Massimo Recalcati
L’ultimo libro di Massimo Recalcati, Esiste il rapporto sessuale?, solleva questa strana domanda che nessuno ovviamente si fa, a meno che non sia uno psicoanalista lacaniano. Ma si tratta di una domanda, appunto. Mette in questione, con un punto interrogativo, quella che in Jacques Lacan, che di Recalcati è il maestro indiretto, anche se sempre più liberamente riletto e rivissuto, era invece una tesi lapidaria, una tesi di segno tutto negativo. Secondo Lacan, citiamo uno dei suoi più celebri aforismi, “non esiste rapporto sessuale”.
La sentenza significa grosso modo che gli esseri umani senz’altro vanno a letto tra loro, e magari così spesso che la specie al momento non risulta estinta, ma quell’atto così intimo resta sempre problematico, attesta sempre in ultima analisi una qualche estraneità, un qualche fallimento, una qualche radicale differenza di prospettiva su quel che si è appena consumato. I corpi, loro sì, hanno un qualche rapporto, ma non i soggetti. In particolare, non quei soggetti animati da domande così diverse, da funzionamenti così poco sovrapponibili, come quei soggetti che chiamiamo maschili e femminili. Il che del resto non significa: quei soggetti che sono gli uomini e le donne. Ovviamente, un tratto femminile può esserci in un uomo, e un tratto maschile in una donna.
Lacan è abbastanza cinico, come si sa. Cioè, per prendere l’aggettivo alla lettera, come del resto si deve fare, se si guarda alla storia della filosofia e all’inventore del cinismo, Diogene di Sinope, descrive la vita umana come una vita da cani. Coerentemente col suo cinismo, Lacan afferma che non c’è rapporto se non dei corpi, e che i soggetti restano largamente estranei a quel rapporto tra corpi, avvertono cose imparagonabili a partire da uno stesso evento sessuale. Recalcati invece è abbastanza romantico, e oppone a Lacan che invece sì, il rapporto sessuale esiste. O meglio, esiste l’amore. Cosa che a dire il vero anche Lacan dice, ma senza assegnarle la stessa centralità. Ogni amore finisce in merda, recita, a scanso di equivoci, un altro celebre aforisma lacaniano. Esiste invece l’amore, secondo il Lacan di Recalcati, cioè quella specie di raffinatissimo, etereo merletto simbolico, che si posa sulla ferita dell’assenza di rapporto sessuale come una garza, e che come capita alle garze si impregna di sangue, e secca insieme al sangue e al tessuto più superficiale della ferita, indurendosi in una crosta che nessuno più osa toccare, e che guida in un suo modo doloroso ma duraturo la carne a tenersi insieme lungo quell’esile trama di cotone un tempo bianco.
Che Recalcati sia romantico non significa del resto che sia un sognatore. Significa che la sua posizione va a sua volta letta dentro a una storia precisa e intesa all’interno di quella storia. Il romanticismo in altri termini è figlio di Kant. È il movimento che esprime in letteratura le estreme conseguenze dell’intuizione filosofica del vecchio maestro di Königsberg. La teoria dell’amore elaborata dal romanticismo tedesco è un tentativo di dare qualche trattamento al dilemma che Kant aveva messo al centro della sua lettura dell’esperienza umana. Ora l’assioma da cui deriva tutta la prima grande opera di Kant, la Critica della ragion pura, afferma guarda caso che non c’è rapporto con le cose stesse, che l’esperienza umana non accede all’essere. Conosciamo solo i fenomeni, recita giustamente ogni versione manualistica del kantismo. Conosciamo solo i segni delle cose, le apparizioni delle cose, non l’essere delle cose, non il loro segreto. Ci muoviamo in una foresta di segni, scontando ad ogni passo la nostra strutturale separatezza da quell’essere di cui i segni sono segni.
È dal più profondo di questa divisione che si spalanca nella stoffa dell’universo, che lo stesso Kant deve tentare una qualche cucitura, deve chiedersi che cosa consenta un qualche accordo tra il nostro vagare nella foresta dei segni, e quell’enigma di cui i segni sono segni. È l’oggetto dell’altro suo capolavoro, la Critica del giudizio, che tenta disperatamente di isolare un sentimento di parentela tra le cose, tra gli esseri, tra gli umani e l’universo. La Critica del giudizio tenta disperatamente di auscultare l’eco lontanissima di un’affinità, pur senza venir meno all’assunto della Critica della ragion pura, l’assunto secondo cui le cose stesse ci sono precluse. Quel sentimento di affinità è il varco attraverso cui i romantici faranno irruzione, di fatto precipitandosi nella direzione indicata inopinatamente dall’austero, ossessivissimo Kant. L’amore tra i soggetti è un’eco e forse un luogo di manifestazione di quell’affinità più generale tra i soggetti e la natura.
A scorrere quel magnifico repertorio che è il libro di Jacques Le Brun Le pur amour de Platon à Lacan (Seuil, Paris 2002), verrebbe da concludere che più dualista è un’ontologia, come dicono i filosofi, cioè un’immagine di quello che l’essere sarebbe in ultima analisi, e più centrale diventa la sua esigenza di postulare una potenza che ricuce quanto si è presupposto brutalmente separato e incomunicante. Più monista è un’ontologia, invece, e più marginale diventa l’esigenza di postulare quella potenza che ricuce, perché le cose stanno insieme già da sole, perché non ci sono profondi fossati da attraversare, perché non ci sono esseri davvero estranei gli uni agli altri. I grandi poeti romantici tedeschi sono appunto i figli di questa kantiana estraneità dell’umano e di questa soluzione amorosa alla kantiana estraneità strutturale dell’umano. Ma appunto la tesi potrebbe essere generalizzata.
Platone è dualista a sua volta, è anzi il padre di tutti i dualismi. Certo, lo è al modo degli antichi. Non pensa che il soggetto umano sia separato dalla natura o dalle cose o dall’universo. Pensa semmai che le cose siano separate dai loro modelli, che tutto l’universo sia lontano dai suoi principi, che tutta la materia sia estranea al suo fondamento. Ma anche Platone si trova a dover postulare una potenza che unisce sulla base del suo aver diviso. Anche Platone si trova a dover postulare la garanzia inaudita di un’affinità tra cose che ha postulato come estranee.
Altrimenti la sua ontologia divisa rischia di restare condannata a quella divisione inesorabile. Ecco comparire sulla scena occidentale il primo amore filosofico. Certo Platone fa di eros una potenza non umana ma divina, e un collante che non riguarda tanto i soggetti quanto la memoria che gli umani come i non umani hanno dei principi da cui discendono, e forse del principio da cui discendono tutti i principi. Ma appunto, anche o soprattutto l’Ur-dualismo di tutti i dualismi si ritrova a dover formulare l’Ur-amore di tutti gli amori.
È interessante rilevare, guardando nel suo insieme questa storia di lunghissimo periodo, certe consonanze che si direbbero, del resto, più simili a degli effetti di struttura che a delle reminiscenze o derivazioni. Non appena evocato l’amore, Platone posa sulle sue fragili spalle il compito immane di mediare tra la materia e la forma. Cioè di mediare tra una specie di distesa abbandonata, infinitamente passiva, dissennatamente incomprensibile, dotata di una creatività impenetrabile ed enigmatica, e dico impenetrabile senza ombra di lapsus o con un lapsus che va assunto fino in fondo, e un principio di unità, un fondamento compatto, dal profilo nitido, dallo statuto eminentemente attivo. Una specie di impronta o di marchio, un’idea o un tipo, anche nel senso tipografico del tipo, nel senso di una marchiatura che mette in forma, delinea, coagula, dà significato, e in ultima analisi salva, offre salvezza, tenuta, ancoraggio.
Va da sé, la materia si definisce a questo punto e inevitabilmente come qualcosa che è prossimo al non essere, materia vacua e quasi nulla, instabile e inafferrabile, intanto che si caratterizza anche come “uterina”, “generatrice”, “nutrice”. Tutti aggettivi che Platone spende per la sua materia, che guarda caso ha le stesse caratteristiche che il sapere anatomico dell’epoca attribuisce all’utero, in greco hysteros, da cui il termine moderno isteria. Organo erratico, privo di un luogo stabilmente assegnato all’interno del corpo, capace di spostarsi e di inquietare l’ordine stabilito, specie di antiprincipio caotico, il cui portato rispetto all’organizzazione dell’organismo è una periodica disorganizzazione della sintassi organica.
Ma, guarda caso, esattamente lo stesso accade con Lacan. In Lacan l’amore media tra due strutture, tra due schemi di funzionamento soggettivo, che mostrano anche a colpo d’occhio, sebbene lo psicoanalista francese li prenda nella loro denominazione dalla psicopatologia freudiana e prima ancora propria della psichiatria dell’Ottocento, il loro profondo e inossidabile platonismo. Da un lato l’isteria, la sua instabilità, la sua irritabilità instancabile, la sua materialità quasi folle, tendenzialmente refrattaria al significante, tanto sedotta dalla sua azione quanto provocatoria e in ultima analisi accusatoria di fronte alle tronfie ingenuità di quell’azione. Dall’altro l’ossessività, che è quanto dire la fede nel significante, l’ingenuità della forma che pretende di governare la distesa della materia e perciò ne sperimenta di continuo l’insopportabile vaghezza, l’essere sempre altrove, l’essere altra, l’alterarsi, e l’alterare anche l’ossessività dell’ossessivo, che meno di tutto vorrebbe essere alterato o alterarsi.
È per unire, o per tentare di unire questi due esseri o queste due forme dell’essere, che Platone e Lacan, e anche il Lacan di Recalcati, convocano concordemente eros, l’amore. Eros, l’amore, non può non essere convocato, del resto, una volta che il punto di vista della forma, come rincantucciatosi tutto in un angolo e concentratosi tutto in un punto densissimo, avrà registrato davanti a sé quella dovrà apparirgli come la distesa vaga e illimitata della materia, il paesaggio instabile e disorientante di un essere tanto seducente quanto selvaggio. Ripeto, non stiamo dicendo che c’è la forma e c’è la materia, che c’è l’ossessività e che c’è l’isteria, ma che più la forma si separa dalla materia e si pone come punto di vista sulla materia, più la forma crederà di essere forma pura, e più la materia gli sembrerà materia pura, materialità informe, vaghezza caotica, vitalità inafferrabile. La psicopatologia lacaniana è l’ontologia di Platone, tolta dal cosmo e riassegnata al luogo e alle vicende del soggetto.
E poi stiamo dicendo un’altra cosa. Che noi viviamo in un tempo in cui il platonismo ha deposto la virulenza del suo dualismo. Non disponiamo più dell’evidenza di una madre-materia, di un principio isterico, caosmotico, e per questo vivo e creativo e contrapposto all’ordine e alla sua mummificata stabilità architettonica. Non disponiamo più dell’evidenza di un dio garante formale dei segni, di un codice che garantisca l’ordine tra i segni, di un sapere capace di stringere in una rete regolare e riconoscibile le fibre altrimenti sfilacciate di un universo brulicante e riottoso. Viviamo in un tempo in cui anche Kant è diventato un minore. In nessun modo avvertiamo che l’esperienza sia separata dalle cose, che disponiamo di puri segni che ci lasciano a desiderare cose inafferrabili. Avvertiamo semmai che anche noi siamo cose tra altre cose, che nulla separa davvero l’umano dall’inumano, che il soggetto trascendentale è tutto disseminato nella distesa dell’empirico, che il luogo astratto che detiene le leggi della morale o della natura è venuto a coincidere immediatamente o quasi immediatamente coi fenomeni della natura e coi fenomeni della morale.
Questa distanza di cui dicevamo, questa trascendenza, come si chiama in filosofia, non è più avvertibile. E senza quella distanza, l’amore non assume i contorni dell’esigenza, non è. Questo non per il motivo generico che non c’è distanza da ricucire tra gli esseri, ma per il motivo specifico che se non c’è distanza, quella distanza non può assumere la forma della distanza tra l’isteria e l’ossessione, o tra una materialità quasi vuota e un formalismo sempre troppo pieno. L’amore è sempre amore tra isteria e ossessione, cioè tra materia e forma. Tutta la fascinazione contemporanea per il fenomeno del transessualismo, fascinazione anche psicoanalitica, anche lacaniana, ma non recalcatiana e non per caso non recalcatiana, è in fondo un sintomo diretto di questo tragitto che va dalla trascendenza all’immanenza. Il tempo dell’immanenza è semmai il tempo, non dell’amore, ma del piacere, dell’intensità, della pulsazione del quasi neutro, degli incontri mancati tra isterie più o meno ossessive e ossessività più o meno isteriche. L’ontologia dell’immanenza ha il suo corollario in una psicologia transessuale.
Forse per questo il lavoro di Massimo Recalcati è oggi così letto e seguito. Parla non al tempo in cui viviamo, seguito al crollo del platonismo o al crollo del kantismo, parla non al tempo dell’immanenza dispiegata, parla non al tempo degli dei che sono calati tra noi e che sono diventati compiutamente cani o compiutamente maiali. Parla semmai a chi verrà, se verrà, dopo l’immanenza. Si fa intendere, se si fa intendere, da una nuova generazione, senz’altro più giovane della sua e anche della mia. Dice qualcosa che non è ancora vero ma potrebbe diventarlo, se uno o alcuni o addirittura molti lo crederanno vero.
Si tratterebbe in questo caso non tanto di avere fede in ciò che è, ma di fare che qualcosa sia, avendo in esso una fede tutta preventiva. Che è del resto il modo in cui le cose per lo più funzionano. Après coup, retroattivamente. Nell’universo lacaniano, dire che il rapporto sessuale esiste, dire che l’amore è possibile, è una pura e semplice bestemmia. Anche dentro la cultura contemporanea perorare la causa di eros è una cosa molto desueta e tutto sommato incredibile. Recalcati parla forse alla generazione che susciterà barlumi di padri almeno putativi, congetture di ordini almeno possibili, e per le stesse ragioni parla alla generazione che forse disporrà nuovamente di quella cosa romantica che avrà chiamato a essere insieme alla sua fede preventiva in un fondamento possibile e al rovescio inevitabile del fondamento che è quell’infondato che invoca il fondamento menandolo per il naso. Cioè appunto l’amore.
Introduzione
Omosessuali, eterosessuali, transgender, lesbiche, queer, gay, transessuali, neutri, fluidi. I corpi sessuali ipermoderni sembrano moltiplicare le loro possibilità espressive rendendo anacronistica e obsoleta la cosiddetta sessualità binaria fondata sulla differenza sessuale tra maschile e femminile. Siamo di fronte a un nuovo movimento di liberazione sessuale paragonabile a quello che prese avvio negli anni Sessanta dello scorso secolo?
La psicoanalisi nella sua prevalenza non osteggia queste nuove declinazioni della sessualità, non presiede alcuna rappresentazione ontologica della differenza sessuale, non difende l’eterosessualità intesa anatomicamente secondo una logica elementare degli attributi – avere o non avere il fallo ripartisce binariamente maschile e femminile – come l’unica forma adeguata della sessualità umana. Essa condivide piuttosto il principio dell’identità di genere secondo il quale non è mai il sesso anatomico a dire l’ultima parola sulla determinazione dell’identità sessuale di un soggetto, ma la sua scelta soggettiva che, sebbene non possa prescindere né dall’anatomia, né dai condizionamenti culturali, appare sempre irriducibile a essi.
La liberazione sessuale del xxi secolo non è più relativa all’emancipazione della sessualità dalle maglie morali e sessuofobiche della cultura patriarcale. Al centro non c’è più solamente la necessità di liberare il corpo sessuale dalla gabbia di un’educazione repressiva che colpiva in modo particolare il genere femminile. Il movimento di emancipazione del nuovo secolo intende liberare la sessualità non solo dagli atteggiamenti di intolleranza e di repressione sessuofobica, ma anche dalla norma eterosessuale che vorrebbe ripartire i sessi seguendo la differenziazione binaria tra maschile e femminile. In gioco non c’è dunque solo la libertà dei comportamenti sessuali, ma anche quella del diritto di scelta della propria identità sessuale. Lo stesso concetto di differenza sessuale risulterebbe limitativo per intendere le molteplici possibilità espressive della sessualità umana.
La differenza tra il sesso reale anatomicamente determinato e il genere come autodeterminazione della propria sessualità era un tema assente nel primo grande movimento di liberazione iniziato con la contestazione del Sessantotto, mentre oggi risulta invece determinante. Tuttavia, in questa legittima rivendicazione della scelta inconscia del proprio sesso, si rischia di far passare l’idea che una sessualità che adegua il proprio genere non all’anatomia ma alla scelta soggettiva sia di per sé una sessualità pacificata e liberata.
Questo libro non intende però entrare nel vivo del dibattito in corso sull’identità di genere e sulle sue conseguenze nella vita individuale e collettiva, ma ritornare su un punto nevralgico della lezione di Lacan che tocca nel vivo l’incidenza del reale del sesso nella vita umana. In gioco c’è la sua celebre tesi relativa all’inesistenza del rapporto sessuale. Cosa significa affermare – come fa Lacan – che il rapporto sessuale non esiste? E qual è la ricaduta di questa tesi sulla vita erotica, al di là delle attuali declinazioni plurali che essa può giustamente assumere? Insomma, cosa c’è nel sesso che lo rende un profondo fattore di gioia e di turbamento della vita umana?
Anche se emancipata dai dispositivi disciplinari e morali che la opprimono, la sessualità non può mai sottrarsi in nessun modo al suo carattere perturbante e disarmonico. Gli esseri umani si accorgono che non è così semplice tenere insieme il desiderio sessuale all’amore poiché questa relazione è, quanto meno, problematica. Allo stesso modo si accorgono che la vita erotica è labirintica e che non ha proprio nulla a che fare con l’istinto; che non è facile non smarrirsi, considerato che in ogni relazione sessuale il desiderio, prima di incontrare il partner, è strutturato inconsciamente da un fantasma singolare che detta le regole di questo stesso incontro: seduzione, possesso, gelosia, estasi, gioia, inibizione, odio scaturiscono sempre da un incastro complesso non solo di soggetti ma anche di fantasmi. È il tema, psicoanaliticamente classico, di questo libro.
Nella tesi lacaniana secondo cui “non c’è rapporto sessuale” o “il rapporto sessuale non esiste”, si evidenzia che c’è qualcosa nella sessualità umana che esclude il rapporto e che questa assenza di rapporto prescinde dalle declinazioni lesbo, omo, etero, trans ecc. della sessualità stessa. Tutte le molteplici forme di declinazione dell’identità sessuale non potranno che affrontare lo scoglio insuperabile del reale impossibile del rapporto sessuale. Questo significa che la sessualità umana non potrà mai essere liberata dall’inesistenza del rapporto sessuale. Nessuna forma soggettiva della vita sessuale può infatti scavalcare il fallimento al quale è destinato questo rapporto impossibile. È questo il lato che resta in ombra nell’attuale dibattito politico-culturale sull’identità di genere. Per quanto potremmo riconoscere legittimità e pieno diritto a scelte sessuali non cosiddette eterosessuali ponendo un argine necessario alla discriminazione e alla violenza omo-lesbo-transfobica, non potremmo mai salvare il sesso dal suo destino impossibile. È ciò che mantiene viva la differenza irriducibile tra la vita sessuale umana e quella animale: mentre l’istinto sessuale vorrebbe ricondurre la sessualità nell’alveo dei comportamenti naturali, la sessualità umana – sia essa lesbo, omo, etero, trans ecc. – non può sostenersi su nessun istinto ed è, dunque, obbligata a separarsi dalla natura. Le sue contorsioni perverso-polimorfe – irriducibili all’istinto – le impongono tragitti tortuosi e labirintici. Da qui il quadro ramificato che ne descrive le vicissitudini. “Non ha mai funzionato e non funzionerà mai come un orologio”, si lamentava un mio paziente ossessivo di fronte agli inciampi continui a cui era sottoposto il suo desiderio sessuale. Tuttavia, il fallimento dell’illusione del rapporto accompagna inesorabilmente anche la sua gioia. Se nella sessualità umana non c’è liberazione possibile dal reale dell’inesistenza del rapporto sessuale, si tratta di imparare ogni volta, come direbbe Beckett, a fallire sempre meglio questo rapporto. Fallire il rapporto significa anche liberarsi dall’illusione della sua liberazione. “Non ha mai funzionato e non funzionerà mai”, direbbe laconico il mio saggio paziente. Sicuramente non come un orologio, né come un istinto animale. La sessualità umana è un campo attraversato da onde sismiche che lo rendono instabile e precario.
La gioia non è però affatto estranea a questa instabilità e a questa precarietà. Essa può scaturire dall’Eros come una forza sorprendente, come un’affermazione della vita e della sua eccedenza. Laddove poi questa forza conosce la convergenza con l’amore, ha la straordinaria possibilità di unire il corpo con il nome facendo esistere un erotismo capace di non restare imprigionato nell’ipnosi dell’oggetto, ma di manifestarsi come un’altra soddisfazione nella quale la pulsione sessuale non si oppone necessariamente all’amore, ma diventa una sua componente essenziale.
Noli, agosto 2021
Né macchine, né piccioni
Il diritto al godimento sessuale
La lussuria non è, diversamente da quello che credevano i padri della Chiesa, un vizio capitale. Essa definisce piuttosto la nostra comune vita sessuale, la quale è, come tale, sempre sotto il segno dell’eccesso del godimento. Un tempo questo eccesso veniva regolato principalmente dalla morale. Non a caso Freud parlava di una morale comune dei nevrotici come prodotto dell’interiorizzazione dei divieti, delle proibizioni e delle inibizioni che hanno caratterizzato profondamente la sua epoca. Il desiderio sessuale doveva pagare il prezzo della sua rimozione in una società che non prevedeva in nessuna forma la sua libertà. Al tempo stesso, però, mentre la legge proibiva l’accesso all’oggetto del godimento, mentre lo poneva a una distanza di sicurezza, proprio in questo modo lo rendeva, paradossalmente, irresistibilmente attraente. È il carattere ordinario della natura strutturalmente perversa del desiderio umano: più la legge interdice l’accesso a un oggetto, più incentiva il suo potere di attrazione.
La nostra epoca, diversamente da quella di Freud, sembra invece avere emancipato il desiderio da ogni dialettica morale, da ogni sua subordinazione severa alla legge. Si tratta di un’emancipazione che ha giustamente liberato il sesso dalle maglie strette del senso di colpa. La clandestinità morbosa di una sessualità vissuta colpevolmente ha lasciato il posto a un diritto al godimento che viene proclamato come nuova forma della legge. Una sorta di neolibertinismo diffuso ha sostituito il vecchio moralismo bigotto. Tra l’altro, per qualcuno questa sostituzione non si è ancora compiuta del tutto: la brace della cultura patriarcale non avrebbe ancora smesso di ardere. Eppure nessun tempo più del nostro ha evidenziato, almeno nelle società occidentali, una libertà sessuale senza più vincoli morali. Nondimeno, la caduta del velo dei tabù non ha affatto potenziato l’erotismo. La possibilità di un accesso immediato ai corpi sessuali e una cultura di massa che sponsorizza senza censure le nuove libertà sessuali non sembrano affatto favorire il desiderio, ma unicamente l’accesso a un godimento tendenzialmente anonimo e compulsivo.1 La caduta del velo della fantasia erotica, con la necessaria messa a distanza dell’oggetto del godimento, tende a mercificare il sesso, a ridurlo a oggetto di scambio in un mercato che esclude per principio la presenza, sempre più ingombrante e anacronistica, dell’amore. Ma sarà davvero questo godimento senza pudore e colpa a realizzare l’emancipazione del sesso dall’incubo cupo della morale?
Nessuna epoca ha esaltato quanto la nostra il diritto democratico al godimento sessuale senza inibizioni e restrizioni. Una sorta di naturalismo di ritorno sembra affermare la soddisfazione sessuale come ragione irrinunciabile della vita. L’ombra del peccato che aveva ricoperto secolarmente la pulsione sessuale si è finalmente dissolta. L’emancipazione sessuale dai vincoli morali della colpa è diffusa ormai senza clamore, divenendo un vero e proprio habitus della civiltà occidentale. Le norme morali non governano più la libertà faticosamente acquisita dei corpi sessuali: il diritto di godere sessualmente del proprio corpo si è culturalmente e politicamente affermato come un diritto inappellabile. La vita senza sesso oggi non sarebbe vita, ma una sua forma inaccettabile di amputazione.
In questo modo secoli di triste ascetismo e di fustigazione penitenziale vengono spazzati via; la vita del corpo sessuale non è la morte che oscura la vita dell’anima, ma il contrario: senza la vita del corpo sessuale il nostro corpo sarebbe espressione di una vita morta. Un mio paziente lo affermava in un modo disincantato e, insieme, iperbolico: “La sola cosa che conta veramente nella vita è scopare”. E come dargli torto? Il diritto al godimento sessuale è divenuto un oggetto politico pubblico, uscendo finalmente dagli scantinati austeri e privati della censura moralistica e della clandestinità per imporsi come una grande questione sociale. Il sentimento del pudore, della vergogna, dell’inibizione, i disagi e le difficoltà a vivere il rapporto tra i sessi appaiono nel discorso pubblico contemporaneo come scorie di un passato bigotto irreversibilmente decaduto. Tuttavia, nonostante l’emancipazione della vita sessuale e dei suoi diritti dall’ombra cupa della colpa e del giudizio moralistico, lo psicoanalista nella sua pratica ascolta ancora quotidianamente il disagio segreto che accompagna la vita sessuale di coloro che gli chiedono aiuto. Sì, perché niente è più lontano dalla realtà umana dell’idea di un naturalismo sessuale che si vorrebbe finalmente libero di vivere se stesso nella più pura spontaneità svincolata dai lacci repressivi della morale. Niente è più lontano dalla realtà umana dell’idea che il sesso sia l’espressione naturale e armonica di una potenza liberatrice. Non tanto perché i grandi e legittimi cambiamenti culturali innescati a partire dalla contestazione giovanile del Sessantotto e dal femminismo non abbiano dato dei colpi decisivi e benedetti per smantellare la vecchia morale patriarcale e la cultura sessuofobica che ne derivava, ma perché il rapporto dell’essere umano con il sesso non può mai essere pacificato, pienamente edonistico, libero da conflitti.
Al di là di ogni retorica ideologica, lo psicoanalista deve constatare giorno dopo giorno che non esiste armonia, equilibrio, pace nelle contorsioni infinite che animano il desiderio sessuale. Lo ricordava un altro mio paziente, sempre un po’ turbato dall’incontro con il reale del sesso: “Perché fare l’amore non è mai per me come bere un bicchiere d’acqua?”, si chiedeva sconsolato. Fare l’amore, come si dice, non può essere, in realtà, per nessun essere che abita il linguaggio come bere un bicchiere d’acqua.
Il reale della sessualità umana sfugge allo schematismo istintuale che contrassegna la forma animale della vita. Sicché non è possibile coltivare l’illusione di una naturalizzazione della sessualità umana o, peggio, di una sua animalizzazione, come se questa segnasse l’emancipazione definitiva della pulsione sessuale dalle gabbie morali che ingiustamente la opprimono. Lo sappiamo dalla nostra esperienza clinica, lo sappiamo dai nostri pazienti: nel mondo umano la sessualità non è governata dalla bussola infallibile dell’istinto come accade invece nel mondo animale, dove colori, odori, stagioni, maturazione degli organi riproduttivi sono sufficienti a innescare un accoppiamento tra i sessi senza inciampi. Diversamente, noi tutti, in quanto esseri immersi nel linguaggio, in quanto “parlesseri”, come direbbe Lacan, non possiamo beneficiare pienamente della grazia naturale dell’istinto. L’accoppiamento tra i sessi nella vita umana non è causato da risposte e reazioni istintuali, come accade invece nel mondo animale. Il percorso del desiderio sessuale è inevitabilmente labirintico e accidentato: mentre l’istinto obbedisce alla legge universale della natura, la pulsione sessuale è senza legge, per principio sregolata, deviata, assolutamente singolare, anarchica, iperedonista, perversa e polimorfa, come direbbe Freud. Essa non mira alla semplice scarica fisiologica di una tensione accumulata, né alla riproduzione della specie, ma appare calamitata dall’esigenza sempre in eccesso del godimento che, come tale, non risponde a nessuna legge di natura.
La vita sessuale degli esseri umani eccede costitutivamente lo schematismo biologico dell’istinto. Per questa ragione essa appare rocambolesca, surrealista, sghemba, sorprendente, catturata fatalmente da uno scenario fantasmatico dettato dall’inconscio che, sovrapponendosi all’istinto, lo perverte. L’eccentricità culturale della pulsione rispetto all’infallibilità naturale dell’istinto impone alla sessualità umana un giro più lungo per il raggiungimento del piacere che non può essere ridotto al perseguimento immediato del soddisfacimento sessuale tramite l’accoppiamento.
Il nostro rapporto col sesso non è mai normale, naturale, già stabilito, definito una volta per tutte, ma appare sempre un po’ obliquo, strambo, anormale, singolarmente storto. E non mi riferisco qui all’attuale dibattito politico e antropologico che tende a emancipare i destini della sessualità dal vincolo imposto dal binarismo tradizionale maschile/femminile di matrice patriarcale verso nuove legittime forme di sperimentazione della sessualità, seguendo il principio che la psicoanalisi stessa ha contribuito a sdoganare per il quale la sessualità umana è sempre una forma di transizione, di passaggio di discorso e che, come tale, non può mai essere rinchiusa in un’identità più o meno solida.2 Mi riferisco piuttosto all’esperienza del desiderio sessuale in quanto tale e al fatto che questa esperienza implica sempre – negli omosessuali come negli eterosessuali, nelle lesbiche come nei cosiddetti transgender –, oltre all’estasi e alla gioia, all’eccitazione e all’erotismo, al piacere e al godimento, una quota irriducibile di turbamento e di inquietudine. Ma non nonostante sia un’esperienza di gioia e di estasi, ma proprio perché è un’esperienza di gioia e di estasi.
Perché non siamo come i piccioni?
In Manhattan di Woody Allen il protagonista, Isaac Davis, si chiede con una certa nostalgia perché gli esseri umani non si comportino nelle loro relazioni amorose e sessuali come fanno i piccioni. Non esiste infatti modello etologico di fedeltà maggiore di quello: i piccioni si accoppiano a vita con lo stesso partner. Nessuna distrazione, nessuna infrazione, nessuna infedeltà, nessun decremento dell’attrazione sessuale. I piccioni sono saldi nel loro moto istintuale che li dirige perpetuamente verso il loro unico e indissolubile partner. Ma la risposta alla domanda posta da Woody Allen è altrettanto inequivocabile della fedeltà dei piccioni: no, noi non siamo piccioni, né potremmo mai diventare tali, perché la loro fedeltà è dettata dall’istinto e non dal desiderio.
Al mondo animale ciò che è davvero precluso è l’esperienza inquieta del desiderio sessuale, l’esperienza tumultuosa e sempre in eccesso del godimento pulsionale, l’esperienza labirintica della vita erotica. Lacan lo spiega bene quando afferma che “se un animale si abbuffa regolarmente, è ben evidente che lo fa perché non conosce il godimento della fame”.3 Diversamente dall’istinto della fame, infatti, il godimento umano del mangiare non soddisfa solo una necessità naturale ma realizza, insieme a quella soddisfazione, un piacere sessualizzato. Lo mostrano con evidenza certe crisi bulimiche dove il soggetto non mangia affatto per sfamarsi, ma per godere. Sicché, il rapporto dell’essere umano con il proprio corpo, diversamente da quello dell’animale, è sempre un “rapporto disturbato”. Disturbato da cosa? Disturbato, indica Lacan, dal godimento, il quale è un fattore di disturbo dell’istinto perché è più forte rispetto ai bisogni naturali regolati dall’istinto primario di autoconservazione. Non a caso quando Freud introduce la figura sconcertante della pulsione di morte nella sua dottrina è per mostrare che la forza della pulsione spinge la vita a godere al di là del principio di autoconservazione, dunque al di là del principio edonistico del piacere. Solo nel sonno il godimento sembra cessare di “disturbare” il corpo. È, infatti, nel sonno che l’essere umano si ritira dal mondo come dal suo stesso corpo arrotolandosi narcisisticamente su se stesso, ritirando la propria libido, riversandola sul proprio corpo addormentato. Sicché il desiderio sessuale appare innanzitutto come un’esigenza, un eccesso, una spinta che scuote e disturba la vita universalmente regolata dei piccioni, il loro sonno istintuale. È questa esigenza che altera più o meno profondamente l’equilibrio omeostatico della nostra vita.
Facciamo un semplice esempio clinico: un uomo verso i sessant’anni con responsabilità professionali notevoli decide di cedere alle insistenti avance sessuali della sua segretaria, alla quale non aveva mai prestato un’attenzione particolare. Il modo sfacciato con il quale costei si è prodigata nel sedurlo lo induce ad accettare di incontrarla per una cena che si trasforma rapidamente in un’imprevista notte di passione. Padre di famiglia morigerato e professionista stimato, curato nella sua persona e autenticamente innamorato della sua bella ed elegante moglie, l’uomo perde letteralmente la testa per una donna che non è né straordinariamente bella, né elegante, ma appare priva di inibizioni e particolarmente focosa nello scambio sessuale. È proprio questa intraprendenza senza pudore che, in maniera inattesa, lo eccita irresistibilmente.
In breve tempo in quest’uomo si instaura una vera e propria dipendenza che mette a rischio l’ordine consolidato di una carriera, di una famiglia, di una vita intera. In analisi egli porta il suo non riuscire a capacitarsi di come quella donna sia diventata in così poco tempo e in modo assolutamente imprevedibile il centro ossessionante della sua esistenza e dei suoi desideri. Tutto il quadro stabilito della sua realtà appare disturbato e minacciato da qualcosa che assomiglia più a un incubo che a un sogno. Lo colpisce, in particolare, il fatto che sia sempre lei a prendere l’iniziativa offrendosi, come lui la descrive, “come un oggetto sessuale disposto a tutto”. Ogni loro incontro segue lo stesso schema: un’accensione brusca e incontenibile del desiderio sessuale che, senza preamboli, raggiunge rapidamente la sua meta. Nessun dialogo, nessuna condivisione, nessun affetto profondo. Agli occhi dell’uomo è solo questa offerta di sé incondizionata, spogliata da ogni elemento di soggettività, a rendere la sua amante irresistibile.
In primo piano vi è, dunque, un godimento che “disturba” la regolarità piacevole di una vita ordinata. Attraverso questo incontro sessuale, come l’analisi mostrerà, l’uomo tocca, in realtà, una corda profonda e antica del suo fantasma. Da ragazzino una vicina di casa dell’età di sua madre lo aveva sedotto sessualmente. La loro relazione non presupponeva altro se non incontri sessuali brevi e clandestini. Un godimento nuovo e irresistibile aveva fatto irruzione nella sua vita di preadolescente. La sua iniziazione sessuale lo aveva collocato nella posizione eccitante e, insieme, traumatica dell’oggetto abusato. Sentirsi un oggetto sessuale posseduto dalla brama di una donna matura lo eccitava profondamente. Anche in quel caso nessun amore, nessun dialogo, nessuna cura tra i due. Quello che risultava eccitante e che si ripeteva pari pari dopo più di quarant’anni era l’esistenza di un godimento fine a se stesso, senza nessun tipo di laccio affettivo o di maschera sociale. Diversamente, tutta l’esistenza di quest’uomo si era sviluppata sotto l’insegna della sua capacità fallica, della sua inclinazione al comando e al rigore morale. L’apparizione di una donna provocante nella sua vita riattivava così il godimento segreto e sconcertante del suo sentirsi passivamente sedotto e goduto. Il godimento sessuale appare, dunque, in questo caso, come ciò che disturba l’ordine regolare di un’intera vita.
Il carattere eccessivo e straniante di questa esperienza non può essere spiegato facendo ricorso alla legge infallibile dell’istinto. I piccioni si accoppiano e restano uniti per tutta la loro vita, non cascano nelle spirali eccitatorie del desiderio sessuale, non perdono la testa per una sconosciuta, la loro vita animale non è disturbata dall’eccesso del godimento che invece incalza la vita umana turbando la sua condizione di equilibrio. Gli esseri umani, infatti, diversamente dai piccioni, non sono per natura monogami perché sono abitati dall’inquietudine e dall’erranza di un desiderio e di un godimento che minano la stabilità di ogni legame amoroso. Mentre il piccione non conosce tentazioni perché il suo istinto lo orienta ciecamente sempre verso la stessa meta, l’essere umano non può fare leva sull’esistenza di un istinto ugualmente prevedibile. Piuttosto il desiderio e il godimento fanno la loro apparizione come delle lacune interne all’istinto, come fattori di disturbo. Il desiderio può destabilizzare un legame, stressarlo, renderlo impossibile o insufficiente, ma anche irresistibile e appagante. Il godimento può tramortire l’ordine appagante di una vita pacificata introducendo in modo traumatico un eccesso che non è nell’ordine del piacere ma di ciò che spinge il piacere verso il suo bordo più estremo. Mentre infatti il piacere si mantiene in una zona di equilibrio e di moderazione, il godimento scompagina quella zona rendendola tumultuosa, eccitante e inquietante insieme.
Non a caso in Manhattan Woody Allen racconta il carattere impietosamente inquieto del desiderio, la sua impossibilità di stare in pace, di acquietarsi, di soddisfarsi pienamente in un solo legame duraturo. La natura anarchica del desiderio umano rivela il suo statuto nomade, erratico, che mal si combina con la normatività di una relazione familiare. Per questo Isaac Davis osserva con una strana nostalgia il legame monogamico dei piccioni. Il loro affidarsi reciproco esclude l’inquietudine del desiderio, appare come una sorta di ipnosi permanente che esclude il dubbio e l’incertezza, una sorta di sonno senza incubi.
Perché non siamo come macchine?
In un altro film esilarante intitolato Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere), Woody Allen ha immaginato cosa accade all’interno del cervello e del corpo maschile durante l’eccitazione che precede e accompagna lo svolgersi del rapporto sessuale. Il cervello appare come una cabina di regia che ordina ai vari distretti anatomici coinvolti nell’eccitazione, nell’erezione e nell’orgasmo, i giusti movimenti. Vediamo in azione ingranaggi, rotelle, meccanismi, leve, pistoni, pesi e contrappesi. Il corpo appare ridotto a una macchina che risponde a indicazioni precise imposte dalla funzione cerebrale. Al centro, l’organo genitale maschile, che deve essere in grado di compiere al meglio la propria prestazione, salutata, dopo diverse incertezze, da tutti i membri presenti in cabina di regia, con legittima esultanza. L’orgasmo si realizza con la dovuta emissione dello sperma, composto nel film da numerosi spermatozoi tutti riluttanti a lasciare il rifugio testicolare per rischiare di finire chissà dove, magari, come si mormora tra loro prima del lancio, per schiantarsi contro insuperabili barriere di plastica (in riferimento alla funzione anticoncezionale del preservativo).
L’irresistibile scena evoca l’idea cartesiana del corpo come un’“estensione” (res extensa), una macchina governata da severe e imperturbabili leggi meccaniche. Nessuna allusione all’amore, né al desiderio, nessuna evocazione di fantasmi inconsci o fantasie erotiche. La descrizione del rapporto sessuale appare volutamente oggettiva.4 Anche i fenomeni iniziali di défaillance del protagonista appaiono come intoppi provvisori negli ingranaggi che devono essere risolti il prima possibile col ripristino del loro normale funzionamento. Quello che Woody Allen ci permette di vedere è che, in questo caso, tutto avviene nel corpo e nella mente di uno dei due partner. Quello che è decisivo è che non esiste, in questa rappresentazione del rapporto sessuale, alcun rapporto. Esiste solo una macchina – quella del corpo sessuale – congegnata per condurre l’organo genitale al suo soddisfacimento.
Ora, quello che noi non possiamo vedere in questa narrazione cinematografica del rapporto sessuale è l’incidenza dei fantasmi inconsci che accompagnano fatalmente il desiderio sessuale. Il problema non è tanto l’efficienza della macchina, ma quella del desiderio. La questione che resta sempre da risolvere, come usava dire un mio paziente, consumatore regolare di Viagra, è quella di come “agganciare l’organo al desiderio”. Se infatti la pillola blu può sortire l’effetto di indurire l’organo grazie alla sua funzione vasodilatatoria, questo non risolve il problema di come agganciare il desiderio all’organo stesso. In primo piano, dunque, c’è la macchina dell’organo – come mostra Woody Allen – o l’enigma del desiderio?
Vi sono situazioni cliniche dove la difficoltà maggiore per il soggetto non è affatto quella dell’organo, ma proprio quella del desiderio. Il funzionamento macchinico dell’organo non coincide infatti con quello umano del desiderio. Il mio paziente invertiva illusoriamente i fattori in gioco. Pensava di dover rafforzare l’organo per far esistere il desiderio. Ma non essendo il desiderio un organo, una volta ripristinata la funzione anatomico-meccanica dell’organo, restava fatalmente confrontato con il problema della debolezza del suo desiderio che nessuna pastiglia poteva, ahimè, risolvere.
Nel caso di una paziente isterica, nel corso del rapporto sessuale il suo corpo veniva abbandonato come un “sacco vuoto” nelle mani dell’amante di turno. Non era altro che una spoglia, un mantello, un vestito senza alcun contenuto. Le capitava così di trovarsi a osservare il rapporto sessuale dall’esterno, come se fosse separata dal proprio corpo. Anche in questo caso il funzionamento della macchina del corpo non implicava necessariamente la presenza del desiderio: il soggetto era presente come corpo, ma assente come soggetto. Il punto è che, solitamente, la sessuologia comportamentale tende a separare la macchina del corpo dal fantasma che struttura la dimensione inconscia del desiderio, dimenticando che questa macchina, in realtà, non risponde a meccanismi istintuali ma, primariamente, all’inconscio e ai suoi fantasmi.
Un esempio: l’inciampo dell’eiaculazione precoce
Un sintomo diffuso come quello dell’eiaculazione precoce mostra in modo esemplare la distanza tra il corpo-desiderio e il corpo-macchina. Un organo genitale sano in un corpo sessuale sano e sessualmente ben orientato rispetto alla propria meta – etero o omo o altro che sia – dovrebbe eseguire il proprio compito sessuale senza inciampi. La cabina di regia della macchina-corpo dovrebbe emettere i suoi comandi con persuasione. Perché disattenderli?
Nel sintomo dell’eiaculazione precoce non è in gioco – come una certa sessuologia fisiologica vorrebbe – il difetto di una ghiandola o una turba anatomica di qualche genere, ma l’interferenza del fantasma inconscio sul desiderio sessuale del soggetto. Del resto anche il ricorso alla chimica del farmaco, che può risultare efficace a garantire l’erezione, deve cedere le sue armi di fronte all’enigma sintomatico dell’eiaculazione precoce. Questo sintomo, infatti, contraddice clamorosamente il programma performante dell’Ego, ma anche quello dell’istinto cosiddetto naturale. Non solo. Esso contraddice altresì l’esigenza dell’amante di dare piacere al proprio partner poiché la soddisfazione di dare soddisfazione è un elemento cruciale nella dinamica del rapporto sessuale. L’eiaculazione sfugge al controllo della volontà impedendo al soggetto di portare a compimento, con soddisfazione propria e del suo partner, l’atto sessuale. Il piacere si converte così in dispiacere e la gioia in tormento. La scarica orgasmica giunge troppo in anticipo sino a essere vissuta come una vera e propria disgrazia dal soggetto che la deve subire. Il senso di colpa che accompagna il post-orgasmo si aggiunge abitualmente a segnalare il fallimento della prestazione e ad aggiungere un ulteriore eventuale peso alla pazienza del partner. Il carattere assurdamente intempestivo dell’orgasmo non solo rende impossibile quello del partner, ma distorce l’orgasmo stesso trasformandolo da qualcosa di piacevole in un’esperienza spiacevole. L’eiaculatore precoce tende infatti a pentirsi del proprio godimento perché esso arriva quando non dovrebbe, dunque sganciato dal desiderio. La volontà dell’Ego è costretta a soccombere di fronte all’inspiegabile precipitazione del godimento che interrompe troppo precocemente il piacere del rapporto sessuale. In certe situazioni l’eiaculazione può addirittura rendere impossibile la penetrazione poiché si manifesta sin dal primo contatto tra i genitali.
Un particolare colpisce: quello che ritorna frequentemente come una costante nel racconto degli uomini che soffrono di questo sintomo è l’impossibilità di resistere alle espressioni di godimento che appaiono sul volto e nel corpo della donna. Si può ritenere valida in questo senso un’interpretazione classica della psicoanalisi: l’eiaculatore precoce si confonde con il proprio partner a causa di un’identificazione inconscia. L’eiaculazione provoca una sorta di passivizzazione femminile dell’uomo che, non a caso, si lamenta e si strugge per la perdita della sua virilità. La caporetto dell’erezione può palesare allora un difetto dei propri confini simbolici, un’eccessiva identificazione inconscia all’amata, alla donna. Ma anche una profonda angoscia nel sostenere l’atto sessuale, dunque la propria virilità. Nondimeno sappiamo pure che l’angoscia non finisce con l’eiaculazione, ma può apparire anche dopo l’eiaculazione, per esempio nella forma della colpa e del sentimento di insufficienza e inadeguatezza.
Il corpo-macchina vorrebbe funzionare a prescindere dalla sua relazione con l’Altro. Diversamente l’incidenza di questa relazione è decisiva per comprendere un sintomo come quello dell’eiaculazione precoce. Ne è la prova il fatto che assai raramente si dà esperienza dell’orgasmo precoce nella pratica della masturbazione. In questo caso il soggetto governa tranquillamente il suo organo stabilendo i tempi del proprio piacere e del suo soddisfacimento finale. Segno che è la presenza del desiderio dell’Altro a disturbare la lineare progressione sessuale del piacere.
Nella lettura classica della psicoanalisi di questo sintomo, in primo piano c’è l’angoscia di castrazione che la presenza della donna può provocare nell’uomo. Di cosa si tratta? Freudianamente dell’orrore della mutilazione di cui sarebbe segno l’organo genitale femminile. Il terrore della castrazione comporterebbe la necessità di ridurre al minimo il tempo di “soggiorno” dell’organo maschile nella cavità del corpo femminile. L’eiaculazione precoce sarebbe allora una sorta di fuga precipitosa di fronte a una minaccia angosciante? Aggiungiamo che, come Freud ricorda in diverse occasioni, la vagina è il luogo da dove il soggetto proviene e che un antico interdetto (quello che vieta l’incesto) ne proibirebbe l’accesso. È la similitudine tra il sesso femminile e una voragine o una bocca famelica che istituisce, secondo Freud, la presenza ricorrente nei nevrotici del fantasma della “vagina dentata”. Non a caso diverse leggende riportano in luce questa dimensione cannibalica dell’organo sessuale femminile. Si pensi, tra tutte, a quella della mantide religiosa che divora il maschio dopo averlo sfruttato sessualmente e dopo averlo decapitato. La ferocia sanguinaria della mantide rievoca così il carattere pericoloso, minaccioso e ingovernabile del desiderio della donna.5 Gérard Pommier riporta la particolare esperienza di un uomo che doveva subire un banale intervento chirurgico a un lato della coscia. Un’infermiera stava per tagliargli i peli pubici per facilitare l’operazione. Il solo fatto di vedere avanzare verso il proprio corpo inerme una donna armata di rasoio provocò nell’uomo un’angoscia smisurata mescolata a eccitazione che, al primo contatto del rasoio con il suo corpo, precipitò immediatamente in un’eiaculazione che precedette addirittura l’erezione.6
La centralità dell’organo sessuale femminile nel provocare il sintomo dell’eiaculazione precoce ha un fondo di verità se si considera che solitamente nei rapporti preliminari tutto tende a funzionare, mentre è proprio il passaggio alla penetrazione genitale che fa traballare il soggetto. Segnale inequivocabile del nesso stabilito da Freud tra l’eiaculazione precoce e una rappresentazione inconscia della vagina come luogo di minaccia. Al tempo stesso la lettura freudiana di questo sintomo deve essere aggiornata includendo il tema del rapporto angosciato dell’uomo con il godimento della donna più che con il suo organo genitale in quanto tale. In gioco è la particolarità del godimento femminile, sulla quale torneremo più avanti nel dettaglio. Abbiamo già sottolineato come l’impatto con i segni inequivocabili del godimento dell’Altro possano risultare insostenibili per alcuni soggetti, al punto da provocare un’eiaculazione incontrollata o la perdita dell’erezione. Dobbiamo dunque ribaltare ancora una volta il paradigma del corpo-macchina. Se seguiamo questo paradigma, l’apparizione dei segni del godimento sul corpo dell’Altro, in particolare sul suo volto, dovrebbe solo gratificare la prestazione sessuale dell’uomo, ma, sorprendentemente, è proprio ciò che la fa naufragare. Perché? Per un verso, l’eiaculazione precoce mostra un soggetto erede solo parziale della virilità paterna, ancora prigioniero del discorso materno, incapace di superare le colonne d’Ercole del sesso femminile separandole da quelle incestuose del regno cosiddetto pre-edipico. Non trattenersi significa sprofondare in una identificazione massiva con l’Altro, come accade primariamente tra il bambino e la propria madre. È la lettura freudiana classica di questo sintomo. Per un altro verso, però, l’eiaculazione precoce riguarda anche l’incontro dell’uomo con il territorio del godimento femminile in quanto ignoto, illimitato, senza confini, ben al di là della madre. È questo un altro modo, assai più radicale, di ripensare il fantasma della “vagina dentata” descritto da Freud. Il problema non è tanto la castrazione del corpo femminile, ma il carattere “oceanico”, abissale, non governabile del suo godimento. I segni della sua presenza possono così generare nell’uomo un’angoscia insopportabile che può essere risolta solo cancellando il più rapidamente possibile quei segni, dunque interrompendo precocemente il rapporto sessuale.
In un mio paziente che soffriva di eiaculazione precoce ricorreva un sogno nel quale si trovava schiacciato dal sesso femminile che premeva contro la sua faccia. In questa condizione di oppressione egli pensava che questo sesso potesse essere quello di un Alien. Allo stesso modo, la minaccia che egli avvertiva in ogni rapporto sessuale era quella di non saper sostenere l’incontro con un godimento “extraterrestre”, sconosciuto, alieno, invisibile, segreto, illimitato com’è quello femminile. È di fronte a questo godimento che l’uomo si ritira il più rapidamente possibile. È probabilmente quello che Ernest Jones definiva come aphanisis, ovvero l’impossibilità per il maschio di sostenere la propria competenza fallica di fronte al sesso femminile, che ben si presta a caratterizzare la caduta dell’erezione di fronte al mistero innominabile del godimento senza contorni della donna.
In un paziente il sintomo dell’eiaculazione precoce non supponeva alcuna identificazione alla donna-madre quanto piuttosto l’odio inconscio nei confronti della donna in quanto tale. Ai primi segni di piacere della propria partner scattava l’eiaculazione con la conseguenza che, per prolungare il più possibile il rapporto, la donna era costretta a pietrificarsi, a restare immobile come una mummia, a nascondere i segni del proprio godimento.
Nell’esperienza clinica, come mostra bene questo caso, il sintomo dell’eiaculazione precoce può prestarsi a tradurre il programma fondamentale del desiderio ossessivo maschile: distruggere il desiderio dell’Altro vincolandolo a essere in ostaggio (inconscio) del soggetto che si impossessa della sua libertà, mortificandola. La mummificazione che questo soggetto induce nella sua partner, al di là di un senso di colpa dell’Io solo difensivo, sortiva, non a caso, in lui un evidente effetto di autentico trionfo. Egli aveva la sensazione di avere la donna in suo totale possesso, di averla privata della sua libertà, di averla resa un oggetto inerte, di avere esorcizzato la minaccia del suo godimento (della donna innanzitutto, ma anche del proprio). Il trattamento della sua angoscia di fronte al carattere indeterminato del godimento femminile lo portava a esercitare inconsciamente l’eiaculazione precoce come gesto di aggressione del corpo della sua compagna, colpevole di godere e di aprire la vita – anche la propria – a una dimensione che non poteva essere governata con il sapere che, come la clinica psicoanalitica sa bene, il soggetto ossessivo usa come barriera di fronte al carattere anarchico del godimento.
È questa un’inclinazione frequente nella nevrosi ossessiva maschile: esiste un odio di fondo verso la donna che scaturisce dall’alterità della donna stessa, ovvero dall’impossibilità di esercitare su di essa un controllo e un possesso definitivo. In molti soggetti ossessivi maschi, non a caso, l’eiaculazione precoce accompagna i rapporti sessuali con la donna amata e non con le eventuali altre donne. Le donne del puro godimento non provocano quella perdita dei propri confini e dei propri tornaconti narcisistici che invece può provocare la donna amata se fosse anch’essa “corrotta” dal godimento. L’ossessivo non può infatti impadronirsi del godimento femminile che resta fuori misura, non contabilizzabile, non quantificabile, non localizzato, perturbando così profondamente i piani ordinati nei quali esso vorrebbe comprimere l’esperienza del desiderio e del godimento. Per questo l’eiaculazione precoce può essere una difesa – non senza una quota di aggressività – nei confronti dell’incontro con il carattere “alieno”, extraterrestre, appunto, del godimento femminile.
Questa preminenza dell’angoscia di fronte al godimento femminile nel sintomo dell’eiaculazione precoce non esclude che esso possa avere anche una causalità che affonda le sue radici in un fantasma paterno. È quello che accade, per esempio, a un uomo sui cinquant’anni nel quale l’eiaculazione precoce si alternava all’impossibilità di accedere all’orgasmo. Cadeva su questa sua impossibilità di eiaculare l’ombra di un padre ordalico e tirannico che viveva immerso in un godimento perverso che lo aveva traumatizzato sin dalla sua infanzia. L’oscillazione tra eiaculazione precoce e impossibilità dell’orgasmo preservava la sua vita dalla violenza del padre, il quale esigeva che tutto il godimento fosse sempre nelle sue sole mani, sia nel modo della fuga (eiaculazione precoce) sia in quello dell’interdizione, di fatto, del godimento (impossibilità dell’orgasmo). Come per il padre freudiano di Totem e tabù, anche questo padre rivendicava il possesso di tutte le donne sottraendo al figlio il diritto all’esercizio della propria virilità che poteva avvenire, dunque, solo a quelle condizioni fortemente restrittive.
Il sessuologo di Waterloo
Diversamente da quello che pensa la sessuologia cognitivo-comportamentale che nutre una concezione robotica dell’umano, ciascuno col sesso si arrangia come può perché siamo tutti privi di un equipaggiamento adeguato. È proprio a causa di questa inadeguatezza che non esiste una misura morale in grado di definire una vita sessuale normale. Il normale e l’anormale si confondono proprio perché manca una linea divisoria definita a priori. Piuttosto, nella loro vita sessuale gli esseri umani si muovono orientati dai propri fantasmi inconsci. La sessuologia di impronta cognitivo-comportamentale tende invece a leggere il fenomeno dell’eiaculazione come il semplice segnale di un’eccessiva preoccupazione del soggetto relativa alla qualità della propria prestazione virile. Nessuna identificazione inconscia in gioco, nessuna “vagina dentata”, nessuna mantide, nessun confronto angosciato con il godimento femminile o altre amenità del genere, insomma, nessun fantasma all’orizzonte. Piuttosto un eccesso di tensioni mentali disfunzionali che non rendono possibile al soggetto vivere con la giusta rilassatezza il rapporto sessuale.
L’accento viene messo sul difetto della prestazione sessuale provocato da un sovrainvestimento della prestazione medesima. Si disegna un circolo tossico: il soggetto sovrastima la propria prestazione vivendola come una prova della propria virilità e, più in generale, del proprio valore, mentre l’imminenza della prova accentua la sua tensione al punto da provocare una perdita di controllo sul proprio organo, con l’effetto di rendere ancora più sovrainvestita la prestazione nonché il suo inevitabile fallimento. In realtà, questo circuito descritto sorvola il punto più vivo del problema. Davvero esilaranti sono da questo punto di vista le considerazioni di Pascal de Sutter, sessuologo clinico di Waterloo. Il suo principio guida riflette una lettura classicamente cognitivo-comportamentale del sintomo dell’eiaculazione precoce: si tratta di correggere terapeuticamente una prestazione alterata da un eccesso di preoccupazioni che ruotano attorno all’efficacia della prestazione medesima. Cosa sostiene con grande vigore polemico il nostro sessuologo schierato apertamente contro la concezione psicoanalitica della sessualità? Innanzitutto che la sessualità umana può benissimo fare a meno dell’inconscio e che, quando ci troviamo di fronte a un problema sessuale – come nel caso del sintomo dell’eiaculazione precoce, dell’impotenza maschile o dell’anorgasmia femminile –, è del tutto inutile chiedersi che cosa esso significhi, perché è assai più redditizio concentrarsi su come risolvere il problema senza andare a scomodare improbabili significati inconsci che potrebbe avere per chi ne soffre o per il suo partner.
Leggendo nel dettaglio le sue indicazioni terapeutiche contenute in un articolo dal titolo emblematico “La sessualità senza la psicoanalisi”,7 si ha la sensazione di trovarsi catapultati sul set di un film di Woody Allen. De Sutter descrive il soggetto affetto da eiaculazione precoce come una macchina i cui ingranaggi si sono inceppati. Dunque all’eiaculatore precoce il sessuologo di Waterloo dovrà insegnare i giusti comportamenti per rendere più adeguata la sua prestazione riattivando la sua efficienza robotica. Dobbiamo immaginarcelo, allora, il nostro uomo nella sua alcova con la partner che lo attende languida sotto le lenzuola. Egli prima di raggiungerla deve dedicarsi, con concentrazione adeguata, a esercizi prolungati di respirazione profonda per ottenere una condizione mentale serena e priva di conflitti. In seguito è altrettanto fondamentale che egli impari a sviluppare tecniche di controllo dei suoi pensieri e dei suoi muscoli (quali?).
Pur soffrendo un uomo su tre di eiaculazione precoce, il sessuologo di Waterloo ci rassicura che il suo metodo, se eseguito con attenzione, è efficace nel 90% dei casi. Tuttavia, continua, è anche importante avere rapporti sessuali nella giusta misura perché, come è noto (ma a chi?), l’eiaculazione precoce è evidentemente correlata – così egli sostiene senza incertezze – alla scarsa frequenza dei rapporti sessuali… Il sessuologo di Waterloo non solo riduce la terapia dell’eiaculazione precoce a un rafforzamento pedagogico della virilità senza interrogare in nessun modo il significato che questo sintomo assume per il soggetto, ma, con quest’ultima considerazione, veicola anche l’idea che la sessualità abbia un funzionamento essenzialmente idraulico: lo svuotamento regolare della libido impedirebbe il manifestarsi di scariche fuori controllo, frutto di un eccessivo ingorgo libidico. Insomma, come ci ha mostrato Woody Allen, è semplicemente un problema di leve, di pesi e contrappesi, di meccanica.
Una escort si innamora
Ricevetti una volta una domanda di ascolto molto particolare. Proveniva da una escort che si era innamorata di un suo cliente essendone pienamente corrisposta. Tuttavia ella non riusciva a capacitarsi del perché sul piano sessuale, da quando i due si erano rivelati i loro sentimenti, il suo “arnese”, come lei lo definiva, non funzionasse più. Si era improvvisamente e stabilmente eclissato. Quello che questa mia paziente viveva come un enigma indecifrabile mi pareva veicolasse, in realtà, un significato evidente. Cosa poteva donare di davvero particolare quell’uomo a una donna il cui mestiere comportava l’assidua frequentazione sessuale di altri uomini? Cosa mai avrebbe potuto darle di diverso da tutti gli altri? Come offrirle qualcosa di unico, qualcosa che nessuno di loro avrebbe mai pensato di donarle?
Da quando aveva sentito di essersi innamorato, l’uomo aveva sospeso ogni iniziativa fallica che poteva anonimamente accomunarlo agli altri clienti. Non era stata ovviamente una scelta deliberata. Il suo desiderio sessuale non era affatto calato, ma l’organo non gli rispondeva più. Ogni volta che i due si incontravano per fare l’amore il suo “arnese” non rispondeva più alle sollecitazioni intraprendenti della sua amata. Cos’era successo? Questo intoppo, come spesso accade nella vita sessuale umana, è più di una semplice disfunzione robotica, poiché contiene un messaggio inconscio che ha come destinatario proprio la mia paziente. L’impotenza misteriosa che lo affliggeva era in realtà un dono d’amore. Solo che lei non lo sapeva decifrare come tale restando interdetta, sentendosi semplicemente rifiutata dal solo uomo che amava e desiderava.
In analisi l’ho delicatamente indirizzata a leggere nel sintomo del suo compagno un messaggio: “Ti offro la mia mancanza nel segno del mio amore, ti offro quello che nessun altro uomo ti sa offrire perché io non desidero solo il tuo corpo, ma ti amo per tutto il tuo essere”. L’impotenza sessuale, dunque, era il modo sintomatico inconscio per differenziarsi dalla serie anonima degli uomini che dalla sua donna volevano solo trarre il proprio godimento. Allora sottrarsi al godimento, rendersi mancante, era il suo modo singolare per rendere a sua volta mancante la donna che amava. Non darle il suo fallo era un modo per donarle la sua mancanza, per palesarle il suo amore. Le dava, in sostanza, non quello che aveva – il denaro, il fallo, il godimento –, ma quello che non aveva che, come ha insegnato Lacan, è la formula più pura del dono d’amore. Ed è stato proprio a partire dalla comparsa del sintomo dell’impotenza che la donna si è sentita ancora più irresistibilmente attratta e profondamente innamorata di quell’uomo al punto da decidere che per lui avrebbe cambiato vita. Il chiarimento di tutto questo groviglio ha coinciso, solo dopo qualche seduta, col termine del suo lavoro analitico.
Il Casanova di Fellini
Non patisce affatto gli scherzi né dell’eiaculazione precoce, né dell’impotenza sessuale e, tantomeno, necessita delle cure del sessuologo di Waterloo, l’irresistibile amante e conquistatore veneziano Giacomo Casanova che colleziona le sue molteplici prede in una girandola di leggendarie imprese sessuali.
Nel suo formidabile Casanova Federico Fellini ha offerto una lettura assai particolare della vita di questo impenitente seduttore. In primo piano non c’è né la passione erotica, né la virtù ammaliatrice, ma qualcosa di intermedio tra lo spirito di competizione e la meccanica infallibile della prestazione sessuale. Il rapporto sessuale viene perseguito dal focoso amatore veneziano come una prestazione fallica pura. Nessun sentimento, nessuna poesia, nessuna estasi erotica. Piuttosto egli sale ogni volta su un palco da dove esibisce il carattere sempre vittorioso delle sue capacità amatorie.
Nel ritrarre le sue performance Fellini pone unilateralmente l’accento sul ritmo percussorio, di tipo meccanico, del coito. Non a caso un bizzarro uccello-carillon ne scandisce ritmicamente i movimenti. Il suo corpo si muove come se fosse un mero ingranaggio impersonale. L’estasi del desiderio viene surclassata dall’esibizione compulsiva della propria competenza fallica. L’atto sessuale si riduce a un esercizio ginnico, a un’impresa muscolare. Le prodezze sessuali prevalgono nettamente sulla dimensione seduttiva della conquista ribadendo ogni volta il primato del governo fallico del godimento. Una contabilità astratta, quasi ragionieristica, si impone sulla passione e sui sentimenti. Il Casanova di Fellini è una macchina da guerra costruita per fare l’amore. Il carattere irresistibile della sua fama di seduttore viene ridotto all’efficacia robotica della sua azione sessuale. Ma come Don Giovanni, anche Casanova appare, come spiega Lacan, più un fantasma femminile che un mito maschile perché mette in evidenza l’esistenza di un fallo che non conosce titubanze, incertezze, inciampi, un fallo sempre a disposizione, assimilato all’uccello meccanico che egli mette in movimento nel corso di ogni rapporto sessuale, puro strumento di godimento.
Tuttavia, la lettura felliniana non si esaurisce qui, ma prosegue mostrando come alle spalle di questo fallicismo esasperato e del suo carattere infallibile vi sia, in realtà, un atto scaramantico, un esorcismo inconscio nei confronti della morte. Accade spesso nei seduttori incalliti. Non a caso l’incipit del film descrive una festa di carnevale sul Canal Grande di Venezia, turbata da un pauroso incendio a segnalare che la mascherata della seduzione e della festa sessuale non può mai sconfiggere davvero la presenza sempre imminente della morte. È quello che ritroviamo anche al termine del film, dove una bambola meccanica diviene l’ultima partner di un Casanova ormai anziano, privo di forze e in piena decadenza. Nei suoi occhi vuoti e spenti non c’è più nulla se non lo scorrere impietoso e irreversibile del tempo che il carattere inumano della bambola invece vorrebbe sospendere. In questo il Casanova ricorda da vicino un’altra nota figura felliniana, quella del dottor Katzone della Città delle donne, che ha circondato la propria vita dei ritratti di tutte le donne che ha posseduto come in un grande museo delle cere. Alla fine tutte queste donne possono essere riassunte nella bambola meccanica del Casanova. Quello che resta del godimento meccanico del coito e delle sue imprese è solo una collezione di corpi senz’anima. Allora anche il sogno di Casanova di bloccare la morte grazie al suo ultimo partner inumano – la bambola meccanica – si rivela una pura illusione, un’ulteriore e finale mascherata che, come quella del carnevale che ha aperto il racconto felliniano, è destinata a essere dissolta dalla potenza incendiaria della morte. La falce del tempo cade così irreversibile sulla vita del seduttore veneziano come su tutte le donne che il dottor Katzone ha voluto preservare nel suo delirante museo.
Il mito di Don Giovanni
Nel mito imperituro di Don Giovanni il carattere ferito e, per certi aspetti, tragico della figura di Giacomo Casanova, rivisitata da Fellini, lascia invece il posto a una decisione che non sembra aver più bisogno di maschere. Mentre il Casanova felliniano è un uomo braccato, rincorso dalla morte, il Don Giovanni, almeno nella sua versione originaria proposta da Tirso de Molina col suo Don Juan, incarna la spinta affermativa di se stessi, della forza della pulsione che diviene legge. Il suo orizzonte è quello della sfida atea a Dio e a ogni morale religiosa: quello che conta nella vita non è l’amore per il prossimo, non è la morte come possibilità di accedere alla vita eterna, ma è godere senza limiti, possedere il corpo delle donne.8
L’assenza di timore, di angoscia, di dubbio e di vacillazione nella conquista delle sue amanti e nell’esercizio della sua straordinaria competenza sessuale non descrive solo un amante fuori dal comune, ma una critica radicale alla morale ordinaria e alle sue ipocrisie. Di qui la forza indomita della sua pulsione. Egli non conosce l’inciampo, la défaillance, l’impotenza, l’eiaculazione precoce. Non necessita delle provvide cure del sessuologo di Waterloo. Le sue amanti con lui si possono sentire pienamente amate, pienamente soddisfatte, pienamente donne. Per questa ragione Lacan ha potuto affermare che il Don Giovanni è più un mito femminile che maschile. Mentre l’uomo rischia sempre di perdere quello che ha – per esempio, l’erezione del proprio pene – lasciando la propria donna senza il giusto appagamento,
il fantasma di Don Giovanni è un fantasma femminile, in quanto corrisponde all’auspicio della donna […] che ve ne sia uno, di uomo, che ce l’abbia, oppure, meglio ancora, l’auspicio è che ce l’abbia sempre, che non possa perderlo […] Don Giovanni le rassicura che c’è un uomo che non si perde in nessun caso.9
Capovolgendo la posizione di Freud, Lacan ritiene che non sia la donna a non avere il fallo – una donna in quanto tale, ripete, non manca di nulla –, ma che sia l’uomo che, avendocelo, lo potrebbe anche perdere. È da questo che deriva l’angoscia di prestazione che può affliggere le performance sessuali dei maschi.
Una donna desidera sentirsi amata e desiderata come solo Don Giovanni, nella sua assoluta dedizione, riesce a fare con ciascuna delle sue prede. Se a prima vista il fantasma del Don Giovanni sembra riflettere l’aspirazione maschile alla conquista, alla seduzione, ad allungare illimitatamente la lista delle proprie amanti e delle proprie imprese seduttive e sessuali, insomma, a “farsele tutte”, in realtà esso realizza l’aspirazione femminile di poter essere l’unica nelle braccia di un uomo, la sola, l’amata in modo assoluto. Lacan lo ricorda quando afferma che “l’essenziale del mito femminile di Don Giovanni è che egli le possiede una a una”.10 È questo un tratto fondamentale del mito del seduttore: se nessuna donna è mai davvero l’unica perché la spinta verso la conquista delle donne è inesauribile e il possesso sessuale delle sue amanti non conosce termine, ogni volta però ciascuna diviene, nella sua particolarità più propria, davvero l’unica. Ha la possibilità di vivere questa esperienza di estasi: essere desiderata più di ogni altra cosa al mondo. Si profila così uno strano paradosso: da una parte la spinta dongiovannesca alla moltiplicazione delle sue conquiste pare non esaurirsi mai, dall’altra il suo fascino irresistibile consiste nel far sentire ciascuna delle sue amanti veramente insostituibile.
Mentre la rappresentazione felliniana di Giacomo Casanova ha accentuato, come abbiamo appena visto, il lato meramente meccanico e inumano della prestazione sessuale, la figura di Don Giovanni valorizza piuttosto l’estasi dell’incontro, la dedizione passionale alla sua preda, la tensione tutt’altro che meccanica del suo slancio erotico, poiché, in effetti, egli brucia di passione: “Ti ho adorata appena vista e ardo di un tale amore che devo sposarti subito: a questo sono costretto!”.11
Tuttavia, come accade anche per il Casanova, egli non può sottrarsi del tutto al fascino della contabilità. Ogni donna che allunga la lista delle sue imprese non può mai essere la Donna. Su ogni amata è come se cadesse ogni volta l’ombra della Donna che ancora non possiede. La Donna, cioè, non è mai veramente quella che ha, ma sempre quella che ancora non ha. Per questa ragione egli non aspira in nessun modo all’amore che ne renderebbe una insostituibile, fuori dalla serie, davvero unica. In primo piano resta sempre la sua vitalità pulsionale che non scaturisce affatto dalla mancanza che contraddistingue l’amore, ma da un’affermatività che scaturisce da una fedeltà senza rimorsi alla terra.12
Proprio in questo, secondo Lacan, Don Giovanni è un fantasma femminile e non maschile: è l’emblema un uomo che sappia far sentire le donne finalmente amate e godute senza lasciare spazio alla mancanza. Farsi possedere da uno straniero come pura incarnazione della spinta sessuale della pulsione. In altre parole, il Don Giovanni sarebbe, agli occhi delle donne, un uomo al quale non manca niente, un puro oggetto di cui poter liberamente godere, dotato di un fallo che non conosce né detumescenza, né eiaculazione precoce, né castrazione. Insomma un amante perfetto, infallibile, capace di realizzare l’“auspicio” femminile che vi sia almeno uno che “ce l’abbia davvero”, sempre, che non possa mai perdere la potenza ideale del suo fallo.
Ogni donna conquistata dalle sue arti seduttive ha il privilegio di sentirsi pienamente donna in quanto desiderata con una passione che non conosce freni, pronta a sfidare ogni avversità per raggiungere la sua meta. La postura di fondo di Don Giovanni è quella di essere padrone del proprio godimento e, dunque, come tale, di garantire il giusto godimento delle sue amanti. Il suo desiderio non ha niente di nevrotico. Il desiderio sessuale del nevrotico appare infatti tormentato dall’ombra incestuosa della madre che può calare sulla donna rendendolo impotente, come spesso accade quando, per esempio, una donna diviene madre.
Come abbiamo visto a proposito del sintomo dell’eiaculazione precoce, il desiderio sessuale del nevrotico può restare irretito e sommerso dall’angoscia quando si trova di fronte all’alterità del corpo e del godimento femminile che teme di non riuscire a governare e dal quale sfugge. Mentre, insomma, il desiderio sessuale del nevrotico è segnato da una certa irriducibile intermittenza, il Don Giovanni assicura alle sue donne una prestazione ogni volta pienamente soddisfacente. Il suo desiderio non conosce titubanze, non si arresta di fronte a nessun ostacolo, non arretra, non perde mai il suo vigore. Eppure, diversamente dal desiderio che muove il Casanova felliniano, esso non si riduce mai a un semplice esercizio competitivo, spettacolare, finanche recitativo, perché il Don Giovanni di Tirso de Molina si identifica assolutamente – se si può dire così – con la forza affermativa della pulsione. Per questa ragione non sceglie, non rinuncia mai a nulla, non vive con lacerazione i rapporti con le sue donne. E per questa ragione ogni donna, pur sentendosi unica nelle sue braccia, non può avanzare la pretesa di possedere in modo esclusivo la sua potenza fallica – nessuna donna può prenderglielo, afferma risolutamente Lacan.13
Si incrociano qui i due tratti fondamentali della sua personalità. Da una parte il carattere fuggitivo e inquieto del suo desiderio; dall’altra la dimensione isterica della sua personalità. Egli gioca con il desiderio dell’Altro, scherza, si diverte, seduce, attira a sé per poi scomparire. È per questa ragione che Kierkegaard lo elegge a paradigma della vita estetica contrapposta a quella etica. La vita del Don Giovanni non sa essere seria, detesta la ripetizione e la fedeltà a uno stesso oggetto che invece, nella dottrina dei tre stadi del filosofo danese, è una caratteristica fondamentale del marito come paradigma della vita etica. Il Don Giovanni non conosce il bivio della scelta – il dramma dell’aut-aut – perché la sua scelta è già avvenuta una volta per tutte ed è la scelta di inseguire costantemente l’attimo senza mai voler dare consistenza e continuità alle sue relazioni erotiche, è la scelta di restare fedele alla spinta della pulsione. Il suo spirito, sempre secondo Kierkegaard, è assimilabile a quello della musica e della sua estasi sensibile. È il carattere fluido, liquido, dileguante, anarchico ed erratico del suo desiderio. È questa, dunque, propriamente, la dimensione isterica della sua personalità.
Ricordiamo che per Lacan il desiderio isterico si caratterizza per la ricerca paradossale della sua stessa insoddisfazione: è desiderio di essere un desiderio perennemente insoddisfatto. Mentre giace con una donna il desiderio di Don Giovanni è già altrove, è già proiettato verso un’Altra donna, come se ogni donna contenesse in sé – istericamente, appunto – la presenza dell’Altra donna, della vera Donna, che è, di fatto, irraggiungibile. “Isterismo dello spirito”, commenta Kierkegaard. Ma il riferimento all’isteria non può da solo esaurire la personalità del grande seduttore. Quello che più colpisce non è tanto il carattere insoddisfatto del suo desiderio, ma la risolutezza nel raggiungere di volta in volta la sua meta. Mentre il soggetto isterico è sempre diviso di fronte alla realizzazione del suo desiderio – con una mano si spoglia mentre con l’altra si riveste, per usare la celebre immagine che Freud riprende da Charcot –, quello del Don Giovanni non è ostacolato da nessuna inibizione e da nessun senso di colpa. Egli decide con fierezza di essere un impenitente, di farsi gioco della verità, di mentire, di uccidere persino senza che questo mai scalfisca moralmente la sua anima.
Il desiderio di Don Giovanni ama la maschera, il trucco, l’artificio – che sono strumenti anche isterici –, non però, diversamente dalla pura isteria, per mantenere il suo desiderio nell’insoddisfazione, ma per portare il suo desiderio ad assomigliare il più possibile alla forza decisa della pulsione. È questo il lato dionisiaco e vitalistico della sua personalità. Sicché ai suoi occhi la legge del padre non può che essere un’impostura. Il suo essere libertino lo spinge a ripudiare senza appello la legge degli uomini nel nome di un’altra legge. Più di preciso, il suo massimo godimento consiste nel togliere l’onore alle sue prede per smascherare la donna come puro essere di godimento, per mostrare che dietro il sembiante del suo ruolo sociale o familiare, dei suoi titoli simbolici, non c’è altro se non il godimento della pulsione.
La legge degli uomini offusca una verità che l’impresa seduttiva del Don Giovanni vuole invece rivelare con disincanto: il godimento è la sola verità possibile dell’essere. In questo egli assomiglia al libertino sulfureo descritto dal marchese de Sade ne La filosofia nel boudoir. La sua parola d’ordine pone infatti il godimento non tanto come una trasgressione della legge, ma come la sua unica forma possibile e più coerente. L’imperativo è quello di eleggere il diritto al godimento senza limiti come unica espressione della legge al di là della legge – falsa e convenzionale – degli uomini:
spezza le tue catene a qualunque costo, disprezza le vane rimostranze di una madre imbecille, a cui non devi che odio e disprezzo […] Fotti, insomma, fotti: è per questo che sei al mondo. Nessun limite ai tuoi piaceri se non quelli delle tue forze e della tua volontà.14
Tuttavia il teatro perverso di Sade non coincide affatto con quello del Don Giovanni. Lo scenario brutalmente sadomasochista dello scrittore libertino lascia nell’eroico seduttore il posto all’estasi passionale di una sessualità – e di un erotismo – che sa godere pienamente di se stessa senza ricorrere all’esercizio maligno della violenza nei confronti delle sue prede. Allo stesso modo, la finalità paradossalmente educativa del libertino nei confronti delle sue vittime è totalmente assente nel Don Giovanni. A lui non interessa essere un maestro che conduce le sue donne a rifiutare tutte le convenzioni proprie della legge degli uomini per accogliere la nuova legge del godimento. Non c’è in lui nessuno slancio pedagogico, proprio perché la sua meta coincide con l’affermazione della forza assoluta della sua pulsione. Per questo egli non solo non sa amare, ma nemmeno gli interessa.
Il suo tratto narcisistico-dionisiaco consiste nel perseguire l’affermazione della sua volontà di godimento a discapito degli altri senza che questo possa in nessun modo adombrarlo o far sorgere in lui sentimenti morali di colpevolezza. È quello che, a suo modo, Massimo Mila ha giustamente definito come una “mancanza di interiorità”.15 Non a caso in Tirso de Molina il Don Giovanni appare come un eroe che non ha nome:“¿Quién soy? Un hombre sin nombre”.16
Al tempo stesso, però, la prossimità con il teatro sadiano consiste nell’obiettivo comune e prettamente perverso di disonorare la propria preda. È la massima che orienta il desiderio di Don Giovanni: “Il piacere massimo che infatti provo è di ingannare una donna e lasciarla senza onore”.17 È questo il colmo del piacere per il nostro seduttore: appropriarsi, prima che del corpo delle sue vittime, del loro onore. Spogliarle, prima che dei loro abiti, dei loro valori morali, delle convenzioni sociali di cui sono prigioniere, tra tutte, quella del matrimonio.
È anche questo un grande tema sadiano: tutto ciò che si riferisce al mondo della legge e delle convenzioni canoniche è un mondo fatto solamente di morte. La vitalità del desiderio di Don Giovanni esige di sfuggire a questo mondo lugubre che vorrebbe mettere a morte il desiderio. Per Don Giovanni è questo il mito morale e religioso della fedeltà e del matrimonio che deve essere assolutamente destituito e smascherato nella sua ipocrisia. Cosa ci sarebbe di più contronatura, di più opprimente che consegnare la forza erratica del suo desiderio alla passione rivolta a una sola donna? In gioco non è più tanto la dimensione isterica del desiderio. Il godimento del Don Giovanni mostra qui, invece, la sua dimensione perversa che non coincide con la provocazione e la trasgressione dei divieti imposti dalla morale comune o con il piacere ripetuto della conquista, ma con quello più specifico della degradazione dell’oggetto che, mentre dichiara di amare e di desiderare in modo assoluto, una volta posseduto sessualmente e strappato alla sua identità simbolica, viene lasciato cadere come uno straccio.
Il Don Giovanni si staglia come un vero padrone del godimento. È questo il suo secondo volto, accanto a quello isterico, il volto perverso. Il suo Super-io non si esprime mai in termini di dover-essere, non ha alcun afflato kantiano, ma risponde solo all’imperativo sadiano del godimento per il godimento. Tuttavia, diversamente dalla crudeltà sadiana egli non infierisce, né si lascia umiliare, non manifesta nessun desiderio sadico, né alcuna vocazione masochista. Ma il punto di prossimità resta quello di ergersi a sovrano del proprio godimento. Il che comporta anche l’esperienza fatale della solitudine, esito della sua fondamentale incapacità ad amare. È la stessa esperienza che ritroviamo in Sade, la cui morale, come si esprime Blanchot, citato da Bataille,
è fondata sul fatto essenziale della solitudine assoluta. Sade l’ha detto e ripetuto in tutte le forme: la natura ci fa nascere soli, non esistono rapporti di nessun tipo tra uomo e uomo. L’unica regola di condotta consiste dunque nel fatto di preferire tutto ciò che mi rende felice e di non tenere in nessun conto tutto ciò che dalla mia preferenza potrebbe risultare malvagio per gli altri.18
Il rifiuto della legge simbolica del padre, contrapposta perversamente a quella del desiderio, non può che trascinare Don Giovanni verso la sua distruzione. Nella versione di Mozart è ciò che conclude lo sviluppo dell’opera: il padre negato ritorna trasfigurato nella figura inquietante del convitato di pietra che getta l’impenitente Don Giovanni tra le fiamme dell’inferno. Sappiamo che questo ritorno avviene attraverso le spoglie di uno dei padri delle giovani donne ingannate, disonorate e possedute da Don Giovanni, che egli ha dovuto uccidere. Il padre che ritorna in forma spettrale convoca Don Giovanni di fronte alla sua maggiore colpa, ovvero quella di avere dissolto la propria vita nella rincorsa di un godimento fine a se stesso.
Si tratta di un esito moralistico della sua avventura? Quello che ritorna è il giudizio della legge che lo rimprovera per aver condotto una vita dissoluta, al di là del bene e del male? Oppure il principio di flessibilità incarnato dal Don Giovanni incontra fatalmente il suo opposto, il principio di una rigidità – incarnato nella statua di pietra – che annuncia il destino mortale dell’eroe?19 Non dovremmo invece vedere in questo finale il destino del godimento che non vuole tenere conto dei limiti imposti dalla legge della castrazione? La rovina fatale di una volontà di godimento che vuole imporsi come assoluta? È questo il punto dove l’isterismo di Don Giovanni – l’insoddisfazione permanente del suo desiderio – s’intreccia con la sua vocazione più profondamente perversa: liquidare la mancanza che attraversa l’essere umano negandola ogni volta con determinazione, sopprimere l’inquietudine del desiderio portandolo risolutamente alla sua meta, oltrepassare ogni pudore e ogni senso del limite lungo la via della sua realizzazione. Per questa sua infaticabile energia il mito del Don Giovanni non smette di attrarre. Non solo le donne, ovviamente. Quello che Lacan non ha considerato è che in ogni uomo la spinta al godimento è vissuta come una soluzione perversamente ideale della mancanza che invece il desiderio porta inevitabilmente con sé.
1. Cfr. M. Recalcati, I tabù del mondo, Einaudi, Torino 2017.
2. Questo tema meriterebbe un libro a parte. Su questo punto la lezione della psicoanalisi mi pare comporti conseguenze chiare: il genere non coincide con il sesso anatomico poiché l’anatomia non è un destino, la sessualità umana non coincide con identità essenziali stabilite all’origine (maschile/femminile) perché essa implica un processo di soggettivazione complesso dove, accanto all’anatomia, intervengono anche i dispositivi educativi e i condizionamenti familiari, sociali e culturali e, soprattutto, la “scelta inconscia” del sesso che eccede sempre sia la sua oggettiva determinazione anatomica, sia i condizionamenti ideologici promossi dal discorso educativo. Per un’ampia ricognizione di questo problema, vedi il recente E. Marty, Le sexe des Modernes. Pensée du Neutre et théorie du gendre, Seuil, Paris 2021.
3. J. Lacan, Il seminario. Libro xix … o peggio (1971-1972), tr. it. Einaudi, Torino 2020, p. 48.
4. In realtà Woody Allen, allenato, com’è noto, alla psicoanalisi, introduce nel suo racconto anche l’inconscio sebbene nella forma dell’istanza del Super-io, rappresentata da un prete che in modo imprevisto fa la sua pericolosa irruzione in cabina di regia provocando un abbassamento della tensione erotica dell’organo.
5. Cfr. R. Caillois, Il mito e l’uomo, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1998. J. Lacan, Il seminario. Libro x. L’angoscia (1962-1963), tr. it. Einaudi, Torino 2007.
6. Cfr. G. Pommier, Del buon uso erotico della collera e di qualche sua conseguenza, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2013, p. 140.
7. Cfr. P. de Sutter, “La sessualità senza la psicoanalisi”, tr. it. in C. Meyer (a cura di), Il libro nero della psicoanalisi, Fazi Editore, Roma 2006.
8. “L’archetipo della figura del Don Giovanni identifica la figura non del licenzioso cacciatore di donne, o del seduttore impenitente, ma quella del più radicale negatore del binomio in cui il cristianesimo compiutamente si esprime: amore come agape e morte come tramite per accadere all’incontro con Cristo.” Cfr. U. Curi, Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 88.
9. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro x. L’angoscia (1962-1963), tr. it. Einaudi, Torino 2007, pp. 217-218.
10. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro xx. Ancora (1972-73), tr. it. Einaudi, Torino 1983, p. 11.
11. Tirso de Molina, L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra, tr. it. in M. Socrate, M.G. Profeti, C. Samonà (a cura di), Teatro del “Siglo de oro”, Garzanti, Milano 1991, p. 567.
12. È questo il fondamento dell’ateismo del Don Giovanni di Tirso de Molina che demolisce i principi dell’amore cristiano per il prossimo e della superiorità dell’anima rispetto alle esigenze del corpo – ovvero i due caposaldi più tradizionali della teologia cristiana –, come mette giustamente in evidenza Umberto Curi. Cfr. U. Curi, Filosofia del Don Giovanni, cit.
13. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro x, cit., p. 217.
14. D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, tr. it. es, Milano 1992, p. 40.
15. M. Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Einaudi, Torino 1988, p. 10.
16. Tirso de Molina, L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra, cit., p. 381.
17. Ibidem, p. 491.
18. M. Blanchot, Lautréamont et Sade, Minuit, Paris 1949, p. 220; citato in G. Bataille, L’erotismo, tr. it. Mondadori, Milano 1978, pp. 178-179.
19. Cfr. G. Bottiroli, Le incertezze del desiderio. Scritti brevi su strategia e seduzione, ecig, Genova 2005, pp. 66-67.
L’infanzia insuperabile del sesso
Un discorso inedito sulla sessualità
Sappiamo che la psicoanalisi è nata con Freud come un discorso inedito sulla sessualità umana. Innanzitutto egli ha mostrato come vi sia una vera e propria vita sessuale già nei primi anni di vita del bambino. Questa sessualità non si struttura sul fondamento naturale dell’istinto, ma sul carattere perverso-polimorfo della pulsione pregenitale. Gli orifizi del corpo del bambino non sono solo deputati a svolgere delle funzioni organiche, necessarie all’autoconservazione della vita, ma sono zone erogene dove si condensa il godimento sessuale del soggetto. Succhiare compulsivamente parti del proprio corpo o degli oggetti, trattenere con ostinazione le proprie feci, strofinarsi i genitali ecc. sono comportamenti che denunciano l’esistenza di un’attività sessuale non ancora monopolizzata dal primato della sessualità genitale.
In questo modo si palesa pienamente la natura extraistintuale della sessualità umana che appare ancorata alla ricerca del godimento autoerotico del proprio corpo e, come tale, eccentrica rispetto alle esigenze della mera riproduzione naturale della specie. Il bambino perverso-polimorfo gode del suo corpo, dei suoi orifizi e della loro manipolazione senza avere alcun’altra finalità che questa. Il godimento non serve, infatti, a niente se non a godere. La bussola dell’istinto viene soppiantata da pratiche pulsionali, gusti, predilezioni, montaggi, esigenze sessuali singolari.
Con l’idea dell’esistenza di una sessualità infantile perversa-polimorfa Freud acquisisce un punto decisivo per la comprensione della sessualità umana: la sua finalità è ottenere un godimento singolare che non obbedisce alle leggi universali dell’istinto naturale. È ciò che giustifica la differenza strutturale tra l’istinto e la pulsione. La sessualità umana non è istintuale ma pulsionale. Nel lessico di Freud, “pulsione” si dice Trieb e non Instinkt, parola tedesca che deriva dal verbo treiben che letteralmente significa “spingere”. La pulsione sessuale in se stessa non è altro che una spinta non a riprodurre la specie, ma a riprodurre se stessa, la propria stessa attività, il proprio stesso moto autoerotico.1 Sicché la pulsione sessuale, diversamente dall’istinto, non vuole altro che godere, non ricerca altro se non la ripetizione del suo proprio godimento che diviene fine a se stesso.
Se la pulsione implica una lacuna rispetto al carattere compiuto dell’istinto – il suo montaggio è surrealista e non realista come quello dell’istinto, ha affermato una volta Lacan –, essa oltrepassa il semplice edonismo naturalistico dell’animale. Il sesso nell’animale resta piegato all’esigenza istintuale della riproduzione, vincolato alla legge della natura, mentre la meta della pulsione sessuale dell’uomo riflette la sua autonomia anarchica rispetto a questa legge.
In questo senso la pulsione implica sempre una tensione e, al tempo stesso, la necessità della sua scarica. Per questa ragione “economica” essa appare come un movimento che disturba l’equilibrio interno dell’apparato psichico. Per Freud la finalità di questo apparato consisterebbe nell’evitare quelle tensioni che possano alterarne il suo funzionamento omeostatico. L’esistenza della spinta pulsionale porta sempre con sé la perturbazione di questo equilibrio. Nondimeno, se la tendenza fondamentale dell’apparato psichico consiste nell’evitare le tensioni che rischiano di alterare il suo equilibrio omeostatico, possono però esistere anche tensioni paradossalmente piacevoli, com’è il caso della pulsione sessuale. La sessualità costituirebbe così il paradosso dell’esistenza di una tensione interna che perturba il nostro equilibrio e che però si rivela desiderabile e fonte di piacere. È il carattere doppio della pulsione sessuale: da un lato essa è una tensione interna che sconvolge il nostro equilibrio, dall’altro lato, è una tensione che può provocare, se appagata, una soddisfazione piacevole.
Per questo Lacan introduce il concetto di godimento per definire il fine proprio della pulsione. Si tratta di un piacere che non esclude affatto la tensione, ma la implica. È quello che accade con la pulsione sessuale. Al tempo stesso, il moto della pulsione è sempre coordinato a un fantasma inconscio. Non è, dunque, la spinta della pulsione in sé a determinare l’organizzazione della vita sessuale, ma il fantasma inconscio che struttura il desiderio del soggetto. Ancora una volta in primo piano vi è la differenza profonda che disgiunge l’istinto dal desiderio sessuale. Mentre il primo, come abbiamo visto, risponde a una legge biologica, invariabile, costante per tutti gli esseri viventi, il secondo non ha nulla di comune, non riflette alcuna legge, ma si declina in modi singolari sul fondamento delle nostre prime esperienze infantili, che hanno sedimentato delle tracce mnestiche attorno alle quali si è strutturato il nostro fantasma inconscio.
La grande scoperta di Freud non consiste allora nell’avere semplicemente mostrato l’esistenza di una sessualità infantile, perverso-polimorfa, pregenitale, organizzata sugli orifizi orali, anali e fallici del corpo pulsionale. Il suo contributo più fondamentale non è stato tanto quello di mostrare che il bambino non è un essere angelicato, ma un soggetto che vive il proprio corpo come un corpo sessuale. Nella stessa epoca infatti altri pedagogisti e psicologi avevano visto con chiarezza l’esistenza di una sessualità infantile di tipo pregenitale. L’idea davvero sovversiva proposta da Freud è un’altra. Essa consiste nel considerare la sessualità adulta come esito di quella infantile, come una sorta di suo prolungamento. Lo schema linearmente evolutivo dello sviluppo psicosessuale viene così stravolto: la sessualità genitale non arriva semplicemente dopo quella pregenitale come fosse un suo superamento maturativo. La sessualità adulta non è quella che privilegiando gli organi genitali si libera dai godimenti perversi-polimorfi che avevano contrassegnato la sessualità infantile. La sessualità pregenitale del bambino non è una semplice fase dello sviluppo destinata a essere superata dalla caratterizzazione genitale della sessualità.
La tesi sconcertante avanzata da Freud è che ciò che informa la sessualità della vita adulta sono le fissazioni pregenitali della pulsione sessuale infantile; sono, in altri termini, le fissazioni infantili della pulsione sessuale. Sicché la sessualità umana in quanto tale è sempre infantile, inseparabile dai fantasmi originari che l’hanno istituita. Dobbiamo così necessariamente ridimensionare l’idea della sessualità genitale come il frutto più maturo dell’evoluzione psicologica della sessualità umana: la sessualità umana non può essere ridotta al primato dei genitali, la sessualità dell’adulto non può essere mai del tutto scorporata da quella infantile.
Lo scenario del fantasma
La pulsione sessuale è sempre mediata e orientata da un fantasma singolare. Definiamo “fantasma” il modo inconscio attraverso il quale le esperienze infantili della sessualità si sono organizzate in ciascuno di noi dando luogo a uno scenario indispensabile per inquadrare e rendere possibile l’eccitazione e il soddisfacimento sessuale. Ogni parte del corpo può così assumere, senza rispondere ad alcuna gerarchia o normativa genitale, il potere di mettere in moto il desiderio sessuale. È solo a partire dall’organizzazione fantasmatica del desiderio che diviene possibile spiegare certe predilezioni e comportamenti sessuali o la presenza di determinate pratiche erotiche piuttosto di altre.
Mentre l’istinto non è guidato da nessun fantasma inconscio – l’istinto è per definizione privo di fantasma –, ma dalla semplice legge della natura, il desiderio sessuale è invece sempre orientato dal fantasma inconscio. Il primo implica comportamenti e reazioni comuni, ricorrenti, mentre il secondo definisce il modo singolare di ciascuno di entrare in rapporto al proprio corpo sessuale e a quello del suo partner. Il piacere sessuale non sorge spontaneamente dalla natura dei corpi, dalla loro anatomia oggettiva, ma dalla mediazione necessaria del fantasma inconscio che organizza il desiderio di ciascuno. Questo fantasma dà forma al desiderio singolare convertendo i corpi in strumenti di piacere e di godimento.
Se non esistesse il filtro del fantasma i corpi umani sarebbero, come quelli degli animali, governati dal solo istinto. Si accoppierebbero l’uno con l’altro, ma non potrebbero, come si dice, “fare l’amore”, non potrebbero, cioè, sperimentare l’esistenza del corpo in quanto erotico. Perché questo avvenga è necessaria la deformazione metamorfica che il fantasma introduce nei corpi della natura. Di qui il carattere irresistibile che possono assumere certe pieghe, forme o persino dettagli del corpo, come, del resto, certe pratiche sessuali che non si esauriscono affatto nel congiungimento genitale dei corpi. Il corpo-erotico esorbita infatti il corpo-organismo. Nel corpo-erotico tutto è sottosopra, tutto è stravolto dall’irruzione anarchica della pulsione e del desiderio. In questo senso in una celebre lettera a Fliess, Freud ha scritto che ogni atto sessuale è un evento che implica almeno quattro persone.2 Non ci sono solo i due amanti ma ciascuno dei due è accompagnato, nel suo inconscio, dal proprio fantasma. A sottolineare il fatto che non esiste né vita sessuale né rapporto sessuale che non sia mediato dall’interferenza del fantasma inconscio e che tale fantasma implica, innanzitutto, il riferimento alla bisessualità attivo-passiva di ciascuno. Nella prospettiva di Freud è la presenza inconscia della bisessualità che comporta che nella vita erotica i confini tra l’attivo e il passivo, il maschile e il femminile, l’essere soggetto e l’essere oggetto saltino, vengano travolti da una forza che non accetta di essere canalizzata in compartimenti stagni. Si è sempre, insomma, più di due, più di attivo e passivo, più di maschio e femmina, più di soggetto e oggetto. È la natura labirintica, sempre sdoppiata, alterata, disturbata, del corpo erotico rispetto a quello istintuale-animale. Per questa ragione il godimento non può essere ridotto al tempo della scarica pulsionale perché più che dall’organo in sé esso scaturisce dall’interferenza del fantasma sul corpo. La vita erotica è fatta di una geografia che non combacia quasi mai con quella dell’anatomia. È ciò che giustifica un concetto politicamente divenuto decisivo come quello dell’identità di genere: la sessualità del soggetto non coincide necessariamente con la sua anatomia, ma dipende dalla scelta inconscia del sesso che, come tale, è sempre singolare.
Lo schematismo istintuale dell’accoppiamento genitale è radicalmente alterato dallo scenario imposto dal fantasma. Come vedremo ampiamente nel prossimo capitolo, è questo un altro significato possibile del celebre aforisma di Lacan secondo il quale “non esiste il rapporto sessuale”. Questo rapporto non esiste perché il fantasma non mette in rapporto i godimenti dei due partner, ma organizza solo il godimento singolare di uno dei due. Non si dà infatti possibilità di stabilire un rapporto tra fantasmi. Piuttosto, se si vuole, un loro incastro. Il fantasma dell’uno si può, o meno, incastrare in quello dell’altro: la spinta a godere di una determinata parte del corpo o a praticare variazioni sessuali rispetto all’accoppiamento genitale, dettata dal fantasma, può favorire e potenziare il godimento del rapporto tra i due. Si tratta, se si vuole, di una vera e propria messa in scena: il fantasma può convertire quello che non per tutti è universalmente piacevole (stringere, picchiare, insultare, baciare, succhiare, leccare, carezzare, afferrare), in un’attività erotizzata.
L’attrazione erotica si accende intorno a determinati dettagli del corpo; il desiderio erotico tende a elevare una parte del corpo dell’altro al rango dell’assoluto. È il carattere feticistico che pervade ogni forma di erotismo: prendere la parte come se fosse il tutto. Più di preciso, l’esistenza del desiderio erotico comporta che non sia più tanto il mio desiderio a dirigersi verso il corpo dell’altro, ma che sia quel corpo (o qualche suo dettaglio) ad attirarmi irresistibilmente verso di sé. Sicché, a rigore, come direbbe Lacan, il corpo dell’altro non è tanto l’oggetto del desiderio, ma ciò che causa il desiderio, è un oggetto “causa del desiderio”.
Libido e linguaggio
Quello che unisce gli esseri parlanti dal punto di vista della sessualità non è affatto l’istinto ma, come direbbe Freud, la libido. Ora, la libido non è un’energia pura. Piuttosto è il risultato dell’azione di perturbamento che il linguaggio esercita sull’organismo vivente. Questa azione, se volessimo riassumere, è, almeno per un verso, un’azione di castrazione: il linguaggio impone al corpo umano la perdita di una quota di libido come sua condizione necessaria per sessualizzarsi.
Una libido che non si sessualizza e che, dunque, rifiuta la legge della castrazione è, per esempio, quella del soggetto perverso: una libido che si propone come un’assoluta volontà di godimento, priva di erotismo, senza limiti, senza legge, senza, appunto, castrazione.3 Diversamente la sessualizzazione della libido implica che essa ruoti attorno a un punto di mancanza: Adamo non recupererà mai la sua costola perduta in Eva, Achille non raggiungerà mai la tartaruga, i Due non potranno mai fare Uno. È l’intervento del linguaggio che snatura l’istinto trasfigurandolo nella pulsione.
Per il Freud dei Tre saggi sulla teoria sessuale si tratta innanzitutto di un’azione di limitazione della sessualità che viene necessariamente imposta in primis dal discorso educativo: la libido è costretta a staccarsi progressivamente dai suoi oggetti (orale, anale, fallico) per raggiungere la propria meta genitale: lo svezzamento, l’educazione sfinteriale, la cura del proprio corpo ecc. sono tutte forme attraverso le quali la limitazione educativa della sessualità infantile si iscrive nel corpo del bambino. Al tempo stesso, questa azione lascia costantemente resti, residui, fissazioni pregenitali della libido – è, come abbiamo visto, il carattere insuperabile della sessualità infantile – che erogenizzano gli orifizi del corpo dai quali questi oggetti si separano.
Da questo punto di vista la legge della castrazione unifica i sessi perché non consente alla sua applicazione alcuna eccezione: gli esseri umani in quanto esseri di linguaggio sono tutti egualmente sottomessi al carattere normativo di questa legge. Anche per questa ragione la libido, secondo Freud, non risponde al criterio della differenza sessuale. L’indifferenza della libido precede ogni tipo di differenza sessuale, rendendo possibile la presenza simultanea del maschile nel femminile e viceversa, insieme alla possibile transizione tra l’uno e l’altro di questi due poli. La distinzione dei generi è un dato che scaturisce dalla soggettivazione culturale e singolare dell’anatomia, ma non scaturisce affatto dall’esistenza originaria di due distinte libido. Se la libido non conosce differenza sessuale, esistono tuttavia vie distinte della sessuazione che però non coincidono necessariamente con la differenza tra i sessi anatomici. Non si tratta, infatti, di definire una differenza tra due essenze (maschile e femminile), ma di distinguere modi differenti della sessuazione soggettiva dell’anatomia oggettiva del corpo. La forza monistica della libido può acquisire forme e modi differenti: prevalentemente quella maschile e quella femminile. Sicché non esiste un’essenza-uomo e un’essenza-donna, poiché sia l’uomo che la donna sono egualmente confrontati alla legge della castrazione.
L’angoscia di castrazione non deriva dalla minaccia cruenta dell’evirazione, quanto piuttosto dall’impatto del corpo con l’azione di limitazione introdotta dal linguaggio, che rivela che non esiste alcuna essenza del sesso. Ciascun essere umano deve infatti inventare la propria sessuazione a partire da questo vuoto. Nella sessuazione-donna (che, ripeto, non corrisponde alla natura originaria del sesso anatomicamente femminile) questa invenzione è resa più precaria perché essa non si affida alla solidità identificatoria del fallo.
Una mia giovane paziente isterica di fronte alla sua identità sessuale non si limitava a interrogarsi se fosse davvero donna o uomo – come accade classicamente nell’isteria –, ma si chiedeva, al colmo dell’angoscia: “Io esisto veramente?”. Segno che il problema non era solo quello di essere uomo o donna, ma, innanzitutto, quello di “essere”. La donna è, da questo punto di vista, un soggetto assai più diviso dell’uomo perché sperimenta più da vicino l’angoscia della castrazione, in quanto priva dell’ormeggio dell’identificazione fallica.4
L’incidenza del linguaggio sulla libido mostra che siamo obbligati dal discorso educativo ad abbandonare il seno, le nostre feci, l’illusione narcisistica di essere il fallo; siamo obbligati a vestire il nostro corpo ricoprendone la nudità, a preservare la sua pulizia, a tagliare i nostri capelli ecc. Il mito del buon selvaggio non può trovare alcun diritto di cittadinanza in psicoanalisi. L’esaltazione del nudismo, del corpo animale, della pulsione come forza o energia che precederebbe il linguaggio è, paradossalmente, una costruzione del tutto ideologica. Al tempo stesso, il linguaggio interviene snaturando il corpo dell’organismo vivente, introducendo in esso un godimento in eccesso che disturba ogni supposto equilibrio naturale. Questo godimento innaturale, eccentrico all’istinto, è provocato anch’esso dal linguaggio che dunque esercita un’azione doppia e paradossale: limita il godimento attraverso la legge della castrazione ma, al tempo stesso, lo accende, lo stacca dall’istinto, lo perverte.
Quando Lacan afferma che il corpo umano è “il luogo dell’Altro” intende sottolineare che il nostro corpo non può essere soltanto ridotto a un dato della natura poiché esso non è solo il risultato dell’anatomia, ma anche della sua sottomissione al linguaggio e ai suoi tagli simbolici, e dalla sua ripresa nel carattere singolare della sessuazione. Contestualmente, però, egli vuole rimarcare anche il fatto che il corpo umano gode di se stesso come se fosse un Altro, gode sempre al di là del naturalismo elementare dell’istinto poiché l’azione del linguaggio ha reso la sua superficie perversa-polimorfa.
Il risveglio di primavera
Nel tempo dell’infanzia il corpo sessuale è autoerotico, nel senso che trova sulla sua stessa superficie gli orifizi che condensano il suo godimento. Il bambino gode del proprio corpo attraverso il proprio stesso corpo. Il giro della pulsione si chiude su se stesso. Inizia come una tensione del corpo che si placa attraverso il proprio corpo. Sappiamo come l’irruzione della pubertà sparigli le carte: l’autoerotismo non scompare, ma si integra con la possibilità inedita di incontrare il corpo sessuale dell’Altro. Questo incontro non è mai naturale, ma genera il turbamento del desiderio. Non esiste infatti desiderio che sia autoerotico. Il desiderio come tale si dirige sempre verso l’Altro, è desiderio dell’Altro desiderio, è desiderio del desiderio dell’Altro, come ha spiegato a lungo Lacan.
La pubertà non è solo trasformazione dei caratteri del corpo sessuale, ma è apertura alla vita del desiderio sessuale che implica la necessità di una soddisfazione pulsionale non del tutto riducibile all’autoerotismo. Il corpo dell’Altro è vissuto come un paese straniero che il soggetto desidera ardentemente visitare pur non conoscendone la lingua. Infatti il corpo dell’Altro non parla mai la stessa lingua del mio corpo. Il risveglio di primavera della pubertà si associa allora all’inquietudine e allo slancio dell’adolescenza verso il corpo dell’Altro e la sua nuova lingua. Come il mondo allarga il suo orizzonte perché non può più essere contenuto nell’orizzonte della famiglia, allo stesso modo i confini della vita erotica non possono più coincidere con quelli autoerotici del proprio corpo, ma si estendono implicando in modo nuovo il corpo e il desiderio dell’Altro. È un’esperienza emotiva profonda: mentre nell’infanzia il bambino raggiunge il proprio godimento attraverso il suo stesso corpo (succhiando le sue dita o altri oggetti, trattenendo le feci o praticando stimolazioni onanistiche della zona genitale), il risveglio di primavera dell’adolescenza – sospinto dalle trasformazioni puberali del corpo – mette in crisi il solipsismo di quel primo godimento esigendo l’incontro sessuale di un corpo straniero.
Ma l’infanzia non è solo il luogo di un autoerotismo pregenitale. È anche il luogo dove si formano i fantasmi inconsci del soggetto che, come abbiamo visto, strutturano inconsciamente il desiderio sessuale. Nel tempo dell’adolescenza si riattivano, dunque, non solo le tracce pregenitali del godimento autoerotico infantile, ma anche i fantasmi che le hanno organizzate. Le contorsioni della vita sessuale adulta – come ha insegnato Freud – si generano dalle tracce di quella infantile che, come abbiamo visto, lungi dall’essere una semplice tappa dello sviluppo pulsionale, è un’incidenza permanente che organizza inconsciamente la sessualità adulta.
La maturazione della vita sessuale non coincide con la separazione dalla sessualità infantile, ma con una sua elaborazione secondaria che tiene conto delle trasformazioni puberali e del modo con il quale è stato vissuto il passaggio adolescenziale. Tuttavia, l’autorizzazione al desiderio erotico dipende dall’elaborazione del lutto del fallo. Questo accade sia sul lato maschile sia su quello femminile. In entrambi i casi ricorre, infatti, la necessità primaria di separarsi dall’essere l’oggetto del desiderio della propria madre. Questa separazione implica sia per il bambino sia per la bambina la rinuncia a essere l’oggetto – il fallo immaginario, nel lessico di Lacan – che colma la mancanza dell’Altro. Il primo passo verso l’assunzione soggettiva del proprio desiderio sessuale consiste nel sottrarsi dall’essere l’oggetto esclusivo posseduto dal desiderio dell’Altro. Si tratta di una vera e propria perdita d’essere. La bambina e il bambino devono accettare di non esaurire il mondo dei loro genitori, né di essere ciò che dà senso a quel mondo. È un movimento sincronico che investe sia il soggetto sia l’Altro: il soggetto si separa dall’Altro tanto quanto l’Altro si separa dal soggetto.
Il lutto della perdita di “essere tutto” per l’Altro da parte del bambino corrisponde alla perdita che l’Altro deve subire del bambino come suo oggetto esclusivo. Il taglio che attraversa il bambino e l’Altro stacca una parte del soggetto e una parte dell’Altro imponendo un lutto reciproco che riguarda l’essere: il bambino non può essere l’essere che fa essere l’Altro e, da parte sua, l’Altro non può essere il proprietario esclusivo dell’essere del bambino.
Se questo lutto accomuna il destino della bambina e del bambino, per poter soggettivare il desiderio sessuale è necessario un secondo tempo che tiene conto delle differenti sessuazioni maschile e femminile. Nel caso della sessuazione maschile, il lutto dell’essere renderà possibile l’esercizio dell’avere. Il diritto di usare il fallo come strumento di godimento diventa possibile solo grazie all’elaborazione del lutto di esserlo per l’Altro.5 Un’eccessiva adesione all’essere il fallo impedisce, infatti, la possibilità di avere il fallo. Solo la rinuncia narcisistica dell’essere apre alla possibilità di averlo e di donarlo nella relazione sessuale. Un irrigidimento eccessivo dell’essere comporta invece lo sviluppo di un narcisismo che danneggia la possibilità della relazione.
È il caso di un mio paziente che è stato davvero sottoposto al “servizio sessuale della propria madre”,6 la quale, da giovane vedova, aveva rimpiazzato letteralmente la vita del marito tanto amato e perduto con quella del suo unico figlio maschio riuscendo così a ridare un senso al suo mondo devastato dal lutto. Nondimeno per questo bambino l’essere stato sequestrato dalla madre ha comportato continue difficoltà nello sviluppo come, per esempio, quelle relative all’apprendimento. La sua difficoltà ad assimilare il sapere era dovuta all’essere stato sommerso dal sapere materno, a essere un suo mero prolungamento. Sua madre programmava la sua vita in modo meticoloso, pianificato, non lasciando mai nulla al caso. Sapeva fare ogni volta la cosa giusta per il proprio figlio. Di fronte ai suoi insuccessi scolastici, ella rincarava la dose insultandolo e rimproverandolo per la sua inadeguatezza. Quando il figlio si trovò nella giovinezza ad affrontare le prime relazioni sentimentali e sessuali il giudizio che aveva tormentato la sua infanzia ritornò a imporsi prepotentemente. Si sentiva giudicato insufficiente dalle donne, avvertiva di non essere capace di piacere, di essere totalmente bloccato nel suo desiderio. I primi rapporti sessuali furono caratterizzati da difficoltà nel mantenimento dell’erezione. Quando mi descriveva quelle prime esperienze di grande frustrazione raccontava che era come se sentisse la voce della madre nella sua testa ripetere: “Sei un incapace!”.
Assai diverso è lo sviluppo psicosessuale della bambina. Nella sessuazione femminile il lutto necessario dell’essere si complica perché la bambina è più in difficoltà rispetto al bambino nel separarsi dalla propria madre, in quanto la madre si rivela sia come oggetto d’identificazione sia come oggetto d’amore, mentre nel bambino questi due oggetti sono sin dall’origine disgiunti (l’oggetto d’amore è la madre mentre l’oggetto d’identificazione è il padre). Sicché perdere il proprio essere – non essere più l’essere che colma e giustifica l’essere della madre – comporta una caduta della propria tenuta narcisistica. Di qui la difficoltà delle bambine nel separarsi dalle proprie madri. Mentre nel maschio la perdita d’essere viene compensata dall’acquisizione dell’avere fallico, nella bambina questa perdita coincide con una perdita d’avere. Sono i rimproveri aggressivi di ogni genere che spesso le figlie rivolgono alle loro madri dietro i quali c’è, in realtà, una sola accusa: non avere dato loro la chiave di accesso alla femminilità.
Una mia paziente racconta che, fin dall’adolescenza, durante i suoi rapporti sessuali vedeva nel volto dei suoi partner la faccia di sua madre. Figlia unica, è stata cresciuta sottoposta alla preoccupazione spasmodica per la sua salute da parte di sua madre che l’ha avuta avanti negli anni e, essendo medico di professione, si è occupata del corpo della figlia con grande scrupolo. Una seria malattia infantile aveva ulteriormente esasperato questo atteggiamento. Nell’età della pubertà la madre ha istruito in anticipo la figlia su come affrontare adeguatamente e consapevolmente le relazioni sessuali. La paziente descrive il profondo amore che la lega a sua madre, nonostante avverta la sua presenza come eccessivamente invadente. L’affetto e la stima che prova per lei sono incrollabili, diversamente dal giudizio che dà del padre, uomo superficiale, dedito solo a se stesso. Dopo le prime avventure sessuali adolescenziali, la mia paziente si innamora di un uomo col quale appare per la prima volta il sintomo della comparsa del volto della madre durante il rapporto sessuale. La paziente vive questa presenza con tale angoscia che molto spesso deve interrompere il rapporto. Questo sintomo si ripresenta in seguito solo con gli uomini che sente di amare e non, invece, con quelli coi quali ha solo degli scambi sessuali. A prima vista sembra un paradosso, poiché il volto carico di rimprovero della madre sarebbe più logico che apparisse quando si trova impegnata in relazioni sessuali senza amore, essendo la madre una donna moralmente rigorosa che concepisce le relazioni sessuali solo all’interno di rapporti affettivamente stabili. L’analisi le rivela invece che questo accade perché la sua colpa inconscia è quella di staccarsi da sua madre amando un altro uomo più di quanto possa amare la madre stessa. Il vero intruso è, dunque, l’uomo dell’amore che le impone il lutto della madre. Una resistenza della paziente a compiere questo lutto provoca il sintomo dell’apparizione del volto materno che le chiede di non abbandonarla, di restare per sempre con lei.
In un’altra paziente il suo fantasma le imponeva il copione di dover risultare “irresistibile a letto”. Al centro non era mai il suo desiderio, ma come fare per soddisfare quello dell’altro. Risultare particolarmente focosa e disinibita facendo godere il proprio partner non era tanto il suo modo di godere, ma la condizione per sentirsi esistere attraverso il godimento dell’altro. In questo modo il suo fantasma compensava l’essere sempre stata scartata dalla propria madre come insignificante rispetto al proprio fratello maggiore. Far godere il proprio uomo era per lei un modo per farsi amare, per avere un valore per l’altro, per essere riconosciuta come soggetto doveva incarnare in modo sempre sorprendente l’oggetto.
Le parole “fanno” il corpo sessuale
Come abbiamo visto, il nostro corpo porta con sé i marchi impressi dai significanti dell’Altro, le tracce dei primi godimenti infantili che la vita sessuale adulta riattiva, sottraendole all’oblio della rimozione. Una mia paziente che aveva vissuto con una coppia di genitori troppo occupati nel loro lavoro per dedicarsi alle sue cure, scopre molto precocemente il piacere dello strofinarsi i genitali sul divano di casa. L’accentuazione del piacere autoerotico compensa la frustrazione della sua domanda d’amore. Nell’età della giovinezza questa attività prosegue parallelamente alla maturazione della cosiddetta sessualità genitale. Nel rapporto con l’altro sesso, però, non riesce a godere. In particolare, sentirsi innamorata la inquieta, la blocca, agisce su di lei come un freno al suo godimento sessuale. Vive, dunque, ogni incontro amoroso come un rischio che non può permettersi. Stacca in questo modo la sua sessualità dal rapporto, confinandola in un autoerotismo che non è solo quello che continua a esercitare sul proprio corpo, ma è anche quello che ripete nei rapporti sessuali con uomini che però non deve amare. È questa per lei la sola condizione soggettiva per accedere al godimento.
In questo caso è evidente l’incidenza del fantasma infantile che le ha consentito di supplire il dolore provocato dall’assenza dei suoi genitori: il godimento sessuale come rimedio alla frustrazione della domanda d’amore. Il desiderio sessuale può allora apparire come una sua difesa nei confronti dell’amore. L’assillo sul godimento esorcizza l’inevitabile esposizione che caratterizza il discorso amoroso. Per spegnere l’angoscia della mancanza e della dipendenza dal partner che ripete quella infantile dai suoi genitori, il soggetto ricorre a una sorta di coazione solitaria a godere.
Più dell’anatomia sono, dunque, le parole dell’Altro che danno forma al nostro corpo. Le parole non sono solo ciò che il nostro corpo emette attraverso la voce, ma sono anche proiettili che colpiscono il nostro corpo contribuendo a forgiarne la singolarità. Pensiamo, per fare un esempio chiaro, alle parole “bello” e “brutto”. Sentire di avere un corpo bello o brutto non dipende tanto dalle sue fattezze oggettive. Non è difficile, infatti, incontrare persone che nel proprio corpo si trovano male pur essendo oggettivamente belle e persone che, al contrario, si trovano bene nel loro corpo pur essendo oggettivamente poco attraenti. Esistono soggetti con fattezze che non spiccano per armonia e che si sentono assolutamente in pace con la loro immagine e persone, soprattutto donne, che pur essendo assolutamente adeguate al canone estetico della bellezza, si sentono terribilmente brutte e inadeguate. Sentirsi belli o brutti non risponde mai, quindi, a un solo criterio oggettivo, ma riflette un vissuto più profondo spesso scollegato dall’oggettività dell’anatomia. Questo significa che l’immagine del corpo è sempre fabbricata dai significanti dell’Altro. Per esempio, da come lo sguardo dell’Altro ha reso l’immagine del nostro corpo più o meno amabile.
Una mia paziente ogni volta che si spogliava di fronte ai suoi partner aveva l’impressione di irrigidirsi, di diventare di pietra. Calava così sul suo corpo la scena infantile dello sguardo severo di sua madre che, avendo ripudiato la propria sessualità immolandosi a un’esistenza sacrificale, di conseguenza, non poteva tollerare l’emergere di quella della figlia. La comparsa delle forme sessuali del corpo di questa ragazza nella pubertà coincise infatti con l’incupirsi del volto materno, con un distacco, una gelificazione della loro relazione. Il rifiuto materno della propria sessualità si esteriorizzava come odio aperto e rifiuto nei confronti della sessualità della figlia.
Un’altra mia paziente che si avviava verso i cinquant’anni viveva la profonda angoscia di fronte allo sfiorire della propria bellezza. In questo modo ella temeva di ripercorrere inesorabilmente il destino della propria madre che, una volta perduta la bellezza della giovinezza, per tutto il resto della sua vita aveva dovuto subire l’indifferenza acida di suo padre. Quando si rivolge a me è appena stata lasciata da un uomo più giovane. Ogni volta che un uomo la lascia il suo sentimento di disvalore si rende insopportabile. Ogni volta che subisce la ferita dell’abbandono rivive la ferita che ha contrassegnato il suo innamoramento edipico per il padre. A undici anni si accorge, dopo un pessimo voto preso a scuola, che non è più tra le migliori della sua classe. La perdita di questa condizione ha un profondo effetto sul padre che sino a quel momento l’aveva adulata per le sue capacità intellettuali e che da lì in avanti inizierà a chiamarla “cretina”. È questa una parola-proiettile che scava nel suo essere una lesione profonda. Solo con la pubertà la paziente potrà riacquisire un suo valore, ma non più attraverso le prestazioni scolastiche, bensì grazie allo sbocciare della sua bellezza. Attraverso la bellezza cerca affannosamente l’amore per compensare la ferita narcisistica infertale dal padre. Diventa ben presto un oggetto di conquista per i suoi innumerevoli corteggiatori, sentendosi come prigioniera della sua immagine. La prima e più significativa relazione d’amore finisce con la morte traumatica per un incidente stradale del suo fidanzato. In una seconda relazione, altrettanto importante, viene letteralmente lasciata poco prima di un matrimonio già organizzato in tutti i suoi dettagli. Da allora in avanti sfrutta la sua bellezza per avere partner più giovani, in modo da bloccare inconsciamente lo scorrere del tempo preservando la sua immagine di ragazza. Ma ora che si avvicina ai cinquant’anni sente cadere l’involucro narcisistico dell’immagine fallica con il quale ha rivestito il suo essere. Quest’immagine si disfa e avverte di sprofondare nel nulla: “Ora che la bellezza se n’è andata, cosa mi resta?”, si chiede sconsolata.
Nei rapporti sessuali gode solamente pensando di far godere il suo partner. Ripete in questo modo l’alienazione al padre idealizzato della sua infanzia che cercava di soddisfare in tutti modi, mostrandosi sempre come la “prima della classe”. In realtà, nel rapporto sessuale è sempre assente, sempre altrove, perché tutta rivolta a soddisfare il godimento del suo partner come se fosse una “macchina che dà piacere”, dimenticandosi del proprio corpo. Narcisismo e depressione si alternano: perdere il prestigio della sua immagine narcisistica significa cadere nel buco della depressione, ma per rialzarsi da questo buco deve rigonfiare nuovamente la sua immagine narcisistica attraverso prestazioni sessuali che sanno far godere il partner di turno. Ma si tratta di una manovra dal fiato corto: in un sogno, si trova nel letto con un uomo che mentre ha con lei un rapporto anale violento, le sussurra nell’orecchio: “Sei una cretina!”.
Un uomo sui trent’anni si rivolge a me a causa di un’impotenza sessuale. Dopo aver incontrato diversi sessuologi si rassegna a interpellare uno psicoanalista senza più molte speranze di recuperare la sua virilità compromessa. Nelle prime sedute mi riferisce, tra le altre cose, che faceva uso di farmaci deputati a incentivare la sua capacità erettile. Ma quello che poi immancabilmente accadeva quando otteneva l’erezione era la sensazione che il proprio organo non gli appartenesse: il pene beneficiava del farmaco, ma restava scollegato dal suo desiderio. Con l’assunzione dei farmaci sperimentava quella che egli stesso definiva come una “strana dissociazione” che lo perturbava profondamente. “Il mio organo in un modo o nell’altro non è mai collegato con il mio desiderio”, diceva. Ora, questo scollegamento non può essere risolto dalla chimica perché è l’indice di una difficoltà ad avere il fallo legata, in questo caso specifico, a una prevalenza dell’essere stato il fallo nei confronti della propria madre. La storia di quest’uomo è dominata da una madre che dopo la sua nascita ha allontanato il padre dal letto coniugale dedicandosi integralmente alle cure del figlio. Questo sequestro ha collocato il bambino nella posizione dell’essere il fallo di sua madre, l’oggetto esclusivo che ne compensava le carenze. La difficoltà a sostenere la prestazione sessuale mette in risalto le conseguenze di quel posizionamento: essere il fallo per un maschio, come ha illustrato magistralmente Lacan, impedisce di averlo e di poterlo usare con efficacia.7
Poesia e turpiloquio
Un mio ammirato e purtroppo scomparso professore dell’università, noto psicoanalista, non aveva mezzi termini nel ritenere che il turpiloquio nel rapporto sessuale rivelasse tracce pregenitali – sadico-anali – della sessualità, ovvero un non adeguato accesso alla cosiddetta maturità sessuale genitale.8
Nondimeno, non dovremmo trascurare il fatto che il rapporto sessuale, nell’intensità della sua passione, spesso suscita il turpiloquio non come offesa o manifestazione di un’aggressività sadico-anale, ma come fattore di incentivazione dell’eccitazione. Per il mio vecchio e amato professore insultare il partner (“Troia!”, “Porco!”, “Puttana!”) o pronunciare imperativi cosiddetti osceni (“Scopami!”, “Sbattimi!”, “Fammi godere!”) era il segno inequivocabile di una non raggiunta integrazione tra la corrente di tenerezza e quella più propriamente sessuale che invece contraddistinguerebbe un atto genitale maturo.9
In questa narrazione egli sembrava però dimenticare il contenuto principale della lezione freudiana sulla sessualità: la presenza irriducibile e costante di fantasmi infantili (pregenitali) nell’esercizio della sessualità adulta (genitale). Nell’esercizio del turpiloquio nel corso di un rapporto sessuale, quando è desiderato da entrambi i partner, la parola che al di fuori di quella scena potrebbe caricare di significanti violenti e offensivi, stimola invece l’eccitazione. È un dato di fatto, ed è un altro elemento che dimostra come il rapporto sessuale non implichi una semplice struttura binaria, ma sempre quaternaria, come ci ha indicato Freud stesso: tra i due partner c’è sempre di mezzo il fantasma singolare di ciascuno dei due. L’incontro sessuale, prima dell’incontro con l’alterità dell’Altro, è l’incontro con il proprio fantasma. Nondimeno il rapporto sessuale e l’erotizzazione dei corpi non escludono affatto la lussuria della parola, che in questi casi non inceppa il rapporto sessuale ma lo surriscalda. Ci sono soggetti che non possono avere rapporti sessuali eccitanti senza l’uso della parola. Non si tratta solo di esigere – come accade in molte donne – che prima si parli, che non si arrivi troppo presto al sodo. Ma anche una volta che la penetrazione ha fatto la sua irruzione sulla scena, alcuni soggetti esigono ancora la parola non come alternativa al sesso, ma come potenziamento dell’eccitazione sessuale. In questi casi la parola assomiglia a un organo supplementare che non sbarra il godimento, ma vi aggiunge la spezia speciale del significante. Nel turpiloquio, in particolare, la parola dismette la sua funzione comunicativa, dialogica per farsi essa stessa corpo, fonte di godimento. La tenerezza dell’amore arretra, lasciando apparire il godimento della degradazione, del farsi oggetto per l’Altro. Non si tratta ovviamente di una degradazione morale – nel turpiloquio erotico non c’è alcun giudizio di valore –, ma di un gioco erotico. È il corpo sessuale che si consegna al corpo dell’Altro senza difese e senza limiti.
1. Il suo antecedente più prossimo si trova nella “volontà di vita” di Schopenhauer, nell’idea che la vita sia innanzitutto pulsione che afferma se stessa, la sua propria volontà, cieca di fronte a ogni altro valore. Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1981, 2 voll.
2. S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904), lettera del 1º agosto 1899, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 402.
3. La pedofilia può essere assunta come l’espressione più pura del desiderio perverso. Il pedofilo punta a possedere integralmente il corpo del bambino come se fosse un corpo pieno di godimento, incorrotto, prelinguistico, naturale, non intaccato dalla legge della castrazione. La sua illusione è che attraverso il corpo dell’innocente egli possa raggiungere un godimento di natura originario, assoluto, senza mancanza, separato da quello imposto dalla legge della castrazione.
4. Cfr. A. Zupančič, Che cosa è il sesso?, tr. it. Ponte alle Grazie, Milano 2018, p. 83.
5. Cfr. J. Lacan, La significazione del fallo, tr. it. in J. Lacan, Scritti, a cura di G.C. Contri, Einaudi, Torino 1980, voll. 2.
6. Cfr. J. Lacan, Del Trieb di Freud e del desiderio dello psicoanalista, tr. it. in Scritti, cit., p. 856.
7. Cfr. J. Lacan, La significazione del fallo, tr. it. in J. Lacan, Scritti, cit.
8. Cfr. F. Fornari, Genitalità e cultura, Feltrinelli, Milano 1977.
9. In un altro grande maestro della psicoanalisi contemporanea come Otto Kernberg possiamo ritrovare la stessa opinione di Fornari. Cfr. M. Lütz, con O. F. Kernberg, Dottor Kernberg, a cosa serve la psicoterapia? Riflessioni e ricordi di un grande clinico, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2021.
Il fantasma del sesso
Impossibile trattenersi dal trattenersi
Abbiamo visto come l’incontro sessuale avvenga sempre attraverso la mediazione del fantasma inconscio. Questo fantasma disorienta l’istinto e ci introduce nel mondo surrealista del desiderio. Quello che dovrebbe avvenire naturalmente – il rapporto sessuale – non è mai un evento della natura. Una giovane paziente, per esempio, di fronte al suo desiderio sessuale si paralizza. Mentre giace a letto con l’uomo che desidera, non riesce a “lasciarsi andare”. Qualcosa di più forte di lei la trattiene, trasformando il suo corpo in un “pezzo di legno”. È il lato privativo della pulsione: le risulta impossibile trattenersi dal trattenersi. Non è più in grado di controllare la pulsione a controllare.
Questa giovane donna ha avuto un rapporto particolare con una madre alcolista. Ogni volta che apriva a sua madre il suo cuore manifestando il suo bisogno di lei si trovava immediatamente nella condizione di essere umiliata e tradita nelle sue confidenze. Ogni volta che si apriva verso sua madre, questa si approfittava di lei come se fosse un oggetto del suo capriccio. Nel rapporto sessuale la difficoltà di questa donna riflette quell’antica postura difensiva che dovette assumere di fronte al rischio di sentirsi sopraffatta e divorata dall’Altro. Il suo fantasma la trasfigura in un “pezzo di legno” per evitare che la sua apertura verso l’Altro la riconduca nella posizione dell’oggetto tradito e umiliato.
La radice del godimento
In un’altra ragazza i rumori del padre mentre mangia vengono associati a fantasie sessuali che vengono placate solo con il ricorso a una masturbazione compulsiva. Quando viene in analisi è torturata da questi rumori intrusivi che hanno infestato la sua vita. Insieme ai rumori della bocca del padre le vengono alla mente immagini sessuali imposte caratterizzate dalla presenza di penetrazioni violente. Non si capacita per la bizzarria di quello che le sta accadendo. La violenza di queste penetrazioni urta, secondo lei, con il moralismo dei genitori che conducevano, a suo dire, una vita particolarmente morigerata.
Dopo l’apparizione di queste immagini sprofonda in un profondo senso di colpa che riesce ad attenuare solo grazie a una grave forma di anoressia restrittiva. La traccia di questa connessione inconscia tra i rumori della bocca e l’eccitazione sessuale viene recuperata lentamente nel corso dell’analisi. In un primo ricordo appare suo padre che quando lei era piccola le ripeteva che bisogna fare attenzione nell’uso dei cotton fioc perché c’è sempre il rischio che una penetrazione non controllata possa fare male alle orecchie. Si ricorda anche quando da bambina il padre si puliva le orecchie facendo strani gemiti di godimento. Infine, un ultimo ricordo rimosso ritorna alla luce: da bambina, in una casa di villeggiatura, fu esposta all’ascolto del rumore del rapporto sessuale tra i suoi genitori. Le pareti di cartongesso delle stanze non avevano attutito i rumori a sufficienza. Si era allora sentita invasa da quei rumori insieme molesti e stranamente eccitanti. Le sue orecchie erano state penetrate bruscamente non dai cotton fioc, ma dai gemiti irregolari e perturbanti di piacere dei suoi genitori.
L’innesco dei suoi sintomi si produce di fronte alla contingenza della delusione del suo primo rapporto d’amore avvenuto in piena adolescenza. L’anoressia prima e le crisi bulimiche poi sono stati i suoi strumenti difensivi di fronte al dolore provocato dalla ferita amorosa. In un sogno di grande rilievo per la sua analisi si trova in bagno con un suo amante. Questi l’afferra per la gola: lei cerca di svincolarsi ma si accorge che i loro corpi si intrecciano come se fossero il tronco di un unico albero che ha le stesse radici. In questo sogno riconosce che il godimento che attribuisce all’Altro – il padre – le appartiene, è anche il suo e proprio per questo si è rivelato traumatico. La violenza che nel suo fantasma ha interpretato come condizione necessaria per il suo godimento sessuale è la stessa che si scatena nelle sue crisi bulimiche, le quali si concludono sempre con una scarica violenta di vomito autoindotto. È lei che si afferra alla gola per poter vomitare. I gemiti del padre che ritornano attraverso i suoi rumori della bocca sono gli stessi suoi gemiti che accompagnano la relazione sessuale con il suo amante. La radice dell’albero del godimento è, dunque, come il sogno indica bene, la stessa: lei è, al tempo stesso, goduta e colei che gode.
La maschera dell’ossigeno
Nel caso di una donna che ho seguito in analisi per lungo tempo, la tendenza impressa alla sua vita dal suo fantasma era quella di mettersi sempre nelle mani dell’Altro, priva di alcun desiderio, senza vita, come una cosa inerte. Anche nelle sue relazioni sessuali occupava sempre la posizione dell’oggetto goduto sadicamente dall’Altro. Non si limitava solo a fare la parte dell’oggetto sulla scena del gioco erotico, ma incarnava l’oggetto-abusato anche nella realtà scegliendo ogni volta partner tendenzialmente sadici, tali da garantirle la messa in atto di questa stessa scena fantasmatica dalla quale non riusciva a dissociarsi.
La sua storia infantile è stata caratterizzata da un episodio fondamentale risalente all’età di sei anni: suo padre lasciò improvvisamente sua madre e la casa di famiglia. Non lo avrebbe mai più rivisto. Era un alcolista violento che esercitava in famiglia una vera e propria tirannia. Da bambina dovette assistere a scene brutali dove il padre prendeva per il collo sua madre umiliandola, maltrattandola e minacciandola di morte. Una catena di violenza e di sopraffazione dalla quale questa donna non è mai riuscita a separarsi del tutto.
L’abbandono paterno ha bloccato l’inquadratura del fantasma sulle scene ripetute di una violenza senza limiti. Sua madre era una grave psicotica. Nondimeno, sin da bambina, la mia paziente l’ha sempre amata sentendosi però incomprensibilmente rifiutata. Ha vissuto il resto della propria infanzia con il terrore che sua madre l’avrebbe lasciata come aveva fatto prima suo padre. Quando andò a vivere da sola, dopo i vent’anni, teneva delle sedie davanti alla porta di casa come se temesse la possibile aggressione notturna da parte di uomini sconosciuti. Il rapporto sessuale per lei si trasforma ogni volta in una vera e propria lotta da quando inizia la penetrazione. Non la sopporta e, quando non riesce a staccarsi, spera che almeno finisca il prima possibile. In un sogno che si ripete insistentemente si vede afferrata dalle mani di un uomo sconosciuto e trascinata verso un bagno pubblico. L’uomo prova a scaricarla violentemente nella latrina come se fosse “una merda”. Ha fatto da madre a tutti i suoi uomini cercando di trattenerli sino a subire le più penose umiliazioni per evitare di essere allontanata come è accaduto a sua madre, quando suo padre l’ha abbandonata come fosse, appunto, “una merda”.
La misura soggettiva che la paziente ha trovato prima dell’analisi per provare a sospendere questa ripetizione inesorabile dei suoi traumi infantili è stata quella di anestetizzare progressivamente il suo corpo. Non sente nulla, abbandona il suo corpo come un oggetto inerte nelle mani dell’Altro, ma solo per rivendicare paradossalmente che lei non è solo un corpo. Lo lascia cadere, lo abbandona come se fosse “solo una parte di me”, dice. Non a caso questa donna è un’attrice che presta il proprio corpo nel portare sulla scena vite diverse.
Nella sua attività attoriale la dissociazione che la attraversa trova uno sbocco positivo: riesce facilmente a staccarsi da se stessa per infilarsi nei panni di un’altra. Il suo sintomo maggiore diviene però la sua stessa condizione di esistenza. È quello che emerge con chiarezza in un sogno all’inizio dell’analisi dove compare un incendio. La paziente sente che sta rischiando la vita. Si sente intrappolata nel fuoco, ma un pompiere la porta in salvo. A terra trova una maschera d’ossigeno che però una volta afferrata si rivela essere una maschera d’attore. Nella realtà la recitazione le ha salvato letteralmente la vita: è stata una maschera d’ossigeno in un incendio senza vie di uscita. L’analisi potenzia questa soluzione solo abbozzata perché nel teatro aveva sino a quel momento lavorato solo per l’occhio del regista, per acquisire un valore per il padre perduto. Non a caso diveniva regolarmente l’amante trascurata dei suoi registi. L’analisi le consente invece di rovesciare la sua domanda iniziale. Non: “Perché vengo trattata dagli uomini come una serva?”, ma: “Perché mi propongo a loro come se fossi una serva?”.
Dopo l’abbandono del padre, la madre volle fare di lei la sua serva. Senza la sua presenza sarebbe sprofondata in un abisso. Lei acconsentì a questa servitù senza darsi il diritto di obiettare. Ora, come il sogno ha indicato con precisione, la sua soluzione soggettiva è passata attraverso la maschera della recitazione. Grazie all’analisi abbandona i registi padroni che si iscrivevano nella serie degli uomini sadici. Non vuole recitare più per un regista-padre-padrone, ma si inventa una propria compagnia teatrale. Questa invenzione è parallela all’esperienza che può fare nel transfert di un Altro che non la vuole al suo servizio, di un Altro che, come lei spesso afferma, “pur potendolo fare, non abusa mai di me”. Lo sviluppo del transfert favorisce così il passaggio dall’essere oggetto inerte del godimento dell’Altro al godimento femminile.
La sua lunga vicenda analitica si conclude emblematicamente con il seguente sogno: è con un uomo nell’ascensore che prende ogni volta per raggiungere il mio studio. È invasa dall’angoscia di precipitare e di non avere scampo. Ma in realtà l’“atterraggio” è dolce e piacevole. Nei rapporti sessuali e nella scelta del partner l’analisi ha spostato radicalmente l’asse della ripetizione: ora può avere rapporti sessuali con un uomo – prendere un ascensore – senza che le accada nulla di terribile. Il nuovo amore di transfert corregge la spinta della ripetizione a riprodurre la violenza paterna e, al tempo stesso, la disperazione materna di cui lei doveva essere la cura. Questo atterraggio finale coincide anche con l’ultimo passo della sua analisi.
Essere una puttana
La fantasia sopraggiungeva immediatamente subito dopo la penetrazione: doveva immaginarsi presa brutalmente e con violenza, percossa, lacerata per poter godere sessualmente della penetrazione. Più di preciso, si doveva immaginare come una puttana, trasformarsi in una donna che “vuole solo godere”. In un sogno appare un cane che vuole montarla. È un’immagine che la eccita profondamente.
A nove anni questa mia paziente è stata toccata nei genitali da un vecchio: aveva avuto la sensazione di perdere la vista e di essere in totale balia dell’Altro. Il rapporto sessuale nella fantasia deve assomigliare a uno stupro per farla godere. Il suo compagno, che riteneva di amare profondamente, uomo mite e delicato, non rifletteva affatto questo immaginario erotico. Le immagini di violenza sopravvenivano allora come un’iniezione fantasmatica che non solo rafforzava la virilità del suo partner, ma le consentiva una degradazione all’oggetto come condizione per raggiungere un godimento inebriante. L’uomo dell’amore, disgiunto da quello del desiderio, si ricongiungeva a quello del desiderio grazie alla scena fantasmatica della violenza subita. Ma questa divisione che operava tra il compagno dell’amore e quello del rapporto sessuale era l’indice di una sua più profonda divisione interna.
Da bambina si era trovata vittima di un bambino, poco più grande di lei, che la palpeggiava di nascosto imponendole il silenzio con delle minacce fisiche. Era un segreto che non aveva mai confessato a nessuno. Questa esperienza l’aveva divisa: da una parte non sopportava di essere costretta a subire le attenzioni del suo piccolo e sadico padrone, dall’altra parte se ne sentiva incomprensibilmente attratta ed eccitata.
Il fantasma isterico
Il fantasma inconscio regola il rapporto del soggetto con il suo desiderio. È attraverso la sua lente inevitabilmente deformante che i corpi sessuali si incontrano. Con Freud la psicoanalisi ha isolato alcune strutture ricorrenti del fantasma, innanzitutto quella isterica e quella ossessiva. Nel fantasma isterico il soggetto occupa il posto di un oggetto che persegue l’obiettivo di scavare nell’Altro una mancanza. Mentre nella perversione è la castrazione dell’Altro che deve essere negata – il bambino freudiano non vuole vedere la castrazione impressa sul corpo della madre e s’impegna nel negarla – l’isterica opera invece per provocare la castrazione dell’Altro negando la propria. Come? Innanzitutto rendendosi indispensabile, essenziale per l’Altro. Questo significa farsi mancare. L’isterica nella sua vita amorosa e sessuale punta a farsi mancare per farsi desiderare. La mancanza indica infatti la presenza inequivocabile del desiderio. L’isterica vuole essere la mancanza dell’Altro e, al tempo stesso, la sua risoluzione. Vuole essere, come diceva una mia paziente, “il più essenziale” per mantenere viva la mancanza dell’Altro ed essere il suo oggetto privilegiato. Ma questo Altro al quale l’isterica assicura i suoi servizi alla lunga si rivela sempre immeritevole. La scoperta della sua perfidia, del suo egoismo, del suo carattere non ideale, la caduta della maschera rivela la sua bassezza. A quel punto il desiderio del soggetto potrebbe abbandonare la carcassa svuotata dell’Altro alla ricerca di un nuovo padrone da castrare.
L’uomo desiderato non è quello a disposizione, il corteggiatore, colui che domanda in modo esplicito, ma colui la cui domanda appare come indecifrabile. L’assenza della domanda rafforza infatti il carattere enigmatico della domanda stessa provocando il desiderio. Il maestro, il padrone, il signore, l’Altro che ha e non pare mancare di nulla, diventano questi gli oggetti privilegiati del desiderio isterico. Sia nel senso che sanno provocare questo desiderio, sia in quello che attivano la spinta nel soggetto isterico a rendere i suoi partner mancanti. L’operazione isterica consiste infatti nel fare mancare l’Altro facendolo desiderare. Di qui la sua passione per l’intrigo, la tessitura di relazioni equivoche, ambigue, capaci di aprire una mancanza nell’Altro.
Possiamo distinguere così nel fantasma isterico tre tempi ordinati in una successione regolare: 1) l’isterica ricerca un suo posto nell’Altro per farsi esistere; 2) quando lo trova, lo occupa rendendosi indispensabile, essenziale, divenendo la causa del desiderio dell’Altro e, dunque, la sua padrona. È la formula classica proposta da Lacan nel Seminario xvii: “L’isterica ricerca un padrone per regnarvi sopra”. È questo dominio che finalizza quella che sempre Lacan definisce come la “devozione isterica”: “Ella si sforza di rianimare, di rassicurare, di ricompletare, riparare questo Altro”;1 3) una volta divenuta padrona dell’Altro, custode della sua castrazione, l’Altro perde di interesse e viene abbandonato come un guscio vuoto; l’illusione e la idealizzazione iniziale lasciano il posto alla deidealizzazione e alla delusione.
Questa serie rigorosa evidenzia bene la strategia di fondo del desiderio isterico: farsi oggetto dell’Altro per rendersi indispensabile, ma, anche, al tempo stesso, per sommergere l’Altro di rimproveri, di rivendicazioni, di attese mai gratificate e, infine, per lasciarlo, delusa e indifferente alle sue sorti. Non a caso nell’isteria il tempo dell’amore verso il padre idealizzato appare congelato, si ripete senza scarti, come una pura replica della scena infantile. La delusione nei confronti degli uomini riflette l’egemonia dell’idealizzazione paterna rispetto alla quale nessun uomo potrà mai apparire adeguato a rimpiazzarne la funzione fallica. Al tempo stesso, è proprio l’essere rifiutata che attiva permanentemente il suo desiderio.
In una mia paziente, l’uomo può diventare oggetto di desiderio e di amore solo se la rifiuta. In questo modo si riattiva la sua antica traccia edipica: l’amore per suo padre incontrava sempre il suo rifiuto. Era un padre importante, dedito al proprio lavoro e gratificato dai suoi successi, che non aveva mai tempo da dedicare alla propria figlia. Quando un uomo anche insignificante la rifiuta, attiva la sua traccia mnestica iscrivendosi nella serie paterna, divenendo ai suoi occhi improvvisamente indispensabile.
Nel rapporto sessuale la devozione isterica si può manifestare nel far godere senza godere, o, meglio, godendo solamente nel far godere. Far godere significa, infatti, per l’isterica arrivare a possedere una parte dell’essere del partner. Per questo ella è più a suo agio nel far godere che a godere perché godere significa, al contrario, farsi possedere. Nel fantasma isterico essere posseduta significa essere degradata alla posizione insopportabile dell’oggetto privo di valore. Per questa ragione ella rifiuta con caparbietà la soddisfazione del suo desiderio. Se il desiderio resta insoddisfatto, il soggetto è salvaguardato nella sua soggettività, non viene ridotto all’inerzia di un corpo semplicemente goduto. La seduzione isterica promuove il desiderio dell’Altro, ma esige che il suo desiderio resti insoddisfatto affinché il soggetto possa rivendicare la sua differenza irriducibile da ogni oggetto. È questa una delle ragioni cliniche della anorgasmia e, più in generale, della frigidità e dell’anestesia che può colpire frequentemente il corpo isterico.
La sua attività seduttiva contempla sempre un’attività secondaria (inconscia) di rifiuto del corpo sessuale (del proprio e di quello dell’altro). Il piacere della seduzione non implica infatti necessariamente l’accesso al godimento. Anzi, per lo più lo esclude, perché mentre nella seduzione il soggetto mantiene una posizione attiva, nel rapporto sessuale deve necessariamente subire una “degradazione” alla posizione dell’oggetto che l’atto della penetrazione impone. Per questo l’isterica preferisce far godere che godere, poiché far godere il partner è un modo per farsi mancare rendendosi essenziale, dunque per essere riconosciuta come soggetto senza essere degradata allo statuto di oggetto. Si tratta di scavare nel partner una mancanza provocata dal godimento stesso. Non a caso per molti uomini la traccia del godimento che la donna lascia nel loro corpo può divenire una fonte di dipendenza e di legame irrinunciabile. Farsi desiderare e non farsi godere è la posta in gioco del desiderio isterico, anche se questo comporta il costo che per farsi desiderare diviene necessario non godere.
Diversamente, una donna non isterica sa unire senza eccessivi dilemmi la seduzione al godimento, il farsi desiderare al farsi godere, il desiderio al godimento. Sa occupare attivamente la posizione passiva dell’oggetto e sa affermare il suo desiderio senza dover ricorrere all’anestetizzazione isterica del suo corpo. Al contrario, l’isterica può solo aspirare alla donna senza mai poterla incarnare perché, in realtà, continua a guardare le donne con gli occhi di un uomo. Per questa ragione molto spesso tende ad avere relazioni con altre donne. È, come direbbe Lacan in una forma neologistica, “uomosessuale”.
In certe isterie a fondamento del rifiuto del godimento e del desiderio sessuale dell’Altro può esserci stato, come abbiamo visto, un traumatismo infantile o adolescenziale che ha consegnato il soggetto a una posizione forzatamente passiva. L’incontro col desiderio sessuale dell’Altro riattiva giocoforza questa inerzia originaria e il soggetto, per non esserne integralmente assorbito, può reagire attraverso il rifiuto. Non solo del corpo dell’Altro ma anche del proprio stesso corpo. In certi casi la ripetizione del trauma avviene a parti invertite – il soggetto assume una posizione attiva mentre ha subito una posizione passiva – o, in altri casi ancora, replica come se fosse prigioniero del suo passato questo essere stato un oggetto goduto dall’Altro.
Lo sdoppiamento è un’altra possibile risposta isterica al rischio di sentirsi identificata nella posizione dell’oggetto. La sottrazione a questo rischio può avvenire dissociandosi dalla presenza, facendosi assente, dileguandosi. Allora il suo corpo resta nelle braccia del partner come una cosa, un pezzo di legno, un mero oggetto. Il soggetto può arrivare anche ad avere l’impressione di osservarsi da fuori mentre sta avendo il rapporto sessuale. Si tratta di una dissociazione che intende salvaguardare la soggettività del soggetto, la sua libertà, la sua irriducibilità all’oggetto ma al caro prezzo di non poter accedere pienamente al godimento.
Tuttavia, il fantasma isterico non implica sempre e necessariamente l’anestesia sessuale del corpo. La desessualizzazione in certi casi può lasciare il posto anche a una ipersessualizzazione. La bella addormentata non è la sola versione possibile dell’isterica. L’incanto non è solo verso il principe ideale ma può rivolgersi anche verso il bruto, l’uomo-animale, l’uomo rozzo, analfabeta. Si tratta, in questi casi, di mettere in opera il fantasma di salvazione che è una variante del fantasma fondamentale della devozione isterica. Non solo, dunque, una dipendenza affettiva dai sapori masochistici nei confronti della brutalità dell’Altro, poiché questa dipendenza serve al soggetto per colmare la mancanza dell’Altro e, di conseguenza, per risultare “il più essenziale” alla sua vita.
Il fantasma ossessivo
Il fantasma isterico punta a rendere il desiderio permanentemente insoddisfatto. Il suo scopo, come abbiamo visto, è diventare padrone della mancanza dell’Altro. Il non godere del soggetto isterico – che non esclude affatto l’attività sessuale – mira a non farsi degradare alla posizione dell’oggetto per preservare il carattere irriducibile della sua soggettività.
Il fantasma ossessivo ripudia invece la mancanza in tutte le sue forme. Il soggetto ossessivo vuole solo essere, vuole essere senza conoscere alcuna mancanza. Eppure egli tende a idolatrare platonicamente la donna. Ma questa idolatria deve essere a distanza, non deve scalfire l’imperturbabilità del soggetto, non deve generare in esso alcuna mancanza. L’ossessivo nutre costantemente una versione idealizzata della donna solamente per collocarla in un luogo inaccessibile, per tenerla lontana da sé. Sicché preferisce coltivare il pensiero ideale della donna piuttosto che incontrarne davvero una in carne e ossa. Anzi, egli si nega all’incontro con la donna reale in nome della donna ideale, che però, per essere tale, deve restare irraggiungibile, sideralmente distante dal reale. La distanza lo rassicura, lo pacifica perché gli evita l’impatto traumatico con l’enigma del desiderio dell’Altro e con l’inconsistenza del proprio, dunque con la sua mancanza. In questo senso il fantasma ossessivo rovescia quello isterico. Mentre l’isterica punta ad accendere il desiderio – vuole farsi causa del desiderio dell’Altro –, l’ossessivo punta a distruggerlo, a non farlo esistere. Il suo platonismo coincide con la difesa dal desiderio dell’Altro, dal suo proprio verso l’Altro e da quello dell’Altro verso di lui. La sua idealizzazione della Donna è un modo per evitare l’incontro con una donna e per manifestare il suo odio inconscio verso le donne.
Un mio paziente ossessivo era talmente angosciato dall’idea di poter fare cilecca che ogni volta faceva in modo di rinviare il rapporto sessuale con le numerose donne che frequentava e che tendeva sistematicamente a sedurre. La seduzione non era, come quella del Don Giovanni, finalizzata a depredare il corpo delle donne, ma a tenerlo, paradossalmente, a distanza. Il rovescio inquietante dell’idealizzazione ossessiva negli uomini è, infatti, la mortificazione della donna reale. Questa mortificazione persegue l’obiettivo di cancellare l’alterità del desiderio dell’Altro. Come dichiarava una mia paziente che conviveva da molti anni con un uomo francamente ossessivo, il fine nemmeno tanto segreto del suo partner era quello di “demolire ogni volta il suo desiderio”. Non solo a letto, evidentemente. Ogni iniziativa da lei intrapresa per vitalizzare la loro relazione era vissuta dal compagno con fastidio e doveva essere stroncata sul nascere. Nel rapporto sessuale le sue manifestazioni di godimento erano vissute con angoscia dal suo compagno, che tendeva a imporle uno schema pressoché inviolabile di come doveva avvenire il rapporto. Anche in questo caso interveniva la ritualizzazione ossessiva della vita che ispirava il modo di essere generale di quest’uomo: la ripetizione identica dello stesso schema doveva scongiurare il rischio angosciante dell’imprevedibile. Il godimento della donna e la vitalità del suo desiderio erano vissuti come incarnazioni perturbanti di un troppo di vita che egli non poteva tollerare. Non a caso in un sogno la mia paziente si vede prigioniera della tela di un gigantesco ragno che ha invaso la sua casa.
Un’altra giovane donna mi chiede aiuto quando si rende conto che la sua vita è divenuta un labirinto di rituali incomprensibili e di superstizioni che la costringono a comportamenti bizzarri che non può non compiere. La sua nevrosi ossessiva si scatena in corrispondenza della fine di una relazione amorosa, dopo aver deciso di lasciare un ragazzo che esagerava nell’uso della violenza nei rapporti sessuali. Si sentiva trattata come un oggetto sessuale e voleva separarsene. Il ragazzo, però, non accetta la sua decisione e decide di ricattarla mostrandole una foto che le aveva scattato qualche giorno prima con in primo piano il viso di lei sporco di sperma dopo un rapporto orale. L’angoscia si mescola qui a un profondo sentimento di impotenza. La ragazza non può parlarne con nessuno se non con i carabinieri. Denuncia allora il compagno, che viene prontamente convocato dalle forze dell’ordine. Ma l’immagine di quella foto continua a perseguitarla scatenando una fitta serie di rituali e superstizioni che si uniscono all’irruzione di pensieri e immagini sessuali che considera osceni e non riesce a governare. Ben presto emerge la difficoltà di questa paziente a soggettivare il proprio corpo e il proprio desiderio sessuale. In un ricordo risalente ai tempi dell’adolescenza e alle sue prime relazioni amorose, dopo aver confidato alla madre di avere avuto il primo rapporto sessuale, questa, guardandola severa negli occhi, le dice: “Si vede che lo hai fatto: hai la faccia torbida”. È quella stessa faccia che il suo ragazzo minaccia di rendere pubblica per umiliarla. L’ombra del giudizio superegoico della madre cade sul corpo sessuale del soggetto. La proliferazione dei rituali e delle superstizioni prova a esorcizzare la presenza del godimento pulsionale. Ma il ritorno coattivo delle immagini sessuali oscene le ricorda che dalla pulsione, in realtà, non si può fuggire.
Nel fantasma ossessivo la mancanza deve essere soppressa in favore dell’essere. “Tutte le cose di lei che ho amato mi erano divenute insopportabili”, mi raccontava un paziente ossessivo alla fine di una lunga storia d’amore. Ma quando lei aveva fatto finalmente le valigie per andarsene, un sentimento di profonda nostalgia era calato sulla sua vita. Nulla come perdere un oggetto dato per acquisito una volta per tutte e, dunque, azzerato nel suo valore seduttivo, rende questo oggetto nuovamente sconosciuto e desiderabile. La distanza che il gesto della donna aveva riaperto improvvisamente nella coppia getta quest’uomo nella bramosia di riaverla. Mentre durante gli ultimi anni di convivenza aveva percepito la presenza della sua compagna come un ostacolo insopportabile alla sua libertà, la sua assenza rinnova inspiegabilmente il desiderio di averla con sé e di possederla sessualmente. È l’uomo il primo a stupirsene. Si sente attraversato da una passione erotica rinnovata che non viveva da tempo e che esige di essere imperiosamente soddisfatta. Ma lei lo respinge dichiarando di non fidarsi più, di avere perso ogni fiducia nei suoi confronti. Questi respingimenti accendono però ulteriormente la passione dell’uomo, che non sopporta la libertà che la sua donna è riuscita a conquistare. Un profondo senso di colpa lo schiaccia. Sente di averle fatto del male e di essere disposto a qualunque cosa per riavere il suo amore. La donna, dopo prolungati corteggiamenti, cede acconsentendo di ritornare a casa. Il rapporto sessuale viene vissuto da entrambi con la stessa intensità dei primi anni di relazione. La perdita dell’oggetto sembra aver ridato valore libidico all’oggetto. Tuttavia, nel giro di pochi mesi la situazione ritorna a essere quella di prima. “Sono insofferente alla sua presenza, non la sopporto, del suo corpo vedo solo i difetti.”
Come possiamo spiegarci questo pendolarismo del desiderio? Nelle relazioni che implicano una durata esiste sempre una dialettica instabile tra l’amore e il desiderio sessuale. La fine di un amore segue solitamente lo spegnimento progressivo del desiderio, ma l’amore può anche prolungarsi nonostante un raffreddamento del desiderio. È, anzi, la condizione più diffusa che dà ragione a Freud: esiste un rapporto inversamente proporzionale tra la durata della relazione amorosa e l’intensità del desiderio sessuale. Nel caso del mio paziente, con sua estrema sorpresa, il desiderio era tornato ad accendersi dopo la separazione, sebbene si sia spento di nuovo poco dopo il ritorno dell’amata. A sottolineare che il desiderio sessuale esige sempre una quota di incognita, di alterità, la percezione dell’inassimilabilità dell’Altro. Quando invece prevale la familiarità – l’eccesso di prossimità – il desiderio tendenzialmente si eclissa.
Quello che però il paziente scopre nella sua analisi è la presenza nella sua relazione dell’ombra di sua madre. Questa donna, a causa della sua professione, quando lui era bambino non era mai presente ma sempre impegnata in continui viaggi che la tenevano lontana dalla famiglia. L’esperienza della lontananza della madre alimentava nel paziente il suo desiderio edipico. Per questa ragione il dolore della separazione era per lui la condizione per accendere il suo desiderio. Non a caso l’incontro con la sua compagna avvenne diversi anni prima a un funerale. Rimase colpito da una sua frase che orecchiò apparentemente in modo distratto: “Chi se ne va ci lascia un vuoto che non si può colmare”.
L’ossessivo porta con sé un’aggressività radicale nei confronti della mancanza e di tutto ciò che può provocarla. Il desiderio deve essere distrutto perché porta con sé una mancanza che scombussola la necessità di controllo e di programmazione della vita. Di qui l’odio inconscio verso la donna come incarnazione di questa alterità. L’economia dell’ossessivo vorrebbe, infatti, escludere la perdita. Per questa ragione l’amore gli è indigesto. Anche nella vita sessuale predomina un’istanza di padronanza fallica: meglio separare il sesso dall’amore perché la loro convergenza è potenzialmente minacciosa. Se infatti l’amore si unisce al godimento viene meno il principio regolativo che ispira la sua vita: evitare il turbamento dell’ordine stabilito, evitare l’eccedenza che non può essere governata, evitare l’incontro con una donna reale.
1. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro viii. Il transfert (1960-1961), tr. it. Einaudi, Torino 2008, p. 270.
L’inesistenza del rapporto sessuale
La più profonda delle unificazioni?
Diamo per scontato che esista quello che nel linguaggio comune si definisce “rapporto sessuale”. Sembra effettivamente un’evidenza incontestabile: i corpi degli amanti si congiungono attraverso i loro sessi e questa congiunzione dà loro la possibilità di ottenere un pieno e reciproco soddisfacimento pulsionale. Il rapporto sessuale esiste al di là di ogni obiezione. Non accade in fondo lo stesso nel mondo animale? Il coito si conclude con il raggiungimento della scarica del piacere sessuale. Evidente nel maschio, meno evidente nella femmina. Perché dunque interrogare l’esistenza del rapporto sessuale se questa esistenza è confermata dalla ripetizione dei rapporti sessuali ai quali gli esseri umani si dedicano con passione sin dall’origine della loro vita sulla Terra?
Sul fatto che nel rapporto sessuale sia in gioco un’esperienza di congiunzione – un rapporto – tra i due, anche Freud non sembra avere tentennamenti. Anzi, con una certa enfasi il padre della psicoanalisi afferma che l’atto sessuale realizza la più profonda tra le unificazioni.1 Se l’essere umano non è altro che una serie di separazioni, inizialmente dall’involucro placentale e dal corpo della madre, in seguito dai suoi oggetti pulsionali (il seno, le feci, la voce, lo sguardo), il rapporto sessuale metterebbe temporaneamente fine a questa serie di rotture realizzando l’unità tanto agognata che cancellerebbe, sebbene solo provvisoriamente, i traumi ripetuti delle separazioni. Nel rapporto sessuale il soggetto ritornerebbe nel luogo originario della sua provenienza: ricomporrebbe finalmente l’Uno dal quale deriva il Due.
È la lettura freudiana del mito platonico di Eros esposto da Aristofane nel Simposio e sviluppata in Al di là del principio di piacere:2 gli esseri ermafroditi, separati originariamente dalla loro mitica metà da Zeus, che in questo modo intende punire la loro arroganza, ricomporrebbero, attraverso la spinta del desiderio sessuale, la loro antica e perduta unità: le due metà si ricongiungono attraverso la spinta di Eros come potenza di unificazione. Il godimento sessuale dissolve così il limite dell’individualità, oltrepassa i confini che separano e distinguono i due amanti, per realizzare “la più profonda delle unificazioni”. Da questo punto di vista l’orgasmo sarebbe l’esperienza della perdita di ogni forma di separazione tra i Due, il punto di massima prossimità, il perdersi dell’Uno nell’Altro.
Con una variazione energetista sul tema, Reich mostra che la funzione dell’orgasmo esprime una potenza che travolge ogni ostruzione identitario-narcisistica della vita riportando la vita stessa alla sua sorgente biologica primaria, finalmente liberata dal suo ingorgo nevrotico:
la potenza orgastica è la capacità di abbandonarsi, senza alcuna inibizione, al flusso dell’energia biologica, la capacità di scaricare l’eccitazione sessuale accumulata, attraverso contrazioni piacevoli e involontarie del corpo.3
Ma chi riprende con più coerenza l’intuizione freudiana del rapporto sessuale come esperienza radicale di unificazione e di abolizione della separazione è Bataille, che non a caso descrive l’estasi erotica come “l’approvazione della vita sin dentro la morte”.4 Se la nostra vita è effetto di una caduta, di una perdita della sua continuità originaria, se la nostra esistenza è contrassegnata da un’inaggirabile discontinuità, frammentazione, solitudine, l’erotismo è ciò che rende possibile il ripristino di una profonda “continuità dell’essere” sottraendoci all’isolamento della nostra vita individuale, emendando la nostra comune separazione. Nondimeno, questa estasi, nella misura in cui implica la dissoluzione della discontinuità e la perdita della differenza della vita, è ciò che mostra altresì la convergenza tra la vita e la morte, per cui “il movimento dell’amore, portato alle sue estreme conseguenze, è un movimento di morte”.5 Nel godimento sessuale i confini sono aboliti, l’uno precipita nell’altro e viceversa, il mio corpo in quello dell’amante, il mio godimento in quello dell’altro, la mia vita nella mia morte. Sulla stessa linea di Freud, Bataille ritiene che il desiderio erotico comporti la spinta a scongiurare la discontinuità nel segno del ricupero di una continuità ancestrale dell’essere che finisce per coincidere con il ritorno all’origine, con la negazione della separazione della vita individuale, con il ritrovamento della morte dentro la vita.
La tesi lacaniana dell’inesistenza del rapporto sessuale
In tutt’altra direzione procede invece Lacan. La sua tesi, rispetto alla linea Freud-Bataille, è controintuitiva: non solo il desiderio sessuale non genera alcuna unificazione, ma, più radicalmente, non esiste alcun rapporto sessuale poiché il godimento dell’uno non può né coincidere né approssimare in un rapporto il godimento dell’altro.
È il contenuto di uno tra i suoi più celebri e scandalosi aforismi: “Il rapporto sessuale non esiste”.6 Ma cosa intende dire con questa affermazione apparentemente bizzarra? L’esistenza del rapporto sessuale non è forse inequivocabile? Chi oserebbe mettere in dubbio la realtà della sua esistenza? Non ne facciamo tutti esperienza diretta? Non è forse questo “rapporto” al centro di tutti i manuali di sessuologia oltre che della vita stessa degli esseri umani? Con questo aforisma Lacan non intende ovviamente negare che esistano i rapporti sessuali, ma vuole confutare che questa esistenza sia davvero in grado di realizzare un rapporto, ovvero una qualunque forma di unificazione. Non esiste infatti alcuna possibilità di rapportare i due godimenti in gioco in ogni rapporto sessuale.
Dunque, la tesi di Lacan non nega l’esistenza empirica del rapporto sessuale, ma intende ribaltare l’immagine romantica del rapporto sessuale come ricongiungimento, unificazione, superamento della discontinuità. Mentre Freud e Bataille vedono il rapporto sessuale come unione, fusione estatica, perdita dell’uno nell’altro, Lacan lo descrive piuttosto come disgiunzione, non unione, non rapporto. Ridotta all’osso, l’affermazione della non esistenza del rapporto sessuale significa, infatti, che per quanto esistano dei rapporti sessuali nessuno di essi sarà mai in grado di stabilire un rapporto effettivo tra il godimento di uno col godimento dell’altro. Nel mentre stesso del rapporto ciascuno dei due amanti è, infatti, costretto a sperimentare l’impossibilità di uscire da se stesso, di stabilire, appunto, un rapporto tra sé e l’altro. In questo senso specifico Lacan può affermare che il rapporto sessuale non esiste.
Ora, per dimostrare la sua tesi egli riparte da un’altra intuizione di Freud, quella relativa alla tendenziale divaricazione tra il desiderio sessuale e l’amore: desiderio sessuale e amore tendono a divergere, a non coincidere. Lo dimostra bene la vita amorosa dei nevrotici, la quale dissocia sistematicamente l’oggetto dell’amore – la moglie – da quello del desiderio – l’amante.7
La vita del desiderio sessuale tende a entrare in contrasto con quella del desiderio amoroso perché l’oggetto amato è, in quanto tale, destinato a diventare un oggetto familiare ricadendo così sotto il divieto originario – quello dell’interdizione dell’incesto – che proibisce che gli oggetti familiari siano anche oggetti di desiderio. Amore e desiderio sessuale appaiono difficilmente coniugabili poiché, mentre l’amore punta a preservare la continuità del legame riducendo la spinta del desiderio verso il nuovo, il desiderio sessuale si nutre proprio del nuovo. Mentre, infatti, l’amore tende a ripetere la stessa scelta, a volere ciò che ha, a rendere insostituibile l’amato, il desiderio erotico esige il ricambio continuo dell’oggetto, l’incontro con l’ignoto. Da una parte abbiamo la monotonia del legame familiare che trasforma il segreto del corpo erotico in consuetudine, dall’altra l’avventura del desiderio sessuale che esige sempre il suo rilancio rinnovato da un corpo all’altro.8 È il tormento che affligge perpetuamente il protagonista del Lamento di Portnoy di Philip Roth:
Mi rifiuto categoricamente di firmare un contratto che mi obblighi a dormire con un’unica donna per il resto della mia vita […] Tette e fighe e gambe e labbra e bocche e lingue e buchi del culo! Come posso rinunciare alla novità, visto che una ragazza, per quanto deliziosa e provocante sia stata un tempo, mi diventerà inevitabilmente familiare quanto un pezzo di pane? Per amore? Quale amore? Quello che tiene legate tutte le coppie che conosciamo? Non è piuttosto debolezza? Non è piuttosto convenienza, apatia, senso di colpa? Non è piuttosto paura, estenuazione, inerzia, pura e semplice mancanza di coraggio? […] Come faccio a sposare una che “amo” sapendo perfettamente che tra cinque, sei, sette anni andrò per le strade a caccia di figa fresca, mentre la mia devota moglie, che mi ha organizzato un focolare così accogliente, eccetera, sopporta coraggiosamente la solitudine e il rifiuto?9
Il protagonista del romanzo di Roth dichiara il carattere inesorabile della divergenza tra il carattere irrequieto del desiderio sessuale e la tendenza monogama dell’amore coniugale. Come Freud ha sottolineato, questa divergenza ha radici nell’origine della vita umana dove l’oggetto primo del desiderio – la madre – è un oggetto primariamente interdetto. L’amore è dunque costretto – giocoforza – a separarsi dal desiderio sessuale. Tale separazione ritorna nella vita sessuale adulta assumendo la forma sintomatica della difficoltà degli uomini e delle donne a desiderare sessualmente e a fare l’amore con passione con chi si ama profondamente.
È il conflitto esposto anche da Kierkegaard tra la vita etica incarnata nella figura del marito e la vita estetica incarnata dal Don Giovanni. Mentre la prima è una figura della continuità, della ripetizione e della fedeltà, la seconda esprime la vitalità irrequieta del desiderio che non trova mai l’appagamento che ricerca se non in un’estasi che si consuma nell’attimo, incapace di durare nel tempo. Mentre il desiderio tende a ricercare quello che non si ha, l’amore tende a fissarsi su quello che si ha. Ne consegue che alla luce del desiderio, il marito e la moglie appaiono come dei paesi tristi, troppo frequentati, dove tutto è già noto, già visto, già conosciuto. L’esperienza spesso lo conferma: l’abitudine spegne la fiamma dell’erotismo che invece, come ogni altra forma di conoscenza, si nutre dell’ignoto. Dopo il rapporto sessuale c’è il fastidio di una presenza di troppo, senza più fascino. Non a caso il desiderio erotico si anima maggiormente proprio nella lontananza, nella distanza, nella velatura dell’oggetto.
È il carattere inquieto e irrisolvibile di questo desiderio che prende, come abbiamo visto, la forma mitica nella figura del Don Giovanni, le cui imprese rompono il quadro stabile della famiglia che, se da una parte assicura la stabilità affettiva dei legami, dall’altra tende ad azzerare o a ridurre la fiamma del desiderio. È quello che lo psicoanalista osserva frequentemente nella vita di coppia quando, per esempio, nasce un figlio. L’essere divenuti padre e madre rende più difficile continuare a essere amanti. Il desiderio sessuale non pare conciliarsi con quello genitoriale. La fascinazione di Eros sembra escludere la ripetizione monotona della vita.
Pulsione e desiderio
La tesi lacaniana dell’inesistenza del rapporto sessuale ha come suo primo presupposto la divaricazione freudiana tra desiderio sessuale e desiderio amoroso. Se l’amore si nutre di segni, il godimento si nutre di corpi; se l’amore è amore per il nome, il desiderio sessuale è causato da un oggetto. Il primo si nutre delle parole, il secondo di dettagli erotici del corpo.
Questa ulteriore divaricazione ribadisce la tendenziale inconciliabilità tra amore e desiderio già rimarcata da Freud. Ma quello che osserviamo nell’esperienza analitica è che questa divaricazione può dividere il soggetto stesso. Per esempio, vi sono donne che organizzano il loro desiderio sessuale attraverso fantasie masochiste: essere colpite, insultate, maltrattate, trattate come meri oggetti di godimento diviene la condizione inconscia che rende possibile il loro piacere sessuale. Questo sembrerebbe contrastare la spinta femminile a voler essere l’unica per l’Altro, a riconoscere nell’amore una centralità assoluta dalla quale dipende anche l’eventuale accesso al godimento. In questo caso la divaricazione tra amore e godimento non si genera solo attraverso uno sdoppiamento dell’oggetto – il marito e l’amante – ma anche per via di una sorta di sdoppiamento interno: da una parte – nella fantasia erotica – essere trattata come un oggetto, dall’altra – nel discorso amoroso – essere trattata come l’unica.
In termini più generali, quello che stiamo accostando è l’eterogeneità tra la pulsione che determina il godimento sessuale e il desiderio che sostiene la domanda d’amore. È su questo punto che Lacan si concentra maggiormente. Mentre il desiderio pone il suo oggetto nell’essere desiderato dall’altro desiderio, nell’essere desiderio del desiderio dell’Altro, rivelando la sua natura eminentemente dialettica – il desiderio si nutre del segno del desiderio dell’Altro, nel sentirsi desiderato dall’altro desiderio –, la pulsione sessuale si caratterizza invece per un movimento chiuso su se stesso: la pulsione non gode se non della sua stessa attività di godimento. La sua soddisfazione non dipende, dunque, dal segno del riconoscimento da parte dell’Altro – dal sentirsi desiderato dall’Altro –, ma solamente dal suo stesso moto.
Siamo allora di fronte a un’ennesima divaricazione: da una parte l’istanza del desiderio che si soddisfa solo attraverso il segno e la presenza del desiderio dell’Altro, dall’altra parte il moto della pulsione che gode di se stesso secondo un movimento autoerotico. Questo carattere chiuso, autistico della pulsione implica il fatto che in ogni rapporto sessuale il godimento del mio corpo si interponga tra me e il corpo dell’Altro al punto che io non posso godere se non del mio stesso godimento. Sicché il godimento sessuale non emigra, non può fuoriuscire dai confini chiusi del mio stesso corpo, non può, appunto, in nessun modo fare esistere un rapporto tra il mio godimento e quello dell’Altro. Certo, il godimento può espandersi nel mio corpo, ma non può mai travalicare i suoi confini, non può tracimare né coincidere con quello dell’Altro. Nel rapporto sessuale il godimento del partner può certamente potenziare e stimolare il mio godimento, ma nessuno dei due godimenti potrà mai condividere davvero quello dell’Altro. Ne consegue che se, per un verso, il rapporto sessuale mette in relazione due corpi, questa relazione avrà la caratteristica di essere mediata da un non rapporto fondamentale perché nessuno dei due amanti potrà mai godere del godimento del suo partner, nessuno dei due potrà sentire quello che l’altro sente, in quanto pulsione e desiderio disegnano due campi eterogenei della nostra esperienza. È questo il fondamento più rigoroso delle tesi di Lacan secondo cui “il rapporto sessuale non esiste”.
Modi di godimento: sessuazione maschile e sessuazione femminile
L’inesistenza del rapporto sessuale implica l’esistenza di due forme di godimento inconciliabili. Se non c’è rapporto sessuale è perché pulsione e desiderio divergono, ma è anche perché ci sono stili della sessuazione che non si integrano. Lacan li nomina come sessuazione maschile e sessuazione femminile, alle quali corrispondono rispettivamente il godimento fallico e l’Altro godimento, godimento non-tutto fallico o godimento femminile.10
Nella sessuazione maschile il primo godimento, quello fallico, trova il suo modello ideale nel godimento localizzato nell’organo genitale. Si tratta di un godimento limitato, circoscritto, delimitato, localizzato, vincolato, appunto, all’organo fallico. Questo godimento è anche definito come godimento Uno, per sottolineare che non è aperto all’Altro e che si esaurisce nella scarica dell’orgasmo. La detumescenza mostra inequivocabilmente che si tratta di un godimento che ha un apice raggiunto il quale giunge a compimento, esaurendosi.
Il modello fallico del godimento implica tre fasi ben distinte: eccitazione, raggiungimento del piacere massimo attraverso la scarica orgasmica e caduta dell’eccitazione. Il godimento del soggetto appare catalizzato dall’organo fallico che lo esteriorizza, rendendolo visibile. Lacan sostiene che questa forma di godimento non sia però la sola possibile. Esiste un’altra declinazione del godimento – “non tutto fallico” – che ha come modello il godimento femminile. Esso non conosce limite, argine, non si esteriorizza, non appare vincolato a un organo – come quello fallico –, il suo processo non è assimilabile a quello del picco verticale e della scarica. Non a caso non esiste detumescenza del godimento femminile. La monarchia fallica viene piuttosto erosa da un godimento che si sparpaglia nel corpo sottraendosi al meccanismo rigidamente fasico del godimento maschile.
Il fatto che il godimento femminile sia “non tutto fallico” significa che anche per questo godimento può esistere la scarica orgasmica. Tuttavia questa scarica non lo esaurisce. Il che comporta una prossimità intensa di questo tipo di godimento con l’esperienza dell’infinito, dell’illimitato, del senza fine. È quello che conduce Lacan a evocare il modello dell’estasi mistica. Nel godimento del mistico si palesa infatti un godimento che trascende il principio dell’Uno fallico e che si realizza come un’apertura sconfinata, priva di bordi, come una “gioia eccessiva”, per riprendere un’efficace espressione di Elvio Fachinelli.11 Mentre il godimento maschile viene regolato dal principio di castrazione che interdice l’eccesso pulsionale, quello femminile si rivela come un godimento ulteriore, non riducibile alla castrazione, un’eccedenza che non è mai del tutto governabile dal principio fallico.
Questi due godimenti sono eterogenei, senza rapporto, non possono trovare sintesi, non sono complementari. Lacan definisce, a questo proposito, l’Altro godimento come “supplementare” piuttosto che “complementare”. La differenza tra questi due godimenti e, dunque, tra questi due modi della sessuazione – fallica e femminile – non implica alcuna complementarietà come accade, invece, per il giorno e la notte, l’attivo e il passivo, lo yin e lo yang taoisti, il maschile e il femminile nella loro accezione binaria più comune. Il godimento femminile non completa quello maschile perché è un’eccedenza rispetto al godimento fallico e non la sua parte mancante e quello maschile, a sua volta, non completa quello femminile essendo piuttosto l’ostacolo per il suo accesso.
L’eccedenza del godimento femminile è una risorsa che emancipa completamente la posizione della donna da ogni invidia – quella del pene innanzitutto – e che mostra come l’assenza del fallo non sia affatto un deficit, ma l’assenza di un impedimento che facilita l’apertura infinita del godimento, la manifestazione della sua eccedenza. Al punto tale che l’esperienza della sua illimitatezza può anche apparire prossima a una perdita di identità, a un decentramento radicale della propria identità che alcune donne possono avvertire come una minaccia. In una mia paziente, per esempio, la presenza di questo godimento era associata chiaramente alla paura di diventare folle. Temeva di prendere contatto con il suo godimento come temeva di sottoporsi alle anestesie dal suo dentista o di salire su di un aereo. In queste circostanze sentiva di rischiare di perdere il controllo, così come accadeva nell’incontro sessuale. Ciò che l’angosciava era la sensazione di essere oltrepassata dal godimento del suo stesso corpo. Abbandonarsi all’Altro godimento – al godimento femminile – significava per lei perdere il proprio sostegno identitario, il proprio Io, smarrirsi. Quando questo accadeva la sensazione era proprio quella di perdere se stessa insieme ai confini del proprio corpo. Aveva la sensazione che il godimento straripasse dal proprio corpo come da una diga che aveva improvvisamente ceduto.
In questo senso Lacan rilegge il “rifiuto della femminilità” di cui aveva parlato Freud. Essa non connota solo la protesta maschile di fronte all’angoscia di essere passivi, di dover assumere la propria castrazione, ma definisce anche la difficoltà, frequente nelle donne, a soggettivare la propria femminilità, ad acconsentire all’eccedenza di questo godimento senza bordi. Se negli uomini il rifiuto della femminilità avviene nel nome dell’affermazione fallica, nelle donne avviene invece di fronte all’abisso smisurato dell’Altro godimento.
Un’altra idea dell’onanismo
L’inesistenza del rapporto sessuale scaturirebbe, dunque, dall’eterogeneità tra il godimento fallico e quello femminile. Questi due godimenti non possono integrarsi, conciliarsi, unirsi perché, come abbiamo visto, non sono affatto complementari. Più di preciso, quello che impedisce che vi sia rapporto tra l’uno e l’altro è l’esistenza del godimento fallico. Questo godimento riguarda infatti l’organo, è godimento del mio proprio corpo canalizzato in un organo, sia esso la vagina o il pene. Il godimento fallico non può che essere godimento dell’Uno perché non è godimento del corpo dell’altro, ma solo del mio corpo attraverso il corpo dell’altro.
In questo senso, potremmo dire che l’autoerotismo non è solo una tappa precoce dello sviluppo della libido, ma un modo fondamentale del godimento sessuale in quanto tale: trarre piacere dal proprio organo genitale o dal proprio corpo. Mentre la sessuologia concepisce tradizionalmente l’accesso al rapporto sessuale come legato all’abbandono dell’autoerotismo inteso come fase acerba e immatura della sessualità, se seguiamo Lacan dobbiamo invece constatare che anche nel corso del rapporto sessuale esiste un autoerotismo che non si dissolve, ma accompagna il rapporto come una sorta di residuo infantile della pulsione inassimilabile allo sviluppo cosiddetto genitale della sessualità. Se il rapporto sessuale non esiste – come insiste nel dichiarare lo psicoanalista francese – è perché nessuno dei due partner può liberarsi dal godimento del suo proprio corpo e del suo organo. Dunque l’autoerotismo non è solo ciò che ci consente di sopportare l’assenza eventuale di rapporti sessuali, ma è proprio ciò che li rende impossibili, inesistenti, secondo Lacan.
Ogni rapporto, infatti, porterebbe con sé un non rapporto di fondo, non sarebbe altro, da questo punto di vista, che una masturbazione condivisa in quanto nessuno dei due, per quanto ci si affanni a uscire da se stessi, può godere del corpo dell’altro ma solo del proprio organo poiché, come abbiamo visto, il moto autistico della pulsione non entra infatti nel rapporto che invece il desiderio esige.
In un sogno emblematico di un uomo ossessivo raccontato da Ella Sharpe e ripreso da Lacan, l’onanismo rivela la sua cifra più fondamentale.12 Questo paziente, pur avendo una vita sentimentale e professionale ricca, non riesce mai a portare a termine con piena soddisfazione i suoi progetti. Gli accade anche nel gioco del tennis: di fronte alla possibilità di vincere il suo braccio si paralizza. In questo sogno appare all’uomo una donna che davanti a sua moglie lo corteggia spudoratamente chiedendogli il fallo, salendo a cavalcioni sopra di lui e provando a infilarsi il suo pene nella vagina. La risposta del paziente è un enigmatico: “I masturb”, che nella lingua inglese indica ambiguamente sia il “masturbarsi” che il “masturbarla”.
L’interpretazione di Lacan, che riduco qui all’osso, mostra come di fronte all’incognita del desiderio dell’Altro – incarnato dalla donna sconosciuta e priva di inibizioni – il soggetto, come gli accade del resto nella vita, opta per l’onanismo, preferisce, cioè, il proprio pene alla minaccia contenuta nel corpo della donna. Il fallo non diviene oggetto di desiderio, ma si sottrae al rapporto ripiegandosi narcisisticamente su se stesso. L’insidia del desiderio dell’Altro viene così scansata. L’uomo mostra di preferire ossessivamente la garanzia della morte rispetto alla turbolenza della vita. Era infatti il posto del morto quello che suo padre agonizzante gli aveva assegnato: “Prendi il mio posto laddove io muoio”.13
Questo sogno svela un aspetto fondamentale della pratica della masturbazione. Godere col proprio organo taglia fuori il corpo dell’Altro, il confronto col suo desiderio, evita l’“ora della verità” del rapporto sessuale senza però escludere il rapporto con il proprio fantasma. Nelle fantasie dell’onanista non è presente solo il proprio organo sessuale, ma innanzitutto una scena. L’autarchia della masturbazione non coincide con l’autismo psichico. Non esiste masturbazione se non attraverso l’incidenza del fantasma. Solo in certe psicosi la masturbazione pare sganciarsi dal fantasma per divenire una pura attività meccanica di scarica di un godimento vissuto come minaccioso o eccessivo e destabilizzante. In un mio vecchio tirocinio in psichiatria avevo visto un soggetto schizofrenico dedicarsi alla masturbazione ininterrottamente nel corso di tutta una giornata. In quel modo provava a evacuare un godimento maligno che invadeva abusivamente la sua esistenza. Nella nevrosi, invece, l’onanista coltiva le fantasie che il soggetto perverso mette in pratica. La masturbazione, come avviene nel caso del paziente di Ella Sharpe, è il suo rifugio sicuro, sottratto alle intemperie ingovernabili provocate dall’incontro con il desiderio e il godimento dell’Altro.14
Ma se invece esistesse solo il rapporto?
Se il corpo sessuale è, per un verso, autoerotico, mosso dall’autismo della pulsione che vuole godere di se stessa, per un altro verso è sempre esposto al rapporto dal momento che la sua stessa esistenza si dissolve nel rapporto.15 La generazione stessa rivela che nessuno di noi si è potuto generare da sé, ma che ogni vita deriva necessariamente da un rapporto. La sessuazione del corpo porta con sé le tracce di questa costituzione eterodeterminata della vita. L’esistenza del nostro corpo sessuale mostra che la vita umana è originariamente esposta al rapporto con l’Altro. Il corpo sessuale è fatto per essere in un rapporto. Sicché non è solo, come pensa invece Lacan, il non rapporto tra i due a definire l’esperienza del reale come impossibile.
Il reale che non possiamo mai aggirare non è solo il reale del non rapporto, ma è anche il reale del rapporto. Impossibile non è solo far esistere il rapporto sessuale – lo abbiamo visto, i Due non possono mai fare Uno: “Quando uno fa due, non c’è mai ritorno. Non torna a fare di nuovo uno, nemmeno uno nuovo”, afferma Lacan a questo proposito.16 Al tempo stesso, risulta anche impossibile sottrarsi al rapporto. Il corpo sessuale appare, infatti, sempre iscritto nell’orizzonte del rapporto, è fatto per essere in rapporto, sebbene ogni rapporto porti inevitabilmente con sé un non rapporto, l’impossibilità della comunione, della condivisione senza scarti dell’Uno con l’Altro.
Una mia paziente, fervente cattolica e in difficoltà nello stare nel rapporto con l’Altro, recitando la preghiera del Padre nostro, mi raccontò di avere fatto un lapsus formidabile. Invece di dire: “e non indurci in tentazione”, ha detto: “e non indurci in relazione”. Lapsus inequivocabile che situa il reale insopportabile non tanto nell’inesistenza del rapporto – nella sua assenza – ma nella sua esistenza ineliminabile. L’Altro nel rapporto è anche l’Altro irraggiungibile che sfugge sempre al rapporto. Non posso evitare il rapporto, ma non posso nemmeno pretendere di governarlo, di ridurlo a uno stato, a un essere definito. Un rapporto non possiede infatti le caratteristiche della semplice presenza, non è mai una cosa, non ha una sostanza.
Il desiderio è turbamento proprio perché ci espone a questo doppio volto del rapporto: la sua inaggirabilità – non si può non essere in un rapporto – e la sua impossibilità – non si può far esistere il rapporto. Come ricorda bene Barthes, “l’altro è sempre impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai”.17
Catturati dal fantasma
Se l’amore è amore del nome, è amore di un soggetto verso un altro soggetto, il desiderio sessuale è passione per il corpo. Ma per quale corpo?
I corpi, come abbiamo visto, si erotizzano a partire dal fantasma inconscio che struttura il desiderio. Essi appaiono desiderabili solo nella misura in cui corrispondono ai criteri esclusivi e particolari (inconsci) stabiliti da questo fantasma. L’erotismo implica sempre una quota di feticizzazione dell’oggetto. Questo significa che la parte viene presa per il tutto. Nella vita erotica l’idolatria dell’oggetto feticcio sembra prevalere sino a cancellare la particolarità del nome: una scarpa, un paio di mutande o dei tacchi a spillo, un piede, dei seni, una gamba o un addominale scolpito introducono nel corpo un valore aggiunto che appare separato dal nome del soggetto. Il rapporto è come se fosse annichilito da una passione unilaterale del soggetto per un oggetto inanimato o per una parte del corpo del suo partner. Nella psicologia maschile questa inclinazione risulta particolarmente accentuata. La passione feticistica per il “pezzo” – come lo descriveva senza indugi un mio paziente – tende a imporsi sull’interesse amoroso per il nome. L’oggetto che causa il desiderio sessuale non è il soggetto in quanto tale, ma un oggetto parziale, una parte del corpo dell’altro. Questa parte del corpo, questo “divino dettaglio”, come direbbero Flaubert e Warburg, cattura il desiderio maschile attivandone la spinta. La condizione del rapporto sessuale coincide con questa incidenza erotica del feticcio sul desiderio del soggetto. Colpisce quanto i pazienti riferiscano il carattere indispensabile della presenza del feticcio per rendere possibile il rapporto o per accentuarne l’intensità erotica. Per un verso, l’erotismo esige la distanza, l’artificio, il velo come ciò che, preservando il segreto dell’altro, può animare il desiderio. Risulta erotico ciò che si intravede, che non è mai una semplice presenza, un’evidenza, ma qualcosa che si ritrae sottraendosi alla vista. Lo sappiamo: l’eccessiva presenza tende a smorzare la passione, il familismo uccide l’erotismo, la nudità senza veli non anima l’erotismo del desiderio che invece viene suscitato dal mistero del corpo dell’altro. Per un altro verso, però, il desiderio sessuale tende sempre a girare attorno ai medesimi oggetti e alle medesime scene. Esiste, infatti, una costanza del fantasma alla quale il desiderio resta inconsciamente vincolato. Se i corpi dei partner devono cambiare per ravvivare il desiderio, questo ricambio avviene, in realtà, sempre all’interno di una medesima scena fantasmatica. Come se la fedeltà inconscia del soggetto non fosse tanto legata al soggetto desiderato, ma alle coordinate fantasmatiche che strutturano il desiderio del soggetto. La passione feticistica per i dettagli del corpo mostra chiaramente che nel desiderio sessuale non c’è fedeltà per il nome, ma solo per il fantasma.
Il fantasma maschile tende a collocare le donne sul lato dell’oggetto. Questo ha molteplici significati e conseguenze. Innanzitutto, come abbiamo visto, la natura feticistica dell’oggetto. È una tesi classica di Lacan: il desiderio maschile situa nell’Altro un oggetto – detto “oggetto piccolo (a)” –, il quale rivela un potere causativo sul desiderio stesso. Lo suscita, lo provoca, lo attiva. Questo oggetto, come abbiamo appena visto, tende a coincidere con una parte del corpo della donna, con un suo dettaglio, ma anche con un oggetto inanimato (scarpe, calze, reggiseno…). Esiste, infatti, un’idiozia fondamentale nel desiderio sessuale maschile che consiste nel non poter prescindere dalla presenza di questo oggetto. È il tratto ordinariamente feticistico del suo fantasma.
Il carattere irresistibile di quest’oggetto proviene dalle esperienze infantili precoci, dalla sessualità perverso-polimorfa e dalle prime esperienze sessuali che hanno dato forma al nostro desiderio. Per questo un uomo può constatare il valore eroticamente insostituibile dei seni, di una scarpa o della voce nel causare il proprio desiderio. Più in generale, è il valore che il desiderio maschile tende ad attribuire alla bellezza. Essa appare spesso come un criterio maschile irrinunciabile per far esistere il desiderio sessuale. La bellezza – come l’oggetto piccolo (a) – ha lo scopo di velare la castrazione del corpo femminile riducendo l’angoscia del suo impatto. Ma in altri soggetti possiamo osservare esattamente il contrario: l’estrema bellezza viene evitata in quanto fattore di inibizione della sessualità, come accade per ogni idealizzazione eccessiva.
Non si dovrebbe in ogni caso sottovalutare l’impatto della presenza dell’oggetto-feticcio non solo nel determinare il moto del desiderio, ma anche la sua scelta amorosa. La presenza o meno di quest’oggetto nel corpo dell’altro stabilizza il desiderio rendendo possibile il suo innesto nell’amore, o, se si vuole dirlo con altri termini, favorisce la congiunzione dell’amore col desiderio. Se invece l’oggetto del desiderio è assente, la scelta amorosa manca di radici erotiche e tenderà a disgiungersi dal desiderio sessuale. L’insoddisfazione e l’irrequietezza del desiderio prevarranno sulla possibilità della relazione di durare. In un mio paziente l’oggetto erotico per eccellenza coincideva con un timbro particolare della voce. È sempre a partire dall’oggetto-voce che egli sceglie le sue donne. La voce della madre, colta mentre tradiva il padre dedicandosi a lunghe telefonate segrete con il proprio amante, si è impressa come una traccia indelebile nell’inconscio di questo soggetto. La sua melodia clandestina rivelava l’istanza di un desiderio che esorbitava la funzione della madre e faceva apparire il reale scabroso ed eccitante della donna. Questa voce ha scavato delle impronte nell’inconscio del soggetto che non possono essere cancellate e che hanno orientato il suo desiderio sessuale.
In un altro mio paziente sono state le mani e lo sguardo della madre a esercitare questo potere causativo. La madre farmacista aveva sempre manifestato una grande preoccupazione per la sua salute di bambino estremamente cagionevole. Il suo corpo era sempre stato oggetto di palpazioni e attenzioni particolari. Le mani e gli sguardi delle donne esercitano per quest’uomo un’attrazione erotica magnetica. Sentire le mani e lo sguardo posarsi sul proprio corpo accende il suo desiderio come nessuna altra cosa. In un altro uomo, invece, resta vivido il ricordo di quando da bambino spiava la propria madre mentre si truccava allo specchio facendosi bella. Egli, nella vita adulta, trova irresistibile la cura, la grazia dei dettagli, il fascino degli abiti che caratterizza certe donne. La bellezza della mascherata femminile è un attributo che ricorre con evidenza in tutte le sue scelte amorose.
Il tabù della verginità
Un altro effetto storicamente tipico del fantasma che organizza il desiderio sessuale maschile concerne il cosiddetto tabù della verginità. Questo tabù ha infatti colonizzato per secoli l’immaginario maschilista che impone di esorcizzare attraverso l’illibatezza il carattere indomabile della femminilità. Non a caso Freud ha fatto notare come in molti nevrotici l’incontro col sesso femminile possa frequentemente suscitare una profonda angoscia. Non solo perché essi vengono confrontati con la loro origine più lontana e inaccessibile – il corpo perduto della madre –, ma soprattutto perché nel sesso femminile fanno obbligatoriamente esperienza di quella legge della castrazione dalla cui presa vorrebbero sottrarsi. Il disgusto nei confronti dell’organo sessuale femminile mirerebbe, cioè, a rifiutare la legge della castrazione per mantenere in vita un’immagine ideale della madre staccata da quella (reale) della donna. Per questa ragione molto spesso la gelosia maschile, come del resto mostrano, insieme a Freud, anche Proust nella Recherche e Nanni Moretti in numerosi suoi film, per esempio in Bianca, non è mai solo legata al presente e al futuro della vita sessuale della propria partner, ma coinvolge anche tutto il passato. Il geloso, infatti, vorrebbe possedere tutto il tempo, la storia, la memoria, la vita intera dell’oggetto amato, ma solo come espressione della propria ambizione a governare il godimento della donna, a impadronirsi integralmente del suo corpo vissuto come un vero e proprio oggetto di angoscia.
La tutela dell’imene dovrebbe assicurare questo possesso tanto assoluto quanto impossibile: essere stato il primo significa essere stato e restare l’unico, evitare il confronto con altri uomini e mantenere l’amata, come direbbe Freud, in uno stato di “soggezione”.18 Di qui l’idealizzazione nevrotica della vergine il cui passato illibato deve riflettere il fantasma di un possesso assoluto che non implica la rivalità con nessun altro uomo. Ingenuità solo maschile che si riflette nel mito storico della cintura di castità: impedire, con il sequestro materiale del suo sesso, che la propria donna possa godere liberamente. L’illusione ottica di questo ragionamento resta tuttavia evidente e, per certi versi, risibile: l’immaginario maschilista vorrebbe poter misurare la fedeltà o l’infedeltà della propria donna solo nella considerazione del comportamento degli organi genitali e non di quello, assai più pregnante, del desiderio e dei suoi fantasmi. È, infatti, l’amore e non la cintura di castità che può rendere davvero il corpo dell’amata o dell’amato sempre vergine, ovvero unico, nuovo e insostituibile.
La verginità è una condizione necessaria dell’amore a patto, però, che non la si confonda con un semplice dato anatomico: la presenza o l’assenza dell’imene. Essa non può costituire la garanzia della mansuetudine e della dipendenza della donna (come vorrebbe invece il fantasma maschilista), ma è l’offerta piena dell’inizio, della possibilità del cominciamento, dell’apertura senza riserve, del dono assoluto di sé. In questo senso più ampio, ogni impresa umana – nell’amore come nel lavoro – esige che vi sia sempre una quota di verginità capace di non venire meno nonostante tutti i cosiddetti insegnamenti dell’esperienza. È la verginità del cuore che ci difende dal cinismo, dal calcolo biecamente utilitaristico, dalla rassegnazione e dall’abbruttimento della ripetizione senza desiderio, perché ci consente di guardare il mondo come un evento sempre nuovo. La verginità – sottratta al fantasma maschilista – non definisce infatti il corpo incontaminato dal sesso, ma la possibilità di rinnovare sempre il nostro rapporto con l’Altro. In questo senso il corpo di chi ama, se ama davvero, è sempre assolutamente vergine.
Desidero la mia costola in te
In una lezione del Seminario xv Lacan evoca a proposito del desiderio maschile il mito biblico narrato nella Genesi relativo alla nascita dell’essere umano.19 Il mito è noto: dopo aver modellato il corpo di Adamo, per non lasciarlo languire nella solitudine, Dio separa dal suo corpo una costola facendo sorgere da essa l’essere femminile. Eva nasce da un pezzo del corpo di Adamo. Quello che a Lacan interessa far notare in questo mito è il trasferimento di una parte del corpo del primo uomo nella prima donna. Egli vi legge un’anticipazione della sua teoria dell’oggetto piccolo (a) come “oggetto causa del desiderio”.
Quello che il desiderio maschile ricerca nel corpo della donna è ciò che si è perduto, che si è separato dal suo proprio corpo trasferendosi nel corpo dell’Altro. Anche in questo mito, se si vuole, al centro resta il carattere feticistico del desiderio maschile che si rivela attratto più dall’oggetto (la costola) che non dal soggetto (Eva). Mentre infatti l’amore implica l’esistenza di una relazione unica tra soggetti, quella che il desiderio maschile stabilisce in questo mito è invece una relazione del soggetto con un oggetto, ovvero con la propria costola perduta. Se nell’amore Adamo può amare Eva, nel desiderio può desiderarla solo in considerazione della presenza dell’oggetto-costola che Eva porta con sé. Allora, in questo caso, dire “ti desidero” significa dire che desidero in te la mia stessa costola, ovvero la parte perduta del mio essere!
Il desiderio sessuale maschile, orientato dal fantasma, si dirige verso Eva solo perché in Eva è contenuta la propria costola, ovvero l’oggetto perduto del proprio desiderio che l’oggetto-feticcio presentifica. Di qui la fatale discrepanza tra il desiderio sessuale e l’amore che già Freud, come abbiamo visto, aveva giustamente evidenziato. La ricomposizione complementare delle due parti resta impossibile. La perfetta simmetria della sfera che caratterizza il mito platonico di Eros – l’amore come ricomposizione dell’intero – si infrange: in primo piano c’è l’asimmetria del desiderio dell’Uno che ricerca il proprio oggetto perduto nell’Altro.
Nel mito biblico troviamo una rappresentazione del desiderio sessuale che, dunque, rovescia quella platonica articolata nel Simposio. Mentre in Platone il desiderio sessuale sorge da una ferita, da una divisione, da una frattura del proprio essere originario e mira alla sua ricomposizione, alla restituzione dell’intero che precedeva il taglio inferto da Zeus, nel mito biblico non c’è alcuna possibilità di ricostituire un intero che non è mai esistito. All’origine infatti non c’è un Uno indiviso – l’autosufficienza degli esseri androgini –, ma una differenza. Il desiderio erotico non mira a ricomporre la scissione tra i Due, ma è causato da un oggetto perduto che viene rintracciato nell’Altro. Per questa ragione la voce, i seni, le mani, lo sguardo ecc. – tutta la serie degli oggetti piccoli (a) che incarnano la costola di Adamo – sono espressioni di un’alterità che non si lascia riassorbire nell’Uno. Se in Platone la spinta di Eros porta con sé l’anelito alla ricomposizione dell’antica unità perduta, il ripristino dell’intero, nel mito biblico Adamo desidera l’oggetto perduto che resta, come tale, perduto per sempre. L’oggetto che causa il desiderio – la sua stessa costola – non può dare luogo così a nessuna riappropriazione, non può ritornare al soggetto perché il suo posto è irreversibilmente collocato nell’Altro. Nella Grande bellezza di Sorrentino la costola di Adamo assume le forme del primo bacio della giovinezza, che assomiglia a una sorta di impronta indimenticabile che si deposita nella memoria come un oggetto perduto e, nello stesso tempo, insostituibile del desiderio che viene costantemente rammemorato attraverso l’esperienza della bellezza nelle sue molteplici forme.
Nel mito biblico riletto da Lacan c’è, però, un altro punto di estremo interesse che deve essere sottolineato. Essendo l’oggetto dislocato irreversibilmente nel corpo dell’Altro è giocoforza che per entrare in contatto con esso il soggetto sia tenuto a spendersi nel rapporto con l’Altro. Come dire che tra il soggetto (Adamo) e l’oggetto che causa il suo desiderio (la costola) fa l’apparizione il soggetto (Eva) come terzo incomodo. Non a caso nella fruizione porno o a pagamento del godimento sessuale il soggetto è esattamente ciò che manca. Per questo gli uomini possono esserne degli avidi consumatori. Il terzo incomodo in questi casi viene semplicemente abolito. L’accesso all’oggetto avviene – nella forma reale o virtuale – senza la mediazione necessaria della soggettività dell’altro.
Un mio paziente esprimeva questo concetto senza peli sulla lingua quando affermava con un certo fastidio che per raggiungere la sua meta agognata – il rapporto anale – doveva fare delle acrobazie retoriche ed erotiche per “scavalcare ogni volta la donna che mi sta davanti”. L’obiettivo da raggiungere non era il rapporto con il soggetto, ma quello con il proprio oggetto di godimento, ovvero con la propria costola.
Mentre, dunque, il mito platonico accentua l’aspirazione a una sintesi finale e restauratrice dell’antica unità, quello che Lacan descrive attraverso il mito biblico della Genesi è un desiderio votato all’impossibilità di questa sintesi. Piuttosto esso è costretto al rapporto per perseguire il proprio oggetto perduto che tale però sarà destinato a restare. Troviamo qui un’ulteriore conferma della tesi di Lacan relativa all’inesistenza del rapporto sessuale che non esiste perché, a rigore, il desiderio sessuale non stabilisce un rapporto tra due soggetti, ma tra un soggetto e un oggetto.
In un sogno un mio paziente che eroticamente si sente profondamente attratto dalle donne dai grandi seni si trova nel letto con una donna sconosciuta provvista di questo “divino dettaglio” che sente di desiderare profondamente. Ma quando, in uno stato di grande eccitazione, prova a possederla sessualmente sente che al posto della vagina c’è una parete di plastica che impedisce la penetrazione. Struggendosi di fronte a questa impossibilità, avverte il suo desiderio crescere insieme all’impotenza di realizzarlo. Poi accade che la donna scompaia e che lui si ritrovi solo nel letto. A quel punto un’altra donna gli porta un cesto di arance che assomigliano a dei seni. Lui converte la tensione sessuale che lo attraversa divorando avidamente le arance, anche se una volta finite rimpiange la donna che ha desiderato tanto e che è misteriosamente evaporata. Allora, commenta sconfortato il proprio sogno: “Per me con le donne è sempre così. Prendo tutto quello che posso prendere, ma alla fine resto sempre solo”. Il rapporto con l’oggetto cancella, infatti, in questo caso, il rapporto col soggetto. Il seno è estratto dal corpo come la costola di Adamo da Eva. La solitudine del godimento vincola quest’uomo al consumo solitario dell’oggetto-feticcio separato dal soggetto.
Sebbene la vocazione del desiderio maschile, come abbiamo visto, sia idiotamente feticistica, il fatto che l’oggetto perduto sia trasferito nel corpo femminile implica in ogni caso che il desiderio debba rivolgersi all’Altro. Ma questa apertura – dalla quale può sorgere l’amore – può anche divenire estremamente violenta e feroce. L’uomo vorrebbe riavere la propria costola, vorrebbe imporre sul corpo della donna il marchio della sua proprietà. È il fantasma appropriativo che l’ideologia del patriarcato ha celebrato come superiorità ontologica dell’uomo sulla donna. In questi casi la donna non è più la sede metaforica della costola dell’uomo, ma rischia di divenire un oggetto di esclusiva proprietà dell’uomo, che si pone arbitrariamente come padrone della donna seguendo le coordinate drammatiche di un’imposizione sadica: l’uomo usa la donna come oggetto del proprio godimento svilendolo e puntando al suo annientamento sessuale e morale.20
Il caso estremo che illustra questa logica è quello della perversione psicotica di certi serial killer che possono amputare dal corpo delle donne proprio l’oggetto che condensa il loro godimento rivendicandone in maniera delirante, attraverso la loro macabra collezione, la proprietà. In questi casi non c’è desiderio causato dall’oggetto, ma prelievo dell’oggetto reale dal corpo reale della donna, collezionismo folle dell’oggetto-feticcio.
Il desiderio femminile
Il desiderio femminile, diversamente da quello maschile, non è affatto calamitato dall’oggetto-feticcio, ma dall’esigenza primaria di sentirsi desiderata. Esso punta a unire l’amore al godimento, il nome al corpo.
In generale, seguendo un’indicazione di Lacan, si può affermare che il feticismo maschile ha come suo corrispettivo femminile una tendenza erotomaniacale a farsi amare in modo unico dal partner. Se sul lato maschile prevale l’idolo dell’oggetto feticizzato, su quello femminile prevale una domanda d’amore che non è mai soddisfatta. In una mia paziente la scelta lesbica, dopo diversi rapporti disastrosi con uomini sadici e malignamente narcisisti, è stata motivata dalla necessità di incontrare finalmente una sessualità non più disgiunta dall’amore. L’amore per una donna la sottrae così al vissuto di essere “depredata” dagli uomini. Nondimeno quello che la faceva disperare nella relazione con la sua nuova partner era la sensazione costante di non essere amata come lei avrebbe desiderato. La domanda d’amore femminile trova, infatti, difficilmente appagamento, perché l’esigenza di essere unica per l’altro deve essere costantemente ribadita. Se l’idiozia maschile consiste nell’idolatria del “pezzo”, quella femminile consiste nel ripetere infinitamente la domanda d’amore: “Mi ami?”, senza che mai nessuna risposta possa essere considerata come quella definitiva.
Di fronte all’ottusità feticistica del desiderio maschile, la risposta del desiderio femminile sul piano sessuale consiste nel corrispondere a questa tendenza senza però identificarsi passivamente all’oggetto-feticcio. Il che significa saper giocare a fare il sembiante dell’oggetto senza però mai esserlo nella realtà. Una donna può godere nell’assumere nel rapporto sessuale la posizione dell’oggetto senza che questo significhi affatto essere davvero un oggetto. Una delle arti maggiori del desiderio femminile consiste nell’accogliere la fissità idiota del desiderio maschile giocando a fare l’oggetto senza però mai esserlo.
Molti dei sintomi che affliggono la vita sessuale di una donna sono legati alla difficoltà di giocare la parte dell’oggetto nel rapporto sessuale. La sensazione fantasmatica di sentirsi sfruttare, degradare, umiliare, usare dall’uomo rende impossibile assumere, anche solo nel sembiante, la posizione dell’oggetto, ostacolando così l’accesso al godimento sessuale. Con la contraddizione solo apparente che le donne che hanno avuto la vicissitudine di essere state effettivamente abusate dagli uomini, soprattutto quando questo avviene nelle loro prime esperienze sessuali, possono invece sviluppare la tendenza accentuata a identificarsi compulsivamente all’oggetto passivo del godimento dell’Altro. In questi casi, purtroppo, non c’è alcun gioco nell’assumere la maschera dell’oggetto, quanto piuttosto la ripetizione coattiva di una condizione traumatica vissuta essendo state costrette ad assumere nella realtà – e non nel gioco erotico – la posizione inerme dell’oggetto.
Di fronte alla difficoltà di assumere il sembiante dell’oggetto alcune donne possono scegliere la via dell’isteria. Si tratta di una soluzione solo nevrotica del problema del desiderio sessuale femminile che ha come suo perno la disgiunzione tra il godimento e il desiderio. Il fantasma isterico, come abbiamo visto, sospinge il soggetto verso la via del desiderio insoddisfatto, del farsi desiderare, ma solo a scapito del godere. La condizione del farsi desiderare coincide infatti con la sua rinuncia a godere. Nondimeno, può anche accadere che la disgiunzione isterica tra godimento e desiderio si possa ribaltare in favore del godimento. Accade, per esempio, quando una donna isterica realizza facilmente il suo godimento sessuale occupando la posizione di sembiante dell’oggetto che causa il desiderio dell’uomo, ma solo alla condizione paradossale di non amare.
Una mia paziente, per esempio, può godere solo degli uomini che non ama, ma non può godere del solo uomo che ama perché se godesse con lui si sentirebbe ridotta a un oggetto e, di conseguenza, sentirebbe di non essere più amata, di non avere più alcun valore per l’uomo che ama. Nell’isteria il godere e l’amare appaiono, per un verso o per l’altro, comunque inconciliabili. Diversamente dalla soluzione isterica, la scelta del desiderio femminile consiste, invece, nel giocare la parte dell’oggetto (far desiderare e far godere) mantenendosi però pienamente nella posizione di essere soggetto del proprio desiderio (poter desiderare e poter godere).
Lo stesso accade sul piano più stretto della dinamica del desiderio: mentre l’isterica si dedica a farsi desiderare per farsi essere – ella non esiste se non attraverso il desiderio dell’Altro – rifiutando inconsciamente il godimento (perché si sentirebbe ridotta a un oggetto inerte) per preservare la sua posizione di soggetto, una donna sa desiderare e farsi desiderare e, soprattutto, sa godere senza necessità di operare alcuna disgiunzione tra il suo desiderio e il suo godimento.21
Godimento femminile
Uno dei grandi meriti di Lacan consiste nell’aver liberato il godimento femminile dall’ombra del primato del godimento fallico.
L’idea freudiana dell’invidia del pene come tratto caratteristico della sessualità femminile ha dato luogo all’idea che la donna fosse una sorta di minorata fallica in attesa smaniosa del suo (impossibile) riscatto. L’invidia rivolta verso il maschio riflette questa condizione di subordinazione ontologica. Lacan ha spostato con decisione l’accento dall’assenza anatomica del pene come fondamento del senso di inferiorità e di rivendicazione invidiosa della donna, all’idea che l’assenza oggettiva del fallo nell’anatomia femminile non costituisca affatto un deficit insormontabile, ma faciliti, al contrario, la liberazione della donna da quell’“ingombro fallico” che invece ostruisce il godimento maschile schiacciandolo sul fantasma della competizione e della prestazione. Con l’espressione di “ingombro fallico” Lacan si riferisce all’effetto di inebetimento che la centralità del fallo comporta nella vita psichica del maschio: rivalità, performatività obbligata, esasperazione narcisistica dell’avere e della propria volontà di affermazione, obbligo della performance.
Di conseguenza, l’assenza del fallo non grava affatto sulla donna come il segno inequivocabile della sua inferiorità – è la tesi freudiana dell’invidia del pene –, ma come un’opportunità supplementare, un’apertura assai più ampia sul proprio godimento. Lo abbiamo visto: il godimento femminile non è limitato dalla legge della castrazione, non necessita della proibizione per accendersi e incentivarsi – secondo la logica ordinariamente perversa della trasgressione che vuole che l’oggetto massimamente desiderato sia quello proibito –, ma si manifesta in modo affermativo come un’eccedenza, una potenza vitale, un godimento anarchico e illimitato, non vincolato all’esperienza del limite che invece l’eiaculazione e la conseguente detumescenza introducono nel godimento fallico. Questo godimento non è, cioè, confiscato dalla centralità del fallo, non è circoscritto alla sua sequenza binaria (erezione-detumescenza), ma si diffonde in tutto il corpo, non ha centro, è plurale, nomadico, decentrato. Esso non è localizzato all’oggetto-feticcio, ma si diffonde nel corpo, sicché più che a una presenza è in relazione a un’assenza. La sua dispersione su tutta la superficie del corpo rifiuta la canalizzazione fallica, rigetta l’idea gerarchica che invece condiziona tendenzialmente la sessualità maschile e il primato del fallo.
Tuttavia, non è l’anatomia femminile in sé – come invece ritiene il femminismo essenzialista alla Irigaray – a rendere effettivamente l’apertura verso l’eccedenza di questo Altro godimento. La realtà anatomica del sesso non custodisce una verità ontologica, ma deve lasciare il posto al processo di sessuazione, ovvero a come l’oggettività dell’anatomia femminile possa essere soggettivata da ciascuna singola donna. La prova empirica più semplice dell’esorbitanza della sessuazione rispetto alla realtà anatomica del sesso è data dall’esistenza di donne che l’anatomia classificherebbe inequivocabilmente come tali, ma che dal punto di vista del loro funzionamento psichico e del loro stesso godimento sarebbero altrettanto inequivocabilmente da collocare sul lato della sessuazione maschile: aggressività competitiva, rivalità, difesa della propria identità, culto della performatività fallica.
In questo senso il femminile non coincide affatto essenzialisticamente con l’anatomia femminile, ma solo con una sessuazione che esclude l’ingombro fallico e che si dispone come amore per l’heteros, accoglienza, apertura, riconoscimento dell’alterità dell’Altro.
Per questo Lacan ha sempre insistito nel definire l’amore come “eterosessuale”, non ovviamente nell’ordine ontologico della differenza anatomica, ma in quello dell’apertura nei confronti dell’heteros, dell’Altro, dell’eterogeneo. Ogni amore degno di questo nome – sia esso omosessuale, eterosessuale, trans ecc. – è, infatti, eterosessuale in quanto è amore per l’heteros a prescindere dalla sua anatomia. In questo senso il godimento femminile è il vero erede dell’Eros di Freud più che dell’invidia del pene. Eros indica una forza illimitata, libera, una potenza generativa che tende a istituire legami di vita e non di morte, che spalanca il soggetto sul segreto di una gioia senza padronanza.
A occhi chiusi
Il feticismo che orienta il desiderio sessuale maschile esige il piacere di vedere. Lo sguardo non persegue solo la finalità biologico-istintuale di orientare il nostro corpo e la nostra percezione nello spazio, ma si carica anche di contenuti libidici, essendo una zona erogena come quella orale, anale o fallica. Esiste infatti un vero e proprio piacere pulsionale nel vedere, una vera e propria pulsione scopica. Freud la definisce con il termine Schaulust, che significa proprio “piacere di vedere”.22 Se il desiderio scatta come desiderio del corpo dell’altro, se è provocato dai divini dettagli che rendono quel corpo erotico alla luce del fantasma, il piacere della sua visione costituisce una parte essenziale dell’incontro sessuale.
In un mio paziente vedere il corpo nudo della propria partner – in particolare la forma abbondante dei suoi seni – era la condizione imprescindibile per desiderarlo. La contemplazione della nudità dei seni era eccitante di per sé, causava il suo desiderio. In un altro era piuttosto la necessità di vedere non tanto il corpo nudo della partner, ma le sue scarpe. Questo dettaglio infiammava il suo desiderio rivelando la sua natura ordinariamente feticistica. Quando la sua donna indossava le scarpe era come se aggiungesse al proprio corpo un ingrediente necessario per renderlo desiderabile. Non a caso quest’uomo definiva la presenza delle scarpe come un vero e proprio “ingrediente” che non può mancare in un corpo femminile perché risultasse desiderabile.
Nelle donne questa centralità della pulsione scopica non è assente, sebbene si possa trovare anche la tendenza a neutralizzarla. Non è raro, infatti, trovare donne che nella relazione erotica preferiscono chiudere gli occhi. Accade nel bacio come nel rapporto sessuale. Spegnere la luce può essere una condizione necessaria all’incontro sessuale. Ma non si può ricondurre questo comportamento a una semplice vergogna per le fattezze del proprio corpo, alla sua nudità che potrebbe rivelare imperfezioni o, ancora, a un sentimento generico di inibizione. Il buio non è solo il luogo di un nascondimento pudico di fronte allo sguardo dell’Altro. Talvolta può essere invece ricercato come sinonimo di abbandono, affidamento, cedimento della vigilanza. La vista, infatti, non è solo un luogo di piacere, ma è anche un presidio di controllo. Spegnere la luce significa allora entrare in uno spazio dove l’Ego arretra, cede il passo, lascia che il corpo erotico possa abbandonarsi al buio. In questo senso chiudere gli occhi apre il corpo a un godimento non più circoscritto dalla luce della visione, un godimento che può essere senza limiti, senza contorni, senza argini. Chiudere gli occhi può significare accogliere questo godimento del corpo come una gioia affermativa, come qualcosa che trascende l’Io. Questa gioia può essere anche il segnale di una convergenza tra il godimento sessuale e l’amore.
L’alterità del corpo femminile
Una donna nel rapporto sessuale non si confronta mai solo con il proprio partner, ma anche con il proprio corpo che, come abbiamo già visto, può vivere come una potenza straniera – un’alterità interna – che rischia di travolgerla.
Diverse pazienti, non a caso, associano l’orgasmo femminile al rischio della follia. Una mia paziente, mentre sogna di fare l’amore in modo appassionato con uno sconosciuto, vede che il suo corpo si disfa, perde i pezzi per trasformarsi alla fine in una sorta di Alien che trasfigura il rapporto sessuale in un’aggressione mortale. Nel caso di un’altra donna che ho avuto modo di seguire per molti anni, il primo orgasmo ha coinciso con lo scatenamento della sua psicosi. L’irruzione tumultuosa del godimento ha spezzato gli argini della sua precaria identificazione provocando una frammentazione del proprio Ego. La mattina, svegliandosi nel letto insieme al suo sconosciuto amante, si è sentita invasa dal pensiero di avere contratto una malattia del sangue che l’avrebbe condannata alla morte. Non si trattava di una fantasia ipocondriaca ma di una certezza delirante: il giorno successivo deve infatti tagliarsi brutalmente le braccia per fare sgorgare il proprio sangue infetto in modo da evitare un contagio mortale.
La vertigine dell’Altro godimento per una donna può essere tanto desiderata quanto temuta.23 Perché temuta? Il godimento del proprio corpo, poiché eccede strutturalmente il piano stabilizzante delle identificazioni e anche quello del coito in senso stretto, può apparire come una forza che disarciona il soggetto consegnandolo al rischio di uno smarrimento senza ritorno. Mentre il godimento maschile implica, come abbiamo ampiamente visto, un esercizio di padronanza legato al supporto di un’identificazione fallico-narcisistica – il dramma personale dell’eiaculatore precoce o dell’impotente è di non riuscire ad assicurare l’effetto di padronanza suscitato da questa identificazione –, quello femminile implica invece un cedimento, un accoglimento della propria passività, una perdita di padronanza, un lasciarsi sommergere dal godimento straniero del proprio stesso corpo.
In questo senso una donna, mentre ha un rapporto sessuale col proprio partner, è sempre anche in rapporto all’alterità eccedente del proprio corpo. Come ricorda Lacan, il godimento femminile eccede l’esperienza del coito. L’essere femminile è preso tra due alterità: quella del corpo del partner e quella del proprio stesso corpo. Il fenomeno assai frequente dell’anorgasmia può dipendere da questa difficoltà a cedere la propria vigilanza, ad affidarsi all’illimitato del godimento, alla perdita del proprio Io, ad accogliere la profonda vertigine del “lasciarsi fare”, come si esprimeva una mia paziente sorpresa di aver avuto accesso a una profonda esperienza di piacere nel rapporto sessuale solo quando è riuscita ad abbandonarsi nelle mani del suo compagno lasciandosi, appunto, fare, “cedendo il comando”, per usare una sua altra precisa formulazione.
Il nome e il corpo
La tesi lacaniana dell’inesistenza del rapporto sessuale, come abbiamo visto, scaturisce dalla divaricazione tra l’amore e il desiderio sessuale, tra il godimento maschile e il godimento femminile, tra il godimento fallico e l’Altro godimento, tra sessuazione fallica e sessuazione femminile. Restiamo ancora un momento sulla divergenza tra amore e desiderio sessuale. Abbiamo visto come l’amore esiga l’unicità dell’amato, mentre il desiderio sessuale la sua serialità. Questo significa che l’amore rifiuta il godimento che non sia vincolato a un nome, mentre il godimento come tale tende all’anonimato, alla cancellazione del nome attraverso il corpo, all’idiozia dell’oggetto, al recupero della propria costola.
L’amore, come afferma Lacan, diversamente dall’anonimato del godimento pulsionale, non può che essere “amore del nome”. Se l’anonimato può accompagnare il rapporto sessuale – si possono avere rapporti sessuali senza conoscere nemmeno il nome del partner –, non è possibile amarsi se non attraverso il riconoscimento dei propri nomi. Per questo la tendenza degli amanti è quella di nominarsi in modo nuovo, di rinominarsi, di battezzarsi nuovamente con nomignoli, con altri nomi, con nuovi nomi.
Ma ancora più radicalmente, nel caso dell’amore, il dettaglio feticistico del corpo non si oppone affatto al tutto, ma l’Uno e l’Altro – il nome e il corpo – si danno in un’unità fondamentale. Sono proprio i dettagli del corpo che rendono unico quel nome e, viceversa, è proprio l’esistenza di questo nome a rendere unico quel corpo. Sicché mentre nel fantasma feticistico del desiderio sessuale il tutto è oscurato dal prevalere della parte, nell’amore la parte diventa espressione del tutto. Se non c’è alcun nome a glorificare un corpo, una volta goduto questo corpo perde fatalmente il prestigio attribuitogli dall’essere una novità e si rivela come uno straccio usato.
Quando dico “ti amo” sto dicendo forse che amo qualcosa di chi amo? Per esempio, una sua qualche proprietà irresistibile, affascinante, imperdibile. Il corpo, le qualità morali, spirituali, la ricchezza, i suoi piedi, i suoi seni, le sue scarpe? Cosa dico di amare quando dico “ti amo” a qualcuno? È indubbio che gli amanti presi nell’amore provino sempre a fare degli elenchi delle qualità irrinunciabili dell’oggetto amato. Ma questo elenco risulta ogni volta immancabilmente insoddisfacente. Nessuna lista appare mai in grado di rivelare le ragioni che sono a fondamento della mia dichiarazione d’amore. La scelta amorosa non è, infatti, mai determinata da qualcosa, ma dal modo di stare al mondo di chi amiamo. Non dunque da qualcosa, ma dal suo stile, dal suo modo particolare di esistere. Per questo chi ama non ama mai qualcosa dell’altro, ma, come ricorda Lacan, ama “tutto” dell’altro: “Si vuole essere amati non solo per il proprio Io, ma per il colore dei propri capelli, per le proprie manie, per le proprie debolezze, per tutto”.24
L’amore non si limita dunque a ritagliare dei dettagli dal corpo dell’Altro, ma investe l’intero essere dell’Altro, unendo il dettaglio del corpo alla soggettività dell’Altro. Anche quando il desiderio erotico richiede la presenza di certi dettagli per attivarsi, come più tipicamente rivela la natura maschile di questo desiderio (seni, piedi, gambe ecc.), questo stesso dettaglio non è più desiderato in se stesso poiché viene reso unico dall’essere a cui appartiene. È in questo modo che il carattere feticistico del fantasma maschile si coniuga con l’amore per la singolarità dell’essere amato.
Non è dunque un caso che l’amore, diversamente dall’atto sessuale in quanto tale, implichi sempre una dichiarazione simbolica, un atto linguistico. Questa dichiarazione – “Ti amo” – rende manifesta la mancanza del soggetto amoroso: se dico “ti amo”, dico che la tua mancanza definisce il mio essere, che il mio essere non può essere se non attraverso la tua mancanza. Se mi manchi è, infatti, solo perché ti amo. Dire “ti amo” non ha, dunque, lo stesso valore che dire “ti desidero”. Se il desiderio definisce la relazione tra un soggetto e l’oggetto che causa il suo desiderio, l’amore non esclude affatto questo desiderio, ma lo rende assoluto, non seriale, lo arresta sul carattere intraducibile di un nome proprio, lo iscrive in un corpo singolare. Quando il desiderio si coniuga con l’amore l’uno tende a rafforzare l’altro. Non c’è più un desiderio ostacolato nevroticamente dall’amore o un amore che rifiuta nevroticamente il desiderio, ma è il desiderio come espressione dell’amore e l’amore come espressione del desiderio.
Questa è la sola vera congiunzione possibile – quella tra il desiderio e il godimento – tra il corpo e il nome. Non quella – impossibile – del godimento dei corpi, che resta invece incondivisibile. La sola supplenza possibile all’inesistenza del rapporto sessuale, secondo Lacan, è, infatti, quella dell’amore.25 Se l’amore implica la parola mentre il desiderio sessuale il corpo, quando dico “ti amo” a chi desidero dono alla parola un corpo e dono un corpo alla parola. È quello che si dichiara ogni volta che si dice “ti amo”. Si dichiara la compatibilità – altrimenti impossibile – tra la parola e il corpo. È l’ebbrezza che di solito accompagna l’apparizione del nome mentre avviene il rapporto sessuale, non come qualcosa che limita il godimento dei corpi, ma come un suo incentivo. Il miracolo dell’amore è rendere quel corpo unico e insostituibile come se fosse un nome. Il corpo che diviene nome è il corpo che interrompe la serie anonima dei corpi. La feticizzazione seriale del fantasma maschile trova la sua tregua non nell’emancipazione da questo feticismo, ma nello scambio reciproco tra il corpo e il nome. Questo significa che la sessualità non si restringe ma si allarga, investendo anche tutta la realtà della vita quotidiana.
È quello che resta incomprensibile al protagonista del Lamento di Portnoy di Philip Roth che contrappone il tran tran della vita quotidiana all’estasi dell’incontro erotico. Il corpo può diventare davvero un nome solo quando, osservando i suoi movimenti più comuni (camminare, sorridere, vestirsi, lavorare), esso si mantiene perpetuamente fuori dal comune, mai comune, non comune. È la prossimità del nome al senza tempo del Nuovo che non cessa di ripetersi nello Stesso.26 Nell’amore il corpo può assomigliare a un nome quando la sua marca interrompe il circuito anonimo della pulsione calamitando il suo moto intorno allo stesso oggetto. Allora il corpo dell’amato è investito di una luce speciale. Tutto diventa bellezza. Non nel senso che non vi sia amore possibile se non per il bello – aristocrazia estetica inesistente dell’amore –, ma nel senso che è l’amore a generare continuamente il sentimento del bello, a trasfigurare il reale informe del corpo in una figura della bellezza. Accade nell’amore per il prossimo come viene descritto dalla cultura cristiana, che può portare bellezza anche in un campo di lebbrosi – è l’esperienza di Francesco d’Assisi –, ma accade anche nell’estasi del desiderio amoroso dove la bellezza avvolge il corpo desiderato al di là delle sue fattezze, rivestendolo di luce.
Non a caso nella narrazione biblica la luce coincide con il gesto della creazione. Le creature del mondo si rivelano nella loro unicità solo grazie alla luce che Dio apre nella profonda e immensa oscurità della materia. Accade lo stesso agli amanti poiché l’amore illumina in modo nuovo il corpo dell’amato.
Non saper dichiarare l’amore
L’impossibilità di dichiarare l’amore può mostrare la difficoltà ad accogliere l’inedito, la contingenza ingovernabile dell’incontro. Tacere l’amore può significare, in questi casi, non voler aprirsi del tutto all’incognita del desiderio dell’Altro, al desiderio che viene dall’Altro, dal partner, ma anche da quello che viene dal proprio inconscio. Ma non dichiarare l’amore può anche essere una forma iperbolica dell’amore. Un mio paziente non può in nessun modo dichiarare “ti amo” al compagno che ama. Gli è interdetto, gli risulta impossibile farlo. Qualcosa di più forte della sua volontà glielo impedisce. Cosa? La ragione per la quale mi consulta è il timore di perdere l’uomo che ama, il quale si lamenta che la sua presenza – quella del mio paziente – sia sempre altrove, lontana, mai davvero presente come lui invece desidererebbe.
Di fronte alla domanda d’amore del suo compagno egli si sente “pietrificato”. Resta bloccato, inebetito, congelato. Le sue parole non riescono a uscire dalla bocca, rimangono impigliate in qualcosa di imprecisato. Non riesce a dichiarare il suo amore e più il suo partner glielo richiede più il suo sentimento di estraneità e di paralisi aumenta. Si tuffa allora nel lavoro e in una vita professionale ricca di impegni per sfuggire all’appuntamento con la domanda d’amore del proprio uomo. Questa impossibilità di dichiarare il proprio amore prende altresì le forme del rifiuto ostinato di stabilizzare in un’unione civile il suo legame. Vorrebbe, ma qualcosa più forte della sua volontà glielo impedisce. Nel rapporto sessuale però tutto sembra miracolosamente aggiustarsi e i corpi dei due amanti è come se ritrovassero sempre la loro strada senza mai perdersi.
L’analisi svelerà nel corso degli anni quanto di questa paralisi della parola amorosa risulti da un rapporto sconcertante del mio paziente con il desiderio dei suoi genitori. Una scena in particolare emerge con forza traumatica: il padre in ginocchio, piangente, non vuole lasciare lui e sua madre nella loro casa di vacanze per ritornare in città a riprendere il suo lavoro. Dichiarando tutto il suo amore per la propria donna le chiede, supplicandola, di non lasciarlo partire. Qualche giorno prima, il mio paziente aveva ascoltato la madre al telefono amoreggiare con un altro uomo. L’idealizzazione infantile del padre si schiantava così di fronte all’emergere della sua totale vulnerabilità.
Nella scena che ho appena raccontato, di fronte alla freddezza della madre lo sguardo del padre si volge verso quello del mio paziente come se cercasse qualcosa. Il bambino trattiene per sé tutte le parole che vorrebbe dire al padre. Sente di non poterle pronunciare perché altrimenti tradirebbe sua madre ma, al tempo stesso, sente anche che dovrebbe dirle per non prolungare l’agonia del padre. Questa scena è destinata ad acquistare un valore decisamente traumatico nella storia di questo soggetto perché quella sera, rientrando a casa, il padre ha un incidente stradale e perde la vita.
Nel fantasma di quest’uomo la dichiarazione d’amore resta, dunque, impossibile da pronunciare non solo perché rievoca l’immagine del padre sofferente e implorante, ma perché quest’immagine si associa a quella del rischio imminente di morte di chi ama. Le sue parole restano allora bloccate, congelate nella sua gola come lo furono allora.
Paradossi dell’amore e del desiderio
L’amore può anche ostacolare e non solo incentivare il desiderio. È uno dei suoi paradossi clinici. Talvolta esso può porsi in alternativa al desiderio. Non va da sé che amore e sesso si coniughino senza generare attriti.
In una mia giovane paziente, per esempio, accade esattamente il contrario. Frequenta contemporaneamente due uomini: con uno, sposato con famiglia, occupa il ruolo dell’amante clandestina sentendosi, nello stesso tempo, profondamente attratta e altrettanto profondamente innamorata. Con l’altro uomo, invece, ha una relazione che dura da anni sebbene senta di non esserne né innamorata, né particolarmente attratta. Ebbene, l’accesso al godimento orgasmico può avvenire solo con quest’uomo e non con l’altro che sente di desiderare e di amare profondamente. Questo significa che può lasciarsi andare al godimento del proprio corpo – può chiudere i suoi occhi – solo se non c’è l’amore, perché l’esistenza dell’amore potrebbe spingere questo stesso godimento al di là di se stesso, verso una gioia eccessiva che la esporrebbe al rischio di una dipendenza fuori controllo. Per questo ella non cede il suo orgasmo all’uomo che ama e che desidera ma che non è suo – non si abbandona mai –, mentre può accedere facilmente al godimento sessuale con l’uomo che non ama né desidera. In questo caso può perdere il controllo, può abbandonarsi, perché sa di ritrovare immediatamente i propri confini, sa con certezza che non sarà trascinata via da un godimento che non saprebbe governare perché fuso nell’amore.
In molte coppie che vivono insieme per lungo tempo si assiste alla fine dell’attrazione sessuale nonostante la (o a causa della) persistenza di un legame amoroso. In molti incontri effimeri, invece, la presenza di una sessualità travolgente non si accompagna affatto all’amore. Anzi, è proprio l’assenza dell’amore a disinibire la sessualità e a renderla un’attività che si soddisfa di se stessa senza implicare un coinvolgimento emotivo più profondo. Dunque, è piuttosto la norma che sesso e amore non si incontrino o che, quanto meno, appaiano come due regni separati: ci può essere sesso senza amore e amore senza sesso.
Le lingue di tutto il mondo tengono però insieme l’amore e il fare sesso. “Fare l’amore” non dice infatti, nel linguaggio più comune, l’essere innamorati, o l’essere impegnati, presi nell’amore. “Fare l’amore” indica senza mezzi termini l’atto sessuale in quanto tale. Il quale non è affatto detto che implichi davvero l’amore. La clinica psicoanalitica insegna che talvolta è proprio l’esistenza dell’amore a rendere impossibile – per un uomo o per una donna, per un omosessuale o per una lesbica – fare l’amore. Come dire che l’esistenza dell’amore può paradossalmente, in certi casi, anche bloccare, inibire o disincentivare l’atto sessuale. Ne abbiamo una prova, a rovescio, nella poesia stilnovista. In questo caso la dichiarazione d’amore appare totalmente disgiunta dall’atto sessuale – che non si compie mai –; la libido che non può realizzarsi nel “fare l’amore” genera versi sublimi, poesia, canto della dama impossibile da raggiungere sessualmente. Il “dire l’amore” diventa il solo modo per “fare l’amore”. È solo l’inaccessibilità sessuale dell’oggetto a generare la poesia stilnovista, la quale si nutre, dunque, più dell’assenza e della lontananza che non della presenza e della vicinanza che sono, invece, condizioni imprescindibili del fare l’amore.
In altre situazioni l’amore può addirittura inibire la sessualità: l’idealizzazione eccessiva dell’oggetto può allontanare il suo corpo. Accade tipicamente negli uomini e nelle donne che diventano padri o madri e che vedono il proprio partner più come padre o madre che come amante. In tutti questi casi l’amore rende impossibile la sopravvivenza del desiderio. In molte donne la condizione che rende possibile il rapporto sessuale è dettata invece dalla necessità di avvertire la presenza dell’amore. Siamo qui di fronte a un rovesciamento dello stilnovismo. Se secondo quel paradigma l’impossibilità della soddisfazione sessuale genera l’amore idealizzato per la dama di cui i versi poetici sono la più alta espressione, in questo caso invece è sentirsi amata che diventa condizione per la soddisfazione sessuale. Per molte donne, senza amore non c’è, infatti, possibilità né del desiderio, né del godimento. È l’esistenza dell’amore che attraverso la particolarità del nome attribuisce al corpo sessuale la qualità di essere desiderabile e rassicura sul fatto che il godimento non può cancellare la singolarità dei nomi propri. Il nome non tiene qui il posto di un confine identitario rigido, ma è ciò che possiamo trovare al fondo del precipizio, nel punto dove il corpo erotico appare sommerso da se stesso, nel punto dove gli amanti si incontrano sconfinando l’uno nell’altro.
Nondimeno, nella pura meccanica del desiderio sessuale il corpo può risultare desiderabile anche se resta anonimo. Anzi, in certi casi estremi, il desiderio sessuale esige l’anonimato, o meglio, la degradazione dell’oggetto allo statuto dell’anonimato. Lo scambismo, come altre forme di incontri sessuali occasionali, cancella letteralmente l’esistenza del nome esaltando la nuda presenza dei corpi. Vi sono situazioni dove questa inclinazione a staccare il nome del corpo, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, può essere portata all’estremo. Ma l’esistenza dell’amore esige invece il carattere insostituibile e intraducibile del nome proprio. La macchina impersonale della pulsione si interrompe per fare posto al carattere unico dell’amato. È, come ho già fatto notare, l’ebbrezza che può accompagnare sentire il proprio nome sussurrato o invocato dall’amante durante il rapporto sessuale. Per questo scambiare un nome con un altro nel fare l’amore può risultare davvero sconcertante.
Nel celebre epilogo del Piacere di D’Annunzio accade esattamente questo. Una confusione imperdonabile tra i nomi di due donne suona come una catastrofe:
A un tratto, ella si svincolò dalle braccia, con una terribile espressione d’orrore in tutte quante le membra, più bianca de’ guanciali, sfigurata più che ella fosse allora allora balzata tra le braccia della Morte. Quel nome! Quel nome! Ella aveva udito quel nome! Un gran silenzio le vuotò l’anima. Le si aprì, dentro, un di quegli abissi in cui tutto il mondo sembra scomparire all’urto di un pensiero unico. Ella non udiva più altro; ella non udiva più nulla.27
Dimenticare il nome o, peggio, scambiarlo con un altro, come accade in questa scena a Andrea Sperelli, riduce in un istante la soggettività dell’amata a un corpo anonimo, privato della gloria singolare che solo l’amore può riservare. La presenza del nome significa che la pulsione non è solo legata al corpo, ma anche all’essere del soggetto. È il miracolo dell’amore rispetto al carattere cieco e autistico della pulsione.
Quando c’è l’amore che unisce i corpi, il carattere impersonale del moto pulsionale sfugge al suo stesso anonimato incardinandosi attorno alla particolarità dell’anima dell’amata. Per questo Lacan ha giocato sulla parola amore, distorcendola con animamore, per mostrare che, appunto, l’amore non implica solo il corpo ma innanzitutto la soggettività, l’anima del soggetto.28 È questo, come abbiamo visto, il punto dove l’amore e il godimento convergono.
È forse questo anche il modo col quale – contraddicendo la stessa tesi di Lacan – il rapporto sessuale può davvero esistere? Non è infatti questo il miracolo della convergenza di amore e desiderio: il corpo diventa un nome e il nome diventa un corpo?29 Il corpo diventa un nome in quanto quel corpo – il corpo che causa il mio desiderio e il mio amore – fuoriesce dalla serie anonima degli altri corpi rivelandosi come insostituibile, dunque intraducibile come è ogni nome proprio rispetto a ogni lingua. Il nome diventa invece un corpo in quanto ogni amore è sempre amore per il corpo dell’altro, per la sua esistenza incarnata, per i dettagli unici e irripetibili di questa incarnazione. Nell’amore l’erotizzazione del corpo implica necessariamente la presenza del nome come ciò che rende questa erotizzazione non anonima, ma particolareggiata. Il corpo dell’amato viene allora desiderato in tutti i suoi dettagli perché in ogni dettaglio affiora il segreto intraducibile del nome. L’amore rende infatti lo Stesso un pezzo unico, non seriale, sempre nuovo. L’unicità del segno della dichiarazione d’amore non viene più contrapposta alla serialità feticistica del pezzo perché il pezzo stesso è divenuto un segno. Essendo l’amore amore del nome, non esiste amore parziale, ma, come spiega la psicoanalisi, esistono solo oggetti parziali, che sono quelli – dettagli, zone erogene del corpo – sui quali la pulsione fissa il proprio godimento. Per questa ragione per Freud la tenerezza amorosa e il desiderio sessuale apparivano come alternativi. Mentre l’amore sceglie il tutto al quale subordina la parte, il desiderio erotico sceglie la parte subordinando a essa il tutto. Ragione in più per mostrare l’inesistenza di un istinto erotico.
Nel mondo animale non esiste erotismo perché l’erotismo implica la feticizzazione del corpo, la sua valorizzazione estetica, la promozione di dettagli inservibili alla mera logica istintuale della riproduzione della specie. Nell’amore accade qualcosa di impensabile per la disposizione fantasmatica-feticistica del desiderio: il dettaglio non tende a generare una serie anonima ma la interrompe. Se il desiderio sessuale si infiamma a causa del dettaglio e tende a riproporre il dettaglio serialmente attraverso nuovi corpi, l’amore consiste invece nell’interruzione di questa serie dovuta all’emergenza di un corpo che è nello stesso tempo desiderato e amato in quanto unico come il nome che porta.
L’illusione del rapporto
La spinta a possedere il corpo dell’Altro implica nell’amore l’illusione di possedere attraverso il corpo anche la libertà dell’Altro, la sua soggettività. La moltiplicazione dei rapporti sessuali non è solo dettata dall’attrazione erotica, ma dalla necessità di impadronirsi del corpo dell’Altro, di imprimere su quel corpo il proprio nome. Non si tratta solamente di un comportamento primitivamente possessivo, ma di una tendenza insopprimibile dell’amore evocata da Freud stesso quando, in riferimento al rapporto sessuale degli amanti, evocava proprio la spinta insopprimibile verso la loro unificazione.
Si vorrebbe così poter fare esistere il rapporto sessuale, cancellare la sua impossibilità? Questa spinta appropriativa che accompagna il desiderio può raggiungere apici sintomatici. È il caso di un uomo che travolto dall’impeto erotico per la sua giovane amante le chiede di contagiarlo, di trasmettergli una malattia venerea, di scambiare con lui il suo stesso sangue. Accentuando la sua fantasia di fusione, egli vuole far esistere a tutti i costi l’illusione del rapporto sessuale, del fare e dell’essere uno con l’altro. Nella spinta a soddisfare tutte le attese sessuali della sua partner decide addirittura di sottoporsi a un’operazione di frenuloplastica – senza che vi fosse alcuna necessità anatomico-clinica – nella convinzione, suffragata, in realtà, anche dal parere del chirurgo (sic!), che avrebbe in questo modo potenziato la sua virilità rendendo finalmente possibile la congiunzione (impossibile) dei corpi.
La necessità di far esistere il rapporto sessuale non è però solo un fantasma del desiderio sessuale, ma un’utopia che anima ogni specie di disegno totalitario. Certamente quello soggettivo del sadico che esige di riappropriarsi della propria costola mettendo fine alla sua insopportabile mancanza, facendosi padrone assoluto del corpo dell’Altro. Ma lo stesso accade anche in ogni sistema politico totalitario che vorrebbe costituire una comunione tra i suoi membri in grado di cancellare ogni differenziazione. L’illusione del rapporto non è solo un’illusione sessuale, ma anche politica. Nelle dinamiche sadomasochiste (individuali e collettive) al centro vi è sempre la negazione della libertà dell’altro: il sadico esige di possedere il corpo della sua vittima come se questo possesso gli garantisse l’appropriazione integrale della libertà dell’altro. Egli s’impegna in tutti i modi nel far esistere il rapporto sessuale, ovvero nel cancellare il non-rapporto che separa inevitabilmente l’Uno dall’Altro.
In forme per fortuna non così drammatiche l’iniziazione all’amore di diversi adolescenti si può leggere sempre secondo questo schema: lo sforzo per fare esistere il rapporto come forma di unificazione che annulla le differenze, ovvero come forma di negazione dell’alterità – del non-rapporto – che abita ogni rapporto. Per questo la fine di un primo amore vissuto in questo modo può coincidere con una profonda caduta depressiva, come una vera e propria catastrofe psichica per colui che viene abbandonato. La relazione di coppia nella sua esclusività prolunga in questi casi quella primaria con le figure genitoriali – invertendo o replicando apertamente i ruoli – onde evitare l’esposizione alla rivalità implicita nel gruppo dei pari. Chiudersi nel primo legame amoroso è così un modo per evitare sia il lutto della relazione primaria coi genitori, sia l’incontro con la rivalità e la conflittualità che caratterizza fatalmente il gruppo dei pari. Le relazioni che si prolungano dalla giovinezza alla vita adulta senza soluzione di continuità sono relazioni che tendono a costituire un mondo chiuso, sigillato, dove non c’è spazio alcuno per l’heteros, per la differenza. Quello che invece insegna l’esperienza eterosessuale dell’amore – non in senso anatomico ovviamente, ma in senso etico: amore per l’heteros – è che il non rapporto che abita ogni rapporto non è ciò che minaccia il fondamento dei legami, ma la sola condizione affinché i legami – individuali o collettivi – possano esistere in maniera feconda.
Perseguire a ogni costo l’esistenza del rapporto come forma di comunione è ciò che determina invece la crisi di molte coppie e di molti sistemi politici e sociali. L’empatia, il dialogo, la condivisione, la riduzione della differenza, insomma l’unificazione a ogni costo possono diventare forme di legami totalitari che finiscono per rendere davvero impossibile l’esperienza del rapporto. Il fondamento di ogni rapporto consiste infatti nel sapere stare nel non rapporto; il fondamento della condivisione consiste nel sapere condividere l’incondivisibile, ovvero nel sapere riconoscere l’inesistenza del rapporto sessuale.
ᴀʟᴛʀᴇ ᴘᴜʙʙʟɪᴄᴀᴢɪᴏɴɪ sᴜ ɪᴛᴀʟʏᴅᴏᴡɴʟᴏᴀᴅ
1. Cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, tr. it. in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1966-1980, vol. 11, p. 576.
2. Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, tr. it. in Opere, cit., vol. 9.
3. W. Reich, La funzione dell’orgasmo. Dalla cura delle nevrosi alla rivoluzione sessuale e politica, tr. it. il Saggiatore, Milano 2016, p. 98.
4. Cfr. G. Bataille, L’erotismo, tr. it. Mondadori, Milano 1976, p. 19.
5. Ibidem, p. 49.
6. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro xx, cit.
7. Cfr. S. Freud, Contributi alla psicologia della vita amorosa, tr. it. in Opere, cit., vol. 6.
8. Ho fortemente problematizzato questa rappresentazione in due volumi: M. Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, Raffaello Cortina, Milano 2014 e Mantieni il bacio. Lezioni brevi sull’amore, Feltrinelli, Milano 2019.
9. P. Roth, Lamento di Portnoy, tr. it. Einaudi, Torino 2000, pp. 91-92.
10. Con la premessa indispensabile che non bisogna ridurre le sessuazioni alle differenze anatomiche, nel senso che un uomo in senso anatomico può corrispondere alla sessuazione femminile e viceversa una donna in senso anatomico può corrispondere a quella maschile. Le tavole che distinguono le due sessuazioni e la loro articolazione si trovano in J. Lacan, Il seminario. Libro xx, cit. Per un approfondimento di tutti i temi affrontati in questo capitolo rinvio ai miei due tomi Jacques Lacan, Raffaello Cortina, Milano 2012 e 2016.
11. Cfr. E. Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano 1986.
12. Cfr. E. Sharpe, L’analisi dei sogni, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1981; e J. Lacan, Il seminario. Libro vi. Il desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), tr. it. Einaudi, Torino 2013.
13. J. Lacan, ibidem, p. 204.
14. Negli anni delle cosiddette “notti di Arcore” è indubbio che Silvio Berlusconi non perdeva a causa di quelle notti il suo consenso, ma, al contrario, lo rafforzava. Una delle ragioni di questo paradosso è proprio l’identificazione nevrotica a un soggetto che esibiva una padronanza (perversa) sul godimento tale da realizzare quello che la miseria nevrotica poteva solo in modo impotente desiderare di fare. Gran parte del suo consenso politico proveniva da questo paradosso: egli si configurava come l’ideale perverso di una massa di nevrotici che, anziché realizzare i loro desideri, dovevano delegarli al godimento fantasmatico della masturbazione.
15. J.-L. Nancy, Del sesso, tr. it. Cronopio, Napoli 2016, pp. 44-46.
16. J. Lacan, Il seminario. Libro xx, cit., p. 85.
17. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, tr. it. Einaudi, Torino 1979, p. 107.
18. Cfr. S. Freud, Il tabù della verginità, tr. it. in Opere, cit., vol. 6.
19. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro xv. L’atto analitico (1968-1969), inedito, lezione del 22 febbraio 1969.
20. Anche in questi casi non si deve mai dimenticare che il sadico è in realtà nulla senza la sua vittima masochista. La sua furia dominatrice e predatrice rivela sempre una quota irriducibile di impotenza angosciata. Su questo tema, vedi tra gli altri E. Fromm, Fuga dalla libertà, tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1978 e Anatomia della distruttività umana, tr. it. Mondadori, Milano 1989.
21. Su questi temi, vedi C. Soler, Quel che Lacan diceva delle donne. Studio di psicoanalisi, tr. it. FrancoAngeli, Milano 2005.
22. Cfr. S. Freud, I disturbi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica, tr. it. in Opere, cit., vol. 6.
23. Georg Groddeck è stato probabilmente lo psicoanalista che ha più esasperato questo tema. La rimozione del piacere dell’orgasmo nella donna diventa il passepartout per leggere ogni fenomeno della vita femminile, per esempio anche l’angoscia di fronte al parto che avrebbe come ragione inconscia il rifiuto di un piacere assai simile a quello orgasmico. Cfr. G. Groddeck, Il libro dell’Es. Lettere di psicoanalisi a un’amica, tr. it. Adelphi, Milano 1984.
24. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro i. Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), tr. it. Einaudi, Torino 1978, p. 341.
25. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro xx, cit., p. 45.
26. Mi permetto, su questo punto, di rinviare a M. Recalcati, Non è più come prima, cit., e Mantieni il bacio, cit.
27. G. D’Annunzio, Il piacere, Mondadori, Milano 1978, pp. 420-421.
28. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro xx, cit., pp. 77-88.
29. Cfr. M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012.
Perdere i confini
“Fare l’amore”
Fare l’amore è molto meglio, così dice anche un celebre motto popolare, che fare la guerra. Molto meglio “fare” insieme qualcosa che dà piacere e godimento che non qualcosa che genera morte e distruzione. Eppure non c’è mai, come insegna la psicoanalisi, da una parte l’arte solare dell’amore e dall’altra quella tenebrosa della guerra. Innanzitutto perché tra i sessi e tra i partner non c’è solo amore, ma anche, quando non soprattutto, guerra.
A prescindere dall’essere gay, lesbo, fluido, etero ecc. le relazioni sessuali non escludono il disaccordo, l’ostilità, la disarmonia, finanche la violenza, il dolore e la distruzione. Non a caso quando Freud, come abbiamo ricordato all’inizio di questo libro, afferma che l’atto sessuale realizza la più profonda delle unificazioni, aggiunge che questa unificazione avverrebbe come una vera e propria “aggressione”.1 Tuttavia, nonostante questa aggressione l’unificazione resta una chimera: l’accoppiamento sessuale, al di là della sua apparente fusionalità, è destinato a ribadire ogni volta che i Due non sono fatti per essere Uno. Lo ricordava a suo modo già Schopenhauer nella sua Metafisica dell’amore sessuale, quando sottolinea la tristezza che cala sui corpi degli amanti nel post-coito, a segnalare come la solitudine sia un destino ineludibile anche nella vita sessuale. Per quanti sforzi, infatti, i Due possano fare per essere Uno, per fondersi in un solo corpo, nessuno è davvero in grado di uscire da se stesso per unificarsi con l’Altro. Dunque l’arte sublime dell’amore non è semplicemente alternativa a quella tremenda della guerra; fare l’amore non esclude che vi sia forza, tensione, attrito, collera, conflitto, urto tra i corpi degli amanti. È quello che accade anche fisicamente nel compiersi del rapporto sessuale. Il conflitto, la lite e la minaccia anziché spegnere il desiderio possono anche accenderlo. Non a caso la spinta a fare l’amore può divenire irresistibile nel mentre di un litigio o di un contrasto, quando cioè la guerra divampa più apertamente. La collera, per uno strano mistero pulsionale, può, in certe situazioni, convertirsi in un desiderio erotico intenso.
Freud aveva già notato questa strana ambivalenza: l’odio può facilmente capovolgersi in amore e la repulsione può invertirsi in attrazione. Tra l’amore e l’odio – l’attrazione e la repulsione – non c’è una semplice relazione oppositiva, ma una stramba mescolanza: persone percepite di primo acchito come odiose o antipatiche possono poi rivelarsi attraenti e desiderabili e altre percepite invece inizialmente come amabili e desiderabili possono essere scoperte come oggetti di odio e di sentimenti di rifiuto:
l’osservazione clinica ci mostra non solo che l’odio è invariabilmente l’inatteso accompagnatore dell’amore (ambivalenza), non solo che spesso precorre l’amore nelle relazioni fra gli uomini, ma anche che in qualche occasione l’odio si trasforma in amore e l’amore in odio.2
Fare l’amore è un’esperienza che ci porta fuori dal recinto delimitato del nostro corpo; non è solamente esperienza dell’incontro con un corpo che non è il mio corpo – il corpo sessuale dell’altro –, ma è esperienza del mio stesso corpo come mai del tutto mio. Fare l’amore è fare esperienza del mio stesso corpo come un’alterità interna, come una perdita dei propri confini. In termini classicamente freudiani questo significa che la libido si trova trasferita in un oggetto che “assume la parte dell’Io”:
Solo nella pienezza dell’innamoramento l’importo libidico più rilevante è trasferito sull’oggetto, l’oggetto si mette in un certo senso al posto dell’Io.3
Nell’abbraccio, nell’intreccio, nelle prese, nel groviglio erotico dei corpi, i confini tra l’Uno e l’Altro perdono la loro nitidezza. La libido narcisista si rivela oggettuale e viceversa.
La tesi di Lacan per la quale il godimento fallico disgiunge i corpi impedendo il loro rapporto – nel godimento fallico ciò che gode è solo il proprio organo che impedisce che vi sia propriamente rapporto sessuale – deve allora essere messa in discussione?
L’esperienza della presenza del godimento dell’Altro – del corpo dell’altro che gode – è davvero estranea al mio stesso godimento? Il godimento nel suo acme preserva la differenza tra i nomi o tende a dissolverla? Nel rapporto sessuale siamo davvero fuori di noi stessi? Non è forse questo il legame profondo, sottolineato a suo modo da Bataille, tra l’erotismo e l’estasi? Quella erotica è davvero l’esperienza che mi permette di sentire il corpo dell’Altro e il mio stesso corpo nella loro più profonda alterità e, al tempo stesso, nella loro più profonda contiguità? E se invece, come ritiene Lacan, nel “fare l’amore” non si trattasse, in fondo, di fare sempre il nostro godimento anche quando contribuiamo a “fare” il godimento dell’altro? Insomma, nel fare l’amore io faccio il mio godimento o quello dell’Altro? In questo “fare” prevale il dare o l’avere, il possedere o l’essere posseduti, il mio corpo o quello dell’altro? Nel “fare l’amore” il desiderio erotico e il godimento si toccano poiché il mio godimento è anche il godimento dell’altro e il godimento dell’altro è anche il mio. Lacan avrebbe allora torto nell’affermare l’inesistenza del rapporto sessuale?
La gioia del disfare
Non deve sfuggire la vertigine e il sentimento perturbante che lo sconfinamento del corpo erotico implica. Una paziente che ha vissuto la propria infanzia esposta alla follia di una madre psicotica ed estremamente violenta, nella sua vita sessuale adulta, ogni volta che si trova di fronte alla penetrazione si irrigidisce, percepisce un pericolo mortale, quello, appunto, di perdere i propri confini, di essere violata, di rischiare la propria vita. Era esattamente così che si sentiva di fronte alle esplosioni d’ira della madre. È questo, se si vuole, il rischio che accompagna il lato “cattivo” della perdita dei confini: non riconoscersi più, svanire, impazzire, morire. Ma la perdita dei propri confini può anche essere un’esperienza di gioia e di estasi che scaturisce da un atto preliminare di disarmo. Nel “fare l’amore” l’apparizione di questa gioia suppone la deposizione delle armi dell’Ego, la perdita di identità non come fattore di psicotizzazione, ma come una nuova apertura. La riduzione delle difese diventa l’occasione per una separazione dal proprio Io che non genera allucinazione, frammentazione, dissoluzione, ma gioia, ampliamento di sé, sconfinamento.
È questo il lato “buono” della perdita dei propri confini. È la “gioia eccessiva” di cui parla Fachinelli: dissoluzione del proprio Io e del suo potere disciplinare, smobilitazione delle difese, accoglienza dell’inedito, abbandono, passività come acquisizione di possibilità, perdita della differenza stabilita tra soggetto e oggetto. L’erotismo non è solo un’esperienza di appropriazione ma, soprattutto, di svuotamento, di spossessamento, non è un autocentramento, ma un decentramento, non è un prendere, ma un accogliere. Se i confini nel fare l’amore saltano, anche la stessa penetrazione può palesarsi come paradossalmente reciproca: chi davvero penetra e chi è penetrato? Chi prende e chi è preso? Chi tocca e chi è toccato? Chi accarezza e chi è accarezzato? Chi stringe e chi è stretto? Chi abbraccia e chi è abbracciato?
La letteratura ha colto in numerose scene esemplari questa esperienza di debordamento che contrassegna la gioia della vita erotica. Scene nelle quali la solitudine del godimento dell’Uno entra in un rapporto obliquo al godimento dell’Altro. È uno smarrimento, un estraniamento, un avvolgimento che rende i due indistinti, che assottiglia i loro confini sino a dissolverli, un “fare” che assomiglia a un “disfare”.4 Il fare del fare l’amore non è, infatti, mai un fare come gli altri ai quali siamo abituati. Non è un fare per produrre qualcosa, un attivismo, un iperattivismo, non persegue un obbiettivo determinato, un fare strumentale, intenzionale, ma è un fare che smarrisce il proprio fare, un fare per disfare appunto. Un fare che assomiglia a un non fare, a un fare lasciandosi fare, a un fare che non è assoggettato dall’assillo consueto del dover fare.
I corpi degli amanti si intrecciano ciascuno perdendo qualcosa di sé per ritrovarsi in un territorio sconosciuto, non delimitato dai confini presidiati dall’Io. È uno straniamento che non suscita angoscia, ma ebbrezza, gioia. Il sesso si sottrae alla distinzione delle forme,
si sottrae alla loro esposizione, coinvolge piuttosto, le espelle piuttosto: le pelli si toccano in un dileguamento delle forme in zone. Le zone esistono secondo i gesti che le scuotono, le commuovono, le percorrono e le dislocano.5
I corpi sono due, restano sempre due, impossibile fare dileguare il Due, ma sono al tempo stesso confusi in un solo ritmo, non si possono fondere l’uno nell’altro, ma i loro confini si scompaginano, cessano di essere vincolati dall’esigenza della vigilanza, si smilitarizzano, si aprono all’incontro:
Posano nudi davanti allo specchio, Dean è più alto. Il suo corpo è scuro. È scostato di lato, come la sua ombra. La luce entra in piccole strisce piatte, lamelle, che attraversano il pavimento. Le infila il cazzo tra le gambe da dietro, e lei gli dà una piccola stretta. Allunga la mano dietro la schiena per accarezzargli le palle con la punta delle dita… Fanno l’amore lentamente. Lui la sistema di traverso sui fiori scuri e glielo mette dentro come se stesse incuneando un ceppo. Poi la fa sedere a cavalcioni sopra di lui. La sua voce è invisibile, un sussurro dalla strada. “Sembra che mi tocchi il cuore”, gli dice. Si solleva leggermente, le mani sulla sua vita. “Sì, proprio il cuore”, dice. Dean sorride. La fa abbassare un pochino. Lei si divincola dolcemente. Poi la rigira e la esplora. È come una pioggia d’amore. Ovunque rivolga la sua mente, ne è sommerso. Come fossero in camere separate, impegnati in atti diversi, si danno da fare sino all’ultimo istante e poi crollano esausti, le coperte sparpagliate tutt’intorno. Le loro voci sono basse, incoerenti. Fuori dalla finestra i piccioni barcollano sulle tegole.6
In questo brano Salter mette in luce l’unione e la disunione che ritma l’incontro erotico: ciascun corpo resta chiuso nella sua “stanza” e, al tempo stesso, ciascuno fa la sua comparsa nella stanza dell’altro. I corpi restano distinti ma rivelano altresì una strana permeabilità: “Sembra che mi tocchi il cuore”. Il rapporto sessuale non esiste ma la sua gioia sì.
L’ora della verità
L’esperienza della dissoluzione dei confini può effettivamente accompagnare la vita erotica e il rapporto sessuale, sia nel senso “buono”, quello dell’estasi, sia in quello “cattivo” della dissociazione e della spersonalizzazione. Non a caso la clinica psicoanalitica insegna che la prima volta che si fa l’amore – l’iniziazione alla vita sessuale – può essere nei giovani una congiuntura di scatenamento della psicosi. I confini simbolici della propria tenuta narcisistico-identitaria sono messi alla prova dall’incontro con l’onda del godimento. Un loro eccesso di rigidità, come un loro eccesso di aleatorietà, può provocare la loro rottura.
Ma anche nello sviluppo cosiddetto normale della vita sessuale il primo incontro con il godimento sessuale tende a rivelarsi significativo. Non a caso Lacan ne parlava, a proposito del maschio, come “l’ora della verità”.7 Il corpo sessuale, in particolare l’organo fallico, risponde al desiderio del soggetto? L’ora della verità significa che per un uomo l’erezione del membro virile, così come il raggiungimento dell’orgasmo, non può mai essere una finzione, non conosce l’impostura, la maschera. Il carattere esteriore del godimento fallico attribuisce alla prestazione sessuale un’oggettività che ha, fatalmente, il sapore della prova.
Diversamente una donna può sempre fingere, mentire, mimare un orgasmo o un piacere che in realtà non percepisce. Il suo godimento resta così sempre segreto, non è obbligato a esteriorizzarsi, non assume la forma anatomicamente evidente dell’erezione e dell’eiaculazione. Per una donna il rapporto sessuale non è necessariamente l’ora della verità. Piuttosto, la zona più problematica resta quella del rischiare di perdersi nel proprio godimento vissuto come una marea che non trova argini, come un’eccedenza che il soggetto non è in grado di padroneggiare.
Se, dunque, per un uomo l’ora della verità implica l’esercizio di una competenza fallica che sostiene un ideale illusorio di padronanza, per una donna implica invece l’incontro con un godimento segreto che non è facilmente addomesticabile. È per questa ragione che se nei maschi l’angoscia del “fare l’amore” investe la prestazione, nelle donne tende piuttosto a riguardare l’esperienza del godimento in quanto tale. Se un uomo nel rapporto sessuale collauda la relazione tra il suo desiderio e il suo fallo, una donna può invece sperimentare la possibilità di accedere al segreto di un godimento del corpo – l’Altro godimento, nella terminologia di Lacan, il godimento non-tutto fallico – che non conosce argini, che non è drenato, come si esprime sempre Lacan, dal limite imposto al fallo dall’esperienza della detumescenza.8 Il godimento femminile non conosce l’ora della verità, non vive l’esigenza dell’erezione, né il “dramma” del suo rovescio, ovvero l’impotenza.
Come abbiamo visto nel capitolo precedente, il modello fallico del picco e della scarica pulsionale non è affatto adeguato a descrivere il flusso del godimento femminile. Piuttosto il problema per una donna consiste nel come soggettivare l’eccedenza di questo godimento, il suo segreto, la sua impossibilità di essere disciplinato verticalmente dal fallo. Per questa ragione per una donna la domanda che accompagna frequentemente la sua vita sessuale è se può veramente permettersi di perdersi nell’Altro, di rinunciare davvero al governo del suo corpo, di disfare il suo essere, la propria identità per raggiungere quella di un godimento senza limite senza però, al tempo stesso, diventare folle, senza perdersi per davvero.
Una mia paziente, per esempio, veniva sempre colta da brividi profondi e incontrollabili quando faceva l’amore con gli uomini che amava. Spasmi e tremori invadevano il suo corpo come sussulti impossibili da trattenere. Il massimo del piacere si confondeva in lei con una vertigine eccitante e angosciante insieme che descriveva come qualcosa di veramente al limite della depersonalizzazione. Un troppo, un eccesso, sconvolgeva il suo corpo. Accadeva però solo quando il godimento si intrecciava con l’amore. Questo intreccio era per lei un’esperienza estrema che la esponeva a una specie di vuoto, a un abisso, all’illimitatezza del godimento femminile mai del tutto riducibile al godimento fallico. Per questo inconsciamente tendeva a scegliere come partner sessuali uomini impossibili da amare. Con questo genere di uomini il suo accesso al godimento era di tipo fallico: eccitazione e scarica della tensione attraverso l’orgasmo. Tutto sotto controllo. Il suo corpo raggiungeva l’apice del piacere ma senza sussulti, senza perdersi, senza estasi erotica. Diversamente, le rare volte che si univa sessualmente a uomini che amava, sperimentava una gioia eccessiva che descriveva come “paurosa”. In un sogno dopo una notte d’amore con un uomo che amava profondamente assiste a un’enorme valanga che travolge la casa dove passava le sue vacanze, seminando morte.
Nel corso della sua vita si era affermata con la pazienza e l’intelligenza delle sue notevoli capacità razionali e relazionali, comprimendo una parte di sé che avvertiva come più difficile da identificare. Nella sua vita di bambina aveva visto sua madre disperarsi per la perdita di suo padre e demolire di conseguenza in modo sistematico la propria vita. Inconsolabile dopo la separazione dal marito, la madre era caduta in una profonda e straziante depressione. La mia paziente aveva visto nello sguardo di sua madre cosa può accadere a una donna che si perde nell’amore. Si era dunque tenuta per tutta la vita lontana dal destino materno, dal vuoto doloroso che la abitava, costruendo un’esistenza di successo, pianificata, caratterizzata da una profonda spinta fallica all’affermazione professionale. Ma quando incontrava l’amore in un uomo il suo corpo era percorso da brividi di terrore e di gioia. Lo smarrimento del “fare l’amore” sbriciolava la sua identità fallica costruita per difendersi dal rischio dell’amore che aveva travolto la propria madre.
Il godimento anonimo
Nel capitolo precedente abbiamo visto come l’amore non separi mai il nome dal corpo per elevare invece il corpo del partner al rango del nome e, al tempo stesso, incarnare il nome in un corpo. È un miracolo erotico: l’apparizione del nome suscita l’estasi dell’apparizione del corpo e viceversa; quel corpo porta con sé il marchio inconfondibile di quel nome.
Quando invece manca il nome, quando il godimento pulsionale si rivela scisso dall’amore, questa dialettica tra il corpo e il nome si interrompe. Prevale allora a senso unico il puro godimento del corpo. Questo non significa affatto che non vi sia estasi erotica, ma che questa estasi – proprio a causa dell’assenza del nome – tende a condurre il corpo sessuale in una zona disabitata, priva delle insegne dei nomi propri, dove i confini tra il desiderio di vita e quello di morte tendono a confondersi. In modo estremo, nella Città dei vivi Lagioia, a partire dal celebre caso di cronaca di Luca Varani, ferocemente seviziato e ucciso da Manuel Foffo e Marco Prato, descrive le più estreme conseguenze di un godimento che vuole restare anonimo e che, non riconoscendo più alcun nome, si spinge sino al colmo della tortura sadica più efferata e della soppressione della vita.9 Il divertimento sessuale trapassa qui in un godimento mortale senza alcuna soluzione di continuità.
Il sesso senza nome può comportare, infatti, una massimizzazione del godimento pulsionale che però può sempre ribaltarsi nel suo contrario: si tratta di un eccesso di vita che si capovolge in un eccesso di morte. Senza il riferimento all’insostituibilità del nome proprio il godimento può sprofondare in un dispendio senza ritorno. La sofferenza e il dolore sono infatti una faccia estrema del godimento che non a caso Freud descriveva come pulsione di morte. Ma questo carattere estremo del godimento anonimo costituisce più “ordinariamente” l’attrazione profonda che si può provare nello spingersi oltre il limite del proprio nome, al di là della propria soggettività, verso l’esistenza senza contorni della pulsione. Si tratta di un azzeramento dell’Io, di una sua eclissi che può generare gioia, ma anche crollo.
Una mia paziente, il giorno dopo un rapporto sessuale con uno sconosciuto avvenuto al termine di una serata in discoteca, senza che, in realtà, lei ne avesse un vero desiderio, avverte la sensazione angosciante che le siano stati inseriti dei microchip nel corpo. È il residuo delirante che l’impatto con l’anonimato del godimento sessuale ha provocato. Sganciata dal nome proprio la pulsione si rivela come trauma, pura spinta anonima e autistica. Questi microchip hanno la finalità di toglierle l’energia vitale oppure di inserirgliela seguendo un principio del tutto arbitrario, indipendente dalla sua volontà. Nessuna legge simbolica interviene a regolare queste scosse di godimento che mettono sottosopra il suo corpo. È il ritorno direttamente nel reale di ciò che del rapporto sessuale non è stato simbolizzato.
Ma perdere il proprio nome può anche offrire l’accesso a un godimento illimitato. È l’attrazione erotica che può provocare l’anonimato del godimento che non dipende più dalla presenza di nessun nome perché deriva solo dalla pura incentivazione sessuale della pulsione. Una mia paziente sentiva un’attrazione profonda, per lei stessa inesplicabile, nei confronti di persone sconosciute. Il sesso si accendeva in questo caso non a causa del nome – dell’amore, del segno del riconoscimento reciproco – ma proprio a causa della sua abolizione. Sentirsi ridotta al proprio corpo non provocava in lei nessuna angoscia, ma un vissuto di annullamento di sé che ella viveva con turbamento ma anche con estasi. Diceva che era come se il suo vuoto si fondesse con il vuoto dello sconosciuto.
Lo sconfinamento non si rivela qui traumatico ma positivamente eccitante. È quello che accade nell’incontro erotico tra Marlon Brando e Maria Schneider nell’Ultimo tango a Parigi di Bertolucci. Anche per il torbido marchese de Sade ciò che conta non è mai il nome, ma la meccanica impersonale del godimento pulsionale. Il desiderio libertino evita la singolarità assoluta del nome riducendo i corpi a meri strumenti della propria volontà di godimento. In questo caso non esiste alcuna dichiarazione d’amore perché l’amore è vissuto solo come un ostacolo al pieno esercizio della pulsione. Anzi la pulsione, come scrive anche Bataille, trascina ogni nome proprio verso la sua dissoluzione, il suo azzeramento, verso l’abisso della morte.
In Petrolio di Pasolini troviamo descritto con efficacia anche lirica l’impatto dell’anonimato della pulsione sessuale sul soggetto. Carlo, il protagonista del romanzo, si trova posseduto dalla forza della pulsione che lo sospinge compulsivamente a farsi possedere da corpi che restano senza nome, senza identità, mere ombre nella notte. È la scena che si svolge nel pratone della Casilina dove Carlo si concede, uno dopo l’altro, a un gruppo di ragazzi radunati per l’occasione:
Eccolo là, che se ne andava, dopo aver fatto ciò che desiderava, senza che nessun ostacolo si opponesse al suo volere, dopo dunque aver usato Carlo come una cosa. Se ne andava di spalle, col suo passo sicuro e un po’ ferino. “Sotto a chi tocca!” suonò a voce allegra e un po’ stonata, che non sapeva resistere, a ogni cambio, a ripetere la battuta di rito…10
Il susseguirsi di rapporti sessuali anonimi, centrati sulla riduzione del corpo a “cosa” del godimento e al suo mero organo fallico – “quel potente paletto di carne, calda, molle e indurita fino allo spasmo, penetrata dentro di lui, era un vero e proprio miracolo”11 –, aboliscono la relazione tra il desiderio sessuale e l’amore. L’erotismo stesso scompare lasciando il passo al reale senza veli di un sesso senza nome.
Il carattere paradossalmente “sacro” di questo desiderio compulsivo sorge proprio dalla negazione del carattere individuale del nome. I nomi propri sono sostituiti dall’anonimato della serie, non esistono più ma sono cancellati da un solo nome comune: “Questo nuovo rispondeva al comunissimo nome di Gianni; ed era, appunto, comune come il suo nome”.12
Gli dei del pratone della Casilina sono dei-demoni, dei “sotterranei” che abitano gli Inferi della pulsione di morte. Il desiderio di vita si congiunge a quello di morte in un impasto che dissolve tutte le differenze. Nessun amore, nessun oggetto insostituibile, nessun segno di riconoscimento, nessuna mancanza, nessun desiderio, nessun erotismo. Nemmeno nessuna brama di possesso o spinta all’appropriazione dei corpi. Tutto accade a rovescio: si tratta di vivere fino in fondo l’esperienza dell’essere posseduti come oggetti senza anima.13
Solo chi si inoltra in questa esperienza radicale può sperimentare la forte illusione di lasciarsi inghiottire da un godimento che non conosce mai fine. È una versione mortifera di quello che Lacan ha denominato come Altro godimento. Nel farsi possedere, scrive Pasolini,
l’urto che viola la carne si estende su tutto l’infinito fronte della carne, non in un punto solo. L’intero corpo, la cui coscienza dall’interno è illimitata perché coincide con quella dell’universo, è coinvolto dalla violenza con cui colui che possiede si manifesta, e che non conosce pietà, mezzi termini, rispetto, proroghe.14
Corpi senza nome
Anche nella pornografia i nomi tendono a eclissarsi, spenti dalla macchina pulsionale del corpo. I film porno hanno una trama solo apparente, insignificante, una narrazione fasulla. Quello che conta è unicamente la meccanica pulsionale della congiunzione dei corpi. L’oggetto sovrasta il soggetto. Per questa ragione il porno può essere frequentemente una passione maschile. I nomi, quando appaiono, sono come relitti solitari che sporgono su spiagge deserte. Restano i corpi di protagonisti senza storia, senza psicologia, memoria, carattere. Non a caso le riprese possono indugiare solo sugli organi genitali in atto. È un primo piano che esclude volutamente il volto come stigma del nome. Il principio macchinico del coito prevale nella sua pura robotica sull’erotismo del velo che la presenza del nome sempre implica, poiché il nome proprio è sempre un velo del corpo che lo sottrae al nudo anonimato della pulsione.15 Non a caso l’erotismo necessita sempre di una velatura del corpo che non deve mai essere del tutto presente, ma che preserva la distanza essendo sempre un po’ altrove. È la funzione del velo in quanto tale: sottrarre il corpo alla sua evidenza naturale proprio mentre lo si espone, distanziarlo dalla semplice presenza di una cosa, esaltarne il dettaglio, la piega, l’assenza come ciò che accende il moto del desiderio.
Diversamente, nel movimento puro della pulsione si tratta di spogliare il corpo dal nome, di svelare l’anonimato del corpo come pura macchina impersonale di godimento. In questa spogliazione c’è qualcosa di eccitante. Il corpo reso oggetto, strumento, spersonalizzato, “cosa”, diviene una pura estensione che condensa il godimento senza limiti e senza freni della pulsione.
È quello a cui il protagonista di Petrolio riduce la propria soggettività nei confronti dei suoi giovani e idolatrati amanti e del loro fallo. La sua eccitazione sorge dalla spinta affermativa di un godimento che serve solo a se stesso e che vuole sbarazzarsi da ogni residuo egoico dell’individualità. È il punto dove, come ha sottolineato Bataille, la pulsione di morte e l’annullamento mistico possono incontrarsi. Perdere il proprio nome, sconfinare, lasciarsi indietro, lasciarsi cadere, separarsi dal proprio Io può essere vissuto come un’esperienza di estrema ebbrezza. È quello che, in termini circoscritti, accade anche nell’esperienza comune dell’orgasmo: il godimento del corpo tracima dai suoi stessi argini, sorpassa l’Io, annulla le differenze, sconfina per un tempo breve, ma intensissimo, nell’altro. Ma in questo caso l’abolizione del nome non è necessaria. Anzi, come abbiamo visto, quando l’amore converge nel godimento, la pronuncia del nome può accompagnare il piacere più intenso.
Godimento perverso
Il godimento propriamente perverso non si limita però a sospingere gli amanti verso il carattere impersonale e anonimo della pulsione poiché, in realtà, in ogni esperienza sessuale profonda si vive una sorta di caduta del nome proprio e dei suoi confini identitari. Nella perversione in senso stretto questa dimensione della perdita del nome – della separazione del corpo dal nome – non è affatto un’estasi erotica, ma punta a demolire il nome, a ricondurlo forzatamente alla radice anonima dell’esistenza.
In questo la perversione si oppone sempre in modo radicale all’amore. Lo ricorda chiaramente il marchese de Sade attraverso una delle sue più focose protagoniste quale è M.me de Saint-Ange che, inneggiando alla liberazione del godimento, dileggia aspramente l’impostura borghese del matrimonio:
Ho fatto, da parte mia, tutto ciò che ho voluto, senza mai essere ostacolata, ma non ho mai voluto un amante: mi attirava troppo il piacere per farlo. Guai alla donna che si lega! È sufficiente un amante per rovinarla, mentre dieci avventure libertine, sia pure ripetute ogni giorno, svaniranno nella notte silenziosa, appena consumate. Ero ricca: pagavo qualche giovane che mi fottesse senza neppure conoscermi […] Non hai idea, angelo mio, del mare di piaceri nel quale, in tal modo, mi sono tuffata […] Nei miei dodici anni di matrimonio, ho forse fottuto con più di dieci o dodicimila individui…16
Mentre il godimento vissuto attraverso l’amore può comportare uno sconfinamento erotico che però non annulla mai il nome rifondandolo ogni volta, facendolo riemergere ogni volta dall’estasi del sesso, in quello propriamente perverso il godimento tende a mostrare l’amore come barriera, impostura, vizio borghese di fronte alla virtù considerata liberatoria del godimento sessuale. Per il libertino la spinta a godere è una legge della Natura che non deve incontrare ostacoli. È una legge assai più potente e autentica di quella della castrazione simbolica alla quale gli uomini sottomettono nevroticamente la loro esistenza.
La psicoanalisi ha ridefinito da tempo il concetto di perversione slegandolo dalle pratiche sessuali cosiddette aberranti o anormali. Sotto le lenzuola non esistono regole, uniformi, comportamenti nella norma o fuori dalla norma. Come già aveva indicato Freud, la sessualità umana senza il suo fondo perverso-polimorfo non sarebbe umana. Nondimeno, esiste un desiderio perverso che può ispirare determinate pratiche sessuali – sottomissione, asservimento, violenza sadica, fustigazione masochista ecc. – la cui caratteristica propriamente perversa non risiede in queste pratiche prese in se stesse, ma nella finalità ultima che le orienta. Il vero perverso non cerca tanto il proprio godimento sessuale, non è semplicemente un bizzarro e sulfureo artista del sesso, ma intende diventare padrone non solo del godimento ma, soprattutto, dell’angoscia dell’Altro.
Il vero perverso non è un giocoliere della sessualità, ma qualcuno che usa la sessualità per impadronirsi dell’esistenza dell’altro attraverso di essa. In questo senso egli non è mai interessato al nome della sua vittima – non ama mai –, ma solo al suo proprio godimento che consiste, appunto, nel darsi una consistenza attraverso l’esercizio del dominio sull’altro, nel divenire, attraverso questo dominio, colui che può causare l’angoscia nell’altro.
In certe pratiche sessuali che vedono come protagonisti soggetti perversi l’annientamento del nome può condurre a condotte estremamente violente e pericolose, come ha mostrato efficacemente il già citato La città dei vivi di Lagioia. In questi casi non siamo di fronte tanto a un’attività sessuale perversamente ordinaria come può normalmente accadere, ma a un eccesso psicotico e perverso del godimento che riflette la distruzione di ogni argine, compreso quello che separa la vita dalla morte. Nessuna parola, nessuna estasi, nessuna gioia; l’erotismo del velo viene totalmente surclassato dallo scempio a cielo aperto dei corpi. La sessualità si separa da ogni Eros per confondersi con Thanatos. Il corpo non si erotizza attraverso il desiderio, ma diventa oggetto di distruzione e devastazione senza che questa ferocia sia avvertita dai carnefici come un abuso di potere.
Nessuna colpa, nessuna autoaccusa, nessuna vergogna o disperazione per i due assassini di Luca Varani.17 In primo piano vi è solo la potenza mortifera di un godimento assoluto separato non solo dal nome, ma persino dalla vita. In primo piano è la mimesi di Dio, è il farsi Dio dell’uomo che può disporre in modo assoluto di tutte le sue creature. La tortura prende così il posto dell’eccitazione erotica, la brutalità – Luca Varani è stato ucciso a martellate e a coltellate dopo essere stato ripetutamente seviziato sessualmente – quello dell’attrazione, il godimento di morte quello dell’estasi.
Nelle pratiche autenticamente perverse il partner viene ridotto – nella realtà e non nel fantasma – a puro oggetto del godimento dell’Altro. Il gioco erotico e il fantasma che lo anima cortocircuitano pericolosamente direttamente nella realtà. Il nome è ricondotto all’anonimato della vita impersonale dello straccio, della carne da macello, del cane, del servo, della vittima inerme. I suoi rilievi particolari – che non sfuggono mai all’attenzione erotica – sono schiacciati, aboliti, livellati sulla superficie anonima, colpita e seviziata, di una semplice estensione organica. Il limite della legge viene scardinato nel nome di un’altra forma della legge, la sola, secondo il desiderio perverso, degna di questo nome: la legge del godimento assoluto.
Quando fermarsi? Quando dire basta, quando accogliere il limite che interrompe la fascinazione macabra di questo godimento? Quando opporsi al godimento? Lo stesso Lagioia riconosce la “scossa elettrica” che casi estremi come questo possono provocare anche in persone che conoscono “il cono d’ombra” che può attrarre il carattere smodato del desiderio umano. Quando fermarsi, allora, quando dire di no al godimento? La sua dichiarazione è sincera e perturbante:
Sapevo che bisognava tirarsi indietro il prima possibile. Ma poi? Cosa succedeva a chi non si fermava, o non riusciva a farlo? Ecco, questo non lo sapevo per niente. Cosa ne era di chi, immerso nell’ombra, continuava a scendere i gradini? Oltre ad una certa soglia si apriva un mondo sconosciuto.18
Un mio paziente omosessuale dichiara di frequentare assiduamente club dove circola droga e i rapporti sessuali avvengono con sconosciuti. Non solo: gli scambi sessuali non si realizzano attraverso il contatto tra i corpi ma solo tra i loro orifizi. La congiunzione sessuale avviene solo tra peni, ani, bocche che non hanno alcun nome, ma si offrono come meri strumenti di godimento. Il discorso amoroso è qui capovolto radicalmente.
Mentre con la dichiarazione d’amore – “Valentina, ti amo” – l’amante elegge il nome dell’amata a rango di un essere insostituibile – il nome proprio indica l’intraducibile all’interno di ogni lingua –, nei racconti del mio paziente quello che prevale è un godimento seriale che esclude per principio il nome proprio. Il corpo viene intenzionalmente, programmaticamente spogliato del nome per poter apparire solo come un ingranaggio impersonale e disumanizzato di godimento. Quello che il perverso persegue nella forma dell’esercizio del dominio sadico o della prostrazione masochista separa qui non solo il corpo dal nome, ma anche dai suoi orifizi, che appaiono come pezzi di corpo senza più unità né identità. La parte prevale ciecamente sul tutto. La macchina del godimento produce il suo lavoro senza interruzioni e senza inciampi.
Quello che attrae irresistibilmente il mio paziente non è solo la separazione del sesso dall’amore, quanto la separazione del sesso dal rapporto. Il godimento si offre assoluto, irrelato, privo di ogni forma di relazione. Ma cosa chiede allora quest’uomo all’analista? La sua domanda d’analisi si genera a causa dell’innamoramento imprevisto verso un uomo che è lontanissimo da questi ambienti e dalla sua inedita e sconvolgente paura nel pensare di poterlo perdere. Questa paura però, anziché scoraggiare le pratiche perverse, le accentua decisamente. L’ebbrezza dissipativa di un godimento tanto assoluto quanto impersonale lo libera, infatti, dall’angoscia per l’eventuale abbandono.
Nel corso dell’analisi il paziente scopre il significato inconscio di queste pratiche che occupano un posto così centrale nella sua vita. Sin da piccolo si era sentito umiliato e vessato da un padre violento e incurante. La sua scelta omosessuale aveva inasprito ulteriormente la loro reciproca incomprensione. Solo sua madre lo sosteneva nelle scelte assegnando alla sua vita un valore particolare. La morte prematura della donna – quando il paziente aveva vent’anni – provoca una profonda ferita psichica che incentiva la sua domanda d’amore e che trova il suo appagamento in un uomo che sembrava avere gli stessi tratti delicati e amorevoli della madre. La morte traumatica per un incidente di quest’uomo – precipitato da una scala scivolosa – getta il mio paziente nello sconforto più assoluto. La droga e le pratiche perverse compaiono per la prima volta in questa congiuntura venendo al posto di un doppio lutto mancato: quello per la madre e quello per il compagno amato. Dopo dieci anni l’apparizione di un altro uomo dell’amore lo divide: da una parte vorrebbe gettarsi pienamente in questa nuova storia, ma, dall’altra parte, sente la spinta a intensificare sia l’uso della droga, sia le sue pratiche sessuali perverse. In questo modo egli può esorcizzare il rischio dell’amore ripetendo il godimento masochistico dell’umiliazione le cui marche infantili lo riportano a suo padre. Immergendosi in questo godimento si sente riparato dal dolore psichico provocato dalla perdita dell’oggetto amato.
Al di là del piacere
Come abbiamo visto con questi ultimi esempi estremi, la sessualità umana non può essere ridotta alla ricerca edonistica del piacere. Se il piacere evita il turbamento dell’eccesso, il godimento lo implica. L’evitamento della tensione che caratterizza il piacere non può circoscrivere il godimento che, invece, si regge su una tensione continua. Per questa ragione, come abbiamo visto in questo libro, c’è qualcosa di irriducibilmente sregolato, intemperante, squilibrato nella sessualità umana. La virtù aristotelica della via mediana non può inquadrare il carattere irrisolto e inquieto del godimento. Questo significa che esiste una contraddizione profonda che attraversa il reale del sesso. Per un verso, esso esige il rapporto, è spinta ed esposizione verso l’Altro, è ciò che rende il nostro corpo fatto, se si può dire così, per l’Altro, aperto nei suoi orifizi, inclinato, proteso in un rapporto. È la verità contenuta nel mito biblico che situa l’oggetto del desiderio del soggetto proprio nel corpo dell’Altro. Per un altro verso, però, il sesso esige il suo stesso potenziamento, è volontà di godimento di se stesso, è un’esigenza dell’Uno che vuole godere a prescindere dall’Altro, è una pulsione che ruota su se stessa. Il perverso esaspera questo versante autistico, irrelato, senza rapporto del sesso. L’Altro allora diventa solo uno strumento del suo godimento. Il mezzo anonimo attraverso il quale la pulsione raggiunge il suo soddisfacimento. In tali casi, come abbiamo visto in questo capitolo, il piacere erotico viene sovrastato da un godimento dominato da Thanatos.
Il confine oltre il quale il piacere deborda nel godimento è sempre sottile. La vita sessuale dell’uomo non può essere, in quanto tale, circoscritta nei limiti del principio di piacere. Il godimento sospinge infatti verso la violazione di questi limiti. È il punto in cui l’eccitazione sfiora l’impeto violento, il desiderio la brama incontenibile, la tenerezza del contatto la spinta del possesso, la carezza la presa, il trovarsi insieme il perdersi, la gioia l’ebbrezza dello smarrimento.
Il godimento è sempre al di là del piacere. Ma questo al di là può connotarsi come un’esperienza di vertigine che potenzia la vita (come un’eccedenza positiva) o come una distruzione della vita (un eccesso rovinoso). Se il godimento perverso mira senza indugi a raggiungere questa distruzione, il godimento erotico, diversamente, tende a vitalizzare affermativamente la vita. Ma non si tratta mai di un’opposizione rigida. Il piacere porta con sé il godimento come una sorta di eccesso interno e il godimento, a sua volta, non esclude affatto la possibilità del piacere. L’al di là del godimento è una sorta di tensione che può attraversare anche il piacere potenziandolo, portandolo al suo colmo. Quello che è certo è che la vita umana non si accontenta di un piacere senza godimento. La sessualità ne è una prova inequivocabile: la spinta della pulsione non conosce moderazione, saggezza, equilibrio. Il reale della sessualità coincide con una perturbazione che non rientra nei confini stabiliti del piacere.
Tuttavia, non è affatto escluso che questa perturbazione possa essere anche il nome di una gioia. Soprattutto quando coinvolge l’amore che, come abbiamo visto, sottrae il corpo sessuale all’anonimato della serie, rendendolo unico e insostituibile. Allora al posto degli dei oscuri del pratone della Casilina sorgono i corpi gloriosi degli amanti. La logica torbidamente quantitativa del numero lascia il posto all’erotica singolare del nome proprio. È un filo per acrobati, una corda tesa. Come mantenere la gioia nella sua eccedenza senza farla precipitare nell’eccesso rovinoso della pulsione di morte? Il disarmo dell’amore sfida questa vertigine: percorre l’abbandono di sé sino a raggiungere il cuore irraggiungibile dell’Altro. La gioia dell’amore non esclude mai il godimento, ma lo traduce insistentemente in una perdita dei confini che non è psicosi ma estasi di un incontro che sa mantenere la sua eccedenza rispetto alla ripetizione senza desiderio.
1. “L’atto sessuale [è] un’aggressione che si propone la più profonda delle unificazioni.” Cfr. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, tr. it. in Opere, cit., p. 576.
2. S. Freud, L’Io e l’Es, tr. it. in Opere, cit., vol. 11, pp. 504-505.
3. S. Freud, Compendio di psicoanalisi, tr. it. in Opere, cit., pp. 577-578.
4. Cfr. J.-L. Nancy, Del sesso, cit., p. 13.
5. Cfr. J.-L. Nancy, Sessistenza, a cura di F.R. Recchia Luciani, tr. it. Cronopio, Genova 2017, p. 132.
6. J. Salter, Un gioco e un passatempo, tr. it. Guanda, Milano 2015, p. 238.
7. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro xviii. Di un discorso che non sarebbe quello del sembiante (1971), tr. it. Einaudi, Torino 2010, p. 28.
8. Per questo egli può affermare che “l’orgasmo vaginale mantiene inviolate le sue tenebre”. Cfr. J. Lacan, Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile, tr. it. in Scritti, cit., p. 724.
9. Cfr. N. Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, Torino 2020.
10. P.P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, p. 221.
11. Ibidem, p. 224.
12. Ibidem.
13. In Exit strategy di Walter Siti troviamo un’altra descrizione notevole di questa serialità anonima del godimento. Cfr. W. Siti, Exit strategy, Rizzoli, Milano 2014.
14. P.P. Pasolini, Petrolio, cit., p. 319.
15. Non tutto il porno risponde a questi criteri. Un autore ormai storico e leggendario come Andrew Blake – noto regista di film a luci rosse – mostra di conoscere benissimo l’arte del velo come essenziale di ogni forma di erotismo facendone il centro di ogni sua produzione cinematografica.
16. D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir, cit., p. 47.
17. N. Lagioia, La città dei vivi, cit., p. 82.
18. Ibidem, p. 278.