliere un chicco di mais: «Tienilo. Porta fortuna».
Gualtiero si sbraccia a bordo pista, con le scarpe rotte di Antonio ai piedi e palate di sonno negli occhi. Il giovane Panini gli mostra le cinque dita aperte per chiedergli di pazientare, poi riporta la mano sul fianco della Casarèina. Con l’altra mano stringe delicatamente la sua. Tra pochi giorni tornerà a impugnare un fucile Carcano. C’è tempo per il sonno e per la guerra.
«Una volta ti ho vista al mercato di Pozza con le tue amiche.»
«E io ti ho visto che mi guardavi.»
Olga sorride con occhi da gatto.
Per davvero il Casaro, che ora sta tirando la pipa a cavalcioni di una sedia, non li perde di vista.
Quando Antonio raggiunge finalmente le biciclette, trova Gualtiero addormentato sull’erba del fosso. Scuotergli una spalla è come molestare un alveare. Si ritrova investito da un vespaio di insulti: «Ma lo sai che ore sono, coglione? Ti sei ballato i due, i cento, i mille... E io più coglione di te che ti ho prestato anche le scarpe! Adesso vado direttamente nei campi senza passare dal letto! Lo sai?».
Antonio neanche ci prova a giustificarsi, a ripararsi dalle vespe.
Inforca la bici e si allontana nel buio con un’allegria da ubriaco. Come se la guerra fosse finita, come se tutti quei chicchi di mais che brillano in cielo, sopra di lui, fossero monete che gli appartengono.
L’inferno sui monti
Olga pedala fino alla fattoria del Cocchi, il fabbro, per consegnare lavori di cucito che faranno parte del corredo della sposa. Lo sposo è in guerra.
La madre della sposa versa un liquore d’erbe alla Casarèina e va a posare sulla stufa un pentolone di acqua che sciaborda perché la Bianca zoppica. Appese alla parete annerita, sopra il fuoco, una fila di pentole di rame, forgiate dal fabbro che sta lavorando in cortile, accanto alla fucina.
«Hai sentito dei soldati arrivati a Modena?»
«No» risponde Olga.
«L’inferno, mamma mia... l’inferno...» sospira la moglie del fabbro con le mani giunte così strette che si sbiancano le dita.
«Quale inferno?»
«Treni pieni di ragazzi mezzi morti, fasciati, in barella... Li hanno caricati sulle ambulanze e portati negli ospedali» racconta la Bianca. «Altri soldati li hanno raccolti a Mirandola e Castelfranco, sbandati che sono arrivati a piedi da ogni angolo. Li tengono prigionieri nei campi come fossero nemici. Li interrogano tutto il giorno. E poi la povera gente che spinge carri con le poche cose che ha messo in salvo di fretta. Hanno riempito le strade. Un po’ li hanno sistemati a piazzale Re Astolfo, un po’ nelle fabbriche.»
«Ma da dove arrivano?» domanda impressionata Olga.
«Dalla guerra.»
«Ma la guerra la stiamo vincendo. Io leggo i giornali di mio padre...»
«I giornali scrivono quello che vogliono, Casarèina. Per tenerci buoni. Io ho parlato con gente che ha parlato con quei soldati. Cose da pelle d’oca... Su quelle montagne è scoppiato l’inferno: bombe, fuoco, gas tossici... L’inferno... I tedeschi hanno sfondato il fronte italiano e sono arrivati fino alla pianura. I nostri soldati sono in fuga, insieme alla povera gente, perché il nemico avanza verso di noi... I primi a scappare sono stati gli ufficiali, i comandanti, raccontano i feriti arrivati a Modena. E così quei poveri ragazzi sono rimasti per ore immersi fino alle ginocchia nel fango delle trincee, bombardati dal fuoco e dai gas, in attesa di ordini che non arrivavano, prima di ordinarsi da soli la ritirata... E adesso gli ufficiali li trattano anche come traditori e vanno dicendo che abbiamo perso la battaglia per la vigliaccheria dei soldati che sono scappati invece di combattere. Ma migliaia di morti non sono scappati, sono ancora lassù sui monti. All’inferno. Questo raccontano a Modena.»
La Bianca si stacca dalla stufa e taglia la stanza zoppicando come un ferito per raggiungere il tavolo e considerare il lavoro della sarta.
Olga osserva attraverso la finestra le vampate di fuoco della fucina e ascolta le martellate del fabbro che rimbombano come colpi di mortaio.
“Chissà se servirà ancora questo corredo” pensa la Cocchi accarezzando la stoffa come fosse un neonato. “Dove sarà lo sposo?”
“Dove sarà Antonio?” si chiede la Casarèina pedalando verso Modena. È stata colpita da una cannonata di angoscia che le ha lasciato un buco alla bocca dello stomaco. La parola “inferno”, ripetuta mille volte dalla Bianca, non le esce più dalle orecchie. E neppure le martellate del fabbro.
Dopo la sfogliatura, il giovane Panini era venuto altre volte in visita alla fattoria dei Cuoghi. Una sera si era portato dietro un proiettore rudimentale, recuperato chissà dove, forse nella bottega da inventore di Mami. Aveva fatto stendere un lenzuolo e proiettato un film, guadagnandosi molte simpatie. La gente si era portata le sedie da casa.
Solo il Casaro non aveva abbassato il fucile: «Quel ragazzo ti fa vedere cose che non esistono».
Olga si era messa a ridere.
Un’altra sera Antonio si era attardato più del solito, dopo una giornata di lavoro e, braccato dal sonno, aveva sdraiato la sua moto alla glicerina in un fosso e ci si era addormentato accanto. Si era svegliato con parecchi occhi addosso. Pensavano che avesse avuto un incidente e fosse morto. Reagì ai soccorsi più seccato che grato: «Ma a-n’s pól gnànch durmìr in pès?».
Poi tornò sul Carso. È passato un anno dalle pannocchie, è arrivato un altro autunno che ora è già maturo, ben oltre la vendemmia. Nei primi mesi il giovane Panini aveva mantenuto la promessa e spedito dal fronte lettere piene di disegni. Da un po’ di settimane tace: nulla.
La Casarèina non vuole collegare quel silenzio all’inferno di cui ha appena sentito raccontare. Pedala veloce, quasi con rabbia, come se uno strappo secco delle ruote potesse spezzare il filo che unisce un’assenza certa a una morte possibile.
Davanti alla stazione di Modena un reggimento attende il treno che lo porterà al fronte: un quadrato di soldati seduti a terra con grossi zaini accanto. Sembrano lumaconi. Altri fanti marciano, in formazione, lungo la via Emilia. I portici sono presidiati da cassette di terra e sacchi di sabbia.
Olga non aveva mai immaginato che la guerra potesse rendersi così visibile, che potesse arrivare così vicina.
Da un momento all’altro potrebbe anche piombare giù dal cielo.
L’ordinanza del sindaco Gambigliani-Zoccoli, incollata alle colonne dei portici, spiega cosa fare nell’eventualità:
In caso di incursioni di aeronavi nemiche sulla città,
saranno dati alla cittadinanza i seguenti segnali di allarme:
NELLE ORE DIURNE
Verrà esploso un colpo di cannone in Cittadella.
Si effettueranno contemporaneamente tre salve, con petardi da situarsi: uno presso il giardino della Scuola Militare, un altro presso i locali dell’Azienda Elettrica, ed un terzo presso il Distretto Militare.
Sarà mantenuta la segnalazione con le cornette che verranno suonate da 5 ciclisti, i quali percorreranno la città nelle 5 zone in cui essa è stata divisa; però verrà modificato il suono in modo che non abbia più a confondersi con quello delle cornette usate per il servizio della nettezza urbana.
APPENA UDITO L’ALLARME È FATTO D’OBBLIGO
- Di chiudere IMMEDIATAMENTE in tutte le abitazioni, stabilimenti, istituti pubblici e privati, I ROBINETTI DEI CONTATORI A GAS
- Di aprire i vetri e chiudere le persiane o imposte di case private, scuole, opifici ecc.
- Di lasciare aperte le porte delle case, per dare modo ai concittadini di poter entrarvi nel momento del pericolo per cercarvi un riparo
- Di proibire l’uscita dei ragazzi dalle scuole, degli operai dagli opifici ecc.
- Di sospendere il servizio telefonico privato e dei tram elettrici
NELLE ORE DI NOTTE
Sarà suonata a martello la campana della Ghirlandina per la durata di 15 minuti.
Appena passato il pericolo, saranno suonate a festa, per la durata di 10 minuti, le campane della Ghirlandina, di San Biagio e di San Francesco.
C’è stato bisogno di uno sforzo comunale per non confondere la guerra con l’immondizia.
“Forse Antonio è già stato trasferito all’aviazione, lontano dalla pietraia delle vipere, e non è stato coinvolto dall’inferno sui monti” prova a convincersi la Casarèina ricordando quando le aveva confidato la passione per il volo un anno prima.
Stavano ballando su chicchi di granoturco.
Sente ancora la mano di lui delicatamente appoggiata al fianco.
Sapone e Caporetto
I fanti Antonio Panini e Amedeo Grimaldi escono da un bosco di robinie. Osservano una casa colonica che sembra caduta da un aereo in mezzo a un campo, lontana dalla strada, dal paese e dalle altre cascine raccolte. La raggiungono tenendo imbracciato il fucile. Rallentano mentre si avvicinano.
Esitano davanti alla porta d’ingresso. Grimaldi ci sputa sopra, poi la apre con una scarpata. La casa sembra disabitata, ma la tavola è apparecchiata, con il cibo sopra.
«Una trappola?» chiede Antonio.
Amedeo, basso e compatto come una stufa, affonda il cucchiaio in una zuppa di patate: «Non so, però è buona».
Si tolgono gli elmetti, le giberne, posano a terra i fucili e svuotano i piatti facendo il giro delle sedie, con una voracità da animali. Un regalo assurdo, nel cuore della ritirata e della carestia, ma neanche tanto, perché l’allarme dei “turchi alle porte” è passato di bocca in bocca e i contadini friulani sono sfollati in tutta fretta, anche con il cibo nei piatti. Ha un senso quella zuppa di patate ancora quasi calda.
Non mangiavano da tre giorni, se non qualche frutto staccato dagli alberi. Per tre notti hanno marciato nei campi, lontano dalle strade, senza soste e senza sonno.
Antonio non resiste e si sdraia sul letto di paglia, vicino al camino che è ancora rosso di brace. Alla fine, le gambe smettono di sostenere il peso del corpo. È una sensazione che assomiglia alla felicità.
«Io vado a casa» annuncia Grimaldi, che afferra un coltellaccio dalla tavola e stacca le mostrine dalla giacca militare. Sputa per terra.
«Farai la fine di quei tre, se ti prendono.»
Tre soldati italiani, fucilati come disertori, in un paese ora disabitato. Panini e Grimaldi li hanno trovati seduti con la schiena contro il muro bianco di una chiesa. Sembravano mendicanti che aspettavano all’uscita della messa.
«Le pallottole dei tedeschi non fanno meno male» si giustifica Amedeo mentre srotola le mollettiere. «La guerra è persa. Quello che dovevo fare l’ho fatto. Eri sul Rombon tu? Io sì. Li hai visti quelli dell’87° in prima linea? Io sì. Mi hanno spedito a controllare che non avessero abbandonato la postazione. Sono tornato e ho riferito: “Sono saldi al loro posto, ma per sempre. Come le statue di Pompei...”. Impietriti dai gas, con le nostre maschere sul muso che ti proteggono come un paio di mutande sulla bocca. Ne ho fatte e ne ho viste. Ora posso solo scappare. A casa invece posso uscire a pescare in mare e dare una mano alla famiglia. Il mio vecchio non può più farcela da solo. E poi farò i soldi con il sapone e mi godrò la vita.»
«Il sapone?» chiede Antonio.
«Ci hai fatto caso che Savona suona come sapone? Io abito lì vicino. E poi c’è il sapone di Marsiglia. Nelle nostre zone l’olio non manca e conosciamo bene l’arte della saponificazione. Olio, grassi, sego, lisciva... Ricordatelo: sapone. Fatti una fabbrica anche tu e diventerai ricco. Dammi retta. È l’affare del momento. Dopo la guerra la gente avrà una gran voglia di togliersi dalla pelle tutto questo schifo. Si laverà ogni cinque minuti. Come io sputo a terra ogni cinque minuti perché mi è rimasto in bocca l’amaro dei gas. La guerra ti sporca anche dentro. Servirà una montagna di sapone per tornare uomini e noi gliela daremo.»
Amedeo Grimaldi stacca un sacco di iuta dal muro, lo apre in due con il coltellaccio e se lo getta sulle spalle come un mantello, per mimetizzare ancora di più la giacca militare.
Saluta: «In bocca al lupo, Panini. Non addormentarti che te li ritrovi addosso. E vienimi a trovare, se passi dal mare».
Esce, si riaffaccia dopo un attimo: «Ricordati il sapone».
Antonio si addormenta e si ritrova addosso gli incubi che sono anche peggio dei tedeschi.
Fontane di terra zampillano verso il cielo a ogni boato. I corpi saltano in aria come fieno sollevato da un rastrello. Alle 2 di notte del 24 ottobre 1917 scoppia l’apocalisse. Dal monte Rombon una valanga di bombe si rovescia sulle trincee italiane, immerse nella nebbia e battute dalla pioggia. Dal nulla sbucano granate convenzionali e gas sconosciuti che sterminano l’87° Reggimento. Un martellamento ininterrotto fino alle 4, quando si spalanca un silenzio di morte. Dopo mezz’ora riparte il bombardamento, contrastato dai nostri cannoni, questa volta.
Ecco la spallata dell’Impero austro-ungarico dopo le undici di Cadorna.
La Germania ha deciso di soccorrere l’alleato logorato dalla guerra di posizione e ha spostato truppe dal fronte occidentale, agli ordini del generale Otto von Below, che fa scivolare sul fondovalle i fanti della 14a Armata, protetti dalla nebbia. Sono organizzati in piccoli e agili battaglioni d’assalto, armati di mitragliette moderne, granate e lanciafiamme. Alle 9, prima della fine del bombardamento, attaccano le nostre trincee.
È la 12a Divisione Slesiana a sfondare il fronte italiano nel tratto tra Plezzo e Tolmino e in poche ore raggiunge Caporetto, all’imbocco della valle del Natisone, punto strategico per tagliare la strada all’esercito italiano che ripiega. Il generale von Below non interrompe l’offensiva, punta il Friuli e la Carnia, morde al collo il nemico che si disperde in pianura scappando verso sud.
È una ritirata scomposta, disordinata, disperata, la nostra. Eppure nei giorni precedenti le spie avevano segnalato uno spostamento sospetto di truppe sui monti e l’arrivo dei rinforzi tedeschi. C’era da aspettarselo un attacco del genere, invece nulla. I vertici dell’esercito italiano non hanno mosso un dito. Non hanno neppure interrato i cavi per le telecomunicazioni così che, dopo le prime granate, è stato quasi subito impossibile far circolare ordini in trincea. Ordini che, per altro, nessuno riusciva a prendere. Soldati nella nebbia e senza guida: buio totale. Nel fango, sotto una pioggia di bombe, strozzati alla gola dai gas.
Ma la colpa cadrà tutta sulla 2a Armata che ha ceduto vilmente in prima linea invece di resistere. I veri responsabili, eleganti, nel parlamento romano, scaricheranno le colpe su morti senza nome.
La ritirata è un istinto più che un comando. Così come la fuga dei civili, allarmati dai “turchi alle porte”. Ingolfano le strade con carri pieni di mobili e sacchi gonfi di vestiti, si mescolano alle truppe e all’artiglieria, cercano di attraversare il Tagliamento prima che i soldati facciano saltare i ponti per arrestare l’avanzata austro-tedesca. Vogliono arrivare a Padova e prendere i treni che portano a sud.
Oltre un milione di profughi, 40.000 soldati uccisi, molti giustiziati per tradimento, 300.000 fatti prigionieri. Da ora in poi Caporetto vorrà dire disfatta.
Antonio Panini ha trovato finalmente suo fratello. Lo estrae ferito da un’ambulanza che una granata ha ribaltato come una tartaruga.
«Ciola! Ciola!»
Se lo carica sulle spalle e lo sdraia sulla barella di un convoglio militare che procede a passo d’uomo. Marcia al suo fianco per diversi chilometri, finché una pattuglia di tedeschi spunta dall’argine di un fosso e comincia a sparare. Un’imboscata.
Antonio guarda in faccia il soldato biondo che lo colpisce al petto, ma non fa in tempo a morire perché un tonfo lo sveglia.
Qualcuno ha aperto la porta del casolare con una pedata.
Panini strappa la schiena dal pagliericcio, impugna il fucile in tutta fretta e si trova sotto il tiro di un paio di moschetti. Lo stallo dura un attimo. I tre nella stanza si specchiano e si riconoscono: sono vestiti uguali, hanno la stessa faccia scavata dalla fame e dalla paura.
«Ti sei mangiato tutto da solo?» chiede il primo, che abbassa la canna.
«No, eravamo in due» spiega Antonio. «Ma non c’era molto.»
«Buono, però» commenta il secondo soldato che passa la mano sul fondo dei piatti e si lecca le dita.
«Di dove sei?» chiede Panini.
«Di Formigine» risponde il primo soldato.
«La mia famiglia viene da Formigine, frazione di Corlo. Ora stiamo a Pozza di Maranello.»
«Ho degli zii falegnami a Maranello: i Castelli.»
«Li conosco. Hanno costruito i banconi dell’officina di mio padre.»
«Vai a casa?»
Antonio pensa a suo padre, ai suoi tanti fratelli, ai nipoti che corrono nella corte, alla Casarèina che balla reggendo la pezzola sopra la testa. Ma più pensa a loro, più gli monta un istinto assurdo, superiore alla voglia di raggiungerli: quello di proteggerli.
«No» risponde. «E voi?»
«Ci aggreghiamo al 120° Reggimento dell’Emilia. Dovremmo raggiungerlo dopo il Tagliamento, a Codroipo.»
«Abbiamo un dispaccio per il tenente colonnello. Ripieghiamo a Fossalta di Piave. Stanno scavando trincee, la linea del fronte correrà lungo il fiume, fino al Monte Grappa. Forse ci toccherà presidiarlo.»
«Vengo con voi» decide il fante Panini.
È già notte fuori. Una notte di novembre gelida e pungente come una baionetta che fa rintanare il collo tra le spalle. I tre fanti italiani si mettono in marcia sul ciglio della strada, protetti dal buio.
Antonio e il soldato di Formigine parlano sottovoce in dialetto, con le parole della loro terra: è l’unico modo per tornare a casa senza scappare.
Foto di fidanzamento
Anche il Piave diventerà proverbiale. Vorrà dire resistere con tutte le proprie forze a un’avversità, sopravvivere a dispetto delle attese, redimersi da una precedente, infamante debolezza, scoprire di avere una dimensione eroica nel punto più basso dell’umiliazione.
Il generale von Below sa che Francia e Inghilterra stanno inviando soccorsi agli alleati e sa che presto dovrà restituire truppe tedesche al fronte occidentale, perciò accelera le operazioni, ordina di proseguire l’offensiva e di invadere la pianura veneta oltre il Monte Grappa, ma sbatte inaspettatamente contro il muro difensivo dell’esercito italiano che si è ricompattato lungo la linea del Piave.
A combattere in modo splendido, eroico, sul Grappa, ultimo baluardo, sono soldati con la faccia da bambino, i ragazzi del ’99, ma anche divisioni della Seconda Armata, considerata responsabile di Caporetto, e tanti di quei soldati bollati come fuggiaschi e codardi dai propri superiori.
In realtà, l’eroismo non è mai mancato, mancava semmai l’organizzazione difensiva che riesce a tessere Armando Diaz, nuovo capo di stato maggiore, sull’orlo del baratro, a un passo da una guerra persa. Luigi Cadorna, deposto dopo Caporetto, sapeva solo procedere a spallate.
Tutti gli attacchi degli imperiali e dei tedeschi vengono respinti. L’ultimo il 12 novembre, una ventina di giorni dopo l’apocalisse. L’offensiva di Otto von Below è stata definitivamente fermata. La guerra torna a essere guerra di posizione, logorio di trincea. Si è solo spostata, dalle montagne alla pianura.
Una cosa però i vertici del nostro esercito l’hanno imparata dalla disfatta: che i soldati meritano una diversa considerazione, un trattamento più umano. Devono essere informati, coinvolti maggiormente nelle ragioni e negli sviluppi del conflitto perché lo sentano, almeno in parte, come una cosa loro. Per quanto possibile, devono essere migliorate anche le condizioni di vita al fronte. È lo stesso generale Diaz che promuove un servizio di propaganda. In trincea cominciano a circolare giornali, si organizzano programmi di istruzione e di svago. E aumenta il numero di licenze concesse. Così il fante Antonio Panini, dopo oltre un anno di guerra, può tornare a casa, per il Natale 1917.
Cerca un passaggio all’esterno della stazione di Modena dove sono parcheggiati carri e veicoli a motore, non lontano dall’area delle ambulanze. Riceve un paio di “mi spiace” prima che una voce alle sue spalle annunci: «Ti porto io, vado a Castellarano».
«Grazie. Scendo quando la strada gira e proseguo a piedi.»
«Ma va’, ti ci porto. Devo mica celebrare la messa. Non mi sta aspettando nessuno. Hai già marciato abbastanza, credo. Dammi il sacco...» si offre l’uomo anziano che lo carica sul carretto di legno con un’agilità imprevista.
Indossa una giubba di fustagno logora, da lavoro, e un curioso cappello di velluto sopra lunghi capelli grigi. Impugna le briglie e fa partire il cavallo con uno schiocco della lingua.
Antonio, seduto nel carretto, osserva la sua campagna velata di nebbia e gli avanzi di neve nei campi, una spruzzata di sale bianco sulle zolle gelate. Dopo tanti giorni di ritirata, gli sembra strano potersi spostare da un posto all’altro senza doversi preoccupare del pericolo, essere sicuro che non gli succederà nulla da qui all’arrivo, neppure se chiude gli occhi. Arriva a Maranello addormentato.
Il vecchio lo scuote: «Dove vado adesso?».
«Mi scusi. Di là» indica.
Fa rotolare il sacco a terra, poi con un balzo salta giù dal carretto: «La ringrazio davvero. È stato molto gentile».
«Mi sto allenando a trasportare soldati. Aspetto mio figlio dal fronte» sorride l’uomo togliendosi il cappello.
«Dov’è ora?»
«È entrato a Gorizia, poi non so.»
«Tornerà presto. Torniamo tutti.»
Il fante s’incammina lungo il corridoio di pioppi che porta alla fattoria dei Panini. I primi a riconoscerlo sono i bambini che strillano e corrono per la corte a portare la notizia: «Zio Antonio! C’è lo zio! È tornato!».
Fratelli e sorelle maggiori, cognati e cognate spuntano da tutte le parti come topi da un solaio in fiamme. Lo abbracciano, gli ripetono che è dimagrito, lo riempiono di domande.
Antonio vede il padre lontano che esce dalla stalla, osserva la scena, ma entra in casa. I fratelli si scambiano sguardi perplessi. Dopo qualche minuto, Mami sbuca fuori con la giacca carica di medaglie. Avanza tintinnando. Il cerchio dei parenti si allarga.
«Sei in licenza?» domanda il patriarca.
È come se gli avesse chiesto: “Sei scappato?”.
Il fante Panini estrae dalla tasca della giacca grigio-verde il foglio dell’esercito.
Si abbracciano al centro della corte, Antonio sente al petto la puntura delle medaglie del padre.
Le sorelle mettono sul fuoco pentoloni d’acqua che poi versano in una tinozza nella stalla. Mentre si lava, Antonio ripensa al commilitone di Savona, compagno di ritirata. È vero: il sapone ti tira via la guerra dalla pelle, ti lascia in pace, più ancora che pulito. Ne parla a tavola con Mami: una produzione di sapone.
«La gente avrà una gran voglia di vestirsi bene e tornare a ballare pulita e profumata» conclude Antonio.
«Non è mica una stupidata» commenta Ciola.
«Inventi una macchina che taglia il sapone in blocchi e lo vendiamo al mercato» suggerisce Pietro, il fratello maggiore.
«No, non è una stupidata» sancisce Mami.
Le cognate hanno tirato la pastella e preparato i tortellini, poi hanno cucinato la carne, che significa festa. È tutto così buono che Antonio ha quasi paura di farsi male a mandare giù il cibo, come quando guardi il sole dopo essere stato a lungo al buio. Beve un sorso di vino, scherza con i bambini che gli chiedono di tutto. Si sente protetto da questa tavolata d’affetti e di sangue in comune, lunga come una trincea.
A Mami non basta. Vuole anche la foto, così nel pomeriggio arriva da Sassuolo il fotografo con tutto l’armamentario e mette in posa i Panini, grandi e piccoli. Antonio si siede per terra con le gambe incrociate e un cappello tutto storto sulla fronte per divertire i ragazzi. È sempre stato lo zio preferito. Gli altri dietro, seduti o in piedi, sono più di cinquanta. Mami al centro con le medaglie al petto.
A operazione conclusa, Antonio prende da parte il fotografo.
La Casarèina riconosce immediatamente il ronzio della bici alla glicerina, anche se debole e ancora lontano. Le è rimasto impigliato nei ricordi come un moscone tra le tende di una finestra. Non lo confonderebbe tra altri cento rumori simili.
Esce dall’acetaia trattenendo l’istinto di correre, si pulisce le mani nel grembiule mentre scende le scale, si sistema i capelli che si aprono ai lati della fronte come un sipario.
Antonio si è preparato un discorso per il padre di Olga, ha studiato le parole una a una con grande cura, le ha girate e rigirate nelle frasi per renderle più espressive e convincenti, ma quando arriva nella corte la Casarèina lo abbraccia con la rincorsa, lo bacia e non c’è più tanto da spiegare, solo da nascondere l’imbarazzo perché i familiari e gli operai, spettatori della scena, si sono messi spontaneamente ad applaudire, come quando veniva con il proiettore e dava vita a un lenzuolo bianco.
Il Casaro deve prendere atto che quel ragazzo non fa vedere solo cose che non ci sono. Quel bacio esiste per davvero. Primo Cuoghi avanza al centro della corte e saluta il giovane soldato con una stretta da uomo.
Il giorno dopo Antonio torna con il fotografo di Sassuolo. Vuole la foto ufficiale del fidanzamento.
Si è vestito elegante, con la giacca e la cravatta, anche se le scarpe sono impolverate. È seduto di trequarti, con la gamba sinistra accavallata alla destra e un gomito sullo schienale. Non sta guardando il fotografo, ma Olga che indossa una camicetta con il collo di pizzo, fatta con le sue mani, e una cintura scura alla vita.
«Voltati che poi vieni storto.»
«È più naturale così» spiega Panini. «Sorridi anche tu, sembri una statua.»
«Non ci riesco, se guardo la macchina fotografica.»
«Allora guarda questo...» Tira fuori il chicco di mais porta fortuna. «Funziona.»
«Non perderlo che la guerra non è finita.»
«Ma non torno al fronte. Hanno accettato la richiesta. Passo al Corpo Aeronautico Militare. Subito. Vado a Novara a prendere il brevetto di volo.»
«Ah sì, perché a volare in cielo non si rischia niente...»
«Di sicuro lassù non arrivano i gas e le vipere.»
«Voltati che il fotografo è pronto.»
«Quando la guerra finisce, atterro, ci sposiamo e facciamo dieci figli.»
«Taci, stupido, che ti sente...»
Pum! Lampo di magnesio.
La Casarèina, diciassette anni, viene fuori così: rigida, come una bambina imbronciata nella foto di classe, le sopracciglia ravvicinate. Lui, vent’anni, sorride di profilo, rilassato sulla panca, scomposto come un sacco vuoto, spanizzo e leggero come fosse già in volo.
Rosa di guerra
«Un Ansaldo S.V.A. 10!» sbalordisce Giorgetti, il livornese che conosce anche le viti di ogni aereo che esiste al mondo.
Lo osserva mentre esce lentamente dall’hangar come un bambino osserverebbe un dinosauro che spunta da una caverna. Gli allievi del campo volo di Cameri sorridono spesso della sua passione esagerata.
«Chiudi la bocca che ti atterra dentro un Bleriot...» scherza Antonio.
«È l’ultima evoluzione dello S.V.A. Non c’è niente di meglio tra le nuvole: biplano biposto da ricognizione e bombardamento, lungo 8 metri e 10, tocca i 215 chilometri orari, 650 chilometri di autonomia, una mitragliatrice fissa per il pilota e una maneggiabile per il passeggero, 75 chili di bombe di carico» snocciola Giorgetti. «È il primo che vedo dal vero.»
«Lo sta pilotando il capitano Palli» fa notare un allievo.
Natale Palli è il loro eccezionale istruttore di volo, che proprio qui a Cameri, vicino a Novara, prese il brevetto nel 1915, e nei tre anni successivi si è ricoperto di gloria e di onorificenze per arditi voli di ricognizione in territorio nemico. Gli allievi del corso di volo lo ascoltano e lo temono con il rispetto che si deve agli eroi. Il capitano ha in aviazione due fratelli della sua stessa stoffa: Silvio e Italo.
L’avvento improvviso delle forze tedesche ha cambiato lo scenario della guerra in cielo, come in terra. Fino all’autunno del 1917, i ricognitori del Regio Esercito, che raccoglievano informazioni e guidavano l’artiglieria sul fronte isontino, dettavano legge. I potenti Caproni, che potevano trasportare 145 chilogrammi di bombe, seminavano il terrore oltre i nostri confini. L’Impero austro-ungarico era in netta inferiorità. Ma all’improvviso la comparsa della Jagdstaffel, la terribile squadriglia da caccia tedesca, ha colorato i cieli e riequilibrato le forze. I velivoli pitturati con colori sgargianti, come l’Albatros vermiglio di Manfred von Richthofen, il Barone Rosso, hanno cominciato a ronzare minacciosamente nei cieli italiani. L’abbattimento di due aerei del Regio Esercito, il 26 settembre, sul monte Testa di cavallo, ha segnato l’inizio di una nuova partita.
Da qui la necessità di infoltire lo stormo della nostra aeronautica e di istruire in fretta nuovi piloti, come il fante Panini.
«Strano però...» osserva Giorgetti affilandosi il mento.
«Strano che?» chiede il romano Landoni.
«Il capitano è seduto dietro, al posto che di solito è del passeggero. Io ho visto sempre e solo piloti seduti davanti» spiega Giorgetti. «Osservate... Hanno spostato i comandi a leva all’esterno della fusoliera, all’altezza del sedile posteriore. Credo sia un modello speciale, modificato apposta.»
«Apposta per cosa?»
«Non lo so. Lo chiederemo al capitano» risponde il livornese.
Natale Palli porta il biplano all’imbocco della pista di decollo, poi scende e si avvia a passo deciso verso la palazzina del campo volo.
I tre allievi lo accolgono allineati con il saluto militare.
«Le esercitazioni di volo sono spostate al pomeriggio» annuncia il capitano, che ha un gregge di riccioli corti affacciati sulla fronte alta. «Potete restare, ma solo se dimenticherete ciò che vedrete e ciò che avete già visto, quindi anche l’aereo che c’è in pista.»
«Un Ansaldo S.V.A. 10!» esclama Giorgetti con un impeto d’entusiasmo.
Il capitano lo fulmina: «Allora non mi sono spiegato!».
Il livornese annuisce mortificato, ma più ancora rammaricato per essersi bruciato la domanda: come può ora chiedergli del pilota al posto del passeggero?
Un’ora più tardi il cancello del campo volo di Cameri accoglie una Fiat 70 così lucida che sembra nuova. Si ferma accanto alla palazzina. Smonta un uomo in tenuta da aviatore: tuta di seta ricoperta di pelliccia, cuffia di pelle e occhialoni da volo in pugno. È completamente calvo, con una benda sull’occhio destro. Dev’essere una persona di rango, perché il capitano gli va incontro e lo saluta con deferenza.
«Mi sembra di averlo già visto quell’uomo» commenta Antonio osservando la scena da lontano.
«Ci credo che l’hai visto...» sorride Landoni. «È D’Annunzio, il poeta. Il Vate Gabriele D’Annunzio! È famoso anche a Parigi.»
«Poeta e soldato» si affretta a precisare l’enciclopedico Giorgetti. «Ha partecipato alla conquista del Veliki, alla battaglia sul Timavo, era a Caporetto, ha bombardato Parenzo e Pola... L’occhio lo ha perso in un volo su Trieste, l’aereo ha sbattuto contro un banco di sabbia e lo ha sbalzato fuori. Ha picchiato la testa contro la mitragliatrice. In un altro volo radente, sulla dorsale dell’Ermada, lo hanno ferito al polso ed è rientrato con 134 fori di pallottole nella fusoliera. Non ha paura neanche del demonio quello lì...»
I due aviatori raggiungono l’aereo in pista e salgono a bordo.
Il livornese si illumina. «Ecco perché hanno modificato lo S.V.A. 10! Per permettere al Vate di stare davanti! Il capitano piloterà da dietro.»
Il biplano si stacca dolcemente da terra e si rimpicciolisce in lontananza, verso Milano, poi curva con un’ampia parabola e torna indietro. Al terzo passaggio, lascia cadere sul campo volo una pioggia di foglietti di carta, una miriade di coriandoli che sbiancano un tratto di cielo.
I tre allievi li aspettano a faccia in su, come uccellini in un nido. Antonio è il primo ad afferrarne uno con una zampata in aria: «Non c’è scritto niente».
«Sono fogli bianchi» conferma Giorgetti.
«Si vede che il Vate oggi non aveva l’ispirazione» scherza il romano.
L’atterraggio è ancora più dolce del decollo.
I due aviatori parlottano fitto mentre s’incamminano verso l’automobile nera, si scambiano le impressioni sul volo, sorridono spesso, evidentemente sono soddisfatti del collaudo.
Antonio si avvia verso di loro.
«Dove vai? Sei pazzo, Panini? Il capitano ti ammazza! Fermati...» lo richiama Giorgetti.
Antonio li raggiunge proprio mentre D’Annunzio sta per mettere un piede sulla Fiat 70: «Mi scusi se oso, signore...».
L’espressione del volto del capitano Palli è quella di un vulcano che sta per esplodere: «Panini...».
Il Vate tappa il cratere con un leggero sorriso: «Natale, mai trattenere un soldato che osa. Altrimenti come la vinciamo la guerra?».
«Vede, la mia morosa ama leggere libri, ha fatto anche la sesta, e lei è un poeta famoso, conosciuto perfino a Parigi. Io credo che se potessi spedirle una lettera con la sua firma sopra sarebbe molto felice» spiega Antonio porgendo il foglietto bianco che ha carpito al volo.
Il Vate lo prende e s’incammina verso la palazzina: «Non si dica mai che ho deluso una fanciulla. Come si chiama?».
«Olga» risponde l’aspirante aviatore.
«Olga?» ripete D’Annunzio con una punta di sorpresa. «Allora mi sarà ancora più naturale scriverle due parole. Sei fortunato.»
Nell’ufficio del campo volo, il poeta si fa consegnare penna e calamaio e scrive una breve dedica per la fidanzata del soldato.
«Sei stato al fronte?»
«Sul San Michele, signore» risponde Antonio.
«Allora ti ho volato sulla testa. C’ero anch’io lassù. Sei stato a Caporetto?» chiede ancora il poeta.
«Per poco. Ci hanno fatto scappare in fretta.»
«Però poi sul Piave non abbiam piegato di un’ugna!» esclama il Vate con un impeto d’orgoglio restituendo il foglietto. «Ti piace volare?»
«Fin da bambino. Anzi, da quando non camminavo ancora» risponde Antonio. «Credo sia per via degli olmi.»
«Perché gli olmi?» domanda incuriosito D’Annunzio, che rallenta il passo.
«Mia madre faceva la foglia sugli olmi» prova a spiegare Panini. «Dalle nostre parti si dice così. Saliva sui rami più alti e metteva le foglie in un sacco. Quello è il foraggio migliore che c’è. Io restavo giù ad aspettare, seduto sull’erba, ai piedi dell’albero. Guardavo in su, soprattutto quando avevo fame. Volevo volare da mia mamma, dal mio latte. Capivo che il meglio stava in alto e che valeva la pena staccarsi da terra. Non so come dire, ero già un aviatore.»
«Hai ragione, soldato. È proprio così: il cielo è madre. Qualsiasi cosa tu abbia fatto o non fatto sulla terra, puoi volargli in braccio e ti terrà su.»
Alla sera, in camerata, sdraiato sulla sua branda, Antonio Panini scrive una lettera alla morosa, sul retro del foglio firmato da Gabriele D’Annunzio.
“Olga mia, non hai neanche idea della magia che stai tenendo tra le mani: questa carta è piovuta dal cielo e ci ha scritto sopra un grande poeta.”
Più rilegge la dedica del Vate, più si riempie d’ammirazione per lui: “A Olga, rosa di guerra”.
La Grande Guerra è finita
Alle ore 5.50 del 9 agosto 1918 undici aerei Ansaldo S.V.A. 10 della 87a Squadriglia Serenissima decollano dal campo d’aviazione San Pelagio di Due Carrare, a sud di Padova. Sono dieci monoposto, l’undicesimo apparecchio è stato modificato per ospitare due piloti: il capitano Natale Palli, che aziona i comandi, siede dietro, Gabriele D’Annunzio davanti. Il Vate ha radunato gli aviatori scelti nell’hangar prima della partenza e ha imposto il giuramento: «Se io non arriverò a Vienna, non tornerò indietro. Vale anche per voi».
Tre aerei devono abbandonare quasi subito la missione per problemi tecnici e rientrano a San Pelagio. Un’avaria al motore costringe il tenente Giuseppe Sarti all’atterraggio di fortuna in territorio nemico, a Wiener Neustadt. Viene fatto prigioniero mentre il suo Ansaldo prende fuoco.
Gli altri sette proseguono e vengono intercettati in volo da due caccia austriaci che però non sparano. Rientrano immediatamente per avvertire il Comando del pericolo imminente, senza trovare ascolto. Nessuno crede all’ipotesi di un attacco nemico dal cielo.
Alle 9.20 i piloti italiani scendono indisturbati fino a 800 metri di quota e rovesciano sulla città di Vienna centinaia di migliaia di volantini tricolori. I piloti possono distinguere benissimo i cittadini viennesi che si ammassano nelle piazze per raccogliere e leggere i fogli che cadono dal cielo. Un formicaio in movimento.
Il testo lo ha scritto D’Annunzio in persona. In realtà, il volantino che leggono i cittadini di Vienna, in tedesco, è una sorta di traduzione in prosa, alla portata di tutti, perché il Vate, eccitato dall’impresa, si era impennato nei cieli di un’altissima retorica non facilmente comprensibile.
VIENNESI!
Imparate a conoscere gli Italiani.
Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà.
Noi Italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne.
Noi facciamo la guerra al vostro Governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele Governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.
VIENNESI!
Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s’è volto contro di voi.
Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai Generali Prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandola.
POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati!
VIVA LA LIBERTÀ!
VIVA L’ITALIA!
VIVA L’INTESA!
La pattuglia attraversa il cielo grigio di Vienna e fa ritorno verso l’Italia: Wiener Neustadt, Graz, Lubiana e Trieste... Atterra al campo d’aviazione alle 12.40: mille chilometri percorsi in sette ore, grazie alle modifiche apportate agli Ansaldo S.V.A. 10 che hanno permesso un’autonomia di volo eccezionale.
I giornali italiani esaltano il “folle volo” del Vate e “le rondini bianche” su Vienna, ma ancora più forti sono le reazioni in campo nemico. I quotidiani criticano e attaccano i vertici militari, incapaci di prevedere, intercettare e fermare aerei arrivati fino al cuore dell’Impero. Cosa sarebbe successo se, invece di volantini, gli italiani avessero scaricato bombe?
È un’ulteriore spallata alla credibilità e al morale degli austro-ungarici che stanno scivolando verso la sconfitta e, al contrario, un’esaltante prova di forza dell’Esercito Regio che trasmette una scossa di ottimismo alle trincee italiane.
Il 3 novembre i campanili di Modena suonano a festa e lanciano un messaggio di gioia che corre verso la campagna. Trento e Trieste sono state liberate, l’Austria ha firmato l’armistizio, la Germania lo farà presto. È finita una guerra che ha lasciato in città oltre settemila lutti. Da oggi le trombette torneranno ad annunciare solo l’immondizia, non più le bombe.
Le chiese sono bocche spalancate che intonano il Te Deum. La Casarèina canta con gli occhi lucidi tra le panche affollate di Sant’Agostino, insieme ai fratelli. Si immagina in piedi, là in fondo, davanti all’altare, vestita da sposa, anche se sa che la ferma di Antonio durerà ancora. Ma senza un nemico armato.
Antonio ha imparato a volare come gli uccelli, senza fare male a nessuno. Ha preso il brevetto da pilota il 28 settembre 1918, quando la Grande Guerra stava sfumando. Il libretto di volo racconta che quel giorno a Cameri ha raggiunto i 5650 metri d’altezza, a bordo di un Aviatic 120HP. Nella foto che ha spedito a Olga appare seduto sulla carlinga di un monomotore Gabarda, con il giubbotto da pilota addosso. Neppure questa volta guarda in macchina. È ancora di profilo e, in posa affettata da spanizzo, con sguardo assorto, scruta qualcosa lontano che probabilmente è il futuro.
Sogno solo te
La manovella della zangola che trasforma la panna in burro va azionata alla giusta velocità, perché se la piccola botte di legno ruota troppo piano o troppo in fretta il latte non sbatte e non si rapprende. Olga, grazie all’abitudine, ce l’ha nel braccio il ritmo buono, non deve neppure concentrarsi per riprodurlo. Può anche distrarsi, guardare lontano, perdersi nei pensieri e il braccio continuerà a girare per conto suo, come la lancetta di un orologio, mai troppo in anticipo o troppo in ritardo.
L’orologio però si arresta di colpo. Quel puntino scuro che si sta avvicinando è il postino e ha nella borsa di cuoio una lettera che la riguarda. Lo sente.
Si ritira a leggerla nell’angolo più intimo della fattoria, seduta nella stalla, con la schiena appoggiata al muretto della mangiatoia. Quattro vacche pezzate la osservano complici e omertose, perché il nome “Olga” risuona una prima volta nella corte con la voce grossa del padre e poi altre tre volte con un crescendo di volume e di risentimento. Il Casaro ha trovato la zangola abbandonata senza motivo e la figlia non risponde.
La Casarèina apre la busta, estrae il foglio, lo dispiega e le arriva una puntura al petto. C’è scritta una parola sola, grande, in stampatello maiuscolo: FINE. Che non pare esattamente una parola d’amore, se scritta dal fidanzato lontano.
Olga osserva gli occhi enormi della mucca che riflettono il suo stesso sguardo vuoto. Poi però si accorge che ognuna delle quattro lettere in stampatello è un formicaio che contiene decine di parole scritte in piccolo. Sembra che si muovano. Avvicina gli occhi al foglio.
Genova lì 13.4.1920
Olga mia – Finalmente spero sia finita questa vita dopo 45 mesi che si sospira ambedue – oggi m’hanno fatto il foglio di congedo illimitato – arriverò a casa venerdì o sabato – mi è spiaciuto partire senza avvisarti ma ho pensato fosse meglio liberarmi subito – cari bacioni e saluti tuo Tonino – La presente per chiusura della nostra corrispondenza durata ben quarantacinque mesi – Sperando nella nuova vita incontrare quella felicità da tanto aspirata – T’amo tanto tanto, d’un amore impareggiabile, vivo solo per te, sogno solo te, arrivederci in settimana.
Olga sorride mentre osserva la precisione con cui sono state cesellate le lettere maiuscole che contengono le minuscole. Le linee orizzontali e verticali della effe iniziale sono perfette, ha usato senz’altro un righello, una scatola o comunque qualcosa di simile per tracciarle così dritte. Immagina il suo moroso in uno stanzone di caserma, circondato dal chiassoso via vai dei commilitoni in libera uscita, concentrato e curvo sul foglio, come un monaco nella biblioteca di un monastero. Quel regalo di tempo e di cura le sembra più prezioso di un anello.
Vivo solo per te, sogno solo te.
Torna nella corte a girare la zangola con un sorriso assente e pensieri lontani. L’amore sta diventando burro.
Quattro mesi più tardi sono già sposati e Olga ha in grembo il primo figlio.
I buchi non si mangiano
Come tradizione, Olga va ad abitare a casa dello sposo, dai Panini, che sono originari di Corlo, frazione di Formigine, ai piedi delle colline modenesi. Il primo manoscritto che fa cenno alla famiglia è del 1771, a proposito di un tale Francesco Panini, non uno stinco di santo, coinvolto in una rissa per una storia di donne. Condannato, si rifiuta di espiare spazzando la neve. Francesco Panini, alias “Bigoni” precisa la carta antica. Da qui il soprannome che ha accompagnato negli anni la famiglia Panini: i Bigoni, i Bigoun in dialetto.
Il problema è che lo sposo è l’ultimo di tredici fratelli, tutti già sposati e con parecchia prole. Nella cascina di Mami l’inventore, a Maranello, alloggiano una cinquantina di anime che all’ora di pranzo diventano una cinquantina di bocche.
Ecco perché Olga, che deve tirare la pastella per tutti, è tesa come non è mai stata in vita sua, neppure nel giorno del matrimonio. È più di una prova di abilità, più di un test d’accesso, più di un esame di laurea. In una famiglia patriarcale emiliana di inizio Novecento preparare la pastella, la prima pastella, è un rito di iniziazione che ha di per sé una sua impegnativa sacralità. Tirarla per cinquanta persone è un’impresa da Vello d’oro.
La Casarèina osserva spaventata il tagliere di legno davanti a sé, enorme. Le sembra di dover ricoprire di pasta tutta piazza Grande. Sette cognate si sono raccolte in un angolo della cucina, pronte a commentare, come il coro di una tragedia greca. Sta osservando anche il vecchio Mami che ha già visto all’opera un esercito di nuore e impugna il metro di paragone.
Olga prende coraggio dal sorriso del marito che abbassa leggermente il mento, come a dire “andrà tutto bene”. Sbuffa verso l’alto per liberarsi la fronte da un ciuffo di capelli e si avventura nell’impresa.
Spolverizza di farina il tagliere, ci appoggia sopra l’impasto che manipola fino a renderlo liscio e compatto, lo schiaccia con alcuni colpi di mattarello che poi comincia a far rotolare avanti e indietro. Le mani parallele, al centro, si allargano durante la pressione. Gira l’impasto tondo di un quarto, in senso orario, e riprende a passare il mattarello di legno. Un altro quarto di giro. Le mani si allargano ancora dall’interno all’esterno, come se stesse nuotando a rana; si china sulla tavola e si rialza, con il ritmo di un vogatore sul fiume. Il mattarello rotola avanti e indietro, la pressione si allenta via via che la pastella si assottiglia. Concentratissima, Olga si passa una mano sulla fronte e, senza accorgersene, la imbianca di farina. Le sette cognate sorridono. È una pastella per tortellini, va resa quindi più sottile di quella per le tagliatelle. Per essere a regola d’arte, non deve superare i tre millimetri. La sposina vuole che il marito sia orgoglioso di lei davanti a tutta la famiglia, perciò vola verso il sole della perfezione, fino a scottarsi come Icaro.
La pastella si strappa in più punti, come una stoffa lisa. Olga è una sarta, ma qui i rammendi non valgono. Il coro greco tradisce sguardi di compiacimento.
Mami, il patriarca, sorride, ma punge: «Casarèina, i bùs i-ns’ mâgnen ménga!».
L’aviatore Antonio plana in soccorso con un abbraccio alle spalle: «Tranquilla, i buchi li mangio io».
Il trattore nel fosso
L’Italia ha sconfitto l’Impero, ma non la fame, brutta bestia che non muore mai. Anzi, il conflitto l’ha esasperata. Tocca alla povera gente pagare i veri costi del conflitto. La lira vale sempre di meno, i prezzi crescono, gli stipendi si sciolgono. La rabbia monta nelle città e nelle campagne. Gli operai occupano le fabbriche per chiedere aumenti di salario e migliori condizioni di lavoro. I contadini occupano i terreni incolti, i sindacati pretendono di gestire l’occupazione e animano scioperi nelle campagne, i contadini non si riconoscono più nel patto colonico del 1908 e spediscono lettere ai proprietari dei campi, timbrate dalla Federterra, in cui chiedono nuove intese e nuove condizioni. Il fermento della Rivoluzione russa è nell’aria. Gli attivisti che vigilano sull’applicazione delle forme di protesta vengono chiamati “guardie rosse”.
Ed è gente del genere che sbarra la strada al trattore Landini diretto a Gorzano. Una dozzina di forestieri. Lo sguardo di Antonio Panini li scorre tutti come un faro, alla ricerca di una faccia conosciuta che possa far da sponda nella discussione che sta per aprirsi. Ma non ne trova nessuna.
«Lo sai che oggi non si lavora?» fa il primo che mette una mano sulla ruota.
«So solo che oggi devo mangiare e lavorare mi serve» risponde l’ex aviatore.
«Se le cose non cambiano, però mangiano in pochi» osserva il secondo.
«A questo servono gli scioperi» aggiunge il terzo, che ha un bastone in mano. «A fare in modo che mangino tutti.»
«Per oggi non lavoro più» assicura Antonio.
«Bravo, però il trattore lo lasci qui» intima il primo. «Domani il tuo padrone se lo viene a prendere da solo.»
«Al tratór l’è mée.»
«Ah, bene. Quindi sei dalla parte dei padroni che sfruttano» deduce quello con il bastone.
«Io sono padrone delle mie cose e non sfrutto nessuno» ribatte Panini.
«Comunque il trattore lo lasci qui lo stesso e vieni a riprendertelo domani» conclude il primo a occhi fermi.
Indossa una camicia bianca sudata che sembra esplosa. Il collo è spalancato sulla canottiera, la cravatta dilatata gli ciondola sul petto come una collana.
«Ho già marciato abbastanza in guerra» fa sapere Antonio, che stringe il volante a due mani. «Preferirei tornare con il motore, se non vi dispiace.»
«Allora non hai capito.»
A un cenno della camicia bianca, il secondo afferra una gamba del Panini e, con l’aiuto di altri tre compagni, lo tira giù dal Landini. Lo immobilizzano a terra, provano a tenerlo fermo anche se scalcia e cerca di liberarsi.
Gli altri otto si schierano tutti dalla stessa parte del trattore. Spingono, si aiutano ritmando “issa!”, lo sollevano da sotto e alla fine riescono a ribaltarlo nel fosso a lato della strada sterrata. Festeggiano con un urlo di soddisfazione.
A questo punto i quattro fanno volare Antonio nel fosso dall’altra parte della strada, dove scorre un rigagnolo. Panini si ritrova immerso per metà, come una rana, con il culo a mollo e le mani nel fango. Un’altra trincea. Osserva il suo trattore rovesciato su un fianco.
Il pensiero di aver fatto la guerra e di aver rischiato la vita anche per questi dodici bastardi che si stanno allontanando sghignazzando gli incendia il sangue. Sta per scattare all’attacco, come se avesse ancora l’elmetto Adrian in testa e il moschetto in pugno, ma riesce a realizzare in tempo che non avrebbe senso. Sono in tanti e con i bastoni.
Si dirige verso Pozza a passo svelto, quasi di corsa. Quando racconterà ai figli di aver fatto la Marcia su Roma, in fondo non mentirà. La sua Marcia su Roma è questa camminata isterica, in un pomeriggio autunnale del 1922, che lo porta prima a casa a cambiarsi i pantaloni bagnati e poi direttamente a iscriversi al Partito fascista. Perché servono regole rigide, e disciplina.
Oggi uno non è più libero neppure di possedere un trattore Landini.