IL DITO DI BARRAQUIER
Una specie di luna rossa era sospesa davanti a loro nella notte umida: l’orologio di una chiesa o di un edificio pubblico. Segnava le due e venti. E questo lasciava supporre che non ci fosse nessun altro in giro per le anguste stradine di Nevers, simili a un riecheggiante labirinto di cunicoli.
Chi poteva essere ancora sveglio in città? Qualche ammalato che sudava tra le lenzuola, qualche donna al capezzale di un moribondo, due o tre puerpere, forse Francis che, chiusi i battenti della Boule Rouge, contava gli incassi della giornata mentre il cameriere inforcava la bicicletta per tornarsene a casa, nei dintorni di Nevers...
«Se incrociamo un poliziotto...» pensava Charlotte.
E intanto che pensava così, e si riprometteva, qualora ne scorgesse uno, di corrergli incontro e dirgli tutto, l’uomo che le camminava accanto accarezzandole con insistenza il fianco prosperoso le chiese:
«In che via abiti?».
Una domanda innocente? Charlotte temette che avesse intuito le sue intenzioni e rabbrividì di nuovo, come poco prima, quando erano usciti dalla Boule Rouge. Perché mai a un accompagnatore occasionale doveva interessare il nome della via in cui abitava? Lei se n’era accorta subito che non era ubriaco, che in ogni caso, pur avendo bevuto, era rimasto lucidissimo.
«In rue Creuse... Conosci Nevers?».
«Un po’...».
Questo rendeva irrealizzabile il piano che le era balenato in mente: fare una deviazione per passare davanti al commissariato, dove c’era sempre un agente di guardia, e lì...
«Da te non c’è nessuno, vero?».
«Chi dovrebbe esserci?» rispose lei ridendo nervosamente.
Le imposte erano tutte chiuse: dal marciapiede ai tetti si vedeva solo una muraglia cieca. Non incrociavano nessun poliziotto. Charlotte se l’aspettava. Faceva quel tragitto ogni notte, in genere da sola, qualche volta in compagnia. E finché non infilava la chiave nella serratura di casa era sempre un po’ in apprensione. Stavolta però...
L’uomo le aveva insinuato il braccio sotto la pelliccia e camminando continuava a massaggiarle il fianco attraverso la stoffa del vestito.
Charlotte aveva fatto bene a non barare, perché lui svoltò a sinistra senza bisogno di indicazioni. Era vero che conosceva Nevers e rue Creuse.
«Che cos’hai?» le chiese gettando via il mozzicone della sigaretta.
Era un riflesso nervoso: tremava tutta, e non sarebbe stata capace di reggere un bicchiere senza rovesciare metà del contenuto.
«Mi fai male...».
Gridare? Chiamare aiuto?
Si fermò davanti a un vecchio caseggiato di quattro piani e inciampò sui gradini dell’ingresso, mentre con dita sempre più tremanti frugava nella borsa alla ricerca della chiave. L’uomo aveva così tanta voglia di lei che non riusciva a toglierle le mani di dosso.
Alla Boule Rouge Francis le aveva subito strizzato l’occhio come a dire:
«Un buon cliente per te!».
Si capiva dall’atteggiamento con cui si era piazzato sullo sgabello del bar e si era acceso una sigaretta guardandosi intorno nella sala pressoché deserta.
«Un Honolulu!».
Aveva già notato Charlotte, che si stava incipriando davanti a uno specchio, e la esaminava da capo a piedi.
«No, vecchio mio... L’Honolulu è un’altra cosa... Passami le bottiglie... Prima il rum bianco...».
Intanto Francis le aveva fatto segno e lei si era avvicinata.
Non erano trascorse neanche due ore da allora, ma a Charlotte, mentre apriva la porta di casa, sembrava ormai un ricordo lontano.
«Attento ai gradini... Non c’è luce elettrica nelle scale... Hai fiammiferi?...».
La Boule Rouge era così tranquilla, così accogliente! Francis, in giacca bianca, dietro al bancone; Joseph, il cameriere calvo, che i clienti abituali chiamavano Absalon, in piedi in un angolo con il tovagliolo ripiegato sul braccio; i tre musicisti vestiti alla russa e la signora Pipì che sferruzzava accanto alla porta del bagno...
«Mi offre qualcosa?».
«No, bellezza...».
Mentre preparava il cocktail l’aveva già spogliata con gli occhi.
«Non ti offro proprio niente... Conosco il giochetto: un po’ d’acqua colorata che pagherò venti franchi e che berrai tu, mentre io mi ritroverò ubriaco fradicio... Un Honolulu, se vuoi...».
Lo sguardo di Francis che consigliava:
«Accetta!».
Inutile ritentare con lo champagne! Si capiva che non avrebbe abboccato, che era un frequentatore di bar.
«Allegro, qua!» aveva commentato l’uomo guardando la sala. «Chi sono quei due pinguini?».
«Clienti...».
Charlotte stentava a trattenere le risa. Quel tizio aveva un modo tutto suo di scrutare uomini e cose, di formulare le domande, di scherzare rimanendo serio.
Nonostante la sua esperienza, Francis non era ancora riuscito a classificarlo.
«Come ti chiami?».
«Charlotte...».
«Alla tua salute, Charlotte...».
«Vieni da Parigi?».
Per tutta risposta, lui aveva cominciato ad accarezzarle un ginocchio.
Cinque minuti dopo Charlotte era stata costretta a dirgli:
«Sta’ buono...».
Glielo aveva detto sorridendo, visto come ci dava dentro. Gli sembrava naturale accarezzarla davanti a tutti. I due clienti avevano smesso di parlare.
«Che fanno nella vita, quei due?».
«Quello alto e magro, con il monocolo, lavora all’archivio regionale... Lo chiamiamo Coso de Cosi, perché ha un nome altisonante... È di famiglia nobile... L’altro è figlio di un pizzicagnolo... Vengono tutte le sere...».
«A letto?».
«Che vuoi dire?».
«Chiedo se ci vai a letto...».
«Ma sei matto?».
E lui, alzando le spalle:
«Che dici, ce la squagliamo?».
«Ora non posso...».
«Perché?».
«Perché no!».
Qualche minuto dopo erano seduti su un divanetto di velluto rosso.
«Sei arrivato da poco a Nevers?... Fermo!... Coso de Cosi ci sta guardando».
«Vuoi che vada a togliergli il monocolo?».
L’avrebbe fatto! Charlotte dovette trattenerlo. Si scolava un bicchiere dopo l’altro, eppure non sembrava ubriaco. Era giovanissimo: non più di ventitré anni. Ogni tanto aggrottava la fronte.
«A che pensi?».
«A niente... Dài, avvicinati...».
«E tu comportati bene!».
Era quasi intimorita. Lui aveva un modo di attirarla a sé che non ammetteva resistenze. E, impaziente com’era, per poco non la spogliava lì, davanti a tutti!
«Senti, Charlotte... Non continueremo ad ammuffire qui, spero...».
«Non posso andarmene prima della chiusura...».
«E a che ora è la chiusura?».
«Alle tre... Alle quattro... Dipende...».
«Chiedi il permesso al proprietario...».
«Non vorrà...».
«Ci penso io!».
Si era alzato, forse un tantino barcollante. Passando davanti ai due clienti si era fermato di colpo e li aveva osservati con calma, come se guardasse una vetrina, poi aveva scosso la testa e si era diretto verso il bar. Chino sul bancone, aveva parlamentato a lungo con Francis, che non sembrava disposto a cedere. Alla fine lui aveva tirato fuori il portafoglio...
In quel momento Charlotte aveva notato che il suo vestito grigio, un vestito sportivo, era piuttosto sgualcito, come dopo un lungo viaggio in treno.
«Su!... Andiamo...».
«Ma Francis...?».
«Tutto a posto... È un vecchio trucco... Quanto avremmo potuto bere da ora fino alle quattro del mattino? Tre bottiglie di champagne al massimo... Ne ho pagate quattro...».
E da lontano Francis le spiegava a gesti:
«Va’!... Non c’è altro da fare...».
«Mettiti il cappotto...».
«Dov’è il tuo albergo?».
Lui aveva esitato un istante.
«Non possiamo andare da te?» aveva chiesto in tono ansioso.
A Charlotte era venuto un sospetto, lieve, ma pur sempre un sospetto: quando un giovanotto di quell’età ha tanti soldi in tasca... Ma non aveva potuto fare a meno di sorridere davanti al suo sguardo supplichevole... Strano ragazzo! Non le era mai capitato di suscitare un desiderio così divorante: i suoi occhi sembravano accarezzarla ovunque, le sue mani non smettevano di palpeggiarla.
«Allora?...».
«Va bene!».
Alla Boule Rouge non c’era quasi nessuno. Serata fiacca, il lunedì. La seconda entraîneuse, Olga, stava male, e nel pomeriggio Charlotte era passata da casa sua per farle un salasso.
«La pelliccia, signora Pipì...».
La luce dorata... I musicisti che suonavano senza entusiasmo, i due habitué in ghingheri e con l’aria da uomini di mondo che si facevano un punto d’onore di essere i più tiratardi di Nevers. Una strizzata d’occhio di Francis a mo’ di saluto. Charlotte sapeva che di lì a poco avrebbe chiuso...
Già per le scale, le mani avide del suo accompagnatore.
«Hai tutta questa fretta?».
Il fresco della strada, il rumore dei loro passi, dei tacchi alti di Charlotte sul selciato. Poi...
Dopo neanche cento metri avevano svoltato per una via più buia dove il marciapiede non era abbastanza largo per due.
L’uomo, che camminava alla sua destra, le aveva infilato il braccio sotto la pelliccia e le palpava il fianco.
Dapprima lei avvertì solo una vaga sensazione di disagio. Percepiva qualcosa di anomalo. Ma cosa? Ancora qualche passo e a un tratto si sentì gelare il sangue nelle vene. La paura la paralizzò, le tolse il fiato.
«Che hai?».
La domanda le mise ancora più paura. Non doveva fargli intuire che aveva capito...
«Niente, ho preso una storta...».
Perché aveva capito... Quella sensazione di disagio... Quella mano... Si era chiesta cosa avesse di strano quella mano che le tastava il fianco... Be’, adesso ne era quasi sicura... Mancava un dito... Mancava l’indice... Il suo accompagnatore era Barraquier!
«Devo accertarmene...» pensò.
Ma come? Non osava prendergli la mano. Avrebbe voluto gridare. E se si fosse sbagliata?
Finse di avere caldo e scostò la pelliccia. Sfiorò così quella mano che non aveva l’indice!
Le porte erano tutte chiuse, le persiane sprangate!
«Se incrociamo un poliziotto...».
L’uomo che le palpava il fianco e di cui sentiva il fiato caldo sul collo, l’uomo che si fermava sotto un lampione per baciarla, l’uomo che lei si stava portando a casa e che avrebbe dormito nel suo letto era l’assassino di rue Daunou!
Da una decina di giorni era ricercato in tutta la Francia. Alle frontiere gli agenti squadravano con sospetto i viaggiatori e fermavano le macchine. I giornali avevano pubblicato la sua scheda segnaletica. Centinaia di lettere anonime lanciavano quotidianamente gli inquirenti su false piste.
Barraquier, che aveva ucciso l’ex amante nella vasca da bagno di un mezzanino di rue Daunou, era a Nevers, fresco e disinvolto, in apparenza senza altro pensiero che andare a letto con Charlotte!
«Dobbiamo salire ancora?» le chiese nel buio delle scale.
E lei, con voce da oltretomba:
«Sì, quarto piano...».
Se avesse gridato? Al terzo c’erano solo due vecchi, Filemone e Bauci li chiamavano, che non avrebbero potuto darle alcun aiuto. Del resto, non si sarebbero scomodati: avevano scritto decine di lettere al padrone di casa per lamentarsi delle abitudini di Charlotte.
«Entra... Aspetta... Accendo la luce...».
Due stanze, camera da letto e cucina, ben arredate, pulitissime. Charlotte non era come la sua collega Olga, che viveva in una camera ammobiliata e non sapeva cosa fosse l’ordine. Lei incerava il parquet e si cuciva da sola la maggior parte dei vestiti.
«Ti faccio un caffè?».
«Vuoi scherzare?».
Si era tolto la giacca. Charlotte notò che portava una camicia di seta spiegazzata, magari ce l’aveva addosso da rue Daunou!
«L’uomo con la spider azzurra»... Così l’avevano chiamato all’inizio i giornali, perché l’affittacamere di rue Daunou aveva dichiarato alla polizia che arrivava sempre con una spider azzurra.
Due giorni dopo la macchina era stata ritrovata a Dieppe, e qualcuno aveva supposto che l’assassino fosse riuscito a imbarcarsi.
«Mi ricordo di un particolare...» dichiarò allora la cameriera della pensione. «Gli manca l’indice della mano sinistra...».
Il che aveva permesso di identificarlo. O meglio, era stata la madre...
Perché viveva con la madre, una vedova di buona famiglia.
«Commissario, non posso credere che Jean...».
Jean Barraquier! Jean Barraquier! Jean Barraquier! Nel giro di una settimana quel nome, fino allora sconosciuto, era stato stampato a caratteri cubitali su tutti i giornali.
«La vasca maledetta... L’assassino di rue Daunou... Il gigolo omicida...».
«Che aspetti?...» si spazientì lui, seduto sul bordo del letto.
Si tolse le scarpe. Chino in avanti, con l’aria più seria del mondo, disse quasi parlando tra sé:
«Forse non ci crederai... In vita mia non ho mai desiderato tanto una donna...».
Charlotte sorrise, suo malgrado, e abbassò le palpebre. Forse, se anche avesse potuto chiamare aiuto...
«Smettila di mordermi...» si lagnò con voce infantile.
La Boule Rouge era chiusa. Coso de Cosi e il suo amico, il figlio del salumiere, si erano rassegnati ad andare a dormire, come i comuni mortali.
Quando spuntò l’alba, al quarto piano di rue Creuse c’era ancora una finestra illuminata, e quando la luce si spense gli spazzini avevano già cominciato il loro giro.
Charlotte non sapeva se aveva dormito. Era stato piuttosto un dormiveglia inframmezzato da buchi neri. Ruotò lentamente la testa e vide il viso di Barraquier vicinissimo al suo, con la bocca semiaperta. Allora, con infinita cautela, tirò fuori dal letto una gamba, poi l’altra, mosse un passo nella camera, un secondo passo.
La sveglia sul camino della cucina segnava le nove. Dalla strada giungevano delle voci, e Charlotte riconobbe lo strombazzare del fruttivendolo ambulante.
Prese dall’armadio un vestito di lana a caso, si diede una pettinata e guardò di nuovo verso il letto. Lui continuava a dormire, con un braccio fuori dalle lenzuola, il braccio sinistro, la mano penzoloni, l’indice amputato.
Purché il pavimento non scricchiolasse... Impugnò la maniglia della porta. Sul pianerottolo dovette fermarsi un istante perché il cuore le batteva all’impazzata, ma subito si slanciò di corsa giù per le scale. Non si fermò neanche quando fu sul marciapiede. Raggiunse la strada principale e lì, bene o male, fu sommersa dall’animazione mattutina. Rischiò di finire sotto una macchina, e il conducente le gridò un insulto.
Sapeva dov’era il commissariato. Ce l’avevano portata una volta che alla Boule Rouge era scoppiata una rissa ed erano finiti tutti quanti in guardina.
Nella fretta di vestirsi non si era messa la biancheria intima e ora, nell’aria fresca del mattino, si sentiva nuda.
«Jean Barraquier... Sissignore... È a casa mia, in rue Creuse, 13 bis... Dorme... Stanotte...».
Forse era meglio andare a chiedere consiglio a Francis... Forse... Le era capitato altre volte di passare la notte con un cliente... Ma mai, mai aveva visto qualcuno in preda a una simile frenesia amorosa... Alla Boule Rouge poteva dare l’impressione di un uomo fatto... Spavaldo, sicuro di sé...
Ma a letto, solo con lei, era un ragazzino smanioso. Quando le aveva detto in tono supplichevole:
«No... Rimani sveglia... Senti, Charlotte...».
E si era addormentato di colpo, con una guancia ardente sul suo seno, come fanno i bambini. Aveva dovuto spostarlo con precauzione, coprirlo. Aveva ascoltato a lungo il suo respiro, reso più pesante dall’alcol. A un certo punto lui aveva mormorato qualcosa. Si era chinata, cercando di capire, ma non c’era riuscita...
D’un tratto qualcuno la urtò, e lei si rese conto di essere rimasta impalata davanti al portone del commissariato. Il poliziotto di guardia la osservava sorridendo. Si sentì in dovere di abbozzare anche lei un sorriso e si allontanò.
«Se per disgrazia si sveglia, penserà...».
Allora entrò in una latteria e comprò un quarto di burro, uova, formaggio. Fortuna che per abitudine aveva preso il borsellino.
«Deve andarsene... E se fosse già uscito?...».
E lei che gli aveva chiesto ingenuamente in che albergo alloggiava! Come se potesse andare in albergo! Ma allora nei giorni precedenti...? In altre città, forse... Perché di sicuro si spostava di città in città... Si era arrangiato allo stesso modo?...
Non voleva ammetterlo, ma a quel pensiero provava una stretta al cuore. No! Non era possibile che, con altre, fosse stato come con lei! Certi dettagli non ingannano...
La chiave... Si era dimenticata la chiave!... Dovette suonare il campanello. La proprietaria aprì il portone e come al solito non le rivolse la parola.
«Scusi tanto, signora Maigre... Ho dimenticato la chiave e...».
Era già per le scale. Aveva paura. Meglio non rientrare a casa? Chiedere ospitalità a Olga?
Bauci si affacciò alla porta per vederla passare e scosse la testa sospirando.
Doveva assumere un’aria naturale. Che c’era di strano nell’uscire di mattina per andare a fare la spesa? Si ricompose, aprì la porta, sorrise.
«Ti sei svegliato?» mormorò un po’ a fatica, perché le mancava il respiro.
Lui era vestito di tutto punto, con le spalle alla finestra, e la guardava.
«Ho pensato che non c’era niente da mangiare e sono andata...».
Sembrava stanco, preoccupato. Si era acceso una sigaretta e fumava svogliatamente.
Charlotte pensò che, se fosse entrata in cucina, sarebbe stata come prigioniera. D’altra parte, non poteva mica rimanere in piedi davanti alla porta.
«Che hai?» gli chiese.
«Che dovrei avere?».
«Non lo so... Mi guardi in modo strano...».
Non si rendeva conto che era lei ad avere un atteggiamento strano!
«Sei stata fuori a lungo...».
Charlotte rispose troppo in fretta. Lo sapeva, ma era più forte di lei.
«C’era parecchia gente in latteria... Poi ho incontrato una mia ex collega che... Pensa che faceva la ballerina e poi ha sposato un...».
Lui non seppe mai chi avesse sposato la ballerina, perché Charlotte non finì la frase.
Fu la medesima sensazione, ma molto più violenta, incontrollabile, della notte precedente, per strada, quando aveva sentito la mano sul fianco e aveva capito.
L’uomo continuava a soffiare davanti a sé il fumo della sigaretta. Mentre Charlotte rimaneva immobile, inchiodata al suolo, lui fece per raddrizzare la schiena, e allora lei mollò di colpo i pacchetti lanciando un grido stridulo.
Per quanto tempo ebbe l’impressione di non poter fare un passo, come in un incubo? Qualche secondo? Forse meno. Lui la guardava stupito, aggrottando la fronte.
Quando alla fine riuscì a muoversi, corse verso la porta e si slanciò giù per le scale urlando con tutte le sue forze:
«Aiuto!... Assassino!... Assassino!...».
Porte che si aprivano, altre che si chiudevano. Charlotte urtò il vecchio Filemone, sempre strillando:
«Assassino!.... Assassino!...».
Doveva averlo alle calcagna. L’avrebbe raggiunta e uccisa.
«Assass...».
Cadde in avanti sul marciapiede. Intorno a lei si formò subito un capannello.
«Lassù... Barraquier!...».
Non riuscì mai a capire da dove fosse spuntato l’agente municipale.
«Un uomo in camera sua c’è, questo è sicuro» affermò la padrona di casa.
Così ebbe inizio quel che poi fu raccontato dai giornali. Circondarono l’isolato. L’agente aspettò il commissario. Furono in quattro o cinque a salire al quarto piano. Nella camera, dove aleggiava ancora il fumo della sigaretta, non c’era nessuno. Più in alto la porta di una soffitta era stata scardinata.
Il maestro di canto, che abitava di fronte, si affacciò alla finestra e indicò i tetti gridando qualcosa che nessuno capì.
A un tratto tutte le finestre si popolarono di curiosi.
«Come fa a sapere che è lui?» chiese un ispettore.
Charlotte ignorava di chi fosse l’appartamento in cui l’avevano fatta entrare: una cucina dove un battuto di cipolle rosolava sul fuoco e un bambino tutto imbrattato giocava sul seggiolone con un cucchiaio di legno.
«Il dito... Quando sono tornata mi ha minacciata...».
Così credeva. Ed era anche convinta che le fosse corso dietro.
«Con cosa l’ha minacciata?».
«Non lo so... Con una pistola, mi sembra...».
Erano stati chiamati i pompieri. Alcuni vicini avevano intravisto Barraquier nascosto dietro a un comignolo, quattro isolati più avanti. C’erano poliziotti appostati in tutti gli abbaini.
«Quando l’ha identificato?...».
Charlotte ebbe la presenza di spirito di rispondere:
«Quando sono rientrata a casa e lui mi è venuto incontro... Gli ho visto la mano...».
Le offrirono un bicchiere di rum che la fece tossire. Ne approfittò per piangere: i nervi le stavano cedendo.
«L’avete arrestato?».
«È scappato sui tetti... Ma non ci metteremo molto a prenderlo...».
Lei si vergognava. Avrebbe voluto potergli dire che non l’aveva fatto apposta, che non intendeva denunciarlo, che...
«Sicuro che lo arresterete?».
Dovevano! Altrimenti come avrebbe potuto vivere con la paura di vederlo spuntare a ogni angolo di strada?
«Tutto bene?».
Era Francis. La strada, sebbene transennata, si andava riempiendo di curiosi. Chissà com’era riuscito a passare.
«Perché l’hai fatto?» le chiese sottovoce.
«Ti giuro, Francis...» disse lei arrossendo.
Ora non sapeva più se l’avesse minacciata davvero. Lo rivedeva, addossato alla finestra, stanco, con gli occhi cerchiati, le guance grigiastre, la sigaretta in bocca.
«L’hanno preso?».
«Non ancora...».
Si rivelò più difficile del previsto. Tanto che a mezzogiorno la caccia sui tetti era ancora in corso. I vigili del fuoco avevano azionato la scala estensibile e i loro caschi di metallo sfavillavano al sole.
«Senti, Francis... A te posso confessarlo... Volevo... Sono arrivata davanti al commissariato... Non ce l’ho fatta e sono tornata indietro...».
«Sei sicura che...».
No, non ne era sicura! Magari non le avrebbe fatto niente! Forse stava pensando a tutt’altro, forse erano i postumi della sbornia a...
E infatti alle tre, quando alla fine si arrese, Barraquier non aveva nessuna pistola in tasca.
«Be’, dov’è quella sgualdrina?...» chiese sdegnosamente.
Erano caduti tutti nello stesso equivoco. I giornali scrissero:
«Grazie alla denuncia di una entraîneuse della Boule Rouge...».
Poteva forse contraddirli?
E questo solo perché rientrando a casa l’aveva visto in controluce, con la fronte aggrottata, ed era stata presa dal panico.
Altrimenti con ogni probabilità avrebbero pranzato insieme nella cucina ordinata e pulita, poi...
In ogni caso, qualche mese dopo il presidente della Corte d’Assise le disse con una disinvoltura un tantino sprezzante:
«Il tribunale la ringrazia...».
E intanto, nella gabbia degli imputati, dove le sembrava lontano, lontanissimo, come in un cannocchiale tenuto dal lato sbagliato, Barraquier la guardava con aria distaccata succhiando delle mentine che gli aveva offerto l’avvocato.
IL BARONE DELLA CHIUSA
OVVERO
LA CROCIERA DEL «POTAM»
Una chiatta che risaliva il canale trainata da un cavallo era appena uscita dalla chiusa. Neanche il tempo di percorrere una cinquantina di metri e già l’animale era stato inghiottito dal grigiore circostante, insieme alla ragazzina con l’ombrello che lo guidava, e la chiatta stessa appariva sfocata come in una brutta fotografia. Ma non era nebbia, era pioggia. Con il cappotto sulla testa, attento a non far slittare la gamba di legno nel fango, il guardiano della chiusa si avviò verso lo spaccio di Maria.
Stavolta la scusa era che, a casa sua, la moglie stava facendo le grandi pulizie e lui sarebbe stato d’impiccio. Ma avrebbe potuto spaccare ceppi nella legnaia o sbrigare qualche altra incombenza al coperto.
«Dammi un goccetto, Maria».
Si scaldò le mani, annusando il buon odore di catrame, spezie, petrolio e gin di contrabbando. Guardava Maria, sempre tranquilla, sempre diritta, sempre in ordine come se si fosse appena lavata e vestita. Avrebbe dovuto sposare lei, e con ogni probabilità a quest’ora non avrebbe avuto cinque marmocchi, più il sesto in arrivo.
Per un attimo Maria bloccò a mezz’aria la mano con cui stava prendendo la bottiglia. Aveva udito qualcosa, e anche il guardiano tese l’orecchio, poi andò alla porta e asciugò il vetro appannato dalla condensa.
Così fu lui il primo a scorgere il Potam, che al momento era solo una macchia bianca. Il tratto a monte della chiusa di Bissancourt – la chiusa 68 del canale Marne-Saône – era di tre chilometri. Quello a valle misurava più o meno altrettanto: due chilometri e novecento metri, per la precisione, come si leggeva sulla targa blu dell’ufficio doganale. La chiatta trainata dal cavallo, tutta striata di pioggia, aveva percorso non più di duecento metri.
Quanto alla piccola imbarcazione bianca, che si avvicinava con un esasperante ronzio di insetto, doveva essere uno di quegli yacht che vanno da Parigi al Mediterraneo, incuranti di scomodare almeno un migliaio di addetti alle chiuse.
«Alla salute, Maria...».
«Alla tua, Paul...».
Lo yacht era già lì, ma Paul non aveva alcuna fretta di farlo passare. Non aveva mai fretta, e gli habitué preferivano manovrare da soli le paratoie e le saracinesche.
«Sembra che voglia ormeggiarsi... E pensare che certa gente naviga per divertimento!...».
C’era un solo uomo al timone, con indosso una cerata nera. Era evidente che tentava di individuare un buon posto lungo la riva. Fece due o tre manovre maldestre, cercò con lo sguardo qualcuno a cui lanciare la cima e, non trovando anima viva, si decise a saltare sulla sponda, dove finì lungo disteso sull’erba bagnata e scivolosa.
Maria e il guardiano della chiusa continuavano a osservarlo in silenzio. L’uomo legò un ormeggio a prua, uno a poppa e posizionò una stretta passerella. Poi scomparve in cabina per qualche minuto e ne uscì con in testa un bel berretto gallonato e un monocolo incastrato nell’occhio.
Quindi si incamminò verso lo spaccio di Maria, dove quest’ultima e Paul, immobili e muti dietro il vetro appannato, sembravano due pesci in un acquario. La campanella tintinnò. L’uomo lasciò la porta aperta e questo produsse una corrente d’aria.
«L’ufficio postale, per favore?».
«L’ufficio postale di Bissancourt? È in paese, a due chilometri e mezzo...».
L’altro parve deluso: forse si aspettava che il paese fosse a ridosso del canale. Dopo aver sfiorato con l’indice la visiera del berretto, si allontanò tra i due filari di alberi che costeggiavano la strada.
Il guardiano rimase ancora un po’ da Maria e poi, nonostante la pioggia, andò a esaminare lo yacht più da vicino. Si sporse per sbirciare all’interno della cabina e arrossì scorgendo una donna seminuda intenta a lavarsi.
«Dossin, con due s...».
«Non c’è niente».
«Sicuro?».
«Se le dico che non c’è niente...».
L’uomo fece per uscire, ma tornò sui suoi passi.
«E a nome del Barone?...».
«Del Barone?...».
«Sì, è così che mi chiamano di solito...».
«Sono più di tre mesi che non arriva un vaglia telegrafico...».
La sagoma del Barone si allontanò di nuovo lungo la strada deserta, dove il selciato era lustro come uno specchio. La pioggia gli scorreva sul viso paonazzo e il monocolo incastrato nell’occhio sembrava un oblò.
«Allora?» gli chiese una voce quando saltò sull’alzaia.
Il Barone salì a bordo senza dire una parola. Lola aveva sostituito la vestaglia azzurra, che di solito portava tutto il giorno, con un tailleur di serge blu.
«Perché ti sei vestita?».
«Non andiamo a mangiare?».
«Il vaglia non è arrivato».
«Porca...!» esclamò lei, togliendosi la giacca. «Che facciamo adesso?».
«E che vuoi fare?».
«Quanto ti resta?».
«Sei franchi... E a te?».
Lei frugò nella borsetta, nelle tasche, in un cofanetto dove teneva le sue cianfrusaglie e racimolò tre franchi e cinquanta.
«Bastano per mandare un telegramma a John...» disse lui.
«L’ufficio postale è lontano?».
«Due chilometri e mezzo...».
«Sbrigati... Altrimenti chiude...».
Vero è che, se non c’era niente da mangiare, restava di che bere: tre bottiglie di whisky.
«Magari nel frattempo è arrivato...».
Passarono altre tre imbarcazioni che risalivano il canale e due che lo discendevano. Dal ponte di chiatte i marinai scorgevano dietro gli oblò dello yacht una giovane donna in vestaglia azzurra sdraiata in una cuccetta, con le ginocchia sollevate, intenta a leggere e a fumare.
Il guardiano non mancò di commentare con una strizzatina d’occhio:
«L’avete vista?... Be’, poco fa era... Ehm!... Era mezza nuda...».
Le manovelle erano fredde. Tutto era freddo, bagnato, viscido, e dava sollievo entrare nello spaccio di Maria per bere qualcosa di forte accanto alla stufa che ronfava.
«SOS. Mandare soldi massima urgenza fermoposta Bissancourt».
«Guardi che se il vaglia arriva domani non potrà riscuoterlo» disse l’impiegata delle poste. «È domenica...».
Magari Châlons-sur-Marne aveva dimenticato di inoltrarlo...
«Lei è sicura che non c’è un’altra Bissancourt?».
Quella sera il Barone e Lola si scolarono un’intera bottiglia di whisky, litigarono scambiandosi insulti e alla fine si addormentarono. La domenica mattina pioveva a dirotto e una chiatta era ormeggiata proprio di fianco a loro.
Con la bocca impastata e i crampi allo stomaco, il Barone si fece la barba accuratamente, indossò una camicia di seta – non ne possedeva altre – e una cravatta in tinta con il doppiopetto blu: nell’insieme aveva proprio un aspetto da gran signore.
«Ma se ti hanno spiegato che comunque oggi non potrai riscuoterlo!...».
«Se il vaglia è arrivato, troverò il modo di cavarmela... Entrerò in un negozio e dirò che...».
Cominciava a conoscere la strada, il brutto paesino con le case tozze, di mattoni grigiastri, la chiesa rannicchiata su se stessa come un grosso animale. L’impiegata non gli diede il tempo di avvicinarsi allo sportello:
«Non c’è niente per lei...».
«A che ora chiudete?».
«Alle undici...».
«Tornerò all’ultimo minuto...».
Vari panifici, due macellerie, una salumeria... Alle undici non ebbe neanche bisogno di varcare la soglia dell’ufficio: l’impiegata gli fece segno di no da dietro l’inferriata della finestra.
«Ci fosse almeno rimasto qualche spicciolo per prendere un treno...» pensava Lola, che non aveva avuto la forza di lavarsi e aveva la pelle lucida.
«Se speri di trovare treni da queste parti...».
«Che fai, ti diverti?».
No, non si divertiva, ma cercava di mantenere una certa dignità.
«Domani arriverà il vaglia e... John è uno a posto... Si sarà dimenticato, ma appena riceverà il telegramma...».
«Non avrei dovuto fidarmi dei tuoi imbrogli... Con te è sempre così... Sempre domani... Nel frattempo... Non hai niente da vendere?».
«Lo sai che ho già venduto il mio orologio a Châlons...».
«E anche il mio! Questa me la paghi!... Ah, niente male come crociera in Costa Azzurra...».
A poppa della chiatta vicina c’era un tendalino, e sotto quel tendalino una mocciosa tutta impiastricciata che addentava un’enorme fetta di pane imburrato.
«Finirai per ubriacarti di nuovo...».
«Non potendo mangiare...».
Eppure il Barone non aveva bluffato. Forse per la prima volta in vita sua. Di solito, in effetti, tendeva a scambiare i suoi desideri per realtà, o meglio a costruire realtà chimeriche sulla base di semplici speranze!
«Ho quasi venduto la collezione della signora Oswald... Domani intascherò diecimila franchi...».
Diecimila franchi che l’indomani non intascava affatto. Il che non gli impediva di sedersi, all’ora dell’aperitivo, in uno dei bar eleganti che frequentava abitualmente, tutto in ghingheri, con il monocolo incastrato nell’occhio. E se i diecimila franchi non arrivavano, dovevano senz’altro caderne delle briciole, perché erano anni che andava avanti così e ancora non era morto!
«A proposito, Barone, mi faresti un favore?».
Faceva favori. In un certo senso era la sua professione, e c’era sempre chi lo portava a Deauville o a Cannes, chi lo invitava a caccia o a cena. E siccome dimenticava immancabilmente il portafoglio...
Stavolta, invece, era tutto vero.
«Ti va di passare due o tre mesi su uno yacht in Costa Azzurra?» aveva proposto a Lola.
«Sul serio? Hai ricevuto un’eredità?».
«Quasi... Incasserò duecentomila franchi... Ho già lo yacht... John me l’ha dato in acconto... Scenderemo piano piano per fiumi e canali e saremo a Nizza per Carnevale...».
Cosa poteva essere successo a John? Perché, in fin dei conti, il Barone se li era guadagnati, quei soldi.
«Conosci qualcuno che voglia comprare un palazzetto nei pressi dell’Étoile?».
«Quanto?».
«Due milioni... Il dieci per cento tocca a te...». Era passato un anno da allora. E, nel frattempo, ogni volta che incontrava qualcuno al bar il Barone si premurava di chiedergli:
«Senta un po’... Per caso le interesserebbe un delizioso palazzetto a due passi dall’Étoile?».
Finché, a un tavolo della Coupole, alle cinque del mattino, davanti a un piatto di salsicce alla griglia, si era compiuto il miracolo.
«Quanto?».
«Due milioni...».
«Affare fatto...».
La mattina dopo il Barone non era sicuro che non fosse uno scherzo, ma il suo commensale della notte precedente gli aveva telefonato prima di mezzogiorno. Era un sudamericano.
«Allora... Quando posso vedere la sua casetta?...».
L’indomani l’accordo era stato concluso sulla parola, e John, da vero signore, aveva annunciato al Barone:
«Il compratore pagherà la settimana prossima... Se intanto vuoi il Potam... Io ne ho già ordinato un altro...».
«Non potevi aspettare i soldi?».
«Certo! Ma mi sembrava così bella questa partenza in pieno inverno, verso il sole!».
«Una parte della provvigione te la mando durante il viaggio, e il resto te lo verso in banca... Dove conti di fare tappa?».
Épernay era troppo vicina. Il Barone scelse Châlons-sur-Marne. Ma all’ufficio postale di Châlons non c’era niente. Per tutta la giornata i ragazzini vennero a guardare lo yacht sotto la pioggia, a sputarci sopra, a fare commenti più o meno sgradevoli o a lanciare pietre.
«Andiamo un po’ più avanti, in qualche paesino... Avverto John con un telegramma...».
E individuò sulla carta una chiusa a caso: Bissancourt.
«Non hai un buco nello stomaco, tu? Davvero non vedi come potremmo...? Per uno che ha passato la vita a spennare la gente...».
«Innanzitutto esageri... E poi una cosa è spennare, come dici elegantemente tu, quelli come te, un’altra cosa è...».
Da Maria, di fronte, erano esposti salami, scatole di sardine, mezza forma di formaggio olandese. Ma come si fa, per pochi franchi, a dire a una donna come lei:
«Non ho spiccioli... Pagherò domani...»?
Pioveva, per giunta. Meglio starsene nel proprio cantuccio e aspettare. E quell’imbecille di marinaio che ogni tanto li sbirciava attraverso l’oblò non mancava di commentare con il guardiano:
«Fanno baldoria, lì dentro!... Ne bevono, di bottiglie!».
«Dove vai, Lola?».
«Non lo so... Sto morendo di fame...».
«Se pensi che fuori avrai meno fame...».
La ragazza si vestì comunque e si allontanò in direzione del paese. Il Barone cercò di dormire senza riuscirci. Alle cinque Lola non era ancora rientrata. Allora lui spinse la porta dello spaccio di Maria, dove due marinai giocavano a carte con il guardiano della chiusa. La sua voce suonò un po’ falsa quando esclamò:
«Che tempaccio, eh? State giocando a belote?».
«In tre, purtroppo...».
«Se volete il quarto...».
Fece una partita, bevve del vino, raccontò storie.
«Senta, signora, non avrebbe una fettina di salame?».
Ne mangiò cinque, sei fette, continuando a maneggiare le carte, e l’odore di aglio, che di solito detestava, non lo disgustò affatto.
«Uhm!...» fece il guardiano.
«Uhm cosa?».
«Non l’ha notato?».
«Cosa?».
«Maria... Ha fatto colpo!...».
Il Barone guardò Maria, che era sulla quarantina e che in effetti gli lanciava occhiate affabili.
«Ottimo, questo salame...».
«Ne vuole ancora?».
La moglie di un marinaio andò a chiamare il marito per la cena.
Il Barone, rimasto per ultimo, si frugò nelle tasche balbettando:
«Ecco qua... Ho dimenticato il portafoglio a bordo... Vado a prenderlo...».
«Non vale la pena che si disturbi per così poco...».
«Allora, a domani... Contiamo di fermarci qui per qualche giorno...».
Incrociò Lola che rientrava con aria soddisfatta.
«Da dove vieni?».
«Dal paese».
«Che hai fatto?».
«E tu?».
«Niente...».
«Io neanche...».
«Scommetto che hai mangiato...».
«E tu?».
Lola aveva avuto la faccia tosta di farsi servire una cena completa all’Hôtel du Lion d’Or.
«Ho detto che passerai a pagare domani mattina... Del resto, anche tu hai mangiato... Puzzi di aglio...».
«No, niente... Ma è ancora presto».
«Certo... Ripasso più tardi...».
Gironzolò per il paese, evitando l’Hôtel du Lion d’Or. A mezzogiorno all’ufficio postale non c’era ancora traccia del vaglia. Quando il Barone tornò alla chiusa, vide una macchina parcheggiata sull’alzaia. A bordo del Potam Lola stava chiudendo la valigia.
«Che fai?».
Sulla sponda un corpulento commerciante di bestiame si chiedeva se non fosse il caso di andarsene.
«L’ho conosciuto ieri al Lion d’Or. Rientra a Parigi in macchina. Mi ha offerto un passaggio...».
«Sei indegna...».
«E tu sei patetico... Scommetto che sei andato di nuovo a mangiare senza dirmi niente...».
«Non è vero...».
«Bugiardo...».
«Vattene!».
«È quello che sto facendo... Se pensi che ci ricaschi...».
Quando, alla riapertura pomeridiana, si ripresentò all’ufficio postale, il Barone era completamente sbronzo, ma molto compassato.
«Un telegramma, signore...».
«Quanto?».
«Niente, è solo un telegramma...».
«Difficoltà impreviste. Stop. Pagamento rinviato qualche giorno. Stop. Cordialmente. John».
«Scusi se la disturbo, Maria... Il marinaio è in ferie... E mia cugina...».
«Ah, è sua cugina?».
«Mia cugina è dovuta andare a Parigi... Perciò ho pensato che forse lei potrebbe farmi da mangiare e...».
«Guardi però che qui i rifornimenti scarseggiano. Il macellaio, per esempio, passa solo una volta a settimana...».
Una cena magnifica. Non aveva mai mangiato così bene in vita sua. Sardine in scatola. Ne lasciò una sola, per principio. Insalata di aragosta in scatola con trito di scalogno. Poi spezzatino di coniglio e patate rosolate. Formaggio fresco. Una mela e, in più, dei biscottini secchi, i cosiddetti ventagli, che gli ricordavano i tempi della scuola.
«Mi dispiace di non avere altro da offrirle... Siamo così lontani da tutto!... Di solito gli yacht passano senza fermarsi...».
«Sigarette ne ha?».
«Solo quelle più comuni... Può trovare maggiore assortimento nella tabaccheria del paese...».
Mai e poi mai! Avrebbe dovuto pagarle!
«Non serve... Fumo solo Gauloises...».
Satollo com’era, rimase nel suo angolo per il resto il pomeriggio. Maria andava e veniva. Ogni tanto riecheggiava la sirena di un’imbarcazione. Durante la concata gli uomini entravano a bere un bicchierino e le donne si affrettavano a fare provviste. Dopodiché il guardiano con la gamba di legno veniva a chiedere il solito goccetto, e non c’era un gran bisogno di parlare: si limitavano tutti e tre a guardare i vetri appannati, caricare la stufa, sospirare e ogni tanto buttare lì:
«Be’, di questo passo...».
«Eh già...».
«Ne avremo per dieci giorni... Quando comincia a piovere con la luna nuova...».
Mattina e sera il Barone andava all’ufficio postale. Non entrava più: l’impiegata riconosceva il suo passo, si affacciava alla finestra e gli faceva segno di no con la testa. L’importante era non incontrare il proprietario del Lion d’Or, dove quel demonio di Lola aveva avuto la faccia tosta...
Dopo quattro giorni il Barone sembrava già ingrassato. Aveva la pelle liscia e soda. Fin dal mattino cercava di indovinare cosa avrebbe mangiato quel giorno. Entrando da Maria annusava l’aria.
«Si sente profumo di cassoulet...».
«Sbagliato... Stracotto di capretto... Le piace il capretto?... Ma non le dà fastidio quella lente sempre incastrata nell’occhio?».
«Ci sono abituato...».
«Io penso che preferirei gli occhiali... Li uso la sera, per leggere il giornale...».
La fine della settimana lo preoccupava. Non sarebbe stato doveroso, a quel punto, parlare di soldi?
«Una lettera per lei, Barone...».
L’impiegata postale era tutta contenta. Aveva finito per prenderselo a cuore – o forse le faceva pena.
«Caro Jo,
«ti consiglio di tagliare la corda. Ieri ho incontrato un amico di John, il russo che conosci anche tu. Mi ha detto che le cose non vanno affatto bene. Al momento di firmare il contratto è venuto fuori che John non era l’unico erede della casa. A quanto pare, la questione è piuttosto intricata, tanto che John ha preferito squagliarsela, con il grosso acconto che aveva già intascato. Si parla di duecentomila bigliettoni, eh!...
«Spero che tu abbia trovato di che tirare avanti. Il tizio che mi ha riaccompagnato a Parigi ha promesso di farmi visita una volta a settimana, quando passa dalla Villette.
«Ti mando tutto il contante che ho. Non è molto. Sono ancora un po’ arrabbiata, ma tanto non cambierai mai.
«A presto, immagino. Prima di salire da me, chiedi alla portinaia. Non si sa mai.
Lola».
Nella busta c’erano cento franchi.
«Quattro fanti... Duecento punti!» esultò il guardiano con la gamba di legno.
«Io cinquanta... Pazienza!...» sospirò il Barone.
Un marinaio sputò per terra. L’altro si grattò la zazzera rossa e giocò il sette di picche.
Quanto a Maria, dietro al bancone, ogni tanto inumidiva il lapis con la punta della lingua e annotava qualche cifra su un foglio.
«Lei non ha picche?».
«Come, scusi?...» balbettò il Barone.
«Sette e sette, quattordici, più otto...».
Maria calcolava sottovoce.
«Ho vinto!» trionfò il guardiano. «Duecento punti di fanti, cento di cappotto, venti di belote e...».
Questo valse tre bicchierini a testa. La porta a vetri si aprì e si richiuse due volte. Il tavolo era apparecchiato in un angolo, accanto alla finestra.
Allora il Barone mormorò imbarazzato:
«Maria...».
Lei trasalì:
«Dica, Barone...».
«Maria... Devo farle una confessione... Io... Credo che...».
A quel punto era sincero. Si stava così bene, lì dentro, al calduccio, e nell’aria densa di profumi persino il tanfo del petrolio sembrava gradevole. Avrebbe rinunciato al monocolo, perché in quell’ambiente...
«Credo che prenderò una grande decisione, Maria... Mi aspettano sulla Costa Azzurra già da una settimana... Mi chiedo se...».
Vuotò il bicchiere, se ne riempì un altro e vuotò anche quello.
«Maria, se lei accetta, io sono pronto a...».
Ah, sì! Avrebbe campato tranquillo. Niente più assilli fin dal primo mattino. Niente più angosce la notte. Niente più...
«Barone...».
«So di stupirla... Ho gusti semplici, sa... In fondo ero nato per...».
Quante volte, a Parigi, gli era capitato di cenare con quattro o cinque cocktail e patatine? E invece – lo scopriva adesso – era nato per fare tre pasti al giorno, come tutti.
«Non sono più un giovanotto... Io...».
«Che c’è?» sussultò lei.
Un ragazzino con gli zoccoli aveva aperto la porta.
«Per il signor Dossin... È arrivato!...».
«Cosa?».
«Il suo vaglia...».
Maria non capiva.
«L’impiegata delle poste ha detto che se vuole passare stasera, anche se l’ufficio è chiuso...».
«Mando ventimila acconto e verso saldo banca. Stop. Scusa ritardo ma avuto contrattempo colpa certi imbecilli. Cordialmente. John».
«Stava dicendo, Barone, che lei...».
«Cos’è che stavo dicendo?... Vuole scusarmi?... Devo andare in paese e...».
Eppure esitò. Rimase un momento sulla soglia. Maria lo guardava rattristata.
Tre pasti al giorno, la belote, un trantran placido e quella brava donna di Maria che...
Che cosa fu a deciderlo? Fatto sta che uscì, pur capendo di commettere un errore. Andò all’ufficio postale. Venti bigliettoni...
«Lo sapevo...» disse.
Poi cercò l’insegna del Lion d’Or e aprì con fierezza la porta.
«La mia amica mi ha scritto di aver lasciato un piccolo conto in sospeso... Se nel frattempo vuole servirmi una buona cena...».
Maria?... Le sardine, le...
«Senta... Conosce qualcuno che possa farmi da marinaio per raggiungere Marsiglia?... Il mio si è ammalato e...».
L’indomani, da Maria, chiese in tono piuttosto freddo:
«Quanto le devo?».
E tirò fuori tutta la mazzetta, che il guardiano della chiusa non poté fare a meno di osservare con riverente stupore.
Ma una volta al timone dello yacht, mentre usciva dal bacino, il Barone si girò verso la porta a vetri dietro la quale si scorgeva un viso.
Pazienza! Era andata così! Avrebbe potuto...
Se quell’imbecille di John non gli avesse mandato i ventimila franchi...
Un quarto d’ora dopo era finito tutto. Dalle finestre di Maria si vedeva solo il canale grigiastro tra i due filari di pini e nell’aria riecheggiava una sirena impaziente che reclamava l’apertura della chiusa successiva.
«Mi chiedo quanti potevano essere!» mormorò il guardiano, che aveva ancora negli occhi l’immagine della mazzetta.
IL NEGRO SI È ADDORMENTATO
«Non ci crederà, Maria, ma mi si è rotta di nuovo la spoletta della macchina per cucire... Se Jef sapesse che la disturbo per questo...».
Ecco cosa intende dire. Non per nulla si è ripetuta mentalmente la frase per almeno cento metri. E invece, arrivando sulla barza,1 sorprende la giovane bambinaia negra che cerca di calmare il bebè di Maria ficcandogli in bocca una radice di altea. Allora si sente ribollire il sangue e grida. Grida tanto più forte in quanto usa il dialetto indigeno che non le è ancora molto familiare.
E, mentre strilla in quel modo, scorge dalla finestra Maria che si sveglia, su un divano, tutta spettinata (ha i capelli scuri che danno sempre un’impressione di disordine) e con il viso lucido di sudore.
Anziché andare ad accoglierla, Maria si alza in fretta e furia, tasta il pavimento con i piedi nudi per trovare le pantofole, incrocia sul petto la vestaglia azzurro cielo e corre in camera sua.
Jef non mancherà di ripetere alla moglie:
«Sempre lì a disturbare la gente per i motivi più stupidi!».
Eppure Jeanne ha aspettato le quattro, e alle quattro mica si fa più la siesta.
«È permesso, Maria?».
Un rumore, come se Maria chiudesse di colpo un cassetto per nascondere qualcosa.
«Non ci crederà, ma mi si è rotta di nuovo la spoletta della macchina per cucire... Scusi se l’ho svegliata... Quando ho visto che quella mocciosa stava infilando in bocca al bambino una radice lurida...».
Maria si incipria davanti allo specchio. Ha dormito troppo e ora ha la bocca impastata.
«Gli stanno spuntando i denti» replica.
«Sì, ma quella lì aveva toccato la radice con le mani...».
Sarebbe stato meglio sedersi subito. Fa troppo caldo per agitarsi. Il sole è velato già da una settimana, ma il suo riverbero è ovunque, nel cielo pesante come una coperta di cattiva qualità, nella vegetazione ingiallita della savana, nelle pietre, nei mattoni del bungalow, e aghi invisibili sembrano trapassarti le pupille. Dovrà pur finire, a un certo punto. La stagione delle piogge è in ritardo. Magari stanotte, o domani...
Senza vestirsi, Maria si trascina in cucina e accende un fornelletto a spirito per riscaldare il biberon del bambino, poi torna in salotto.
Calma apparente. È di cattivo umore, si vede. Jeanne Penning, magra e bionda, non soffre il caldo come lei e non ha figli da accudire. Questa mania di disturbare la gente per...
Nella barza il bambino piange di nuovo. Maria, che si sta scolando un bicchiere d’acqua fresca, non batte ciglio.
«Lei si fida di quella ragazzina?... A me sembra che...».
«A lei sembra cosa?».
«Non lo so... Magari mi sbaglio... Se avessi un figlio, l’idea che una negretta sudicia...».
È un errore, se ne rende conto. Farebbe meglio a star zitta o ad andarsene subito. Ma così, con quel marmocchio che strilla e quella Maria che continua tranquillamente a bere...
«Vuole forse insinuare che sono una cattiva madre?».
«Ma no, Maria... Solo che...».
«Ne ha cresciuti, lei, di figli?».
Una bomba, come il temporale che cova da tanti giorni e che ancora non si decide a scoppiare. Anche la tensione tra Maria e Jeanne cova da tempo, da molti mesi...
Ogni sera, o quasi, rincasando dopo il bridge, Jeanne dice a Jef qualcosa del tipo:
«Non capisco come si possa accudire così male un bambino...».
E lui, conciliante, un po’ allarmato:
«Non impicciarti di queste cose, per carità... Victor è pur sempre il mio capo...».
È cominciata prima del Congo, dove sono adesso. È cominciata quando abitavano ancora nella loro cittadina belga, dove la casa dei genitori di Maria era di pietra da taglio, mentre quella di Jeanne era di mattoni e in un quartiere povero...
«Glielo dico una volta per tutte, Jeanne... Se uno non fa figli, poi non va a dare lezioni agli altri... Soprattutto se non è stato interpellato...».
«Grazie... Me ne ricorderò...».
«Me lo auguro...».
«Ho sempre pensato che eravamo di troppo, io e Jef...».
Intanto il bambino strilla a più non posso. E, dentro la pentola di acqua bollente, il biberon si è arroventato.
Benché in piena savana, il salotto è esattamente come sarebbe a Namur, a Liegi o a Bruxelles. C’è un pianoforte con sopra delle fotografie, un divano cosparso di cuscini colorati: uno è giallo come il sole, con la sagoma di un grosso gatto di velluto nero.
Duecento metri più avanti, oltrepassato quello che chiamano il parco, un altro bungalow pressoché identico, solo che in salotto, al posto del pianoforte, ci sono una macchina per cucire e un grammofono arrivato con l’ultima nave.
Quanto ai mariti, al momento sono seduti l’uno di fronte all’altro negli uffici dell’amministrazione coloniale che si intravedono a sinistra, con un indigeno di guardia davanti alla porta.
Non sospettano niente. Vestiti di lino bianco, sudano, scrivono, fanno calcoli e fumano sigarette, asciugandosi ogni tanto le mani e i polsi per non macchiare di sudore i fogli.
Per trovare un altro bianco bisogna andare a Faradje, a cento chilometri esatti di distanza.
Alla fine Van Overbeek alza lo sguardo e constata che sono le sei meno tre minuti. Chiude i fascicoli e si accende un’altra sigaretta, guardando il cielo che ancora non vuole lavarsi. Poi si mette il casco e come sempre mormora:
«A stasera, per il bridge...».
«A stasera...» risponde Jef Penning.
Se ne vanno ciascuno per la propria strada. Il buio cala di colpo. Si scorgono solo le luci dei due bungalow.
Van Overbeek rientra a casa, dove la moglie, ritta sulla soglia, con le labbra ancora frementi, incorniciate di goccioline, gli annuncia:
«Ho buttato fuori quella megera di Jeanne... Se si azzardano a rimettere piede qui, lei e quel bellimbusto di suo marito che ti ride alle spalle...».
Maria non si è seduta al piano, Victor ha tentato di leggere senza riuscirci, e hanno finito per andare a letto alle nove.
Si sono rigirati per ore tra le lenzuola, innervosendosi al minimo contatto.
«Ma insomma, spostati!... Sei tutto sudato...».
L’indomani Van Overbeek si sente la testa vuota, e fuori continua a non piovere. In ufficio guarda il suo vice con occhi appannati e sfuggenti.
«Ehm... Senta, Penning...».
«Che seccatura, vero?».
Tutto qui. Si immergono nel lavoro. A mezzogiorno vanno a mangiare un boccone a casa avendo cura di non stringersi la mano fuori dall’ufficio, per non essere visti dalle finestre.
«Che ti ha detto?».
«Niente...».
«È capace di dare manforte alla moglie... Suo padre faceva il calzolaio in una botteguccia piccola così...».
Anche a Van Overbeek capita di camminare ripetendo tra sé e sé quello che vorrebbe dire. Purtroppo non lo dice.
«Senti, Maria... Jeanne Penning non intendeva offenderti... Ma, certo, affidare il bambino a una ragazzina negra...».
A che scopo? Sarebbe peggio! E del resto, intuisce che la moglie non è felice.
«Mi chiedo che faranno adesso la sera...» si limita a sospirare.
E lei, con una logica implacabile:
«Quello che facciamo noi!».
La stessa cosa della sera precedente! Dopo cena si attardano un po’, pescando nella pila di giornali che arrivano solo una volta al mese, tutti insieme. Ogni tanto una frase, seguita da un lungo silenzio.
«Non potresti costringerlo a chiedere il trasferimento?».
«Con ogni probabilità lo chiederà di sua iniziativa... Dove vai?».
«A letto...».
Se almeno piovesse. I Van Overbeek sono alla fine del loro terzo anno in Congo ed è la prima volta che la stagione delle piogge si fa aspettare tanto. In certi momenti verrebbe voglia di mettersi a gridare, da soli, per sfogarsi.
«Senti, Maria... Stasera devo tornare in ufficio... Tra qualche giorno ci sarà un’ispezione e ho un mucchio di lavoro...».
«Anche Jef?».
«Certo...».
La vede aggrottare la fronte. È gelosa, lo sente. Non di Jef, ovviamente. Ma in fin dei conti il marito passerà la serata con qualcuno, a fare qualcosa.
Forse è questo a dargli l’idea. Un’idea ancora vaga, embrionale, mentre lavora alla luce della lampada, di fronte al suo vice.
«Senta, Penning...».
Già si pente di aver parlato.
«Dica...».
«Sbaglio, o a bridge si può giocare anche in tre?».
«Non sbaglia...».
Per quella sera non ne parlano più. Ma evitano di guardarsi in faccia, come se si sentissero già in colpa.
Passano tre giorni prima che Jef butti lì:
«Una volta, a bordo del Léopoldville, abbiamo giocato a bridge in tre... Non è molto ortodosso, ma...».
E poco dopo, per caso, Jeanne Penning va a prendere il marito, timidamente, perché non sa ancora come la accoglierà Van Overbeek.
«A proposito, Jeanne... Stavo dicendo a Jef... Se qualche volta vogliamo provare il bridge in tre... Solo che sarebbe meglio non entrare dalla porta dell’ufficio... Facendo il giro dal retro...».
È tutto sudato e gli tremano le mani per l’audacia. Tornato a casa, ha un’aria così colpevole che Maria mormora:
«Scommetto che hai parlato con Jeanne...».
«No, ti giuro...».
«Guarda che se scopro una cosa del genere... Dopo quello che ha osato dirmi...».
«Due picche...».
«Tre fiori...».
«Tre senza atout...».
E Van Overbeek lancia di continuo occhiate ansiose al vasistas. È già l’ottava, no, la nona volta che loro tre si ritrovano in questo modo. La scusa degli straordinari serali non è male. Tanto più che l’ispezione non c’è ancora stata. Poi bisognerà inventarsi qualcos’altro.
Dopo cena – ma già a tavola comincia a smaniare – Van Overbeek sospira, si lamenta, parla di stanchezza, mentre Maria non batte ciglio.
«Pazienza!... Il lavoro è lavoro...».
La bacia sulla fronte, si incammina nel buio e va in ufficio, dove lo aspetta Giona, un negro che lui chiama così con il pretesto che somiglia a una balena.
«Hai capito?... Se viene mia moglie...».
Il negro afferma di aver capito. Jef entra dalla porta principale, e i due passano nel magazzino dove Jeanne non tarda a raggiungerli, dopo aver fatto prudentemente il giro largo.
«Al lavoro!...».
Il magazzino, che comunica con l’ufficio attraverso un vasistas, è ingombro di fucili, casse di sale, attrezzi, provviste, bandiere e persino lanterne veneziane per la festa nazionale.
I tre si dispongono attorno a una cassa. Non si sa bene perché, hanno preso l’abitudine di bere qualche bicchierino di gin.
«Ha detto tre senza atout?... Contre...».
Ovviamente lasciano accese le luci dell’ufficio. Da lontano si può credere che i due uomini siano immersi nel lavoro. Seduto alla scrivania di Van Overbeek, Giona sogna.
«L’asso del morto...».
Le camicie sono chiazzate di sudore. Un’altra abitudine che hanno preso è quella di togliersi la giacca, cosa che nel salotto di Maria non osavano fare. Jeanne fuma. Ha un lungo bocchino di giada che stringe tra i denti appuntiti. Le capita di sbagliare, di rivolgersi a Van Overbeek dicendo:
«A te, Victor...».
Ma si corregge subito. È del tutto involontario, solo perché lì dentro ci si sente tra amici, mentre in presenza di Maria...
«Taglio e gioco fiori...».
Quelle parole Van Overbeek se le ricorderà. Gli risuoneranno nelle orecchie per tutta la vita, pronunciate da Jef che ripete:
«Gioco fiori... Ecco qua!...».
Una sensazione che fino allora ha provato solo negli incubi: si sente avvampare e raggelare a un tempo, il sangue gli defluisce dalle vene e il cuore gli si contrae come una spugna strizzata con forza. Eppure ha la presenza di spirito di scegliere una carta tra quelle che ha in mano e lasciarla cadere sul cassone che funge da tavolo.
Dietro il vasistas ha scorto una faccia, quella di Maria. In vita sua non l’ha mai vista così: più fredda, più implacabile di un blocco di marmo, con occhi in cui ha percepito l’odio.
«Niente fiori?».
«Scusi...».
«Che cos’ha, Victor?».
«Non lo so... Mi sento...».
Non ce la fa più. Getta le carte. Corre in ufficio e scuote Giona che si era addormentato con la testa sulla scrivania. Il negro lo guarda stupito. Non c’è nessun altro nella stanza.
Senza prendere il casco Van Overbeek si slancia fuori. Non si accorge che finalmente piove, che ha le spalle zuppe, i capelli biondi grondanti. Punta dritto verso le luci del suo bungalow.
Apre la porta con un calcio.
«Maria!...».
Caso eccezionale, le stanze sono tutte illuminate. Il bambino piange. Con gesti febbrili Maria sta stipando la sua roba in un baule di ferro.
«Che fai?».
Lei non risponde. Per come la conosce, niente potrebbe convincerla ad aprire bocca.
«Ti prego, Maria, dimmi che cosa...».
Solo uno sguardo. Ma che sguardo! E intanto si affretta sempre di più: vestiti, sottane, scarpe, tutto dentro, alla rinfusa. Poi, in un altro baule, le fasce del bambino, i biberon, le tettarelle, le confezioni di fosfatina, il cucchiaio d’argento che... Pensa un po’, è il regalo di battesimo di Jeanne Penning...
«Senti, Maria...».
Lei lo scansa.
«Non sarai impazzita, spero... Dove vuoi andare? Non c’è una casa nel raggio di cento chilometri e...».
Stringe i denti, batte i piedi per terra, si guarda intorno alla ricerca di un oggetto da rompere... Fatto strano, vede se stesso dall’esterno, minuscolo, mentre si dibatte in mezzo a un flusso di stupidità che lo sommerge, in mezzo a una marea di incomprensione, e il futuro gli appare come una nube minacciosa che...
«Ma, sant’Iddio, non vorrai mica andartene da sola per strada, con il bambino... Che ti ho fatto?... Me lo dici che ti ho fatto?... Ho giocato a bridge, sì!... E tutto questo solo per un piccolo bridge innocente...».
Non è ubriaco, eppure si commuove come quando è sbronzo, si commuove per il piccolo bridge innocente che... che...
«Insomma, capirei se ti avessi tradita...».
Un altro sguardo, più duro del primo.
«È colpa mia se non riesci ad andare d’accordo con nessuno?... Abbiamo fatto un bridge in magazzino, è vero...».
Ah, finalmente sta aprendo bocca! Lo fa per ripetere con una voce che lui non le conosce:
«Certo, un piccolo bridge innocente...».
«Senti, Maria, ti impedirò di...».
«Togliti dai piedi...».
«Maria, ti dico una cosa...».
Dov’è Céline, la ragazzina negra? Con ogni probabilità si è rintanata tremante sotto il tavolo della cucina. E dire che è stata lei, con la sua radice di altea, la vera causa di...
«Maria!...».
«Fammi passare...».
Ha preso il bambino in braccio, avvolto in una coperta.
«Ma sei impazzita?... Maria!... O sei pazza tu, o sono pazzo io... Non vorrai...».
L’universo gli sembra più immenso che mai, e vuoto, assolutamente vuoto, con solo loro due che si agitano, scontrandosi in un vero e proprio delirio.
«Maria, se esci da quella porta...».
Di cosa potrebbe minacciarla?
«Se esci da quella porta...».
Corre verso il comodino. Una camera da letto che hanno pagato tremila e duecento franchi ai loro predecessori! Apre il cassetto e prende la pistola, che non ha mai usato.
«Ti avverto... Se te ne vai, non mi vedrai più vivo... Ascoltami, Maria...».
Lei lo guarda ancora una volta, la terza, ma quella che gli lancia adesso è un’occhiata sprezzante, un’occhiata che significa chiaro e tondo:
«Non ce l’hai, il coraggio! Sei troppo vigliacco! Tieni troppo alla pelle...».
«Te ne vai lo stesso?».
È terribile. È terribile dover prendere una decisione in così poco tempo, quando si è in uno stato simile. La cosa più terribile forse è che lui non perde la lucidità, che conserva una specie di sangue freddo. Se spara in aria, Maria lo disprezzerà per sempre. Se spara a lei... Significa perdere il posto, il premio triennale e cacciarsi in chissà che guai...
La pioggia scroscia sulle tegole e cala come un sipario davanti alla barza.
«Per l’ultima volta, Maria...».
Lei gli ha voltato le spalle, è già sui gradini. Lui ne approfitta per cercare il punto giusto, nella parte carnosa del braccio, badando bene a non centrare l’osso. Spara.
Purtroppo non cade. Si era sempre immaginato che un ferito dovesse cadere, e invece resta in piedi, lucido, imbarazzato. La moglie è rientrata in casa e grida:
«Céline...».
Il bambino le intralcia i movimenti. Siccome il tavolo è ingombro, lo depone per terra mentre Van Overbeek si decide a sdraiarsi sul divano.
«Ma bravo...» mormora Maria con voce rotta. «Victor!... Victor!... Dove sei ferito?... Rispondimi...».
Lui ha chiuso gli occhi, ma non è svenuto.
«Céline!... Céline!...».
I boy non dormono in casa. Il bambino ricomincia a piagnucolare. Non può restare lì sul pavimento. Ma...
Maria raddrizza la schiena, si asciuga il viso. A un tratto aggrotta la fronte e si precipita fuori. Percorre solo un centinaio di metri e grida a squarciagola:
«Jef!... Jeanne!... Jef!... Aiuto!...».
Attraverso la cortina di pioggia vede una finestra che si apre.
«Che succede?» risponde una voce.
«Aiuto!... Victor è... Presto...».
Victor ne ha approfittato per tirarsi su ed esaminarsi il braccio. Ancor prima di guardare, tastando con la mano destra la manica della camicia avverte una consistenza vischiosa, e allora sì che sviene.
Che dire? Fino a quel momento hanno avuto da fare, e non si sono neanche resi conto della situazione. L’aria odora di gin. Hanno aperto una fiaschetta per far rinvenire Van Overbeek, e poi tutti ne hanno bevuto un po’.
È stata Jeanne a occuparsi della medicazione, con una spilla da balia tra le labbra. Il fornellino è acceso perché hanno dovuto far bollire dell’acqua per pulire la ferita. C’è un gran disordine: si inciampa negli oggetti e nei vestiti, come se ci fosse stato un tornado, un’inondazione o un incendio.
Ora Victor è seduto in poltrona. Gli altri sono in piedi. Resta da fare la parte più difficile, perché bisogna pur dire qualcosa, e poi salutarsi, augurarsi la buonanotte.
Maria ha un’idea e corre verso il ripostiglio annunciando:
«Vi presto un ombrello...».
«Non ne vale la pena... È così rinfrescante...».
«Scomodarvi per un graffio da nulla...» sospira Victor.
E quella sciocca di Jeanne Penning:
«Ma si figuri, eravamo appena rientrati...».
Che gaffe! Di colpo Maria le lancia un’occhiata delle sue. Certo! Il magazzino dove i tre giocavano a bridge intorno a una cassa mentre il negro ronfava in ufficio... Jef pesta il piede alla moglie, ma troppo tardi. Maria porge l’ombrello.
«Dimenticavo che voi uscite la sera...».
Sarebbe bastato poco. Erano là, tutti e quattro, rasserenati, con la testa vuota come all’indomani di un’orgia. Se Jeanne Penning non avesse...
«Buonanotte, e si rimetta presto...».
«Buonanotte...».
I due uomini non osano stringersi la mano. Una volta fuori, Jef mormora:
«Non potevi starti zitta?».
Maria, invece, si limita a dire:
«Vieni a dormire».
«Signor Penning,
«oggi e nei prossimi due giorni non verrò in ufficio. In mia assenza, la prego di provvedere all’ordinaria amministrazione, nonché...».
«Non vai a chiedere sue notizie?» domandò Jeanne al marito.
«Ci sono andato. Mi hanno fatto rispondere dal boy che sta meglio...».
E il quarto giorno Van Overbeek tornò in ufficio, un po’ rigido, il braccio appeso al collo, gli occhi cerchiati. Jef, che aspettava esitante, ricevette un freddo:
«Buongiorno, signor Penning... Mi passi le pratiche in corso, per favore...».
Tutto qui. Calmo, compunto. Ogni tanto si alzava e cacciava la testa in un armadietto che teneva chiuso a chiave. Dopodiché un leggero odore di gin aleggiava nella stanza.
La scena si ripeteva dieci, quindici volte al giorno, e la sera, quando si avviava verso il suo bungalow, Van Overbeek era ancora più rigido che al mattino.
«Buonasera, signor Penning».
«Buonasera, signor direttore...».
Andarono avanti in questo modo per altri due anni. I primi a mollare furono i Penning: partirono per le vacanze e poi furono nominati altrove. Così si persero finalmente di vista.
Ma la sera Van Overbeek continuava a camminare a scatti e parlava sempre più spesso da solo. Gli capitava anche di scambiare un palo per un negro e di fargli una sfuriata!
LA SPILLA A FERRO DI CAVALLO
La lattaia era ancora in fondo alla strada, e le restavano solo le ultime due case prima di svoltare per rue de l’Enseignement. Dietro la staccionata verde della falegnameria di Halkin la sega elettrica cadenzava il ritmo dell’universo, e il cielo azzurro era percorso da fremiti misteriosi, da forme invisibili che aleggiavano, che si intuivano, ma che sparivano ogni qualvolta si tentava di metterle a fuoco.
«Sei troppo piccolo...» aveva dichiarato in tono solenne Doudou dall’alto dei suoi quattro anni compiuti da pochi mesi.
A parte il furgoncino della lattaia, là in fondo, e una donna spettinata che si stava affacciando sulla soglia di casa con in mano un contenitore smaltato, rue Pasteur era deserta, divisa a metà per tutta la sua lunghezza, con un lato al sole e l’altro all’ombra. Negli interstizi dell’acciottolato cresceva l’erba. E dalle pietre e dalle case del lato al sole proveniva quello stesso fremito che vagava nel cielo.
«Se tu fossi più grande, te lo direi...».
Qual era questo segreto che Doudou non poteva confidare al piccolo Corbion, che aveva un anno meno di lui? In seguito quel ricordo si cancellò dalla sua memoria, ma tutto il resto gli sarebbe rimasto ben impresso. Erano fermi in mezzo al marciapiede. Qualche metro più in là la finestra di una cucina seminterrata era aperta e nell’ombra azzurrognola si scorgeva la madre di Corbion che stirava della biancheria candida.
Di fronte a loro il muro di mattoni della scuola. Ancora qualche minuto e, alle dieci in punto, le porte delle aule si sarebbero spalancate riempiendo il cortile di schiamazzi tali da coprire persino il rumore della sega di Halkin.
«Dài, dimmelo!» insisteva il piccolo Corbion che aveva lunghi capelli da bambina.
Fu allora che Doudou, guardando verso l’angolo di rue de la Loi, vide spuntare suo zio Nicolas. Era un avvenimento. Zio Nicolas, che aveva un negozio di ombrelli in un’altra città, a più di cento chilometri di distanza, non andava quasi mai in rue Pasteur. Aveva folti baffi e la testa pressoché calva. E la mamma che non aveva finito le pulizie di casa ed era ancora in vestaglia! Si sarebbe agitata moltissimo!
«Non badare al disordine, Nicolas... Siediti un momento, che mi do una pettinata».
Per zio Nicolas, proprio perché le sue visite erano così rare, si apriva la porta del salotto che odorava di cera. Bisognava aprire anche le persiane, sempre chiuse, prendere dalla credenza la caraffa di acquavite che serviva, si può dire, solo per lui.
Doudou sentì suonare il campanello. La sagoma scura dello zio scomparve all’interno dell’abitazione. Nel cortile della scuola si scatenò il baccano dell’intervallo. Con le mani nelle tasche dei pantaloni, l’aria disinvolta da ometto, piantò in asso Corbion e si mise a gironzolare intorno a casa sua. In primavera avevano ridipinto la porta d’ingresso, probabilmente male, perché la vernice aveva fatto le bolle. Dal buco della serratura Doudou osservò il corridoio buio, in fondo al quale si apriva la porta a vetri della cucina.
Avrebbe potuto bussare, come al solito. Preferì passare dal retro. Due case più avanti c’era un vicoletto su cui davano i giardini. Si ritrovò nel cortile. Il giorno prima avevano fatto il bucato e nelle tinozze rimaneva un po’ d’acqua azzurrognola. I muri imbiancati a calce sfavillavano di sole.
«Non è possibile, Nicolas...» diceva sua madre. «Come può essere lui? Charles non ha mai avuto una macchina, non sa neanche guidare...».
Si sforzava di ridere, un po’ nervosamente. La finestra del salotto era aperta: Doudou vedeva lei e lo zio nella penombra, davanti a loro un giornale dispiegato sul tavolo.
«Appena sceso dal treno sono andato nel suo ufficio...» fece lo zio, accendendosi una sigaretta. «Quando ho chiesto di Charles, l’impiegato mi ha risposto che non lavora più per il signor Bastien da due anni...».
«Suvvia, Nicolas, non è possibile! Anche stamattina è uscito alle otto e mezzo come al solito...».
Un raggio di sole attraversava la stanza in diagonale rischiarandole i capelli biondi.
«Che ci fai qui, Émile?».
Sua madre non lo chiamava mai Doudou. Sosteneva che era ridicolo dare soprannomi ai bambini, che poi gli restano attaccati addosso e da grandi ne soffrono...
«Va’ a giocare!... Te l’ho detto mille volte di non passare dal giardino...».
Era convinta – tutti ne erano convinti – che fosse troppo piccolo per capire. Doudou trascorse il resto della mattinata sul marciapiede, con le mani in tasca, scuotendo la testa. Alla fine lo zio se ne andò.
«Émile!... Émile!...».
E la madre gli raccomandò:
«Quando torna tuo padre, non dirgli che stamattina è venuto zio Nicolas. Ti spiegherò poi. Non glielo dirai, vero?».
«No...».
Ci guadagnò un pezzo di cioccolato. Alle dodici e mezzo anche suo padre svoltò l’angolo e proseguì per rue Pasteur con la sua solita andatura, a passi lunghi e strascicati. Si chinò a baciare il figlio, poi infilò la chiave nella serratura e, come di rito, chiese:
«È pronto?».
La moglie sorrideva, con espressione un po’ tesa.
«Novità, in ufficio?».
«Niente di speciale...».
«Il signor Bastien è sempre gentile con te?».
«Perché me lo chiedi?».
«Non lo so... Così... Ci ha fatto tanti di quei regali che forse dovrei andare a ringraziarlo...».
Erano tutti e tre a tavola, in cucina. Fuori dalla finestra il muro bianco del cortile continuava a riflettere il sole.
«Mangia, Émile...».
«Non ho fame...».
«Mangia almeno la carne...».
C’era un che di innaturale nell’atmosfera, quel giorno.
«Al signor Bastien non piacciono le effusioni...» disse in tono serio il padre di Doudou. «È un tipo originale... Molto generoso, ma se lo ringrazi...».
«L’ultimo giro che hai fatto era dalle parti di Boulogne, vero?».
«Ma che ti prende? Come mai queste domande?».
«Niente... Qualcuno ha avuto l’impressione di averti visto a Parigi...».
«Chi?».
«Non mi ricordo... Mangia... Non ha importanza... Dev’essersi sbagliato, visto che eri a Boulogne... In ogni caso, di’ al signor Bastien che lo ringrazio per l’astuccio da cucito che mi ha mandato la settimana scorsa... Al bambino fa sempre un mucchio di regali, anche troppi...».
«Si capisce... Dopo quindici anni che sono con lui...».
Erano passati quindici anni, infatti, da quando Charles Boutet aveva cominciato a lavorare nell’agenzia assicurativa del signor Bastien, che gestiva un grosso portafoglio clienti.
Il signor Bastien era vecchio e ricco. Charles Boutet non aveva tardato a diventare il suo braccio destro.
«Cosa fa tuo padre?» chiedevano a Doudou. E gli era stato insegnato a rispondere:
«Il direttore di un’assicurazione».
Due volte al mese Charles Boutet si assentava per tre o quattro giorni allo scopo di far visita ai clienti dislocati in varie città del Nord.
«L’una e mezzo... È ora...».
Si alzò da tavola, andò a lavarsi le mani nell’acquaio del cortile, poi si calcò in testa la bombetta e prese la cartella.
«A stasera!... A stasera, Doudou...».
«Non dimenticarti di ringraziare il signor Bastien da parte mia...».
E appena la porta si richiuse la moglie scoppiò in singhiozzi, con la testa sulla tavola ancora apparecchiata.
«Non dire a tuo padre che ho pianto, mi raccomando... Non puoi capire... Quando sarai più grande...».
Adesso stava stirando, in cucina, come la signora Corbion qualche ora prima.
La finestra era aperta sul cortile dove le ombre avevano cambiato posto. Seduto per terra, Doudou giocava con dei cubi colorati quando sentì suonare il campanello. L’orologio sulla mensola del camino segnava le cinque meno dieci.
«Vieni pure, Nicolas... La prego, si accomodi...».
Un uomo che Doudou non conosceva, corpulento, ansante e con le guance paonazze, venne fatto entrare in salotto insieme a zio Nicolas.
«Allora?».
«È come immaginavo...» rispose Nicolas. «Tuo marito si è licenziato due anni fa, sostenendo di aver ricevuto una piccola eredità e di volersi mettere in proprio...».
«Ma perché non me l’ha detto?... Mi scusi, sa... Sono così sconvolta...».
Tirava su col naso. Ciononostante pensò a togliersi il grembiule bianco e a dare un’occhiata in cucina per accertarsi di non aver lasciato il ferro caldo sul tavolo.
«Va’ a giocare, Émile...».
Zio Nicolas proseguì:
«Dopo pranzo il signor Gilles l’ha seguito... Charles ha preso il tram ed è andato in un piccolo caffè dietro alla stazione, dove si gioca a biliardo...».
«Ma non giocava mai a biliardo!».
«Ora ci gioca... Quasi ogni giorno, a quanto pare...».
«Ma insomma, Nicolas, com’è possibile?... E i soldi?...».
I due uomini si guardarono. Doudou non sapeva ancora che il signore corpulento era un commissario di polizia.
«Appunto, signora... Dobbiamo scoprirlo... Quanto a questa fotografia...».
Tirò fuori dalla tasca lo stesso giornale che zio Nicolas aveva mostrato la mattina.
«Lo riconosce questo completo grigio?».
Lei sorrise dubbiosa.
«Mio marito non ha mai avuto completi grigi. Il suo lavoro lo costringe a vestire sempre di scuro...».
«E questo cappello?».
«No... Da quando lo conosco ha sempre portato la bombetta... Tutt’al più, d’estate, in campagna, il panama...».
«Però è lui, vero?».
«Magari è uno che gli somiglia...».
«Ma no, Sophie!» intervenne Nicolas. «Lo sai benissimo che è lui... Non è possibile che due individui...».
Tra loro, sul tavolo, un giornale parigino con la prima pagina abbondantemente illustrata. Sotto una foto si leggeva:
«Il nuovo sistema di segnaletica stradale entrato in funzione ieri».
L’immagine raffigurava un incrocio dei Grands Boulevards, con delle auto ferme a un semaforo. In primo piano, al volante di una macchina scoperta, Charles Boutet, o qualcuno che gli somigliava talmente da...
«Non potresti far uscire il bambino?».
«Émile... Va’ a giocare, ti ho detto!... E lascia stare quel giornale, capito?... Mi scusi, commissario, io faccio del mio meglio per educarlo, ma...».
«È papà...».
«Che stai dicendo?... Va’ a giocare!... E non immischiarti nei discorsi dei grandi...».
«È papà...».
Il commissario si chinò su di lui e gli chiese in tono bonario:
«Perché dici che è il tuo papà?».
«Perché è lui».
«Ma il tuo papà non ha la macchina...».
«È papà...».
«Magari è uno che gli somiglia, ma non è lui...».
Rosso fino alle orecchie, Doudou sfidava con lo sguardo gli adulti che lo attorniavano.
«È papà...».
«Émile, to lo ripeto per l’ultima volta, va’ a giocare con Corbion...».
«Un momento, signora... Perché sei così sicuro che sia il tuo papà?».
«Per via della spilla...».
«Quale spilla?».
«La spilla da cravatta... Ce l’aveva anche oggi a pranzo...».
Gli altri non avevano guardato i dettagli, figurarsi un dettaglio così piccolo che in foto sembrava solo una macchiolina bianca a ferro di cavallo.
«Lei, signora, capisce cosa vuole dire suo figlio? Magari ha una lente di ingrandimento...».
«Dovrebbe essercene una nel cassetto...».
Urtò il bambino passando.
«Oggi a pranzo suo marito che spilla da cravatta aveva?».
«Ne ha una sola, commissario...».
«Da molto tempo?...».
«Un anno, o poco più... Desiderava da sempre una spilla a ferro di cavallo, con piccoli rubini incastonati... E il suo capo...».
«Gliel’ha regalata l’anno scorso il signor Bastien?».
Lei arrossì ed esaminò con la lente di ingrandimento la prima pagina del giornale.
«Cosa conta di fare?» chiese zio Nicolas, un po’ imbarazzato.
Come gli era venuto in mente, a quello, di immischiarsi in affari che non lo riguardavano e di andare a parlare con il commissario?
«A che ora rientra suo marito?».
«Alle sei e mezzo... L’ufficio chiude alle sei... Insomma, dovrebbe uscire dall’ufficio alle sei... Ora non so più... Per amor del cielo, Émile, va’ a giocare!...».
«In questo caso, se permette, resto qui... Quando torna, non gli dica niente, o meglio, gli dica che c’è qualcuno che lo aspetta in salotto...».
«Io devo prendere il treno...» fece Nicolas alzandosi. «Mia povera Sophie, mi chiedo davvero... Se c’è qualcosa di grave, mandami un telegramma e...».
Alcuni ragazzini più grandi giocavano a biglie nel canaletto di scolo e ormai il sole illuminava solo i tetti e il primo piano delle case. Doudou teneva d’occhio la strada e quando scorse il padre che svoltava l’angolo gli andò incontro, come faceva di solito, poi gli si mise a fianco e infilò la mano nella sua.
«Perché non mi hai mai mostrato la tua macchina?».
«Chi te ne ha parlato?».
«Zio Nicolas e il commissario... Ho riconosciuto subito la spilla da cravatta...».
«È a casa?».
«Chi?».
«Il commissario».
«Sì...».
Charles Boutet rallentò un po’ il passo. Poi tirò fuori dalla tasca la chiave e la introdusse nella serratura.
«Va’ a giocare, figliolo...».
«Papà...».
«Che c’è?».
Niente! Doudou non avrebbe saputo dire cosa provava. Era triste. Aveva dei rimorsi, non riusciva a capire di preciso perché. Pensava alle passeggiate con suo padre, la domenica mattina, quando andavano insieme in pasticceria a comprare l’immancabile saint-honoré.
Doudou poteva chiedere quello che voleva: biglie, caramelle, un giocattolo.
«Sst!... Aspetta qualche giorno... Non dire niente a tua madre...».
Quel «non dire niente a tua madre» era altrettanto immancabile del saint-honoré. E in effetti, qualche giorno dopo, Charles Boutet, un po’ imbarazzato, arrivava a casa con il giocattolo.
«Per ringraziarmi degli straordinari che ho fatto negli ultimi tempi il signor Bastien mi ha dato questo per il bambino...».
Come faceva il signor Bastien a indovinare quello che Doudou desiderava, senza mai sbagliarsi? E perché suo padre gli strizzava l’occhio, quasi a ricordargli:
«Non dire niente a tua madre!».
In corridoio non c’era nessuno. Boutet appese la giacca all’attaccapanni e aprì la porta del salotto.
«Tu va’ dalla mamma...».
La mamma piangeva in cucina.
«Gli hai detto qualcosa?».
«Che avevo riconosciuto la spilla...».
Un mormorio di voci. La porta si aprì di nuovo.
«Sophie! Puoi venire un momento?».
E il salotto rimase chiuso per quasi un’ora. I fagioli sul fuoco finirono per bruciarsi. La finestra era ancora aperta, ma adesso dal cortile giungeva una frescura umida.
«Cosa risponde, signor Boutet?».
«Me l’aspettavo che prima o poi sarebbe successo. Sono sempre stato iellato...».
Era alto e biondo, con l’aria mite e i lineamenti un po’ sfocati, come in una fotografia che comincia a sbiadire. Si girò verso la moglie e balbettò:
«Perdonami, Sophie...».
Lei aveva già pianto talmente, quel giorno, che ormai poteva solo tirar su col naso e asciugarsi gli occhi con un lembo del grembiule.
«Ha un appartamento a Parigi?».
«Una camera ammobiliata, vicino alla Gare du Nord, in rue Maubeuge...».
«E una macchina?».
«L’ho comprata un mese fa...».
«Perché?».
«Perché ne avevo voglia...».
«Ha anche un’amante?».
Lui arrossì e scosse la testa.
«Non ho mai avuto un’amante vera e propria...».
«È meglio confessare tutto, Charles!».
«Ma è la verità... Non ho mai avuto un’amante vera e propria... Non era per quello...».
«È chiaro che due anni fa non ha ricevuto alcuna eredità...».
«Esatto...».
«Come se li è procurati i soldi per condurre questa doppia vita?».
«Non l’ho fatto apposta...».
«Si spieghi meglio...».
«È semplice, commissario... Chiedo di nuovo perdono a mia moglie... Guadagnavo troppo poco dal signor Bastien... Lui era molto affezionato a me... Me lo ripeteva sempre, ma non pensava a darmi un aumento... Credo che non abbia idea di quanto costi mantenere una famiglia... Allora ho cominciato a prendere piccole somme, piccolissime, quasi ogni giorno... Tenevo io la cassa... Il signor Bastien non era mai in ufficio, non si occupava degli affari... Era facile... Cinque franchi... Dieci... Quanto bastava per portare a casa un dolce, un giocattolo per il bambino, comprarmi le sigarette, un sigaro. Rincasando, dicevo:
«“Questo da parte del signor Bastien...!”.
«E mia moglie ci credeva...».
Sophie aveva di nuovo le lacrime agli occhi e si nascondeva il viso tra le mani.
«Sa, non volevo cambiare vita, volevo solo vivere un po’ meglio, comprare delle cose di cui parlavamo sempre e che non ci potevamo permettere... È diventata una mania... Prendevo anche degli oggetti... Oggetti inutilizzati... Dal signor Bastien ci sono soffitte piene di oggetti inutilizzati, di cui lui ignora persino l’esistenza, e che noi sognavamo di avere...».
«Charles!».
«È così... Negli anni passati alle sue dipendenze, il signor Bastien ha ereditato tre volte, da zie o zii che conosceva appena... Io avevo il compito di fare l’inventario e catalogare i beni. Il sottomano che c’è in camera da letto, per esempio...».
«Charles!».
«E tanta altra roba... Un andazzo che avrebbe potuto durare a lungo, anche tutta la vita... Ma quando il signor Bastien ha ereditato da una certa zia Grégoire, di Bourges, ho scoperto titoli e obbligazioni di vario tipo che non erano neanche registrati... Ho preso un’obbligazione... Doveva valere intorno ai trecento franchi... Non avevo nessun piano in mente... Ma qualche mese dopo è stata estratta a sorte con un premio di cinquecentomila franchi...».
«E lei ha incassato i cinquecentomila franchi?».
«È cominciato tutto da lì... Non potevo servirmi di quei soldi... Non potevo godermeli con mia moglie e il bambino... Per mesi ho continuato ad andare in ufficio... Portavo a casa dei regali, sempre sostenendo che venivano dal signor Bastien... Ma ero stufo... Ero ricco e continuavo a vivere come un impiegatuccio...
«Spesso, vedendo gente a zonzo in orario di lavoro, pensavo che era una fortuna poter disporre del proprio tempo...
«Allora, per fare come loro, mi sono licenziato... Solo che mia moglie non doveva saperlo... Mi toccava divertirmi da solo... Ho cominciato a giocare a biliardo... Frequentavo piccoli caffè lontani dal centro...
«Quando in casa mancava qualcosa, lo compravo dando a credere che si trattava di un regalo del signor Bastien.
«Il momento peggiore era la mattina perché non sapevo che fare... Difficile trovare compagni per una partita a carte...
«Così mi è venuta l’idea di andare a Parigi... Ho affittato una camera... Mi sono comprato dei vestiti nuovi... Frequentavo i cinema, i teatri... Ma le giuro che non mi divertivo...
«Anche la macchina... Temevo sempre di avere un incidente e di essere scoperto...
«Sono contento che sia finita... Chiedo perdono a mia moglie... Chiedo perdono al signor Bastien...».
Chinò il capo, rassegnato al peggio.
«Lo sapevo che non poteva durare, che i nodi sarebbero venuti al pettine, ma che farci?».
«È pronto a ripetere la sua confessione davanti al giudice istruttore?».
«Quando vuole...».
«Charles!... Come hai potuto...?».
Sul pavimento della cucina il piccolo Doudou cercava invano di distrarsi giocando con i suoi cubi, stomacato dalla puzza di fagioli bruciati.
Vide aprirsi la porta. Il commissario era molto cortese.
«Dato che è d’accordo, è meglio se la accompagno io...».
In corridoio Charles Boutet si girò verso la porta a vetri della cucina.
«Ciao, figliolo!» gridò.
«Papà!...».
Ma i due uomini erano già usciti e Sophie prese in braccio il bambino balbettando:
«Tuo padre deve andare... Resteremo da soli per un bel po’...».
Un’umidità salata sulle guance. In strada gli sguardi curiosi dei vicini. Una serata strana, nella cucina che sembrava vuota.
«Dov’è la macchina?».
«Non è il caso di parlarne...».
«Perché?».
L’indomani tre uomini che, insieme al commissario ansante, perquisivano tutta la casa, compresa la biancheria negli armadi.
«Va’ a giocare, Émile...».
La strada tagliata in due dalla frontiera tra sole e ombra. Il piccolo Corbion, che era davvero troppo piccolo per capire.
«Perché hanno portato via tuo padre?».
«Perché ha rubato!».
Una parola còlta al volo.
«Ha rubato una macchina...».
«Jojo!... Jojo!... Rientra subito in casa!».
Era la signora Corbion che richiamava il figlio e lo sgridava:
«Te l’avevo già detto stamattina di non giocare con quello lì...».
Un grande vuoto. Non sempre i ricordi dei bambini sono concatenati. Un trasloco. Il treno. Un’altra città. Un appartamento di due stanze in una strada più stretta che sapeva di povero. La scuola. Ma non la scuola di mattoni rosa con il cortile dove gli alunni giocavano durante la ricreazione. C’erano fabbriche tutt’intorno, senza il rumore familiare della sega elettrica di Halkin.
Un anno! Due...
Poi, un giorno, un uomo che lo aspettava all’uscita di scuola, con gli occhi tristi e una barba corta che gli copriva il mento e le guance.
«Non mi riconosci?».
E lui, fissando quel viso:
«Papà...».
«Traslocheremo di nuovo... Tua madre potrà smettere di lavorare».
«E la macchina?».
«Niente più macchina... Capisci?... Non l’abbiamo mai avuta... Mentre non c’ero, ti sei comportato bene con la mamma?».
«Sì...».
Ma non erano più nella loro città, nella loro strada con luci, ombre e rumori familiari. Neanche la campagna era uguale.
«Che cosa fa tuo padre?».
Avrebbe voluto rispondere:
«Il direttore di un’assicurazione...».
Non era vero. Che cosa faceva? Cambiava mestiere. E loro cambiavano di nuovo città. Cambiavano casa. Scoppiavano litigi.
«Uno che è stato capace di...».
Per questo il ricordo di quella mattina in rue Pasteur, poco prima della ricreazione, quando la lattaia era già in fondo alla strada e zio Nicolas svoltava l’angolo, restava magnifico.
«Che cosa fa tuo padre?».
Doudou rispondeva tutto fiero:
«Faceva il direttore di assicurazione... Aveva una macchina...».
E una spilla da cravatta a ferro di cavallo con dei piccoli rubini incastonati!
E la domenica mattina lui, con la mano stretta in quella di suo padre, andava alla pasticceria Montussier a comprare un saint-honoré e lo portava a casa reggendolo con precauzione dal nastrino rosso...
«Col tempo capirai!» gli ripetevano.
VALÉRIE SE NE VA
Aveva dormito con le calze e la giornata si preannunciava più fredda della precedente, lo intuiva dai suoi geloni. In sottana, con i capelli sulle spalle, Valérie accese la lampada a petrolio. Erano le sei del mattino. Il suo letto era in un angolo della cucina, che comunicava con la drogheria mediante una porta a vetri schermata da adesivi con motivi ornamentali. In due riquadri i decori erano stati staccati per poter guardare dentro il negozio.
Presto sarebbe stato Natale, poi Capodanno, la Quaresima, la Settimana Santa... Valérie viveva sempre in anticipo sul calendario... Uff, il fuoco non prendeva... Andò a recuperare un bidone di petrolio in negozio e ne versò una dose abbondante nella stufa... Sua madre diceva sempre... Ma lei stava attenta a tenere la sottana quanto più lontano possibile... Un piccolo sbuffo, e il caratteristico odore del fuoco che si accende impregnò subito tutta la casa.
I vetri erano coperti di brina e il riverbero della luna poteva dare l’impressione che fosse già l’alba. Si riuscivano a distinguere i dettagli, persino i ramoscelli degli alberi, come tratteggiati a penna sullo sfondo del cielo. La terra scura del giardino era tutta crepata, le foglie dei cavoli gelate. Le galline cominciavano a starnazzare nel pollaio, ma se ne stavano ancora al riparo.
Solo Valérie usciva così presto, ogni domenica, per andare alla prima funzione, dopo aver messo a scaldare l’acqua per il caffè. Si muoveva senza far rumore, pervia della madre che dormiva nella stanza accanto. Su una sedia c’erano, preparati dalla sera precedente, il vestito nero e il cappotto nero con la stretta sciarpa di martora, che qualcuno aveva paragonato a una coda di topo.
Valérie abbassò lo stoppino della lampada, che si sarebbe spenta da sé, e nella semioscurità si vide un po’ di cenere rossa sul fondo della stufa, da cui emanava un vivido tepore. In negozio si accorse di avere una scarpa slacciata e fece per sedersi sullo sgabello. Ma si rialzò subito, avvertendo sotto di sé qualcosa di sferico: la solita orrenda testa di bambola.
Non c’era verso di impedire alla piccola Ninie, la figlia della vicina, di andare a giocare in negozio e di lasciare in giro quella testa di bambola mezza sfondata, senza occhi...
Valérie la gettò a terra stizzita; in quel momento i piedi, costretti dentro le scarpe, cominciarono a dolerle per i geloni, e l’idea di dover fare due chilometri...
La testa della bambola rotolò sull’impiantito di cemento e si fermò a ridosso della porta della cucina. Nessun dubbio, su questo: Valérie l’aveva vista bene mentre si riannodava i lacci delle scarpe. Poi aveva preso la borsa, il messale rivestito di feltro nero, i guanti di filo, ed era uscita. Aveva chiuso a chiave la porta, intanto che il cane dei vicini tirava la catena e ringhiava appiattendosi al suolo per osservarla da sotto il cancello.
Il paesaggio era come sbarrato da una gigantesca croce bianca: due strade livide che si intersecavano ad angolo retto formando quattro bracci. Per questo il posto si chiamava Quatre-Bras. E, guarda caso, c’erano solo quattro case. Quella all’angolo aveva un’insegna grigia con una scritta in nero: «Conche Maupré - Drogheria - Bar».
E, all’estremità di uno dei quattro bracci, il paesino di Foussage con i suoi tetti e lo sparuto campanile.
Per strada c’era solo Valérie, bassina, tutta vestita di nero, con i piedi sempre più doloranti, il naso rosso, gli occhi lacrimosi e le mani intirizzite nei guanti di filo. Doveva affrettarsi. I campi erano spogli e deserti. Le restavano da percorrere gli ultimi cinquecento metri quando le campane annunciarono la prima messa.
Si inoltrò fra le altre donne vestite di nero e raggiunse il suo banco. C’erano candele accese. Il parroco stava pregando sottovoce, e anche le labbra di Valérie si mossero. Dopo la comunione, mentre avanzava a capo chino e mani giunte, con passo sicuro nonostante le palpebre semichiuse, pregò come ogni domenica:
«Dio mio, fa’ che mia madre recuperi le forze e torni a camminare... Ti prego, Dio mio, fa’ che un giorno possa trasferirmi in città e diventare sarta... Fa’ che non ci succeda niente di male e che...».
Sulla via del ritorno comprò la carne dal macellaio che aveva appena aperto l’inferriata dipinta di rosso. La luna era scomparsa, ma il sole non era ancora sorto e la luce era smorta come all’andata. Valérie procedeva rapida.
«Fa’ che i miei geloni non suppurino come l’anno scorso...».
Non era più in chiesa, ma c’era ancora tempo per una preghiera aggiuntiva.
«Fa’ che i miei poveri piedi...».
A ciascuno i propri guai. La vicina, la madre di Ninie, aveva sempre mal di stomaco. La lavandaia, invece, non parlava d’altro che della sua schiena.
«Sapesse che dolori, signorina Valérie...».
Una macchina la superò, rallentò, e il conducente si sporse un attimo dal finestrino per rivolgerle un cenno di saluto. Una bella macchina, da almeno cinquantamila franchi. L’uomo al volante era suo cognato, il marito di sua sorella Marthe, che faceva il medico a Coulonges e che con ogni probabilità stava andando a caccia di anatre. Non si fermò. Avevano una domestica, trascorrevano l’estate al mare con i figli, e quando Valérie aveva chiesto un contributo di duecento franchi al mese per...
«Duecento franchi al mese?... Dove vuoi che li trovi, cara mia?... Con tutte le spese che abbiamo!... La mamma non ha bisogno di niente... Finché ci sei tu...».
E Geneviève, sposata con un impiegato delle ferrovie, sosteneva di non riuscire a sbarcare il lunario. Anzi, se andava da loro era solo per raccattare qualcosa!
«Avrei bisogno di un po’ di zucchero... Cannella te n’è rimasta?... Mi sa che ho finito i chiodi di garofano...».
Valérie camminava e i piedi le facevano sempre più male. Tirò fuori la chiave dalla borsa ed entrò nella drogheria, dove aprì le imposte. Quindi si sedette sullo sgabello per togliersi le scarpe, e rimase lì per un pezzo a massaggiarsi i piedi indolenziti. Non guardava nulla di particolare, voleva solo riposarsi un momento. Dopodiché si sarebbe cambiata d’abito, avrebbe preparato il pranzo, provveduto alle galline, ai conigli, e legato la capra sul ciglio della strada.
Poi sarebbe stato il turno della madre... Doveva lavarla, vestirla, metterla nella sedia a rotelle... E figurarsi se nel frattempo non arrivava qualche cliente a disturbarla...
A un tratto le saltò all’occhio qualcosa che lì per lì le parve inspiegabile... La testa della bambola... Valérie, con la fronte aggrottata, temette di avere le allucinazioni... La testa della bambola non era più addossata alla porta della cucina, ma in mezzo al negozio...
La signora Conche faceva finta di dormire. Valérie, ritta davanti al suo letto, lo sapeva benissimo.
«Mamma!...» ripeté in tono brusco.
Con il viso rosso e gonfio come un mostruoso bebè, la vecchia recitò fino in fondo la sua innocente commedia: trasalì, aprì gli occhi, li richiuse e si stiracchiò, balbettando con voce impastata:
«Sei già tornata?».
«Gérard, vero?» chiese Valérie senza lasciarsi commuovere.
«Gérard, cosa?».
«Che è venuto a fare? Come è entrato?».
«Non capisco che vuoi dire...».
I lineamenti di Valérie non erano mai stati così duri. Di solito, infatti, il suo viso era del tutto inespressivo o esprimeva soltanto una mite rassegnazione. Ma stavolta quel viso tondo e quasi lunare da zitella sembrava essersi allungato, il naso le si era appuntito, le labbra assottigliate.
«Che voleva?».
«Non l’ho visto, Gérard...».
Gérard era il fratello di Valérie, un buono a nulla che a trentadue anni non aveva ancora un lavoro fisso e a cui bisognava dare di continuo soldi per salvarlo dalla galera.
«Controlliamo subito...».
Valérie andò ad aprire il cassetto della cassa e contò i soldi. Contro ogni aspettativa, non mancava neanche un franco.
Eppure la testa della bambola... Per essere rotolata lì in mezzo al negozio, qualcuno doveva aver aperto la porta della cucina...
«Spostati!» disse alla madre.
La vecchia obbedì, docile e spaventata.
«Che vuoi fare?».
Che faceva? Tirava fuori da sotto il materasso il logoro portafoglio in cui la madre custodiva i suoi undicimila franchi di risparmi. Undicimila franchi che difendeva ferocemente. A Valérie era capitato di aver bisogno di soldi per pagare un fornitore, ma lei non glieli aveva prestati.
«Non si sa mai cosa può capitare... Se un giorno ti succedesse qualcosa...».
La signora Conche prevedeva la morte di tutti, tranne la sua.
«Almeno potrei entrare a testa alta in una sala da pranzo e...».
Quando parlava dell’ospizio piangeva di commozione. Nel frattempo era Valérie a fare tutto, a occuparsi degli animali, del negozio, a lavare la madre, ad accudirla, prenderla in braccio e metterla in poltrona; era Valérie a vivere ai Quatre-Bras spazzati da tutti i venti, mentre il suo sogno era fare la sarta in città!
La vecchia la osservava contare le banconote tutte spiegazzate per essere state contate e ricontate decine di volte.
Non ne mancava neanche una!
«Dimmi chi è venuto...».
«Ma nessuno, Valérie! Io non ho sentito niente. Insomma... Dio mio, come sei cattiva con la tua povera vecchia mamma...».
Allora, se non era venuto nessuno...
«Fammi vedere i piedi...» ordinò a un tratto Valérie.
«Che c’entrano i miei piedi?... Non te li faccio vedere... Io...».
Ma Valérie le strappò di dosso le lenzuola. I piedi della madre erano avvolti in fasce di flanella bianca. La sera precedente, dopo averla messa a letto, Valérie le aveva infilato delle babbucce da notte pulite. Adesso erano sporche di polvere...
«Che cosa hai fatto?».
«Io?... Sentiamo, che cosa avrei fatto?... Come puoi maltrattare così una povera vecchia che...».
«Confessa che ti sei alzata...».
Allora la madre cominciò a piangere piano, senza rispondere, scuotendo la testa come per prendere il cielo a testimone della cattiveria del genere umano e di Valérie in particolare.
Anche Valérie piangeva. Ciononostante provvide a versare sul caffè macinato l’acqua che bolliva e che aveva appannato tutti i vetri.
«Lo sospettavo...» mormorava, un po’ come in chiesa quando recitava le preghiere. «Lo sospettavo da tempo, ma non volevo crederci... Se penso che ogni mattina mi costringevi a sollevarti di peso per metterti in poltrona e che gemevi appena ti sfioravo le gambe... Ora capisco... I cocchi di mamma se ne sono andati... Non sarà certo Marthe che verrà a occuparsi di te, vero? Geneviève si fa vedere solo se ha bisogno di qualcosa... E non parliamo di Gérard... Perciò tocca a Valérie, la povera scema...».
«Sei cattiva...» piagnucolava la vecchia.
Valérie, trasformata, fremeva dalla testa ai piedi. Il velo di dolcezza e rassegnazione si era strappato, lacerato, a causa di una testa di bambola.
«Aveva ragione il medico... Te lo ricordi cosa ha detto l’ultima volta il dottor Tiskin?... Ha detto che ti piaceva farti coccolare e che, se fossi stata più coraggiosa...».
Perché non c’era più il minimo dubbio: sua madre si era alzata dal letto! Sua madre aveva attraversato la cucina e aveva aperto la porta del negozio!
«E quando mi lagnavo che eri troppo pesante, cosa mi rispondevi?
«“Augurati di dover sollevare la tua vecchia madre per tutta la vita, figlia mia...”».
Rischiò di rompere una tazza. Si udì tintinnare la campanella: la vicina era entrata in negozio.
«Un quarto di caffè macinato, per favore...».
Valérie si calmò di colpo, perché non bisognava far vedere niente ai clienti. Ma quando la vicina uscì, ritrovò intatta la sua collera e la sua indignazione.
«Se penso che tutta la mia vita, tutta la mia giovinezza... Me lo vuoi dire perché ti sei alzata?... Me lo vuoi dire che ci sei andata a fare in negozio?».
«Sei cattiva!... Sei cattiva!...» continuava a piagnucolare la madre. «Intendi lasciarmi a letto, a quest’ora?...».
«Certo che ti lascio a letto!... Poco fa ti sei alzata senza di me, no?... È finita, ormai!... Visto che le cose stanno così, me ne vado anch’io, come le mie sorelle e mio fratello...».
«Valérie!» gridò la madre in preda al panico. «Ti supplico, perdonami!... Io...».
«Che ci sei andata a fare in negozio?».
«Non lo so... Non puoi abbandonarmi...».
«Quindi tu eri in grado di camminare e mi lasciavi credere...».
«Valérie!».
«Non c’è Valérie che tenga... I soldi ce li hai, no?... Undicimila franchi... Be’, puoi benissimo pagare qualcuno che... La Rose, qui accanto, sarà felice di...».
«Non voglio essere accudita dalla Rose... Non voglio che te ne vai... Dio mio, che cosa ho fatto per meritare...».
Piangevano tutt’e due, tiravano su col naso, si spiavano a vicenda, Valérie senza smettere di misurare la stanza a grandi passi, la vecchia seduta nel letto mentre lanciava alla figlia occhiatine ansiose.
«Sì che me ne vado... Oggi stesso!... Se penso che intanto Victor è a caccia... E che Marthe ha una domestica!... Si sveglia alle nove, quando la colazione è pronta e la stufa accesa... Io, se per caso mi attardo un momento sulla soglia, ti sento gridare come se fosse scoppiato un incendio:
«“Valérie!... Valérie!...”.
«E devo anche preparare da mangiare per i camionisti!... Devo servire da bere, trasportare casse e bidoni... E appena ti lascio sola un momento...».
Aveva aperto il cassetto del comò e stava tirando fuori la sua roba.
«Ti sei alzata, eh!... Ma mi hai fatto credere...».
E a un tratto, piantata in mezzo alla camera della madre:
«Per amor del cielo, dimmi almeno cosa sei andata a fare in negozio!... Se fosse venuto Gérard, mancherebbero di certo dei soldi... Allora...?».
«Aiutami ad alzarmi...».
«No...».
«Valérie!... Se ci fosse la buonanima di tuo padre...».
«La buonanima di mio padre direbbe che sei sempre stata un’egoista...».
«Come puoi bestemmiare così mentre quel sant’uomo...».
«Che ci sei andata a fare in...».
La madre si era coperta il viso con il lenzuolo, ma sbirciava attraverso una piccola apertura, e Valérie se ne accorse: aveva un’espressione furba e attenta.
«Pazienza! Ti arrangerai con la Rose... Prima di prendere la corriera di mezzogiorno andrò ad avvertirla e...».
«Non voglio che quella ragazza metta piede qui dentro...».
«Allora resterai sola... E dire che non mi sono mai decisa a comprarmi una bicicletta, nonostante i miei poveri piedi...».
In casa c’era soltanto una vecchia valigia, e Valérie la stava riempiendo di tutto quello che le capitava sotto mano.
«Non sono affatto preoccupata!... Una camera in città, non al pianterreno perché è più difficile da riscaldare... Manderò a prendere la mia macchina per cucire... Del resto l’ho pagata io... Non ci metterò molto a crearmi una buona clientela... Ho passato tutta la vita a...».
«Portami almeno il caffè...».
Valérie le porse una tazza, esitò, andò a recuperare dello zucchero in negozio e un cucchiaino nella credenza.
«È troppo caldo...» gemette la vecchia, a cui di solito quelle lagne riuscivano benissimo.
«Lascialo raffreddare...».
«Sporcherò il letto... Mi trema la mano...».
«Le gambe non ti tremavano, stamattina, per raggiungere il negozio...».
«Sei cattiva...».
«Ah, sono io la cattiva!... Signore Iddio, cosa bisogna sentire... Io che non ho avuto una giovinezza... Io che...».
«Dammi un po’ di pane...».
Ogni tanto singhiozzava, come capita ai bambini anche quando hanno smesso di piangere da un pezzo, e le guance di Valérie erano umide di lacrime.
«Me ne vado eccome!... Mi hanno imbrogliata tutti quanti, e io avrei continuato a fare la serva fino alla morte... Vorrei proprio sapere cosa...».
Sì, cosa c’era andata a fare, sua madre, in negozio?
Erano le nove. Per strada cominciavano a passare i ciclisti e qualche macchina veloce – e agli occhi di chi si trovava a bordo Quatre-Bras doveva apparire come un gioco di costruzioni in mezzo all’incrocio.
Se ne sarebbe andata! Visto che sua madre soldi ne aveva... Se necessario, qualora non avesse trovato una camera da affittare di domenica, per una notte poteva dormire all’Hôtel du Marché, dove la conoscevano e non le avrebbero chiesto troppo. Quando le sue sorelle l’avrebbero saputo... Che cosa avevano fatto, loro, per la madre?... L’avevano lavata dalla testa ai piedi?... L’avevano sollevata di peso due volte al giorno?... Al punto che certe sere Valérie aveva la schiena a pezzi, come dopo chissà quanti bucati...
«Non puoi... Lo sai che ne morirei...».
Avrebbe campato cent’anni! L’aveva sempre sostenuto che avrebbe campato cent’anni come sua nonna!
Se non era andata ad aprire la porta a Gérard...
«Dovrò rimettermi le scarpe...».
Valérie parlava da sola. Guardava quei due strumenti di tortura, informi, sul pavimento della cucina. Ora che aveva i piedi caldi era un’impresa infilarsi le scarpe, e per almeno mezz’ora le avrebbero fatto un male del diavolo...
Chissà perché sua madre...
«Ammettilo che mi hai sempre sacrificata... Già da piccola ero io a dovermi occupare delle mie sorelle, e i vestiti per me erano ricavati dai tuoi abiti smessi, mentre i loro...».
«Non sei mai stata civetta, tu...».
«Perché tutti dicevano che ero brutta!».
«Valérie, tesoro mio...».
«Non c’è tesoro che tenga... Me ne vado... Entro due ore...».
«Mettimi almeno in poltrona...».
«No...».
«Vuoi lasciarmi a letto?».
La vecchia piangeva di nuovo, senza far rumore, con quel broncio infantile di cui si serviva per toccare il cuore.
«Dài, siediti... Sta’ dritta...».
«Me l’immaginavo che...».
«Ti sto mettendo in poltrona, ma me ne vado lo stesso...».
«Passami la coperta... Non hai ancora dato il mangime alle galline...».
«Ho altro a cui pensare...».
«Loro non c’entrano...».
Ovvio! Valérie lanciò nel pollaio qualche manciata di granoturco, ma non le andava di tagliare l’erba per i conigli perciò si limitò a spezzettare delle barbabietole.
«Valérie!...».
«Che hai fatto in...».
«Non lo so... Ti giuro che...».
«Del resto, non mi interessa... L’unica cosa importante è che sei in grado di camminare da sola e che per dieci anni...».
«Si può avere un rosé?» gridò qualcuno in emporio.
Un ciclista, un giovanotto arrivato da un paese vicino, impettito nel vestito della domenica, con le mollette sull’orlo dei pantaloni. Valérie lo servì. Attraverso la porta semiaperta vedeva la madre in poltrona, accanto alla stufa, dove passava tutta la giornata.
«Mi dia anche un po’ di salame...».
Valérie ne tagliò due fette e le pesò.
«Settantacinque centesimi di salame e novanta di vino...».
L’ultima volta che lo faceva! Non aveva mai sopportato l’odore di quel vinaccio e quando doveva spillarlo dalla botte le veniva la nausea.
Le campane suonarono per la messa solenne. Certa gente poteva alzarsi tardi, vestirsi bene e andare a una funzione che durava quasi un’ora! E dopo aveva pure il tempo di gironzolare per il paese!
Chissà perché sua madre...
Almeno non avrebbe lasciato la casa abbandonata a se stessa, perché la Rose o qualche altra vicina...
«Va’ a giocare fuori di qui, tu...».
Era Ninie, che si era intrufolata in negozio e si trascinava carponi dietro al bancone.
Valérie sistemò il letto della madre, rivoltò i materassi imbottiti di piume gonfiandoli come nuvole e scosse la trapunta rossa. Poi rifece il suo letto. Poi pensò che la capra... Che colpa ne aveva, la capra, che intanto si era messa a belare?... Tirò fuori la stanga, prese il picchetto di ferro, il mazzuolo...
Chissà perché sua madre...
E guardava, rattristata, quella croce di strade che sembrava disegnata col gesso nella campagna livida e fredda.
A mezzogiorno la corriera di Vervant si sarebbe fermata lì davanti con grande stridio di freni e l’autista avrebbe sporto la testa per vedere se nell’emporio c’erano clienti per lui.
«Commissioni, signorina Valérie?».
Cominciava a placarsi. Il che le dava come la sensazione interiore di un bagno tiepido.
Perché sua madre non voleva confessarle...
Quando rientrò in cucina, la trovò accanto alla stufa, a capo chino, con un rosario in mano – all’ora della messa, infatti, aveva l’abitudine di pregare.
Valérie chiuse la valigia. C’era ancora tempo per mettersi le scarpe. La porta che dava sulla strada era a vetri come quella della cucina, ma al posto dei motivi ornamentali vi erano incollate due réclame trasparenti: una azzurra con un grosso leone bianco, di una marca di amido, e una rossa che pubblicizzava un detersivo per i fornelli. Valérie le aveva sempre viste lì, fin da quando era nata, e le sue giornate erano sempre state scandite dal tintinnio della campanella del negozio, che avrebbe riconosciuto tra mille altre.
E adesso stava entrando la signora Paillat...
La signora Paillat, che non andava a messa, approfittava della domenica mattina per fare la spesa, come se...
«Cosa le serve, signora Paillat?».
«Un pacchetto di cicoria, per cominciare...».
«Eccolo!».
«Poi due etti e mezzo di zucchero... Una bottiglia di aceto bianco...».
«Ha portato quella vuota?».
«No... Ma non fa niente... Gliela porto la prossima volta...».
Esisteva un altro posto al mondo in cui regnava quello stesso odore? Un odore complesso: tanfo di petrolio, ma attraversato dalle fragranze più acute dell’acquavite e del cognac, con una punta di cannella, chiodi di garofano e come un retrogusto di caffè. Aveva un che di dolce e tiepido. E poi la cera sui tavoli, che Valérie lucidava ogni giorno con un panno...
«Una scatola di sardine...» disse la signora Paillat, che teneva la sporta stretta contro la pancia. «Be’, già che ci siamo, mi versi un bicchierino, ho lo stomaco sottosopra...».
Le succedeva ogni mattina di avere lo stomaco sottosopra, e sentiva il bisogno di rimetterlo in sesto con un bicchierino.
«Con il freddo che c’è... Un litro di petrolio... Mi chiedo quando si decideranno ad allacciare l’elettricità qui da noi... Paghiamo le tasse come gli altri, eppure... Cetriolini non ne ha più?...».
«Certo che ne ho...».
Valérie si muoveva con precauzione per non sporcarsi il vestito della domenica, soprattutto passando accanto al fusto di petrolio, sempre coperto di una specie di sudore puzzolente.
«È il fondo del barattolo... Le dispiace aprirmene un altro?...».
Valérie si era sollevata sulla punta dei piedi per raggiungere il barattolo in questione, e in quel momento...
«Non è possibile...» disse.
«Cos’è che non è possibile?...».
«Niente...».
Aveva aperto il barattolo tre giorni prima. Vi aveva attinto non più di quattro volte ed era sicura che la sera precedente, quando aveva pesato un etto di cetriolini per la madre di Ninie...
«Non ne ho altri... Ma ce n’è abbastanza, guardi... Gliene do ancora un po’...».
«Già che c’è, me li dia tutti...».
Valérie era sconcertata. Serviva soprappensiero e, contro le sue abitudini, non prestò attenzione al piatto della bilancia che calava troppo.
«Ecco, signora Paillat... In totale sono...».
Fece il conto su un pezzo di carta marroncina.
«Undici franchi e trenta... Non ha spiccioli?...».
Dovette andare a prenderli nel suo borsellino che era rimasto in cucina, dove la madre continuava a non muoversi. E Valérie non guardava più di continuo l’orologio, come aveva fatto fino a poco prima.
La porta si aprì e si richiuse facendo tintinnare la campanella. Madre e figlia erano di nuovo sole in casa.
La vecchia sembrava rassegnata e non fiatava più, mentre Valérie si cambiava d’abito.
«Mamma...».
«Che c’è?».
«Insisti a non volermi dire...».
«A che pro tormentare una povera vecchia a cui non resta più molto tempo?».
«Cosa sei andata a...».
«Morirò da sola, in un angolo, e voi verrete sulla mia tomba a supplicarmi di...».
«Sta’ zitta! Cosa ti ha proibito il dottore?».
«E che ne so?...».
«Lo so io!... Ti ha proibito... Ti ha proibito...».
Come sopraffatta dall’emozione, Valérie si gettò sul suo letto, lì in cucina, si prese la testa fra le mani e scoppiò in singhiozzi.
«Lo sai anche tu!» esclamò a un tratto. «Lo sai che ti ha proibito i cetriolini...».
La vecchia non osava ancora rallegrarsi.
«E hai approfittato del fatto che ero andata alla prima messa del mattino per... per... Dove li hai messi?...».
Forza! Valérie si drizzò a sedere. Inutile piangere sulla propria sorte. Non se ne sarebbe andata. Ci aveva mai creduto davvero che si sarebbe trasferita in città e che avrebbe fatto la sarta?
«Dimmi almeno dove li hai messi!... Ce n’erano più di due etti e...».
«Sei cattiva...».
«Ti avverto che, se non mi rispondi, se non mi dici dove li hai messi...».
Allora la vecchia chinò il capo.
«Rispondi, mamma...».
Si udì un rumore lontano, quello della corriera che...
«Sbrigati... Se non mi rispondi...». Dimenticando di non essersi ancora messa le scarpe, fece il gesto di prendere la valigia.
«Li ho...».
Un silenzio.
«Passami un fazzoletto... Li ho... Li ho mangiati...».
L’autista, un bel giovanotto con i baffi scuri, si sporse dal finestrino:
«Commissioni, signorina Valérie?».
E lei, sulla soglia, con un sorrisino amaro ma quasi rassegnato:
«Niente commissioni, Eugène... A parte i formaggi che deve portarmi».
In casa, mentre chiudeva la porta, c’era un odore in più, mescolato a tutti gli altri. Ma chi avrebbe potuto indovinare che era l’odore delle lacrime?
«Un pernod, Valérie!...».
«Un vermut cassis!».
Sentivano l’odore dei loro bicchieri e basta! Perché l’odore delle lacrime esiste solo per chi le versa.
E quelle lacrime avevano un retrogusto di aceto, di dragoncello, e di cetriolini.
LA VECCHIA COPPIA DI CHERBOURG
La sveglia suonò, l’uomo la prese con un gesto rapido, senza aprire gli occhi, senza accendere la luce, e la cacciò, ancora fremente, sotto il mucchio di plaid e coperte, tenendola stretta a sé, nel suo calore, fino a soffocare del tutto l’ostinata suoneria.
Il silenzio tornò a regnare nell’edificio di mattoni scoloriti, dove di tanto in tanto, dietro una porta, qualcuno si rigirava nel letto o emetteva un sospiro.
Dieci minuti dopo aver spento la sveglia, il vecchio portiere di notte sospirò a sua volta e scostò lentamente la catasta di coperte disparate sotto la quale dormiva sul divano della hall. Zoppicava. Si trascinò sulle gambe malferme fino alla cucina e sfregò un fiammifero per accendere il fuoco sotto la macchina del caffè. Poi salì al quarto piano e bussò a una porta: il proprietario dell’albergo si alzò, seguito a ruota dalla moglie, che soffriva di insonnia. Una domestica, nella sua mansarda, era già pronta, in vestito nero e grembiule bianco.
La hall era fredda, umida. Odorava di mare e di pesce. C’era sempre dell’acqua da qualche parte e, addossati alle pareti in finto marmo giallastro (un finto marmo che somigliava a un torrone), bauli, valigie, ceste e bagagli di ogni forma, con etichette in tutte le lingue.
In corridoio la domestica andava di porta in porta, leggendo i nomi scritti col gesso: Majestic. Bene! Bussava. Dall’interno della camera le giungevano borbottii in inglese, in tedesco o in polacco, non lo sapeva di preciso.
«Majestic!» chiamava. «È ora, signori...».
Su alcune porte non c’era scritto niente. Su altre c’erano nomi di navi che non salpavano quel giorno.
Era inverno. Faceva ancora buio. Sulla banchina della stazione marittima una squadra di inservienti stava finendo di pulire i vagoni del treno transatlantico. Poi una fila di luci scintillanti apparve in lontananza, tra i fanali delle sciabiche, e il Majestic si annunciò con lunghi colpi di sirena.
All’Hôtel des Deux-Continents ci si svegliava così tre o quattro volte a settimana: le finestre si illuminavano, i campanelli suonavano per chiamare la domestica, una ragazza assonnata portava una cesta colma di pane e croissant caldi.
I viaggiatori ancora semiaddormentati scendevano l’uno dopo l’altro, con le mani illividite dal freddo. Alcuni aprivano la porta per guardare la nave. Alla reception i conti erano pronti, la prima colazione veniva servita nella sala ristorante, con le tovaglie sempre umide, dove la mattina, per vecchia abitudine, si accendevano solo due lampade.
Gli inglesi del primo... L’americano della camera 6... La signora ungherese della 17, che già si preoccupava dei bagagli...
Alla fine scesero i due vecchi, lui magro, lei bassa e grassa, entrambi con una specie di fiamma cupa negli occhi. Mangiarono in silenzio. Poi uscirono sotto la pioggerella e si incamminarono sulla banchina scivolosa dirigendosi verso la stazione marittima.
Il trambusto durò due ore, e nel frattempo si fece giorno. I viaggiatori che sbarcavano rimpiazzarono quelli che se ne erano andati e nuovi bagagli ingombrarono la hall di finto marmo.
«Rieccoli! Non è arrivato neanche stavolta!» commentò la proprietaria, che dalla reception sorvegliava la strada attraverso la porta a vetri.
I due vecchi stavano tornando con aria mogia e lo sguardo più mesto. Entrarono nella hall senza sapere che fare né dove mettersi. L’albergatrice raggiunse il marito nelle cucine e discussero per un pezzo. Dopodiché chiamarono Yarko, un lavapiatti jugoslavo che s’infilò giacca e cappotto sulla blusa bianca, tenendosi uno strofinaccio intorno al collo.
Nella hall ricominciarono a gridare e a gesticolare, i due vecchi da una parte, Yarko dall’altra, e Yarko era quello che gridava più forte cercando invano di farsi capire.
Andavano avanti così da tre settimane. Erano già arrivate dall’America, e ripartite, cinque navi. Ogni volta i due vecchi si erano precipitati al porto, e ogni volta erano tornati in albergo spiegando a gesti che il figlio non era a bordo. Si trattava davvero del figlio? Non si sapeva di preciso. Yarko sosteneva di sì. Ma chissà se capiva una parola di quello che dicevano.
La presenza di quei due aveva qualcosa di esasperante.
Un bel giorno erano arrivati col treno, in terza classe – questo l’aveva raccontato il facchino. Avevano bagagli per dieci, strani bagagli da poveracci: fagotti e vecchi bauli rivestiti di pelle di capra, con il pelo all’esterno; si erano portati dietro anche un prosciutto, che avevano appeso in camera.
Parlavano una lingua incomprensibile e non si riusciva a decifrare neanche il passaporto bisunto. L’albergatore era giunto alla conclusione che dovevano essere albanesi.
«Forse Yarko, che è di quelle parti, saprà spiegarci cosa dicono...».
Macché! Tutto ciò che Yarko aveva potuto riferire – e si intuiva che tirava a indovinare! – era che aspettavano qualcuno in arrivo da New York con l’Île-de-France.
Ma a bordo dell’Île-de-France non c’era nessuno per loro. Così i due vecchi avevano aspettato un piroscafo italiano, poi uno tedesco. La moglie passava le giornate immobile nella poltrona migliore del salotto. Il marito fumava uno strano tabacco in una lunga pipa intagliata. Era rinsecchito, rugoso, e dava l’impressione di vestire all’europea per la prima volta in vita sua.
«Ecco il loro conto, Yarko... Cominci dal commissariato di polizia...».
E in quella mattina di pioggia sottile e di mare grosso, mentre tutti gli argani del Majestic erano in funzione, Yarko, con lo strofinaccio da sguattero intorno al collo, si tirò dietro per le strade di Cherbourg il vecchio e la vecchia, che non avevano la minima idea di dove stavano andando.
Il commissario provò a interrogarli in varie lingue e compulsò il passaporto per dieci minuti senza capirci un’acca.
«La proprietaria dice che se vogliono restare in albergo devono farci vedere i soldi...».
Giusto! Il commissario aprì il suo portafoglio, estrasse un paio di banconote e le mostrò al vecchio. Quello le guardò senza battere ciglio.
«Converrà che non c’è da stare tranquilli con gente simile! Vanno avanti così da tre settimane!».
Il poliziotto mostrò anche degli spiccioli, e alla fine il vecchio tirò fuori dalla tasca qualche moneta, monete strane che con ogni evidenza non erano utilizzabili in Francia.
«Senta, a Cherbourg non c’è il consolato albanese, ma forse un armatore potrebbe indicarle qualcuno che sia stato da quelle parti e che parli la loro lingua».
Andarono da un ufficio all’altro finché non rintracciarono, in una casetta di periferia, il capitano Reille, un comandante in pensione che si diceva conoscesse tutti gli idiomi balcanici. Solo che la sera prima si era ubriacato e non aveva ancora smaltito la sbornia. Si confuse e provò due o tre lingue senza successo.
Il vecchio era calmissimo. Non protestava. Guardava la gente muovere le labbra. La moglie aveva un’espressione stupita. Avrebbero potuto sballottarli in giro per il mondo senza la minima rimostranza da parte loro.
Alla fine il capitano, forse per caso, pronunciò qualche parola che fece drizzare le orecchie della coppia. Allora attaccarono a parlare tutti e due insieme, velocissimi.
«Che dicono?».
«Un momento... Stia zitto...».
Parlavano troppo in fretta. Il capitano aveva mal di testa e si servì da bere. Già che c’era, servì anche il vecchio, che si scolò il calvados come se fosse acqua. E intanto parlava, parlava.
«Che dice?».
«Aspetti, accidenti!».
Il vecchio aprì un logoro portafoglio con gli angoli di ottone e ne estrasse un pezzo di carta. Il capitano lo esaminò con un certo rispetto.
«Che cos’è?».
«Caspita, sono ricchissimi!...».
«Sul serio?...».
«Lo sa di quant’è, quest’assegno?... Diecimila dollari... Il vecchio dice che vuole incassarlo e che pagherà l’albergo...».
«Le dispiacerebbe venire in banca con noi? Sono sicuro che il proprietario dell’albergo gliene sarà grato...».
Il capitano li lasciò in salotto e andò in camera da letto. Attraverso la porta aperta lo videro lavarsi, scegliere il suo vestito migliore, sciacquarsi la bocca e passarsi un pettine bagnato tra i capelli. La coppia aspettava con calma, lei in poltrona, lui sullo sgabello del pianoforte.
Poi uscirono tutti insieme.
«Avremmo potuto prendere un taxi...».
In effetti pioveva a dirotto e faceva freddo. Ogni volta che svoltavano l’angolo di una strada venivano investiti da spruzzi d’acqua, acqua salata che il vento sollevava dal mare.
Poi la solennità della banca, la sala con gli sportelli di mogano, lo sguardo sbalordito del giovane impiegato che, con l’assegno in mano, si precipitò verso il gabbiotto a vetri del direttore.
«Diecimila dollari, accipicchia!...» esultava Yarko.
«Cosa le hanno raccontato poco fa mentre parlavano?... In albergo li avevamo presi per immigrati senza i documenti in regola... Se ne vedono di tutti i colori... Ci sono tanti di quegli imbroglioni...».
«È stato il figlio a mandargli l’assegno con una lettera... È in America da anni e i genitori non avevano mai ricevuto sue notizie...».
L’impiegato tornò verso di loro.
«Se volete accomodarvi lì, sul divanetto... Ne avremo per qualche minuto...».
Si sedettero. Il vecchio si accese la pipa da patriarca e racchiuse il fornello tra le dita secche e nodose da centenario. Quanto alla moglie, muoveva le labbra senza sosta. Forse passava la giornata a recitare preghiere sottovoce.
«Ho sete» annunciò il capitano in pensione. «Torno subito...».
I due vecchi avevano riletto la lettera cento volte. Era nel portafoglio con gli angoli di ottone, e il foglio cominciava già a strapparsi lungo le piegature.
«Cari genitori,
«spero che questa mia vi trovi tutti e due in buona salute e che presto possiate stare ancora meglio. Sei mesi fa ho ricevuto vostre notizie da un nostro compaesano che è sbarcato a New York.
«Qui si vive benissimo, e dovete venire anche voi. Vi mando un assegno di diecimila dollari, cambiatelo in banca e fatevi dare soldi francesi. Prendete il treno per Trieste e da lì quello per Parigi. Non abbiate paura. Gli impiegati vi spiegheranno cosa fare, come procurarvi i biglietti e tutto il resto.
«Da Parigi andate a Cherbourg. Vi raggiungerò lì, probabilmente il 14 febbraio con l’Île-de-France. Altrimenti con una nave successiva. Dovete solo informarvi in albergo sugli arrivi dei transatlantici.
«Non portate molti bagagli. Sono abbastanza ricco da comprarvi tutto ciò di cui avrete bisogno. Per il viaggio fatevi fare dei vestiti in città.
«Resterò in Europa soltanto qualche giorno, forse qualche ora, e poi vi porterò con me. Ho preso per voi una bella casa in montagna, così non vi sentirete troppo spaesati.
«Sperando di rivedervi presto, vi abbraccio,
vostro figlio».
Il padre aveva impiegato due giorni per arrivare a Tirana a dorso di mulo, e là, in una banca del tutto simile a quella in cui erano adesso, l’avevano fatto aspettare per ore. Il suo assegno era passato di mano in mano. E alla fine gli avevano annunciato che non potevano cambiarglielo senza una conferma scritta da New York, che avrebbe richiesto almeno un mese.
Il vecchio non si raccapezzava. Brandiva la lettera del figlio. Se il figlio affermava che gli avrebbero dato dei soldi in cambio di quel pezzo di carta...
«Datemene almeno una parte... Quanto ci vuole per andare a Cherbourg?».
Niente da fare, i banchieri non ragionavano come lui! Così aveva venduto il mulo, le capre, la casa.
Ed era cominciato l’incubo: erano saliti su un treno, avevano viaggiato tutta la notte. Li avevano fatti scendere in una stazione gelida, e fuori c’era quasi un metro di neve.
Si sedevano docili nelle sale d’aspetto, seguivano da una biglietteria all’altra gli impiegati in divisa. E ovunque bisognava pagare. Gli dicevano: «Dovete tot... Più tot di supplemento...».
Non sapevano neanche il motivo: una volta per il treno, una volta per i visti, un’altra volta perché erano andati troppo lontano e dovevano tornare indietro. La loro paura maggiore era di perdere i bagagli e si indignavano quando li costringevano a separarsene per stiparli, insieme a un mucchio di altri bagagli, in vagoni dove i passeggeri non erano autorizzati a entrare.
Già nessuno li capiva più. Parlavano, parlavano, e la gente rispondeva in un’altra lingua. Il vecchio mostrava la lettera, l’assegno, e gridava:
«Cherbourg!...».
Poi:
«America!».
Ogni volta gli prendevano soldi, e il portafoglio con gli angoli di ottone era ormai quasi vuoto. Riuscivano ancora a dormire?... Si rannicchiavano sotto una pelle di capra, nelle sale d’attesa delle stazioni. Ogni tanto il vecchio scaldava le mani della moglie. Si aggirava diffidente intorno al bar, chiedendosi quanto gli avrebbero spillato per le cose da mangiare che vedeva.
Poi, a Cherbourg, nessuno si era curato di sapere dove fossero diretti. Un facchino si era impadronito d’autorità dei loro bagagli e li aveva accatastati su un carretto. I due vecchi gli erano andati appresso, nel buio. Erano entrati in un albergo, dove avevano dovuto mostrare il passaporto.
«Île-de-France?».
Finalmente qualcuno che capiva! Sì, Île-de-France! Era il nome scritto sulla lettera del figlio.
«Dagli la camera 8, Émilie...».
E il loro passaporto finì in cima a una pila di altri passaporti nel gabbiotto a vetri dell’albergatrice. Émilie li scortò in camera e preparò il letto per la notte.
«Avete cenato?».
Non capivano. La domestica fece il gesto di mangiare. La seguirono nella sala da pranzo, dove fu apparecchiato un tavolo per loro, con una bottiglia di vino.
L’indomani, prima ancora che facesse giorno, sentirono bussare alla porta della camera. Il vecchio, temendo di mancare l’incontro con il figlio, non si era neanche spogliato.
Si misero alle calcagna di un altro facchino, che si diresse alla stazione marittima con i loro bagagli già debitamente etichettati.
«Che numero di cabina?».
Era ancora più complicato che con i treni. Tutti gridavano, si spingevano. C’erano anche delle automobili che si sollevavano per aria sospese a un cavo.
«Biglietti...».
Il vecchio mostrò la lettera del figlio. Non era questo che volevano? Tirò fuori l’assegno. Neanche questo? Gridò un nome:
«Fulchi... Jean Fulchi...».
E allungava il collo per guardare bene tutti i passeggeri che scendevano dalla scaletta.
«Riportate a terra i loro bagagli!» ordinò alla fine il commissario di bordo. «Non sono con noi. Non ho capito di preciso cosa vogliono, ma mi sa che aspettavano qualcuno che non è arrivato...».
Per scrupolo di coscienza cercò il nome di Fulchi sulla lista dei passeggeri e non lo trovò. Un’ora dopo i due vecchi erano di ritorno all’Hôtel des Deux-Continents, con lo sguardo perso nel vuoto come sonnambuli.
«Che è successo, Pierre?».
«Non lo so... Non sono partiti... A quanto pare, aspettavano qualcuno...».
Da allora erano passate tre settimane.
Centinaia di viaggiatori si erano avvicendati. Ogni volta si provvedeva a svegliare la vecchia coppia. Chissà, forse se ne sarebbero andati... Ma ormai i loro bagagli restavano in deposito.
«Gli hai consegnato il conto della settimana?».
«Sì...».
«Hanno pagato?».
«No, l’hanno guardato a turno senza capire. Poi si sono scambiati qualche frase nella loro lingua, e il vecchio ha infilato il conto nel portafoglio...».
Come un souvenir o un talismano! Tutte le carte sembravano assumere per lui valore di talismano, insieme alla lettera del figlio e al famoso assegno.
«Ehi, voialtri...».
L’impiegato della banca li stava chiamando, ma il capitano in pensione non era ancora tornato. Yarko dovette andare a prenderlo al bistrot lì accanto, dove stava raccontando una storia di migliaia e migliaia di dollari.
«Gente a cui faresti l’elemosina per strada, capite?... E senza di me...».
Accostandosi allo sportello di mogano barcollava.
«Il direttore vuole parlarle. Lei conosce questi signori?».
«Non li avevo mai visti...».
Il direttore avanzava verso di loro, vestito in ghingheri, con le mani curate, i polsini ornati di gemelli preziosi.
«Le dispiace dirgli che non possiamo cambiare l’assegno?... Va incassato a New York...».
«Non è buono?».
«Non dico questo... Ma c’è una piccola formalità che non è stata espletata, probabilmente per errore... Qui dovrebbe esserci la dicitura...».
Il vecchio tirò la manica del capitano, con aria timida, umile. Sembrava aver già capito.
«Il vostro assegno non è buono» tradusse il capitano.
Il vecchio cominciò a parlare.
«Che dice?» volle sapere il direttore.
«Le chiede di rilevarlo in cambio di una piccola somma, o di fargli un prestito... Sostiene che i proprietari dell’albergo lo guardano storto... Il figlio arriverà con il prossimo piroscafo... A quanto pare, è ricchissimo...».
«Gli spieghi che gli assegni non si comprano al ribasso... Li si paga, o non li si paga... Nel caso in questione...».
Un quarto d’ora dopo Yarko era di nuovo per strada con i due vecchi che, da soli, non si sarebbero mai orientati e che trasalivano ogni volta che passava un tram.
La proprietaria dell’albergo uscì dal suo gabbiotto a vetri.
«E allora?».
«Il figlio gli ha mandato un assegno di diecimila dollari... Ma a quanto pare non è buono... In ogni caso, la banca non ha voluto cambiarlo... Per incassarlo devono andare a New York...».
«Loro che dicono?».
«Sostengono che il figlio sarà qui a breve e che è molto ricco...».
La coppia era rimasta in piedi nella hall, a guardare tutte quelle labbra che si muovevano, ad ascoltare quella cascata di sillabe che per loro non aveva alcun senso.
L’albergatore e la moglie ne discussero sottovoce mentre Yarko riprendeva il suo lavoro in cucina e altri viaggiatori sbarcavano da una nave proveniente da Buenos Aires.
«Che facciamo?».
I due vecchi sembravano intuire che si tramava qualcosa. Era l’ora di pranzo e tutti avevano già preso posto ai tavoli, ma loro non osavano raggiungere quello che occupavano di solito.
Li avrebbero fatti mangiare?
«Se li tenessimo fino a domani?... Una notte in più non fa differenza, e altrimenti rischieremmo di perdere tutto... Il Paris arriva domattina... Se il figlio non è a bordo...».
La proprietaria li invitò con un cenno ad accomodarsi in sala da pranzo, ma furono serviti poco e male.
La coppia passò il pomeriggio nel salotto, dove dei polacchi giocavano a scacchi. La pipa del vecchio appestava l’aria. Gli spiegarono a gesti che doveva spegnerla e lui non capì, perché fino allora l’avevano lasciato fumare in pace.
La sveglia del portiere di notte soffocata sotto le coperte. La macchina del caffè. Una sirena nella notte e il treno transatlantico che sbuffava sotto la tettoia di vetro della stazione marittima.
La domestica, che non si era ancora lavata la faccia, andava di porta in porta.
«Signori, è ora...».
Il caffè, i croissant, viaggiatori assonnati e intontiti che guardavano la foschia e la pioggia in cui dovevano addentrarsi, cataste di bagagli che crollavano durante il trasporto al molo dove la nave, guidata da un rimorchiatore, si preparava ad attraccare.
«Se il figlio non c’è neanche stavolta, peggio per loro... Tanto più che potrebbe essere una frottola... Chi mai manderebbe un assegno di diecimila dollari a dei contadini?».
Anche a bordo del Paris gli steward andavano di cabina in cabina.
«Cherbourg!... Stiamo attraccando... Siete pregati di raggiungere il salone di prima classe per il controllo dei passaporti...».
Vassoi della colazione che circolavano per i corridoi. Porte che si aprivano. Uomini che si facevano la barba. Donne in vestaglia che andavano a farsi vidimare il passaporto prima di vestirsi. Addetti che apponevano timbri.
«Si scopra il braccio...».
Era l’ufficiale sanitario. Un altro timbro. Autorizzazione a sbarcare.
I due vecchi erano sul molo, che cominciavano a conoscere. Non cercavano più di salire a bordo. Restavano ai piedi della scaletta, che era stata appena collocata.
Chissà se stavolta il figlio...
In una cabina di prima classe Jean Fulchi finì di farsi la barba, suonò per chiamare lo steward, gli diede una grossa mancia e chiuse le valigie.
«Siamo in porto?».
«I passeggeri stanno già cominciando a scendere, signore...».
Fulchi indossò un magnifico cappotto con la martingala, staccò con i denti la punta di un sigaro, se lo accese e si passò le dita sui baffetti scuri. Profumava di sapone e acqua di Colonia. Aveva una cravatta chiara.
Prese il passaporto e, prima di andare a farselo vidimare, volle lanciare un’occhiata dal ponte. Erano pochi i passeggeri che non avevano fretta di sbarcare. Giornalisti e fotografi si davano un gran da fare perché a bordo c’era gente del cinema.
A un tratto Fulchi alzò un braccio con un grido di gioia. Gli rispose un grido doppio, e il fattorino dell’Hôtel des Deux-Continents non credeva ai suoi occhi. I due vecchi, ai piedi della scaletta, si agitavano in preda a una vera e propria euforia. In alto, parecchi metri sopra le loro teste, un passeggero si sporgeva dal parapetto. Tutti e tre ridevano. Ridevano senza sapere perché, di felicità, di sollievo. Il vecchio cercò di farsi strada, ma i doganieri lo fermarono. Lui indicò il figlio.
«Resti qui... Non si può salire a bordo senza permesso... Tra poco sarà lui a scendere...».
Ma sì, sì! L’incubo era finito! Jean era arrivato! Un Jean in gran forma, abbronzato, con i capelli scuri, vestito sontuosamente...
Jean si precipitò nel salone di prima classe e mostrò il passaporto:
«Non si fuma...».
«Sì... Scusi...».
E spense il sigaro contro il tacco. Dietro il tavolo ricoperto da un tappeto verde gli ispettori si scambiarono un’occhiata.
«Dovrebbe aspettare qui, per favore».
«Sa, ho una certa fretta...».
«Non si preoccupi... Non ci vorrà molto...».
Altri viaggiatori gli passarono davanti. Un uomo lo avvicinò con fare cortese:
«Le dispiace venire un momento da questa parte?... Jean Fulchi, vero?...».
Il bar era deserto. Non del tutto deserto, perché si avvicinarono altri due uomini. Si udì uno scatto secco.
«Jean Fulchi, in nome della legge la dichiaro in arresto...».
Gli perquisirono le tasche.
«Niente?».
«Niente».
«Andiamo... Ha la macchina?...».
I due vecchi sul molo trattenevano il fiato. Jean stava per scendere... Jean stava... Jean...
Scostavano nervosamente gli altri curiosi, gli altri parenti. Jean stava...
Era lui... Jean era arrivato... Jean...
Passò vicinissimo a loro guardandoli con espressione triste, stretto fra i due uomini...
«Su... Cammini!... Non può parlare con nessuno...».
Jean sparì tra la folla, con le manette ai polsi. Una portiera sbatté, l’auto si allontanò...
«Non c’era?».
«Pare che ci fosse...».
«E allora?».
«Non lo so... Ero occupato con altri viaggiatori... È salito in macchina insieme a due tizi...».
La coppia era là, più smarrita che mai. Non osavano entrare non solo in sala da pranzo ma neanche nel salotto, e il vecchio aveva perfino rinunciato ad accendersi la pipa, mentre la moglie aveva gli occhi rossi e gonfi.
«E ora che si fa?» chiese l’albergatrice al marito.
«Gli mettiamo i bagagli sul marciapiede?».
«Se almeno si potesse comunicare con loro!... E invece no! È come parlare al muro... Nel pomeriggio chiediamo al capitano di fare da interprete un’altra volta e...».
Li lasciarono nella hall, dove finirono per sedersi sul divanetto – il divanetto sfondato in cui, la notte, il portiere dormiva sotto un mucchio di coperte. Viavai di gente. Le cameriere portavano piatti fumanti. Nessuno li invitava ad accomodarsi in sala da pranzo. Ma forse non avevano nemmeno fame, né sapevano più dov’erano...
«“Le Phare de Cherbourg”... Leggete “Le Phare de Cherbourg”...».
Una copia del giornale finì sul tavolino di vimini, non lontano dal divanetto. Il vecchio esitò a lungo prima di avvicinarsi, eppure...
Si alzò come ipnotizzato...
In prima pagina una fotografia... Il vecchio la fissava... Era Jean... Come l’aveva visto la mattina, mentre scendeva dal piroscafo, con il cappotto a martingala, la cravatta chiara...
Il vecchio gesticolava. L’albergatrice chiamò Yarko.
«Che dice?».
Stavolta lo jugoslavo non dovette far finta di aver capito. Era chiaro. Il vecchio affermava che quello era suo figlio, che voleva vedere suo figlio, che suo figlio... suo figlio...
«Clamoroso arresto» recitava il titolo.
«Basta, digli di stare zitto! Tanto non si capisce niente!».
Impossibile fermare il vecchio, che parlava a ruota libera.
«Stamani, proprio mentre sbarcava a Cherbourg, la polizia ha ammanettato...».
«Yarko! Fallo smettere, per favore! Sta creando scompiglio in tutto l’albergo...».
Nella sala ristorante, infatti, i clienti allungavano il collo per capire la causa di quel diluvio di parole incomprensibili.
«... uno dei più grossi trafficanti di oppio degli Stati Uniti...
«Le autorità internazionali sapevano da tempo che ingenti partite di oppio provenienti dall’Oriente transitavano per tutta l’Europa, compresa la Francia, e arrivavano negli Stati Uniti.
«L’uomo a capo di questo traffico, l’albanese Jean Fulchi, che le leggi americane non consentivano di arrestare in mancanza di prove schiaccianti, ha commesso l’imprudenza di venire in Francia. Così, al momento del suo arrivo...».
«Che ne facciamo di questi due?».
«Non lo so... Tu che dici?».
«Gli metto le valigie sul marciapiede?» chiese il fattorino.
«Sì... Va bene...».
A meno che...
«Senti un po’...».
«Cosa?».
«Mi chiedevo... Vieni di là...».
Dimenticando che il fattorino stava già trasportando fuori i bagagli dei due vecchi, l’albergatore condusse la moglie in un bugigattolo e mormorò:
«Un trafficante di oppio... Gente che... Penso all’assegno di diecimila dollari, che è di certo valido... Quelli che fanno questo mestiere hanno protezioni... È raro che non li rilascino... In questo caso... Eh?... Che ne dici?... Per quello che ci costano...».
«Forse hai ragione...».
Uscirono insieme dal bugigattolo. L’albergatore si precipitò verso il fattorino.
«Che stai facendo?».
«Be’, sto...».
Metà dei bagagli era già sul marciapiede, sotto la pioggia, e i due vecchi seguivano la loro roba con tetra rassegnazione.
«Riporta tutto dentro... E sbrigati!... Sistema i bagagli alla 12... Non vale la pena di ingombrare il corridoio... Soprattutto se ne avranno per molto...».
Incurvò le labbra in un sorriso e, a capo scoperto, si avvicinò ai due vecchi sotto la pioggia.
«Rientrate, prego... C’è stato un errore... Vi chiedo scusa... È chiaro che...».
Potevano intuire, i due vecchi, che cosa stava succedendo? Un’altra disgrazia, di sicuro! Ma seguirono l’albergatore, con espressione spaventata.
Si chiesero perché li facesse entrare in sala da pranzo, dove il servizio era quasi finito.
«Germaine! Due coperti per i signori Fulchi... Non ha sentito?... Sì, accanto alla finestra... Come dice?... Chi è che dà gli ordini, qui dentro?».
E, dopo aver fatto sedere quasi a forza i due vecchi, sorrise di nuovo e si allontanò.
LA RIBELLIONE DEL CANARINO
Una corsa da incubo, con le gambe molli, in un corridoio da niente che sembrava interminabile, e alle spalle la porta a vetri della cucina che si apriva per lasciar passare il nemico, il rapido avvicinarsi di quel nemico, l’angoscia di non riuscire a raggiungere l’altra porta, quella sulla strada, con la buca delle lettere sempre spalancata, di non aver il tempo di slanciarsi fuori prima che una mano si abbattesse... È sempre davanti a una porta chiusa che ci si fa prendere, per un quarto, per un decimo di secondo.
I gradini scivolosi, il marciapiede bagnato, la strada deserta, più che deserta, vuota, con i quattro lampioni a gas da cittadina di provincia e di fronte il muro di mattoni della scuola...
Senza voltarsi, il Canarino si precipitò in fondo alla strada, e il cuore gli batteva così forte che non sapeva più se alle sue spalle risuonavano dei passi oppure no. Svoltato l’angolo, rallentò, esitò un istante e, come quando da bambino giocava a guardie e ladri, girò sui tacchi per fare capolino da dietro il muro.
Oltre ai quattro lampioni, si vedeva solo una luce, o meglio un rettangolo di luce dal colore indefinibile, quella proiettata dalla porta aperta di casa sua: il colore indefinibile dipendeva dalla lanterna di vetro variopinto che rischiarava l’ingresso.
All’interno di quel rettangolo si stagliava suo padre, in maniche di camicia, che guardava verso il fondo della strada.
Scorse la testa arruffata del figlio?
«Ernest!» chiamò. «Ernest...».
Nonostante la collera, evitava di gridare per non attirare l’attenzione dei vicini, che ancora non dormivano. Cadeva una pioggia sottile, da piccola città, lenta e placida. Al primo piano di un edificio si aprì una finestra, quella del maestro di pianoforte. La madre di Ernest apparve a sua volta sulla soglia, si sporse senza scendere i gradini, come quando spiava l’arrivo del fruttivendolo ambulante.
E il Canarino, dietro l’angolo, ansante, a denti stretti:
«Li odio! Li odio! Li odio!».
Tremava da capo a piedi. Intuiva che il padre e la madre parlavano sottovoce davanti alla porta di casa.
«Torna dentro, Joseph, finirai per bagnarti...» doveva dire lei.
Anzi no! Se la conosceva bene, aveva visto la luce accendersi nell’appartamento del maestro di piano e consigliava al marito:
«Attento ai vicini...».
«Li odio! Li odio! Farò come ho detto. E poi vediamo che ci guadagnano!...».
Continuava a borbottare tra sé, e intanto piangeva. Sui capelli color grano, che gli erano valsi il soprannome di Canarino, si posavano sottili gocce di pioggia. La sua scarpa sinistra imbarcava acqua: c’era abituato.
«Peggio per loro!... Bastava che... Bastava che...».
Anche rue Gambetta era pressoché vuota, a parte un tram giallo, appena oltre il ponte e ancora molto lontano, che avanzava a zigzag come slittando sui binari troppo lisci.
«Ammazzerò qualcuno a caso, il primo che incontro, e poi vediamo... Li odio!...».
E tutto questo per via di un berretto? No, anche per via di molte altre cose, ma il berretto era stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
«Sono una manica di ipocriti, lurida gentaglia che neanche si lava i piedi ogni giorno...» ripeteva mentre camminava voltandosi di continuo, suo malgrado spaventato.
Proprio così! A cominciare dal signor Griset, che somigliava a una cimice, che puzzava fisicamente e moralmente come una cimice, per quanto fosse capufficio.
«Signor Archambault, d’ora in poi è pregato di venire in banca con un abbigliamento più consono...».
E con la punta delle dita dalle unghie orlate di nero aveva preso il berretto a quadri del Canarino, tenendolo a distanza quasi fosse un oggetto ripugnante.
«Mi vesto come voglio...».
«Le ripeto, mio giovane amico...».
«Non sono un suo giovane amico... E fuori dall’ufficio sono libero di...».
Pazienza! Ci mancava solo che lo provocassero! Era già abbastanza infelice così! E aveva sempre desiderato un berretto a quadri! Volevano sapere tutta la verità? Be’, l’avrebbe detta, perché ormai era stufo!... I venticinque franchi per quel berretto li aveva sgraffignati dal borsellino di sua madre, a due franchi per volta, a cinquanta centesimi per volta, in modo che non se ne accorgesse!
E con ciò? In banca lui era l’unico che non aveva mai un soldo in tasca! Ed era l’unico che aveva spasimato un anno per avere una bicicletta come tutti, una vera bicicletta con cui poter uscire, e che alla fine se n’era vista arrivare una di seconda mano, senza marce e con il manubrio dipinto di nero come quelle dei preti!
E perché suo padre, invece, aveva speso più di duecento franchi per una pipa di schiuma?
«Tuo padre è tuo padre!» gli aveva risposto la madre. «Ha lavorato quarant’anni per poterselo permettere».
Potersi permettere cosa? Una pipa di schiuma?
«Ah, sporchi egoisti!... E io sarei la vergogna...».
La vergogna di cosa? Della famiglia? Bella famiglia! Come si era arricchita zia Marthe, per esempio? Gestendo un caffè, con le due figlie al bancone! E ora, quando veniva a trovarli a casa, il giovedì pomeriggio, sempre piagnucolando, non poteva fare a meno di sospirare:
«Mia povera Germaine!... Non sei preoccupata per tuo figlio? Si comporta in un modo che...».
Be’, sì, era tornato a casa sbronzo! Ma non c’era mica bisogno di farglielo notare. E sua madre poteva evitare di singhiozzare a tavola come se fosse una tragedia:
«Se continua così, preferisco morire... Avere un figlio ubriacone a diciassette anni...».
Ubriacone perché aveva bevuto qualche aperitivo! E zio Arthur, allora, che facevano finta di non riconoscere quando lo incrociavano per strada e che, da architetto, era stato declassato al rango di imbianchino?
Lui aveva bevuto di proposito! Sapeva quel che faceva! Proprio così! Era esasperato, e ne aveva tutto il diritto! Uscendo dalla banca era entrato da Ferrari, il piccolo bar italiano, si era piazzato davanti al bancone e, vedendosi riflesso nello specchio, tra le bottiglie, aveva sorriso amaramente.
«Voglio ubriacarmi» aveva annunciato a Ferrari.
«Qualcosa non va, signor Ernest?».
Oh, niente di importante! Solo che il direttore, il quale non l’aveva mai degnato di uno sguardo, si era preso la briga di convocarlo nel suo ufficio, dove l’aveva squadrato dalla testa ai piedi, accavallando le gambe e giocherellando con un tagliacarte.
«Da quanto tempo lavora qui?».
«Tre mesi, signor direttore...».
«Be’, signor Archambault, mi dispiace dirle che ci sono poche probabilità di averla ancora con noi di qui a tre mesi. Alla prossima lamentela del suo diretto superiore, il signor Griset, mi vedrò costretto a licenziarla. Aggiungo che se suo padre non fosse una persona tanto stimata...».
Sempre suo padre! Suo padre che stava da quarant’anni nello stesso posto, dietro al bancone nero di un negozio di ferramenta, il cui odore triste gli restava incollato nelle pieghe dei vestiti.
«Spero che, per i suoi genitori, se non per lei, si sforzi di... Venga un po’ qui, per favore...».
Carogna! Con che aria di superiorità, con che disprezzo da gran signore gli aveva tirato fuori dal taschino della giacca una pipa di cui si intravedeva il cannello!
«In tasca a un impiegato di banca ci si aspetterebbe di trovare piuttosto una penna!... Vada pure!...».
«Un pernod, Ferrari...».
Due pernod, tre, quanti ce ne volevano per sbronzarsi e mandarli tutti a quel paese! Continuava a vedersi riflesso nello specchio. Sorrideva, con un sorriso che trovava straordinario, un sorriso che conteneva tutta l’amarezza dell’umanità sofferente.
«Senti, Ferrari, per pagare ripasso più tardi... Ho dimenticato il portafoglio a casa...».
«Mi sa che, più tardi, sarà a nanna... A proposito, se lo ricorda il conticino in sospeso dell’altro giorno, vero?...».
«Pagherò, amico mio, non preoccuparti...».
Il tempo di essere licenziato dalla banca, cosa ormai imminente! E gli sarebbe toccato dare la notizia ai suoi! Non si era già fatto licenziare dalla libreria per cattiva condotta? Pessima condotta, in effetti! Il proprietario l’aveva sorpreso due volte mentre fumava la pipa nel gabinetto!
E prima ancora era stato espulso dal liceo.
«Tuo figlio non combinerà mai niente di buono...».
Perché già non era più figlio di sua madre, che parlando di lui con il marito diceva «tuo figlio», come per declinare ogni responsabilità. Lei aveva «sua» figlia, quella vipera di Yvonne che si dava arie da santerellina.
«Glielo dico alla mamma che nel portafoglio hai la fotografia di una donna nuda».
«E io le dico che l’altra sera ti ho visto mentre ti sbaciucchiavi con un ragazzo».
«Provaci!... Tanto non ti crederà».
Era vero. Al Canarino non credevano, ma a sua sorella sì. A lei compravano bei vestiti e lui aveva le scarpe sfondate. Lei offriva il tè alle amiche, e lui, ai tempi del liceo, ogni volta che passava davanti alla pasticceria dove i suoi compagni si rimpinzavano di gelati doveva girarsi dall’altro lato. Aveva avuto voglia di gelato per tutti gli anni della scuola. Era sempre il più malvestito. Aveva sempre libri di seconda mano. Non poteva prendere il tram perché costava troppo e, quando non era fra i primi tre della classe, gli davano dell’ingrato.
«Con tutti i sacrifici che facciamo per te...».
«Li odio!... Li odio!... Li odio!...».
Sì, nel portafoglio aveva la fotografia di una donna nuda. E con ciò? Aveva fatto di peggio, appena qualche ora prima. Uscendo da Ferrari... Un’idea che forse gli era venuta perché era ubriaco...
«Al diavolo!... Mi offro una di quelle...».
Aveva cambiato strada. Aveva spinto una porta tappezzata di reps color granata. Dentro il locale un tizio, che doveva essere un commerciante di bestiame, rideva rumorosamente, stuzzicando una ragazza enorme.
Imbarazzato dalla presenza dell’uomo, il Canarino aveva chiesto con molto garbo alla tenutaria:
«Posso parlarle un momento?».
«Che vuoi, giovanotto?».
«Non ho soldi qui con me... Ma le lascio in pegno l’orologio... È d’argento...».
Il commerciante di bestiame, con le guance segnate dalla couperose e il portafoglio pieno zeppo, lo guardava ridendo – una risata che era un insulto.
«Impossibile, ragazzo mio... A causa della polizia, capisci?... Torna un’altra volta...».
E mentre usciva aveva sentito riecheggiare alle sue spalle altre risate.
«E va bene! Tornerò stasera... E gli farò vedere...».
Era rientrato a casa, con gli occhi lucidi, i movimenti incerti e al tempo stesso troppo bruschi. Aveva aperto la porta a vetri della cucina e si era lasciato cadere sulla sedia.
Mangiavano in cucina. C’era la sala da pranzo, e anche il salotto con un pianoforte – un pianoforte per Yvonne, ovviamente –, ma mangiavano in cucina perché erano dei poveracci. E la sera suo padre si metteva in maniche di camicia! E si lavavano i piedi in una bacinella poggiata per terra. D’inverno, il sabato, facevano il bagno in cucina perché c’era più caldo, con un lenzuolo appeso davanti alla porta.
«Non mangi?».
«Non ho fame...».
«Che hai?».
«Niente...».
Che aveva? Era disgustato! Da tutto, dai suoi genitori, dalla banca, da se stesso, da ciò che viveva e da ciò che lo aspettava. A proposito, che fine aveva fatto il suo berretto? Doveva averlo dimenticato sul bancone, accanto al commerciante di bestiame.
«Che cerchi?».
«Niente...».
«Dov’è il tuo berretto?... Non ti sarai mica venduto pure quello?».
Perché una volta aveva venduto una catena d’orologio in similoro che la sua madrina gli aveva regalato per l’onomastico.
«Joseph, guarda tuo figlio!... Sembra ubriaco...».
«Fammi sentire l’alito... Non ti vergogni?... Che hai bevuto?».
«Un paio di pernod...».
«Va’ a letto...».
«No, prima devo vedere Oscar».
«Chi?».
«Oscar, il mio collega...».
Perché aveva raccontato quella balla? Caricò la pipa, si inclinò sulla sedia e assunse un’aria furba.
«Devo tirarlo fuori dai guai... Per me è come un fratello...».
«Avete bevuto insieme?».
«È come un fratello ed è tisico...».
Gli si inumidirono gli occhi.
«È tisico...» si sentì in dovere di ripetere.
Era vero. Oscar, il figlio del brigadiere, era tisico. Ma tutto il resto della storia il Canarino lo improvvisò al momento, mentre continuava ad apparirgli davanti agli occhi la faccia sudata del commerciante di bestiame.
«Aveva bisogno di soldi e li ha presi dalla cassa...».
«Ha sottratto soldi alla banca?».
«Contava di restituirli a fine mese... Ma poco fa hanno annunciato un’ispezione per domani... E quindi...».
«Guardami negli occhi, Ernest... Confessa che sei stato tu a...».
«È stato Oscar... È malato... Perciò gli ho detto:
«“Non ti preoccupare, te li presto io i cento franchi che hai preso... Tra amici...”».
Intorno a lui gli oggetti si facevano sempre più sfocati. Il tavolo si allontanava. No, era la sua sedia che si inclinava troppo all’indietro e oscillava. Si ritrovò per terra.
«Va’ a letto... È una vergogna... Mi porterai alla tomba!...».
«D’accordo! D’accordo!... Può capitare a tutti di cadere... Ma per i cento franchi, parola mia...».
La madre singhiozzava. E a un tratto quella vipera di Yvonne fece finta di scoppiare in lacrime, sbirciando il fratello attraverso le dita.
«Se non mi date quei cento franchi, io...».
«Joseph! Devi...».
Se le era sognate le parole «metterlo alla porta»?
«Alla porta? Alla porta? Ci vado da solo, alla porta...».
«Joseph! Ti supplico... Fa’ qualcosa... Di’ qualcosa... Non ne posso più, divento pazza... Avere un figlio che...».
«Un figlio che... cosa? Se credete che valga meno degli altri...».
«Finirai in galera, lo so!... Sei stato tu a prendere i soldi dalla cassa...».
«Non è vero...».
«Sei sempre stato un bugiardo... A otto anni già mentivi e rubavi lo zucchero dalla credenza...».
Era tutto un agitarsi, gesticolare, gridare, piangere nella cucina troppo piccola, tra il fornello mezzo guasto, la tavola ancora apparecchiata e la pendola d’ottone che il Canarino urtò con la spalla.
«Preferisco finire in galera piuttosto che continuare a vivere come voi...».
«Insomma, non c’è modo di farlo star zitto?».
Ricordi confusi, slegati. Che altro aveva detto? In ogni caso, gli era arrivata una sberla, e lui, d’impulso, aveva sollevato una sedia impugnandola dallo schienale.
«Joseph! Ti picchierà... Non lo vedi che...».
«Sì, andrò in galera! Voglio andarci! Voglio andarci subito!... Sono la vergogna della famiglia perché ho bevuto due bicchierini...».
Ne aveva bevuti più di due, e neanche tanto piccoli...
«... perché ho bevuto due bicchierini e perché vi chiedo cento franchi per il mio amico Oscar che è tisico?... Ci vado subito, in galera!... So io cosa devo fare!...».
Era indignato, fremente, come se una scossa elettrica gli attraversasse il corpo. Si era slanciato su per le scale ed era entrato nella camera dei suoi.
Quando era ridisceso, ansante, aveva aperto con un calcio la porta della cucina brandendo una pistola.
«Joseph!... Joseph!... Quel disgraziato!...».
«Ci vado, in galera... Il primo che incontro, lo ammazzo... Così avrete un buon motivo per dire che sono la vergogna della famiglia...».
Il padre aveva afferrato a sua volta una sedia. Qualcosa era volato in frantumi. Il Canarino si era messo a correre... La porta con la buca delle lettere... Il marciapiede... La pioggia... L’angolo della strada e il padre in maniche di camicia sulla soglia.
«Li odio!... Li odio!...».
Il padre, con i suoi lunghi baffi e i suoi quarant’anni di servizio nello stesso posto, la madre, che non sarebbe mai andata al mercato senza i guanti di filo scoloriti, la sorella, che godeva nel farlo punire, le zie, il signor Griset, il direttore, con quel gesto di prendergli la pipa dal taschino, tutti, tutti senza eccezione, e più di tutti il commerciante di bestiame che non capiva come un giovanotto potesse dare in pegno l’orologio per...
Pazienza!
Continuava ad avvertire quella specie di scossa elettrica. Era snervante. Cercava di fermare per un attimo il tremito che lo agitava, ma non ci riusciva. Effetto dell’alcol? Odiava anche Ferrari, a cui non poteva pagare il conto e che l’indomani l’avrebbe chiamato dalla porta del bar!
Tornare a casa? No di certo! Aspettare l’ora di andare in banca per farsi licenziare?
E poi?
Aveva passato un anno a spasimare per una bicicletta!
«Neanche tuo padre ce l’aveva, alla tua età!».
E il berretto? Ci aveva messo tanto di quel tempo a raggranellare la somma necessaria che alla fine gli era passato il piacere. E così per ogni cosa. In camera sua non c’era neanche il lavabo, ma un tavolino di abete con una bacinella smaltata.
«Rompi sempre tutto! Sarebbe durata poco, una bacinella di porcellana...».
E si stupivano perché non si divertiva la domenica pomeriggio a casa di zia Mathilde, dove tutta la famiglia stava seduta per ore attorno a un tavolo a parlare di morti e malati.
E una sospirava! E quell’altra si lamentava!
D’impulso entrò in un piccolo caffè ancora aperto, e nella penombra vide due uomini che giocavano a biliardo come se il resto del mondo non esistesse. Aveva ancora in tasca qualche spicciolo. Il gestore, che sonnecchiava accanto alla stufa, lo sbirciò sollevando appena le palpebre pesanti.
«Un bicchierino di acquavite».
L’altro esitò, parve sul punto di mettersi in movimento, ma alla fine scelse la tranquillità.
«A quest’ora non serviamo più da bere, giovanotto».
Avrebbe preferito uno schiaffo. Un giocatore lo guardò e il Canarino capì che l’aveva preso per un ubriaco.
«Ma quei signori lì stanno bevendo...».
«Sono stati serviti prima delle undici...».
Strinse i denti e uscì. Pazienza! Forse se avesse bevuto qualcosa di forte per calmarsi...
Sarebbero andati in bestia sapendolo in galera. E al processo avrebbe detto il fatto loro a tutti: ipocriti, ecco che cos’erano!
Avrebbe potuto sparare al gestore del caffè, ma quei due erano capaci di saltargli addosso e picchiarlo. Ebbe paura del dolore, del sangue, dei pugni, soprattutto dei pugni sul naso, perché una volta ne aveva ricevuto uno e ancora se lo ricordava.
Aveva crampi al petto, forse erano i morsi della fame. Senza rendersene conto continuava a impugnare la pistola in tasca, una vecchia pistola a tamburo che era stata per anni nel cassetto del comodino di suo padre.
«Non lo ucciderò, perché è inutile... Se finisco in galera, saranno già puniti a dovere...».
Avrebbe sparato alle gambe, per esempio...
«Il primo che incontro... Sì, il primo... Parola mia... Altrimenti poi non lo farei più... E allora chissà cosa succederebbe...».
Camminava. Respirava male. Aveva paura di veder spuntare qualcuno dall’ombra, e quando alla fine scorse una figura, a due passi dal ponte, si fermò di colpo.
«Mani in alto!» gridò in preda all’agitazione.
Brandiva la pistola, senza sapere se stesse mirando alle gambe o no. Pigiò il grilletto e aspettò con terrore la detonazione, ma non successe niente.
O meglio, una mole enorme gli saltò addosso. Ricevette una botta violenta al braccio e l’arma rotolò per terra.
«Razza di delinquente...».
La voce gli suonò familiare. Chiuse gli occhi. Gli arrivavano calci negli stinchi.
«Ma è quel balordo di Ernest Archambault... L’ho sempre detto a mio figlio...».
Il Canarino sollevò appena le palpebre. Non aveva bisogno di guardare per riconoscere il brigadiere Leroy, il padre di Oscar, con la divisa dai bottoni argentati che lo faceva sentire il padrone del quartiere.
«Quando gli proibivo di frequentare uno scapestrato come te... Ma ora cambiamo musica, caro mio... Ci siamo dati alle aggressioni a mano armata, eh?...».
«Mi lasci... Le ho detto di lasciarmi... Non le ho fatto niente... Era solo per scherzo...».
La paura che aveva provato prima, mentre correva nel corridoio di casa, non era niente rispetto a quello che provava adesso. Era una umiliazione dolorosa: si sentiva defluire il sangue dalle vene, mentre migliaia di tenaglie gli laceravano la carne.
«Mi lasci... Le giuro che...».
Il colosso lo portava sottobraccio come un pacco, con la testa penzoloni e i piedi che sfioravano il suolo.
«Vedremo, giovanotto...».
Allora, di colpo, il Canarino affondò i denti nella manona biancastra che intravedeva nell’oscurità, mordendola con tutte le sue forze. Il brigadiere Leroy lo lasciò cadere a terra, lui si rialzò e prese a correre come non aveva mai fatto in vita sua, a zigzag perché l’altro aveva le gambe lunghe.
Per parecchi minuti i loro passi riecheggiarono nelle strade deserte della città. Ogni tanto il Canarino aveva l’impressione che un alito caldo gli sfiorasse la nuca, sicché accelerava ancora di più. In certi momenti era così sbilanciato in avanti che solo per miracolo non finiva con la faccia sul marciapiede.
Oltrepassò un ponte, poi un altro, forse lo stesso, perché correva a precipizio senza riconoscere le strade in cui aveva giocato da bambino. Non era più la sua città, con i negozi di sempre e le insegne familiari che oscillavano cigolando nella notte umida, ma un labirinto dove un energumeno lo inseguiva.
A un certo punto gli si parò davanti una recinzione e la scavalcò rimettendoci una parte della giacca. Vide delle rotaie, un convoglio fermo. Il fischio di una locomotiva. Semaforo rosso.
«È passato da qui...» disse una voce.
Ora che si era infilato tra i vagoni, la cosa di cui aveva più paura era che il treno si mettesse in moto all’improvviso e lo stritolasse.
I ferrovieri lo cercavano agitando le lanterne.
«Sicuro che era lui?».
«Un tipo mingherlino, giusto?».
Il Canarino si arrampicò nella cabina del frenatore. Udì ancora:
«Se avessimo il cane poliziotto del capostazione...».
«Non possiamo farcelo dare?».
«È morto la settimana scorsa... Investito da un treno...».
Allora il Canarino svenne.
Zoppicava, non capì mai perché, quando, per la prima volta a Parigi, si mise in coda davanti a una mensa dei poveri, quella che c’è nel Quartiere Latino, accanto a una chiesa. Aveva la giacca strappata. Una rada barbetta bionda faceva sembrare il suo viso ancora più magro.
Verso sera notò una vetrina buia, tappezzata di annunci con richieste e offerte di lavoro.
Così una mattina si ritrovò in uno scantinato pieno di vapore, con le braccia immerse fino al gomito in un’acqua calda e untuosa, più puzzolente del signor Griset. Era stato assunto come lavapiatti in un ristorante dei Grands Boulevards.
Alla sua sinistra c’era un polacco, alla sua destra uno spagnolo, e il caposquadra era russo.
Ci mise due anni a pagarsi una bicicletta con le marce, tutta cromata, che comprò a rate.
E gli ci volle anche di più per riscattare l’orologio d’argento lasciato al Monte dei pegni.
Per mesi condivise una mansarda con una guardarobiera che poi se ne andò con un cliente, ma che ogni tanto tornava al ristorante in compagnia del suo nuovo amico.
All’epoca il Canarino era capocameriere.
Fece due stagioni a Deauville come vicemaître, poi gestì per qualche tempo una pensione familiare a Étretat.
Se ora passate da rue Blanche, a metà strada tra i Grands Boulevards e Montmartre vedrete un’insegna al neon di un giallo acceso, con su scritto solo: «Al Canarino».
È un ristorantino tranquillo, apprezzato per la sua buona cucina e per l’ambiente sobrio e confortevole. Tende di velluto rosso – forse ricordo di altre tende? – schermano le due vetrine, dove si vede solo qualche frutto esotico in un cesto o un’aragosta di prima scelta.
Il portiere indossa una divisa scura con pochi fronzoli e ogni tanto si eclissa nel guardaroba per tirare una boccata dalla pipa di schiuma.
È il vecchio Canarino, come lo chiamano. Il figlio, il signor Canarino, in smoking, riceve i clienti, mentre la madre, la signora Canarino, sta alla cassa a fare i conti che le portano i camerieri e sospira, quasi avvertisse sempre una minaccia incombente.
Vero è che Yvonne ha preso una brutta strada: vive ancora in provincia, dove è diventata l’amante di un giudice istruttore, e le zie devono cambiare marciapiede quando la vedono.
LO SCIALLE DI MARIE DUDON
Dovevano essere quasi le due: la sveglia sul camino di marmo nero era ferma. Marie Dudon aveva avuto il tempo di lavare i piatti.
«Esci subito?».
«Perché?».
«Vorrei che badassi al bambino per cinque minuti, intanto che scendo a prendere l’acqua per il bucato...».
Abitavano al secondo piano e il rubinetto dell’acqua corrente si trovava sul pianerottolo dell’ammezzato. Era la cosa più faticosa, soprattutto con un neonato: i biberon da bollire, le fasce da lavare... Marie Dudon aveva l’impressione di passare tutto il santo giorno a salire e scendere con i secchi.
«Eccomi. Puoi andare, grazie. Torni tardi?».
«Dipende dalla coda che c’è...».
Dudon doveva ritirare il sussidio di disoccupazione. Il bambino dormiva, con le guance rosse e accaldate. Nell’appartamento c’era un bel tepore. Era il 3 ottobre e Marie aveva acceso il fuoco per la prima volta: in estate si accontentavano del fornello elettrico. Una pioggia di braci cadeva nel ceneraio, l’acqua gorgogliava nel bollitore.
Marie Dudon piazzò due sedie davanti alla finestra, vi posò sopra il catino smaltato, lo riempì di acqua calda e cominciò a fare il bucato. Aveva scostato le tende. Pioveva. Erano già tre giorni che pioveva e il cielo era di un bianco uniforme. La finestra dava sui cortili, sugli orti e sul retro delle case dell’altra strada.
Le facciate principali erano quasi tutte di mattoni lisci e intonacati, qualcuna anche di pietra da taglio. Ma sul retro si vedevano solo muri di un marrone grigiastro. Alcune finestre non avevano tende. Lo spazio libero era diviso in piccoli lotti rettangolari delimitati da muretti. La terra era nera. Dai Masson c’erano cavoli di un verde acceso, porri violacei, qualche bidone della spazzatura e, dietro una rete, quattro o cinque galline; a destra, dagli Chevillard, una serra dai riflessi azzurrognoli.
A forza di stare immerse nell’acqua calda e insaponata, le mani di Marie Dudon erano diventate di un bianco squamoso. Strofinava la biancheria, e nel frattempo guardava dritto davanti a sé, distrattamente, senza pensare. O meglio pensando a... Ma era pensare, quello? Una sensazione la tormentava dalla mattina alla sera, a volte anche a letto: aveva mal di schiena. Colpa dei due piani da salire e scendere con i secchi d’acqua, con le sporte della spesa, con il bambino, che aveva quasi un anno e pesava dieci chili, tanto che per tenerlo in braccio doveva torcersi tutta, spingendo un’anca di lato e la pancia in avanti.
«Ecco la signora Cassieux che va a dare le medicine al marito...».
Di fronte, al di là degli orti e dei cortili, c’era una casa più signorile delle altre, la cui facciata principale dava su rue de la Constitution: vi abitavano i Cassieux, titolari di una grossa ditta cittadina di traslochi. Il vecchio Cassieux era nel suo letto, al primo piano, sicché, nonostante le tendine che schermavano la parte inferiore dei vetri, Marie Dudon, che guardava dall’alto, lo vedeva benissimo. Da qualche giorno il vecchio era in preda al solito attacco di gotta, che gli veniva un paio di volte all’anno. Quando aveva bisogno di qualcosa, chiamava la moglie battendo sul pavimento il bastone che teneva accanto al letto.
«Speriamo che il bambino non si svegli prima che abbia finito il bucato!...».
Il signor Cassieux aveva settant’anni. Era l’uomo più ricco del quartiere. Freddo, severo, avaro.
La sua seconda moglie, Mathilde Cassieux, aveva vent’anni meno di lui e dicevano che...
Il bambino si mosse. Con le mani insaponate Marie Dudon cacciò via una mosca che gli si era posata sulla fronte e guardò la sveglia ferma. In casa non c’era mai stato un orologio che funzionasse bene!
Cassieux, nel suo letto, aveva messo via il giornale e stava parlando. Da quando era a letto gli era cresciuta la barba. Impossibile capire cosa diceva e come gli rispondeva la moglie, sempre vestita di nero. La pioggia era sottile, particolarmente limpida. Un camion sobbalzò sul selciato irregolare. Ogni tanto si udiva lo sferragliare del tram, a oltre duecento metri di distanza, in rue Saint-Jean, una strada stretta dove si verificava almeno un incidente a settimana.
Marie Dudon, che guardava soprappensiero, si immobilizzò con le mani nell’acqua calda, poi si avvicinò d’impulso alla finestra e osservò con più attenzione.
Mathilde Cassieux era appena uscita dalla camera ed era entrata nel gabinetto, o meglio in bagno, perché i Cassieux disponevano di un vero e proprio bagno. Aveva in mano un bicchiere. Lo posò e aprì un armadietto verniciato a smalto, che doveva contenere i medicinali.
Perché i suoi gesti avevano un che di innaturale? Perché sembrava tendere l’orecchio verso la camera da letto? Da un piccolo involto di carta lasciò cadere nel bicchiere una polverina, poi, invece di gettare via l’involucro vuoto, lo nascose nel reggiseno. Si intuiva che evitava di far rumore. Riempì il bicchiere sotto il rubinetto e lo guardò in trasparenza per accertarsi che la polverina si sciogliesse. Perché?
Subito dopo, sempre con il bicchiere in mano, rientrò in camera da letto e riprese a parlare. Cosa diceva? Il marito, con il viso contratto dal dolore, fissava il soffitto. Sul comodino erano allineate delle boccette. Lei ne aprì una e contò le gocce che cadevano nel bicchiere.
«Bevi...».
Gli sorresse la testa e lui bevve con una smorfia di disgusto. Poi, con la destrezza data dall’abitudine, gli sistemò il letto. Era l’ora in cui Cassieux si addormentava. La moglie lo coprì, gli rimboccò le coperte e si diresse verso la finestra per srotolare la tenda avvolgibile di tela écru che smorzava la luce.
Proprio mentre stava per abbassare la tenda... Aveva già sganciato la cordicella... Alzò la testa e, dietro i vetri della finestra dirimpetto, scorse il viso di Marie Dudon, che non ebbe il tempo di ritrarsi... I loro sguardi si incrociarono...
Tra le due donne, orti fangosi, un albero di pesco senza foglie, cavoli, porri e muri di mattoni. Un grande silenzio striato di pioggia. Cassieux doveva chiedersi perché la moglie si fosse fermata con la mano a mezz’aria. Con ogni probabilità disse qualcosa, perché lei si voltò per rispondergli, ma il suo sguardo tornò subito a Marie Dudon che, da lontano, sembrava ancora più pallida e malaticcia.
Alla fine la tenda ornata di frange si abbassò. Da azzurrino che era, il rettangolo della finestra divenne giallo. Marie Dudon continuava a non muoversi.
Perché? Perché, prima di lasciar cadere nel bicchiere le gocce della boccetta che si trovava sul comodino, la signora Cassieux aveva sciolto una polverina nell’acqua? Perché aveva nascosto la carta nel reggiseno? Perché, ora che aveva chiuso la porta della camera da letto, si avvicinava alla finestra del bagno e guardava fuori, come per verificare se la dirimpettaia potesse averla vista?
«L’ha avvelenato!».
Marie Dudon non aveva mai vissuto eventi drammatici. Non leggeva i giornali. Eppure prese atto della situazione senza fare una piega. Non lo sapevano tutti che Mathilde aveva sposato il vecchio Cassieux per i suoi soldi? Ma Cassieux era avaro, cattivo, intrattabile. Probabilmente la moglie non aveva avuto la pazienza di aspettare...
Marie trasse un sospiro e tornò verso il catino, dove l’acqua si era raffreddata. Ne aggiunse dell’altra calda e lanciò un’occhiata al bambino che continuava a dormire. Correva voce che tutta rue de la Commune appartenesse a Cassieux, il quale aveva anche delle case in un altro quartiere. Nessuno era più intransigente di lui sul pagamento degli affitti.
Davvero sarebbe morto di lì a poco?
Dovevano essere le due e mezzo passate. Era ora di preparare il biberon. Marie Dudon si asciugò le mani sul grembiule di cotone blu, sospirò come faceva cento volte al giorno, senza motivo, o forse perché a un’incombenza seguiva un’altra incombenza, poi un’altra ancora, e così dalla mattina alla sera, senza sosta, senza riuscire mai a mettersi in pari.
«Mi ha vista...».
Mathilde Cassieux non la salutava. Senz’altro la conosceva di vista, come capita tra dirimpettai, ma non era il tipo da intrattenere rapporti di vicinato. Non sapeva neanche che il marito di Marie Dudon era rimasto disoccupato dopo il fallimento della banca dove lavorava e l’arresto del suo direttore.
Chissà che stava facendo... Aspettava con calma l’effetto del veleno? Non doveva essere molto indaffarata, visto che aveva due domestiche. Forse era seduta nel salottino che dava sulla strada...
Se Cassieux moriva quel giorno...
«Scommetto che verrà» pensò a un tratto Marie Dudon. «Quanto meno per sapere se l’ho vista davvero, se ho capito...».
Ed entrò nella camera da letto che odorava di linoleum. C’era più luce che in cucina. Le pareti erano tappezzate di carta gialla a fiori rossi. Marie Dudon aprì la finestra e guardò la strada deserta.
Sembrava che avesse avuto un presentimento: in quello stesso istante, infatti, Mathilde Cassieux, con il cappello in testa e i guanti grigi, stava svoltando l’angolo. Dava l’impressione di parlare da sola mentre camminava. Muoveva le labbra, come una devota che recita le preghiere. Non guardava in alto. A qualche metro dal 29, dove abitavano i Dudon, rallentò il passo.
E, sapendo che il tempo stringeva, Marie si chiese:
«Cosa posso cavarne?».
Il bambino si mise a piangere e Marie ebbe un moto di impazienza. Mathilde Cassieux non stava forse per bussare al portone?... Sarebbe salita al secondo piano, lei l’avrebbe fatta accomodare senza dire niente. Avrebbe aspettato, con modi cortesi, molto cortesi...
E il bambino che non la smetteva di piangere! Marie si affacciò alla finestra nel momento in cui, sulla soglia, una voce diceva:
«Buongiorno, signora Cassieux...».
Allungando il collo, Marie vide benissimo che la Cassieux trasaliva. Poi scorse la sua padrona di casa, con uno straccio in mano, probabilmente intenta a lavare il pavimento dell’androne.
«Buongiorno, signora Rorive...».
Nient’altro. Mathilde Cassieux si allontanò. A causa di quella porta aperta! A causa di quella megera della signora Rorive che stava giusto facendo le grandi pulizie. Non aveva osato...
Marie Dudon chiuse la finestra sospirando e prese dalla culla il figlio che aveva bisogno di essere cambiato. Rifletteva, e mantenne un’aria assorta per tutto il resto della giornata.
«Che hai?» le chiese il marito quando rientrò, verso le cinque.
«Niente... Non ti preoccupare... A proposito, va’ a vedere se le persiane dei Cassieux sono chiuse...».
Perché se erano chiuse...
Vennero chiuse poco dopo le sei, e Georges Dudon scorse il medico legale che usciva da casa Cassieux, accompagnato fino alla porta da una Mathilde con gli occhi rossi.
Per almeno due ore Marie Dudon non riuscì a prendere sonno, sentiva in sottofondo il mormorio della pioggia. Quando si svegliò, di soprassalto, era ancora buio e un vero e proprio diluvio crepitava sul tetto, sul cornicione e sui vetri delle finestre.
Non aveva detto niente al marito. Era meglio tenerlo all’oscuro. Dopo tre mesi da disoccupato non era più lo stesso, e a Marie capitava di scrutarlo con preoccupazione. Certe sere si era anche chiesta se avesse bevuto.
Era capace di immischiarsi, e magari di rovinare tutto! No! La questione andava risolta tra donne! Di lì a poco, né troppo presto né troppo tardi, Marie avrebbe suonato il campanello dei Cassieux. Anzi, non doveva nemmeno suonare: la porta sarebbe stata accostata e la salma esposta nel salone al pianterreno, circondata di ceri.
Mathilde Cassieux avrebbe capito subito. Non per niente era venuta fin lì e, senza quella vecchia strega della signora Rorive che puliva l’androne... Un’ennesima mania da padrona di casa: lavare il pavimento in una giornata piovosa per poi potersi lamentare che gli inquilini l’avevano sporcato!
Non intendeva chiedere soldi. Anche se... Quanti ne avrebbe ereditati Mathilde Cassieux? Centinaia di migliaia di franchi!... Già solo le case...
Be’, avrebbe chiesto una casa!... Senza dirlo chiaro e tondo... Da qualche giorno era pallida e sofferente: questo avrebbe aiutato...
«Ah, se potessi non dovermi più inerpicare per due piani con i secchi, il bambino, il carbone... Ci basterebbe una casa piccola, due o tre stanze, con un giardinetto...».
Sua cognata aveva comprato una villetta del genere, che le era costata quarantamila franchi. Vero è che c’era acqua corrente, gas, elettricità e fognatura!
E se Mathilde le offriva dei soldi?
O se invece fingeva di non capire? Allora Marie Dudon l’avrebbe guardata negli occhi. Avrebbe detto, per esempio: «Forse se il medico esaminasse meglio il povero signor Cassieux...».
Il bambino si mise a piangere. Lei gli diede il seno, a letto, mentre il marito si girava sull’altro fianco borbottando. Lo allattava al seno tre volte al giorno, e per le altre poppate usava il biberon. Non era abbastanza robusta. Non era mai stata robusta.
«Che tempaccio!» disse Georges un po’ più tardi, quando fece giorno.
Pioveva a dirotto. Ai due lati della strada i rigagnoli, gonfi e giallastri, scorrevano rumorosi come torrenti. Alcuni operai incappucciati camminavano rasente i muri per raggiungere il cantiere. Il cavallo della lattaia era così zuppo che sembrava uscito da un fiume, e la lattaia si era coperta la testa con un sacco. L’uno dopo l’altro i vicini si avviavano al lavoro, a capo chino, con la schiena curva e il bavero rialzato.
Dietro la tenda dei Cassieux c’era luce. La salma era ancora sul letto?
«La camera ardente la faranno dabbasso, nel salone!» disse Marie versando il caffè nelle tazze.
«Per quello che me ne importa!...».
Un vago sorriso aleggiò per un istante sulle labbra pallide della moglie. Non sapeva niente, lui! Ignorava che quel morto rappresentava una casa, forse di più, la loro fortuna...
«Che fai, Marie?».
«Mi vesto...».
«Per andare a fare la spesa? E ti metti il cappotto buono con questo tempaccio?».
«Passerò dai Cassieux per le condoglianze...».
«Non li conosci neanche...».
Sempre impedimenti stupidi. Quando Georges lavorava, lei non poteva uscire perché aveva il bambino. Persino la spesa la faceva di corsa, mentre una vicina dava un’occhiata al piccolo. Adesso, invece, suo marito stava tutto il giorno in casa e la tempestava di domande dalla mattina alla sera:
«Che fai?... Dove vai?... Perché ti cambi?...».
Anche ora brontolava:
«Per andare da quella gente, che non conosciamo e a cui non dobbiamo niente, il tuo scialle va più che bene... Non ho intenzione di lasciarti rovinare un cappotto e un paio di scarpe quasi nuove...».
«Non vorrai mica che ci vada in ciabatte?».
«Perché no?... In ogni caso hai le scarpe vecchie...».
Scarpacce nere, allacciate, con i tacchi storti!
Sbagliò a non insistere? Con ogni probabilità sarebbe stato peggio! Negli ultimi tempi Georges si arrabbiava per un nonnulla. Non era il momento di provocare una scenata!
Marie si vestì e si avvolse nello scialle di lana nero che usava per fare la spesa nel quartiere. Prese la sporta e l’ombrello. Mentre scendeva i due piani provò una fitta di angoscia: purché filasse tutto liscio! Purché non dovesse più portare su per le scale i secchi, il carbone, il bambino. A un tratto si chiese come avesse potuto farlo per tanto tempo. Non ne aveva più la forza.
Si incamminò rasente i muri, china in avanti, con l’ombrello inclinato. Dopo pochi passi la gonna era già zuppa e le si attaccava alle gambe. Le scarpe imbarcavano acqua.
Considerato che Mathilde Cassieux avrebbe ereditato centinaia di migliaia di franchi, non era forse giusto che...
Svoltò l’angolo, percorse altri cento metri e si fermò, con il cuore in gola, davanti ai tre gradini dell’ingresso e alla porta di quercia a due battenti. Come previsto, era solo accostata. Le bastò spingerla per ritrovarsi, un po’ spaesata, in un ampio vestibolo con il pavimento di marmo bianco. Una domestica la squadrò da dietro i riquadri di vetro della cucina in fondo al corridoio, e Marie non osò mettere l’ombrello gocciolante nel portaombrelli di ottone sbalzato.
A sinistra si aprì una porta. Una donna che Marie non conosceva, forse una lontana parente, la guardò come per invitarla a entrare.
La camera ardente era ancora in preparazione. Avevano chiuso le persiane e coperto i mobili del salotto con dei drappi funebri. Il morto era disteso su un tavolo, avvolto in un lenzuolo, fra quattro ceri accesi, con le mani giunte, il volto incorniciato da una fascia.
Un giovanotto vestito di nero, snello ed elegante, sbirciò Marie con occhi arrossati, e lei ebbe l’impressione che sbirciasse soprattutto il suo scialle. Si fece coraggio, prese il pezzetto di bosso immerso nell’acqua benedetta e tracciò una croce in aria, sopra il corpo del defunto.
Non aveva ancora visto Mathilde Cassieux. Vero è che non osava guardarsi intorno. Nessuno le rivolgeva la parola. Rimaneva là, in piedi, con le orecchie ronzanti, gli occhi infastiditi dalla tremula fiamma dei ceri.
C’erano quattro o cinque persone nel salotto. La porta della stanza accanto era semiaperta e, quando si girò da quella parte, Marie Dudon scorse Mathilde Cassieux che la osservava da lontano, in una sala da pranzo, con la tovaglia e i piatti sporchi ancora sulla tavola.
Perché Mathilde non la chiamava, non le faceva un cenno? Si limitava a puntarle addosso uno sguardo indecifrabile, e per un istante Marie Dudon si chiese se non fosse il caso di andarsene.
L’acqua che gocciolava dal suo ombrello aveva già formato una pozza sul parquet incerato. Lo scialle da poveraccia la metteva a disagio, e così pure l’essere uscita senza cappello, come una fruttivendola.
Non osava entrare nella sala da pranzo senza essere invitata. Mathilde Cassieux non faceva nulla per aiutarla. Allora Marie lasciò la camera ardente e si inoltrò da sola nel corridoio con il pavimento di marmo dirigendosi verso la cucina.
«Che c’è?» chiese la domestica, che pelava patate.
«Vorrei dire due parole alla signora Cassieux...».
«Non penso che la riceverà in un giorno come questo...».
Andò comunque ad annunciarla. Quando tornò le indicò una sedia accanto alla stufa e disse:
«Aspetti qui...».
Dallo scialle si alzava un leggero vapore. La pendola di ottone segnava le dieci e mezzo. Marie Dudon notò che la cucina a gas era sormontata da un grosso serbatoio di acqua calda, il che era molto comodo. Altre persone entrarono in casa e ne uscirono dopo una breve visita. Nel vestibolo la signora Cassieux abbracciò qualcuno piangendo.
Erano le undici meno cinque quando una campanella suonò sopra la testa di Marie, facendola trasalire. La domestica si alzò e scosse il grembiule pieno di bucce.
«Venga...».
Marie fu introdotta nella sala da pranzo con le sedie tappezzate di pelle scura. La porta della camera ardente era chiusa. La signora Cassieux, tutta in nero, era ritta nella penombra.
«Può andare, Françoise...».
E rimase in piedi, senza muoversi, senza dire una parola. Il giorno precedente, quando, presa dal panico, si era diretta verso la casa dei Dudon, era decisa a offrire fino a cinquantamila franchi, se necessario. La mattina aveva pensato: «Forse con trentamila... O magari venticinquemila, chissà...».
Ora guardava freddamente la visitatrice che si stringeva lo scialle sul petto magro, impicciata dall’ombrello e dalla sporta della spesa.
«Voleva parlarmi?».
Suo malgrado, Marie Dudon accennò un sorriso, il sorriso incolore, per così dire, di quando si sentiva in dovere di scusarsi. Non era affatto a suo agio in quella ricca sala da pranzo dove tutto la intimidiva, compresa la monumentale stufa con il fuoco a vista che proiettava nella stanza magnifici riflessi rossi.
«Ho pensato...».
«Si sieda...».
Era ancora peggio, a causa dell’ombrello che non sapeva dove mettere. Ce l’aveva con il marito che le aveva impedito di vestirsi come si deve, costringendola ad avvolgersi in quello scialle orrendo.
«Abito proprio qui dietro...» balbettò girandosi verso il giardino.
«Lo so».
«Al secondo piano... È molto faticoso, soprattutto con un neonato... Non abbiamo l’acqua corrente in casa...».
L’altra rimase di marmo. Forse non capì, o fece finta di non capire.
«Se potessimo trovare un appartamento a pianterreno, o meglio una villetta...».
«Vuole sapere se abbiamo un pianterreno da affittare? Purtroppo no, per il momento. Ma se dovesse liberarsene uno...».
«Il fatto è...».
Come spiegarle che non intendeva pagare l’affitto, che...
«Mio marito è disoccupato... Lavorava alla Banca Baladon e lei sa che adesso il signor Baladon è in prigione...».
Senza volerlo aveva trovato la parola giusta. Colse al volo l’occasione e, con un fervore che le fece tremare la voce, ripeté:
«In prigione... In prigione, capisce?... Così noi...».
Mathilde Cassieux si era turbata almeno un po’?
«Siete in una situazione difficile, mi rendo conto... Perciò sono disposta...».
Finalmente! Il cuore di Marie Dudon accelerò i battiti.
«... sono disposta a fare qualcosa per voi... Per esempio, potrei chiedere al nostro direttore di assumere suo marito in ufficio...».
Silenzio. Marie Dudon guardava per terra tentando di darsi coraggio. Era lì per la casa. L’impiego sarebbe venuto dopo...
«Il fatto è...».
«Mi dispiace non potermi intrattenere più a lungo con lei... Nella triste circostanza in cui... Dica a suo marito di presentarsi oggi pomeriggio in rue Théodore-Ballant e chiedere del vicedirettore... Spero di rivederla in un’altra occasione...».
Pigiò un campanello.
«Françoise... Riaccompagni la signora... la signora... A proposito, come si chiama?... Dudon...».
Non fece un passo, non tese la mano. E, mentre usciva da quella casa, Marie aveva l’aria di una ladra.
«Tutto bene, in ufficio?».
E lui, senza entusiasmo:
«Sì, sì...».
«Cosa c’è che non va?».
«Non so perché mi guardano storto... Forse è una mia impressione... Sono tutti molto cortesi con me... Quasi troppo cortesi...
«“Signor Dudon,” dice per esempio il vicedirettore “vuole avere la compiacenza di...”.
«Mi chiedo se non mi prendano in giro».
E Marie, lanciando un’occhiata verso la casa dei Cassieux, replica con sicurezza:
«Non possono permetterselo!».
Li ha in pugno. La ha in pugno! Se ha accettato questo posto per il marito, è solo perché l’altra mattina non era a suo agio, perché non osava, perché c’era il morto nella stanza accanto, e soprattutto perché si sentiva una poveraccia, con il suo scialle, le scarpe rotte e l’ombrello grondante. Ma non c’è fretta. Dopo il funerale ci sarà tempo. Anche se non legge la cronaca nera, sa che è possibile esumare un corpo dopo parecchi anni e trovare tracce di veleno!
Ogni volta che s’inerpica su per i due piani di casa sua pensa:
«Quante altre volte ancora?... Venti?... Trenta?... Poi avrò l’acqua in cucina e...».
Passano tre giorni, quattro giorni. Viene celebrato il funerale. La sera Georges torna a casa agitato e con lo sguardo inviperito.
«Lascio la baracca!» sbotta. «Stavolta sono sicuro che si divertono alle mie spalle. Lo sai che ho fatto tutta la giornata?».
«No».
«Ho trasportato mobili... Con la scusa che in ufficio non c’è molto lavoro, il vicedirettore, sempre con la sua aria cortese, mi ha detto:
«“Se non le dispiace, signor Dudon, d’ora in poi darà una mano al magazziniere...”.
«Sono stanchissimo... Ho battuto un ginocchio... Mi sono strappato i pantaloni...».
Marie guarda fuori dalla finestra. Ah, è così?...
«Aspetta!» dice in tono deciso. «Bada al bambino per un’oretta...».
«Che fai?».
Marie si veste scegliendo i suoi abiti migliori, il cappotto e le scarpe nuove, il cappello di velluto blu...
Nel frattempo il marito, che dondola la culla con la punta del piede, apre il giornale.
«Credevo che fossero cattolici...» commenta alzando la voce per farsi sentire dalla moglie nella stanza accanto.
«Chi?».
«I Cassieux...».
«Perché dici così?».
«Perché leggo che i funerali si sono svolti stamattina in forma strettamente privata e che il corpo è stato cremato...».
Silenzio. Lui si stupisce.
«Che c’è?».
Si alza e va in camera da letto.
«Ti stai spogliando? Ma che hai? Un momento fa...».
Marie si gira verso di lui: è pallidissima, con le labbra livide stirate in un sorriso di amarezza infinita, di tragica ironia.
«Un momento fa, sì...» sospira.
Recupera il vestito vecchio abbandonato in un angolo, le scarpe scalcagnate, lo scialle. Si stringe nelle spalle magre.
«Devo scendere a prendere il carbone in cantina... Ma no!... Sei stanco, lascia stare...».
Due piani, più la rampa della cantina. Dabbasso, accanto al mucchio di carbone, piange di rabbia, di umiliazione.
Chissà con quanta calma e fredda soddisfazione Mathilde Cassieux dev’essere tornata dal cimitero e, in piedi davanti alla finestra, deve aver guardato, al di là degli orti, quella finestra del secondo piano dove...
La padrona di casa aspetta Marie sul pianerottolo.
«Le ho detto cento volte di non scendere a prendere il carbone nel pomeriggio. Lo sa che mi sporca l’androne e le scale... Spero di non doverglielo ripetere più...».
«Sì, signora...».
Umiliazione in più, umiliazione in meno...
IL DESTINO DEL SIGNOR SAFT
«Può rivestirsi... Sposato?... Figli?...».
In verità il signor Saft incassò bene il colpo. Si vide, mentre gli veniva assestato, perché nello studio medico c’era uno specchio. A essere precisi, aveva le braccia alzate per infilarsi la camicia dalla testa e, nella luce livida, il suo petto grasso, coperto di peli neri, appariva bianco come un lenzuolo. Prima di auscultarlo, il dottore gli aveva pizzicato familiarmente una mammella, che sembrava il seno di una ragazzina.
«Grasso cattivo, caro mio!...».
Era un medico di poche pretese, al terzo piano di un vecchio stabile di rue Coquillière, vicino alle Halles. Erano le cinque di un pomeriggio d’inverno. In fondo alla strada stretta, rischiarata dalle vetrine che separavano i portoni bui e freddi, Parigi trascinava alla rinfusa vite, uomini, donne, macchine e carri a cavalli. Nello stabile dove abitava il medico si percepiva movimento dietro tutte le porte, c’era chi parlava, chi bisbigliava, un parrucchiere qui, un’indovina lì, un venditore di piume per cappello, un piccolo mandatario delle Halles, un ufficio di collocamento, e persone che inciampavano di continuo nei gradini delle scale mal illuminate.
«Vivo solo...» rispose il signor Saft con voce quasi ferma, tentando di incurvare le grosse labbra in un sorriso amaro. «Può dirmi tutto... È il terzo, oggi pomeriggio...».
E il dottore, che pensava già ad altro:
«Il terzo cosa?».
«Medico...».
«E che le hanno detto gli altri due?».
«Quello che mi dirà lei...».
«In questo caso... Se già lo sa... Guardi, evitando ogni eccesso, può vivere ancora sei mesi... Forse un anno...».
La cosa più difficile fu annodarsi la cravatta, perché nonostante tutto le dita del signor Saft tremavano un po’.
«Le devo?».
«Venti franchi...».
Tre medici, a venti franchi ciascuno, il primo in place de la République, il secondo in rue Bergère... Per sessanta franchi avrebbe potuto consultare un medico di prestigio, ma gli avrebbe detto qualcosa in più? Forse perfino qualcosa in meno, perché i medici di prestigio si sentono in dovere di mostrarsi più ottimisti.
«Succederà all’improvviso, vero?».
E l’altro, indifferente, pensando che in sala d’attesa c’erano ancora sette pazienti – sette pazienti a venti franchi –, buttò lì:
«È probabile... Non si abbatta...».
Per strada il signor Saft si rialzò il bavero del cappotto perché faceva freddo. La folla, che sarebbe accorsa impietosita se un gatto fosse stato investito da una macchina, lo urtò, lo spinse, senza sospettare niente. E il signor Saft, per dimostrare a se stesso che era calmo, si soffermò a guardare le vetrine. Natale si avvicinava, e alcuni negozi erano già addobbati con ghirlande di neve finta e palline colorate.
Aveva sempre pensato che prima o poi sarebbe successo, e adesso era arrivato il momento! Si specchiò nel vetro di una salumeria, ma il vetro non doveva essere buono perché si vide con il naso un po’ storto e il colorito torbido, come attraverso una nebbia.
«Il primo dottore ha detto due o tre anni, ma era un vecchio, che forse soffriva anche lui di angina...».
Un carretto rischiò di metterlo sotto e lui fece appena in tempo a saltare, madido di sudore, sullo stretto marciapiede. Ormai era vicino ai Grands Boulevards. Passando davanti a un androne da cui spirava un soffio umido si fermò di colpo, più turbato di quanto non lo fosse stato nei tre studi medici. Seduto in un angolo c’era un vecchio con una stampella appoggiata di traverso sulle gambe, e sulla stampella erano esposti i giornali della sera. Il vecchio non teneva d’occhio i clienti, fissava il suolo: bisognava servirsi da sé e gettare le monete in un piattino.
Solo allora il signor Saft ebbe veramente paura. Quel vecchio gliene ricordava un altro. L’aveva visto a Varsavia, da bambino. La neve si scioglieva in una fanghiglia giallastra. La pioggia gelata tratteggiava la luce dei lampioni a gas. Una piazza con una statua circondata da un’inferriata. E, addossato all’inferriata, un vecchio con la barba, seduto a terra tra i giornali sparsi.
All’epoca il piccolo Saft non aveva scarpe. Se ne andava in giro con le mani in tasca, il collo incassato nelle spalle, e aveva guardato a lungo il venditore di giornali. Anche lì c’era un viavai di gente e le slitte passavano schizzando fango sui marciapiedi.
Perché il bambino si era immobilizzato, con la fronte aggrottata, mentre i giornali sembravano liquefarsi a poco a poco nella neve? Forse – ma non voleva più pensarci – era stato tentato di tuffare rapidamente la mano nel piattino e scappare.
Fatto sta che avvicinandosi un po’ aveva scoperto una cosa: nonostante avesse gli occhi aperti, il vecchio era morto... Era morto in mezzo alla strada, all’insaputa di tutti, con la testa all’altezza delle ginocchia dei passanti che lo sfioravano...
Un brivido corse lungo la schiena del signor Saft, che allungò il passo. In boulevard Saint-Martin si infilò in un cortile, tra un venditore di spartiti musicali e una fabbrica di pipe. Il cortile era illuminato solo dal riverbero delle finestre. Saft aprì una porta, scese qualche gradino ed entrò nel suo ufficio sormontato da un’insegna smaltata: «Éditions Optima».
«È appena venuto il postino» gli comunicò la signora Pourcel, che stava preparando dei pacchi sotto un gomitolo di spago appeso al soffitto.
L’impiegata non sospettava niente. Lui faceva i soliti gesti: per ogni pacco già pronto compilava un bollettino postale giallo, poi trascriveva su un registro il nome e l’indirizzo del cliente. La stufa era proprio dietro di lui. File di scaffalature ingombravano tutto il seminterrato, da cui vedevano solo – come il vecchio di Varsavia! – le gambe e i piedi delle persone che passavano nel cortile.
«Vado all’ufficio postale, signor Saft. Poi devo tornare qui?».
Lui la guardò spaventato.
«Certo, bisogna...».
«Sono quasi le sei e...».
La signora Pourcel doveva avere tra i quaranta e i quarantacinque anni. Fungeva al contempo da donna delle pulizie, magazziniera, segretaria, e a volte, proprio verso quell’ora, il signor Saft, senza avvertire, spegneva all’improvviso la luce perché non c’erano tende davanti alla finestrella del seminterrato. Lei non protestava, non manifestava né piacere né dispiacere. Poi lui riaccendeva la luce e, già che era in piedi, ne approfittava per ricaricare la stufa.
«C’è un po’ meno posta di ieri...» fece la signora Pourcel.
Lettere, tutte simili, contenenti ciascuna un vaglia. Gli annunci sui giornali dicevano: «Spedizione in busta anonima»...
E il signor Saft e la signora Pourcel passavano la giornata a impacchettare libri stampati male, su carta scadente, ma dai titoli molto allusivi.
L’impiegata rimase assente per mezz’ora: all’ufficio postale c’era coda. E al ritorno si stupì vedendo il signor Saft che l’aspettava sulla soglia.
«Vorrei chiederle una cosa» le disse. «Le dispiacerebbe venire a dormire da me?».
La signora Pourcel non capì.
«Dormire da lei?».
E Saft, imbarazzato:
«Non è come crede... Io vorrei... Insomma, non importa!... Naturalmente le darò un aumento...».
«Il problema non è questo, ma è impossibile... Ho mio figlio a casa...».
«Ha un figlio?».
«Di sedici anni... Lavora in un garage... Non posso mica spiegargli che...».
«Non ne parliamo più!».
«Si è offeso?».
«No...».
«Perché mi tiene il muso?... C’è ancora da lavorare, stasera?... Perché devo preparare la cena e si sta facendo tardi...».
«Buonasera...».
E disse quel «buonasera» con un tono tale che la signora Pourcel ci pensò preoccupata per tutta la strada.
Il signor Saft rimase in ufficio fino alle sette e mezzo, come gli altri giorni. Spillò tutti i vaglia insieme, dopo averli siglati, poi catalogò le lettere; alla fine si accertò che la stufa si stesse spegnendo, si mise il cappotto e il cappello e chiuse la porta a chiave.
A cento metri da lì, in rue de Bondy, c’era un ristorante a prezzo fisso dove ritrovò il suo tavolo, il suo tovagliolo e la solita cameriera che gli annunciò:
«Oggi pasticcio di carne e verdure...».
Era vestita di nero, con il grembiule bianco e il viso sempre stanco. Saft sapeva che aveva un figlio a balia. No, neanche lei avrebbe accettato!...
«Ha l’aria di avere la testa altrove, signor Saft...».
E lui accennò un sorriso, come per scusarsi. Anche lì si vedeva riflesso in uno specchio. Senza cappello sembrava più grasso: era quasi calvo, e i pochi capelli neri, pettinati con un riporto, sembravano disegnati a china.
«Come mai non legge il giornale oggi?».
Di solito cenava leggendo il giornale. Non l’aveva comprato a causa del vecchio e del ricordo di Varsavia. Una specie di timore superstizioso glielo aveva impedito. La cameriera, che si chiamava Marthe, passava tra i tavoli, così ravvicinati che le era giocoforza sfiorare la schiena dei clienti. Se gli fosse capitato lì?...
E Saft tentava di vedere nello specchio l’immagine di se stesso morto.
Aveva cominciato a spogliarsi. Abitava in un appartamento di tre stanze in rue de Turenne, un appartamento pulitissimo, con mobili nuovi e civettuoli. Delle faccende domestiche si occupava la portinaia, e non c’era neanche un ninnolo fuori posto. Insomma, tutto era esattamente come nel catalogo di un negozio di arredamento.
Forse fu questo a scatenargli il panico: a un tratto si sentì solo in mezzo al vuoto, e fu tentato di chiamare aiuto come chi si sveglia di soprassalto in piena notte e cerca un appoggio.
La portinaia era sposata e aveva due figli. Quando lo vide passare davanti alla guardiola, era intenta a spogliare il più piccolo e pensò che il signor Saft stesse andando al cinema. Senza lasciare il bambino, tirò il cordone per aprirgli il portone e non sospettò affatto che l’inquilino avesse una gran voglia di entrare e sedersi un momento nel tepore della guardiola.
Dapprima si rifugiò in una brasserie di place de la République, dove ordinò un bicchiere di acqua minerale. Si guardava intorno con espressione assente come nella sala d’aspetto di una stazione. Al tavolo accanto al suo c’era una coppia che litigava e a un tratto la donna strinse il braccio del compagno indicandolo con un cenno del mento.
«Ci sta ascoltando...».
L’uomo lo squadrò infastidito. Cosa pensava di lui? A Plougastel, dove passava di solito le vacanze, molti lo prendevano per un guardone perché era sempre solo. Sul métro le donne lo evitavano, come temendo di ricevere proposte sconce. Lui lo percepiva e si chiedeva perché. Camminava rasente i muri, imbarazzato, e quando rivolgeva la parola a qualcuno sembrava che volesse procurarsi un complice.
La brasserie chiuse e lui si incamminò per i boulevard. All’improvviso i luoghi deserti gli facevano paura. Affrettò il passo, mettendosi alle calcagna di sconosciuti, per non restare solo. E quelli, sentendosi seguiti, si voltavano di continuo a guardarlo preoccupati o infastiditi. Anche gli agenti municipali che...
All’una di notte era seduto in un piccolo bar di rue Montmartre. Dovette andarsene anche da lì perché stavano chiudendo, ma per fortuna il caffè all’incrocio dei Grands Boulevards restava aperto tutta la notte.
«Preferirei che venisse a casa mia...» mormorò mentre camminavano fianco a fianco nella strada deserta.
«No, caro mio... Non ci vengo mica...».
Neanche lei si fidava, eppure era il suo mestiere seguire il primo venuto. C’era stato di peggio: le donne, nel caffè, erano due; quando Saft aveva rivolto loro un cenno, si erano guardate, avevano discusso sottovoce e lui aveva capito che facevano a gara per non andare con lui! Gli era toccata quella bionda e grassa, con i rotolini intorno alla vita e i fianchi massicci.
«Vieni dalla provincia?».
Le lasciò credere di sì, per non contrariarla. In camera, quando le disse che voleva solo rimanere con lei tutta la notte, quella se la prese a male e lo mollò lì, in compagnia di un letto sporco e di un catino smaltato.
Allora, vestito di tutto punto, Saft si sedette sul bordo del materasso e restò così fino alla mattina dopo, un po’ rassicurato dal continuo andirivieni che sentiva in corridoio. Quando scese, la donna delle pulizie lo guardò storto, e lui fu tra i primi, quel giorno, a vagabondare per le strade ancora buie di Parigi. Se ci fosse stato un barbiere aperto, ci sarebbe andato, perché la barba gli cresceva in fretta. Dicono che cresca ancora più in fretta sulle guance dei morti.
«Mi porti in quai de Javel... Non so il numero civico... La fermerò io...».
Cosa poteva pensare di lui il tassista? E che avrebbe fatto, che avrebbe detto se, una volta giunti a destinazione, avesse trovato il suo cliente morto sul sedile?
Erano vent’anni che non tornava in quai de Javel, ma era sicuro di riconoscere la casa, accanto alle messaggerie dei periodici. Una modesta costruzione a due piani, di mattoni anneriti. Era stato il suo primo domicilio a Parigi. L’avevano assunto alle messaggerie per controllare i colli in uscita. Aveva affittato una camera nella pensione della signora Van Osten, una belga che trasportava secchi d’acqua tutta la giornata.
«Signor Charles!... Una lettera per lei...».
«A tavola, signor Stephan!...».
Il corridoio era stretto, gli ambienti così piccoli che il calore e gli odori della cucina arrivavano in tutte le camere. La signora Van Osten trattava i suoi inquilini come persone di famiglia.
«Scommetto che non si è cambiato i calzini, questa settimana... Me li dia, che glieli lavo...».
Quel ricordo era riaffiorato durante la notte, mentre era seduto sul bordo del letto, e forse era il ricordo più dolce e caldo della sua vita. Qualcuno si era occupato dei suoi calzini! Qualcuno lo sgridava quando tirava troppo la cinghia!
Perché, tranne che a pranzo, quando la signora Van Osten preparava per tutti, gli inquilini mangiavano come volevano. Ciascuno aveva il suo armadietto di ferro con le provviste. Ci si ritrovava in cucina. Un russo, che faceva l’operaio in una fabbrica – poi era diventato ingegnere –, si nutriva di camembert e aringhe affumicate.
«Signor Saft, lei non mangia a sufficienza... Finirà per ammalarsi...».
Lui progettava già di mettersi in proprio e aveva calcolato che per avviare l’attività gli occorreva un capitale di duemila franchi.
«Si compri almeno un uovo... Un ragazzo della sua età non può mica accontentarsi di un pezzo di pane e un po’ di yogurt...».
Per risparmiare sul riscaldamento, passava le serate in cucina e d’inverno allungava i piedi fin dentro al forno. C’era anche la figlia della signora Van Osten, Élisa, che zoppicava un po’, e il signor Saft l’aveva sentita entrare di notte nella camera del russo, il signor Bogdanovskij...
«Se fossi sua madre...».
E la signora Van Osten lo costringeva a cambiarsi la camicia, gli rammendava i pantaloni...
«Rallenti...» disse al tassista. «Mi sa che...».
Riconosceva a stento il quai de Javel, dove avevano costruito degli edifici nuovi. La casa a due piani... Ma perché ora al pianterreno c’era un bar?
«Mi aspetti qui...».
All’interno la luce era ancora accesa, perché aveva appena fatto giorno. Saft vide di spalle una donna enorme che lavava dei bicchieri. Quando si voltò, gli parve di riconoscerla:
«La signorina Élisa, vero?...».
Dal canto suo, la donna frugò nella memoria.
«Chi è lei?».
«Non si ricorda del signor Saft?».
«Ah, sì!... Un ebreo polacco che... Deve scusarmi... Cosa desidera?».
«Sua madre...».
«È morta da un pezzo, la mamma... A furia di sfiancarsi, come faceva lei, per i pensionanti...».
«Non ne avete più?».
«Perché? Vorrebbe una camera?».
Continuava ad armeggiare con lo straccio umido, sistemava i bicchieri sul ripiano. Qualcuno scese a passi pesanti le scale, che ora conducevano direttamente al bar.
«Un caffè, Élisa...».
Saft lanciò un’occhiata diffidente al nuovo arrivato, poi scorse il taxi e si chiese chi gli impediva di...
«Senta... Ce l’ha una camera libera per me, vero?... Faccia lei il prezzo...».
«Resta solo la mansarda... Se la ricorda... Ma l’avverto...».
Una bambina scalza, con una lunga camicia da notte bianca, scese a sua volta le scale.
«Va’ a metterti le pantofole!».
«Ma mamma...».
«Fa’ come ti dico...».
«Sono finite sotto il letto... Non riesco a prenderle...».
«E dovrei pensarci io a...».
«Vuole scusarmi un momento?... Vado a pagare il taxi...».
«Insomma, signor Saft, non ha niente da fare?».
Lui era seduto nel suo angolo, ai piedi della scala a chiocciola, e ogni volta che qualcuno saliva o scendeva doveva alzarsi. Lo faceva spontaneamente, balbettando:
«Scusi...».
«Posso darle una mano, se vuole...».
«Be’, peli le patate, visto che ci tiene... E dire che non mi sono sposata per non avere un marito tra i piedi tutto il santo giorno...».
Élisa aveva tre figli. La maggiore, sui sedici anni, assomigliava al signor Bogdanovskij e lavorava in una latteria. Era la più scontrosa. Non poteva soffrire il signor Saft e si ostinava a non rivolgergli la parola. Una volta che le aveva portato dei cioccolatini li aveva rifiutati:
«No, grazie!... Non accetto regali dal primo venuto...».
Lui stava là dalla mattina alla sera ed era d’impiccio.
«Senta, signor Saft, le dispiacerebbe andare a farsi un giro, così posso pulire la sala?...».
Ma non si allontanava di molto. Lo si vedeva impalato sull’argine, dove aspettava il momento di poter rientrare.
«Se ha delle commissioni da sbrigare, vada pure... Mi occupo io del bar...».
«Non è che terrebbe d’occhio anche lo spezzatino?».
«Perché no?».
Aveva sempre avuto i piedi delicati e prese l’abitudine di stare tutto il giorno in pantofole. Prese anche un’altra abitudine che Élisa trovava insopportabile: per non doversi mettere il solino teneva addosso la camicia da notte ornata di una bordura a punto croce.
«Signor Saft, vada a spillare del vino in cantina...».
Più gli davano cose da fare, più era contento. Aveva anche imparato a giocare a belote perché a volte la sera mancava il quarto. Ed era lui ad alzarsi quando qualcuno del tavolo chiedeva da bere.
Ogni mattina scendeva in cantina per il carbone.
«Se avessi saputo che sarebbe stato così appiccicoso...» sospirava Élisa. «Pazienza! Tanto non durerà per molto...».
«Che intende dire?».
«Che prima o poi venderò la baracca... Ne ho abbastanza di fare la serva degli altri, la serva di tutti...».
«Sul serio?».
«Per i quattro soldi che pagate... Guadagnerei di più a lavorare come cameriera in una brasserie».
Fu in quel periodo che si liberò la camera sul davanti, al primo piano.
«Lei che voleva una sistemazione migliore...».
Non la voleva più. Ormai si trovava benissimo nella mansarda.
«Non sarà mica rimasto spilorcio com’era un tempo?... A volte mi chiedo che c’è venuto a fare qui... Se non avesse compilato la scheda per la polizia, penserei... Insomma, come vuole!... Dato che ormai si tratta solo di qualche mese...».
«E se...».
Ma completò la frase soltanto dieci giorni dopo, una mattina che erano soli nel bar con le sedie ancora capovolte sui tavoli.
Disse tutto quello che c’era da dire, che aveva i giorni contati, che possedeva più di duecentomila franchi in banca, che non aveva nessuno a cui lasciare il suo patrimonio, che...
«E perché viene a raccontarlo a me?».
«Se ci sposassimo?...».
Élisa scoppiò a ridere e si rifiutò di continuare a discutere. Lui tornò nel suo angolo e per tutta la settimana successiva fu più taciturno che mai.
«Senta, signor Saft... A proposito di quello che mi ha detto l’altro giorno... Lo ammetta che ha qualcosa per la testa... È venuto a sapere che le messaggerie hanno bisogno della casa per ingrandirsi, vero?... Be’, le dico subito quanto offrono... Sono già due anni che ci girano intorno... Ora sono arrivati a sessantamila... A centomila, io...».
La figlia sedicenne, che lavorava in una latteria, chiese una mattina libera per assistere al matrimonio della madre. I due figli più piccoli se li portarono dietro tenendoli per mano.
A tredici anni il signor Saft se n’era andato da Vilna, la sua città natale, a bordo di un treno merci. A diciassette anni aveva lasciato Varsavia, e nei cinque anni passati in quai de Javel aveva raggranellato i duemila franchi necessari a...
Ora era tornato in quai de Javel. Non potevano più mandarlo via.
«Lei che è il padrone...».
Niente gli impediva di restare in pantofole tutto il giorno e di tenersi la camicia da notte sotto la vecchia giacca.
«Hai portato giù le casse di birra?».
Aveva desiderato Élisa, un tempo, quando lei raggiungeva Bogdanovskij in camera, e lui ascoltava incollando l’orecchio alla parete. Adesso era sua moglie e dormivano insieme nel lettone della signora Van Osten.
Si era assicurato una piccola cerchia familiare, uno scorcio di lungofiume, la vista di un tratto di Senna con le chiatte, la sua sedia ai piedi della scala a chiocciola. Elisa gli stava sempre col fiato sul collo.
«E quella cassa di aperitivi ancora chiusa?... Credi che escano da sole, le bottiglie?... Che ci stai a fare, tu?».
Ogni volta che diceva «tu» sembrava che avesse sulla lingua un boccone troppo duro da ingoiare.
«Mi chiedo se in fin dei conti...».
Lo squadrava sospettosa.
«Proprio così... Se non hai qualcosa sulla coscienza... Neanche gli inquilini si fidano di te!...
«Ho sempre l’impressione di aver fatto una sciocchezza...» confessava. «Se non fosse stato per i miei figli... Senza contare che forse i medici si sono sbagliati... Ma poi, ci sei stato davvero?... Per come ti conosco...».
C’era il sole, era luglio, e lui era ancora vivo!
«Se ci tieni, posso andare a richiedere un certificato... Mi ricordo gli indirizzi di tutti e tre... Non è colpa mia se...».
Non si era forse comprato il diritto al calore degli altri, alla vita degli altri, di cui si nutriva dalla mattina alla sera e che...
«Non dimenticare che il terzo medico, quello di rue Coquillière, ha detto che mi sarebbe successo all’improvviso...».
Sembrava scusarsi di essere ancora lì, ma nei suoi occhi scuri c’era come un lampo di trionfo.
«Finirai per seppellirci tutti...».
E lui, con un sorriso modesto e, nonostante tutto, un po’ ansioso:
«Non esagerare!».
Fatto sta che fu lei a morire per prima, di cancro al seno, due anni dopo. Al ritorno dal funerale la figlia camminava davanti a Saft. Lui si chiedeva se...
Rifletteva. La questione era delicata, ma in fin dei conti niente impediva...
Era talmente immerso nei suoi pensieri che scese dal marciapiede, e proprio in quel momento un venditore ambulante di giornali lo urtò. Fu investito dal tram. Il mondo si capovolse. I giornali che lo strillone teneva sotto il braccio si sparpagliarono sul selciato.
«Chi è?» chiedevano i passanti intanto che il conducente prendeva il cric per sollevare il tram.
E, mentre agonizzava sotto le ruote, il signor Saft fece in tempo a sentire:
«È il mio patrigno».
Così alla fine non era morto come... come uno che...
I CENTOMILA FRANCHI DELLA GIOVANE SIGNORA
Non voglio neanche tentare di infiorettare il racconto. Le frasi riportate di seguito coincidono, parola per parola, con quelle stenografate all’insaputa della giovane signora che le pronunciava. Tengo a precisare che, subito dopo averne ricevuto le confidenze, ho sottoposto all’interessata il lavoro che la mia segretaria aveva svolto inosservata in un angolo della stanza.
Il blocco da stenografia è così passato nelle mani della mia visitatrice. Al suo fianco ardeva un fuoco di ceppi, fuoco che, mentre lei parlava, animava di riflessi il suo viso minuto e le infervorava lo sguardo.
«Li bruci, se vuole» le ho detto.
«Cosa pensa di cavare da questa stupida storia?».
«Non le pare che possa servire di lezione ad altri?».
«Ritiene dunque che altri...?».
Le ridevano gli occhi. Le sue labbra sottili, così ironiche, avevano ritrovato il sorriso. Tornata se stessa – una sorta di moglie-bambina che ci si stupiva di veder passare, tutta saltellante, al braccio di un uomo –, ha fatto spallucce, si è girata verso una poltrona da cui saliva il fumo di una sigaretta e ha detto:
«Per me, se Jean è d’accordo...».
Ecco, testualmente, l’inizio del suo racconto.
Erano le undici di sera. Non avevo ancora compiuto sedici anni, e stavo camminando da sola in un viale deserto del Bois de Boulogne!
Avevo paura, ovviamente. Solo una piccola peste come me poteva mettersi in una situazione simile. Eppure il cielo mi è testimone che non cercavo l’avventura! All’epoca abitavamo, i miei genitori e io, nei pressi del pont de Neuilly. Quella sera ero stata invitata a cena da un’amica in boulevard Suchet.
«Faresti meglio a prendere l’autobus» aveva detto mio padre vedendomi tirar fuori la bici.
Neanche per idea! Avevo il pallino della bicicletta. Altre, a sedici anni, desiderano solo fronzoli, cappellini alla moda o morbide pellicce. Io portavo maglioni a collo alto ed ero affascinata dalle vetrine dei negozi di articoli sportivi.
C’era un altro buon motivo per andare in bici a casa di gente ricca: non avevo un vestito adatto, almeno ai miei occhi. Perciò mi sembrava più audace presentarmi in gonna pantaloni e maglione. Così se non altro avevo il merito dell’originalità.
Non so perché la mia amica, riaccompagnandomi alla porta, alle undici di sera, ha avuto la pessima idea di dirmi:
«Spero che non ti venga in mente di passare per il Bois!».
«Perché non dovrei, visto che è la strada più breve?».
«Ma non hai paura?».
Senza quella frase avrei preso un’altra strada. Avevo sedici anni e non bisognava sfidarmi.
Appena entrata nel Bois de Boulogne sento il terreno duro sotto la ruota anteriore. Pedali per mesi senza mai bucare e proprio quando...
Avevo una gomma a terra. Non mi restava che spingere la bici e uscire al più presto da quel deserto buio.
Il cuore mi batteva forte e avevo il fiato corto.
A un tratto vedo una macchina fermarsi a trenta metri da me. Ha i fari spenti. Sono tentata di girare sui tacchi, ma proseguo accelerando ulteriormente il passo.
In ogni caso mi tengo discosta dall’auto, per quanto lo consente l’ampiezza del viale. Getto un’occhiata all’interno dell’abitacolo: ho l’impressione che a bordo ci siano diversi uomini. Ma riesco a distinguere bene un solo viso, che sembra guardare fuori dal finestrino e che in quel momento è rischiarato dalla luna: un tizio ancora giovane, biondissimo, molto pallido...
Continuo a camminare... Oltrepasso la macchina... Vorrei mettermi a correre... Ed ecco che dietro di me riecheggia un rumore di vetro infranto, un mormorio di voci soffocate... Mi volto... Un braccio si sporge dalla portiera e lancia qualcosa...
Mi sembra di sentire le parole:
«Lasciatemi... Lasciatemi o...».
Poi il lieve tonfo di un pacchetto che cade per terra, a un metro dalla mia bicicletta. Mi chino a raccoglierlo... In certi momenti non rifletti su quello che fai...
In quel preciso istante dentro la macchina rimbomba uno sparo... Me la do a gambe... Sento altri passi rapidi... Con ogni probabilità gli occupanti dell’auto scappano da tutte le parti mentre in lontananza risuona il fischietto di un agente...
Altro non saprei dirle. Ho camminato, ho corso, ho camminato, so solo questo. Inciampavo di continuo. Come sono uscita dal Bois? Se le chiedono qual è la sensazione più spiacevole in assoluto, può rispondere, senza timore di sbagliare, che è la paura. Quanto tempo è durato il supplizio? E soprattutto, perché ho continuato a stringere in mano il pacchetto che avevo raccolto nel viale?
Fatto sta che mi sono ritrovata alla Porte de Madrid. Rivedo il Pavillon de Madrid con tutte le finestre illuminate e la cancellata nera del Bois. Mi sono fermata per riprendere fiato, ma mi sembrava di percepire ancora passi precipitosi alle mie spalle, e solo una volta arrivata in avenue de Neuilly mi sono sentita al sicuro.
Ho un vago ricordo di mia madre in ansia.
«Perché hai fatto così tardi?... Sei pallidissima...».
Chissà cosa le ho risposto...
In camera mia ho aperto il pacchetto, che consisteva in una busta di spessa carta da imballaggio gialla chiusa con uno spago. Ero seduta sul letto. Avevo ancora il respiro affannoso e le tempie continuavano a martellarmi.
La busta conteneva una mazzetta di banconote da mille franchi fermata da un elastico.
«Non vai a letto?» mi ha gridato mia madre da dietro la porta.
«Subito, mamma...».
Il tempo di riprendermi e ho contato le banconote: erano cento.
Allora sono salita su una sedia e ho nascosto il pacchetto sopra l’armadio a specchio.
Scusate se interrompo il filo del racconto, ma mi sembra necessario. Alle ragazze, infatti, capita spesso di scambiare per realtà il frutto della loro immaginazione, e i giudici istruttori ne sanno qualcosa.
Confesso quindi che, nonostante tutta la mia simpatia per la giovane signora, sono andato al Quai des Orfèvres, dove ho qualche buon amico tra i commissari della Polizia giudiziaria. Abbiamo consultato insieme alcuni vecchi fascicoli, fino ad arrivare alla data indicata. Potrei riprodurre i verbali che ho letto con i miei occhi, ma sarebbe troppo lungo. Mi limito a riassumerli.
La sera del 13 ottobre l’agente Villard, di ronda nei pressi della cascata del Bois de Boulogne, ha l’impressione di sentire uno sparo. Soffia subito nel fischietto per avvertire i colleghi e si precipita nella direzione da cui proviene il rumore. Qualche istante dopo incrocia un uomo che corre e, al termine di una breve colluttazione, riesce ad ammanettarlo, benché lo sconosciuto si dichiari innocente.
La macchina, che ha una targa falsa, viene rinvenuta di lì a poco. A bordo c’è solo un cadavere, quello di Eugène Maloin, detto Gégé, gestore di una bisca clandestina nel quartiere dell’Étoile. La vittima è stata uccisa con un colpo sparato a bruciapelo dentro l’abitacolo.
L’inchiesta, affidata a un asso della Polizia giudiziaria, l’ispettore Chaumel, appura che si tratta di un regolamento di conti.
L’arrestato, Fernand Voisin, confessa dopo ventiquattr’ore di interrogatorio serrato. A suo dire, Eugène Maloin derubava i soci, che avevano deciso di metterlo alle strette. Erano stati in quattro a portarlo al Bois per chiarire definitivamente la questione. All’ultimo momento Maloin ha rotto il finestrino e, nel tentativo di darsi alla fuga, ha lanciato all’esterno la grossa somma che doveva restituire. A quel punto uno dei complici, di cui Fernand Voisin rifiuta sino alla fine di fare il nome, ha sparato.
«La busta con i soldi è stata raccolta da una donna... L’ho intravista a malapena, ma posso dirle che spingeva una bicicletta...».
In questo regolamento di conti e nei personaggi che vi sono coinvolti non c’è proprio nulla di interessante, perciò mi è rimasto impresso solo che Voisin è stato condannato a tre anni. Ma non importa. Volevo semplicemente dimostrarvi che il racconto della giovane signora corrisponde a verità.
Torno dunque alla trascrizione stenografica.
Per farle capire la situazione in cui mi trovavo, devo dire due parole sui miei genitori. Sul mio povero papà, soprattutto, che è l’uomo migliore del mondo, ma non ha mai avuto i piedi per terra.
Quante volte ho sentito mia madre sospirare:
«Tuo padre è di nuovo tra le nuvole...».
Lo rivedo rientrare la sera con una pesante cartella zeppa di documenti, stanco ma con una luce allegra negli occhi, e annunciare:
«Stavolta siamo ricchi... Entro quindici giorni lasciamo questo appartamento lugubre (dava sul cortile interno) e ci trasferiamo all’Étoile...».
Ahimè, l’indomani i bei progetti erano già naufragati. Ma lui ripartiva in quarta e architettava piani mirabolanti, che purtroppo erano mirabolanti solo sulla carta.
Pare che all’epoca della mia nascita disponessimo di tre domestiche. Quando avevo cinque o sei anni, ne era rimasta una. E quando avvennero i fatti di cui parlo era mia madre a occuparsi della cucina e delle pulizie. Eppure io frequentavo una scuola chic, perché così voleva papà.
Alla nostra porta bussavano più ufficiali giudiziari che fornitori e avevamo sempre paura di vederci tagliare il gas o la luce.
L’unico a non soffrirne era papà: la fortuna stava per arrivare, no?
Non cerco di giustificarmi. Sentivo parlare di soldi dalla mattina alla sera, di soldi che mancavano, di soldi che ci servivano con urgenza, e io, sopra l’armadio a specchio, avevo cento bigliettoni da mille franchi!
Il giorno dopo il fattaccio al Bois de Boulogne ricordo di aver visto mia madre contare delle banconote di piccolo taglio.
«Servono altri cento franchi per l’affitto...» mi ha confessato.
Morivo dalla voglia di andare a sfilare un biglietto dalla mazzetta e dirle:
«Siamo salvi... Ecco mille franchi...».
Ma non ne avevo il coraggio, così come non avevo il coraggio di presentarmi alla polizia e raccontare ciò che sapevo.
Sarò sincera: quella mazzetta non è rimasta intatta. Ho preso una banconota, qualche giorno dopo. Da più di un anno desideravo un completo che avevo visto in una vetrina di avenue de la Grande-Armée.
Non rida. Era un completo da montagna: pullover, calzamaglia, guanti e cappellino, il tutto di lana grossa verde pallido. Non andavo in montagna, ma ritenevo che quella tenuta, insieme a una gonnellina che potevo cucire io stessa, sarebbe stata perfetta per le passeggiate in bicicletta.
Quattrocentosettantacinque franchi!
Rientrando a casa con il pacchetto del completo non sapevo cosa inventare.
«Me l’ha regalato Yvonne...».
Yvonne era la mia amica ricca di boulevard Suchet e, per fortuna, non veniva mai a casa nostra.
Sono costretto a intervenire di nuovo, e stavolta il dettaglio è abbastanza divertente. La giovane signora che ho davanti non ha mai saputo che il suo acquisto in avenue de la Grande-Armée ha fatto penare la polizia per settimane.
Gli inquirenti infatti erano riusciti a procurarsi i numeri di serie delle banconote. E una di quelle banconote fu versata in banca da un grande negozio di articoli sportivi. Cercarono la causale: «Completo da montagna di maglia verde pallido».
Il commesso si ricordava vagamente di una ragazzina che sembrava avere molta fretta.
Ma non pensarono che un completo da montagna potesse essere usato a Parigi, perciò indirizzarono le ricerche a Megève, a Chamonix, a Superbagnères, mentre la giovane signora in sella alla bicicletta...
Le restituisco la parola, o meglio riprendo il resoconto stenografico.
In primavera ho incontrato Jean...
Scusi, lei aveva sedici anni. (Questa è una mia interruzione).
Un po’ di più... Sono nata a dicembre... Avevo quasi sedici anni e mezzo...
E se ne è innamorata subito?
Fin dal primo istante.
Dove l’ha conosciuto?
Ha lanciato un’occhiata verso la poltrona da cui si alzava il fumo azzurrognolo di una sigaretta.
Posso dirlo, Jean?
Chi tace acconsente. E dato che Jean non rispondeva, si è stretta nelle spalle e ha proseguito:
Al Monte dei pegni... Pensi un po’! Sopra l’armadio a specchio avevo centomila franchi, e i miei genitori mi mandavano al Monte dei Pegni con sei piatti d’argento, vestigia dei nostri antichi splendori, in attesa che il nuovo affare di papà... Quanto a Jean, era già in fila, rosso di vergogna, con una custodia di violino sotto il braccio... All’epoca portava i capelli molto più lunghi di adesso ed era magrissimo...
«Cento franchi...» gli ha offerto l’impiegato allo sportello.
Era imbarazzato, a causa mia, perché ero proprio dietro di lui.
«Come vuole...» ha risposto assumendo un tono sprezzante. «È di mio fratello che ha lasciato la Francia...».
Non era vero, ovviamente, e credo di essere scoppiata a ridere. Lui si è voltato a guardarmi arrabbiato.
L’amavo già!
Jean si è agitato sulla poltrona da cui spuntavano solo le gambe.
Siamo stati fidanzati per un anno... Confesso che durante quell’anno non ho pensato ai miei centomila franchi... Purtroppo Jean non aveva la bici...
«Lo sposerai quando si sarà sistemato...» ripeteva mio padre, che non si era sistemato mai.
Ma il sogno di Jean era far parte di un’orchestra radiofonica.
E l’ha trovato, un posto alla radio, come voleva, solo che era un posto di passacarte.
Non l’ho detto a papà... Gli ho lasciato credere... Mi ricordo che la sera, durante i concerti alla radio, quando suonava il primo violino tendeva l’orecchio.
«Niente male... Niente male... Ha talento...» commentava.
Ci siamo sposati e siamo andati ad abitare in una camera ammobiliata in avenue des Ternes.
Non sapevo dove mettere i centomila franchi, che in realtà non erano più centomila, dopo l’acquisto del completo da montagna. Alla fine li ho nascosti dentro una scarpa.
Io e Jean ci amavamo alla follia e non immaginavo che a causa di quei soldi...
L’ho interrotta per chiederle come descriverebbe se stessa, ed ecco la risposta:
Una ragazza magra, con le gambe lunghe, il seno piatto, gli occhi piccoli, il naso all’insù e la bocca troppo grande...
Ogni dettaglio preso in sé è vero, eppure l’insieme risulta delizioso, commovente, forse perché vi si percepiscono tutte le promesse della donna di domani. Quanto agli occhi, saranno anche piccoli, ma non ne conosco molti in grado di esprimere al tempo stesso tanta tenerezza e tanta ironia. E che risata aperta, che risata fresca in quella bocca!
Ma ora, mia cara signora, dobbiamo tornare a poco fa, quando era seria e con gli occhi umidi. Stava dicendo che aveva sposato Jean e che eravate andati ad abitare in una camera ammobiliata in avenue des Ternes.
Riprendiamo il resoconto stenografico, perché è più eloquente di qualunque cosa che potremmo dire.
Io e Jean ci amavamo alla follia e non immaginavo che a causa di quei soldi...
Qualcuno si chiederà perché non li ho portati alla polizia. Non so cosa rispondere. Il primo errore l’avevo commesso quando ero rientrata a casa e non avevo confessato tutto ai miei genitori. Il secondo errore l’avevo commesso qualche giorno dopo, cedendo alla tentazione e cambiando mille franchi per comprarmi un completo che non mi ha dato alcun piacere, perché tremavo al solo pensiero di indossarlo...
Avevo letto sui giornali che avevano arrestato uno dei colpevoli e che stavano cercando gli altri. Avrei potuto fornire la descrizione del giovanotto biondo e pallido, ma non me la sentivo di mandarlo in prigione.
Sbarazzarmi delle banconote gettandole nella Senna? L’idea mi è passata per la testa. Non so perché non l’ho fatto. Quel piccolo patrimonio mi spaventava e mi affascinava al tempo stesso. Forse c’è gente che sa perché fa questo o quello. A me è sempre parso tutto più complicato.
Eravamo poveri, io e Jean, ma decisi a cavarcela. L’inizio del mese era molto allegro, molto facile. Poi arrivavano i giorni in cui ci pensavamo due volte prima di comprare qualcosa, e alla fine quelli in cui non potevamo comprare più niente.
Non era tanto diverso dalla vita che facevo prima. E in più c’era l’amore. C’erano le mille attenzioni di Jean.
Per regalarmi una sciocchezza, una sciarpa, dei cioccolatini, o per portarmi al ristorante, rinunciava a fumare per parecchi giorni e andava in giro a piedi.
Avrei dovuto esserne commossa. Ma mi ricordo con vergogna della prima volta che è arrivato con una sciarpa presa in saldo a ventinove franchi e cinquanta. Ne avevo viste di molto più belle a trentacinque franchi. E non ho potuto fare a meno di pensare:
«Per una differenza di cinque franchi e cinquanta!... E dire che ho centomila franchi in una scarpa...».
C’era uno spettacolo teatrale che mi interessava. La sala era piena. Abbiamo fatto la fila per più di un’ora, sotto la pioggia, e quando siamo arrivati alla biglietteria Jean ha esitato un istante perché erano rimasti solo posti in prima fila a venti franchi.
«Ci tieni, vero?» mi ha detto. «Be’, lo vedremo!...».
Venti franchi!
Non so se riesco a spiegarmi. Quei centomila franchi che nascondevo non erano miei. Non potevo accampare alcun diritto. Mi sarei vergognata a usarli. Ma ogni volta che si parlava di soldi non potevo fare a meno di pensarci.
E tutte le nostre piccole difficoltà mi sembravano miserabili!
Nei romanzi gli innamorati sono sempre ricchi o, se all’inizio non lo sono, lo diventano miracolosamente nell’ultimo capitolo, sicché hanno l’aria di aver giocato a fare i poveri.
Io ho sentito parlare di soldi fin da bambina. A casa dei miei si stava attenti al centesimo. Con Jean ci capitava, a fine mese, di rivendere le bottiglie vuote per comprarci un po’ di pane e formaggio.
Gli avevo assicurato:
«Non ho paura di tirare la cinghia. So che avrai successo...».
Avevo fatto i conti senza i miei centomila franchi. Ci pensavo sempre più spesso. Stavano diventando un’ossessione. Un giorno Jean è tornato a casa tutto felice perché era stato nominato terzo violino dell’orchestra radiofonica.
«Questo significa duecento franchi in più al mese...» mi ha annunciato.
Duecento franchi!... E io che... Mi sarebbe bastato prendere una banconota, là, nella mia vecchia scarpa, per concedermi quello che volevo... Potevo comprare una macchina... Potevo...
Allora, lo confesso, ho iniziato a manifestare una certa impazienza.
«Credi davvero di mettercela tutta?» insinuavo.
«Che vuoi dire? Bisogna partire dalla gavetta, tanto più nel nostro mestiere. Non posso mica fondare un quartetto d’archi dall’oggi al domani...».
«E se entrassi in un’orchestrina jazz?».
Allora, per la prima volta, mi ha guardato con tristezza.
Io non riuscivo a fermarmi davanti a una vetrina senza pensare:
«Se volessi...».
E quando Jean mi ha presentato la moglie del suo direttore, ho lanciato un’occhiata sprezzante alla pelliccia che sfoggiava.
«Se volessi...».
Povero Jean! Che delusione devo essere stata per lui! Si è messo a dare lezioni, lezioni di musica a dieci franchi l’ora. Faceva anche copie di spartiti, che gli prendevano gran parte della notte. In tono trionfante mi annunciava:
«Ecco qui cinquanta franchi extra...».
E io ero incapace di un sorriso sincero. Stringevo le labbra e ripetevo:
«Cinquanta franchi...».
Non c’era paragone con i miei centomila franchi! Per poco non gli ridevo in faccia!
«Ti assicuro che così non vai da nessuna parte...».
«Allora dimmi tu che devo fare...».
«Non lo so... Ma vedo che gli altri se la cavano meglio...».
Nella mia testa era un modo per stimolare la sua ambizione. In realtà lo esasperavo! Volevo correre troppo. Jean tornava a casa ansioso o avvilito.
«Ho litigato con il mio direttore d’orchestra...».
Per colpa mia! Delle mie continue recriminazioni!
«Il tuo direttore è un imbecille!».
Ce li aveva, il direttore, centomila franchi?
«Sua moglie porta una pelliccia di lapin da duemila franchi comprata in boulevard Poissonnière...».
«Intanto, se non gli chiedo scusa...».
«Scusati, se ci tieni... Io, per me...».
Non pretendo di conoscere il cuore umano. Non so cosa provano gli altri, cosa pensano. So solo che stavo diventando una specie di megera e che me ne rendevo conto.
La sera in cui avevo nascosto la mazzetta sull’armadio a specchio ero consapevole di fare una sciocchezza. Continuavo a esserne consapevole. A volte mi ripromettevo:
«Domani dirò tutto a Jean e...».
Poi, l’indomani, quando ricominciava a parlare di soldi con quella faccia afflitta, lo guardavo duramente.
«Un uomo deve sapersela cavare...».
Mi chiedo com’è che non si è scoraggiato. Accettava qualsiasi lavoro extra. A casa faceva il possibile per assecondarmi. E i suoi occhi buoni avevano l’aria di chiedermi:
«Ora sei contenta?».
Contenta di calze di seta da sedici franchi e cinquanta o di un vestito in saldo, quando con i miei centomila franchi...
Contenta di andare in terza classe nella foresta di Saint-Germain e pranzare in una trattoria di campagna?
Avrebbe dovuto tirarmi una sberla la prima volta che ho sospirato:
«Se mi amassi...».
Non sapevo come continuare la frase, mentre lui mi chiedeva smarrito:
«Cosa farei?».
«Troveresti il modo di guadagnare di più...».
Allora c’è stato un periodo che preferisco non ricordare. Jean parlava poco. Sembrava triste. Si capiva che rimuginava pensieri neri.
Alla fine mi ha annunciato senza gioia:
«Potremo cambiare casa e concederci un appartamento con bagno...».
«Con quali soldi?».
«D’ora in poi suonerò ogni sera in un locale notturno di Montparnasse...».
Lui che sognava solo un quartetto d’archi!
«Non fa per te!» gli ho detto io.
«Però...».
«Però, cosa?».
«Se non c’è altro modo di guadagnare... In ogni caso stasera ceniamo con uno dei miei nuovi capi...».
Ero furibonda, soprattutto con me stessa.
«Io non vengo...».
«Perché?».
«Non frequento gente del genere...».
«Ma non sei tu che mi consigli da due anni di darmi da fare?».
«Non hai capito».
Avevo torto. Mi impuntavo. Lui, per la prima volta, si è arrabbiato. E un’ora dopo, quando siamo usciti per andare a quella cena, avevamo tutti e due gli occhi rossi.
«Vengo, ma solo perché mi costringi...».
Era uno di quei ristorantini intimi e molto costosi che avevamo sempre visto solo da fuori. Dentro c’erano tovaglie a quadri, lumi sui tavoli, stoviglie di rame alle pareti, e il proprietario, con in testa un cappello da cuoco, che veniva a stringere la mano ai clienti.
Il nostro ospite si è fatto aspettare. Quando finalmente è arrivato con aria indaffarata...
«Che hai?» mi ha chiesto Jean. «Ti presento...».
Non ho neanche sentito il nome. Per tutta la cena non l’ho guardato in faccia.
«Mi sa che sua moglie non sta bene...» ha commentato lui. «Oppure devo pensare che è molto timida... Del resto è quasi una bambina...».
«Eppure, di solito...» si scusava Jean, a disagio, dandomi ginocchiate sotto il tavolo.
Dopo cena il nostro anfitrione ha proposto:
«Che ne dite di andare a bere una bottiglia di champagne al locale?...».
Ho alzato la testa, fissando Jean, pallidissima, e con una voce che non era più la mia ho scandito:
«Io non vengo!».
«Perché?».
«Perché no!».
Jean si è scusato come ha potuto. E, una volta usciti, gli ho detto:
«Chiama un taxi...».
«Ma...».
«Al punto in cui siamo, non ha importanza!».
E ho ordinato all’autista:
«Avenue des Ternes...».
Per tutta la strada Jean non è riuscito a strapparmi una parola di bocca. Parlava da solo, con frasi sconnesse:
«Davvero, tesoro, non capisco... Mi chiedi di... Poi, quando lo faccio, sei tu a...».
«Sta’ zitto!».
«Ma...».
Tornati a casa, sono andata a prendere i soldi dalla scarpa e li ho gettati sul tavolo.
Allora è nato un equivoco di cui ora riderà, ma che sul momento è stato tragico per tutti e due. Non volevo essere melodrammatica, eppure ho esclamato:
«Ecco, Jean... Ti ho tradito...».
Intendevo dire che non ero stata franca con lui, che gli avevo nascosto qualcosa, che...
E, naturalmente, lui ha interpretato le mie parole in un altro senso.
«Tu?...».
Sembrava fuori di sé.
«Io, sì... Non sono degna di te, Jean... Sono un’egoista...».
«Chi è?».
«Che vuoi dire?».
«Voglio sapere il nome...».
«Lasciami... Mi fai male... Il nome di chi?...».
Eravamo troppo agitati per capirci. Ci davamo addosso l’un l’altro, con il sangue alla testa, le mani tremanti, le tempie che pulsavano.
«Come hai potuto?...».
È andata avanti così per quasi un’ora... Alla fine, dopo una crisi di pianto e una di nervi, ci siamo un po’ calmati. La camera puzzava di aceto, che Jean mi aveva abbondantemente spruzzato in viso. Dovevo essere davvero graziosa, sì, con il mio nasone lucido e gli occhi cerchiati fino a metà delle guance!
«Questi centomila franchi li ho trovati una sera che...».
Tentavo di raccontare la storia e ingarbugliavo tutto.
«Sai, Jean, che avremmo finito per odiarci?... Senza quell’uomo...».
«Ma quale uomo? Dimmi come si chiama...».
Lui seguiva la sua idea. Io avevo la mia.
«Quello con cui mi hai fatto cenare stasera».
«È lui l’uomo che...?».
«È lui l’uomo che c’era in macchina... È lui il giovanotto pallido e biondo che ho visto al chiaro di luna... Capisci, Jean?... Ti avrebbe trascinato... Io ti spingevo a fare soldi... E tu...».
Avrebbe ceduto, lo so, per colpa mia. Se non fosse stato per i vicini, che verso le tre di notte, non riuscendo a dormire, hanno cominciato a bussare contro la parete...
Esito a raccontare la verità, a essere sincero fino in fondo. La vita è talmente più imprevedibile e più semplice delle storie di fantasia!
Jean e la sua mogliettina sono davanti a me e mi supplicano di consegnare alla polizia quei soldi che gli scottano letteralmente in mano.
«Le basterà dire che una persona di cui non può fare il nome...».
Certo! Certo!
Non so perché mi viene la malaugurata idea di contare le banconote... Loro si guardano. Lei arrossisce e mormora:
«Per i cinquecento franchi che mancano...».
Io fingo di non capire.
«Quali cinquecento franchi?».
«Sì... Quattrocentosettantacinque... Quelli del completo da montagna... E dire che non ho neanche contrattato!... Ho arrotondato il conto comprandomi dei pasticcini... Può assicurare alle autorità che entro un mese...».
«Due mesi!» interviene Jean.
«Perché due?».
«Perché il mese prossimo devi dare duecento franchi alla sarta e...».
«Dica che entro due mesi riceveranno i cinquecento franchi del...».
Eh, sì! I cinquecento franchi di quel completo che lei non ha praticamente mai usato e che – come apprendo nel corso della conversazione – è stato mangiato dalle tarme.
«Ci basterà rinunciare a qualche cinema, tutto qui» dichiara coraggiosamente la giovane signora. «Non è vero, Jean?».
«Lo sai che non ci tengo, al cinema...».
«Ma come, se fino alla settimana scorsa...».
«La settimana scorsa...» ripete lui con aria innocente.
«Sì, quando hai insistito per andare a vedere il film di...».
Insomma, gli adulti saranno sempre di troppo nei giochi dei bambini, e nei litigi degli innamorati. Perché per loro, che sanno come rappacificarsi e che hanno tutta la vita davanti, sono cose da niente.
1 La caratteristica veranda che corre tutt’intorno al perimetro delle case coloniali nel Congo belga