giovedì 9 dicembre 2021

LO SPECCHIO CHE FUGGE Giovanni Papini

 


LO SPECCHIO CHE FUGGE

Giovanni Papini 

Il Papini fantastico che Borges ci ripropone è certo una sorpresa per chi è abituato a considerare l’autore della Vita di Cristo come uno scrittore da non leggere. I racconti di questo libro provengono da un’epoca in cui l’uomo si reclinava sulla sua melanconia e sui suoi crepuscoli, ma la melanconia e i crepuscoli non sono scomparsi, anche se ora li vestiamo con costumi diversi.

Da qualche giorno passato con Borges a Buenos Aires, città labirintica e speculare, nacque in Ricci l’idea di questa Biblioteca di Babele, antologia in più volumi del fantastico da salvare, diretta, selezionata e introdotta dal grande scrittore argentino. Molte sorprese attendono il lettore: alle generose fonti orientali e ad autori mai tradotti in italiano si affiancano nomi già famosi riscoperti e “reinventati” attraverso i mille riflessi degli specchi di Borges.

Introduzione

Non senza giustificata timidezza un mero argentino, un remoto rampollo di Roma, si azzarda a presentare un libro di Gian Falco — con questo nome lo conobbi — ai lettori italiani. Avrò avuto undici o dodici anni quando lessi, in un quartiere periferico di Buenos Aires, Il tragico quotidiano e Il pilota cieco, in una cattiva traduzione spagnola. A quell’età si gode della lettura, si gode e non si giudica. Stevenson e Salgari, Eduardo Gutierrez e Le Mille e Una Notte sono forme di felicità, non oggetti di giudizio. Non si pensa nemmeno a far paragoni; ci basta il piacere. Lessi Papini e lo dimenticai. Senza sospettarlo, mi comportai nella maniera più sagace; l’oblío può ben essere una forma profonda della memoria.

Comunque sia, voglio riferire un esperienza personale. Ora, rileggendo quelle pagine così remote, scopro in esse, attonito e grato, favole che ho creduto di inventare e che ho rielaborato a modo mio in altri punti dello spazio e del tempo. Ancora più importante è stato scoprire l’identico ambiente delle mie finzioni. Anni dopo, abbordai senza maggior fortuna la Storia di Cristo, Gog e il libro su Dante, volumi scritti, occorre sospettare, per essere dei bestsellers.

A somiglianza di Poe, che senza dubbio fu uno dei suoi maestri, Giovanni Papini non vuole che i suoi racconti fantastici appaiano reali. Il lettore sente dall’inizio l’irrealtà dell’ambito di ciascuno. Ho citato Poe; potremmo aggiungere che questa tradizione è quella dei romantici tedeschi e delle Mille e Una Notte. Questa convinzione di irrealtà corrisponde a ciò che sappiamo del suo destino, sempre insidiato dall’agguato dell’incubo, che inesorabilmente lo accerchiò negli ultimi anni. Spogliato di quasi tutti i sensi da uno strano male, dettò le sue ultime Schegge alla nipote Anna Paszkowski quando non gli restava più che la ragione.

Due immagini in una vasca rinnova la leggenda del doppio, che per gli ebrei significava l’incontro con Dio, e per gli scozzesi l’imminenza della morte. Nessuno di questi filoni fu seguito da Papini; preferì vincolarlo al costante e al mutevole dell’io di Eraclito. La presenza dell’acqua morta e dell’antico e abbandonato giardino coperto di foglie secche crea un terzo personaggio che gravita sugli altri due, che essendo due sono uno.

Storia completamente assurda è infedele al proprio titolo; un uomo che meravigliosamente recuperasse tutto ciò che dobbiamo dimenticare per continuare a vivere correrebbe la sorte del suo eroe.

Una morte mentale espone un metodo personale di suicidio; non è difficile indovinare che questo drammatico racconto è l’appena velata confidenza di un piano che lo scrittore deve aver accarezzato in momenti di abbattimento e di solitudine.

L’ultima visita del Gentiluomo Malato presenta in modo intimo, nuovo e triste il secolare sospetto che il mondo — e nel mondo, noi — altro non sia che i sogni di un sognatore segreto.

Non voglio più essere quello che sono è l’espressione perfetta di un anelito che tutti gli uomini hanno sentito e che nessuno, che io sappia, ha mai scritto.

Chi sei? riferisce la scoperta atroce che non siamo nessuno, fuori dalle nostre circostanze e dalla certezza illusoria che ci danno gli altri, che anch’essi sono nessuno.

Un’altra scoperta, quella dell’anonimo e generico individuo che è l’uomo comune, ci aspetta ne Il mendicante di anime.

Il suicida sostituto narra l’inutile sacrificio di un uomo, che a trentatrè anni volontariamente muore per un altro; il racconto lascia presentire l’ancor lontana Storia di Cristo.

Due idee si uniscono in Lo specchio che fugge: quella del tempo che si arresta e quella della nostra vita pensata come un’insoddisfatta e infinita serie di vigilie.

Il giorno non restituito è un altro gioco col tempo, un gioco nostalgico e angoscioso, come tutti quelli di Papini.

Potremmo rimproverare a Papini il fatto che i suoi personaggi non vivono al di fuori della finzione che successivamente animano. Questo è un altro modo di dire che il nostro scrittore fu inguaribilmente un poeta e che i suoi eroi, sotto molteplici nomi, sono proiezioni del suo io.

Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato. I racconti di questo libro provengono da un epoca in cui l’uomo si reclinava sulla sua melanconia e sui suoi crepuscoli, ma la melanconia e i crepuscoli non sono scomparsi, anche se ora l’arte li veste con costumi diversi.

Jorge Luis Borges



Due immagini in una vasca

Solo per rivedere il mio viso in una vasca morta, piena di foglie morte, in un giardino sterile, mi fermai dopo tanto tempo nella piccola capitale? — Quando vi fui presso non pensavo di avere altra ragione che questa.

Tornando dal mare e dalle grandi città della costa, sentivo il desiderio delle cose nascoste, delle vie strette, delle mura silenziose e un poco annerite dalle piogge. Tutto ciò io sapevo di trovare nella piccola capitale, nella città dove per cinque anni avevo studiato, con dei maestri dalle classiche barbe bianche, le scienze più germaniche e più fantastiche.

Io ricordavo spesso la cara città, così sola in mezzo alla pianura, come un’esiliata — (ho pensato sempre che vi sono anche delle città esuli dalla loro vera patria) — senza fiume, senza torri nè campanili, quasi senza alberi, ma tutta calma e rassegnata intorno al gran palazzo rococò, in cui ciarla e dorme la corte. Per le vie, a ogni cento passi, c’è un pozzo e presso il pozzo una fontana e sopra ogni fontana un guerriero di terra cotta, dipinto d’azzurro e di rosso scialbo.

Io ricordavo pure la casa ove abitai negli anni del mio noviziato scientifico. Le mie finestre non si aprivano sulla piazza ma sopra un grande giardino, chiuso tra le case, ove c’era, in un angolo, una vasca recinta di rocce artificiali. Nessuno si curava del giardino: il vecchio signore era morto e la figlia, annoiata e devota, considerava gli alberi come dei miscredenti e i fiori come dei vanitosi.

Anche la vasca era morta per colpa sua. Non usciva più dal suo seno nessun zampillo. L’acqua sembrava così immobile e stanca come se fosse la stessa da un numero enorme di anni. Del resto le foglie degli alberi la coprivano quasi interamente e anche le foglie sembravano cadute là dentro in autunni miticamente lontani.

Questo giardino fu il luogo delle mie gioie finchè abitai nella piccola capitale. Io avevo la libertà di potervi andare ad ogni ora e quando i maestri non mi chiamavano, mi sedevo con qualche libro presso la vasca, e quando ero stanco di leggere o la luce scemava, cercavo di vedere i miei occhi riflessi nell’acqua o contavo le vecchie foglie e seguivo con estatica ansia i loro lenti viaggi al respiro ineguale del vento. Qualche volta le foglie si diradavano o si raccoglievano tutte verso il fondo e allora vedevo dentro l’acqua il mio volto e lo fissavo così lungamente che mi sembrava di non esistere più per mio conto, col mio corpo, ma di essere soltanto un’immagine fissata nella vasca per l’eternità.

Per questo io corsi subito al giardino, appena fui giunto alla piccola capitale. Erano passati molti anni, ma la città era rimasta la stessa. Per le stesse vie anguste passavano le stesse donne nane e giallastre, dalle cuffie sgualcite, e i guerrieri di terracotta, inutili e ridicoli, si appoggiavano all’elsa delle spade azzurre sopra le frequenti fontane.

Ed anche il giardino era com’io l’avevo lasciato — anche la vasca era com’io la vidi per l’ultima volta, prima di tornare alla mia patria. Qualche ciuffo di più nelle aiole, qualche foglia di più nella vasca e tutto il resto come nel tempo passato. Io volli ancora rivedere la mia faccia nell’acqua e mi accorsi ch’era diversa, assai diversa da quella ch’io ricordavo così lucidamente. L’incanto di quella vasca, di quel luogo mi riprese. Io mi sedetti sopra una delle scogliere artificiali e colla mano mossi le foglie morte per fare uno specchio più grande al mio volto impallidito e trasfigurato.

Stavo da alcuni minuti mirando la mia immagine e pensando alle leggi del tempo, quando vidi disegnarsi nell’acqua, accanto alla mia, un’altra immagine. Mi volsi impetuosamente: un uomo s’era seduto accanto a me e si specchiava accanto a me nella vasca. Lo guardai trasognato — lo guardai ancora e mi parve che mi somigliasse un poco.

Volsi ancora l’occhio alla vasca e contemplai di nuovo la sua immagine riflessa sul cupo fondo. In un momento mi accorsi della verità: la sua immagine rassomigliava perfettamente a quella ch’io riflettevo sette anni innanzi!

In altri tempi, forse, ciò mi avrebbe spaventato ed avrei certamente gridato come chi è preso nel cerchio di qualche invincibile ossessione. Ma io sapevo ormai che soltanto l’impossibile diviene qualche volta reale e perciò non fui per nulla atterrito. Porsi la mano all’uomo, che me la strinse, e gli dissi:

— Io so che tu sei me — un me passato da un pezzo, un me ch’io credevo morto, ma ch’io rivedo qui, come lo lasciai, senza un visibile cambiamento. Io non so, o me stesso passato, ciò che tu voglia da me presente, ma qualunque cosa tu chieda forse non saprò negartela.

L’uomo mi guardò con un certo stupore, come se gli fossi nuovo, e rispose dopo qualche momento di esitazione: — « Io vorrei stare con te un poco. Quando tu hai creduto di partire definitivamente io son rimasto qui, in questa città ove il tempo non scorre, senza muovermi, senza far niente, ad attenderti. Io sapevo che tu saresti tornato. Tu avevi lasciato la parte più sottile della tua anima nell’acqua di questa vasca e di quest’anima io ho vissuto fino a questo giorno. Ma ora vorrei ricongiungermi con te, starmene stretto con te, vivendo con te, ascoltando da te il racconto delle tue vite di questi anni. Io sono come tu eri allora e non conosco di te niente di più di quello che tu conoscevi allora. Tu comprendi la mia voglia di sapere e di ascoltare. Abbimi di nuovo tuo compagno, finchè non partirai ancora una volta da questa città esiliata dal mondo e dal tempo. »

Accennai col capo di sì ed uscimmo dal giardino colla mano nella mano, come due fratelli.

Cominciò allora per me uno dei periodi più singolari di questa mia vita, già così diversa da quella di ogni uomo. Io vissi con me stesso — col me stesso trascorso — alcuni giorni di impreveduta gioia. I miei due me andavano per le vie mal selciate, nel silenzio che regnava da tanto tempo nella piccola capitale — un silenzio che datava dal secolo decimottavo! — e parlavano insieme senza stancarsi cercando di ricordare le cose che videro, gli uomini che conobbero, i sentimenti che li agitarono, i sogni che lasciarono un amaro gusto nei loro spiriti. Le due anime — l’antica e la nuova — cercarono insieme l’università, silenziosa e sepolcrale come un monastero di montagna — si aggirarono nel giardino alla francese, dietro al palazzo rococò, dove le statue, monche e annerite, non degnavano più di uno sguardo i viali senza fine — e si spinsero fino al Liliensee, uno stagno male scavato che per decreto dei vecchi principi era giunto a ottenere il nome di lago. Io non posso ricordare quei giorni di passeggiate e di confidenze senza che il cuore, un momento, mi manchi! Ma dopo le prime ore di effusione, dopo i primi giorni di rievocazioni, cominciai a sentire un tedio inesprimibile ascoltando il mio compagno. Certe ingenuità, certe brutalità, certi modi grotteschi che egli mostrava continuamente, mi dispiacevano. Io mi accorsi, inoltre, parlando a lungo con lui, che era pieno d’idee ridicole, di teorie ormai defunte, di entusiasmi provinciali per cose ed uomini ch’io non ricordavo neppure più. Egli prestava fede a certe parole, si commoveva a certi versi, si esaltava dinanzi a certi spettacoli che a me invece ispiravano smorfie o sorrisi.

La sua testa era ancor tutta piena di quel romanticismo generico, a grandi masse, fatto di chiome disordinate, di montagne maledette, di foreste oscure, di tempeste e di battaglie con rullìo di tuoni e di tamburi e il suo cuore si disfaceva in quel pathos germanico (fiori azzurri, luna tra le nubi, tombe di fidanzate caste, cavalcate serali ecc.) del quale vivevano gli smilzi bellimbusti malinconici e le signorine bionde un po’ grasse.

Il suo ingenuo orgoglio, la sua inesperienza del mondo, la sua ignoranza profonda dei segreti della vita, che nei primi momenti mi divertivano, finirono collo stancarmi, col suscitare in me una specie di compassione sprezzante che a poco a poco giunse alla repugnanza.

Per alcuni giorni ancora io seppi resistere al mio desiderio di insultarlo o di fuggire; ma una mattina, dopo ch’egli ebbe declamato con grande enfasi un lied stupidamente commovente, io sentii che il mio disprezzo stava cangiandosi in odio.

« Eppure, io pensai, quest’uomo del quale rido, questo giovine ridicolo e ignorante, è stato, in altri tempi, me stesso. Egli è ancora, per qualche lato, me stesso. In questi lunghi anni io ho vissuto, ho veduto, ho indovinato, ho pensato ed egli è rimasto qui, nella solitudine, intatto, perfettamente uguale a quello ch’io ero il giorno in cui lasciai questi luoghi. Ora il mio me presente disprezza il mio me passato — eppure in quel tempo io credevo, ancor più di oggi, di essere l’uomo superiore, l’essere alto e nobile, il sapiente universale, il genio in attesa. E ricordo che allora disprezzavo il mio me passato, il mio piccolo me di fanciullo ignorante e non ancor raffinato. Ora io disprezzo colui che disprezzava. E tutti questi sprezzatori e sprezzati hanno avuto lo stesso nome, hanno abitato lo stesso corpo, sono apparsi agli uomini come un solo vivente. Dopo il me presente, un altro si formerà che giudicherà la mia anima di oggi com’io giudico oggi quella di ieri. Chi avrà pietà di me s’io non l’ho per me stesso? »

Mentre pensavo questo, l’antico me parlava e declamava. Io non avevo più niente da dirgli e tacevo, egli non aveva più niente da dirmi ma, invece di tacere, fabbricava delle frasi e recitava delle poesie orribilmente lunghe. Cosa c’era ormai di comune fra noi? Finiti i ricordi del passato lontano io non potevo parlare con lui del passato vicino, di tutto il mio mondo più recente di bellezze vedute, di cuori amati e spezzati, di paradossi improvvisati intorno alla tavola da the, e tanto meno del sogno doloroso che riempie ormai tutta la mia anima. Era inutile dirgli tutto ciò; egli non mi comprendeva. Il suono di certe parole che mi suggeriva tutta una scena, le associazioni d’idee di un profumo, di un nome, di un rumore non dicevano niente alla sua anima. Egli mi pregava di parlargli e se acconsentivo, mi ascoltava con curiosità ma senza sentire, senza capire, senza rivivere con me ciò che gli narravo. I suoi occhi si perdevano nel vuoto e appena tacevo ricominciava le sue declamazioni e le sue sdolcinature sentimentali.

Venne dunque un giorno in cui l’odio contro quel passato me stesso non seppe più contenersi. Io gli dissi allora con molta fermezza che non potevo più vivere con lui e che dovevo fuggire la sua compagnia per vincere il mio disgusto. Le mie parole lo sorpresero e lo attristarono profondamente. I suoi occhi mi guardarono supplicando. La sua mano mi strinse più forte.

— « Perchè vuoi lasciarmi — disse egli con la sua odiosa voce di passione teatrale — perchè vuoi lasciarmi ancora una volta così solo? Per tanto tempo ti ho aspettato in silenzio, per tanti anni ho contato le ore che mi avvicinavano a questi momenti! E ora che tu sei con me, che io ti amo, che noi parliamo delle pallide cose del passato, e dell’amore e della bellezza del mondo, e dei dolori delle creature, tu vuoi lasciarmi solo in questa città così triste, così lentamente triste? »

A queste parole non risposi che con una mossa di rabbia. Ma quando mi mossi per andarmene sentii il suo braccio che mi stringeva con violenza e sentii ancora la sua voce che mi diceva singhiozzando: — « No, tu non partirai. Io non ti farò partire! Io son così felice ora di poter parlare a qualcuno che mi può comprendere, a qualcuno che ha un cuore ancora bruciante, che viene dalle città dei viventi, che può ascoltare tutti i miei gemiti ed accogliere le mie confessioni. No tu non partirai, non potrai partire! Io non permetterò che tu parta! »

Anche questa volta non risposi e tutto il giorno restai con lui, senza parlare. Egli mi guardava in silenzio e mi seguiva sempre.

Il giorno dipoi mi preparai per andarmene ma egli si pose dinanzi alla mia porta e non mi fece uscire finchè non gli ebbi promesso che sarei rimasto ancora con lui per quel giorno.

Così passarono ancora quattro giorni. Io cercavo di sfuggirgli, egli mi teneva dietro ogni momento, tediandomi colle sue lamentazioni e impedendomi, anche colla forza, di partire dalla città. Il mio odio e la mia disperazione crescevano di ora in ora. Finalmente, il quinto giorno, vedendo ch’io non potevo liberarmi dalla sua gelosa vigilanza, pensai che un solo mezzo mi restava ed uscii risolutamente di casa, seguito dalla sua lamentevole ombra.

Andammo, anche quel giorno, nello sterile giardino ove tante ore avevo passato sotto la sua forma e colla sua anima, e ci accostammo, anche quel giorno, alla vasca morta ripiena di foglie morte. Anche quel giorno ci sedemmo sopra le rocce finte e allontanammo colla mano le foglie per contemplare le nostre immagini. Quando i nostri volti apparvero ambedue, vicini, sopra lo specchio cupo dell’acqua, io mi volsi rapidamente, afferrai il mio me passato per le spalle e lo gettai col viso sopra l’acqua, nel punto ove appariva la sua immagine. Spinsi la sua testa sotto l’acqua e la tenni ferma con tutta l’energia del mio odio esasperato. Egli tentò di dibattersi, le sue gambe si agitarono violentemente ma la sua testa restò nell’onda tremante della vasca. Dopo qualche minuto sentii che il suo corpo si accasciava e diveniva floscio. Allora lo lasciai ed egli cadde ancora più giù, verso il fondo dell’acqua. Il mio odioso me passato, il mio ridicolo e stupito me degli anni passati era morto per sempre.

Uscii con calma dal giardino e dalla città. Nessuno m’inquietò mai per questo avvenimento. Ed ora io vivo ancora nel mondo, nelle grandi città della costa, e mi sembra che qualcosa mi manchi di cui non ho il ricordo preciso. Quando la gioia mi assale con le sue stupide risa io penso che sono il solo uomo che ha ucciso se stesso e che vive ancora. Ma ciò non basta per farmi star serio.

Storia completamente assurda

Quattro giorni or sono, mentre stavo scrivendo con una leggera irritazione, alcune fra le più false pagine delle mie memorie, udii picchiare lievemente alla porta ma non mi alzai nè risposi. I colpi erano troppo deboli ed io non voglio aver che fare coi timidi.

Il giorno dipoi, alla stessa ora, udii battere di nuovo e questa volta i colpi eran più forti e più risoluti. Ma neppure quel giorno volli aprire perchè non amo affatto coloro che si correggono troppo presto.

Il giorno che seguì, e sempre alla stessa ora, i colpi furon ripetuti in tono violento e prima che potessi alzarmi vidi schiudersi la porta e farsi innanzi la mediocre persona di un uomo abbastanza giovine, col volto un po’ acceso e la testa coperta di capelli rossi e ricci, che s’inchinava goffamente senza far parola. Appena ebbe trovata una sedia vi si gettò sopra e siccome ero rimasto in piedi mi indicò la poltrona perchè mi sedessi. Quando l’ebbi ubbidito credetti di avere il diritto di chiedergli chi fosse e lo pregai, con voce non cortese, di comunicarmi il suo nome e la ragione che l’aveva forzato a invadere la mia stanza. Ma l’uomo non si scompose e mi fece capire subito che desiderava rimanere per il momento ciò che egli era per me: uno sconosciuto.

« La ragione che mi conduce da voi — proseguì sorridendo — è dentro alla mia borsa e ve la farò conoscere subito. »

Infatti mi accorsi che aveva in mano una valigetta di cuoio giallo sudicio con borchie di ottone consunto ed egli l’aprì in quel momento traendone fuori un libro.

« Questo libro — disse mettendomi innanzi al viso il grosso volume rivestito di carta nautica a grandi fiorami di rosso ruggine — contiene una storia immaginaria che ho creata, inventata, composta e copiata. Io non ho scritto che questa storia in tutta la mia vita e mi permetto di credere che non vi dispiacerà. Fino ad ora non vi conoscevo che di fama e soltanto da pochi giorni una donna che vi ama mi ha detto che siete uno dei pochi uomini che sappia non spaventarsi di se stesso e il solo che abbia avuto il coraggio di consigliare la morte a molti dei vostri simili. Per tutto questo ho pensato di leggervi questa mia storia la quale narra la vita di un uomo fantastico al quale accadono le più singolari ed insolite avventure. Quando l’avrete ascoltata mi direte cosa debbo fare. Se la mia storia vi piace mi prometterete di rendermi celebre dentro un anno — se non vi piace mi ucciderò dentro un giorno. Ditemi se accettate queste condizioni ed io incomincio. »

Vidi che non potevo far altro che continuare in quella condotta passiva che avevo tenuta fino allora e gli annunziai, con una smorfia che non mi riuscì di fingere amabile, che l’avrei ascoltato e avrei fatto tutto ciò che desiderava.

« Chi potrà mai essere — pensavo tra me — la donna che mi ama e che ha parlato di me a costui? Non ho mai saputo che una donna mi amasse e se ciò fosse accaduto non l’avrei permesso perchè non c’è posizione più incomoda e ridicola di quella che hanno gli idoli di un animale qualunque… »

Ma lo sconosciuto mi tolse a questi pensieri con uno scalpiccio poco eloquente ma chiaro. Il libro era aperto e la mia attenzione era reputata necessaria.

L’uomo cominciò la lettura. Le prime parole mi sfuggirono; alle altre fui più attento. Ad un tratto tesi l’orecchio e sentii un piccolo brivido per le spalle. Dieci o venti secondi dopo il mio viso si fece rosso; le mie gambe si mossero nervosamente — ancora dieci secondi e mi alzai. Lo sconosciuto sospese la lettura e mi guardò, interrogandomi umilmente con tutta la faccia. Io pure l’interrogai collo sguardo e, forse, quasi supplicando, ma ero troppo stordito per cacciarlo via e gli dissi semplicemente, come un idiota mondano qualsiasi:

« Continuate, vi prego. »

La straordinaria lettura continuò. Io non potevo star fermo sulla poltrona e i brividi mi percorrevano non solo le spalle ma la testa e tutta la persona. Se avessi veduto la mia faccia in uno specchio forse avrei riso e tutto sarebbe passato, perchè probabilmente doveva esser dipinta di abbietto stupore e di ferocia indecisa. Cercai per un momento di non ascoltare le parole del calmo lettore ma non riuscii che a confondermi di più e sentii tutta, parola per parola, pausa per pausa, la storia che l’uomo leggeva con la testa rossa inclinata sul ben legato volume. Che dovevo o potevo fare in quella singolarissima circostanza? Prendere il libro, strapparlo, calpestarlo, gettarlo nel fuoco? Afferrare il lettore maledetto, morderlo e lanciarlo fuori della stanza come un fantasma inopportuno?

Ma perchè dovevo fare tutto ciò? Eppure quella lettura mi dava un fastidio inesprimibile, una impressione penosissima di sogno assurdo e sgradevole senza speranza di risveglio. Credetti un momento ch’io avrei dato in furie convulsive e vidi con la immaginazione un infermiere incappato di bianco che mi poneva la camicia di forza con mille precauzioni sgarbate.

Ma finalmente la lettura finì. Non so quante ore fosse durata ma notai, pur nella mia confusione, che il lettore aveva la voce fioca e la fronte umida di sudore. Il libro fu chiuso e riposto nella valigetta e lo sconosciuto mi guardò con ansietà, per quanto i suoi occhi non fossero così avidi come prima. Il mio abbattimento era così grande ch’egli stesso se ne accorse e la sua meraviglia crebbe enormemente quando vide che mi strofinavo un occhio e non sapevo cosa rispondere. Mi sembrava in quel momento ch’io non avrei mai più potuto parlare e le cose più semplici ch’erano intorno a me apparvero ad un tratto al mio sguardo così bizzarre ed ostili ch’io n’ebbi quasi ribrezzo.

Tutto questo sembra molto vile e vergognoso anche a me e non ho nessuna indulgenza per il mio turbamento. Ma la ragione di quel mio scompiglio c’era e ben forte: La storia che aveva letta quell’uomo era la narrazione precisa e completa di tutta la mia vita intima ed esteriore. In tutto quel tempo io avevo ascoltato il rapporto minuto, fedele, inesorabile di tutto ciò che avevo sentito, sognato e fatto da quando ero apparso nel mondo. Se un essere divino, lettore dei cuori e testimone invisibile, mi fosse stato accanto fin dalla nascita e avesse scritto ciò che aveva veduto dei miei pensieri e dei miei atti avrebbe scritta una storia perfettamente eguale a quella che il lettore ignoto dichiarava immaginaria e inventata da lui. Tutte le più piccole cose e le più segrete eran ricordate e neppure un sogno o un amore o una viltà nascosta o un calcolo ignobile erano sfuggiti allo scrittore. Il terribile libro conteneva perfino degli avvenimenti o delle sfumature di pensiero che io avevo dimenticato e che ricordavo soltanto ascoltandole.

La mia confusione e la mia paura provenivano da questa esattezza impeccabile e da questa inquietante scrupolosità. Io non avevo mai conosciuto quell’uomo — quell’uomo affermava di non avermi mai conosciuto. Io vivevo molto solitario, in una città dove nessuno viene se non è forzato dal caso o dal bisogno, e a nessun amico, se pure potevo dire di averne, avevo mai confidato le mie avventure di cacciatore di frodo, i miei viaggi di predone di anime, le mie ambizioni di volontario dell’inverosimile. Non avevo mai scritta, nè per me nè per gli altri, una relazione completa e sincera della mia vita e proprio in quei giorni stavo fabbricando delle finte memorie per nascondermi agli uomini anche dopo la morte.

Chi dunque poteva aver detto a quell’uomo tutto ciò che narrava senza pudore e senza pietà nel suo odioso libro rivestito di carta antica color ruggine? E costui affermava di aver inventata quella storia e presentava, a me, la mia vita, tutta la mia vita, come una storia immaginaria!

Io ero terribilmente turbato e commosso ma di una cosa ero ben certo: quel libro non doveva esser comunicato agli uomini. Morisse pure quell’incredibile e infelice autore e lettore ma io non potevo permettere che la mia vita fosse divulgata e conosciuta nel mondo, fra tutti i miei nemici impersonali.

Questa decisione, che sentii ben ferma e salda dentro di me, cominciò a rinfrancarmi leggermente. L’uomo seguitava a contemplarmi con aria sbigottita e quasi supplichevole. Eran passati soltanto due minuti da che aveva cessato di leggere e non sembrava che avesse compreso le ragioni del mio turbamento.

Finalmente potei parlare.

« Scusate, signore — gli chiesi — voi assicurate che questa storia è proprio inventata da voi? »

« Precisamente — rispose l’enigmatico lettore già un po’ sollevato — io l’ho pensata e immaginata per lunghi anni ed ogni tanto ho fatto dei ritocchi e dei mutamenti nella vita del mio eroe. Tutto quanto, però, è di mia invenzione. »

Queste parole m’imbarazzavano sempre più ma riuscii a fare ancora un’altra domanda:

« Ditemi, vi prego, siete veramente sicuro di non avermi conosciuto mai prima di oggi? Di non aver mai sentito narrare la mia vita da qualcuno che mi conosca? »

Lo sconosciuto non potè trattenere un sorriso di meraviglia a queste parole.

« Vi ho già detto — rispose — che fino a poco tempo fa non conoscevo che il vostro nome e che soltanto da qualche giorno ho saputo che voi sapete consigliare la morte. Ma non ho saputo niente di più su di voi. »

La sua condanna era già decisa ed era necessario che non tardasse ad essere eseguita.

« Siete sempre disposto — gli chiesi con solennità — a mantenere i patti da voi stesso stabiliti prima di leggere? »

« Senza nessuna esitazione. — rispose con un leggero tremolio nella voce — Non ho altre porte a cui battere e quest’opera è tutta la mia vita. Sento che non potrei fare nessun’altra cosa. »

« Io debbo dunque dirvi — ripresi con la mia stessa solennità, ma temperata da una certa mestizia — che la vostra storia è stupida, noiosa, incoerente e abominevole. Quello che chiamate vostro eroe non è che un malandrino annoiato che disgusterebbe tutti i lettori delicati. Non voglio esser troppo crudele e dirvi ancora di più. »

Vidi bene che l’uomo non s’aspettava queste parole e mi accorsi con spavento che i suoi occhi si chiusero ad un tratto. Ma riconobbi subito che il suo potere sopra se stesso era eguale alla sua onestà. Immediatamente riaprì gli occhi e mi guardò senza spavento e senza odio.

« Volete accompagnarmi fuori? » mi chiese con voce troppo dolce per esser naturale.

« Certamente » risposi e messo in testa il cappello uscimmo di casa senza far più parola. Lo sconosciuto aveva sempre in mano la sua valigetta di cuoio giallo ed io lo seguii trasognato fino alla riva del fiume che correva gonfio e fragoroso fra le nere muraglie di pietra. Quando ebbe guardato attorno ed ebbe visto che non c’era nessuno che avesse l’aria di salvatore si volse a me dicendo:

« Scusatemi se la mia lettura vi ha seccato. Credo che non m’accadrà mai più di annoiare un essere vivente. Dimenticatevi di me appena vi sarà possibile. »

E queste furon proprio le sue ultime parole perchè scavalcò agilmente la spalletta e con slancio rapido si gettò nel fiume con la sua valigetta. Mi affacciai per vederlo ancora ma l’acqua l’aveva già accolto e coperto. Una bambina timida e bionda si era accorta del rapido suicidio ma non parve che la meravigliasse molto e continuò la sua strada mangiando delle nocciuole.

Tornai a casa dopo un certo numero di inutili tentativi. Appena fui nella mia camera mi distesi sul letto e mi addormentai senza troppi sforzi, come abbattuto e fiaccato dall’inesplicabile.

Stamani mi son destato assai tardi e con una strana impressione. Mi sembra di essere già morto e di attendere soltanto che vengano a seppellirmi. Ho dato immediatamente le disposizioni per il mio funerale e sono andato in persona all’impresa di pompe funebri perchè niente sia dimenticato. Di momento in momento aspetto che portino la cassa. Sento già di appartenere ad un altro mondo e tutte le cose che mi circondano hanno un’aria indicibile di cose passate, finite, senza nessun interesse per me.

Un amico mi ha portato dei fiori e gli ho detto che poteva aspettare a metterli sopra la mia tomba. M’è parso che abbia sorriso ma gli uomini sorridono sempre quando non capiscono nulla.

Una morte mentale

Di uno de’ suicidi più nuovi degli ultimi anni non si saprebbe la vera storia, se io non avessi il vizio di andare in cerca degli eccezionali colla speranza — quasi sempre superflua — d’incontrarmi con un grande.

Sappiamo tutti, noialtri, quanto sian difettose le statistiche — dico apposta difettose, nel senso di manchevoli. Per quanto alcuni equilibrati vegetanti vadano commiserando con grinta di terrore l’accrescimento continuo delle morti volontarie pure so, per conto mio, che non tutte vengono registrate. Fra i malati e gli uccisi — apparenti — i suicidi spesseggiano. Sono, forse, la maggioranza. Qualcosa mi spinge quasi a dire che ogni morte è volontaria. Ma come? In che modo?

Ahimè! In modi volgari, comuni, comunissimi! Mancanza di sapere, mancanza di volontà — pochi sono quelli che prevedono e possono —: un gettarsi incontro al destino quasi come uccelli dentro al serpe o pazzi nel rogo. Uomini che non hanno voluto vivere e hanno preferito il breve presente al lungo e certo avvenire. Leopardi approverebbe: ma chi può negare che quelle son vite troncate?

Il suicidio del quale ho saputo il mistero non rassomiglia a nessuno di quelli fin qui conosciuti. Nè la storia nè la cronaca ne raccontano un altro simile o uguale.

Era difficile trovare un mezzo non usato da nessuno. Tutti gli espedienti meno ovvii sono stati scoperti e messi in opera: ogni tanto i giornali, già sazi da tempo delle solite revolverate e de’ quotidiani avvelenamenti, ne raccontano qualcuno, come varietà curiosa, per far sorridere piacevolmente il lettore ottimista. Eppure egli lo trovò e lo praticò.

Conobbi il futuro suicida in un modo curioso. (Debbo avvertire che dalle persone che mi sono state presentate regolarmente non ho mai ricavato nulla di straordinario). Frugavo una mattina in un barroccino di libri vecchi e mi venne fra mano il primo volume della traduzione francese dei Besi di Dostojewski. Li avevo già letti da parecchio tempo e più volte; eppoi c’era il primo volume soltanto e non avevo, perciò, nessuna idea di comprarlo. Ma senza saper come cominciai a sfogliarlo e corsi istintivamente alle pagine in cui l’ingegnere Kiriloff espone con tanta semplicità le sue idee sul suicidio. Avevo già notato qua e là, ne’ margini, de’ segni violenti di matita rossa ma qui v’erano addirittura delle postille. Erano scritte con lapis nero e sbiadite. Pure le decifrai.

« Non così. — Va bene: bisogna superare il timor della morte e perciò prepararsi ad uccidersi ma non così. — Il suicidio colle mani: roba da macellai. Non si arriva… — Tener presente l’idea per il mio metodo. — Bisogna negare, distruggere la vita da sè, a poco a poco, non spezzare il corpo ad un tratto: è stupido… »

Queste poche righe, scritte per lungo, sui margini, esaltarono la mia curiosità come da un pezzo non mi accadeva.

Chi poteva essere costui che aveva scritto tali parole? E qual’era il suo metodo, la sua morte senza morire? Sfogliai ancora nervosamente il volume. Meravigliai: sul foglio di guardia, in principio, v’era quello che cercavo: un timbro — di quegli orribili timbri violetti d’uso commerciale — con un nome, un cognome e un indirizzo!

Ottone Kressler

Via delle Ruote, 25, p.° p.°

Detti due soldi al libraio e me ne andai a casa di corsa col libro in tasca. Appena fui nella mia stanza l’esaminai meglio: v’erano altre postille ma non aggiungevan nulla di più strano a quelle che avevo già letto laggiù. Bastavan quelle, però, perchè non avessi pace finchè non avessi trovato il padrone del libro. Ma sarà stato lui quello che ha scritto così? E quel nome tedesco del timbro sarà quello del padrone ultimo e del misterioso postillatore? E s’è lui sarà sempre nella stessa casa?

Qualunque congettura potessi fare non c’era da seguire che quel filo — l’unico. Non potevo stare alle mosse. Ripresi il libro e il cappello e riscappai fuori.

In pochi minuti — ho le gambe lunghe e la fretta de’ nervosi — fui al numero venticinque di via delle Ruote.

Suonai alla porticina sudicia della strada. L’uscio si aprì:

— Chi è?

Era una voce di bambino. Infatti, salite due rampe di scale, vidi nel vano della porta una ragazzetta sbiancata, con un grembiule rosso e a piedi scalzi:

— Chi cerca?

— Sta sempre qui il signor Ottone Kressler?

La bambina spalanca gli occhi e pensa. Poi, ad un tratto:

— Mamma! Mamma! Vieni.

Venne innanzi una donnetta sui quarant’anni, dal viso dispettoso, e sudicia come la figliuola. Mi guardò male:

— Chi voleva?

Ripetei il nome. Mi accorsi che la mia domanda non le fece assolutamente piacere.

— Che lo conosce? domandò sospettosa.

— Non lo conosco ma ho bisogno di vederlo subito, per affari.

La donna era incerta ma la paura prevalse:

— Non ci sta più qui da noi. Son tre mesi al 15 ch’è andato via.

— E dove sta ora?

— Non lo so.

— Proprio? E non c’è nessuno che lo può sapere?

— La provi qui dal vinaio accanto e domandi di Cecchino. Le lettere gliele pigliava lui.

Salutai e discesi. C’era, a due passi dalla casa, una di quelle fiaschetterie colle tendine rosse, color di sangue sudicio e di vino cattivo, con un fiasco dipinto sul cartone a sinistra. Entrai. Che puzzo! Per fortuna non c’era nessuno, neppure un’anima al banco.

— Ehi di bottega!

Sentii nel fondo buio un rimescolio di sgabelli e di paglia e mi venne incontro una donna col viso tutto acceso che mi squadrò tra confusa e minacciosa.

— C’è gente! urlò senza accostarsi.

Ed ecco dietro di lei venir fuori dalle tenebre un giovanottaccio biondo col grembiule turchino avvoltolato attorno alla cintola:

— Voleva?

— Scusi, è lei Cecchino?

— Sì, son io.

— Lo conosceva un certo signor Ottone Kressler che stava qui accanto?

— Lo conoscevo sicuro. Ma ora è andato via.

— E dov’è?

Vidi che anche lui non aveva nessuna voglia di rispondermi. Mi guardò un po’ fisso eppoi mi disse piano:

— Scusi, non per nulla, ma che ci avanza qualcosa? Perchè, per dirgli la verità, è un povero disgraziato e non sa nemmen lui cosa fa. Gli ha lasciato parecchi debitucci qui nella strada e mi parrebbe d’avere un peccato all’anima se gli mandassi dietro qualcuno. La spia non l’ho mai fatta, se Dio vuole, e campare campo lo stesso…

— Lei sbaglia: io non devo aver nulla da lui. Anzi se mai dovrei dargli e ho bisogno di vederlo per una cosa molto importante… Ma fino a oggi non l’ho mai visto.

— Badi: gli darà poca retta. Se vedesse che tipo buffo che gli è! E par che non si ricordi di nulla e che non gli importi di nulla. E a volte parla da sè… ma però è un buon ragazzo e quando ce n’ha non è tirato come tanti.

— Senta: mi hanno detto che lei sa dove sta ora: me lo dica. Farà un piacere anche a lui.

Il giovanotto mi guardò ancora fisso: poi sia che si fosse persuaso ch’io non ero nè una guardia nè un creditore, sia che gl’importasse poco il segreto, rispose:

— Se non l’hanno portato all’ospedale in questi giorni sta in via della Stufa al 2.

Ringraziai e venni subito via.

Da via delle Ruote a via della Stufa non c’è molto e ci giunsi senza avvedermene.

Il numero due era un di que’ vecchi palazzi fiorentini del quattro o cinquecento, coi finestroni ad arco tondo orlati di bugne rustiche in pietra forte e colla loggia — murata! — su in alto. Un po’ scortecciato e parecchio sudicio; finestre murate a metà; segni di avvilimento dappertutto.

C’era un portiere ciabattino che senza alzare il capo dalla scarpa e senza moto di sorpresa rispose alla mia domanda:

— All’ultimo piano, a destra.

Salii lo scalone disonorato da sputacchi e da ragnateli. In cima picchiai. Un’altra bambina aperse. Il signor Kressler era in casa e venne da sè incontro sulla soglia della camera sua a ricevermi. Forse scorderò cogli anni la sua figura ma fino a questo momento la serbo nitida, intatta e profondamente incisa nella mente.

Ottone Kressler era, come già pensavo tra me, alto e secco. Il suo viso allungato e stretto come se gli avessero compresso a forza le guance da piccolo, pareva la caricatura di un’apparizione hoffmanniana. Orbite profonde, incredibilmente profonde, con due bagliori in fondo; naso lungo, curvo, spirituale; bocca sinuosa ma non d’espressione femminile e voluttuosa bensì sarcastica e amara; denti accavallati; mento quasi a punta. Il viso era tutto rasato e tutto rosso ma non di quei rosso sano e naturale che si vede al sommo delle gote ma un rosso scuro, come di sangue battuto, che invadeva tutto, giù fino al collo. Era vestito male e aveva un soprabito bigio addosso e un cappellaccio in testa come se stesse per uscire.

La mia smania di trovarlo era stata così grande che non avevo pensato alle prime parole da dire, alle scuse ragionevoli della mia visita. Mentre mi avvicinavo non sapevo più cosa dirgli. La necessità mi decise per la franchezza.

— È lei il signor Kressler?

Il giovane accennò di sì.

— Avrei bisogno di parlarle subito.

L’altro mi accennò la sua stanza ed entrai. Era una camera grande e quasi vuota che dava sui tetti. Sopra una lunga cassa d’imballaggio era buttata una materassa e sopra la materassa un tappeto e un guanciale. Non v’eran seggiole: una poltrona sola, di giunco. Al muro, appese con funi, assi cariche di libri e in un cantuccio un leggio da musica, grande e nero e, per quel che mi parve, di solida e antica fattura. Il Kressler additò la poltrona e si sedette sopra il finto letto, guardandomi in viso zitto come se aspettasse da me tutte le spese della conversazione.

Non mi persi di coraggio: tirai fuori di tasca il volume di Dostojewski e glielo porsi:

— È suo questo libro?

— Era mio, tempo fa. Me lo presero con altri libri dove stavo prima e vendettero ogni cosa per pagarsi. Il secondo l’ho ancora. La padrona era ignorante…

— E questo scritto in margine è suo? — ripresi accennandogli le postille accanto ai discorsi di Kiriloff.

— È mio. Ma perchè?…

Il signor Kressler era calmissimo e appariva insensibile alla stranezza della mia visita e delle mie domande.

— Perchè, lo interruppi di colpo, perchè io ho letto queste parole e vi ho trovato l’accenno a un metodo, a un metodo nuovo di morte, a una morte senza mani, a un suicidio superiore. Sto occupandomi molto di ciò ed ho qualche idea… Io cerco tutti quelli che sentono la gravità della scelta e non si decidono alla sortita per una porta qualunque. Son venuto da lei perchè mi dica se questo metodo esiste, se veramente lei ha trovato qualche cosa e se questo qualche cosa sarà fatto…

Via via che parlavo il mio ascoltatore andava perdendo un po’ della sua calma. Dal fondo delle orbite le pupille si avvicinavano verso di me e l’occhio usciva dalla sua fossa come una bestia che si affaccia alla imboccatura della tana.

— Sì, sì… È questo! — esclamò — È mai possibile che qualcuno pensi seriamente a ciò — e in Italia! Lei è venuto da me per la questione della vera morte?

— Solamente per questo.

Il signor Kressler si alzò. Pareva commosso. La sua mano cercò e strinse la mia. Dovetti dirgli il mio nome. Gli vidi in faccia il desiderio di abbracciarmi.

— Si potrebbe parlarne ora. — ripresi — Ma lei usciva?

— No, no, non uscivo affatto. Sto sempre vestito così anche in casa. Non mi piace spogliarmi. Possiamo parlarne benissimo ora, subito, quanto vuole. Le racconterò tutto, le dirò tutto quello che vuole. Prima di morire l’idea sarà sua. Trasfusione e comunicazione: non ci avevo pensato; non avevo nessuno. Tanti orecchi ma quanti pochi cervelli! Eppoi qui! Forse in Germania… Ma non posso tornarci: la miseria! Guardi qui!

E mi accennava la stanza vuota, le travi del palco, i vetri delle finestre rotti e rimpiaccicottati con striscie di foglio.

— Lei vorrebbe la mia storia? Ma la mia storia comincia ora! Il primo capitolo della mia vita sarà l’ultimo, e l’epitaffio può fare anche da titolo. Ho nome tedesco; mio padre era bavarese, immigrato qua. Ma la mamma è italiana e vive ancora e non capisce nulla — come tutte le mamme. Facevo qualcosa come l’impiegato o lo scrivano in una bottega di macchine. Mio padre era un uomo moderno, all’industriale, e con qualche spruzzo di Bismarck. Cretino, del resto, e reso peggiore da Goethe e dal Chianti al quale s’era convertito negli ultimi anni. Ma io scrivevo copiavo sommavo e sempre c’era in me l’idea della vita. Solite storie: lei le saprà a memoria. Cos’è? Perchè? Dove si va? Val la pena di vivere? eccetera eccetera. La sera, invece di andar fuori, leggevo e chiedevo a tutti i libri quel che nessun uomo diceva. Volevo la vita, la più grande e bella vita possibile e non la vedevo intorno a me, neppure in quelli che, secondo gli altri, stavan bene. E gli ideali de’ filosofi non mi persuadevano. Cercai di praticarli uno dopo l’altro, e fu una corsa di speranze schiaffeggiate. Eppure senza un punto d’appoggio metafisico, razionale, non sapevo vivere. Mi sembrava desse più spregevole de’ cani che mangiano per elemosina, vanno fuori in museruola e pisciano a tutte le cantonate. Lasciai l’impiego e dovetti, per questo, separarmi dalla famiglia. Girai il mondo da me, a piedi, quasi senza soldi; chiedendo ospitalità o dando lezione di quel che capitava. Fui arrestato due volte ma liberato dopo pochi giorni. Arrivai fino in Germania: avevo la nostalgia della patria non vista. Camminavo poco ogni giorno. Appena trovavo un bel posto mi fermavo e mi stendevo sull’erba, nei campi, sulle panche di pietra delle piccole città tranquille. Veniva la sera, venivan le stelle; pensavo, dormivo. Mangiavo poco; bevevo alle fonti, colla bocca nelle pozze e ne’ fossi; dormivo alla peggio, ne’ capanni o nelle case de’ poveri. E pensavo, pensavo sempre. Pensavo anche dormendo. Tutte le risposte a quelle domande le conoscevo o le indovinavo eppure la luce mi venne da un altro — da un prete. Era un prete vecchio che incontrai un giorno dinanzi ad una chiesa di campagna. Andava su e giù per il prato a capo basso e mi vide così stanco e triste che mi salutò e mi chiese se volevo bere. Attaccammo discorso. Mi parve più intelligente de’ suoi compagni. Gli dissi qualcosa de’ miei dubbi, delle mie ricerche, della mia inquietudine. E fu allora che udii le parole che mi aprirono la mente ad un tratto:

— Ma non capite che il senso della vita sta nella morte e soltanto nella morte? Soltanto chi vorrà morire, chi sarà di già morto in questa vita fin da ora, soltanto costui godrà e assaporerà e conoscerà la vita!

Forse codeste parole eran l’eco di qualche luogo comune ascetico e prive, per lui, di ogni profondo significato. Forse le ripeteva da qualche zibaldone ecclesiastico, da cui le aveva ricopiate in seminario, per quel loro aspetto di santo paradosso. Non lo so; per me furono la scoperta, l’illuminazione, il principio della nuova esistenza.

La sera stessa, in canonica — dove il prete mi aveva invitato a mangiare e a dormire — le volsi e le rivolsi in tutti i sensi, le illuminai con tutte le luci de’ miei pensieri, e ne sgomitolai fuori quel che potevan contenere e più ancora. Oggi quelle verità mi son talmente familiari ch’io non so più quasi che farmene e se le richiamo ora è per darne notizia a lei: ma allora! Che il segreto della vita stia nella morte l’avevo sospettato da un pezzo ma in un senso negativo e fisico e nello stesso tempo così arrischiatamente trascendentale e fideistico che la mia mente non ci s’era voluto fermare a nessun costo. Un colpo di pistola: bum! eppoi la luce, la grande, l’eterna, la definitiva luce. Può darsi! Forse! E se poi non fosse? Il principe Amleto non era, per quanto voglian dire, un imbecille.

Ma qui, nelle parole del prete campestre, v’era di più: non già la rottura secca ad un tratto del cervello, della circolazione eccetera, per buttarsi nel mare speranzoso delle possibilità ma la morte nella vita, la realizzazione presente, attuale, immediata dello stato di morte nello stato di vita.

— Non capisce?

E il signor Kressler tacque un momento guardandomi dal fondo delle sue fosse illuminate. Non seppi lì per lì che rispondere, e in quella breve pausa di silenzio si udì aprire smanieratamente la porta. Apparve un uomo basso, livido, in maniche di camicia — un volgarissimo uomo, che mi richiamò invincibilmente l’idea di un calzolaio vizioso — che ci guardò tutti e due con arroganza.

Kressler appena lo vide s’alzò, corse verso di lui e uscì chiudendo dietro la porta. Subito dopo gridi e bestemmie e colpi di pugno sulle tavole e seggiole sbatacchiate… Non capii una parola: un confuso ronzìo di rabbia plebea riempiva penosamente la casa. Dopo tre o quattro minuti silenzio e Kressler riaprì la porta e di nuovo si buttò seduto sulla cassa. Era un po’ più pallido in viso e da un lungo graffio sulla fronte, proprio sopra al sopracciglio sinistro, scendevano grosse gocciole di sangue scuro e denso. Lo strano uomo prese il fazzoletto, se lo pigiò colla mano sulla piccola ferita e mormorò quasi per scusa:

— Vogliono mandarmi via in tutti i modi… Non avranno da aspettar molto…

Mi accorsi che se non ci fossi stato io gli sarebbe venuto da piangere. Quella scena improvvisa ed enigmatica mi aveva turbato: mi alzai per andar via. Quando Kressler se ne accorse si alzò anche lui e mi porse la mano. Non pensavo in quel momento alla mia curiosità e senza chiedergli altro gli dissi due o tre parole di saluto ed uscii.

Quando fui fuori della casa e della strada mi guardai intorno come se mi fossi svegliato allora da un sogno. La sera si avvicinava: tutte le cose avevan quell’aspetto spirituale e indeciso che succede immediatamente al tramonto e le fa sembrare come illuminate dal di dentro. Le botteghe si facevan gialle e bianche per i lumi; nelle strade non ancor tutte buie le ombre degli uomini correvano più veloci ma senza strepito. Il senso profondo della ripetuta e infinita inutilità di tutti gli sforzi, che ritorna alla fine di ogni morte di sole come la maledizione della sera, penetrava, forse anche nell’animo dei barrocciai silenziosi e delle ragazze sgattaiolanti. Andavo lento e pensieroso, sempre innanzi, senza saper dove fermarmi, cercando di ricordare le fattezze e le parole di lui quasi le avessi viste e ascoltate tanto tempo innanzi. Ma tutto mi distraeva — lo sguardo di una donna, la bestemmia di un ragazzo, le lettere luminose di un teatro. E ogni tocco di campana mi faceva rabbrividire: e le memorie e le nostalgie dondolavano a gara ma stanche nel buio turbinoso della mia mente.

Ad un tratto, accanto a me, una voce:

— Di qua, di qua — saremo più soli.

Mi voltai: era Kressler. Kressler, vestito come l’avevo trovato in casa, che mi guardava come se nulla fosse accaduto. Mi prese per il braccio e l’accompagnai. Era uscito di casa subito dopo di me e mi aveva seguito. Andammo verso il fiume: in fondo all’orizzonte c’era ancora una riga dritta, quasi bianca. Le fiamme gialle in doppia fila tremolavano lungo la calma corrente.

Kressler ricominciò a parlare:

— Credo che lei abbia capito di già. Io capii subito tutto, la prima sera. Badi che le parole del prete non dicono che un caso speciale di una legge ch’io credo e vedo universale. Non soltanto il segreto della vita è nella morte ma il segreto della luce è nelle tenebre, il segreto del bene è nel male, il segreto della verità è nell’errore, il segreto del sì è nel no! E allora ogni Faust che vuol vivere, ogni anima avida che vuol abbracciare la vita come si abbraccia un’amante per sentirla tutta, per baciarla tutta, per goderla tutta deve prepararsi a morire, deve mettersi dentro la morte. Se noi riusciamo, in qualche momento, a vivere intensamente, gli è che la vita è un lento morire e che ogni voluttà è uno dei tanti sobbalzi e rantoli di questa lunga agonia.

Da quel giorno io decisi di rinunziare alla vita, di farmi un’anima di morto — di morire rapidamente. Ma non a un tratto e non con mezzi esteriori e materiali. Esser già un cadavere prima che il seppellimento sia necessario — e suicidarsi in modo che la morte sembri naturale e involontaria. Ecco la mia scoperta: uccidersi con la volontà, con l’anima propria e non con l’armi, non con le mani, non coi veleni. Morire a forza di pensare di voler morire. Ed è quello che sto facendo. Ecco quel che voleva sapere da me. È contento?

Lo guardai stupito perchè pronunciò queste ultime parole quasi in tono di rabbia sprezzante. Ma tosto si riprese:

— Non ci badi: la morte non è ancora completa. La verità è che il suicidio come si pratica oggi e s’è praticato sempre mi fa schifo. Quel sangue dei coltelli, quelle contorsioni de’ veleni, quegli sfracellamenti delle cadute, quei colpi di revolver mi son parsi sempre qualcosa di basso, di brutto, di macellaresco, d’ignobile. Perchè distruggere il capolavoro del nostro corpo con quei tagli brutali e annegare la nobiltà dell’anima in quelle stragi disgustose? L’anima può tutto, l’anima è tutto, la volontà è signora del mondo. Basta voler morire, ma volere seriamente, fortemente, costantemente e la morte a poco a poco s’insedia in noi e ci penetra tutti sì che un soffio solo, dopo, ci può ribaltare di là. E volere, in questo caso, significa non volere. Per vivere noi vogliamo continuamente e per morire bisogna voler sempre meno e voler soltanto non volere. Tutta la vita è fatta di sforzi: non sforzandosi più, per niente, in nessuna maniera, la vita si vuota e si sgonfia da sè e l’accettazione del tutto e la rinunzia del tutto si equivalgono, si fondono, sono una cosa sola. Difficile è volere ma più difficile senza confronti è il non voler mai. Non ci sono ancor giunto. Io mi sto uccidendo ogni giorno e ogni ora ma ogni tanto, quando men l’aspetto, l’istinto demoniaco della resistenza e l’impulso pazzo del desiderio sempre ritornano a galla e mi ricacciano addietro, fra i vivi, fra tutti.

Ma son ormai più vicino alla morte, e perciò alla felicità, di tanti che cercano nella vita quel che la vita non potrà mai dare. Appena sarò morto tutto la vita mi riprenderà come suo figliuol preferito e non mi sarà negato nulla di quel che il sole illumina e colora. E ora, oggi stesso, pregusto già queste gioie. Per gli altri non son niente — non mangio, non leggo, non mi diverto, non amo, non gioco, non guadagno: son già mezzo morto. Appena respiro e mi muovo… Eppure non darei questi giorni per tutte le belle donne di Londra e tutte le casseforti di America. Quel che per gli altri è il cielo per me è una finestra e tutta la terra, coi suoi oceani, è uno scalino in cima a una torre e nulla più e nel silenzio della notte le musiche che mi arrivano all’orecchio son più voluttuosamente dolorose di quelle di Chopin e più misticamente solenni di quelle di Bach. Nessuna donna può essere così perfetta come quella che mi ama nel mio pensiero e che creo tutti i giorni, da capo a piedi, come il buon Dio della Bibbia, e tutti i sistemi e i concetti dei profondi maniaci che io e voi conosciamo son cerchi di carta e aquiloni senza filo di fronte al possedimento diretto della realtà fuori dalle inferriate dello spazio e dalle ore del tempo…

Kressler tacque a un tratto, come prima, quando l’uomo minaccioso era apparso nel vano della porta. Si guardò attorno cercando di sfuggire il mio sguardo. Mi parve che si pentisse di avermi parlato e che quasi se ne vergognasse.

— Mi dia il suo indirizzo, — riprese — l’avvertirò quando il momento sarà più vicino. Non venga più a trovarmi.

Gli detti il mio biglietto e ci separammo freddamente. Non ho mai veduto faccia più triste della sua in quella sera.

Per quattro mesi non seppi nulla di lui. Poche settimane fa una donna venne a cercarmi da parte sua.

— Cosa c’è — chiesi. — Sta male? Muore?

— Par di sì.

Corsi in via della Stufa. Lo trovai in un vero letto e in mezzo al bianco. Una signora vecchia era seduta vicino a lui e lo guardava. Era dimagrato ancora ma il rosso scuro del volto non era stato coperto dal pallore della fine. Mi accostai al letto.

— Avevo ragione, — mi sussurrò a bassa voce — la scoperta è fatta. La volontà è vinta. Son già morto. Fra poche ore o pochi giorni l’ultima apparenza di vita cesserà… Nessuno mi ha ucciso… Io solo… senza le mani… Che beatitudine! nessuna lingua umana potrebbe dire… sono morto… mi sono ucciso da me… basta volere… ognuno può imitarmi, lei sa il mio segreto… Questa è la vera via — l’unica…

La signora, mentre Kressler parlava, era inquieta: pareva che soffrisse orribilmente per la mia presenza.

Finalmente non potè resistere:

— Via di qua — mi gridò — via di qua, assassino!

Credo ch’ella fosse gelosa di me o forse mi credeva uno di quelli che secondo lei avevan fatto impazzire e morire il suo figliuolo. Kressler non si dette cura di smentirla e socchiuse gli occhi, come se non volesse sapere più nulla. Non pensai nè a discutere nè a persuaderla ed uscii di là col cuore in subbuglio.

Dopo due giorni Kressler moriva nel senso umano e scientifico della parola. Dietro al carro di seconda classe la carrozza della mamma traballava chiusa e lenta come un rimorso.

L’ultima visita del Gentiluomo Malato

Nessuno seppe mai il vero nome di colui che tutti chiamavano il Gentiluomo Malato. Non è rimasto di lui, dopo l’improvvisa scomparsa, che il ricordo dei suoi indimenticabili sorrisi ed un ritratto di Sebastiano del Piombo, che lo raffigura nascosto nell’ombra morbida di una pelliccia, con una mano inguantata che ricade giù floscia come quella di un dormiente. Qualcuno che lo amò di più — ed io fui tra quei pochissimi — ricorda anche la sua singolare pelle di un pallido giallo trasparente e la leggerezza quasi femminile dei suoi passi e lo smarrimento abituale dei suoi occhi. Amava parlare molto ma nessuno comprendeva tutto ciò che volesse dire e so di alcuni che non vollero comprenderlo, perchè le cose che diceva erano troppo orribili.

Era, veramente, un seminatore di spavento. La sua presenza dava un colore fantastico alle cose più semplici — quando la sua mano toccava qualche oggetto sembrava che questo entrasse a far parte del mondo dei sogni. I suoi occhi non riflettevano le cose presenti ma cose sconosciute e lontane, che quelli ch’eran con lui non vedevano. Nessuno gli chiese mai quale fosse il suo male e perchè mostrasse di non curarlo. Viveva camminando sempre, senza posarsi, giorno e notte. Nessuno seppe dove fosse la sua casa; nessuno gli conobbe padre o fratelli. Apparve un giorno nella città e dopo alcuni anni un altro giorno scomparve.

La vigilia di questo giorno, di primo mattino, quando appena il cielo cominciava a farsi bianco, venne a svegliarmi nella mia camera. Sentii la soffice carezza del suo guanto sulla mia fronte e lo vidi dinanzi a me, ravvolto nella pelliccia, colla sua bocca che portava eternamente il ricordo di un sorriso e i suoi occhi più smarriti del solito. Mi accorsi, dal rossore delle palpebre, che aveva vegliato tutta la notte e doveva aver atteso l’alba con grande ansia perchè le sue mani tremavano e tutto il suo corpo sembrava scosso dalla febbre.

— « Che avete? — gli chiesi — il vostro male vi tormenta più degli altri giorni? »

— « Il mio male? — rispose — il mio male? Voi credete dunque, come tutti, ch’io abbia un male? Che ci sia un male che sia mio? Perchè non dire ch’io sono, io stesso, un male? Non c’è niente che sia mio, intendete? Non c’è niente che mi appartenga! Ma io sono di qualcuno e c’è qualcuno a cui appartengo! »

Ero abituato ai suoi bizzarri discorsi e perciò non gli risposi. Continuai a guardarlo e il mio sguardo doveva essere molto dolce perchè egli si accostò ancora al mio letto e mi toccò ancora la fronte col suo molle guanto.

— « Non avete nessuna traccia di febbre — proseguì — siete perfettamente sano e tranquillo. Il vostro sangue cammina con calma nelle vostre vene. Posso dunque dirvi qualcosa che forse vi spaventerà; posso dirvi, e cioè, chi sono io. Ascoltatemi con attenzione, ve ne prego, perchè forse non potrò dire due volte le stesse cose, ed è pur necessario ch’io le dica almeno una volta. »

Dicendo questo si gettò in una poltrona paonazza accanto al mio letto e seguitò con voce più alta: — « Io non sono un uomo reale. Non sono un uomo come gli altri, un uomo di ossa e di muscoli, un uomo generato da uomini. Non son nato come i vostri compagni; nessuno mi ha cullato e ha spiato il mio crescere; non ho conosciuto nè l’inquieta adolescenza nè la dolcezza dei legami del sangue. Io sono — e voglio dirlo per quanto, forse, non vorrete credermi — io sono nient’altro che la figura di un sogno. Un’immagine di Guglielmo Shakespeare è divenuta per me letteralmente e tragicamente esatta: io sono della stessa stoffa colla quale son fatti i vostri sogni! Esisto perchè c’è uno che mi sogna; c’è uno che dorme e sogna e mi vede agire e vivere e muovere e in questo momento sogna ch’io dico tutto questo. Quando quest’uno ha cominciato a sognarmi ho cominciato ad esistere; quando si sveglierà cesserò di esistere. Io sono una sua immaginazione, una sua creazione, un ospite delle sue lunghe fantasie notturne. Il sogno di quest’uno è talmente duraturo ed intenso ch’io son divenuto visibile anche agli uomini che vegliano. Ma il mondo della veglia, il mondo della realtà concreta non è il mio. Mi sento così a disagio in mezzo alla volgare solidarietà della vostra esistenza! La mia vita è quella che scorre lentamente nell’anima del mio addormentato creatore…

« Non crediate ch’io parli per enigmi e per simboli. Quello che vi dico è la verità, tutta la semplice e tremenda verità. Cessate dunque dal dilatare le vostre pupille per lo stupore! Non guardatemi più con la vostra aria di pietoso sgomento!

« L’essere attore di un sogno non è ciò che mi tormenta di più. Ci sono poeti che hanno detto esser la vita degli uomini l’ombra di un sogno e vi sono filosofi che hanno suggerito che la realtà tutta è allucinazione. Io sono invece perseguitato da un’altra idea: chi è colui che mi sogna? chi è quest’uno, quest’essere ignoto ch’io non conosco e di cui sono la proprietà, che m’ha fatto sorgere ad un tratto dal buio del suo cervello stanco e che al suo risveglio mi spegnerà ad un tratto, come una fiamma a un improvviso soffio? Quanti giorni ho pensato a questo mio padrone che dorme, a questo mio creatore occupato dallo scorrere della mia effimera vita! Certo dev’essere grande e potente; un essere per il quale i nostri anni sono minuti, e che può vivere tutta la vita di un uomo in una delle sue ore e la storia dell’umanità in una delle sue notti. I suoi sogni debbono essere così vivi e forti e profondi da proiettare al di fuori le immagini, in modo da farle parere cose reali. Forse il mondo intero non è che il prodotto perpetuamente variabile di un incrociarsi di sogni di esseri simili a lui. Ma non voglio troppo generalizzare: lasciamo le metafisiche agli imprudenti! Basta a me la tremenda sicurezza di essere io l’immaginaria creatura di un enorme sognatore.

« Chi è dunque costui? Questa è la domanda che mi agita da lunghissimo tempo, fin da quando ho scoperto la materia di cui son fatto. Voi capite bene l’importanza di questo problema per me. Dalla risposta che potevo darne dipendeva tutto il mio destino. I personaggi dei sogni godono di un’assai larga libertà e perciò la mia vita non era del tutto determinata dalla mia origine, ma per molta parte in mio arbitrio. Bisognava però che sapessi chi era il mio sognatore per scegliere lo stile della mia vita. Nei primi tempi ero spaventato dal pensiero che poteva bastare la più piccola cosa per svegliarlo, cioè per annientarmi. Un grido, un rumore, un soffio poteva ad un tratto calarmi nel nulla. Io tenevo allora alla vita e perciò mi torturavo vanamente per indovinare quali fossero i gusti e le passioni del mio ignoto posseditore; per dare alla mia esistenza quelle attitudini e quelle forme che potessero essergli care. Tremavo ogni istante all’idea di commettere qualche cosa che potesse offenderlo, spaventarlo e perciò svegliarlo. Immaginai per qualche tempo ch’egli fosse una specie di paterna divinità evangelica e perciò m’industriai di menare la più virtuosa e santa vita del mondo. Qualche giorno invece pensavo che fosse un qualche eroe pagano e allora m’incoronavo coi larghi pampini della vite e cantavo inni da ubriaco e ballavo colle fresche ninfe nelle radure delle foreste. Credetti perfino, una volta, di far parte del sogno di qualche sublime ed eterno saggio, che fosse giunto a vivere in un superiore mondo spirituale, e passai lunghe notti vegliando sopra i numeri delle stelle e sopra le misure del mondo e la composizione dei vivi.

« Ma finalmente fui stanco e umiliato pensando di dover servire di spettacolo a questo padrone sconosciuto e inconoscibile; mi accorsi che questa finzione di vita non valeva tanta bassezza e tanta adulatrice viltà. Desiderai allora ardentemente ciò che prima mi faceva orrore, cioè il suo risveglio. Mi sforzai di riempire la mia vita di spettacoli tanto orridi da farlo destare per lo spavento. E tutto ho tentato per giungere al riposo dell’annientamento; tutto ho messo in opera per interrompere questa triste commedia della mia vita apparente, per distruggere questa ridicola larva di vita che mi fa simile agli uomini!

« Nessun delitto mi fu alieno: nessuna nefandezza mi fu ignota; da nessun terrore mi ritrassi. Uccisi con raffinate torture i vecchi innocenti; avvelenai le acque d’intere città; incendiai nello stesso istante le capigliature di una moltitudine di donne; sbranai coi miei denti, resi selvaggi dalla volontà di annientamento, tutti i fanciulli che trovai sul mio cammino. La notte cercai la compagnia dei mostri giganteschi, neri, sibilanti, che gli uomini non conoscono più; presi parte a incredibili imprese di gnomi, d’incubi, di coboldi, di fantasmi; mi precipitai dall’alto di un monte in una valle nuda e sconvolta, circondata da caverne piene di bianche ossa; e le fattucchiere m’insegnarono urli di belve desolate che fanno rabbrividire nella notte anche i più forti. Ma sembra che colui che mi segna non s’impaurisca di quello che fa tremare voialtri uomini. O gode alla vista di ciò che v’è di più orribile, oppure non se ne cura e non se ne spaventa. Fino a questo giorno non sono riuscito a svegliarlo e debbo ancor trascinare questa ignobile vita, servile e irreale.

« Chi mi libererà dunque dal mio sognatore? Quando spunterà l’alba che lo chiamerà alla sua opera? Quando suonerà la campana, quando canterà il gallo, quando echeggierà la voce che deve svegliarlo? Io attendo da tanto tempo la mia liberazione! Attendo con tanto desiderio la fine di questo sciocco sogno nel quale fo una parte così monotona!

« Quello ch’io faccio in questo momento è l’ultimo tentativo. Io dico al mio sognatore ch’io sono un sogno; voglio ch’egli sogni di sognare. È una cosa che accade agli uomini, non è vero? E accade allora che si sveglino quando si accorgono di sognare? Per questo son venuto da voi e per questo vi ho detto tutto ciò e vorrei che colui che m’ha creato si accorgesse in questo momento ch’io non esisto come uomo reale e nell’istante medesimo finirei d’esistere anche come immagine irreale. Credete che riuscirò? Credete che a forza di ripeterlo e di gridarlo sveglierò di soprassalto il mio invisibile proprietario? »

E pronunciando queste parole il Gentiluomo Malato si agitava sulla poltrona, si toglieva e si rimetteva il guanto della mano sinistra e mi guardava con occhi sempre più smarriti. Pareva che attendesse da un momento all’altro qualcosa di meraviglioso e di pauroso. La sua faccia prendeva delle espressioni da agonizzante. Fissava di tanto in tanto il suo corpo come se aspettasse di vederlo dissolvere e si accarezzava nervosamente l’umida fronte.

— « Voi credete tutto questo non è vero? — riprese — sentite che non mentisco? Ma perchè non poter sparire, perchè non esser libero di finire? Sarei forse parte di un sogno che non finirà mai? Il sogno di un eterno dormente, di un eterno sognatore? Scacciate dunque da me questa idea spaventosa! Consolatemi un poco; suggeritemi qualche stratagemma, qualche intrigo, qualche frode che mi sopprima! Ve lo chiedo con tutta l’anima. Non avete dunque pietà di questo annoiato spettro? »

E siccome continuavo a tacere egli mi guardò ancora una volta e s’alzò in piedi. Mi sembrò allora assai più alto di prima e osservai ancora una volta la sua pelle un poco diafana. Si vedeva che soffriva enormemente. Il suo corpo era tutto agitato: sembrava un animale che cerchi di svincolarsi da qualche rete. La dolce mano inguantata strinse la mia e fu l’ultima volta. Mormorando qualcosa a bassa voce egli uscì dalla mia camera e uno solo l’ha visto dopo quell’ora.

Non voglio più essere quello che sono

Y tan alta vida espero

Que muero porque no muero.

Santa Teresa

Soltanto dieci ore fa mi sono accorto della mia orribile condizione. Fino a dieci ore fa non sapevo ancora quello che di più orribile può essere al mondo. Credevo di essere da qualche anno un laureato in terribilità. Avevo provato, pensato, immaginato, sognato tutto quello che c’è, che sarà, che ci potrebbe essere di più pauroso, di più tormentoso, di più raccappricciante, di più mostruosamente e forsennatamente angoscioso. Sapevo le ansie delle attese notturne; le disperazioni degli ultimi baci; i tremori delle apparizioni silenziose; i deliri degli incubi; i sussulti degli orologi invisibili che battono nella notte delle ore eterne; gli spasimi dei supplizi impossibili; i gemiti esasperati delle anime senza asilo; la febbre errante dei colloqui demoniaci. Ma non sapevo ancora la più terribil cosa che può essere al mondo — non conoscevo il supplizio ultimo, il supplizio supremo. Dieci ore fa soltanto ho avuto la rivelazione, e già mi sembra che molte dinastie sian passate sulla terra e molti soli abbian lasciato il cielo.

Mi sforzerò di essere calmo. Mi sforzerò di essere chiaro. Sceglierò la formula più netta, più semplice, più naturale: Io mi sono accorto che non posso non essere me stesso. Mi sono accorto che non potrò mai — mai, capite? — che non potrò mai cessare di essere me stesso.

Forse non mi sono spiegato abbastanza. Ecco: io vorrei, dunque, cambiare. Ma cambiare sul serio — intendete? — cambiare completamente, interamente, radicalmente. Essere un altro, insomma. Essere un altro che non avesse nessuna relazione con me, che non avesse il minimo punto di contatto con me, che neppure mi conoscesse, che non mi avesse mai conosciuto.

I cambiamenti e i rinnovamenti per ridere li conosco da tanto tempo! Si tratta di spolveratine, di sgomberi, d’imbiancature. Si cambia la carta di Francia ma la camera riman sempre la stessa, — si cambia il colore del soprabito ma il corpo che ricopre è il medesimo — si cambian di posto i mobili, si attacca con piccoli chiodi un nuovo quadro, si aggiunge uno scaffale di libri, una poltrona più comoda, una tavola più larga, ma la stanza è la stessa — sempre, sempre, inesorabilmente, implacabilmente la stessa. Ha la stessa aria, la stessa fisionomia, lo stesso clima spirituale. Si muta la facciata e la casa, dentro, ha le stesse scale e le stesse camere — si muta la copertina, si muta il titolo, si mutano i fregi del frontespizio, i caratteri del testo, le iniziali dei capitoli, ma il libro racconta sempre la stessa storia, — sempre, sempre, inesorabilmente, implacabilmente, la stessa vecchia, uggiosa, lamentevole storia.

Io sono stanco ormai di codesta specie di cambiamenti e di rinnovamenti. Quante volte anch’io ho spazzolato accuratamente la mia povera anima! quante volte ho dato una tinta nuova al mio cervello! quante volte ho rimesso l’ordine nella confusione del mio cuore! Mi son fatto abiti nuovi, ho viaggiato in paesi nuovi, ho abitato in città nuove, ma ho sentito sempre, in fondo a me, qualcosa che resta, che resta sempre, ch’è me, ch’è sempre me stesso, che muta di faccia, di voce, di andatura, ma che resta eternamente, come un guardiano instancabile e inflessibile. Intorno a lui delle cose spariscono ma egli non ne tiene ricordo; intorno a lui delle cose compaiono ed egli non si fa indietro…

Ed ora io sono stanco di vivere con me stesso, sempre. Sono ventiquattro anni ch’io vivo in compagnia di me stesso. Ora basta: sono definitivamente annoiato. Annoiato soltanto? Ma neppure per sogno! Dite pure che io sono disgustato, ributtato, nauseato di questo me stesso col quale ho vissuto ventiquattro anni di fila.

Ed io credo, finalmente, di avere il diritto di lasciarmi. Quando una casa non ci piace più possiamo sloggiare; quando uno strumento non ci serve più lo gettiamo nell’acqua. E il mio corpo non è forse una casa, — capanna o tempio che sia? La mia anima non è forse uno strumento, — falce o lira che sia?

Eppure non posso sloggiare dal mio corpo e non posso gettare in qualche mare la mia anima. Tutte le volte ch’io mi approssimo a uno specchio rivedo la mia pallida e magra faccia, colla mia bocca semiaperta come assetata di vento o affamata di preda, coi miei capelli scompigliati e volubili come quelli di un selvaggio, coi miei occhi color di stagno crepuscolare, in mezzo ai quali si aprono le grandi pupille nere come tane di serpenti.

E ogni volta ch’io passo in rassegna il mio spirito, ritrovo le care ma solite conoscenze: volti che ghignano con disperata tenerezza, volti che piangono con un po’ di vergogna, volti misteriosi nascosti da ciocche di capelli troppo neri, e in lontananza echi di cabalette rossiniane e di arguzie di Diderot, di sinfonie beethoveniane e di versi di Lapo Gianni, di ariette di Scarlatti e di apoftegmi di Giorgio Berkeley, cadenze di flauti che accompagnano il ballo di frivole donne bianche, scrosci di organi sotto grandi mosaici d’oro e di violetto; e processioni di patrizi in vesti paonazze attraverso grandi sale, vuote e poco illuminate.

E tante e tante altre cose trovo e ritrovo nell’anima che mi fu così cara e che nutrivo con tanta abbondanza e addobbavo con tanto fasto. Ma è sempre la mia anima: qualcosa di quello che fu è ancora in lei, e nessuno potrà far sì che non ci sia stato mai.

Chi m’insegnerà dunque, tra questi uomini amanti di focolari e di fiori secchi, a liberarmi dal mio corpo e dalla mia anima? Chi potrà far sì ch’io non sia più io, e che mi tramuti in un altro, sì da non ricordarmi neppure di quello che son ora? Chi potrà, uomo o demonio, darmi quello ch’io chiedo con tutta la disperazione della mia anima furiosa contro se stessa?

Un vecchio demonio, poco fa, mi ha suggerito sgambettando un vecchio metodo: uccidermi. Ma io non ho nessuna fiducia in quel demonio. Lo conosco da poco tempo e ho motivi per credere ch’egli sia d’accordo coi becchini e gli epigrafai, giacchè l’ho visto più volte gironzolare attorno ai cimiteri. E d’altra parte, a che gioverebbe? Io non ho nessuna voglia di annientarmi, di non vivere. Io voglio essere, ma essere qualcosa d’altro; voglio vivere ancora, ma vivere un’altra vita. Non ho nessuna simpatia per il suicidio. Non ho mai amato troppo quel povero diavolo di Werther, che si uccise per non aver trovato una seconda bambola bionda, e non amo affatto i suoi imitatori, i quali, in generale, sono ancora più opprimenti di quel disgraziato sentimentale di provincia tedesca. Le pistole, coi loro tubi lucidi che si avanzano stupidamente nell’aria, mi sembrano inutili come strumenti di laboratorio: il veleno mi annoia anche nei romanzi inglesi d’intreccio italiano e quanto all’impiccagione la credo appena degna dei più cenciosi fra i miei nemici.

Non ho dunque nessuna voglia di non essere, ma ho una disperata e prepotente voglia di essere in altro modo, di essere un altro. Ed ho anche una disperata volontà di non essere quello che sono, perchè io son tale che voglio ciò che non potrò mai avere. Io voglio non essere me, perchè so che non potrò mai non essere me.

Eccomi giunto all’assurdo. Eccomi giunto al momento in cui nessuno può sapere ciò che io dico e ciò che voglio. Nessuno saprà mai quello ch’è in me, in questi paurosi momenti. Nessuno, proprio nessuno: neppure il più fine, il più psicologo, il più stendhaliano dei miei demoni familiari.

Esso è qui insieme a me. La sua faccia è più rossa, più gonfia del solito e sotto il suo berrettone di pel di lupo i suoi occhi semichiusi e furbissimi mi guardano con una calma imbarazzante. Egli ha visto quello che scrivo e più volte ha sorriso con soddisfazione indescrivibile. Ed egli mi dice, ora, in questo momento, con voce sarcasticamente carezzevole: « Ricordatevi, amico, di quel medico che cercava la mula mentre la cavalcava. Voi siete un poco come lui, stasera. Cercate di essere un altro. Ma chi ha un desiderio che nessuno ebbe, è già, dinanzi a tutti gli uomini, sulla migliore via per non essere ciò che è. E voi siete in questo caso, ottimo e frettoloso amico. Voi siete sulla soglia della vostra anima e forse — chi sa? — forse ne uscirete, se non avrete troppa paura dell’oscurità ch’è di fuori. »

E dette queste parole se n’è andato via a rapidi passi, lasciando nella mia stanza come un vago odore d’incenso.

Chi sei?

La cosa cominciò in un modo molto semplice.

Una mattina non ricevetti neppure una lettera. Da moltissimi anni ciò non m’era accaduto e fui sorpreso e stizzito. Io tenevo moltissimo alla posta come a una delle poche possibilità d’imprevisto che sian rimaste nella nostra vita e ogni giorno l’attendevo con una ansietà che diveniva quasi febbrile quando aspettavo qualche risposta importante. Fossero pur lettere di donne lontane che chiedono un amore ormai inutile — o di sconosciuti entusiasti che cercano di farti penetrare nella loro vita — o di amici dimenticati che a un tratto tornano fuori dal passato e ti raccontano i desideri e i pentimenti delle ultime tappe della vita — o di scopritori e profeti provinciali che ti impongono di accettare le loro sciocchezze oppure di confutarle o perfino di insignificanti uomini d’affari o di parenti di terzo grado, io le leggevo tutte con grandissima avidità. Lo spoglio del mio corriere quotidiano, che a quel tempo era abbastanza voluminoso, era diventato uno dei miei grandi piaceri.

E quella mattina io non ebbi nè una lettera, nè un giornale! L’impressione fu penosa ma breve. Supposi che si trattasse di un caso e previdi che il giorno di poi avrei ricevuto assai più lettere che all’ordinario.

Per distrarmi uscii di casa. La città era perfettamente eguale a quella del giorno prima. Le strade erano fiancheggiate dalle stesse case e nei soliti magazzini gli stessi commessi vendevano gli identici oggetti a indeterminati compratori. Le iscrizioni ch’ero solito vedere esistevano ancora senza cambiamenti. I carri che rotolavano sul selciato non differivano in niente da quelli che avevo veduto sempre. Gli uomini che correvano qua e là erano vestiti come all’ordinario. Per la prima volta provai una certa impressione di prigionia dinanzi a questa continuità di cose eguali. Ma pensai subito che la mia impressione era stupida e non seppi trovare nessuna ragione al fatto di trovarmi fuori di casa a quell’ora. Decisi di tornare indietro e quando ebbi traversato la piazza per imboccare nella mia strada incontrai un vecchio professore che avevo conosciuto fin da ragazzo e che spesso si tratteneva a parlare con me delle sue teorie sopra la moltiplicazione artificiale delle differenze. Lo salutai togliendomi il cappello e chiamandolo a nome ma il vecchio continuò il suo cammino senza accorgersi di me. Detti la colpa alla sua miopia e pensai d’altra parte che egli fosse sopra a pensiero e non gli piacesse esser fermato. Perciò non gli corsi dietro ma tornai a casa un po’ irritato per questa occasione perduta di distrarmi.

La giornata era incominciata male e decisi di non uscire più di casa. Mi consolai assaporando col pensiero il piacere delle innumerevoli lettere che mi sarebbero giunte la mattina dipoi. Passai la notte un po’ meno tranquilla del solito ma la mattina arrivò. Attesi l’ora della posta con ridicola impazienza. Passai circa mezz’ora alla finestra per veder giungere il portalettere. Finalmente lo vidi avvicinarsi a casa mia ma neppure quella mattina c’erano lettere per me! Questo silenzio ripetuto dei miei corrispondenti mi turbò moltissimo. Passai tutta la giornata a inventare dei pretesti, delle scuse, delle ipotesi per diminuire e spiegare questo fatto per me gravissimo. Sperai ancora una volta nel giorno dipoi. E venne la nuova mattina e per la terza volta non c’era nessuna lettera per me! Allora non seppi resistere. Scesi in istrada; chiamai il portalettere — che finse di non riconoscermi — e gli feci frugare la borsa fino al fondo per assicurarmi che non vi era proprio nulla. Mi venne allora uno stranissimo pensiero: che ci fosse una specie di congiura contro di me per separarmi dai miei amici e che qualche impiegato postale fosse uno dei complici. Non avevo assolutamente nessuna idea delle ragioni di questa congiura ma ciò che mi accadeva era così strano ch’io dovevo ricorrere per forza a delle supposizioni ancora più strane. Perciò corsi all’ufficio centrale delle Poste, parlai col direttore, feci fare delle ricerche e non fu trovato niente. Nessuno mostrava di conoscermi e tutti quanti furono molto meravigliati dai miei sospetti.

Uscii di là depresso e quasi umiliato e cominciai a camminare a caso per la città tormentandomi vanamente per comprendere le ragioni del singolare e improvviso silenzio che s’era fatto intorno a me. Passeggiando incontrai un compagno di caffè col quale scherzavo volentieri in certe serate d’inverno quando la nebbia è così densa che anche il volto di uno sciocco vi riconforta. Mi fermai dinanzi a lui sorridendo ma egli si scansò rapidamente e dopo avermi gettato uno sguardo di meraviglia si allontanò affrettando il passo.

« Sei diventato matto? — gli gridai con voce rabbiosa — Perchè non mi vuoi parlare? »

Non ebbi nessuna risposta e costui non si voltò neppure. Era noto come uno di quegli idioti allegri che si dicono burloni e alcune sue celie eran celebri. Supposi perciò ch’egli volesse ridersi di me fingendo di non riconoscermi e continuai a camminare senza occuparmi più di lui.

Ma continuando a riflettere sopra le cause del silenzio universale verso di me non potevo fare a meno di pensare anche alle persone che non avevano voluto riconoscermi. Sospettai che ci potesse essere una relazione tra le due classi di fatti ma vidi che a quel modo la questione diventava più oscura e preferii credere ancora a una serie di casi indipendenti.

Tornai a casa e scrissi molte lettere chiedendo cose qualunque pur di ottenere risposta oppure domandando le ragioni del silenzio a quelli che mi avrebbero dovuto scrivere in quei giorni. Quando l’ebbi impostate fui più tranquillo e mi parve ormai impossibile che le lettere non ricominciassero a venire. Però bisognava aspettare almeno due giorni e pensai di occuparli interamente — per sfuggire all’idea fissa — in alcune ricerche storiche che dovevo fare da molto tempo sopra l’improvvisa sparizione della famosa città di Semifonte.

Passarono, meno peggio degli altri, anche questi due giorni, ma il terzo non ricevetti nulla, e preso da una tristezza profonda pensai di chieder consiglio a uno dei più cari amici miei, uno studente di fisica che suonava meravigliosamente il violino. Mi recai subito a cercarlo. Mi dissero che era in casa e mi fecero passare nello studio. Egli entrò pochi momenti dopo. Invece però di stringermi la mano, di sorridermi e di chiedermi come stavo si fermò dinanzi a me chiedendomi:

— Con chi ho l’onore di parlare?

L’impressione di queste semplici parole fu terribile. In un attimo tutti i fatti precedenti mi tornarono alla memoria ed un sospetto spaventoso mi traversò la mente. Ma fui abbastanza forte per resistere ancora. Volli credere una volta di più allo scherzo e dissi tentando di sorridere:

« Sei matto stamani? Perchè fingi di non conoscermi? Non far più lo stupido ed offrimi subito una sigaretta. »

Le mie parole ebbero un effetto opposto a quello che attendevo. Il volto del mio amico si fece ancora più serio e vidi che istintivamente mise la mano alla tasca ove teneva abitualmente il revolver.

« Vi dico — disse egli con voce energica — che non vi conosco e non comprendo i vostri discorsi. Fatemi il piacere di dirmi chi siete o andatevene. »

Dinanzi a tanta tranquillità divenni come pazzo. Cominciai a pregarlo, a ripetergli cento volte il mio nome, a ricordargli mille cose viste insieme, a chiedergli cosa gli avevo fatto, per quale ragione voleva fingere di non conoscermi e finii coll’ingiuriarlo atrocemente dinanzi alla persistenza delle sue negazioni. Ma egli si stancò presto di questa scena.

— « Voi dovete essere ubriaco o pazzo. — mi disse duramente — Faccio a meno di chiamare la polizia per non aver noie ma intanto ve ne andrete immediatamente. » Mi spinse fuori della stanza, mi afferrò solidamente una mano e mi chiuse fuori di casa. Io ero più debole di lui e d’altra parte ero confuso, abbattuto, istupidito e non seppi neppure resistere.

Mi trascinai dolorosamente a casa. Appena fui giunto nella mia camera corsi allo specchio per vedere se la mia faccia fosse cambiata, se il mio aspetto fosse diventato improvvisamente diverso. Mi osservai lungamente ma non riuscii a scoprire la più piccola variazione.

Mi stesi sopra un divano col solo desiderio di dormire e di sentirmi annientato. Ma non riuscii neppure a chiudere gli occhi.

Un’idea fissa s’era impadronita di tutto me: Io dovevo aver commesso senza accorgermene qualche schifosa colpa e nessuno voleva più conoscermi. Ma per quanto io pensassi non potevo immaginare quale fosse questa colpa. In quel tempo conducevo una vita perfettamente virtuosa. Non giocavo, non avevo quasi rapporti con donne, non chiedevo denari a nessuno. Gli unici miei vizi erano l’amore smoderato del caffè e della filosofia indiana. Per quanto sapessi non avevo assassinato nessuno e non avevo svaligiato nessuna casa.

Eppure qualcosa doveva essere accaduto perchè tutti mi sfuggivano, fingevano di non conoscermi e non osavano neppure scrivermi. Questo senso di un cerchio di solitudine che volevano crearmi attorno mi fece tremare. Io stavo per essere tagliato fuori dalla società dei vivi. Volevano abolirmi col silenzio; fare di me, socialmente, un essere inesistente, un morto.

Ma io volevo assolutamente uscire da questa incertezza dolorosa — volevo sapere la causa per cui tutti volevano sopprimermi nella loro vita.

La sera, un po’ incoraggiato da qualche goccia di cognac, mi recai al gran caffè dove molti amici miei si trovavano per discutere delle solite sciocchezze del giorno. Andai dritto al tavolo dove alcuni di essi eran seduti. Tutti quanti si guardarono in faccia un po’ sconcertati e non mi risposero. Ormai ero abituato a quella commedia e perciò non ne fui molto turbato:

« Vedo — dissi loro con voce calma ed eguale — che anche voi fate come tutti gli altri e fingete di non conoscermi. Io son venuto qua da voi appunto perchè mi diciate la ragione di questo stranissimo contegno vostro. Io debbo aver commesso qualcosa di molto grave se anche i miei più vecchi amici mi cacciano di casa ma vi dichiaro sinceramente che non conosco affatto le accuse che mi si fanno. Ditemi voi cosa ho fatto. È l’ultima prova di amicizia che vi chiedo. Qualunque cosa mi diciate non verrò più ad importunarvi nè colla mia presenza nè coi miei discorsi. »

Avanti che avessi finito di parlare mi accorsi che la meraviglia dei miei compagni era straordinariamente cresciuta. Uno di loro cominciò a ridere senza riguardi; un altro — il più prudente — si alzò e si pose ad un altro tavolo. Io attendevo la loro risposta con tanta ansietà che il mio respiro era divenuto affannoso. Uno di loro, finalmente, mi disse a bruciapelo:

— « Ma lei, scusi, chi è? »

— « Non continuate, vi prego — ripresi con voce tremante — lasciate per un momento la vostra parte. Ditemi in nome d’iddio cosa vi ho fatto, per quale ragione mi trattate così. Ditemi… »

Ma non potei continuare. Tutti scoppiarono in una sonora risata. Appena il loro riso si fu calmato chiamarono il cameriere e si alzarono. Uno solo di essi, un buon ragazzo che aveva molta simpatia per me, si accostò e mi disse sottovoce:

— « Volete che vi accompagni a casa? »

Accettai l’invito ed uscii con lui. Speravo che avrei convinto almeno lui a dirmi qualcosa, ma tutto fu inutile. Egli mi rispondeva con molta condiscendenza, come si fa con un malato o con un pazzo, ma fino all’ultimo momento non volle confessarmi che mi conosceva.

— « State sicuro — mi ripeteva — voi non avete commesso nulla o per lo meno nessuno di noi ne sa niente. È un’idea che vi siete messa in testa ma vi passerà. Vi assicuro che nè io nè gli altri vi conosciamo e che non fingiamo chiedendovi chi siete. Cercate di calmarvi e se proprio tenete a essere mio amico verrò qualche volta a trovarvi. »

Quando fummo alla porta di casa mi lasciò con mille auguri e mi consigliò di dormire. Salii alla mia piccola camera e mi spogliai senza accorgermene. Non riuscii naturalmente a dormire. La mia posizione era così orribile che non potevo ancora abituarmi a crederla reale. Sentirsi completamente solo nel mondo, abbandonato ad un tratto da tutti, sotto il peso di qualche vergogna sconosciuta o di qualche condanna silenziosa è qualcosa di più pauroso e misterioso della morte. Io non esistevo più per gli uomini. Ero solo e maledetto. Io ero lo stesso ma tutti gli altri erano cambiati rispetto a me. Ero solo ma non solo sopra un’isola o su di una zattera, come un Robinson o un naufrago, colla speranza del salvatore o colla visione del ritorno, ma solo in mezzo a una grande città, solo in mezzo a una moltitudine, solo in mezzo a degli uomini che mi respingevano, mi negavano, mi tagliavano fuori della loro vita.

Verso la mattina il sonno mi prese ma cominciai a sognare tali cose che mi svegliai quasi subito gridando e piangendo per l’orrore. Non so come ebbi la forza di uscire ancora di casa.

La città era sempre la stessa, tutto era come per il passato. Gli uomini e le donne passavano e ogni tanto, quasi per farmi dispetto, passarono accanto a me uomini e donne ch’io conoscevo e nessuno di loro mi guardava, nessuno mi sorrideva, nessuno mi faceva un segno di saluto. Io ero come uno straniero capitato per la prima volta in quel giorno. Tutto quello che si riferiva a me era sparito dalle memorie. Io non esistevo più negli altri ma solo in me stesso. Mi pareva che la mia stessa anima fosse stata amputata, e che mi restasse solo un pezzetto, un piccolo centro al quale potevo dare ancora il nome Io. Mi sembrava che tutti quanti passavano mi chiedessero ragione della mia esistenza. Da tutte le parti credevo udire voci frettolose e meravigliate che chiedevano: chi siete? chi è lei?

E l’unica varietà stava nel pronome — nel voi o nel lei — ma tutti quelli che passavano mi gettavano in faccia la crudele domanda.

Allora tutte queste domande si fusero come in un coro, divennero una sola ed enorme domanda, una domanda ch’io stesso facevo a me stesso: Chi sei?

Quando mai avevo cercato di rispondere a questa domanda? Quando m’era venuto in mente di confessare a me stesso chi ero? Io sapevo il mio nome, la mia età, la mia patria, la mia statura — conoscevo un po’ la mia faccia, meno ancora la mia anima. Del futuro non sapevo dir nulla, del passato non mi restavano che pallidi blocchi di ricordi sovrapposti. Non avevo mai cercato di scoprirmi, non avevo mai tentato di conoscere il mio segreto, di affermare quale fosse il mio vero nome, il nome della mia razza, e non quello fittizio e ridicolo impostomi dal padre sul fonte battesimale.

Chi sei? chiesi finalmente a me stesso e appena sentii la gravità e la grandezza di questa domanda tutto il resto sparì. Non ricordai nè gli insulti, nè le risate, nè l’abbandono di tutti. Separato dagli altri io mi posi in faccia a me stesso e volli dimenticare tutto ciò che l’abitudine e l’opinione altrui avevano fatto della mia anima. Io avevo vissuto fino allora in un certo modo perchè gli altri mi avevano guidato o consigliato, perchè s’eran formate certe idee sopra di me che mi dispiaceva smentire, perchè mi ero trovato in mezzo a uomini dei quali, senza accorgermene, avevo imitato i gusti e adottati i valori. Ora gli altri mi rinnegavano e affermavano di non conoscermi ed io rinnegavo quello che c’era di loro in me stesso e non volevo riconoscere come mio ciò che loro mi avevano imposto. E senza paura domandavo ora a me stesso: Chi sei?

Tutte le altre voci s’eran taciute. Soltanto la mia domanda mi riempiva l’anima. E per molti giorni io vissi come in un sogno cercando faticosamente di darmi una risposta sicura.

Una notte, mentre sognavo una folla di ciechi che andavano per un prato coperto di erba folta, senza sentirsi, la risposta venne improvvisa.

Io sono uno per cui gli altri non esistono. Questa cecità e amnesia degli uomini verso di me era stata una prova che in nessun altro modo avrei potuto vincere. Gli uomini non mi conoscevano più ma io non ero stato soppresso. Avevo ritrovato me stesso, ed ora potevo ricominciare la mia vita e conoscere altri uomini, e senza più tremare.

La mattina, svegliandomi, mi sentivo felice come un fanciullo convalescente. Una curiosa sorpresa mi aspettava. Il portalettere mi consegnò un grosso pacco di corrispondenza ove trovai ciò che aspettavo fin dalla prima mattina di silenzio. La sera, al caffè, gli amici mi accolsero come al solito e non fecero la più piccola allusione alla loro avventura di poche sere innanzi. Fra loro c’era anche lo studente di fisica che mi aveva cacciato fuori di casa e che fu con me più espansivo del solito. Presto fui stanco della loro compagnia e li lasciai. Fuori trovai altra gente che mi salutava come prima e mi parlava con l’usata cordialità. Ero rientrato nel mondo. Gli uomini mi accettavano ancora una volta eppure io sentivo una curiosa stanchezza della loro compagnia, avevo come il senso di esser tornato da qualche paese lontano e di aver perduto il gusto di tutto ciò che vedevo.

Mai, dopo quel tempo, ho potuto spiegarmi la ragione di quella pausa della mia vita, in cui apparvi a tutti come un mentecatto straniero. Penso solo qualche volta che nel tempo ci debbono essere degli strappi e che soltanto io son vissuto in quei giorni, come in un intervallo, senza che gli altri se ne accorgessero. Ma perchè sembravano vivere come vivono sempre e come vivono anche oggi? Quella zona di mistero, quella interruzione nera che c’è nella mia vita così ordinaria mi ha turbato sempre e mi turba ancora più scrivendo questa storia. Anche in questo momento, a mezzanotte e mezzo, mentre scrivo nella mia stanza in mezzo a un silenzio pieno di respiri e di battiti lievissimi mi sembra di esser solo, irrimediabilmente solo in mezzo agli uomini, in mezzo al mondo: un’anima unica nel centro dell’universo. Infatti…

Il mendicante di anime

Avevo speso, di prima sera, gli ultimi cinque soldi che mi restavano per un caffè senza che la troppo abituale bevanda mi avesse data l’ispirazione che cercavo e di cui avevo immediata necessità. In quei tempi soffrivo quasi sempre la fame, fame di pane e di gloria, e nessun padre e nessun fratello era nel mondo per me. Il direttore di una rivista — un omone pallido e taciturno — accettava le mie novelle quando non aveva niente di meglio da pubblicare e mi dava ogni volta cinquanta lire, nè di più nè di meno, qualunque fosse il valore e la lunghezza di ciò che gli portavo.

In quella sera di gennaio l’aria era tutta piena di vento e di campane — di vento nervoso e ringhioso e di campane orribilmente monotone. Ero entrato nel grande caffè [luce bianca, facce sonnolente] ed avevo vuotato lentamente la mia tazza, sforzandomi di ridestare nel mio cervello qualche reminiscenza di avventure curiose, ostinandomi a punzecchiare la mia immaginazione perchè creasse una qualsiasi storia che mi desse da vivere per qualche giorno. Avevo bisogno, quella sera stessa, di scrivere una novella per andare la mattina dopo dal solito direttore il quale mi avrebbe anticipato abbastanza per poter mangiare fino alla sazietà. Stavo perciò dolorosamente intento al fiume dei miei pensieri, pronto a balzare sulla prima idea, sulla prima visione che si prestasse a riempire il mucchietto di fogli bianchi già numerati, pronto dinanzi a me. Passarono così quattro ore ed un quarto d’inutile e nervosa aspettazione. La mia anima era vuota, il mio spirito tardo, il mio cervello stanco. Rinunziai, posi sul tavolo gli ultimi soldi ed uscii. Appena fuori una frase, all’improvviso, s’impadronì del mio spirito — una frase che avevo sentita ripetere tante volte e di cui non ricordavo l’autore. « Se un uomo qualunque, anche comune, sapesse narrare tutta la propria vita, farebbe uno dei più grandi romanzi che si siano mai scritti. » Per circa dieci minuti questa frase mi riempì e dominò la mente senza ch’io fossi capace di trarne qualche conseguenza. Ma quando fui vicino a casa mia mi fermai ad un tratto e mi chiesi: « Perchè non farei questo? Perchè non racconterei la vita di qualche uomo, di qualche uomo vero, del primo uomo comune che mi capiti innanzi? Io non sono un uomo comune e d’altra parte ho raccontato tante volte me stesso nelle mie novelle che non saprei più cosa dire. Bisogna ch’io trovi ora, subito, un uomo qualsiasi, un uomo che non conosco, un uomo ordinario, e ch’io lo forzi a dirmi chi è e cosa ha fatto. Stasera ho assolutamente bisogno di una vita umana! Io non voglio chiedere a nessuno l’elemosina in denaro ma chiederò ed esigerò colla forza l’elemosina in biografia! » Questo progetto era così semplice e singolare che decisi di eseguirlo subito. Voltai le spalle alla mia casa e mi diressi verso il centro della città, dove, a quell’ora tarda, avrei potuto trovare ancora degli uomini. E così mossi, nuovo e strano mendicante, alla ricerca della vittima da sfruttare. Andai rapidamente, guardando innanzi, figgendo gli occhi in faccia ai passanti, cercando di scegliere bene colui che doveva saziare la mia fame. Come un ladro notturno o un aggressore tagliaborse mi posi in agguato a un crocicchio ed attesi che passasse l’uomo qualunque, l’uomo comune, dal quale implorare la carità di una confessione.

Il primo che passò sotto il lampione — era solo e mi parve di mezza età — non volli fermarlo perchè la sua faccia incisa da strane rughe era troppo interessante ed io volevo fare l’esperienza nelle condizioni meno favorevoli. Passò anche un giovinetto avvolto in un mantello ma i suoi capelli svolazzanti e i suoi occhi di mangiatore di haschich mi rattennero perchè indovinai in lui un sognatore, un fantastico, un’anima non abbastanza usuale e comune. Il terzo che passò, vecchio e completamente sbarbato, canticchiava fra sè, con cadenze di rimpianto, un motivo popolare spagnuolo, che doveva ricordargli tutta una vita piena di sole e di amore, una vita dorata, bacchica, meridionale. Neppur lui faceva per me e non lo fermai.

Io stesso non so ricordare con esattezza la mia rabbia di quei momenti. Immaginatevi questo singolare brigante mendico, affamato, eccitato, che aspetta a un crocicchio un uomo che non conosce, che desidera udire una vita che non sa, che brucia dalla voglia di gettarsi sopra una preda ignota. E quasi per un assurdo e dispettoso caso gli uomini che passano non sono quelli che cerca, sono uomini che portano in faccia i segni della loro eccezionalità e della loro vita non ordinaria. Quanto avrei dato in quei momenti per vedere dinanzi a me uno di quegli innumerevoli filistei, dalle facce rosse e tranquille come quelle dei maiali giovani, che mi avevano nauseato o divertito tante volte!

Ero ostinato e coraggioso, in quei tempi, ed attesi ancora sotto il fanale che a tratto a tratto si abbassava o splendeva secondo i soffi del vento. Le vie erano già deserte a quell’ora e il vento aveva diradati i nottambuli. Soltanto alcune ombre frettolose animavano la città. Una di queste ombre passò finalmente sotto il fanale ove attendevo e vidi subito che faceva per me. Era un uomo nè giovane nè vecchio, nè troppo bello nè spiacevole in viso, con gli occhi calmi, due baffi bene arricciati, coperto da un pesante pastrano in buono stato.

Appena mi ebbe oltrepassato di pochi passi lo raggiunsi e io fermai. L’uomo dette indietro per lo spavento ed alzò un braccio come a difendersi ma subito lo calmai: « Non temete di niente, signore, — gli dissi colla mia voce più melodiosa — non sono nè un assassino, nè un ladro e neppure un mendicante. Un mendicante, veramente, sì, ma non chiedo quattrini. Non ho da chiedervi che una sola cosa ed una cosa che non vi costa niente: il racconto della vostra vita. »

L’uomo spalancò i suoi occhi e di nuovo si ritrasse indietro. Mi accorsi che mi credeva pazzo e perciò continuai con la più grande calma: « Non sono quello che credete signore, non sono un pazzo. Sono soltanto qualcosa di simile, cioè uno scrittore. Debbo scrivere per domani un racconto e questo racconto mi salverà dalla fame ed io voglio che mi diciate chi siete e qual’è stata la vostra vita fin qui, perchè possa farne l’argomento della mia novella. Ho assolutamente bisogno di voi, della vostra confessione, della vostra vita. Non mi negate questa grazia, non rifiutate a un miserabile questo aiuto. Voi siete quello ch’io cercavo e colla materia che mi darete scriverò forse il mio capolavoro! »

A queste parole l’uomo parve commuoversi e non mi guardò più con terrore, ma piuttosto con pietà. « Se proprio la mia vita vi è così necessaria — disse — non ho nessuna difficoltà a raccontarvela, tanto più ch’essa è di una perfetta semplicità. Nacqui trentacinque anni fa da genitori agiati, onesti e ben pensanti. Mio padre era impiegato, mia madre aveva una piccola rendita. Fui l’unico figlio e a sei anni fui messo a scuola. A undici anni ebbi la licenza elementare senza ch’io avessi studiato troppo o troppo poco. A undici anni entrai al ginnasio, a sedici al liceo, a diciannove all’Università, a ventiquattro fui laureato sempre senza dar prove d’intelligenza troppo brillante o di stupidità irrimediabile. Quando fui laureato mio padre mi procurò un impiego alle ferrovie e mi presentò la mia fidanzata. Il mio impiego mi occupa otto ore al giorno e non richiede che un po’ di memoria e di pazienza. Ogni sei anni il mio stipendio aumenta automaticamente di duecento lire. Io so che a 64 anni avrò una pensione di 3453 lire e 62 centesimi. La mia fidanzata mi conveniva e la sposai dopo un anno. Non ci sono stati mai fra noi inutili sentimentalismi. Andavo a farle visita tre volte la settimana e due volte l’anno — per la sua festa e per Natale — le portai due regali e le detti due baci. Ho avuto da lei due figli: un maschio e una femmina. Il maschio ha dieci anni e farà l’ingegnere; la femmina ha nove anni e farà la maestra. Io vivo tranquillo, senza scosse e senza desideri. Mi alzo ogni mattina alle otto e alle nove di sera vado in un caffè ove parlo della pioggia e della neve, della guerra e del ministero con quattro colleghi dell’ufficio. Ed ora che vi ho contentato lasciatemi andare perchè è già passata di dieci minuti l’ora alla quale debbo tornare a casa. »

E detto tutto questo con grande calma l’uomo si mosse per andarsene. Rimasi per un momento come sconvolto dal terrore. Quella vita monotona, comune, regolare, prevista, misurata, vuota mi riempì d’una tristezza così acuta, d’uno spavento così intenso ch’io fui quasi per rompere in pianto e fuggire. Eppure mi trattenni ancora.

« Ecco — dissi fra me — il famoso uomo normale e comune in nome del quale i medici austeri ci disprezzano e ci condannano come dementi e degenerati! Eccolo l’uomo modello, l’uomo tipo, il vero eroe dei nostri giorni, la piccola ruota della grande macchina, la piccola pietra della gran muraglia — l’uomo che non si nutre di sogni malsani e di pazze fantasie. Quest’uomo ch’io credevo impossibile, inesistente, immaginario eccolo qua dinanzi a me — pauroso e terribile nella incoscienza della sua incolore felicità. » Ma l’uomo non attese la fine dei miei pensieri e si mosse per andarsene. Esterrefatto ancora, ma pure ostinato io gli fui dietro e gli chiesi:

— Veramente non c’è altro nella vostra vita? Non v’è accaduto mai nulla? Nessuno ha cercato di uccidervi? Vostra moglie non vi ha tradito? I vostri superiori non vi hanno perseguitato?

— Niente di tutto ciò m’è accaduto, — rispose con una cortesia un po’ seccata — proprio niente di ciò che mi dite. La mia vita è trascorsa calma, eguale, regolare, senza troppe gioie, senza grandi dolori, senza avventure…

— Proprio nessuna avventura, signore, — lo interruppi — proprio nessuna? Cercate di ricordarvi bene, frugate nella vostra memoria, non posso credere che non vi sia accaduto proprio nulla, mai, neppure una volta. La vostra vita sarebbe veramente troppo orribile!

— Vi assicuro proprio che non ho avuto nessuna avventura, — rispose l’Uomo Comune con un estremo sforzo di gentilezza — almeno fino a stasera. L’incontro con voi, signor novelliere, è stata la mia prima avventura. Se proprio ne avete bisogno, raccontate questa.

E senza darmi il tempo di rispondergli se ne andò toccandosi leggermente il cappello. Io rimasi ancora alcuni momenti fermo in quel punto come sotto l’incubo di una cosa incredibile. Tornai la mattina alla mia camera e non scrissi la novella. Da quella notte non riesco più a ridere degli uomini comuni.

Il suicida sostituto

Era inutile. Ogni sforzo sembrava aggravare l’inconveniente. Il cappellino di stoffa non voleva ricoprire a modo quella vergognosa calvizie, rigata dai rari capelli tirati che il parrucchiere distendeva tre volte la settimana attraverso il cranio, ultima barriera di ogni illusione assalonnica. Le manate che portavano il cappelluccio da destra a sinistra erano, secondo l’opinione inespressa del matematico presente, un puro sperpero d’energia. Il mio povero amico era più nervoso degli altri giorni. Una sola tazza di caffè — e di qual miserabile caffè! — l’aveva ridotto in quel modo. Non poteva star fermo: la seggiola si agitava sotto di lui con bassi grugniti e bruschi rimbombi soffocati dal pavimento. Le sigarette — n’aveva fumate due pacchetti in poche ore — gli avevan dato una specie di delirio confabulatorio che cominciava a impensierirmi. Dalla mattina presto, da quando era arrivato in città, non m’era bastato l’animo di lasciarlo solo. Probabilmente soffriva, ma non voleva parlare di ciò che lo faceva soffrire. A vederlo lì nel caffè, col lapis in mano, gli occhi stravolti, il cappello sopra una parete e la sigaretta spenta che veniva fuori obliqua e cascante da uno degli angoli delle labbra pavonazze, faceva quasi paura e già il cameriere di confidenza mi aveva chiesto all’orecchio perchè non lo portassi a casa.

Glielo proposi.

— A casa? — disse lui, guardandomi di traverso.

— E dov’è la mia casa? Io non ho pietra dove riposare il mio capo.

Queste ultime parole le pronunziò sorridendo leggermente ma riprese subito il suo accento tragico.

— Perchè — seguitò — non si deve aver il diritto di ripetere le parole di Cristo? Non siamo figliuoli dell’uomo come lui? Non dobbiamo bere il fiele come lui? E se un giorno volessi, non potrei essere straziato come lui?

Il matematico, che fin allora non aveva aperto bocca che per sorseggiare il suo cappuccino, si rivolse a me e fece cadere la sua breve sentenza come dall’alto della saggezza:

— Letteratura!

L’amico non gli rispose. Si tastò un’altra volta il povero cappello e chiamò ad alta voce:

— Piccolo!

Venne il bambino vestito di rosso, colla bocca larga di ranocchio.

— Una candela accesa!

Quando la candela fu dinanzi a lui, col suo bel reggisigari di ottone, poggiò la mano sopra la fiamma serrando la bocca.

— Che fai?

Cercai di ritirargli il braccio ma si difese coll’altro e tenne ancora la mano piegata a coltello sopra il fuoco. Tutta la gente del caffè aveva alzato la testa e ci guardava: accorse lo stesso padrone, serio serio, coi grandi occhi fuor dalla testa, senza saper cosa dire. Il matematico guardò l’orologio. Si cominciò a sentir puzza di bruciato. Alcuni signori si alzarono dicendo che era una porcheria e se ne andarono senza pagare.

Io detti una nuova stratta al braccio e spensi la candela. L’amico tirò fuori il fazzoletto, si fasciò la mano annerita e disse con voce d’odio:

— Ho fatto così per rispondere a quell’imbecille.

E si alzò. Lasciammo il caffè in mezzo al vocìo degli spettatori. C’era chi parlava di chiamar le guardie o un medico. Una signora affermava con enfasi:

— È un fachiro, è un fachiro!

Lasciammo le strade del centro in silenzio e traversammo il ponte per salire alla collina che tante volte aveva ospitato i nostri entusiasti conciliaboli. Il sole sprizzava lampi dall’oro della basilica e nel mezzo della facciata l’enorme Cristo in mosaico, coi capelli neri e gli occhi dilatati, contemplava duramente la città bassa, distesa ai suoi piedi, che non si curava di lui.

Ma non arrivammo fin lassù. Si lasciò il viale e si prese la scorciatoia che porta al prato degli ulivi. Sopra l’erba rasa si alzavano come il solito le sbrecciate mura repubblicane e su in alto le croci di marmo bianco del camposanto di lusso. Seduta a piè d’un albero una vecchia con uno scialle rosso si pettinava con raccoglimento, guardando ogni poco il pettine con singolare attenzione.

— Fermiamoci qui, — disse l’amico — Non ho voglia di camminare e volevo dirti qualcosa.

Ci sedemmo alla meglio sui massi che fiancheggiano la viottola. Si sentiva lo stridìo del tranvai nella curva del viale di sotto e una voce di bambina che chiamava insistentemente qualcuno. Il mio povero compagno pareva assai calmato al dolce vento dell’aria aperta, in quel nascondiglio solitario. Si tastava ogni poco la mano bruciata e se qualche lagrima involontaria non gli fosse luccicata tra i peli dei cigli si sarebbe detto un uomo come tutti gli altri. Ormai ogni vergogna era passata: aveva buttato via il cappellino di stoffa e la sua testa oblunga, nuda nel mezzo e sulla fronte, tutta rossa per l’iperemìa, si rinfrescava alla brezza crepuscolare.

— Sai quando son nato? — mi chiese dopo un bel pezzo di silenzio.

— So che hai trentadue anni passati, ma il giorno della nascita no davvero.

— Domani l’altro finisco trentatrè anni.

Disse queste parole a bassa voce come se mi rivelasse un gran segreto.

— E cosa vuol dire? — risposi colla mia solita stupidità antisentimentale. — Il tempo passa per tutti, e in fin dei conti non sei ancora vecchio.

Che disprezzo nei suoi occhi grigi! Li rivedo in questo momento come non li ho mai visti prima di quel momento. Non mi ero mai accorto che egli avesse degli occhi così potenti.

— Senti, — riprese — tu non capisci nulla. Ho sperato che tu potessi capire qualcosa più degli altri, e non ho perso tutte le speranze. Ti giuro che farò tutto il possibile, fino all’ultimo sangue, capisci? per salvarti.

— Ma spiegati una buona volta! — replicai tra il seccato e l’offeso — oggi non hai fatto che parlare di ogni cosa senza costrutto e ne hai dette di tutti i colori senza volermi far rispondere. Dianzi, al caffè, hai fatto quella dolorosa buffonata per far dispetto a un uomo che non ha nessuna importanza. Ora vieni fuori coi discorsi misteriosi e gli enimmi senza significato. Cosa vuoi? Vuoi salvarmi? E da chi? E come? Parliamoci chiaro, alla fine!

— « Ascoltami — riprese lui con voce mutata e quasi patetica — tu sai che ti ho sempre voluto bene e che sei stato l’unico uomo nel quale abbia sperato qualcosa. Ti ho sempre aperto l’animo mio, non tutto, ma più che agli altri. Ti ho scelto come compagno parecchie volte, ti ho scritto lettere che non puoi aver dimenticate. Ora scelgo ancora te per quest’ultima confessione e tu mi vuoi far sentire per forza che non ne sei degno. Ma non ho tempo da perdere, e non ti lascio. Non credere che faccia il matto o l’oscuro per rendermi più interessante. L’ho fatto altre volte perchè un po’ di ciarlataneria, se adoprata bene, aiuta anche il genio, ma oggi non ho voglia. Ti parlerò più aperto che posso. Ti ho detto che fra due giorni finisco trentatrè anni. Non l’ho detto per fare un po’ di letteratura nostalgica al cadere della giovinezza. Questa è veramente per me una data importante. Per gli altri uomini il passare dai trentatrè ai trentaquattro non significa nulla. È il cambiamento di una cifra e poco più. Per me, invece, si tratta di un istante estremamente grave. Trentatrè anni sono per me l’età sacra, l’età divina, l’età perfetta. Secondo me chi non s’è dimostrato capace di grandezza a questo momento non farà mai nulla di buono anche se campasse mill’anni. Quelli che non hanno realizzato a trentatrè anni il loro genio o non hanno dato una promessa certa per l’avvenire prossimo hanno un preciso e terribile dovere. A trentatrè anni fu ucciso Gesù. È questa l’età classica e solenne del sacrificio supremo. Chi non ha potuto dare l’anima sua agli uomini deve dare almeno la sua vita. Io mi trovo ora a questo passo. Ho pensato per lunghi anni di far qualcosa di più grande degli altri e mi sono strascicato dietro alla mia sterile incontentabilità fino a questo momento, sperando sempre nel miracolo e nel futuro. Ormai son condannato e rinunzio a tutto. Troncherò la mia esistenza perfettamente inutile. Finirò nello stesso giorno gli anni e la vita. Sono deciso fermamente a questa chiusura e nessuno potrà smuovermi. Mi sacrificherò anch’io per qualcuno e la mia morte non sarà vana come fu la mia nascita. Ascoltami bene, perchè qui si tratta di te. Io mi uccido proprio per te, mi uccido nel tuo posto, abbandono la mia vita per salvare la tua. Come ti ho detto, tu sei l’unico uomo nel quale abbia sperato. Negli ultimi tempi avrei voluto che tu facessi quel ch’io non potevo fare, che tu diventassi quel che non ero potuto essere. Ci sono in te momenti e semi di genio, sintomi di profonda diversità dagli altri. Ho sperato in te, spero ancora in te, per quanto tu non voglia capire nè quel che dico nè quel che aspetto. Da qualche tempo fai una vita che mi dispiace. Non leggi più, non lavori più, non vieni più a cercarmi. Ti sei imbrancato con degli imbecilli e quel che scrivi è robetta frigida, senza nerbo, da caffè, da salotto. Non ti vedo più andare in campagna, ma so che pratichi molte donne; non t’incontro più solo, ma con uomini che dovresti fuggire come la peste. Non sei più te: tutte le tue ambizioni ti son ricadute giù come ali rotte; tiri più a guadagnare che a spaventare, cerchi piuttosto di star bene che di salire più in alto. Non ti avevo mai detto queste cose così crudamente, ma le puoi ascoltare da un moribondo che ti vuol bene. Ho pensato, perciò, di fare un ultimo disperato tentativo per salvarti. Debbo morire dopodomani in tutti i modi, ma voglio che tu sappia ch’io muoio per te. Sei troppo attaccato alla vita e non hai il coraggio di ammazzarti. Dopo la caduta di questi ultimi mesi, se tu ripensassi a quel che sei stato e a quel che volevi essere, ti dovresti ammazzare, ma so che non lo farai. Io prendo il tuo posto e mi carico anche dei tuoi peccati. Non potendo sopportare più oltre lo spettacolo penoso della tua dimenticanza di te stesso, faccio quello che dovresti fare e che non osi. Mi uccido colla speranza che il mio morire per te sia una tale scossa per l’anima tua da rimetterla a galla e da cambiare la sostanza fino alla tua morte. Non s’ottiene niente senza sacrificio, senza sangue. Io mi sacrifico per te; il mio sangue lo spargo per la tua grandezza. Anch’io, come Gesù a trentatrè anni, vado volontariamente all’estremo supplizio. Egli morì per salvare tutti gli uomini; io, che non sono Dio, muoio per salvarne uno solo. Speriamo che il mio olocausto sia più fortunato del suo. Può darsi ch’io m’inganni e che tu sia già così infangato nella mediocrità che neppure l’impressione della mia morte possa rimetterti in piedi e farti ricordare del vero te stesso. Ma voglio sperare fino all’ultimo. Quando saprai che un uomo che tu stimavi s’è ucciso per il dolore di vederti così in basso e per la speranza di renderti al tuo vero destino, forse non sorriderai più come in questo momento. Io non scherzo. Saprai fra due giorni se ho fatto il buffone o se ti ho dato davvero la massima prova di amore che un uomo possa dare ad un altro uomo ».

Non l’avevo mai interrotto fino a quel momento e avevo ascoltato il lungo discorso senza poter fare a meno di sorridere scioccamente ogni tanto. Ma qualcosa volevo dire anch’io. Non posso dimenticare la logica neppure nei momenti più gravi.

— Scusa, — gli dissi con tranquilla ironia, — non ho capito bene se ti ammazzi perchè non sei stato buono a far nulla tu, oppure perchè vuoi forzare me a far qualcosa. Nel primo caso non ho nessuna forte ragione per commuovermi o scuotermi; nel secondo caso aspetterò l’esperienza, se pure hai parlato sul serio.

Non l’avessi mai detto! L’amico, senza neppur guardarmi, si ficcò in testa il cappello di stoffa e si allontanò subito da me, agitando convulsamente la mano rinvoltata nel fazzoletto. Tentai di seguirlo ma la sera scendeva e già un po’ di nebbia offuscava i viali deserti. Quel disgraziato correva disperatamente col suo passo sgangherato di uomo stanco. A una svoltata lo persi di vista e non potei capire dove fosse entrato. Cosa potevo fare? La data famosa è trascorsa ed io non l’ho più rivisto.

Lo specchio che fugge

Un impossibile mattino d’inverno, in una stazione ben nota, un uomo che non conosco — in soprabito, con due violette all’occhiello — voleva dimostrarmi che gli uomini son felici, che la vita è grande, che il mondo è bello. Io l’ascoltavo con interesse, scotendo ogni momento la cenere della mia sigaretta che si consumava al vento senza che mai la portassi alla bocca. L’ascoltavo e sorridevo e l’Uomo che non conosco si accalorava sempre più e già dall’humour passava al sentimento, all’entusiasmo, al delirio. La fuga delle sue parole rapide, scorrenti, salde, come fuse d’allora, come coniate di nuovo in qualche luogo, da poco tempo, mi riempiva di un’ebrezza molto simile a quella che dà lo champagne. Qualcosa di frizzante e di saltellante — un bisogno di abbracciare e di piangere, di danzare, di ridere a piccoli scatti…

A un certo momento la sua voce disse: « Pensate, signore, pensate alla grandezza del progresso che si compie sotto i nostri occhi — al progresso che porta gli uomini dal passato al futuro, da quello che non è più a quello che non è ancora, da quello che si ricorda a quello che si spera. I selvaggi non prevedono il futuro, non pensano all’avvenire; non prevedono e non provvedono. Ma noi, noi uomini civili, noi uomini nuovi, viviamo per il futuro e in grazia del futuro. Tutta la nostra vita è volta verso ciò che deve venire, è costruita in vista di ciò che accadrà. Gli uomini nostri consacrano l’oggi al domani, sempre, ogni oggi che passa al domani che passerà — rispettosamente e coraggiosamente.

« Questo enorme progresso dello spirito profetico è quello che fa svanire i pericoli, che ci dà in mano le forze, che fa scoprire nuove possibilità, che ci rende padroni della terra, del mare e del cielo e di una cosa che vale più di tutto ciò, o signore, — di noi stessi! »

Ma in quel momento un treno espresso arrivò nella stazione. Il suo rombo solenne nelle incrociature dei binari, il suo fischio breve, deciso, irritato, interruppero il discorso dell’Uomo che non conosco. Quando il treno fu in calma e non si udirono che i sordi sbuffi della macchina e i viaggiatori fuggirono, l’Uomo voleva ancora parlare ma io lo prevenni:

« Signor Uomo — gli dissi — questo treno ch’è giunto ora non le ha detto niente che faccia al caso nostro? Non ha intesa la sua risposta? Vuole che gliela ripeta io, umile traduttore, giacchè so tradurre la lingua dei treni e di molte altre cose? Fino a pochi minuti fa questo treno correva ad una velocità media di ottanta chilometri all’ora — piccolo mondo affollato e illuminato, attraverso la campagna solitaria e nebbiosa. Ed ecco ad un tratto s’è fermato e gli abitanti di questa piccola città in fuga sono scomparsi e il macchinista si asciuga la fronte con aria poco soddisfatta. Le ruote sono adagiate pigramente nelle rotaie e i vagoni vuoti e bui rimpiangono le chiacchiere dei viaggiatori e le variopinte valigie. Così finisce una fuga quando si viaggia su delle rotaie. Ma lasciamo il treno e torniamo agli uomini. In questo momento io penso una cosa assurda e la dico a lei, signor Uomo, e la dico perchè non ci sono qui delle moltitudini che possono sentirmi. Se ci fossero qui tutti quelli che desidero, direi:

« Immaginate, uomini, una cosa impossibile, una cosa assurda, pazza, incredibile e terribile. Immaginate che tutto il mondo si fermasse ad un tratto, in un certo istante, e che tutte le cose restassero in quel punto in cui erano e che tutti gli uomini diventassero immobili, quasi statue, in quella posa in cui erano in quel momento, in quell’atto che stavan compiendo… Se questo accadesse e che nonostante tutto ciò continuasse ancora negli uomini il pensiero, ed essi potessero ricordare e giudicare quello che fecero e quello che stavan facendo, e potessero considerare tutto quello che hanno compiuto fin dalla nascita e ripensare a quello che volevan compiere prima della morte, immaginatevi quanta disperazione brucerebbe sotto il tragico silenzio di questo mondo arrestato all’improvviso!

« Non so se voi avete il coraggio di sentire quanto ciò sarebbe orribile. Sforzatevi per qualche momento di vedere tutti questi uomini resi immobili mentre eran intenti alle loro opere, ansimanti dietro ai loro sogni, sobillati dalle loro sudicie passioni, spinti rudemente dai loro desideri. Vedeteli là, sparsi pel mondo, come sospesi da una catastrofe che li abbia trasmutati in fantocci pensanti, in statue disperate. Vedeteli nelle più schifose posizioni e nelle più ridicole, nelle più faticose e nelle più stupide. Ecco l’uomo sorpreso nel sonno pesante colla bocca semiaperta come un cadavere ubriaco — ecco l’uomo nell’atto d’amore, disteso come una bestia ansante sopra la donna dagli occhi chiusi — ecco l’uomo che rubava nelle tenebre coi suoi occhi falsi e la lampada che non si spegnerà più — ecco il giudice vestito di nero che dispensa l’inferno e il sangue sopra l’alto seggio — ecco il miserabile che striscia per il fango della città cercando un osso e un soldo — ecco la donna che sorride lascivamente colla faccia bianca di cipria, un po’ reclinata da parte — ecco il mercante dalle mani ossute che gesticola per avere dieci soldi di più — ecco il contadino affannato col pungolo in mano verso gli immobili buoi — ecco l’elegante oratore fermo a metà di un sorriso e di un complimento — e il soldato che stava con la baionetta inastata dinanzi una porta chiusa: e l’omicida che stava preparando i suoi veleni in una soffitta; e l’operaio sonnacchioso curvo sulle enormi macchine untuose, immobili e sinistre; e lo scienziato che non può ritrarre l’occhio stanco dal microscopio ove hanno interrotto la loro danza i mostri invisibili…

« Immaginate ora, se non vi manca il cuore, i pensieri di tutti questi uomini condannati in un istante medesimo alla coscienza della loro morte. Credete voi che ci sarà un solo uomo — un solo, intendete? — un solo uomo che sarà lieto e soddisfatto di quel momento in cui il destino l’ha reso immobile? Credete voi che per un solo di questi uomini fosse quello il momento di Faust, il momento bello che vorremmo fermare, fissare e conservare per l’eternità? Voi non credete certamente questo, non potete credere questo!

« Il signor Uomo — lei, qui presente, in faccia a me — ha detto una grande e tremenda verità. Gli uomini pensano il futuro, vivono per l’avvenire, consacrano perpetuamente tutti gli oggi a dei domani che devono venire. Ogni uomo non vive che per quello che prevede, aspetta e spera. Tutta la sua vita è fatta in modo che ogni istante ha valore per lui soltanto in quanto egli sa che questo istante prepara un istante successivo, ogni ora un’ora che verrà, ogni giorno un giorno che seguirà. Tutta la sua vita è fatta di sogni, d’ideali, di progetti, di aspettative — tutto il suo presente è fatto di pensieri intorno al suo futuro. Tutto quello che è, ch’è presente, ci sembra oscuro, meschino, insufficiente, inferiore, e noi ci consoliamo soltanto pensando che tutto questo presente non è che una prefazione, una lunga e noiosa prefazione al bel romanzo dell’avvenire. Tutti gli uomini, lo sappiano o no, vivono per questa fede. Se ad un tratto si dicesse loro che fra un’ora dovranno tutti quanti morire, tutto ciò che fanno e hanno fatto non avrebbe per loro nessun gusto, nessun sapore, nessun valore. Senza lo specchio del futuro la realtà attuale sembrerebbe turpe, lurida, insignificante. Senza il domani che fa sperare nelle rivincite, nelle vittorie, nelle ascensioni, nelle promozioni e negli aumenti, nelle conquiste e negli oblii, gli uomini non consentirebbero più a vivere. Senza il lontano profumo del domani essi non vorrebbero mangiare il nero pane dell’oggi.

« Pensate dunque a questi uomini fermati ad un tratto, che non possono agire più ma che pensano ancora. Pensate a questi uomini imprigionati in un eterno oggi, senza la liberazione della coscienza. Cosa debbono pensare questi uomini? Quale strazio deve rodere le loro viscere e recidere i loro nervi! Immobili nelle loro pose vergognose e delittuose, tristi e idiote, senza possibilità di speranza, senza luce di sogni, senza dolcezza di progetti, colle ali tagliate, le gambe legate, le mani incatenate, come un’enorme folla di prigioni michelangioleschi costretti nei vincoli della loro vita meschina, melanconica, schifosa; nei vincoli di quella loro vita ch’essi sopportavano soltanto colla speranza e l’aspettazione di vite più belle e più grandi, essi, questi condannati alla perpetua inazione, riconosceranno, con infinita rabbia, tutta l’assurda stupidità della loro vita anteriore. Essi penseranno che tutto il presente era da loro sacrificato a un futuro che a sua volta sarebbe diventato presente e sacrificato a sua volta a un altro futuro e così fino all’ultimo presente, fino alla morte. Tutto il valore dell’oggi era nel domani e il domani valeva soltanto per un altro domani e giungeva così l’ultimo oggi, l’oggi definitivo, e così tutta la vita era trascorsa per preparare di giorno in giorno, di ora in ora, di momento in momento ciò che non viene mai. Ed essi scopriranno questa tremenda cosa: che il futuro non esiste come futuro, che il futuro non è che una creazione e una parte del presente e che il sopportare la vita inquieta, la vita triste, la vita dolente, per questo futuro che di giorno in giorno sfugge e si allontana, è la più dolorosa stoltezza di questa stoltissima vita.

« Uomini, noi perdiamo la vita per la morte, noi consumiamo il reale per l’immaginario, noi valutiamo i giorni sol perchè ci conducono a giorni che non avranno altro valore che di portarci altri giorni simili a loro… Uomini, tutta la vostra vita è un’atroce frode che voi stessi ordite a vostro danno e soltanto i demoni possono ridere freddamente della vostra corsa verso lo specchio che fugge! »

Un altro espresso, gridando e tuonando, entrò nella stazione ed ancora una volta i viaggiatori fuggirono e il macchinista si asciugò la fronte con aria poco soddisfatta. L’Uomo che non conosco era sempre dinanzi a me — in soprabito, con due violette all’occhiello — per quanto l’avessi dimenticato del tutto.

« Ecco — gli dissi — le mie idee sul progresso, sull’avvenire e sulla vita. Lei non è certo d’accordo con me ma io son d’accordo con qualcuno — ad esempio colla nebbia che cerca spesso di coprire il mondo e di nascondere l’uomo all’uomo, la miseria al disprezzo, la bruttezza alla malinconia. Ed io amo moltissimo, signor Uomo, i treni che si fermano dopo le inutili fughe e la nebbia che vela ciò che non si può distruggere. »

L’Uomo che non conosco era diventato nervoso e tutto il suo entusiasmo era sparito come un fiocco di fumo. Invece di rispondere tolse dall’occhiello una delle sue violette e me l’offerse. Io la presi con un inchino, l’avvicinai alle narici e il suo lieve odore mi piacque.

Il giorno non restituito

Io conosco molte vecchie e belle principesse ma soltanto di quelle così povere che hanno appena una piccola cameriera vestita di nero e son costrette ad abitare in qualche degradata villa toscana, in una di quelle nascoste ville ove due cipressi polverosi fanno la guardia a un cancello murato.

Se ne incontrate qualcuna nel salotto di una contessa vedova e fuori di moda chiamatele Altezze e parlate loro francese, in quel francese internazionale, classico, incoloro, quale potete impararlo nei Contes Moraux dell’abate Marmontel — nel francese, insomma, della « gens de qualité ». Le mie principesse risponderanno quasi sempre e dopo che sarete penetrati nelle loro povere anime — piccole e piene di polvere e di cianfrusaglie come oratorî della fine del Seicento — vi accorgerete che la vita può essere accettata e che nostra madre non è stata tanto sciocca quanto poteva sembrare mettendoci al mondo.

Quanti straordinari segreti mi hanno mormorato le mie belle e vecchie principesse! Esse amano molto la cipria ma forse ancor più la conversazione e per quanto siano tutte tedesche — una sola è russa, ma per caso — il loro delizioso francese ancien régime mi dà qualche volta delle emozioni niente affatto ordinarie, e in certi momenti il mio cuore si disfà e mi vien quasi voglia — lo confesso — di piangere come uno stupido innamorato.

Una sera, non troppo tardi, nel salotto di una villa toscana, seduto sopra una poltrona impero, presso la tavola ove del the eccessivamente annacquato mi era stato offerto, io tacevo insieme alla più vecchia e alla più bella delle mie principesse.

Era vestita di nero, la sua faccia era coperta da una veletta nera e i suoi capelli, ch’io sapevo bianchi e sempre un po’ ricciuti, eran coperti da un cappello nero. Sembrava che intorno a lei ci fosse come un’aureola di oscurità. Ciò mi piaceva e mi sforzavo di credere che quella donna fosse soltanto un’apparizione provocata dalla mia volontà. La cosa non era difficile perchè la stanza era quasi all’oscuro e la sola candela accesa illuminava unicamente e debolmente il suo volto incipriato. Tutto il resto si confondeva col buio in modo ch’io potevo credere di aver dinanzi a me soltanto una pensile testa, una testa staccata dal corpo e sospesa circa ad un metro da terra.

Ma la Principessa cominciò a parlare e ogni altra fantasia era impossibile in quel momento.

— « Ecoutez donc, monsieur — mi diceva — ce qui m’arriva il y a quarante ans, quand j’etais encore assez jeune pour avoir le droit de paraître folle. » E continuò con la sua gracile voce narrandomi una delle sue innumerevoli storie d’amore: un generale francese era diventato attore per amor suo ed era stato assassinato di notte da un pagliaccio ubriaco.

Ma io conoscevo già quel suo genere di immaginazione e volevo qualche altra cosa più strana, più lontana, più inverosimile. La Principessa volle esser gentile fino all’ultimo:

— « Mi costringete — disse — a raccontare l’ultimo segreto che mi resta e ch’è rimasto sempre segreto appunto perchè più inverosimile di tutti gli altri. Ma so che debbo morire fra qualche mese, avanti che finisca l’inverno, e non son sicura di trovare un altro uomo che s’interessi come voi alle cose assurde…

« Questo mio segreto cominciò a ventidue anni. Io ero in quel tempo la più graziosa principessa di Vienna e non avevo ancora ucciso il mio primo marito. Questo avvenne più tardi, dopo due anni, quando m’innamorai di… Ma voi conoscete già questa storia. Passons! — Accadde dunque che alla fine del mio ventiduesimo anno ricevetti la visita di un vecchio signore, decorato e sbarbato, il quale chiese di parlarmi per due minuti in segreto. Appena fummo soli mi disse: Ho una figlia che amo immensamente e ch’è molto malata. Ho bisogno di darle della vita e della forza e perciò vo cercando degli anni di gioventù da comprare o da prendere in prestito. Se volete darmi uno dei vostri anni ve lo renderò a poco a poco, giorno per giorno, avanti che finisca la vostra vita. Quando avrete compiti ventidue anni invece di passare al ventitreesimo vi troverete più vecchia di un anno ed entrerete nel ventiquattresimo.

Voi siete ancora molto giovine e non vi accorgerete quasi del salto, ma io vi renderò fino all’ultimo tutti i trecentosessantacinque giorni, a due o tre per volta e quando sarete vecchia potrete riavere a vostra volontà delle ore di autentica giovinezza, dei ritorni improvvisi di salute e di bellezza. Non crediate di parlare con un burlone o con un demonio. Sono semplicemente un povero padre che ha pregato tanto il Signore che gli è concesso di poter fare ciò che per gli altri è impossibile. Ho già raccolti con gran fatica tre anni ma ho bisogno di averne ancora molti. Datemi uno dei vostri e non ve ne pentirete mai! »

« Fin da quel tempo ero abituata alle avventure curiose e nel mondo dei principi in cui vivevo niente era considerato impossibile. Perciò acconsentii a fare il singolare prestito e diventai pochi giorni dopo più vecchia di un anno. Quasi nessuno se ne accorse e fino a quarant’anni vissi lietamente la mia vita, senza ricorrere all’anno che avevo dato in deposito e che mi doveva esser restituito.

« Il vecchio signore mi aveva lasciato il suo indirizzo insieme al contratto e mi aveva pregato di avvertirlo almeno un mese avanti quando avessi desiderato un giorno o una settimana di giovinezza, promettendomi che avrei ricevuto ciò che chiedevo al momento fissato.

« Dopo il mio quarantesimo anno, quando la mia bellezza stava per disfarsi, mi ritirai in uno dei pochi castelli ch’eran rimasti alla mia famiglia e non andai a Vienna che due o tre volte l’anno. Scrivevo in tempo al mio debitore e poi mi recavo ai balli di Corte, nei salotti della capitale, giovine e bella come avrei dovuto essere a ventitrè anni, meravigliando tutti coloro che avevan conosciuto la mia bellezza in decadenza. Quanto eran curiose le vigilie delle mie riapparizioni! La sera innanzi mi addormentavo stanca e fanée com’ero sempre e la mattina mi alzavo gaia e leggera come un uccello che abbia imparato a volare da poco, e correvo allo specchio. Ogni ruga era scomparsa, il mio corpo era fresco e molle, i capelli eran tornati tutti biondi e la labbra eran rosse, tanto rosse ch’io stessa le avrei baciate con furore. A Vienna gli adoratori si affollavano intorno a me, gridavano dalla meraviglia, mi accusavano di stregoneria e, in fondo, non capivano nulla. Appena stava per scadere il periodo di giovinezza che avevo richiesto, montavo in carrozza e tornavo in furia al castello dove mi rifiutavo di ricevere chiunque. Una volta un giovine conte boemo che si era terribilmente acceso per me durante una delle mie corse a Vienna, riuscì a penetrare, non so come, nel mio appartamento e fu quasi per morire dallo stupore vedendo quanto rassomigliavo alla sua fiamma ma quanto ero più brutta e più vecchia di quella che l’aveva inebriato nelle strade di Vienna.

Nessuno, dopo quel tempo, riuscì a forzare la mia volontaria clausura, interrotta solo dalla strana gioia e dalla profonda malinconia delle rare pause di gioventù nel corso lamentevole della mia continua decadenza. Riuscite ad immaginarvi quella mia fantastica vita di lunghi mesi di vecchiaia solitaria separati ogni tanto dai fuochi fuggitivi di pochi giorni di bellezza e di passione?

« Nei primi tempi quei trecentosessantacinque giorni mi sembravano inesauribili e non immaginavo che potessero mai finire. Perciò fui troppo prodiga della mia riserva e scrissi troppo spesso al misterioso Debitore di Vita. Ma costui è un uomo terribilmente esatto. Una volta sono andata da lui e ho visto i suoi libri di conti. Io non sono la sola colla quale ha fatto contratti di quel genere, e so che segna molto accuratamente le diminuzioni del suo dare. Vidi anche sua figlia: una pallidissima donna seduta sopra una terrazza piena di fiori. « Non ho mai potuto sapere donde tragga la vita che restituisce così puntualmente, a rate di giorni, ma ho qualche ragione per credere ch’egli ricorra a nuovi debiti. Quali saranno state le donne che gli hanno dati i giorni che ha restituiti a me? Vorrei ben conoscerne qualcuna ma per quanto abbia fatto spesso delle abili domande non ho mai avuto la fortuna di scoprirne. Mais, peut être, elles ne seraient pas si étranges que je crois

« In ogni modo quell’uomo è straordinariamente interessante e ciò non gli impedisce di far bene i suoi conti. Voi non potete immaginare come divenne terribile la mia vita quando mi annunciò, con la calma di un banchiere, ch’egli non aveva ormai che undici giorni soli a mia disposizione. In tutto quell’anno non gli scrissi ed ebbi un momento la tentazione di donarglieli e di non tormentarmi più. Voi capite bene la ragione, non è vero? Ogni volta ch’io tornavo giovine il momento del risveglio diventava sempre più doloroso perchè la differenza tra il mio stato ordinario e i miei ventitrè anni diventava, coll’età, assai più grande.

« D’altra parte era impossibile resistere. Come potete pensare che una povera vecchia solitaria rifiuti ogni tanto una giornata o due o tre di bellezza e di amore, di grazia e di gioia? Esser amata per un giorno, desiderata per un’ora, felice per un momento! Vous êtes trop jeûne pour comprendre tout mon ravissement!

« Ma i giorni stanno per finire — il mio credito sta per chiudersi per l’eternità. Pensate: non ho più che un giorno da chiedere! Dopo questo giorno sarò definitivamente vecchia e consacrata alla morte. Un giorno di luce e poi l’oscurità per sempre! Considerate bene, vi prego, tutta l’impreveduta tragicità della mia vita. Avanti di chiedere questo giorno…

« Ma quando lo chiederò? Che ne farò? Da più di tre anni non sono stata più giovine e a Vienna quasi più nessuno si ricorda di me e tutta la mia bellezza sembrerebbe spettrale. Eppure io sento il bisogno di un amante, di un amante senza scrupoli e pieno di fuoco. Ho bisogno di essere accarezzata ancora una volta per tutto il corpo. Questa mia faccia rugosa tornerà ancora fresca e rosea e i miei labbri daranno ancora, per l’ultima volta, la voluttà. Poveri labbri bianchi e screpolati! Essi vogliono essere rossi e caldi ancora un giorno, per un giorno solo, per un ultimo amante, per un’ultima bocca!

« Ma non so decidermi. Non ho la forza di spendere l’ultima piccola moneta di vera vita che mi resta e non so come spenderla ed ho un pazzo desiderio di spenderla… »

Povera e cara Principessa! Già da qualche minuto aveva sollevato la veletta e le lacrime avevano fatto dei solchi sottili nella cipria del viso. In quel momento i singhiozzi, per quanto aristocraticamente repressi, le impedirono di continuare. Io provai allora un gran desiderio di consolare a tutti i costi la deliziosa vecchia e caddi ai suoi piedi — ai piedi di una principessa grinzosa e vestita di nero — e le dissi che l’avrei amata più di un gentiluomo pazzo e la pregai, con le più dolci parole, di concedere a me, a me solo, l’ultimo giorno della sua bella giovinezza.

Non so precisamente tutto ciò che le dissi ma il mio atto e i miei discorsi la commossero profondamente e mi promise, con alcune frasi un po’ teatrali, che sarei stato il suo ultimo amante, per un solo giorno, fra un mese. Mi dette un appuntamento per un certo giorno, alla stessa villa, e mi congedai molto turbato, dopo averle baciato le magre e bianche mani.

Mentre tornavo verso la città, di notte, la luna non perfettamente piena mi guardava insistentemente con aria di pietà, ma pensavo troppo alla bella principessa per prenderla sul serio.

Quel mese fu molto lungo, il più lungo mese della mia vita. Avevo promesso alla mia futura amante che non avrei più cercato di rivederla fino al giorno fissato e mantenni il mio impegno galante. Malgrado tutto il giorno arrivò e fu il più lungo di quel lunghissimo mese. Ma giunse finalmente anche la sera e dopo essermi elegantemente abbigliato andai verso la villa col cuore tremante e il passo incerto.

Da lontano vidi le finestre illuminate come non le avevo vedute mai ed accostandomi trovai il cancello aperto e il balcone carico di grandi fiori. Entrai nella villa e fui introdotto in un salone ove ardevano tutte le fiaccole di due fantastiche lumiere.

Mi dissero di attendere e attesi. Nessuno veniva. Tutta la casa era silenziosa. Le luci ardevano e i fiori profumavano per la solitudine. Dopo un’ora di aspettativa agitata, non potei trattenermi e passai nella sala da pranzo. Sulla tavola eran preparati due coperti e fiori e frutta in grande abbondanza. Passai in un piccolo salotto, illuminato dolcemente e deserto. Finalmente giunsi ad una porta che sapevo esser quella della camera della Principessa. Bussai due o tre volte ma non ebbi risposta. Allora mi feci coraggio pensando che un amante può dimenticare l’etichetta ed aprii la porta, soffermandomi sulla soglia.

La camera era piena di abiti sontuosi gettati per tutto come nella furia di un saccheggio. Quattro candelabri spargevano attorno una gaia luce. La Principessa era sdraiata in una poltrona dinanzi allo specchio, vestita con uno dei più meravigliosi abiti ch’io abbia veduti.

La chiamai e non rispose.

Mi accostai, la toccai e non si mosse. Mi accorsi allora che la sua faccia era come l’avevo sempre veduta, piccola e bianca, e un po’ più triste del solito e un po’ spaurita. Posi una mano sopra la sua bocca e non sentii nessun respiro — la posi sopra il suo petto e non sentii nessun battito.

La povera Principessa era morta — era morta dolcemente all’improvviso mentre spiava dinanzi allo specchio il ritorno della sua bellezza.

Una lettera che trovai in terra, accanto a lei, mi spiegò il mistero della sua fine improvvisa.

Conteneva poche righe di scrittura verticale e militaresca e diceva:

« Gentile Principessa,

sono sinceramente dolente di non potervi restituire l’ultimo giorno di giovinezza che io vi debbo. Non riesco più a trovare donne abbastanza intelligenti per credere alla mia incredibile promessa e mia figlia è in pericolo.

Farò ancora nuovi tentativi e vi comunicherò i risultati perchè sarebbe mio vivo desiderio soddisfarvi fino all’ultimo.

Crediatemi, illustre Principessa, vostro devotissimo… »