FINO ALLA FINE DEL TEMPO
Brian Greene
Prefazione
«Faccio matematica perché una volta che l’hai dimostrato, un teorema resta. Per sempre»1. Questa affermazione, semplice e diretta, mi fece trasalire. Ero al secondo anno di fisica e avevo accennato a un amico piú grande che da anni mi insegnava ampi settori della matematica che stavo scrivendo un articolo sulla motivazione umana per un corso di psicologia che seguivo. La sua risposta provocò in me un cambiamento. Prima di allora non avevo mai considerato la matematica in termini anche lontanamente simili. Per me, la matematica era un gioco meraviglioso di precisione astratta a cui si dedicava una strana comunità di persone che andavano matte per barzellette con la battuta finale su una radice quadrata o una divisione per zero. Ma le sue parole fecero scattare una molla. «Sí, questo è il fascino della matematica», pensai. La creatività vincolata dalla logica e da un insieme di assiomi stabilisce come si possono manipolare le idee e combinarle per rivelare verità incrollabili. Tutti i triangoli rettangoli disegnati da prima di Pitagora fino all’eternità soddisfano il famoso teorema che porta il suo nome. Senza alcuna eccezione. Certo, possiamo modificare gli assunti e ritrovarci a esplorare nuovi dominî, per esempio i triangoli disegnati su una superficie curva come quella di una palla da basket, che possono rovesciare la conclusione di Pitagora. Se però fissiamo gli assiomi e ricontrolliamo il lavoro, il nostro risultato è pronto per essere scolpito nella pietra. Nessuna ascesa alla vetta, nessun girovagare nel deserto, nessun trionfo sugli inferi. Possiamo sederci comodamente alla scrivania e usare carta e penna e una mente acuta per creare qualcosa di eterno.
Questa prospettiva aprí il mio mondo. In realtà, non mi ero mai domandato quale fosse il motivo della mia profonda attrazione per la matematica e la fisica. Risolvere problemi, scoprire come è fatto l’universo – questo era ciò che mi aveva sempre affascinato. A quel punto mi convinsi che ero attratto da queste discipline perché si libravano al di sopra della natura temporanea del quotidiano. Per quanto i miei sentimenti giovanili potessero rendere esagerato il mio impegno, all’improvviso fui certo di voler far parte di un viaggio verso intuizioni talmente fondamentali che non sarebbero mai cambiate. I governi potevano nascere e morire, i campionati potevano essere vinti o persi, le leggende dei film, della televisione e del teatro potevano andare e venire, ma io volevo passare la vita a intravvedere qualcosa di trascendente.
Nel frattempo, dovevo comunque scrivere quell’articolo di psicologia. Il compito era sviluppare una teoria del motivo per cui noi esseri umani facciamo ciò che facciamo; ogni volta che iniziavo a scrivere, però, il progetto mi sembrava decisamente vago. Rivestendo idee apparentemente ragionevoli nel linguaggio giusto, sembrava di poter inventare la teoria strada facendo. Dopo cena ne parlai allo studentato e uno dei responsabili mi suggerí di dare un’occhiata al Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Lo storico e filosofo tedesco Spengler aveva sempre nutrito interesse sia per la matematica sia per la scienza e questo era senza dubbio il motivo per cui il suo libro mi era stato raccomandato.
Gli aspetti responsabili della fama e del disprezzo di cui gode il libro – le previsioni di implosione della politica, una velata approvazione del fascismo – sono profondamente inquietanti e sono stati usati a sostegno di ideologie insidiose, ma io ero troppo concentrato su alcuni punti specifici per poterli notare. Fui invece affascinato dalla visione di Spengler di un insieme onnicomprensivo di principî capace di rivelare schemi nascosti comuni a culture diverse, alla pari con gli schemi espressi dal calcolo infinitesimale e dalla geometria euclidea che avevano trasformato la comprensione della fisica e della matematica2. Spengler parlava la mia lingua. Era stimolante che un libro di storia venerasse la matematica e la fisica come modelli per il progresso. Poi però mi imbattei in un’osservazione che mi colse di sorpresa: «L’uomo è l’unico essere che conosca la morte. Tutti gli altri esseri invecchiano, ma con una coscienza del tutto limitata al momento, la quale deve sembrar loro eterna», una conoscenza che inculca «l’angoscia schiettamente umana di fronte alla morte». La conclusione di Spengler era che «ogni religione, ogni scienza della natura, ogni filosofia prende da qui le sue mosse»3.
Ricordo che mi soffermai sull’ultima riga. Era una prospettiva sulla motivazione umana che mi sembrava sensata. L’incanto di una dimostrazione matematica può essere il fatto che resta per sempre. L’attrazione di una legge naturale può essere la sua qualità immutabile. Ma che cosa ci spinge a cercare ciò che è eterno, ad andare alla scoperta di qualità che possano durare per sempre? Forse tutto deriva dalla nostra singolare consapevolezza che siamo tutt’altro che eterni, che la nostra vita non andrà affatto avanti per sempre. In risonanza con la mia nuova opinione sulla matematica, sulla fisica e sul fascino dell’eternità, mi dava l’impressione di centrare il bersaglio. Era un approccio alla motivazione umana fondato su una reazione plausibile a un riconoscimento diffuso. Era un approccio che non inventava tutto sul momento.
Continuando a riflettere su questa conclusione, mi sembrò che promettesse qualcosa di ancora piú grandioso. La scienza, come osservava Spengler, è una risposta alla conoscenza della nostra ineluttabile fine. Anche la religione lo è. E anche la filosofia. In realtà, però, perché fermarsi qui? Secondo Otto Rank, uno dei primi discepoli di Freud che era affascinato dal processo creativo umano, di certo non dovremmo. L’artista, secondo la valutazione di Rank, è qualcuno il cui «impulso creativo […] tenta di trasformare una vita effimera nell’immortalità personale»4. Jean-Paul Sartre si è spinto ancora piú in là, osservando che la vita stessa è svuotata di significato «quando si è perduta l’illusione di essere eterni»5. Ciò che suggeriscono questi e altri pensatori successivi è quindi che gran parte della cultura umana – dall’esplorazione artistica alla scoperta scientifica – è guidata dalla vita che riflette sulla natura finita della vita.
Un mare difficile da navigare. Chi avrebbe mai immaginato che un grande interesse per la matematica e la fisica portasse a visioni di una teoria unificata della civiltà umana guidata dalla dualità di vita e morte?
Va bene. Faccio un bel respiro ricordando al mio sé di un tempo di non esagerare. In ogni caso, l’eccitazione che provai ha dimostrato di non essere soltanto un fugace stupore intellettuale. Da allora sono passati quasi quarant’anni e quei temi, benché tenuti spesso in secondo piano, non mi hanno mai abbandonato. Anche se nel mio lavoro quotidiano ho ricercato teorie unificate e origini cosmiche, riflettendo sul significato piú ampio dei progressi scientifici mi sono trovato piú e piú volte a tornare sul problema del tempo e della ridotta quantità di tempo assegnata a ciascuno di noi. Per formazione e per temperamento, dubito delle spiegazioni passe-partout – la storia della fisica è piena di teorie unificate delle forze della natura che si sono dimostrate false –, tanto piú se ci si avventura nel dominio complesso del comportamento umano. Di fatto, ho finito per considerare che la consapevolezza della mia inevitabile fine ha una notevole influenza su di me, ma non è una spiegazione globale di tutto ciò che faccio. È una valutazione, immagino, che in varia misura è comune a tutti. Tuttavia, vi è un dominio in cui i tentacoli della mortalità sono particolarmente evidenti.
In tutte le culture e in ogni epoca, abbiamo attribuito un valore notevole alla permanenza. Lo abbiamo fatto nei piú svariati modi: cercando la verità assoluta, lottando per eredità durature, costruendo monumenti straordinari, andando alla ricerca di leggi immutabili e rivolgendoci tuttora con fervore a una qualche versione della perennità. L’eternità, come dimostrano tutti questi interessi, esercita una potente attrazione sulla mente consapevole di avere una durata materiale limitata.
Nella nostra epoca, scienziati equipaggiati con gli strumenti dell’esperimento, dell’osservazione e dell’analisi matematica hanno tracciato una nuova via verso il futuro, che per la prima volta ha rivelato caratteristiche importanti del futuro, seppur ancora lontano, panorama. Nonostante la foschia e la nebbia, il panorama sta diventando abbastanza chiaro e noi creature meditative possiamo riuscire a capire piú di quanto sia mai stato possibile come ci inseriamo nell’immensità del tempo.
È in questo spirito che, nelle pagine che seguono, percorreremo la cronologia dell’universo, esplorando i principî fisici che producono strutture ordinate dalle stelle e dalle galassie alla vita e alla coscienza, in un universo destinato al decadimento. Prenderemo in considerazione argomenti che stabiliscono che, come gli esseri umani hanno una vita di durata limitata, cosí è anche per gli stessi fenomeni della vita e della mente nell’universo. In effetti, a un certo punto probabilmente nessun tipo di materia organizzata sarà piú possibile. Esamineremo il modo in cui esseri autoriflessivi lottano con la tensione implicata dalla consapevolezza di questi fatti. Noi emergiamo da leggi che, per quanto ne sappiamo, sono eterne e tuttavia esistiamo per un tempo brevissimo. Siamo guidati da leggi che operano senza riguardo per la destinazione e tuttavia ci domandiamo costantemente dove siamo diretti. Siamo plasmati da leggi che non sembrano richiedere una motivazione di fondo e tuttavia siamo continuamente alla ricerca di significato e di scopo.
In breve, esamineremo l’universo dall’inizio del tempo a qualcosa di simile alla sua fine e nel corso di questo viaggio esploreremo i modi straordinari in cui menti inquiete e inventive hanno reagito alla fondamentale transitorietà di ogni cosa e l’hanno illuminata.
In questa esplorazione, saremo guidati dalle intuizioni di una varietà di discipline scientifiche. Per mezzo di analogie e di metafore, spiegherò tutte le idee necessarie evitando i termini tecnici, dando per scontato soltanto un bagaglio culturale molto modesto. Per i concetti particolarmente difficili presento un breve riassunto dell’argomento che vi permette di procedere senza smarrire la via. Nelle note di ogni capitolo spiego le questioni piú sottili, specifico alcuni dettagli matematici particolari e fornisco riferimenti bibliografici e suggerimenti per ulteriori letture.
Poiché il tema è vasto e le pagine sono limitate, ho scelto di seguire un sentiero stretto, fermandomi in corrispondenza di vari punti critici che considero essenziali per riconoscere il nostro posto nell’ambito della piú ampia storia cosmologica. Questo viaggio alimentato dalla scienza e a cui dà significato l’umanità dà luogo a un’avventura intensa e arricchente.
Capitolo primo
Il richiamo dell’eternità
Inizi, fini e oltre
A tempo debito, tutto ciò che è vivo morirà. Per piú di 3 miliardi di anni, mentre specie semplici e complesse trovavano il proprio posto nella gerarchia del pianeta, la falce della morte ha sempre gettato un’ombra sul fiorire della vita. La diversità si diffuse mentre la vita strisciava fuori dagli oceani, avanzava sulla terraferma e spiccava il volo nei cieli. Aspettando abbastanza a lungo, però, il bilancio di nascite e morti, con voci piú numerose delle stelle della galassia, sarà in pareggio con precisione imparziale. Lo sviluppo di una data vita è imprevedibile. Il destino finale di una data vita è una conclusione scontata.
Tuttavia questa fine incombente, inevitabile come il tramonto del Sole, è qualcosa che a quanto pare notiamo soltanto noi esseri umani. Molto prima del nostro arrivo, il fragoroso tuonare di nubi temporalesche, la forza impetuosa dei vulcani, i tremuli sussulti della terra di certo facevano fuggire precipitosamente qualsiasi essere capace di correre. Queste fughe però sono una reazione istintiva a un pericolo imminente. In generale, ogni forma di vita vive il momento presente e la paura nasce dalla percezione immediata. Siamo soltanto voi, io e tutti i nostri simili a poter riflettere sul passato lontano, immaginare il futuro e comprendere le tenebre che ci attendono.
È terrificante. Non è il tipo di terrore che ci fa indietreggiare o correre ai ripari. È piuttosto un brutto presentimento che vive tranquillamente dentro di noi, un presagio che impariamo a sopprimere, ad accettare, a prendere alla leggera. Al di sotto degli strati che lo nascondono, tuttavia, vi è il dato inquietante e onnipresente di ciò che ci aspetta e conoscere questo fatto è stato descritto da William James come il «tarlo roditore di ogni nostra fonte ordinaria di letizia»1. Lavorare e giocare, bramare e lottare, desiderare e amare, tutto ciò ci inserisce sempre piú saldamente nell’arazzo delle vite che condividiamo, e poi tutto finisce – per parafrasare Steven Wright, basta per essere mezzi morti di paura. Due volte.
Ovviamente, per restare sani di mente, per lo piú non ci fissiamo sulla fine. Affrontiamo il mondo concentrandoci sulle preoccupazioni materiali. Accettiamo l’inevitabile e rivolgiamo le energie ad altre cose. Tuttavia il riconoscimento della finitezza del nostro tempo è sempre con noi e ci aiuta a plasmare le nostre scelte, le sfide che accettiamo, i percorsi che seguiamo. Come ha affermato l’antropologo culturale Ernest Becker, siamo sottoposti a una costante tensione esistenziale, spinti verso il cielo da una coscienza che può innalzarsi all’altezza di Shakespeare, Beethoven e Einstein, ma incatenati a terra da una forma fisica che si decompone in polvere: «L’uomo è letteralmente diviso in due: ha consapevolezza della sua splendida unicità in quanto emerge dalla Natura con torreggiante maestà e, ciò nonostante, è destinato a tornare sotto terra per putrefarsi e scomparire per sempre nelle tenebre»2. Secondo Becker, siamo spinti da questa consapevolezza a negare alla morte la capacità di cancellarci. Alcuni placano l’anelito esistenziale con l’impegno per la famiglia, per una squadra, un movimento, una religione, una nazione – strutture che dureranno piú a lungo del tempo assegnato all’individuo sulla Terra. Altri lasciano dietro di sé espressioni creative, opere che estendono la durata della loro presenza in maniera simbolica. «Voliamo verso la bellezza come rifugio dagli orrori della finitezza della natura», scrisse Emerson3. Altri ancora cercano di sconfiggere la morte vincendo o conquistando, come se la levatura, il potere e la ricchezza concedessero un’immunità di cui il comune mortale non dispone.
Nel corso dei millenni, una delle conseguenze è stata una diffusa passione per tutte le cose, reali o immaginarie, che sfiorano l’eterno. Abbiamo sviluppato strategie – profezie di un aldilà, dottrine di reincarnazione, mandala esposti al vento come preghiere – per combattere la conoscenza della nostra transitorietà e, spesso con speranza e a volte con rassegnazione, per fare un gesto verso l’eternità. La novità della nostra epoca è il notevole potere della scienza di raccontare una storia chiara in relazione non solo al passato, indietro fino al Big Bang, ma anche al futuro. L’eternità stessa potrebbe restare per sempre al di fuori della portata delle nostre equazioni, ma le nostre analisi hanno già rivelato che l’universo che abbiamo imparato a conoscere è transitorio. Dai pianeti alle stelle, dai sistemi solari alle galassie, dai buchi neri alle nebulose spiraleggianti, nulla dura in eterno. In realtà, per quanto ne sappiamo, è finita non solo ogni singola vita, ma anche la vita stessa. Il pianeta Terra, che Carl Sagan ha descritto come un granellino di polvere sospeso in un raggio di sole, è un fiore evanescente in un cosmo meraviglioso che finirà per non produrne piú. I granellini di polvere, vicini o distanti, danzano sui raggi di sole soltanto per un momento.
Qui sulla Terra, tuttavia, abbiamo punteggiato il nostro momento di strabilianti dimostrazioni di intuizione, creatività e inventività, poiché ogni generazione si è basata sui risultati ottenuti dalle generazioni precedenti, cercando chiarezza su come è nato tutto, perseguendo la coerenza rispetto alla direzione in cui tutto va e desiderando capire il motivo per cui tutto ciò è importante.
Ecco, in breve, la storia narrata in questo libro.
1. Storie di quasi tutto.
La nostra è una specie che ama le storie. Osserviamo la realtà, cogliamo regolarità e le colleghiamo in narrazioni che possono affascinare, informare, spaventare, divertire e far rabbrividire. Il plurale – narrazioni – è quanto mai essenziale. Nella biblioteca della riflessione umana non esiste un volume unico che trasmette la conoscenza definitiva. Gli esseri umani hanno scritto molte storie annidate che esplorano diversi dominî di indagine e di esperienza: storie, cioè, che analizzano le forme della realtà usando grammatiche e vocabolari differenti. I protoni, i neutroni, gli elettroni e le altre particelle della natura sono essenziali per raccontare la storia riduzionistica, che analizza tutti gli ingredienti della realtà, dai pianeti a Picasso, in funzione dei loro costituenti microfisici. Il metabolismo, la replicazione, la mutazione e l’adattamento sono essenziali per raccontare la storia della nascita e dello sviluppo della vita, che analizza i meccanismi biochimici di molecole straordinarie e delle cellule che governano. I neuroni, l’informazione, il pensiero e la consapevolezza sono essenziali per la storia della mente – e con questa le narrazioni proliferano: mito e religione, letteratura e filosofia, arte e musica, che raccontano la lotta per la sopravvivenza, la volontà di capire, l’impulso a esprimersi e la ricerca di significato da parte dell’umanità.
Tutte queste storie sono in via di sviluppo e vengono elaborate da pensatori provenienti da una vasta gamma di discipline distinte. È comprensibile. Una saga che spazia dai quark alla coscienza è una cronaca ragguardevole. Le storie, tuttavia, sono intrecciate. Il Don Chisciotte parla dell’anelito umano al comportamento eroico, raccontato attraverso Alonso Chisciano, un gracile personaggio creato dall’immaginazione di Miguel de Cervantes, un insieme di ossa, tessuti e cellule vivo, respirante, pensante e capace di percezioni ed emozioni, che nel corso della sua vita ha sostenuto processi organici di trasformazione dell’energia e di escrezione dei prodotti di scarto, basati a loro volta su movimenti atomici e molecolari perfezionati in miliardi di anni di evoluzione su un pianeta forgiato con i detriti di esplosioni di supernove disseminati in un regno dello spazio emerso dal Big Bang. Leggendo i travagli di Don Chisciotte, tuttavia, si acquisisce una comprensione della natura umana che difficilmente si otterrebbe attraverso una descrizione dei movimenti degli atomi e delle molecole del cavaliere errante o un’elaborazione dei processi neuronali in azione nella mente di Cervantes mentre scriveva il romanzo. Pur essendo certamente collegate, le diverse storie, raccontate in linguaggi diversi e concentrate su livelli di realtà diversi, forniscono intuizioni enormemente diverse.
Forse un giorno saremo in grado di passare senza problemi dall’una all’altra di queste storie, collegando tutti i prodotti della mente umana, reali e fittizi, scientifici e fantasiosi. Forse un giorno faremo ricorso a una teoria unificata di ingredienti elementari per spiegare la visione sconvolgente di un Rodin e la miriade di reazioni che suscitano I borghesi di Calais. Forse un giorno comprenderemo appieno come qualcosa di apparentemente banale, un luccichio riflesso da un piatto fatto roteare in aria, possa insinuarsi nella mente potente di un Richard Feynman e costringerlo a riscrivere le leggi fondamentali della fisica. Considerando un obiettivo ancora piú ambizioso, forse un giorno capiremo i meccanismi della mente e della materia in maniera cosí completa che tutto sarà svelato, dai buchi neri a Beethoven, dalla stranezza quantistica a Walt Whitman. Anche non avendo una capacità nemmeno remotamente simile a quella, però, abbiamo molto da guadagnare da un’immersione in queste storie – scientifiche, creative, fantasiose –, rendendoci conto di come e quando sono emerse da storie che le hanno precedute nella cronologia del cosmo e ripercorrendo gli sviluppi, quelli controversi e quelli conclusivi, che hanno fatto attribuire a ciascuna un ruolo esplicativo importante4.
In tutta la collezione di storie troveremo due forze che condividono il ruolo di protagoniste. Nel capitolo II incontreremo la prima: l’entropia. Pur essendo familiare a molti grazie alla sua associazione al disordine e all’affermazione spesso ripetuta che il disordine è sempre in aumento, l’entropia ha qualità sottili che permettono ai sistemi fisici di svilupparsi in una gran varietà di modi, a volte dando persino l’impressione di nuotare contro la corrente entropica. Dell’entropia vedremo alcuni esempi importanti nel capitolo III, quando le particelle, subito dopo il Big Bang, sembrano farsi beffe della spinta al disordine evolvendosi in strutture organizzate come stelle, galassie e pianeti – e alla fine in configurazioni di materia che emergono con la corrente della vita. La questione di come si generò quella corrente ci porta alla seconda influenza pervasiva: l’evoluzione.
Pur essendo il motore primario delle trasformazioni graduali dei sistemi viventi, l’evoluzione per selezione naturale precede di molto il momento in cui le prime forme di vita iniziano a competere. Nel capitolo IV, incontreremo molecole che combattono con molecole, lotte per la sopravvivenza ingaggiate in un’arena di materia inanimata. Il processo di darwinismo molecolare, come viene chiamata questa lotta chimica, probabilmente è ciò che nel corso del tempo produsse una serie di configurazioni sempre piú robuste che finirono per generare le prime collezioni molecolari che chiameremmo vita. I dettagli sono argomento della ricerca d’avanguardia, ma dopo gli splendidi progressi degli ultimi due decenni l’opinione unanime è che abbiamo imboccato la strada giusta. In effetti, può darsi che le forze duali dell’evoluzione e dell’entropia siano partner bene assortiti nel lungo e accidentato cammino verso l’emergere della vita. Anche se questo accoppiamento può sembrare bizzarro – nella descrizione comune, l’entropia è quasi equiparata al caos e sembrerebbe l’antitesi dell’evoluzione o della vita – alcune analisi matematiche recenti dell’entropia indicano che la vita o, quanto meno, qualità simili alla vita potrebbero essere il prodotto prevedibile di una fonte di energia di lunga durata, come il Sole, che riversa incessantemente calore e luce su ingredienti molecolari che si contendono le risorse limitate disponibili su un pianeta come la Terra.
Per quanto provvisorie possano essere oggi alcune di queste idee, è certo che all’incirca un miliardo di anni dopo la sua formazione la Terra brulicava di forme di vita che si sviluppavano sottoposte a pressione evolutiva, perciò la fase di sviluppo successiva prosegue con la tariffa darwiniana standard. Eventi casuali, come essere colpiti da un raggio cosmico o subire un incidente molecolare durante la replicazione del DNA, provocano mutazioni casuali; alcune hanno un impatto minimo sulla salute o il benessere dell’organismo, ma altre lo rendono piú o meno adatto alla competizione per la sopravvivenza. Queste mutazioni che aumentano la fitness hanno una probabilità maggiore di essere trasmesse ai discendenti, poiché il significato di «piú adatto» è proprio che il portatore del tratto ha una probabilità maggiore di sopravvivere fino alla maturità riproduttiva e generare una prole adatta. Una generazione dopo l’altra, quindi, le qualità che hanno fatto crescere la fitness si diffondono.
Miliardi di anni piú tardi, con la continuazione di questo lungo processo, una serie particolare di mutazioni dotò alcune forme di vita di una migliore capacità cognitiva. Certi esseri viventi non solo divennero consapevoli, ma divennero consapevoli di essere consapevoli. In altre parole, alcuni esseri viventi acquisirono l’autoconsapevolezza cosciente. Naturalmente, questi esseri autoriflessivi si sono domandati che cosa sia la coscienza e come sia emersa: come può un vortice di materia priva di mente pensare e provare sensazioni? Vari ricercatori, come discuteremo nel capitolo V, prevedono che si arriverà a una spiegazione meccanicistica. Sostengono che dobbiamo comprendere il cervello – le sue componenti, le sue funzioni, le sue connessioni – attenendoci ai fatti molto piú di quanto facciamo oggi, ma che una volta acquisita questa conoscenza la spiegazione della coscienza seguirà. Altri prevedono che questa sfida sarà molto piú impegnativa e sostengono che la coscienza è l’enigma piú difficile mai incontrato dall’umanità, che richiederà prospettive radicalmente nuove non solo sulla mente, ma anche sulla natura stessa della realtà.
Le opinioni degli studiosi coincidono quando si valuta l’impatto che la sofisticazione cognitiva umana ha avuto sul nostro repertorio comportamentale. Per decine di migliaia di generazioni durante il Pleistocene, i nostri antenati, riuniti in gruppi, vissero di caccia e raccolta. Nel corso del tempo, grazie a una destrezza mentale emergente, acquisirono capacità raffinate per pianificare, organizzare, comunicare, insegnare, valutare, giudicare e risolvere problemi. Sfruttando queste accresciute capacità individuali, i gruppi iniziarono a esercitare forze collettive sempre piú influenti. Questo ci porta alla collezione successiva di episodi esplicativi, quelli concentrati sugli sviluppi che hanno fatto di noi ciò che siamo. Nel capitolo VI, esamineremo l’acquisizione del linguaggio e la conseguente ossessione per la narrazione di storie; il capitolo VII indaga un genere particolare di storie, quelle che prefigurano e generano tradizioni religiose; il capitolo VIII esplora la perenne e diffusa ricerca di espressioni artistiche.
Cercando di scoprire le origini di questi sviluppi, sia comuni sia sacri, i ricercatori hanno fatto appello a una vasta gamma di spiegazioni. Per noi continuerà a essere un faro essenziale l’evoluzione darwiniana, applicata in questo caso al comportamento umano. Il cervello, dopo tutto, non è altro che una struttura biologica che si evolve attraverso le pressioni selettive ed è il cervello a guidare ciò che facciamo e come reagiamo. Negli ultimi decenni, gli scienziati cognitivi e gli psicologi evoluzionisti hanno sviluppato questa prospettiva, stabilendo che oltre alle nostre caratteristiche biologiche anche il nostro comportamento è stato modellato dalle forze della selezione darwiniana. Pertanto nel corso della nostra spedizione attraverso la cultura umana ci domanderemo spesso se questo o quel comportamento possa aver migliorato le prospettive di sopravvivenza e di riproduzione di coloro che lo praticarono tanto tempo fa, promuovendo la sua ampia diffusione attraverso generazioni di discendenti. Tuttavia, a differenza del pollice opponibile e dell’andatura eretta – caratteristiche fisiologiche ereditarie strettamente collegate a specifici comportamenti adattivi –, molte caratteristiche ereditarie del cervello modellano preferenze e non azioni vere e proprie. Siamo influenzati da queste predisposizioni, ma l’attività umana emerge dall’unione di un insieme di tendenze comportamentali e di una mente complessa, deliberante e autoriflessiva.
Un secondo faro, diverso ma non meno importante, verrà quindi puntato sulla vita interiore che si accompagna alle nostre raffinate capacità cognitive. Seguendo un sentiero tracciato da molti pensatori, arriveremo a un panorama rivelatore: con la cognizione umana abbiamo certamente sfruttato una forza potente, che nel corso del tempo ha fatto di noi la specie dominante nel mondo. Tuttavia, le facoltà mentali che ci permettono di modellare, plasmare e innovare sono le stesse che dissolvono la miopia che altrimenti ci terrebbe concentrati meticolosamente sul presente. L’abilità di manipolare l’ambiente in modo ponderato fornisce la capacità di spostare il nostro punto di osservazione, di librarci al di sopra della linea temporale per contemplare ciò che è stato e immaginare ciò che sarà. Anche se preferiremmo che non fosse cosí, raggiungere «penso, dunque sono» vuol dire buttarsi a capofitto nella controreplica «sono, dunque morirò».
Rendersene conto è a dir poco sconcertante. Tuttavia i piú riescono a sopportarlo. E la nostra sopravvivenza come specie attesta che anche i nostri confratelli sono stati in grado di sopportarlo. Ma come ci riusciamo5? Secondo una linea di pensiero, continuiamo a raccontare storie in cui il nostro posto in un vasto universo si trasferisce al centro della scena e la possibilità di essere eliminati per sempre è messa in discussione oppure ignorata – o comunque non è affatto certa. Creiamo opere d’arte – dipinti, sculture, balletti e musiche – in cui strappiamo il controllo della creazione e investiamo noi stessi del potere di trionfare su tutte le cose finite. Immaginiamo eroi, da Ercole a Sir Gawain e a Ermione, che guardano la morte negli occhi con ferrea determinazione e dimostrano, seppur in modo fantasioso, che possiamo imporci. Sviluppiamo la scienza, ricavando conoscenze dei meccanismi della realtà che trasformiamo in poteri che le generazioni precedenti avrebbero riservato agli dèi. In poche parole, possiamo avere la botte cognitiva piena – l’agilità di pensiero che, fra molte altre cose, rivela la nostra difficile situazione esistenziale – e anche la moglie ubriaca. Per mezzo delle nostre capacità creative abbiamo sviluppato difese formidabili contro ciò che altrimenti sarebbe stata un’inquietudine debilitante.
Ciò nonostante, poiché i motivi non si fossilizzano, individuare l’ispirazione del comportamento umano può essere un problema spinoso. Forse le nostre incursioni nella creatività, dai cervi di Lascaux alle equazioni della relatività generale, emergono dalla capacità del cervello, evoluta per selezione naturale ma eccessivamente attiva, di individuare schemi e organizzarli in modo coerente. Forse queste attività e altre collegate sono prodotti collaterali mirabili ma superflui dal punto di vista adattivo di un cervello sufficientemente grande, derivanti dall’attenzione concentrata a tempo pieno sul garantirsi un riparo e mezzi di sostentamento. Come vedremo, le teorie sono molte, ma non si sono raggiunte conclusioni irrefutabili. Ciò che è fuori discussione è che immaginiamo, creiamo e apprezziamo opere, dalle piramidi alla Nona sinfonia e alla meccanica quantistica, che sono monumenti all’inventività umana la cui durevolezza, al di là del contenuto, punta verso la permanenza.
Dopo aver considerato le origini del cosmo, esplorato la formazione degli atomi, delle stelle e dei pianeti ed esaminato rapidamente l’emergere della vita, della coscienza e della cultura, rivolgeremo lo sguardo al dominio che per millenni, letteralmente e simbolicamente, ha da una parte stimolato e dall’altra placato la nostra angoscia esistenziale: esamineremo ciò che sarà da qui all’eternità.
2. Informazione, coscienza ed eternità.
L’eternità è molto di là da venire. Nel frattempo succederanno molte cose. Futurologi ansanti e film di fantascienza hollywoodiani immaginano come saranno la vita e la civiltà fra lassi di tempo che, pur essendo significativi in base al metro umano, non sono affatto tali rispetto ai tempi dell’universo. Cercare di estrapolare gli sviluppi futuri da un breve periodo di innovazione tecnologica esponenziale è un passatempo divertente, ma è molto probabile che i risultati di simili previsioni siano profondamente diversi da come andranno effettivamente le cose. Tutto ciò considerando intervalli di tempo relativamente familiari di decenni, secoli e millenni. Se poi si passa alla scala temporale dell’universo, cercare di prevedere dettagli di questo genere è un’impresa del tutto inutile. Per fortuna, per la maggior parte della nostra esplorazione, ci ritroveremo su un terreno piú solido. Il mio intento è dipingere il futuro dell’universo con colori vivaci, ma solo a grandi linee e con questo livello di dettaglio possiamo descrivere le varie possibilità con un ragionevole grado di certezza.
Una cosa essenziale da riconoscere è che si ricava ben poca serenità emotiva dal lasciare una traccia se in futuro non esisterà nessuno che possa notarla. Il futuro che tendiamo a immaginare, anche se solo implicitamente, è popolato dal genere di cose a cui teniamo. L’evoluzione spingerà certamente la vita e la mente ad assumere un gran numero di forme sostenute da una varietà di piattaforme – biologiche, computazionali, ibride e chissà quali altre. A prescindere dai dettagli imprevedibili della composizione fisica o del contesto ambientale, però, i piú immaginano che nel futuro remoto qualche forma di vita, e piú specificamente di vita intelligente, esisterà e penserà.
La domanda da porsi a questo punto ci accompagnerà per tutto il viaggio: il pensiero cosciente può persistere indefinitamente? O invece è possibile che la mente pensante sia, come la tigre della Tasmania o il picchio dal becco d’avorio, qualcosa di sublime che compare per un certo periodo e poi si estingue? Non sto considerando la coscienza individuale, quindi la domanda non ha nulla a che fare con le tecnologie criogeniche, digitali e di qualsiasi altro tipo, che molti auspicano, capaci di conservare una data mente. Mi sto invece domandando se il fenomeno del pensiero, sostenuto da un cervello umano, da un computer intelligente, da particelle entangled fluttuanti nel vuoto o da qualunque altro processo fisico che si dimostri pertinente, possa persistere in un futuro arbitrariamente lontano.
Perché non dovrebbe? Pensiamo all’incarnazione umana del pensiero. Sappiamo che emerse in concomitanza con un insieme fortuito di condizioni ambientali che spiegano perché, per esempio, il nostro pensiero ha luogo qui e non su Mercurio o sulla cometa di Halley. Pensiamo che emerse qui perché qui le condizioni possono ospitare la vita e il pensiero, ed è per questo motivo che i cambiamenti deleteri del clima della Terra sono tanto angoscianti. Un punto niente affatto ovvio è se esista una versione cosmica di queste preoccupazioni importanti ma campanilistiche. Considerando il pensiero come un processo fisico (un assunto che sarà preso in esame), non sorprende che possa aver luogo soltanto quando sono rigorosamente soddisfatte certe condizioni ambientali, che sia sulla Terra ora o da qualche altra parte in futuro. Cosí, considerando l’evoluzione generale dell’universo, determineremo se le condizioni ambientali in evoluzione nello spazio e nel tempo possano sostenere in eterno la vita intelligente.
La valutazione sarà guidata da interessanti risultati delle ricerche di fisica delle particelle, di astrofisica e di cosmologia che ci permettono di prevedere come si evolverà l’universo nel corso di epoche che fanno sembrare piccolo il tempo trascorso dal Big Bang. Le incertezze sono notevoli, com’è ovvio, e la mia ragione di vita, che è quella della maggior parte degli scienziati, è la possibilità che la natura possa stroncare la nostra presunzione e rivelare sorprese che non siamo ancora in grado di spiegare. Va detto, però, che concentrandoci su ciò che abbiamo misurato, osservato e calcolato, ciò che troviamo, e sarà descritto nel capitolo IX, non è incoraggiante. I pianeti, le stelle, i sistemi solari, le galassie e persino i buchi neri sono transitori. La fine di ognuno di essi è guidata dalla propria combinazione caratteristica di processi fisici, governati dalla meccanica quantistica e dalla relatività generale, che finirà per produrre una nebbia di particelle alla deriva in un cosmo freddo e inerte.
Come se la caverà il pensiero cosciente in un universo sottoposto a una tale trasformazione? Il linguaggio per porre questa domanda e offrire una risposta è fornito ancora una volta dall’entropia. Seguendo la pista dell’entropia incontreremo la possibilità fin troppo reale che l’atto stesso di pensare, compiuto da qualsiasi entità di qualsiasi genere in qualsiasi luogo, possa essere contrastato da un inevitabile accumulo di rifiuti ambientali: in un futuro lontano, qualsiasi entità pensante potrebbe bruciare nel calore generato dai propri pensieri. Il pensiero stesso potrebbe diventare fisicamente impossibile.
Anche se le argomentazioni contro l’eternità del pensiero si baseranno su un insieme di assunti prudenti, prenderemo in esame anche altri futuri possibili piú favorevoli alla vita e al pensiero. Tuttavia, l’interpretazione piú semplice suggerisce che la vita, e in particolare la vita intelligente, è passeggera. È del tutto possibile che l’intervallo della linea temporale cosmica in cui le condizioni permettono l’esistenza di esseri autoriflessivi sia estremamente ristretto. Dando un’occhiata superficiale a tutto l’insieme, la vita potrebbe sfuggire completamente. Per Nabokov una vita umana è come «un fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre»6 e questa definizione si potrebbe riferire al fenomeno della vita stessa.
Lamentiamo la nostra transitorietà e traiamo conforto da una trascendenza simbolica, il retaggio di aver comunque partecipato al viaggio. Voi e io non ci saremo piú, ma altri sí, e ciò che voi e io facciamo, creiamo e lasciamo dietro di noi contribuisce a quel che sarà e a come vivranno le vite future. Ma in un universo che alla fine sarà privo di vita e di coscienza, anche un’eredità simbolica – un sussurro destinato ai nostri lontani discendenti – svanirà nel vuoto.
Questo dove ci porta?
3. Riflessioni sul futuro.
Le scoperte sull’universo sono qualcosa che tendiamo ad assimilare intellettualmente. Quando ne veniamo a conoscenza, un nuovo fatto relativo al tempo, alle teorie unificate o ai buchi neri ci solletica la mente per un po’ e, se ci ha colpiti a sufficienza, ci rimane impresso. La natura astratta della scienza spesso ci porta a soffermarci sul suo contenuto a livello cognitivo e solo allora, e solo di rado, quella comprensione ha la possibilità di toccarci a livello viscerale. Nelle occasioni in cui la scienza coinvolge sia la ragione sia le emozioni, però, il risultato può essere potente.
Ecco un esempio concreto. Qualche anno fa, quando iniziai a riflettere sulle previsioni scientifiche relative al lontano futuro dell’universo, la mia esperienza era per lo piú cerebrale. Assimilavo il materiale pertinente come un insieme affascinante ma astratto di intuizioni implicate dalla matematica delle leggi di natura. Mi capitava, però, che se mi imponevo di immaginare davvero tutta la vita, tutto il pensiero, tutte le lotte e tutte le realizzazioni come un’aberrazione passeggera lungo una linea temporale cosmica altrimenti priva di vita, l’assimilavo in modo diverso. Potevo figurarmelo. Potevo percepirlo con i sensi. Confesso che le prime volte il viaggio era deprimente. In decenni di studio e di ricerca scientifica avevo avuto spesso momenti di euforia e di meraviglia, ma prima di allora non mi era mai capitato che risultati matematici e fisici mi facessero sprofondare in un cupo terrore.
Nel corso del tempo, il mio coinvolgimento emotivo con queste idee è migliorato. Oggi contemplare il lontano futuro il piú delle volte mi lascia una sensazione di calma e di connessione, come se la mia identità avesse poca importanza perché è stata inglobata in ciò che posso solo descrivere come una sensazione di gratitudine per il dono dell’esperienza. Poiché è molto probabile che non mi conosciate personalmente, è opportuno accennare al contesto. Sono una persona di mentalità aperta con una sensibilità orientata al rigore. Vengo da un mondo in cui si espone la propria tesi con equazioni e risultati riproducibili, un mondo in cui la validità è determinata da calcoli inequivocabili che generano previsioni che corrispondono ai risultati degli esperimenti cifra per cifra, a volte fino a dodici posizioni dopo la virgola. Quindi la prima volta che ebbi uno di quei momenti di connessione calma – mi trovavo in uno Starbucks a New York – provai una profonda diffidenza. Forse il mio Earl Grey era stato contaminato da un latte di soia scaduto. O forse stavo impazzendo.
Ripensandoci, non era vera né l’una né l’altra cosa. Siamo il prodotto di una lunga stirpe che ha alleviato il proprio disagio esistenziale immaginando di lasciare un segno. E quanto piú durevole è il segno, quanto piú indelebile la sua impronta, tanto piú importante sembra essere stata una vita. Per citare il filosofo Robert Nozick (ma potrebbero anche essere parole di George Bailey): «La morte ti cancella […]. Essere completamente eliminati, insieme a tutte le tracce e a ogni altra cosa rimasta, riesce quasi a distruggere il significato della propria vita»7. In particolare per chi, come me, non ha un orientamento religioso tradizionale, l’accento posto sul non essere «cancellati», una concentrazione costante sulla durata, può permeare ogni cosa. La mia educazione, la mia istruzione, la mia carriera, le mie esperienze, tutto nella mia vita ne è stato pervaso. In ogni fase, sono andato avanti con lo sguardo rivolto al futuro, cercando di realizzare qualcosa che durasse. Il motivo per cui il mio interesse professionale è stato dominato da analisi matematiche dello spazio, del tempo e delle leggi della natura non è certo misterioso; è difficile immaginare un’altra disciplina che mantenga piú facilmente i pensieri quotidiani concentrati su problemi che trascendono il momento. La scoperta scientifica getta però una luce diversa su questa prospettiva. La vita e il pensiero probabilmente popolano una minuscola oasi nella linea temporale del cosmo. Pur essendo governato da leggi matematiche eleganti che permettono mirabili processi fisici di ogni genere, l’universo ospiterà la vita e il pensiero solo per un certo periodo. Se riuscite a comprenderlo appieno, immaginando un futuro privo di stelle, di pianeti e di cose che pensano, la vostra considerazione per questa era può aumentare fino a sfiorare la venerazione.
La sensazione che provai da Starbucks fu questa. La calma e la connessione segnarono il passaggio dal tentativo disperato di afferrare un futuro sfuggente alla sensazione di vivere in un presente mozzafiato seppur fugace. Questo passaggio mi fu imposto da un equivalente cosmologico della guida offerta nei secoli da poeti e filosofi, scrittori e artisti, maestri spirituali e insegnanti di meditazione di consapevolezza, tra innumerevoli altri che ci rivelano una verità semplice ma sorprendentemente sottile: la vita è nel qui e ora. È un atteggiamento mentale che è difficile mantenere sempre, ma che ha pervaso il pensiero di molti. Due esempi sono «Il sempre è fatto d’attimi»8 di Emily Dickinson e «l’eternità in ciascun momento»9 di Thoreau. È una prospettiva, ho scoperto, che diventa ancor piú evidente quando ci immergiamo in tutta l’estensione del tempo, dall’inizio alla fine: questo sfondo cosmologico chiarisce in modo impareggiabile quanto sia singolare e fugace in effetti il qui e ora.
Il mio obiettivo qui è fornire questa chiarezza. Viaggeremo nel tempo, dalla nostra migliore comprensione dell’inizio fino al punto piú vicino alla fine a cui può portarci la scienza. Esploreremo il modo in cui la vita e la mente emergono dal caos e ci soffermeremo su ciò che fanno alcune menti curiose, appassionate, inquiete, autoriflessive, inventive e scettiche, in particolare quando si rendono conto della propria mortalità. Esamineremo l’avvento della religione, il desiderio di esprimersi creativamente, l’ascesa della scienza, la ricerca della verità e la brama di eternità. La profonda attrazione per qualcosa di permanente, ciò che secondo Franz Kafka è il nostro bisogno di «qualcosa di indistruttibile»10, spingerà la nostra continua marcia verso il futuro distante, permettendoci di valutare le prospettive di tutto ciò che ci è caro, tutto ciò che costituisce la realtà cosí come la conosciamo, dai pianeti alle stelle, dalle galassie ai buchi neri, dalla vita alla mente.
In tutto ciò, risplenderà lo spirito umano della scoperta. Siamo esploratori ambiziosi che cercano di comprendere una realtà molto vasta. Secoli di sforzi hanno illuminato territori oscuri della materia, della mente e del cosmo. Nei millenni a venire, le sfere di illuminazione diventeranno piú grandi e piú luminose. Il viaggio compiuto finora ha già reso evidente che la realtà è governata da leggi matematiche che sono indifferenti ai codici di condotta, ai criteri di bellezza, ai bisogni di compagnia, ai desideri di comprensione e alle ricerche di uno scopo. Tuttavia, attraverso il linguaggio e la storia, l’arte e il mito, la religione e la scienza, abbiamo sfruttato la nostra piccola parte dell’inarrestabile e spassionato dispiegarsi meccanico dell’universo per dare voce al nostro dilagante bisogno di coerenza, valore e significato. È un contributo pregevole ma temporaneo. Come chiarirà il nostro viaggio nel tempo, la vita probabilmente è transitoria e tutta la comprensione emersa con la sua comparsa quasi certamente si dissolverà con la sua conclusione. Nulla è permanente. Nulla è assoluto. Nella ricerca del valore e dello scopo della vita, pertanto, le uniche intuizioni pertinenti, le uniche risposte significative, sono quelle provenienti da noi stessi. Alla fine, nel nostro breve momento di gloria, il nostro nobile compito è trovare ognuno il proprio significato.
Iniziamo il nostro viaggio.
Capitolo secondo
Il linguaggio del tempo
Passato, futuro e cambiamento
La sera del 28 gennaio 1948, tra un’esecuzione del quartetto in la minore di Schubert e una presentazione di canzoni popolari inglesi, la BBC trasmise un dibattito tra una delle forze intellettuali piú potenti del Novecento, Bertrand Russell, e il sacerdote gesuita Frederick Copleston1. L’argomento? L’esistenza di Dio. Russell, che per le sue opere filosofiche innovative e i suoi principî umanitari nel 1950 vinse il premio Nobel per la letteratura e per le sue opinioni politiche e sociali iconoclastiche fu licenziato dall’Università di Cambridge e dal City College di New York, presentò molti argomenti per mettere in dubbio, se non per respingere, l’esistenza di un creatore.
Una delle linee di pensiero alla base della posizione di Russell è pertinente alla nostra esplorazione. «Stando alle prove scientifiche –, osserva Russell, – l’universo è andato avanti per lenti stadi producendo un risultato piuttosto pietoso qui sulla Terra e procederà per stadi ancora piú pietosi a una condizione di morte universale». Con una prospettiva cosí deprimente, conclude Russell, «se questa deve essere considerata come prova di uno scopo, posso solo dire che questo è uno scopo che non mi attrae. Non vedo ragione, pertanto, per credere in un qualsiasi Dio»2. L’argomento teologico sarà esaminato piú avanti; qui voglio concentrarmi sul riferimento di Russell all’evidenza scientifica di una «morte universale», che proviene da una scoperta dell’Ottocento le cui radici sono umili tanto quanto sono profonde le sue conclusioni.
A metà dell’Ottocento, la Rivoluzione industriale era in pieno svolgimento e in un panorama di mulini e fabbriche il motore a vapore era diventato la forza motrice della produzione. Ciò nonostante, anche con il balzo critico dal lavoro manuale a quello meccanico, l’efficienza del motore a vapore – il lavoro utile compiuto in rapporto alla quantità di combustibile consumato – era scarsa. All’incirca il 95 per cento del calore generato bruciando legna o carbone si disperdeva nell’ambiente come scarto. Questo problema dell’efficienza indusse una manciata di scienziati a riflettere sui principî fisici alla base del funzionamento dei motori a vapore, per cercare di capire come bruciare di meno e ottenere di piú. Nel corso di molti decenni queste ricerche portarono gradualmente a un risultato importante, diventato giustamente famoso: la seconda legge della termodinamica.
In parole (molto) povere, la legge afferma che la produzione di scarti è inevitabile. Ciò che rende estremamente importante la seconda legge è il fatto che, mentre il motore a vapore era il catalizzatore, la legge ha validità universale. La seconda legge descrive una fondamentale caratteristica intrinseca della materia e dell’energia, indipendentemente da struttura o forma, animata o inanimata. La legge rivela (anche qui, in modo approssimativo) che tutto nell’universo ha una fortissima tendenza a esaurirsi, a degradarsi, a deteriorarsi.
Da questa descrizione in termini semplici potete capire quale fosse il punto di partenza di Russell. A quanto pare, il futuro ha in serbo un continuo deterioramento, un’inarrestabile conversione di energia produttiva in calore inutile, un costante consumo, per cosí dire, delle batterie che alimentano la realtà. Un’interpretazione piú precisa della scienza rivela però che questa sintesi della direzione in cui va la realtà nasconde una progressione copiosa e ricca di sfumature, che è in corso dal Big Bang e continuerà anche nel lontano futuro. È una progressione che contribuisce a spiegare il nostro posto nella linea temporale del cosmo, chiarisce come si possano produrre bellezza e ordine in un contesto di degradazione e decadimento e inoltre propone alcuni modi possibili, per quanto strani, di schivare la deprimente fine immaginata da Russell. Poiché sarà proprio questa parte della scienza, che coinvolge concetti come l’entropia, l’informazione e l’energia, a guidare gran parte del nostro viaggio, è opportuno dedicare un po’ di tempo per approfondirne la comprensione.
1. Motori a vapore.
Lungi da me suggerire che il significato della vita è celato negli umidi anfratti di un rumoroso motore a vapore, ma comprendere la sua capacità di assorbire il calore prodotto dalla combustione e di utilizzarlo per produrre un movimento alternato che fa girare le ruote di una locomotiva o aziona la pompa per l’estrazione dell’acqua da una miniera si dimostra indispensabile per capire come si evolve nel tempo l’energia – di qualsiasi tipo e in qualsiasi contesto. Il modo in cui evolve l’energia ha un impatto profondo sul futuro della materia, della mente e di ogni struttura dell’universo. Scendiamo quindi dai regni elevati della vita e della morte, dello scopo e del significato e passiamo all’incessante scoppiettare e sferragliare di un motore a vapore del Settecento.
La base scientifica del motore a vapore è semplice ma geniale: il vapore riscaldato si espande e quindi spinge verso l’esterno. Un motore a vapore sfrutta questa azione riscaldando un cilindro pieno di vapore in cui è inserito un pistone libero di scorrere avanti e indietro. Quando il vapore riscaldato si espande, spinge con forza il pistone e questa spinta verso l’esterno può far girare una ruota o le pale di un mulino o azionare un telaio. Poi, avendo consumato energia con questo sforzo verso l’esterno, il vapore si raffredda e il pistone scorre in direzione opposta e torna nella posizione di partenza, dove è pronto a essere spinto quando il vapore si riscalda di nuovo – un ciclo che si ripete finché si brucia combustibile per continuare a riscaldare il vapore3.
La storia registra il suo ruolo essenziale nella Rivoluzione industriale, ma le domande che il motore a vapore pose alla scienza fondamentale furono altrettanto significative. Possiamo comprendere il motore a vapore con precisione matematica? L’efficienza della sua conversione del calore in attività utile ha un limite? Esistono aspetti dei processi basilari del motore a vapore che sono indipendenti dai dettagli del progetto meccanico e dai materiali usati e quindi indicano principî fisici universali?
Rompendosi la testa intorno a questi problemi, il fisico e ingegnere militare francese Sadi Carnot inaugurò il campo della termodinamica – la scienza del calore, dell’energia e del lavoro. Nessuno l’avrebbe immaginato dalle vendite del suo trattato del 1824, Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco4, ma le sue idee, benché lente a prendere piede, nel corso del secolo successivo ispirarono gli scienziati a sviluppare una prospettiva radicalmente nuova sulla fisica.
2. Una prospettiva statistica.
Secondo la prospettiva scientifica tradizionale, enunciata in forma matematica da Isaac Newton, le leggi della fisica forniscono previsioni certe del movimento di oggetti. Se conosco la posizione e la velocità di un oggetto in un dato momento, e le forze in azione su di esso, le equazioni di Newton fanno il resto, prevedendo la sua traiettoria successiva. Che si tratti della Luna attratta dalla gravità della Terra o della palla da baseball che avete appena colpito, le osservazioni hanno confermato che queste previsioni sono esatte.
Ma ecco il problema. Se avete studiato fisica al liceo, forse ricorderete che, quando analizziamo le traiettorie di oggetti macroscopici, in generale ricorriamo, seppur tacitamente, a un gran numero di semplificazioni. Nel caso della Luna e della palla, ne ignoriamo la struttura interna e immaginiamo che siano entrambe un’unica particella dotata di massa. È una grossa approssimazione. Anche un grano di sale contiene all’incirca un miliardo di miliardi di molecole, ed è soltanto un grano di sale. Quando esaminiamo l’orbita della Luna, tuttavia, non ci preoccupiamo dello sballottio di questa o quell’altra molecola del polveroso Mare della Tranquillità. Quando la palla vola in aria, non ci preoccupiamo della vibrazione di questa o quell’altra molecola del suo nucleo di sughero. Il movimento complessivo della Luna o della palla è tutto ciò che ci interessa. In questi casi, applicare le leggi di Newton ai modelli semplificati funziona alla perfezione5.
Questi successi mettono in luce la sfida riguardante i motori a vapore affrontata dai fisici nell’Ottocento. Il vapore caldo che spinge il pistone è composto da un numero enorme di molecole di acqua, corrispondente forse a un bilione di bilioni di particelle. Non possiamo ignorare questa struttura interna come facciamo quando analizziamo la Luna o una palla da baseball. Alla base del funzionamento del motore vi è proprio il movimento di queste particelle – che vanno a sbattere contro il pistone, rimbalzano sopra la sua superficie, colpiscono le pareti del contenitore, procedono di nuovo verso il pistone. Il problema è che nessuno, in nessun modo, da nessuna parte, per quanto intelligente possa essere e per quanto formidabili possano essere i computer che usa, può calcolare tutte le singole traiettorie seguite da un tale insieme enorme di molecole di acqua.
Siamo bloccati?
Potreste pensarlo. E invece si è scoperto che un cambiamento di prospettiva ci salva. A volte le grandi collezioni possono portare a potenti semplificazioni. Prevedere esattamente quando farete il prossimo starnuto è senz’altro difficile, e in realtà impossibile, ma se ampliamo la prospettiva e consideriamo la piú vasta collezione di tutti gli esseri umani sulla Terra, possiamo prevedere che nel prossimo secondo vi saranno circa 80 000 starnuti nel mondo6. Il punto è che passando a una prospettiva statistica, la grande popolazione terrestre diventa la chiave del potere predittivo, non qualcosa che lo ostacola. I grandi gruppi spesso presentano regolarità statistiche assenti a livello individuale.
Un approccio analogo per grandi gruppi di atomi e molecole fu introdotto da James Clerk Maxwell, Rudolf Clausius, Ludwig Boltzmann e molti altri loro colleghi, che propugnarono di abbandonare l’esame dettagliato delle singole traiettorie a favore di affermazioni statistiche descriventi il comportamento medio di grandi collezioni di particelle e mostrarono che questo approccio non solo rende matematicamente trattabili i calcoli, ma anche che le proprietà fisiche che può quantificare sono proprio quelle piú importanti. La pressione esercitata sul pistone di un motore a vapore, per esempio, di certo non è influenzata dal percorso preciso seguito da questa o quella molecola di acqua, ma deriva invece dal movimento medio dei bilioni di bilioni di molecole che sbattono contro la sua superficie ogni secondo. È questo che conta. E questo è ciò che l’approccio statistico permetteva di calcolare.
Nella nostra epoca di sondaggi politici, genetica delle popolazioni e piú in generale di big data, il passaggio a un modello statistico può non sembrare radicale. Ormai siamo abituati al potere delle intuizioni statistiche ricavate dallo studio di grandi gruppi, ma nell’Ottocento e all’inizio del Novecento il ragionamento statistico era un allontanamento dalla rigida precisione che era arrivata a definire la fisica. Va tenuto presente, inoltre, che fino ai primi anni del Novecento esistevano ancora scienziati di tutto rispetto che mettevano in dubbio l’esistenza degli atomi e delle molecole – il fondamento di un approccio statistico.
Nonostante gli oppositori, di lí a poco il ragionamento statistico riuscí a dimostrare il suo valore. Nel 1905, Einstein spiegò quantitativamente il movimento frenetico dei granelli di polline sospesi in un bicchiere d’acqua attribuendolo al bombardamento continuo da parte delle molecole di H2O. Dopo questo successo, solo un gran bastian contrario poteva dubitare dell’esistenza delle molecole. Per di piú, un insieme sempre piú numeroso di articoli di fisica teorica e sperimentale rivelava che le conclusioni basate su analisi statistiche di grandi collezioni di particelle – che descrivevano come rimbalzano all’interno di contenitori e quindi esercitano pressione su quelle superfici, o come acquisiscono una data densità o si rilassano a una data temperatura – coincidevano in modo cosí perfetto con i dati da non lasciare la possibilità di mettere in dubbio il potere esplicativo dell’approccio.
Fu un grande trionfo della scienza, che ha permesso ai fisici di comprendere non solo i motori a vapore, ma anche un’ampia varietà di sistemi termici – dall’atmosfera terrestre alla corona solare e alla vasta collezione di particelle brulicanti in una stella di neutroni. Ma che cosa ha a che fare tutto ciò con la visione del futuro di Russell, con il suo pronostico di un universo che avanza lentamente verso la morte? Bella domanda. Resistete. Ci stiamo arrivando, ma abbiamo ancora un paio di passi da fare. Il prossimo è usare questi progressi per gettare luce sulla qualità che piú caratterizza il futuro: il suo essere profondamente diverso dal passato.
3. Da questo a quello.
La distinzione tra passato e futuro è un elemento al contempo elementare e fondamentale per l’esperienza umana. Siamo nati nel passato. Moriremo nel futuro. Nel frattempo, assistiamo a innumerevoli accadimenti che si sviluppano attraverso una sequenza di eventi che, se considerata nell’ordine inverso, sembrerebbe assurda. Van Gogh dipinse Notte stellata, ma poi non avrebbe potuto sollevare a colpi di pennello i vortici di colore dalla tela fino a farla tornare bianca. Il Titanic strisciò contro un iceberg e il suo scafo si spezzò in due, ma a quel punto non avrebbe potuto mettere i motori in retromarcia, tornare indietro e annullare il danno. Tutti cresciamo e invecchiamo, ma poi non possiamo riportare indietro le lancette del nostro orologio interno e recuperare la nostra gioventú.
Data l’importanza dell’irreversibilità nell’evoluzione delle cose, potreste pensare che riusciamo facilmente a individuarne l’origine matematica nelle leggi della fisica. Certo, dovremmo essere in grado di indicare qualcosa di specifico nelle equazioni che garantisce che, benché le cose si possano trasformare da cosí a cosà, la matematica vieti loro di trasformarsi poi da cosà a cosí. Per secoli, tuttavia, le equazioni che abbiamo sviluppato non hanno offerto nulla di simile. Al contrario, mentre le leggi della fisica sono state continuamente perfezionate, passando per le mani di Newton (meccanica classica), Maxwell (elettromagnetismo), Einstein (fisica relativistica) e delle decine di scienziati responsabili della fisica quantistica, una caratteristica è rimasta invariata: le leggi hanno sempre mantenuto la totale insensibilità nei confronti di ciò che noi esseri umani chiamiamo futuro e passato. Dato lo stato del mondo in questo momento, le equazioni matematiche trattano il dispiegarsi degli eventi verso il futuro o verso il passato esattamente nello stesso modo. Nonostante l’importanza, profonda, che ha per noi questa distinzione, le leggi non sono affatto interessate alla differenza, valutandola rilevante come il fatto che l’orologio di uno stadio segni il tempo trascorso oppure il tempo rimanente. Il che significa che se le leggi permettono una particolare sequenza di eventi, permettono necessariamente anche la sequenza inversa7.
Da studente, quando lo scoprii, mi sembrò quasi ridicolo. Nel mondo reale, non vediamo tuffatori olimpionici che saltano fuori dalla piscina a testa in giú e atterrano tranquilli sul trampolino. Non vediamo frammenti di vetro colorato saltare su dal pavimento e ricomporre una lampada Tiffany. Le sequenze di film proiettate al contrario sono divertenti proprio perché ciò che vediamo proiettato è completamente diverso da tutto ciò di cui facciamo esperienza. Secondo la matematica, tuttavia, gli eventi descritti nelle sequenze proiettate al contrario sono pienamente in accordo con le leggi della fisica.
Perché allora la nostra esperienza è cosí sbilanciata? Perché vediamo soltanto eventi che si svolgono sempre in un orientamento temporale e mai in quello opposto? Una parte fondamentale della risposta è svelata dal concetto di entropia, una nozione che sarà essenziale per comprendere lo sviluppo dell’universo.
4. Entropia: un primo passo.
L’entropia è uno dei concetti piú sconcertanti della fisica fondamentale, il che però non ha fatto scemare il desiderio culturale di invocarla liberamente per descrivere situazioni quotidiane che si evolvono dall’ordine al caos o che, piú semplicemente, peggiorano. Nell’uso colloquiale, va bene; a volte anch’io ho fatto appello all’entropia in questo modo. Tuttavia, poiché la concezione scientifica dell’entropia guiderà il nostro viaggio (ed è anche alla base della tetra visione del futuro di Russell), è opportuno districarne il significato piú preciso.
Partiamo da un’analogia. Immaginate di scuotere vigorosamente un sacchetto contenente 100 monete e poi di aprirlo, rovesciando le monete su un tavolo. Se scopriste che tutt’e 100 mostrano testa, sareste senza dubbio sorpresi. Ma perché? Sembra ovvio, ma è opportuno rifletterci. Il fatto che neanche una moneta tra 100 mostri croce significa che ciascuna, dopo tutti i rigiri, gli urti e gli sballottamenti casuali, deve essere caduta sul tavolo mostrando testa. Tutte quante. È proprio difficile. Ottenere questo risultato eccezionale è un’impresa ardua. Per fare un confronto, un risultato anche solo leggermente diverso, per esempio che una sola moneta mostri croce (con le altre 99 che continuano a mostrare testa), si può ottenere in 100 modi diversi: a mostrare l’unica croce potrebbe essere la prima moneta, la seconda, o la terza e cosí via fino alla centesima. Ottenere 99 teste è quindi 100 volte piú facile – 100 volte piú probabile – che ottenere tutte teste.
Andiamo avanti. Un piccolo calcolo rivela che esistono 4950 modi diversi di ottenere 2 croci (con la prima e la seconda moneta, con la prima e la terza, con la seconda e la terza, con la prima e la quarta e cosí via). Continuando a calcolare, scopriamo che esistono 161 700 modi diversi per avere 3 monete che mostrano croce, quasi 4 milioni di modi per averne 4 e circa 75 milioni per averne 5. I numeri particolari contano poco; è alla tendenza generale che voglio arrivare. Ogni croce in piú permette un insieme molto piú grande di risultati possibili. Straordinariamente piú grande. La numerosità di questo insieme raggiunge il massimo per 50 croci (e 50 teste), un risultato per cui esistono circa 100 miliardi di miliardi di miliardi di combinazioni possibili (sono 100 891 344 545 564 193 334 812 497 256)8. Ottenere 50 teste e 50 croci è quindi all’incirca 100 miliardi di miliardi di miliardi di volte piú probabile che ottenere tutte teste.
È per questo che vedere solo teste sarebbe scioccante.
La mia spiegazione si basa sul fatto che istintivamente la maggior parte delle persone analizza la collezione di monete cosí come Maxwell e Boltzmann sostenevano che si dovesse analizzare il vapore contenuto in un recipiente. Cosí come gli scienziati evitavano di analizzare il vapore molecola per molecola, di solito noi non valutiamo una per una le monete di una collezione casuale. Difficilmente ci accorgiamo o ci importa che la ventinovesima moneta mostra testa o la settima croce. Consideriamo invece la collezione nel suo complesso e la caratteristica che attira la nostra attenzione è il numero di teste in confronto al numero di croci. È maggiore? È il doppio? Il triplo? I due numeri sono piú o meno uguali? Possiamo riconoscere variazioni significative del rapporto fra questi due numeri, ma nuove disposizioni casuali che lo lasciano invariato – come girare a caso 3 monete che mostrano testa e 3 che mostrano croce – sono praticamente indistinguibili. Di conseguenza, ho suddiviso i risultati possibili in gruppi, ciascuno dei quali contiene le configurazioni che sembrano piú o meno identiche, e ho contato il numero di configurazioni di ciascun gruppo: ho contato i risultati senza croci, quelli con una croce, con 2 e cosí via, fino a quelli con 50 croci.
La constatazione principale è che questi gruppi non hanno lo stesso numero di elementi. Neanche lontanamente. Ciò rende evidente il motivo per cui sareste scioccati se fra le monete rovesciate sul tavolo nessuna moneta mostrasse croce (questo gruppo ha esattamente 1 elemento), un po’ meno scioccati se una moneta mostrasse croce (un gruppo composto da 100 elementi) e ancor meno di fronte a 2 monete che mostrano croce (un gruppo di 4950 elementi), ma trovereste noiosa la configurazione con 50 teste e 50 croci (un gruppo di circa 100 miliardi di miliardi di miliardi di elementi). Maggiore è il numero di elementi di un gruppo, piú è probabile che un risultato casuale appartenga a quel gruppo. Le dimensioni del gruppo sono importanti.
Se questa è una materia nuova per voi, potreste non rendervi conto che abbiamo appena illustrato il concetto essenziale di entropia. L’entropia di una data configurazione di monete è la numerosità del gruppo – il numero di configurazioni molto simili9. Se i doppioni sono molto numerosi, la configurazione ha un’entropia alta; se sono pochi, ha un’entropia bassa. A parità di ogni altra cosa, la configurazione casuale molto probabilmente apparterrà a un gruppo con entropia maggiore, che ha un numero maggiore di elementi.
Questa formulazione si collega anche agli usi colloquiali del termine «entropia» citati all’inizio di questa sezione. Intuitivamente, le configurazioni disordinate (pensate a una scrivania caotica piena di documenti sparpagliati, penne e graffette) hanno un’entropia alta perché moltissimi rimescolamenti degli elementi sembrano tutti piú o meno identici; se modifico a caso una configurazione disordinata, la configurazione continua a essere disordinata. Le configurazioni ordinate (pensate a una scrivania impeccabile, con i documenti, le penne e le graffette tutti sistemati ordinatamente al loro posto) hanno entropia bassa perché pochissimi rimescolamenti sembrano piú o meno identici. Come nel caso delle monete, l’entropia alta attrae l’attenzione perché le disposizioni disordinate sono molto piú numerose di quelle ordinate.
5. Entropia: i fatti.
Le monete sono particolarmente utili perché illustrano l’approccio elaborato dagli scienziati per trattare la voluminosa collezione di particelle che costituisce un sistema fisico, che si tratti di molecole di acqua che svolazzano avanti e indietro in un motore a vapore o di molecole di aria che vagano nella stanza in cui state respirando. Come abbiamo fatto con le monete, ignoriamo i dettagli delle singole particelle – il fatto che una particolare molecola di aria o di acqua sia qui o lí ha poca importanza – e raggruppiamo invece le configurazioni che sembrano piú o meno identiche. Nel caso delle monete, il criterio per i doppioni si basa sul rapporto fra teste e croci poiché di solito siamo indifferenti alla disposizione di una particolare moneta e in generale teniamo conto soltanto dell’aspetto complessivo della configurazione. Ma che cosa significa per due grandi collezioni di molecole di gas «sembrare piú o meno identiche»?
Pensate all’aria che riempie la vostra stanza in questo momento. Se siete come me e come chiunque altro, non vi importa affatto se questa molecola di ossigeno sta svolazzando vicino alla finestra o se quella molecola di azoto sta rimbalzando sul pavimento. Vi importa soltanto che ogni volta che inspirate vi sia un volume di aria sufficiente a soddisfare le vostre esigenze. In realtà, è probabile che vi interessino anche altre due caratteristiche. Se la temperatura dell’aria fosse tanto alta da bruciarvi i polmoni, sareste in difficoltà. E non andrebbe bene neanche se la pressione dell’aria fosse tanto alta (e non l’aveste compensata con un aumento della pressione dell’aria già presente nelle trombe di Eustachio) da farvi esplodere i timpani. A interessarvi, quindi, sono il volume, la temperatura e la pressione dell’aria. Queste sono proprio le caratteristiche macroscopiche che interessano ai fisici, dai tempi di Maxwell e Boltzmann fino a oggi.
Nel caso di una grande collezione di molecole in un contenitore, diciamo quindi che configurazioni diverse «sembrano piú o meno identiche» se riempiono lo stesso volume, hanno la stessa temperatura ed esercitano la stessa pressione. Come con le monete, raggruppiamo tutte le configurazioni molto simili di molecole e diciamo che ogni membro del gruppo dà origine allo stesso macrostato. L’entropia del macrostato è il numero di questi doppioni. Nell’ipotesi che ora non accendiate una stufa (influenzando la temperatura), non montiate una parete divisoria impermeabile (influenzando il volume) e non immettiate altro ossigeno nella stanza (influenzando la pressione), la configurazione di molecole di aria che svolazzano avanti e indietro nella vostra stanza è in continua evoluzione ma è sempre un elemento dello stesso gruppo – sembra sempre quasi identica – poiché produce sempre le stesse caratteristiche macroscopiche che state percependo.
L’organizzazione di particelle in gruppi di doppioni fornisce uno schema straordinariamente potente. Come la configurazione casuale delle monete ha una probabilità maggiore di appartenere a un gruppo con un numero di elementi maggiore (di entropia maggiore), cosí è anche per le particelle che rimbalzano in modo casuale. La constatazione è semplice tanto quanto le sue implicazioni sono di vasta portata: che le particelle rimbalzanti siano in un motore a vapore, nella vostra stanza, o in qualsiasi altro posto, se comprendiamo le caratteristiche tipiche delle configurazioni piú comuni (quelle che appartengono ai raggruppamenti con il maggior numero di elementi), possiamo formulare previsioni sulle qualità macroscopiche del sistema – quelle che ci interessano. Certo, sono previsioni statistiche, però hanno una probabilità incredibilmente alta di essere esatte. E il bello è che otteniamo tutto ciò evitando l’insormontabile complessità dell’analisi delle traiettorie di un numero inconcepibilmente grande di particelle.
Per realizzare il nostro programma dobbiamo quindi affinare la nostra capacità di individuare le configurazioni ordinarie (di alta entropia) distinguendole da quelle rare (di bassa entropia). In altre parole, dato lo stato di un sistema fisico dobbiamo determinare se esistono molte o poche nuove disposizioni degli elementi costituenti che lascerebbero il sistema piú o meno invariato. Come caso di studio, visitiamo il vostro bagno pieno di vapore quando vi siete appena fatti una lunga doccia calda. Per determinare l’entropia del vapore, dobbiamo contare il numero di configurazioni delle molecole – le loro possibili posizioni e velocità – che hanno tutte le stesse proprietà macroscopiche, cioè lo stesso volume, la stessa temperatura e la stessa pressione10. Questo calcolo matematico per una collezione di molecole di H2O è piú impegnativo dell’analogo calcolo per una collezione di monete, però è qualcosa che la maggioranza degli studenti di fisica impara a fare al secondo anno. Piú semplice, e anche piú illuminante, è cercare di capire il modo in cui il volume, la temperatura e la pressione influenzano qualitativamente l’entropia.
Cominciamo dal volume. Immaginate che le svolazzanti molecole di H2O siano tutte raggruppate in un angolo minuscolo del vostro bagno, creando una densa nube di vapore. In questa configurazione, le possibili modifiche delle posizioni delle molecole si riducono drasticamente; spostando le molecole di H2O, è necessario tenerle all’interno della nube, altrimenti la configurazione modificata non sembrerà quasi identica. Per fare un confronto, quando il vapore è distribuito in modo uniforme in tutto il bagno, il gioco delle sedie per le molecole è molto meno vincolato. Si possono scambiare le posizioni delle molecole vicino al lavandino con quelle che fluttuano vicino alla plafoniera, le posizioni delle molecole vicino alla tenda della doccia con quelle delle molecole che vagano vicino alla finestra e comunque, nel complesso, il vapore sembrerà identico. Notate anche che piú grande è il vostro bagno, maggiore è il numero di posizioni che avete a disposizione per spargere le molecole, il che fa anche aumentare il numero di nuove disposizioni possibili. La conclusione è quindi che le configurazioni che sono piú piccole e piú densamente raggruppate hanno entropia minore, mentre quelle piú grandi e distribuite in modo uniforme hanno entropia maggiore.
Passiamo alla temperatura. A livello delle molecole, che cosa si intende per temperatura? La risposta è ben nota. La temperatura è la rapidità media di una collezione di molecole11. Una cosa è fredda quando la velocità media delle sue molecole è bassa ed è calda quando la velocità media è alta. Pertanto, determinare l’influenza della temperatura sull’entropia equivale a determinare l’influenza della velocità media delle molecole sull’entropia. Anche in questo caso, come abbiamo rilevato con le posizioni delle molecole, una valutazione qualitativa è a portata di mano. Se la temperatura del vapore è bassa, le modifiche permesse delle velocità molecolari saranno relativamente poche: per mantenere costante la temperatura – e quindi garantire che tutte le configurazioni sembrino quasi identiche – si deve compensare qualsiasi aumento della velocità di alcune molecole con un’adeguata diminuzione della velocità di altre. La difficoltà, però, avendo una temperatura bassa (una bassa velocità media delle molecole), è che si ha poco margine per far diminuire le velocità prima di toccare il fondo, lo zero. La gamma disponibile di velocità molecolari possibili è quindi ristretta, perciò la nostra libertà di modificare le velocità è limitata. Per fare un confronto, se la temperatura è alta, il gioco delle sedie torna a essere piú animato: con una media piú alta, la gamma di velocità molecolari – alcune maggiori della media e alcune minori – è molto piú ampia e offre una maggiore libertà di rimescolarle lasciando inalterata la media. Un maggior numero di rimescolamenti possibili significa che una temperatura piú alta in generale implica un’entropia maggiore.
Consideriamo, infine, la pressione. La pressione del vapore sulla vostra pelle o sulle pareti del vostro bagno è dovuta all’impatto delle molecole di H2O fluttuanti che vanno a sbattere contro queste superfici: ciascun impatto molecolare esercita una minuscola pressione, perciò quanto maggiore è il numero delle molecole tanto maggiore è la pressione. Per una data temperatura e un dato volume, la pressione è quindi determinata dal numero totale di molecole di vapore nel vostro bagno, una quantità le cui conseguenze per l’entropia possono essere calcolate con la massima facilità. Meno molecole di H2O presenti nel bagno (la doccia è stata piú veloce) significa che sono possibili meno rimescolamenti, quindi l’entropia è piú bassa; piú molecole di H2O (la doccia è stata piú lunga) significa che ne è possibile un maggior numero, quindi l’entropia è piú alta.
Riassumendo: se il vapore ha un numero minore di molecole, ha una temperatura piú bassa o riempie un volume minore, la sua entropia è piú bassa; se ha un numero maggiore di molecole, ha una temperatura piú alta o riempie un volume maggiore, la sua entropia è piú alta.
Dopo questo breve esame, vorrei sottolineare un modo di pensare all’entropia che difetta di precisione, ma offre una regola empirica utile. Dovreste aspettarvi di incontrare stati di alta entropia. Poiché possono essere realizzati da un gran numero di configurazioni delle particelle costituenti, sono stati tipici, banali, che si presentano facilmente – ce ne sono a bizzeffe. Per contro, se vi imbattete in uno stato di bassa entropia, dovreste dedicargli la vostra attenzione. Una bassa entropia vuol dire che sono molti di meno i modi in cui il macrostato in questione può essere realizzato dai suoi ingredienti microscopici, quindi queste configurazioni sono difficili da trovare, inusuali, organizzate, rare. Se dopo una lunga doccia calda il vapore è distribuito in modo uniforme in tutto il bagno, è una configurazione di alta entropia e per nulla sorprendente; se invece il vapore è tutto raggruppato in un piccolo cubo perfetto davanti allo specchio, è una configurazione di bassa entropia e straordinariamente inusuale. Tanto insolito, in realtà, che se vi imbatteste in una tale configurazione dovreste dubitare fortemente che la spiegazione sia semplicemente che avete assistito a uno di quegli eventi improbabili che accadono di tanto in tanto. Potrebbe essere la spiegazione. Ma sono certo che non lo è. Cosí come sospettereste che la ragione per cui 100 monete fatte cadere sul vostro tavolo mostrano tutte testa non è il puro caso (ma, per esempio, che qualcuno ha girato accortamente tutte le monete che mostravano croce), dovreste cercare una spiegazione al di là del puro caso per qualsiasi configurazione di bassa entropia in cui vi imbattete.
Questa considerazione vale anche per cose apparentemente ordinarie, come un uovo, un formicaio o una tazza. La natura ordinata, organizzata, di bassa entropia di queste configurazioni richiede una spiegazione. Che il movimento casuale proprio delle particelle giuste possa riuscire per caso a riunirle producendo un uovo, un formicaio o una tazza è concepibile ma poco verosimile. Invece, siamo motivati a trovare spiegazioni piú convincenti e naturalmente non dobbiamo cercare tanto lontano: l’uovo, il formicaio e la tazza nascono da forme particolari di vita che organizzano le configurazioni altrimenti casuali di particelle presenti nell’ambiente in strutture ordinate. Come fa la vita a produrre un tale mirabile ordine è un tema che sarà affrontato in altri capitoli. Per il momento, l’insegnamento è semplicemente che le configurazioni di bassa entropia dovrebbero essere considerate come uno strumento diagnostico, un indizio del fatto che potenti influenze organizzatrici potrebbero essere responsabili dell’ordine in cui ci siamo imbattuti.
Alla fine dell’Ottocento, armato di queste idee, in gran parte di sua concezione, il fisico austriaco Ludwig Boltzmann era convinto di poter affrontare la domanda da cui è iniziata questa parte della nostra discussione: che cosa distingue il futuro dal passato? La sua risposta si basò su una qualità dell’entropia chiarita dalla seconda legge della termodinamica.
6. Leggi della termodinamica.
Mentre nell’ambito della cultura si fa spesso riferimento all’entropia e alla seconda legge della termodinamica, gli accenni alla prima legge della termodinamica sono molto meno comuni. Per comprendere appieno la seconda legge, tuttavia, è bene capire innanzitutto la prima. In realtà, anche la prima legge è ben nota, però sotto un altro nome, cioè legge della conservazione dell’energia: quale che sia, l’energia che avete all’inizio di un processo è uguale a quella che avrete alla fine. Dovete essere meticolosi nella contabilità dell’energia, tenendo conto di tutte le forme in cui si può essere trasformato il capitale iniziale di energia, come l’energia cinetica (energia del movimento), l’energia potenziale (energia immagazzinata, come in una molla allungata), la radiazione (energia trasportata dai campi, come i campi elettromagnetici o gravitazionali) o il calore (il frenetico movimento casuale delle molecole e degli atomi). Se però controllate tutto con cura, la prima legge della termodinamica garantisce che il bilancio dell’energia sarà in pareggio12.
La seconda legge della termodinamica si concentra sull’entropia. A differenza della prima legge, la seconda non è una legge di conservazione, bensí di crescita. La seconda legge afferma che nel corso del tempo l’entropia tende sempre ad aumentare. In termini colloquiali, le configurazioni speciali tendono a evolversi in configurazioni ordinarie (la vostra camicia stirata con cura si sgualcisce) e l’ordine tende a precipitare nel disordine (il vostro garage ben organizzato degenera in una gran confusione di arnesi, scatoloni e attrezzi sportivi). Questa raffigurazione dell’entropia fornisce eccellenti immagini intuitive, ma la formulazione statistica di Boltzmann ci permette di descrivere la seconda legge in modo preciso e, cosa altrettanto importante, di comprendere chiaramente il motivo per cui è vera.
È come una lotteria. Considerate di nuovo le monete. Se le disponete con cura in modo che tutte mostrino testa, una configurazione di bassa entropia, e poi le scompigliate un po’ con la mano, vi aspettate di vedere almeno qualche croce, una configurazione di entropia maggiore. Se le scombinate ancora un po’, è concepibile che tutte mostrino di nuovo testa, ma vorrebbe dire che il rimescolamento è stato proprio quello giusto, cosí perfetto da far girare soltanto quelle poche monete che mostravano croce. È un evento estremamente improbabile. Quasi certamente, invece, si sarà girato un insieme casuale di monete. Alcune delle poche croci potranno tornare a essere teste, ma fra le monete che mostravano testa molte di piú diventeranno croci. Quindi un semplice ragionamento logico – non un’equazione stravagante o un’idea oltremodo astratta – rivela che se all’inizio tutte le monete mostrano testa, scombinarle a caso porterà a un aumento del numero di croci, cioè a un aumento di entropia.
La progressione verso un numero maggiore di croci continuerà fino a quando le teste e le croci saranno piú o meno pari. A quel punto, i rimescolamenti tenderanno a girare piú o meno lo stesso numero di teste e di croci, perciò per la maggior parte del tempo le monete assumeranno una configurazione appartenente ai gruppi piú numerosi, di maggiore entropia.
Ciò che è vero per le monete è vero piú in generale. Se cuocete il pane, potete essere certi che in breve tempo l’aroma riempirà stanze lontane dalla cucina. All’inizio, le molecole rilasciate dal pane che cuoce sono raggruppate vicino al forno. Gradualmente, però, si dissemineranno per la casa. La ragione, analoga a quella relativa alle monete, è che per le molecole di aroma i modi di diffondersi sono molto piú numerosi dei modi di raggrupparsi. Pertanto è estremamente piú probabile che le molecole sottoposte a urti e sballottamenti casuali si diffondano verso l’esterno anziché raggrupparsi ancor piú strettamente. La configurazione di bassa entropia delle molecole raggruppate vicino al forno si evolve quindi naturalmente verso lo stato di entropia maggiore in cui sono sparse in tutta la casa13.
In modo ancor piú generale, si può dire che se un sistema fisico non si trova già nello stato di maggior entropia disponibile, è estremamente probabile che si evolverà verso quello stato. La spiegazione, illustrata molto bene dall’aroma del pane, si basa su questo semplice ragionamento: poiché il numero di configurazioni di maggiore entropia è enormemente superiore al numero di quelle di minore entropia (in base alla definizione stessa di entropia), è enormemente piú probabile che lo sballottamento casuale – gli urti e le vibrazioni incessanti degli atomi e delle molecole – porti il sistema verso un’entropia maggiore, non minore. La progressione continuerà fino al raggiungimento di una configurazione con la massima entropia possibile. Da quel momento in poi, lo sballottamento tenderà a spingere i costituenti ad assumere una delle (solitamente) innumerevoli configurazioni degli stati di massima entropia14.
Questa è la seconda legge della termodinamica. E questo è il motivo per cui è vera.
7. Energia ed entropia.
La discussione potrebbe indurvi a pensare che la prima legge e la seconda siano completamente distinte. Dopo tutto, una si concentra sull’energia e sulla sua conservazione e l’altra sull’entropia e sulla sua crescita. Esiste invece un profondo legame tra le due leggi, che illumina un fatto implicito nella seconda legge su cui torneremo piú e piú volte: le forme di energia non sono tutte uguali.
Consideriamo, per esempio, un candelotto di dinamite. Poiché tutta l’energia immagazzinata nella dinamite sta in un piccolo contenitore compatto, l’energia è facile da sfruttare. Basta piazzare la dinamite dove si vuole che si depositi la sua energia e accendere la miccia. Non occorre altro. Dopo l’esplosione, tutta l’energia della dinamite esiste ancora. Questa è la prima legge in azione. Tuttavia, poiché l’energia della dinamite è stata trasformata nel movimento rapido e caotico di particelle sparpagliate in ogni direzione, ora sfruttare l’energia è estremamente difficile. Quindi, anche se la quantità totale di energia resta invariata, cambia il carattere dell’energia.
Prima dell’esplosione, diciamo che l’energia della dinamite è di alta qualità: è concentrata e di facile accesso; dopo l’esplosione, diciamo che è di bassa qualità: è diffusa e difficile da utilizzare. Inoltre, poiché la dinamite che esplode rispetta pienamente la seconda legge, andando dall’ordine al disordine – da bassa entropia ad alta entropia –, associamo la bassa entropia all’energia di alta qualità e l’alta entropia all’energia di bassa qualità. Sí, lo so, gli aggettivi «alta» e «bassa» da tenere a mente sono molti. Ma la conclusione è lapidaria: mentre la prima legge della termodinamica afferma che nel corso del tempo la quantità di energia si mantiene costante, la seconda legge afferma che nel corso del tempo la qualità dell’energia si deteriora.
Perché dunque il futuro è diverso dal passato? La risposta, evidente in base alle ultime considerazioni, è che l’energia che alimenterà il futuro è di qualità inferiore a quella che ha alimentato il passato. Il futuro ha un’entropia maggiore rispetto al passato.
O almeno questo è ciò che propose Boltzmann.
8. Boltzmann e il Big Bang.
Boltzmann aveva senza dubbio scoperto qualcosa. La seconda legge, però, ha bisogno di una sottile precisazione e per comprenderne appieno le implicazioni, a dire il vero, persino Boltzmann impiegò un po’ di tempo.
La seconda legge non è una legge nel senso tradizionale. Non esclude completamente che l’entropia diminuisca. Afferma soltanto che la sua diminuzione è improbabile. Nel caso delle monete, ne abbiamo dato una valutazione quantitativa. Rispetto all’unica configurazione in cui tutte le monete mostrano testa, è 100 miliardi di miliardi di miliardi di volte piú probabile che un rimescolamento casuale produca una configurazione con 50 teste e 50 croci. Se si modifica di nuovo a caso questa configurazione di alta entropia, ottenere una configurazione di entropia minore come tutte testa non è vietato, ma a causa delle probabilità estremamente sbilanciate in pratica non avviene.
Nel caso di un sistema fisico ordinario composto da molti piú di 100 costituenti, la probabilità che l’entropia diminuisca è ancora piú insignificante. Mentre cuoce, il pane rilascia miliardi di miliardi di molecole. Le configurazioni in cui queste molecole si diffondono in tutta la casa sono straordinariamente piú numerose di quelle in cui tornano tutte vicino al forno. Grazie agli sballottamenti e agli urti casuali, le molecole potrebbero tornare sui propri passi, raggiungere di nuovo la pagnotta, annullare completamente il processo di cottura e lasciarvi con un mucchio di pasta cruda e fredda. La probabilità che ciò avvenga, però, è piú vicina a zero della probabilità di rovesciare i colori su una tela e riprodurre la Gioconda. Ciò nonostante, il punto è che, se questo processo di inversione dell’entropia si verificasse, non contravverrebbe alle leggi della fisica. Anche se è straordinariamente improbabile, le leggi della fisica permettono all’entropia di diminuire.
Non fraintendetemi. Non ho sollevato questo punto per suggerire che un giorno potremmo vedere un pane cotto che torna a essere crudo, un’auto incidentata che torna a essere intatta o un documento incenerito che torna a essere integro. Il mio intento è invece sottolineare un’importante questione di principio. In precedenza, ho spiegato che le leggi della fisica mettono il futuro e il passato sullo stesso piano. Le leggi quindi garantiscono che i processi fisici che si svolgono in una data sequenza si possono svolgere nella sequenza inversa. Inoltre, poiché queste stesse leggi governano ogni cosa, compresi i processi fisici responsabili di come cambia l’entropia nel corso del tempo, sarebbe davvero curioso, in realtà errato, pensare che queste leggi permettano soltanto l’aumento dell’entropia. Non è vero. Tutti i processi con aumento di entropia a cui avete assistito ogni giorno durante tutta la vita – da quelli banali come un vetro che va in frantumi a quelli di vasta portata come l’invecchiamento del corpo – si possono svolgere al contrario. L’entropia può diminuire. È solo incredibilmente improbabile.
A che punto siamo quindi con il tentativo di spiegare perché il futuro è diverso dal passato? Dunque, data una configurazione oggi di entropia minore di quella massima, la seconda legge mostra che è estremamente probabile che il futuro sia diverso perché è estremamente probabile che l’entropia aumenti. Le configurazioni di materia che non hanno la massima entropia possibile sono impazienti di procedere verso un’entropia maggiore. Con questa osservazione, alcuni che hanno esplorato la differenza tra passato e futuro dormono sonni tranquilli, considerando terminato il proprio lavoro.
Ma il lavoro non è finito. Altrettanto importante è spiegare come mai oggi ci troviamo in questo stato speciale, improbabile e sorprendente di entropia non massima – un universo pieno di strutture ordinate, dai pianeti alle stelle, dai pavoni alle persone. Se non fosse andata cosí, se la configurazione odierna fosse lo stato ordinario previsto e non sorprendente di massima entropia, allora molto probabilmente l’universo continuerebbe a restare in quello stato, producendo un futuro non diverso dal passato. Come monete sballottate in un sacchetto e poi rovesciate su un tavolo che passano dall’una all’altra delle innumerevoli configurazioni con circa 50 teste e 50 croci, l’universo vagherebbe incessantemente per l’immenso paesaggio di configurazioni di massima entropia – particelle diffuse in ogni direzione che fluttuano di qua e di là nello spazio, una versione cosmica del bagno riempito in modo uniforme di vapore15. L’attuale stato di entropia non massima è, per nostra fortuna, molto piú interessante: offre la possibilità che le particelle si riuniscano in strutture e che avvengano cambiamenti macroscopici. Siamo quindi spinti a domandarci come si è prodotto questo stato di entropia non massima.
Seguendo diligentemente la seconda legge, concludiamo che lo stato di oggi deriva dallo stato di entropia ancora minore di ieri. E quello stato, immaginiamo, deriva da quello di entropia ancora minore del giorno precedente, e cosí via, e il percorso cosí tracciato ci porta sempre piú indietro nel tempo fino ad arrivare al Big Bang. Un ordinatissimo punto di partenza di entropia estremamente bassa al Big Bang è il motivo per cui l’universo di oggi non ha entropia massima, il che permette un futuro ricco di eventi che differisce dal passato.
Possiamo spingerci oltre e spiegare perché l’inizio dell’universo era cosí ordinato? Torneremo su questa domanda nel capitolo seguente, in cui esploreremo le teorie cosmologiche. Per ora ci limitiamo a osservare che la nostra sopravvivenza richiede ordine, dalla nostra organizzazione molecolare interna che sostiene una gran varietà di funzioni vitali alle fonti di cibo che ci procurano energia di alta qualità e agli habitat e agli strumenti da noi creati che sono essenziali per la continuità della nostra esistenza. Senza un ambiente pieno zeppo di strutture ordinate di bassa entropia, noi esseri umani non saremmo qui a osservarlo.
9. Calore ed entropia.
All’inizio di questo capitolo ho citato Bertrand Russell che lamentava l’inesorabile declino dell’universo. Con l’entropia dichiarata crescente dalla seconda legge, abbiamo intravvisto ciò che aveva ispirato la sua oscura profezia. Il succo della questione è che entropia crescente vuol dire disordine crescente. Per comprendere appieno le sfide future che si troveranno ad affrontare la vita, la mente e la materia (un tema che sarà ampiamente esplorato nei capitoli seguenti), dovremo però stabilire un collegamento fra la descrizione moderna della seconda legge della termodinamica presentata qui e la sua formulazione originaria, elaborata a metà dell’Ottocento. Nella prima versione, la seconda legge codificava qualcosa che per chiunque lavorasse con i motori a vapore era ovvio: il processo di bruciare combustibile per azionare una macchina produce sempre calore e scarti, in altre parole degradazione. Questa versione non faceva menzione di conteggi di configurazioni di particelle e non utilizzava ragionamenti probabilistici, perciò potrebbe sembrare lontanissima dall’affermazione statistica della crescita entropica che abbiamo sviluppato qui, ma tra le due formulazioni vi è invece un legame profondo e diretto, che rivela perché la conversione di energia di alta qualità in calore di bassa qualità realizzata dal motore a vapore è un esempio dell’onnipresente degradazione che avviene in tutto il cosmo.
Spiegherò questo collegamento in due passi. In primo luogo prenderemo in esame il rapporto fra entropia e calore e poi, nella sezione successiva, collegheremo il calore e l’affermazione statistica della seconda legge.
Se afferrate il manico rovente di un tegame, vi sembra che il calore scorra verso la vostra mano. Ma c’è realmente qualcosa che scorre? Tanto tempo fa, gli scienziati pensavano che la risposta fosse affermativa: immaginavano che una sostanza fluida, detta «calorico», scorresse da un corpo piú caldo a quelli piú freddi proprio come un fiume scorre da monte a valle. Nel corso del tempo, la comprensione migliore degli ingredienti della materia forní una descrizione diversa. Quando afferrate il manico del tegame, le sue molecole in movimento veloce urtano le molecole piú lente della vostra mano, con il risultato che in media la velocità delle vostre molecole aumenta e quella delle molecole del manico diminuisce. Voi percepite l’accresciuta velocità delle vostre molecole come calore; la temperatura della vostra mano è aumentata. In maniera analoga, la riduzione della velocità delle molecole del manico significa che la sua temperatura è diminuita. A scorrere, perciò, non è una sostanza. Le molecole del manico restano nel manico e quelle della mano restano nella mano. A passare dalle molecole del manico a quelle della vostra mano quando lo afferrate è invece l’agitazione molecolare, proprio come l’informazione passa da una persona alla successiva nel gioco del telefono senza fili. Perciò a scorrere dal manico alla mano, anche se non è la materia stessa, è una qualità della materia: la velocità media delle molecole. Questo è ciò che si intende con flusso di calore.
La stessa descrizione si applica anche all’entropia. Quando la temperatura della mano aumenta, le sue molecole saltano di qua e di là piú velocemente, la gamma delle loro possibili velocità si amplia – facendo aumentare il numero delle configurazioni quasi identiche che si possono raggiungere – e quindi aumenta anche l’entropia della mano. In maniera analoga, quando la temperatura del manico diminuisce, le sue molecole si muovono piú lentamente, la gamma delle loro possibili velocità si riduce – facendo diminuire il numero delle configurazioni quasi identiche che si possono raggiungere – e quindi l’entropia del manico diminuisce.
Altolà. L’entropia diminuisce?
Sí. Però questo non ha nulla a che fare con i colpi di fortuna statisticamente rari come il caso descritto in precedenza delle 100 monete rovesciate su un tavolo che mostrano tutte testa. L’entropia del manico rovente diminuirà ogni volta che lo afferrate. Il punto semplice ma essenziale illustrato dal tegame è che ciò che afferma la seconda legge riguardo all’aumento dell’entropia si riferisce all’entropia totale di un sistema fisico completo, che comprende necessariamente tutto ciò con cui il sistema interagisce. Poiché la mano interagisce con il manico del tegame, non si può applicare la seconda legge solo al manico: è necessario includere anche la mano (e anche, per essere piú precisi, tutto il tegame, i fornelli, l’aria circostante, e cosí via). Una contabilità accurata mostra che l’aumento di entropia della mano supera la diminuzione di entropia del manico, garantendo che l’entropia totale aumenti.
Quindi, come nel caso del calore, in un certo senso l’entropia può scorrere. Per il tegame, scorre dal manico alla mano. Il manico diventa un po’ piú ordinato e la mano diventa un po’ meno ordinata. Anche in questo caso, il flusso non è nella forma di una sostanza tangibile presente inizialmente nel manico che poi finisce nella mano. Il flusso di entropia denota invece un’interazione tra le molecole nel manico e quelle nella mano che influenza le proprietà dell’uno e dell’altra. In questo caso, modifica le loro velocità medie – le rispettive temperature – e questa variazione, a sua volta, influenza l’entropia di ciascuno dei due.
Come rende evidente la descrizione, il flusso di calore e il flusso di entropia sono strettamente collegati. Assorbire calore vuol dire assorbire energia, l’energia del movimento molecolare casuale. Quell’energia, a sua volta, spinge le molecole che la ricevono a muoversi piú velocemente o a diffondersi piú ampiamente, contribuendo cosí a un aumento dell’entropia. La conclusione è quindi che, per spostare l’entropia da qui a lí, deve scorrere calore da qui a lí. Quando il calore scorre da qui a lí, l’entropia si sposta da qui a lí. In breve, l’entropia cavalca l’onda del calore che scorre.
Sulla base di questa comprensione dell’interrelazione fra calore ed entropia, rivisitiamo la seconda legge.
10. Il calore e la seconda legge della termodinamica.
Spiegare perché nella nostra esperienza gli eventi procedono in una direzione e non in quella contraria ci ha portati a Boltzmann e alla sua versione statistica della seconda legge: procedendo verso il futuro, è estremamente probabile che l’entropia aumenti, il che rende straordinariamente improbabili le sequenze in ordine inverso (in cui l’entropia diminuirebbe). Come si collega tutto ciò alla prima formulazione della seconda legge, ispirata dal motore a vapore, che fu enunciata in termini della produzione incessante di calore di scarto da parte dei sistemi fisici?
Il rapporto è dato dal fatto che i due punti di partenza – la reversibilità e i motori a vapore – sono strettamente collegati. La ragione è che il motore a vapore si basa su un processo ciclico. Un pistone viene spinto in avanti dal vapore che si espande e poi viene riportato nella posizione originaria, in attesa della spinta successiva. Anche il vapore torna ai valori originari di volume, temperatura e pressione, come devono fare tutte le parti vitali del motore, preparandolo a riscaldarsi di nuovo e a spingere di nuovo in avanti il pistone. Anche se nulla di tutto ciò richiede l’evoluzione assurdamente improbabile che porta ciascuna molecola a tornare esattamente nella posizione originaria o ad acquisire esattamente la stessa velocità che aveva all’inizio del ciclo precedente, in effetti è richiesto che la condizione globale del motore – il suo macrostato – torni nella stessa forma per dare inizio al ciclo successivo.
Che cosa implica tutto ciò per l’entropia? Poiché l’entropia è un conteggio delle configurazioni microscopiche che corrispondono allo stesso macrostato, se il macrostato del motore a vapore viene ripristinato all’inizio di ogni nuovo ciclo, deve essere ripristinata anche la sua entropia. Ciò significa che tutta l’entropia acquisita dal motore a vapore in un dato ciclo (quando assorbe calore dal combustibile che brucia, quando genera altro calore a causa dell’attrito delle sue parti mobili, e cosí via), al termine del ciclo deve essere stata espulsa nell’ambiente. Come fa il motore a vapore a ottenere questo risultato? Poiché per trasferire entropia occorre trasferire calore, come abbiamo visto, per riportarsi alla condizione di partenza per il ciclo successivo il motore a vapore deve rilasciare calore nell’ambiente. Questa è l’enunciazione storica della seconda legge della termodinamica, l’inevitabile trasferimento del calore di scarto nell’ambiente – quella degradazione che tanto preoccupava Russell –, ora derivato dalla versione statistica della seconda legge16.
Questa è la meta che volevo raggiungere, quindi sentitevi liberi di saltare alla prossima sezione. Se invece avete pazienza, vi è un dettaglio che sarei negligente a non citare. Forse vi domandate come fa il motore a vapore, se assorbe calore del combustibile che brucia (assorbendo quindi entropia) solo per rilasciare calore nell’ambiente (rilasciando quindi entropia), ad avere ancora l’energia necessaria per realizzare compiti utili, come alimentare una locomotiva? La risposta è che il motore a vapore rilascia meno calore di quanto ne assorba e tuttavia è ancora in grado di eliminare completamente l’entropia che ha accumulato. Ecco come fa.
Il motore a vapore assorbe calore ed entropia dal combustibile che brucia e rilascia calore ed entropia nell’ambiente, che è meno caldo. La differenza di temperatura tra il combustibile e l’ambiente è il punto essenziale. Per capire perché, immaginate di accendere due stufette identiche, una in una stanza gelida e l’altra in una stanza molto calda. Nella stanza fredda, le molecole di aria fredda vengono sballottate dalla stufetta, di conseguenza si muovono piú velocemente e si diffondono di piú, quindi la loro entropia aumenta in misura significativa. Nella stanza calda, le molecole di aria sono già veloci e svolazzano già per tutta la stanza, quindi la stufetta provoca soltanto un lieve aumento della loro entropia. (È un po’ come accelerare il ritmo della musica: se lo fate a una scatenata festa di Capodanno, sarà appena percepibile che i festeggianti ballano un pochino piú velocemente, ma se lo fate nel monastero di Thiksey, inducendo i monaci a interrompere la pratica meditativa e a iniziare a muoversi come ballerini di krumping, il cambiamento sarà evidente). Pertanto, anche se le due stufette sono identiche, l’entropia che trasferiscono all’ambiente circostante è diversa: anche se generano entrambe la stessa quantità di calore, la stufetta nell’ambiente piú freddo trasferisce piú entropia. A parità della quantità di calore ricevuto, in un ambiente piú freddo vi è un aumento maggiore di entropia. Chiarito questo punto, si capisce che il motore a vapore può rilasciare tutta l’entropia acquisita dal combustibile piú caldo espellendo soltanto una parte di quel calore nell’ambiente piú freddo. Il restante calore può essere usato per portare il vapore a espandersi e quindi a spingere il pistone e a svolgere lavoro utile.
La spiegazione è questa, ma non lasciate che i dettagli offuschino la conclusione piú ampia: nel corso del tempo, i sistemi fisici si evolvono con una probabilità straordinariamente alta da configurazioni di entropia minore verso configurazioni di entropia maggiore. Per mantenere la propria integrità strutturale, un sistema come un motore a vapore deve evitare la spinta naturale verso l’aumento di entropia trasferendo all’ambiente l’entropia che accumula. A tal fine, il motore deve rilasciare nell’ambiente il calore di scarto.
11. Il «two-step» entropico.
Se riflettete con cura sui passi che abbiamo seguito, capirete che, sebbene la discussione si sia incentrata sul motore a vapore, le nostre conclusioni trascendono questo punto di partenza del Settecento. L’essenza della nostra analisi è una contabilità precisa dell’entropia e questa contabilità è possibile in qualsiasi contesto. È un punto fondamentale da capire, poiché il trasferimento di entropia dal motore a vapore all’ambiente attraverso il rilascio di calore è soltanto una delle versioni di un processo davvero onnipresente che continueremo a incontrare seguendo lo sviluppo del cosmo. Lo chiamo «two-step entropico» e con ciò intendo qualunque processo in cui l’entropia di un sistema diminuisce perché trasferisce all’ambiente un aumento di entropia piú che compensativo. Il two-step garantisce che l’entropia, pur potendo diminuire qui, aumenterà là, assicurando l’aumento netto di entropia che prevediamo in base alla seconda legge.
Il two-step entropico è alla base di come un universo diretto verso un disordine sempre maggiore possa comunque produrre e sostenere strutture ordinate come stelle, pianeti e persone. Un argomento che incontreremo piú e piú volte è il fatto che quando l’energia scorre attraverso un sistema – come l’energia prodotta dalla combustione del carbone che scorre attraverso il vapore, producendo lavoro, e poi viene ceduta all’ambiente – porta via l’entropia e può quindi sostenere e persino produrre ordine.
Sarà questa danza entropica a organizzare l’ascesa della vita e della mente, come quasi ogni altra cosa che la mente considera importante.
12. Voi siete un motore a vapore.
Data l’importanza del ripristino dell’entropia ogni volta che un motore a vapore compie un ciclo, forse vi domandate che cosa succederebbe se l’entropia non venisse ripristinata. Ciò significherebbe che il motore a vapore non espelle una quantità sufficiente di calore di scarto, quindi a ogni ciclo diventerebbe piú caldo, fino a surriscaldarsi e a rompersi. Se un motore a vapore andasse incontro a un tale destino, potrebbe essere un inconveniente, ma, supponendo che nessuno si faccia male, molto probabilmente non provocherebbe a nessuno una crisi esistenziale. Eppure gli stessi principî fisici sono fondamentali per stabilire se la vita e la mente possano persistere indefinitamente nel lontano futuro. La ragione è che ciò che vale per il motore a vapore vale anche per voi.
Quasi certamente non vi pensate come un motore a vapore, e forse nemmeno come uno strano congegno fisico. Anch’io mi descrivo di rado in questi termini. A pensarci bene, però, la vita si basa su processi non meno ciclici di quelli del motore a vapore. Ogni giorno il vostro corpo brucia il cibo che ingerite e l’aria che respirate per fornire l’energia necessaria per i meccanismi interni e le attività esterne. Anche l’azione stessa di pensare – il movimento molecolare che ha luogo nel vostro cervello – è alimentata da questi processi di conversione dell’energia. Pertanto, proprio come il motore a vapore, non potreste sopravvivere senza ripristinare la vostra entropia rilasciando nell’ambiente il calore di scarto in eccesso. Infatti, è proprio ciò che fate. È ciò che facciamo tutti. È il motivo per cui, per esempio, i visori ad infrarossi progettati per «vedere» il calore che tutti espelliamo continuamente fanno un ottimo lavoro e aiutano i soldati a individuare i combattenti nemici di notte.
Ora possiamo capire piú chiaramente l’atteggiamento mentale di Russell quando immaginava il lontano futuro. Siamo tutti impegnati in un’incessante battaglia per resistere al continuo accumulo di prodotti di scarto, all’inarrestabile aumento dell’entropia. Per poter sopravvivere, è necessario che l’ambiente assorba e porti via tutti gli scarti, tutta l’entropia, che generiamo. La domanda è quindi: l’ambiente – e ora per ambiente intendiamo l’universo osservabile – fornisce un pozzo senza fondo per assorbire questi rifiuti? La vita potrà ballare il two-step indefinitamente? Oppure verrà il giorno in cui l’universo in effetti sarà pieno e quindi incapace di assorbire il calore di scarto generato da quelle attività che ci definiscono, ponendo fine alla vita e alla mente? È vero, per citare la lugubre prosa di Russell, che «tutte le fatiche di tutti i tempi, tutta la dedizione, l’ispirazione, la luminosa grandezza del genio umano sono destinate a estinguersi nella vasta morte del sistema solare e il tempio delle conquiste umane sarà inesorabilmente sepolto sotto i detriti di un universo in rovina»17?
Queste sono alcune delle questioni fondamentali che esploreremo nei prossimi capitoli. Ci siamo spinti un po’ troppo avanti, però. Prima di discutere la vita e la mente, cerchiamo di capire il ruolo dell’entropia e della seconda legge nella formazione degli ambienti necessari per l’affermarsi della vita e la mente.
Per poterlo fare, torniamo indietro fino al Big Bang.
Capitolo terzo
Le origini e l’entropia
Dalla creazione alla struttura
Quando la matematica permette agli scienziati di sbirciare all’indietro nel tempo fino a una frazione di secondo prima di quello che potrebbe essere stato l’inizio dell’universo, ad alcuni la prossimità all’ambito tradizionalmente religioso suggerisce l’esistenza di una profonda alleanza o connessione, o un profondo conflitto, che spinge per venire alla luce. È il motivo per cui mi invitano a esprimere le mie opinioni sulla scienza e sull’esistenza di un creatore quasi con la stessa frequenza. In effetti, spesso le domande riguardano entrambi gli argomenti. Piú avanti avremo tutto il tempo per considerarli, ma qui esploreremo un punto di contatto, emerso alla fine del capitolo precedente, che è essenziale per la nostra storia piú in generale: se la seconda legge della termodinamica grava l’universo di un aumento incessante del disordine, come fa la natura a produrre con tanta facilità strutture ordinatissime e configurate in modo mirabile, dalle stelle alle galassie, dalla vita alla mente? Se l’universo è iniziato con una grande esplosione, come ha potuto quella partenza impetuosa dare origine a tutta l’organizzazione – dai bracci a spirale della Via Lattea agli splendidi paesaggi della Terra, dalle intricate connessioni e circonvoluzioni del cervello umano all’arte, alla musica, alla poesia, alla letteratura e alla scienza prodotte da questo cervello?
Una risposta, su cui ci si è basati nei secoli per affrontare versioni embrionali di questi interrogativi, è che l’ordine è stato ricavato dal caos da un’intelligenza suprema. L’esperienza umana è in linea con questa interpretazione di ispirazione antropomorfica. Dopo tutto, gran parte dell’ordine che incontriamo ogni giorno nella civiltà moderna è proprio opera dell’intelligenza. Un’esegesi corretta della seconda legge, tuttavia, rende superfluo un progettista intelligente. Il punto tanto sorprendente quanto importante è che le regioni contenenti energia concentrata e ordine (un esempio tipico è fornito dalle stelle) sono una conseguenza naturale del fatto che l’universo rispetta diligentemente la seconda legge e diventa sempre piú disordinato. In effetti, queste sacche di ordine dimostrano di essere catalizzatori che, nel lungo periodo, facilitano il raggiungimento del suo potenziale entropico da parte dell’universo. Lungo il percorso, e come parte di questa progressione entropica, facilitano anche l’emergere della vita.
Per esplorare la danza tra ordine e disordine che ha luogo in tutta la storia del cosmo, cominciamo dall’inizio.
1. Una descrizione sommaria del Big Bang.
A metà degli anni Venti del secolo scorso, il padre gesuita belga Georges Lemaître usò la descrizione della gravità appena proposta da Einstein – la teoria della relatività generale – per sviluppare l’idea radicale di un cosmo iniziato con un’esplosione e in continua espansione da allora. Lemaître non era certo un fisico privo di esperienza. Aveva conseguito il dottorato al Massachusetts Institute of Technology e fu tra i primi scienziati ad applicare le equazioni della relatività generale al cosmo intero. L’intuizione di Einstein, che l’aveva guidato con ottimi risultati attraverso un mirabile decennio di scoperte sulla natura dello spazio, del tempo e della materia, era stata che gli oggetti nell’universo hanno un inizio, una fase centrale e una fine, ma che l’universo stesso è sempre stato e sempre sarà. Quando l’analisi di Lemaître delle equazioni di Einstein suggerí altrimenti, Einstein si rifiutò di discutere con il giovane ricercatore e lo congedò dicendogli: «I vostri calcoli sono corretti, ma la vostra fisica è abominevole»1. Einstein voleva sottolineare come si possa essere abili a manipolare le equazioni e tuttavia privi del buon gusto scientifico necessario per decidere quali manipolazioni matematiche riflettano la realtà.
Qualche anno dopo, Einstein fu il protagonista di uno dei dietrofront piú famosi della storia della scienza. Le dettagliate osservazioni dell’astronomo Edwin Hubble all’Osservatorio di Monte Wilson rivelarono che le galassie distanti sono tutte in movimento. Tutte si allontanano rapidamente da noi. E lo schema del loro esodo – quanto piú sono lontane tanto piú sono veloci – era in accordo con l’analisi matematica delle equazioni della relatività generale. Di fronte ai dati a sostegno dell’abominevole fisica di Lemaître, Einstein abbracciò senza riserve la concezione di un universo che ha avuto un inizio2.
Nel secolo trascorso dai calcoli innovativi di Lemaître, la teorizzazione cosmologica a cui diede inizio, insieme al lavoro indipendente del fisico sovietico Aleksandr Fridman, si è notevolmente sviluppata e grazie a telescopi a terra e nello spazio si è accumulato un corpus di dati osservazionali. Vediamo qual è la descrizione cosmologica moderna che ne è emersa. All’incirca 14 miliardi di anni fa, tutto l’universo osservabile – tutto ciò che possiamo vedere usando i telescopi piú potenti che si possano immaginare – era compresso in un granellino incredibilmente denso e immensamente caldo, che poi si espanse rapidamente. Raffreddandosi con l’espansione, le particelle rallentarono progressivamente il loro movimento frenetico e si aggregarono in piccole masse, che nel corso del tempo formarono stelle, pianeti, materiali gassosi e rocciosi di ogni tipo disseminati nello spazio – e la nostra specie.
In due frasi, la storia è questa. Esaminiamo come il cosmo, senza intenzione né progetto, senza premeditazione né discernimento, senza pianificazione né deliberazione, produca configurazioni accuratamente ordinate di particelle, dagli atomi alle stelle e alla vita. Cerchiamo di capire come l’emergere di queste strutture ordinate si concili con l’incessante aumento del disordine decretato dalla seconda legge. Assistiamo al two-step entropico eseguito sul palcoscenico cosmologico.
A tal fine, dobbiamo comprendere meglio vari dettagli cosmologici. Il primo è: innanzitutto, che cosa spinse il granellino primordiale a espandersi? O, in parole povere, che cosa innescò il Big Bang?
2. Gravità repulsiva.
Esistono moltissimi antonimi poiché l’esperienza è piena di opposti. Anche la fisica ha i suoi: ordine e disordine, materia e antimateria, positivo e negativo. Sin dai tempi di Newton, invece, la forza di gravità sembrava non seguire questo schema comune. A differenza della forza elettromagnetica, che può spingere o tirare, la gravità sembrava essere una forza solamente attrattiva. Secondo Newton, la gravità esercita un’attrazione fra due oggetti, che si tratti di particelle o pianeti, che li fa avvicinare, ma non ha mai l’effetto contrario. In assenza di un principio che richiedesse la simmetria in tutti i meccanismi della natura, la maggior parte degli studiosi della gravità considerava il suo carattere unidirezionale come una qualità intrinseca che andava semplicemente accettata. Einstein modificò la situazione. Per la teoria generale della relatività, la forza gravitazionale può essere repulsiva. Newton non aveva previsto la gravità repulsiva e né voi né io l’abbiamo mai provata. Ciò nonostante, la gravità repulsiva fa proprio ciò che suggerisce il nome: invece di attrarre, respinge. Secondo le equazioni di Einstein, grossi agglomerati come le stelle e i pianeti esercitano l’usuale versione attrattiva della gravità, ma esistono situazioni molto particolari in cui la forza gravitazionale può portare due oggetti ad allontanarsi.
Benché la capacità della forza gravitazionale di essere repulsiva fosse nota ad Einstein, e in seguito a un certo numero di scienziati che si occuparono della teoria generale della relatività, la sua applicazione piú importante fu scoperta soltanto dopo mezzo secolo. Quando aveva appena conseguito il dottorato e rifletteva sul Big Bang, Alan Guth si rese conto che la gravità repulsiva avrebbe potuto contribuire a spiegare un mistero cosmico sconcertante. Le osservazioni rivelavano che lo spazio si espande. Le equazioni di Einstein erano in accordo. Le equazioni però non si pronunciavano su quale fosse la forza che, miliardi di anni fa, aveva dato avvio all’espansione. Le dettagliate analisi matematiche di Guth, culminate in una frenetica notte di calcoli nel dicembre 1979, indussero le equazioni a parlare.
Guth capí che se una regione dello spazio fosse piena di un tipo particolare di sostanza, che mi piace chiamare «combustibile cosmico», e se l’energia contenuta nel combustibile cosmico fosse diffusa in maniera uniforme in tutta la regione – non in agglomerati come le stelle o i pianeti –, in effetti la forza gravitazionale risultante sarebbe repulsiva. Piú precisamente, i calcoli di Guth rivelarono che se una regione minuscola, forse con un diametro di non piú di un miliardesimo di un miliardesimo di un miliardesimo di metro, fosse pervasa da un certo tipo di campo di energia (chiamato inflatone), e se l’energia fosse distribuita in modo uniforme, come vapore la cui densità è la stessa in tutta la sauna, la spinta gravitazionale repulsiva sarebbe cosí forte che il granello di spazio si gonfierebbe in modo esplosivo, estendendosi quasi istantaneamente fino a diventare grande come l’universo osservabile, se non di piú. La gravità repulsiva alimenterebbe un’esplosione. E che esplosione3!
All’inizio degli anni Ottanta, il fisico sovietico Andrej Linde e i due fisici statunitensi Paul Steinhardt e Andreas Albrecht raccolsero il testimone da Guth e svilupparono il concetto, elaborando le prime versioni plausibili di cosmologia inflazionaria. Da allora, questi lavori pionieristici hanno ispirato migliaia di pagine di calcoli matematici complicati e un gran numero di simulazioni dettagliate, riempiendo le riviste di tutto il mondo di spiegazioni e previsioni basate sull’assunto di un passato inflazionario. Molte di queste previsioni in seguito sono state confermate da misurazioni astronomiche estremamente precise. Non presenterò una rassegna completa dei dati osservazionali a sostegno della cosmologia inflazionaria, che viene esaminata in molti articoli e libri, ma descriverò un successo che molti fisici considerano il piú convincente. È anche la caratteristica di cui avremo bisogno per il passo successivo dello sviluppo del cosmo: la formazione di stelle e galassie.
3. Il bagliore residuo.
Mentre l’universo primordiale si dilatava rapidamente, il suo calore estremo si diffondeva in un volume sempre piú grande, diminuendo di intensità e raffreddandosi costantemente4. Sin dagli anni Quaranta, molto prima dell’elaborazione della teoria inflazionaria, i fisici capirono che il calore primordiale, ridotto dall’espansione spaziale a un debole bagliore, doveva continuare a permeare l’universo. Definito il «bagliore residuo della creazione» (o, in termini tecnici, la «radiazione cosmica di fondo»), questo sorprendente residuo cosmologico fu individuato per la prima volta negli anni Sessanta da Arno Penzias e Robert Wilson, due ricercatori del Bell Lab che, mentre erano impegnati a calibrare una nuova antenna radio per le comunicazioni satellitari, intercettarono senza volerlo una radiazione diffusa nello spazio, di soli 2,7 gradi sopra lo zero assoluto. Negli anni Sessanta, chiunque possedesse un televisore avrebbe potuto intercettarla: una parte dei disturbi elettrostatici a cui era soggetto un apparecchio di quei tempi sintonizzato su un canale che a tarda sera aveva terminato le trasmissioni era dovuta a questo vestigio del Big Bang.
La cosmologia inflazionaria perfeziona la previsione di un bagliore residuo tenendo conto della meccanica quantistica, delle leggi sviluppate nei primi decenni del Novecento per descrivere i processi fisici che hanno luogo nel mondo microscopico. Poiché qui siamo concentrati sull’intero universo, qualcosa di grande, potreste pensare che l’interesse della fisica quantistica per tutte le cose piccole la renda non pertinente. In effetti, se non fosse per la cosmologia inflazionaria la vostra intuizione sarebbe corretta. Tuttavia, cosí come tendere un pezzo di tessuto elasticizzato rivela lo schema intricato delle sue maglie, estendere lo spazio mediante un’espansione inflazionaria rivela caratteristiche quantistiche di solito isolate nel mondo microscopico. In sostanza, l’espansione inflazionaria raggiunge il mondo microscopico ed estende le caratteristiche quantistiche a tutto il cielo.
L’effetto quantistico piú importante è lo stesso che stabilí una rottura inconfutabile con la tradizione classica: il principio di indeterminazione della meccanica quantistica. Scoperto nel 1927 dal fisico tedesco Werner Heisenberg, il principio di indeterminazione dimostrò che esistono caratteristiche del mondo – come la posizione e la velocità di una particella – che secondo un fisico classico dello stampo di Isaac Newton si potrebbero specificare con certezza assoluta, ma di cui un fisico quantistico sa che sono gravate da una vaghezza quantistica che le rende incerte. È come se nella tradizione classica si fosse osservato il mondo attraverso lenti lucidate e pulitissime, che consentivano di mettere perfettamente a fuoco tutte le caratteristiche fisiche, mentre invece le lenti fornite dalla prospettiva quantistica sono intrinsecamente velate. Nel mondo quotidiano, macroscopico, dell’esperienza comune, la nebbia quantistica è troppo sottile per influire sulla nostra visione, perciò la prospettiva classica e quella quantistica sono a malapena distinguibili. Piú si indaga nel piccolo, tuttavia, piú le lenti quantistiche diventano velate e la visione si fa confusa.
Questa metafora potrebbe suggerire che tutto ciò che dobbiamo fare è pulire le lenti quantistiche, ma il principio di indeterminazione stabilisce che, per quanto meticolosi possiamo essere e per quanto sofisticati siano gli strumenti che usiamo, vi sarà sempre una quantità minima di nebulosità che non può essere eliminata. In realtà, le parole che ho usato tradiscono il pregiudizio legato all’esperienza umana. È soltanto in confronto alla visione classica dimostrabilmente sbagliata – che gli esseri umani hanno sviluppato per prima perché è piú semplice e anche straordinariamente accurata alle scale percepibili dai sensi umani – che la realtà quantistica sembra confusa. Di fatto, è la prospettiva classica che fornisce una visione approssimativa e quindi imprecisa della realtà vera, la realtà quantistica.
Non conosco il motivo per cui la realtà è governata da leggi quantistiche. Nessuno lo conosce. Un secolo di esperimenti ha confermato una montagna di previsioni della meccanica quantistica e questa è la ragione per cui gli scienziati abbracciano la teoria. Ciò nonostante, per la maggior parte di noi la meccanica quantistica continua a risultare del tutto estranea, poiché le sue caratteristiche distintive emergono a distanze tanto minuscole che non possiamo farne esperienza nella vita quotidiana. Se potessimo farlo, l’intuito di tutti sarebbe modellato direttamente da processi quantistici e la fisica quantistica sarebbe una sorta di seconda natura. Cosí come avete nel sangue le implicazioni della fisica newtoniana (riuscite a prendere al volo un bicchiere che sta cadendo, intuendo istantaneamente la sua traiettoria newtoniana), avreste nel sangue anche la fisica quantistica. Non avendo questo intuito quantistico, per dar forma alla nostra comprensione ci basiamo sugli esperimenti e sulla matematica, descrivendo aspetti della realtà di cui non possiamo avere un’esperienza diretta.
Dall’esempio piú discusso, e già citato, che riguarda il comportamento delle particelle, impariamo a modificare le chiare traiettorie della fisica classica sovrapponendovi incessanti fluttuazioni dovute all’incertezza quantistica. Quando una particella transita da qui a lí, un fisico classico può tracciarne la traiettoria con una penna d’oca appuntita, mentre un fisico quantistico passerebbe un dito lungo l’inchiostro bagnato, facendo sbavare la linea5. La meccanica quantistica, tuttavia, non riguarda solo il movimento di singole particelle e per la cosmologia il principio di indeterminazione ha un’influenza decisiva sull’inflatone che alimenta la rapida espansione dello spazio. Anche se nella mia descrizione il valore dell’inflatone è uniforme, assumendo lo stesso valore in tutti i punti dello spazio che si dilata, l’incertezza quantistica scompagina l’uniformità classica sovrapponendovi fluttuazioni quantistiche, di conseguenza il valore del campo (e quindi la sua energia) è leggermente piú alto qui e leggermente piú basso lí.
Quando l’espansione inflazionaria le dilata rapidamente, queste minuscole variazioni quantistiche di energia si diffondono nello spazio rendendo la temperatura un po’ piú alta qui e un po’ piú bassa lí. Non di molto. Le analisi matematiche, effettuate per la prima volta dai fisici negli anni Ottanta, hanno mostrato che la differenza di temperatura tra i punti caldi e i punti freddi è soltanto dell’ordine di una parte su 100 000. Queste analisi, però, hanno suggerito anche che le minuscole variazioni di temperatura, se si sapesse dove cercarle, sarebbero visibili. I calcoli hanno rivelato che le fluttuazioni quantistiche dilatate danno luogo a uno schema preciso di variazione della temperatura nello spazio, un’impronta digitale cosmologica utile per le indagini degli astronomi. In effetti, sin dai primi anni Novanta, una sequenza di telescopi schierati al di sopra delle distorsioni causate dall’atmosfera terrestre ha confermato con precisione crescente il previsto schema di variazione della temperatura.
Fermatevi un momento per capire bene tutto ciò. I fisici descrivono i primi istanti dell’universo usando le equazioni di Einstein, aggiornate in modo da comprendere l’ipotetico campo di energia di Guth che permea lo spazio, soggetto all’incertezza quantistica che abbiamo appreso da Heisenberg. Le analisi matematiche rivelano che l’espansione inflazionaria deve aver lasciato un’impronta indelebile, un fossile della creazione sotto forma di una configurazione precisa di minuscole variazioni di temperatura nel cielo notturno. Ora termometri sofisticati costruiti e posti nello spazio quasi 14 miliardi di anni dopo da una specie da poco diventata scientificamente maggiorenne qui nella Via Lattea hanno rilevato proprio quella configurazione.
È un successo spettacolare, che dimostra ancora una volta la sconcertante capacità della matematica di sintetizzare gli schemi della natura. Sarebbe tuttavia eccessivo concludere che le osservazioni dimostrano che avvenne un’espansione inflazionaria. Quando si studiano eventi cosmologici che ebbero luogo miliardi di anni fa, a una scala di energia probabilmente milioni di miliardi di volte maggiore rispetto a ciò che possiamo indagare in laboratorio, il meglio che si possa fare è mettere insieme le osservazioni e i calcoli per rafforzare la fiducia nelle nostre spiegazioni. Se ipotizzare un’espansione inflazionaria fosse l’unico modo per comprendere i dati cosmologici, la nostra fiducia si avvicinerebbe alla certezza, ma nel corso degli anni scienziati creativi hanno sviluppato altri approcci (ne incontreremo uno nel capitolo X). Tutto sommato, anche se dobbiamo essere pronti ad accettare nuove idee che mettono in discussione i punti di vista dominanti, la mia opinione, condivisa da molti ricercatori, è che le argomentazioni a favore della cosmologia inflazionaria elaborate negli ultimi quarant’anni sono potenti6. E cosí per la maggior parte del nostro viaggio seguiremo la pista inflazionaria.
Alla luce di questa valutazione, consideriamo ora come interagisce un inizio inflazionario con la spinta della seconda legge verso un maggiore disordine.
4. Il Big Bang e la seconda legge.
Nonostante secoli di progressi della scienza, oggi non siamo piú vicini a rispondere alla domanda posta da Gottfried Leibniz – «Perché esiste qualcosa anziché il nulla?» – di quando il filosofo tedesco espresse per la prima volta questo sottile distillato del mistero dell’esistenza. Non che siano mancate le proposte di idee creative e teorie provocatorie, ma quando ci interroghiamo sull’origine ultima cerchiamo una risposta che non richieda antecedenti, che non sposti la domanda indietro di un passo, che non susciti domande come «Perché le cose erano cosí e non invece cosà?» o «Perché queste leggi anziché quelle?» Nessuna spiegazione proposta finora ha raggiunto questo obiettivo, neanche lontanamente.
Il modello inflazionario di certo non lo soddisfa. L’inflazione richiede un elenco di ingredienti che comprende lo spazio, il tempo, il combustibile cosmico che guida l’espansione (l’inflatone), oltre a tutto l’apparato tecnico della meccanica quantistica e della relatività generale, che a loro volta si basano sulla matematica, dal calcolo differenziale multivariato all’algebra lineare e alla geometria differenziale. Non è in base a un principio conosciuto che si scelgono queste particolari leggi fisiche, espresse usando questi particolari costrutti matematici, come inevitabile punto di partenza per spiegare l’universo. Noi fisici, invece, usiamo le osservazioni e gli esperimenti, insieme a una sensibilità matematica difficile da descrivere, per farci guidare verso particolari leggi fisiche. Poi analizziamo le leggi dal punto di vista matematico per determinare quali condizioni ambientali nei primi istanti dell’universo, se ne esistono, avrebbero potuto scatenare la rapida espansione dello spazio. Se, fortunatamente, riusciamo a individuare queste condizioni, postuliamo che si siano presentate in prossimità del Big Bang e usiamo le equazioni per stabilire gli eventi successivi.
Attualmente, non possiamo fare di meglio. E non è certo cosa da disprezzare. Il fatto che possiamo usare la matematica per descrivere ciò che pensiamo sia avvenuto circa 14 miliardi di anni fa, e che da quella descrizione riusciamo a prevedere che cosa dovrebbero osservare oggi i nostri potenti telescopi, è davvero impressionante. Certo, le questioni aperte non mancano, come chi o che cosa abbia creato lo spazio e il tempo, chi o che cosa abbia imposto il dominio direttivo della matematica, chi o che cosa sia responsabile del fatto che esiste qualcosa, ma nonostante tutti questi problemi ancora irrisolti siamo riusciti a chiarire molti aspetti dello sviluppo del cosmo.
Il mio obiettivo ora è usare questa conoscenza per capire come un universo di entropia sempre crescente, destinato a un disordine sempre maggiore, possa nel frattempo creare un’abbondanza di ordine. Tenendo a mente questo obiettivo, iniziamo considerando l’osservazione piú elementare, che è stata accennata nel capitolo precedente. Se l’entropia è stata in costante aumento dal Big Bang, allora al momento dell’esplosione doveva essere molto piú bassa rispetto a oggi7.
Che cosa ne possiamo concludere?
Ormai sarete abituati a restare indifferenti se incontrate una configurazione di alta entropia – che si tratti di monete che mostrano una mescolanza casuale di teste e di croci, di vapore che pervade il bagno in modo uniforme, o di aromi diffusi in tutta la casa. Le configurazioni di alta entropia sono prevedibili, comuni, ordinarie. Quando però incontrate una configurazione di bassa entropia, vi rendete conto che la vostra reazione dovrebbe essere diversa. Una configurazione di bassa entropia è speciale. È rara. Richiede una spiegazione di come si sia potuto produrre uno stato delle cose tanto ordinato.
Applicato all’universo primordiale, questo ragionamento ha generato grandi dibattiti scientifici e filosofici. A causa di quale forza o processo l’entropia dell’universo primordiale era bassa? Cento monete che mostrano testa è una configurazione di bassa entropia che però ammette una spiegazione immediata – invece di gettare le monete sul tavolo, qualcuno le ha disposte con cura. Ma chi o che cosa organizzò la speciale configurazione di bassa entropia dell’universo primordiale? In mancanza di una teoria completa delle origini cosmiche, la scienza non può fornire una risposta. In realtà, anche se è una questione che mi ha tenuto sveglio per molte notti (letteralmente), la scienza non è ancora in grado di determinare se abbia senso preoccuparsene. Se non si sa perché esiste qualcosa anziché il nulla, non si ha modo di giudicare quanto sia davvero ordinario o strano qualcosa. Per valutare se le condizioni dettagliate dell’universo primordiale ci devono lasciare indifferenti o farci sobbalzare è necessario delineare il processo grazie al quale si sono stabilite quelle condizioni.
Uno degli scenari considerati dai cosmologi immagina che l’universo primordiale fosse un ambiente frenetico e caotico e quindi che il valore dell’inflatone nello spazio presentasse grandi oscillazioni, un po’ come avviene alla superficie dell’acqua bollente. Per generare gravità repulsiva e scatenare l’esplosione, abbiamo bisogno di una piccola regione di spazio in cui il valore dell’inflatone sia costante (o quasi, tenendo conto dell’agitazione quantistica). Ma trovare una regione uniforme tra le ondulazioni caotiche sarebbe come trovare sulla superficie agitata di una vasca d’acqua in ebollizione una regione diventata improvvisamente piatta. Non avete mai visto una cosa simile. Non perché sia impossibile, ma perché è straordinariamente improbabile. Affinché una regione dell’acqua che ribolle nella vasca sia tutta alla stessa altezza nello stesso momento producendo una configurazione a bassa entropia, piatta, ordinata e uniforme, sarebbe necessaria una coincidenza stupefacente. In maniera analoga, anche affinché l’inflatone sfrenatamente ondeggiante acquisisse un valore uniforme in una piccola regione di spazio, scatenando quindi l’espansione inflazionaria, sarebbe stata necessaria una straordinaria coincidenza. La mancanza di una spiegazione di come si sia potuta produrre questa speciale configurazione ordinata, a bassa entropia e uniforme, è motivo di profonda preoccupazione per i fisici8.
Cercando sollievo da questo disagio, alcuni ricercatori fanno affidamento su una semplice osservazione: se si aspetta abbastanza a lungo, anche l’evento piú improbabile si verificherà. Lanciando cento monete un numero sufficiente di volte, capiterà che mostrino tutte testa. Sarà meglio non aspettarlo restando col fiato sospeso, ma questo risultato prima o poi si presenterà. Analogamente, possiamo affermare che in un ambiente caotico in cui il valore dell’inflatone presenta grandi fluttuazioni, prima o poi – per puro caso – in una minuscola regione le variazioni casuali che fanno aumentare il valore del campo qui e lo fanno diminuire lí si allineeranno, facendo sí che il campo abbia lo stesso valore dappertutto. Ci vuole un colpo di fortuna statisticamente raro, che porta a un ordine maggiore e quindi a minore entropia, ma di tanto in tanto succederà. Non spesso. Secondo questa prospettiva, però, non dobbiamo preoccuparcene. Poiché tutte queste macchinazioni avrebbero avuto luogo in un periodo della preistoria, prima della rapida espansione dello spazio che chiamiamo Big Bang, nessuno se ne stava con le braccia conserte, battendo ripetutamente un piede a terra, in attesa dell’espansione inflazionaria. Lasciamo quindi che la fase che precede lo spettacolo duri tutto il tempo necessario. È solo quando si presenta l’eccezionalità statistica di una regione uniforme dell’inflatone che le cose finalmente cambiano: il Big Bang si scatena, lo spazio si gonfia e lo spettacolo cosmologico ha inizio.
Queste considerazioni, sebbene non affrontino le questioni fondamentali delle origini (l’origine dello spazio, del tempo, dei campi, della matematica e cosí via), mostrano come un ambiente caotico possa produrre le speciali condizioni di ordine e di bassa entropia richieste dall’inflazione. Quando un granellino di spazio alla fine compie il salto statisticamente improbabile nella bassa entropia, la gravità repulsiva entra in azione e lo fa diventare un universo in rapida espansione – il Big Bang.
Questa non è l’unica spiegazione proposta di come potrebbe aver avuto inizio l’espansione inflazionaria. Andrej Linde, uno dei pionieri della cosmologia inflazionaria, ha detto scherzando che tre ricercatori presi a caso hanno almeno nove opinioni diverse sull’argomento9. Dobbiamo quindi lasciare ai lavori futuri, teorici e sperimentali, il compito di fornire una spiegazione definitiva di come una piccola regione dello spazio fu pervasa uniformemente da un campo, l’inflatone, scatenando una rapida fase di espansione. Per il momento, presumiamo soltanto che in un modo o nell’altro l’universo primordiale abbia assunto questa configurazione ordinata di bassa entropia, innescando il botto e permettendoci di dichiarare che il resto è storia.
Questo è l’inizio del sentiero. Da qui parte il nostro viaggio di esplorazione di come si possano formare strutture ordinate come le stelle e le galassie in un universo che sfreccia verso un futuro sempre piú disordinato.
5. L’origine della materia e la nascita delle stelle.
Nell’arco di un miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, la gravità repulsiva estese enormemente una minuscola regione dello spazio, forse molto piú delle distanze piú remote accessibili dai telescopi piú avanzati10. L’inflatone continuava a permeare lo spazio, ma nel giro di un’altra minuscola frazione di secondo anche questo cambiò. Come l’energia alla superficie di una bolla di sapone che si gonfia, l’energia in una regione pervasa dall’inflatone e in espansione è precaria. È instabile. Cosí come la bolla di sapone alla fine scoppierà, trasformando la sua energia in una nube di goccioline di acqua saponata, anche l’inflatone alla fine «scoppiò» – si disintegrò, trasformando la sua energia in una nube di particelle.
Non conosciamo l’identità precisa di queste particelle, però possiamo affermare con certezza che non erano i costituenti elementari della materia che avete studiato alle scuole medie. Solo qualche minuto dopo, tuttavia, in tutto lo spazio ebbe luogo una cascata di veloci reazioni fra particelle – particelle pesanti che si disintegravano in spruzzi di particelle piú leggere, particelle con forti affinità che si univano in stretti conglomerati di particelle – che trasformò il brodo primordiale in una popolazione di protoni, neutroni ed elettroni, gli elementi della materia ordinaria (e probabilmente anche una provvista di altre particelle piú strane, come la materia oscura, come attesta una lunga storia di osservazioni astronomiche)11. Dopo l’esplosione, in breve tempo l’universo quindi si riempí di una nebbia calda quasi uniforme di particelle, alcune familiari, altre meno, che si diffondevano in una distesa di spazio in espansione.
Ho specificato che l’uniformità non è perfetta perché l’agitazione quantistica dell’inflatone non solo determina variazioni di temperatura nel bagliore residuo del Big Bang, ma garantisce anche che, quando l’inflatone si disintegra, la densità delle particelle risultanti varierà leggermente nello spazio – essendo un po’ piú alta qui e un po’ piú bassa lí. Queste variazioni sono cruciali per ciò che accade subito dopo: la fatidica spinta verso agglomerati come le stelle e le galassie. Una regione che è leggermente piú densa delle regioni vicine esercita un’attrazione gravitazionale leggermente maggiore e quindi risucchia un contingente leggermente piú grande di particelle vicine. La regione quindi diventa ancor piú densa e perciò esercita un’attrazione gravitazionale ancor piú forte, risucchiando ancor piú materiale. È un effetto valanga alimentato dall’attrazione gravitazionale che produce ammassi di materia sempre piú grandi. Dopo un intervallo di tempo sufficiente, dell’ordine di centinaia di milioni di anni, la valanga gravitazionale produce agglomerati di particelle di tale massa, tanto compressi e tanto caldi da innescare processi nucleari, dando origine alle stelle. L’incertezza quantistica, amplificata dallo stiramento inflazionario e concentrata dalla valanga gravitazionale, ha come risultato i punti luminosi di cui è cosparso il cielo notturno.
La domanda che ci poniamo ora è: come si concilia il processo di formazione delle stelle, in cui la gravità induce un disordinato bagno di particelle quasi uniforme a produrre strutture astrofisiche ordinate, con il disordine crescente decretato dalla seconda legge? Per rispondere, è necessario esaminare con maggiore attenzione i percorsi che portano all’aumento di entropia.
6. Ostacoli sulla via verso il disordine.
Mentre il pane cuoce nel forno, le particelle rilasciate si diffondono all’esterno, occupano un volume sempre piú grande e quindi la loro entropia aumenta. Se però vi trovate in una stanza lontana dalla cucina, non godrete immediatamente dell’aroma del pane appena cotto. Ci vuole tempo prima che si diffonda in tutta la casa. Dovete aspettare che le molecole dell’aroma si spostino all’esterno e occupino le disposizioni di maggiore entropia che sono disponibili. È un fenomeno comune. In generale, i sistemi fisici non possono saltare direttamente alla configurazione di massima entropia e invece, via via che le particelle del sistema vagano in modo casuale, l’entropia procede progressivamente verso il massimo valore possibile.
Lungo la strada, inoltre, vi possono essere ostacoli che impediscono il progresso. Se sigillate il forno o chiudete la porta della cucina, rendete piú difficile la diffusione dell’aroma, rallentando in tal modo l’aumento dell’entropia. In questo caso gli ostacoli sono dovuti all’intervento umano, ma in altre situazioni possibili emergono dalle leggi che governano le interazioni fisiche. Anche in un esempio che conosco bene a causa di un incidente che ebbi da bambino era coinvolto un forno.
Un giorno, quando avevo dieci anni, tornai da scuola e decisi di riscaldare un trancio di pizza avanzato che trovai nel frigorifero. Impostai il forno a 200 gradi, feci scivolare la pizza sulla griglia di mezzo e aspettai. Dopo circa dieci minuti, controllai lo stato della pizza e scoprii con sorpresa che era fredda esattamente come quando l’avevo messa nel forno. Allora mi resi conto che dopo aver aperto il gas avevo dimenticato di accendere il forno (era un forno modesto, comune all’epoca, sprovvisto di fiamma pilota, quindi ogni volta era necessario accenderlo). Seguendo una procedura che avevo visto attuare dai miei genitori centinaia di volte, mi chinai verso il forno e sfregai un fiammifero, con l’intenzione di infilarlo nel piccolo foro pilota del forno. Ormai all’interno del forno si era accumulato un bel po’ di gas, che appena accesi il fiammifero esplose. Un muro di fiamme si levò verso di me. Chiusi gli occhi stretti stretti mentre il fuoco mi investí, bruciacchiandomi le sopracciglia e le ciglia e lasciandomi ustioni di secondo e terzo grado anche sulle orecchie. La lezione di vita, sottolineata dai miei genitori e rafforzata da mesi di cicatrizzazione dolorosa, era incentrata sull’uso corretto degli apparecchi da cucina. (Alla fine mi rimisi in sella e oggi cucino quasi sempre io – anche se in effetti per un attimo mi sento a disagio quando i miei figli, preparandosi il pasto da soli, accendono il forno). La questione scientifica piú generale è che certi ostacoli sulla via che porta a maggiore entropia possono essere superati soltanto con l’aiuto di un catalizzatore.
Mi spiego meglio. Il gas naturale (che è soprattutto metano, un composto di carbonio e idrogeno) può coesistere pacificamente con l’ossigeno dell’aria; le molecole di ciascun gas possono tranquillamente mescolarsi. Tuttavia, a mano a mano che le molecole si diffondono e si mischiano, diventa possibile una configurazione distinta e di entropia molto maggiore. Non è però una configurazione raggiungibile semplicemente se le molecole sono libere di continuare a sparpagliarsi. La configurazione di maggiore entropia richiede una reazione chimica. Non dovete preoccuparvi dei dettagli, ma vorrei darne una breve spiegazione. Una molecola di gas naturale può combinarsi con due molecole di ossigeno formando una molecola di anidride carbonica, due di acqua e, cosa di primaria importanza, una scarica di energia. A livello delle molecole, questo è ciò che accade quando un gas brucia. La reazione chimica rilascia l’energia contenuta negli stretti legami che tengono insieme le molecole di gas, un po’ come accade quando un gruppo di elastici tesi si rompono tutti insieme. Nel caso della mia avventura con il forno, quella scarica intensa – molecole molto agitate e veloci – mi bruciò il viso. Tutto ciò indica che, rilasciando energia immagazzinata in legami chimici ordinati e trasformandola nell’agitazione caotica di molecole che si muovono rapidamente, queste reazioni chimiche producono un marcato aumento di entropia.
Anche se i dettagli sono legati all’incresciosa disavventura di un bambino, l’episodio dimostra un principio fisico di ampia applicazione. Sulla strada dell’entropia si possono trovare dissuasori di velocità: lasciati a sé stessi, il gas naturale e l’ossigeno non si combineranno, non bruceranno e non raggiungeranno la configurazione di entropia maggiore che è disponibile. Questi costituenti chimici sono in grado di superare l’ostacolo all’entropia solo con l’aiuto di un catalizzatore capace di avviare la reazione. Nel mio caso, il catalizzatore fu un fiammifero acceso. La fiammella accesa da uno scolaro di quarta elementare scatenò un effetto domino. La sua energia spezzò i legami che tenevano insieme alcune delle molecole di gas naturale, permettendo ad atomi di carbonio e di idrogeno appena liberati di combinarsi con atomi di ossigeno presenti nell’ambiente, rilasciando altra energia che recise altri legami del gas naturale, facendo continuare il processo. L’esplosione fu una cascata di energia generata dalla rapida riorganizzazione di legami chimici.
Si noti che i legami chimici dipendono dalla forza elettromagnetica. I protoni, che hanno carica positiva, attraggono gli elettroni, che hanno carica negativa («cariche elettriche di segno opposto si attraggono»), serrando i costituenti atomici in unioni molecolari. Quindi il salto entropico dal tranquillo mescolamento di molecole di gas alla combustione esplosiva generata dalla rottura e dalla riformazione di legami chimici è guidato dalla forza elettromagnetica. Ciò è vero per molti dei processi della vita quotidiana che producono un aumento di entropia.
In processi che hanno luogo piú e piú volte nel cosmo, anche se piú raramente qui sulla Terra, spesso l’evoluzione verso stati di maggiore entropia è guidata da altre forze naturali: la forza gravitazionale e le forze nucleari (la forza nucleare forte tiene insieme i nuclei atomici, mentre la forza nucleare debole genera decadimento radioattivo). Inoltre, come abbiamo visto nel caso della forza elettromagnetica, nemmeno il percorso verso maggiore entropia tracciato dalla gravità e dalle forze nucleari è necessariamente agevole. Vi possono essere ostacoli e spesso ve ne sono. Il modo in cui l’universo supera questi ostacoli – l’equivalente cosmico dell’accensione del fiammifero da parte mia – è una questione delicata, di cui però tutti dovremmo preoccuparci seriamente. Fra le strutture transitorie che si formano mentre la gravità e le forze nucleari guidano l’universo verso una maggiore entropia vi sono le stelle e i pianeti e, qui sulla Terra, la vita. Nonostante la loro maestosità, queste strutture ordinate sono le instancabili bestie da soma della natura, che sfruttano la gravità e le forze nucleari per guidare il cosmo verso la realizzazione del suo potenziale entropico.
Consideriamo per prima la gravità.
7. Gravità, ordine e seconda legge.
La gravità è la piú debole tra le forze della natura, un fatto semplicissimo da dimostrare: quando raccogliete una moneta, i muscoli del vostro braccio battono l’attrazione gravitazionale di tutta la Terra. Che vi consideriate deboli o vigorosi, la vittoria sull’attrazione gravitazionale di un pianeta fa risaltare l’intrinseca debolezza della gravità. Ci accorgiamo della gravità soltanto perché è una forza cumulativa: ogni pezzettino della Terra attira ogni pezzettino della moneta, di questo libro, di voi e di me e, poiché la Terra è grande, la somma di tutte queste spinte è una forza verso il basso che possiamo percepire. Ma l’attrazione gravitazionale tra due cose piú piccole, come due elettroni, è un milione di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di volte piú debole della loro repulsione elettromagnetica.
L’intrinseca debolezza della gravità è il motivo per cui nella nostra precedente discussione dell’entropia non è neanche stata citata. Se considerassimo gli effetti della gravità in situazioni della vita quotidiana come la diffusione del vapore nel bagno o degli aromi in tutta la casa, la nostra discussione dell’entropia cambierebbe ben poco. Certo, la gravità trascina un poco verso il basso le molecole, facendo sí che la densità del vapore sia leggermente maggiore vicino al pavimento del bagno, ma l’effetto è cosí piccolo da non avere importanza per una comprensione qualitativa. Se però spostiamo l’attenzione dal quotidiano ai processi astronomici in cui è coinvolta molta piú materia, ci imbattiamo in un’interazione estremamente importante fra entropia e forza gravitazionale.
Riconosco che le idee che sto per spiegare sono piuttosto difficili, quindi se in qualsiasi punto la discussione si fa troppo complessa per i vostri gusti sentitevi liberi di saltare al riassunto della sezione successiva. Se però resterete con me, sarete ricompensati con la comprensione di come la gravità tira fuori l’ordine da un cosmo sempre piú disordinato.
Pensate a una versione cosmica dello scenario della cottura del pane. Invece della vostra casa, immaginate un enorme contenitore, molto piú grande del Sole, che fluttua in uno spazio altrimenti vuoto. Invece dell’aroma che si sprigiona dal forno, immaginate che si parta con al centro del contenitore una palla di gas (per fissare le idee, pensate che sia idrogeno, l’elemento piú semplice della tavola periodica) le cui molecole si diffondono lentamente verso l’esterno. Dall’esperienza con l’aroma del pane che si diffonde in tutta la casa, ci aspettiamo che il gas si evolva verso stati di maggiore entropia con le molecole che si disperdono fino a riempire uniformemente il contenitore. Ora, però, cambiamo leggermente la situazione. A differenza del caso del pane che cuoce, aggiungiamo nella palla di gas un numero di molecole tale da rendere importante l’effetto della gravità: l’attrazione gravitazionale a cui è soggetta ogni molecola, a causa dell’attrazione gravitazionale esercitata da ciascuna delle numerosissime altre molecole di gas, ne influenza in misura significativa il movimento. Come si modifica la nostra conclusione?
Mettetevi nei panni di una molecola di gas in testa alla migrazione verso l’esterno. Mentre vi allontanate dal raggruppamento centrale, percepite l’attrazione gravitazionale esercitata da tutte le altre molecole che vi spingono leggermente verso di loro. Questa forza vi rallenta. Riducendosi la velocità, si abbassa la temperatura. Pertanto quando la nube di gas aumenta di volume espandendosi verso l’esterno, nei pressi della frontiera la temperatura si abbassa. Tenendolo a mente, ora saltate alla prospettiva di una molecola che si trova piú al centro della nube. In quella posizione, percepite un’attrazione gravitazionale molto piú forte rispetto alla precedente esperienza su una frontiera distante dal centro. In effetti, con un numero sufficiente di molecole, l’attrazione gravitazionale combinata sarà abbastanza forte da impedirvi del tutto di migrare verso l’esterno. Sarete invece trascinati verso l’interno. Quindi cadrete verso il centro dell’ammasso di gas, diventando via via sempre piú veloci. Aumentando la velocità, si alza la temperatura, perciò mentre la gravità fa contrarre il nucleo della nube di gas, riducendone il volume, la sua temperatura sale.
A differenza di ciò che ci aspettavamo in base all’esperienza con la cottura del pane – che il gas, nel corso del tempo, si distribuisse in modo uniforme nel contenitore e raggiungesse una temperatura uniforme – vediamo che quando la gravità è importante la situazione si sviluppa in modo completamente diverso. A causa della gravità, alcune molecole vengono trascinate in un nucleo piú denso e piú caldo, mentre altre si spostano verso l’esterno in un guscio piú freddo e diffuso che lo circonda.
Per quanto modeste possano sembrare queste osservazioni, abbiamo messo in luce il fattore piú importante che guida l’ordine nell’universo. Approfondiamo questo punto.
Quando bevete una tazzina di caffè, non lo trovate mai piú caldo di quando l’avete versato. Il motivo è che il calore passa sempre da una temperatura maggiore a una minore, quindi il caffè appena versato trasferisce una parte del suo calore all’ambiente e cosí la sua temperatura diminuisce12. Anche nel caso della nostra grande nube di gas, il calore fluisce dal nucleo centrale caldo al guscio circostante piú freddo. Non posso biasimarvi se pensate che questo flusso di calore raffredderà il nucleo e riscalderà il guscio, facendo avvicinare le loro temperature, come il calore trasferito dal caffè all’aria avvicina la temperatura della tazzina alla temperatura ambiente. Tuttavia – e questo è un punto di straordinaria importanza – quando a dirigere lo spettacolo è la gravità, la conclusione è opposta: mentre il calore fluisce dal nucleo verso l’esterno, il nucleo diventa piú caldo e il guscio si raffredda.
È senz’altro controintuitivo, ma per capirlo basta collegare alcuni punti che sono già stati segnati. Mentre il guscio circostante assorbe calore dal nucleo, l’energia aggiuntiva spinge la nuvola a dilatarsi ancora di piú. Le molecole che si muovono verso l’esterno devono contrastare la spinta verso l’interno della gravità e quindi vengono ulteriormente rallentate13. L’effetto netto è che la temperatura del guscio in espansione scende, non sale. Per contro, mentre il nucleo rilascia calore, la diminuzione di energia lo fa contrarre ancora di piú. Le molecole che si muovono verso l’interno, procedendo nella stessa direzione della spinta verso l’interno della gravità, prendono velocità via via che cadono e quindi la temperatura del nucleo in contrazione sale, non scende.
Se il vostro caffè si comportasse in questo modo, fareste meglio a sbrigarvi a berlo. Quanto piú lunga fosse l’attesa tanto piú calore il caffè rilascerebbe nell’aria circostante e tanto piú caldo diventerebbe. Nel caso del caffè, sarebbe assurdo. In una nube di gas abbastanza grande da dare un ruolo dominante alla gravità, invece, è proprio ciò che accade.
Soffermatevi un momento su questa conclusione e capirete che abbiamo incontrato un processo autorinforzante, un po’ come capita con il debito della carta di credito – piú soldi dovete piú interessi pagate e maggiore diventa il debito, portando a un andamento a spirale del ciclo. Nel caso di una nube di gas, mentre il nucleo si contrae e la sua temperatura aumenta, rilascia ancor piú calore nella zona circostante piú fredda e cosí il nucleo si contrae ancora di piú e la sua temperatura diventa ancora piú alta. Allo stesso tempo, il calore assorbito dal guscio lo fa espandere ancora di piú e ne fa diminuire ulteriormente la temperatura. La crescente differenza di temperatura fra il nucleo e il guscio fa sí che il calore fluisca ancor piú vigorosamente e fa procedere il ciclo a spirale.
Escludendo interventi o cambiamenti delle circostanze, questi cicli che si autorinforzano continuano senza sosta. Nel caso del debito crescente, intervenite versando la somma dovuta o dichiarando fallimento. Per il nucleo compresso che diventa sempre piú caldo, la natura interviene con un nuovo processo fisico: la fusione nucleare. Quando una collezione di atomi diventa sufficientemente calda e densa, gli atomi si urtano l’un l’altro con una tale forza che possono unirsi molto piú di quanto facciano in processi chimici come la combustione di gas naturale. Mentre la combustione chimica è una reazione che coinvolge gli elettroni che circondano gli atomi, la fusione nucleare è una reazione che unisce i nuclei al centro degli atomi e, cosí facendo, genera copiose quantità di energia che si manifesta come particelle in rapido movimento. Ed è questo rapido movimento termico a generare una pressione verso l’esterno capace di compensare la spinta verso l’interno della gravità. La fusione nucleare nel nucleo arresta quindi la contrazione. Il risultato è una fonte concentrata, stabile e duratura di luce e calore.
È nata una stella.
Per rendersi conto delle conseguenze del processo di formazione sull’entropia, sommiamo i contributi. Sia il nucleo della nube di gas, che diventa la stella, sia il guscio che lo circonda, sono soggetti a due effetti entropici opposti. La temperatura del nucleo sale, facendo aumentare l’entropia, e il suo volume si riduce, facendo diminuire l’entropia. Solo calcoli dettagliati14 permettono di stabilire il vincitore e il risultato è che la diminuzione supera l’aumento, quindi l’entropia netta del nucleo cala. La formazione di grandi masse gravitazionali, come le stelle, in effetti è una mossa verso un ordine maggiore. Per quanto riguarda il guscio circostante, il volume cresce, facendo aumentare l’entropia, e la temperatura si abbassa, facendo diminuire l’entropia. Anche qui è necessario un calcolo dettagliato per determinare il vincitore e il risultato è che l’aumento supera la diminuzione, quindi l’entropia netta del guscio aumenta. I calcoli stabiliscono anche, cosa altrettanto importante, che l’aumento di entropia del guscio supera la diminuzione di entropia del nucleo, garantendo che l’intero processo porti a una diminuzione complessiva dell’entropia, guadagnandosi un meritato cenno di approvazione dalla seconda legge.
Questa catena di eventi, che qui è stata molto idealizzata e semplificata, mostra come una stella – una sacca di bassa entropia, una sacca di ordine – possa essere prodotta spontaneamente anche se nessun ingegnere dirige l’azione e anche se la seconda legge della termodinamica, che impone l’aumento dell’entropia totale, resta pienamente valida. In confronto a un motore a vapore, lo scenario cosmico è piú affascinante, ma ciò che abbiamo scoperto è un altro esempio del two-step entropico. Se pensiamo alla danza termodinamica fra un motore a vapore e l’ambiente circostante – il motore a vapore rilascia calore di scarto, il che fa diminuire la sua entropia, mentre l’ambiente assorbe il calore, il che fa aumentare la sua entropia –, possiamo dire che in una nube di gas abbastanza grande da rendere importante il ruolo della gravità si ha un pas de deux analogo. Mentre il nucleo della nube si contrae sotto la spinta della gravità, subisce una diminuzione di entropia, ma il calore che rilascia fa aumentare l’entropia della zona circostante. Si crea una regione di ordine in un ambiente che va incontro a un aumento piú che compensativo di disordine.
La nuova caratteristica della versione gravitazionale del two-step entropico è che si autoalimenta. Quando la nube di gas si contrae ed emette calore, la sua temperatura sale, facendo sí che sempre piú calore fluisca verso l’esterno e che il two-step continui. Per contro, quando il motore a vapore svolge lavoro ed emette calore, la sua temperatura si abbassa. Se non si brucia altro combustibile per riscaldare di nuovo il vapore, il motore si ferma. È per questo motivo che il motore a vapore richiede un’intelligenza per essere progettato, costruito e alimentato, mentre la regione di ordine creata da una nube di gas in contrazione – una stella – è modellata e alimentata non da una mente, ma dalla forza di gravità.
8. Fusione, ordine e seconda legge.
Facciamo il punto della situazione.
Quando l’influenza della gravità è minima, la seconda legge spinge un sistema verso l’omogeneità. Le cose si sparpagliano, l’energia si diffonde, l’entropia aumenta. E se fosse tutto qui, la storia dell’universo, dall’inizio alla fine, sarebbe priva di interesse. Quando però la quantità di materia è tale da rendere significativa l’influenza della gravità, la seconda legge fa una rapida inversione di marcia e fa allontanare il sistema dall’omogeneità. La materia si aggrega qui e si sparge lí. L’energia si concentra qui e si diffonde lí. L’entropia aumenta qui e diminuisce lí. Il modo in cui si attua la direttiva della seconda legge dipende sensibilmente dalla forza di gravità. Quando la gravità è sufficiente – quando vi è una quantità sufficiente di materia abbastanza concentrata –, si possono formare strutture ordinate. Con ciò, la storia dello sviluppo dell’universo diventa molto piú ricca.
Come si è detto, in questo processo il ruolo principale è svolto dalla forza di gravità. In confronto, la forza nucleare, responsabile della fusione, sembra decisamente secondaria. Il suo compito sembra limitato a un intervento: la fusione provoca la pressione verso l’esterno che arresta il collasso verso l’interno che sarebbe determinato dalla gravità. Spesso gli scienziati, con una sintesi sbrigativa, dicono che la gravità è la fonte ultima di tutta la struttura presente nel cosmo, senza nemmeno accennare al ruolo della forza nucleare. Con una valutazione piú generosa, si può parlare di un’associazione paritaria tra la gravità e la forza nucleare, che operano in modo congiunto per far avanzare la narrazione della seconda legge.
Il punto è che anche la forza nucleare balla il two-step entropico. Quando i nuclei atomici si fondono – come nel Sole, dove i nuclei di idrogeno si fondono in elio miliardi di miliardi di volte al secondo –, il risultato è un aggregato atomico piú complesso, organizzato in modo piú complicato, di minore entropia. Nel processo, una parte della massa dei nuclei originari viene convertita in energia (come prescritto da E = mc2), per lo piú sotto forma di un’emissione di fotoni che scalda l’interno della stella e alimenta il rilascio di luce dalla sua superficie. È attraverso questa intensa luce stellare, che è essa stessa un torrente di fotoni che viaggiano verso l’esterno, che la stella trasferisce copiose quantità di entropia nell’ambiente. Come abbiamo visto con il motore a vapore, e con la nube di gas in contrazione, l’aumento dell’entropia ambientale compensa ampiamente la diminuzione di entropia dovuta alla fusione dei nuclei, garantendo cosí l’aumento dell’entropia netta e il rispetto della seconda legge.
Cosí come il gas naturale e l’ossigeno hanno bisogno di un catalizzatore (come l’accensione di un fiammifero) per avviare la combustione chimica, anche i nuclei atomici hanno bisogno di un catalizzatore per scatenare la fusione nucleare. Per le stelle, questo catalizzatore non è altro che la forza di gravità, che comprime la materia nel nucleo finché non diventa tanto calda e densa da innescare la fusione. Una volta iniziata, la fusione può alimentare una stella per miliardi di anni, sintetizzando senza sosta nuclei atomici complessi mentre estrae una fonte di entropia altrimenti inaccessibile che diffonde all’esterno per mezzo di luce e calore. Come sarà discusso nel capitolo che segue, questi prodotti – atomi complessi e un bagno costante di fotoni – sono essenziali per la formazione di strutture ancora piú ricche e complicate, compresi voi e me. Pertanto, anche se la gravità è la forza fondamentale nella formazione di una stella e nel mantenimento di un ambiente stellare stabile, da miliardi di anni è la forza nucleare a essere in prima linea, alla guida del cambiamento entropico. Da questa prospettiva, la gravità non ha il ruolo di protagonista assoluto, ma quello di partner indispensabile in un lungo duetto.
Il risultato, antropomorfizzato, è che l’universo spinge abilmente la gravità e la forza nucleare a estrarre una provvista di entropia non utilizzata che è racchiusa all’interno dei suoi costituenti materiali. Senza la gravità, le particelle distribuite in modo uniforme, come un aroma che ha riempito la casa, hanno raggiunto la massima entropia disponibile. Con la gravità, invece, le particelle compresse in grandi masse dense sostenute dalla fusione nucleare portano l’entropia ancora piú in alto.
Catalizzata dalla gravità ed eseguita dalla forza nucleare, questa versione del two-step entropico è danzata dalla materia in tutto l’universo. È un processo che ha dominato la coreografia cosmica da poco dopo il Big Bang, dando luogo alla formazione di un numero enorme di stelle – strutture astronomiche ordinate il cui calore e la cui luce, almeno in un caso, hanno reso possibile l’emergere della vita. In questo sviluppo, che esploreremo nel prossimo capitolo, entra in gioco un fattore che agisce come l’entropia, l’evoluzione, capace di dar forma alle strutture piú complesse dell’universo.
Capitolo quarto
Informazione e vitalità
Dalla struttura alla vita
«Caro professor Schrödinger», cosí iniziava una lettera senza pretese scritta nel 1953 dal biologo Francis Crick a Erwin Schrödinger, uno dei padri fondatori della meccanica quantistica e vincitore del premio Nobel per la fisica nel 1933. «Watson e io, discutendo di come siamo entrati nel settore della biologia molecolare, abbiamo scoperto che entrambi siamo stati influenzati dal vostro libriccino, Che cos’è la vita?» Dopo il riferimento al libro di Schrödinger, Crick prosegue con un’eccitazione che riesce a stento a trattenere: «Abbiamo pensato che potrebbe essere interessato alle ristampe allegate – come vedrà, sembra proprio che la sua espressione “cristallo aperiodico” si dimostrerà molto appropriata»1.
Il Watson citato da Crick è naturalmente James Watson, coautore insieme a lui delle «ristampe allegate» che, ancora fresche di stampa, comprendevano un articolo scientifico destinato a diventare uno dei piú famosi del Novecento. Nella forma pubblicata, il manoscritto occupava meno di una pagina di rivista, eppure era sufficiente per descrivere la geometria della doppia elica di DNA e per far ottenere ai suoi due autori, insieme a Maurice Wilkins del King’s College, il premio Nobel nel 19622. Sorprendentemente, anche Wilkins attribuí al libro di Schrödinger il merito di aver acceso la sua passione per la ricerca della base molecolare dell’ereditarietà; per citare le sue parole, «mi mise in moto»3.
Schrödinger scrisse Che cos’è la vita? nel 1944, basandosi su un ciclo di conferenze pubbliche che aveva tenuto l’anno precedente al Dublin Institute for Advanced Studies. Annunciando le conferenze, Schrödinger fece notare che si trattava di un argomento difficile e che «le conferenze non avrebbero avuto carattere divulgativo», un lodevole impegno per un’esplorazione approfondita dell’argomento, dichiarato nonostante il rischio di avere meno pubblico4. Ciò malgrado, nel febbraio 1943, con la seconda guerra mondiale che infuriava sul continente, un pubblico di piú di quattrocento persone – tra cui il primo ministro irlandese, vari dignitari ed esponenti dell’alta società – affollò per tre venerdí consecutivi l’aula magna arroccata in cima al Fitzgerald Building nel campus del Trinity College per ascoltare il fisico viennese cimentarsi con la scienza della vita5.
Schrödinger spiegò di essersi assegnato il compito di fare progressi in relazione a una questione primaria: «Come possono gli eventi nello spazio e nel tempo che si svolgono all’interno dei confini spaziali di un organismo vivente essere spiegati dalla fisica e dalla chimica?» Ovvero, parafrasando liberamente: i sassi e i conigli sono diversi, ma come? E perché? Gli uni e gli altri sono enormi collezioni di protoni, neutroni ed elettroni e tutte queste particelle – che siano confinate in un sasso o in un coniglio – sono governate dalle medesime leggi della fisica. Che cosa avviene nel corpo di un coniglio che rende la sua collezione di particelle cosí profondamente diversa dalla collezione di particelle che costituisce un sasso?
È il genere di domanda che porrebbe un fisico. Di solito i fisici sono riduzionisti e quindi tendono a guardare al di sotto di fenomeni complessi per cercare spiegazioni basate su proprietà e interazioni di costituenti piú semplici. Mentre i biologi spesso definiscono la vita per mezzo delle sue attività principali – la vita assorbe materie prime per alimentare funzioni autonome, elimina gli scarti generati dal processo e nei casi di maggior successo si riproduce –, Schrödinger cercava una risposta alla domanda «Che cos’è la vita?» facendo riferimento alle basi fisiche fondamentali della vita.
Il riduzionismo è molto allettante. Se riuscissimo a individuare che cosa anima una collezione di particelle, quale magia molecolare accende la fiamma della vita, sarebbe un passo avanti significativo verso la comprensione dell’origine della vita e della sua onnipresenza, o no, nel cosmo. Piú di mezzo secolo dopo, nonostante gli imponenti passi avanti della fisica e in particolare della biologia molecolare, siamo ancora alle prese con varianti della domanda di Schrödinger. Malgrado lo straordinario progresso compiuto nel decomporre la vita (e la materia piú in generale) nelle sue parti costituenti, i ricercatori stanno ancora affrontando il compito fondamentale di descrivere come emerge la vita quando le collezioni di questi costituenti sono organizzate in configurazioni particolari. Una sintesi di questo genere è una componente essenziale del programma riduzionistico. In fin dei conti, piú si analizza qualcosa di vivo nei dettagli e piú è difficile capire che è vivo. Se ci concentriamo su un’unica molecola di acqua, un solo atomo di idrogeno o un singolo elettrone, non troviamo mai qualche segno che indichi se sono elementi di qualcosa di vivo o morto, di qualcosa di animato o inanimato. La vita si riconosce dal comportamento collettivo, dall’organizzazione a larga scala, dal coordinamento complessivo di un numero enorme di costituenti elementari – una sola cellula contiene piú di un bilione di atomi. Cercare di comprendere la vita concentrandosi sulle particelle fondamentali è un po’ come esaminare una sinfonia di Beethoven strumento per strumento, nota per nota.
Una versione di questo stesso punto fu sottolineata dallo stesso Schrödinger nella sua prima conferenza. Se un corpo o un cervello potesse essere danneggiato dal movimento erratico di un solo o pochi atomi, le sue prospettive di sopravvivenza sarebbero ben scarse. Per evitare questa sensibilità, fece notare Schrödinger, il corpo e il cervello sono composti da grandi collezioni di atomi capaci di mantenere il proprio funzionamento complessivo estremamente coordinato nonostante l’agitazione casuale dei singoli atomi. L’obiettivo di Schrödinger non era quindi rivelare la vita che aleggia nel singolo atomo, ma basarsi sulla comprensione degli atomi per costruire una spiegazione da fisici di come un’enorme collezione di atomi possa formare qualcosa di vivente. A suo giudizio, questa era una ricerca di vasta portata, che probabilmente avrebbe richiesto alla scienza di ampliare la sua base di strutture concettuali. In verità, in una parte finale di Che cos’è la vita? che sfiora l’argomento della coscienza, Schrödinger suscitò qualche perplessità (e perse il suo primo editore) invocando le Upàniṣad indú per suggerire che facciamo tutti parte di un «eterno sé onnipresente che tutto comprende» e che il libero arbitrio che ciascuno di noi esercita riflette i nostri poteri divini6.
Anche se la mia opinione sul libero arbitrio è diversa da quella di Schrödinger (come vedremo nel capitolo V), condivido la sua attrazione per un ampio panorama esplicativo. Per fare chiarezza su alcuni misteri profondi è necessario un insieme di storie annidate. Che siano riduzionistiche o emergenti, matematiche o metaforiche, scientifiche o poetiche, la comprensione piú ricca si ottiene affrontando le domande da una varietà di prospettive diverse.
1. Storie annidate.
Nel corso degli ultimi secoli, i fisici hanno perfezionato la propria collezione di storie annidate organizzate secondo la scala di distanza a cui ciascuna fa riferimento. È fondamentale per un approccio che noi fisici inculchiamo incessantemente nei nostri studenti. Per capire come una palla da baseball momentaneamente deformata dal colpo violento ricevuto dalla mazza di Mike Trout riprende la sua forma sferica, occorre analizzare la struttura molecolare della palla. È qui che innumerevoli forze microfisiche respingono la deformazione e mettono la palla sulla sua strada. Questa prospettiva molecolare però è inutile per capire la traiettoria della palla. L’enorme quantità di dati necessaria per seguire il movimento di bilioni di bilioni di molecole mentre la palla vola al di sopra della recinzione sarebbe del tutto incomprensibile. Quando siamo interessati alla traiettoria, dobbiamo ingrandire l’immagine e passare dagli inutili dettagli molecolari al movimento della palla nel suo insieme. Dobbiamo raccontare una storia collegata ma di un livello superiore.
Questo esempio illustra un punto semplice ma di grande importanza: le domande che poniamo determinano quali sono le storie che offrono le risposte piú utili. È una struttura narrativa che sfrutta una delle qualità piú inaspettate della natura: a ogni scala, l’universo è coerente. Newton non era a conoscenza dei quark e degli elettroni e tuttavia se gli avessero fornito la velocità e la direzione della palla da baseball nel momento del distacco dalla mazza ne avrebbe calcolato la traiettoria a occhi chiusi. Grazie ai progressi compiuti dalla fisica dai tempi di Newton, abbiamo potuto esplorare strati sempre piú sottili della struttura, rimpolpando in misura significativa la nostra conoscenza. A ogni passo, però, la descrizione ha senso di per sé. Se cosí non fosse (se, per esempio, per comprendere il movimento di una palla fosse necessario comprendere il comportamento quantistico delle sue particelle), è difficile capire come avremmo mai potuto fare progressi. Il motto della fisica è da molto tempo «divide et impera», una strategia che ha portato a entusiasmanti trionfi.
Un compito altrettanto importante è sintetizzare le singole storie in una narrazione senza soluzione di continuità. Per la fisica delle particelle e dei campi, questa sintesi è stata perfezionata da Ken Wilson, risultato che nel 1982 gli ha valso il premio Nobel7. Wilson ha sviluppato una procedura matematica per analizzare sistemi fisici a scale di distanza diverse – da scale molto piú piccole, per esempio, di quelle esplorate dal Large Hadron Collider alle scale atomiche molto piú grandi accessibili da piú di un secolo – e collegare sistematicamente le storie, chiarendo come ciascuna passi alla successiva il peso della narrazione quando la scala si sposta al di là del proprio dominio particolare. Il metodo, chiamato gruppo di rinormalizzazione, sta al centro della fisica moderna e mostra che il linguaggio, il modello concettuale e le equazioni che si usano per analizzare la fisica a una data scala devono cambiare quando spostiamo l’attenzione su una scala diversa. Usandolo per sviluppare una collezione annidata di descrizioni distinte e descrivendo come ciascuna ispiri quelle confinanti, i fisici hanno ricavato previsioni dettagliate che sono state confermate da un gran numero di esperimenti e osservazioni.
Anche se la tecnica di Wilson è fatta su misura per gli strumenti matematici usati oggi nella fisica delle particelle ad alta energia (la meccanica quantistica e la sua generalizzazione, la teoria quantistica dei campi), il concetto fondamentale ha un’ampia applicazione. Esistono molti modi di interpretare il mondo. Nell’organizzazione tradizionale delle scienze, la fisica si occupa delle particelle elementari e delle loro varie unioni, la chimica di atomi e molecole e la biologia della vita. Questa categorizzazione, tuttora in uso ma molto meno importante rispetto a quando ero uno studente, fornisce una demarcazione tra le scienze, ragionevole seppur grossolana, in base alla scala. In tempi piú recenti, tuttavia, quanto piú approfondite sono state le indagini tanto piú ci si è resi conto che è essenziale capire le connessioni tra le discipline. Le scienze non sono separate. E quando l’attenzione si sposta dalla vita alla vita intelligente, diventano fondamentali altri settori che presentano sovrapposizioni – il linguaggio, la letteratura, la filosofia, la storia, l’arte, il mito, la religione, la psicologia e cosí via. Anche il riduzionista convinto capisce che, per quanto fatuo possa essere spiegare la traiettoria di una palla in funzione del movimento delle molecole, ancor piú sciocco sarebbe fare ricorso a una prospettiva microscopica per spiegare che cosa abbia provato un battitore al momento del lancio, mentre la folla urlava e la palla si avvicinava a tutta velocità. Storie di livello superiore raccontate nel linguaggio della riflessione umana permettono di capire molto di piú. Ciò nonostante, il punto fondamentale è che queste storie piú adatte al livello umano devono essere compatibili con la descrizione riduzionistica. Siamo creature fisiche soggette alle leggi fisiche. Pertanto non si ottiene granché quando i fisici gridano a gran voce che il loro quadro esplicativo è il piú fondamentale e gli umanisti deridono l’arroganza del riduzionismo sfrenato. Una comprensione migliore si ricava integrando la storia di ogni disciplina in una narrazione finemente strutturata8.
In questo capitolo, assumiamo un atteggiamento riduzionistico, tenendo conto che i capitoli successivi esploreranno la vita e la mente con una complementare sensibilità umanistica. Nelle prossime pagine discuteremo l’origine degli ingredienti atomici e molecolari necessari alla vita, l’origine di un particolare ambiente – la Terra e il Sole – in cui questi ingredienti si sono mescolati nel modo giusto per permettere alla vita di nascere e prosperare, ed esploreremo la profonda unità della vita sulla Terra esaminando stupefacenti processi e strutture microfisiche comuni a tutti gli esseri viventi9. Anche se non risponderemo alla domanda sull’origine della vita (è ancora un mistero), vedremo che tutta la vita sulla Terra può essere fatta risalire a una comune specie ancestrale unicellulare, il che delinea in modo preciso ciò che dovrà spiegare in ultima analisi una scienza dell’origine della vita. Passeremo quindi a esaminare la vita dalla prospettiva ampiamente applicabile della termodinamica, sviluppata nei capitoli precedenti, chiarendo che gli esseri viventi hanno una profonda affinità non solo gli uni con gli altri, ma anche con le stelle e i motori a vapore: la vita è un altro mezzo che la natura impiega per rilasciare il potenziale di entropia racchiuso nella materia.
Il mio obiettivo non è trattare l’argomento in modo esaustivo, ma fornire soltanto i dettagli necessari a farvi percepire i ritmi della natura, gli schemi che si sono ripetuti dal Big Bang alla nascita della vita sulla Terra.
2. L’origine degli elementi.
Sminuzzando qualunque cosa in precedenza viva, facendo a pezzi i suoi complessi macchinari molecolari, si trova una grande abbondanza di sei tipi di atomi, carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, fosforo e zolfo. Da dove provengono questi ingredienti atomici necessari alla vita? La risposta che è emersa rappresenta uno dei maggiori successi della cosmologia moderna.
La ricetta per costruire qualunque atomo, per quanto complesso, è diretta: unire il numero giusto di protoni con il numero giusto di neutroni, comprimerli in una pallottolina (il nucleo), circondarli di un numero di elettroni pari a quello dei protoni e metterli in orbite particolari imposte dalla fisica quantistica. Tutto qua. Il problema è che, a differenza dei mattoncini Lego, i costituenti atomici non sono facili da incastrare. Si attirano e si respingono con forza, rendendo difficile il compito di formare il nucleo. I protoni, in particolare, hanno tutti la stessa carica elettrica positiva, quindi sono necessari livelli enormi di pressione e temperatura affinché possano superare la reciproca repulsione elettromagnetica e avvicinarsi tanto da permettere alla forza nucleare forte di dominare, serrandoli in un potente abbraccio subatomico.
Le violente condizioni immediatamente dopo il Big Bang erano davvero estreme, come non si sono mai avute in nessun posto da allora, quindi sembrerebbe essere un ambiente pronto per superare la repulsione elettromagnetica e formare i nuclei atomici. Potreste supporre che in un miscuglio straordinariamente denso ed energetico di protoni e neutroni in collisione si formerebbero naturalmente agglomerati, sintetizzando una dopo l’altra tutte le specie atomiche della tavola periodica. Questo è proprio ciò che George Gamow (un fisico sovietico che al suo primo tentativo di disertare, nel 1932, cercò di attraversare un tratto di Mar Nero in un kayak riempito per lo piú di caffè e cioccolato) e il suo dottorando Ralph Alpher suggerirono alla fine degli anni Quaranta.
In parte, avevano ragione. Uno degli ostacoli, di cui si resero conto, è che nei primissimi momenti la temperatura dell’universo era troppo alta. Lo spazio era pieno di fotoni straordinariamente energetici che avrebbero fatto saltare qualsiasi unione incipiente di protoni e neutroni. Gamow e Alpher capirono anche, però, che appena un minuto e mezzo piú tardi – molto tempo dopo se si considera la velocità travolgente a cui si sviluppò l’universo primordiale – la situazione cambiò. A quel punto, la temperatura era scesa abbastanza per far sí che le energie caratteristiche dei fotoni non potessero piú sopraffare la forza nucleare forte, permettendo infine alle unioni di protoni e neutroni di persistere.
Il secondo problema, che si chiarí in seguito, è che la costruzione di atomi complessi è un processo complicato che richiede tempo. È necessaria una serie molto specifica di passi in cui determinati numeri di protoni e neutroni si combinano in vari agglomerati, che poi devono incontrare casualmente alcuni particolari agglomerati complementari, unendosi anche a questi, e cosí via. Come nelle ricette da gourmet, l’ordine in cui si combinano gli ingredienti è essenziale. Ciò che rende il processo particolarmente difficoltoso è che alcuni agglomerati intermedi sono instabili, il che vuol dire che dopo essersi formati tendono a disintegrarsi rapidamente, scombussolando le preparazioni culinarie e rallentando la sintesi atomica. Questo ostacolo è un grosso problema perché la diminuzione costante della temperatura e della densità mentre l’universo primordiale si espande a gran velocità implica che la finestra di opportunità per la fusione si chiude rapidamente. All’incirca dieci minuti dopo la creazione, la temperatura e la densità scendono al di sotto della soglia necessaria per i processi nucleari10.
Quando si rendono quantitative queste considerazioni, un compito iniziato da Alpher nella sua tesi di dottorato e in seguito perfezionato da molti ricercatori, si scopre che subito dopo il Big Bang furono sintetizzate solo poche specie atomiche. Le equazioni ci permettono di calcolarne le abbondanze relative: circa il 75 per cento di idrogeno (un protone), il 25 per cento di elio (due protoni, due neutroni) e quantità minime di deuterio (una forma pesante di idrogeno, con un protone e un neutrone), di elio-3 (una forma leggera di elio con due protoni e un neutrone) e di litio (tre protoni, quattro neutroni)11. Osservazioni astronomiche dettagliate delle abbondanze atomiche hanno confermato che queste percentuali sono esatte, un trionfo della matematica e della fisica nel chiarire i particolari dei processi avvenuti nei primi minuti dopo il Big Bang.
Che cosa si può dire di atomi piú complessi, come quelli essenziali per la vita? I primi suggerimenti riguardo alla loro origine risalgono agli anni Venti del secolo scorso. L’astronomo britannico Sir Arthur Eddington (che, quando gli domandarono come ci si sentisse a essere una delle tre persone che capivano la relatività generale di Einstein, rispose: «Sto cercando di capire chi sia la terza») imbroccò l’idea giusta: gli interni roventi delle stelle potevano fornire le Crock-Pot per cuocere lentamente specie atomiche piú complesse. La proposta passò per le mani di molti fisici geniali, tra cui il premio Nobel Hans Bethe (il mio primo ufficio era di fianco al suo e potevo regolare l’orologio con il suo immancabile e potente starnuto delle 16) e, forse ancora piú importante, Fred Hoyle (che nel 1949 in un programma della BBC parlò in modo sprezzante dell’ipotesi che l’universo fosse nato da «un grande scoppio», coniando senza volerlo uno dei soprannomi piú arguti e concisi della scienza)12, che trasformò il suggerimento in un meccanismo fisico completo e predittivo.
In confronto al ritmo vertiginoso del cambiamento subito dopo il Big Bang, le stelle offrono ambienti stabili che possono persistere per milioni se non per miliardi di anni. L’instabilità di particolari agglomerati rallenta il processo di fusione anche nelle stelle, ma avendo tempo da perdere il lavoro può comunque essere portato a termine. A differenza della situazione nel Big Bang, dopo che l’idrogeno si fonde in elio la sintesi nucleare nelle stelle non è affatto finita. Le stelle che hanno una massa sufficiente continueranno a comprimere i nuclei, portandoli a fondersi formando gli atomi piú complessi della tavola periodica, producendo al contempo notevoli quantità di luce e di calore. Per esempio, una stella con una massa pari a venti volte quella del Sole trascorrerà i suoi primi 8 milioni di anni fondendo l’idrogeno in elio, poi dedicherà un milione di anni a fondere elio in carbonio e ossigeno. Da quel momento, con la temperatura del nucleo sempre piú alta, il processo si fa sempre piú veloce: la stella impiega all’incirca un migliaio di anni per bruciare il suo contenuto di carbonio, fondendolo in sodio e neon; nei sei mesi successivi, la fusione produce magnesio poi, per un mese, zolfo e silicio e infine, in soli dieci giorni, brucia gli atomi restanti, producendo ferro13.
Ci fermiamo al ferro, per un’ottima ragione. Fra tutte le specie atomiche, il ferro presenta i legami piú stretti fra protoni e neutroni. È importante. Se si cerca di costruire specie atomiche ancora piú pesanti aggiungendo altri protoni e neutroni, si scopre che il nucleo di ferro è scarsamente interessato a partecipare. Il forte abbraccio nucleare che tiene insieme i ventisei protoni e i trenta neutroni del ferro ha già estratto e rilasciato tutta l’energia fisicamente possibile. Aggiungere protoni e neutroni richiederebbe un’immissione, non un’emissione, di energia. Di conseguenza, una volta raggiunto il ferro, la produzione sistematica da parte della fusione stellare di atomi sempre piú grandi e complessi, accompagnata dal rilascio di calore e di luce, rallenta fino a fermarsi. Come la cenere che si è formata nel focolare, il ferro non può essere bruciato ulteriormente.
Ma allora da dove arrivano tutte le specie atomiche con nuclei ancora piú grandi, tra cui elementi di grande utilità come il rame, il mercurio e il nichel, elementi molto apprezzati come l’argento, l’oro e il platino, e bizzarri pesi massimi come il radio, l’uranio e il plutonio?
Gli scienziati hanno individuato due fonti per questi elementi. Quando il nucleo di una stella è costituito soprattutto da ferro, le reazioni di fusione non generano piú l’energia e la pressione verso l’esterno necessarie per contrastare la spinta verso l’interno della gravità. La stella inizia a collassare. Se ha una massa sufficiente, il collasso accelera provocando un’implosione cosí potente da far salire vertiginosamente la temperatura del nucleo; il materiale che implode rimbalza sul nucleo e provoca un’onda d’urto spettacolare che si propaga verso l’esterno. Avanzando dal nucleo verso la superficie della stella, l’onda d’urto comprime i nuclei atomici che incontra con una tale violenza da formare una gran quantità di agglomerati nucleari piú grandi. Nel turbine del movimento caotico delle particelle, possono essere sintetizzati tutti gli elementi piú pesanti della tavola periodica e, quando alla fine raggiunge la superficie della stella, l’onda d’urto fa esplodere nello spazio la ricca varietà di atomi.
Una seconda fonte di elementi pesanti è data dalle collisioni violente fra stelle di neutroni, i corpi celesti prodotti in punto di morte da stelle con una massa pari a 10-30 volte quella del Sole. Essendo fatte per lo piú di neutroni, particelle camaleontiche che possono trasformarsi in protoni, queste stelle sono un ambiente favorevole alla formazione di nuclei atomici, poiché vi abbondano le materie prime giuste. Un ostacolo, però, è dato dal fatto che per formare nuclei atomici i neutroni devono liberarsi dalla potente stretta gravitazionale della stella. È a questo punto che torna utile una collisione fra stelle di neutroni. L’impatto può provocare l’emissione di pennacchi di neutroni, che, non avendo carica elettrica e quindi non essendo soggetti a repulsione elettromagnetica, si uniscono piú facilmente in gruppi. Quando poi alcuni di questi neutroni premono l’interruttore camaleontico e diventano protoni (rilasciando nel contempo elettroni e antineutrini), si ottiene una provvista di nuclei atomici complessi. Nel 2017, le collisioni fra stelle di neutroni, fino a quel momento giocattoli teorici, sono diventate dati osservazionali quando gli scienziati hanno rilevato le onde gravitazionali generate da queste collisioni (subito dopo la scoperta delle prime onde gravitazionali, prodotte dalla collisione tra due buchi neri). Una raffica di analisi ha determinato che le collisioni fra stelle di neutroni producono elementi pesanti in modo piú efficiente e in misura piú abbondante delle esplosioni di supernove, quindi è possibile che la maggior parte degli elementi pesanti dell’universo sia stata prodotta grazie a questi scontri astrofisici.
Un vasto assortimento di specie atomiche, fuse nelle stelle ed espulse da esplosioni di supernove, o provenienti da collisioni stellari e amalgamate in pennacchi di particelle, fluttua nello spazio, dove turbinano insieme e si uniscono in grandi nubi di gas, che poi formano di nuovo stelle e pianeti, e infine noi. Questa è l’origine degli ingredienti che costituiscono qualunque cosa abbiate mai incontrato.
3. L’origine del sistema solare.
Il Sole, che ha poco piú di 4,5 miliardi di anni, è un nuovo arrivato nel cosmo. Non ha fatto parte della prima generazione di stelle dell’universo. Come abbiamo visto nel capitolo III, queste prime stelle ebbero origine da fluttuazioni quantistiche della densità di materia ed energia che vennero dilatate nello spazio dall’espansione inflazionaria. Le simulazioni di questi processi rivelano che le prime stelle si accesero all’incirca 100 milioni di anni dopo il Big Bang, entrando in scena in modo tutt’altro che delicato. Probabilmente erano mastodontiche, con una massa pari a centinaia o forse migliaia di volte quella del Sole, e bruciavano con una tale intensità da esaurirsi rapidamente. Le piú pesanti morirono in un’implosione gravitazionale tanto vigorosa da farle collassare in buchi neri, configurazioni estreme di materia su cui concentreremo l’attenzione piú avanti nel nostro viaggio. Le prime stelle meno massive finirono con poderose esplosioni di supernova che, oltre a disseminare lo spazio di atomi complessi, diedero inizio al girone successivo di formazione stellare. Come l’onda d’urto di una supernova che si propaga in una stella ne fonde violentemente i costituenti atomici, un’onda d’urto fragorosa che attraversa lo spazio comprime le nubi di ingredienti molecolari che incontra. Le regioni compresse, essendo piú dense, esercitano un’attrazione gravitazionale maggiore sull’ambiente circostante, attirando ancora altri costituenti elementari e dando l’avvio a un nuovo ciclo di effetto valanga gravitazionale che porta alla successiva generazione di stelle.
Sulla base della composizione del Sole – le quantità di vari elementi pesanti che contiene oggi, determinati da misurazioni spettroscopiche – i fisici solari ritengono che sia una stella di terza generazione, nipote delle prime stelle dell’universo. Vi è però molta incertezza riguardo a dove si formò originariamente. Una possibilità che è stata indagata è che sia nato nell’ammasso aperto conosciuto come Messier 67, a circa 3000 anni-luce di distanza, le cui stelle hanno una composizione chimica a quanto pare simile a quella del Sole, il che suggerisce una forte somiglianza familiare. Il problema, ancora irrisolto, è spiegare come il Sole e i pianeti del sistema solare (o il disco protoplanetario da cui si sarebbero poi formati i pianeti) sarebbero potuti arrivare fin qui una volta espulsi da quel distante vivaio stellare. Alcuni studi delle potenziali traiettorie hanno concluso che non vi è praticamente alcuna possibilità che Messier 67 sia il luogo di nascita del Sole, mentre altri, ricorrendo a varie modifiche degli assunti, hanno prodotto risultati piú incoraggianti14.
Quel che possiamo dire con piú certezza è che circa 4,7 miliardi di anni fa l’onda d’urto di una supernova probabilmente attraversò una nube contenente idrogeno, elio e piccole quantità di atomi piú complessi, comprimendo parte della nube e questa, essendo diventata piú densa della regione circostante, esercitò un’attrazione gravitazionale maggiore e quindi iniziò ad attirare materiale. Per qualche centinaio di migliaia di anni, questa regione della nube di gas continuò a contrarsi, dapprima ruotando lentamente e poi piú velocemente, come una leggiadra pattinatrice che raccoglie le braccia al petto mentre ruota su sé stessa. La nube in rotazione fu sottoposta alla stessa spinta verso l’esterno a cui è soggetta la pattinatrice mentre gira su sé stessa (che solleva le frange del suo costume), di conseguenza le sue regioni piú esterne si diffusero e si appiattirono, formando un disco rotante attorno a una piccola regione sferica al centro. Nei successivi 50-100 milioni di anni, la nube di gas eseguí una versione lenta e costante del two-step entropico gravitazionale discusso nel capitolo III. La forza gravitazionale compresse il nucleo sferico, che divenne sempre piú caldo e denso, mentre il materiale circostante si raffreddava e si assottigliava. La diminuzione dell’entropia del nucleo fu ampiamente compensata dall’aumento dell’entropia della regione circostante. Infine, la temperatura e la densità del nucleo superarono la soglia richiesta per innescare la fusione nucleare.
Nacque cosí il Sole.
Per qualche milione di anni, grazie all’effetto valanga gravitazionale i detriti avanzati dalla formazione del Sole, corrispondenti a non piú di qualche decimo di punto percentuale dell’originario disco rotante, si unirono nel corso di numerosi cicli di effetto valanga gravitazionale formando i pianeti del sistema solare. Le sostanze piú leggere e volatili – idrogeno ed elio, come pure metano, ammoniaca e acqua – che non avrebbero resistito all’intensa radiazione solare si accumularono piú abbondantemente nelle regioni esterne piú fredde del sistema solare, formando i giganti gassosi, Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Elementi piú pesanti e robusti, come il ferro, il nichel e l’alluminio, piú resistenti alle temperature maggiori di ambienti piú vicini al Sole, si consolidarono formando i pianeti interni piú piccoli e rocciosi, Mercurio, Venere, la Terra e Marte. Essendo molto meno massivi del Sole, i pianeti possono sostenere il proprio peso modesto grazie all’intrinseca resistenza alla compressione dei propri atomi. Le temperature del nucleo e le pressioni interne dei pianeti aumentano, ma senza avvicinarsi ai livelli necessari per l’avvio della fusione nucleare, producendo gli ambienti relativamente temperati a cui la vita – di certo la nostra e forse ogni forma di vita nell’universo – deve essere quanto mai grata.
4. La Terra giovane.
I primi 500 milioni di anni della Terra costituiscono il periodo Adeano, che prende il nome dal dio greco Ade che regnava sull’oltretomba e indica un’era infernale di scatenate eruzioni vulcaniche, fiotti di rocce fuse e densi fumi nocivi di zolfo e cianuro. Oggi, però, alcuni scienziati sospettano che come simbolo della Terra giovane si potrebbe scegliere Poseidone. Il cambiamento radicale, ancora dibattuto, si basa su prove non piú consistenti di granelli di polvere. Anche se non sono disponibili campioni di rocce di quel periodo, i ricercatori hanno individuato cristalli di zircone, antichi frammenti traslucidi che si formarono quando la lava fusa si raffreddò e si consolidò. I cristalli di zircone si stanno dimostrando fondamentali per comprendere il primo sviluppo della Terra perché non solo sono praticamente indistruttibili, essendo sopravvissuti a miliardi di anni di sconvolgimenti geologici, ma costituiscono anche capsule del tempo in miniatura. Quando si formano, i cristalli di zircone intrappolano campioni molecolari dell’ambiente, che possiamo datare per mezzo dei normali metodi di datazione radioattiva. Analizzando in maniera accurata le impurità presenti nei cristalli di zircone, campioniamo le condizioni della Terra arcaica.
Un ritrovamento avvenuto in Australia occidentale ha portato alla luce cristalli di zircone risalenti a 4,4 miliardi di anni fa, appena un paio di centinaia di milioni di anni dopo la formazione della Terra e del sistema solare. Analizzandone nei dettagli la composizione, i ricercatori hanno ipotizzato che le antiche condizioni della Terra potrebbero essere state molto piú favorevoli di quanto si pensasse in precedenza. È possibile che la Terra dei primordi fosse un mondo di acque relativamente tranquille, con piccole masse continentali che punteggiavano una superficie coperta soprattutto dall’oceano15.
Ciò non significa che la storia della Terra non ebbe momenti estremamente drammatici. All’incirca 50-100 milioni di anni dopo la sua nascita, probabilmente la Terra entrò in collisione con Theia, un pianeta delle dimensioni di Marte. Se questa ipotesi è corretta, lo scontro vaporizzò la crosta terrestre, distrusse Theia e spinse nello spazio, a migliaia di chilometri di distanza, una nube di polvere e gas. Nel corso del tempo, la nube si addensò per effetto della gravità, formando la Luna, uno dei piú grandi satelliti planetari del sistema solare e ricordo notturno di quello scontro violento. A fornire un altro ricordo sono le stagioni. Abbiamo estati calde e inverni freddi perché l’asse inclinato della Terra influenza l’angolo di incidenza dei raggi solari, che in estate arrivano quasi perpendicolarmente e in inverno obliqui. Lo scontro con Theia è la probabile causa dell’inclinazione della Terra. Pur essendo eventi meno sensazionali di una collisione fra pianeti, tanto la Terra quanto la Luna subirono notevoli bombardamenti di meteore di dimensioni minori. Sulla Luna, la mancanza di erosione eolica e la sua crosta statica hanno preservato i segni di questi impatti, ma i colpi ricevuti dalla Terra, i cui segni oggi sono meno visibili, furono altrettanto forti. Alcuni dei primi impatti potrebbero aver vaporizzato in parte o addirittura del tutto l’acqua sulla superficie del pianeta. Ciò nonostante, gli archivi di zircone indicano che è possibile che dopo qualche centinaio di milioni di anni dalla sua formazione la Terra si fosse raffreddata abbastanza da permettere al vapore atmosferico di piovere dal cielo, riempire gli oceani e produrre un suolo non tanto diverso da quello che conosciamo oggi. Questa, quanto meno, è una delle conclusioni raggiunte in base all’analisi dei cristalli.
L’intervallo di tempo che fu necessario alla Terra per diventare un ambiente tranquillo ed esibire una grande abbondanza d’acqua – che si tratti di centinaia di milioni di anni o di un periodo ancora piú lungo – è argomento di accese discussioni poiché è direttamente legato al problema di quando, nella nostra storia geologica, emerse per la prima volta la vita. Mentre sarebbe eccessivo dire che dove c’è acqua allo stato liquido c’è vita, possiamo affermare con una certa sicurezza che in assenza di acqua in forma liquida non c’è vita, per lo meno il tipo di vita che conosciamo.
Vediamo perché.
5. La vita, la fisica quantistica e l’acqua.
L’acqua è tra le sostanze naturali piú familiari e tuttavia importanti. La sua composizione molecolare, H2O, è diventata per la chimica ciò che la relazione einsteiniana E = mc2 è per la fisica, vale a dire la formula piú famosa della disciplina. Analizzandola, otteniamo informazioni sulle caratteristiche distintive dell’acqua e sviluppiamo alcune delle idee fondamentali del programma di Schrödinger per comprendere la vita a livello della fisica e della chimica.
A metà degli anni Venti del secolo scorso, molti tra i migliori fisici del mondo intuivano che l’ordine comunemente accettato era a un passo da uno sconvolgimento radicale. Le idee newtoniane, le cui previsioni del moto di pianeti orbitanti e sassi scagliati in aria avevano rappresentato per secoli il gold standard della precisione, se applicate a particelle minuscole come gli elettroni fallivano miseramente. Con i dati indisciplinati che sgorgavano dal micromondo, i mari calmi della comprensione newtoniana si fecero turbolenti. Ben presto i fisici si ritrovarono a lottare solo per restare a galla. Il lamento di Werner Heisenberg, mormorato mentre camminava senza meta in un parco deserto di Copenaghen dopo una notte di calcoli estenuanti trascorsa insieme a Niels Bohr, riassumeva bene la situazione: «È possibile che la natura sia cosí assurda come ci appariva in quegli esperimenti atomici?»16. La risposta, un clamoroso sí, arrivò nel 1926 da un modesto fisico tedesco, Max Born, che superò l’impasse concettuale introducendo un paradigma quantistico radicalmente nuovo. Born sostenne che un elettrone (o qualsiasi particella) può essere descritto solo in termini della probabilità di trovarlo in una data posizione. In un colpo solo, il familiare mondo newtoniano in cui gli oggetti hanno sempre una posizione precisa lasciò il posto a una realtà quantistica in cui una particella potrebbe essere qui, lí o da tutt’altra parte. Lungi dall’essere un fallimento, l’incertezza insita in uno schema probabilistico rivelava una caratteristica intrinseca della realtà quantistica a lungo trascurata dal modello newtoniano, estremamente fecondo e tuttavia dimostrabilmente grossolano. Newton aveva basato le sue equazioni sul mondo che poteva osservare. Un paio di secoli dopo, abbiamo imparato che esiste una realtà inaspettata che è fuori dalla portata delle nostre deboli percezioni umane.
La proposta di Born fu formulata con precisione matematica17. Born spiegò che un’equazione pubblicata da Schrödinger qualche mese prima permetteva di prevedere le probabilità quantistiche. Schrödinger, come chiunque altro, lo ignorava. Tuttavia, quando gli scienziati seguirono la direttiva di Born, scoprirono che le equazioni funzionavano. E lo facevano in maniera spettacolare. Dati di cui in precedenza si rendeva conto grazie a regole empiriche ad hoc o che erano risultati inspiegabili potevano finalmente essere capiti grazie ad analisi matematiche sistematiche.
Applicata agli atomi, la prospettiva quantistica abbandona il «modello a sistema solare», che raffigurava gli elettroni in orbita intorno al nucleo come pianeti in orbita intorno al Sole. Al suo posto, la meccanica quantistica immagina un elettrone come una nuvola intorno al nucleo, la cui densità in ogni dato punto indica la probabilità che l’elettrone si trovi lí. Trovare un elettrone dove la sua nuvola di probabilità è rarefatta è improbabile, mentre è probabile trovarlo dove la nuvola è densa.
L’equazione di Schrödinger rende matematicamente esplicita questa descrizione, determinando la forma e il profilo di densità di una nuvola di probabilità di un elettrone e inoltre stabilendo in modo preciso – e questo è il punto fondamentale per la nostra discussione – quanti elettroni dell’atomo possono trovare posto in una nuvola18. I dettagli diventano rapidamente ostici per i profani, ma per capire le caratteristiche essenziali potete pensare al nucleo di un atomo come a un palcoscenico centrale e ai suoi elettroni come a un pubblico che osserva l’azione dalle poltrone degli ordini circostanti, in un teatro ad arena. In questo «teatro quantistico», l’equazione di Schrödinger applicata agli atomi detta il modo in cui il pubblico di elettroni riempie le poltrone.
Come vi potete aspettare in base alla vostra esperienza delle scale dei teatri reali, quanto piú alto è l’ordine tanto maggiore è l’energia di cui ha bisogno l’elettrone per raggiungerlo. Pertanto quando un atomo è quanto piú calmo possibile, nella configurazione di minima energia, i suoi elettroni costituiscono un pubblico ordinatissimo, che sale a un ordine superiore solo se quelli inferiori sono completamente occupati. Quando l’energia dell’atomo è minima, nessun elettrone sale piú in alto di quanto sia strettamente necessario. Quanti elettroni può ospitare un dato ordine di posti? L’equazione di Schrödinger fornisce la risposta, una norma antincendio universale che si applica a tutti i teatri quantistici: sul primo ordine sono consentiti al piú due elettroni, sul secondo otto, sul terzo diciotto, e cosí via, come specificato dall’equazione. Se l’energia di un atomo dovesse aumentare, per esempio perché viene colpito da un laser potente, alcuni dei suoi elettroni potrebbero essere abbastanza agitati da saltare su un ordine superiore, ma questa esuberanza durerebbe poco. Questi elettroni eccitati ricadono rapidamente sull’ordine originario, emettendo energia (trasportata da fotoni) e riportando l’atomo nella configurazione piú calma19.
L’equazione rivela anche un’altra peculiarità, una sorta di disturbo ossessivo-compulsivo che è un motore primario di reazioni chimiche in tutto il cosmo. Gli atomi hanno un’avversione per gli ordini occupati solo parzialmente. Vanno bene gli ordini vuoti e vanno bene anche gli ordini pieni, ma un’occupazione parziale li fa impazzire. Alcuni atomi hanno la fortuna di avere il numero giusto di elettroni per raggiungere la piena occupazione da soli. L’elio contiene due elettroni, per bilanciare la carica elettrica dei suoi due protoni, ed essi riempiono tranquillamente il primo ordine. Il neon ha dieci elettroni, per bilanciare la carica elettrica dei suoi dieci protoni, ed essi riempiono altrettanto tranquillamente il primo ordine, che ne ospita due, e il secondo, che ospita i restanti otto. Nel caso della maggior parte degli atomi, però, il numero di elettroni necessario per bilanciare il numero di protoni non riempie un insieme completo di ordini20.
Che cosa fanno, quindi?
Praticano il baratto con altre specie atomiche. Se voi siete un atomo con un ordine superiore che ha bisogno di altri due elettroni e io sono un atomo con un ordine superiore occupato da due elettroni, se io vi dono due elettroni, entrambi soddisfaremo il desiderio di occupazione dell’altro: con la donazione, entrambi avremo ordini del tutto completi. Notate anche che accettando i miei elettroni voi acquisirete una carica netta negativa e io, donando i miei elettroni, acquisirò una carica netta positiva – e, dato che cariche opposte si attraggono, voi e io ci abbracceremo formando una molecola elettricamente neutra. Oppure, se voi e io, per esempio, abbiamo entrambi bisogno di un elettrone in piú per completare i nostri ordini superiori, possiamo fare un altro accordo: possiamo donare entrambi un elettrone mettendolo in comune, anche in questo caso soddisfacendo ciascuno il desiderio di occupazione dell’altro e, mediante il legame del nostro elettrone in comune, combinandoci in una molecola elettricamente neutra. Questi processi, che riempiono gli ordini di elettroni unendo gli atomi, sono ciò che intendiamo per reazioni chimiche. Forniscono il modello di queste reazioni qui sulla Terra, nei sistemi viventi, e in tutto l’universo.
L’acqua rappresenta un esempio importante. L’ossigeno contiene otto elettroni, due nel primo ordine e sei nel secondo, quindi punta ad acquisirne altri due, cercando di raggiungere il massimo livello di occupazione del secondo ordine. Una fonte facilmente disponibile è l’idrogeno. Ogni atomo di idrogeno ha un unico elettrone, che se ne sta da solo a girarsi i pollici nel primo ordine. Se un atomo di idrogeno ha l’opportunità di riempire questo ordine con un altro elettrone, sarà lieto di farlo. Pertanto l’ossigeno e l’idrogeno accettano di mettere in comune due elettroni, il che soddisfa pienamente l’idrogeno e porta l’ossigeno piú vicino di un elettrone alla beatitudine orbitale. Con un secondo atomo di idrogeno che mette in comune due elettroni con l’ossigeno si raggiunge l’estasi. La condivisione di questi elettroni lega l’atomo di ossigeno ai due atomi di idrogeno, dando origine a una molecola di acqua, H2O.
La geometria di questa unione ha conseguenze di vasta portata. Le forze che attraggono e respingono gli atomi danno a tutte le molecole di acqua la forma di una V allargata, con l’ossigeno al vertice e ciascun atomo di idrogeno appollaiato a una delle punte. Anche se non ha una carica elettrica netta, poiché l’ossigeno è un maniaco del completamento dei suoi ordini orbitali, H2O accumula elettroni condivisi, determinando una distribuzione asimmetrica della carica. Il vertice della molecola, sede dell’ossigeno, ha una carica netta negativa, mentre le punte, dove stanno i due atomi di idrogeno, hanno una carica netta positiva.
La distribuzione della carica elettrica in una molecola di acqua può sembrare un dettaglio esoterico. Ma non lo è. Si dimostra essenziale per l’emergere della vita. A causa dell’asimmetria della distribuzione della carica, l’acqua può disciogliere quasi qualsiasi cosa. L’ossigeno a carica negativa nel vertice cattura qualunque cosa con una carica anche leggermente positiva e l’idrogeno a carica positiva nelle punte cattura qualunque cosa con una carica anche leggermente negativa. Insieme, le due estremità di una molecola di acqua si comportano come tenaglie che fanno a pezzi quasi qualunque cosa che resti sommersa per un tempo sufficiente.
Il sale da cucina è l’esempio piú familiare. Una molecola di sale da cucina, che è composta da un atomo di sodio legato a un atomo di cloro, ha una carica leggermente positiva vicino al sodio (che dona un elettrone al cloro) e una carica leggermente negativa vicino al cloro (che accetta un elettrone dal sodio). Lasciando cadere il sale nell’acqua, l’ossigeno di H2O (a carica negativa) cattura il sodio (a carica positiva), mentre l’idrogeno di H2O (a carica positiva) cattura il cloro (a carica negativa), facendo a pezzi le molecole di sale e sciogliendole nella soluzione. Ciò che è vero per il sale è vero anche per moltissime altre sostanze. I dettagli variano, ma la disposizione asimmetrica della sua carica fa dell’acqua un solvente straordinario. Quando ci laviamo le mani, anche senza sapone, la polarità elettrica dell’acqua lavora sodo, sciogliendo e portando via le sostanze estranee.
Ben al di là della sua utilità nell’igiene personale, la capacità dell’acqua di catturare e inglobare sostanze è indispensabile per la vita. L’interno delle cellule è un laboratorio chimico in miniatura il cui funzionamento richiede il rapido movimento di una vasta collezione di ingredienti: sostanze nutrienti in entrata, scarti in uscita, rimescolamento di sostanze chimiche per sintetizzare quelle necessarie per le funzioni cellulari, e cosí via. L’acqua rende possibile tutto ciò. L’acqua, che costituisce all’incirca il 70 per cento della massa di una cellula, è il liquido di trasporto della vita. Il Nobel Albert Szent-Györgyi ha riassunto il concetto in modo efficace: «L’acqua è la materia e la matrice, la madre e il mezzo della vita. Non esiste vita senza acqua. La vita poté lasciare l’oceano quando imparò a sviluppare l’epidermide, un sacco con cui portare l’acqua con sé. Viviamo ancora nell’acqua, avendola oggi dentro di noi»21. Come forma poetica, queste parole sono un’ode piena di grazia all’acqua e alla vita. Dal punto di vista scientifico, non abbiamo ancora argomenti per dimostrarne la validità universale, ma non conosciamo alcuna forma di vita che metta in discussione la necessità dell’acqua.
6. L’unità della vita.
Avendo esaminato la sintesi di atomi semplici e complessi, l’origine del Sole e della Terra, la natura delle reazioni chimiche e la necessità dell’acqua, ora siamo in grado di passare alla vita stessa. Anche se potrebbe sembrare naturale iniziare dalla genesi della vita, questo argomento è un mistero ancora irrisolto che si affronta meglio dopo aver esplorato le qualità molecolari piú caratteristiche della vita stessa. Per qualcuno come me, che ho dedicato gli ultimi trent’anni alla ricerca di una teoria unificata delle forze fondamentali della natura, questa esplorazione rivela una stupefacente unità biologica. Non conosciamo il numero esatto delle specie di questo pianeta, dai microbi ai lamantini, ma in base alle stime proposte da diversi studi va da un minimo di qualche milione a un massimo di qualche bilione. Quale che sia esattamente, si tratta senza dubbio di un numero enorme. L’abbondanza delle specie, però, nasconde la natura unica dei meccanismi interni della vita.
Se si esamina abbastanza da vicino un tessuto vivente, si incontrano i «quanti» della vita, le cellule, le piú piccole unità del tessuto che definiremmo viventi. Indipendentemente dalla loro origine, le cellule hanno in comune talmente tante caratteristiche che esaminando singoli campioni un occhio inesperto farebbe fatica a distinguere un topo da un mastino, una tartaruga da una tarantola, una mosca da un essere umano. È davvero sorprendente. Forse pensate che le nostre cellule mostrino necessariamente un evidente segno distintivo importante. Ma non è cosí. La ragione, stabilita negli ultimi decenni, è che tutta la vita multicellulare complessa discende dalla stessa specie unicellulare ancestrale. Le cellule sono simili perché le loro linee evolutive si irradiano dallo stesso punto di partenza22.
È un fatto molto importante. Date le sue numerose incarnazioni, la vita potrebbe aver avuto molte origini distinte. Ripercorrere la linea evolutiva dei molluschi potrebbe rivelare un certo punto di partenza, ma ricostruire quella dei vombati o delle orchidee potrebbe rivelarne altri. I dati però inducono senz’altro a ritenere che, se si indaga l’origine della vita, le linee evolutive convergono in un antenato comune. Due qualità onnipresenti della vita rendono l’argomento ancora piú convincente. Entrambe illustrano la profonda comunanza fra tutte le forme di vita. La prima, e piú conosciuta, riguarda l’informazione: il modo in cui le cellule codificano e utilizzano l’informazione che dirige le funzioni che sostengono la vita. La seconda, altrettanto importante ma meno famosa, riguarda l’energia: il modo in cui le cellule sfruttano, immagazzinano e impiegano l’energia necessaria per svolgere le funzioni vitali. Esaminando entrambe, vedremo che in tutta la spettacolare varietà delle forme di vita sulla Terra i dettagli dei processi sono identici.
7. L’unità dell’informazione della vita.
Se vediamo un coniglio che si muove, capiamo che è vivo. Anche un sasso si può muovere, naturalmente. La forte corrente di un fiume può spingerlo verso valle e un’eruzione vulcanica può scagliarlo verso il cielo. La differenza è che il movimento del sasso può essere compreso pienamente, e persino previsto, in base alle forze esterne a cui è sottoposto. Se ne so abbastanza della corrente o dell’eruzione, posso determinare con una ragionevole approssimazione che cosa succederà. Prevedere il movimento del coniglio è piú difficile. L’attività all’interno di ciò che Schrödinger chiamava il «confine spaziale» del coniglio – la sua attività interna – è un fattore decisivo nella sua locomozione. Il coniglio arriccia il naso, gira la testa, sbatte le zampe e tutto ciò fa sembrare che abbia una sua volontà. Che il coniglio o qualsiasi forma di vita (compresi noi) abbia o no una volontà autonoma è una questione che viene dibattuta da secoli e che affronteremo nel prossimo capitolo, quindi non areniamoci nei dettagli della questione. Per il momento, possiamo tutti convenire che, mentre l’attività all’interno del sasso non ha praticamente alcuna importanza per il movimento che osserviamo, i movimenti coordinati, complessi e autodeterminati del coniglio ci informano che è vivo.
Non è un criterio diagnostico infallibile. I sistemi automatizzati possono eseguire movimenti fondamentalmente simili e grazie al continuo progresso tecnologico la capacità di emulare la vita si affinerà sempre di piú. Ma ciò non fa altro che sottolineare il punto piú generale: il genere di movimento che stiamo considerando emerge da un’interazione tra informazione ed esecuzione o, come potremmo dire, tra software e hardware. Nel caso di un sistema automatizzato, è una descrizione letterale. I droni, le auto a guida autonoma, i robot aspirapolvere e simili sono governati da software che elabora i dati ambientali e produce una risposta che viene eseguita da componenti hardware, che siano ali, rotori o ruote. Nel caso di un coniglio, è una descrizione metaforica. Ciò nonostante, il paradigma software-hardware è particolarmente utile anche per riflettere sulla vita. Il coniglio accumula dati sensoriali dall’ambiente, li analizza con un «computer neurale» (il suo cervello), che invia segnali ricchi di informazioni lungo le vie nervose – mangia il ciuffo di trifoglio, salta al di là dei ramoscelli caduti, e cosí via – che infine si traducono in azioni fisiche. Il movimento del coniglio deriva dall’elaborazione e dalla trasmissione interne di un insieme complesso di istruzioni che attraversa la sua struttura fisica: il software biologico guida l’hardware biologico. In un sasso non avvengono mai processi di questo genere.
Se esaminiamo piú a fondo una singola cellula del coniglio, incontriamo un insieme di processi simili che si verificano a una scala piú piccola. In massima parte le funzioni di una cellula sono svolte dalle proteine, grandi molecole che catalizzano e regolano reazioni chimiche, trasportano sostanze essenziali e controllano proprietà dettagliate come la forma e il movimento delle cellule. Le proteine sono composte da combinazioni di venti sottounità piú piccole, gli amminoacidi, un po’ come le parole della lingua inglese sono costituite da varie combinazioni di ventisei lettere. Affinché le parole siano sensate, le lettere devono essere disposte in un ordine preciso e, nello stesso modo, affinché le proteine siano utilizzabili, gli amminoacidi devono essere legati in specifiche sequenze. Se questo assemblaggio fosse lasciato al caso, la probabilità che gli amminoacidi richiesti si incontrino casualmente nel modo giusto per costruire una data proteina sarebbe quasi nulla, come risulta evidente se si considera il gran numero di modi in cui venti amminoacidi diversi si possono legare in una lunga catena: nel caso di una catena di 150 amminoacidi (una piccola proteina), le disposizioni diverse sono 10195, vale a dire molte di piú delle particelle presenti nell’universo osservabile. Come la proverbiale squadra di scimmie che digitando lettere a caso su una tastiera per qualche decennio non riuscirebbe a scrivere qualcosa di piú di «Essere o non essere», il caso non riuscirebbe a creare le specifiche proteine necessarie alla vita.
La sintesi di proteine complesse richiede un insieme di istruzioni che specificano un processo che si sviluppa per passi successivi – aggancia questo amminoacido a quello, poi attaccalo a questo, seguito da quell’altro, e cosí via. In altre parole, la sintesi delle proteine richiede un software cellulare. E queste istruzioni si trovano all’interno di ogni cellula. Sono codificate dal DNA, la sostanza chimica vitale la cui architettura geometrica è stata scoperta da Watson e Crick.
Ogni molecola di DNA è configurata nella famosa spirale della doppia elica, una lunga scala attorcigliata i cui pioli consistono di coppie di molecole piú piccole chiamate basi, usualmente indicate dalle lettere A, T, G e C (i nomi per esteso, che comunque qui non ci interessano, sono adenina, timina, guanina e citosina). Per lo piú, i membri di una data specie hanno la stessa sequenza di lettere. Nel caso degli esseri umani, la sequenza di DNA è lunga circa 3 bilioni di lettere e la vostra sequenza differisce da quella di Albert Einstein, Marie Curie, William Shakespeare o chiunque altro di meno di un quarto di punto percentuale, il che corrisponde piú o meno a una lettera ogni cinquecento23. Se però vi beate della gloria di possedere un genoma tanto simile a quello di uno qualsiasi dei luminari piú rispettati (o dei criminali piú scellerati) della storia, tenete presente che la vostra sequenza di DNA coincide al 99 per cento con quella di qualsiasi scimpanzé24. Differenze genetiche minime possono avere un grande impatto.
Per costruire i pioli della scala di DNA, le basi si accoppiano seguendo una regola ben precisa: una A su un montante si attacca a una T sull’altro montante e una G su un montante si attacca a una C sull’altro. La sequenza di basi su un lato della scala determina quindi in maniera univoca la sequenza sull’altro lato. Ed è nella sequenza di lettere che troviamo, fra altre informazioni cellulari vitali, le istruzioni che specificano i collegamenti fra amminoacidi, dirigendo la sintesi di un insieme specie-specifico di proteine essenziali per quella forma di vita.
Tutte le forme di vita codificano nello stesso modo le istruzioni per produrre le proteine25.
In un solo capoverso forse troppo dettagliato, ecco ora il manuale del funzionamento di questo codice Morse molecolare usato da tutte le forme di vita. Gruppi di tre lettere consecutive su un dato montante di DNA indicano un particolare amminoacido nella collezione di venti26. Per esempio, la sequenza CTA indica l’amminoacido leucina, la sequenza GCT indica l’amminoacido alanina, la sequenza GTT indica la valina, e cosí via. Se esaminando i pioli attaccati a un montante di un segmento di DNA leggessimo la sequenza di nove lettere CTAGCTGTT, questa indicherebbe che occorre legare la leucina (le prime tre lettere, CTA) all’alanina (le seconde tre lettere, GCT) e poi alla valina (le ultime tre lettere, GTT). Una proteina formata, poniamo, da mille amminoacidi legati sarebbe codificata da una specifica sequenza di tremila lettere (anche la posizione di partenza e quella finale di ciascuna sequenza sono codificate da particolari sequenze di tre lettere, come una lettera maiuscola e un punto indicano l’inizio e la fine di questa frase). Una tale sequenza costituisce un gene, l’insieme di istruzioni per la costruzione di una proteina27.
Le ragioni per cui ho descritto i dettagli sono due. La prima è che vedere la codifica rende esplicito il concetto di software cellulare. Dato un segmento di DNA, possiamo leggere le istruzioni che dirigono il funzionamento interno della cellula, un coordinamento complesso del tutto assente nella materia inanimata. La seconda ragione è che vedere la codifica dimostra che cosa intendono i biologi quando dicono che è universale. Ogni molecola di DNA, che sia di un’alga marina o di Sofocle, codifica nello stesso modo le informazioni necessarie per costruire le proteine.
Questa è l’unità dell’informazione della vita.
8. L’unità dell’energia della vita.
Un motore a vapore richiede un approvvigionamento costante di energia, per continuare a spingere il pistone, e anche la vita ne ha bisogno, per svolgere funzioni essenziali, dalla crescita e dalla riparazione al movimento e alla riproduzione. Per il motore a vapore, estraiamo energia dall’ambiente. Bruciamo carbone, legna o qualche altro combustibile e il calore cosí generato è consumato dal meccanismo interno del motore, facendo espandere il vapore. Anche gli esseri viventi estraggono energia dall’ambiente. Gli animali estraggono energia dal cibo, le piante dalla luce solare. A differenza del motore a vapore, però, la vita in generale non usa immediatamente questa energia. I processi della vita, essendo piú complessi dell’espansione o della contrazione del vapore, richiedono un sistema piú elaborato per la fornitura e la distribuzione dell’energia. La vita ha bisogno che l’energia ricavata dal combustibile bruciato venga immagazzinata e distribuita con parsimonia in modo regolare e certo quando i costituenti cellulari lo richiedono.
Tutte le forme di vita affrontano la sfida di estrarre e distribuire l’energia nello stesso modo28.
La soluzione universale che la vita ha escogitato, una sequenza complessa di processi che sono in corso in questo preciso istante dentro di voi e di me e, per quanto ne sappiamo, di tutti gli altri esseri viventi, è fra i risultati piú stupefacenti realizzati dalla natura. La vita estrae energia dall’ambiente per mezzo di un tipo di lenta combustione chimica e immagazzina quell’energia caricando batterie biologiche presenti in tutte le cellule. Questi pacchi batteria cellulari forniscono una fonte costante di elettricità che le cellule usano per sintetizzare molecole fatte apposta per trasportare e fornire energia a ogni componente cellulare.
Può sembrare complicato. È complicato. È anche vitale. Quindi cercherò di spiegarlo brevemente. Se non capite tutti i dettagli, non importa. Anche un esame sommario rivela le meraviglie del modo in cui la vita alimenta il suo funzionamento interno.
La combustione chimica fondamentale per il modo in cui la vita elabora l’energia è la cosiddetta reazione redox. Non è il piú allettante dei nomi, ma il suo archetipo – un ceppo che arde – lo chiarisce perfettamente. Quando un pezzo di legno arde, il carbonio e l’idrogeno che contiene cedono elettroni all’ossigeno dell’aria (ricordate, l’ossigeno è affamato di elettroni), legandoli in molecole di acqua e di anidride carbonica, rilasciando energia (che è il motivo per cui il fuoco è caldo). Quando l’ossigeno cattura gli elettroni, diciamo che si è ridotto (potete pensarla come una riduzione della sua fame di elettroni). Quando il carbonio o l’idrogeno cede elettroni all’ossigeno, diciamo che si è ossidato. La reazione globale di ossidoriduzione è detta, in breve, redox.
Oggi gli scienziati usano il termine «redox» in senso piú generale, riferendosi a un insieme di reazioni in cui vi è uno scambio di elettroni fra costituenti chimici diversi, che l’ossigeno sia coinvolto o no. In ogni caso, un ceppo ardente offre un modello pertinente per descrivere la combustione chimica. Atomi famelici, oppressi dal riempimento parziale degli ordini, catturano elettroni di donatori atomici con un abbraccio tanto potente che nel processo viene rilasciata una quantità significativa di energia.
Nelle cellule viventi – consideriamo il caso degli animali, per essere precisi – avvengono reazioni redox simili, ma la differenza importante è che gli elettroni strappati dagli atomi che avete ingerito a colazione non vengono trasferiti direttamente all’ossigeno. Se lo fossero, l’energia rilasciata creerebbe qualcosa di simile a un fuoco cellulare, un risultato che la vita ha imparato vantaggiosamente a evitare. Gli elettroni donati dal cibo attraversano invece una serie di reazioni redox intermedie, tappe di un lungo percorso che alla fine si conclude con l’ossigeno, ma che permette il rilascio di quantità minori di energia a ogni passo. Come una palla che dalle tribune di uno stadio scende lungo i gradini, gli elettroni saltano da un recettore molecolare a un altro, dove ciascun recettore è piú affamato di elettroni del precedente, garantendo che ciascun salto comporti un rilascio di energia. L’ossigeno, il recettore che piú di tutti ha fame di elettroni, aspetta l’elettrone al fondo della scala e, quando finalmente arriva, lo abbraccia forte, tirandogli fuori l’energia marginale che può ancora fornire, concludendo cosí il processo di estrazione dell’energia.
Nelle piante, il processo è in gran parte lo stesso. La differenza principale è la fonte di elettroni: nel caso degli animali vengono dal cibo, mentre nel caso delle piante vengono dall’acqua. La luce solare che colpisce la clorofilla nelle foglie verdi delle piante strappa gli elettroni dalle molecole di acqua, fa aumentare la loro energia e fa loro iniziare un’analoga cascata redox di estrazione di energia. Quindi l’energia che sostiene tutte le azioni di tutte le forme di vita si può ricondurre a un unico processo, in cui gli elettroni saltano realizzando una serie di reazioni redox cellulari. Ecco perché Albert Szent-Györgyi, nelle sue riflessioni poetiche, ha detto: «La vita non è altro che un elettrone alla ricerca di un posto dove riposare».
È opportuno sottolineare che dal punto di vista della fisica tutto ciò è quanto mai sorprendente. L’energia è la moneta che paga ogni entrata e ogni uscita in tutto il cosmo, una moneta coniata in una gran varietà di valute e che si guadagna per mezzo di una gamma ancora piú ampia di attività. Una valuta è l’energia nucleare, generata dalla fissione e dalla fusione in una gran varietà di specie atomiche; un’altra è l’energia elettromagnetica, generata dalle attrazioni e repulsioni fra molti tipi diversi di particelle cariche; un’altra ancora è l’energia gravitazionale, generata da interazioni fra corpi massivi. Per quanto innumerevoli siano i processi, tuttavia, la vita sul pianeta Terra sfrutta uno e un solo meccanismo energetico: una specifica sequenza di reazioni chimiche elettromagnetiche in cui gli elettroni effettuano una sequenza di salti diretti verso il basso, che parte dal cibo o dall’acqua e termina con lo stretto abbraccio dell’ossigeno.
Come e perché questo processo di estrazione dell’energia è diventato il meccanismo d’elezione della vita? Nessuno lo sa. La sua universalità, però, come quella del codice genetico, indica, e lo fa in modo chiaro e netto, l’unità della vita. Perché tutti gli esseri viventi estraggono l’energia nello stesso modo? La risposta immediata è che tutte le forme di vita devono essere discese da un antenato comune, una specie unicellulare vissuta probabilmente, secondo i ricercatori, circa 4 miliardi di anni fa.
9. Biologia e batterie.
Le prove dell’unità della vita diventano ancora piú convincenti se seguiamo il viaggio successivo dell’energia rilasciata da elettroni che saltano da una reazione redox all’altra. Quell’energia viene usata per caricare le batterie biologiche presenti in ogni singola cellula. A loro volta, le batterie biologiche alimentano la sintesi di molecole particolarmente abili nel trasportare e distribuire energia ovunque e ogniqualvolta sia necessario all’interno di una cellula. È un processo elaborato. In tutte le forme di vita, però, è lo stesso identico processo.
A grandi linee, ecco come funziona. Quando un elettrone salta nelle braccia molecolari tese di un dato recettore redox, la molecola ricevente si muove di scatto, cambiando orientamento rispetto ad altre molecole che si affollano tutt’intorno, come una ruota dentata che fa uno scatto in avanti. Quando l’instabile elettrone poi salta al recettore redox successivo, la prima molecola torna di scatto all’orientamento originario, mentre a scattare in avanti è la nuova molecola ricevente. L’elettrone continua a saltare e lo schema si ripete. Le molecole che ricevono un elettrone scattano e cambiano orientamento; le molecole che perdono un elettrone scattano e ripristinano il proprio orientamento.
La sequenza di salti dell’elettrone e di conseguenti scatti molecolari svolge un compito delicato ma fondamentale. Quando le molecole scattano avanti e indietro, premono contro un gruppo di protoni, costringendoli ad attraversare una membrana circostante, dove si accumulano in un sottile compartimento, che corrisponde a una cellula di contenimento sovraffollata – o, in termini piú prosaici, a una batteria di protoni.
In una comune batteria, le reazioni chimiche costringono gli elettroni ad accumularsi su un lato della batteria (l’anodo), dove la repulsione reciproca fra queste particelle tutte con la stessa carica fa sí che siano pronte a fuggire appena possibile. Quando completiamo un circuito elettrico premendo un pulsante di accensione o un interruttore, liberiamo gli elettroni accumulati, permettendo loro di uscire dall’anodo, attraversare un dispositivo – una lampadina, un laptop, un cellulare – e infine tornare all’altro lato della batteria (il catodo). Per quanto comuni, le batterie sono oggetti assolutamente geniali. Immagazzinano energia in un’affollata collezione di elettroni sempre pronti a cedere immediatamente quell’energia per alimentare qualsiasi apparecchio.
In una cellula vivente incontriamo una situazione analoga, con protoni accumulati al posto di elettroni accumulati. Questa sostituzione non fa però una grande differenza. I protoni, come gli elettroni, hanno tutti la stessa carica elettrica e quindi anch’essi si respingono reciprocamente. Quando le reazioni cellulari redox stipano le particelle l’una vicino all’altra, anch’esse sono pronte e aspettano l’opportunità di scappare dalle compagne imposte. Le reazioni cellulari redox quindi caricano le batterie biologiche di protoni. Di fatto, poiché i protoni sono tutti ammassati da una parte di una membrana estremamente sottile (con uno spessore di qualche decina di atomi), il campo elettrico (il voltaggio della membrana diviso per il suo spessore) può essere enorme, piú di decine di milioni di volt per metro. Una biobatteria cellulare non è niente male.
Che cosa fanno le cellule con queste minuscole centrali elettriche? Qui le cose diventano ancora piú sbalorditive. Attaccate alla membrana vi sono moltissime turbine di dimensioni nanometriche. Quando i protoni stipati hanno la possibilità di riattraversare alcune specifiche sezioni della membrana, fanno ruotare le minuscole turbine, come le raffiche di vento fanno girare le pale di un mulino a vento. Nei secoli passati, questo movimento rotatorio alimentato dal vento veniva usato per macinare il grano o altri cereali. I mulini a vento cellulari realizzano un progetto analogo, che però invece di polverizzare una struttura la costruisce. Mentre girano, le turbine molecolari continuano ad ammassare due particolari molecole (ADP, adenosina difosfato, piú un gruppo fosfato), sintetizzando una particolare molecola (ATP, adenosina trifosfato). Costretti a mescolarsi dalla turbina, i costituenti di ciascuna molecola di ATP formata in questo modo si trovano in una situazione critica: i costituenti carichi che si respingono reciprocamente sono tenuti stretti da legami chimici, perciò, proprio come una molla compressa, si sforzano di essere liberati. Ciò è straordinariamente utile. Le molecole di ATP possono viaggiare in tutta la cellula, rilasciando se necessario l’energia immagazzinata spezzando i legami chimici e permettendo alle particelle costituenti di rilassarsi in uno stato di minore energia, piú comodo. È proprio quell’energia, rilasciata dalla dissociazione delle molecole di ATP, ad alimentare le funzioni cellulari.
L’inesauribile attività di queste centrali elettriche si chiarisce se consideriamo alcuni numeri. Le funzioni che mantengono in vita per un secondo una tipica cellula richiedono l’energia immagazzinata in circa 10 milioni di molecole di ATP. Il nostro corpo contiene decine di bilioni di cellule, il che significa che ogni secondo consumiamo un numero di molecole di ATP dell’ordine di 100 milioni di bilioni (1020). Ogni volta che viene usata una molecola di ATP, questa si scinde nei suoi costituenti (ADP e un fosfato), che le turbine alimentate da batterie di protoni quindi riammassano in molecole di ATP nuove di zecca, pienamente rigenerate. Queste molecole poi ripartono, distribuendo energia in tutta la cellula. Per soddisfare il fabbisogno energetico del nostro corpo, le nostre turbine cellulari sono quindi sorprendentemente produttive. Anche se siete lettori estremamente veloci, mentre leggete questa frase il vostro corpo sintetizza circa 500 milioni di bilioni di molecole di ATP. E ora ne ha sintetizzati altri 300 milioni di bilioni.
10. Riassunto.
Lasciando da parte i dettagli, la conclusione è che quando elettroni energetici provenienti dal cibo (o elettroni energizzati dalla luce solare nelle piante) scendono a cascata sui gradini di una scala chimica, l’energia rilasciata a ogni gradino carica le batterie biologiche presenti in tutte le cellule. L’energia immagazzinata nelle batterie viene quindi usata per sintetizzare molecole che hanno per l’energia la stessa funzione che hanno i furgoni dei corrieri per i pacchi: le molecole distribuiscono pacchetti di energia ovunque siano richiesti all’interno della cellula. Questo è il meccanismo universale che alimenta tutte le forme di vita. Questo è il solo percorso energetico che sta alla base di ogni azione che compiamo e di ogni pensiero che abbiamo.
Come nel caso della nostra rapida disamina del DNA, il punto fondamentale prescinde dai particolari: l’intricato e apparentemente bizzarro insieme di processi che alimentano le cellule è comune a tutte le forme di vita. Questa unità, insieme all’unità della codifica delle istruzioni cellulari nel DNA, è una prova schiacciante del fatto che tutta la vita è emersa da un antenato comune.
Cosí come Einstein cercava una teoria unificata delle forze della natura, e come oggi i fisici sognano una sintesi ancora piú ampia che abbracci tutta la materia e forse anche lo spazio e il tempo, l’idea di individuare una base comune in una vasta gamma di fenomeni apparentemente distinti è decisamente allettante. Il fatto che i profondi meccanismi interni di tutte le forme di vita – dai miei due cani che riposano tranquilli sul tappeto, al caotico turbinio di insetti attratti dalla lampada che sta davanti alla finestra, al coro di rane che sale da uno stagno vicino, ai coyote che sento ululare in lontananza – si basano sugli stessi processi molecolari, beh, è davvero spettacolare. Quindi mettete da parte i dettagli e fate una pausa prima di finire di leggere il capitolo per assimilare bene questa idea meravigliosa.
11. L’evoluzione prima dell’evoluzione.
Ciò che abbiamo imparato riguardo alla vita non solo ci offre chiarimenti inaspettati, ma ci stimola anche a indagare piú a fondo. Come nacque l’antenato comune di tutta la vita complessa? E prima ancora, come iniziò la vita? Gli scienziati devono ancora determinare l’origine della vita, ma la nostra discussione ha chiarito che la questione è formata da tre parti. Come si è sviluppata la componente genetica della vita – la capacità di immagazzinare, utilizzare e replicare l’informazione? Come si è formata la componente metabolica della vita – la capacità di estrarre, immagazzinare e utilizzare l’energia chimica? Come è avvenuto l’impacchettamento del macchinario molecolare genetico e metabolico in sacchetti autonomi, le cellule? La storia dell’origine della vita richiede risposte definitive a queste domande, però anche in mancanza di una comprensione completa possiamo rivolgerci a un modello esplicativo, l’evoluzione darwiniana, che quasi certamente sarà parte integrante della futura narrazione.
Quando sentii parlare per la prima volta dell’evoluzione darwiniana, il mio insegnante di biologia presentò la teoria come se fosse l’ingegnosa soluzione di un rompicapo che, una volta capita, ti fa dare un colpetto sulla fronte ed esclamare: «Come ho fatto a non pensarci?» Il problema è spiegare l’origine del ricco, vario e copioso assortimento delle specie che popolano il pianeta Terra. La soluzione di Darwin è composta da due idee fra loro collegate. La prima è che, quando gli organismi si riproducono, la progenie in generale è simile ma non identica ai genitori. O, nelle parole di Darwin, la riproduzione produce discendenza con modificazioni. La seconda è che, in un mondo di risorse finite, gli organismi competono per sopravvivere. Le modifiche biologiche che accrescono il successo nella competizione aumentano la probabilità che l’organismo che le possiede sopravviva abbastanza a lungo da riprodursi e quindi passi alle generazioni future i suoi tratti che favoriscono la sopravvivenza. Nel corso del tempo, diverse combinazioni di modifiche vantaggiose si accumulano lentamente, portando una popolazione iniziale a ramificarsi in gruppi diversi che formano specie distinte29.
Semplice e intuitiva, l’evoluzione darwiniana sembra quasi ovvia. Tuttavia, per quanto convincente come modello esplicativo, se l’evoluzione darwiniana non fosse confermata dai dati, non sarebbe riuscita a ottenere il consenso della scienza. La logica non è sufficiente. La fiducia nell’evoluzione darwiniana si basa sul massiccio sostegno ricevuto dagli scienziati che hanno ricostruito cambiamenti graduali della struttura degli organismi e delineato i vantaggi adattivi conferiti da molti cambiamenti. Se quelle trasformazioni non si fossero verificate, o se non avessero seguito uno schema evidente, o se non avessero alcuna relazione con la capacità di sopravvivere o riprodursi, non si insegnerebbe l’evoluzione darwiniana agli scolari.
Darwin non specificò la base biologica della discendenza con modificazioni. In che modo gli esseri viventi trasmettono i propri tratti alla progenie? E in che modo alcuni tratti discendono in forma modificata? Ai tempi di Darwin, non si sapeva rispondere a queste domande. Certo, tutti si rendevano conto che la piccola Anna somigliava a mamma e papà, ma mancavano ancora molte scoperte per arrivare a capire il meccanismo molecolare di trasmissione dei tratti. Il fatto che Darwin abbia potuto sviluppare la teoria dell’evoluzione senza conoscere questi dettagli è un segno della generalità e potenza delle idee, che trascendono i dettagli concreti. Fu soltanto quasi cent’anni dopo, nel 1953, che il chiarimento della struttura del DNA rese visibile il percorso per arrivare a capire la base molecolare dell’ereditarietà. Con affettata moderazione, Watson e Crick conclusero il loro articolo con un understatement tra i piú famosi al mondo: «Non è sfuggito alla nostra attenzione che lo specifico appaiamento che abbiamo postulato suggerisce immediatamente un possibile meccanismo di copia per il materiale genetico».
Watson e Crick svelarono il processo mediante il quale la vita duplica le molecole che contengono le istruzioni interne della cellula, permettendo la trasmissione delle istruzioni alla progenie. Come abbiamo visto, le informazioni che dirigono la funzione cellulare sono codificate nella sequenza di basi presente fra i montanti della scala a chiocciola del DNA. Quando una cellula si prepara a riprodursi, a dividersi in due, la scala del DNA si divide in due metà nel senso della lunghezza, producendo due montanti separati, ognuno contenente una sequenza di basi. Poiché le sequenze sono complementari (una A su un montante garantisce la presenza di una T nella posizione corrispondente dell’altro montante e una C su un montante garantisce la presenza di una G nella posizione corrispondente dell’altro montante), ciascun montante fornisce il modello per costruire una copia dell’altro. Attaccando le basi associate a quelle su ciascuno dei montanti separati, la cellula crea due copie complete del filamento originario di DNA. Quando la cellula poi si divide, ciascuna cellula figlia riceve una delle copie duplicate, passando le informazioni genetiche da una generazione alla successiva – il meccanismo di copiatura che non era sfuggito all’attenzione di Watson e Crick.
Come descritto, il processo di copiatura produrrebbe filamenti di DNA identici. Come fanno quindi a emergere tratti nuovi o modificati nelle cellule figlie? A causa di errori. Nessun processo è perfetto al 100 per cento. Benché rari, alcuni errori si presenteranno, a volte per caso e altre volte a causa di influenze ambientali come fotoni energetici – radiazioni ultraviolette o a raggi X – che possono alterare il processo di copiatura. La sequenza di DNA ereditata da una cellula figlia può quindi differire da quella fornita dalla cellula madre. Spesso queste modifiche sono di poco conto, come un unico refuso a pagina 413 di Guerra e pace; alcune, però, possono produrre effetti, buoni o cattivi, sul funzionamento della cellula. Le modifiche che producono effetti vantaggiosi accrescono la fitness, perciò hanno piú possibilità di essere trasmesse alle generazioni successive e quindi di diffondersi nella popolazione.
La riproduzione sessuale aggiunge complessità perché il materiale genetico non viene semplicemente riprodotto, ma invece si forma mescolando i contributi dei genitori. Tuttavia, anche se questo tipo di riproduzione rappresentò un passo molto importante nella storia della vita sulla Terra (la cui origine è ancora dibattuta), anche in questo caso valgono i principî darwiniani. Il mescolamento e la copiatura del materiale genetico producono variazioni nei tratti ereditati e i tratti che hanno una maggiore probabilità di persistere nelle generazioni successive sono quelli che aumentano le possibilità di sopravvivenza e di riproduzione degli organismi che li possiedono.
Essenziale per l’evoluzione è il fatto che nel passaggio da genitore a progenie le modifiche del DNA di solito sono in numero esiguo. Questa stabilità protegge i miglioramenti genetici accumulati nel corso delle generazioni precedenti, garantendo che non vengano rapidamente degradati o eliminati. Per farvi un’idea della rarità di questi cambiamenti considerate che gli errori di trascrizione si verificano all’incirca al tasso di uno ogni 100 milioni di coppie di basi – come un amanuense medievale che sbaglia una sola lettera ogni trenta copie della Bibbia. Anche questo tasso cosí piccolo è comunque una stima per eccesso, poiché il 99 per cento dei refusi viene riparato da meccanismi chimici di correzione che agiscono all’interno di ciascuna cellula, riducendo il tasso di errore finale a circa uno ogni 10 miliardi di coppie di basi.
Anche queste minime modifiche genetiche, accumulandosi per molte generazioni, possono dare origine a un massiccio sviluppo fisico e fisiologico. Non è affatto una cosa ovvia. Di fronte alla meraviglia dell’occhio, alle capacità del cervello o alla complessità dei meccanismi energetici cellulari qualcuno conclude che questi sistemi non si sarebbero potuti evolvere senza una guida intelligente. Questa conclusione sarebbe giustificata se lo sviluppo evolutivo fosse avvenuto alla scala temporale umana. Ma non è cosí. La vita si è evoluta per miliardi di anni, vale a dire per migliaia di milioni di anni. Se ciascun anno fosse rappresentato da un foglio di carta per stampante, un miliardo di anni corrisponderebbe a una pila alta quasi 100 chilometri. Pensate a quei fogli come alle pagine di un flip-book con uno spessore pari a piú di dieci volte l’altezza dell’Everest. Anche se il disegno su ciascuna pagina differisce solo leggermente da quello della pagina precedente, i disegni all’inizio e alla fine del libro possono tranquillamente essere diversi come un’ameba e uno scimpanzé.
Con ciò non voglio suggerire che il cambiamento evolutivo segua un piano progettato con cura che fa passare gradualmente ed efficientemente, pagina dopo pagina, da organismi semplici a organismi complessi. Una descrizione migliore dell’evoluzione per selezione naturale è «innovazione per tentativi ed errori». Le innovazioni emergono da mutazioni e combinazioni casuali del materiale genetico. I tentativi mettono in competizione un’innovazione con l’altra nell’arena della sopravvivenza. Gli errori, per definizione, sono innovazioni che vengono sconfitte. Questo è un approccio all’innovazione che farebbe fallire la maggior parte delle imprese. Sperimentare una possibilità a caso e poi un’altra, sperando contro tutte le aspettative che prima o poi una di loro accenda il mercato… beh, provate a proporre questa strategia al vostro consiglio di amministrazione. La natura, però, dispone in grande abbondanza di una risorsa che nelle aziende scarseggia: il tempo. La natura non ha fretta e non deve soddisfare un bilancio. Il costo di innovare per mezzo di piccoli cambiamenti casuali è un costo che la natura può sostenere30.
Un altro fattore essenziale è che non è esistito un solo e isolato flip-book evolutivo. Tutte le divisioni cellulari avvenute in tutti gli organismi di ogni angolo del pianeta hanno contribuito alla narrazione darwiniana. Alcune di queste linee narrative finirono nel nulla (modifiche genetiche risultate dannose). La maggioranza non aggiunse nulla di nuovo alla trama in via di sviluppo (materiale genetico trasmesso senza cambiamenti). Alcune, però, determinarono cambiamenti inaspettati (modifiche genetiche adattivamente utili) che produssero il proprio flip-book evolutivo. Molte di queste, in realtà, svilupparono trame e sottotrame interdipendenti, perciò la narrazione evolutiva di un flip-book fu influenzata da quella di altri. La ricchezza della vita sulla Terra riflette quindi la durata enorme delle cronache dell’evoluzione, certo, ma anche il numero enorme di cronache che la natura ha scritto.
Come qualsiasi settore di ricerca florido, l’evoluzione darwiniana è stata dibattuta e perfezionata nel corso dei decenni. Qual è il tasso di evoluzione delle specie? È qualcosa che varia in misura notevole nel corso del tempo? Lunghi periodi di stasi sono seguiti da brevi periodi di cambiamenti piú rapidi? Oppure il cambiamento è sempre graduale? Come dovremmo considerare i tratti che possono ridurre le possibilità di sopravvivenza di un organismo ma al contempo rendono piú probabile che si riproduca? Qual è l’elenco completo dei meccanismi che permettono ai geni di cambiare da una generazione all’altra? Come dovremmo comportarci di fronte alle lacune nella documentazione fossile dell’evoluzione? Alcune di queste questioni hanno portato ad appassionate contese scientifiche, ma il punto importante è che nessuna ha sollevato dubbi sull’evoluzione stessa. I dettagli di qualsiasi modello esplicativo possono e devono essere chiariti e lo saranno nel corso del tempo, ma il fondamento della teoria darwiniana è solido come la roccia.
Ci si può quindi domandare se il modello darwiniano possa avere attinenza con un ambito piú vasto della vita. Dopo tutto, gli ingredienti fondamentali – replicazione, variazione e competizione – non si trovano soltanto negli esseri viventi. Le stampanti riproducono pagine. Le distorsioni ottiche producono variazioni nelle copie. Il ricevitore wireless della stampante è in competizione con altri per via della larghezza di banda limitata. Immaginiamo ora un contesto piú simile alla vita rispetto alle stampanti di un ufficio: molecole che hanno acquisito la capacità di riprodursi. Il DNA è un classico esempio, quindi tenetelo a mente. Ma la replicazione del DNA – la divisione della sua scala a chiocciola e la successiva ricostruzione di ciascuna metà con la formazione di due molecole di DNA figlie – dipende da un esercito di proteine cellulari, perciò richiede che i processi della vita siano già in essere.
Immaginate invece una molecola capace di riprodursi, ma molto prima che da qualche parte sia emersa qualche forma di vita. Non è necessario scegliere un determinato meccanismo di replicazione, ma giusto per poter avere un’immagine mentale concreta possiamo pensare che forse questo tipo di molecola quando galleggia in un ricco brodo chimico agisce come un magnete molecolare, esercitando una forte attrazione sugli stessi elementi che la compongono e fornendo un modello per assemblarli in un sosia molecolare. Immaginate inoltre che il processo di replicazione, come tutti i processi del mondo reale, sia imperfetto. Il piú delle volte una nuova molecola cosí sintetizzata è identica all’originale, ma non sempre. Nel corso di moltissime generazioni molecolari, si forma in tal modo un ecosistema popolato da uno spettro di molecole che sono variazioni dell’originale.
Le materie prime, le risorse, sono sempre limitate in qualsiasi ambiente e cosí quando le molecole del nostro ecosistema continuano a riprodursi quelle che lo fanno nel modo piú efficiente e preciso – velocemente, economicamente, ma niente affatto fuori controllo – prevarranno. Queste molecole si guadagnano il titolo di piú «adatte» e nel tempo arriveranno a dominare la popolazione molecolare. Ogni mutazione successiva derivante da una replicazione imperfetta offre ulteriori modifiche della fitness molecolare. E ciò che vale per gli esseri viventi vale anche per le cose che non sono vive: le modifiche che aumentano la fitness molecolare trionferanno sulle altre. La maggiore fecondità delle molecole che sono piú adatte fa aumentare la loro percentuale nella popolazione.
Ciò che ho descritto è una versione molecolare dell’evoluzione, il darwinismo molecolare, che mostra come gruppi di particelle sgomitanti guidate solamente dalle leggi della fisica possono diventare sempre piú capaci di riprodursi – qualcosa che normalmente associamo alla vita. In relazione alla ricerca dell’origine della vita, ciò suggerisce che il darwinismo molecolare potrebbe essere stato un meccanismo essenziale nell’era precedente all’emergere delle prime forme di vita. Una versione di questa ipotesi, che non gode affatto del consenso generale ma si è guadagnata un gran seguito, si basa su una molecola speciale dotata di molti talenti: l’RNA.
12. Verso le origini della vita.
Negli anni Sessanta del secolo scorso, un certo numero di ricercatori di primo piano, tra cui Francis Crick, il chimico Leslie Orgel e il biologo Carl Woese, attirò l’attenzione su un parente stretto del DNA, l’RNA (acido ribonucleico), che all’incirca 4 miliardi di anni fa potrebbe aver avviato un periodo di darwinismo molecolare che fu il precursore della vita.
L’RNA è una molecola straordinariamente versatile che è un componente essenziale di tutti i sistemi viventi. Potete pensare all’RNA come a una versione del DNA piú corta e con un unico montante a cui è attaccata una sequenza di basi. Tra i suoi vari ruoli cellulari, l’RNA è un mediatore chimico che prende le impronte di varie piccole sezioni di un filamento di DNA «aperto» (un po’ come un dentista può prendere il calco dei nostri denti quando spalanchiamo la bocca allontanando la mascella dalla mandibola) e trasporta le informazioni ad altre parti della cellula, dove dirige la sintesi di specifiche proteine. Come le molecole di DNA, quelle di RNA incorporano le informazioni cellulari e quindi sono componenti del software cellulare. Vi è però una differenza importante: mentre il DNA è soddisfatto di essere l’oracolo della cellula, una fonte di saggezza che dirige l’attività cellulare, l’RNA è disposto a sporcarsi le mani con il lavoro manuale dei processi chimici. Infatti i ribosomi della cellula – fabbriche in miniatura che legano gli amminoacidi per formare proteine – contengono una particolare varietà di RNA (l’RNA ribosomiale) come maggior componente strutturale.
L’RNA fa quindi parte del software e dell’hardware. Può dirigere e anche catalizzare reazioni chimiche. Alcune di queste reazioni favoriscono la replicazione dello stesso RNA. Mentre il macchinario molecolare che produce copie del DNA usa un raffinato insieme di ingranaggi chimici, l’RNA stesso può promuovere la sintesi delle coppie di basi necessarie per la propria replicazione. Consideriamo le implicazioni. Le molecole di RNA, mescolando software e hardware, hanno la capacità potenziale di evitare il paradosso dell’uovo e della gallina: come è possibile assemblare l’hardware molecolare senza disporre del software molecolare, le istruzioni per realizzare l’assemblaggio, e come è possibile sintetizzare il software molecolare senza disporre dell’hardware molecolare, l’infrastruttura per effettuare la sintesi? Svolgendo entrambe le funzioni, l’RNA unisce l’uovo e la gallina e quindi ha la capacità di stimolare un’era di darwinismo molecolare.
Questa è la «proposta del mondo a RNA», in cui si immagina che prima dell’inizio della vita esistesse un mondo soffuso di molecole di RNA, che in un numero quasi inconcepibile di generazioni si evolsero grazie al darwinismo molecolare nelle strutture chimiche che costituirono le prime cellule. Anche se i dettagli sono incerti, gli scienziati hanno descritto a grandi linee come potrebbe essere stata questa fase di evoluzione molecolare. Negli anni Cinquanta, il premio Nobel Harold Urey e il suo dottorando Stanley Miller mescolarono i gas (idrogeno, ammoniaca, metano e vapore acqueo) che secondo loro costituivano l’atmosfera primordiale della Terra, colpirono i cocktail gassosi con scariche elettriche per simulare l’azione dei fulmini e, com’è noto, annunciarono che la risultante brodaglia marrone conteneva amminoacidi, i componenti fondamentali delle proteine. Anche se ricerche successive mostrarono che le miscele di gas iniziali studiate da Miller e Urey non riflettevano in maniera precisa la composizione chimica dell’atmosfera primordiale della Terra, alcuni esperimenti simili effettuati con altri cocktail gassosi che invece la riflettevano (compresa una miscela escogitata dagli stessi Miller e Urey per modellare i fumi tossici di vulcani attivi, che curiosamente non venne analizzata per piú di mezzo secolo)31 riuscirono a generare amminoacidi. Oggi, inoltre, gli amminoacidi sono stati rilevati nelle nubi interstellari, nelle comete e nelle meteoriti. Quindi è plausibile che un brodo chimico sul giovane pianeta possa aver mescolato molecole di RNA autoreplicanti con un ricco assortimento di amminoacidi.
Immaginate ora che, mentre le molecole di RNA continuavano a riprodursi, una mutazione casuale abbia facilitato qualcosa di nuovo: l’RNA mutante indusse alcuni amminoacidi presenti nel brodo ambientale a legarsi in catene producendo le prime rudimentali proteine (una versione grossolana dei tipi di processi che ora avvengono nei ribosomi). Se, per caso, alcune di queste proteine basiche avessero reso piú efficiente la replicazione dell’RNA (dopo tutto, catalizzare reazioni è, in parte, ciò che fanno le proteine), sarebbero state ricompensate riccamente, poiché le proteine avrebbero portato la forma mutante di RNA a dominare e la nuova abbondante disponibilità di RNA mutante avrebbe contribuito a sintetizzare una maggiore quantità di proteine. Insieme, avrebbero costituito un ciclo chimico autorinforzante che avrebbe spinto le aberrazioni molecolari a diventare la norma. Nel tempo, le continue macchinazioni molecolari avrebbero potuto trovare casualmente un’altra novità chimica, una scala a due montanti – una forma rudimentale di DNA – che avrebbe dimostrato di essere una struttura piú stabile e piú efficiente per la replicazione molecolare e quindi avrebbe progressivamente soppiantato i processi di replicazione e relegato l’RNA a un ruolo di sostegno. La formazione accidentale di sacchetti molecolari – pareti cellulari – avrebbe ulteriormente aumentato la fitness concentrando le sostanze chimiche in regioni isolate e offrendo protezione dai danni dovuti all’ambiente. Con la diffusione in tutta la popolazione chimica, si sarebbero assemblate le strutture necessarie per le prime cellule rudimentali32.
Sarebbe nata la vita.
Quella del mondo a RNA è soltanto una delle molte proposte avanzate. È un esempio che attribuisce grande importanza alla componente genetica della vita, ossia le molecole che incorporano le informazioni e mediante la replicazione le trasmettono alle generazioni successive. Se questa proposta si dimostrasse corretta, dovremmo comunque affrontare il problema dell’origine dell’RNA stesso; forse uno stadio ancora precedente di evoluzione molecolare potrebbe aver generato RNA da costituenti chimici ancora piú semplici. Altre proposte danno un peso maggiore alla componente metabolica della vita, ossia le molecole che catalizzano reazioni. Anziché con una molecola autoreplicante che può agire come una proteina, questi scenari iniziano con molecole proteiche capaci di replicarsi. Altre proposte ancora immaginano due sviluppi completamente distinti, che portano uno a molecole che si riproducono e l’altro a molecole che catalizzano reazioni chimiche, e soltanto piú tardi questi processi si fondono in cellule capaci di svolgere le funzioni fondamentali della riproduzione e del metabolismo.
Molte sono anche le ipotesi proposte riguardo alla sede in cui si sarebbero formati inizialmente i precursori chimici della vita. Alcuni ricercatori hanno concluso che il suggerimento estemporaneo di Darwin di una «piccola pozza calda» non è particolarmente promettente perché per centinaia di milioni di anni sulla Terra sono piovuti detriti rocciosi, rendendo la sua superficie tutt’altro che ospitale33. Ciò nonostante, il biologo David Deamer ha ipotizzato che per l’origine della vita sia essenziale un ambiente che alterni fasi di umidità e di siccità, come le rive di uno stagno o di un lago. La ricerca della sua équipe ha dimostrato che tali cicli possono spingere i lipidi a formare membrane (pareti cellulari) al cui interno frammenti molecolari possono essere indotti a collegarsi in catene piú lunghe, simili all’RNA e al DNA34. Il chimico Graham Cairns-Smith ha proposto che i cristalli che formano gli strati di argilla – strutture che crescono bloccando continuamente gli atomi in una configurazione ordinata e ripetitiva – potrebbero aver costituito un sistema primordiale di replicazione, precursore di questo comportamento da parte di molecole organiche piú complesse in viaggio verso la vita35. Altri candidati convincenti, secondo una proposta avanzata e sviluppata dal geochimico Michael Russell e dal biologo Bill Martin, sono le fessure nei fondali oceanici da cui sgorgavano pennacchi caldi e ricchi di minerali generati dall’interazione fra l’acqua di mare e le rocce del mantello terrestre36. Queste cosiddette sorgenti idrotermiche alcaline fanno precipitare i camini calcarei che emergono dal fondale (alcuni arrivano a superare 50 metri, l’altezza della Statua della Libertà), pieni di anfratti e fessure da cui sgorga un flusso energetico continuo di sostanze chimiche. Secondo questa proposta, nei molti vortici che si formano nelle torri, il darwinismo molecolare compie le sue magie chimiche, producendo replicatori che nel corso del tempo diventano sempre piú complessi e sofisticati, arrivando infine a generare la vita sulla Terra.
I dettagli sono oggetto di ricerche d’avanguardia. Finora i tentativi di ricreare in laboratorio questi processi sono stati interessanti ma inconcludenti. Non abbiamo ancora creato la vita dal nulla. Ho pochi dubbi sul fatto che un giorno, forse non molto lontano, ci riusciremo. Nel frattempo, sta emergendo una narrazione scientifica generale dell’origine della vita. Una volta che le molecole acquisiscono la capacità di replicarsi, errori casuali e mutazioni alimentano il darwinismo molecolare, guidando intrugli chimici nella direzione cruciale dell’accrescimento della fitness. Continuando per centinaia di milioni di anni, il processo ha la capacità di costruire l’architettura chimica della vita.
13. La fisica dell’informazione.
A questo punto potreste aver concluso che le molecole della vita devono essersi laureate in chimica organica. Altrimenti, come diamine farebbero a sapere che cosa devono fare? Come fa il DNA a sapere che deve dividersi in due metà nel senso della lunghezza e attaccare le basi complementari a quelle che ha separato, creando un’altra copia della molecola? Come fa l’RNA a sapere che deve produrre copie di sezioni del DNA, portare quelle informazioni alle strutture cellulari appropriate dove altre molecole distinte ma collegate sanno leggere il codice genetico e collegare le sequenze appropriate di amminoacidi in proteine funzionanti?
Naturalmente, le molecole non sanno nulla. Il loro comportamento è governato dalle leggi della fisica, che sono cieche, prive di cervello e di istruzione. Ma la domanda rimane: come fanno a eseguire in modo costante e regolare una serie straordinariamente complicata di processi chimici complessi? Questa domanda ci riporta alla mia parafrasi dell’interrogativo principale di Schrödinger in Che cos’è la vita?: l’agitazione e lo sbandamento delle molecole sono governati dalle leggi della fisica in un sasso tanto quanto in un coniglio, qual è la differenza? Ora abbiamo visto che le particelle del coniglio sono guidate da un’ulteriore influenza, l’archivio interno di informazioni, il software cellulare del coniglio. Il punto importante, critico, essenziale è che queste informazioni non soppiantano le leggi della fisica. Nulla lo fa. Invece, cosí come uno scivolo acquatico non soppianta le leggi di gravità, ma con la sua forma guida le persone lungo una traiettoria specifica che altrimenti non seguirebbero, il software cellulare del coniglio è eseguito da disposizioni chimiche che con la propria forma e struttura e i propri componenti guidano varie molecole lungo traiettorie che anch’esse altrimenti non seguirebbero.
Come funzionano queste guide molecolari? A causa dei dettagli della disposizione dei suoi atomi, una data molecola può attrarre questo amminoacido, respingere quell’altro ed essere del tutto indifferente nei confronti di altri. Oppure, come fanno certi mattoncini Lego particolari, una data molecola può unirsi soltanto a un’altra molecola specifica. Tutto ciò rientra nella fisica. Quando gli atomi e le molecole spingono, tirano o si uniscono, è la forza elettromagnetica in azione. Il punto è che le informazioni in una cellula non sono astratte. Non si tratta di un insieme di istruzioni che le molecole devono studiare, memorizzare ed eseguire. Le informazioni sono codificate nelle disposizioni chimiche, disposizioni che inducono altre molecole a collidere, unirsi o interagire in modo tale da effettuare processi come la crescita, la riparazione o la riproduzione. Anche se le molecole di una cellula non hanno intenzioni né obiettivi, e sono completamente inconsapevoli, la loro struttura fisica permette loro di svolgere compiti altamente specializzati.
In questo senso, i processi della vita sono meandri molecolari descritti in modo completo dalle leggi fisiche che allo stesso tempo raccontano una storia di livello superiore, basata sull’informazione. Nel caso del sasso, non esiste una storia di livello superiore. Quando usate le leggi della fisica per descrivere le collisioni e l’agitazione delle molecole del sasso, non dovete fare altro. Se però usate le stesse leggi per descrivere le molecole del coniglio, non avete finito. Siete ben lontani dalla fine. Sovrapposta alla storia riduzionistica vi è tutt’un’altra storia che racconta le disposizioni molecolari interne peculiari del coniglio che sono le coreografe di una mirabile gamma di movimenti molecolari organizzati. Sono questi movimenti molecolari a eseguire processi di livello superiore nelle cellule del coniglio.
In realtà, nel caso del coniglio, e anche degli esseri umani, queste informazioni biologiche sono organizzate anche a scale piú grandi, per guidare processi che agiscono non semplicemente all’interno delle singole cellule, ma su insiemi di cellule, e questa è la caratteristica distintiva della complessità coordinata. Quando allungo il braccio per afferrare un bicchiere, il movimento di ogni atomo di ogni molecola della mano, del braccio, del corpo e del cervello è governato dalle leggi della fisica. Ribadisco con grande piacere: la vita non contraddice e non può contraddire le leggi della fisica. Nulla lo può fare. Ma il fatto che un numero enorme di molecole possano agire di concerto, coordinando il proprio movimento globale per far sí che il mio braccio si stenda in modo che la mano possa afferrare il bicchiere, riflette la ricchezza di informazioni biologiche, incorporate in disposizioni atomiche e molecolari, che dirigono una profusione di processi molecolari complicati.
La vita è fisica orchestrata.
14. La termodinamica e la vita.
L’evoluzione, secondo Darwin, guida lo sviluppo di strutture, dalle molecole alle singole cellule e agli organismi multicellulari complessi. L’entropia, secondo Boltzmann, guida lo sviluppo di sistemi fisici, dagli aromi che si diffondono alle macchine termiche sferraglianti e alle stelle che bruciano. La vita è soggetta a entrambe queste influenze guida: è emersa e si è perfezionata attraverso l’evoluzione e, come tutti i sistemi fisici, rispetta i dettami dell’entropia. Negli ultimi due capitoli di Che cos’è la vita?, Schrödinger esplorò l’apparente tensione fra le due. Quando la materia si unisce per formare la vita, sostiene l’ordine per lunghi periodi di tempo. E quando la vita si riproduce, genera altri insiemi di molecole anch’essi disposti in strutture ordinate. Dove sono in tutto ciò l’entropia, il disordine e la seconda legge della termodinamica?
Nella sua risposta, Schrödinger spiegò che gli organismi resistono all’aumento dell’entropia «alimentandosi di entropia negativa»37, un’espressione che nei decenni ha generato un po’ di confusione e critiche puntigliose. È chiaro però che la risposta di Schrödinger, pur essendo formulata in un linguaggio un po’ diverso, è identica a quella che abbiamo sviluppato qui: il two-step entropico. Gli esseri viventi non sono isolati, perciò qualsiasi resoconto della seconda legge deve incorporare l’ambiente in cui vivono. Prendete me. Per piú di cinquant’anni sono riuscito a impedire alla mia entropia di salire alle stelle. L’ho fatto ingerendo strutture ordinate (soprattutto verdure, frutta secca e cereali), bruciandole lentamente (grazie a reazioni redox, in cui gli elettroni del cibo scendono lungo i gradini dello stadio e infine si combinano con l’ossigeno da me inalato), usando l’energia rilasciata per alimentare varie attività metaboliche e scaricando entropia nell’ambiente attraverso scarti e calore. Nel complesso, il two-step ha permesso apparentemente alla mia entropia di beffarsi della seconda legge mentre l’ambiente mi ha diligentemente coperto le spalle, facendosi carico dell’eccesso di entropia. Il processo di combustione, immagazzinamento e rilascio dell’energia per alimentare le funzioni cellulari è piú elaborato del corrispondente processo che alimenta i motori a vapore, ma in sostanza per quanto riguarda l’entropia la fisica è la stessa.
Al di là della scelta delle parole da parte di Schrödinger, una questione meno dettata dalla pignoleria è l’origine della nutrizione di alta qualità e bassa entropia. Partendo dagli animali e scendendo lungo la catena alimentare troviamo le piante, che si nutrono direttamente di luce solare. Il loro ciclo energetico offre un altro esempio di two-step entropico. I fotoni solari assorbiti dalle cellule delle piante colpiscono gli elettroni e li fanno passare in stati di maggiore energia, che il macchinario cellulare poi sfrutta (attraverso una serie di reazioni redox che guidano gli elettroni giú per i gradini dello stadio) per alimentare varie funzioni cellulari. I fotoni della luce solare sono quindi il nutrimento di qualità e bassa entropia che le piante assorbono, utilizzano per i processi della vita e infine rilasciano in una forma degradata, di maggiore entropia, come scarti (per ogni fotone ricevuto dal Sole, la Terra rimanda nello spazio un insieme meno ordinato di una ventina di fotoni infrarossi meno energetici e molto dispersi)38.
Proseguendo ancora verso la fonte di bassa entropia, cerchiamo l’origine del Sole, che si inserisce nella storia gravitazionale del capitolo III: la gravità comprime nubi di gas fino a formare stelle, facendo diminuire l’entropia interna e aumentare, per mezzo del calore rilasciato, l’entropia dell’ambiente circostante. Alla fine, si innescano reazioni nucleari, si accendono stelle e vengono emessi fotoni verso l’esterno. Se la stella in questione è il Sole, i fotoni che raggiungono la Terra sono la fonte di energia a bassa entropia che alimenta il metabolismo delle piante, chiarendo il motivo per cui spesso i ricercatori dicono che la forza gravitazionale sostiene la vita. Anche se è vero, ormai sapete che mi piace ripartire il merito in modo piú equo, lodando la gravità che fa aggregare la materia e assicura ambienti stellari stabili, ma elogiando anche la fusione nucleare che produce incessantemente un flusso costante di fotoni di alta qualità per milioni e miliardi di anni.
La forza nucleare, insieme alla gravità, è una fonte di combustibile vivificante a bassa entropia.
15. Una teoria generale della vita?
Nelle sue conferenze del 1943, Schrödinger sottolineò che il torrente di sviluppi scientifici era stato tanto impetuoso che era «diventato quasi impossibile per una sola mente il dominare piú di un piccolo settore specializzato»39. Di conseguenza, incoraggiava i pensatori ad ampliare la portata delle proprie competenze esplorando regni esterni al proprio settore intellettuale tradizionale. Con Che cos’è la vita?, Schrödinger applicò tranquillamente la formazione, l’intuizione e la sensibilità di un fisico agli enigmi della biologia.
Nei decenni che seguirono, mentre la conoscenza diventava sempre piú specialistica, una schiera sempre piú numerosa di ricercatori ha continuato a diffondere la chiamata all’interdisciplinarietà di Schrödinger. Hanno risposto in molti. Ricercatori che si sono formati in settori come la fisica delle alte energie, la meccanica statistica, l’informatica, la teoria dell’informazione, la chimica quantistica, la biologia molecolare, l’astrobiologia e molti altri, hanno sviluppato nuovi modi intelligenti di indagare la natura della vita. Concluderò questo capitolo concentrandomi su uno di questi sviluppi che amplia il nostro tema della termodinamica e un giorno, se avrà successo, potrà contribuire a rispondere ad alcune delle domande piú profonde della scienza: la vita potrebbe essere una possibilità tanto remota da essere emersa soltanto una volta in un universo che contiene centinaia di miliardi di galassie, ciascuna con centinaia di miliardi di stelle, molte con pianeti orbitanti? Oppure la vita è la conseguenza naturale, forse persino inevitabile, di certe condizioni ambientali di base relativamente comuni?
Per affrontare questioni di cosí vasta portata abbiamo bisogno di principî di portata simile. Ormai abbiamo ampie prove dell’estesa applicabilità della termodinamica, una teoria fisica che Einstein descrisse come l’unica di cui poteva affermare con certezza che «non sarà mai sovvertita»40. Forse analizzando la natura della vita – la sua origine e la sua evoluzione – possiamo ampliare ulteriormente la prospettiva termodinamica.
È proprio ciò che hanno fatto gli scienziati negli ultimi decenni. La disciplina di ricerca che è emersa, la termodinamica di non equilibrio, analizza sistematicamente i tipi di situazioni che ormai abbiamo incontrato piú e piú volte: energia di alta qualità che scorre attraverso un sistema, alimentando il two-step entropico e permettendo cosí al sistema di resistere all’attrazione verso il disordine interno che altrimenti sarebbe dominante. Ilya Prigogine, il chimico fisico russo naturalizzato belga che nel 1977 vinse il premio Nobel per il suo lavoro pionieristico in questo settore, sviluppò strumenti matematici per analizzare configurazioni di materia che, se sottoposte a un flusso continuo di energia, possono diventare spontaneamente ordinate – producendo «ordine dal caos», per citare Prigogine. Se avete avuto un buon professore di fisica alle superiori, può darsi che abbiate incontrato l’esempio impressionante seppur semplice delle cellule di Bénard. Se si riscalda dal basso un piatto piano contenente uno strato di fluido viscoso, sulle prime non succede granché, però aumentando gradualmente l’energia che scorre nel fluido i movimenti molecolari casuali contribuiscono a produrre un ordine visibile. Se si guarda dall’alto, si vede che lo strato si è suddiviso esattamente in piccole camere esagonali. Se si guarda di lato, ponendo gli occhi all’altezza del piatto, si vede che il fluido si muove seguendo uno schema stabile regolare, salendo dal fondo di ciascuna camera esagonale, raggiungendo un massimo e poi ricadendo al fondo della camera.
Dal punto di vista della seconda legge della termodinamica, questo ordine spontaneo è del tutto inaspettato. Il fluido si solleva perché le sue molecole sono soggette a un’influenza ambientale particolare: sono continuamente riscaldate da una fiamma. La costante immissione di energia produce un impatto significativo. In qualsiasi sistema si presentano di tanto in tanto fluttuazioni spontanee che formano temporaneamente una piccola struttura locale ordinata. Di solito queste minuscole fluttuazioni si disperdono rapidamente tornando ad assumere una forma disordinata. Tuttavia l’analisi di Prigogine ha mostrato che quando le molecole sono disposte in certe configurazioni particolari diventano eccezionalmente capaci di assorbire energia, il che determina un destino diverso. Se il sistema fisico riceve dall’ambiente un flusso costante di energia concentrata, queste particolari configurazioni molecolari possono usare l’energia per sostenere e persino rafforzare la propria forma ordinata, scaricando al contempo nell’ambiente una forma degradata di quell’energia (meno accessibile, piú diffusa). Si dice che queste configurazioni dissipano l’energia e pertanto sono chiamate strutture dissipative. L’entropia totale, che comprende l’entropia dell’ambiente, aumenta, ma pompando costantemente energia in un sistema possiamo indurre e mantenere l’ordine mediante un prolungato two-step entropico.
La descrizione di Prigogine corrisponde alla spiegazione fisica, che risale a Schrödinger, del modo in cui gli organismi ritardano il degrado entropico. Non che le cellule di Bénard siano vive, però anche gli esseri viventi sono strutture dissipative, poiché assorbono energia dall’ambiente, la usano per sostenere o rafforzare la propria forma ordinata e rilasciano nell’ambiente una forma degradata di quell’energia. I risultati di Prigogine hanno fornito un’espressione matematica precisa del suo slogan «ordine dal caos»; in seguito, molti ricercatori hanno ipotizzato che i suoi strumenti matematici potrebbero essere sviluppati ulteriormente, permettendoci forse di capire come dal caos di movimenti molecolari casuali che si verificavano ai primordi della Terra siano emerse le molecole ordinate necessarie alla vita.
Fra i molti contributi a questo programma di ricerca, è particolarmente entusiasmante un lavoro recente di Jeremy England (che amplia risultati precedenti ottenuti da diversi ricercatori, tra cui Christopher Jarzynski e Gavin Crooks)41. Per mezzo di ingegnose manipolazioni matematiche, England ha dipanato le implicazioni della seconda legge della termodinamica applicata a sistemi alimentati da una fonte esterna di energia. Per farvi un’idea del suo risultato, immaginate di essere su un’altalena. Come sanno intuitivamente i bambini, dovete piegare e stendere le gambe (e inclinare il corpo) nel modo giusto per far muovere l’altalena e mantenere un movimento ritmico regolare. Il modo giusto, in base alla fisica fondamentale, dipende dalla distanza tra il sedile e la cerniera dell’altalena. Se muovete le gambe nel modo sbagliato, lo sfasamento ritmico impedisce all’altalena di assorbire in modo efficiente l’energia che fornite e cosí non riuscirete ad arrivare in alto. Immaginate però che questa altalena particolare abbia una caratteristica fuori del comune: quando muovete le gambe avanti e indietro, la lunghezza dell’altalena cambia, regolando il periodo del suo movimento in accordo con quello delle vostre gambe. Questo «adattamento» permette all’altalena di prendere rapidamente il giusto ritmo, assorbire l’energia che offrite e arrivare in poco tempo a un’altezza soddisfacente a ogni ciclo. In seguito, l’energia dei vostri movimenti ritmici è assorbita dall’altalena, però non la spinge ancora piú in alto. L’energia che immettete mantiene invece costante il movimento dell’altalena contrastando le forze di attrito e producendo al contempo scarti (calore, suono e cosí via) che vengono dissipati nell’ambiente (sempre che non siate temerari come mia figlia, che aspetta il momento in cui l’altalena la porta piú in alto per saltare dal sedile, librarsi in volo e poi dissipare energia precipitando a terra).
L’analisi matematica di England ha rivelato che nel dominio molecolare le particelle che vengono «spinte» da una fonte esterna di energia possono avere un’esperienza simile alla vostra avventura con l’altalena. Un insieme di particelle inizialmente disordinate può adattare la propria configurazione per «prendere il giusto ritmo» – per formare una disposizione che assorbe l’energia dall’ambiente in modo piú efficiente, la usa per mantenere o rafforzare il proprio movimento interno ordinato, o la propria struttura ordinata, e poi dissipa nell’ambiente una forma degradata di quell’energia.
Questo processo, che England chiama adattamento dissipativo, fornisce potenzialmente un meccanismo universale capace di indurre certi sistemi molecolari ad alzarsi e a ballare il two-step entropico. E poiché questo è ciò che fanno per vivere gli esseri viventi – assorbono energia di alta qualità, la usano e poi restituiscono energia di bassa qualità sotto forma di calore e altri scarti – forse l’adattamento dissipativo è stato essenziale per l’origine della vita42. England osserva che la replicazione stessa è uno strumento potente di adattamento dissipativo: se un piccolo insieme di particelle ha sviluppato la capacità di assorbire, usare e distribuire energia, due di questi insiemi sono ancora meglio, quattro sono meglio di due e cosí via. Molecole capaci di riprodursi potrebbero quindi essere un risultato prevedibile dell’adattamento dissipativo. E una volta apparse sulla scena molecole replicanti, il darwinismo molecolare può avviarsi e ha inizio la spinta verso la vita.
Queste idee sono ancora in fase embrionale, ma non posso fare a meno di pensare che avrebbero fatto felice Schrödinger. Usando principî fisici fondamentali, abbiamo sviluppato una comprensione del Big Bang, della formazione di stelle e pianeti e della sintesi di atomi complessi e oggi stiamo determinando come questi atomi si potrebbero organizzare in molecole replicanti ben adattate a estrarre energia dall’ambiente per costruire o sostenere forme ordinate. Con il potere del darwinismo molecolare di selezionare insiemi molecolari sempre piú adatti, possiamo immaginare come alcuni potrebbero acquisire la capacità di immagazzinare e trasmettere informazioni. Un manuale di istruzioni passato da una generazione molecolare alla successiva, che preserva strategie collaudate per accrescere la fitness, è una forza potente per il predominio molecolare. Agendo per centinaia di milioni di anni, questi processi potrebbero aver scolpito a poco a poco le prime forme di vita.
Che i dettagli di queste idee sopravvivano o no a scoperte future, l’abbozzo della storia della vita secondo la fisica sta prendendo forma. Se quella storia si dimostrerà generale come suggeriscono ricerche recenti, la vita potrebbe proprio essere una caratteristica comune del cosmo. Sarebbe davvero emozionante, ma una cosa è la vita e tutt’altra cosa è la vita intelligente. Trovare microbi su Marte o su Europa, una delle lune di Giove, sarebbe una scoperta epocale. Ma come esseri pensanti, conversanti e creativi saremmo comunque soli.
Qual è dunque il percorso dalla vita alla coscienza?
Capitolo quinto
Particelle e coscienza
Dalla vita alla mente
Tra le prime cellule procariotiche di 4 miliardi di anni fa e i 90 miliardi di neuroni del cervello umano che formano una rete di 100 bilioni di connessioni sinaptiche, a un certo punto emerse l’abilità di pensare e percepire, di amare e odiare, di temere e desiderare, di sacrificare e venerare, di immaginare e creare – nuove capacità che diedero inizio a risultati spettacolari e a immense devastazioni. «Tutto comincia con la coscienza e nulla ha valore se non per mezzo di questa», scrisse Albert Camus1. Fino a pochi anni fa, tuttavia, la coscienza era ancora una parola non gradita nelle cosiddette scienze dure. Certo, quegli anziani scienziati dal passo incerto che al tramonto della propria carriera si sono occupati dell’argomento marginale della mente possono essere perdonati, ma l’obiettivo della ricerca scientifica tradizionale è la comprensione della realtà oggettiva. E tanti, per molto tempo, hanno ritenuto che la coscienza fosse un argomento di ricerca poco opportuno. Il chiacchiericcio nella nostra testa, in fondo, può essere ascoltato solo nella nostra testa.
È una posizione paradossale. Il «Cogito ergo sum» di Descartes riassume il nostro contatto con la realtà. Tutto il resto potrebbe essere un’illusione, ma il pensiero è l’unica cosa di cui può essere certo anche lo scettico irriducibile. E nonostante il «Penso di pensare e quindi penso di essere» di Ambrose Bierce2, se state pensando, abbiamo ottime ragioni per giudicare che siete vivi. Per la scienza, non prestare attenzione alla coscienza vorrebbe dire voltare le spalle alla prima cosa, all’unica cosa su cui può contare ciascuno di noi. In realtà, per migliaia di anni molti hanno negato la definitività della morte riponendo speranze esistenziali nella coscienza. Il corpo muore. È manifesto, ovvio, innegabile. Tuttavia la nostra apparentemente ostinata voce interiore, come i tanti pensieri, le tante sensazioni ed emozioni che riempiono ciascuno dei nostri mondi soggettivi, parla di una presenza eterea che alcuni hanno immaginato al di là dei fatti basilari dell’esistenza fisica. Atman, principio vitale, anima immortale – è stata chiamata in molti modi, ma tutti implicano la credenza che il sé cosciente attinga a qualcosa che sopravvive alla forma fisica, a qualcosa che trascende la scienza meccanicistica tradizionale. La mente è la nostra connessione non solo con la realtà, ma forse anche con l’eternità.
Se ne ricava un indizio piú illuminante del motivo per cui le scienze dure si sono opposte a lungo a qualunque cosa avesse a che fare con la coscienza. Quando si parla di dominî al di là della portata delle leggi fisiche, gli scienziati reagiscono con irritazione, fanno una smorfia, girano i tacchi e tornano veloci in laboratorio. La derisione rappresenta un atteggiamento scientifico dominante, però mette in luce una lacuna critica nella narrazione scientifica. Dobbiamo ancora formulare in modo chiaro una solida spiegazione scientifica dell’esperienza cosciente. Ci manca una descrizione definitiva del modo in cui la coscienza manifesta un mondo privato di immagini, suoni e sensazioni. Non siamo ancora in grado di rispondere, o quanto meno non con certezza, a chi afferma che la coscienza sta al di fuori della scienza tradizionale. È improbabile che il divario venga colmato entro breve. Quasi tutte le persone che hanno riflettuto sul pensiero si rendono conto che decifrare la coscienza, spiegando i nostri mondi interiori in termini puramente scientifici, pone una delle sfide piú ardue.
Isaac Newton diede inizio alla scienza moderna scoprendo regolarità nelle parti della realtà accessibili ai sensi umani e codificandole nelle sue leggi del moto. Nei secoli trascorsi da allora, abbiamo riconosciuto che proseguire dopo Newton richiede di tracciare tre vie distinte. Dobbiamo capire la realtà a scale molto piú piccole di quelle considerate da Newton, una via che ci ha condotti alla fisica quantistica, che ha spiegato il comportamento delle particelle fondamentali e, fra molte altre cose, i processi biochimici alla base della vita. Dobbiamo capire la realtà a scale molto piú grandi di quelle considerate da Newton, una via che ci ha condotti alla relatività generale, che ha spiegato la gravità e, fra molte altre cose, la formazione di stelle e pianeti essenziali per l’emergere della vita. Per la terza frontiera, la piú intricata, dobbiamo capire la realtà a scale molto piú complesse di quelle considerate da Newton, una via che in base alle nostre previsioni ci porterà a una spiegazione del modo in cui grandi insiemi di particelle si possono unire producendo la vita e generando la mente.
Allenando la sua potenza intellettuale con problemi molto semplificati (ignorando, per esempio, le movimentate strutture interne del Sole e dei pianeti e trattando invece l’uno e gli altri come palle solide), Newton fece la cosa giusta. L’arte della scienza, di cui Newton era maestro, sta nell’operare semplificazioni giudiziose che rendono trattabili i problemi mantenendone al contempo l’essenza in misura sufficiente per garantire che le conclusioni che si traggono siano pertinenti. La difficoltà è data dal fatto che le semplificazioni efficaci per una classe di problemi possono esserlo in misura minore per altre classi. Se modelliamo i pianeti come palle solide, possiamo calcolarne le traiettorie in modo facile e preciso. Se modelliamo la testa come una palla solida, le informazioni sulla natura della mente saranno meno illuminanti. Ma per scartare le approssimazioni infruttuose e mettere a nudo i meccanismi interni di un sistema complesso come il cervello – un obiettivo lodevole –, sarebbe necessario padroneggiare un livello di complessità che è del tutto al di fuori della portata dei piú sofisticati metodi matematici e computazionali esistenti.
Ciò che è cambiato in anni recenti è che ora possiamo osservare e misurare caratteristiche dell’attività cerebrale che, come minimo, accedono a processi che accompagnano regolarmente l’esperienza cosciente. Quando i ricercatori possono usare l’imaging a risonanza magnetica funzionale per monitorare meticolosamente il flusso sanguigno che sostiene l’attività neurale, inserire sonde nelle profondità del cervello per rilevare gli impulsi elettrici che circolano tra singoli neuroni, o usare gli elettroencefalogrammi per monitorare le onde elettromagnetiche che si propagano nel cervello, e quando i dati rivelano configurazioni chiare che rispecchiano sia il comportamento osservato sia i resoconti dell’esperienza interiore, la proposta di accostarsi alla coscienza come a un fenomeno fisico si rafforza in modo sostanziale. In effetti, incoraggiati da questi progressi impressionanti, alcuni ricercatori audaci hanno giudicato i tempi maturi per lo sviluppo di una base scientifica dell’esperienza cosciente.
1. Coscienza e narrazione di storie.
Qualche anno fa, durante uno scambio amichevole ma acceso sul ruolo della matematica nella descrizione della natura, dissi con enfasi al conduttore di una trasmissione televisiva in tarda serata che non era altro che un sacco di particelle governate dalle leggi della fisica. Non lo dissi per scherzo, anche se senza perdere un colpo il conduttore lo fece passare per uno scherzo («Ehi, è una splendida battuta per rimorchiare»). E non per beffarmi di lui, dato che, da questo punto di vista, qualunque cosa valga per lui vale anche per me. L’osservazione scaturiva invece dalla mia convinta adesione al riduzionismo, secondo il quale comprendendo appieno il comportamento degli ingredienti fondamentali dell’universo raccontiamo una storia rigorosa e autosufficiente della realtà. Non disponiamo di una bozza conclusiva di questa storia perché moltissimi problemi oggetto di ricerche all’avanguardia sono irrisolti (fra poco, ne incontreremo alcuni). Ciò nonostante, posso immaginare un futuro in cui gli scienziati riusciranno a fornire una descrizione chiara e matematicamente completa dei processi microfisici fondamentali alla base di tutto ciò che succede, da qualsiasi parte e in qualsiasi momento.
Questa prospettiva ha qualcosa di confortante, qualcosa che riecheggia con grazia l’opinione di 2500 anni fa di Democrito: «Per convenzione dolce, per convenzione amaro, per convenzione caldo, per convenzione freddo, per convenzione colore, in realtà atomi e vuoto»3. Il punto è che tutto emerge dallo stesso insieme di ingredienti governati dagli stessi principî fisici. E questi principî, come attesta qualche secolo di osservazioni, sperimentazioni e teorizzazioni, probabilmente si potranno esprimere con una manciata di simboli organizzati in un piccolo insieme di equazioni matematiche. Questo è un universo elegante4.
Una tale descrizione, pur essendo molto potente, continuerebbe a essere soltanto una delle molte storie che raccontiamo. Abbiamo la capacità di spostare l’attenzione, reimpostare le soluzioni e interagire con il mondo in una gran varietà di modi. Anche se una descrizione completamente riduzionistica fornirebbe una base scientifica, altre descrizioni della realtà, altre storie, offrono intuizioni che molti giudicano piú pertinenti perché piú vicine all’esperienza. Per raccontare alcune di queste storie, come abbiamo già visto, sono necessari nuovi concetti e un nuovo linguaggio. L’entropia ci aiuta a raccontare la storia della casualità e dell’organizzazione nell’ambito di grandi collezioni di particelle, che si diffondano da un forno o si uniscano formando una stella. L’evoluzione ci aiuta a raccontare la storia del caso e della selezione che agiscono su insiemi di molecole – vive o no – che si riproducono, mutano e si adattano progressivamente al proprio ambiente.
Una storia che molti giudicano ancora piú significativa si concentra sulla coscienza. Includere pensieri, emozioni e ricordi vuol dire includere il nucleo dell’esperienza umana. Anche questa è una storia che richiede una prospettiva qualitativamente diversa da tutte quelle assunte finora. L’entropia, l’evoluzione e la vita possono essere studiate «sul campo». Le loro storie possono essere narrate per intero mediante resoconti in terza persona. Siamo testimoni di queste storie e, se siamo abbastanza diligenti, il nostro resoconto può essere esaustivo. Sono tutte storie scritte in un libro aperto.
Una storia che comprende la coscienza è diversa. Una storia che arriva a capire le sensazioni visive e uditive, di euforia o angoscia, di conforto o dolore, di agio o ansia, è una storia che si basa su un resoconto in prima persona. È una storia guidata da una voce interiore consapevole che si leva da un copione personale di cui a quanto pare ciascuno di noi è autore. Non solo vivo in un mondo soggettivo, ma percepisco con chiarezza che dall’interno di quel mondo controllo le mie azioni. Riguardo alle vostre azioni, avete senza dubbio anche voi una sensazione simile. Che siano dannate le leggi della fisica; penso, quindi controllo. Per comprendere l’universo a livello della coscienza è necessaria una storia capace di affrontare una realtà soggettiva del tutto personale e apparentemente autonoma.
Per far luce sulla consapevolezza cosciente incontriamo quindi due problemi distinti ma collegati. È possibile che la materia, da sola, produca le sensazioni che infondono la consapevolezza cosciente? La nostra sensazione cosciente di autonomia può essere soltanto frutto dell’azione delle leggi della fisica sulla materia che costituisce il corpo e il cervello? A queste domande Descartes rispose con un no deciso. Nella sua visione, l’evidente differenza tra materia e mente riflette una divisione profonda. L’universo è fatto di sostanza materiale. L’universo è fatto di sostanza mentale. La sostanza materiale può influenzare la sostanza mentale e la sostanza mentale può influenzare la sostanza materiale. Ma i due tipi di sostanza sono diversi. In un linguaggio moderno, atomi e molecole non costituiscono la sostanza del pensiero.
La posizione di Descartes è allettante. Posso affermare che i tavoli e le sedie, i cani e i gatti, i prati e gli alberi sono diversi dai pensieri nella mia testa e sospetto che voi abbiate la stessa opinione. Perché mai le particelle che costituiscono gli elementi tangibili della realtà esterna e le leggi fisiche che le governano dovrebbero essere pertinenti per spiegare il mondo interiore della mia esperienza cosciente? Forse, quindi, dovremmo aspettarci che una comprensione della coscienza non sia soltanto una storia di livello superiore, una storia che sposta semplicemente lo sguardo dall’esterno all’interno, ma sia un tipo fondamentalmente diverso di storia, che richiede una rivoluzione concettuale al pari di quelle della fisica quantistica e della relatività.
Sono molto favorevole alle rivoluzioni intellettuali. Non esiste nulla di piú emozionante di una scoperta che ribalta la concezione del mondo comunemente accettata. Nelle pagine che seguono, discuteremo di sconvolgimenti che secondo alcuni studiosi della coscienza stanno per arrivare. Per ragioni che diventeranno chiare piú avanti, però, ho il sospetto che la coscienza sia meno misteriosa di quanto sembri. In sintonia con la mia esclamazione nella trasmissione televisiva e, cosa piú importante, con una fetta di ricercatori che hanno dedicato la propria vita professionale a questi interrogativi, prevedo che un giorno spiegheremo la coscienza con nient’altro che un’interpretazione tradizionale delle particelle che costituiscono la materia e delle leggi fisiche che le governano. Ciò produrrebbe una varietà particolare di rivoluzione, stabilendo un’egemonia praticamente illimitata delle leggi fisiche, che arriverebbe arbitrariamente lontano nel mondo esteriore della realtà oggettiva e arbitrariamente in profondità nel mondo interiore della realtà soggettiva.
2. Nell’ombra.
Non tutte le funzioni del cervello suscitano la venerazione riservata alla coscienza. Gran parte dell’attività neurologica è orchestrata al di sotto della superficie della consapevolezza cosciente. Mentre guardate un tramonto, il vostro cervello elabora rapidamente i dati trasmessi da bilioni di fotoni che colpiscono i fotorecettori nelle retine ogni secondo, interpolando diligentemente l’immagine per tenere conto dei punti ciechi (dove, in ciascun occhio, il nervo ottico si collega alla retina, trasmettendo i dati al nucleo genicolato laterale del cervello e poi fino alla corteccia visiva), compensando continuamente lo spostamento degli occhi e il movimento della testa, operando correzioni per gli effetti di fotoni bloccati o diffusi da anomalie oculari, raddrizzando ciascuna immagine capovolta, fondendo le parti di ciascuna immagine comune ai due occhi, e cosí via, ma mentre contemplate tranquilli gli ultimi raggi del Sole ignorate completamente tutto ciò che accade dietro ai vostri occhi. Analoghe considerazioni valgono per quanto vi succede mentre leggete queste parole. L’architettura della consapevolezza vi permette di concentrarvi sui concetti indicati dalle parole, relegando l’elaborazione di enormi quantità di dati visivi e linguistici a funzioni cerebrali che passano inosservate. In modo ancora piú naturale, ogni giorno camminate, parlate, nel vostro corpo il cuore batte, il sangue scorre, lo stomaco digerisce, i muscoli si flettono e cosí via, e tutto ciò accade senza che dobbiate prestarvi la minima attenzione.
Il fatto che il cervello è sommerso da una marea di processi importanti che sfuggono all’introspezione è una premessa che ha una lunga storia ed è stata espressa in miriadi di forme. In testi vedici scritti tremila anni fa si trova un concetto di inconscio e i riferimenti continuano nei secoli, con pensatori acuti che ipotizzano sapori di qualità mentali che il palato della consapevolezza cosciente non può gustare: sant’Agostino («La mente è dunque troppo angusta per contenere sé stessa! E dov’è allora ciò che non comprende di sé?»)5, Tommaso d’Aquino («La mente umana non è evidente a sé stessa attraverso di sé»)6, William Shakespeare («Discendete nel vostro petto; lí picchiate, e chiedete al vostro cuore qual cosa egli conosca»)7, Gottfried Leibniz («La musica è un esercizio aritmetico segreto di una mente che non si rende conto di calcolare»)8. Molto interessanti sono anche i processi che sembrano passare inosservati e tuttavia generano echi a cui l’elaborazione cosciente può accedere. Abbiamo molti racconti, per esempio, di problemi risolti dall’inconscio, che fornisce spontaneamente la soluzione. Uno dei piú coloriti è quello del farmacologo tedesco Otto Loewi, che la notte prima della domenica di Pasqua del 1921 si svegliò e buttò giú un’idea che aveva appena avuto in sogno. Al mattino, Loewi ebbe l’intensa sensazione che gli appunti notturni contenessero un’intuizione fondamentale, ma per quanto si sforzasse non riusciva a decifrarla. La notte successiva fece lo stesso sogno, ma questa volta andò subito al laboratorio per effettuare, come suggerito dal sogno, un esperimento per verificare una sua ipotesi di vecchia data, cioè che per la comunicazione cellulare sono essenziali i processi chimici, non i processi elettrici. L’esperimento ispirato dal sogno fu completato in meno di ventiquattr’ore e alla fine il suo successo portò Loewi a vincere il premio Nobel9.
La cultura popolare tende a intrecciare i misteriosi meccanismi della mente con i contributi di Sigmund Freud (anche se anni prima un gruppo di scienziati esperti aveva perseguito idee collegate)10 e le vorticose correnti sotterranee di tutti i ricordi repressi, i desideri, i conflitti, le fobie e i complessi che a suo giudizio sballottano di qua e di là il comportamento umano. Oggi la grossa differenza è che le congetture, le impressioni e le intuizioni riguardo alla vita della mente vengono messe a confronto con dati che prima non erano disponibili. I ricercatori hanno sviluppato metodi ingegnosi per dare una sbirciatina alla mente e seguire l’attività cerebrale che sta al di sotto del livello della consapevolezza cosciente.
Gli studi su pazienti con qualche livello di compromissione delle funzioni neurologiche sono tra i piú notevoli. Un caso famoso, relativo a una paziente nota come P. S. che aveva subito un danno all’emisfero destro, fu documentato alla fine degli anni Ottanta da Peter Halligan e John Marshall11. Come previsto nel caso di questo tipo di menomazione, P. S. non era in grado di riferire i dettagli all’estrema sinistra di qualsiasi immagine che le venisse mostrata. Sosteneva, per esempio, che due schizzi di una casa disegnati con una matita verde erano identici anche se in uno il lato sinistro della casa era avvolto dalle fiamme, disegnate in rosso. Tuttavia, quando le chiedevano in quale delle due case avrebbe preferito abitare, P. S. sceglieva sempre la casa che non stava bruciando. Secondo i ricercatori, anche se P. S. era incapace di essere consapevole dell’incendio, in qualche modo l’informazione era stata acquisita e influenzava la sua decisione da dietro le quinte.
Anche i cervelli sani rivelano la propria dipendenza da influenze nascoste. Gli psicologi hanno stabilito che, anche se prestiamo la massima attenzione, un’immagine proiettata su uno schermo per meno di circa quaranta millisecondi (e presentata fra due immagini proiettate un po’ piú a lungo, chiamate maschere) non accede alla nostra consapevolezza cosciente. Ciò nonostante, queste immagini subliminali possono influenzare le decisioni coscienti. La famosa tesi di un aumento del consumo di bibite causato da messaggi subliminali («Bevete Coca-Cola») inseriti nei film proiettati nelle sale è una leggenda metropolitana diffusa alla fine degli anni Cinquanta da un ricercatore di mercato in difficoltà12. Tuttavia pregevoli studi di laboratorio hanno fornito prove convincenti di alcuni tipi specifici di processi mentali clandestini13. Per esempio, immaginate di dover classificare rapidamente come maggiori o minori di 5 i numeri compresi tra 1 e 9 che vengono proiettati in sequenza su uno schermo. I vostri tempi di reazione saranno piú veloci se un dato numero è preceduto da una proiezione subliminale di un numero che andrebbe classificato nello stesso modo (per esempio, quando un 4 è preceduto da un 3 subliminale). Per contro, la vostra risposta sarà piú lenta quando il numero è preceduto da una proiezione subliminale di un numero appartenente all’altro gruppo (per esempio, quando un 4 è preceduto da un 7 subliminale)14. Anche se non ne siete consapevoli, i fugaci cammei numerici sono guizzati nel vostro cervello e hanno influenzato la vostra risposta.
La conclusione è che il cervello coordina surrettiziamente un prodigio di regolazione, funzionalità e data mining. Per quanto mirabili, queste attività cerebrali non costituiscono un mistero concettuale. Il cervello invia e riceve rapidamente segnali attraverso fibre nervose, che gli permettono di controllare i processi biologici e generare risposte comportamentali. Per delineare i percorsi neurali precisi e i dettagli fisiologici alla base di queste funzioni e di questi comportamenti, gli scienziati affrontano l’arduo compito di mappare vasti territori occupati da fitti circuiti biologici complessi a un livello di precisione molto superiore a quello finora raggiunto. Comunque, tutto ciò che stiamo imparando suggerisce che, per quanto impegnativo, per quanto enormi le riserve di creatività e diligenza necessarie, abbiamo tutti i motivi per credere che le strategie della scienza che ben conosciamo avranno la meglio.
E se non fosse per una fastidiosa qualità della mente, sarebbe finita lí. Ma se si guarda al di là dei compiti della mente e si considerano invece le sensazioni della mente – l’esperienza interiore che identifichiamo con l’essenza della condizione umana –, alcuni ricercatori sono giunti a formulare una previsione diversa e molto meno ottimistica per la capacità della scienza tradizionale di fornire intuizioni. Questo ci conduce a ciò che alcuni chiamano il «problema difficile» della coscienza.
3. Il problema difficile.
In una lettera a Henry Oldenburg, che nel periodo in cui si formò la scienza moderna tenne un’assidua corrispondenza con i massimi ingegni europei, Isaac Newton scrisse: «Determinare piú esattamente cos’è la luce, […] e per effetto di quali modalità o azioni essa produce nella nostra mente i fantasmi dei colori, non è tanto facile. E io non mescolerò congetture con cose certe»15. Newton cercava di spiegare la piú comune delle esperienze: la sensazione interiore dell’uno o dell’altro colore. Considerate una banana. Guardare una banana e stabilire che è gialla non è granché, naturalmente. Può farlo anche il vostro telefono, se ha l’app giusta. Per quanto ne sappiamo, però, quando il telefono vi segnala che la banana è gialla, non ha una sensazione interiore del giallo. Non vede il giallo con l’occhio della mente. Voi sí. Anch’io lo vedo. E lo vedeva anche Newton. La sua difficoltà era capire come diamine riusciamo a farlo.
Questa difficoltà non riguarda affatto soltanto i «fantasmi» mentali del giallo, del blu o del verde. Mentre digito queste parole, sgranocchiando popcorn, con la musica in sottofondo, ho tutta una serie di esperienze interiori: la pressione sui polpastrelli, un retrogusto salato, le magnifiche voci dei Pentatonix, un dialogo interiore di negoziazione della prossima espressione in questa frase. Il vostro mondo interiore sta assimilando queste parole, che magari sentite pronunciare dalla vostra voce interiore, mentre forse siete anche distratti da quell’ultima fetta di torta al cioccolato che sta nel frigo. Il punto è che la nostra mente ospita una gran varietà di sensazioni interiori – pensieri, emozioni, ricordi, immagini, desideri, suoni, odori e altro ancora – che fanno tutti parte di ciò che intendiamo per coscienza16. Come nel caso di Newton e la banana, il problema è determinare come il cervello crea e mantiene il mondo movimentato dell’esperienza soggettiva.
Per rendervi pienamente conto della profondità del mistero, immaginate di essere dotati di una vista sovrumana che vi permette di scrutare il mio cervello e osservare ognuna delle sue particelle – circa 1000 bilioni di bilioni di elettroni, protoni e neutroni – urtarsi e agitarsi, attrarsi e respingersi, fluire e disperdersi17. A differenza delle grandi collezioni di particelle emanate dal pane che cuoce nel forno e da quelle che si uniscono formando una stella, le particelle che costituiscono un cervello sono disposte in una configurazione altamente organizzata. Ciò nonostante, se vi concentrate su una qualsiasi di queste particelle, vedete che interagisce con le altre mediante le stesse forze descritte dalle stesse equazioni che la particella fluttui nella vostra cucina, nella corona della stella polare o nella mia corteccia prefrontale. E in quella descrizione matematica, confermata da decenni di dati degli acceleratori e di potenti telescopi, non vi è nulla che accenni alle esperienze interiori che quelle particelle in qualche modo generano. Come fa una collezione di particelle che non hanno né una mente né pensieri né emozioni a unirsi e produrre le sensazioni interiori del colore o del suono, dell’euforia o della meraviglia, della confusione o della sorpresa? Le particelle possono avere una massa, una carica elettrica e una manciata di altre caratteristiche simili (cariche nucleari, che sono versioni particolari della carica elettrica), ma tutte queste qualità sembrano non avere il minimo collegamento con qualcosa anche solo lontanamente simile all’esperienza soggettiva. Come fa quindi un turbinio di particelle dentro un cranio – un cervello non è altro – a creare impressioni, sensazioni e sentimenti?
Il filosofo Thomas Nagel ha offerto una descrizione famosa e particolarmente suggestiva della lacuna esplicativa18. Che cosa si prova, si è domandato, a essere un pipistrello? Cercate di immaginarlo. Siete in alto su uno strato d’aria e mentre sorvolate un panorama oscuro emettete un’incessante successione di suoni secchi, generando echi dagli alberi, dalle rocce e dagli insetti, che vi permettono di mappare l’ambiente. Dai suoni riflessi vi rendete conto che poco piú avanti c’è una zanzara che sta sfrecciando verso destra, quindi la ghermite e vi godete il bocconcino. Poiché il nostro modo di interagire con il mondo è profondamente diverso, per il momento solo la nostra immaginazione può farci entrare nel mondo interiore del pipistrello. Anche se avessimo un resoconto completo di tutti i processi fisici, chimici e biologici che fanno di un pipistrello un pipistrello, la nostra descrizione sembrerebbe comunque incapace di comprendere l’esperienza soggettiva, «in prima persona», del pipistrello. Per quanto dettagliata possa essere la nostra comprensione materiale, il mondo interiore del pipistrello sembra inaccessibile.
Ciò che è vero per il pipistrello è vero anche per ciascuno di noi. Voi siete uno sciame di particelle interagenti. Lo sono anch’io. E anche se capisco come le vostre particelle possano portarvi a riferire di avere visto il colore giallo (basta che le particelle del tratto vocale, della bocca e delle labbra organizzino i propri movimenti per produrre quel comportamento esterno), non riesco a comprendere come facciano a produrre una sensazione interiore di felicità o di tristezza. In effetti, anche se al mio mondo interiore posso accedere direttamente, mi è altrettanto difficile capire come quel mondo possa emergere dai movimenti e dalle interazioni delle mie particelle.
Naturalmente, sarei in difficoltà anche se cercassi di spiegare molte altre cose in termini rigorosamente riduzionistici, dai tifoni nel Pacifico alle eruzioni vulcaniche. Ma la sfida posta da questi eventi, e da un mondo stracolmo di esempi analoghi, sta soltanto nel descrivere la dinamica complessa di un numero straordinariamente grande di particelle. Se riuscissimo a superare questo ostacolo tecnico, saremmo a posto19. Il motivo è che non esiste una sensazione interiore di «che cosa si prova a essere» un tifone o un vulcano. I tifoni e i vulcani, per quanto ne sappiamo, non hanno un mondo soggettivo di esperienza interiore. Non ci mancano resoconti in prima persona. Ma per qualunque essere cosciente, questo è proprio ciò che manca alla nostra descrizione oggettiva impersonale.
Nel 1944, durante l’annuale conferenza di Tucson sulla coscienza, David Chalmers, un giovane filosofo australiano con i capelli lunghi fin sotto le spalle, salí sul palco e descrisse questa lacuna come il «problema difficile» della coscienza. Non che il problema «facile» – capire i meccanismi dei processi cerebrali e il loro ruolo nell’imprimere i ricordi, rispondere agli stimoli e modellare il comportamento – sia facile. È solo che per quel tipo di problemi possiamo immaginare quale forma avrebbe una soluzione; riusciamo a formulare un approccio di principio a livello delle particelle, o di strutture piú complesse come cellule e nervi, che sembra coerente. La valutazione di Chalmers era motivata dalla difficoltà di immaginare una tale soluzione per la coscienza. A suo parere, non solo ci manca un ponte fra le particelle prive di mente e l’esperienza mentale, ma se cercassimo di costruirne uno sulla base di un progetto riduzionistico, usando le particelle e le leggi che costituiscono la base fondamentale della scienza cosí come la conosciamo, saremmo destinati a fallire.
Il suono del giudizio di Chalmers – armonioso per alcuni e dissonante per altri – riecheggia da allora nelle ricerche sulla coscienza.
4. La storia di Mary.
È facile non prendere sul serio il problema difficile. In passato, io stesso reagivo in un modo che poteva sembrare superficiale. Interrogato a questo proposito, dicevo spesso che l’esperienza cosciente è semplicemente ciò che si prova quando nel cervello ha luogo un certo tipo di elaborazione delle informazioni. Ma poiché la questione fondamentale è spiegare come possa esistere «ciò che si prova», questa risposta liquida troppo rapidamente il problema difficile come se non fosse difficile, anzi come se non fosse affatto un problema. Volendo essere piú generosi, è una risposta che si schiera con l’opinione molto diffusa secondo cui al pensiero si dà troppo peso. Anche se alcuni aficionados del problema difficile sostengono che per capire la coscienza avremo bisogno di introdurre concetti al di fuori della scienza tradizionale, altri, i cosiddetti fisicalisti, prevedono che, interpretati con intelligenza e applicati in modo creativo, i metodi scientifici tradizionali, che fanno ricorso unicamente alle proprietà fisiche della materia, saranno all’altezza del compito. La prospettiva fisicalistica riassume quella che è stata per lungo tempo la mia concezione.
Nel corso degli anni, tuttavia, riflettendo piú attentamente sul problema della coscienza, ho avuto notevoli momenti di dubbio. Il piú sorprendente fu quando scoprii un potente argomento presentato dal filosofo Frank Jackson un decennio prima che l’argomento difficile fosse etichettato come difficile20. Jackson racconta una storia semplice, che presento in una versione leggermente adattata. Immaginate una ragazza in gamba del lontano futuro, Mary, del tutto priva della capacità di vedere i colori. Sin dalla nascita, nel suo mondo tutto le è apparso in bianco e nero. La sua malattia sconcerta gli specialisti piú illustri e perciò Mary decide che spetterà a lei trovare una soluzione. Motivata dal sogno di curare la sua menomazione, Mary intraprende anni di studio intensivo, osservazioni ed esperimenti. Grazie a tutto ciò, Mary diventa il piú grande neuroscienziato mai vissuto al mondo, raggiungendo un obiettivo da tempo perseguito invano dall’umanità: chiarisce ogni minimo dettaglio della struttura, della funzione, della fisiologia, della chimica, della biologia e della fisica del cervello. Mary conosce a fondo tutto ciò che è possibile sapere dei meccanismi del cervello, sia della sua organizzazione globale sia dei suoi processi microfisici. Mary capisce tutte le scariche neurali e le cascate di particelle che si verificano quando ci meravigliamo di un bel cielo terso, addentiamo una pesca succulenta o ci perdiamo nella Terza sinfonia di Brahms.
Grazie a questa conoscenza, Mary riesce a individuare la cura per la sua menomazione visiva e si sottopone all’intervento chirurgico necessario per correggerla. Dopo qualche mese, i medici sono pronti a toglierle le bende e Mary si prepara ad affrontare di nuovo il mondo. Stando di fronte a un mazzo di rose rosse, Mary apre lentamente gli occhi. La domanda è: da questa prima esperienza del colore rosso, Mary imparerà qualcosa di nuovo? Provando infine l’esperienza interiore del colore, otterrà una nuova comprensione?
Sembra scontato che la prima volta che Mary proverà la sensazione interiore del rosso sarà sopraffatta. Sorpresa? Sí. Emozionata? Naturalmente. Commossa? Profondamente. Sembra del tutto evidente che la prima esperienza diretta del colore amplierà la sua comprensione della percezione umana e della reazione emotiva che può generare. Partendo da questa intuizione molto comune, Jackson ci invita a considerarne le implicazioni. Mary conosceva a fondo tutto ciò che si può sapere dei meccanismi fisici del cervello e tuttavia, grazie a questo solo evento, a quanto pare ha ampliato la sua conoscenza. Ha acquisito la conoscenza dell’esperienza cosciente che accompagna la reazione del cervello al colore rosso. Qual è la conclusione? La conoscenza completa dei meccanismi fisici del cervello tralascia qualcosa. Non riesce a svelare e spiegare le sensazioni soggettive. Se questa conoscenza fisica fosse stata esaustiva, togliendo le bende Mary sarebbe rimasta indifferente.
Quando lessi per la prima volta questa storia, sentii subito una certa affinità con Mary, come se anch’io avessi subito un intervento chirurgico correttivo che mi avesse aperto una nuova finestra sulla natura della coscienza. La mia sbrigativa certezza del fatto che i processi fisici che hanno luogo nel cervello sono la coscienza, che la coscienza è la sensazione di quei processi, improvvisamente si incrinò. Mary possedeva tutta la conoscenza possibile di tutti i processi fisici del cervello e tuttavia lo scenario chiarisce che si trattava di una conoscenza incompleta. Ciò suggerisce che per quanto riguarda l’esperienza cosciente i processi fisici fanno parte della storia. Ma non la esauriscono. Quando fu pubblicato, molto prima che io ne venissi a conoscenza, l’articolo di Jackson scosse anche gli esperti e nei decenni successivi Mary ha provocato molte reazioni.
Il filosofo Daniel Dennett ci invita a considerare seriamente le implicazioni della conoscenza esaustiva di Mary dei fatti fisici. Il punto, secondo Dennett, è che il concetto di comprensione fisica completa ci è talmente sconosciuto che sottovalutiamo enormemente il potere esplicativo che offrirebbe. Dennett sostiene che con una conoscenza onnicomprensiva, dalla fisica della luce alla biochimica degli occhi e alla neuroscienza del cervello, Mary sarebbe in grado di discernere la sensazione interiore del rosso molto prima di provarla21. Una volta tolte le bende, potrebbe reagire alla bellezza delle rose rosse, ma vederne il colore non farebbe che confermare le sue aspettative. I filosofi David Lewis22 e Laurent Nemirow23 sono di parere diverso e sostengono che Mary acquisisce una nuova capacità, la capacità di individuare, ricordare e immaginare l’esperienza interiore del rosso, ma ciò non costituisce un nuovo fatto che non faceva parte delle sue conoscenze. Dopo aver tolto le bende, Mary forse non resterebbe indifferente, ma il «wow» che potrebbe pronunciare indicherebbe soltanto il suo piacere per un nuovo modo di riflettere su vecchie conoscenze. Oggi anche lo stesso Jackson respinge la sua conclusione originaria, avendo cambiato opinione dopo aver meditato per anni su Mary. Siamo cosí abituati a imparare i fatti del mondo per esperienza diretta, come capire che cosa si prova a percepire il rosso vedendo il rosso, che presumiamo implicitamente che queste esperienze forniscano l’unico mezzo per acquisire tale conoscenza. Secondo Jackson, è una supposizione ingiustificata. Il processo di apprendimento di Mary sarebbe insolito, giacché fa ricorso al ragionamento deduttivo quando le persone comuni si basano sull’esperienza diretta, ma la sua completa padronanza delle conoscenze fisiche le permetterebbe di determinare che cosa si prova a vedere il rosso24.
Chi ha ragione? Il Jackson originario e i seguaci del suo primo giudizio? Oppure la nuova versione di Jackson e tutti quelli che sono convinti che quando vede le rose Mary non impara qualcosa di nuovo?
La posta in gioco è alta. Se la coscienza può essere spiegata da fatti riguardanti le forze fisiche del mondo in azione sui suoi costituenti materiali, il nostro compito sarà fornire questa spiegazione. In caso contrario, il nostro compito sarà piú vasto. Dovremo determinare i nuovi concetti e processi richiesti per comprendere la coscienza, un viaggio che quasi certamente ci condurrà ben al di là degli attuali confini della scienza.
In passato, abbiamo navigato fiduciosi nelle acque agitate dell’intuizione umana individuando conseguenze verificabili dei punti di vista contrastanti. Finora nessuno ha proposto un esperimento, un’osservazione o un calcolo che possa dirimere definitivamente la questione sollevata dalla storia di Mary o, piú ambiziosamente, rivelare la fonte dell’esperienza interiore. Il piú delle volte, ciò che possiamo considerare per giudicare le prospettive che sembrano minimamente accettabili sono la plausibilità e il richiamo intuitivo, criteri flessibili che, come vedremo, hanno permesso l’esistenza di una variegata collezione di punti di vista.
5. Una storia di due storie.
Le strategie per spiegare la coscienza coprono un territorio concettuale straordinariamente vasto. Agli estremi troviamo punti di vista che liquidano la coscienza come un’illusione (eliminativismo) oppure dichiarano che la coscienza è l’unica qualità reale del mondo (idealismo). In mezzo incontriamo un’ampia gamma di proposte. Alcune operano entro i confini del pensiero scientifico tradizionale, altre si insinuano nelle crepe dell’attuale comprensione scientifica e altre ancora aumentano le qualità che da tempo riteniamo definire la realtà al suo livello piú fondamentale. Due brevi resoconti inseriscono queste proposte nel proprio contesto storico.
Se aveste assistito alle discussioni che si svolsero tra i biologi nel Settecento e nell’Ottocento, avreste sentito parlare spesso del vitalismo, che affrontava quello che si sarebbe potuto chiamare il «problema difficile» della vita: poiché gli ingredienti fondamentali del mondo sono inanimati, com’è possibile che le collezioni di questi ingredienti siano vive? La risposta del vitalismo, essenziale e diretta, era che queste collezioni non possono essere vive. Per lo meno non di per sé. Secondo la proposta del vitalismo, l’ingrediente mancante è un’immateriale scintilla o forza vitale che fornisce alla materia inanimata la magia della vita.
Se aveste frequentato certi ambienti fisici nell’Ottocento, avreste sentito parlare con entusiasmo dell’elettricità e del magnetismo mentre Michael Faraday e altri indagavano sempre piú a fondo questo dominio che esercitava un fascino crescente. Secondo una delle prospettive che avreste incontrato, questi nuovi fenomeni potevano essere spiegati nell’ambito dell’approccio meccanicistico usuale della scienza elaborato da Isaac Newton. Trovare la sapiente combinazione di fluidi che scorrono e di ingranaggi in miniatura responsabile dei nuovi fenomeni poteva essere difficile, ma gli elementi di base per la comprensione erano già a disposizione. A causa della prevista adeguatezza del ragionamento scientifico tradizionale, si sarebbe potuto definire come il «problema facile» dell’elettricità e del magnetismo.
Il tempo ha rivelato che le aspettative descritte in ciascuna storia erano erronee. Con due secoli di senno di poi, l’enigma quasi mistico evocato un tempo dalla vita si è ridotto. Anche se non abbiamo ancora raggiunto una piena comprensione dell’origine della vita, la comunità scientifica è quasi unanime nel ritenere che non sia richiesta una scintilla magica. Oltre a particelle configurate in una gerarchia di strutture – atomi, molecole, organelli, cellule, tessuti, e cosí via – non occorre altro. I dati a disposizione sembrano decisamente confermare che l’attuale quadro di riferimento della fisica, della chimica e della biologia è del tutto sufficiente per spiegare la vita. Il problema difficile della vita, pur essendo certamente arduo, è stato riclassificato come facile.
Per l’elettricità e il magnetismo, i dati raccolti per mezzo di esperimenti accurati imposero agli scienziati di andare oltre le caratteristiche della realtà fisica che si trovavano nei libri prima dell’Ottocento. La comprensione dell’epoca lasciò il posto a una qualità fisica completamente nuova della materia (la carica elettrica) reagente a un tipo totalmente nuovo di influenza (i campi elettrici e magnetici che permeano lo spazio) descritta da un insieme completamente nuovo di equazioni (venti, nella formulazione iniziale) sviluppate da James Clerk Maxwell. Benché risolto, il problema «facile» dell’elettricità e del magnetismo si rivelò essere difficile25.
Molti ricercatori immaginano che la storia del vitalismo si ripeterà con la coscienza: via via che acquisiremo una comprensione sempre piú profonda del cervello, il problema difficile della coscienza sparirà lentamente. Anche se oggi è misteriosa, l’esperienza interiore a poco a poco arriverà a essere considerata una conseguenza diretta delle attività fisiologiche del cervello. Ciò che ci manca è la piena padronanza dei meccanismi interni del cervello, non una nuova varietà di sostanza mentale. Un giorno, secondo questa prospettiva fisicalistica, sorrideremo ripensando a come un tempo, in modo appassionato ma del tutto ingiustificato, avvolgevamo di mistero la coscienza.
Altri studiosi immaginano che il modello pertinente per la coscienza sia la storia dell’elettromagnetismo. Quando la nostra comprensione del mondo si trova ad affrontare fatti sconcertanti, è naturale cercare di incorporarli nel quadro scientifico esistente. Può succedere, però, che certi fatti non si adattino ai modelli disponibili. Alcuni fatti potrebbero rivelare nuove qualità della materia. Il settore della coscienza, secondo questo schieramento, è ricco di fatti simili. Se questa prospettiva si dimostrerà corretta, la comprensione dell’esperienza soggettiva richiederà una sostanziale riconfigurazione del campo di gioco intellettuale, le cui potenziali conseguenze potrebbero produrre effetti ben al di là degli interrogativi sulla mente.
Una delle proposte piú radicali è stata avanzata da David Chalmers, il signor Problema Difficile in persona.
6. Teorie del tutto.
Chalmers, convinto che la consapevolezza cosciente non possa emergere da un vortice di particelle prive di mente, ci invita a prendere sul serio la storia dell’elettromagnetismo. Cosí come i fisici dell’Ottocento affrontarono coraggiosamente la futilità di mettere insieme alla meglio spiegazioni forzate dei fenomeni elettromagnetici usando la scienza tradizionale dell’epoca, noi dobbiamo avere lo stesso coraggio e riconoscere che per demistificare la coscienza dobbiamo guardare al di là delle qualità fisiche note.
Ma come? Una possibilità, semplice e audace, è che le singole particelle siano esse stesse dotate di un attributo innato di coscienza – per evitare immagini di elettroni euforici e quark balzani, chiamiamola protocoscienza. In altre parole, la nostra descrizione della realtà deve ampliarsi per comprendere un’intrinseca e irriducibile qualità soggettiva che è infusa negli ingredienti materiali elementari della natura. Questa è la qualità della materia che abbiamo trascurato a lungo ed è per questo motivo che finora non siamo riusciti a spiegare la base fisica dell’esperienza cosciente. Come fa un turbinio di particelle prive di mente a creare la mente? Non è possibile. Per creare una mente cosciente è necessario un turbinio di particelle dotate di una mente. Una grande collezione di particelle che mettono insieme le proprie qualità protocoscienti può produrre l’esperienza cosciente che conosciamo. In base a questa proposta, quindi, le particelle sono dotate di un insieme ben studiato di proprietà fisiche (massa, carica elettrica, cariche nucleari e spin quantistico) e della qualità finora trascurata della protocoscienza. Ridando vita a credenze panpsichistiche le cui radici storiche risalgono all’antica Grecia, Chalmers prende quindi in considerazione la possibilità che la coscienza riguardi qualunque cosa sia composta di particelle, dal cervello di un pipistrello a una mazza da baseball.
Se vi state domandando che cosa sia realmente la protocoscienza o come venga infusa in una particella, la vostra curiosità è lodevole, ma queste non sono domande a cui Chalmers o chiunque altro possa rispondere. Ciò nonostante, è utile considerare queste domande nel contesto. Se mi poneste domande simili sulla massa o sulla carica elettrica, probabilmente le mie risposte vi lascerebbero altrettanto insoddisfatti. Non so né che cos’è la massa né che cos’è la carica elettrica. Quel che so è che la massa produce ed è sensibile a una forza gravitazionale e la carica elettrica produce ed è sensibile a una forza elettromagnetica. Quindi, anche se non so dirvi che cosa sono, posso dirvi che cosa fanno queste caratteristiche delle particelle. In maniera simile, forse i ricercatori non saranno in grado di delineare che cos’è la protocoscienza e tuttavia riusciranno a sviluppare una teoria di che cosa fa – come produce la coscienza e come reagisce a essa. Per le influenze gravitazionali ed elettromagnetiche, qualsiasi timore che sostituire azione e reazione a una definizione intrinseca corrisponda a un gioco di prestigio intellettuale si attenua, nella maggior parte dei ricercatori, di fronte alla spettacolare accuratezza delle previsioni che possiamo ricavare dalle nostre teorie matematiche di queste due forze. Forse un giorno avremo una teoria matematica della protocoscienza capace di produrre previsioni altrettanto accurate. Per il momento, non è stata ancora elaborata.
Per quanto strano sembri tutto ciò, Chalmers sostiene che il suo approccio rientra pienamente nei limiti della scienza, interpretati in modo corretto. Per secoli, gli scienziati si sono concentrati unicamente sul dispiegarsi oggettivo della realtà e ponendosi questo obiettivo hanno sviluppato equazioni che spiegano alla perfezione i dati sperimentali e osservazionali. Questi dati, però, possono essere esaminati in terza persona. Il suggerimento di Chalmers è che esistono altri dati, i dati dell’esperienza interiore, e presumibilmente anche altre equazioni, capaci di cogliere schemi e regolarità nel dominio interiore. La scienza tradizionale quindi spiegherebbe i dati esterni, mentre la scienza della prossima era spiegherebbe i dati interni.
Detto in un modo leggermente diverso, per molti anni è stata attiva una corrente di pensiero, spesso ritenuta far capo al fisico John Wheeler (noto al pubblico per aver reso popolare l’espressione «buchi neri»), che considerava l’informazione come la valuta piú fondamentale nell’ambito della fisica. Per descrivere lo stato del mondo in questo momento, fornisco le informazioni che specificano la configurazione di tutte le particelle danzanti e di tutti i campi ondeggianti che permeano lo spazio. Le leggi della fisica usano come input quelle informazioni e producono informazioni che delineano lo stato del mondo in seguito. La fisica, da questo punto di vista, si occupa di elaborazione dell’informazione.
Espressa in questo linguaggio, la proposta di Chalmers è che l’informazione ha due aspetti. Esiste una qualità oggettiva dell’informazione, accessibile in terza persona – l’informazione che, per centinaia di anni, è stata il territorio della fisica tradizionale. Ma esiste anche una qualità soggettiva, accessibile in prima persona, che finora la fisica non ha considerato. Una teoria completa della fisica dovrebbe riguardare non soltanto le informazioni esterne ma anche quelle interne e avrebbe bisogno di leggi che descrivono l’evoluzione dinamica dell’uno e dell’altro tipo. L’elaborazione delle informazioni interne fornirebbe la base fisica dell’esperienza cosciente.
Il sogno di Einstein di una teoria unificata della fisica, una teoria capace di descrivere tutte le particelle e le forze della natura mediante un unico formalismo matematico, è stato definito come la ricerca di una teoria del tutto. Questa descrizione disgraziatamente enfatica, spesso applicata anche al mio settore della teoria delle stringhe, spiega perché mi chiedono spesso il mio parere sulla coscienza. In fondo, la coscienza sembrerebbe essere compresa in una teoria capace di spiegare tutto. Ma, come ho detto spesso a chi mi intervistava, una cosa è capire la fisica delle particelle elementari e tutt’altra cosa è sfruttarla per comprendere la mente umana. La costruzione dell’apparato scientifico che colleghi le scale enormemente diverse, sia per dimensioni sia per complessità, è una delle sfide scientifiche piú difficili. Peraltro, se Chalmers avesse ragione, la coscienza entrerebbe nel resoconto scientifico al livello delle equazioni fondamentali e dei costituenti elementari. Ciò significa che un giorno potremmo avere una comprensione che incorpora sin dal principio il lato esterno e il lato interno dell’elaborazione dell’informazione – i processi fisici oggettivi e le esperienze coscienti soggettive. Quella sarebbe una teoria unificata. Continuerò a oppormi all’espressione «teoria del tutto» – penso che gli scienziati avrebbero comunque difficoltà a prevedere che cosa mangerò a colazione domani mattina –, ma una tale comprensione sarebbe rivoluzionaria.
È la direzione giusta? Ne sarei entusiasta. Ci troveremmo sul confine di un territorio della realtà del tutto nuovo che aspetta di essere esplorato. Come probabilmente immaginate, però, l’idea che per tentare di scoprire la fonte della coscienza la scienza abbia bisogno di viaggiare in terre cosí esotiche suscita molto scetticismo. Una guida appropriata in questo contesto è la famosa osservazione di Carl Sagan che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Abbiamo prove schiaccianti di qualcosa di straordinario, le nostre esperienze interiori, ma prove molto meno convincenti del fatto che quelle esperienze siano al di là della portata esplicativa della scienza tradizionale.
La nostra conoscenza si approfondirebbe se riuscissimo a individuare le condizioni fisiche necessarie per generare le esperienze soggettive, un compito fondamentale nella teoria della coscienza di cui ci occupiamo ora.
7. La mente integra le informazioni.
Il fatto che il cervello è una collezione umida e di forma circonvoluta di cellule che elaborano informazioni è incontroverso. Scansioni e sonde invasive hanno stabilito che parti distinte del cervello sono specializzate nell’elaborazione di tipi particolari di informazioni – visive, uditive, olfattive, linguistiche e cosí via26. Di per sé, tuttavia, l’elaborazione dell’informazione non coglie appieno le qualità distintive del cervello. Moltissimi sistemi fisici elaborano informazioni, dall’abaco al termostato e al computer e, prendendo sul serio il punto di vista di Wheeler, in un certo senso ogni singolo sistema fisico può essere considerato un elaboratore di informazioni. Che cosa distingue la varietà di elaborazione dell’informazione che produce la consapevolezza cosciente? Questa domanda ha guidato lo psichiatra e neuroscienziato Giulio Tononi, a cui si è unito in questa ricerca il neuroscienziato Christof Koch, portandoli a sviluppare un approccio chiamato teoria dell’informazione integrata27.
Per farvi un’idea di questa teoria, immaginate di ricevere in regalo una Ferrari nuova di zecca. Che siate o no appassionati di auto sportive di lusso, nel momento in cui arriva la Ferrari il vostro cervello viene stimolato da una profusione di dati sensoriali. Le informazioni che esprimono le qualità visive, tattili e olfattive dell’auto, oltre a connotazioni piú astratte, dalla sua potenza su strada a varie associazioni con il lusso e la ricchezza, si intrecciano immediatamente in un’esperienza cognitiva unitaria. Tononi direbbe che il contenuto informativo di questa esperienza è estremamente integrato. Anche se vi concentrate soprattutto sul colore dell’auto, potete notare che la vostra esperienza è decisamente diversa da quella di una Ferrari di un colore indefinito che poi la mente dipinge di rosso. O da quella di un astratto ambiente rosso a cui la mente in seguito dà la forma di una Ferrari. Anche se le informazioni sulla forma e quelle sul colore attivano parti diverse della corteccia visiva, nella vostra esperienza cosciente la forma e il colore della Ferrari sono inseparabili. Le percepite come una cosa sola. Questa, secondo Tononi, è una qualità intrinseca della coscienza: le informazioni che si fanno strada nell’esperienza cosciente sono cucite saldamente insieme.
Un’altra qualità intrinseca della coscienza è la varietà di cose che possiamo tenere nella mente. Da uno strabiliante assortimento di esperienze sensoriali a prodotti dell’immaginazione e a pensieri, preoccupazioni, previsioni e piani astratti, abbiamo un repertorio mentale quasi illimitato. Ciò significa che quando la vostra mente si concentra su una particolare esperienza cosciente, come la Ferrari, questa è altamente differenziata dalla vasta maggioranza delle altre esperienze mentali che potreste avere in quel momento. La proposta di Tononi promuove queste osservazioni al livello di una caratterizzazione distintiva: la consapevolezza cosciente è fatta di informazioni altamente integrate e altamente differenziate.
La maggior parte delle informazioni non ha queste qualità. Considerate una fotografia della Ferrari e il file digitale che la contiene. Per semplificare le cose, non preoccupatevi di dettagli come la compressione dell’immagine e pensate invece al file come a una matrice di numeri i cui valori registrano le informazioni sul colore e sulla luminosità di ciascun pixel dell’immagine. Questi numeri sono generati da fotodiodi della macchina fotografica che reagiscono alla luce riflessa dai diversi punti della superficie dell’auto. Quanto sono integrate le informazioni? Poiché i fotodiodi non comunicano tra loro né sono collegati in alcun modo, la risposta di ciascuno è indipendente dalle risposte degli altri e quindi le informazioni nel file digitale sono tutte unità indipendenti. Si potrebbe conservare il dato di ciascun pixel in un file separato e il contenuto informativo totale resterebbe invariato. Ciò significa che l’integrazione delle informazioni è nulla. Quanto sono differenziate le informazioni nel file digitale? Anche se il file digitale di una macchina fotografica può contenere una gran varietà di immagini, il contenuto informativo è vincolato da una matrice fissa di numeri indipendenti. Questo è tutto. Un file digitale fotografico non è configurato per ospitare l’etica della pena di morte o gli sforzi per dimostrare l’ultimo teorema di Fermat. In questo senso, il contenuto informativo è estremamente limitato e ciò significa che per quanto riguarda la differenziazione delle informazioni la macchina fotografica non è un granché.
Pertanto, quando il cervello costruisce una rappresentazione mentale, il suo contenuto informativo in breve diventa altamente integrato e altamente differenziato, ma quando la macchina fotografica costruisce una fotografia digitale, le sue informazioni non acquisiscono né l’una né l’altra caratteristica. Questo, secondo Tononi, è il motivo per cui voi avete un’esperienza cosciente della Ferrari e la macchina fotografica no.
Con l’obiettivo di rendere quantitative queste considerazioni, Tononi ha proposto una formula che assegna un valore numerico alle informazioni contenute in un sistema, di solito indicato con Φ, dove valori piú alti di Φ indicano una differenziazione maggiore e un’integrazione piú profonda – e quindi, in base alla teoria, un livello maggiore di consapevolezza cosciente. L’approccio presenta un continuum da sistemi piú semplici, con meno integrazione e differenziazione, che possono avere forme rudimentali di coscienza, a sistemi piú complessi come voi e me, con un’integrazione e una differenziazione sufficienti a produrre il livello consueto di consapevolezza cosciente, fino alla possibilità di altri sistemi ancora le cui capacità informazionali – e la cui esperienza cosciente – potrebbero sorpassare le nostre.
Come l’approccio di Chalmers, la teoria di Tononi tende al panpsichismo. Nella proposta, nulla è intrinsecamente legato a una particolare struttura fisica. La nostra esperienza di consapevolezza cosciente sta in un cervello biologico, ma secondo Tononi e le sue equazioni un sistema con un valore sufficientemente alto di Φ, che si tratti di sinapsi neuronali o di una stella di neutroni, sarebbe consapevole. Per alcuni, tra cui l’informatico Scott Aaronson, ciò espone la proposta a un attacco che giudica devastante. I calcoli di Aaronson hanno mostrato che collegando abilmente semplici porte logiche (i commutatori elettronici piú elementari), la rete risultante può avere valori di Φ grandi a piacere, pari a quelli del cervello umano o persino maggiori28. In base alla teoria, la rete di commutatori dovrebbe essere consapevole. E per Aaronson – come per l’intuizione della maggior parte delle persone – questa è una conclusione assurda. Come replica Tononi? Per quanto strana possa essere la conclusione, la rete sarà consapevole.
Forse, penserete, non può crederlo davvero. Considerate però il vostro dubbio nel contesto. Com’è possibile che una massa cerebrale di circa 1,3 kg, se opportunamente rifornita di sangue e collegata a una rete nervosa, abbia l’esperienza cosciente che conosciamo? Questa è l’affermazione, peraltro basata su tutto ciò che la scienza ha rivelato finora, quasi impossibile da credere. Tuttavia, a causa del vostro mondo interiore, è un’affermazione che accettate senza difficoltà. Se poi vi parlo di qualcos’altro, privo di corpo e di cervello, e vi suggerisco che anch’esso è consapevole, lo sforzo necessario per accettare questa nuova affermazione può sembrare significativo, ma in realtà è relativamente modesto. Accogliendo l’asserzione quasi ridicola che un viluppo umidiccio di neuroni è dotato di coscienza, avete già compiuto il grande passo. Non è un argomento a favore della proposta di Tononi, però chiarisce che la familiarità può distorcere il nostro senso dell’assurdo.
Se si dimostrasse corretto, questo approccio chiarirebbe quali qualità deve possedere un sistema per produrre un’esperienza cosciente. Sarebbe un progresso sostanziale. Comunque, nella sua forma attuale, la teoria dell’informazione integrata non spiega perché essendo coscienti si prova ciò che si prova. Com’è che informazioni altamente integrate e altamente differenziate producono la consapevolezza cosciente? Secondo Tononi, lo fanno e basta. O, piú precisamente, Tononi suggerisce che forse questa non è la domanda giusta da porsi. Il nostro compito, a suo giudizio, non è spiegare come da un frullio di particelle possa emergere la consapevolezza cosciente, ma invece determinare le condizioni necessarie affinché un sistema abbia questa esperienza. Ed è proprio ciò che cerca di fare la teoria dell’informazione integrata. Sebbene apprezzi questa prospettiva, la mia intuizione, plasmata dai successi spettacolari delle spiegazioni riduzionistiche, resterà insoddisfatta finché non collegheremo processi fisici che coinvolgono costituenti elementari noti alle sensazioni della mente.
L’ultima proposta che prenderemo in esame segue una strategia diversa. È in tutto e per tutto una spiegazione fisicalistica, che fornisce uno degli approcci piú illuminanti al mistero della coscienza.
8. La mente modella la mente.
La teoria della coscienza del neuroscienziato Michael Graziano parte da un paio di ben note qualità del funzionamento del cervello che nessuno ha difficoltà a considerare reali29. Per capire di che cosa si tratta, torniamo alla Ferrari. Immaginate di vedere l’elegante parte esterna rossa dell’auto, di sfiorare la bella forma ergonomica delle sue maniglie, di percepire l’inconfondibile profumo dell’auto nuova e cosí via. Intuitivamente, le pensiamo come esperienze dirette di una realtà esterna, ma cosí non è, come sappiamo da secoli. La scienza moderna lo rende esplicito. La luce rossa che si riflette dalla superficie della Ferrari è un campo elettrico che oscilla all’incirca 400 bilioni di volte al secondo perpendicolarmente a un campo magnetico che oscilla in modo simile, mentre entrambi viaggiano verso di voi a 300 milioni di metri al secondo. Questa è la fisica della luce rossa e questo è lo stimolo che arriva ai vostri occhi30. Notate che nella descrizione fisica non compare mai la parola «rosso». Il rosso esiste quando il campo elettromagnetico entra nei vostri occhi, stimola molecole fotosensibili nella retina e genera un impulso che raggiunge la corteccia visiva, che è specializzata nell’elaborazione delle informazioni visive e interpreta il segnale. Il rosso è un concetto umano che esiste dentro la nostra testa. E quel profumo di auto nuova? La storia è piú o meno la stessa. Dai sedili, dai tappeti e dalla plastica protettiva si staccano molecole di gas che permeano l’interno dell’auto. L’odore di auto nuova esiste soltanto quando quelle molecole entrano nella cavità nasale attraverso le narici, sfiorano i neuroni recettori dell’epitelio olfattivo e generano un impulso che si trasmette lungo il nervo olfattivo verso il bulbo olfattivo, che rilascia il segnale elaborato a varie strutture neurologiche che lo interpretano. Proprio come il rosso, l’odore di auto nuova esiste soltanto nel nostro cervello.
Cosí, quando la Ferrari cattura la vostra attenzione, si mette in moto un insieme di ingranaggi di elaborazione di dati cognitivi. Il cervello evoca e riunisce nella versione dell’auto che avete in mente una gran varietà di qualità fisiche e capacità funzionali – rossa, profumata, scintillante, metallica, vetro, ruote, motore, potenza, movimento, velocità e cosí via. Finora sembra simile alla teoria dell’informazione integrata, ma da qui la proposta di Graziano procede in una direzione diversa. La sua tesi principale è che per quanto possiamo essere attenti ai dettagli, le nostre rappresentazioni mentali sono sempre enormemente semplificate. Anche descrivere l’auto come «rossa» è un modo abbreviato di indicare le molte frequenze simili ma distinte della luce – le molte sfumature di rosso – che si riflette su parti diverse della superficie dell’auto: onde elettromagnetiche che oscillano, per esempio, a 435, 172, 874, 363, 122 cicli al secondo da un punto della portiera del conducente, a 447, 892, 629, 261, 106 cicli al secondo da un punto del cofano e via dicendo31. La mente vacillerebbe se si occupasse di questa sovrabbondanza di dettagli. «Rosso» è una semplificazione accettabile, seppur schematica. La stessa considerazione vale per l’enorme insieme di semplificazioni simili che la mente opera senza sosta. Per quasi ogni cosa che incontrate nell’ambiente, una rappresentazione schematica non solo è adeguata, ma libera risorse mentali mettendole a disposizione di altri obiettivi vitali. Molto tempo fa, un cervello che si faceva distrarre dal mare di dettagli del mondo fisico era un cervello che ben presto sarebbe stato divorato da un predatore. I cervelli che sopravvivevano erano cervelli che evitavano di perdersi nei dettagli privi di valore ai fini della sopravvivenza. Se sostituite alla Ferrari una valanga o una scossa di terremoto, capite bene il vantaggio per la sopravvivenza di avere una rappresentazione mentale veloce seppur imperfetta che faciliti una risposta rapida.
Anche quando l’attenzione non è rivolta a un’auto, a una valanga o a un terremoto, ma si concentra su un animale o una persona, creiamo rappresentazioni mentali schematiche. Ma oltre a rappresentazioni della loro forma fisica, creiamo anche rappresentazioni mentali schematiche della loro mente. Cerchiamo di valutare che cosa passa loro per la testa – se quell’animale o essere umano è un amico o un nemico, se offre protezione o rappresenta un pericolo, se è alla ricerca di un’opportunità per entrambi o di un guadagno per sé solo. È chiaro che valutare rapidamente la natura dei nostri incontri con altre forme di vita ha un notevole valore di sopravvivenza. I ricercatori chiamano questa capacità, perfezionata nel corso delle generazioni dalla selezione naturale, teoria della mente32 (in modo intuitivo, teorizziamo che gli esseri viventi sono dotati di una mente che funziona piú o meno come la nostra), o atteggiamento intenzionale33 (attribuiamo conoscenze, credenze, desideri e quindi intenzioni agli animali e agli esseri umani che incontriamo).
Graziano mette in evidenza che applichiamo regolarmente questa stessa capacità a noi stessi: creiamo continuamente una rappresentazione mentale schematica dello stato della nostra mente. Se guardate la Ferrari, create non solo una rappresentazione schematica dell’auto, ma anche una rappresentazione schematica della vostra attenzione rivolta alla Ferrari. Tutte le caratteristiche che collegate per rappresentare la Ferrari sono arricchite da un’ulteriore qualità che riassume la vostra concentrazione mentale: la Ferrari è rossa, elegante e scintillante e la vostra attenzione è concentrata sul fatto che la Ferrari è rossa, elegante e scintillante. È cosí che vi tenete al corrente della vostra interazione con il mondo.
Come la rappresentazione della Ferrari, e la vostra rappresentazione dell’attenzione altrui, anche la rappresentazione della vostra attenzione tralascia una vasta gamma di dettagli: ignora le scariche dei neuroni, l’elaborazione delle informazioni e gli scambi di segnali complessi che producono la vostra concentrazione, e delinea invece l’attenzione stessa, ciò che nel linguaggio comune chiamiamo «consapevolezza». Questo, secondo Graziano, è il nucleo della ragione per cui l’esperienza cosciente sembra fluttuare disormeggiata nella mente. Quando l’inclinazione del cervello per rappresentazioni schematiche semplificate è applicata al cervello stesso, alla sua attenzione, la descrizione risultante ignora i processi fisici responsabili di quell’attenzione. È per questo che le sensazioni e i pensieri sembrano eterei, come se venissero dal nulla, come se fluttuassero nella testa. Se la vostra rappresentazione schematica del vostro corpo tralasciasse le braccia, anche il movimento delle vostre mani vi sembrerebbe etereo. Ed è per questo che l’esperienza cosciente sembra completamente diversa dai processi fisici effettuati dai nostri costituenti particellari e cellulari. Il problema difficile sembra difficile – la coscienza sembra trascendere il piano fisico – solo perché i nostri modelli mentali schematici sopprimono la cognizione dei meccanismi cerebrali che collegano i nostri pensieri e le nostre sensazioni alle loro basi fisiche.
L’attrattiva di una teoria fisicalistica come quella di Graziano (e altre che sono state proposte e sviluppate)34 è data dal fatto che la coscienza, come la vita, si ridurrebbe a disposizioni favorevoli di costituenti privi di vita, di pensieri e di emozioni. Certo, vi è un ampio paesaggio neurologico che si estende fra noi e questa terra promessa di comprensione riduzionistica. Ma a differenza della terra incognita immaginata da Chalmers, in cui i ricercatori dovrebbero esplorare strani territori facendosi strada in mezzo a una vegetazione sconosciuta, la spedizione fisicalistica probabilmente riserverebbe sorprese meno bizzarre. La sfida non consisterà nell’esaminare un mondo alieno, ma nel tracciare la mappa del nostro – il cervello – a un livello di dettaglio senza precedenti. È la familiarità del territorio che renderebbe meraviglioso un viaggio coronato dal successo. Non richiedendo scintille sovrascientifiche, non facendo appello a nuove qualità della materia, la coscienza emergerebbe semplicemente. La materia ordinaria, governata da leggi ordinarie, svolgendo processi ordinari, avrebbe la straordinaria capacità di pensare e percepire.
Mi è capitato di incontrare molti oppositori di questa prospettiva. Sono persone che ritengono che qualunque tentativo di inglobare la coscienza nella descrizione fisica del mondo sminuisca la nostra qualità piú preziosa. Pensano che il programma fisicalistico sia l’approccio maldestro di scienziati accecati dal materialismo che ignorano le vere meraviglie dell’esperienza cosciente. Ovviamente, nessuno sa come andrà a finire. Forse tra un secolo o un millennio il programma fisicalistico sembrerà ingenuo. Lo dubito. Anche ammettendo questa possibilità, è comunque importante respingere l’ipotesi che, delineandone una base fisica, svalutiamo la coscienza. Che la mente possa fare tutto ciò che fa è straordinario. L’eventualità che la mente possa compiere tutte le sue funzioni con nient’altro che i tipi di ingredienti e di forze che tengono insieme la mia tazza del caffè lo rende ancora piú straordinario. La coscienza troverebbe una spiegazione senza essere sminuita.
9. La coscienza e la fisica quantistica.
Nel corso dei decenni, si è detto spesso che la fisica quantistica è essenziale per comprendere la coscienza. In un certo senso, è senz’altro vero. Le strutture materiali, compreso il cervello, sono fatte di particelle il cui comportamento è governato dalle leggi della meccanica quantistica. La meccanica quantistica riguarda pertanto la base fisica di ogni cosa, compresa la mente. Quando la coscienza incontra i quanti, tuttavia, non è raro che i commentatori suggeriscano connessioni piú profonde. Molte sono motivate da una lacuna nella nostra comprensione della meccanica quantistica che ha resistito a un secolo di riflessioni da parte delle piú brillanti menti scientifiche e filosofiche del mondo, come cercherò di spiegare.
La meccanica quantistica è il quadro teorico piú accurato che sia mai stato sviluppato per descrivere i processi fisici. Nessuna previsione della meccanica quantistica è mai stata confutata da esperimenti replicabili e i risultati di alcuni dei suoi calcoli piú dettagliati sono in accordo con i dati sperimentali con un errore inferiore a una parte su un miliardo. Se non siete interessati ai dati quantitativi, il piú delle volte potete benissimo trascurarli. Non questa volta, però. Rendetevi bene conto di ciò che ho appena detto: i calcoli della meccanica quantistica, basati sull’equazione di Schrödinger, sono in accordo con le misure sperimentali fino alla nona cifra dopo il punto decimale35. Le trombe dovrebbero squillare e la specie dovrebbe essere applaudita, poiché questo rappresenta un trionfo della comprensione umana.
Ciò nonostante, al centro della meccanica quantistica vi è un mistero.
La nuova caratteristica principale della meccanica quantistica è la natura probabilistica delle sue previsioni. La teoria, per esempio, può affermare che un elettrone ha una probabilità del 20 per cento di essere rilevato qui, del 35 per cento di essere rilevato lí e del 45 per cento di essere rilevato laggiú. Se poi misuriamo la posizione dell’elettrone in un gran numero di versioni del medesimo esperimento preparate nello stesso identico modo, constatiamo che con precisione impressionante nel 20 per cento delle misure l’elettrone è qui, nel 35 per cento è lí e nel 45 per cento è laggiú. Ecco perché abbiamo fiducia nella teoria quantistica.
La dipendenza dalle probabilità della teoria quantistica può non sembrare particolarmente strana. Dopo tutto, anche quando lanciamo una moneta usiamo le probabilità per descrivere il risultato possibile: la moneta ha una probabilità del 50 per cento di mostrare testa e una probabilità del 50 per cento di mostrare croce. Ma ecco la differenza, nota a molti eppure ancora profondamente sconcertante: nella consueta descrizione classica, dopo aver lanciato la moneta ma prima di scoprire il risultato, la moneta mostra una data faccia, testa oppure croce, anche se noi non sappiamo quale sia, mentre nella descrizione quantistica, prima di esaminare dove si trova una particella come un elettrone che ha una probabilità del 50 per cento di essere qui e una probabilità del 50 per cento di essere lí, la particella non è qui oppure lí. La meccanica quantistica afferma che l’elettrone è invece sospeso in un confuso miscuglio dello stato in cui si trova qui e dello stato in cui si trova lí. E se le probabilità gli dessero la possibilità di essere in una varietà di altre posizioni, secondo la meccanica quantistica l’elettrone sarebbe sospeso in un miscuglio confuso e sarebbe contemporaneamente in tutte quelle posizioni. È cosí incredibilmente strano, e tanto in contrasto con l’esperienza, che potreste essere tentati di scartare immediatamente la teoria. E se non fosse per l’impareggiabile capacità della meccanica quantistica di spiegare i dati sperimentali, la vostra reazione sarebbe diffusa e giustificata. I dati tuttavia ci obbligano a trattare la meccanica quantistica con il massimo rispetto e perciò noi scienziati abbiamo lavorato senza sosta per capire questa caratteristica controintuitiva36.
Il problema è che via via che lo studio è andato avanti le cose sono diventate sempre piú strane. Nelle equazioni quantistiche non vi è nulla che indichi come avviene la transizione, in che modo la realtà passa dalla confusa mescolanza di molte possibilità all’unico risultato di cui siamo testimoni dopo aver effettuato la misurazione. In realtà, se supponiamo – come sembra del tutto ragionevole – che le medesime equazioni quantistiche si applichino non solo agli elettroni (e alle altre particelle) che esaminiamo, ma anche agli elettroni (e alle altre particelle) che compongono i nostri strumenti, e a quelli che compongono noi stessi e il nostro cervello, allora in base alle equazioni la transizione non dovrebbe affatto avere luogo. Se un elettrone si trova sia qui sia lí, i nostri strumenti dovrebbero rilevare che è sia qui sia lí e una volta conosciuto il risultato il nostro cervello dovrebbe pensare che l’elettrone sia qui e sia anche lí. In altre parole, dopo aver effettuato una misurazione, la vaghezza quantistica delle particelle che studiamo dovrebbe contagiare i nostri strumenti, il nostro cervello e presumibilmente anche la nostra consapevolezza cosciente, sospendendo i nostri pensieri in un confuso miscuglio di molti risultati diversi. E invece, dopo ogni misurazione, non constatiamo nulla del genere. Constatiamo di aver avuto un unico risultato ben preciso. La sfida, nota come problema della misurazione quantistica, consiste nel risolvere la sconcertante disparità tra la confusa realtà quantistica descritta dalle equazioni e la realtà chiara e distinta di cui facciamo sempre esperienza37.
Già negli anni Trenta del secolo scorso i fisici Fritz London e Edmond Bauer38, e qualche decennio piú tardi il premio Nobel Eugene Wigner39, avevano suggerito che la coscienza potesse essere la chiave. Dopo tutto, la situazione diventa sconcertante soltanto quando riferiamo la nostra esperienza cosciente di una realtà definita e si manifesta una discrepanza tra ciò che diciamo e ciò che prevedono le equazioni della meccanica quantistica. Immaginate, dunque, che le regole della meccanica quantistica si applichino lungo tutta la catena, dall’elettrone che viene misurato alle particelle degli strumenti che effettuano la misurazione e a quelle che permettono di visualizzare il risultato. Quando però leggiamo il risultato e i dati sensoriali arrivano al cervello, si produce un cambiamento: le leggi quantistiche cessano di valere. Quando entra in gioco la consapevolezza cosciente, subentra un altro processo – un processo che garantisce che si diventi consapevoli di un unico risultato. La coscienza sarebbe quindi fondamentalmente partecipe della fisica quantistica, imponendo l’eliminazione, quando il mondo si evolve, di tutti i molti possibili futuri tranne uno, dalla realtà stessa o quanto meno dalla nostra consapevolezza cognitiva.
L’attrattiva di questa proposta è evidente. La meccanica quantistica è misteriosa. La coscienza è misteriosa. È divertente immaginare che i due misteri siano collegati, o che siano lo stesso mistero, o che ciascuno risolva l’altro. Tuttavia nella mia immersione decennale nella fisica quantistica non ho incontrato un argomento matematico o dati sperimentali che modificassero quella che da molto tempo è la mia valutazione del presunto collegamento: straordinariamente improbabile. Gli esperimenti e le osservazioni convalidano l’idea che quando un sistema quantistico viene sollecitato, da un essere cosciente o da qualcosa che non ha una mente come una sonda, il sistema esce immediatamente dalla nuvola probabilistica della teoria quantistica e assume una realtà definita. Sono le interazioni – non la coscienza – a indurre l’emergere di una realtà definita. Ovviamente, per verificare questa ipotesi, come del resto qualsiasi altra, devo applicare la coscienza; non posso essere a conoscenza di un risultato senza che la mia mente cosciente partecipi al processo. Quindi non esiste un argomento efficace che dimostri che la coscienza non ha uno speciale ruolo quantistico. Ciò malgrado, anche negli approcci piú raffinati, che sono andati ben al di là di un’identificazione superficiale di due misteri apparentemente distinti, i proposti collegamenti fra i quanti e la coscienza sono deboli.
Via via che approfondiremo la comprensione della meccanica quantistica, miglioreranno anche le nostre descrizioni dei processi microfisici alla base delle funzioni di ogni cosa, compresi il corpo e il cervello. Da un punto di vista fisicalistico, la coscienza è tra queste funzioni e quindi un giorno troverà una spiegazione quantistica. A meno di clamorose sorprese, tuttavia, i trattati di meccanica quantistica del futuro immediato o lontano non conterranno particolari direttive su come usare le equazioni in presenza della coscienza. Per quanto magnifica, la coscienza sarà interpretata come un’altra qualità fisica che emerge in un universo quantistico.
10. Libero arbitrio.
Pochi tra noi sono orgogliosi del fatto che il proprio pancreas produce chimotripsina o che il proprio nervo trigemino facilita lo starnuto. Non proviamo un interesse personale per i nostri processi autonomi. Se mi domandano chi sono, mi rivolgo ai pensieri, alle sensazioni e ai ricordi a cui posso accedere con l’occhio della mente o che posso interrogare con la mia voce interiore. Tutti hanno un pancreas che produce chimotripsina e tutti starnutiscono, ma in ciò che penso, che provo e che faccio esiste qualcosa, mi piace immaginare, di profondamente, pienamente e intrinsecamente distintivo della mia persona. Collegata a questa intuizione è una credenza cosí comune che molti non la prendono in esame, né poco né tanto: siamo dotati di libero arbitrio; siamo autonomi; siamo noi a decidere; siamo l’origine ultima delle nostre azioni. Ma è vero?
Questa domanda ha ispirato piú pagine della letteratura filosofica di quasi ogni altro dilemma. Il mondo composto di atomi e vuoto concepito da Democrito duemila anni fa, abbandonando il capriccio degli dèi a favore di leggi immutabili, fu un accenno presciente all’unità della natura. Che i nostri accadimenti siano sotto il totale controllo del potere divino o delle leggi fisiche, resta comunque da chiarire quale spazio abbiano, se ne hanno, le azioni liberamente volute40. Un secolo piú tardi, Epicuro, che rifiutava l’intervento divino, lamentava il fatto che il determinismo scientifico stesse soffocando il libero arbitrio. Se ammettiamo che a comandare siano gli dèi, è quanto meno possibile che la nostra costante venerazione sia ricompensata con un’assegnazione di libertà. Ma la legge naturale, immune da ogni lusinga, è incapace di allentare le redini. Per risolvere il dilemma, Epicuro immaginò che di tanto in tanto gli atomi compissero spontaneamente uno scarto in direzione casuale, ribellandosi al destino riservato loro dalle leggi e rendendo possibile un futuro non determinato dal passato. Pur essendo senza dubbio una mossa creativa, pochi si convinsero che l’inserimento arbitrario del caso nelle leggi della natura fosse una fonte convincente della libertà umana e cosí nel corso dei secoli successivi il problema del libero arbitrio continuò a far aggrottare le sopracciglia a un pantheon di rispettati pensatori – sant’Agostino, Tommaso d’Aquino, Thomas Hobbes, Gottfried Leibniz, David Hume, Immanuel Kant, John Locke – e alla folta schiera, troppo lunga da elencare, di quanti oggi riflettono su questi argomenti nei dipartimenti di filosofia di tutto il mondo.
Consideriamo una versione moderna dell’argomento che mette in difficoltà il libero arbitrio. Le vostre esperienze e le mie sembrano confermare che noi influenziamo il dispiegarsi della realtà per mezzo di azioni che riflettono i pensieri, i desideri e le decisioni derivanti dalla nostra libera volontà. Eppure, mantenendo il nostro atteggiamento fisicalistico, voi e io non siamo altro che costellazioni di particelle41, il cui comportamento è totalmente governato dalle leggi fisiche. Le nostre scelte sono il frutto degli spostamenti in una direzione o in un’altra delle nostre particelle nel cervello. Le nostre azioni sono il frutto del movimento delle nostre particelle nel corpo. E ogni movimento di particelle – che siano in un cervello, in un corpo o in una palla da baseball – è controllato dalla fisica e quindi è imposto per decreto matematico. Le equazioni determinano lo stato delle nostre particelle oggi sulla base dello stato in cui si trovavano ieri, senza offrire a nessuno di noi l’opportunità di evitare le equazioni e dar forma, strutturare o alterare lo sviluppo della realtà secondo le leggi. In effetti, se si continua a percorrere a ritroso questa catena, il Big Bang è la fonte ultima di tutte le particelle, e nel corso della storia del cosmo il loro comportamento è stato dettato dalle leggi non negoziabili e inanimate della fisica, che determinano la struttura e la funzione di tutto ciò che esiste. Il nostro senso di individualità, di valore e di stima si basa sulla nostra autonomia. Ma di fronte all’intransigenza delle leggi fisiche, l’autonomia indietreggia. Non siamo altro che giocattoli sballottati in qua e in là dalle regole imparziali del cosmo.
La domanda cruciale, quindi, è se esista un modo per evitare questa apparente dissoluzione del libero arbitrio nel movimento di umili particelle. A questa domanda hanno cercato di rispondere molti pensatori. Alcuni hanno ripudiato il riduzionismo. Forse, anche se una gran mole di dati conferma che abbiamo una profonda comprensione delle leggi che governano le singole particelle (elettroni, quark, neutrini ecc.), quando 100 miliardi di miliardi di miliardi di particelle sono organizzati in un cervello e in un corpo, le particelle non sono piú governate, o per lo meno non esclusivamente, dalle leggi fondamentali del micromondo. E forse, secondo questa linea di pensiero, ciò rende possibili a scale macroscopiche fenomeni – in particolare, il libero arbitrio – che le leggi microscopiche proibirebbero.
Va detto che nessuno ha mai effettuato l’analisi matematica necessaria per formulare previsioni sulla progressione conforme alle leggi delle particelle che costituiscono una persona. La complessità delle equazioni supererebbe in misura straordinaria le capacità computazionali dei piú potenti computer esistenti. Può essere impossibile anche prevedere il movimento di qualcosa di molto piú semplice, come una palla da biliardo, poiché piccole imprecisioni nella determinazione della velocità iniziale e della direzione della palla possono essere amplificate esponenzialmente quando la palla rimbalza sulle sponde del tavolo. Il mio obiettivo ora non è determinare la vostra prossima mossa, bensí l’esistenza di leggi che governano la vostra prossima mossa e, benché i calcoli superino le nostre attuali capacità, le analisi matematiche e i dati sperimentali e osservazionali non hanno mai suggerito in alcun modo che queste leggi esercitino qualcosa di diverso dal controllo totale. Dal movimento coordinato di un grande insieme di ingredienti microscopici – come un tifone o una tigre – possono certamente emergere fenomeni inattesi ed eclatanti, ma tutti i dati indicano che, se fossimo in grado di risolvere le equazioni per questi grandi gruppi di particelle interagenti, riusciremmo a prevederne i comportamenti collettivi. Pertanto, pur essendo logicamente concepibile che un giorno scopriremo che le collezioni di particelle che costituiscono il corpo e il cervello non sottostanno alle regole che governano le collezioni inanimate, questa possibilità contraddice tutto ciò che la scienza ha rivelato finora sul funzionamento del mondo.
Altri ricercatori hanno scommesso sulla meccanica quantistica. Dopo tutto, la fisica classica è deterministica: se alle equazioni della fisica classica – le equazioni di Newton – forniamo le posizioni e le velocità precise di tutte le particelle in un dato momento, le equazioni ci indicheranno le loro posizioni e velocità in qualsiasi momento futuro. Con questa rigidità, con il futuro completamente determinato dal passato, come può avere spazio il libero arbitrio? Lo stato delle vostre particelle in questo istante, mentre leggete queste parole e considerate queste idee, è stato determinato dalla loro configurazione molto prima che nasceste e quindi non può certamente essere stato scelto dalla vostra volontà. Ma nella fisica quantistica, come abbiamo visto, le equazioni prevedono soltanto la probabilità di come saranno le cose in un qualsiasi momento futuro. Introducendo un elemento di probabilità, il caso, la meccanica quantistica sembra fornire una versione moderna e motivata dagli esperimenti dello scarto improvviso immaginato da Epicuro, allentando le briglie deterministiche. Un linguaggio non rigoroso, tuttavia, può ingannare. La matematica della meccanica quantistica, l’equazione di Schrödinger, è deterministica tanto quanto la matematica della fisica classica newtoniana. La differenza è che mentre Newton parte dallo stato del mondo in questo istante e produce un unico stato del mondo domani, la meccanica quantistica parte dallo stato del mondo in questo istante e produce un’unica tabella di probabilità dello stato del mondo domani. Le equazioni quantistiche descrivono molti futuri possibili, ma cesellano deterministicamente nella pietra matematica la verosimiglianza di ciascuno. Proprio come Newton, Schrödinger non lascia spazio al libero arbitrio.
Un altro gruppo di ricercatori si è rivolto al problema irrisolto della misurazione quantistica. È comprensibile. Una lacuna nella conoscenza scientifica è un posto allettante per nascondere qualcosa di prezioso, per lo meno finché la lacuna non viene colmata. La lacuna, come ricorderete, è che non si è ancora raggiunto un accordo riguardo alla transizione del mondo dalla descrizione probabilistica fornita dalla meccanica quantistica alla realtà ben determinata dell’esperienza comune. Come viene scelto un unico futuro dall’elenco delle possibilità della meccanica quantistica? Inoltre, cosa di particolare interesse qui, è possibile che nella risposta si nasconda il libero arbitrio? Sfortunatamente, no. Considerate un elettrone che secondo la meccanica quantistica ha una probabilità del 50 per cento di essere qui e una probabilità del 50 per cento di essere lí. Potete scegliere liberamente il risultato – qui o lí – che produrrà un’osservazione della sua posizione? No, non potete. I dati attestano che il risultato è casuale e i risultati casuali non sono il frutto di libere scelte. I dati inoltre confermano che i risultati accumulati effettuando molti esperimenti simili presentano una regolarità statistica: in questo esempio, metà delle volte l’elettrone viene trovato qui e metà delle volte lí. Una scelta libera della volontà non è vincolata, nemmeno in senso statistico, da regole matematiche. Tuttavia, come dimostrano i dati in questo caso e anche in tutti gli altri, a governare sono proprio le equazioni. Quindi, anche se il passaggio dalle probabilità quantistiche alle certezze esperienziali continua a essere enigmatico, è chiaro che il libero arbitrio non fa parte del processo.
Per essere liberi è necessario non essere marionette manovrate dalle leggi fisiche. Il fatto che le leggi siano deterministiche (come nella fisica classica) o probabilistiche (come nella fisica quantistica) ha un significato profondo in relazione a come si evolve la realtà e ai tipi di previsioni che la scienza può formulare, ma per valutare il libero arbitrio la distinzione è irrilevante. Se le leggi fondamentali possono essere sempre in azione, non subendo mai battute d’arresto per mancanza di un input umano e valendo ugualmente anche se le particelle appartengono a un cervello o a un corpo, non c’è spazio per il libero arbitrio. In effetti, come conferma la totalità delle osservazioni e degli esperimenti scientifici condotti finora, quando noi esseri umani entrammo in scena, le leggi regnavano ininterrottamente già da molto tempo; dopo il nostro arrivo, hanno continuato a regnare ininterrottamente.
Riassumendo: siamo esseri fisici composti da grandi collezioni di particelle governate dalle leggi della natura. Tutto ciò che pensiamo e tutto ciò che facciamo corrisponde a movimenti di queste particelle. Se mi stringete la mano, le particelle della vostra mano spingono in su e in giú quelle della mia mano. Le particelle nel mio cervello reagiscono agli stimoli, producendo il pensiero «Che stretta di mano decisa!» e inviando segnali trasmessi da altre particelle a quelle del mio braccio, che guidano la mia mano a muoversi insieme alla vostra. Se mi dite «Buongiorno», le particelle delle vostre corde vocali si scontrano con le particelle d’aria nella vostra gola, innescando una reazione a catena di particelle in collisione che si propaga nell’aria, urtando le particelle dei miei timpani e scatenando un’ondata di altre particelle ancora nella mia testa, ed è per questo che riesco a sentire che cosa dite. Poiché tutte le osservazioni, gli esperimenti e le teorie valide confermano che il movimento delle particelle è totalmente controllato da regole matematiche, non possiamo intervenire nella progressione delle particelle secondo le leggi piú di quanto possiamo cambiare il valore di π.
Le nostre scelte sembrano libere perché non vediamo agire le leggi della natura nella loro versione piú fondamentale; i nostri sensi non rivelano l’azione delle leggi naturali nel mondo delle particelle. I nostri sensi e il nostro ragionamento si concentrano sulle dimensioni umane e sulle nostre azioni quotidiane: pensiamo al futuro, confrontiamo piani d’azione e soppesiamo possibilità. Di conseguenza, quando le nostre particelle agiscono ci sembra che il loro comportamento collettivo emerga da nostre scelte autonome. Tuttavia, se avessimo la vista sovrumana citata in precedenza e fossimo in grado di analizzare la realtà quotidiana a livello dei suoi costituenti fondamentali, riconosceremmo che i nostri pensieri e comportamenti corrispondono a complicati processi di spostamento di particelle che producono un forte senso di libero arbitrio, ma sono completamente governati da leggi fisiche.
Concludere qui la discussione, tuttavia, vorrebbe dire trascurare una variazione sul tema della libertà che non solo è in accordo con la nostra comprensione delle leggi fisiche, ma coglie una qualità talmente essenziale che potete considerarla una caratteristica distintiva di ciò che significa essere umani.
11. Sassi, persone e libertà.
Immaginate di essere seduti in un parco. Vicino a voi sulla panchina c’è un sasso. D’un tratto vedete che un grosso ramo si è spezzato e sta per cadere addosso a me, che sto passando di lí. Fate un balzo e mi placcate, riuscendo a mettere al riparo entrambi. Qual è la spiegazione del vostro atto eroico che mi ha salvato la vita? Tutte le vostre particelle e tutte quelle che costituiscono il sasso sono soggette alle stesse leggi, perciò nessuno dei due è dotato di libero arbitrio. E tuttavia siete stati voi a saltare giú dalla panchina, mentre il sasso è rimasto lí. Come lo spieghiamo?
Voi mi avete salvato e il sasso no perché le vostre particelle sono ordinate in maniera tanto spettacolare, configurate in modo tanto mirabile, da poter compiere movimenti straordinariamente organizzati che non sono possibili per le particelle che costituiscono il sasso42. Quando vi passo vicino, potete farmi un cenno con la mano, salutarmi, dirmi che avete risolto le equazioni della teoria delle stringhe, mettervi a saltellare, salvarmi da un ramo che sta cadendo o una miriade di altre possibilità. I fotoni che rimbalzano sul mio volto ed entrano nei vostri occhi, le onde sonore generate da un ramo scricchiolante che entrano nelle vostre orecchie, gli effetti prodotti sulla vostra pelle da una forte brezza che soffia nella vostra direzione, oltre a una vasta schiera di altri stimoli esterni e interni, scatenano cascate di particelle in tutto il vostro corpo trasmettendo segnali che generano una profusione di sensazioni, pensieri e comportamenti, che sono anch’essi cascate di altre particelle ancora. Per mia fortuna, la specifica cascata di particelle in risposta agli stimoli del ramo che si spezza ha spinto le vostre particelle all’azione immediata. Per contro, le risposte del sasso agli stimoli sono piú contenute. I fotoni, le onde sonore e le pressioni tattili generano reazioni semplicissime. Le particelle del sasso possono agitarsi leggermente, la loro temperatura può subire un lieve aumento oppure, nel caso di un vento particolarmente forte, tutte le loro posizioni possono subire un piccolo spostamento. Tutto qui. Dentro al sasso non accade granché. Ciò che vi rende speciali è il fatto che la vostra organizzazione interna permette una ricca gamma di risposte comportamentali.
Il punto, quindi, è che quando valutiamo il libero arbitrio è molto proficuo smettere di concentrarsi sulla causa ultima e rivolgere l’attenzione a tutta la gamma delle risposte umane. La nostra libertà non è libertà dalle leggi fisiche che non abbiamo la capacità di influenzare. La nostra libertà consiste nell’esibire comportamenti – saltare, pensare, immaginare, osservare, discutere, spiegare e cosí via – impossibili per la maggior parte delle altre collezioni di particelle. La libertà umana non ha a che fare con la scelta della volontà. Tutto ciò che la scienza ha rivelato finora non ha fatto altro che rafforzare la tesi che è impossibile intervenire volontariamente sul dispiegarsi della realtà. La libertà umana riguarda invece la liberazione dalla schiavitú di un esiguo repertorio di risposte che vincola da tempo il comportamento del mondo inanimato.
Questo concetto di libertà non richiede il libero arbitrio. Il vostro atto di salvataggio, peraltro debitamente apprezzato, è nato dall’azione delle leggi fisiche e quindi non era liberamente voluto. Ma il fatto che le vostre particelle siano state capaci di saltare giú dalla panchina, e poi di riflettere sulla propria azione ed essere commosse da questo pensiero, è davvero stupefacente. Le particelle raggruppate in un sasso non possono fare nulla di lontanamente simile. Queste capacità che si manifestano in una meravigliosa ricchezza di pensieri, sensazioni e comportamenti rappresentano l’essenza dell’essere umani – l’essenza della libertà umana.
Il mio uso dell’aggettivo «liberi» per descrivere comportamenti che secondo le leggi della fisica non sono liberamente voluti può sembrare uno specchietto per le allodole linguistico. Il punto però, come suggerisce da tempo la scuola filosofica del compatibilismo, è che, quando si tratta di libertà e fisica, non tutto è perduto; di grande vantaggio è considerare forme alternative di libertà che sono in accordo con le leggi fisiche. A questo proposito sono state avanzate varie proposte, ma è come se queste teorie annunciassero cupamente la brutta notizia – «Per quanto riguarda la forma tradizionale di libero arbitrio, non siete diversi da un sasso» – ma poi, appena vi voltate dall’altra parte in preda al malumore, esclamassero: «Su con la vita, però! Esiste quest’altra varietà di libertà, pienamente gratificante, che avete in abbondanza»43. Nell’approccio che sostengo, questa libertà sta nella liberazione da una gamma ristretta di comportamenti.
Personalmente, questo tipo di libertà mi è di grande conforto. Mentre sono seduto qui e scrivo i miei pensieri, non mi turba la consapevolezza che a livello delle particelle fondamentali tutto ciò che sto pensando e tutto ciò che sto facendo è dovuto all’azione di leggi fisiche che sono al di là del mio controllo. Ciò che conta per me è che, a differenza della scrivania, della sedia e della tazza, la mia collezione di particelle è capace di attuare un’enorme quantità di comportamenti diversi. Ecco, le mie particelle hanno appena composto questa frase e sono lieto che l’abbiano fatto. Certo, anche questa reazione non è altro che l’esecuzione degli ordini di marcia quantistici da parte del mio esercito di particelle, ma questo non sminuisce la realtà della sensazione. Sono libero non perché posso sostituirmi alle leggi fisiche, ma perché la mia prodigiosa organizzazione interna ha emancipato le mie risposte comportamentali.
12. Rilevanza, apprendimento e individualità.
Potrebbe sembrare che l’abbandono del concetto tradizionale di libero arbitrio richieda di rinunciare a gran parte di ciò che consideriamo di valore. Se il dispiegarsi della realtà, compresa quella di esseri senzienti, è stabilito da leggi fisiche, i nostri comportamenti hanno rilevanza? Possiamo rilassarci, non fare nulla e lasciare che la fisica faccia il suo corso? Quale posto può avere l’individualità? Come possono avere un ruolo capacità a cui attribuiamo grande valore come l’apprendimento e la creatività?
Consideriamo per prima l’ultima domanda. A tal fine, è utile pensare a un Roomba, un robot aspirapolvere. Un Roomba possiede la qualità tradizionale di libero arbitrio? Non sforzatevi. Non è una domanda trabocchetto. I piú risponderebbero che non la possiede. Tuttavia, mentre il Roomba scivola sul pavimento del soggiorno, incontrando pareti, colonne e mobili, la configurazione delle sue particelle si riorganizza – le sue mappe di navigazione e le sue istruzioni interne vengono aggiornate – e questi cambiamenti modificano il suo comportamento successivo. Il Roomba impara. In effetti, mentre affronta la sfida di superare gli ostacoli che incontra, le soluzioni che impiega – evitare quei gradini, girare intorno alle gambe del tavolo, e cosí via – manifestano una rudimentale creatività44. L’apprendimento e la creatività non hanno bisogno del libero arbitrio.
La vostra organizzazione interna, il vostro «software», sono piú raffinati e facilitano la vostra creatività e la vostra superiore capacità di imparare. In ogni momento, le vostre particelle hanno una certa disposizione. Le vostre esperienze, che si tratti di incontri con il mondo esterno o di riflessioni interne, riconfigurano quella disposizione. E queste riconfigurazioni influenzano il comportamento successivo delle particelle. In altre parole, queste riconfigurazioni aggiornano il vostro software, regolando le istruzioni che guidano i pensieri e le azioni seguenti. Una scintilla dell’immaginazione, un errore grossolano, una battuta geniale, un abbraccio empatico, un commento sprezzante, un atto eroico derivano tutti dalla vostra costellazione personale di particelle che passano da una disposizione all’altra. Mentre osservate come rispondono alle vostre azioni tutte le persone e le cose, la costellazione delle vostre particelle cambia nuovamente, riconfigurandosi per regolare ulteriormente il vostro comportamento. A livello dei vostri ingredienti fondamentali, questo è apprendimento. E quando i comportamenti che ne derivano sono nuovi, la riconfigurazione ha generato creatività.
Questa discussione mette in luce uno dei nostri temi fondamentali: il bisogno di storie annidate che spiegano strati della realtà diversi ma collegati. Se vi accontentaste di una storia che descrive il dispiegarsi della realtà unicamente a livello delle particelle, non sareste motivati a introdurre concetti come apprendimento e creatività (o, se è per questo, entropia ed evoluzione). Vi basterebbe conoscere il modo in cui le collezioni di particelle riorganizzano continuamente la propria configurazione e sapere che le informazioni sono fornite dalle leggi fondamentali (oltre a essere a conoscenza di una specifica dello stato delle particelle in qualche momento del passato). La maggior parte di noi, però, non si accontenta di questo tipo di storia. I piú giudicano istruttivo raccontare anche altre storie, compatibili con il resoconto riduzionistico, ma concentrate su scale piú grandi e piú familiari. È in quelle storie, dove i personaggi principali sono aggregati di particelle come voi e me e il Roomba, che concetti come l’apprendimento e la creatività (e l’entropia e l’evoluzione) forniscono un linguaggio indispensabile. Mentre la storia riduzionistica che descrive il Roomba catalogherebbe il movimento di miliardi di miliardi di particelle, la storia di livello superiore potrebbe spiegare che i sensori del Roomba hanno riconosciuto che si trovava vicino a una rampa di scale in discesa, registrato in memoria quella posizione pericolosa e invertito la rotta per evitare una caduta potenzialmente catastrofica. Le due storie sono del tutto compatibili anche se una usa il linguaggio delle particelle e delle leggi mentre l’altra usa il linguaggio degli stimoli e delle risposte. Inoltre, poiché le risposte del Roomba comprendono la capacità di modificare il comportamento futuro aggiornando le proprie istruzioni interne, i concetti di apprendimento e creatività sono essenziali per la storia di livello superiore.
Queste storie annidate sono ancora piú rilevanti se i soggetti siamo voi e io. Il resoconto riduzionistico, che descrive entrambi come collezioni di particelle, fornisce intuizioni importanti ma limitate. Ci rendiamo conto, per esempio, che siamo fatti delle stesse sostanze e governati dalle stesse leggi che compongono e governano tutte le strutture materiali. Ma è in base alla storia di livello superiore, la storia umana, che viviamo la nostra vita. Pensiamo e riflettiamo, lottiamo e ci sforziamo, abbiamo successo e falliamo. Anche le storie narrate in questo linguaggio familiare devono essere completamente compatibili con le descrizioni riduzionistiche espresse in termini di particelle. Ma ai fini della vita quotidiana queste storie di livello superiore sono incomparabilmente piú illuminanti. Quando ceno con mia moglie, non sono affatto interessato ad ascoltare una descrizione dei movimenti delle sue centinaia di miliardi di miliardi di particelle. Tuttavia, quando mi parla delle idee che sta sviluppando, dei posti in cui è andata e delle persone che ha incontrato, le dedico tutta la mia attenzione.
Nei resoconti di livello superiore, parliamo come se le nostre azioni, le nostre scelte e le nostre decisioni fossero rilevanti e avessero conseguenze. È vero in un mondo che procede in base a ben determinate leggi fisiche? Sí. Certo che sí. Quando a dieci anni accesi un fiammifero dentro un forno pieno di gas, quell’azione ebbe conseguenze: provocò un’esplosione. Il resoconto di livello superiore che descrive una serie di eventi collegati – avevo fame, misi una pizza nel forno, aprii il gas, aspettai, accesi il fiammifero, fui travolto dalle fiamme – è accurato e perspicace. La fisica non contraddice questa storia. Non la rende meno rilevante. La fisica la arricchisce. La fisica ci dice che esiste un altro resoconto, alla base delle storie di livello umano, espresso nel linguaggio delle leggi e delle particelle.
Un punto notevole, e per alcuni allarmante, è che questi resoconti di livello inferiore rivelano che una convinzione comune che pervade le nostre storie di livello superiore è errata. Noi abbiamo la sensazione di essere gli autori fondamentali delle nostre scelte, decisioni e azioni, ma la storia riduzionistica chiarisce che non è vero. Né i nostri pensieri né i nostri comportamenti possono liberarsi dalla morsa delle leggi fisiche. Ciò nonostante, le sequenze causalmente collegate al centro delle nostre storie di livello superiore – la mia sensazione di fame che mi fece infilare una pizza nel forno, controllare la temperatura del forno e infine accendere un fiammifero – sono manifeste e sono reali. I pensieri, le risposte e le azioni sono importanti. Producono conseguenze. Sono gli anelli della catena del dispiegarsi della realtà fisica. Ciò che è inatteso in base alle nostre esperienze e intuizioni è che questi pensieri, queste risposte e queste azioni emergono da cause antecedenti incanalate attraverso le leggi della fisica.
Anche la responsabilità ha un ruolo. Anche se le mie particelle, e quindi i miei comportamenti, sono sotto la piena giurisdizione delle leggi fisiche, in un senso molto letterale benché poco familiare «io» sono responsabile delle mie azioni. Io sono la mia collezione di particelle; «io» non è altro che un’abbreviazione per indicare la specifica configurazione delle mie particelle (che, sebbene dinamica, si mantiene sufficientemente stabile per fornire un senso costante di identità personale)45. Di conseguenza, il comportamento delle mie particelle è il mio comportamento. Il fatto che alla base di questo comportamento sta il controllo esercitato dalla fisica sulle mie particelle è senz’altro interessante. Il fatto che questo comportamento non è liberamente voluto va senza dubbio riconosciuto. Ma queste osservazioni non sminuiscono la descrizione di livello superiore che riconosce che la mia specifica configurazione di particelle – il modo in cui le mie particelle sono organizzate in una complicata rete chimica e biologica, che comprende geni, proteine, cellule, neuroni, connessioni sinaptiche e altro ancora – reagisce in un modo esclusivamente mio. Voi e io parliamo in modo diverso, agiamo in modo diverso, reagiamo in modo diverso e pensiamo in modo diverso perché le nostre particelle sono organizzate in modo diverso. Via via che l’organizzazione delle mie particelle impara, pensa, sintetizza, interagisce e reagisce, impronta la mia individualità e imprime la mia responsabilità su ogni mia azione46.
La capacità umana di reagire nei modi piú vari è una prova tangibile dei principî fondamentali che hanno guidato la nostra esplorazione finora: il two-step entropico e l’evoluzione per selezione naturale. Il two-step entropico spiega come possano formarsi aggregati in un mondo che diventa sempre piú disordinato e come alcuni di questi aggregati, le stelle, possano restare stabili per miliardi di anni emettendo costantemente calore e luce. L’evoluzione spiega come, in un ambiente favorevole come un pianeta che riceve il continuo calore di una stella, alcune collezioni di particelle possano unirsi in configurazioni che facilitano comportamenti complessi, dalla replicazione alla riparazione, dall’estrazione di energia all’elaborazione metabolica, dalla locomozione alla crescita. Le collezioni che acquisiscono anche le capacità di pensare e apprendere, comunicare e cooperare, immaginare e prevedere, sono meglio equipaggiate per sopravvivere e quindi per produrre collezioni simili con capacità simili. L’evoluzione opera una selezione a favore di queste capacità e, generazione dopo generazione, le affina. Nel corso del tempo, alcune collezioni concludono che i propri poteri cognitivi sono talmente notevoli da trascendere le leggi fisiche. Alcune delle collezioni piú riflessive poi sono sconcertate dal conflitto tra il libero arbitrio di cui hanno esperienza e l’irriducibile controllo delle leggi fisiche che riconoscono. Ma il fatto è che non esiste alcun conflitto poiché non vi è nulla che trascenda le leggi fisiche. Nulla può trascenderle. Le collezioni di particelle devono invece rivalutare i propri poteri, concentrandosi non sulle leggi che governano le particelle stesse, ma sui comportamenti di livello elevato, di grande complessità e di straordinaria ricchezza che ciascuna collezione di particelle – ciascun individuo – può esibire e sperimentare. Con questo nuovo orientamento, le collezioni di particelle possono raccontare una storia illuminante di comportamenti ed esperienze mirabili, permeati da una volontà che appare libera e si esprime come se avesse un controllo autonomo e tuttavia è completamente governata dalle leggi della fisica.
Alcuni esiteranno di fronte a questa conclusione, proprio come ho fatto io. Anche se l’argomento che ho presentato mi convince intellettualmente, non cancella la mia forte e profonda impressione di controllare liberamente ciò che accade nella mia testa. La forza di quell’impressione, però, dipende dalla sua familiarità. Come possono attestare molti che hanno sperimentato l’uso di sostanze psicotrope, quando l’identità delle particelle che si muovono nel cervello viene modificata anche in misura modesta, la sfera di ciò che è familiare può mutare. L’equilibrio di potere nel cervello può cambiare. Può sembrare che la mente abbia una mente propria. Decenni fa, nella bellissima città di Amsterdam, un’esperienza simile mi fece passare una delle notti piú terrificanti della mia vita. La mia mente creò un mondo interiore che conteneva un numero infinito di copie di me stesso, ciascuna decisa a minare la realtà vissuta dalle altre. Appena una delle mie copie veniva indotta a pensare che la realtà in cui viveva fosse quella «vera», una seconda copia svelava l’artificio di quel mondo, eliminando tutte le persone e le cose a cui la prima teneva e svelando al contempo un’altra realtà «vera» – e a quel punto la sequenza da incubo si ripeteva.
Dal punto di vista della fisica, avevo soltanto introdotto nel mio cervello una piccola collezione di particelle estranee. Il cambiamento però era bastato per cancellare l’impressione familiare di controllare liberamente le attività della mia mente. Mentre lo schema a livello riduzionistico restava pienamente in vigore (particelle governate da leggi fisiche), il modello a livello umano (una mente affidabile dotata di libero arbitrio che naviga in una realtà stabile) era stravolto. Ovviamente, non intendo presentare un momento di alterazione della mente come un argomento favorevole o contrario al libero arbitrio, però quell’esperienza rese viscerale una comprensione che altrimenti sarebbe rimasta astratta. Il senso di chi siamo, le capacità che abbiamo e il libero arbitrio che apparentemente esercitiamo emergono dal movimento delle particelle nella nostra testa. Se si interviene sulle particelle, queste qualità familiari possono svanire. Quell’esperienza mi aiutò a conciliare la mia comprensione razionale della fisica con il mio senso intuitivo della mente.
L’esperienza quotidiana e il linguaggio di tutti i giorni sono pieni di riferimenti, impliciti ed espliciti, al libero arbitrio. Parliamo di compiere scelte e prendere decisioni. Parliamo delle implicazioni che queste azioni hanno sulla nostra vita e su quella delle persone che coinvolgiamo. La nostra discussione del libero arbitrio non implica che queste descrizioni siano prive di significato o che debbano essere eliminate. Sono descrizioni espresse nel linguaggio appropriato a una storia di livello umano. Noi compiamo scelte, prendiamo decisioni, intraprendiamo azioni. E queste azioni hanno implicazioni. Tutto ciò è reale. Poiché però la storia di livello umano deve essere compatibile con il resoconto riduzionistico, dobbiamo affinare il nostro linguaggio e i nostri assunti. Dobbiamo mettere da parte l’idea che l’origine ultima delle nostre scelte, decisioni e azioni sia dentro di noi, che tutte loro nascano dalla nostra indipendente facoltà di agire, che emergano da considerazioni che stanno al di fuori della portata della fisica. Dobbiamo riconoscere che, sebbene la sensazione di libero arbitrio sia reale, la capacità di esercitare il libero arbitrio – la capacità della mente umana di trascendere le leggi che controllano la progressione fisica – non è reale. Se reinterpretiamo «libero arbitrio» come questa sensazione, le nostre storie di livello umano diventano compatibili con il resoconto riduzionistico. E insieme allo spostamento di enfasi dall’origine ultima al comportamento liberato, possiamo accettare una varietà di libertà umana irrefutabile e di vasta portata.
Come nel caso dell’origine della vita, non si può indicare il momento preciso in cui emerge la coscienza, la capacità di riflettere su sé stessi o la sensazione di libero arbitrio. I reperti archeologici, tuttavia, suggeriscono che 100 000 anni fa, o forse anche prima, i nostri antenati avevano iniziato ad avere queste esperienze. I primi esseri umani avevano assunto da tempo la posizione eretta. Potevano guardarsi intorno e meravigliarsi.
Che cosa abbiamo fatto con quei poteri?
Capitolo sesto
Linguaggio e storie
Dalla mente all’immaginazione
I pattern, cioè gli schemi che si ripetono, le regolarità, le tendenze, sono fondamentali per l’esperienza umana. Noi sopravviviamo perché possiamo percepire e reagire ai ritmi del mondo. Domani sarà diverso da oggi, ma guardando al di sotto delle miriadi di accadimenti facciamo affidamento su proprietà durature. Il Sole sorgerà, i sassi cadranno a terra, l’acqua scorrerà. Questi e un’innumerevole collezione di altri pattern che incontriamo di momento in momento influenzano profondamente il nostro comportamento. Gli istinti sono essenziali e la memoria è importante perché i pattern persistono.
La matematica è l’espressione dei pattern. Usando una manciata di simboli, possiamo riassumere i pattern in modo conciso e preciso. Galileo sintetizzò il concetto dichiarando che il libro della natura, che a suo giudizio rivelava la presenza divina proprio come la Bibbia, è scritto nel linguaggio della matematica. Nei secoli successivi, i pensatori hanno dibattuto una versione laica di questa idea. La matematica è un linguaggio che l’umanità ha sviluppato per descrivere i pattern che incontriamo, o è invece l’origine della realtà, che fa dei pattern del mondo l’espressione della verità matematica? La mia sensibilità romantica mi fa propendere per la seconda ipotesi. È meraviglioso immaginare che le nostre manipolazioni matematiche raggiungano il fondamento stesso della realtà. Secondo la mia valutazione meno sentimentale, tuttavia, la matematica è un linguaggio di nostra creazione, che è stato sviluppato anche assecondando troppo la nostra predilezione per i pattern. Dopo tutto, gran parte dell’analisi matematica contribuisce in scarsa misura a promuovere la sopravvivenza. Rari erano i pasti, e ancora piú rare le opportunità di riprodursi, che i nostri antenati si assicuravano meditando sui numeri primi o andando alla ricerca della quadratura del cerchio.
In epoca moderna, le capacità di Einstein stabilirono un livello senza pari di sfruttamento dei ritmi della natura. Eppure, anche se la sua eredità può essere riassunta in poche proposizioni matematiche – concise, precise e di vasta portata –, le incursioni di Einstein negli angoli piú remoti della realtà non prendevano sempre le mosse da qualche equazione. E nemmeno dal linguaggio. Per descrivere questo processo, lo stesso Einstein affermò di pensare spesso in musica1 e di usare molto raramente le parole per pensare2. Forse il vostro processo di pensiero rispecchia quello di Einstein. Il mio no. Di tanto in tanto, quando sono alle prese con un problema difficile, mi capita di avere un lampo improvviso di intuizione che riflette qualche processo cerebrale al di sotto della consapevolezza cosciente. Ma quando sono consapevole, anche se uso immagini mentali per capire come arrivare a una soluzione, sarebbe un’esagerazione dire che le parole sono assenti o individuare un’associazione con la musica. Il piú delle volte, progredisco nella fisica armeggiando con le equazioni e raccogliendo conclusioni in frasi ordinarie che scrivo a mano per esteso in quaderni che riempiono uno scaffale dopo l’altro. Quando mi concentro, spesso parlo con me stesso, di solito fra me e me, qualche volta a voce alta. Le parole sono essenziali in questo processo. Anche se trovo troppo generale l’affermazione riassuntiva di Wittgenstein «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo»3 – non dubito che esistano qualità essenziali del pensiero e dell’esperienza che stanno al di fuori del linguaggio, un punto su cui torneremo piú avanti –, senza il linguaggio la mia capacità di realizzare certi tipi di manovre mentali sarebbe ridotta. Le parole non solo esprimono il ragionamento, ma lo vivificano. O, come ha detto con grazia incomparabile Toni Morrison, «Moriamo. Forse è questo il significato della vita. Ma produciamo linguaggio. E questa potrebbe essere la misura della nostra vita»4.
Con l’eccezione di un solo genio, e forse anche nel suo caso, il linguaggio è essenziale per scatenare l’immaginazione. Con il linguaggio possiamo esprimere una visione in cui il mondo reale offre una vaga idea di una possibilità molto piú ricca. Possiamo evocare immagini, autentiche o fantasiose, in menti vicine e lontane. Possiamo trasmettere conoscenze guadagnate a fatica, sostituendo la difficoltà della scoperta con la facilità dell’istruzione. Possiamo condividere piani e armonizzare intenzioni, agevolando azioni coordinate. Possiamo combinare le nostre capacità creative individuali in una forza comune estremamente importante. Possiamo esaminare a fondo noi stessi e riconoscere che, anche se siamo stati plasmati dall’evoluzione, siamo capaci di elevarci al di sopra di ciò che è necessario per sopravvivere. E possiamo meravigliarci di come una collezione accuratamente organizzata di grugniti, semivocali, fricative e sospensioni possa trasmettere un’idea sulla natura dello spazio e del tempo o fornire una descrizione commovente dell’amore e della morte: «Wilbur non dimenticò mai Charlotte. Anche se amava teneramente i figli e i nipoti di lei, nessuno dei nuovi ragni prese mai il posto di Charlotte nel suo cuore»5.
Con il linguaggio, iniziamo a scrivere una narrazione collettiva, una sovrapposizione di storie, a trovare il senso dell’esperienza.
1. Prime parole.
Nonostante l’apocrifa frase palindroma «Madam, I’m Adam», nessuno sa quando iniziammo a parlare e perché. Darwin ipotizzò che il linguaggio fosse emerso dal canto e immaginò che i piú abili canterini avrebbero attirato partner piú facilmente e quindi avviato in misura maggiore generazioni successive di cantanti talentuosi. Con il tempo, a poco a poco i loro suoni melodiosi si sarebbero trasformati in parole6. Alfred Russel Wallace, il meno celebrato coscopritore della selezione naturale, la pensava diversamente. Era convinto che la selezione naturale non potesse far luce sulle capacità umane relative alla musica, all’arte e, in particolare, al linguaggio. Nell’arena competitiva della sopravvivenza, i nostri antenati che cantavano, dipingevano e chiacchieravano non se la passavano meglio, secondo Wallace, dei loro cugini meno appariscenti. Immaginava una sola strada: «Dobbiamo pertanto ammettere la possibilità, – scrisse sulla “Quarterly Review”, una rivista di ampia diffusione, – che nello sviluppo della razza umana, un’Intelligenza Superiore abbia guidato le stesse leggi per scopi piú nobili»7. Le leggi dell’evoluzione, altrimenti cieche, dovevano essere state imbrigliate da un potere divino e dirette allo sviluppo della comunicazione e della cultura. Quando Darwin lesse l’articolo di Wallace, ne fu scioccato, vergò tre «no» a margine8 e in una lettera a Wallace scrisse: «Spero che tu non abbia completamente assassinato la tua, e la mia, creatura»9.
Nel secolo e mezzo trascorso da allora, i ricercatori hanno sviluppato una gran varietà di teorie dell’origine e dei primi sviluppi del linguaggio, tuttavia, come avviene negli incontri di wrestling fra tag-team, ogni proposta apparentemente convincente ha incontrato un nuovo avversario. Gli scienziati sono molto piú d’accordo sul primo sviluppo dell’universo. Per quanto strano possa sembrare, è sensato. La nascita dell’universo ha lasciato una gran quantità di reperti fossili, la nascita del linguaggio no. L’onnipresente radiazione di fondo a microonde, la particolare abbondanza di atomi semplici come l’idrogeno e l’elio e il movimento di galassie distanti forniscono tracce dirette di processi che si svolsero ai primordi dell’universo. Le onde sonore, le prime manifestazioni del linguaggio, si disperdono rapidamente senza lasciare traccia: quando vengono prodotte, dopo pochi istanti sono già svanite. In mancanza di reperti concreti, i ricercatori hanno grande libertà nel ricostruire la storia iniziale del linguaggio e il risultato, per nulla sorprendente, è una profusione di teorie diverse, spesso in contrasto.
Ciò nonostante, in generale gli studiosi ritengono che il linguaggio umano differisca profondamente da qualsiasi altra varietà di comunicazione esistente nel regno animale. Se foste un cercopiteco medio, sareste capaci di dare l’allarme, avvisando altri della vostra tribú che il predatore in arrivo è un leopardo (breve sibilo acuto), un’aquila (grugnito di tono basso ripetuto) o un pitone (grido acuto)10, ma non sapreste come fare a raccontare il terrore che avete provato di fronte a un pitone ieri o a esprimere il vostro piano per saccheggiare un nido di uccelli domani. Le vostre capacità linguistiche userebbero una piccola collezione chiusa di espressioni specifiche, di significato prestabilito, tutte incentrate su ciò che accade al momento e nel luogo in cui vi trovate. Piú o meno le stesse considerazioni valgono per la comunicazione evidente in altre specie. Per citare Bertrand Russell, «Un cane non può raccontare la sua autobiografia; per quanto possa abbaiare in modo eloquente, non può dirvi che i suoi genitori erano poveri ma onesti»11. Il linguaggio umano è completamente diverso. È aperto. Anziché usare frasi prestabilite e limitate, noi combiniamo e ricombiniamo una collezione finita di fonemi per produrre sequenze di suoni complicate, gerarchiche e praticamente illimitate che trasmettono uno spettro di idee praticamente illimitato. Possiamo parlare del serpente di ieri e del nido di domani e con la stessa facilità possiamo descrivere un magnifico sogno di unicorni volanti e l’inquietudine che ci assale al calar della notte.
Quando si scende un po’ piú nei dettagli, si accende la controversia. Com’è possibile che a pochi anni dalla nascita, senza un insegnamento specifico, parliamo speditamente una lingua o persino piú lingue? Il cervello è configurato in modo specifico per l’acquisizione del linguaggio, oppure l’immersione nella cultura insieme alla nostra generale propensione a imparare nuove cose offrono una spiegazione adeguata? Il linguaggio umano iniziò nella forma di insiemi di vocalizzazioni con un significato prestabilito, come i segnali d’allarme dei cercopitechi, che poi si scissero in parole, oppure iniziò da suoni elementari che poi si trasformarono in parole e frasi? Perché abbiamo il linguaggio? L’evoluzione ha operato una selezione diretta a favore del linguaggio perché offre un vantaggio adattivo, oppure il linguaggio è un prodotto collaterale di altri sviluppi dell’evoluzione come l’aumento delle dimensioni del cervello? E durante tutte queste migliaia di anni, di cosa mai abbiamo parlato? E perché?
Noam Chomsky, tra i piú autorevoli linguisti moderni, ha sostenuto che la capacità umana di acquisire il linguaggio dipende dal fatto che ciascuno di noi possiede una grammatica universale cablata nel cervello – un concetto con una lunga tradizione storica che risale al filosofo del secolo XIII Ruggero Bacone, che arrivò alla conclusione che molte lingue del mondo hanno un impianto strutturale comune. Nell’uso moderno, l’espressione è stata soggetta a varie interpretazioni e nel corso degli anni anche Chomsky ne ha affinato il significato. Nella sua forma meno controversa, la proposta della grammatica universale è che qualcosa nella nostra costituzione neurobiologica innata fornisce un innesco per il linguaggio, uno stimolo del cervello di tutti gli individui della specie che spinge tutti noi ad ascoltare, comprendere e parlare. Altrimenti, prosegue il ragionamento, in che modo i bambini, soggetti all’assalto linguistico libero, casuale e frammentario della vita quotidiana, potrebbero interiorizzare una vasta gamma di regole e costrutti grammaticali precisi, se non possedessero un formidabile arsenale mentale sempre pronto a elaborare l’attacco verbale? Dato che qualsiasi bambino può imparare qualsiasi lingua, l’arsenale mentale non può essere specifico della lingua; la mente deve essere in grado di afferrare un nucleo universale comune a tutte le lingue. Chomsky ha proposto che un unico evento neurobiologico, un «piccolo ricablaggio del cervello» avvenuto forse ottantamila anni fa, potrebbe aver portato all’acquisizione di questa capacità da parte dei nostri antenati, scatenando un Big Bang cognitivo che aprí la strada al linguaggio in tutta la specie12.
Gli psicologi cognitivisti Steven Pinker e Paul Bloom, pionieri di un approccio darwinistico al linguaggio, suggeriscono una storia meno su misura, in cui il linguaggio emerse e si sviluppò secondo lo schema familiare di un accumulo graduale di cambiamenti incrementali, ciascuno dei quali conferiva un certo grado di vantaggio per la sopravvivenza13. Quando i nostri antenati cacciatori-raccoglitori vagavano per le pianure e le foreste, la capacità di comunicare – «Gruppo di cinghiali al pascolo a ore undici», o «Attenzione a Barney, ha messo gli occhi su Wilma», o «Ecco un modo migliore per fissare una pietra affilata al manico» – era vitale per un funzionamento efficace del gruppo ed essenziale per condividere le conoscenze accumulate. Un cervello capace di comunicare con altri cervelli ha quindi un vantaggio nell’arena competitiva della sopravvivenza e della riproduzione, spingendo le capacità linguistiche ad affinarsi e a diffondersi. Altri ricercatori ancora individuano una serie di adattamenti, fra cui il controllo del respiro, la memorizzazione, il pensiero simbolico, la consapevolezza della mente altrui, la formazione di gruppi e cosí via, che potrebbero aver contribuito a portare al linguaggio anche se il linguaggio poteva avere poco a che fare con il valore di sopravvivenza degli adattamenti stessi14.
Incerto è anche quando iniziammo a parlare. Praticamente non esistono prove linguistiche del passato remoto, ma esaminando elementi archeologici plausibilmente associati al linguaggio i ricercatori hanno suggerito in quali periodi potrebbe essere emerso. Manufatti come strumenti forniti di impugnatura (pietre od ossi lavorati fissati saldamente a un manico), l’arte rupestre, le incisioni geometriche e le guarnizioni di perline attestano che almeno 100 000 anni fa i nostri antenati conoscevano la pianificazione, le interazioni sociali avanzate e il pensiero simbolico. Poiché siamo propensi a collegare queste capacità cognitive sofisticate al linguaggio, possiamo immaginare che i nostri antenati, quando affilavano le lance e le accette o entravano carponi in caverne oscure per dipingere uccelli e bisonti, chiacchieravano della caccia dell’indomani o del fuoco acceso la sera prima.
Prove piú dirette della capacità di parlare provengono da un insieme diverso di testimonianze archeologiche. Gli scienziati che si occupano di ricostruire lo sviluppo della cavità craniale e i cambiamenti strutturali della bocca e della gola concludono che se i nostri antenati avessero avuto quella propensione avrebbero potuto avere la facoltà fisiologica di conversare piú di un milione di anni fa. Anche la biologia molecolare fornisce alcuni indizi. Il linguaggio parlato richiede un grado elevato di destrezza vocale e orale e nel 2001 alcuni ricercatori hanno individuato una possibile base genetica essenziale per queste capacità. Studiando una famiglia britannica affetta da un disturbo del linguaggio da tre generazioni (difficoltà con la grammatica e con la coordinazione dei movimenti complessi della bocca, del viso e della gola necessari per il normale linguaggio parlato), i ricercatori hanno scoperto un incidente genetico, un cambiamento di una sola lettera in un gene che si trova sul cromosoma umano 7, il gene FOXP215. Questo refuso nelle istruzioni è considerato implicato nel disturbo poiché è comune a tutti i familiari che ne sono affetti. Nei primi articoli sulla scoperta, FOXP2 è stato soprannominato «gene della grammatica», o «gene del linguaggio», descrizioni da prima pagina che hanno irritato i ricercatori del settore, ma a parte le iperboli semplicistiche il gene FOXP2 sembra effettivamente essere un componente essenziale della parola e del linguaggio.
Un punto molto interessante è che si sono individuate varianti del gene FOXP2 in molte specie, dagli scimpanzé agli uccelli e ai pesci, il che ha permesso ai ricercatori di ricostruire come è cambiato il gene nel corso dell’evoluzione. Negli scimpanzé, la proteina codificata dal loro gene FOXP2 differisce dalla nostra soltanto per due amminoacidi (su piú di 700), mentre quella neandertaliana è identica alla nostra16. I nostri cugini, gli uomini di Neandertal, parlavano? Nessuno lo sa. Questa linea investigativa suggerisce però che una base genetica per la parola e il linguaggio potrebbe essersi stabilita in qualche momento successivo alla nostra separazione dagli scimpanzé, qualche milione di anni fa, ma prima che ci separassimo dagli uomini di Neandertal, all’incirca 600 000 anni fa17.
I collegamenti che sono stati proposti fra il linguaggio e ciascuno dei marcatori storici – antichi manufatti, strutture fisiologiche, profili genetici – sono sapienti ma incerti. Di conseguenza, gli studi basati su questi marcatori hanno prodotto un ampio ventaglio di date per il debutto delle prime parole nel mondo, da decine di migliaia fino a qualche milione di anni fa. Come hanno osservato alcuni ricercatori scettici, una cosa è avere la capacità fisica e l’agilità mentale per partecipare a una conversazione e tutt’altra cosa è farlo effettivamente.
Che cosa, dunque, può averci motivato a parlare?
2. Perché iniziammo a parlare.
Riguardo al motivo per cui i nostri antenati ruppero il silenzio non mancano di certo le ipotesi. Il linguista Guy Deutscher nota che i ricercatori hanno ipotizzato che le prime parole emersero «da grida e richiami, da gesti delle mani e dal linguaggio dei segni, dalla capacità di imitare, dall’abilità di ingannare, dal grooming, dal canto, dalla danza e dal ritmo, dal masticare, succhiare e leccare e da quasi qualsiasi altra attività umana»18, un elenco affascinante che probabilmente riflette una teorizzazione creativa piú che antecedenti storici del linguaggio. In ogni caso, uno di questi, o forse una loro combinazione, potrebbe raccontare una storia pertinente, perciò è opportuno esaminare alcuni dei suggerimenti riguardo all’origine delle nostre prime parole e al motivo per cui fecero presa.
Nei tempi antichi, prima dell’innovazione di intrecciare vari materiali per costruire una fascia porte-enfant, quando una mamma doveva usare entrambe le mani per svolgere qualche compito, posava il bambino. Se il piccolo piangeva e farfugliava, attirava la sua attenzione e, plausibilmente, anche la mamma poteva rispondere usando la voce – sussurrando in modo affettuoso, barbugliando, grugnendo – sostenendo la risposta con le espressioni del volto, i gesti delle mani e le carezze. I farfugliamenti del bambino e le cure amorevoli della mamma avrebbero portato a tassi di sopravvivenza infantile piú elevati, operando una selezione a favore della vocalizzazione e, secondo questa proposta, instradando i nostri antenati verso le parole e il linguaggio19.
Se il linguaggio delle mamme non vi convince, osservate che i gesti offrono un mezzo diretto per comunicare informazioni elementari e tuttavia vitali – accennare a un oggetto con il capo o indicare una direzione con la mano. Alcuni dei nostri cugini primati non umani, pur non usando un linguaggio parlato, possono comunicare molto bene idee rudimentali per mezzo di gesti delle mani e del corpo. In contesti di ricerca controllati, gli scimpanzé hanno imparato centinaia di segni indicanti azioni, oggetti e idee. Forse, allora, il parlato emerse da una fase precedente di comunicazione basata sui gesti. Con le mani sempre piú impegnate nella costruzione e nell’uso di utensili, e con assembramenti piú complessi che rendevano inefficiente o disagevole esprimersi a gesti (di notte è difficile vedere, quando si va alla ricerca di cibo o a caccia in gruppo è difficile vedere le mani e il corpo di tutti), la vocalizzazione poteva offrire un mezzo piú efficace per condividere le informazioni. Poiché sono una di quelle persone le cui mani entrano in azione ogni volta che parla, e a volte anche prima, questa spiegazione mi sembra particolarmente plausibile.
Se però anche il linguaggio dei gesti vi lascia scettici, considerate la proposta dello psicologo evoluzionista Robin Dunbar, secondo il quale il linguaggio emerse come sostituto efficiente dell’attività sociale di grooming20. Se foste uno scimpanzé, fareste amicizia e stabilireste alleanze togliendo con cura pidocchi, sporcizia e avanzi di cibo dal pelo di altri membri della vostra comunità. Alcuni ricambierebbero il favore, mentre altri in posizione gerarchica piú elevata farebbero attenzione al vostro operato, ma vi lascerebbero i pidocchi. Il rituale di grooming è un’attività organizzativa, che promuove e mantiene la gerarchia, le cricche e le coalizioni del gruppo. Forse i primi esseri umani si dedicavano ad attività simili di grooming sociale, ma al crescere delle dimensioni dei gruppi per assistere personalmente tutti gli individui sarebbe stato necessario investire un’enorme quantità di tempo. Le amicizie, gli accoppiamenti e le alleanze sono vitali, ma lo è anche garantire la presenza di cibo in quantità sufficiente. Che fare? Questo dilemma, sostiene Dunbar, potrebbe aver innescato la nascita del linguaggio. A un certo punto i nostri antenati potrebbero aver sostituito lo scambio verbale al grooming manuale, riuscendo cosí a condividere rapidamente le informazioni – chi sta facendo cosa a chi, chi si sta comportando in modo disonesto, chi è impegnato in un complotto sovversivo e cosí via –, liberandosi da ore di spulciature a favore di minuti di pettegolezzi. Studi recenti hanno mostrato che fino al 60 per cento delle nostre conversazioni sono dedicate oggi al pettegolezzo, una percentuale incredibile (specie per chi ha sempre difficoltà a chiacchierare del piú e del meno) che secondo alcuni ricercatori riflette lo scopo primario del linguaggio al suo inizio21.
Il linguista Daniel Dor sviluppa ulteriormente il ruolo sociale del linguaggio. In una convincente analisi di ampia portata, Dor propone l’ipotesi che il linguaggio sia uno strumento costruito collettivamente con una funzione specifica e di grande importanza: dare agli individui la facoltà di guidare l’immaginazione altrui22. Prima della nascita del linguaggio, i nostri scambi sociali erano dominati dalle esperienze condivise. Se voi e io avessimo visto, sentito o assaggiato entrambi qualcosa, avremmo potuto fare riferimento a quella cosa con gesti, suoni o immagini, ma avremmo avuto difficoltà a comunicare esperienze non condivise, per non parlare dell’arduo problema di trasmettere pensieri astratti e sensazioni interiori. Con il linguaggio, abbiamo superato queste difficoltà. Con il linguaggio, il nostro mercato per gli scambi sociali è cresciuto a dismisura: potevate usare il linguaggio per descrivere esperienze che io non avevo mai avuto, potevate evocarle nella mia mente per mezzo delle parole e io potevo fare la stessa cosa con voi. Nel corso dei millenni, i nostri antenati prelinguistici, che diventavano sempre piú dipendenti dall’azione comune coordinata (caccia cooperativa di prede di grosse dimensioni, creazione e mantenimento di fuochi controllati, preparazione del cibo per grandi gruppi, condivisione della cura e dell’istruzione dei giovani)23, infransero i limiti dello scambio non verbale, introdussero il linguaggio nel mondo e stabilirono un’arena sociale enormemente piú vasta comprendente non solo le esperienze condivise ma anche i pensieri condivisi.
Queste e quasi tutte le altre proposte riguardo all’origine del linguaggio danno rilievo alla parola parlata, la manifestazione esteriore del linguaggio. Nel modo che gli è tipico, Chomsky fa un’inversione di marcia e ipotizza che nella sua prima incarnazione il linguaggio abbia potuto facilitare il pensiero interiore24. Elaborare, pianificare, prevedere, valutare, ragionare e comprendere sono solo alcuni dei compiti essenziali che la voce interiore nella testa dei nostri antenati poté svolgere in tutta tranquillità appena il pensiero fu in grado di sfruttare il linguaggio. Il linguaggio parlato, sotto questo profilo, fu uno sviluppo successivo, come l’aggiunta di casse acustiche ai primi modelli di personal computer. È come se, molto prima di parlare, i nostri antenati fossero stati tipi seri e silenziosi, che ponderavano sui propri compiti quotidiani ma tenevano per sé le proprie riflessioni. La posizione di Chomsky è controversa. I ricercatori hanno messo in luce caratteristiche intrinseche del linguaggio che sembrano concepite per mettere in corrispondenza concetti interni con la parola parlata (in particolare, la fonologia e gran parte della struttura grammaticale), il che fa pensare che il linguaggio riguardò fin dall’inizio la comunicazione esterna.
Anche se l’origine del linguaggio resta misteriosa, un punto indiscutibile, e della massima importanza per il prosieguo della nostra discussione, è la potenza della combinazione di linguaggio e pensiero. Che una versione mentale del linguaggio abbia o no preceduto la sua vocalizzazione esterna, e che quella vocalizzazione sia stata o no stimolata dal canto, dalla cura dei neonati, dalla gesticolazione, dal pettegolezzo, dalla comunicazione collettiva, dal possesso di un grosso cervello o da qualcosa di completamente diverso, appena la mente umana ebbe il linguaggio, l’interazione della nostra specie con la realtà fu pronta per un cambiamento radicale.
Quel cambiamento dipese da uno dei comportamenti umani piú diffuso e significativo: raccontare storie.
3. Narrazione di storie e intuizione.
George Smith aveva fretta. Tamburellava gentilmente ma senza sosta sul bordo di ebano intarsiato del lungo tavolo di mogano. Aveva appena saputo che Robert Ready, a capo della sezione di restauro della pietra del museo, non sarebbe tornato per diversi giorni. Diversi giorni. Come avrebbe potuto aspettare? Per tre anni, si era infilato il cappotto, aveva preso il suo sandwich di marmellata d’arance e Stilton e scansando la folla e le carrozze era corso al British Museum, dove trascorreva i minuti che restavano della pausa per il pranzo studiando attentamente frammenti di tavolette di argilla recuperati da uno scavo archeologico a Ninive. La sua famiglia era povera. Aveva abbandonato gli studi a quattordici anni, iniziando l’apprendistato come incisore di banconote. Le sue prospettive sembravano limitate. Ma George era un genio. Imparò da autodidatta l’antico assiro e divenne un esperto di scrittura cuneiforme. I curatori del museo, che avevano preso in simpatia lo strano ragazzo che girava per le sale verso mezzogiorno, ben presto si resero conto che era piú bravo di tutti loro a decifrare le iscrizioni cuneiformi e quindi lo fecero entrare nel loro gruppo come impiegato a tempo pieno. Ora, solo pochi anni dopo, George aveva ricomposto migliaia di frammenti di argilla in una prima tavoletta completa, che in gran parte aveva già decifrato. Aveva scoperto, o credeva di avere scoperto, un magnifico segreto raccontato dalla serie di cunei – il riferimento a un mito del diluvio precedente il resoconto di Noè nell’Antico Testamento –, però aveva bisogno di Robert Ready per pulire delicatamente l’incrostamento che nascondeva una parte essenziale del testo. Assaporava già la vittoria. Tremava immaginando che la scoperta lo avrebbe elevato a una nuova vita. Non riusciva a trattenersi. Decise di rischiare pulendo egli stesso la tavoletta.
Confesso, mi stavo facendo trasportare. Il vero George Smith aspettò. Dopo qualche giorno, Robert Ready tornò e applicò le sue capacità e cosí venne alla luce la piú antica storia documentata della nostra specie, l’Epopea di Gilgameš, composta in Mesopotamia nel lontano terzo millennio a.C. Il mio racconto in forma libera fa ciò che i narratori di storie – noi esseri umani – fanno da tanto tempo: rielaborare la realtà (ciò che è noto della figura storica di George Smith)25, a volte con moderazione (come in questo caso), a volte in modo energico, a volte per accentuare il dramma, a volte per la posterità, a volte per il puro piacere di raccontare una storia interessante. La motivazione artistica di coloro che scrissero l’Epopea di Gilgameš, un racconto probabilmente sagomato da molte voci nel corso di molte generazioni, non è nota. Ma in questa storia piena di battaglie e sogni, di arroganza e invidia, di corruzione e innocenza, i personaggi e le loro preoccupazioni ci parlano chiaramente attraverso i secoli.
Ecco, è questo l’aspetto davvero impressionante. Nei millenni, forse cinque, trascorsi da quando fu completata l’Epopea di Gilgameš, il mondo ha assistito a una trasformazione dopo l’altra dei modi in cui gli esseri umani mangiano a si mettono al riparo, vivono e comunicano, si curano e procreano, eppure ci riconosciamo immediatamente nei personaggi narrati. Gilgameš e il suo compagno d’armi Enkidu partono per una spedizione che metterà alla prova il loro coraggio, la loro moralità e in definitiva la loro idea di chi sono realmente – una specie di Thelma e Louise del Neolitico. Alla fine del viaggio, quando Gilgameš si lamenta davanti al corpo senza vita di Enkidu, le sue parole strazianti ci sono del tutto familiari:
Allora, come a una giovane sposa, egli velò il volto del suo amico! Gli volteggiò attorno, come un’aquila, o come una leonessa privata dei suoi cuccioli. Egli non smetteva di andare e venire, davanti a lui e dietro di lui; arraffava e sparpagliava i riccioli della sua capigliatura! Si strappava e gettava lontano i suoi begli abiti, come preso in orrore!26.
Come molti, conosco quelle sensazioni. Decenni fa, andando avanti e indietro per le stanze del mio minuscolo appartamento, senza sapere a che cosa rivolgermi, cercavo freneticamente di evitare di affrontare la notizia che mio padre era morto all’improvviso. Anche a distanza di centinaia se non migliaia di generazioni, condividiamo molte cose con i nostri antenati.
Il punto non è solo che immancabilmente noi esseri umani ci affliggiamo, piangiamo, ci entusiasmiamo, proviamo piacere, esploriamo e ci meravigliamo. In piú, abbiamo tutti il forte desiderio di esprimere tutto ciò e di elaborarlo in una storia. L’Epopea di Gilgameš è forse la storia scritta piú antica che esista, ma se la nostra specie scriveva storie cinquemila anni fa, allora di certo raccontava già storie molto prima di allora. È proprio ciò che facciamo. Da tanto tempo. La domanda è: perché lo facciamo? Perché dovremmo evitare di cacciare altri bisonti e cinghiali o di raccogliere altri frutti e radici per passare il tempo a immaginare avventure con divinità petulanti o viaggi in mondi di fantasia?
Perché ci piacciono le storie, potreste rispondere. Sí. Naturalmente. Per quale altro motivo dovremmo andare al cinema anche se la relazione da consegnare domani non è ancora pronta? Per quale altro motivo avremmo il vizietto di mettere da parte il «lavoro vero» per riprendere a leggere un romanzo o a guardare una serie televisiva? Questo però è l’inizio di una spiegazione, non la fine. Perché mangiamo il gelato? Perché ci piace il gelato? Sí, certo. Tuttavia, come hanno sostenuto in modo convincente gli psicologi evoluzionisti, l’analisi può essere piú profonda27.
Fra i nostri antenati, quelli che amavano fare scorta di ricche fonti di energia come frutti polposi e noci mature potevano affrontare meglio i tempi di magra, generando piú discendenti e propagando una predilezione genetica per i dolci e i grassi. L’odierna smania di gelato al pistacchio, non piú lodato come un alimento che promuove la salute, è una reliquia moderna della vitale ricerca di calorie del passato. È un esempio di selezione darwiniana che si manifesta a livello di inclinazione comportamentale. Non che i geni determinino il comportamento. Le nostre azioni derivano da un amalgama complesso di casuali influenze biologiche, storiche, culturali e di molti altri tipi che sono impresse nell’organizzazione delle nostre particelle. I nostri gusti e istinti, però, sono una parte essenziale di quella mescolanza e al servizio della crescita della sopravvivenza l’evoluzione ha provveduto con cura a modellarli. Possiamo imparare nuovi giochi ma, dal punto di vista genetico e quindi istintuale, siamo come un vecchio cane.
La domanda, a questo punto, è se l’evoluzione darwiniana possa chiarire non solo i nostri gusti culinari ma anche quelli letterari. Perché i nostri antenati erano spinti a consumare preziose risorse di tempo, di energia e di attenzione raccontando storie che, a prima vista, non sembrano migliorare le prospettive di sopravvivenza? Le storie di fantasia sono particolarmente sconcertanti. Dal punto di vista dell’evoluzione, quale utilità poteva avere seguire le imprese di personaggi immaginari che affrontavano sfide irreali in mondi inesistenti? Con la sua incessante passeggiata aleatoria nel paesaggio adattivo, l’evoluzione riesce efficacemente a scansare predisposizioni comportamentali stravaganti. Una mutazione genetica che ci avesse fatto perdere l’istinto per la narrazione di storie, lasciandoci il tempo di affilare qualche lancia in piú o di spolpare qualche altra carcassa di bufalo, a quanto pare avrebbe offerto un tale vantaggio per la sopravvivenza da arrivare, con il tempo, a dominare. Ma non è andata cosí. Forse è un’opportunità che per qualche motivo l’evoluzione non ha colto.
Gli studiosi hanno cercato di capire perché, ma gli indizi scarseggiano. Abbiamo ben pochi dati per stabilire la gran diffusione o l’utilità della narrazione di storie fra i nostri antenati di migliaia di generazioni fa. Questo fatto mette in luce un problema generale della ricerca di una base evolutiva del comportamento, un problema che incontreremo in varie forme nei capitoli che seguono. Dal punto di vista della selezione naturale, ciò che conta è l’impatto che questo o quel comportamento avrebbero avuto sulle prospettive di sopravvivenza e di riproduzione dei nostri antenati durante la maggior parte della loro storia. Un resoconto attendibile richiede perciò un’ottima comprensione della mentalità antica nell’affrontare l’ambiente ancestrale. Tuttavia, la storia documentata fornisce informazioni soltanto riguardo all’ultimo quarto dell’1 per cento dei circa 2 000 000 di anni trascorsi dalle prime migrazioni umane dall’Africa. I ricercatori hanno sviluppato strumenti per sondare il passato, fra cui esami particolareggiati di antichi manufatti, estrapolazioni di analisi etnografiche di gruppi di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti e studi dell’architettura cerebrale mirati a individuare echi cognitivi di antichi problemi adattivi. L’insieme eterogeneo dei dati disponibili vincola la teorizzazione, ma comunque permette una gran varietà di prospettive.
Secondo i fautori di una di queste prospettive, cercare un ruolo adattivo per la narrazione di storie vuol dire cercare un livello maggiore di fitness nel posto sbagliato. Una data predisposizione comportamentale può essere semplicemente un sottoprodotto di altri sviluppi evolutivi – sviluppi che facevano effettivamente aumentare la sopravvivenza e che pertanto si sono evoluti nel modo usuale per selezione naturale. La direttiva generale, messa in risalto in modo vivace in un famoso articolo di Stephen Jay Gould e Richard Lewontin, è che nell’evoluzione non è possibile prendere alcune cose e scartarne altre28. A volte l’evoluzione offre soltanto pacchetti completi. Il cervello umano, pieno zeppo di dense connessioni neurali, è davvero utile per la sopravvivenza, ma forse qualcosa di intrinseco alla sua natura garantisce che provi piacere per le storie. Consideriamo, per esempio, che il nostro successo come esseri sociali dipende anche dall’avere buone informazioni – chi sta bene, chi è giú di corda, chi è forte, chi è vulnerabile, chi è attendibile. A causa della loro utilità adattiva, quando queste informazioni sono disponibili siamo inclini a prestarvi attenzione. Poi, quando ne siamo in possesso, non di rado le condividiamo per migliorare la nostra posizione sociale. Poiché le storie sono ricche di informazioni di questo genere, la nostra mente, modellata dalla selezione adattiva, forse è pronta ad animarsi, ascoltare e ripetere, anche quando si tratta di racconti di fantasia. La selezione naturale vedrebbe quindi con favore cervelli che diventano piú abili nella vita sociale senza per questo approvare la narrazione ossessiva di storie.
Convinti? Molti – me compreso – trovano poco plausibile che nonostante tutta la sua capacità di innovare il cervello sia rimasto bloccato in un comportamento diffuso, del tutto fondamentale e tuttavia adattivamente irrilevante. Forse alcuni aspetti dell’esperienza di narrare storie fanno parte di un pacchetto evolutivo, ma se raccontare storie e ascoltare storie e riraccontare quelle stesse storie avesse avuto lo stesso valore di chiacchiere oziose, l’evoluzione avrebbe trovato un modo per disfarsi di questo tic dispendioso. Come può aver fatto la narrazione di storie a guadagnarsi da vivere in un contesto adattivo?
Nel cercare una risposta, dobbiamo tenere presenti le regole del gioco. Per molti comportamenti è fin troppo facile inventare ruoli adattivi a posteriori. Non potendo verificare queste proposte ricostruendo il percorso dell’evoluzione, inoltre, si corre il rischio di restare con una collezione di storie «proprio cosí». Le proposte piú convincenti sono quelle che partono da un dato problema adattivo – un problema che, qualora fosse stato superato, avrebbe portato a un maggior successo riproduttivo – e sostengono che un particolare comportamento (o insieme di comportamenti) è perfetto per vincere quella sfida. La spiegazione darwiniana della nostra attrazione per il dolce è esemplare. Gli esseri umani hanno bisogno di una quantità minima di calorie per sopravvivere e riprodursi. Dovendo affrontare la possibilità di una grave carenza di apporto calorico, una preferenza per cibi con un elevato contenuto di zuccheri ha un valore adattivo evidente. È facile immaginare che chi dovesse progettare la mente umana, consapevole delle necessità fisiologiche del corpo umano e della natura dell’ambiente ancestrale, programmerebbe il cervello umano a incoraggiare il corpo a mangiare frutta ogni qual volta possibile. Non sorprende affatto, quindi, che la selezione naturale abbia finito per seguire proprio questa strategia. La questione è se esistano analoghe considerazioni adattive che potrebbero portare a programmare la mente umana a creare, raccontare e ascoltare storie.
Sí, esistono. Narrare storie potrebbe essere il modo in cui la mente si allena a interagire con il mondo reale, una versione cerebrale delle attività ludiche documentate in numerose specie che offrono un mezzo sicuro per praticare e affinare capacità critiche. Steven Pinker, psicologo di primo piano ed esperto a 360 gradi della mente, descrive una versione particolarmente scarna dell’idea: «La vita è come gli scacchi e le trame sono come quei libri di partite famose che gli scacchisti seri studiano per essere preparati se dovessero trovarsi in situazioni analoghe»29. Pinker immagina che attraverso le storie ciascuno di noi costruisca un «catalogo mentale» delle risposte strategiche ai possibili imprevisti della vita, che poi può consultare nei momenti di bisogno. Mentre i loro geni cercavano di restare presenti nelle generazioni successive, i nostri antenati affrontavano un ostacolo dopo l’altro, come difendersi da membri subdoli della propria tribú, corteggiare potenziali partner, istruire i giovani, spartirsi scarse risorse alimentari e cosí via. L’immersione in storie immaginarie in cui si affrontava un grande assortimento di sfide simili avrebbe avuto la capacità di perfezionare le strategie e le risposte dei nostri antenati. Programmare il cervello a confrontarsi con storie inventate sarebbe quindi stato un modo intelligente di dare alla mente in modo economico, sicuro ed efficiente una base piú ampia di esperienze da cui operare.
Alcuni studiosi di letteratura hanno respinto questa proposta, osservando che in generale le strategie seguite dai personaggi di fantasia per affrontare sfide immaginarie non si possono utilizzare nella vita reale, o quanto meno non è consigliato farlo30. «Potremmo finire girando a vuoto come il comico e folle Don Chisciotte o tragicamente delusi come Emma Bovary: personaggi che, entrambi, si smarriscono proprio perché confondono la fantasia con la realtà», cosí Jonathan Gottschall riassume scherzosamente la critica31. Pinker, com’è ovvio, non intendeva suggerire che copiamo le azioni che incontriamo nelle storie, ma piuttosto che da queste storie impariamo – un approccio, come osserva Gottschall, che forse è descritto in modo piú completo dalla metafora leggermente diversa introdotta dallo psicologo e romanziere Keith Oatley32. Anziché a un file mentale pensate a un simulatore di volo. Le storie offrono dominî inventati in cui seguiamo passo passo personaggi le cui esperienze superano di gran lunga le nostre. Prendendo in prestito i loro occhi, protetti dal vetro temperato di una storia, osserviamo da vicino una grande abbondanza di mondi esotici. Attraverso questi episodi simulati, la nostra intuizione si espande e si affina, diventando piú acuta e piú flessibile. Non è che di fronte a situazioni sconosciute iniziamo consultazioni cognitive alla ricerca di risposte in una rubrica di consigli per la mente, ma grazie alle storie interiorizziamo un’idea piú ricca di sfumature di come reagire e perché, e questa conoscenza essenziale guida il nostro comportamento futuro. Coltivare un senso innato della passione eroica è molto diverso da combattere contro i mulini a vento – e questa è stata la mia interpretazione, e quella anche di molti altri, arrivato all’ultima pagina delle avventure di Alonso Chisciano.
Con il simulatore di volo come metafora dell’utilità adattiva delle storie, come programmeremmo il simulatore stesso? Quali storie gli faremmo sviluppare? Possiamo prendere la risposta dalla prima pagina del programma del corso di scrittura Creative Writing 101. Un assioma è che una storia deve necessariamente parlare di un conflitto, di una difficoltà, di qualche guaio. Siamo attratti da personaggi che per realizzare i propri obiettivi devono superare ostacoli insidiosi, esteriori e interiori. I loro viaggi, reali e simbolici, ci tengono col fiato sospeso mentre giriamo freneticamente le pagine. Certo, le storie piú avvincenti hanno modi sorprendenti, divertenti e a volte addirittura meravigliosi di trattare i personaggi, la trama e la stessa tecnica di narrazione, ma in molti casi se si eliminasse il conflitto la storia si sgonfierebbe. Non è una coincidenza se la stessa cosa accade anche all’utilità darwiniana del contenuto che viene sviluppato dal simulatore di volo narrativo. Senza conflitti, senza difficoltà, senza guai, verrebbe meno anche il valore adattivo della storia. La storia di un Josef K. che è felice di confessare un reato non specificato e sconta ubbidientemente una punizione ingiustificata sarebbe una lettura facile e veloce. E in mancanza di altre variazioni narrative anche di scarso impatto. Cosí sarebbe anche seguire una Dorothy che consegna allegramente le scarpette d’argento, lascia la strada di mattoni gialli e si integra nel Paese dei Ghiottoni. Cieli sereni, motori che funzionano alla perfezione e passeggeri modello non sono le simulazioni che migliorano le capacità del pilota. Allenarsi a interagire con il mondo reale è utile se si incontrano situazioni a cui sarebbe problematico reagire senza preparazione.
Questa prospettiva sulle storie potrebbe anche far luce sul motivo per cui voi e io, come chiunque altro, passiamo un paio d’ore al giorno a inventare storie che raramente ricordiamo e ancor piú raramente raccontiamo ad altri. Si tratta delle storie che produciamo durante il sonno REM. Piú di un secolo dopo L’interpretazione dei sogni di Freud, non si è ancora raggiunto il consenso sul motivo per cui sogniamo. Lessi il libro di Freud per il corso di Igiene (sí, si chiamava proprio cosí) del primo anno del liceo, un corso obbligatorio tenuto dai docenti di ginnastica e dagli allenatori sportivi della scuola che si concentrava su pratiche di primo soccorso e norme elementari di pulizia. Mancando il materiale necessario per riempire un intero semestre, gran parte delle ore del corso erano occupate dalle relazioni degli allievi su argomenti giudicati vagamente pertinenti. La mia scelta cadde sul sonno e i sogni e probabilmente presi troppo sul serio l’incarico, leggendo Freud e passando ore e ore dopo la scuola a setacciare la letteratura di ricerca. La rivelazione, per me e per tutta la classe, fu il lavoro di Michel Jouvet, che alla fine degli anni Cinquanta esplorò il mondo onirico dei gatti33. Danneggiando una parte del cervello dei gatti (il locus coeruleus, se vi può interessare), Jouvet bloccava il processo neurale che normalmente impedisce alle situazioni oniriche di stimolare azioni del corpo, con il risultato che durante il sonno i gatti si accovacciavano, incurvavano la schiena, soffiavano, facevano l’atto di graffiare con la zampa, presumibilmente reagendo a prede e predatori immaginari. Non sapendo che gli animali stavano dormendo, si sarebbe potuto pensare che stessero eseguendo un kata felino. Piú recentemente, studi condotti sui ratti usando indagini neurologiche piú raffinate hanno mostrato che i loro schemi di attività cerebrale durante i sogni corrispondevano in maniera tanto precisa a quelli registrati durante la veglia mentre erano alle prese con un nuovo labirinto che i ricercatori potevano seguire il progresso della mente sognante del ratto mentre ricostruiva il percorso che aveva imparato34. Quando i gatti e i ratti sognano, sembra proprio che ripassino comportamenti che hanno a che fare con la sopravvivenza.
L’antenato che abbiamo in comune con i gatti e i roditori visse 70-80 milioni di anni fa, quindi l’estrapolazione di un’ipotetica conclusione basata su specie separate da decine di migliaia di millenni deve essere accompagnata da molti avvertimenti. È facile però immaginare che la nostra mente intrisa di linguaggio possa produrre i sogni per uno scopo simile: offrire un allenamento cognitivo ed emotivo che migliora la conoscenza ed esercita l’intuizione – sessioni notturne sul simulatore di volo narrativo. Forse è per questo che in un normale ciclo di vita una persona trascorre ben sette anni con gli occhi chiusi e il corpo in gran parte paralizzato, immersa in storie di sua creazione35.
Di per sé, tuttavia, la narrazione di storie non riguarda una sola persona, ma è il nostro strumento piú potente per entrare nella mente degli altri. Poiché la nostra è una specie profondamente sociale, la capacità di trasferirsi per un po’ nella mente di un altro potrebbe essere stata essenziale per la nostra sopravvivenza e la nostra posizione dominante. Questa possibilità offre un’altra giustificazione progettuale per programmare la narrazione di storie nel nostro repertorio comportamentale – per individuare, in altre parole, l’utilità adattiva del nostro istinto di narrare storie.
4. La narrazione di storie e la mente degli altri.
In generale, i discorsi professionali tra fisici usano un linguaggio specialistico che si articola in una miriade di equazioni. Non è il tipo di materiale che terrebbe col fiato sospeso persone rannicchiate intorno al fuoco. Tuttavia, se sappiamo leggere le equazioni e interpretare il linguaggio specialistico, le storie che raccontano possono essere emozionanti. Nel novembre 1915, quando Albert Einstein, esausto e sul punto di completare la teoria generale della relatività, utilizzò le equazioni per spiegare l’annoso enigma del lieve scostamento dell’orbita di Mercurio dalle previsioni newtoniane, si commosse a tal punto da iniziare a soffrire di palpitazioni. Navigava in un mare insidioso di equazioni complesse da quasi dieci anni e il risultato di quei calcoli somigliava a un primo avvistamento di terra ferma. Per parafrasare una valutazione successiva di Alfred North Whitehead, significava che l’audace tentativo di Einstein era approdato sulle sponde della comprensione36.
Non ho mai fatto una scoperta altrettanto epocale. È successo a pochi. Anche scoperte piú banali, però, possono procurare un’emozione simile. In quei momenti, si prova una connessione profonda con l’universo. È di questo, in realtà, che trattano le storie incorporate nelle equazioni e nel linguaggio specialistico. Le storie danno un resoconto approfondito dell’universo, o di qualcosa nell’universo – di come nasce, invecchia e si trasforma. Offrono un modo per conoscere l’universo da una prospettiva altrimenti inaccessibile. Permettono di entrare in regni della realtà che in certi casi, i piú appaganti, sono del tutto inaspettati. Per mezzo delle equazioni, confermate dagli esperimenti e dalle osservazioni, ci viene data la possibilità di entrare in comunicazione con un cosmo strano e meraviglioso.
Le storie che narriamo nei linguaggi naturali da migliaia di anni hanno un ruolo analogo. Per mezzo delle storie, ci liberiamo della nostra usuale prospettiva personale e per un breve momento siamo nel mondo in un modo diverso. Ne facciamo esperienza attraverso gli occhi e l’immaginazione del narratore. Il simulatore di volo narrativo è la nostra porta d’accesso agli strani mondi che esistono nella mente delle persone che ci sono vicine. Per citare Joyce Carol Oates, «La lettura è l’unico mezzo con cui scivoliamo, involontariamente, spesso senza poterci opporre, in un’altra pelle, nella voce di un altro, in un’altra anima […] per entrare in una coscienza a noi sconosciuta»37. Senza le storie, le sfumature delle altre menti sarebbero oscure come il micromondo senza conoscenza della meccanica quantistica.
Questa qualità distintiva delle storie ha qualche conseguenza evolutiva? I ricercatori hanno immaginato che sia cosí. Abbiamo prevalso in gran parte perché siamo una specie altamente sociale. Siamo capaci di vivere e lavorare in gruppo. Non in perfetta armonia, ma con un grado di cooperazione tale da stravolgere completamente i calcoli della sopravvivenza. Non è solo che l’unione fa la forza. È che a innovare, partecipare, delegare e collaborare sono in tanti. Essenziale per il successo di questa vita di gruppo è proprio quella capacità di comprendere la varietà dell’esperienza umana che abbiamo assimilato attraverso le storie. Come ha osservato lo psicologo Jerome Bruner, «Noi organizziamo la nostra esperienza e la nostra memoria degli accadimenti umani soprattutto nella forma di narrazione»38, il che lo porta a dubitare che «una simile vita collettiva sarebbe possibile se non fosse per la capacità umana di organizzare e comunicare l’esperienza in forma narrativa»39. Attraverso la narrazione esploriamo la gamma dei comportamenti umani, dalle aspettative sociali alle trasgressioni piú atroci. Siamo testimoni dell’enorme varietà delle motivazioni umane, dalla piú nobile ambizione alla piú riprovevole brutalità. Incontriamo la sfera degli atteggiamenti umani, dal trionfo della vittoria allo strazio della sconfitta. Come ha sottolineato il critico letterario Brian Boyd, le narrazioni rendono «il paesaggio sociale piú esplorabile, piú ampio, piú aperto alle possibilità», instillando in noi un «desiderio estremo di capire il nostro mondo in riferimento non solo alla nostra esperienza diretta, ma anche alle esperienze altrui – e non solo di persone reali»40. Che si tratti di miti, di storie, di favole o anche di resoconti infiorati di eventi quotidiani, le narrazioni sono la chiave della nostra natura sociale. Con la matematica comunichiamo con altre realtà; con le storie comunichiamo con altre menti.
Da bambino, guardavo spesso la serie originale di Star Trek insieme a mio padre, una tradizione che ho ripetuto con mio figlio. I racconti morali e le saghe spaziali esercitano un grande fascino su chi ama le esplorazioni eroiche servite con una certa dose di riflessione filosofica. Uno degli episodi piú avvincenti, Darmok, della serie spin-off Star Trek: Next Generation, descrive un ruolo straordinario per le storie nella creazione della civiltà. I Tamariani, una razza aliena di umanoidi, comunicano esprimendosi soltanto per allegorie e quindi per loro l’uso diretto del linguaggio da parte del capitano Picard è sconcertante tanto quanto i loro costanti riferimenti a un corpus di storie sconosciute sono sconcertanti per Picard. Alla fine Picard capisce la loro visione del mondo basata sull’allegoria e realizza un incontro di menti di specie diverse raccontando l’Epopea di Gilgameš.
Per i Tamariani, i pattern della vita e del vivere insieme sono impressi in una collezione di storie note a tutti. Il nostro modello mentale non è altrettanto concentrato sulle storie, ciò nonostante la narrazione rappresenta uno dei nostri schemi concettuali primari. Secondo l’antropologo John Tooby e la psicologa Leda Cosmides, due pionieri della psicologia evoluzionistica, il motivo è che «Ci siamo evoluti non molto tempo fa da organismi la cui unica fonte (non innata) di informazioni era l’esperienza diretta individuale»41. E l’esperienza, che si tratti di affrontare la folla dell’odierna Times Square o di coordinare una battuta di caccia in gruppo nelle pianure africane del Cenozoico, fornisce informazioni in pacchetti simili a storie. Se possedessimo la fantastica vista sovrumana capace di individuare le particelle tirata in ballo nel capitolo precedente, i pacchetti di esperienza potrebbero avere altre caratteristiche: forse organizzeremmo i pensieri e i ricordi nella forma di traiettorie di particelle o funzioni d’onda quantistiche. Ma nelle normali percezioni umane i colori della tavolozza dell’esperienza sono storie, perciò la nostra mente è adattata a dipingere l’universo in storie.
Va notato, però, che una cosa è la forma e tutt’altra cosa è il contenuto. Anche se l’esperienza ha instillato in noi il fascino per la struttura delle storie, usando le narrazioni per organizzare la nostra comprensione andiamo ben al di là dei confini degli incontri umani. Un ottimo esempio è dato dai progressi scientifici. I racconti di una specie solitaria che si lancia alla conquista dei grandi misteri della realtà e torna dopo aver acquisito conoscenze sorprendenti possono benissimo essere i soggetti di drammi e poemi eroici, ma il criterio di valutazione del successo del contenuto scientifico di queste storie è agli antipodi delle misure con cui valutiamo le nostre odissee umane. La raison d’être della scienza è scostare il velo che nasconde la realtà oggettiva, perciò i resoconti scientifici devono soddisfare i criteri della logica ed essere verificati per mezzo di esperimenti replicabili. Questo è il potere della scienza, ma è anche il suo limite. Attenendosi rigorosamente a un criterio che minimizza la soggettività, la scienza stabilisce risultati che trascendono le possibilità di qualunque membro della specie. L’importantissima equazione quantistica di Schrödinger ci dice molte cose degli elettroni (e che emozione avere un’equazione che delinea l’andirivieni di queste delicate particelle in modo piú preciso rispetto a qualsiasi descrizione di qualsiasi altro evento sul pianeta!), ma non dice granché di Schrödinger né di chiunque altro. È un prezzo che la scienza è orgogliosa di pagare per una cronaca quantistica che potrebbe dimostrarsi importante molto al di là del nostro angolino di realtà, forse esercitando una grande influenza in tutto lo spazio e in tutti i tempi.
Le storie che narriamo dell’andirivieni di personaggi, reali o immaginari, riguardano altre cose: illuminano la ricchezza della nostra esistenza ineluttabilmente circoscritta e completamente soggettiva. Il racconto mozzafiato di Ambrose Bierce, incentrato su un breve momento durante un’esecuzione militare sul ponte sull’Owl Creek, distilla ciò che Ernest Becker ha descritto come «il lancinante anelito interiore alla vita»42. Attraverso le storie, siamo testimoni di una versione amplificata di quell’anelito. E quando immaginiamo l’esausto ma esultante Peyton Farquhar che si slancia per abbracciare la moglie e il cappio interrompe di colpo, per lui e per noi, la sua fuga immaginaria, il nostro senso di che cosa significa essere umani si ramifica. Attraverso il linguaggio, la storia demolisce i limiti che altrimenti sarebbero imposti dalle nostre esperienze ristrette. Mentre le parole scelte in modo magistrale dirigono la nostra immaginazione, acquisiamo un senso piú profondo della nostra comune umanità e una comprensione piú ricca di sfumature di come sopravvivere come specie sociale.
Che tratti di fatti o di fantasie, di un piano simbolico o letterale, l’impulso a narrare storie è un universale umano. Comprendiamo il mondo attraverso i sensi e nel perseguire la coerenza e immaginare le possibilità cerchiamo pattern, inventiamo pattern e immaginiamo pattern. Con le storie esprimiamo ciò che troviamo. È un processo continuo che è fondamentale per il modo in cui organizziamo la nostra vita e diamo un senso all’esistenza. Le storie di personaggi, reali e immaginari, che reagiscono a situazioni familiari e straordinarie, offrono un universo virtuale di impegno umano che pervade le nostre risposte e affina le nostre azioni. In un lontano futuro, se finalmente accoglieremo visitatori di un mondo lontano, le nostre narrazioni scientifiche conterranno verità che probabilmente avranno scoperto anche loro e quindi avranno poco da offrire. A spiegare chi siamo saranno le nostre narrazioni umane, come la storia di Picard e i Tamariani.
5. Racconti mitici.
Nella comunità degli scienziati, i risultati della ricerca acquistano credito spiegando dati sconcertanti, offrendo soluzioni a spinosi problemi teorici o permettendoci di compiere imprese in precedenza fuori dalla nostra portata. La vasta maggioranza degli sviluppi scientifici resta di competenza degli esperti, ma alcuni riescono a mostrarsi superiori agli altri e ad avere un ampio impatto sulla cultura. Per lo piú, si tratta di sviluppi che riguardano temi di grande interesse che trascendono i dettagli scientifici specifici. Come ha avuto origine l’universo? Qual è la natura del tempo? Lo spazio è ciò che sembra? Se assimilerete le risposte piú raffinate della scienza a questi grandi interrogativi, quasi certamente il vostro punto di vista sulla realtà si modificherà. Sapere che il nostro è un piccolo pianeta in orbita intorno a una stella media formatasi in seguito a uno stupefacente rigonfiamento dello spazio primordiale permea i miei pensieri riguardo al nostro posto nel grande schema delle cose. Il fatto strabiliante che il tempo scorre a velocità diverse per me e per chiunque altro non si muova esattamente insieme a me è qualcosa su cui rifletto di continuo. Che la nostra realtà apparentemente tridimensionale sia forse una fettina sottile di un’estensione spaziale molto piú vasta è una possibilità emozionante che mi diletto a immaginare.
Nel corso dei millenni, anche le culture hanno prodotto storie particolari che si sono mostrate superiori alle altre e sono riuscite ad avere una grande influenza sulla visione della realtà della propria comunità. Sono i miti di una cultura – storie tenute in considerazione tanto da acquisire un senso di sacralità. Definire i miti è notoriamente difficile, ma noi li interpreteremo come storie che fanno appello ad agenti sovrannaturali per esplorare temi di grande interesse per una cultura: la sua origine, i suoi rituali praticati da lungo tempo, i suoi modi particolari di imporre un ordine al mondo. Grazie alla loro longevità, al grande fascino che esercitano e al ventaglio di spiegazioni fondamentali che offrono, i miti diventano la base dell’eredità comune, un corpus di tragedie e trionfi, di cronache e fantasie, di avventure e riflessioni che definisce un popolo e modella una società.
Vi è una lunga tradizione di studiosi che hanno sviluppato modi intelligenti di leggere e interpretare il mito. All’inizio del Novecento, l’antropologo Sir James Frazer avanzò la proposta che i miti emergono dai tentativi di spiegare i fenomeni altrimenti sconcertanti della vita e della natura incontrati dai nostri fratelli nell’antichità. Lo psicanalista Carl Jung era convinto che per mezzo di archetipi – pattern universali che supponeva presenti nella mente inconscia – i miti esprimessero qualità comuni delle esperienze umane. A metà del secolo, il saggista e storico delle religioni Joseph Campbell argomentò l’esistenza di un «monomito», uno schema generale dei racconti mitologici in base al quale un personaggio riluttante riceve un invito ad agire, intraprende un’avventura piena di pericoli e riti di passaggio che sono sfide mortali e alla fine torna a casa – un eroe che nasce a nuova vita il cui viaggio dà un robusto scossone al nostro senso della realtà43. Piú di recente, il filologo Michael Witzel ha ipotizzato che uno schema universale emerga nel modo piú chiaro non a livello di singoli miti, ma solo quando consideriamo i miti collettivi di intere tradizioni – una trama concatenata che si estende, a suo giudizio, dall’inizio del mondo fino alla sua scomparsa definitiva. Sulla base di dati della linguistica, della genetica delle popolazioni e dell’archeologia, Witzel sostiene che le qualità comuni a queste narrazioni si possono ricondurre a una forma precedente di mitologia che ebbe origine in Africa, forse ben 100 000 anni fa44.
Queste proposte, e altre troppo numerose per essere citate, provocano controversie e critiche veementi. Ciascuna ha fautori e detrattori e conosce alti e bassi. Secondo alcuni studiosi, anche se l’attrattiva di un’unica spiegazione complessiva del mito è forte – ci aiuterebbe a individuare le qualità dominanti che hanno modellato il nostro retaggio – la complessità della vita umana cosí come si sviluppa attraverso una storia incerta e poco illuminata potrebbe non prestarsi a un’unica spiegazione. Per i nostri scopi qui, la portata esplicativa può essere piú limitata. Karen Armstrong, autrice di saggi di religione comparata, con una sintesi quanto mai essenziale ha osservato che i miti sono «quasi sempre radicati nell’esperienza della morte e nella paura dell’estinzione»45; anche essendo un po’ piú prudenti e riducendo il «quasi sempre» a «spesso» o a «in molti casi», abbiamo comunque un faro che ci aiuta a procedere.
Consideriamo qualche esempio. Quando Gilgameš sente parlare di un uomo a cui pareva che gli dèi avessero concesso l’immortalità, non si ferma davanti a nulla – viaggia attraverso terre selvagge, affronta uomini-scorpioni, attraversa le Acque della morte – pur di apprendere il segreto per sfuggire alla fine altrimenti inevitabile. La morte è un elemento fondamentale del racconto indú della dea Kalí, la cui perfezione fa talmente infuriare gli altri dèi che le staccano la testa con un fulmine46; la morte è al centro del mito della creazione dei Kono della Guinea, in cui Sa, la dea della morte, crede che sua figlia sia stata rapita dal dio Alatangana e per vendetta decreta la mortalità di tutto il genere umano; è un tema importante nella storia polinesiana di Ma-ui, che attraversa le feroci fauci di una dea maligna addormentata, la Grande Hina della notte, deciso ad assicurarsi l’immortalità strappandole il cuore – ma Hina si sveglia e con i suoi denti affilati come lame lo fa a pezzi47. Se aprite a caso la vostra antologia preferita di miti di tutto il mondo, non dovrete sfogliare molte pagine prima di incontrare la morte. Questi racconti di personaggi che lottano per la vita e portano la morte nel mondo si ripetono nelle molte storie che narrano l’annientamento del mondo intero. Come osserva Witzel, questa distruzione «si può realizzare nella forma di una conflagrazione mondiale definitiva – il Götterdämmerung o Ragnarǫk nell’Edda, il bagno di metallo fuso nel mito zoroastriano, la danza distruttiva e il fuoco di Shiva in India, il fuoco nel mito dei Munda, il fuoco e l’acqua nei miti dei Maya e di altri popoli mesoamericani e la distruzione finale della Terra da parte di Atum in Egitto»48. Se non vi basta, sappiate che esistono molte storie che narrano distruzioni diverse, in cui abbondano il ghiaccio, gli inverni senza fine e le inondazioni, queste ultime diffuse in tutto il mondo.
Come mai è cosí? Perché tanti pericoli? Perché tanta morte e distruzione? La narrazione richiede la presenza di conflitti e guai; a meno di non voler sconvolgere le norme narrative, senza questi elementi faremmo fatica a trovare una storia da raccontare. Quando tutto ciò si mescola alle enormi preoccupazioni alla base del mito (origine dei luoghi o dei popoli e motivazioni dei modi di essere), i dilemmi insiti nelle storie sono portati all’estremo. Con il linguaggio e la narrazione di storie, abbiamo acquisito la capacità di vivere al di là del momento presente. Siamo capaci di attraversare il passato e il futuro con facilità. Siamo in grado di pianificare e progettare, di coordinare e comunicare, di prevedere e di fare preparativi. L’utilità di queste capacità è manifesta, ma con una tale agilità mentale viviamo anche con il ricordo di chi un tempo era vivo e non lo è piú. Deduciamo il pattern, lo schema mai infranto, per cui ogni vita ha termine. Riconosciamo che la vita e la morte sono strette in un abbraccio inestricabile. Sono qualità duali dell’esistenza. Riflettere sulle origini vuol dire stimolare domande sulle conclusioni. Riflettere su come vivere la vita vuol dire riflettere sull’assenza della vita. L’inevitabilità della morte è una constatazione sempre presente in noi qui e ora e tanto piú lo era, possiamo immaginare, in epoche in cui la fine poteva arrivare in modi ancor piú imprevedibili.
Ma perché queste antiche storie sono popolate da giganti maniaci, serpenti che sputano fuoco, uomini con la testa di toro e simili? Perché racconti fantastici terrificanti anziché un realismo terrificante? Perché Poltergeist e L’esorcista anziché Salvate il soldato Ryan e Le iene? L’antropologo cognitivista Pascal Boyer, basandosi su lavori precedenti dello scienziato cognitivista Dan Sperber49, ha suggerito una risposta. Per poter catturare la nostra attenzione in misura tale da farcelo ricordare e trasmettere ad altri, un concetto deve essere abbastanza nuovo da sorprenderci, ma non tanto bizzarro da sembrarci immediatamente ridicolo. Boyer sostiene che un’idea risulta efficace dal punto di vista cognitivo quando è «minimamente controintuitiva» – il che significa che viola uno o forse due delle nostre aspettative piú radicate50. Persone invisibili? Sí, a patto che l’invisibilità sia l’unica caratteristica controintuitiva. Un fiume che risolve problemi di calcolo infinitesimale cantando la risposta sull’aria della sigla di M*A*S*H? È una sciocchezza, perciò quasi tutti la scartano e la dimenticano rapidamente. In linea con i temi grandiosi dei racconti mitici, i protagonisti che incontriamo sono invenzioni grandiose ma minimamente controintuitive dell’immaginazione umana. Non stupisce che questi protagonisti abbiano forme fisiche, processi mentali e anche profili di personalità che sono a dir poco familiari, anche se i loro poteri superano le aspettative basate su tutto ciò che abbiamo mai incontrato.
Il linguaggio è un altro cilindro del motore creativo del mito. Una volta acquisita la capacità di descrivere la struttura delle cose ordinarie – tempeste furiose, alberi in fiamme, serpenti striscianti e cosí via –, il linguaggio fornisce un Mr. Potato narrativo bell’e pronto, permettendoci di mescolare e combinare liberamente gli elementi. Da rocce gigantesche e persone parlanti basta uno scambio per passare al medley linguistico piú affascinante di rocce parlanti e persone gigantesche. Il linguaggio scatena la capacità cognitiva di immaginare combinazioni di ogni genere mai provate prima che ci guidano verso la novità51. Le menti che acquisirono questo potere erano menti in grado di considerare vecchi problemi in modi nuovi. Erano menti capaci di innovare. Menti che, nel corso del tempo, avrebbero controllato e rimodellato il mondo.
Ad avviare il vortice creativo è anche la nostra teoria della mente – la nostra innata tendenza ad attribuire una mente a tutto ciò che dia minimamente segno di avere la facoltà di agire. Come abbiamo visto in precedenza nel caso della coscienza, quando incontriamo un’altra persona, anche a distanza e senza interazioni dirette, le attribuiamo una mente piú o meno come la nostra. Dal punto di vista evolutivo, è un bene. Le altre menti possono generare comportamenti che è senz’altro meglio prevedere. La stessa considerazione vale per gli animali e quindi anche a loro attribuiamo istintivamente intenzioni e desideri. A volte, però, come hanno sottolineato lo psicologo Justin Barrett e l’antropologo Stewart Guthrie, esageriamo52. Dal punto di vista evolutivo, anche questo può essere un bene. Scambiare un cespuglio distante illuminato dalla luna per un leone sdraiato non è grave. Pensare che il rumore appena sentito fosse un ramo agitato dal vento quando invece è un leopardo che si avvicina è fatale. Quando attribuiamo la facoltà di agire in mezzo alla natura, è meglio sbagliare per eccesso che per difetto (fino a un certo punto, naturalmente), una lezione che è stata presa a cuore dalle molecole di DNA vincenti e dai vettori delle narrazioni in cui risiedono.
Decenni fa, durante una delle mie rarissime escursioni in tenda dell’epoca, mi sfidarono a passare un breve periodo da solo nei boschi. Munito di un telone impermeabile, un sacco a pelo, tre fiammiferi, un piccolo recipiente di metallo, una penna e una rivista, mi ritrovai profondamente solo come non ero mai stato. Sotto tutti gli aspetti pratici o psichici, non ero preparato. Riuscii a creare una bassa tettoia di fortuna infilzando il telone su alcuni rami scelti accortamente, ma dopo il primo tentativo fallito di accendere un fuoco avevo già consumato tutti i fiammiferi. Quando il sole iniziò a tramontare, e il terrore ad aumentare, srotolai il sacco a pelo e mi ci infilai in tutta fretta, restando a fissare il telone sospeso appena sopra di me. Ero quasi nel panico. Per le mie orecchie abituate alla città e la mia fervida immaginazione, ogni colpo di vento e ogni scricchiolio erano un orso o un puma. Non mi illudevo di essere un eroe, ma in ogni interminabile secondo mi sembrava di sfidare la morte in un rito di passaggio. Tirai fuori la penna e mi misi a graffiare il telone, disegnando due occhi circolari, un naso bitorzoluto e una bocca curva, con gli angoli leggermente all’insú; una penna sulla tela cerata non è l’ideale, ma i tratti blu e i solchi servirono allo scopo. Continuavo a essere solo, ma la sensazione di solitudine era meno completa. Se ogni rumore della foresta era associato a una mente, allora era cosí anche per la mia incisione. Sarei stato un naufrago solo per tre giorni, ma avevo creato il mio Wilson.
L’evoluzione ha instillato in noi la tendenza a rappresentarci l’ambiente circostante pieno zeppo di esseri che pensano e percepiscono, a volte prevedendo che offrano aiuto e consigli, ma piú spesso immaginandoli tramare e pianificare, opporsi e fare il doppio gioco, attaccare e vendicarsi. Esagerare nell’attribuire una mente alle cause dei movimenti e dei suoni del mondo può salvarci la vita. Avere la flessibilità cognitiva per mescolare elementi della realtà creando invenzioni fantastiche può promuovere l’innovazione. Attribuire a protagonisti per il resto ordinari sorprendenti qualità sovrannaturali cattura l’attenzione e facilita la trasmissione culturale. Combinati, questi elementi chiariscono quali tipi di storie incantarono l’immaginazione dei nostri antenati e fornirono una guida narrativa per orientarsi nel mondo antico.
Nel corso del tempo, i racconti mitici piú duraturi diedero origine a una delle forze piú trasformative del mondo: la religione.
Capitolo settimo
Cervelli e fede
Dall’immaginazione al sacro
Immaginate che quando finalmente entreremo in contatto con extraterrestri intelligenti anch’essi racconteranno una storia piena di tentativi di trovare significato. Le forme di vita in grado di costruire telescopi, fabbricare veicoli spaziali, cercare contatti con altri mondi e ascoltarne le chiacchiere sono forme di vita capaci di introspezione. Con lo sviluppo dell’intelligenza, lo stesso impulso a esplorare e a capire si manifesta come stimolo a infondere significato nell’esperienza. Continuando a domandarsi come e a rispondere, si arriva ben presto a domandarsi perché. Qui sulla Terra, la sopravvivenza obbligò i nostri primi fratelli ad acquisire tecniche. Dovettero imparare a lavorare la pietra, il bronzo e il ferro. Dovettero arrivare a padroneggiare le tecniche della caccia, della raccolta e della coltivazione. Mentre si impegnavano a soddisfare le necessità essenziali per la sopravvivenza, però, i nostri antenati lottavano con gli stessi interrogativi che ci poniamo noi – sull’origine, sul significato e sullo scopo. Sopravvivere stimola la ricerca del motivo per cui la sopravvivenza è importante. I tecnici diventano inevitabilmente filosofi. O scienziati. O teologi. O scrittori. O compositori. O musicisti. O artisti. O poeti. O devoti di migliaia di varianti e combinazioni di sistemi di pensiero e di espressione creativa che promettono di aiutarci a capire i problemi che ci tormentano dopo che abbiamo riempito lo stomaco.
Come chiariscono le nostre storie e i nostri miti duraturi, le domande piú persistenti sono quelle esistenziali. Come è iniziato il mondo? Come finirà? Come possiamo non esistere piú da un momento all’altro? Dove andiamo? Quali altri mondi potrebbero esistere là fuori?
1. Immaginare altri mondi.
Circa 100 000 anni fa, nella regione della Galilea meridionale che oggi fa parte di Israele, un essere umano di quattro o cinque anni, forse giocando tranquillamente, forse facendo una birichinata, subí un trauma cranico. Il suo sesso è ignoto, ma immaginiamo che fosse una bambina. Anche la causa della lesione è sconosciuta. Inciampò su un ripido pendio roccioso, cadde da un albero, ricevette una punizione eccessiva? Ciò che sappiamo è che l’impatto provocò una profonda lesione della parte anteriore destra del cranio, causando un danno cerebrale, con cui la bambina convisse fino all’età di dodici o tredici anni, quando morí. Questi fatti sono stati desunti da reperti ossei trovati a Qafzeh, uno dei piú antichi siti di sepoltura, i cui scavi iniziarono negli anni Trenta. Nel sito sono stati trovati i resti di altre ventisei persone, ma la sepoltura della ragazzina è particolare: sul torace erano stati posati due palchi di cervo, con un’estremità sui palmi delle mani, una disposizione che secondo i ricercatori dimostra una sepoltura cerimoniale. Le corna potevano essere un ornamento aggiunto senza particolari intenzioni? È possibile. Tuttavia è facile aderire al giudizio dell’équipe di ricerca e immaginare che Qafzeh 11 (il nome che indica la bambina) sia stata sepolta con un rituale messo in atto 100 000 anni fa da nostri antenati che riflettevano sulla morte, cercando di capirne il significato e, forse, considerando che cosa potesse venire dopo la morte1.
Benché le conclusioni su eventi cosí distanti nel tempo siano senza dubbio incerte, gli scavi che hanno portato alla luce sepolture di altre epoche rendono ancora piú plausibile questa interpretazione. Nel 1955, nel villaggio di Dobrogo, a circa 200 chilometri a nord-est di Mosca, Aleksandr Nacharov si accorse che alla terra di colore marrone giallastro che aveva smosso con l’escavatore erano mescolate delle ossa. Erano le prime che sarebbero state dissotterrate nei decenni successivi a Sungir, uno dei piú famosi siti di sepoltura del Paleolitico. Una tomba è particolarmente sorprendente: un bambino e una bambina, di circa dieci e dodici anni al momento della morte, furono seppelliti con le teste vicine in quella che sembra l’unione eterna di due giovani menti. I resti dei due bambini, sotterrati piú di 30 000 anni fa, sono adornati da uno dei piú elaborati corredi funerari mai scoperti. Copricapi fatti di denti di volpe artica decorati, bracciali di avorio, piú di una dozzina di lance d’avorio, dischi d’avorio forati e – cosa che fa sorridere i fan di Liberace – piú di diecimila perline d’avorio scolpite, che probabilmente erano cucite negli abiti dei bambini. I ricercatori hanno stimato che al ritmo folle di cento ore alla settimana un artigiano avrebbe impiegato piú di un anno a fabbricare questi ornamenti2. Un tale investimento fornisce come minimo una forte indicazione del fatto che le sepolture rituali facevano parte di una strategia per trascendere il carattere definitivo della morte. Il corpo poteva cessare di esistere, ma qualche qualità vitale, che poteva essere potenziata, mitigata, onorata o gratificata da accessori elaborati, avrebbe invece continuato a esistere.
Nell’Ottocento, l’antropologo Edward Burnett Tylor sostenne che i sogni esercitavano un’influenza persuasiva che guidava i primi esseri umani verso quella conclusione3. Possiamo ben immaginare che avventure oniriche, curiose o bizzarre, potessero suggerire in modo persistente l’esistenza di un mondo al di là di ciò che è accessibile allo sguardo. Che si provi conforto o terrore, quando ci si sveglia dopo essere stati visitati in sogno da un amico o un parente defunto, si resta con la sensazione che sia ancora vivo. Non come un tempo. Non qui, chiaramente. Ma in qualche modo impalpabile, lo si sente vicino. I resoconti scritti, anche se risalenti a molto tempo dopo, confermano l’ipotesi mediante una gran quantità di sogni che davano accesso a realtà invisibili. Gli antichi Sumeri ed Egizi interpretavano i sogni come direttive delle divinità; nel Vecchio e nel Nuovo Testamento spesso il volere divino viene rivelato nei sogni. Nell’era moderna, gli studi di società isolate di cacciatori come gli aborigeni australiani rivelano il ruolo essenziale del «tempo del sogno», un regno eterno da cui ha origine tutta la vita e a cui tutta la vita tornerà. Anche gli stati di trance simili al sogno sono comuni a un certo numero di tradizioni in cui si praticano rituali guidati da musica percussiva e danze sfrenate, che possono continuare per ore e indurre rêverie ipnotiche che nelle descrizioni dei partecipanti trasportano su piani di realtà diversi4.
Non dovevano mancare episodi che suggerivano una realtà al di là del visibile nemmeno durante il giorno: forze potenti in azione in terra e in cielo, eventi capricciosi della vita quotidiana, frequenti pericoli gravi e potenzialmente mortali. Il successo evolutivo in un contesto sociale predispose il cervello umano ad attribuire esperienze comuni alle azioni delle altre persone. Quando cadeva un fulmine, arrivava un’inondazione o tremava la terra, tutti continuavano a figurarsi che ne fosse responsabile un essere pensante. Possiamo immaginare che di fronte a tutto ciò i nostri antenati riconoscessero implicitamente i limiti della loro influenza in un mondo incerto e che in risposta concepissero personaggi di un regno invisibile che esercitavano proprio quei poteri di cui personalmente erano privi.
Che ne fossero consapevoli o no, era una risposta straordinariamente intelligente. Ci permise di inserire eventi altrimenti casuali in storie coerenti. Di immaginare regni invisibili popolati da personaggi familiari e inventati. Di dare un nome e un volto a questi personaggi, reali e fantastici, che tengono d’occhio ciò che facciamo ed esercitano il controllo finale sul nostro destino. Di riformulare la morte come un portale attraversato da Qafzeh 11 e dai suoi ventisei compagni di grotta, e da generazioni di antenati, in viaggio verso questi mondi invisibili ma superiori. Di continuare a raccontare le loro storie, e con queste narrazioni evocare le personalità, le manie, i rancori, le invidie e ogni genere di comportamento umano esistenti in mondi vicini per spiegare gli accadimenti altrimenti inesplicati nel nostro.
I nostri antichi tentativi artistici forniscono altri indizi di un interesse per l’ultraterreno. Su pareti rocciose di tutto il mondo gli esploratori hanno trovato decine di migliaia di immagini dipinte, alcune risalenti a piú di 40 000 anni fa. Raffigurano una raccolta di animali, dal leone al rinoceronte a ibridi creativi come donne cervo e uomini uccello. La forma umana assume un ruolo secondario, spesso tratteggiata in modo rudimentale se non addirittura assente. Numerosi sono gli insiemi di impronte di mani umane, sovrapposizioni caotiche di contorni stampinati di cui possiamo solo ipotizzare il significato – il tentativo di raggiungere un altro regno, il desiderio di acquisire la durata apparentemente infinita della roccia, la creazione di una decorazione esuberante, la volontà di lasciare antiche versioni di «Kilroy è stato qui»? Le intenzioni non lasciano traccia e quindi non conosciamo la risposta. Cercandola, riconosciamo nello stregone danzante e nel bisonte morente i primi prodotti di una forza creativa che sembra la nostra. Guardando appena al di sotto della superficie della roccia, riusciamo a intravvedere il nostro stesso sguardo.
È un’esperienza emozionante e al tempo stesso una trappola. Il fascino di incontrare i nostri antenati culturalmente affini può indurci ad attribuire un significato eccessivo alle loro opere creative. Forse le pitture rupestri non erano altro che scarabocchi insensati di antiche menti coscienti. Oppure, secondo una descrizione piú nobile, forse l’arte rupestre dimostra un’antica spinta estetica, ciò che alcuni hanno definito come «l’arte per l’arte»5. Dedurre l’ispirazione di chi visse centinaia di secoli fa è rischioso, perciò è saggio non spingersi troppo oltre. Quando però consideriamo l’ardua prova richiesta per raggiungere alcuni di questi siti – l’archeologo David Lewis-Williams racconta che gli esploratori di oggi, presumibilmente come gli artisti di allora, «si rannicchiano e strisciano sottoterra lungo uno stretto passaggio completamente buio per piú di un chilometro, scivolano su banchi di limo e guadano laghi scuri e fiumi nascosti»6 –, la spiegazione dell’arte per l’arte sembra meno plausibile. È probabile che anche i piú bohémien tra i nostri antichi fratelli avrebbero scelto modi piú facili per soddisfare un impulso puramente artistico.
Forse, allora, i nostri antenati con inclinazioni artistiche praticavano cerimonie magiche per garantire il successo della caccia, un’ipotesi promossa all’inizio del Novecento dall’archeologo Salomon Reinach7. Che sarà mai un po’ di esplorazione sotterranea e di pittura se può assicurare una cena deliziosa e necessaria8? Oppure, come suggerito da Lewis-Williams, sulla base di idee precedenti discusse dallo storico delle religioni Mircea Eliade, forse l’arte rupestre deriva dai viaggi sciamanici. Con la crescita del pubblico delle narrazioni mitiche, gli sciamani – capi spirituali che divennero importanti convincendo gli altri, e forse anche sé stessi, di essere capaci di viaggiare nei regni invisibili di realtà vicine – iniziarono a essere gli intermediari fra questo mondo e l’altro. A ispirare le pitture paleolitiche potrebbero quindi essere state le visioni simili a trance di sciamani che interagivano con personaggi mitologici o canalizzavano animali immaginari.
Somiglianze sorprendenti fra composizioni separate da continenti e millenni sembrano accennare a un’unica spiegazione generale per l’arte rupestre. Anche nell’ipotesi che questa sia una visione troppo ambiziosa, comunque, di una caratteristica l’archeologo Benjamin Smith è pienamente convinto: «Le grotte erano ben lontane dall’essere solo “tele”. Erano luoghi in cui si conducevano rituali, in cui le persone comunicavano con gli spiriti e gli antenati che dimoravano in un altro regno, erano luoghi carichi di significato e di risonanza»9. Secondo Smith e molti ricercatori di idee affini, i nostri antenati erano fermamente convinti di poter influenzare le forze spirituali per mezzo dell’arte e dei rituali. Nonostante questa fiduciosa convinzione, se torniamo indietro a 25 000, a 50 000, o forse addirittura a 100 000 anni fa, i dettagli sono confusi, perciò è improbabile che sapremo mai con certezza che cosa motivò i nostri antichi fratelli. Ciò malgrado, possiamo mettere a fuoco un’immagine coerente seppur provvisoria. Vediamo i nostri antenati partecipare a sepolture cerimoniali, intesi come commiati ritualizzati a defunti in viaggio verso altri mondi, creare opere d’arte che rappresentano realtà al di là dell’esperienza, narrare racconti mitici evocanti spiriti potenti, l’immortalità e la vita nell’aldilà – in breve, iniziano a unirsi gli elementi di ciò che generazioni successive definiranno religione e non dobbiamo fare grandi sforzi per vedere intessuto nell’intreccio il riconoscimento della transitorietà della vita.
2. Radici evolutive della religione.
Possiamo trasformare la nascente religiosità antica in una spiegazione della grande adozione della pratica religiosa in tutto il mondo? Fautori della scienza cognitiva della religione come Pascal Boyer sostengono di sí. Anche tutto l’ampio spettro del coinvolgimento religioso, suggerisce Boyer, ha una base evolutiva che si può applicare in modo uniforme:
La spiegazione delle credenze e dei comportamenti religiosi è da ricercarsi nelle modalità di funzionamento della mente di ogni essere umano. Con ciò intendo davvero ogni mente umana, non solo la mente delle persone religiose […] poiché ciò che conta qui sono le proprietà della mente che si trovano in ciascun membro della nostra specie dotato di un cervello normale10.
La tesi di Boyer è che alcune caratteristiche intrinseche del cervello, plasmate nel corso degli eoni dall’incessante battaglia per la supremazia evolutiva, ci predispongono alla convinzione religiosa. Non che esistano geni del divino o dendriti religiosi. Boyer si basa su un’interpretazione del cervello sviluppata negli ultimi decenni da scienziati cognitivi e psicologi evoluzionisti che perfeziona la nota metafora della mente come computer. Anziché a un computer general-purpose in attesa dei programmi che acquisisce con l’esperienza, il cervello è paragonato a un computer special-purpose che esegue programmi progettati dalla selezione naturale per rafforzare le prospettive di sopravvivenza e di riproduzione dei nostri antenati11. Questi programmi sono la base di quelli che Boyer chiama «sistemi inferenziali», processi neurali dedicati capaci di rispondere ai tipi di sfide – scagliare lance, corteggiare possibili partner, stabilire alleanze – che avrebbero determinato quali geni sarebbero riusciti a passare alla generazione successiva e quali no. La tesi centrale di Boyer è che questi sistemi inferenziali sono facilmente cooptati dalle qualità intrinseche della religione.
Abbiamo già incontrato uno di questi sistemi inferenziali: la nostra teoria della mente, che ci fa attribuire la stessa facoltà di agire che ciascuno di noi prova personalmente a entità che incontriamo nel mondo esterno. La tendenza adattivamente vantaggiosa a eccedere nell’attribuzione di questa facoltà chiarisce perché immaginiamo tanto facilmente che ciò che ci circonda – sottoterra o nel cielo – sia popolato da menti attente. Fra gli altri sistemi inferenziali si può citare la nostra comprensione intuitiva della psicologia e della fisica: senza avere una formazione specifica, abbiamo tutti una comprensione di base delle capacità della mente e del corpo. Se a questi sistemi inferenziali uniamo la nostra attrazione per i concetti minimamente controintuitivi (come ricorderete, sono concetti che violano un piccolo numero delle nostre aspettative intuitive), il motivo per cui ci attacchiamo a idee di spiriti e divinità (agenti dotati di una mente simile alla nostra però diversi da noi in quanto a natura corporea e poteri, psicologici e fisici) non risulta affatto misterioso. I cervelli normali hanno anche sistemi inferenziali che, per esempio, tengono traccia delle relazioni, garantendo che la persona riceva un trattamento equo. Se faccio qualcosa per voi, voi dovrete fare qualcosa per me e io, siatene certi, tengo conto di tutto. Questa varietà reciproca di altruismo potrebbe essere l’origine della natura transazionale della relazione che i seguaci hanno solitamente con gli esseri sovrannaturali che popolano le tradizioni religiose: io sacrificherò, pregherò, farò del bene, ma tu nella battaglia di domani sarai dalla mia parte. L’altra faccia della medaglia è che, quando accade qualcosa di brutto, siamo sempre pronti a ritenere che sia stato causato dal mancato soddisfacimento, individuale o collettivo, delle aspettative divine.
In E l’uomo creò gli dei, Boyer sviluppa appieno queste idee; altri ricercatori hanno elaborato variazioni di temi simili12. La mia descrizione sommaria, però, è sufficiente per capire l’essenza dell’approccio: l’evoluzione del cervello è stata plasmata dalla battaglia per la sopravvivenza e il cervello che ne è emerso vittorioso ha qualità che gli fanno accogliere la religione a braccia aperte. È un esempio di ciò che nel capitolo precedente ho chiamato pacchetto evolutivo. Di per sé, una predilezione per il credo religioso può non avere un valore adattivo, ma si accompagna a un insieme di altre qualità cerebrali che sono state selezionate a causa delle loro funzioni adattive. Ciò non significa che tutti saranno religiosi, non piú di quanto la nostra attrazione per il dolce che è stata selezionata naturalmente voglia dire che tutti indulgeranno nel consumo di ciambelle glassate. Significa invece che i sistemi inferenziali del cervello sono particolarmente reattivi ai tipi di caratteristiche che si rilevano in tutte le religioni. In realtà, questa risonanza è proprio la ragione per cui queste caratteristiche si sono conservate nelle religioni di tutto il mondo. Che si tratti di fantasmi o dèi, demoni o diavoli, santi o anime, i concetti religiosi sono virtuosi direttori d’orchestra della mente umana in evoluzione. Siamo attenti nei loro confronti, agiamo tenendone conto, li divulghiamo e cosí si diffondono ampiamente13.
È cosí, allora? La sopravvivenza del piú adatto ha equipaggiato la nostra mente e in una mente simile è facile inculcare una sensibilità religiosa? Che dire del ruolo che immaginiamo abbia avuto (e che per molti continua ad avere) la religione nello spiegare ciò che è apparentemente inesplicabile, dall’origine della vita e dell’universo al significato della morte? Boyer e molti altri che propongono prospettive simili non negano il ruolo della religione nell’affrontare tali questioni, ma sostengono che queste considerazioni non bastano a spiegare perché nacque la religione e perché ha le caratteristiche che ha. Nel caso della religione, l’elefante nella stanza è la mente umana, e se non ci si concentra soprattutto sulla natura evoluta della mente si tralascia una forza dominante.
Gli argomenti sviluppati da Boyer e da altri ricercatori sono profondi e convincenti. Ciò nonostante, come è vero per tutta la teorizzazione nell’arena straordinariamente complessa del cervello, della mente e della cultura, è difficile ottenere conclusioni che convincano tutte le menti moderne, o quanto meno quelle che riflettono con attenzione sui problemi in questione. In piú, anche se la scienza cognitiva della religione riesce a rivelare che abbiamo un’intrinseca predisposizione al pensiero religioso, resta ampiamente possibile che la religione sia piú di un complemento dell’evoluzione, piú di un semplice sottoprodotto di adattamenti cognitivi precedenti. Come hanno sostenuto altri ricercatori, la religione potrebbe essere onnipresente perché ha fornito un contributo alla nostra fitness adattiva.
3. Sacrificarsi per la squadra.
Al crescere delle dimensioni dei clan, le tribú dei cacciatori-raccoglitori si trovarono ad affrontare un problema critico. Come si fa a garantire la cooperazione e la lealtà fra i membri di insiemi sempre piú grandi? Nel caso di gruppi di individui imparentati, un’idea risalente a Darwin che nei decenni successivi fu sviluppata da un certo numero di scienziati famosi, tra cui Ronald Fisher, John B. S. Haldane e William D. Hamilton, suggerisce che l’evoluzione per selezione naturale risolve il problema senza il minimo sforzo14. Sono leale nei confronti dei miei fratelli, dei miei figli e di altri parenti stretti perché abbiamo in comune una percentuale significativa dei nostri geni. Salvando mia sorella da un elefante alla carica, aumento la probabilità che segmenti genetici identici ai miei persistano e vengano trasmessi alle generazioni successive. Non che io debba esserne consapevole. E di certo durante la mia prodezza valorosa non calcolo le abbondanze relative nel pool genetico futuro. In base alla logica darwiniana classica, tuttavia, la mia inclinazione istintiva a proteggere i miei parenti, e anche a sacrificarmi per gruppi di miei parenti, sarà selezionata naturalmente, favorendo il perdurare di simili comportamenti in discendenti che condividono una percentuale significativa del mio profilo genetico. Il ragionamento è chiaro, ma solleva una questione: quando i gruppi diventano piú grandi di un insieme di parenti, esiste una carota genetica che brandisca il bastone della cooperazione?
Se esistesse un modo per farmi pensare che i membri del gruppo piú grande fanno parte della mia famiglia allargata, o almeno per farmi agire come se ciò fosse vero, il problema potrebbe essere risolto. Ma quale potrebbe essere il modo? In precedenza, abbiamo discusso di come le storie, migliorando la nostra comprensione di altre menti, potrebbero aver facilitato la vita comunitaria. Alcuni ricercatori, come il biologo evoluzionista David Sloan Wilson, sviluppando idee sostenute all’inizio del Novecento dal sociologo Émile Durkheim, estendono in grande misura questo ruolo adattivo15. Le religioni sono storie, rafforzate da dottrine, rituali, consuetudini, simboli, opere artistiche e criteri comportamentali. Conferendo un’aura di sacralità a gruppi di queste attività e generando una fedeltà emotiva fra coloro che le praticano, la religione estende il club dei parenti. La religione offre appartenenza a individui non imparentati che cosí si sentono parte di un gruppo caratterizzato da un forte legame. Anche se la nostra sovrapposizione genetica è minima, siamo predisposti a lavorare insieme e proteggerci a vicenda a causa del nostro attaccamento religioso.
Questa cooperazione è importante. Cruciale. Come abbiamo visto, gli esseri umani prevalsero in gran parte perché la nostra specie ha la capacità di mettere in comune muscoli e cervelli, di vivere e lavorare in gruppo, di spartire responsabilità e soddisfare in modo efficace i bisogni della collettività. La maggior coesione sociale tra i membri di un gruppo unito da un vincolo religioso ne avrebbe fatto una forza piú formidabile nel mondo ancestrale, assicurando, in base a questa linea di ragionamento, un ruolo adattivo all’affiliazione religiosa.
Questa prospettiva ha generato decenni di dibattiti. Alcuni ricercatori si disperano ogni volta che si tira in ballo la coesione di gruppo come spiegazione evolutiva, considerandola un trito ripiego per spiegare comportamenti ritenuti in generale prosociali il cui valore adattivo si è già dimostrato elusivo in altri casi16. Per di piú, il valore adattivo della cooperazione è esso stesso una faccenda complicata: in qualunque gruppo di individui che cooperano, i membri egoisti possono aggirare il sistema. Sfruttando compagni affabili, gli individui egoisti possono procurarsi un’indebita quantità di risorse e quindi aumentare immeritatamente la propria probabilità di sopravvivere e riprodursi. Le tendenze egoistiche passeranno ai loro discendenti, che saranno inclini a comportarsi nello stesso modo, portando con il tempo all’estinzione i compagni fiduciosi, e le loro sensibilità religiose. Alla faccia del successo adattivo della religione.
I sostenitori della base religiosa della coesione sociale riconoscono il problema, ma sottolineano che è solo una parte della storia. Nell’ambito di un gruppo isolato di membri cooperativi, gli infiltrati egoisti avranno di certo la meglio. Ma i gruppi in esame – i cacciatori-raccoglitori del Pleistocene – non erano isolati. Interagivano. Si combattevano. E in base a una certa interpretazione dei reperti archeologici, le loro battaglie erano mortali. Un insieme di individui cooperativi, interessati al benessere del gruppo, avrebbe avuto la tendenza ad avere piú successo. Per citare Darwin,
Quando due tribú di uomini primitivi della stessa regione entravano in lotta, se (a parità di circostanze) una comprendeva un gran numero di membri coraggiosi, legati da simpatia, fedeli, sempre pronti ad avvertirsi reciprocamente del pericolo e a prestarsi reciproco aiuto e difesa, avrebbe avuto piú successo e avrebbe soggiogato l’altra17.
In piú, coloro che agivano ispirati dalla devozione nei confronti di antenati defunti o divinità vigili erano piú affidabili e ferventi nella dedizione alla causa18. Per determinare quali tratti genetici sarebbero stati numerosi nel pool genetico, quindi, dobbiamo tenere conto non solo delle dinamiche intragruppo, che favoriscono gli individui egoisti, ma anche delle dinamiche intergruppo, che favoriscono gli individui collaborativi. Se si presume che per molte migliaia di generazioni il successo intergruppo abbia prevalso nei calcoli della sopravvivenza, ne segue che la fedeltà al gruppo dominò e dunque la coesione sociale della religione trionfò.
La vittoria cosí immaginata resta incerta perché dipende da quell’assunto – il predominio delle forze intragruppo su quelle intergruppo – e di certo non tutti sono convinti che fornisca un ritratto accurato della vita e della morte nel nostro passato di cacciatori-raccoglitori. La baldanza degli scettici è ulteriormente rafforzata dal fatto che una spiegazione del comportamento cooperativo può emergere da considerazioni piú concrete, ossia dalla matematica della teoria dei giochi. Tra i due estremi dei comportamenti egoistici e di quelli altruistici, esistono innumerevoli strategie che un membro di un gruppo può seguire. Forse sono incline a essere altruista, ma se mi ostacolate una volta di troppo il mio lato egoistico emergerà con gran forza. Forse quando avrò perso la fiducia in voi non vi darò una seconda possibilità – o forse, se mi renderete qualche buon servizio, vi darò modo di riguadagnarvela. E cosí via. Che cosa accade in un grande gruppo in cui gli individui seguono una gran varietà di strategie differenti? Strategie cooperative diverse sono associate a valori di sopravvivenza diversi e cosí attraverso le generazioni anch’esse saranno soggette a selezione darwiniana. Usando analisi matematiche e simulazioni al computer, i ricercatori hanno fatto competere fra loro varie strategie e hanno scoperto che una in particolare – «Farò qualcosa di buono per te a patto che in cambio tu faccia qualcosa di buono per me, ma se ti comporti in modo scorretto, ti renderò immediatamente pan per focaccia» – vince regolarmente su altre varianti, comprese quelle molto piú egoistiche. L’analisi teorica suggerisce quindi che questo genere di cooperazione condizionata favorisce la sopravvivenza19. Per i detrattori, ciò dimostra che la cooperazione può emergere in modo organico e diffondersi attraverso la selezione naturale, senza alcun bisogno che i partecipanti condividano una fede religiosa.
Dopo decenni di dispute, oggi alcuni ricercatori sostengono che finalmente le controversie sono state risolte. Poiché tuttavia giudizi simili sono stati espressi da esponenti di entrambe le parti, sulla valutazione del ruolo della religione come collante sociale che promosse la sopravvivenza nel Pleistocene continua a mancare un consenso generale. È un problema complesso. Riunendo fra altre qualità attraenti il fascino delle storie, l’inclinazione ad attribuire la facoltà di agire, la sete di spiegazioni, la sicurezza della comunità e l’attrazione cognitiva di contrastare le aspettative, la religione è uno sviluppo umano ricco e intricato la cui genesi risale a un tempo cosí remoto che i dati concreti, dalle pratiche dell’antichità ai conflitti intragruppo, sono assai scarsi. Senza dubbio, il dibattito continuerà.
Una possibilità completamente diversa è che, quando si valuta la potenziale funzione adattiva della religione, nella discussione sulla coesione di gruppo manchi una parte essenziale della storia. Vari ricercatori hanno suggerito che l’impatto adattivo è evidente nel modo piú immediato a livello dell’individuo.
4. Adattamento individuale e religione.
Nella nostra indagine sull’origine del linguaggio, una delle proposte metteva in evidenza il ruolo del pettegolezzo nel mantenere le gerarchie e favorire le alleanze. Per quanto frivolo possa essere considerato questo genere di conversazione in epoca moderna, lo psicologo Jesse Bering pone il pettegolezzo al centro del ruolo adattivo della religione nel mondo antico. Prima dell’acquisizione del linguaggio, quando un mascalzone si comportava male – sottraendo cibo o partner sessuali, restando indietro durante la caccia –, se i testimoni della trasgressione erano pochi e di basso rango sociale, il colpevole poteva farla franca. Con la diffusione del linguaggio, la situazione cambiò. Anche una sola infrazione ampiamente discussa poteva rovinare la reputazione del colpevole e ridurre drasticamente le sue opportunità riproduttive. Il suggerimento di Bering è che se un aspirante trasgressore immagina che vi sia sempre un testimone potente – che aleggia nell’aria, tra gli alberi o nel cielo –, sarà meno probabile che trasgredisca, che sia oggetto di pettegolezzi sfavorevoli e che venga emarginato dalla società. Di conseguenza, sarà piú probabile che abbia discendenti e trasmetta il suo istintivo timore di Dio. Una predisposizione alla religione protegge la sua discendenza genetica e quindi diventa autoperpetuante20.
Prove a sostegno di questa tesi sono state fornite da esperimenti condotti da Bering, in cui si illustrava un compito impegnativo a un bambino e poi lo si lasciava solo a svolgerlo. In assenza di controllo, il risultato era proprio quello atteso: molti bambini baravano. Se però venivano avvertiti della presenza nella stanza di un testimone invisibile, amichevole ma molto attento, era molto piú probabile che rispettassero le regole. Questa differenza di comportamento si presentava anche nei bambini che affermavano di non credere affatto alla presenza di un essere invisibile. Bering sostiene in modo convincente che la mente giovane offre una finestra piú diretta sulla nostra natura intrinseca rispetto alla mente adulta che è stata soggetta a una maggiore influenza culturale, e la sua conclusione è che la mente giovane è predisposta ad agire tenendo conto di una presenza invisibile che controlla costantemente il comportamento. In tempi remoti, era questo stesso priming a incoraggiare il comportamento prosociale che proteggeva la reputazione, aumentava le opportunità riproduttive e in tal modo diffondeva ulteriormente il priming stesso – cioè una predisposizione alla sensibilità religiosa.
Un ruolo adattivo diverso della religione è stato analizzato da psicologi sociali sperimentali che hanno promosso per decenni la visione di Ernest Becker, di cui abbiamo incontrato Il rifiuto della morte all’inizio del nostro viaggio nel capitolo I. Il terrore di sapere che moriremo, sostengono questi ricercatori, «rendeva i nostri antenati mucchi tremanti di protoplasma biologico destinati rapidamente all’oblio»21. Ciò che avrebbe potuto salvarli, ipotizzano, era la promessa di una vita, letterale o simbolica, dopo la morte fisica. Becker aveva argomentato in modo convincente che affrontare la consapevolezza della mortalità invocando il sovrannaturale fu una meravigliosa innovazione umana. Per mitigare l’angoscia della transitorietà è necessario un palliativo di durata illimitata e incondizionata, qualcosa che è impossibile ottenere nel mondo reale delle cose materiali.
Ovviamente, potete trovare difficile immaginare i nostri robusti antenati rannicchiati nella savana paralizzati dall’ansia, tuttavia in base ad astuti esperimenti psicosociali alcuni ricercatori hanno sostenuto che anche oggi nell’epoca moderna siamo dimostrabilmente influenzati, anche se non lo sappiamo, dalla consapevolezza della mortalità. In uno di questi esperimenti, i giudici di un tribunale dell’Arizona furono incaricati di raccomandare una multa per gli imputati accusati di un reato minore. Nelle istruzioni scritte fornite ai giudici, che comprendevano un questionario standard per la valutazione del profilo di personalità, in metà dei casi fu aggiunto un paio di domande che costringevano a riflettere sulla propria mortalità (per esempio, «Quali emozioni provate pensando alla vostra morte?»). Poiché il codice giuridico fa parte dello sforzo concertato della società di esercitare il controllo su una realtà altrimenti anarchica, offrendo un baluardo contro i pericoli in agguato appena al di là dei confini della civiltà, i ricercatori avevano previsto che i giudici a cui era stato ricordato il pericolo primario, la loro scomparsa, avrebbero applicato le disposizioni giuridiche con maggiore fermezza. La previsione si rivelò corretta. I ricercatori, però, trovarono sorprendente la differenza fra le multe raccomandate dai due gruppi di giudici: in media, l’entità delle multe inflitte dai giudici obbligati a pensare alla mortalità era nove volte quella delle multe decise dal gruppo di controllo22.
Come sottolineato dai ricercatori, se la mente giudiziaria addestrata e impregnata di equità imparziale può essere tanto influenzata portando per un breve momento alla coscienza la mortalità, dovremmo esitare prima di scartare l’idea di un’influenza simile e altrettanto nascosta in azione in ciascuno di noi. Di fatto, centinaia di studi successivi (con diversi soggetti, paesi di origine, compiti richiesti, modi di stimolare la consapevolezza della mortalità e cosí via) hanno dimostrato che queste influenze possono essere misurate e si manifestano in svariati contesti, nelle cabine elettorali e nei pregiudizi xenofobi, nelle espressioni creative e nelle affiliazioni religiose23. Becker sosteneva, e questi studi confermano, che la cultura in parte si è evoluta per mitigare gli effetti potenzialmente debilitanti che altrimenti avrebbero accompagnato la consapevolezza della mortalità. Di conseguenza, da questa prospettiva, se irridete questa possibilità è perché la cultura assolve la sua funzione.
Pascal Boyer, con il quale abbiamo iniziato la nostra discussione sulle radici evolutive della religione, nega questo ruolo alla religione, osservando che «un mondo religioso spesso è altrettanto terrificante di un mondo senza presenze sovrannaturali e molte religioni creano non tanto rassicurazione quanto una spessa cappa di tristezza»24. Ma anziché rafforzare un mucchio di ossa tintinnanti, nello spirito dei sostenitori di Becker, e lungi dal gettare ombre cupe fra i suoi devoti seguaci, come immaginato da Boyer, una sensibilità religiosa potrebbe aver offerto un beneficio piú modesto in un malato meno depresso. Forse le antiche attività religiose illuminavano la morte con una luce piú morbida e inserivano l’esperienza quotidiana in una narrazione piú duratura – una conseguenza benefica dell’esperienza religiosa che William James descrisse come dispensatrice di «un sentimento di sicurezza e di pace», instillando al contempo «un nuovo sapore che si aggiunge come un dono alla vita e assume la forma di un canto lirico o di un appello alla severità di proposito e all’eroismo»25.
Chiaramente, non si è ancora raggiunto un consenso generale sul motivo per cui la religione nacque né sul motivo per cui si è dimostrata cosí persistente – ma di certo non per mancanza di idee (fra le varie proposte, la cooptazione del cervello naturalmente selezionato, la spinta alla coesione di gruppo, la mitigazione dell’ansia esistenziale, la protezione delle reputazioni e delle opportunità riproduttive). Forse la documentazione storica è troppo lacunosa per poter mai riuscire a raccogliere prove definitive e forse la religione ha troppi ruoli diversi per poterne dare spiegazioni globali. Da parte mia, continuo ad avere un debole per il legame tra la religione e il nostro riconoscimento personale della finitezza della vita; per citare la sintesi di Stephen Jay Gould, «Un grosso cervello ci ha permesso di imparare […] l’inevitabilità della nostra personale mortalità»26 e «tutta la religione ebbe inizio con la consapevolezza della morte»27. Che poi la religione si sia diffusa perché trasformò quella consapevolezza in un vantaggio adattivo è però una questione completamente diversa.
La mirabile organizzazione del cervello gli permette di generare una grande abbondanza di azioni e pensieri, alcuni direttamente collegati alla sopravvivenza e altri no. Di fatto, è proprio questa capacità, il nostro ampio repertorio comportamentale, a fornire la base della varietà di libertà umana che è stata discussa nel capitolo V. Un punto irrefutabile è che mediante queste azioni abbiamo tenuto fermamente la religione con noi, sviluppandola nel corso dei millenni in istituzioni la cui influenza pervade il pianeta.
5. Un abbozzo di radici religiose.
Nel corso del primo millennio a.C., in India, Cina e Giudea pensatori ostinati e inventivi riesaminarono antichi miti e modi di essere, dando luogo fra altri sviluppi a quelli che il filosofo Karl Jaspers descrisse come gli inizi delle religioni mondiali, in base alle quali gli esseri umani vivono ancora oggi28. Gli studiosi dibattono il grado di parentela di questi remoti sviluppi, ma sono d’accordo sul risultato. I sistemi religiosi divennero sempre piú organizzati via via che i seguaci fissavano storie, raccoglievano intuizioni e sintetizzavano direttive che, essendo state canalizzate attraverso profeti consacrati e trasmesse oralmente da una generazione all’altra, si erano guadagnate un marchio di sacralità. Vi sono grandi variazioni nel contenuto dei testi finali, naturalmente, ma tutti hanno in comune l’interesse per le stesse domande che guidano la nostra esplorazione: da dove veniamo e dove andiamo?
Fra i piú antichi documenti scritti che sono sopravvissuti vi sono i Veda, composti in sanscrito nel subcontinente indiano, con parti che risalgono addirittura al 1500 a.C. Insieme alle Upàniṣad, un ricco insieme di commenti scritti probabilmente dopo il secolo VIII a.C., i Veda sono una voluminosa raccolta, in parte in versi (mantra) e in parte in prosa, che costituisce il testo sacro di quella che sarebbe diventata la religione induista – oggi praticata da un abitante della Terra su sette, circa 1,1 miliardi di persone. Quando non avevo ancora dieci anni, entrai in contatto con queste opere.
Era la fine degli anni Sessanta – nell’aria, pace, amore e il Vietnam. Passeggiavo nel Central Park insieme a mio padre e mia sorella. Ci fermammo al Naumburg Bandshell appena fuori dal Poet’s Walk, dove un folto gruppo di devoti di Hare Krishna stava suonando tamburi, cantando e ballando. Uno di loro, con gli occhi sporgenti e pieni di lacrime, stava esprimendo un’appassionata comunione astrale muovendosi al ritmo dei tamburi mentre fissava intensamente il sole. D’un tratto rimasi scioccato rendendomi conto che uno dei percussionisti, che sfoggiava lunghe vesti fluenti e una testa tutta rasata a parte un ciuffo sulla sommità, era mio fratello. Pensavo che fosse da tutt’altra parte, al college. La gita, a quanto pare, era il modo in cui mio padre aveva deciso di metterci al corrente della nuova direzione che aveva preso la vita di mio fratello.
Nei decenni che seguirono, la comunicazione con mio fratello fu occasionale, ma in ogni incontro i Veda erano un tema fondamentale oppure aleggiavano nell’aria. Mi è difficile dire se i miei interessi sono stati suscitati da quegli incontri, o se le conversazioni emersero naturalmente da due fratelli che affrontavano problemi simili da prospettive molto diverse. Di certo, fu arricchente venire a conoscenza di quelle antiche riflessioni a me sconosciute sulle origini dell’universo:
In principio non vi era Essere né Non-essere. Non vi era regno dell’aria né cielo al di là. Che cosa lo avvolgeva? Dove? Chi lo proteggeva? C’era l’Acqua, insondabile e profonda? Non vi era morte, allora, non ancora immortalità; non vi era alcun segno, né giorno e notte. L’Uno respirava senza respiro, per impulso proprio. Oltre a quello non vi era assolutamente null’altro29.
Ero commosso dall’universalità del bisogno umano di percepire i ritmi della realtà. Per mio fratello, però, i Veda erano molto piú di questo. Offrivano una visione piú grandiosa della cosmologia che io studiavo dal punto di vista matematico. Come poesia, le parole colgono abilmente l’enigma di un inizio dell’inizio. Come metafora, indicano la natura sconcertante di un tempo prima del tempo. Come meditazione, forse in un’immersione collettiva attorno a un fuoco scoppiettante sotto una volta imponente ma del tutto misteriosa, nera come l’inchiostro e piena di stelle, i versi trasmettono l’apparente paradosso dell’esistenza stessa dell’universo. Tuttavia gli antichi inni e versi, le storie fantasiose di Puruṣa dalle mille teste, l’uomo primordiale dal cui smembramento nacquero il Sole, la Terra e la Luna, come le molte altre proposte sublimi ed evocative, non spiegano l’origine dell’universo. Le parole rispecchiano la creazione, da parte delle nostre menti alla ricerca di pattern, bramose di spiegazioni e in armonia con la sopravvivenza, di una storia vivace che offra un quadro simbolico in cui inserire la vita – come siamo venuti al mondo, come dovremmo comportarci, le conseguenze delle nostre azioni e la natura della vita e della morte. Ciò che mi chiarirono queste sporadiche schermaglie fraterne è che i Veda cercano qualcosa di stabile, qualche tipo di qualità costante alla base delle sabbie mobili della realtà conosciuta. È una descrizione che io e molti miei colleghi utilizzeremmo volentieri per caratterizzare il compito della fisica fondamentale. Le due branche della conoscenza condividono il desiderio di vedere al di là delle apparenze a disposizione dell’esperienza quotidiana. Tuttavia le spiegazioni che giudicano capaci di promuovere questo compito sono di natura del tutto diversa.
A metà del VI secolo a.C., Siddhārtha Gautama, un principe nato nell’attuale Nepal che era cresciuto studiando i Veda, fu sconvolto dal confronto tra la vita lussuosa che aveva avuto in sorte e i tormenti sopportati da coloro che conducevano un’esistenza piú comune. Come narra la famosissima storia, Gautama decise di rinunciare ai privilegi e vagare per il mondo in cerca di un modo per alleviare la miseria della sofferenza umana. Le intuizioni nate da questa ricerca, sviluppate e divulgate dai suoi seguaci per lo piú dopo la sua morte, costituiscono il Buddhismo, oggi praticato da un abitante della Terra ogni dodici, circa mezzo miliardo di persone. Con la diffusione del pensiero buddhista, si svilupparono numerose sette, che però condividono tutte la credenza che la percezione sia una guida illusoria alla realtà. Certe qualità del mondo possono sembrare stabili, ma in verità tutto cambia, sempre. Discostandosi dai Veda, il Buddhismo nega che vi sia un substrato immutabile alla base dell’esistenza e attribuisce la causa della sofferenza umana al mancato riconoscimento dell’impermanenza di ogni cosa. Gli insegnamenti del Buddha delineano uno stile di vita che promette una visione percepita piú chiaramente della verità nuda e cruda e, come nei Veda, la via verso questa illuminazione comporta una serie di rinascite, con l’obiettivo finale di porre fine ai cicli di reincarnazione raggiungendo uno stato eterno di beatitudine che è al di là del desiderio, della sofferenza e del proprio sé. Se immaginare regni in cui la vita continuava dopo questa vita, come si era fatto in precedenza, era una manovra mentale notevole per affrontare l’enigma della mortalità, il punto di vista induista e quello buddhista sono ancora piú notevoli. La morte viene immaginata come un nuovo inizio in un processo ciclico il cui obiettivo è la definitiva liberazione dalla vita. La conclusione dei cicli, una volta raggiunta, porta a un dominio in cui il concetto di esistenza separata svanisce. La nostra impermanenza diventa un rito sacro di passaggio per raggiungere l’atemporalità.
Poiché l’Induismo e il Buddhismo ricercano una realtà al di là delle illusioni della percezione quotidiana, una caratterizzazione che descrive anche molti progressi scientifici tra i piú sorprendenti degli ultimi cent’anni, un piccolo settore ha prodotto articoli, libri e film che pretendono di stabilire collegamenti con la fisica moderna. Anche se si possono individuare somiglianze di prospettiva e linguaggio, non ho mai incontrato qualcosa di piú di una risonanza metaforica tra idee distinte interpretate in modo vago. Le descrizioni della fisica moderna presentate nei testi divulgativi, miei e di altri autori, di solito eliminano la matematica a favore di resoconti di piú facile comprensione, ma la matematica è inequivocabilmente l’ancora della scienza. Le parole, seppur scelte con cura, sono soltanto una traduzione delle equazioni. Addurre queste traduzioni a fondamento del contatto con altre discipline non supererà quasi mai il livello di un’alleanza poetica.
Questo giudizio è consono quanto meno ad alcune delle voci principali delle discipline spirituali. Qualche anno fa, fui invitato a partecipare a un dibattito pubblico con il Dalai Lama. Durante la discussione, osservai la preponderanza dei libri che spiegano come la fisica moderna stia ripetendo scoperte compiute in Estremo Oriente migliaia di anni fa e domandai al Dalai Lama se considerasse valide queste tesi. La sua risposta schietta mi colpí profondamente: «Riguardo alla coscienza, il Buddhismo ha qualcosa di importante da dire. Riguardo alla realtà materiale, tuttavia, dobbiamo fare affidamento su di lei e sui suoi colleghi. Siete voi quelli che vanno al fondo delle cose»30. Ricordo di aver pensato che sarebbe meraviglioso se i leader religiosi e spirituali di tutto il mondo seguissero l’esempio semplice, coraggioso e onesto del Dalai Lama.
Piú o meno nella stessa epoca in cui il Buddha vagava per l’India, nel regno di Giuda il popolo ebraico veniva sconfitto duramente dai Babilonesi e costretto all’esilio. Nel tentativo di codificare la propria identità, i capi ebrei raccolsero disparati resoconti scritti e sovrintesero alla trascrizione di storie orali, producendo le prime versioni della Bibbia ebraica – un documento che continuò a evolversi e divenne un testo sacro delle religioni abramitiche, oggi praticate da piú di un abitante della Terra su due, all’incirca 4 miliardi di persone31. Il Dio dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam è il solo creatore onnipotente, onnisciente e onnipresente di tutte le cose – una concezione che per molti in tutto il mondo è l’immagine dominante che evocano quando si parla di religione, quale che sia il contesto.
La storia delle origini narrata nell’Antico Testamento è notissima. In realtà, sono narrate due storie. La prima dura sei giorni, inizia con la formazione del cielo e della terra e si conclude con la creazione dell’uomo e della donna; la seconda occupa un solo giorno, con l’uomo creato all’inizio; durante il suo primo sonnellino, entra in scena la donna. Seguono velocemente generazioni su generazioni, ma l’Antico Testamento è poco disposto a specificare dove vanno i protagonisti quando muoiono. A parte un paio di veloci riferimenti alla resurrezione, non parla di un aldilà. Mistici e interpreti ebrei in seguito svilupparono numerose idee concernenti anime immortali in attesa di un altro mondo, ma non esiste un’unica interpretazione che riconcili la miriade di fonti e commentari della Bibbia. Cinque secoli dopo, quell’incertezza fu spazzata via quando il Cristianesimo elaborò una dottrina teologica pervasa di anime eterne che mantengono la propria identità ben oltre il tempo dell’esistenza terrena. Dopo altri cinque secoli, l’Islam introdusse il proprio vasto corpus di credenze che affronta temi simili, allineandosi con il Cristianesimo nel suo rispettoso timore per l’avvicinarsi di un giorno del giudizio in cui i morti risorgeranno e quelli giudicati degni riceveranno l’eterna ricompensa celeste, mentre tutti gli altri subiranno la dannazione eterna.
Collettivamente, le poche religioni citate sono seguite da piú di tre abitanti del pianeta su quattro. Con miliardi di seguaci, la natura e lo stile del coinvolgimento religioso variano in misura notevole e, se includiamo le piú di 4000 religioni minori oggi praticate nel mondo, la gamma dell’impegno religioso si espande ancora di piú, come i dettagli dei contenuti dottrinali. Ciò malgrado, vi sono alcuni punti in comune, come le figure importanti che hanno visto piú lontano, o a cui è stato concesso di conoscere storie che pretendono di spiegare come ha avuto inizio tutto, come finirà tutto, dove andremo tutti e qual è il modo migliore per arrivarci. Ancora piú radicata è la diffusa aspettativa che i seguaci assumeranno un atteggiamento mentale rivolto al sacro. Il mondo è pieno di storie che possono ispirare il nostro stile di vita. Il mondo è pieno di dichiarazioni autorevoli che possono guidare il nostro comportamento. Le storie e le dichiarazioni che fanno parte di una dottrina religiosa sono innalzate al di sopra di tutte le altre perché nella mente del fedele suscitano una qualche varietà di credenza.
6. L’impulso a credere.
Qualche anno fa, durante gli ultimi giorni caotici di un progetto totalizzante, mi arrivò l’invito a tenere il discorso di apertura a una riunione nello Stato di Washington. Distratto com’ero, accettai l’invito senza assicurarmi che l’organizzazione fosse stata adeguatamente controllata. Qualche mese dopo, quando arrivò il momento del discorso, mi resi conto che era previsto che parlassi alla Scuola di illuminazione di Ramtha, un’organizzazione guidata da Judy Zebra Knight, che sostiene di canalizzare un guerriero di 35 000 anni fa, Ramtha, originario della terra perduta di Lemuria (che, a quanto pare, era spesso in guerra con la terra perduta di Atlantide). Con una rapida ricerca in rete trovai diversi videoclip, fra cui uno tratto da un vecchio episodio del Merv Griffin Show in cui Knight getta indietro la testa, la fa scattare in avanti, va in trance, abbassa la voce e prende a parlare un po’ come Yoda e un po’ come la regina Elisabetta e incarna – questo vorrebbe farci credere – il saggio lemuriano. Mia figlia, che guardava il videoclip dietro di me, cercò di soffocare le risate. Non ci riuscí. Avrei riso anch’io se non fossi stato mortificato per aver accettato l’invito. Ma era il giorno prima della presentazione, quindi troppo tardi per tirarmi indietro in maniera garbata.
All’arrivo, il mio primo incontro fu con centinaia di persone bendate e con le braccia protese che si muovevano alla rinfusa per un grande prato recintato. La mia guida mi spiegò che ogni persona aveva un foglietto appuntato sul petto, su cui aveva scritto il sogno della propria vita, e che l’esercizio consisteva nell’intuire come trovare un foglietto identico che era stato messo da qualche parte sul campo; riuscire a trovarlo, osservò, era un passo fondamentale per garantirsi che il sogno si sarebbe realizzato. «Come sta andando?», domandai. «Oh, benissimo. In questa sessione un partecipante ha già trovato il suo foglietto». Subito dopo incontrai gli arcieri bendati. Mi tenni a distanza di sicurezza e respinsi gli inviti a partecipare, tanto piú quando mi accorsi che zitto zitto si era unito a noi un fotografo. Gli arcieri bendati avevano piú o meno lo stesso successo delle persone bendate alla ricerca del proprio foglietto. Infine, fui raggiunto da una giovane donna, fra i venti e i trent’anni, il cui talento telepatico le permetteva di sapere quali carte venivano estratte da un mazzo ben mescolato. «Sette di quadri, – dichiarò. – Accidenti, sei di fiori. Ma ho sbagliato solo di uno. Nove di picche. Oh, è un tre di quadri. Ah, eccola qui la quadri». E andò avanti cosí. Mi disse che praticava quotidianamente per molte ore e sapeva di doversi allenare di piú.
A quanti si erano radunati intorno a noi, e piú tardi durante il discorso, non potei fare a meno di offrire qualche osservazione fondamentale, a molte delle quali ho accennato in queste pagine. Spiegai che la nostra specie osserva il mondo e vede schemi e regolarità. E per lo piú è un bene. Nel corso di molte generazioni, la selezione naturale ci ha equipaggiati per individuare le regolarità dell’aspetto e del movimento di persone e oggetti, permettendoci di identificarli rapidamente mediante un piccolo numero di indizi visivi. Noi percepiamo regolarità nel comportamento degli animali, il che ci permette di prevedere quando è sicuro avvicinarci e quando è meglio allontanarci. Cogliamo le regolarità delle traiettorie seguite da un oggetto scagliato in aria come una pietra o una lancia, una capacità che era particolarmente utile ai nostri antenati quando cercavano di sopraffare una preda per procurarsi da mangiare. Per mezzo di schemi e regolarità sviluppiamo i modi per comunicare e cosí ci riuniamo in gruppi – dalle tribú alle nazioni – che esercitano le piú potenti influenze al mondo. In breve, la capacità di riconoscere pattern ci permette di sopravvivere. Tuttavia, aggiunsi, a volte esageriamo. In certe occasioni, i nostri rivelatori di pattern che sono stati plasmati dalla selezione naturale sono cosí pronti ad annunciare di aver colto un segnale che vedono pattern e immaginano correlazioni inesistenti. A volte attribuiamo significato a ciò che non ne ha. In base a semplici calcoli matematici, sappiamo che in media indoviniamo il seme di una carta una volta su quattro e il suo valore una volta su tredici. Ma questa regolarità non rivela affatto una capacità telepatica. A ogni morte di papa – in realtà, ancor piú raramente – procedendo a caso per un campo troviamo il nostro foglietto, ma ciò non dice nulla riguardo alla realizzazione dei sogni. Quante volte vi capita, domandai, di osservare che una coincidenza incredibile non si è verificata?
I presenti, a quel punto tutti stipati in un enorme fienile, manifestarono rumorosamente la loro approvazione. Molti si alzarono in piedi per una standing ovation, che, come dissi, apprezzavo ma mi sconcertava. Vi sto dicendo che il vostro approccio per trovare una realtà piú profonda e i metodi che praticate non portano da nessuna parte. Un’altra ovazione.
Piú tardi, al momento della firma del libro, alcuni partecipanti, parlando sottovoce, mi chiarirono la questione. «Molti di noi non credono a gran parte di ciò che avviene qui e per qualcuno è importante dirlo apertamente. Però c’è qualcos’altro là fuori, possiamo percepirlo, e seguiamo questa scuola perché abbiamo bisogno di stare in mezzo ad altri che hanno lo stesso impulso a cercare una verità piú profonda». Posso capirlo. Comprendo l’impulso. La storia della fisica è una collezione di episodi in cui piú e piú volte eroiche esplorazioni matematiche e sperimentali hanno rivelato che c’è qualcos’altro là fuori – spesso qualcosa di strano e meraviglioso che ci impone di rielaborare il nostro quadro della realtà. Abbiamo tutte le ragioni per credere che le nostre attuali conoscenze, pur essendo capaci di spiegare moltissimi dati con estrema precisione, siano provvisorie, perciò noi fisici prevediamo che andando avanti questo ritmo di revisione si ripeterà molte volte. D’altra parte, è grazie a secoli di sforzi che abbiamo perfezionato i nostri strumenti investigativi, vale a dire i metodi matematici e sperimentali che costituiscono la parte essenziale della pratica scientifica rigorosa. Questi sono i metodi che trasmettiamo ai nostri studenti e agli altri ricercatori nostri colleghi. Questi sono i metodi che hanno dimostrato la loro capacità di accedere in modo affidabile alle qualità nascoste della realtà.
Sono disposto a prendere in considerazione tesi non convenzionali. Se i dati raccolti in esperimenti replicabili e progettati con cura per indagare, per esempio, la capacità di percepire carte coperte attestassero risultati migliori di quelli che si ottengono tirando a indovinare, o se dati attendibili stabilissero che un membro della nostra specie è in grado di canalizzare un antico saggio proveniente da una terra perduta, sarei interessato. Straordinariamente interessato. Ma in mancanza di questi dati, e in mancanza di qualsiasi ragione per prevedere che dati simili siano in arrivo, e in mancanza di argomenti che spieghino perché queste tesi non sono in contraddizione con tutte le nostre conoscenze dimostrabilmente corrette riguardo al funzionamento della realtà, è chiaro che dovremmo concludere che non esistono motivi per credere a queste tesi.
La domanda che ne deriva è: esiste qualche ragione per credere in un essere invisibile e onnipotente che ha creato l’universo, ascolta e risponde alle nostre preghiere, è al corrente di tutto ciò che diciamo e facciamo e dispensa ricompense e punizioni? Per formulare una risposta, è opportuno sviluppare il concetto di credenza in modo piú completo.
7. Credenza, fiducia e valore.
Quasi tutti coloro che mi domandano se credo in Dio utilizzano il verbo «credere» nello stesso modo in cui lo farebbero domandandomi se credo nella meccanica quantistica. Di fatto, spesso mi pongono entrambe le domande. Tendo a formulare la mia risposta in termini di fiducia, una misura di certezza, osservando che la mia fiducia nella meccanica quantistica è grande, poiché la teoria prevede correttamente caratteristiche del mondo, come il momento di dipolo magnetico dell’elettrone, con una precisione che arriva oltre la nona cifra decimale, mentre la mia fiducia nell’esistenza di Dio è poca a causa della scarsità di dati rigorosi a sostegno. La fiducia, come illustrano questi esempi, emerge da un giudizio spassionato essenzialmente algoritmico delle prove.
In effetti, quando i fisici analizzano i dati e annunciano un risultato, quantificano la propria fiducia usando procedure matematiche ben conosciute. La parola «scoperta» in generale si usa soltanto quando la fiducia supera una soglia matematica: la probabilità di essere ingannati da qualcosa di statisticamente raro nei dati deve essere inferiore a 1 su 3,5 milioni (un numero che sembra arbitrario, ma emerge naturalmente nelle analisi statistiche). Com’è ovvio, nemmeno questi livelli di fiducia cosí elevati garantiscono che una «scoperta» sia vera. Dati provenienti da esperimenti successivi possono imporci di modificare il nostro livello di fiducia; anche in questo caso, la matematica fornisce un algoritmo per calcolare l’aggiornamento.
Benché pochi tra noi adottino metodi simili nella vita, tutti arriviamo a nutrire molte delle nostre credenze grazie a un ragionamento simile seppur meno apertamente analitico. Vediamo Jack e Jill e ci domandiamo se possano essere una coppia; li vediamo insieme piú e piú volte e la nostra fiducia in quella conclusione aumenta. Poi veniamo a sapere che Jack e Jill sono fratelli e perciò ignoriamo la nostra valutazione precedente. E cosí via. Potreste immaginare che questo processo iterativo converga su credenze che riflettono la vera natura del mondo. Ma non è necessariamente vero. L’evoluzione non ha configurato i nostri processi cerebrali in modo da formare credenze che corrispondono alla realtà. Li ha configurati per favorire credenze che ci fanno comportare in modi che promuovono la sopravvivenza. E i due fattori non sempre coincidono. Se i nostri antenati avessero indagato con cura ogni sibilo e ogni fruscio che catturava la loro attenzione, avrebbero scoperto che per la maggior parte potevano essere spiegati senza invocare un agente dotato di volontà propria. Dal punto di vista della fitness adattiva, tuttavia, l’investimento oneroso nella ricerca della verità avrebbe offerto ben pochi vantaggi. Per decine di migliaia di generazioni, il cervello umano rinunciò alla precisione a favore di una comprensione approssimativa, senza sottigliezze. Le risposte veloci spesso battono le valutazioni ponderate. La verità è un personaggio importante nel dramma delle credenze, ma la sopravvivenza e la riproduzione le rubano facilmente la scena.
Rendendo ancora piú fitta la trama, l’evoluzione aggiunse un altro personaggio: le emozioni. Nel 1872, piú di dieci anni dopo aver annunciato l’evoluzione per selezione naturale, Darwin pubblicò L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali, in cui esplorava la sua convinzione che il motore primario dell’espressione delle emozioni fosse il cervello biologicamente adattato e non la cultura. Sulla base di attente osservazioni dei suoi figli, di questionari inviati a un gran numero di persone e di dati relativi a culture diverse che aveva raccolto durante le sue lunghe spedizioni, Darwin sosteneva, per esempio, che la tendenza a sorridere quando si è compiaciuti o ad arrossire quando si è imbarazzati è universale. Si possono prevedere queste stesse reazioni in persone di qualunque cultura. Nel secolo e mezzo trascorso da allora, i ricercatori hanno seguito la direzione indicata da Darwin e hanno cercato i ruoli adattivi capaci di spiegare varie emozioni umane, oltre a indagare i sistemi neurali che potrebbero essere responsabili della loro generazione. Le ricerche hanno mostrato che la paura è davvero un’emozione primaria – fin dall’inizio, le risposte comportamentali e fisiologiche rapide al pericolo ebbero un notevole valore adattivo. Anche l’amore dei genitori, che spinge a prestare le cure essenziali ai propri piccoli indifesi, probabilmente è un adattamento antico. L’imbarazzo, la colpa e la vergogna, che favoriscono in modo particolare comportamenti adeguati in gruppi piú grandi, sono adattamenti che probabilmente si realizzarono in seguito, con l’aumento delle dimensioni dei gruppi32. Il punto che ci interessa qui è che cosí come modellò la mente umana dotata di linguaggio, incline a narrare storie, inventare miti, praticare rituali, creare arte e dedicarsi alla scienza, la pressione adattiva plasmò anche le nostre ricche capacità emotive. Le emozioni sono state invischiate durante tutto il nostro sviluppo evolutivo. Le credenze sono quindi emerse da un calcolo complesso sintetizzante analisi ragionate e risposte emotive in una mente che impara l’arte della sopravvivenza33.
Questo calcolo dipende anche da una serie di fattori che comprendono influenze sociali, forze politiche e brutali convenienze. All’inizio della vita, le credenze sono fortemente condizionate dall’autorità dei genitori. Mamma o papà dicono che è vero? Allora è vero. Come osservò Richard Dawkins, la selezione naturale opera a favore di genitori che trasmettono ai figli informazioni utili per la sopravvivenza, perciò credere a ciò che dicono mamma e papà è sensato dal punto di vista evolutivo. Piú avanti, molti iniziano a sviluppare il proprio calcolo – indagando, discutendo, leggendo e contestando – che a sua volta è spesso influenzato da aspettative preesistenti e dall’esposizione alle credenze altrui. La maggior parte di noi, inoltre, amplia l’elenco delle autorità giudicate attendibili – insegnanti, leader, amici, funzionari e altri comprovati esperti. Dobbiamo farlo. Nessuno può riscoprire, e nemmeno verificare, la conoscenza accumulata in migliaia di anni. Tempo fa in sogno – in un incubo, in realtà – ero di nuovo al momento della presentazione della tesi di dottorato e l’esaminatore, soffocando una risata, mi diceva che tutte le osservazioni e tutti gli esperimenti a sostegno delle «leggi» della fisica quantistica erano stati inventati. Ero stato il bersaglio di uno scherzo complicato, essendo stato indotto in errore da un pantheon di autorità che rispettavo e da una comunità di pari di cui mi fidavo. Per quanto improbabile potesse essere lo scenario del sogno, è vero che ho verificato personalmente soltanto una percentuale minuscola degli esperimenti essenziali della disciplina. Si può dire che alla maggior parte dei risultati ho creduto per fede.
La mia fiducia deriva da decenni di esperienza diretta, in cui ho constatato che i fisici minimizzano la soggettività umana concentrandosi su dati accumulati con cura, mettendo inesorabilmente in discussione le ipotesi e scartandole tutte tranne quelle che soddisfano una serie di criteri universali rigorosi. Nonostante questa attenzione diligente, tuttavia, le contingenze storiche e i pregiudizi umani alimentati dalle emozioni trovano il modo di infiltrarsi. Uno degli approcci principali alla meccanica quantistica, la cosiddetta interpretazione di Copenaghen, è in parte riconducibile ad alcune personalità potenti che dominavano al momento della nascita della teoria. Per una discussione, rimando i lettori a un altro mio libro, La realtà nascosta, ma sospetto che, se la meccanica quantistica fosse stata sviluppata da un insieme diverso di personaggi, la scienza ufficiale esisterebbe ugualmente, ma questa particolare prospettiva interpretativa non avrebbe goduto della stessa posizione dominante per tanti decenni. La bellezza della scienza è che grazie alle continue ricerche le dottrine di un’epoca sono riconsiderate attentamente nell’epoca successiva e cosí vengono spinte sempre piú vicino all’obiettivo della verità oggettiva. Anche in una disciplina progettata per raggiungere l’oggettività, però, tutto ciò richiede un processo. E richiede tempo.
C’è poco da stupirsi se nel regno confuso, casuale e carico di emozioni delle avventure quotidiane degli esseri umani lo spettro delle credenze è ampio e fantasioso, se non a volte disorientante e frustrante. Nella formazione delle proprie credenze alcuni ricorrono alla scienza, in relazione sia ai contenuti sia alle strategie. Alcuni si basano sull’autorità, altri sulla comunità. Alcuni sono costretti, a volte in modi sottili e a volte apertamente. Alcuni accordano piena fiducia alla tradizione, altri si affidano completamente all’intuizione. E nei centri di elaborazione della mente, in generale non monitorati, ciascuno di noi usa una combinazione personale e molto variabile di tutte queste tattiche. Per di piú, nulla ci impedisce di avere credenze incompatibili né di compiere azioni che indicano questa incoerenza. Non ho difficoltà ad ammettere che di tanto in tanto tocco ferro, parlo con i defunti e chiedo al cielo di rendermi piú forte. Nulla di tutto ciò è in accordo con le mie credenze razionali sul mondo e tuttavia sono perfettamente soddisfatto delle mie occasionali tendenze apotropaiche. In realtà, provo un certo piacere nel superare momentaneamente le limitazioni razionali.
Va inoltre osservato che, mentre i filosofi di professione sono pagati per esaminare minuziosamente le credenze – al fine di mettere in luce assunti nascosti e attirare l’attenzione su deduzioni scorrette –, la maggior parte di noi non si comporta cosí né lo facevano i nostri antenati. Nella vita dei piú, molte credenze non vengono affatto esaminate. Forse è una particolare varietà di adattamento. Chi contempla il proprio ombelico tende a trascurare il fatto che le scorte alimentari sono scarse o che una tarantola si sta avvicinando furtivamente. Ciò significa che, quando si cerca di capire come sia possibile che il tal dei tali crede questo e quello, spesso è un errore immaginare che quelle credenze siano emerse da analisi approfondite ed esami incrociati. Come osserva Boyer, «Presumiamo che i concetti di agenti sovrannaturali […] si presentino alla mente e che qualche processo decisionale ne accetti la validità oppure li respinga». Tuttavia, poiché queste idee stimolano un gran numero dei centri inferenziali del cervello – dal riconoscimento della facoltà di agire alla teoria della mente, al monitoraggio delle relazioni e cosí via – e poiché la selezione naturale ha dotato questi centri della capacità di formulare una diagnosi molto al di sotto della soglia della consapevolezza, il modello razionale del giudice e della giuria «potrebbe essere una visione piuttosto distorta del modo in cui questi concetti vengono acquisiti e rappresentati»34.
Cambiano di epoca in epoca anche le cose stesse a cui si può ragionevolmente applicare il concetto di credenza. Come osserva Karen Armstrong, «se avessero chiesto agli officianti dei riti degli antichi misteri eleusini se credessero davvero che Persefone scendeva sotto terra, come descrive il mito, l’avrebbero trovato sconcertante»35. Sarebbe come se vi chiedessero se credete nell’inverno. «Se credo nell’inverno? – replichereste giustamente. – Le stagioni esistono e basta!» In maniera simile, immagina Armstrong, i nostri antenati accettavano i viaggi di Persefone «perché ovunque guardassero vedevano che la vita e la morte erano inseparabili e che la terra moriva e poi tornava a vivere. La morte era terribile, spaventosa e inevitabile, ma non era la fine. Se tagliavi una pianta e buttavi via il ramo morto, spuntava un nuovo germoglio»36. Il mito non supplicava che gli si credesse. Non suscitava una crisi di fede che le persone risolvevano grazie a un’approfondita riflessione. Il mito offriva uno schema poetico, una predisposizione mentale alla metafora, che diventava inseparabile dalla realtà che illuminava.
Forse, inoltre, si può stabilire un’analogia con ciò che accade nello sviluppo a lungo termine del linguaggio naturale37. Sforzandosi di dare importanza alle parole e di esprimersi in modo creativo, chi parla cosparge continuamente di metafore il proprio discorso. L’ho appena fatto, ma molto probabilmente non ve ne siete accorti. Cospargiamo di sale gli stufati e di zucchero i dolci, tuttavia quella che ho usato è una metafora cosí banale che ben pochi lettori avranno immaginato una mano che sparge delicatamente parole su frasi appena sfornate. Nel corso del tempo, le metafore sono tanto sfruttate che ogni loro qualità poetica iniziale a poco a poco svanisce e diventano parole di uso quotidiano. In sintesi, diventano letterali. Forse si realizza un processo simile con i concetti mitico-religiosi. Forse questi concetti nascono come modi evocativi, poetici e metaforici di osservare il mondo che, nel corso del tempo, perdono progressivamente la propria poesia e il proprio significato metaforico e ricevono un’interpretazione puramente letterale.
Il momento in cui sono piú vicino a un’interpretazione simile è quando ammetto che potrebbe esistere un Dio. Riconosco che nessuno potrà mai escludere questa possibilità. A patto che l’influenza di un presunto Dio non modifichi in alcun modo la progressione della realtà che è ben descritta dalle nostre leggi matematiche, quel Dio è compatibile con tutto ciò che osserviamo. Ma la distanza fra la pura e semplice compatibilità e la necessità esplicativa è enorme. Ci appelliamo alle equazioni di Einstein e Schrödinger, al quadro evolutivo di Darwin e Wallace, alla doppia elica di Watson e Crick e a un lungo elenco di altri risultati scientifici non per la loro compatibilità con le nostre osservazioni, ovviamente comprovata, ma perché forniscono una struttura esplicativa potente, dettagliata e predittiva per comprendere le nostre osservazioni. Da questo punto di vista, le dottrine religiose non producono alcun effetto; tra i fedeli, naturalmente, molti giudicano irrilevante questo punto di vista. Il problema è che un’interpretazione letterale impedisce quella valutazione. Un’affermazione religiosa che interpretata letteralmente come una tesi sul mondo contraddice leggi scientifiche comprovate è falsa. Punto. In casi simili, adottare un’interpretazione letterale è come accettare l’esistenza di Ramtha.
Ciò malgrado, la dottrina religiosa (e persino quella di Ramtha) può continuare a far parte del discorso razionale se siamo disposti ad allontanarci da interpretazioni letterali, operando una scelta selettiva delle scritture, ignorando gli elementi che troviamo offensivi o antiquati, interpretando le storie e le affermazioni in modo poetico o simbolico o, ancor piú semplicemente, come elementi di un racconto immaginario. Questa possibilità potrebbe attrarci per molte ragioni. Potremmo provare gioia o conforto nel vedere la nostra vita svolgersi all’interno di una narrazione piú ampia e, per alcuni, piú soddisfacente, dando poco peso alle qualità sovrannaturali e alle tesi metafisiche della religione. Potremmo giudicare utile interpretare le storie religiose come un archivio profondamente commovente che coglie in maniera simbolica alcune qualità essenziali della condizione umana. Potremmo assaporare la sfida di sviluppare un sistema interpretativo che concili particolari dottrine religiose con la conoscenza scientifica. Potremmo trovare gratificante rivestire di sensibilità al sacro la nostra interazione con il mondo, aggiungendo una patina che migliora l’esperienza ma non nega la razionalità. Potremmo trarre beneficio dal sostegno e dalla solidarietà che si ottengono grazie a un’affiliazione religiosa. Potremmo trovare emotivamente arricchente partecipare a riti religiosi, consacrando i passaggi della vita e segnando giorni sacri che ci collegano a una tradizione veneranda. Queste varietà di coinvolgimento religioso possono offrire attività, motivazioni, una comunità e una guida che, per alcuni, possono impostare un percorso verso una vita piú ricca e dotata di un significato piú grande. Queste varietà di coinvolgimento religioso non richiedono di credere nella natura fattuale dei contenuti religiosi; riflettono una credenza nel valore di quei contenuti, indipendentemente dalla loro veridicità.
Piú di un secolo fa, William James propose un’analisi acuta e sincera dell’esperienza religiosa, che riecheggia l’osservazione del Dalai Lama riguardo alla fisica e alla coscienza. James sottolineò che, mentre la scienza coltiva un approccio oggettivo, impersonale, è soltanto considerando il nostro mondo interiore – «il terrore e la bellezza dei fenomeni, la “promessa” dell’alba o dell’arcobaleno, la “voce” del tuono, la “dolcezza” della pioggia estiva, la “sublimità” delle stelle, e non le leggi fisiche che queste cose seguono»38 – che potremo mai sperare di elaborare un resoconto completo della realtà. Come Descartes, James sottolinea che la nostra esperienza interiore è, di fatto, la nostra unica esperienza. La scienza può ricercare una realtà oggettiva, ma il nostro unico accesso a quella realtà è attraverso l’elaborazione soggettiva della mente. La mente umana perciò interpreta incessantemente una realtà oggettiva producendone una soggettiva.
Pertanto, se la pratica religiosa – o forse qui sarebbe meglio dire «pratica spirituale» – viene vissuta come un’esplorazione del mondo interiore della mente, come un viaggio introspettivo attraverso l’esperienza inevitabilmente soggettiva della realtà, allora la questione se questa o quella dottrina rifletta una verità oggettiva diventa secondaria39. La ricerca religiosa o spirituale non deve mirare a individuare aspetti dimostrabili del mondo esterno; esiste tutto un paesaggio interiore da esplorare, a partire dal terrore, dalla bellezza, dalla promessa, dalla voce, dalla dolcezza e dalla sublimità che James mise in relazione con il vasto elenco di altre costruzioni umane, compresi il bene e il male, la soggezione e lo spavento, la meraviglia e la gratitudine a cui abbiamo fatto appello nei secoli per stabilire il valore e trovare significato. Anche se restassimo a lungo a fissare le singole particelle della natura e seguissimo con la massima diligenza le regole matematiche fondamentali della natura, non avvisteremmo mai questi concetti. Sono concetti che emergono soltanto quando particolari organizzazioni complesse di particelle sviluppano la capacità di pensare, percepire e riflettere. Ed è un fatto spettacolare e gratificante che possano esistere queste collezioni di particelle agitate che operano sotto il rigido controllo delle leggi fisiche e tuttavia sono capaci di portare queste qualità nel mondo.
Secondo me, l’analogia con le metafore sottili del linguaggio consumate dal tempo mette in luce un punto essenziale, ovvio e tuttavia significativo: molte religioni mondiali sono antiche. È un punto fondamentale. Ci dice che per secoli, se non per millenni, una pratica religiosa ha catturato l’attenzione delle persone e in varie combinazioni, oltre a fornire la struttura dei rituali, ha pervaso il senso del proprio posto nel mondo, ha guidato la sensibilità morale, ha ispirato la creazione di opere d’arte, ha offerto la possibilità di partecipare a una storia straordinaria, ha promesso che la morte non è la fine e, naturalmente, ha anche intimidito con pene severe, ha incoraggiato alcuni a ingaggiare battaglie violente, ha giustificato l’asservimento e l’uccisione dei trasgressori, e cosí via. Cose buone, cose cattive, cose orribili. Ma nonostante tutto le tradizioni religiose hanno resistito. Anche se decisamente non fornisce informazioni su una base verificabile della realtà materiale – lo scopo della scienza –, la religione ha offerto ad alcuni suoi seguaci un senso di coerenza che ha inserito la vita in un contesto, collocando ciò che è familiare e ciò che è insolito, le gioie e i travagli, in una storia piú ampia. Per questo motivo, le venerande religioni del mondo offrono una famiglia che unisce i seguaci attraverso le epoche.
Quanto alla mia esperienza personale, ho ricevuto un’educazione ebraica. La mia famiglia frequentava le funzioni nelle festività piú importanti e io ero iscritto a una scuola ebraica locale. Dato l’afflusso annuale di nuovi studenti, le lezioni ripartivano ogni anno dall’alfabeto ebraico, perciò durante i primi giorni io me ne stavo tranquillo in disparte sfogliando l’Antico Testamento. Me ne lamentavo amaramente con i miei genitori, ma a dire il vero mi piaceva leggere di Samuele, Assalonne, Ismaele, Giobbe e tutti gli altri. Con il passare degli anni, mi allontanai sempre di piú dalla religione, non sentendo la necessità di una partecipazione formale. Poi, durante una pausa dagli studi di dottorato a Oxford, feci un viaggio in Israele. Un rabbino troppo zelante in qualche modo venne a sapere che un giovane fisico americano girovagava per le strade di Gerusalemme. Lo rintracciò, lo circondò di talmudisti, «anch’essi studiosi dell’origine dell’universo», e convinse – in realtà costrinse – lo studente venticinquenne eccessivamente rispettoso a visitare il loro tempio e a farsi avvolgere le braccia e la fronte con il tradizionale equipaggiamento di pelle del rituale dei tefillin. Per il rabbino, era la volontà di Dio in azione. Lo studente era destinato a essere riportato all’ovile. Per lo studente, fu una pesante coercizione a partecipare a un rituale sacro in mancanza di convinzione interiore. Quando alla fine lo studente si slacciò le cinghie di pelle e uscí dal tempio, sapeva di aver chiuso con la religione.
Eppure, quando morí mio padre, l’arrivo quotidiano di un mynian di ebrei osservanti per recitare il Kaddish mi era di grande conforto. Mio padre, che non era un uomo religioso, veniva accolto da una tradizione secolare, al centro di un rituale somministrato a innumerevoli persone prima di lui. Le parole religiose cantate dagli uomini contavano poco. Erano in aramaico, una collezione di suoni antichi, una poesia tribale impressa nella cadenza e nel ritmo e io non ero interessato a una traduzione. Ciò che contava per me in quei brevi momenti – la natura, se volete, della mia fede – era la storia e la connessione. Questa, per me, è la grandiosità dell’eredità religiosa. Questa, per me, è la maestosità della religione.
Capitolo ottavo
Istinto e creatività
Dal sacro al sublime
Il 7 maggio 1824, Ludwig van Beethoven salí sul palco del Kärntnertortheater di Vienna per la première della sua nona e ultima sinfonia. Era la sua prima esibizione in pubblico dopo quasi dodici anni. Il programma annunciava che avrebbe soltanto assistito il direttore, ma quando il teatro si riempí e il pubblico si mostrò carico di aspettative Beethoven non riuscí a contenersi. Nel racconto del primo violino Joseph Böhm, fu lo stesso Beethoven a dirigere, stando davanti a un leggio da direttore e gettandosi avanti e indietro come un pazzo. Un momento era ritto e si allungava al massimo e il momento successivo si accovacciava sul pavimento, agitava convulsamente mani e piedi come se volesse suonare tutti gli strumenti e cantare per tutto il coro1. Beethoven soffriva di una grave forma di tinnito – che descriveva come un ruggito nelle orecchie – e a quel punto della vita era quasi completamente sordo. Di conseguenza, quando l’orchestra suonò l’ultima nota trionfale, Beethoven senza saperlo era rimasto indietro di un paio di battute e stava ancora dirigendo fieramente. Il contralto lo prese delicatamente per la manica e lo fece voltare affinché vedesse il pubblico che sventolava i fazzoletti e lo acclamava. Beethoven pianse. Come poteva immaginare che i suoni sentiti solo nella sua mente avrebbero fatto risuonare qualcosa di universale nel cuore dell’umanità?
I miti e le religioni rivelano come i nostri antenati cercavano collettivamente di decifrare il mondo. Adottando miti, rituali e credenze, le tradizioni hanno cercato – a volte in modo compassionevole, a volte con indicibile brutalità – una narrazione che spiegasse il viaggio compiuto fino a quel momento e spronasse tutti a progredire. Come singoli individui, abbiamo seguito lo stesso percorso, basandoci sull’istinto e sull’inventività per salvaguardare la sopravvivenza ricercando al contempo il senso del motivo per cui dovrebbe esserci cara. In questo viaggio alcuni hanno colto la coerenza della realtà in modi nuovi e sorprendenti, offrendo riflessioni per mezzo di opere d’arte, letterarie, musicali e scientifiche capaci di ridefinire il senso di noi stessi e arricchire la nostra relazione con il mondo. Lo spirito creativo, che da lungo tempo cesellava statuine, colorava pareti di grotte e narrava storie, era pronto a spiccare il volo.
Menti magnifiche – rare ma esistenti in ogni epoca, tutte forgiate dalla natura e alcune dall’immaginata ispirazione divina – hanno scoperto nuovi modi per esprimere il trascendente. Le loro odissee creative hanno espresso un genere di verità che sta oltre la derivazione e la validazione, dando voce a qualità caratteristiche della natura umana che restano inespresse finché non se ne ha esperienza.
1. Creare.
La sensibilità ai pattern, ossia alle forme, agli schemi e alle regolarità, è una delle nostre piú potenti abilità utili alla sopravvivenza. Come abbiamo visto piú e piú volte, noi osserviamo pattern, ne facciamo esperienza e, soprattutto, ne traiamo insegnamenti. Se mi inganni una volta, devi vergognarti tu. Se mi inganni due volte, forse può essere prematuro affermare che devo vergognarmi io, ma alla terza o quarta volta il trasferimento della responsabilità è giustificato. Imparare dai pattern è un talento essenziale per la sopravvivenza impresso dall’evoluzione nel nostro DNA. I visitatori alieni di passaggio sulla Terra potrebbero avere una biochimica diversa, ma probabilmente non avranno difficoltà ad afferrare il concetto; quasi sicuramente l’analisi di pattern è fondamentale anche per il modo in cui anch’essi sono riusciti a non estinguersi.
Ciò nonostante, un tale scambio di idee tra esseri di galassie diverse potrebbe non essere un perfetto incontro di menti. Alcuni dei pattern che piú amiamo potrebbero lasciare sconcertati i visitatori alieni. Di fronte a particolari pigmenti disposti su una tela bianca, a particolari pezzi asportati da un blocco di marmo o a particolari vibrazioni generate attraverso molecole di aria – che producono particolari pattern di luce, di struttura e di suono –, di fronte a questi pattern noi esseri umani possiamo percepire la realtà dispiegarsi in modi che non avevamo mai immaginato possibili. Per un momento breve che però ci appare illimitato possiamo avvertire che il nostro posto nel mondo cambia come se fossimo stati trasportati in un altro regno. Se gli alieni avessero avuto questo tipo di esperienze capirebbero di che cosa stiamo parlando. Ma se raccontassimo loro la nostra reazione interiore alle opere creative, potrebbero restare perplessi. Il linguaggio può descrivere queste esperienze solo fino a un certo punto, perciò gli alieni potrebbero restare perplessi vedendo in ogni continente un gran numero di esseri umani, alcuni da soli e altri in gruppo, che immersi nei mondi dell’arte e della musica si concentrano intensamente, si appassionano, restano assorti e danzano.
I visitatori alieni sconcertati dalle nostre reazioni alle espressioni artistiche probabilmente sarebbero altrettanto sconcertati, e forse ancora di piú, dalla creazione di queste opere. La pagina bianca. La tela immacolata. La massa informe di marmo. Il blocco di argilla. La partitura non scritta che aspetta l’ispirazione del compositore o che, una volta composta, aspetta di essere eseguita. O cantata. O danzata. Alcuni membri della nostra specie si dedicano giorno e notte a immaginare forme da estrarre da ciò che non ha forma e suoni da riversare nel silenzio. Alcuni consumano il grosso dell’energia della propria vita per realizzare queste visioni fantasiose, producendo pattern nello spazio e nel tempo che possono essere venerati, aborriti, ignorati, o giudicati come l’essenza stessa dell’esistenza. Secondo Nietzsche, «Senza la musica, la vita sarebbe un errore»2. George Bernard Shaw fa dire a Ecrasia: «Senza l’arte, la crudezza della realtà renderebbe insopportabile il mondo»3. Ma che cosa fa scattare l’impulso a immaginare? È catalizzato da istinti comportamentali plasmati dalla selezione naturale? Oppure consumiamo da tempo risorse preziose di tempo ed energia per scopi artistici che hanno poco a che fare con la sopravvivenza e la riproduzione?
Siamo catapultati nel mondo senza essere consultati. Una volta qui, ci viene concesso di abbracciare la vita solo per un momento. Afferrare le redini della creazione e forgiare qualcosa che controlliamo, qualcosa di intrinsecamente nostro, qualcosa che riflette ciò che siamo, qualcosa che esprime il nostro particolare punto di vista sull’esistenza umana, è davvero esaltante. Anche se molti rifiuterebbero la possibilità di scambiarsi di posto con Shakespeare o Bach, Mozart o Van Gogh, O’Keeffe o Dickinson, i piú coglierebbero al volo l’opportunità di farsi infondere la loro maestria creativa. Illuminare la realtà con fari di nostra creazione, commuovere il mondo con opere che sgorgano dalla nostra particolare costituzione molecolare, creare esperienze capaci di superare la prova del tempo – beh, sembra davvero molto romantico. Per alcuni, il processo creativo ha qualcosa di magico, una spinta irrefrenabile all’espressione di sé. Altri lo vedono come un’opportunità di salire di rango e di considerazione. Per altri ancora, è un cenno verso l’eternità; le nostre creazioni artistiche, come disse una volta Keith Haring, sono una «ricerca dell’immortalità»4.
Se creare e consumare opere dell’immaginazione fossero aggiunte recenti al comportamento umano, o se queste attività fossero state praticate di rado nella storia umana, difficilmente rivelerebbero qualità universali della nostra natura umana evoluta. Dopo tutto, alcune cose – come i pantaloni a zampa d’elefante e le banane fritte – nascono da peculiarità contingenti, quindi accertare i dettagli del loro percorso storico è poco illuminante. Il fatto è, però, che da tempi remoti e in tutte le regioni abitate gli esseri umani cantano, danzano, compongono musica, dipingono, intagliano, scolpiscono e scrivono. I piú antichi dipinti rupestri e corredi funerari elaborati, come quelli incontrati nel capitolo precedente, risalgono a 30 000 - 40 000 anni fa. Alcuni manufatti e incisioni che mostrano segni di espressione artistica sono piú antichi di qualche centinaio di migliaia di anni5. Si tratta quindi di un comportamento diffuso che però, a differenza del bere, del mangiare e del procreare, non ha un valore di sopravvivenza evidente.
Poiché siete dotati di una sensibilità moderna, è possibile che non vi sembri sconcertante. Trovarsi davanti a un’opera che vivifica lo spirito o commuove fino alle lacrime vuol dire andare oltre la banalità del quotidiano, chi non proverebbe un fremito di emozione per un’esperienza simile? Tuttavia, come nel caso dell’osservazione superficiale che mangiamo il gelato perché ci piacciono i dolci, questa spiegazione si concentra unicamente sulle nostre reazioni immediate e quindi si limita allo stimolo diretto delle inclinazioni artistiche. Possiamo andare piú a fondo? Possiamo riuscire a capire per quale motivo i nostri antenati erano disposti ad abbandonare le sfide fin troppo reali poste dalla sopravvivenza e a consumare tempo, energie e sforzi preziosi per seguire l’immaginazione?
2. Sesso e cheesecake.
Quando abbiamo incontrato i nostri antichi fratelli che narravano storie, abbiamo considerato una domanda simile e la risposta piú convincente è stata la metafora del simulatore di volo: grazie all’uso creativo del linguaggio abbiamo potuto assumere prospettive familiari e prospettive sconosciute, potendo cosí ampliare e perfezionare le risposte a incontri della vita reale. Raccontando, ascoltando, abbellendo e ripetendo storie abbiamo giocato con le possibilità senza subire conseguenze. Abbiamo seguito uno dopo l’altro sentieri che iniziavano da «Che cosa succederebbe se…?» ed esplorato, con la ragione e la fantasia, una gran varietà di risultati possibili. Mentalmente, abbiamo percorso senza vincoli il paesaggio dell’esperienza immaginata, acquisendo una nuova agilità di pensiero che, plausibilmente, si è dimostrata preziosa per la sopravvivenza.
Se vogliamo considerare forme piú astratte di arte, dobbiamo rivedere questa spiegazione. Immaginare che la mente perfezioni gli ideali del coraggio e dell’eroismo mediante racconti affascinanti di battaglie difficili o resoconti suggestivi di viaggi pericolosi è una cosa, ma sostenere che la mente ha esercitato un muscolo adattivo ascoltando le Édith Piaf o gli Igor′ Stravinskij del Pleistocene sembra essere tutt’altra cosa. Tra fare esperienza della musica – o, se è per questo, della pittura, della danza o della scultura – e superare le sfide poste dal mondo ancestrale la differenza è apparentemente abissale.
Darwin prese in considerazione la potenziale funzione adattiva di un senso artistico innato motivato dal famoso enigma evolutivo della coda del pavone. Una coda grande e dai colori vivaci fa sí che per un pavone sia difficile nascondersi e, se è inseguito da un predatore che si avvicina rapidamente, scappare. Perché si è evoluta una struttura cosí grande e magnifica, ma a quanto pare non adattiva? La risposta, concluse Darwin con grande costernazione, è che la coda del pavone, pur potendo essere una palla al piede nella lotta per la sopravvivenza, è tuttavia una parte essenziale della strategia riproduttiva del pavone. Proprio come noi, le pavonesse trovano attraente la coda del pavone. Le penne sgargianti le attirano, perciò piú grandiosa è la coda piú è probabile che il pavone si accoppi. La prole ha buone possibilità di ereditare i tratti del papà e i gusti della mamma, propagando una guerra genetica in cui le battaglie non si vincono procurandosi piú cibo o garantendo una maggiore sicurezza, ma sviluppando code piú splendide.
È un esempio di selezione sessuale, un meccanismo evolutivo darwiniano i cui ingranaggi sono azionati dall’accesso riproduttivo. Un pavone che muore giovane non riuscirà a riprodursi e questa è la ragione per cui la selezione naturale favorisce gli individui che sopravvivono. Ma lo stesso insuccesso riproduttivo colpirà un pavone che vive a lungo e prospera, ma viene evitato da tutte le potenziali compagne. Per influenzare la costituzione biologica delle generazioni successive, la sopravvivenza è necessaria ma non sufficiente. Ciò che conta è generare prole, pertanto le caratteristiche che favoriscono l’accoppiamento godranno di un vantaggio selettivo, a volte persino a scapito della sicurezza6. Questi costi non possono essere astronomici – se le code fossero ingombranti oltre un certo limite, metterebbero di continuo in pericolo la sopravvivenza – ma non devono necessariamente essere irrilevanti. La coda del pavone è l’esempio primario, ma considerazioni simili valgono per le caratteristiche di un gran numero di specie. I manachini monaci si mettono in mostra in rumorose danze collettive per attirare potenziali compagne; le lucciole inviano segnali ipnotici di corteggiamento accentuando la delicatezza dei loro giochi di luci tremolanti; gli uccelli giardinieri costruiscono elaborate tane da scapoli intrecciando ramoscelli, foglie, conchiglie e persino carte colorate di caramelle in una manifestazione ostentata che a quanto pare ha l’unico scopo di sedurre una futura compagna7.
Quando Darwin descrisse per la prima volta la selezione sessuale nei due volumi de L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, la proposta non ebbe un successo immediato. A molti suoi contemporanei sembrava inconcepibile che nel regno brutale degli animali non umani il comportamento potesse dipendere da risposte estetiche8. Non che Darwin immaginasse rane o uccelli persi in fantasticherie poetiche, mentre fissano il sole che tramonta dietro l’orizzonte. Il senso estetico che proponeva si concentrava esclusivamente sulla selezione dei compagni. Ciò nonostante, attribuire un «gusto per il bello»9 a un’ampia fetta del regno animale sembrava sconsiderato. Ad Alfred Russel Wallace, che considerava la sensibilità estetica umana come un dono di Dio, sembrò addirittura indecente10.
Ma se non facciamo appello a un’innata sensibilità alla bellezza, come spieghiamo gli sfarzosi ornamenti corporei, le esibizioni creative e le costruzioni materiali che sono parte integrante di miriadi di giochi di accoppiamento che si svolgono nel regno animale? Ebbene, esiste un approccio che fa riferimento a qualcosa di meno elevato. Consideriamo di nuovo la coda del pavone. Mentre noi possiamo apprezzare le caratteristiche estetiche del piumaggio di un pavone, una pavonessa può avere una reazione istintiva che ha una notevole importanza genetica. I pavoni dal piumaggio smagliante sono forti e sani, il che fa aumentare la probabilità che generino una prole robusta. Poiché le pavonesse, come le femmine della maggior parte delle specie, possono generare un numero minore di figli rispetto ai maschi, hanno sviluppato una preferenza particolarmente forte per i maschi in buona forma fisica; scegliere il compagno in base a quel criterio accresce la percentuale di successo di ciascuna fecondazione, che consuma molte risorse e perciò è preziosa11. Poiché il piumaggio ricco è una dimostrazione visibile della forza e del vigore di un potenziale compagno, le pavonesse attratte da quelle code hanno una probabilità maggiore di generare pulcini robusti. A loro volta, questi pulcini in media saranno dotati degli stessi geni legati al desiderio e all’acquisizione di piume splendenti, facilitando la diffusione di questi tratti nelle generazioni future. La bellezza, in questa analisi della selezione sessuale, va ben oltre l’aspetto esteriore ed equivale a un insieme di credenziali pubbliche che attestano la fitness adattiva di un potenziale compagno.
In entrambi i casi – che la scelta del compagno sia guidata dalla sensibilità estetica o dalla valutazione della salute – le preferenze che ne derivano possono offrire una spiegazione per tratti corporali e comportamentali dispendiosi i cui benefici reali in termini di sopravvivenza sono dubbi. Poiché questa descrizione sembra applicabile alle pratiche artistiche emerse in tempi remoti ed essenzialmente universali della nostra specie, forse la selezione sessuale permette di chiarirle. Darwin lo riteneva possibile: fece appello alla selezione sessuale per spiegare l’inclinazione umana per le perforazioni e le colorazioni del corpo e ipotizzò inoltre che la forte reazione che può suscitare la musica fosse un risultato evolutivo della selezione sessuale che modella richiami umani di accoppiamento. Forse i maschi che cantavano o danzavano meglio, o che avevano gli indumenti decorati o i tatuaggi piú affascinanti, erano il bersaglio di femmine esigenti e quindi generavano piú facilmente una prole con una sensibilità artistica. Negli incontri fra un ragazzo e una ragazza, forse era il talento artistico a determinare se il ragazzo tornava a casa da solo.
In tempi piú recenti, lo psicologo Geoffrey Miller, e anche il filosofo Denis Dutton, hanno sviluppato ulteriormente questa prospettiva, suggerendo la possibilità che le capacità artistiche umane siano un indicatore di fitness che le femmine giudiziose esaminano con cura12. I manufatti realizzati sapientemente, le esibizioni creative e le prestazioni vigorose dimostrano non solo che la mente e il corpo funzionano alla perfezione, ma anche che l’artista è abbondantemente dotato di tutto il necessario per la sopravvivenza. Dopo tutto, prosegue il ragionamento, è solo grazie al possesso di risorse materiali e di prestanza fisica che l’artista poteva concedersi la stravaganza di investire tempo ed energia per attività prive di un valore di sopravvivenza (gli artisti del Pleistocene, a quanto pare, erano tutt’altro che denutriti). Secondo questa visione, le imprese artistiche sono una strategia commerciale di autopromozione che porta a unioni fra artisti talentuosi e compagne giudiziose che generano figli molto probabilmente dotati di tratti simili.
La selezione sessuale come motore evolutivo dell’attività artistica umana è interessante, però ha prodotto piú conflitti che accordi. Le questioni sollevate dai ricercatori sono molte. Il talento artistico è un segnale preciso di salute fisica? È possibile che le capacità artistiche siano tanto intrecciate con l’intelligenza pura e la creatività, qualità che hanno un incontestabile valore di sopravvivenza, che le inclinazioni artistiche si diffondono attraverso la selezione naturale senza che sia necessario tirare in ballo la selezione sessuale? Dato che la selezione sessuale si concentra sugli artisti di sesso maschile, come spiega la teoria le attività artistiche delle femmine? Infine, la questione piú problematica: il coinvolgimento pubblico con le attività artistiche durante il Pleistocene è in gran parte oggetto di congetture, cosí come i rituali di corteggiamento e le pratiche di accoppiamento di quell’epoca. Certo, le conquiste di Lucian Freud e Mick Jagger possono essere leggendarie, ma rivelano qualcosa riguardo all’importanza dell’abilità artistica o della presenza scenica per l’accesso riproduttivo fra i primi ominidi? Alla luce di queste preoccupazioni, Brian Boyd ha proposto una sintesi equilibrata: «La selezione sessuale è stata una marcia in piú per l’arte, non il motore stesso»13.
Steven Pinker suggerisce una prospettiva completamente diversa sull’utilità adattiva delle arti. In un brano che è stato citato spesso tanto da sostenitori quanto da detrattori, sostiene che tutte le arti tranne quelle del linguaggio equivalgono a dolci del tutto privi di qualità nutritive serviti a cervelli umani ossessionati dai pattern. Cosí come il cheesecake «comunica una scossa sensoriale che non ha uguali in natura perché è una mistura di megadosi di stimoli gradevoli elaborata con l’esplicito scopo di premere i nostri pulsanti del piacere»14, le arti, secondo Pinker, sono creazioni adattivamente inutili ideate per eccitare artificialmente i sensi umani che si sono evolute per promuovere la fitness dei nostri antenati. Non è un giudizio di valore, infatti i suoi argomenti ben delineati, pieni di allusioni culturali, chiariscono che egli nutre un profondo interesse per le arti. Si tratta invece di una valutazione imparziale della possibilità che le arti abbiano avuto un ruolo in un particolare compito: aumentare la possibilità che nel mondo ancestrale alla generazione successiva fossero trasmessi i geni dei nostri antenati, e non quelli dei loro cugini privi di capacità artistiche, stonati, goffi e gretti. Ed è solo in relazione a questo obiettivo che Pinker sostiene che le arti sono irrilevanti.
L’evoluzione ci ha certamente indotti ad avere una gran quantità di comportamenti volti ad accrescere la nostra fitness biologica, come andare alla ricerca di cibo, assicurarsi compagni, garantirsi la sicurezza, stabilire alleanze, respingere gli avversari e istruire la prole. Sono tutti comportamenti ereditabili che, in media, portarono alla diffusione di un successo riproduttivo maggiore e divennero il meccanismo primario per superare particolari problemi adattivi. Nel plasmare alcuni di questi comportamenti, uno degli incentivi utilizzati dall’evoluzione è stato il piacere: se troviamo piacevoli particolari comportamenti che promuovono la sopravvivenza, è piú probabile che li adottiamo. Grazie alla loro qualità di promozione della sopravvivenza, questi comportamenti renderanno piú probabile che restiate vivo abbastanza a lungo per riprodurvi, dotando le generazioni future di tendenze comportamentali simili. L’evoluzione quindi genera una collezione di anelli di retroazione autorinforzanti che rende piacevoli i comportamenti che accrescono la fitness. Secondo Pinker, le arti interrompono gli anelli di retroazione, dissolvono i benefici adattivi e stimolano direttamente i centri del piacere, producendo esperienze gratificanti che da una prospettiva evolutiva sono immeritate. Come ci fa sentire l’arte è piacevole, ma creare opere d’arte o fare esperienza dell’arte non ci rende piú attraenti o piú in forma. Dal punto di vista della sopravvivenza, le arti sono cibo spazzatura.
La musica è l’esempio primario di Pinker, il genere artistico di cui spiega in maniera piú completa l’irrilevanza adattiva. A suo giudizio, la musica è un parassita uditivo, che sfrutta sensibilità auricolari capaci di evocare emozioni che molto tempo fa offrivano un valore di sopravvivenza ai nostri antenati. Per esempio, i suoni le cui frequenze sono in relazione armonica (frequenze che sono multipli di una stessa frequenza) indicano una fonte unica e potenzialmente identificabile (la fisica elementare rivela che quando un oggetto lineare vibra, che si tratti delle corde vocali di un predatore o di un’arma fatta con un osso cavo, le frequenze vibrazionali tendono a formare una serie armonica). Coloro che fra i nostri antenati reagivano con maggior piacere a suoni cosí organizzati avrebbero prestato loro piú attenzione e cosí sarebbero stati piú consapevoli del proprio ambiente. Questa maggiore consapevolezza avrebbe fatto pendere la bilancia della sopravvivenza a loro favore, aumentando il loro benessere e favorendo lo sviluppo ulteriore della sensibilità uditiva. L’accresciuta ricettività ad altri suoni ricchi di informazioni, dal tuono al rumore di passi o di rami spezzati, avrebbe reso ancora piú acuta l’attenzione e quindi ancora piú intensa la consapevolezza dell’ambiente. Fra i nostri antenati, pertanto, chi era piú sensibile ai suoni possedeva un vantaggio di fitness, che favoriva la diffusione della sensibilità auricolare nelle generazioni seguenti. Secondo Pinker, la musica sfrutta questa sensibilità ai suoni e le fa fare un giro di piacere sensuale che non ha alcun valore adattivo. Cosí come il cheesecake stimola artificialmente la nostra antica preferenza adattiva per alimenti con un elevato contenuto calorico, la musica stimola artificialmente la nostra antica sensibilità adattiva ai suoni con un elevato contenuto informativo.
La giustapposizione pinkeriana di piaceri peccaminosi ed esperienze sublimi fa sobbalzare. È un effetto voluto. Il punto non è svilire la nostra esperienza dell’arte, ma ampliare la nostra assegnazione di significato. Certo, è una grande soddisfazione individuare una base evolutiva per questo o quel comportamento umano, un marchio indelebile di approvazione impresso nel nostro DNA. Quanto è gratificante immaginare che le arti, che molti giudicano fra le conquiste piú eccelse dell’umanità, abbiano avuto una parte essenziale nella sopravvivenza della nostra specie? Per quanto gradevole, tuttavia, non è necessariamente la spiegazione vera. E non è nemmeno essenziale. L’adattamento biologico non è l’unico criterio di valore. Altrettanto meraviglioso è il fatto che riusciamo a elevarci al di sopra delle preoccupazioni per la sopravvivenza e a usare l’immaginazione per esprimere qualcosa di magnifico, inquietante o straziante. Il valore non richiede utilità adattiva. Anni fa, durante una cena di famiglia in un ristorante, quando un cameriere portò un cheesecake a un tavolo vicino, mia madre, che era perennemente a dieta, si sentí obbligata ad alzarsi in piedi per salutare, un gesto di rispetto che può essere rivolto non solo al dolce stesso, ma anche a comportamenti umani diffusi che, nella visione di Pinker, hanno portato alla classificazione adattiva di quel dolce.
3. Immaginazione e sopravvivenza.
Il riconoscimento che le arti non si devono vergognare della mancanza di utilità adattiva non ha dissuaso i ricercatori dal continuare a cercare spiegazioni darwiniane dirette della loro persistenza e onnipresenza, ossia spiegazioni che tentano di collegare direttamente le attività artistiche alla sopravvivenza dei nostri antenati. Partecipando a questa ricerca, l’antropologa Ellen Dissanayake ha sottolineato la necessità di considerare le arti nel modo in cui venivano praticate in contesti ancestrali, sostenendo che in tutta la storia umana né l’arte né la religione sono state diversivi extracurricolari «a cui dedicarsi una mattina alla settimana, o quando non si aveva nulla di meglio da fare, e non erano nemmeno passatempi inutili che si potevano rifiutare del tutto»15. Che si trattasse di scendere nelle profondità del mondo sotterraneo per adornare la parete di una grotta o di suonare tamburi, cantare e danzare sfrenatamente in una trance ultraterrena, l’arte, come la religione, era intessuta nell’arazzo dell’esistenza di quei tempi remoti. E in ciò sta un potenziale ruolo adattivo.
Se gli alieni avessero visitato la Terra nel Paleolitico e avessero scommesso su chi sarebbe stato il numero uno milioni di anni piú tardi, forse pochi avrebbero puntato sul genere Homo. Eppure, mettendo in comune muscoli e cervelli, siamo riusciti a prevalere su altre forme di vita piú grandi, piú forti e piú veloci, e anche su quelle dotate di un olfatto, di una vista e di un udito piú raffinati. Abbiamo trionfato perché siamo intraprendenti e creativi, certo, ma soprattutto perché siamo eccezionalmente sociali. Nei capitoli precedenti abbiamo discusso un certo numero di meccanismi, dalla narrazione di storie alla religione alla teoria dei giochi, che potrebbero aver facilitato la nostra capacità di riunirci in gruppi produttivi. Essendo però questo comportamento tanto complesso quanto influente, la ricerca di un’unica spiegazione potrebbe essere troppo limitata. Per le nostre tendenze sociali vincenti potrebbero essere state importanti varie combinazioni di questi meccanismi e, come hanno suggerito Dissanayake e altri ricercatori, all’elenco delle influenze prosociali si dovrebbe aggiungere l’arte.
Se voi e io siamo certi che ciascuno capirà e prevedrà le risposte emotive dell’altro – anche quando affrontiamo difficoltà sconosciute o perseguiamo nuove opportunità –, è piú probabile che collaboreremo con successo. Le arti potrebbero essere state essenziali per raggiungere questo obiettivo. Se voi, io e altri del nostro gruppo partecipassimo frequentemente alle stesse esperienze artistiche ritualizzate, sentendoci uniti dal ritmo energico, dalla melodia e dal movimento, l’unità di questi viaggi emotivi cosí intensi creerebbe un senso di solidarietà comune. Chiunque abbia preso parte a lunghe sessioni in cui si suonano tamburi, si canta o ci si muove in gruppo, conosce questa sensazione; se non avete mai partecipato a nulla di simile, vi consiglio caldamente di farlo. Per quanto intensi e apparentemente forzati, questi episodi di condivisione delle emozioni avrebbero permesso ai nostri antenati di unirsi in modo piú convinto. Come ha messo in rilievo Noël Carroll, un filosofo che è anche stato all’avanguardia nello sviluppo di queste idee, «L’arte ha sempre suscitato e plasmato le emozioni in un modo che lega e inculca in coloro che sono sotto la sua influenza la sensazione di essere partecipi di una cultura»16. E infatti il concetto stesso di cultura – un insieme ampiamente condiviso di tradizioni, usanze e prospettive – si basa su un patrimonio comune di pratiche ed esperienze artistiche. I membri di gruppi con una simile sintonia emotiva avevano una probabilità maggiore di sopravvivere e di trasmettere alle generazioni successive una tendenza genetica ad avere tali comportamenti.
Se la coesione di gruppo non vi ha convinto come spiegazione adattiva della religione, forse non vi convince nemmeno come spiegazione adattiva dell’arte. Come nella discussione sulla religione, però, non dobbiamo concentrarci esclusivamente sui gruppi. L’arte potrebbe aver avuto un’utilità adattiva a livello del singolo individuo, una prospettiva che trovo particolarmente convincente. Le arti forniscono un’arena che non è vincolata dalle restrizioni della verità assoluta e della realtà fisica di tutti i giorni, permettendo alla mente di saltare, contorcersi e fare acrobazie mentre esplora ogni sorta di novità immaginata. Una mente che si attiene con costanza a ciò che è vero è una mente che esplora un ambito di possibilità del tutto limitato. Una mente che invece si abitua a superare liberamente il confine tra ciò che è reale e ciò che è immaginario – non perdendo mai di vista la distinzione – è una mente che diventa esperta a spezzare i vincoli del pensiero convenzionale. Una mente simile è pronta per l’innovazione e l’inventività. La storia lo rende evidente. Dobbiamo molti progressi importanti della scienza e della tecnologia a un insieme di individui che sono stati capaci di considerare gli stessi problemi che avevano confuso generazioni di pensatori precedenti con una tale flessibilità di pensiero da riuscire a vederli in maniera diversa.
Il passo fondamentale di Einstein verso la relatività non fu ispirato da nuovi esperimenti o nuovi dati. Stava lavorando su fatti – riguardanti l’elettricità, il magnetismo e la luce – che erano già ben noti. L’audace mossa di Einstein fu liberarsi dall’assunto tradizionale della costanza dello spazio e del tempo, che imponeva alla velocità della luce di variare, e immaginare che fosse invece la velocità della luce a essere costante, il che richiedeva che variassero lo spazio e il tempo. Questo riassunto fin troppo sintetico non vuole essere una spiegazione della relatività (a questo proposito, rimando i lettori, per esempio, al capitolo II de L’universo elegante), ma piuttosto sottolineare che la scoperta si basò sull’immaginazione di un nuovo ma fondamentale assetto dei mattoncini Lego della realtà, un’inversione di pattern simbolici tanto familiari che la mente della maggior parte degli studiosi trascurava del tutto la possibilità. È una varietà di manovra mentale che riecheggia i massimi livelli della composizione artistica. Secondo la valutazione del celebre pianista Glenn Gould, il genio di Bach è dimostrato dalla sua capacità di concepire linee melodiche che, anche se «trasposte, invertite, retrogradate o trasformate sul piano ritmico, presentano sempre […] un profilo del tutto nuovo ma perfettamente armonioso»17. Il genio di Einstein si basava su una capacità simile, e parimenti straordinaria, di riconfigurare le componenti elementari della comprensione, considerando in modo nuovo concetti che venivano esaminati minuziosamente da decenni, se non da secoli, e di combinarli secondo uno schema nuovo. Il fatto che Einstein descrivesse il suo processo intellettuale come un pensare in musica e che spesso si basasse sull’esplorazione visiva senza equazioni e senza parole forse non è poi cosí sorprendente. L’arte di Einstein consisteva nel sentire ritmi e vedere pattern che rivelavano una profonda unità nei meccanismi della realtà.
Né la relatività di Einstein né le fughe di Bach sono della stessa sostanza di cui è fatta la sopravvivenza, ma l’una e le altre sono esempi perfetti delle capacità umane che sono state essenziali per il prevalere della nostra specie. Il legame fra attitudine scientifica e risoluzione di problemi della vita reale può essere piú evidente, ma le menti che ragionano usando analogie e metafore, le menti che rappresentano usando colori e strutture, le menti che immaginano usando melodie e ritmi sono menti che coltivano un paesaggio cognitivo piú rigoglioso. Tutto ciò solo per dire che le arti potrebbero essere state vitali per sviluppare la flessibilità del pensiero e la fluidità dell’intuizione di cui avevano bisogno i nostri lontani parenti per costruire la lancia, inventare la cottura, sfruttare la ruota e, in seguito, scrivere la Messa in si minore e, piú tardi ancora, incrinare la nostra rigida prospettiva sullo spazio e sul tempo. Per centinaia di migliaia di anni, le attività artistiche potrebbero essere state il parco giochi della cognizione umana, offrendo un’arena sicura per allenare le capacità immaginative infondendovi una forte facoltà di innovazione.
Si noti inoltre che i ruoli adattivi dell’arte che abbiamo considerato – affinare l’innovazione e rafforzare i legami sociali – lavorano in tandem. L’innovazione è il soldato di fanteria della creatività. La coesione di gruppo è l’esercito della realizzazione. Il successo nella lotta incessante per la sopravvivenza richiede l’una e l’altra: idee creative che siano realizzate nel modo corretto. La posizione delle arti al centro di entrambe suggerisce un ruolo adattivo al di là dello scopo di premere i pulsanti del piacere. Certo, è possibile che le arti siano un sottoprodotto adattivamente irrilevante e tuttavia profondamente piacevole di un grosso cervello che ospita una mente creativa, ma per molti ricercatori questa ipotesi non tiene in debito conto la capacità dell’arte di scolpire la nostra interazione con la realtà. Brian Boyd ha chiarito questo punto in poche parole: «Raffinando e rafforzando la nostra socialità, rendendoci piú pronti a usare le risorse dell’immaginazione e piú sicuri nel plasmare la vita in base ai nostri criteri, l’arte modifica in maniera fondamentale la nostra relazione con il mondo»18.
Personalmente, prediligo l’idea che l’affinamento della capacità inventiva, l’esercizio della creatività, l’ampliamento delle prospettive e la costruzione della coesione forniscano un modello dell’importanza delle arti per la selezione naturale. In questa concezione, le arti si uniscono al linguaggio, alla narrazione di storie, al mito e alla religione come mezzi attraverso i quali la mente umana pensa simbolicamente, usa ragionamenti controfattuali, immagina liberamente e lavora in maniera collaborativa. Nel corso del tempo, sono state queste capacità a dare origine al nostro mondo culturalmente, scientificamente e tecnologicamente ricco. In ogni caso, anche se la vostra opinione sul ruolo evolutivo dell’arte ve la fa considerare simile a un dolce cremoso, possiamo certamente concordare sul fatto che una miriade di forme artistiche è stata una presenza costante e apprezzata in tutta la storia umana. Ciò significa che le vite interiori e gli scambi sociali hanno adottato modalità di interazione che non danno molta importanza alle informazioni fattuali trasmesse mediante il linguaggio.
Che cosa rivela tutto ciò riguardo al rapporto fra arte e verità?
4. Arte e verità.
Una ventina d’anni fa, in una di quelle splendide giornate di sole autunnali con le foglie degli alberi che virano al rosso e all’arancio, mentre guidavo in autostrada da New York a casa dei miei fuori città, mi attraversò la strada un cane che mi parve saltar fuori dal nulla. Frenai bruscamente, ma un attimo prima che l’auto si fermasse del tutto sentii un rumore sordo seguito subito dopo da un altro e capii che le ruote anteriori e poi quelle posteriori erano passate sopra il cane. Saltai fuori dall’auto, sollevai il cane, che era sveglio, ma si muoveva a malapena, e lo sistemai sul sedile del passeggero e partii a gran velocità imboccando una strada di campagna alla ricerca di un veterinario. Di lí a pochi minuti, il cane riuscí in qualche modo a rizzarsi sulle zampe. Gli posai delicatamente una mano sulla testa, ma il cane, accasciandosi, mi bloccò la mano contro il sedile. Mi fermai. Il cane mi fissava con gli occhi sbarrati. Mi sembrò che provasse una combinazione di dolore, terrore e rassegnazione. A quel punto, premendomi ancora piú forte la mano con il corpo, come se non potesse sopportare di andarsene da solo, morí.
Avevo avuto animali che erano morti, ma quella morte fu diversa. Improvvisa. Violenta. Con il tempo, lo shock passò, ma gli ultimi momenti mi sono rimasti impressi. Il mio sé razionale sa che attribuisco un significato eccessivo a un evento increscioso ma fin troppo comune. Tuttavia il passaggio dalla vita alla morte di un animale incontrato per caso e morto per mano mia, sebbene accidentalmente, mi fece un effetto inquietante e inatteso. Portava con sé un certo tipo di verità. Non una verità proposizionale. Non un dato di fatto. Nulla che potessi misurare in un modo significativo. In quel momento, però, avvertii un leggero cambiamento nella mia percezione del mondo.
Posso individuare un piccolo insieme di altre esperienze che, ciascuna a suo modo, mi hanno fatto provare una sensazione simile. Stringere per la prima volta tra le braccia il mio primo figlio; rannicchiarmi in un anfratto roccioso sulle colline fuori Los Angeles mentre infuriava una tempesta di vento; ascoltare l’assolo di canto della mia bambina durante un incontro scolastico; riuscire improvvisamente a risolvere un’equazione che resisteva da mesi ai miei tentativi; osservare dalle sponde del fiume Bagmati una famiglia nepalese che procedeva alla cremazione rituale della salma di un parente deceduto; scendere lungo una pista nera – piú che sciando, rotolando – a Trondheim e in qualche modo arrivare in fondo vivo. Voi avrete il vostro elenco personale, come tutti. Esperienze che sequestrano la nostra attenzione e suscitano risposte emotive a cui diamo valore anche in mancanza – o forse per la mancanza – di una descrizione pienamente razionale o linguistica. La cosa curiosa, benché probabilmente comune, è che mentre il mio metodo di lavoro si basa completamente sul linguaggio, non provo alcun bisogno di esplorare queste esperienze con le parole. Quando le penso, non avverto una mancanza di comprensione che richiede un chiarimento linguistico. Sono esperienze che espandono il mio mondo senza bisogno di un’interpretazione. In quei momenti il mio narratore interiore sa che è tempo di fare una pausa. Una vita esaminata non è necessariamente una vita espressa a parole.
L’arte piú interessante può indurre in noi stati mentali e corporei sublimi paragonabili a quelli prodotti dai nostri incontri piú emozionanti nel mondo reale, plasmando e migliorando in modo simile il nostro coinvolgimento con la verità. La discussione, l’analisi e l’interpretazione possono modellare ulteriormente queste esperienze, ma le piú potenti non dipendono da un intermediario linguistico. Di fatto, anche nel caso delle arti basate sul linguaggio, sono le immagini e le sensazioni, nelle esperienze piú toccanti, a lasciare il segno piú duraturo. Come descritto con eleganza dalla poetessa Jane Hirshfield, «Quando uno scrittore introduce nel linguaggio una nuova immagine perfetta, la parte conoscibile dell’esistenza si espande»19. Anche il premio Nobel Saul Bellow ha sottolineato la singolare capacità dell’arte di ampliare la sfera del conoscibile: «Soltanto l’arte penetra le barriere che orgoglio, passione, intelligenza e abitudine erigono da ogni lato: le realtà apparenti di questo mondo. C’è un’altra realtà, la realtà autentica, che tendiamo a perdere di vista. Quest’altra realtà ci manda segnali precisi che, senza l’arte, non saremmo in grado di cogliere». E senza quell’altra realtà, osserva Bellow, seguendo alcune riflessioni di Proust, l’esistenza si riduce a una «terminologia per fini pratici che noi erroneamente chiamiamo vita»20.
La sopravvivenza dipende dall’accumulare informazioni che descrivono accuratamente il mondo. Il progresso, nel suo significato tradizionale di aumento del controllo sul nostro ambiente, richiede la chiara comprensione di come si integrano questi fatti nel funzionamento del mondo. Sono queste le materie prime per realizzare i fini pratici. Sono la base di ciò che etichettiamo come verità oggettiva e spesso associamo alla comprensione scientifica. Tuttavia questa conoscenza, per quanto ampia possa essere, non potrà mai fornire un resoconto esauriente dell’esperienza umana. La verità artistica riguarda un livello diverso; racconta una storia di livello superiore, che nelle parole di Joseph Conrad «parla a quella parte del nostro essere che non dipende dalla saggezza» e fa appello invece
alla nostra capacità di gioia e di meraviglia, al senso di mistero che circonda le nostre vite, al nostro senso della pietà, della bellezza e del dolore, al latente sentimento di comunione con tutto il creato […] nei sogni, nel piacere, nella tristezza, nelle aspirazioni, nelle illusioni, nella speranza, nella paura […] che lega assieme tutta l’umanità – i morti ai vivi e i vivi a quelli che nasceranno21.
Liberato dalla rigida verosimiglianza e sviluppandosi nel corso dei millenni, l’istinto creativo ha ampiamente esplorato la gamma emotiva che caratterizza la concezione di Conrad del viaggio artistico e fornisce il vernacolo in cui la realtà autentica di Bellow ci manda i suoi sussurri da dietro l’angolo. Gli scrittori, in particolare, hanno creato mondi su mondi di personaggi le cui vite immaginarie forniscono analisi raffinate dell’impegno umano. Ulisse e il periglioso percorso di vendetta e fedeltà, Lady Macbeth e le grinfie dell’ambizione e della colpa, Holden Caulfield e l’irrefrenabile istinto di ribellione, Atticus Finch e il potere del tranquillo ma incrollabile eroismo, Emma Bovary e le tragedie dei rapporti umani, Dorothy e la strada tortuosa della scoperta di sé stessi – le intuizioni offerte da queste opere sulle varietà dell’esperienza, le verità artistiche che sviluppano, aggiungono ombre e dimensioni a una descrizione altrimenti approssimativa della natura umana.
Le opere visive e musicali, in cui il linguaggio non è fondamentale, forniscono esperienze che sono piú impressionistiche e tuttavia, come i loro equivalenti letterari, se non di piú, possono suscitare le medesime emozioni che, come descritto da Conrad, stanno al di là della saggezza; le voci che popolano la realtà autentica di Bellow ci parlano in vari modi. Non riesco ad ascoltare la Totentanz di Franz Liszt senza provare un brutto presentimento viscerale; la Terza sinfonia di Brahms evoca in me un profondo desiderio insoddisfatto; la Ciaccona di Bach è un’apoteosi del sublime; l’Inno alla gioia alla fine della Nona sinfonia di Beethoven è per me, e naturalmente anche per gran parte del mondo, tra le piú ottimistiche dichiarazioni che siano mai state fatte dalla nostra specie. Volendo considerare anche le canzoni, Hallelujah di Leonard Cohen loda la vita imperfetta con impareggiabile sincerità; la semplice e mirabile interpretazione di Judy Garland di Over the Rainbow coglie le aspirazioni pure della gioventú; Imagine di John Lennon incarna il semplice potere di immaginare il possibile.
Oltre ai momenti particolari che hanno punteggiato la nostra vita, tutti noi possiamo richiamare alla mente opere d’arte – letterarie o cinematografiche, sculture o coreografie, dipinti o musiche – che in un modo o nell’altro ci hanno commosso. Grazie a queste esperienze affascinanti consumiamo «megadosi» di qualità essenziali della vita umana su questo pianeta. Lungi però dall’essere «calorie vuote», questi incontri sublimi forniscono intuizioni che altrimenti sarebbe difficile se non impossibile avere.
Il paroliere Yip Harburg, autore di molti classici tra cui Over the Rainbow, l’ha detto in parole semplici: «Le parole ti fanno pensare un pensiero. La musica ti fa percepire una sensazione. Ma una canzone ti fa percepire un pensiero»22. Percepire un pensiero. Per me, queste parole colgono l’essenza della verità artistica. Come ha sottolineato Harburg, pensare un pensiero è un processo intellettuale, percepire una sensazione è un processo emotivo, ma «percepire un pensiero è un processo artistico»23. È un’osservazione che poggia sul collegamento fra linguaggio e musica, ma in realtà unisce le arti piú in generale. Le risposte emotive suscitate dall’arte si propagano in tutto il serbatoio del pensiero frenetico che sta al di sotto della consapevolezza cosciente. Nel caso di opere senza parole, queste esperienze sono meno dirette e le sensazioni piú indeterminate. Tutta l’arte ha però la capacità di farci percepire pensieri, producendo una varietà di verità a cui sarebbe improbabile arrivare sulla base di una riflessione cosciente o di un’analisi dei fatti. È una varietà di verità che sta davvero al di là della saggezza. Al di là della ragione pura. Al di là della portata della logica. Al di là della necessità di una dimostrazione.
Sia chiaro: siamo tutti, mente e corpo, collezioni di particelle e i fatti fisici relativi alle particelle rendono pienamente conto del loro modo di interagire e di comportarsi. Tuttavia questi fatti – la narrazione a livello elementare – gettano soltanto una luce monocromatica sulle storie multicolori di come noi esseri umani esploriamo i mondi complessi del pensiero, della percezione e dell’emozione. E quando le nostre percezioni mescolano pensieri ed emozioni, quando percepiamo pensieri oltre a pensarli, la nostra esperienza fa un altro passo al di là dei confini della spiegazione meccanicistica. Accediamo a mondi altrimenti sconosciuti. Come sottolineato da Proust, è qualcosa da festeggiare: soltanto attraverso l’arte possiamo entrare nell’universo segreto di un altro, l’unico viaggio in cui voliamo davvero di stella in stella, un viaggio che non si può compiere con mezzi diretti e coscienti24.
Anche se concentrata sulle arti, la prospettiva di Proust riecheggia quella che da tanto tempo è la mia personale interpretazione della fisica moderna. Secondo Proust, l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi, nel vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri25. Da secoli noi fisici ci basiamo sulla matematica e sugli esperimenti per rimodellare i nostri occhi, in modo che rivelino strati di realtà non trattati dalle generazioni passate e ci permettano di vedere panorami familiari in modi sorprendentemente nuovi. Con questi strumenti, abbiamo scoperto che le terre piú strane sono emerse esaminando con grande attenzione gli stessi regni in cui abitiamo da tempo. Ciò nonostante, per acquisire questa conoscenza e utilizzare il potere della scienza piú in generale, dobbiamo seguire la direttiva irremovibile di guardare al di là dei modi particolari di interpretare il mondo di ciascuna delle nostre diverse collezioni di molecole e cellule e di concentrarsi sulla qualità oggettiva della realtà. Quanto al resto, le verità fin troppo umane, le nostre storie annidate si basano sull’arte. Come disse George Bernard Shaw, «Si usa lo specchio per guardarsi il viso, l’arte per guardarsi l’anima»26.
5. Immortalità poetica.
Non di rado mi domandano quale sia il singolo fatto dell’universo che trovo piú strabiliante. Non rispondo sempre nello stesso modo. Talvolta suggerisco la malleabilità del tempo nella relatività e in altre occasioni l’entanglement quantistico, ciò che Einstein chiamava l’«inquietante azione a distanza». Qualche volta, però, scelgo la semplicità e indico un fatto che la maggior parte di noi ha incontrato per la prima volta alle scuole elementari. Quando guardiamo il cielo di notte, vediamo le stelle cosí com’erano migliaia di anni fa. Usando telescopi potenti, vediamo oggetti astronomici molto piú distanti cosí com’erano milioni o miliardi di anni fa. Alcune di queste sorgenti astronomiche possono essere morte da tempo, eppure continuiamo a vederle perché la luce che emisero tanto tempo fa è ancora in viaggio. La luce dà un’illusione di presenza. E non solo nel caso delle stelle. Fasci riflessi di radiazione che viaggiano indisturbati trasportano la vostra impronta e la mia attraverso un’arbitraria distesa di spazio e di tempo, un’immortalità poetica che sfreccia nell’universo alla velocità della luce.
Qui sulla Terra l’immortalità poetica assume un’altra forma. Il desiderio di conservare la vita finché si vuole non è stato soddisfatto, almeno non finora e forse non succederà mai. Ma la mente creativa, capace di vagare liberamente per mondi immaginari, può esplorare l’immortalità, perlustrare l’eternità e meditare sul motivo per cui possiamo ricercare, disprezzare o temere un tempo infinito. È ciò che fanno gli artisti da millenni. All’incirca 2500 anni fa, la poetessa greca Saffo lamentava l’inevitabilità del cambiamento – «Onorate, o fanciulle, gli splendidi doni delle Muse cinte di viole! | Danzate sul ritmo di cetra sonora amante del canto! | A me invece vecchiezza il corpo ha corrotto, | già delicato» –, temperata dall’avvertimento di Titono, un essere umano a cui era stata concessa l’immortalità, ma che era comunque soggetto ai danni prodotti dal tempo e quindi destinato a sopportarli in eterno. Uno degli ultimi versi, che secondo alcuni studiosi è il vero finale, «e a me Eros ha concesso lo splendore del sole e la bellezza», suggerisce che con il suo appassionato attaccamento alla vita, espresso attraverso la poesia, Saffo si aspettava di trascendere il decadimento e ottenere uno splendore senza età; attraverso la poesia, immaginava di raggiungere un’immortalità simbolica27.
È una variante dello schema di negazione della morte in base al quale noi esseri mortali cerchiamo di continuare a vivere grazie a imprese eroiche, opere creative o contributi fondamentali. La portata di questa immortalità richiede una correzione antropocentrica, dall’eternità alla durata della civiltà – un costo significativo, compensato però dal riconoscimento che, a differenza della corrispondente versione letterale, la versione simbolica dell’immortalità è reale. L’unico problema è un problema di strategia. Quali vite saranno ricordate? Quali opere dureranno? E come garantire che la nostra vita e le nostre opere siano tra queste?
Un paio di millenni dopo Saffo, Shakespeare meditò sul ruolo dell’arte e degli artisti nel plasmare ciò che il mondo ricorda. Trattando l’argomento di un epitaffio che immagina di comporre, Shakespeare osserva che «saranno morti quelli che ora respirano al mondo, e tu vivrai ancora – è questa la virtú della mia penna», ma di questo vantaggio egli non potrà godere: «Da qui il tuo nome avrà vita immortale anche se io, scomparso, sarò morto al mondo». Ovviamente, noi partecipiamo al progetto di Shakespeare: poiché saranno le parole del poeta a essere lette e recitate, il soggetto dell’epitaffio non è che un mezzo che permette al poeta di raggiungere l’immortalità, anche se soltanto simbolicamente. Di fatto, secoli dopo, Shakespeare continua a vivere.
Dopo aver abbandonato il circolo di Freud a Vienna, Otto Rank sviluppò la tesi che la ricerca dell’immortalità simbolica è un motore primario del comportamento umano. Nella concezione di Rank, l’impulso artistico riflette la mente che si assume la responsabilità del proprio destino, ha il coraggio di rielaborare il mondo e si lancia nel progetto permanente di plasmare il proprio peculiare sé. L’artista procede verso la salute psichica accettando la mortalità – siamo destinati a morire, punto e basta, fatevene una ragione – e trasferendo la sete di eternità in una forma simbolica trasmessa da opere creative. Questa prospettiva getta una luce diversa sull’immagine stereotipata dell’artista tormentato. Secondo Rank, affrontare la mortalità attraverso la creazione artistica è la via che conduce alla sanità mentale. O, secondo una descrizione simile dello scrittore e critico Joseph Wood Krutch: «L’uomo ha bisogno di eternità, come attesta l’intera storia delle sue aspirazioni; ma quella dell’arte è, con ogni probabilità, l’unica eternità che raggiungerà mai»28.
È possibile che questa dinamica fosse in azione decine di migliaia di anni fa (il che farebbe luce sul motivo per cui i nostri antenati deviavano l’energia verso attività non legate all’esigenza immediata di trovare sostentamento e riparo)? Questa dinamica potrebbe spiegare perché nei millenni le attività artistiche sono sempre state i fili fondamentali della trama di tutte le culture umane? Sí e sí. Che la visione onnicomprensiva di Rank centri o no il bersaglio, possiamo facilmente immaginare che i nostri remoti antenati si rendessero conto della propria natura mortale e desiderassero aggrapparsi al proprio mondo e imprimervi qualcosa di iconico, qualcosa di loro creazione, qualcosa che durasse nel tempo. Possiamo ben immaginare che quell’impulso interrompesse la concentrazione altrimenti assidua sulla sopravvivenza e nel corso del tempo venisse rafforzato e affinato dal piacere collettivo di unirsi all’artista in mondi immaginari scaturiti dalla mente umana.
Mentre la scarsità di prove riduce l’analisi del nostro passato remoto a un insieme di congetture plausibili, oggi nell’epoca moderna incontriamo una dopo l’altra opere che riflettono a fondo sulla mortalità e sull’eternità29. Walt Whitman ha considerato l’intollerabilità di attribuire un carattere definitivo alla morte: «Sospetti della morte? Se sospettassi della morte morirei ora. | Pensi che potrei camminare in modo gradevole e adeguato verso l’annichilimento? […] | Giuro io penso non esista che l’immortalità!»30. Per William Butler Yeats, l’antica Bisanzio era una città in cui avrebbe potuto essere liberato dalla sua forma fisica morente, dalle preoccupazioni umane, e avere il permesso di entrare in un regno senza tempo: «Consumate del tutto il mio cuore; malato di desiderio | E legato a un animale mortale,| Non sa quello che è; e accoglietemi | Nell’artificio dell’eternità»31. Herman Melville mise in chiaro che la mortalità naviga insieme a noi anche quando le acque agitate sembrano essersi calmate: «Tutti sono nati con capestri intorno al collo; ma è solamente quando vengono presi nel rapido, fulmineo giro della morte, che i mortali diventano consci dei muti, sottili, onnipresenti pericoli della vita»32. Edgar Allan Poe portò all’estremo la negazione della morte dando voce alle vittime di una sepoltura prematura che respingono l’intimo abbraccio della morte: «Urlai terrorizzato: affondai le unghie nelle cosce, ferendomi; la bara era inzuppata del mio sangue e graffiando le pareti di legno della mia prigione con lo stesso atteggiamento maniacale mi lacerai le dita e mi consumai le unghie fino al vivo, a quel punto non riuscendo piú a muovermi per la stanchezza»33. Tennessee Williams fa notare al patriarca Big Daddy Pollitt che «ignorare [la mortalità] è una consolazione. Un uomo non ha quella consolazione, è l’unico essere vivente che concepisce la morte» e, di conseguenza, «se ha soldi compra compra e compra e penso che il motivo per cui compra tutto ciò che può è che in fondo alla sua mente ha la folle speranza che uno dei suoi acquisti duri per tutta la vita!»34.
Dostoevskij, attraverso il suo personaggio Arkadij Svidrigajlov, diede voce a un’altra prospettiva, che esprime fastidio per il rispetto che l’eternità incute:
Noi ci rappresentiamo sempre l’eternità come un’idea che non possiamo comprendere, come una cosa immensa, immensa. Ma perché dovrebbe essere immensa? E se poi ci fosse lassú una stanzetta, simile a una rustica stanzetta da bagno affumicata, e in tutti gli angoli ci fossero tanti ragni! Se l’eternità non fosse altro che questo! Io, sapete, a volte me la figuro cosí!35.
È lo stesso sentimento espresso da Sylvia Plath, «Oh Dio, io non sono come te | nel tuo nero vacuo, | pieno zeppo di stelle, sciocchi coriandoli di luce. | L’eternità mi annoia, | non l’ho mai voluta»36, e ripreso in modo spensierato da Douglas Adams attraverso un personaggio accidentalmente immortale, Wowbagger l’Eterno Prolungato, che progetta di affrontare la noia profonda che lo affligge insultando sistematicamente tutti gli abitanti dell’universo, uno per uno, in ordine alfabetico37.
Questa varietà di atteggiamenti, dalla bramosia al disprezzo, dimostra la questione piú generale: il nostro riconoscimento del tempo limitato che ci è assegnato ha stimolato un interesse artisticamente vivace per il concetto di eternità. La vita esaminata esamina la morte. E per alcuni esaminare la morte vuol dire lasciare libera l’immaginazione di contestare il suo predominio, mettere in discussione la sua preminenza ed evocare regni che stanno al di fuori della sua portata. A prescindere dalle animate discussioni dei ricercatori sull’utilità evolutiva dell’arte, sul suo ruolo nella costruzione della coesione sociale, sul suo bisogno di pensiero innovativo e sulla sua presenza nel pantheon degli impulsi primari, l’arte fornisce il nostro strumento piú evocativo per dare espressione alle cose che giudichiamo piú importanti – e tra queste vi sono la vita e la morte, il finito e l’infinito.
Per molti, me compreso, le piú concentrate di queste espressioni sono fornite dalla musica. La musica può offrire un’immersione cosí completa che nel giro di pochi istanti ci sembra di essere finiti al di là del tempo. Il violoncellista e direttore d’orchestra Pablo Casals descrisse il potere della musica di «permeare attività ordinarie di fervore spirituale, di dare ali d’eternità a ciò che è piú effimero»38. È un fervore che ci fa sentire parte di qualcosa di piú grande, qualcosa che conferma a livello viscerale l’«invincibile convincimento di una solidarietà che unisce la solitudine di innumerevoli cuori»39 di Conrad.
Alla fine degli anni Sessanta, alla William Sherman School di Manhattan, la signora Gerber assegnò ai suoi alunni di terza elementare il compito di intervistare un adulto di loro scelta e scrivere una breve relazione spiegando l’occupazione dell’intervistato. Scelsi la via piú facile e intervistai mio padre – un musicista e compositore che amava citare come suo imprimatur accademico un «SPhD» (Seward Park High School dropout): a metà del secondo anno delle superiori aveva abbandonato gli studi e si era messo in viaggio, cantando, suonando ed esibendosi in giro per il paese. Sono passati piú di cinquant’anni da quel compito delle elementari, ma una delle cose che mio padre menzionò mi è rimasta impressa. Quando gli domandai perché avesse scelto la musica, mi rispose: «Per tenere lontana la solitudine». Poi passò rapidamente a qualcosa di piú gioioso, piú adatto a una relazione di uno scolaro di otto anni, ma quel momento senza censure fu rivelatore. La musica era la sua ancora di salvezza. Era la sua versione della solidarietà di Conrad.
Pochi compositori commuovono il mondo. Mio padre non faceva parte di questo gruppo, un doloroso dato di fatto che lentamente imparò ad accettare. Le melodie e i ritmi scritti a mano su centinaia di pagine ingiallite, molte risalenti a prima della mia nascita, oggi sono di scarso interesse per chiunque non faccia parte della nostra famiglia. Forse sono l’unica persona rimasta che di tanto in tanto ascolta ancora le ballate, le canzoni e i pezzi per pianoforte composti da mio padre già negli anni Quaranta e Cinquanta. Per me, queste composizioni sono un tesoro, un collegamento che mi permette di sentire i pensieri di mio padre quando stava appena iniziando a farsi strada nel mondo.
La musica ha lo straordinario potere di creare una connessione profonda anche tra persone che non hanno legami familiari, che vivono in epoche diverse o in mondi diversi. Una descrizione commovente è stata data da Helen Keller, che appartiene alla schiera degli eroi singolari della storia. Il 1° febbraio 1924, la stazione radio WEAF di New York trasmise in diretta l’esecuzione della Nona sinfonia di Beethoven da parte della New York Symphony Orchestra. A casa, Helen Keller pose le mani sulla membrana vibrante della cassa audio e attraverso le vibrazioni riuscí a sentire la musica, a percepire quella che definí la «sinfonia immortale», riuscendo addirittura a distinguere i singoli strumenti. «Quando la voce umana emerse trillante dall’ondata di armonia, le riconobbi istantaneamente come voci. Sentii il coro diventare piú esultante, piú estatico, curvarsi verso l’alto rapido come una fiamma, fino a quando il mio cuore quasi si fermò». Poi, parlando di suoni che toccano l’anima, di musica che riverbera per l’eternità, conclude:
Mentre ascoltavo, con il buio, la melodia, l’ombra e il suono che riempivano tutta la stanza, non potei fare a meno di ricordare che il grande compositore che riversò nel mondo una tale marea di dolcezza era sordo come me. Mi meravigliai della forza del suo spirito insaziabile grazie alla quale dal suo dolore riuscí a generare una tale gioia per gli altri – e restai seduta, sentendo con le mani la magnifica sinfonia che si infrangeva come un mare sulle sponde mute della sua anima e della mia40.
Capitolo nono
Durata e impermanenza
Dal sublime all’ultimo pensiero
Tutte le culture hanno un concetto di ciò che è atemporale, una rappresentazione condivisa e rispettata della permanenza. Anime immortali, storie sacre, divinità illimitate, leggi eterne, arte trascendente, teoremi matematici. Tuttavia la permanenza, che comprende categorie che vanno dall’ultraterreno all’astratto, è qualcosa che noi esseri umani desideriamo ardentemente ma non raggiungiamo mai. I momenti in cui ci andiamo piú vicini – provando la sensazione che il tempo sia scivolato via, che sia per effetto di un incontro tragico o entusiasmante, della meditazione o di una sostanza chimica, di un’esperienza artistica o dell’esaltazione religiosa – possono procurarci le esperienze piú formative della vita.
Decenni fa, insieme ad altri otto adolescenti, partecipai a un corso di sopravvivenza nelle foreste del Vermont. Una volta, nel mezzo della notte, mentre dormivamo tutti nelle nostre tende, gli istruttori ci svegliarono urlando di alzarci e vestirci alla svelta. Partimmo per un’escursione notturna improvvisata. Tenendoci per mano e camminando in fila indiana nell’oscurità, superammo lentamente una densa foresta, una fitta boscaglia e, dulcis in fundo, un pantano fangoso, immersi fino alla cintola. Bagnati fradici, infreddoliti e coperti di melma, arrivammo infine a una radura dove noi ragazzi, ci informarono, saremmo stati lasciati per il resto della notte con nient’altro che tre sacchi a pelo. Rendendoci conto che le nostre proteste, per quanto veementi, erano del tutto inutili, unimmo i tre sacchi a pelo, ci spogliammo e ci rannicchiammo stretti stretti nel piumone di fortuna. Molti imprecarono, altri promisero di abbandonare il corso al piú presto, qualcuno pianse. Poi però davanti ai nostri occhi si presentò la piú stupenda delle visioni: una sfolgorante aurora boreale riempí il cielo notturno. Non avevo mai visto nulla del genere. I sottilissimi filamenti di luce che turbinavano, i colori stupefacenti che sfumavano l’uno nell’altro, il tutto su uno sfondo apparentemente infinito di stelle. D’un tratto, ero in un posto diverso. La camminata, il pantano, il freddo, lo stringersi insieme seminudi – ora tutto ciò faceva parte di un passato remoto. L’uomo, la natura, l’universo. Mentre ero a contatto con la nuda terra, fui avvolto dalle luci danzanti. Senza piú il calore del gruppo, fui risucchiato dalle stelle distanti. Persi il conto di quanto tempo ero rimasto a fissare il cielo prima di rimettermi a dormire – ore o minuti? Quanto fosse durato non aveva importanza. Per un breve momento, il tempo si era dissolto.
Gli episodi con questa qualità atemporale sono rari. E sono fugaci. Il tempo, in massima parte, è un compagno costante. L’impermanenza è alla base dell’esperienza. Veneriamo l’assoluto, ma siamo legati al transitorio. Anche quelle caratteristiche del cosmo che possono presentarsi come durevoli – la distesa dello spazio, le galassie distanti, la sostanza della materia – hanno limiti temporali. Come indagheremo in questo capitolo e nel successivo, per quanto stabile possa apparire, l’universo, come tutto ciò che contiene, è mutevole e precario.
1. Evoluzione, entropia e futuro.
Al di là della facciata immutabile della realtà, la scienza ha rivelato un dramma incessante di particelle in perenne agitazione in cui si è tentati di assegnare all’evoluzione e all’entropia il ruolo di personaggi in stato di guerra che lottano per il controllo. In base a questo racconto, l’evoluzione costruisce strutture mentre l’entropia le distrugge. È una bella storia, ma il problema, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, è che non corrisponde del tutto alla verità. Come è vero per molte descrizioni semplificate, contiene qualcosa di vero. L’evoluzione in effetti è determinante nella formazione di strutture e l’entropia tende davvero a degradare le strutture, ma le due non tirano necessariamente in direzioni opposte. Il two-step entropico permette alla struttura di prosperare qui a patto che l’entropia venga espulsa lí. La vita, uno dei principali risultati dell’evoluzione, incarna questo meccanismo, consumando energia di alta qualità, usandola per mantenere e migliorare le sue disposizioni ordinate ed espellendo nell’ambiente scarti ad alta entropia. Continuando per miliardi di anni, lo scambio cooperativo fra entropia ed evoluzione ha dato luogo a mirabili disposizioni di particelle, fra cui un essere vivente con una mente capace di produrre la Nona sinfonia e molti esseri viventi con una mente capace di percepirla come sublime.
Basandoci sul viaggio che ci ha portati dal Big Bang a Beethoven e rivolgendoci al futuro, possiamo pensare che l’evoluzione e l’entropia continueranno ad avere un ruolo decisivo come fattori direttivi del cambiamento? Per l’evoluzione darwiniana, potreste pensare che la risposta sia negativa1. La dipendenza del successo riproduttivo dalla costituzione genetica è la ragione per cui la selezione darwiniana ha guidato a lungo la nave dell’evoluzione. Una differenza importante degli ultimi tempi è data dall’intervento della medicina moderna e dalle tutele offerte dalla civiltà piú in generale. I genotipi che avrebbero potuto trovare impegnativo vivere nella savana africana dell’antichità possono cavarsela bene nella New York di oggi. In molte parti del mondo, il profilo genetico non è piú il fattore dominante che determina se un individuo muore durante l’infanzia o arriva ad avere una prole numerosa. Com’è ovvio, i progressi moderni, spianando alcune sezioni del campo da gioco della genetica, regolano le pressioni selettive di un tempo e quindi esercitano una loro varietà di influenza evolutiva. I ricercatori fanno anche notare numerose pressioni – fra cui le scelte alimentari (per esempio, le diete ricche di prodotti latto-caseari favoriscono i sistemi digestivi in cui la produzione della lattasi si prolunga oltre l’infanzia), le condizioni ambientali (per esempio, vivere ad alta quota dà un vantaggio per adattarsi a sopravvivere con meno ossigeno a disposizione) e le preferenze di accoppiamento (per esempio, in alcuni paesi l’altezza media può evolversi verso stature giudicate piú attraenti dagli individui riproduttivamente attivi) – che producono tendenze nel pool genetico2. L’impatto maggiore potrebbe però provenire dalla nuova capacità di modificare direttamente i profili genetici. Alcune tecniche oggi in rapido progresso hanno la capacità di potenziare i meccanismi della variazione genetica, della mutazione casuale e della promiscuità sessuale, per arrivare al design volontario. Se un ricercatore dovesse scoprire una riconfigurazione genetica che porta la vita umana a 200 anni producendo effetti collaterali quali una colorazione blu della pelle, un’altezza di tre metri e una vorace libido attratta dal blu, l’evoluzione darebbe mostra di sé con la rapida diffusione di un gruppo autoselezionato di esseri umani longevi simili ai Na’vi di Avatar. Con la capacità potenziale di rimodellare completamente la vita e magari progettare una versione – biologica, artificiale o ibrida – di esseri senzienti dotati di poteri capaci di eclissare le nostre attuali capacità, chissà che cosa succederebbe.
Per quanto riguarda l’entropia, la risposta alla domanda sulla sua importanza futura è senz’altro affermativa. Come abbiamo visto nei primi capitoli, la seconda legge della termodinamica è una conseguenza generale dell’applicazione del ragionamento statistico alle leggi della fisica pertinenti. Qualche scoperta futura potrebbe portarci a riesaminare le leggi che oggi consideriamo fondamentali? È quasi certo. L’entropia e la seconda legge manterranno la loro importanza esplicativa? Anche questo è quasi certo. Durante la transizione dal modello classico a quello quantistico, radicalmente diverso, fu necessario aggiornare le equazioni che descrivono l’entropia e la seconda legge, ma questi concetti, poiché emergono dal ragionamento probabilistico piú fondamentale, continuano nondimeno a valere. Prevediamo che continui a essere cosí indipendentemente dagli sviluppi futuri della nostra comprensione delle leggi fisiche. Non è che non sappiamo immaginare leggi fisiche da cui discenderebbe l’irrilevanza dell’entropia e della seconda legge, ma queste altre leggi dovrebbero essere talmente in contrasto con le caratteristiche della realtà insite in tutto ciò che sappiamo e in tutto ciò che abbiamo misurato che la maggior parte dei fisici esclude questa possibilità.
Quando si immagina il futuro, l’incertezza maggiore riguarda il controllo che noi o qualche intelligenza in procinto di arrivare riusciremo a esercitare sull’ambiente circostante. La vita intelligente potrà dirigere il destino a lungo termine delle stelle, delle galassie e persino dell’intero universo? Una simile intelligenza potrebbe trasferire intenzionalmente l’entropia a scale molto grandi, riuscendo in effetti a ridurla in enormi distese di spazio – una versione alla scala cosmica del two-step entropico? Potrebbe addirittura avere la capacità di progettare e creare universi completamente nuovi? Per quanto inverosimili possano sembrare queste attività, rientrano nell’ambito del possibile. Il dilemma per noi è che il loro impatto sul futuro è assolutamente al di là delle nostre capacità di previsione. Anche in un mondo che obbedisce alle leggi della fisica, un mondo che manca del libero arbitrio tradizionale, l’ampio repertorio comportamentale dell’intelligenza – la versione della libertà che l’intelligenza riesce a procurarsi – rende essenzialmente impossibili certi tipi di previsioni. Il pensiero futuro disporrà senza dubbio di metodi computazionali e tecnologie impareggiabili, ma sospetto che prevedere sviluppi a lungo termine strettamente dipendenti dalla vita e dall’intelligenza resterà al di fuori della nostra portata.
Come dovremmo procedere, allora?
Supporremo che le leggi della fisica cosí come le conosciamo oggi, agendo in modo indiretto come fanno presumibilmente sin dal Big Bang, costituiranno l’influenza dominante nello sviluppo cosmico. Non considereremo la possibilità che possano cambiare le leggi stesse o addirittura le «costanti» numeriche della natura. E nemmeno la possibilità che queste leggi e costanti stiano già cambiando lentamente, subendo modifiche che oggi potrebbero essere troppo piccole per lasciare un segno, ma che potrebbero persistere e accumularsi nel corso di lunghi periodi di tempo portando a un cambiamento sostanziale3. Non prenderemo in considerazione nemmeno la possibilità che il dominio su cui l’intelligenza futura eserciterà un controllo strutturale aumenti fino alla scala delle galassie e oltre. Lo ammetto, i «non» e i «nemmeno» sono tanti. In mancanza di prove che ci guidino, però, indagare queste possibilità produrrebbe soltanto ipotesi azzardate. Se questi assunti sono in contrasto con le vostre aspettative riguardo al futuro, potete considerare il resoconto presentato in questo capitolo e nel successivo come la descrizione degli sviluppi cosmologici che si verificherebbero in mancanza di tali cambiamenti o dell’intervento di un’intelligenza. La mia impressione è che i chiarimenti che arriveranno da future scoperte, e anche le influenze esercitate da una futura intelligenza, pur essendo certamente importanti per i dettagli del resoconto che segue, non richiederanno una riscrittura completa dello sviluppo cosmico che prenderemo in esame4. Forse è un’ipotesi audace, ma è la via piú rapida per procedere e noi ora la seguiremo arditamente5.
Come risulterà evidente nelle pagine che seguono, il fatto stesso che riusciamo a mettere insieme un resoconto, convincente seppur provvisorio, che delinea lo sviluppo cosmico in un futuro esponenzialmente lontano è un risultato straordinario, plasmato dalle mani di molti e rappresentativo del desiderio umano di coerenza tanto quanto le storie, i miti, le religioni e le creazioni artistiche della nostra specie che piú ci stanno a cuore.
2. Un impero del tempo.
Come dovremmo organizzare le nostre riflessioni sul futuro? L’intuizione umana è abbastanza adatta per capire le scale temporali dell’esperienza comune, ma analizzando le epoche cosmologiche fondamentali del futuro entreremo in regni temporali talmente vasti che anche le nostre migliori analogie non possono offrire altro che una vaga indicazione delle durate in questione. Tuttavia non esistono mezzi migliori delle analogie basate su durate ben conosciute per fornire appigli mentali per questa insolita scalata. Immaginiamo quindi che la linea temporale dell’universo si estenda dalla base alla cima dell’Empire State Building e che ogni piano rappresenti una durata pari a dieci volte quella del piano precedente. Il primo piano rappresenta 10 anni a partire dal Big Bang, il secondo 100 anni, il terzo 1000 e cosí via. Come è evidente, le durate aumentano rapidamente passando da un piano all’altro – semplice da descrivere, ma facile da interpretare erroneamente. Passare, per esempio, dal dodicesimo piano al tredicesimo equivale a considerare l’universo da un bilione di anni dopo il Big Bang a 10 bilioni di anni dopo il Big Bang. In questo caso, salendo di un solo piano passano 9 bilioni di anni, che fanno sembrare piccola la durata rappresentata da tutti i piani precedenti. Continuando a salire vale la stessa considerazione: la durata rappresentata da ogni piano successivo è molto piú grande, esponenzialmente piú grande, della durata rappresentata dai piani inferiori.
Poiché la durata di una vita umana è di circa cent’anni, gli imperi durevoli sopravvivono per un migliaio di anni e le specie resistenti esistono per milioni di anni, i piani sempre piú alti dell’Empire State Building rappresentano durate di un tipo completamente diverso, apparentemente simili a quelle delle ere geologiche. Quando raggiungiamo la terrazza panoramica dell’Empire State Building, all’ottantaseiesimo piano, saremo a 1086 (100 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000 000) anni dal Big Bang, un arco di tempo sbalorditivo che sovrasta qualsiasi durata che abbia in qualche modo a che fare con qualsiasi impresa umana. Eppure, nonostante tutti gli zero, quando poi saliamo sul tetto dell’edificio, al centoduesimo piano, la durata rappresentata dalla terrazza panoramica al confronto sarà equivalente a molto meno dello spessore dello strato di vernice che ricopre il tetto.
Oggi sono passati circa 13,8 miliardi di anni dal Big Bang, il che significa che tutti gli sviluppi discussi nei capitoli precedenti sono sparsi fra il pianterreno del grattacielo e qualche passo al di sopra del decimo piano. Da qui ci dirigiamo verso un futuro esponenzialmente lontano.
Saliamo.
3. Il Sole nero.
I nostri antichi antenati, anche senza capire che il Sole inonda continuamente la Terra dell’energia a bassa entropia che è essenziale per la vita, riconoscevano l’importanza fondamentale dell’occhio vigile del cielo, una presenza ardente che sorvegliava l’andirivieni dell’esistenza quotidiana. Quando il Sole tramontava, si rendevano conto che sarebbe sorto di nuovo, avendo dedotto le regolarità piú notevoli e sicure del mondo. Altrettanto certamente, però, questo ritmo un giorno avrà fine.
Per quasi 5 miliardi di anni, il Sole ha mantenuto la sua enorme massa contrastando la forza schiacciante della gravità mediante l’energia prodotta dalla fusione dei nuclei di idrogeno nella sua parte centrale. Quell’energia alimenta un ambiente frenetico di particelle che muovendosi a gran velocità esercitano una forte pressione verso l’esterno. Un po’ come la pressione prodotta da una pompa ad aria che tiene in piedi la casetta gonfiabile di un bambino, la pressione prodotta dalla fusione all’interno del Sole sostiene il Sole, impedendogli di collassare sotto il suo enorme peso. Questa situazione di stallo fra la gravità che attira verso l’interno e le particelle che spingono verso l’esterno si manterrà all’incirca per altri 5 miliardi di anni. Poi, però, l’equilibrio si rovescerà. Anche se il Sole sarà ancora pieno zeppo di nuclei di idrogeno, quasi nessuno sarà nella parte centrale. La fusione dell’idrogeno produce elio, i cui nuclei sono piú pesanti e piú densi di quelli dell’idrogeno, e cosí come la sabbia versata in uno stagno sposta l’acqua via via che riempie il fondo dello stagno, l’elio sposta l’idrogeno via via che occupa il nucleo del Sole.
È una questione molto importante.
Il nucleo del Sole è la parte con le massime temperature, attualmente di circa 15 milioni di gradi, ben oltre i 10 milioni di gradi necessari per fondere l’idrogeno in elio. Ma per fondere i nuclei di elio è necessaria una temperatura di circa 100 milioni di gradi. La temperatura del Sole è lontana da quella soglia e l’elio sposta l’idrogeno nel nucleo solare, quindi la fornitura di combustibile per la fusione diminuirà. La pressione verso l’esterno dovuta all’energia prodotta nel nucleo dalla fusione si ridurrà e di conseguenza la spinta verso l’interno della gravità finirà per avere il sopravvento. Il Sole inizierà a implodere. Al collasso della sua straordinaria massa verso l’interno, la sua temperatura aumenterà enormemente. Il calore e la pressione intensi, ancora lontani dalle condizioni necessarie affinché l’elio inizi a bruciare, innescheranno un nuovo ciclo di fusione in un sottile guscio di nuclei di idrogeno tutt’intorno al nucleo solare pieno di elio. In queste condizioni estreme, la fusione dell’idrogeno procederà a un ritmo straordinario, producendo una spinta verso l’esterno di un’intensità mai sopportata dal Sole, non solo fermando l’implosione, ma spingendo il Sole a gonfiarsi immensamente.
Il destino dei pianeti interni è incerto perché dipende da due fattori. Quanto diventerà grande il Sole? E mentre cresce, quanta massa perderà? Il secondo punto è pertinente perché, dato il funzionamento frenetico del motore nucleare del Sole, un gran numero di particelle dello strato esterno del Sole verrà continuamente fatto volare nello spazio. Una massa piú piccola, a sua volta, determina una riduzione dell’attrazione gravitazionale complessiva, portando i pianeti in orbite piú distanti. Il futuro di un dato pianeta dipende dalla possibilità che mentre si allontana sia abbastanza veloce da sfuggire al Sole che si dilata.
Alcune simulazioni al computer basate su modelli solari dettagliati hanno concluso che Mercurio perderà la gara e sarà inghiottito dal Sole, vaporizzandosi rapidamente. Marte, orbitando a una distanza maggiore, è avvantaggiato e sarà al sicuro. Venere probabilmente non si salverà, tuttavia alcune simulazioni concludono che il Sole pur dilatandosi potrebbe non raggiungere la sua orbita sfuggente e, in questo caso, neanche quella della Terra6. Comunque, anche se la Terra venisse risparmiata, le condizioni qui cambieranno drasticamente. La temperatura superficiale della Terra salirà a migliaia di gradi, abbastanza per asciugare gli oceani, espellere l’atmosfera e inondare la superficie di lava fusa. Condizioni sgradevoli, certo, ma il gigantesco Sole rosso che si spande per il cielo sarebbe uno spettacolo da vedere. Quasi certamente, tuttavia, è uno spettacolo che nessuno vedrà mai. Se i nostri discendenti continueranno a prosperare (essendo riusciti a schivare l’autodistruzione, i patogeni letali, i disastri ambientali, gli asteroidi mortali e le invasioni aliene, fra le altre potenziali catastrofi), e se mireranno a continuare a farlo, avranno da tempo abbandonato la Terra alla ricerca di una casa piú accogliente.
Via via che i nuclei di idrogeno intorno al nucleo di elio del Sole continueranno a fondersi, l’elio da loro prodotto si riverserà, costringendo il nucleo solare a contrarsi ulteriormente e spingendo ancora piú in alto la sua temperatura. A sua volta, la temperatura maggiore accelererà il ciclo, aumentando il tasso di fusione dell’idrogeno nel guscio circostante, intensificando la tempesta di elio che colpisce il nucleo solare e facendo salire ancora di piú la temperatura. Fra circa 5,5 miliardi di anni, la temperatura del nucleo solare sarà finalmente abbastanza alta da sostenere la combustione nucleare dell’elio, producendo carbonio e ossigeno. Dopo una spettacolare ma breve eruzione che segna la transizione alla fase in cui la fusione dell’elio diventa la fonte di energia dominante, le dimensioni del Sole si ridurranno e la nostra stella si assesterà in una configurazione meno frenetica.
La nuova stabilità, però, avrà vita relativamente breve. Dopo circa 100 milioni di anni, cosí come l’elio avrà spostato l’idrogeno, che è piú leggero, il carbonio e l’ossigeno faranno la stessa cosa con l’elio, che è piú leggero, conquistando il nucleo solare e spingendo l’elio negli strati circostanti. La combustione nucleare dei nuovi costituenti del nucleo solare, il carbonio e l’ossigeno, richiede temperature ancora piú alte, di almeno 600 milioni di gradi. Poiché la temperatura del nucleo solare sarà molto inferiore, la fusione nucleare si arresterà un’altra volta, la spinta verso l’interno della gravità tornerà a essere dominante, di nuovo il Sole si contrarrà e la temperatura del suo nucleo tornerà ad aumentare.
Nella fase precedente di questo ciclo, la temperatura crescente aveva scatenato l’inizio della fusione in un guscio di idrogeno intorno al tranquillo nucleo di elio. Ora la temperatura crescente innesca la fusione in un guscio di elio intorno al tranquillo nucleo di carbonio e ossigeno. A questo giro, però, la temperatura nel nucleo non raggiungerà mai il valore necessario per riavviarvi la combustione nucleare. La massa del Sole è troppo piccola per fornire la pressione violenta che innalzando la temperatura provocherebbe, in stelle piú grandi, la fusione del carbonio e dell’ossigeno in nuclei ancora piú pesanti e piú complessi. Invece, con la combustione del guscio di elio, che riversa continuamente sul nucleo solare il carbonio e l’ossigeno prodotti, il nucleo continuerà a contrarsi finché un processo quantistico – chiamato principio di esclusione di Pauli – fermerà l’implosione7.
Nel 1925, il fisico austriaco Wolfgang Pauli, un pioniere della fisica quantistica notoriamente caustico («Non mi importa che pensiate lentamente. Mi disturba che siate piú veloce a pubblicare che a pensare»)8, si rese conto che la meccanica quantistica pone un limite inferiore alla distanza fra due elettroni (piú precisamente, la meccanica quantistica esclude che due particelle di materia occupino uno stesso stato quantistico, ma qui è sufficiente la descrizione approssimativa). Di lí a poco, le intuizioni collettive di un certo numero di ricercatori mostrarono che il risultato di Pauli, benché si concentrasse su minuscole particelle, era la chiave per comprendere il destino del Sole, come di tutte le stelle di dimensioni simili. Con la contrazione del Sole, gli elettroni nel suo nucleo saranno sempre piú compressi, il che garantisce che prima o poi la loro densità raggiungerà il limite specificato dal risultato di Pauli. Nel momento in cui un’ulteriore contrazione viola il principio di Pauli, si determina una potente repulsione quantistica, gli elettroni mantengono la posizione, esigono il proprio spazio personale e si rifiutano di essere ancora piú compressi. La contrazione del Sole si ferma9.
Lontano dal nucleo, i gusci piú esterni del Sole continueranno a espandersi e a raffreddarsi, finendo per andare alla deriva nello spazio, lasciandosi dietro una palla straordinariamente densa di carbonio e di ossigeno, chiamata nana bianca, che continuerà ancora a brillare per una manciata di miliardi di anni. Senza la temperatura necessaria per la fusione nucleare, l’energia termica si dissiperà lentamente nello spazio e, come l’ultimo bagliore di un tizzone ardente, quel che resta del Sole si raffredderà e si offuscherà, finendo per trasformarsi in un globo scuro e gelato. A pochi passi dal decimo piano, il Sole si oscurerà.
È una fine tranquilla. Tanto piú se la confrontiamo con un epilogo cataclismico che il futuro potrebbe avere in serbo per l’intero universo quando si arriva al piano successivo.
4. Il Grande Strappo.
Se lanciamo una mela verso l’alto, l’implacabile attrazione gravitazionale della Terra garantisce il rallentamento graduale della sua velocità. È un esercizio banale, con un profondo significato cosmologico. Sin dalle osservazioni di Edwin Hubble negli anni Venti del secolo scorso, sappiamo che lo spazio è in espansione: le galassie si allontanano velocemente le une dalle altre10. Come nel caso della mela lanciata in aria, però, l’attrazione gravitazionale di ciascuna galassia su ogni altra sta certamente rallentando l’esodo cosmico. Lo spazio si sta espandendo, ma la velocità di espansione deve essere in diminuzione. Negli anni Novanta, motivati da questa aspettativa, due gruppi di astronomi si proposero di misurare la velocità del rallentamento cosmico. Dopo una decina di anni di ricerche, annunciarono i risultati ottenuti – e fecero sobbalzare la comunità scientifica11. Le aspettative erano sbagliate. Grazie ad accurate osservazioni di esplosioni di supernove distanti, fari potenti che possono essere visti e misurati in tutto il cosmo, i ricercatori scoprirono che l’espansione non sta rallentando. Sta accelerando. E non sembrava proprio che il passaggio all’accelerazione fosse avvenuto il giorno prima: avevano rilevato, restando di sasso, che in base alle osservazioni astronomiche l’espansione stava prendendo velocità da 5 miliardi di anni.
L’aspettativa diffusa che la velocità dell’espansione stesse rallentando era stata condivisa da molti perché era ragionevole. Proporre un’espansione dello spazio che diventa sempre piú veloce a prima vista è assurdo come prevedere che una mela lanciata da un essere umano parta a razzo verso il cielo. Se foste testimoni di una cosa cosí strana, cerchereste una forza nascosta, un’influenza trascurata responsabile della spinta verso l’alto della mela. Cosí, quando i dati fornirono prove schiaccianti dell’accelerazione dell’espansione dello spazio, i ricercatori si riebbero dalla sorpresa, si armarono di manciate di gessetti e cercarono di scoprire quale fosse la causa.
La spiegazione principale fa appello a una caratteristica cruciale della relatività generale di Einstein che abbiamo incontrato nel capitolo III, nella discussione della cosmologia inflazionaria12. Come ricorderete, sia per Newton sia per Einstein, ammassi di materia come i pianeti e le stelle esercitano l’usuale attrazione gravitazionale, ma nell’approccio di Einstein il repertorio della gravità si amplia. Se una regione dello spazio non ospita un ammasso di materia, ma invece è riempita in modo uniforme da un campo di energia (l’immagine che preferisco, che vi ho già presentato, è quella del vapore che riempie in modo uniforme una sauna), la forza gravitazionale risultante è repulsiva. Nella cosmologia inflazionaria, i ricercatori immaginano che questa energia sia associata a una strana specie di campo (l’inflatone) e la teoria propone che la sua potente gravità repulsiva abbia guidato il Big Bang. Anche se quell’evento risale a quasi 14 miliardi di anni fa, possiamo seguire un approccio analogo per spiegare l’espansione accelerata dello spazio che osserviamo oggi.
Se immaginiamo che lo spazio sia riempito in modo uniforme da un altro campo di energia – la chiamiamo energia oscura perché non genera luce, ma energia invisibile sarebbe un nome altrettanto appropriato –, possiamo descrivere il motivo per cui le galassie si stanno allontanando in fretta e furia. Essendo ammassi di materia, le galassie esercitano un’attrazione gravitazionale, attirandosi reciprocamente e quindi rallentando l’esodo cosmico. Essendo diffusa in maniera uniforme, l’energia oscura esercita una gravità repulsiva, spingendo verso l’esterno e quindi accelerando l’esodo cosmico. Per spiegare l’espansione accelerata osservata dagli astronomi, la spinta dell’energia oscura deve soltanto essere superiore all’attrazione collettiva delle galassie. E non di molto. In confronto al violento rigonfiamento dello spazio durante il Big Bang, l’espansione attuale è moderata, perciò tutto ciò che occorre è un’energia oscura di minima intensità. Di fatto, in un tipico metro cubo di spazio la quantità di energia oscura necessaria per determinare l’accelerazione galattica osservata terrebbe accesa una lampadina da 100 watt per circa 5 bilionesimi di secondo – si tratta pertanto di una quantità quasi inconcepibilmente minuscola13. Lo spazio, però, contiene un gran numero di metri cubi. Le spinte repulsive fornite da ciascuno si combinano generando una forza diretta verso l’esterno capace di alimentare l’espansione accelerata misurata dagli astronomi.
Le prove a sostegno dell’esistenza dell’energia oscura sono convincenti, ma indiziarie. Nessuno ha trovato un modo per rilevare l’energia oscura, stabilirne l’esistenza ed esaminarne direttamente le proprietà. Ciò malgrado, riuscendo cosí bene a rendere conto delle osservazioni, l’energia oscura è diventata de facto la spiegazione dell’espansione accelerata dello spazio. Meno chiaro, tuttavia, è il comportamento a lungo termine dell’energia oscura. Per formulare previsioni sul futuro distante, è perciò essenziale riflettere a fondo sulle possibilità. Il comportamento piú semplice compatibile con tutte le osservazioni è che il valore dell’energia oscura non cambi nel corso del tempo cosmico14. Tuttavia la semplicità, seppur preferibile concettualmente, non può pretendere di essere la verità. La descrizione matematica dell’energia oscura le permette di indebolirsi, frenando l’espansione accelerata, e di rafforzarsi, dando altro gas all’espansione accelerata. Osservata dall’undicesimo piano, la seconda situazione – la gravità repulsiva che diventa piú forte – è una possibilità quanto mai funesta; se si realizzasse, si sfreccerebbe verso una resa dei conti violenta che i fisici chiamano Grande Strappo.
Con il tempo, una spinta repulsiva della gravità sempre piú forte trionferebbe su tutte le forze che uniscono, con il risultato che tutto verrebbe fatto a pezzi. Il vostro corpo resta intatto grazie alla forza elettromagnetica, che tiene insieme i vostri costituenti atomici e molecolari, e anche all’interazione nucleare forte, che tiene insieme i protoni e i neutroni presenti nei nuclei atomici del vostro corpo. Poiché queste forze sono molto piú intense dell’attuale spinta verso l’esterno dello spazio in espansione, il vostro corpo resta saldo. Se state ingrossando, non è perché lo spazio si espande. Se però l’intensità della spinta repulsiva inizierà ad aumentare, lo spazio all’interno del vostro corpo finirà per espandersi con una spinta verso l’esterno tanto potente da arrivare a dominare le forze elettromagnetiche e nucleari che vi tengono insieme. Vi dilaterete e alla fine esploderete in mille pezzi, come ogni altra cosa.
I dettagli dipendono dalla velocità di aumento della gravità repulsiva, ma in un esempio rappresentativo elaborato dai fisici Robert Caldwell, Marc Kamionkowski e Nevin Weinberg tra circa 20 miliardi di anni la gravità repulsiva disgregherà gli ammassi di galassie, all’incirca un miliardo di anni dopo le stelle della Via Lattea si disperderanno come scintille in uno spettacolo pirotecnico, dopo circa altri 60 milioni di anni la Terra e gli altri pianeti del sistema solare saranno spinti lontano dal Sole, qualche mese piú tardi la forza gravitazionale repulsiva tra molecole farà esplodere stelle e pianeti e dopo solo altri 30 minuti la repulsione fra le particelle costituenti singoli atomi sarà diventata cosí forte che anch’esse saranno fatte a pezzi15. Lo stato finale dell’universo dipende dalla natura quantistica oggi sconosciuta dello spazio e del tempo. In termini vaghi per il momento del tutto privi di rigore matematico, è possibile che la gravità repulsiva faccia a brandelli la trama stessa dello spaziotempo. La realtà ebbe inizio con un botto e poco prima di raggiungere l’undicesimo piano, dopo 100 miliardi di anni, potrebbe finire con uno strappo.
Anche se le osservazioni attuali sono compatibili con un’energia oscura che diventa piú forte, secondo me, e molti altri fisici, è una possibilità improbabile. Quando studio le equazioni, mi resta la sensazione che sí, la matematica funziona, a malapena, ma no, le equazioni non sono naturali né convincenti. È un giudizio basato su decenni di esperienza, non su una dimostrazione matematica, quindi potrebbe senz’altro essere sbagliato. Comunque, dà una motivazione piú che sufficiente per essere ottimisti e presumere che il Grande Strappo non renderà irrilevanti i piani successivi dell’Empire State Building. Dopo questa considerazione, continuiamo il nostro viaggio lungo la linea temporale.
Non dobbiamo salire molto prima di incontrare il successivo evento cruciale.
5. Le scogliere dello spazio.
Se l’intensità della forza gravitazionale repulsiva non aumenta e resta costante, possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo: non dobbiamo piú preoccuparci di essere fatti a pezzi dallo spazio che si espande. Tuttavia, poiché la gravità repulsiva continuerà a spingere le galassie ad allontanarsi sempre piú velocemente, avrà comunque una profonda conseguenza a lungo termine: fra circa un bilione di anni la velocità di recessione delle galassie distanti raggiungerà e poi supererà la velocità della luce – il che sembra violare la regola piú famosa dell’universo di Einstein. Un esame piú attento chiarisce che, in realtà, la regola regge: l’affermazione di Einstein che nulla può superare la velocità della luce si riferisce esclusivamente alla velocità di oggetti che si muovono attraverso lo spazio. Le galassie non si muovono quasi per niente attraverso lo spazio. Non sono dotate di motori a razzo. Come macchie di vernice bianca su un pezzo di tessuto elastico nero che si allontanano quando il tessuto viene disteso, le galassie sono per lo piú attaccate alla trama dello spazio e si allontanano perché lo spazio si dilata. Maggiore è la distanza tra due galassie, maggiore è lo spazio intermedio che si può dilatare e quindi anche la velocità a cui si separano le galassie. La legge di Einstein non impone alcun limite alla velocità di questa recessione.
Ciò nonostante, il limite della velocità della luce continua a essere immensamente importante. A differenza delle galassie, la luce emessa da ciascuna galassia viaggia attraverso lo spazio. Cosí come un canoista è in difficoltà se pagaia controcorrente a una velocità inferiore a quella della corrente, per la luce emessa da una galassia che si allontana a velocità superluminale cercare di raggiungerci sarà una battaglia persa in partenza. Attraversando lo spazio alla velocità della luce, la luce non può superare l’aumento della distanza dovuto a una velocità superiore. Di conseguenza, quando futuri astronomi guarderanno al di là delle stelle vicine e punteranno i telescopi sulle parti piú remote del cielo notturno, vedranno soltanto il nero vellutato dell’oscurità. Le galassie distanti saranno scivolate oltre i limiti di ciò che gli astronomi chiamano orizzonte cosmico. Sarà come se le galassie distanti fossero cadute da una scogliera ai confini dello spazio.
Mi sono concentrato sulle galassie distanti perché quelle che sono relativamente vicine, un insieme di circa trenta galassie noto come Gruppo Locale, continueranno a essere le nostre compagne cosmiche. In realtà, arrivati all’undicesimo piano, il Gruppo Locale, dominato dalla Via Lattea e da Andromeda, probabilmente si sarà unito formando una nuova galassia che gli astronomi hanno battezzato Lattomeda (io avrei fatto pressioni per chiamarla Androlattea). Le stelle di Lattomeda saranno tutte abbastanza vicine da permettere alla reciproca attrazione gravitazionale di resistere all’espansione dello spazio e di mantenere intatto il raggruppamento stellare. Ma l’interruzione del nostro contatto con le galassie piú distanti sarà una grave perdita. Fu grazie ad accurate osservazioni delle galassie distanti che Edwin Hubble si rese conto per la prima volta che lo spazio è in espansione, una scoperta confermata e perfezionata da un secolo di osservazioni successive. Non avendo piú accesso alle galassie distanti, perderemo il nostro principale strumento diagnostico per ricostruire l’espansione dello spazio. I dati che ci hanno portato alla comprensione del Big Bang e dell’evoluzione cosmica non saranno piú disponibili.
L’astronomo Avi Loeb ha suggerito che le stelle che continueranno a fuggire a gran velocità dal conglomerato di Lattomeda e ad andare alla deriva nello spazio profondo potrebbero costituire un’alternativa alle galassie distanti, come se si lanciasse popcorn da una zattera per individuare la corrente. Anche Loeb, però, riconosce che l’incessante espansione accelerata avrà un impatto devastante sulla capacità degli astronomi futuri di effettuare misurazioni cosmologiche precise16. Per citare un esempio, arrivati al dodicesimo piano, all’incirca un bilione di anni dopo il Big Bang, la fondamentale radiazione cosmica di fondo, che ha guidato le nostre esplorazioni cosmologiche nel capitolo III, sarà stata talmente dilatata e diluita (spostata verso il rosso, in gergo tecnico) dall’espansione cosmica che probabilmente sarà impossibile da rilevare.
Viene da porsi questa domanda: ipotizzando che i dati raccolti finora, grazie ai quali abbiamo stabilito che l’universo si sta espandendo, in qualche modo si conservino e siano disponibili tra un bilione di anni, gli astronomi li prenderebbero per buoni? Usando le loro attrezzature all’avanguardia, costruite fra un bilione di anni, vedranno un universo che alle maggiori distanze è completamente nero, apparendo quanto mai eterno e immutabile. Possiamo ben immaginare che si rifiuterebbero di prendere in considerazione risultati curiosi tramandati da un’era antica e primitiva – la nostra – e accetterebbero invece la conclusione errata che, nel complesso, l’universo è statico.
Anche in un mondo soggetto a un aumento incessante dell’entropia, ci siamo abituati al fatto che le misure migliorano sempre, gli insiemi di dati crescono sempre e la comprensione si fa sempre piú approfondita. L’espansione accelerata dello spazio può sovvertire queste aspettative, perché può far sí che informazioni essenziali corrano via tanto velocemente da diventare inaccessibili. Profonde verità potrebbero mandare segnali muti ai nostri discendenti appena al di là dell’orizzonte.
6. Il crepuscolo delle stelle.
Le prime stelle iniziarono a formarsi all’ottavo piano, all’incirca 100 milioni di anni dopo il Big Bang, e nuove stelle continueranno a formarsi finché continueranno a esistere le materie prime necessarie. Quanto tempo passerà prima che si esauriscano? L’elenco degli ingredienti è breve: tutto ciò che serve è una nube di gas di idrogeno abbastanza grande. Come abbiamo visto, la gravità prende gli ingredienti dalla nube, comprimendola lentamente, riscaldandone il nucleo e innescando la fusione nucleare. Se conosciamo la quantità di gas contenuto nella galassia, e sappiamo a quale velocità la formazione di una stella esaurisce le riserve di gas, possiamo stimare per quanto tempo andrà avanti la formazione delle stelle. Alcune sottigliezze rendono piú complessa la contabilità (il tasso di formazione delle stelle in una galassia può variare nel tempo; mentre bruciano, le stelle restituiscono alla galassia una parte della propria composizione gassosa, ampliando le riserve), ma con calcoli raffinati i ricercatori hanno concluso che arrivati al quattordicesimo piano, tra circa 100 bilioni di anni, nella vasta maggioranza delle galassie la formazione di stelle avrà termine.
Continuando a salire dopo il quattordicesimo piano, si incontra qualcos’altro di notevole. Le stelle si spengono. Quanto piú massiva è una stella tanto piú la sua massa comprime il nucleo e tanto maggiore è la sua temperatura centrale. A sua volta, la temperatura piú alta stimola un tasso piú elevato di fusione nucleare e quindi una piú rapida distruzione delle riserve nucleari della stella. Mentre il Sole brucerà luminoso per circa 10 miliardi di anni, le stelle che sono molto piú pesanti esauriranno il loro combustibile nucleare molto prima. Per contro, le stelle di massa molto piccola, fino a circa un decimo della massa del Sole, bruciano piú lentamente e quindi vivono molto piú a lungo. Gli astronomi usano il nome generale di nana rossa per indicare un vasto assortimento di queste stelle di massa piccola, che secondo le osservazioni probabilmente costituiscono la maggioranza delle stelle nell’universo. Le temperature relativamente basse e la lenta e metodica combustione dell’idrogeno (le correnti agitate presenti in una nana rossa garantiscono che quasi tutta la riserva di idrogeno della stella bruci nel nucleo) permettono alle nane rosse di continuare a brillare per molti bilioni di anni, migliaia di volte la durata della vita del Sole. Arrivati al quattordicesimo piano, però, anche una nana rossa giovane sarà quasi alla fine dei suoi giorni.
E cosí, salendo ancora piú in su, le galassie sembreranno le città bruciate di un futuro distopico. Il cielo notturno un tempo palpitante di stelle brillanti sarà popolato da braci carbonizzate. Dato però che l’attrazione gravitazionale di una stella dipende soltanto dalla sua massa, non dal fatto che splenda luminosa o bruci lentamente e senza fiamma, le stelle che ospitano pianeti per lo piú continueranno a farlo.
Per un altro piano ancora.
7. Il crepuscolo dell’ordine astronomico.
Se si osserva il cielo in una notte serena, si ha l’impressione che la galassia sia densa di stelle. Non è vero. Anche se sembra che le stelle siano vicinissime l’una all’altra su una sfera che ci circonda, poiché la loro distanza dalla Terra varia in misura notevole (una caratteristica che la nostra debole vista non coglie), le stelle in realtà sono ben lontane l’una dall’altra. Se riducessimo il Sole alle dimensioni di un granello di zucchero e lo mettessimo nell’Empire State Building, dovremmo guidare per circa 50 chilometri (arrivando quasi a Greenwich, nel Connecticut), per incontrare Proxima Centauri, la stella piú vicina al Sole. E non dovremmo andare molto veloci per avere la garanzia che Proxima sia ancora nei paraggi di Greenwich quando vi arriviamo: a questa scala, le tipiche velocità stellari non arrivano a un millimetro all’ora. Come lumache sparse per un vasto territorio che giocano ad acchiapparella, è raro che le stelle entrino in collisione o si manchino di poco.
Questa conclusione, tuttavia, si basa su durate che ci sono familiari – anni, secoli, millenni – e quindi va riesaminata alla luce delle scale temporali molto piú grandi che stiamo considerando. Al quindicesimo piano siamo a un milione di miliardi di anni dal Big Bang. E vi è una possibilità significativa che a quel punto le stelle oggi distanti e lente abbiano avuto numerosi incontri ravvicinati. Che cosa accade in questi casi?
Concentriamoci sulla Terra e immaginiamo che un’altra stella arrivi nelle vicinanze. A seconda della massa e della traiettoria dell’intrusa, è possibile che la sua attrazione gravitazionale perturbi il moto della Terra solo leggermente: se appartiene alla categoria dei pesi leggeri e si mantiene a una certa distanza, non provocherà disastri. Ma l’attrazione gravitazionale di una stella piú massiva che passa piú vicino potrebbe facilmente strappare la Terra dalla sua orbita, facendola sfrecciare attraverso il sistema solare raggiungendo lo spazio profondo. E ciò che è vero per la Terra è vero per la maggior parte degli altri pianeti in orbita intorno alla maggioranza delle stelle nella maggioranza delle galassie. Via via che si sale lungo la linea temporale, un numero crescente di pianeti sarà lanciato nello spazio dall’attrazione gravitazionale disgregativa di stelle ribelli. In realtà, benché estremamente improbabile, la Terra potrebbe subire questa sorte prima che il Sole si spenga.
Se dovesse accadere, la distanza sempre crescente dal Sole farebbe diminuire continuamente la temperatura della Terra. Gli strati superiori degli oceani gelerebbero, come qualsiasi altra cosa rimasta sulla superficie del pianeta. I gas atmosferici, per lo piú azoto e ossigeno, si liquefarebbero e gocciolerebbero dal cielo. La vita potrebbe sopravvivere? Sulla superficie della Terra, sarebbe un’impresa ardua. Come abbiamo visto, però, la vita prospera, e in realtà potrebbe aver avuto origine nelle oscure sorgenti termiche che punteggiano i fondali oceanici. La luce solare penetra fino a profondità molto inferiori, perciò le sorgenti sarebbero ben poco influenzate dall’assenza del Sole. Una parte sostanziale dell’energia che alimenta le sorgenti proviene invece da reazioni nucleari diffuse ma continue17. L’interno della Terra contiene un deposito di elementi radioattivi (soprattutto torio, uranio e potassio) e questi atomi instabili quando decadono emettono un flusso di particelle energetiche che riscalda l’ambiente circostante. Pertanto, che goda o no del calore generato dalla fusione nucleare nel Sole, la Terra continuerà a godere del calore generato dalla fissione nucleare al suo interno. Se la Terra venisse espulsa dal sistema solare, nei fondali oceanici la vita potrebbe continuare per miliardi di anni come se nulla fosse successo18.
Questi autoscontri stellari disgregheranno non solo il sistema solare, ma anche, nel corso di periodi ancora piú lunghi, le galassie. Quando due stelle vaganti si mancano per poco oppure, evento ancor piú raro, si scontrano frontalmente, la velocità della stella piú pesante tende a diminuire mentre quella della stella piú leggera tende ad aumentare. (Se mettete una pallina da ping-pong in equilibrio su una palla da baseball e le lasciate cadere e rimbalzare, vedrete che la collisione produce un aumento notevole della velocità della pallina da ping-pong)19. In ogni singolo incontro, di solito questi scambi saranno modesti, ma nel corso di tempi molto lunghi il loro effetto cumulativo può dar luogo a cambiamenti significativi delle velocità stellari. Il risultato sarà un costante assortimento di stelle portate a velocità cosí elevate da fuggire dalla galassia madre. Calcoli dettagliati rivelano che quando si passa il diciannovesimo piano e si continua verso il ventesimo questo processo svuoterà le galassie tipiche. Le loro stelle, per lo piú resti inceneriti, saranno espulse e andranno alla deriva nello spazio20.
L’onnipresente ordine astronomico manifestato nei sistemi solari e nelle galassie si sarà dissolto; queste strutture, oggi diffuse ovunque, saranno diventate forme che l’universo ha mandato in pensione.
8. Le onde gravitazionali e l’ultimo giro.
Se la Terra sarà fortunata e schiverà il Sole che si dilata all’undicesimo piano, e se eviterà di essere espulsa dalla visita distruttiva di vicini stellari, il suo destino finale sarà determinato da una caratteristica magnifica della teoria generale della relatività, le onde gravitazionali.
Per spiegare l’idea di spaziotempo curvo, fondamentale nella relatività generale ma astratta, noi fisici usiamo spesso una metafora familiare: rappresentiamo i pianeti che orbitano intorno a una stella come se fossero biglie che rotolano su un foglio di gomma teso deformato da una palla da bowling posta al centro. Questa metafora, però, solleva un problema: perché i pianeti non si muovono a spirale verso la stella fino a cadervi dento? Dopo tutto, le biglie si comporterebbero certamente cosí21. La risposta è che le biglie che rotolano si muovono a spirale verso il centro perché perdono energia a causa dell’attrito. Di fatto, potete averne una prova anche senza attrezzature sofisticate: una parte dell’energia persa raggiunge le vostre orecchie, permettendovi di sentir rotolare le biglie sul foglio di gomma. I pianeti in orbita mantengono il proprio moto perché nello spazio vuoto l’attrito è quasi nullo.
Anche se l’attrito non ha un ruolo, in effetti un pianeta perde una piccola quantità di energia a ogni orbita. Quando i corpi celesti si muovono, perturbano la trama dello spazio, generando increspature che si propagano verso l’esterno simili a quelle che si formerebbero sul foglio di gomma se lo picchiettaste ripetutamente. Queste increspature della trama dello spazio sono le onde gravitazionali previste da Einstein negli articoli che pubblicò nel 1916 e nel 1918. Nei decenni che seguirono, Einstein ebbe idee contrastanti riguardo alle onde gravitazionali, che nel migliore dei casi vedeva come una mera possibilità teorica che non sarebbe mai stata osservata e, nel peggiore, come un’interpretazione completamente sbagliata delle equazioni. Le equazioni della relatività generale sono cosí complicate che persino Einstein a volte era perplesso. Sono stati necessari molti anni di lavoro di molte persone per sviluppare metodi sistematici per superare i problemi spinosi che altrimenti avrebbero complicato i tentativi di collegare le espressioni matematiche della relatività generale a caratteristiche misurabili del mondo. Negli anni Sessanta, con il consolidamento di questi metodi, i fisici iniziarono ad avere la certezza che le onde gravitazionali fossero un’irrefutabile conseguenza della teoria. Nessuno, comunque, aveva qualche prova osservazionale o sperimentale della loro esistenza reale.
Dopo una quindicina d’anni, la situazione cambiò. Nel 1974, Russell Hulse e Joe Taylor scoprirono per primi un sistema binario di stelle di neutroni, ossia una coppia di stelle di neutroni in orbita stretta una intorno all’altra22. Le osservazioni successive stabilirono che nel corso del tempo le stelle di neutroni si stavano avvicinando con un movimento a spirale, indicando che il sistema binario stava perdendo energia. Ma dove andava l’energia23? Taylor e due suoi collaboratori, Lee Fowler e Peter McCulloch, annunciarono che la perdita misurata di energia orbitale era in notevole accordo con la previsione della relatività generale dell’energia che le stelle di neutroni in orbita avrebbero dovuto pompare nelle onde gravitazionali24. Anche se le onde gravitazionali prodotte erano troppo deboli per essere rilevate, questi lavori stabilirono, seppure indirettamente, che le onde gravitazionali erano reali.
Tre decenni e un miliardo di dollari dopo, il Laser Interferometer Gravitational - Wave Observatory andò oltre effettuando il primo rilevamento diretto di increspature della trama dello spazio. Il 14 settembre 2015, di prima mattina, due enormi rivelatori, uno in Louisiana e l’altro nello Stato di Washington, entrambi schermati grazie a sforzi eroici da qualsiasi perturbazione possibile tranne un’onda gravitazionale, scattarono. Ed esattamente nello stesso modo. I ricercatori si preparavano a questo momento da quasi mezzo secolo, ma avevano finito di calibrare gli strumenti aggiornati appena due giorni prima. Il rilevamento quasi immediato di un segnale fu una sorpresa, ma anche un motivo di preoccupazione. Era reale? Era la scoperta di una vita o l’opera di un burlone – o, peggio ancora, qualcuno aveva violato il sistema e aveva iniettato un segnale falso?
Dopo mesi di analisi minuziose, controllando e ricontrollando i dettagli della presunta perturbazione gravitazionale, i ricercatori annunciarono che un’onda gravitazionale aveva davvero raggiunto la Terra. Per di piú, analizzando in modo preciso lo scatto e confrontandolo con i risultati di simulazioni su supercomputer delle onde gravitazionali che dovrebbero produrre vari eventi astronomici, i ricercatori applicarono l’ingegneria inversa al segnale per determinarne la fonte. La conclusione a cui giunsero fu che 1,3 miliardi di anni fa, all’epoca in cui la vita multicellulare stava appena iniziando a formarsi sul pianeta Terra, due buchi neri distanti orbitavano uno intorno all’altro sempre piú vicini e sempre piú veloci, avvicinandosi alla velocità della luce, finché dopo gli ultimi movimenti frenetici si erano scontrati. La collisione aveva generato un moto ondoso nello spazio, uno tsunami gravitazionale talmente enorme che la sua energia superava quella prodotta da tutte le stelle di tutte le galassie nell’universo osservabile. L’onda era sfrecciata verso l’esterno alla velocità della luce, in tutte le direzioni, e quindi una parte si era diretta verso la Terra, indebolendosi via via che si diffondeva. All’incirca 100 000 anni fa, quando gli esseri umani stavano migrando dalla savana africana, l’onda, continuando la sua inarrestabile corsa, aveva attraversato l’alone di materia oscura che circonda la Via Lattea. Piú o meno cent’anni fa, l’onda aveva superato l’ammasso di stelle delle Iadi e nello stesso periodo un membro della nostra specie, Albert Einstein, aveva iniziato a pensare alle onde gravitazionali e aveva scritto i primi articoli sulla possibilità della loro esistenza. Cinquant’anni dopo, mentre l’onda continuava a correre, altri ricercatori avevano audacemente ipotizzato che fosse possibile rilevare queste onde e avevano iniziato a ideare e progettare uno strumento capace di farlo. Quando l’onda era a soli due giorni-luce dalla Terra, la versione appena aggiornata del rivelatore piú all’avanguardia dei due fu pronta per entrare in funzione. Due giorni dopo, i due rivelatori vibrarono per 200 millisecondi, raccogliendo dati che permisero agli scienziati di ricostruire la storia che ho appena raccontato. Per questo risultato, nel 2017 i responsabili dell’équipe, Ray Weiss, Barry Barish e Kip Thorne, hanno vinto il premio Nobel.
Queste scoperte, di per sé entusiasmanti, hanno a che fare con la nostra discussione perché è al ventitreesimo piano che la Terra (di nuovo nell’ipotesi che sia ancora nella sua orbita), avendo perso energia attraverso una versione dello stesso processo – la lenta ma incessante produzione di onde gravitazionali –, cadrà a spirale nel Sole morto da tempo. Nel caso di altri pianeti, la storia è simile, anche se le scale temporali sono diverse. I pianeti piú piccoli provocano perturbazioni piú leggere della trama e quindi le loro spirali di morte durano piú a lungo, come accade anche ai pianeti le cui orbite sono piú lontane dalla stella madre. Se prendiamo la Terra come rappresentante dei pianeti che potrebbero restare ostinatamente nella propria orbita, concludiamo che al ventitreesimo piano questi pianeti, rassegnati al loro destino, si tufferanno per un’ultima violenta comunione con il proprio sole freddo.
Durante gli stadi finali, le galassie seguiranno una sequenza analoga. Al centro della maggior parte di tutte le galassie vi è un enorme buco nero, con una massa milioni o anche miliardi di volte piú grande della massa del Sole. Quando si sale oltre il ventitreesimo piano, le uniche stelle ancora nelle galassie saranno tizzoni carbonizzati che, avendo evitato l’espulsione, orbiteranno lentamente intorno al buco nero al centro della galassia. E cosí come i pianeti si muovono lentamente a spirale verso l’interno quando la loro energia orbitale viene incanalata in onde gravitazionali, cosí fanno anche le stelle intorno a un buco nero galattico. Stimando il tasso di questo trasferimento di energia, i ricercatori hanno concluso che arrivati al ventiquattresimo piano i resti stellari per la maggior parte si saranno consumati, cadendo nello scuro abisso centrale della propria galassia25. Se nella galassia vagasse ancora qualche ritardatario, stelle consumate di piccole dimensioni e distanti, il buco nero centrale offrirebbe un aiuto supplementare, attirandole inesorabilmente, inducendole ad andare alla deriva avvicinandosi sempre piú all’estinzione finale. Tenendo conto di entrambe le influenze, arrivati al trentesimo piano, 1030 anni dopo il Big Bang, se non prima, i buchi neri centrali avranno svuotato di tutte le stelle la maggior parte delle galassie.
In quell’era, un giro per il cosmo non sarà esattamente un viaggio tumultuoso. Punteggiato qua e là da pianeti freddi, stelle consumate e buchi neri mostruosi, lo spazio sarà buio e desolato.
9. Il destino della materia complessa.
In mezzo alle trasformazioni ambientali estreme che abbiamo incontrato, la vita potrà continuare? È una domanda difficile, in gran parte perché, come sottolineato all’inizio di questo capitolo, non abbiamo idea di come sarà la vita nel lontano futuro. Una caratteristica apparentemente certa è che qualunque essere vivente dovrà sfruttare un’energia adatta ad alimentare le funzioni essenziali per la vita (metaboliche, riproduttive ecc.). Con le stelle che si spengono, vengono espulse nello spazio profondo o cadono a spirale in buchi neri onnivori, questo compito diventerà sempre piú difficile. Sono state avanzate alcune proposte creative, come la possibilità di sfruttare le particelle di materia oscura che crediamo vaghino per lo spazio, le quali possono produrre energia quando le coppie collidono e si trasformano in protoni26. Il fatto è, però, che anche se qualche forma di vita sarà capace di utilizzare una nuova fonte di energia utile, salendo ancora lungo la linea temporale probabilmente emergerà un altro problema, piú importante di tutti gli altri.
Potrebbe disintegrarsi la materia stessa.
Al centro di tutti gli atomi che formano tutte le molecole che costituiscono tutte le strutture materiali complesse, dagli esseri viventi alle stelle, vi sono i protoni. Se i protoni avessero la propensione a disintegrarsi in un getto di particelle piú leggere (come elettroni e fotoni), la materia si disgregherebbe e l’universo cambierebbe radicalmente27. La nostra esistenza attesta la stabilità dei protoni, quanto meno nel corso di periodi paragonabili al tempo trascorso dal Big Bang. Ma che cosa succede nel corso di periodi molto piú lunghi come quelli che stiamo considerando? Per circa mezzo secolo i fisici hanno incontrato interessanti indizi matematici del fatto che nel corso di periodi cosí immensi i protoni, in realtà, possono decadere.
Negli anni Settanta, i fisici Howard Georgi e Sheldon Glashow svilupparono la prima grande teoria unificata, un quadro teorico che, sulla carta, collega le tre forze non gravitazionali28. Benché la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole e quella forte abbiano proprietà enormemente diverse quando vengono esaminate negli esperimenti di laboratorio, nello schema di Georgi e Glashow queste differenze si riducono progressivamente a mano a mano che si esaminano le tre forze considerando distanze sempre piú piccole. La grande unificazione propone quindi che queste tre forze siano in realtà aspetti diversi di un’unica forza, un’unità nei meccanismi della natura che si rivela soltanto alle scale piú piccole.
Georgi e Glashow si resero conto che insieme ai collegamenti tra le forze proposti dalla grande unificazione arrivano nuovi collegamenti fra le particelle di materia. E questi collegamenti permettono un gran numero di nuove trasmutazioni delle particelle, comprese alcune che porterebbero al decadimento dei protoni. Per fortuna, il processo sarebbe lento. I calcoli di Georgi e Glashow mostrano che se teneste nella mano un gruppo di protoni nell’attesa che se ne disintegri una metà, dovreste aspettare all’incirca mille miliardi di miliardi di miliardi di anni, quanto basta per arrivare fino al tredicesimo piano dell’Empire State Building. È una previsione curiosa, che può sembrare impossibile da controllare. Chi avrebbe la pazienza di verificarla?
La risposta emerge da una mossa semplice ma astuta. Cosí come la probabilità che qualcuno vinca alla lotteria questa settimana sarà quasi nulla se lo stato riesce a vendere soltanto una manciata di biglietti, ma aumenterà notevolmente se la vendita dei biglietti sale alle stelle, la probabilità di assistere al decadimento di un protone in un piccolo campione è quasi nulla, ma aumenterà enormemente al crescere delle dimensioni del campione29. Riempite quindi una vasca enorme con milioni di litri di acqua purificata (ogni litro contiene un numero di protoni dell’ordine di 1026), circondate il campione di rivelatori estremamente sensibili e fissateli intensamente, giorno e notte, cercando il segno rivelatore dei prodotti di decadimento di un protone (che, secondo la proposta di Georgi e Glashow, sono una particella nota come pione e un antielettrone).
Cercare i resti del decadimento di un singolo protone che nuotano in un mare di compagni la cui popolazione è talmente numerosa da superare di gran lunga quella dei granelli di sabbia di tutte le spiagge e di tutti i deserti del pianeta potrebbe sembrare una ricerca vana. Il fatto è, però, che gruppi di geniali fisici sperimentali hanno dimostrato in maniera conclusiva che se uno dei protoni nella vasca si disintegrasse, i rivelatori suonerebbero l’allarme.
Sono stato uno studente di Georgi a metà degli anni Ottanta, quando era in atto la verifica della sua teoria unificata. Essendo all’inizio del corso di laurea, studiavo argomenti piú fondamentali, perciò non capivo bene la situazione. Però potevo percepire l’atmosfera di grande aspettativa. L’unità della natura, un sogno che aveva tanto motivato Einstein, stava per essere rivelata. Passò un anno senza che si trovassero prove del decadimento di un protone. Poi un altro anno. E un altro ancora. La mancata osservazione della disintegrazione di qualche protone permise ai ricercatori di stabilire un limite inferiore sulla vita media del protone, che oggi è pari a 1034 anni.
La proposta di Georgi e Glashow è magnifica. Mettendo da parte gli enigmi della gravità quantistica per un’altra occasione, la loro teoria abbraccia le restanti tre forze della natura e tutte le particelle della materia mediante una sapiente mescolanza di matematica e fisica, al contempo elegante e rigorosa. È un capolavoro intellettuale. Eppure di fronte alla loro proposta la natura è rimasta indifferente. Molti anni dopo, parlai con Georgi della sua esperienza. Mi raccontò che quegli esperimenti deludenti lo avevano fatto sentire come se la natura lo avesse zittito, un’esperienza, aggiunse, che gli aveva fatto abbandonare l’intero programma di unificazione30.
Ma il programma di unificazione andò avanti e continua tuttora. E una caratteristica comune a quasi tutti gli approcci perseguiti – le teorie di Kaluza-Klein, la supersimmetria, la supergravità, le superstringhe, oltre ad ampliamenti piú diretti della grande unificazione di Georgi e Glashow (tutti argomenti di cui potete leggere ne L’universo elegante) – è la previsione che i protoni decadano. Le proposte in cui il tasso di questo decadimento è vicino a quello dello schema originario di Georgi e Glashow vengono immediatamente scartate, ma molte invece prevedono tassi piú lenti che sono compatibili con i limiti sperimentali piú accurati. Le stime di solito variano tra 1034 e 1037 anni, e in qualche caso il tasso previsto è ancora piú lento.
Il punto è che via via che abbiamo approfondito la comprensione matematica del cosmo, il problema del decadimento del protone si è ripresentato quasi a ogni passo. Non è impossibile modificare le equazioni per evitare che i protoni decadano, ma spesso a tal fine sono necessarie manipolazioni matematiche contorte che sono in contrasto con le descrizioni teoriche che sono state dimostrate attinenti alla realtà da successi del passato. Per questo motivo, molti teorici si aspettano che i protoni in effetti decadano. Potrebbero sbagliarsi, e nelle note considero brevemente l’alternativa31. Qui, però, per essere precisi, considero che il protone abbia una vita media di circa 1038 anni.
La conseguenza è che, salendo oltre il trentottesimo piano, ogni atomo che si è combinato in ogni molecola che ha costituito ogni struttura mai apparsa nel cosmo – le rocce, l’acqua, i conigli, gli alberi, voi, io, i pianeti, le lune, le stelle e via dicendo – si disintegrerà. Tutto crollerà. Nell’universo resteranno singoli costituenti isolati, per lo piú elettroni, positroni, neutrini e fotoni, fluttuanti in un cosmo punteggiato qua e là di buchi neri quiescenti seppur famelici.
Ai piani inferiori, il problema principale per la vita è riuscire a sfruttare un’energia di alta qualità e a bassa entropia in grado di alimentare i processi della materia animata. Dal trentottesimo piano in avanti, il problema è piú basilare. Con la dissoluzione degli atomi e delle molecole, l’impalcatura stessa della vita e la maggior parte delle strutture esistenti nell’universo saranno crollate. Quindi, se la vita fosse sopravvissuta, a quel punto raggiungerà la fine? Forse. Ma forse nei tempi che stiamo considerando – piú di un miliardo di miliardi di miliardi di volte l’età attuale dell’universo – la vita si sarà evoluta in una forma che avrà da tempo eliminato la necessità dell’architettura biologica oggi richiesta. Forse le categorie stesse della vita e della mente saranno rese grossolane e inappropriate da incarnazioni future che richiedono caratterizzazioni del tutto nuove.
Alla base di questa congettura vi è l’assunto che la vita e la mente non dipendono da qualche substrato fisico particolare, come le cellule, il corpo e il cervello, ma sono invece collezioni di processi integrati. La biologia finora ha monopolizzato le attività della vita, ma ciò potrebbe semplicemente riflettere le bizzarrie dell’evoluzione per selezione naturale sul pianeta Terra. Un sistema in cui fosse qualche altra organizzazione delle particelle elementari a realizzare fedelmente i processi vitali e mentali sarebbe vivo e penserebbe.
Il nostro approccio qui consiste nell’adottare la prospettiva piú ampia e considerare l’eventualità che possa esistere una mente pensante anche in assenza di atomi e molecole di una certa complessità. Quindi ci domandiamo: con l’unico vincolo, del tutto irremovibile, che il processo di pensiero si conformi pienamente alle leggi della fisica, il pensiero potrà persistere indefinitamente?
10. Il futuro del pensiero.
Valutare il futuro del pensiero può sembrare un classico atto di hỳbris. Per esperienza personale, tutti sappiamo che cosa vuol dire pensare, ma la scienza rigorosa della mente, come si è chiarito nel capitolo V, è in uno stadio iniziale. Per la scienza del moto, siamo passati dalle leggi di Newton a quelle radicalmente diverse di Schrödinger in meno di tre secoli, quindi come possiamo sperare di dire qualcosa sul futuro del pensiero tra un lasso di tempo al cui confronto un miliardo di secoli sembra un’inezia?
Questa domanda richiama uno dei nostri temi fondamentali. L’universo può e deve essere compreso da un’ampia gamma di prospettive diverse. Le spiegazioni che ne derivano, ciascuna pertinente a particolari questioni, alla fine devono essere sintetizzate in un resoconto coerente, però possiamo fare progressi in relazione ad alcune di queste storie anche con una conoscenza limitata di molte altre. Newton non aveva la minima idea della fisica quantistica, eppure riuscí a formulare una comprensione del tipo di moto che incontriamo alla scala della vita di tutti i giorni. Quando arrivò la fisica quantistica, l’edificio di Newton non fu demolito. Fu restaurato. La meccanica quantistica forní nuove fondamenta che approfondirono la portata della scienza e diedero una nuova interpretazione alla struttura newtoniana.
È possibile che le riflessioni matematiche odierne sul futuro della mente si dimostrino non pertinenti. Dopo tutto, a meno che non siate particolarmente esperti di storia della fisica e di filosofia, probabilmente non avete mai sentito nominare la descrizione entelechiale del moto di Aristotele o la teoria del fuoco nell’occhio di Empedocle, che spiega la visione umana. Quando noi esseri umani indaghiamo, di certo riguardo ad alcune cose – in realtà, a molte – ci sbagliamo completamente. Tuttavia, come nel caso della fisica newtoniana, può anche darsi che un giorno queste riflessioni sulla mente siano considerate parte di una cronaca piú ampia. È con questo senso di ottimismo, razionale e moderato, che consideriamo il futuro remoto del pensiero.
Nel 1979, Freeman Dyson scrisse un articolo visionario sul lontano futuro della vita e della mente32. Ci atterremo con cura alle sue indicazioni, inserendo alcuni aggiornamenti basati su progressi teorici e osservazioni astronomiche piú recenti. L’approccio di Dyson, simile al nostro in queste pagine, adotta una concezione fisicalistica della mente, considerando l’atto del pensiero come un processo fisico completamente soggetto alle leggi fisiche. Poiché abbiamo una comprensione ragionevolmente buona di come si evolveranno le caratteristiche generali dell’universo nel lontano futuro, possiamo indagare per capire se continueranno a esistere ambienti ospitali per il pensiero.
Iniziamo considerando il vostro cervello. Fra le sue altre qualità, il vostro cervello è caldo. Riceve continuamente energia, che voi gli fornite mangiando, bevendo e respirando, è impegnato in un gran numero di processi fisiochimici che ne modificano la configurazione nei dettagli (reazioni chimiche, riorganizzazioni molecolari, movimenti di particelle e cosí via) e rilascia calore di scarto nell’ambiente. Mentre pensa (e fa qualsiasi altra cosa che fa un cervello), ripete quindi una sequenza che abbiamo incontrato nel capitolo II analizzando i motori a vapore. Come in quel modello, il calore che il vostro cervello rilascia nell’ambiente porta via l’entropia che assorbe e quella che genera con il suo funzionamento interno.
Se per qualunque ragione un motore a vapore non è in grado di eliminare il suo accumulo entropico, prima o poi raggiungerà il regime massimo e cederà. Un destino simile attende un cervello che, per qualunque ragione, non riesca a eliminare gli scarti entropici che il suo funzionamento produce continuamente. E un cervello in questa condizione è un cervello che non pensa piú. In ciò sta il problema potenziale per la durabilità del pensiero basato sul cervello. Data l’evoluzione futura dell’universo, il cervello manterrà la sua capacità di liberarsi del calore di scarto che produce?
Nessuno si aspetta che il cervello umano sia una presenza costante salendo dal presente a piani sempre piú alti. E di certo quando saremo cosí in alto che gli atomi inizieranno a disintegrarsi in particelle piú elementari, gli agglomerati molecolari complessi di qualsiasi tipo diventeranno sempre piú rari. Ma il requisito diagnostico di essere in grado di espellere il calore di scarto è cosí fondamentale che si applica a qualsiasi configurazione di qualsiasi tipo in cui si svolge il processo del pensiero. La domanda essenziale è quindi se un’entità simile – chiamiamola il Pensatore –, indipendentemente da come è progettata o costruita, possa espellere il calore generato necessariamente dal suo pensiero. Se il Pensatore non riesce a farlo, si surriscalderà e brucerà nei suoi scarti entropici. Se i vincoli stabiliti dalle leggi fisiche in un universo in espansione impongono che ogni Pensatore in ogni dove è destinato, prima o poi, a fallire in questo compito imprescindibile di eliminazione dell’entropia, sarà in pericolo il futuro del pensiero stesso.
Per valutare il futuro del pensiero dobbiamo quindi capire la fisica del pensiero. Quanta energia richiede il pensiero del Pensatore e quanta entropia genera il processo del pensiero? A quale ritmo il Pensatore deve espellere il calore di scarto e a quale ritmo l’universo può assorbirlo?
11. Pensare lentamente.
Nel capitolo II ho messo in evidenza che l’entropia conta il numero di nuove disposizioni dei costituenti microscopici di un sistema fisico – le sue particelle – che «sembrano piú o meno identiche». Analizzando il Pensatore, esiste un modo particolarmente utile di riformulare questa affermazione. Se un sistema ha bassa entropia, la configurazione delle sue particelle è una delle relativamente poche possibilità che sembrano tutte identiche – uno dei relativamente pochi doppioni. Di conseguenza, se vi dico quale delle configurazioni possibili è quella effettiva del sistema, vi avrò fornito solo una piccola quantità di informazioni. Come se vi avessi indicato una specifica lattina di zuppa di pomodoro Campbell sullo scaffale di un negozietto mezzo vuoto, avrò distinto quella particolare configurazione di particelle fra un piccolo numero di possibilità. Se invece l’entropia del sistema è alta, la configurazione delle particelle è una delle moltissime possibilità che sembrano tutte identiche – uno dei numerosi doppioni. Di conseguenza, se vi dico qual è la configurazione effettiva del sistema, vi avrò fornito un mucchio di informazioni. Come se vi avessi indicato una lattina di zuppa di pomodoro in un supermarket strapieno di merce, avrò distinto quella particolare configurazione di particelle fra un grandissimo numero di possibilità. Pertanto la configurazione delle particelle di un sistema a bassa entropia ha uno scarso contenuto informativo, mentre nel caso di un sistema ad alta entropia il contenuto informativo è elevato.
Il nesso fra entropia e informazione è importante perché a prescindere dalla sede del pensiero – un cervello umano o il Pensatore astratto – pensare vuol dire elaborare informazioni. Il legame tra informazione ed entropia ci dice quindi che l’elaborazione dell’informazione, la funzione del pensiero, può essere descritta anche come elaborazione dell’entropia. Inoltre, poiché, come ricorderete dal capitolo II, l’elaborazione dell’entropia – lo spostamento dell’entropia da un punto a un altro – richiede il trasferimento di calore, abbiamo l’unione di tre concetti: pensiero, entropia e calore. Dyson ha sfruttato la versione matematica dei collegamenti fra i tre concetti per quantificare il calore che il Pensatore deve espellere in base al numero dei suoi pensieri (i lettori portati per la matematica troveranno la formula nella nota)33. Molti pensieri implicano una gran quantità di calore da espellere; per pochi pensieri è necessario espellere meno calore.
Per alimentare il proprio pensiero, il Pensatore deve estrarre energia dall’ambiente circostante. Poiché il calore è esso stesso una forma di energia, la quantità di energia che il Pensatore assorbe deve essere almeno equivalente alla quantità di energia che ha bisogno di espellere. L’energia in entrata è di qualità superiore (quindi può essere facilmente sfruttata dal Pensatore) rispetto al calore in uscita (che è uno scarto e quindi sarà disperso), ma il Pensatore non può rilasciare piú di quanto assorba. Il calcolo di Dyson specifica quindi la minima quantità di energia di qualità superiore che il Pensatore deve assorbire, quantificando in tal modo il problema: con le stelle che bruciano, i sistemi solari che si disgregano, le galassie che si disperdono, la materia che si disintegra e l’universo che si espande e si raffredda, il Pensatore dovrà affrontare il compito sempre piú arduo di raccogliere l’energia concentrata di alta qualità e di bassa entropia di cui ha bisogno per continuare a riflettere. Con le provviste che scarseggiano, il Pensatore ha bisogno di una strategia efficace di gestione delle risorse e di eliminazione del calore di scarto – ha bisogno, in altre parole, di un piano dettagliato per poter assorbire energia a bassa entropia ed eliminare calore ad alta entropia. Seguendo Dyson, escogitiamone uno.
Come primo passo, decidiamo di partire dal ragionevole presupposto che la velocità dei processi interni del Pensatore, quali che siano, vari in funzione della sua temperatura34. A temperature piú alte, le particelle si muovono piú velocemente, quindi il Pensatore pensa, consuma energia e accumula calore di scarto piú rapidamente. A temperature piú basse, tutto rallenta. Di fronte a un universo in espansione, in raffreddamento e in via di esaurimento, il Pensatore, che aspira a continuare a pensare il piú a lungo possibile, deve dare molta importanza alla conservazione, realizzando una lunga combustione lenta anziché un intenso lampo veloce. Gli consigliamo pertanto di seguire l’esempio dell’universo: con il passare del tempo, il Pensatore dovrebbe continuamente abbassare la sua temperatura, rallentare il suo pensiero e diminuire la velocità a cui consuma la sempre piú scarsa riserva di energia di alta qualità dell’universo.
Poiché il Pensatore non fa altro che pensare, non trova particolarmente attraente la prospettiva di pensare piú lentamente. Consoliamo il Pensatore. «Stai ragionando nel modo sbagliato, – gli diciamo. – Poiché tutti i tuoi processi interni rallenteranno insieme, la tua esperienza soggettiva non cambierà affatto. Potresti vedere nell’ambiente vari processi che ti sembrano svolgersi piú rapidamente, ma i tuoi pensieri sembreranno procedere con l’usuale alacrità». Sollevato, il Pensatore accetta di seguire la strategia, però esprime un’ultima preoccupazione: «Se seguo questo approccio, potrò pensare nuovi pensieri in eterno?»
Questa è la domanda cruciale, quindi abbiamo previsto che il Pensatore la porrebbe. E siamo pronti a rispondere. La matematica rivela che, come un’automobile il cui consumo espresso in chilometri per litro migliora sempre via via che la velocità diminuisce, il consumo del Pensatore espresso in pensieri per energia migliora sempre via via che pensa piú lentamente. In altre parole, il pensiero del Pensatore diventa sempre piú efficiente al diminuire della temperatura. Per questa ragione, il Pensatore può effettivamente pensare un numero infinito di pensieri e tuttavia aver bisogno soltanto di una quantità finita di energia (cosí come una somma infinita come 1 + 1/2 + 1/4 + … dà come risultato un numero finito, in questo caso 2). Lo comunichiamo con entusiasmo al Pensatore: «Seguendo il piano, non solo potrai continuare a pensare in eterno, ma potrai farlo consumando una quantità finita di energia!»35.
Rallegrandosi, il Pensatore sta per mettere in atto il piano. A quel punto, però, incontriamo un ostacolo imprevisto. La matematica ha un’altra implicazione, irritante, che finora abbiamo trascurato: un po’ come una tazza di caffè espelle meno calore nell’ambiente rispetto a una tazza piú calda, via via che si raffredda il Pensatore diventa meno capace di liberarsi del calore di scarto generato dai suoi pensieri. «Di me sapete molto poco, – ci ricorda il Pensatore, – perciò forse dovreste usare discrezione prima di spargere la voce che ho problemi a espellere il calore di scarto». Non ha tutti i torti. Ma questo è proprio il bello della matematica. Il ragionamento presume semplicemente che il Pensatore sia soggetto alle leggi fisiche conosciute e sia composto di particelle elementari come gli elettroni. L’analisi pertanto è del tutto generale. Non abbiamo bisogno di conoscere i dettagli della fisiologia o della costruzione del Pensatore per concludere che al diminuire della sua temperatura la velocità a cui può espellere entropia scenderà al di sotto della velocità a cui la produce. Avendo chiarito questo punto, non abbiamo altra scelta che comunicargli la notizia. «Anche se pensare a temperature sempre piú basse è essenziale sia per prolungare il pensiero sia per aver bisogno soltanto di una quantità finita di energia, arriverà il momento in cui la tua entropia si accumulerà piú rapidamente di quanto tu possa espellerla. Da quel momento in poi, se cercherai di continuare a pensare, brucerai nei tuoi pensieri»36.
Prima che il Pensatore, mortificato, possa riflettere a fondo su questo punto, un membro della nostra formidabile squadra propone una via d’uscita: l’ibernazione. Periodicamente, il Pensatore deve far riposare il pensiero – spegnere la mente e andare a dormire – sospendendo la produzione di entropia, ma continuando a eliminare tutto il calore di scarto. Se l’interruzione del pensiero è abbastanza lunga, quando il Pensatore si sveglia avrà espulso tutto il calore di scarto e quindi non correrà piú il rischio di bruciare. Inoltre, poiché durante il tempo di inattività il Pensatore non penserà, quando si sveglierà non si accorgerà dell’interruzione. Incoraggiati da questa soluzione, proposta originariamente da Dyson nel suo articolo innovativo, assicuriamo il Pensatore che a questo ritmo il pensiero potrà continuare in eterno.
Ma è proprio vero?
12. Un ultimo pensiero sul pensiero.
Due risultati ottenuti successivamente alla pubblicazione dell’articolo di Dyson sono particolarmente importanti per la strategia. Uno chiarisce il legame fra l’atto del pensiero e la produzione di entropia, portando a modificare leggermente l’interpretazione del risultato. L’altro ha a che fare con l’espansione accelerata dello spazio e potrebbe pregiudicare del tutto la conclusione, mettendo direttamente il pensiero nel mirino dell’entropia.
Iniziamo dalla nuova interpretazione. Il nucleo del ragionamento di Dyson è che l’atto del pensiero produce necessariamente calore. Ne ho mostrato la plausibilità ricordando che il pensiero è legato all’informazione, l’informazione è legata all’entropia e l’entropia è legata al calore. Si tratta però di legami sottili e alcune intuizioni recenti, provenienti per lo piú dall’informatica, mostrano che esistono modi ingegnosi di effettuare operazioni elementari di elaborazione dell’informazione – come sommare 1 e 1 e ottenere 2 – senza alcuna degradazione dell’energia37. Con l’assunto che il pensiero e la computazione sono fatti della stessa pasta, un Pensatore che applichi questa strategia non genererebbe alcun calore di scarto.
Ciò nonostante, altre considerazioni collegate provenienti dall’ambito dell’informatica indicano che una versione del legame fra pensiero, entropia e calore che ha motivato la nostra analisi iniziale in effetti resta valida, anche se ha un carattere leggermente diverso. I risultati mostrano che un computer, se cancella uno qualsiasi dei suoi banchi di memoria, produce necessariamente calore di scarto. (Ricordate che il calore di scarto in generale viene prodotto da processi che sono difficili da invertire, come frantumare un vetro; cancellare dati rende difficile invertire una computazione e quindi non è particolarmente sorprendente che le cancellazioni producano calore)38. Tenendone conto, il nostro consiglio al Pensatore ha bisogno soltanto di una leggera modifica. Il Pensatore può pensare senza dover eliminare calore a patto di non cancellare mai un ricordo. Tuttavia, supponendo che abbia un’estensione finita, il Pensatore avrà una capacità di memoria finita che prima o poi raggiungerà il suo limite. A quel punto, tutto ciò che il Pensatore può fare internamente è rimescolare le informazioni che ha in memoria, rimuginando in eterno vecchi pensieri – una versione dell’immortalità che pochi sceglierebbero. Se il Pensatore vuole avere la capacità creativa di pensare nuovi pensieri, fissare nuovi ricordi, esplorare nuovi territori intellettuali, dovrà effettuare cancellazioni, producendo calore e riportandoci alla situazione discussa nella sezione precedente e alla strategia dell’ibernazione lí raccomandata.
Il secondo sviluppo riguarda tempi piú vicini. La scoperta che l’espansione dello spazio sta accelerando mette in luce un ostacolo nuovo e forse insormontabile per il pensiero eterno39. Se, come suggeriscono oggi i dati, l’espansione accelerata continuerà senza sosta, le galassie distanti scompariranno come se fossero cadute da una scogliera ai confini dello spazio, come abbiamo visto al dodicesimo piano. In altre parole, siamo circondati da un orizzonte sferico distante che segna il confine di ciò che, anche in linea di principio, possiamo vedere. Tutto ciò che è piú distante del confine si allontana da noi a una velocità superiore a quella della luce, perciò la luce emessa a quelle distanze non ci raggiungerà mai. I fisici chiamano il confine distante orizzonte cosmologico.
Potete immaginare l’orizzonte cosmologico distante come un’enorme sfera splendente, un po’ come un lontano raggruppamento sferico di lampade riscaldanti che genera una temperatura di fondo nello spazio. Spiegherò perché è cosí nel capitolo seguente (è strettamente collegato alla fisica dei buchi neri, che hanno anch’essi un orizzonte luminoso, come ha scoperto Stephen Hawking), ma qui mi preme sottolineare che la temperatura derivante dall’orizzonte cosmologico luminoso è completamente distinta dalla temperatura di 2,7 kelvin della radiazione di fondo a microonde, la traccia residua del Big Bang. Nel corso del tempo, la temperatura della radiazione di fondo a microonde continuerà a diminuire, avvicinandosi allo zero assoluto via via che lo spazio continuerà a espandersi e l’intensità della radiazione a microonde continuerà ad attenuarsi. La temperatura dovuta all’orizzonte cosmologico si comporta in modo diverso. È costante. È bassissima (in base al tasso di espansione accelerata misurato, è pari a circa 10-30 kelvin), ma è permanente. E nel lungo periodo la permanenza è importante.
Il calore fluisce spontaneamente soltanto da oggetti piú caldi a oggetti piú freddi. Quando la sua temperatura è superiore a quella dell’universo, il Pensatore ha l’opportunità di irradiare il suo calore di scarto nello spazio. Se però la sua temperatura scendesse al di sotto di quella dello spazio, il calore fluirebbe nell’altra direzione, dallo spazio al Pensatore, impedendogli di eliminare il calore di scarto. Ciò implica che la strategia dell’ibernazione è destinata a fallire. Se il Pensatore continua a ridurre la sua temperatura (il che, non dimenticate, è ciò che gli permette di continuare a pensare indefinitamente consumando una quantità finita di energia), prima o poi questa raggiungerà i 10-30 kelvin. A quel punto, sarà finita. L’universo non accetterà piú il suo calore di scarto. Un altro pensiero (o, piú precisamente, un’altra cancellazione) e il Pensatore andrà a fuoco.
La conclusione dipende dall’assunto che l’espansione accelerata dello spazio continuerà senza variazioni. Nessuno sa se le cose andranno davvero cosí. L’accelerazione potrebbe aumentare, spingendoci verso un Grande Strappo, riducendo ulteriormente le prospettive per la vita e per il pensiero. Oppure potrebbe andare incontro a una diminuzione, il che eviterebbe un orizzonte cosmologico, spegnerebbe le lontane lampade riscaldanti e permetterebbe alla temperatura dell’universo di diminuire indefinitamente. Come hanno mostrato i fisici Will Kinney e Katie Freese, questa possibilità cosmologica ristabilirebbe l’originario ottimismo di Dyson, permettendo al Pensatore che si attenga in maniera scrupolosa al programma di ibernazione di continuare a pensare indefinitamente40.
Lungi da me l’intenzione di sminuire l’unico raggio di speranza nel futuro del pensiero, ma è utile riepilogare come stanno le cose. Tutta la nostra catena di ragionamenti è improntata all’ottimismo. In un universo in cui potrebbe mancare tutto, dalle stelle ai pianeti fino alle molecole e agli atomi, abbiamo supposto che il Pensatore possa esistere. Ci vuole un’immaginazione ottimistica per figurarsi che le particelle elementari stabili – come gli elettroni, i neutrini e i fotoni – che saranno diffuse nello spazio possano raccogliersi e produrre una struttura pensante. Tuttavia, per essere di mente aperta, abbiamo supposto che una tale entità possa formarsi. Ed è senz’altro gratificante venire a sapere che se l’universo si espande nel modo giusto vi è almeno una possibilità che questi Pensatori continuino a pensare indefinitamente. Ciò nonostante, è difficile evitare di concludere che il lontano futuro del pensiero è incerto.
In effetti, se l’espansione accelerata non rallenterà, arriverà il momento in cui il pensiero uscirà di scena. La nostra comprensione è troppo grossolana per poter formulare una previsione precisa, ma inserendo stime approssimative nelle equazioni si ottiene che quel momento potrebbe arrivare entro i prossimi 1050 anni. Una grande incognita, come si è osservato all’inizio, è se la vita intelligente sarà in grado di intervenire sullo sviluppo dell’universo, magari influenzando l’evoluzione delle stelle e delle galassie, sfruttando fonti di energia di alta qualità oggi non previste, o addirittura controllando il tasso di espansione dello spazio. A causa della complessità dell’intelligenza, è impossibile intervenire nella discussione con qualcosa di piú di congetture azzardate ed è per questo motivo che ho scelto di evitare del tutto simili influenze. Pertanto, mettendo da parte qualsiasi intervento intelligente e attenendoci diligentemente alla seconda legge della termodinamica, concludiamo che una volta arrivati al quindicesimo piano l’universo potrebbe benissimo aver ospitato l’ultimo pensiero.
In base alla maggior parte delle scale temporali mai considerate dagli esseri umani, 1050 anni sono un intervallo di tempo straordinariamente lungo. Può contenere il periodo trascorso dal Big Bang a oggi piú di un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di volte. Tuttavia, se considerato alla scala temporale, poniamo, del settantacinquesimo piano, è un attimo – molto piú breve, incredibilmente piú breve, della nostra esperienza di un certo ritardo temporale fra quando accendiamo una lampada e quando la luce arriva ai nostri occhi. E naturalmente, se l’universo è eterno, qualunque durata, per quanto lunga, appare infinitesimale. Narrato dalla prospettiva di queste grandi scale temporali, il resoconto cosmologico sarebbe piú o meno questo: un momento dopo il Big Bang, la vita sorse, contemplò brevemente la sua esistenza in un cosmo indifferente e poi scomparve. È un riepilogo cosmico del lamento di Pozzo quando inveisce contro coloro che aspettano Godot: «Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo la notte».
Alcuni giudicheranno deprimente questo futuro. Anche se ai suoi tempi la conoscenza era piú rudimentale, di certo Bertrand Russell lo giudicò deprimente, come attesta la sua valutazione che abbiamo incontrato nel capitolo II. Personalmente, ho un’opinione diversa. Secondo me, il futuro prefigurato oggi dalla scienza evidenzia che il nostro momento di riflessione, il nostro istante di luce, è al contempo raro, meraviglioso e prezioso.
Capitolo decimo
Il crepuscolo del tempo
Quanti, probabilità ed eternità
Molto dopo la conclusione del pensiero, quando non sarà rimasto nessun essere cogitante che possa accorgersene, le leggi della fisica continueranno a fare ciò che hanno sempre fatto, ossia delineare lo sviluppo della realtà, e cosí facendo renderanno manifesto un concetto essenziale: la meccanica quantistica e l’eternità costituiscono un’unione potente. La meccanica quantistica è un tipo particolare di sognatore ottimista, che prende in considerazione un’enorme collezione di futuri possibili basando la sua folle visione sull’indicazione della verosimiglianza di ogni possibile risultato. Se consideriamo le scale temporali ordinarie, possiamo tranquillamente ignorare i risultati con una probabilità quantistica cosí incredibilmente piccola che per avere una ragionevole possibilità di incontrarli dovremmo aspettare piú a lungo dell’età attuale dell’universo. Se però esaminiamo scale temporali cosí estese da far sembrare effimera l’età attuale dell’universo, molte possibilità che prima potevamo trascurare ora sono da prendere in considerazione. Inoltre, se davvero il tempo non ha una data di scadenza, possiamo essere certi che ogni risultato che non sia rigorosamente vietato dalle leggi quantistiche – che sia familiare o bizzarro, verosimile o non plausibile – presto o tardi avrà il suo momento di gloria1.
In questo capitolo, esamineremo una manciata di questi processi cosmologici rari, che sono in attesa dell’occasione propizia per entrare nella realtà.
1. La disintegrazione dei buchi neri.
A metà del Novecento, dato il loro ruolo decisivo negli ultimi episodi della seconda guerra mondiale, i fisici godettero di una posizione di grande rilievo. Le aree dominanti della ricerca erano la fisica nucleare e la fisica delle particelle, indagini che secondo Freeman Dyson avevano dotato i fisici del potere apparentemente divino di «rilasciare questa energia che alimenta le stelle […] e di sollevare un milione di tonnellate nel cielo»2. La relatività generale, per contro, era per lo piú considerata una disciplina di nicchia che aveva già vissuto i suoi giorni di gloria. Il fisico John Wheeler cambiò la situazione. Wheeler aveva dato numerosi e importanti contributi alla fisica nucleare e alla fisica quantistica, ma continuava ad amare la teoria generale della relatività. Nei decenni successivi, anche grazie alla sua straordinaria capacità di ispirare gli altri con il suo entusiasmo, Wheeler formò alcuni dei fisici piú abili del mondo, che lavorarono insieme a lui per riportare la relatività generale a essere un settore vitale della ricerca scientifica.
Wheeler era particolarmente affascinato dai buchi neri. Secondo la relatività generale, quando qualcosa cade in un buco nero non ne può piú uscire. Scompare. Per sempre. Riflettendo a fondo su questo argomento all’inizio degli anni Settanta, Wheeler si imbatté in un problema che menzionò a un suo studente, Jacob Bekenstein. I buchi neri sembravano offrire una strategia bell’e pronta per violare la seconda legge della termodinamica. Prendiamo una tazza di tè e gettiamola in un buco nero, pensò Wheeler. Dove va l’entropia del tè? Poiché l’interno del buco nero è permanentemente inaccessibile a chi sta all’esterno, il tè caldo, insieme alla sua entropia, sembra essere sparito. Wheeler temeva che gettare entropia nel buco nero fornisse un mezzo affidabile per violare intenzionalmente la seconda legge.
Dopo qualche mese, Bekenstein tornò da Wheeler con una soluzione. L’entropia del tè non è scomparsa, dichiarò. È stata semplicemente trasferita nel buco nero. Cosí come afferrare una padella rovente trasferisce una parte dell’entropia alla mano, Bekenstein suggerí che qualunque cosa cada in un buco nero trasferisce la sua entropia al buco nero.
È una risposta naturale, che era venuta in mente anche a Wheeler3. Tuttavia, si scontra immediatamente con un problema. L’entropia, come abbiamo visto, conta il numero di nuove disposizioni dei costituenti di un sistema che lo lasciano apparentemente piú o meno identico. Piú precisamente, l’entropia conta le distinte configurazioni dei costituenti microscopici di un sistema che sono compatibili con il suo stato macroscopico. Se il tè trasferisce la sua entropia al buco nero, l’entropia dovrebbe manifestarsi come un aumento del numero di riorganizzazioni interne del buco nero che non hanno alcun effetto sulle sue caratteristiche macroscopiche.
Il problema è il seguente. A cavallo degli anni Sessanta e Settanta, i fisici Werner Israel e Brandon Carter usarono le equazioni della relatività generale per mostrare che un buco nero è completamente determinato da tre numeri: la sua massa, il suo momento angolare (che dipende dalla velocità di rotazione) e la sua carica elettrica4. Se abbiamo misurato queste caratteristiche macroscopiche, abbiamo tutte le informazioni necessarie per una descrizione completa del buco nero. Ciò significa che due buchi neri con le stesse caratteristiche macroscopiche – la stessa massa, lo stesso momento angolare e la stessa carica elettrica – sono identici, fino all’ultimo dettaglio. Quindi, mentre nel caso di una collezione di monete se specifichiamo che, per esempio, 38 mostrano testa e 62 mostrano croce, sono possibili miliardi di miliardi di configurazioni diverse e, nel caso di un recipiente contenente vapore, se ne specifichiamo il volume, la temperatura e la pressione è possibile un numero gigantesco di configurazioni distinte delle molecole, quando si tratta di un buco nero, specificandone la massa, il momento angolare e la carica elettrica indichiamo una e una sola configurazione. In mancanza di altre configurazioni da contare, di sosia da enumerare, i buchi neri sembrerebbero avere entropia nulla. Se vi gettiamo una tazza di tè, a quanto pare la sua entropia svanisce. Di fronte a un buco nero, la seconda legge della termodinamica sembra capitolare.
Bekenstein non voleva neanche sentirne parlare. I buchi neri, proclamò, hanno entropia. In piú, quando qualcosa vi casca dentro, la loro entropia aumenta nel modo giusto per mettere al sicuro la seconda legge. Per capire il succo del ragionamento di Bekenstein, osservate innanzitutto che quando qualcosa cade in un buco nero la sua massa non va perduta. Tutti coloro che studiavano e comprendevano la relatività generale convenivano che qualunque cosa vi cada dentro si manifesta come un aumento della massa del buco nero. Per visualizzare questo processo, immaginate l’orizzonte degli eventi di un buco nero, la superficie sferica che ne definisce il confine, al di là del quale non si torna indietro. La matematica mostra che il raggio dell’orizzonte degli eventi è proporzionale alla massa del buco nero: meno massa implica un orizzonte piú piccolo, piú massa un orizzonte piú grande. Quando vi gettiamo dentro qualcosa, la massa del buco nero aumenta, perciò dovreste immaginare che in risposta il suo orizzonte si dilata. Il buco nero mangia e il suo girovita sferico si allarga.
Nello spirito dell’approccio di Bekenstein5, immaginate ora di buttare in un buco nero una sonda davvero speciale, progettata con cura per esaminare come reagisce all’entropia un buco nero. A tal fine, prepariamo un fotone la cui lunghezza d’onda è cosí enorme (le cui posizioni possibili sono cosí sparse) che quando incontra il buco nero la descrizione piú precisa che possiamo dare dell’incontro è espressa da una sola unità di informazione: o il fotone è caduto nel buco nero oppure non vi è caduto. Per le caratteristiche del nostro fotone, la sua posizione è cosí nebulosa che se viene catturato dal buco nero non possiamo fornire una descrizione piú dettagliata, come specificare che il fotone è entrato nel buco nero attraverso questo o quel punto dell’orizzonte. Il fotone ha una sola unità di entropia e quindi ci permette un esame matematico del modo in cui reagisce il buco nero quando ingurgita un pasto con una sola unità di entropia.
Poiché il fotone ha una certa energia, e poiché l’energia e la massa sono due facce della stessa medaglia einsteiniana (da E = mc2), se il buco nero si mangia il fotone, la sua massa aumenta leggermente e il suo orizzonte degli eventi si espande leggermente. Ma il saldo finale dipende dai particolari. Bekenstein notò una relazione cruciale: gettandovi dentro un’unità di entropia, l’orizzonte degli eventi del buco nero si espande di un’unità di area (una cosiddetta unità quantistica di area o area di Planck, pari a circa 10-70 metri quadri)6. Se le unità di entropia fossero due, l’area aumenterebbe di due unità, e cosí via. L’area dell’orizzonte degli eventi del buco nero sembra quindi tenere traccia dell’entropia ingerita dal buco nero. Sulla base di questa relazione, Bekenstein propose una legge: l’entropia totale di un buco nero è data dall’area totale del suo orizzonte degli eventi (misurata in unità di Planck). La nuova idea che Bekenstein suggerí a Wheeler era questa.
Bekenstein non sapeva spiegare il sorprendente collegamento fra l’entropia di un buco nero e la sua superficie esterna, il suo orizzonte degli eventi; il collegamento è inaspettato perché l’entropia di un oggetto ordinario, come la tazza di tè, è contenuta al suo interno, nel suo volume. Bekenstein non sapeva spiegare nemmeno il rapporto fra la sua proposta e il modello tradizionale in cui l’entropia dovrebbe enumerare le possibili riorganizzazioni degli ingredienti microscopici del buco nero (una questione che restò in attesa di spiegazioni fino a metà degli anni Novanta, quando la teoria delle stringhe forní indicazioni utili). Come strumento di contabilità, però, la sua proposta offriva un modo quantitativo di salvare la seconda legge della termodinamica. La soluzione è immediata: per considerare l’entropia totale è necessario calcolare non solo i contributi della materia e della radiazione, ma anche quelli dei buchi neri. Gettare la nostra tazza di tè in un buco nero riduce l’entropia sul nostro tavolo, ma se calcoliamo l’aumento dell’area dell’orizzonte degli eventi del buco nero ci rendiamo conto che la diminuzione di entropia di cui godiamo a casa è compensata dall’aumento di entropia nel buco nero. Fornendo un algoritmo per includere i buchi neri nella contabilità dell’entropia, Bekenstein rincuorò la seconda legge, permettendole di tornare a camminare a testa alta.
Quando Stephen Hawking venne a sapere della proposta di Bekenstein, la considerò assurda. Molti altri fisici espressero opinioni simili. Essendo completamente determinati soltanto da tre numeri e costituiti per lo piú da spazio vuoto (tutto ciò che cade in un buco nero è attirato inesorabilmente verso la sua singolarità centrale), i buchi neri avevano acquisito un’aura di estrema semplicità. In parole povere, si riteneva che i buchi neri non potessero contenere disordine perché al loro interno non vi è nulla che possa essere messo in disordine. Hawking, che guidava l’attacco contro la proposta di Bekenstein, iniziò a eseguire personalmente i calcoli usando una raffinata combinazione dei metodi matematici della relatività generale e della meccanica quantistica, prevedendo che in poco tempo avrebbero rivelato una fallacia nel ragionamento di Bekenstein. I calcoli, al contrario, portarono Hawking a trarre una conclusione talmente sconvolgente che gli ci volle un po’ di tempo per accettarla. La sua analisi non solo confermò quella di Bekenstein, ma rivelò alcune sorprese complementari: i buchi neri hanno una temperatura e i buchi neri brillano. Irradiano. I buchi neri sono neri solo di nome. Piú precisamente, i buchi neri sono neri solo se si ignora la fisica quantistica.
Consideriamo brevemente l’essenza del ragionamento di Hawking.
In base alla meccanica quantistica, qualsiasi minuscola regione dello spazio ospita sempre un’attività quantistica. Anche se la regione sembra vuota, e apparentemente non contiene energia, la teoria quantistica mostra che il suo contenuto energetico in realtà subisce rapide fluttuazioni, perciò l’energia è nulla soltanto in media. Si tratta dello stesso tipo di fluttuazioni quantistiche che diedero origine alle variazioni di temperatura della radiazione cosmica di fondo che abbiamo incontrato nel capitolo III. A causa di E = mc2, queste fluttuazioni quantistiche di energia possono anche presentarsi come fluttuazioni quantistiche di massa – con le particelle e le corrispondenti antiparticelle che nascono all’improvviso nello spazio altrimenti vuoto. È qualcosa che accade proprio in questo momento davanti ai vostri occhi, ma anche osservando attentamente non ne vedrete mai alcun segno. La ragione è che la meccanica quantistica stabilisce anche che le particelle incontrano rapidamente le proprie antiparticelle, si annichilano e svaniscono nello spazio vuoto. In effetti rileviamo tracce indirette di questi eventi effimeri perché è solo quando li includiamo nei calcoli che raggiungiamo lo straordinario accordo tra previsioni e misure che ha giustamente reso la meccanica quantistica la parte piú importante della fisica fondamentale7.
Hawking riesaminò questi processi quantistici, immaginando però che si svolgessero appena al di fuori dell’orizzonte degli eventi di un buco nero. Quando una coppia particella-antiparticella compare in questo ambiente, a volte le due particelle si annichilano rapidamente, come farebbero in qualsiasi altro posto. Hawking tuttavia si rese conto, e il punto è questo, che di tanto in tanto invece non si annichilano. A volte una delle due viene risucchiata nel buco nero. La particella sopravvissuta, ormai priva di una compagna con cui annichilarsi (e avendo il compito di conservare la quantità di moto totale), se la dà a gambe e sfreccia verso l’esterno. Poiché ciò accade piú e piú volte in ogni minuscola regione dello spazio lungo la superficie dell’orizzonte sferico del buco nero, il buco nero sembrerà irradiare particelle in tutte le direzioni – questa è ciò che oggi chiamiamo radiazione di Hawking.
Secondo i calcoli, inoltre, ogni particella che cade nel buco nero ha energia negativa (il che forse non sorprende, dato che la particella compagna che sfugge al buco nero ha energia positiva e l’energia totale si deve conservare). Quando il buco nero mangia queste particelle di massa negativa, è come se ingerisse calorie negative, con il risultato che la sua massa anziché aumentare diminuisce. Visto dall’esterno, il buco nero perciò appare contrarsi costantemente mentre irradia particelle. Se non fosse che la fonte della radiazione è particolare – un buco nero immerso nel mare quantistico di particelle fluttuanti che caratterizza lo spazio vuoto – il processo sembrerebbe del tutto banale, come un pezzo di carbonella incandescente che irradia fotoni mentre si consuma lentamente8.
Esattamente come un buco nero in crescita, che inghiotta tè caldo o stelle turbolente, anche un buco nero in contrazione è pienamente conforme alla seconda legge della termodinamica. La diminuzione dell’area dell’orizzonte degli eventi di un buco nero che si contrae significa che la sua entropia diminuisce, ma la radiazione emessa, che è diretta verso l’esterno e si propaga in una distesa di spazio sempre piú ampia, trasferisce all’ambiente una quantità di entropia piú che compensativa. La coreografia è familiare: irradiando, i buchi neri danzano il two-step entropico.
Il risultato di Hawking rese matematicamente preciso tutto ciò. Fra molte altre cose, Hawking scoprí una formula precisa per la temperatura di un buco nero. Una spiegazione qualitativa di questo risultato sarà presentata nella sezione seguente (per i lettori portati per la matematica, la formula è nelle note)9, ma la caratteristica che piú ci riguarda qui è che la temperatura è inversamente proporzionale alla massa del buco nero. Cosí come gli alani adulti sono giganti gentili, mentre i cuccioli di Shih-tzu sono piccoli e sfrenati, i buchi neri grandi sono calmi e freddi, mentre quelli piccoli sono frenetici e caldi. Qualche cifra, gentilmente concessa dalla formula di Hawking, chiarirà questo punto. Nel caso di un grande buco nero, come quello al centro della nostra galassia con 4 milioni di volte la massa del Sole, la formula di Hawking fissa la sua temperatura al minuscolo valore di un centesimo di un bilionesimo di grado al di sopra dello zero assoluto (10−14 kelvin). Nel caso di un buco nero piú piccolo, con la massa del Sole, la temperatura è piú alta, ma certo non mite, poco meno di un decimo di milionesimo di grado (10−7 kelvin). Un buco nero minuscolo, con la massa, poniamo, di un’arancia, arderebbe alla temperatura di circa un bilionesimo di bilionesimo di grado (1024 kelvin).
Un buco nero con una massa maggiore di quella della Luna ha una temperatura inferiore ai 2,7 kelvin della radiazione di fondo a microonde che pervade attualmente il cosmo. Questo fattoide numerico, utile per chiacchiere erudite da salotto, è significativo dal punto di vista della cosmologia. Poiché il calore fluisce spontaneamente da un corpo a temperatura piú alta a un altro a temperatura piú bassa, il calore fluirà dal freddo ambiente a microonde che circonda il buco nero al buco nero stesso che è ancora piú freddo. Anche se il buco nero emette radiazione di Hawking, tutto sommato assorbirà piú energia di quanta ne rilasci, il che farà aumentare lentamente la sua massa. Poiché anche i buchi neri piú piccoli scoperti finora dalle osservazioni astronomiche sono molto piú massivi della Luna, sono tutti in una fase di crescita. Poiché l’universo continua a espandersi, tuttavia, la radiazione di fondo a microonde continuerà ad attenuarsi e la sua temperatura continuerà a scendere. Nel lontano futuro, quando la temperatura di fondo dello spazio scenderà al di sotto di quella di qualunque buco nero, la direzione dell’energia si invertirà, ogni buco nero emetterà piú di quanto riceve e di conseguenza inizierà a contrarsi.
A tempo debito, anche i buchi neri si consumeranno.
Molte questioni relative ai buchi neri continuano a essere oggetto di ricerche all’avanguardia e una di notevole importanza per la nostra discussione riguarda gli ultimi momenti dell’esistenza di un buco nero. Quando un buco nero irradia, la sua massa diminuisce e la sua temperatura aumenta. Che cosa succede quando il buco nero è quasi alla fine, quando la sua massa è quasi nulla e la sua temperatura cresce all’infinito? Esplode? Sfrigola? Fa qualcos’altro? Nessuno lo sa. Ciò nonostante, la comprensione quantitativa della radiazione di Hawking ha permesso al fisico Don Page di determinare la velocità di contrazione di un dato buco nero e quindi il tempo che impiegherà per raggiungere il suo istante finale – quali che siano i dettagli di quel momento10. Considerando la massa del Sole rappresentativa dei buchi neri che si formano da una stella morente, il risultato di Page mostra che all’incirca al sessantottesimo piano dell’Empire State Building, 1068 anni dopo il Big Bang, questi buchi neri avranno smesso di irradiare.
2. La disintegrazione di buchi neri estremi.
I buchi neri che crediamo al centro della maggior parte delle galassie, se non di tutte, hanno masse gigantesche. Via via che le indagini astronomiche hanno fatto progressi, ciascun primato è stato scalzato dal successivo, con masse che si avvicinano a cento miliardi di volte la massa del Sole. Un buco nero con una massa simile ha un orizzonte degli eventi talmente grande che si estenderebbe dal Sole fino al di là dell’orbita di Nettuno e per un buon tratto verso la nube di Oort. Anche se non siete ferrati su Oort e la sua nube distante, vi basta sapere che la luce del Sole impiega piú di 100 ore per raggiungerla, quindi stiamo parlando di un buco nero di dimensioni mostruose. Tuttavia, come spiegherò, l’enormità di questi buchi neri cela un comportamento placido.
Secondo la relatività generale, la ricetta per costruire un buco nero è semplicissima: occorre raccogliere una quantità qualsiasi di massa e darle la forma di una palla di dimensioni sufficientemente piccole11. Naturalmente, anche una conoscenza superficiale dei buchi neri vi fa prevedere che «sufficientemente piccole» significhi davvero piccole, straordinariamente piccole, assurdamente piccole, e in certi casi la vostra previsione è del tutto corretta. Per trasformare un pompelmo in un buco nero, dovreste comprimerlo fino a ridurlo a un diametro di circa 10−25 centimetri; per trasformare la Terra in un buco nero, dovreste comprimerla fino a ridurne il diametro a circa 2 centimetri; quanto al Sole, dovreste ridurlo a una palla di circa 6 chilometri di diametro. Ciascun esempio richiede un’incredibile compressione della materia, che conferma l’intuizione comune che per formare un buco nero sono necessarie densità immense. Se però continuaste a elencare esempi ben oltre la massa del Sole, concentrandovi sulla formazione di buchi neri sempre piú grandi, vi imbattereste in una relazione che potrebbe stupirvi.
All’aumentare della quantità di materia usata per formare un buco nero, la densità a cui occorre comprimere la materia diminuisce. Se mi permettete di introdurre un po’ di matematica, la ragione risulterà subito evidente: poiché il raggio dell’orizzonte degli eventi di un buco nero cresce con la sua massa, il suo volume cresce con il cubo della massa e quindi la densità media – massa per volume – diminuisce con il quadrato della massa. Aumentando la massa di un fattore 2, la densità si riduce di un fattore 4; aumentando la massa di un fattore 1000, la densità si riduce di un fattore 10 000 000. Lasciando da parte la matematica, dal punto di vista qualitativo il punto è che per formare un buco nero quanto maggiore è la massa tanto minore deve essere la sua compressione. Per costruire un buco nero come quello al centro della Via Lattea, la cui massa è all’incirca 4 milioni di volte quella del Sole, la materia deve raggiungere una densità che è circa 100 volte quella del piombo, quindi vi aspetta comunque un gran lavoro di compressione. Per costruirne uno con una massa pari a 100 milioni di volte quella del Sole, la densità necessaria si riduce fino alla densità dell’acqua. E per costruirne uno con una massa pari a 4 miliardi di volte quella del Sole, la densità necessaria è quella dell’aria che state respirando in questo momento. Se raccoglieste una massa di aria pari a 4 miliardi di volte la massa del Sole, per creare un buco nero, a differenza del caso del pompelmo, della Terra e del Sole, non dovreste affatto comprimerla. La gravità che agisce sull’aria formerebbe da sola un buco nero.
Non che voglia proporre sacchetti di aria come materia prima realistica per creare buchi neri supermassivi, però il fatto che un buco nero con una massa pari a 4 miliardi di volte quella del Sole avrebbe in media la densità dell’aria è davvero notevole e illustra in modo efficace come le proprietà dei buchi neri possano differire dalle concezioni popolari12. Giganteschi se valutati in base alla massa e alle dimensioni, questi buchi neri sono delicati se valutati in base alla densità media, che ne fa dei giganti decisamente gentili. In questo senso, i buchi neri piú grandi sono meno estremi di quelli piccoli, il che spiega intuitivamente la scoperta di Hawking che quanto piú massivo è un buco nero tanto piú bassa è la sua temperatura e tanto piú attenuato è il suo bagliore.
La longevità di grandi buchi neri trae quindi vantaggio da due fattori collegati: hanno piú massa da irradiare e, con le loro temperature piú basse, la irradiano piú lentamente. Inserendo i numeri nelle equazioni, troviamo che un buco nero la cui massa è circa 100 miliardi di volte quella del Sole si estinguerà con una tale lentezza che soltanto quando si raggiunge l’ultimo piano dell’Empire State Building, il centoduesimo, il buco nero vomiterà l’ultimo getto di radiazione e infine diventerà veramente nero13.
3. Una fine del tempo.
Guardando l’universo dal centoduesimo piano, non vedremo granché oltre a una nebbia diffusa di particelle che fluttuano nello spazio. Di tanto in tanto, l’attrazione fra un elettrone e la sua antiparticella, il positrone, farà sí che si avvicineranno sempre di piú procedendo lungo traiettorie a spirale finché non si annichileranno in un brevissimo lampo, un puntino di luce che per un attimo penetrerà l’oscurità. Se l’energia oscura si sarà esaurita e la rapida espansione dello spazio si sarà ridotta, è possibile che le particelle si accumulino in buchi neri sempre piú grandi che irradieranno ancora piú lentamente e quindi vivranno ancora piú a lungo. Se invece l’energia oscura persisterà, le particelle saranno allontanate sempre piú rapidamente dall’espansione accelerata, garantendo che si incontrino di rado o mai. Curiosamente, sono condizioni affini a quelle che si verificarono subito dopo il Big Bang – anche allora lo spazio era popolato da particelle separate. La differenza è che nell’universo primordiale le particelle erano cosí dense che la gravità le aggregava facilmente in strutture come le stelle e i pianeti, mentre alla fine dell’universo le particelle saranno tanto disperse e l’espansione accelerata dello spazio sarà tanto incessante da rendere straordinariamente improbabile una simile aggregazione. È una versione cosmica di «polvere alla polvere», con la polvere primordiale pronta a danzare il two-step entropico, essendo spinta dalla gravità a formare strutture astronomiche ordinate, mentre alla fine la polvere, cosí finemente dispersa, si accontenterà di fluttuare tranquillamente nel vuoto.
A volte i fisici paragonano questo futuro alla fine del tempo. Non che il tempo si fermi, ma quando tutta l’attività si riduce al movimento di qualche particella isolata che si sposta da questo a un altro punto nella vastità dello spazio, è ragionevole concludere che l’universo alla fine ha raggiunto l’annientamento. Tuttavia, la nostra disponibilità in questo capitolo a considerare futuri ancora piú distanti rende degni di nota processi tanto improbabili che altrimenti non ci prenderemmo la briga di esaminare.
Pur essendo a malapena concepibili, questi eventi rari potrebbero punteggiare l’annientamento di possibilità infrequenti ma di vasta portata.
4. La disintegrazione del vuoto.
Nella conferenza stampa del 4 luglio 2012 che si tenne al CERN, il portavoce Joe Incandela annunciò la scoperta della tanto ricercata particella di Higgs. Seguii la diretta della conferenza all’Aspen Center for Physics in una stanza piena zeppa di colleghi. Erano quasi le due di notte. Tutti proruppero in grida di giubilo. La telecamera inquadrò Peter Higgs che si toglieva gli occhiali e si asciugava le lacrime. Higgs aveva proposto la particella che porta il suo nome quasi cinquant’anni prima, era riuscito a contrastare l’opposizione che a volte incontrano le idee nuove e aveva aspettato tutta la vita di sapere se aveva ragione.
Durante una lunga passeggiata nei dintorni di Edimburgo, il giovane Higgs aveva risolto un enigma che frustrava da tempo i ricercatori di tutto il mondo. Il modello matematico che descrive l’elettromagnetismo, la forza nucleare debole e la forza nucleare forte iniziava rapidamente a funzionare. Lavorando fianco a fianco, teorici e sperimentatori stavano scrivendo un manuale di meccanica quantistica con la descrizione dei meccanismi del micromondo. Però mancava chiaramente qualcosa. Le equazioni non potevano spiegare l’acquisizione della massa da parte delle particelle fondamentali. Perché se vi trovaste a spingere particelle fondamentali (come elettroni o quark), sentireste che le particelle si oppongono ai vostri sforzi? Questa resistenza riflette la massa della particella, ma le equazioni sembrano raccontare una storia diversa, ossia che le particelle dovrebbero essere prive di massa e quindi non dovrebbero offrire alcuna resistenza. Inutile dire che la discrepanza fra la realtà e le equazioni stava facendo impazzire i fisici.
Il motivo per cui le equazioni sembravano permettere soltanto particelle prive di massa è un poco tecnico, ma in sostanza è la simmetria. Cosí come una palla da biliardo appare sempre identica che la si giri di qua o di là, le equazioni che descrivono le particelle fondamentali hanno sempre lo stesso aspetto quando si scambia questo termine matematico con quell’altro. In entrambi i casi, l’indifferenza al cambiamento – di orientamento per la palla da biliardo e di organizzazione matematica delle equazioni – riflette un grado elevato di simmetria di fondo. Nel caso della palla da biliardo, la simmetria ne garantisce il rotolamento uniforme. Nel caso delle equazioni, la simmetria garantisce che l’analisi matematica possa procedere senza intoppi. Come si erano resi conto i fisici delle particelle, senza la simmetria le equazioni sarebbero state incoerenti, producendo assurdità simili al risultato di dividere un numero per zero. Da qui il problema: l’analisi rivelava che la stessa simmetria matematica che garantisce la consistenza delle equazioni richiede particelle prive di massa (il che forse non stupisce, poiché zero è un numero altamente simmetrico, che mantiene il suo valore quando viene moltiplicato o diviso per un altro numero).
È in questo contesto che entrò in scena Higgs. Higgs sostenne che, intrinsecamente, le particelle sono prive di massa, proprio come richiesto dalle equazioni simmetriche originarie. Tuttavia, cosí proseguiva il ragionamento, una volta inserite nel mondo, le particelle acquisiscono massa per influenza dell’ambiente. Higgs immaginò che lo spazio fosse riempito da una sostanza invisibile, oggi chiamata campo di Higgs, e che le particelle spinte attraverso il campo fossero sottoposte a una forza di resistenza simile a quella a cui è soggetta una pallina da wiffle che vola per aria. Anche se una pallina da wiffle non pesa quasi niente, se la teneste in mano fuori dal finestrino di un’auto che viaggia a velocità sempre maggiori, fareste un bell’esercizio con la mano e il braccio: la pallina da wiffle sembra pesante perché deve contrastare la resistenza esercitata dall’aria. In maniera simile, propose Higgs, quando si spinge una particella, questa sembra avere massa perché deve contrastare la resistenza esercitata dal campo di Higgs. Piú la particella è pesante e piú resiste alla spinta, il che secondo Higgs significa che è maggiore la resistenza esercitata sulla particella dal campo di Higgs che permea lo spazio14.
Se il concetto di campo di Higgs non vi è già familiare, ma avete letto con attenzione i capitoli precedenti, è possibile che l’idea vi sembri particolarmente strana. La fisica moderna si è abituata all’idea di sostanze invisibili che permeano lo spazio, versioni moderne dell’antico concetto di etere. Negli ultimi decenni i fisici non hanno esitato a proporre sostanze invisibili che permeano lo spazio, dall’inflatone che potrebbe aver causato il Big Bang all’energia oscura che potrebbe essere responsabile dell’espansione accelerata dell’universo misurata oggi. Negli anni Sessanta, però, era un’idea radicale. Secondo Higgs, se lo spazio fosse stato davvero vuoto nel senso tradizionale e intuitivo, le particelle non avrebbero avuto massa, perciò la sua conclusione era che lo spazio non è vuoto e che la strana sostanza che lo permea deve essere tale da dare alle particelle la massa di cui sono evidentemente dotate.
Il primo articolo in cui Higgs presentò gli argomenti a sostegno di questa nuova proposta fu scartato senza nemmeno essere discusso. «Mi comunicarono che dicevo sciocchezze», ricorda Higgs della reazione15. Ma coloro che studiarono attentamente la proposta capirono i meriti dell’idea, che lentamente si diffuse. Alla fine, fu pienamente accettata da tutti. Incontrai per la prima volta la proposta di Higgs negli anni Ottanta, in un corso di specializzazione in cui veniva presentata con tale certezza che per un po’ non mi resi conto che non era ancora stata confermata sperimentalmente.
La strategia per verificare la proposta è tanto facile da descrivere quanto impegnativa da attuare. Quando due particelle, diciamo due protoni, si scontrano ad alta velocità, la collisione dovrebbe perturbare il campo di Higgs. Di tanto in tanto, in teoria la perturbazione dovrebbe far saltare una minuscola gocciolina del campo, che si manifesterebbe come un nuovo tipo di particella elementare, una particella di Higgs, che il premio Nobel Frank Wilczek chiama «scheggia del vuoto». Un avvistamento di questa particella avrebbe dunque fornito la prova inconfutabile della teoria, un obiettivo che ha ispirato piú di trent’anni di ricerche, da parte di piú di tremila scienziati, di piú di trenta paesi, che hanno usato l’acceleratore piú potente del mondo, con una spesa di piú di 15 miliardi di dollari. La conclusione di questa odissea, annunciata in quella conferenza stampa dell’Independence Day, fu segnalata da una minuscola gobba in un grafico altrimenti regolare prodotto dai dati raccolti al Large Hadron Collider – la conferma sperimentale che la particella di Higgs era stata rilevata.
È stato un episodio magnifico negli annali delle scoperte umane, che ha approfondito la nostra comprensione delle proprietà delle particelle e ha rafforzato la nostra fiducia nella capacità della matematica di rivelare aspetti nascosti della realtà. La pertinenza del campo di Higgs con il nostro viaggio lungo la linea temporale del cosmo deriva da una considerazione diversa, seppur collegata: in qualche momento futuro il valore del campo di Higgs potrebbe variare. E cosí come cambierebbe la resistenza incontrata da una pallina da wiffle se la densità dell’aria fosse diversa, anche le masse delle particelle fondamentali cambierebbero se il valore del campo di Higgs che incontrano fosse diverso. Il cambiamento dovuto a tutte queste variazioni tranne le piú minuscole distruggerebbe quasi certamente la realtà come la conosciamo. Gli atomi, le molecole e le strutture che formano dipendono strettamente dalle proprietà dei loro costituenti. Il Sole brilla a causa delle caratteristiche fisiche e chimiche dell’idrogeno e dell’elio, che dipendono dalle proprietà dei protoni, dei neutroni, degli elettroni, dei neutrini e dei fotoni. Le cellule fanno ciò che fanno soprattutto a causa delle caratteristiche fisiche e chimiche dei loro costituenti molecolari, anch’esse dipendenti dalle proprietà delle particelle fondamentali. Se cambiano le masse delle particelle fondamentali, cambiano i loro comportamenti e quindi cambia piú o meno tutto.
Un gran numero di esperimenti di laboratorio e di osservazioni astronomiche ha stabilito che per la maggior parte se non per la totalità degli ultimi 13,8 miliardi di anni le masse delle particelle fondamentali sono state costanti e quindi il valore del campo di Higgs è stato stabile. Comunque, anche se vi è solo una piccolissima probabilità che in futuro il valore del campo di Higgs possa compiere un salto, quella probabilità verrà amplificata dalle enormi durate che stiamo considerando, diventando praticamente una certezza.
Il processo fisico che può portare a un salto del valore del campo di Higgs è il cosiddetto tunneling quantistico, un processo che è piú facile da comprendere considerandolo innanzitutto in uno scenario piú semplice. Se mettiamo una biglia in una flûte, e se nessuno interferisce, ci aspettiamo che la biglia resti dov’è. Dopo tutto, la biglia è circondata da barriere e non ha abbastanza energia per arrampicarsi sulle pareti del bicchiere e uscirne. Né per passare direttamente attraverso le pareti. In maniera simile, se mettiamo un elettrone in una trappola a forma di minuscola flûte, attorniando la sua posizione di barriere, ci aspettiamo che anch’esso resti al suo posto. In effetti, il piú delle volte è cosí. A volte, però, l’elettrone scompare dalla trappola e si materializza al suo esterno.
Per quanto ci possa sorprendere, nella meccanica quantistica una simile mossa degna di Houdini è piuttosto usuale. Usando l’equazione di Schrödinger, possiamo calcolare la probabilità di trovare l’elettrone in questa o quella posizione, come per esempio all’interno o all’esterno della trappola. Le equazioni mostrano che quanto piú formidabile è la trappola – quanto piú alti e spessi sono i suoi lati – tanto meno è probabile che l’elettrone ne esca. Tuttavia, e questo è il punto chiave, affinché la probabilità sia uguale a zero la trappola dovrebbe essere infinitamente larga o infinitamente alta e nel mondo reale questo non capita mai. Una probabilità non nulla, per quanto piccola, significa che aspettando abbastanza a lungo prima o poi l’elettrone passerà dall’altra parte. Le osservazioni lo confermano. Questo passaggio attraverso una barriera è ciò che intendiamo con «tunneling quantistico».
Ho descritto il tunneling quantistico di una particella che penetra una barriera, cambiando la sua posizione, ma questo processo può riguardare anche un campo che penetra una barriera, cambiando il suo valore. Coinvolgendo il campo di Higgs, questo processo potrebbe determinare il destino a lungo termine dell’universo.
Nelle unità convenzionali usate dai fisici, il valore attuale del campo di Higgs è 246. Perché 246?16. Nessuno lo sa. Tuttavia, la resistenza esercitata da un campo di Higgs con questo valore (insieme al modo preciso in cui ciascuna particella interagisce con il campo) spiega perfettamente le masse delle particelle fondamentali. Ma perché il valore del campo di Higgs è rimasto stabile per miliardi di anni? La risposta, crediamo, è che il valore del campo di Higgs, come la biglia nella flûte o l’elettrone nella trappola, è circondato da barriere formidabili: se il campo di Higgs cercasse di migrare da 246 a un numero maggiore o minore, le barriere lo riporterebbero al valore originario, cosí come la biglia verrebbe riportata al fondo del bicchiere se qualcuno agitasse per un po’ la flûte. E se non fosse per considerazioni quantistiche, il valore del campo di Higgs resterebbe sempre 246. Ma il tunneling quantistico, come scoprí Sidney Coleman a metà degli anni Settanta, cambia la storia17.
Cosí come permette che di tanto in tanto un elettrone esca da una trappola, la meccanica quantistica permette anche che il valore del campo di Higgs penetri una barriera. Se dovesse accadere, il campo non cambierebbe valore simultaneamente in tutto lo spazio. In alcune minuscole regioni scelte dalla natura casuale degli eventi quantistici, il campo farebbe la sua mossa, attraversando la barriera e assumendo un altro valore. Poi, cosí come una biglia dopo aver attraversato la parete di una flûte scende a un’altezza minore, il valore del campo di Higgs scenderebbe a un livello minore di energia. L’attrazione dell’energia minore a quel punto indurrebbe alla transizione il campo nelle zone vicine, con un effetto domino che produrrebbe una sfera sempre piú grande di regioni con il nuovo valore.
All’interno della sfera, il nuovo valore del campo di Higgs farebbe cambiare le masse delle particelle, quindi le caratteristiche consuete della fisica, della chimica e della biologia verrebbero meno. All’esterno della sfera, dove il valore non è ancora cambiato, le particelle manterrebbero le proprietà usuali, perciò tutto sembrerebbe normale. L’analisi di Coleman rivelò che il confine della sfera, che segna la transizione dal vecchio al nuovo valore, si estenderebbe verso l’esterno quasi alla velocità della luce18. Ciò significa che per quanti tra noi fossero all’esterno sarebbe praticamente impossibile vedere il muro di distruzione che si avvicina. Qualora lo vedessimo, sarebbe già sopra di noi. Un momento la vita è come al solito e un momento dopo non esistiamo piú. In questo regno popolato da particelle dotate di proprietà sconosciute alla fine potrebbero emergere nuove strutture e magari nuove forme di vita? Forse. Ma oggi rispondere a questa domanda supera le nostre capacità.
I fisici non sono in grado di indicare con precisione quando potrebbe compiere questo salto il campo di Higgs, poiché la data dipende da proprietà delle particelle e delle forze che devono ancora essere determinate con la precisione adeguata. Inoltre, essendo un processo quantistico, può essere previsto soltanto probabilisticamente. I dati attualmente disponibili suggeriscono che probabilmente il campo di Higgs passerà a un valore diverso tra un minimo di 10102 e un massimo di 10359 anni – da qualche parte fra il centoduesimo e il trecentocinquantanovesimo piano (piani che rappresenterebbero una sfida persino per il Burj Khalifa)19.
Poiché il campo di Higgs ridefinisce ciò che intendiamo per vuoto – il piú vuoto degli spazi vuoti in qualsiasi punto dell’universo visibile contiene il campo di Higgs il cui valore è 246 –, il tunneling quantistico del valore del campo di Higgs rivela un’instabilità dello stesso spazio vuoto. Aspettando abbastanza a lungo anche lo spazio vuoto cambierà. Benché la data prevista per questo cambiamento, per questa disintegrazione, non ci dia grandi motivi di preoccupazione, va notato che l’evento di tunneling potrebbe anche accadere oggi. O domani. Questo è l’onere di vivere in un universo quantistico in cui gli eventi futuri sono governati da probabilità. Cosí come potreste lanciare qualche centinaio di monete e ottenere solo teste – possibile ma improbabile –, potremmo essere sul punto di essere stroncati dal muro di un campo di Higgs variato che si trascina dietro una nuova varietà di spazio vuoto. Anche questo è possibile ma improbabile.
Che questa probabilità sia minuscola sembrerebbe un bene. Essere spazzati via da un muro di distruzione che viaggia alla velocità della luce, pur essendo rapido e indolore, è qualcosa che la maggior parte di noi preferirebbe evitare. In ogni caso, se rivolgiamo l’attenzione a scale temporali ancora piú ampie, incontreremo processi quantistici non solo bizzarri, ma anche capaci di sconvolgere tutto ciò che riteniamo vero della realtà. In risposta a questa possibilità, alcuni fisici hanno coltivato una predilezione per le teorie in cui l’universo finirà molto prima che l’umanità debba affrontare l’implosione del pensiero razionale stesso.
5. Cervelli di Boltzmann.
Salendo lungo la linea temporale, abbiamo visto la seconda legge della termodinamica in azione. Dal Big Bang alla formazione delle stelle, agli albori della vita, ai processi mentali, allo svuotamento delle galassie e fino alla disintegrazione dei buchi neri, l’entropia è stata inesorabilmente in aumento. Questa crescita costante può far dimenticare che la sentenza della seconda legge è probabilistica. L’entropia può diminuire. Le particelle di aria diffuse in questo momento nella stanza in cui vi trovate possono raggrupparsi tutte contemporaneamente formando una palla sospesa vicino al soffitto, facendovi rantolare. È talmente improbabile, e l’intervallo di tempo previsto prima che si verifichi è talmente enorme, che ne ammettiamo la possibilità, ma andiamo saggiamente avanti con la nostra vita. Dato però che stiamo guardando lontano, abbandoniamo il nostro provincialismo temporale e consideriamo alcune possibilità di diminuzione dell’entropia davvero allucinanti.
Immaginate di aver trascorso l’ultima ora leggendo questo libro, seduti nella vostra poltrona preferita e sorseggiando un tè dalla vostra tazza preferita. Se vi chiedessero come si è creata questa gradevole situazione, direste che avete comprato la tazza nel New Mexico da un ceramista locale, che avete ereditato la poltrona dalla nonna paterna e che siete sempre stati interessati al funzionamento dell’universo, il che vi ha portati a leggere questo libro. Se incoraggiati a fornire piú dettagli, parlereste della vostra educazione, dei vostri fratelli, dei vostri genitori e cosí via. Se vi spingessero ad andare ancora piú indietro nel tempo, alla fine potreste parlare proprio degli argomenti trattati nei capitoli precedenti.
Tutto ciò si basa su un fatto curioso: tutto quel che sapete riflette pensieri, ricordi e sensazioni che si trovano attualmente nel vostro cervello. L’acquisto della tazza è avvenuto tanto tempo fa. Quel che rimane è una configurazione di particelle nella vostra testa che ne serba il ricordo. Ciò vale anche per il ricordo di aver ereditato la poltrona della nonna, di essere sempre stato curioso dell’universo e di aver letto vari concetti in questo libro. Da una prospettiva rigorosamente fisicalistica, tutto ciò è nella vostra testa in questo momento a causa della particolare disposizione delle particelle che sono nella vostra testa in questo momento. Ciò significa che se uno spruzzo casuale di particelle che svolazzano nel vuoto in un universo di alta entropia privo di strutture dovesse, per caso, disporsi spontaneamente in una configurazione di minore entropia che casualmente corrisponde a quella delle particelle che costituiscono attualmente il vostro cervello, quella collezione di particelle avrebbe gli stessi ricordi, gli stessi pensieri e le stesse sensazioni che avete voi. Queste ipotetiche menti fluttuanti e senza vincoli formate dalla rara ma possibile unione spontanea di particelle in una particolare configurazione altamente ordinata sono state chiamate cervelli di Boltzmann, non so se per onorarlo o per screditarlo20.
Solo nella gelida oscurità dello spazio, un cervello di Boltzmann non penserebbe a lungo prima di morire. Un’unione spontanea di particelle, tuttavia, potrebbe anche produrre accessori che ne prolungherebbero il funzionamento: il riparo di una testa e di un corpo, provviste di cibo e di acqua, una stella e un pianeta appropriati, per citarne alcuni. In effetti, un’unione spontanea di particelle (e di campi) potrebbe produrre tutto l’universo attuale o ricreare le condizioni che innescarono il Big Bang, permettendo di nuovo lo sviluppo di un universo simile al nostro21. Va detto che, quando si considerano le riduzioni spontanee dell’entropia, sono estremamente piú probabili quelle piú piccole: quantità minori di particelle che si uniscono in strutture che sono piú resistenti all’imprecisione delle disposizioni. E non ho detto estremamente tanto per dire: sono esponenzialmente piú probabili. Poiché siamo particolarmente interessati al lontano futuro del pensiero, un cervello di Boltzmann solitario è la minima e quindi piú probabile formazione casuale di particelle che possa pensare e quindi domandarsi quale sia mai la sua origine22.
Ciò che ne fa qualcosa di piú di una trama di fantascienza di serie B è il fatto che, quando consideriamo il lontano futuro, le condizioni appaiono mature per l’effettivo verificarsi di questi processi apparentemente bizzarri. Un ingrediente essenziale è l’espansione accelerata dello spazio. Come già osservato, questa espansione determina un orizzonte cosmologico – una sfera distante tutt’intorno a noi che segna il confine al di là del quale gli oggetti si allontanano piú velocemente della luce, impedendo qualsiasi possibilità di contatti o influenze. Cosí come Hawking ha dimostrato che la meccanica quantistica implica che l’orizzonte di un buco nero ha una temperatura ed emette radiazione, Hawking e il suo collaboratore Gary Gibbons hanno usato un ragionamento simile per mostrare che anche un orizzonte cosmologico ha una temperatura ed emette radiazione. La nostra analisi del capitolo precedente concentrata sul futuro del pensiero si basava su questo stesso fatto, concludendo che il minuscolo valore della temperatura del nostro orizzonte cosmologico, all’incirca 10−30 kelvin, potrebbe benissimo essere sufficiente per far sí che i futuri Pensatori, cercando disperatamente di continuare a pensare in eterno, finiscano per bruciare nei propri pensieri. Come vedremo, nel corso di intervalli di tempo molto piú lunghi alcune considerazioni simili offrono al futuro del pensiero la possibilità di una curiosa ripresa.
Nel lontano futuro, la radiazione emessa dall’orizzonte cosmologico fornirà una fonte debole ma costante di particelle (per lo piú particelle prive di massa, fotoni e gravitoni) che vagheranno per la regione dello spazio circondata dall’orizzonte. In qualche rara occasione, alcune collezioni di queste particelle entreranno in collisione e, attraverso E = mc2, trasformeranno la propria energia di movimento nella produzione di un numero piú piccolo di particelle dotate di massa, come gli elettroni, i quark, i protoni, i neutroni e le loro antiparticelle. Producendo meno particelle e meno movimento, questi processi fanno diminuire l’entropia, ma se si aspetta abbastanza a lungo questi eventi improbabili si verificheranno. E continueranno a verificarsi. In occasioni ancora piú rare, alcuni dei protoni, neutroni ed elettroni cosí prodotti si muoveranno nel modo giusto per unirsi in questa o quella specie atomica. Gli enormi intervalli di tempo necessari per questi rari processi spiegano perché non hanno nulla a che fare con la sintesi dei nuclei atomici dopo il Big Bang o nelle stelle, ma nel tempo illimitato di cui disponiamo ora questi processi sono invece importanti. Nel corso di periodi di tempo ancora piú lunghi, gli atomi si uniranno in modo casuale in una schiera di configurazioni sempre piú complesse, garantendo che di tanto in tanto sulla strada verso l’eternità una collezione di particelle si unirà producendo questa o quella struttura macroscopica – dai pupazzetti alle Bentley. In assenza di esseri pensanti, tutte queste strutture andranno e verranno senza che nessuno se ne accorga. Di tanto in tanto, però, la struttura macroscopica formata a caso sarà un cervello. Estinto da tempo, il pensiero farà momentaneamente ritorno.
Qual è la scala temporale di una simile resurrezione? Con un calcolo approssimativo (che gli appassionati di matematica possono trovare nelle note)23, possiamo stimare che esiste una ragionevole possibilità che nell’arco di anni si formi un cervello di Boltzmann. È un bel po’ di tempo. Mentre potremmo scrivere la durata rappresentata dalla sommità dell’Empire State Building, ossia 10102 (1 seguito da 102 zeri), piú o meno in una riga e mezza, per scrivere (1 seguito da 1068 zeri), non ci basterebbero tutti i caratteri di tutte le pagine di tutti i libri mai stampati. Comunque, nessuno ciondolerebbe lanciando occhiate all’orologio, in attesa che il calo entropico si dia una mossa e produca un cervello. L’universo potrebbe restare quasi per un’eternità in uno stato ordinario, disordinato, di alta entropia e nessuno se ne lamenterebbe.
Ne deriva una questione interessante, alquanto personale. Da dove arriva il vostro cervello? Anche se la domanda sembra sciocca, assecondatemi. Rispondendo, seguite naturalmente i vostri ricordi e la vostra conoscenza per spiegare che il vostro cervello è nato insieme a voi e che il vostro inizio fa parte di una sequenza che possiamo ricondurre, attraverso la vostra ascendenza, all’evoluzione della vita, la formazione della Terra, del Sole e cosí via, fino al Big Bang. In apparenza, sembra sensato. Quasi tutti darebbero una qualche versione di questa risposta. Tuttavia, come hanno chiarito i capitoli precedenti, l’intervallo temporale durante il quale si possono formare cervelli nel modo che avete raccontato è limitato – a essere generosi, probabilmente è compreso tra il decimo e il quarantesimo piano dell’Empire State Building. La finestra temporale per la formazione di cervelli nel modo boltzmanniano è incomparabilmente piú grande – potrebbe benissimo essere illimitata24. Con il passare del tempo, i cervelli di Boltzmann continueranno, di rado ma certamente, a formarsi, perciò il numero di questi cervelli che vanno e vengono diventerà sempre piú grande. Un esame di un tratto abbastanza lungo della linea temporale rivelerebbe quindi che la popolazione totale di cervelli di Boltzmann supera di gran lunga la popolazione totale di cervelli tradizionali. Ciò vale anche se consideriamo soltanto quei cervelli di Boltzmann con configurazioni di particelle tali da portarli a credere erroneamente di essere nati nel modo biologico tradizionale. Anche in questo caso, un processo, per quanto raro, nel corso di periodi arbitrariamente lunghi si verificherà un numero arbitrariamente grande di volte.
Se quindi vi domandate quale sia il modo piú probabile in cui avete acquisito le credenze, i ricordi, la conoscenza e la comprensione che avete oggi, la risposta obiettiva basata soltanto sulle dimensioni delle popolazioni è chiara: il vostro cervello si è formato spontaneamente da particelle vaganti nel vuoto e a imprimere tutti i suoi ricordi e le altre caratteristiche neuropsicologiche è stata la particolare configurazione delle particelle. Il vostro racconto di come siete venuti al mondo è toccante, ma non corrisponde al vero. I ricordi e le varie catene di ragionamento che vi hanno portato ad avere la conoscenza e le credenze che avete sono tutti fittizi. Non avete un passato. Siete nati come un cervello disincarnato dotato di pensieri e ricordi di cose che non sono mai accadute25.
Al di là dell’estrema stranezza, questo scenario porta a trarre una conclusione devastante, che è la ragione per cui mi sono concentrato sui cervelli che si formano spontaneamente e non sulla miriade di altri oggetti inanimati che si possono formare per coalescenza casuale di particelle. Se un cervello, il vostro, il mio o quello di chiunque altro, non può essere certo che i suoi ricordi e le sue credenze siano un riflesso accurato di eventi che sono accaduti, nessun cervello può fidarsi dell’insieme di misurazioni, osservazioni e calcoli che si presume essere la base della comprensione scientifica26. Ho molti ricordi di quando studiavo la relatività generale e la meccanica quantistica, posso ripercorrere mentalmente la catena di ragionamenti a sostegno di queste teorie, ricordo di aver esaminato i dati e le osservazioni che queste teorie spiegano straordinariamente bene e cosí via. Ma se non posso essere certo che questi pensieri siano stati suscitati dagli eventi reali a cui li attribuisco, non posso essere certo che le teorie non siano altro che costruzioni mentali e quindi non posso fidarmi di nessuna conclusione derivante dalle teorie. Il problema è che una di queste conclusioni, che ora sappiamo non essere attendibili, è la probabilità che io sia un cervello che si è formato spontaneamente e fluttua nel vuoto. Il profondo scetticismo che emerge dalla possibilità della formazione spontanea di cervelli ci obbliga a dubitare proprio del ragionamento che ci ha portati a prendere in considerazione questa possibilità.
In breve, le rare diminuzioni spontanee dell’entropia che sono permesse dalle leggi della fisica possono far vacillare la nostra fiducia nelle leggi stesse e in tutto ciò che si suppone implichino. Considerando le leggi in azione in periodi di tempo arbitrariamente lunghi, piombiamo in un incubo di scetticismo, che scuote la nostra fiducia in ogni cosa. Non è una condizione felice. Come possiamo ritrovare la fiducia nei fondamenti del pensiero razionale che hanno facilitato la nostra vigorosa salita sull’Empire State Building e oltre? A tal fine, i fisici hanno sviluppato un certo numero di strategie.
Alcuni arrivano a concludere che i cervelli di Boltzmann sono molto rumore per nulla. Certo, riconoscono, la formazione di cervelli di Boltzmann è possibile. Tranquillizzatevi, però: non siete sicuramente uno di loro. Ecco come si dimostra. Guardatevi intorno e rendetevi conto di tutto ciò che vedete. Se foste un cervello di Boltzmann, quasi certamente un istante dopo non esistereste piú. Un cervello che può durare piú a lungo è un cervello che fa parte di un sistema di supporto piú vasto e ordinato e quindi richiede una fluttuazione ancora piú rara a un’entropia ancora piú bassa, il che rende la sua formazione ancora piú improbabile. Se a una seconda occhiata il mondo non vi sembra cambiato, la vostra fiducia nel fatto che non siete un cervello di Boltzmann cresce. In effetti, secondo questa prospettiva, ogni momento simile che si succede rafforza la vostra argomentazione e aumenta la vostra fiducia.
Si noti, tuttavia, che l’argomentazione presuppone che ciascuno dei momenti di questa sequenza sia, in senso tradizionale, reale. Se ora ricordate di aver dato una decina di occhiate al mondo nell’ultimo minuto, rassicurandovi piú volte di non essere un cervello di Boltzmann, quei ricordi riflettono lo stato del vostro cervello in questo momento e perciò sono compatibili con la possibilità che il vostro cervello si sia appena formato, già dotato di quegli stessi ricordi. Prendendo davvero sul serio questo scenario, vi rendete conto che le osservazioni empiriche che avete usato per sostenere che non siete un cervello di Boltzmann potrebbero far parte esse stesse della finzione. Posso ricordare di essermi detto «Penso, dunque sono», ma in qualunque momento un resoconto accurato richiede che io dica invece «Penso di aver pensato, dunque penso di essere stato». In realtà, il ricordo di questi pensieri non garantisce che i pensieri siano mai stati reali.
Un approccio piú convincente consiste nel mettere in discussione lo scenario stesso. Fondamentale per l’argomentazione a favore del cervello di Boltzmann è l’esistenza di un orizzonte cosmologico distante che irradia continuamente particelle, le materie prime per costruire strutture complesse, comprese le menti. Nel lungo periodo, se l’energia oscura scomparisse, l’espansione accelerata si concluderebbe e l’orizzonte cosmologico recederebbe. Senza una superficie distante che irradia particelle, la temperatura dello spazio si avvicinerebbe a zero e con ciò anche la possibilità della formazione spontanea di strutture macroscopiche complesse diventerebbe pressoché nulla. Finora non abbiamo prove di un indebolimento (o di un rafforzamento) del valore dell’energia oscura, ma futuri studi osservazionali permetteranno di analizzare la possibilità in modo piú preciso. Volendo esprimere un giudizio prudente, possiamo dire che non si è ancora raggiunta una decisione27.
Ancora piú radicali sono gli approcci in cui l’universo, o per lo meno l’universo cosí come lo conosciamo, molto semplicemente non continuerà a esistere in un futuro arbitrariamente lontano. In mancanza degli smisurati periodi di tempo che abbiamo considerato, la probabilità della formazione di cervelli di Boltzmann diventa talmente minuscola che possiamo tranquillamente ignorare del tutto il processo. Se l’universo dovesse aver fine molto prima che sia passato il tempo necessario per rendere probabile la produzione di cervelli di Boltzmann, potremmo mettere da parte lo scetticismo e tornare comodamente al nostro resoconto precedente dell’origine e dello sviluppo dei nostri cervelli, compresi ricordi, conoscenze e credenze28.
Come si potrebbe realizzare una tale rapida fine dell’universo?
6. La fine è vicina?
In precedenza, abbiamo considerato la possibilità che il campo di Higgs compia un salto quantistico a un nuovo valore, provocando un improvviso cambiamento delle proprietà delle particelle che riscriverebbe molti processi fondamentali della fisica, della chimica e della biologia. L’universo andrebbe avanti, ma quasi certamente senza di noi. Se ciò dovesse accadere molto prima del tempo necessario per arrivare alla formazione dei cervelli di Boltzmann (come suggeriscono oggi i dati sul campo di Higgs), i cervelli ordinari dominerebbero la popolazione e noi schiveremmo il pantano dello scetticismo29.
Una soluzione ancora piú chiara emergerebbe da un salto quantistico in cui il valore dell’energia oscura cambiasse all’improvviso. Oggi l’espansione accelerata del cosmo è alimentata da un’energia oscura positiva che permea ogni regione dello spazio. Poiché l’energia oscura positiva produce una gravità repulsiva che spinge verso l’esterno, ma l’energia oscura negativa produce una gravità attrattiva che spinge verso l’interno, un evento di tunneling quantistico in cui l’energia oscura saltasse a un valore negativo segnerebbe una transizione dalla fase di espansione dell’universo al suo collasso verso l’interno. Questa inversione di marcia farebbe sí che tutto – materia, energia, spazio, tempo – verrebbe compresso a una densità e a una temperatura straordinarie, una specie di Big Bang invertito che i fisici chiamano Big Crunch (Grande Collasso)30. Cosí come vi è incertezza riguardo a ciò che accadde all’istante zero, scatenando l’esplosione, vi è incertezza riguardo a ciò che potrebbe accadere nell’istante finale, riguardo al collasso stesso. Un punto evidente, tuttavia, è che se il collasso avvenisse prima di anni, anche in questo caso le strane implicazioni dei cervelli di Boltzmann sarebbero rese dubbie.
Nell’ultimo approccio considerato qui, che è interessante al di là del problema dei cervelli di Boltzmann, il fisico Paul Steinhardt e i suoi collaboratori Neil Turok e Anna Ijjas immaginano che questo potenziale collasso che porrebbe fine all’universo si trasformi in un piú ottimistico rimbalzo che produce un universo31. Secondo questa teoria, le regioni dello spazio come la nostra attraversano fasi di espansione seguita da contrazione, con i cicli che si ripetono indefinitamente. Il Big Bang diventa il Big Bounce, un Grande Rimbalzo dal precedente periodo di contrazione. L’idea non è del tutto nuova. Poco tempo dopo il completamento della teoria generale della relatività da parte di Einstein, una versione ciclica della cosmologia fu proposta da Aleksandr Fridman e in seguito sviluppata da Richard Tolman32. L’obiettivo di Tolman, in particolare, era eludere la questione dell’inizio dell’universo. Se i cicli si estendono all’infinito nel passato, non vi è stato alcun inizio. L’universo è sempre esistito. Tolman tuttavia ha scoperto che la seconda legge della termodinamica contrasta questa visione. Il continuo accumulo di entropia da un ciclo al successivo implica che l’universo in cui viviamo oggi potrebbe essere stato preceduto soltanto da un numero finito di cicli, il che dopo tutto richiede un inizio. Nella loro nuova versione dell’approccio ciclico, Steinhardt e Ijjas sostengono di essere in grado di superare questo problema, poiché hanno stabilito che durante ciascun ciclo una data regione dello spazio si espande molto piú di quanto si contragga, garantendo la diminuzione dell’entropia contenuta. Ciclo dopo ciclo, l’entropia totale in tutto lo spazio aumenta, come prescrive la seconda legge. Ma in qualsiasi regione finita, come quella che diede origine al nostro regno osservabile, l’accumulo di entropia che ostacolava Tolman non è piú un problema. L’espansione diluisce tutta la materia e tutta la radiazione, mentre la contrazione seguente sfrutta il potere della gravità per fornire la quantità di energia di alta qualità sufficiente a far ripartire il ciclo. La durata di ciascun ciclo dipende dal valore dell’energia oscura e questo, in base alle misurazioni attuali, porta a una durata dell’ordine di centinaia di miliardi di anni. Poiché questo intervallo è molto minore del tempo richiesto per la formazione di cervelli di Boltzmann, la cosmologia ciclica offre un’altra soluzione potenziale per la conservazione della razionalità. Ogni ciclo lascerebbe ampio tempo per produrre cervelli nel modo ordinario, ma si concluderebbe ben prima che vi sia stato il tempo di produrre cervelli nel modo boltzmanniano. Quindi potremmo tutti dichiarare con ragionevole certezza che i nostri ricordi sono stati causati da eventi che sono realmente accaduti.
Guardando al futuro, l’approccio ciclico indica che la nostra salita sull’Empire State Building verrebbe interrotta, finendo da qualche parte in prossimità dell’undicesimo o dodicesimo piano, quando la fase di contrazione dello spazio provoca un rimbalzo che conclude il nostro ciclo e fa iniziare il successivo. La linearità della metafora del grattacielo dovrebbe essere aggiornata e trasformata in una forma a spirale (mi viene in mente una versione svettante del Museo Guggenheim di New York), in cui ciascun giro rappresenta un ciclo cosmologico. Inoltre, poiché i cicli possono persistere indefinitamente nel passato come nel futuro, dovremmo immaginare che la struttura si estende all’infinito in entrambe le direzioni. La realtà come la conosciamo farebbe parte di un unico giro intorno alla pista cosmologica.
In anni recenti, la cosmologia ciclica è emersa come rivale principale della teoria inflazionaria. Benché entrambe possano spiegare le osservazioni cosmologiche, comprese le importantissime variazioni di temperatura della radiazione di fondo a microonde, la teoria inflazionaria continua a dominare la ricerca cosmologica. In parte ciò è dovuto al fatto che è arduo interessare i fisici a un’alternativa a una teoria che negli ultimi quarant’anni ha stimolato la cosmologia a diventare una scienza matura e precisa. La nostra epoca è chiamata l’età d’oro della cosmologia soprattutto per merito della teoria inflazionaria. Ovviamente, la verità nella scienza non è determinata dai sondaggi né dalla popolarità, ma da esperimenti, osservazioni e prove. In realtà, la teoria inflazionaria e quella ciclica formulano una previsione osservativa significativamente diversa, che un giorno potrebbe avere un ruolo di primo piano per poterle giudicare: probabilmente l’intensa espansione inflazionaria al momento del Big Bang avrebbe perturbato la trama dello spazio con tale vigore che le onde gravitazionali prodotte potrebbero essere ancora rilevabili. L’espansione meno violenta del modello ciclico produce onde gravitazionali troppo deboli per essere osservate. In un futuro non troppo distante, le osservazioni potrebbero quindi avere la capacità di spostare l’ago della bilancia a favore di uno dei due approcci cosmologici33.
Tra i ricercatori l’inflazione resta la teoria cosmologica principale, motivo per cui nei capitoli precedenti è su questa che ci siamo concentrati. Ciò nonostante, continua a essere davvero emozionante immaginare che osservazioni future approfondiranno la nostra conoscenza del cosmo e renderanno la nostra era solo uno dei molti, forse infiniti, momenti di comprensione incompleta. Anche se ciò si ripercuoterebbe sulla nostra discussione dei primi stadi dell’universo e pure del suo sviluppo all’incirca dopo il dodicesimo piano, le considerazioni fondamentali sull’entropia e sull’evoluzione che ci hanno guidato per gran parte del nostro viaggio continuerebbero a valere. La conseguenza di maggior impatto, se la teoria ciclica venisse confermata, sarebbe la scoperta che lo schema piú onnipresente – nascita, morte e rinascita – si ripete anche a scale cosmologiche. È un modello attraente. Pensatori di epoche lontane come gli antichi Indú, gli Egizi e i Babilonesi immaginarono che, anziché nascere, svilupparsi e terminare, l’universo, come i giorni e le stagioni, potesse attraversare una sequenza di cicli collegati. In un futuro non troppo distante, i dati raccolti dagli osservatori di onde gravitazionali potrebbero rivelare se questo schema è adottato dal cosmo stesso34.
7. Il pensiero e il multiverso.
Un viaggio a una velocità arbitraria nelle profondità dello spazio avrebbe fine? Potrebbe continuare in eterno? O forse potrebbe fare un giro completo e tornare al punto di partenza, come una circumnavigazione cosmica? Nessuno lo sa. Nell’ambito della teoria inflazionaria, dalle formulazioni matematiche studiate con piú attenzione discende che lo spazio è senza fine, il che spiega in parte perché i ricercatori hanno dedicato la massima attenzione a questa possibilità. Per il lontano futuro del pensiero, uno spazio senza fine prevede una conseguenza particolarmente bizzarra, quindi seguiamo la prospettiva inflazionaria dominante e supponiamo che lo spazio sia infinito35.
La vasta maggioranza dello spazio infinito sarebbe al di là di ciò che possiamo vedere. I nostri telescopi possono vedere la luce emessa da un luogo distante soltanto se ha avuto il tempo sufficiente ad attraversare lo spazio per arrivare fino a noi. Usando il massimo tempo di viaggio possibile (il tempo trascorso dal Big Bang, 13,8 miliardi di anni), possiamo calcolare che la massima distanza osservabile in ogni direzione è pari a circa 45 miliardi di anni-luce (forse avete pensato che il limite fosse 13,8 miliardi di anni-luce, ma mentre la luce viaggia lo spazio si espande, quindi la distanza è maggiore). Se foste cresciuti su un pianeta piú lontano di cosí dalla Terra, finora non avremmo mai potuto comunicare o influenzarci direttamente. Supponendo che lo spazio sia infinito, potete quindi figurarvi l’universo osservabile come un patchwork del diametro di 90 miliardi di anni-luce di regioni ampiamente separate, in cui ciascuna si è evoluta indipendentemente dalle altre36. Ai fisici piace pensare a ciascuna di queste regioni come a un universo indipendente e alla loro intera collezione come a un multiverso. Di conseguenza una distesa infinita di spazio dà origine a un multiverso contenente un numero infinito di universi.
Studiando questi universi, i fisici Jaume Garriga e Alex Vilenkin hanno constatato una caratteristica cruciale37. Se vi facessero vedere una serie di film che mostrano lo sviluppo cosmologico di ciascun universo, i film non potrebbero essere tutti diversi. Poiché ogni regione ha dimensioni finite, e tutte contengono una quantità di energia grande ma finita, vi è solo un numero finito di storie distinte che si possono svolgere. Intuitivamente, potreste pensare il contrario. Potreste aspettarvi che possano esistere infinite variazioni poiché, data qualsiasi storia, si può sempre modificarla spingendo in là questa particella o in qua quell’altra. Il problema, però, è che se le vostre spinte sono troppo piccole, saranno al di sotto del limite di sensibilità dell’incertezza quantistica e quindi insignificanti e, se invece sono troppo grandi, le particelle non resteranno nella regione oppure le loro energie supereranno il massimo possibile. Poiché le variazioni sono limitate sia a scale grandi sia a scale piccole, il loro numero è finito e quindi è possibile solo un numero finito di film.
Con un numero infinito di regioni e un numero finito di film, è impossibile che ciascuna regione abbia un film diverso. Abbiamo la garanzia che i film si ripeteranno; in realtà, abbiamo la garanzia che si ripeteranno un numero infinito di volte. Possiamo anche essere certi che ogni film sarà usato. Le fluttuazioni quantistiche che fanno sí che una storia sia diversa da un’altra sono casuali e quindi coprono ogni configurazione possibile. Nessuna storia viene lasciata indietro. Nella collezione infinita di universi quindi si realizza ogni storia possibile e ciascuna di queste storie si realizza un numero infinito di volte.
Ne deriva una ben strana conclusione: la realtà in cui stiamo vivendo voi, io e chiunque altro si sta realizzando anche laggiú, in altre regioni – in altri universi – e si ripeterà piú e piú volte. Se la modificate in qualunque modo che non sia rigorosamente vietato dalle leggi della fisica (non potete violare la conservazione dell’energia o della carica elettrica, per esempio), anche in questo caso si realizza e si ripete laggiú. È stimolante considerare possibili realtà alternative – Lee Harvey Oswald manca il bersaglio, Claus von Stauffenberg porta a compimento il suo piano, James Earl Ray no. Gli appassionati di meccanica quantistica riconosceranno una somiglianza con la cosiddetta interpretazione a molti mondi della fisica quantistica, secondo la quale ogni possibile risultato permesso dalle leggi quantistiche si realizza nel proprio universo distinto. I fisici hanno discusso per piú di mezzo secolo se questo approccio alla meccanica quantistica sia matematicamente ragionevole e, se sí, se gli altri universi siano reali o soltanto utili invenzioni matematiche. La differenza essenziale nella teoria cosmologica che sto descrivendo è che gli altri mondi – le altre regioni – non sono una questione di interpretazione. Se lo spazio è infinito, le altre regioni esistono davvero.
Da tutto ciò che abbiamo indagato in questo e nei precedenti capitoli, è ragionevole concludere che qui nella nostra regione, nel nostro universo, i nostri giorni, e quelli degli esseri pensanti in generale, sono contati. Il loro numero può essere grande, ma a un certo punto della salita sull’Empire State Building, o forse oltre, molto probabilmente la vita e la mente raggiungeranno la fine. In questo scenario, Garriga e Vilenkin ci offrono un curioso tipo di ottimismo. Poiché nella collezione infinita di universi si realizza ogni storia, osservano, necessariamente alcune godranno di rari e fortuiti cali di entropia che mantengono intatti particolari pianeti e stelle, o producono nuovi ambienti che contengono fonti di energia di alta qualità o uno qualsiasi degli svariati sviluppi improbabili che permetteranno alla vita e al pensiero di continuare molto piú a lungo di quanto si preveda. In effetti, come sostengono Garriga e Vilenkin, scegliendo una qualsiasi durata finita, per quanto lunga, nella collezione infinita vi saranno universi in cui processi improbabili nuotano contro la corrente entropica per mantenere la vita almeno per quel lasso di tempo. Tra gli infiniti universi, pertanto, alcuni ospiteranno la vita e il pensiero in un futuro arbitrariamente lontano.
È difficile capire come si spiegherebbero di avere avuto la fortuna di sopravvivere gli abitanti di quelle regioni. O anche se sarebbero consapevoli della loro fortuna. Forse, se avessero elaborato la stessa comprensione della fisica che abbiamo noi, riconoscerebbero che le fluttuazioni casuali possono produrre risultati rari e fortuiti. Ma quella stessa conoscenza chiarirebbe al contempo che la loro esperienza, pur essendo possibile, è straordinariamente improbabile. Potrebbero concluderne che devono rielaborare la loro comprensione della fisica. Pensateci. Anche se le leggi probabilistiche della fisica quantistica ammettono la possibilità che io attraversi una parete solida, se lo facessi, e lo facessi piú e piú volte, vorremmo migliorare la nostra comprensione della fisica quantistica. Non perché avrei trasgredito le leggi quantistiche. Non le avrei trasgredite. È semplicemente che se eventi presumibilmente improbabili accadono, e accadono spesso, siamo inclini a cercare spiegazioni migliori in base alle quali quegli eventi dopo tutto non sono tanto improbabili. Naturalmente, può anche darsi che gli abitanti di quei regni fortunati non si concentrerebbero affatto sulle spiegazioni, ma seguirebbero semplicemente la corrente e vivrebbero felici indefinitamente.
Poiché è quasi certo che non ci troviamo in una di quelle regioni, e che non siamo abbastanza vicini da poterci rifugiare in una di quelle regioni, forse quando la nostra fine sarà in vista raccoglieremo tutto ciò che abbiamo imparato, scoperto e creato e lo stiperemo in una capsula che lanceremo nella speranza che un giorno possa raggiungere uno dei regni piú fortunati. Se non apparteniamo a una stirpe che durerà in eterno, forse possiamo trasmettere l’essenza di ciò che abbiamo realizzato a coloro che ne fanno parte. Forse, per quanto indirettamente, possiamo lasciare una traccia sull’eternità. Garriga e Vilenkin studiano una versione di questo scenario e, tenendo conto di alcune intuizioni del filosofo David Deutsch, concludono che il piano non ha possibilità di successo. Nella collezione infinita di universi e nella vastità delle scale temporali, le fluttuazioni quantistiche casuali produrranno molte piú capsule false di quante capsule reali i nostri discendenti saranno mai in grado di costruire, garantendo che qualsiasi impronta affidabile di chi siamo e di che cosa abbiamo realizzato si perderà nel rumore quantistico.
Qui nel nostro universo, in quello che per tanto tempo abbiamo considerato l’universo, la vita e il pensiero probabilmente termineranno. Forse è consolante sapere che da qualche parte nello spazio infinito, ben al di là dei confini del nostro regno, la vita e il pensiero potrebbero persistere, anche indefinitamente. Tuttavia, anche se possiamo contemplare l’eternità, e anche se possiamo cercare di ottenerla, a quanto pare non potremo mai raggiungerla.
Capitolo undicesimo
La nobiltà dell’essere
Mente, materia e significato
La guida del Parco nazionale di Pilanesberg, tenendo il fucile di traverso dietro la schiena, stava di nuovo assicurandosi che le persone in procinto di camminare insieme a lui avrebbero reagito in modo adeguato se un elefante, un ippopotamo o un leone fosse arrivato pericolosamente vicino. «Voi… state… fermi, – disse, sottolineando ciascuna parola mentre guardava a turno ogni membro del gruppo. – Scappare da un leone? Passereste il resto della vita cercando di vincere la gara». Sorridendo, mormorammo tutti «sí», «naturalmente» e «certo». Proprio allora mi cadde lo sguardo sulla manica della mia camicia. Identificare con precisione l’essere attaccato al mio polsino non mi interessava granché. Per me, era una tarantola. E stava salendo. Persi la testa. Agitai il braccio avanti e indietro, facendo cadere tutti i bicchieri che erano sul tavolo. Saltai su dalla sedia, e a quel punto caddero anche i piatti che erano sopravvissuti al mio dimenamento iniziale. Nella confusione, la tarantola, o qualunque altra cosa inquietante fosse in realtà, si staccò dalla mia manica. Quando mi ricomposi, la minuscola creatura era per terra e si allontanava strisciando lentamente. «Ah, – disse la guida, sorridendo, quando tutto si era sistemato, – l’universo ha parlato per il nostro amico fisico. Lei viaggerà nella Jeep». E cosí feci.
L’universo non aveva parlato per me. L’attacco e il momento in cui era avvenuto erano entrambi casuali. Se non fossi stato parte in causa, avrei replicato nel modo usuale, che già conoscete, osservando che in assenza di un tale evento non stupirebbe che una tale coincidenza non si fosse verificata. Ma la verità è che per un breve momento l’imbarazzante episodio mi sembrò significativo. Mentre mi sentivo già a disagio per il safari a piedi, e valutavo se fosse il caso di ritirarmi, mi era stato ricordato in modo perfetto che qualcuno che, come me, quando è sovrappensiero può quasi morire di spavento per un saluto inaspettato non dovrebbe proprio affrontare quel particolare rischio. Razionalmente, so che sono discorsi sciocchi. L’universo non controlla che cosa faccio né i pericoli che affronto. Tuttavia, mentre gli istinti atavici risvegliati dall’attacco della tarantola a poco a poco si placavano, al pensiero razionale mancava ancora un passo, o forse due, per riprendere pienamente il controllo.
La sensibilità ai pattern è, in parte, il fattore che ci ha permesso di prevalere. Cerchiamo collegamenti. Prendiamo nota delle coincidenze. Facciamo attenzione alle regolarità. Attribuiamo importanza. Ma solo poche di queste attribuzioni derivano da analisi ben ponderate che descrivono a grandi linee caratteristiche dimostrabili della realtà. Molte emergono dalla preferenza emotiva per l’imposizione di una parvenza di ordine al caos dell’esperienza.
1. Ordine e importanza.
Spesso parlo come se le nostre equazioni matematiche fossero là fuori nel mondo, controllando incessantemente tutti i processi fisici, dai quark al cosmo. Potrebbe essere vero. Forse un giorno stabiliremo che la matematica è profondamente intessuta nell’arazzo della realtà. Quando si lavora ogni giorno con le equazioni, si ha di certo questa impressione. Tuttavia, qualcosa che posso affermare con piú certezza è che la natura segue leggi – che l’universo è fatto di ingredienti il cui comportamento segue una progressione conforme alle leggi – e questa è la base stessa del viaggio che abbiamo intrapreso in questo libro. Le equazioni fondamentali della fisica moderna rappresentano la nostra enunciazione piú precisa delle leggi. Grazie a osservazioni ed esperimenti accurati abbiamo appurato che queste equazioni forniscono una descrizione straordinariamente precisa del mondo. Non abbiamo però la garanzia che siano espresse nel lessico proprio della natura. Anche se lo considero improbabile, ammetto la possibilità che futuri visitatori alieni, quando mostreremo loro con orgoglio le nostre equazioni, sorrideranno educatamente e ci diranno che anche loro avevano iniziato con la matematica, ma poi avevano scoperto il vero linguaggio della realtà.
Nel corso della storia, la comprensione intuitiva della fisica che avevano i nostri antenati era guidata dalle regolarità evidenti negli incontri quotidiani, come il fatto che le rocce cadono, i rami si spezzano e i torrenti scorrono impetuosi; avere un senso innato della meccanica di tutti i giorni ha un valore di sopravvivenza manifesto. Con il tempo, abbiamo utilizzato le nostre capacità cognitive per andare al di là di queste intuizioni che promuovono la sopravvivenza, chiarendo e codificando pattern che si presentano in dominî che vanno dal micromondo delle singole particelle al macromondo degli ammassi di galassie e che in gran parte hanno un valore adattivo scarso o nullo. Plasmando la nostra intuizione e sviluppando le nostre abilità cognitive, l’evoluzione diede inizio alla nostra educazione alla fisica, ma la nostra comprensione piú approfondita è emersa dalla forza della curiosità umana tradotta nel linguaggio della matematica. Le risultanti equazioni espresse in questo linguaggio sono estremamente utili per esplorare la struttura profonda della realtà, ma potrebbero comunque essere invenzioni della mente umana.
Passando a considerare le qualità che guidano la nostra valutazione dell’esperienza umana, mantengo una versione di questa prospettiva. Giusto e sbagliato, bene e male, destino e scopo, valore e significato sono tutti concetti di grande utilità, ma io non sono tra coloro che credono che i giudizi morali e le attribuzioni di importanza trascendano la mente umana. Noi inventiamo queste qualità. Non di sana pianta. La selezione darwiniana ha predisposto la mente umana per essere attratta o respinta o spaventata da varie idee e vari comportamenti. In tutto il mondo la cura dei piccoli riceve un voto alto, mentre l’incesto è ripugnante. La correttezza nei rapporti quotidiani è molto apprezzata, cosí come la lealtà nei confronti dei familiari e dei compatrioti. Con la vita di gruppo dei nostri antenati, le interazioni fra queste e molte altre predisposizioni e gli incontri sul campo crearono anelli di retroazione: il comportamento dei singoli influenzava l’efficacia del vivere in gruppo, portando gradualmente alla formulazione di codici di condotta comuni. A loro volta, questi codici di comportamento offrivano un valore di sopravvivenza piú o meno elevato a coloro che li seguivano1. La selezione naturale, cosí come ha plasmato la nostra intuizione per la fisica elementare, ha anche contribuito a plasmare il nostro senso innato della moralità e del valore.
Anche fra quanti condividono la convinzione che i codici morali non siano imposti dall’alto né fluttuino in un regno astratto della verità, vi è un sano dibattito riguardo al ruolo avuto dalla cognizione umana nel determinare come si sono sviluppate queste sensibilità. Alcuni ritengono che, analogamente allo schema di sviluppo della fisica, l’evoluzione abbia impresso un rudimentale senso morale, ma che i nostri poteri cognitivi ci abbiano permesso di trascendere questa base innata per creare atteggiamenti e convinzioni indipendenti2. Secondo altri studiosi, siamo esperti nell’uso della destrezza cognitiva per spiegare i nostri impegni morali, ma queste spiegazioni sono «storie proprio cosí», razionalizzazioni di giudizi ancorati nel nostro passato evolutivo3.
Un punto che va ribadito è che nessuna di queste posizioni si basa su una concezione tradizionale del libero arbitrio. Nel descrivere il comportamento umano, utilizziamo un amalgama di fattori, dall’istinto alla memoria, dalla percezione alle aspettative sociali. Tuttavia, come si è già detto, questo tipo di resoconto di alto livello – che sta alla base del modo in cui noi esseri umani interpretiamo il mondo – emerge da una catena complessa di processi che in definitiva dipendono dalla dinamica dei costituenti fondamentali della natura. Tutti noi siamo collezioni di particelle, beneficiari di innumerevoli battaglie evolutive che hanno liberato i nostri comportamenti e ci hanno dato la capacità di rinviare il decadimento entropico. Questi trionfi però non ci conferiscono i poteri del libero arbitrio sulla progressione fisica; lo sviluppo della realtà non aspetta i nostri desideri, i nostri giudizi e le nostre valutazioni morali. O, per essere piú precisi, i nostri desideri, i nostri giudizi e le nostre valutazioni morali fanno semplicemente parte della progressione fisica del mondo, come impongono le leggi imparziali della natura.
La nostra rappresentazione di quella progressione utilizza regole matematiche impersonali che descrivono in simboli come si svilupperà l’universo da un dato momento al successivo. Per gran parte del passato, prima dell’emergere di collezioni di particelle capaci di riflettere sulla realtà, questa era la storia completa. Ora che conosciamo i dettagli essenziali, possiamo narrare la nostra versione della storia, migliore seppur provvisoria – velocemente, sinteticamente e, per semplicità di linguaggio, con una sfumatura antropomorfica.
All’incirca 13,8 miliardi di anni fa, nello spazio che si dilatava violentemente, l’energia contenuta in una nube minuscola ma ordinata di inflatone si disintegrò, bloccando la gravità repulsiva, riempiendo lo spazio con un bagno di particelle e avviando la sintesi dei nuclei atomici piú semplici. Là dove l’incertezza quantistica rendeva leggermente piú alta la densità del bagno, l’attrazione gravitazionale era leggermente piú forte, inducendo le particelle a combinarsi in raggruppamenti sempre piú grandi, formando stelle, pianeti, lune e altri corpi celesti. La fusione all’interno delle stelle, oltre a rare ma potenti collisioni stellari, trasformò nuclei semplici in specie atomiche piú complesse che, dopo essere piovute su almeno un pianeta in via di formazione, furono indotte dal darwinismo molecolare a riunirsi in organizzazioni capaci di autoreplicazione. Variazioni fortuite delle organizzazioni che per caso favorivano la fecondità molecolare si diffusero ampiamente. Tra queste, i percorsi molecolari per estrarre, immagazzinare e disperdere informazione ed energia – i processi rudimentali della vita – che, attraverso il lungo percorso di evoluzione darwiniana, divennero sempre piú raffinati. Nel corso del tempo, emersero esseri viventi complessi e autogestiti.
Particelle e campi. Leggi fisiche e condizioni iniziali. Fino alla profondità del reale che abbiamo scandagliato finora, non esistono prove di null’altro. Le particelle e i campi sono gli ingredienti elementari. Le leggi fisiche indotte dalle condizioni iniziali dettano la progressione. Poiché la realtà è quantistica, le affermazioni delle leggi sono probabilistiche, ma comunque le probabilità sono rigidamente determinate da equazioni. Le particelle e i campi fanno ciò che fanno senza preoccuparsi del significato, del valore o dell’importanza. Anche quando la loro progressione matematica indifferente produce la vita, le leggi fisiche mantengono il pieno controllo. La vita non ha alcuna capacità di intervenire sulle leggi, di annullarle o di influenzarle.
Ciò che invece la vita può fare è rendere piú facile che gruppi di particelle agiscano di concerto e manifestino comportamenti collettivi che, rispetto al mondo inanimato, sono una novità. Le particelle che costituiscono i tageti e le biglie osservano rigorosamente le leggi della natura, eppure i tageti crescono e seguono il sole e le biglie no. Per mezzo della forza della selezione, l’evoluzione contribuisce a modellare il repertorio comportamentale della vita, favorendo attività che promuovono la sopravvivenza e la riproduzione. Fra queste, in ultima analisi, vi è il pensiero. La capacità di formare ricordi, analizzare situazioni ed estrapolare dall’esperienza fornisce un’artiglieria potente nella corsa agli armamenti per la sopravvivenza. Alimentando una serie di vittorie nel corso di decine di migliaia di generazioni, il pensiero progressivamente si perfeziona, portando a specie pensanti che acquisiscono vari gradi di autoconsapevolezza. La volontà di questi esseri non è libera nel senso tradizionale di potersi allontanare dallo sviluppo dettato dalla legge fisica, ma la loro struttura altamente organizzata permette una gran varietà di risposte – dalle emozioni interiori ai comportamenti esteriori – che, per lo meno finora, non sono a disposizione delle collezioni di particelle che non sono vive e non hanno una mente.
Con l’aggiunta del linguaggio, una di queste specie autoconsapevoli si eleva al di sopra delle necessità del momento per vedere sé stessa come parte di uno sviluppo dal passato al futuro. A quel punto, vincere la battaglia non è piú l’unica preoccupazione. Non ci accontentiamo piú di sopravvivere. Vogliamo sapere perché la sopravvivenza è importante. Andiamo in cerca di contesti e attinenze. Attribuiamo valore. Giudichiamo il comportamento. Ricerchiamo significati.
E cosí sviluppiamo spiegazioni di come è nato l’universo e di come potrebbe finire. Raccontiamo e riraccontiamo storie di menti che si fanno strada nel mondo, reale o di fantasia. Immaginiamo regni popolati da antenati defunti, esseri dotati di qualche potere od onnipotenti che riducono la morte a un passatoio in un’esistenza che prosegue. Dipingiamo, scolpiamo, incidiamo, cantiamo e danziamo per entrare in contatto con questi altri regni, per rendere loro omaggio, o semplicemente per imprimere nel futuro qualcosa che attesti il nostro breve passaggio sul pianeta. Forse queste passioni prendono piede ed entrano a far parte di ciò che significa essere umani perché favoriscono la sopravvivenza. Le storie preparano la mente a rispondere all’inaspettato; l’arte sviluppa l’immaginazione e l’innovazione; la musica affina la sensibilità ai pattern; la religione unisce i seguaci in forti coalizioni. O forse la spiegazione è meno elevata: alcune o tutte le attività potrebbero emergere e persistere perché sfruttano o si accompagnano ad altri comportamenti e ad altre risposte che hanno avuto un ruolo piú diretto nel promuovere la sopravvivenza. Anche se la loro origine evolutiva è ancora oggetto di dibattito, tuttavia, questi aspetti del comportamento umano manifestano un generale bisogno di andare al di là della mera ed effimera sopravvivenza. Rivelano un diffuso desiderio di far parte di qualcosa di piú grande, qualcosa che duri. Il valore e il significato, decisamente assenti nella base essenziale della realtà, diventano inseparabili da un impulso incessante che ci eleva al di sopra della natura indifferente.
2. Mortalità e importanza.
Mentre Gottfried Leibniz si domandava perché esiste qualcosa anziché il nulla, il problema senza soluzione è che gli esseri autoconsapevoli, come noi, finiscono per dissolversi nel nulla. Acquisire una prospettiva temporale vuol dire rendersi conto che la vivace attività che anima la propria mente un giorno avrà fine.
Nel contesto di questa consapevolezza, i capitoli precedenti hanno esplorato la vastità del tempo dal suo inizio cosí come lo immaginiamo in base alle nostre conoscenze al punto piú vicino alla sua fine in cui ci possono portare le nostre teorie matematiche. La nostra comprensione continuerà a svilupparsi? Certo. I dettagli, alcuni secondari e altri significativi, verranno migliorati o sostituiti? Senza dubbio. Ma la successione di nascita e morte, comparsa e disintegrazione, creazione e distruzione che abbiamo visto ripetersi lungo la linea temporale persisterà. Il two-step entropico e le forze evolutive della selezione arricchiscono il percorso dall’ordine al disordine con strutture prodigiose, ma che si tratti di stelle o di buchi neri, di pianeti o di persone, di molecole o di atomi, tutto alla fine andrà in pezzi. La longevità è quanto mai variabile, ma il fatto che tutti moriremo, il fatto che la specie umana morirà e il fatto che la vita e la mente, quanto meno in questo universo, quasi certamente moriranno sono banali risultati a lungo termine, del tutto previsti, della legge fisica. L’unica novità è che ce ne rendiamo conto.
Un’aspettativa diffusa seppur snervante, nutrita a cuor leggero da molti e perseguita intensamente da alcuni, è che noi staremmo senz’altro meglio se la morte sparisse completamente dagli eventi umani – una possibilità su cui hanno riflettuto molti pensatori, dai miti dell’antichità alla narrativa moderna. Forse è indicativo che in queste esplorazioni non sempre le cose finiscono bene. Gli immortali dell’isola di Luggnagg di Jonathan Swift continuano a invecchiare e vengono dichiarati legalmente morti a ottant’anni, perdendo ogni connessione con gli altri. Avendo continuato a vivere per piú di trecento anni, Elina Makropulos, l’eroina di Karel Čapek, permette che il documento con la formula dell’elisir che le avrebbe dato altri trecento anni venga incenerito perché non vuole continuare a vivere in uno stato di profonda noia. Vivendo in un mondo senza fine in cui la morte è assente, scrive il protagonista de L’immortale di Jorge Luis Borges, «Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini. […] sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono»4.
Anche i filosofi si sono avventurati in queste acque, offrendo valutazioni sistematiche della vita in un mondo senza morte. Alcuni, come Bernard Williams, che fu ispirato dall’adattamento operistico di Leoš Janáček della pièce di Čapek, raggiungono conclusioni analogamente tetre5. Williams sostiene che avendo a disposizione un tempo infinito ciascuno di noi soddisfarebbe ogni obiettivo che ci spinge ad andare avanti, restando cosí apatico di fronte a un’eternità mortalmente noiosa. Altri, come Aaron Smuts, ispirato in parte dalla storia di Borges, sostengono che l’immortalità svuoterebbe le decisioni che plasmano una vita umana – come passare il proprio tempo e con chi – delle conseguenze che le rendono importanti. Avete fatto la scelta sbagliata? Nessun problema. Avete l’eternità per sistemare le cose. Anche la soddisfazione del compimento sarebbe vittima dell’eternità. Le persone dotate di abilità limitate raggiungerebbero il loro potenziale e poi proverebbero frustrazione in eterno; le persone con abilità capaci di crescere senza limite avrebbero la garanzia di migliorare continuamente, riducendo il senso di realizzazione che viene dal superare le aspettative6.
Nonostante queste preoccupazioni, ho il sospetto che siamo sufficientemente dotati di spirito di iniziativa – e avendo a disposizione un tempo infinito lo saremmo ancora di piú – per poter diventare creature immortali del tutto equilibrate. Le nostre esigenze e capacità probabilmente si trasformerebbero diventando irriconoscibili, rendendo di scarsa o nulla utilità le valutazioni basate su ciò che ci tiene impegnati e motivati nel qui e ora. Se l’eterna joie de vivre richiedesse una diversa varietà di gioia, la troveremmo, la inventeremmo o la svilupperemmo. Questa è soltanto un’impressione, com’è ovvio, ma concludere che inevitabilmente ci annoieremmo indica una visione davvero troppo ristretta della mente immortale.
Anche se la scienza continuerà a estendere la durata della vita, il nostro viaggio nel lontano futuro suggerisce che l’immortalità resterà per sempre al di là della nostra portata. Ciò malgrado, riflettere su una vita che prosegue all’infinito chiarisce l’importanza di una vita che invece ha una fine. Il destino immaginato del valore e dell’importanza in un mondo immortale chiarisce che in un mondo mortale per capire gran parte delle nostre decisioni, scelte, esperienze e reazioni è necessario considerarle nel contesto di un’opportunità limitata e di una durata finita. Non è che balziamo in piedi ogni mattina al grido di «Carpe diem!», ma sapere nel profondo di noi stessi che le mattine in cui ci alzeremo non saranno piú di tante instilla in noi un calcolo intuitivo del valore, che sarebbe molto diverso in un mondo di seconde possibilità illimitate. Le spiegazioni che diamo degli argomenti che studiamo, i mestieri che impariamo, il lavoro che portiamo avanti, i rischi che corriamo, i partner che scegliamo, le famiglie che costruiamo, gli obiettivi che ci poniamo, le preoccupazioni che nutriamo, tutto ciò riflette il riconoscimento che le nostre opportunità sono scarse perché il nostro tempo è limitato.
Ciascuno reagisce in un modo diverso a questa consapevolezza, però il senso umano del valore presenta sempre alcune caratteristiche. Fra queste, il bisogno sorprendentemente forte ma spesso inespresso che il futuro sia popolato da discendenti che andranno avanti quando noi non ci saremo piú.
3. Discendenti.
Molti anni fa mi invitarono a partecipare a un dibattito con il pubblico di uno spettacolo off-Broadway in cui i personaggi si rendono conto che di lí a poco la Terra sarà distrutta da un asteroide. L’altro partecipante alla discussione era mio fratello; i produttori avevano previsto che i commenti sulla fine del mondo di due fratelli che nella vita avevano seguito percorsi divergenti ma rilevanti – uno immerso nella scienza e l’altro nella religione – avrebbero attratto il pubblico. Sinceramente, non riflettei molto su quei problemi prima dell’evento, inoltre a quei tempi ero molto piú sensibile all’energia di un pubblico. Quanto piú mio fratello si orientava verso regni eterei tanto piú io diventavo brutale. «La Terra è un pianeta banale che orbita attorno a una stella mediocre alla periferia di una galassia ordinaria. Se saremo eliminati da un asteroide, l’universo non batterà ciglio. Nello schema generale delle cose, non avrà alcuna importanza». La mia crudezza fu accolta con favore da alcuni, presumo quelli che si identificavano nel gruppo degli scettici che mirano al sodo e affrontano coraggiosamente le realtà dell’esistenza. Ad altri, purtroppo, le mie osservazioni sembrarono compiaciute. Quanto meno una persona del pubblico ebbe questa impressione: una donna anziana che mi rimproverò di calpestare ciò che descrisse come il bisogno essenziale di tutti che la specie continui. «Quale notizia la colpirebbe di piú, – mi domandò, – se le dicessero che ha un anno di vita o che nel giro di un anno la Terra sarà distrutta?»
In quel momento replicai in modo superficiale, dicendo che avrei voluto sapere se le due eventualità avrebbero comportato o no dolore fisico, ma in seguito, riflettendo sulla domanda, la trovai inaspettatamente illuminante. Una prognosi terminale colpisce le persone in modi diversi – può far concentrare, offrire una nuova prospettiva, alimentare i rimpianti, gettare nel panico, conferire calma, ispirare una rivelazione. Immaginai che la mia reazione sarebbe stata una di queste. Ma la prospettiva che la Terra e tutta l’umanità sarebbero state spazzate via provocava un tipo diverso di reazione. La notizia avrebbe fatto sembrare piuttosto inutile ogni cosa. Mentre la mia fine imminente avrebbe reso tutto piú intenso, dotando di significato momenti che altrimenti sarebbero potuti scomparire fra le banalità quotidiane, contemplare la fine dell’intera specie sembrava fare il contrario, producendo un senso di futilità. Mi sarei alzato ancora al mattino e avrei voluto portare avanti le mie ricerche di fisica? Forse per la comodità di fare qualcosa di familiare, ma non restando nessuno che potesse andare avanti basandosi sulle scoperte di oggi, la spinta a far progredire la conoscenza si sarebbe indebolita. Avrei finito il libro che stavo scrivendo? Forse per la soddisfazione di tirare le somme, ma senza lettori dell’opera compiuta la motivazione sarebbe venuta meno. Avrei continuato a mandare i miei figli a scuola? Forse per la tranquillità offerta dalla routine, ma senza il futuro per che cosa si sarebbero preparati?
Il contrasto con la reazione che avrei avuto venendo a conoscenza della data della mia morte mi sembrò sorprendente. Mentre una notizia sembrava rendere piú intensa la consapevolezza del valore della vita, l’altra sembrava farla scomparire. Negli anni successivi, ciò ha contribuito a plasmare il mio pensiero riguardo al futuro. Tanto tempo prima avevo avuto la mia rivelazione giovanile in merito alla capacità della matematica e della fisica di trascendere il tempo ed ero già convinto dell’importanza esistenziale del futuro, ma la mia immagine di quel futuro era astratta. Era una terra di equazioni, teoremi e leggi, non un luogo popolato di rocce, alberi e persone. Non sono un platonico, ma comunque immaginavo implicitamente che la matematica e la fisica trascendessero non solo il tempo, ma anche le usuali manifestazioni esteriori della realtà materiale. Lo scenario apocalittico affinò il mio pensiero, rendendo evidente che le nostre equazioni, i nostri teoremi e le nostre leggi, anche se attingono a verità fondamentali, non hanno un valore intrinseco. Dopo tutto, sono insiemi di linee e scarabocchi disegnati su lavagne e stampati su riviste e libri di testo. Il loro valore deriva da coloro che li capiscono e li apprezzano. La loro importanza deriva dalle menti di coloro che li conoscono.
Questo affinamento del pensiero andò ben al di là del ruolo delle equazioni. Portandomi a immaginare un futuro privo di qualcuno a cui consegnare tutto ciò a cui attribuiamo valore, di qualcuno che aggiunga la propria impronta e la passi alle generazioni future, lo scenario apocalittico rivelava quanto sarebbe vano quel futuro. Mentre l’immortalità dell’individuo potrebbe minare il significato, l’immortalità della specie sembra necessaria per garantirlo.
Non posso sapere quanti avrebbero questa reazione alla notizia di una fine imminente, ma ho il sospetto che sarebbe comune. Di recente il filosofo Samuel Scheffler ha avviato un’indagine accademica sulla questione, esplorando una variante della domanda che mi posero decenni fa. Come reagireste, chiede Scheffler, se veniste a sapere che trenta giorni dopo la vostra morte tutte le persone rimaste saranno eliminate? Questa versione dello scenario è piú rivelatrice perché elimina la morte prematura del soggetto e cosí punta i riflettori sul ruolo dei discendenti nell’ancorare il valore. La ponderata conclusione di Scheffler è in accordo con le mie riflessioni informali:
Le nostre preoccupazioni e i nostri impegni, i nostri valori e i nostri giudizi di importanza, il nostro senso di ciò che conta e di ciò che vale la pena fare – sono tutte cose che si formano e persistono in un contesto in cui si dà per scontato che la vita umana è essa stessa un’impresa fiorente e costante […]. Abbiamo bisogno che l’umanità abbia un futuro affinché l’idea stessa che le cose abbiano importanza mantenga un posto sicuro nel nostro repertorio concettuale7.
Anche altri filosofi hanno dato un contributo importante, presentando opinioni che delineano un’ampia varietà di prospettive. Susan Wolf suggerisce che il riconoscimento del nostro destino comune potrebbe portare a nuove altezze la cura degli altri; ciò nonostante, conviene che la nostra visione di un futuro popolato di esseri umani è essenziale per il valore che attribuiamo alle nostre imprese8. Harry Frankfurt offre una visione diversa, suggerendo che molte cose a cui diamo valore non sarebbero influenzate dallo scenario apocalittico, soprattutto le imprese artistiche e la ricerca scientifica. Frankfurt è convinto che per molti la gratificazione insita nella pratica di queste attività sarebbe sufficiente per continuare. Il parere contrario che ho già espresso riguardo alla ricerca scientifica serve a sottolineare un punto collegato, ovvio ma significativo: le persone reagirebbero alla notizia in modi diversi9. Il massimo che possiamo fare è immaginare le tendenze dominanti. Per me, come per molti altri, impegnarsi in attività creative e imprese accademiche vuol dire partecipare a un lungo, ricco e costante dialogo. Anche se un mio articolo di fisica non ha un grande successo, mi fa comunque sentire che partecipo alla conversazione. Tuttavia, se sapessi di essere l’ultimo a parlare, e se sapessi che in futuro nessuno rifletterà su ciò che dico, mi domanderei perché dovrei preoccuparmi di scriverlo.
Nello scenario di Scheffler, come nella domanda che mi posero tanti anni fa, la fine del mondo è ipotetica, ma le scale temporali per arrivare alla distruzione finale sono facilmente comprensibili. In questo libro, le apocalissi che abbiamo esplorato sono autentiche, ma le loro scale temporali le rendono straordinariamente lontane. Questo cambiamento di scala, peraltro colossale, influenza le conclusioni? È una questione considerata sia da Scheffler sia da Wolf nel divertente contesto di quella magnifica scena di Io e Annie in cui il protagonista Alvy Singer all’età di nove anni conclude che non ha senso fare i compiti dato che dopo qualche miliardo di anni l’universo si disgregherà distruggendo ogni cosa. Lo psicanalista Alvy, per non parlare di sua madre, considera assurda la preoccupazione di Alvy. Il pubblico ride perché la giudica comica. Scheffler condivide queste intuizioni e tuttavia osserva che non ha una giustificazione fondamentale del motivo per cui pensiamo che sia ragionevole avere una crisi esistenziale di fronte alla distruzione imminente, ma che sia sciocco averla se la distruzione avverrà nel lontano futuro. Lo attribuisce alla nostra difficoltà a capire scale temporali che vanno enormemente al di là della portata dell’esperienza umana. Wolf concorda, notando che se è vero che la fine immediata dell’umanità renderebbe priva di significato la vita, dovrebbe accadere la stessa cosa anche se la fine fosse molto lontana. In realtà, osserva, a scale temporali cosmiche un ritardo di qualche miliardo di anni non è granché.
Sono d’accordo. Completamente.
Come abbiamo visto piú e piú volte, l’idea che una durata sia lunga o breve non ha un significato assoluto. È una questione di prospettiva. Il tempo rappresentato dalla terrazza panoramica dell’Empire State Building, all’ottantaseiesimo piano, è enorme in base ai criteri della vita quotidiana, ma in confronto al tempo rappresentato dal centesimo piano è come un battito di ciglia in confronto a diecimila secoli. La nostra prospettiva umana usuale ci porta a formulare giudizi che seppur pertinenti sono anche frutto di una visione ristretta. Per questo motivo, considero lo scenario di morte imminente come nient’altro che uno strumento che utilizza un’urgenza artificiale per catalizzare una risposta autentica. L’intuizione che ne ricaviamo si applica anche alla fine che aspetta i nostri discendenti in un lontano futuro; quel futuro, considerato in un contesto piú ampio, sarà tra un momento.
Anche se è davvero difficile interiorizzare scale temporali che vanno significativamente al di là di tutto ciò di cui facciamo esperienza, il viaggio che abbiamo intrapreso in questo libro ha popolato la linea temporale del cosmo di punti di riferimento che servono a rendere concreto ciò che è astratto. Non posso dire di avere un senso innato delle scale temporali delineate con la metafora dell’Empire State Building nello stesso modo in cui percepisco le scale temporali della vita quotidiana, o quelle della mia generazione o anche di qualche altra generazione, ma la sequenza di eventi trasformativi che abbiamo indagato fornisce appigli per riuscire a comprendere il futuro. Non è necessario salmodiare, e la posizione del loto è facoltativa, ma se trovate un posto tranquillo e lasciate che la mente fluttui lenta e libera lungo la linea temporale del cosmo, attraversando la nostra epoca e poi superandola, per andare oltre l’era delle galassie distanti che si allontanano, oltre l’era dei sistemi solari maestosi, oltre l’era delle galassie che si avvolgono in leggiadre spirali, oltre l’era di stelle consumate e pianeti alla deriva, oltre l’era di buchi neri che brillano e si disintegrano, e poi avanti verso una distesa fredda, scura e quasi vuota ma potenzialmente infinita – in cui l’unica prova che un tempo siamo esistiti è una particella isolata che si trova qui anziché lí o un’altra particella isolata che si muove cosí anziché cosà – e se siete in qualche modo come me e lasciate che quella realtà si sedimenti completamente dentro di voi, il fatto che abbiamo viaggiato in un futuro incredibilmente lontano di certo non riduce la sensazione di brivido e anche di meraviglia e soggezione che scaturisce dentro di noi. In un senso essenziale, l’immenso arco temporale non fa che aggiungere peso alla quasi insostenibile leggerezza dell’essere; in confronto alla scala temporale che abbiamo raggiunto, l’epoca della vita e della mente è infinitesimale. In base alle scale di oggi, tutta la sua durata, dai primi microbi all’ultimo pensiero, sarebbe minore del tempo che impiega la luce per attraversare un nucleo atomico. L’intera durata dell’attività umana – che l’umanità si autoannienti nei prossimi secoli, che venga spazzata via da un disastro naturale nei prossimi millenni o che in qualche modo riesca ad andare avanti fino alla morte del Sole, fino alla fine della Via Lattea o persino fino alla scomparsa della materia complessa – sarebbe ancor piú transitoria.
Siamo effimeri. Siamo evanescenti.
Tuttavia il nostro momento è raro e straordinario e riconoscerlo ci permette di fare dell’impermanenza della vita e della scarsità di consapevolezza autoriflessiva la base del valore e un fondamento per la gratitudine. Anche se possiamo desiderare di lasciare un’eredità permanente, la chiarezza che otteniamo esplorando la linea temporale del cosmo rivela che ciò è al di fuori dalla nostra portata. Questa stessa chiarezza, però, sottolinea quanto sia meraviglioso che una piccola collezione di particelle dell’universo possa insorgere, esaminare sé stessa e la realtà in cui abita, stabilire quanto è transitoria e in una fugace esplosione di attività creare bellezza, stabilire connessioni e illuminare il mistero.
4. Significato.
Quasi tutti noi affrontiamo tranquillamente la necessità di innalzarci al di sopra del quotidiano e permettiamo alla civiltà di proteggerci dalla consapevolezza di far parte di un mondo che, quando saremo scomparsi, continuerà a essere attivo, senza perdere nemmeno un colpo. Concentriamo la nostra energia su ciò che possiamo controllare. Costruiamo comunità. Partecipiamo. Siamo solleciti. Ridiamo. Ci prendiamo cura. Confortiamo. Ci affliggiamo. Amiamo. Festeggiamo. Consacriamo. Ci rammarichiamo. Ci entusiasmiamo per i risultati conseguiti, a volte da noi stessi e a volte da chi rispettiamo o idolatriamo.
Attraverso tutto ciò, ci abituiamo a guardare al mondo per trovare qualcosa di eccitante o di calmante, che tenga viva la nostra attenzione o ci porti in un posto nuovo. Tuttavia il viaggio scientifico che abbiamo intrapreso suggerisce chiaramente che l’universo non esiste per offrire alla vita e alla mente un’arena in cui prosperare. La vita e la mente sono semplicemente due cose che hanno avuto modo di esistere. Fino a quando non esisteranno piú. Un tempo immaginavo che studiando l’universo, levando uno strato dopo l’altro figurativamente e letteralmente, avremmo risposto a un numero sufficiente di «come» per intravvedere le risposte ai «perché». Piú impariamo, tuttavia, piú questo atteggiamento sembra orientato nella direzione sbagliata. Aspettarsi che l’universo abbracci noi, i suoi transitori squatter coscienti, è comprensibile, ma non è ciò che fa l’universo.
Ciò nonostante, se consideriamo il nostro momento nel contesto ci rendiamo conto che la nostra esistenza è sorprendente. Facendo ripartire il Big Bang modificando leggermente la posizione di questa particella o il valore di quel campo, quasi in ogni caso il nuovo sviluppo del cosmo non comprenderebbe voi, me, la specie umana, il pianeta Terra o qualunque altra cosa che per noi ha un grande valore. Se una superintelligenza osservasse il nuovo universo nel suo insieme, come noi guardiamo nel suo insieme una collezione di monete lanciate su un tavolo o l’aria che stiamo respirando, concluderebbe che il nuovo universo sembra piú o meno uguale all’universo originario. Per noi, sarebbe completamente diverso. Non ci sarebbe nessun «noi» che se ne accorge. Distogliendo la nostra attenzione dai dettagli minuti, l’entropia ha fornito un principio organizzativo essenziale per comprendere le tendenze a larga scala nei processi di trasformazione. Mentre però in generale non ci interessa se una particolare moneta mostra testa o croce, o se una particolare molecola di ossigeno si trova qui o lí, esistono certi dettagli minuti che ci interessano. Profondamente. Noi esistiamo perché le nostre specifiche organizzazioni di particelle vinsero la battaglia contro una stupefacente varietà di altre organizzazioni tutte in lizza per essere realizzate. Per grazia del caso, incanalato per mezzo delle leggi della natura, siamo qui.
È un effetto che riecheggia in ogni stadio dello sviluppo umano e cosmico. Pensate a quella che Richard Dawkins ha descritto come la collezione quasi infinita di potenziali individui, aspiranti portatori della collezione quasi infinita di sequenze di coppie di basi nel DNA, nessuno dei quali nascerà mai. Oppure pensate ai momenti che costituiscono la storia del cosmo, dal Big Bang alla vostra nascita e poi fino a oggi, pieni di processi quantistici la cui incessante progressione probabilistica in una collezione quasi infinita di frangenti avrebbe potuto produrre un risultato diverso, portando a un universo altrettanto ragionevole ma che non avrebbe compreso voi o me10. E tuttavia, con questo numero astronomico di possibilità, contro ogni probabilità, la vostra sequenza di coppie di basi e la mia, la vostra combinazione molecolare e la mia ora esistono. Incredibilmente improbabile. Sensazionalmente magnifico.
E il dono è ancora piú grande: le nostre particolari combinazioni molecolari, le nostre specifiche organizzazioni chimiche, biologiche e neurologiche, ci conferiscono gli invidiabili poteri che sono stati al centro della nostra attenzione nei capitoli precedenti. Mentre in generale la vita, in sé miracolosa, è legata all’immediato, noi possiamo uscire dal tempo. Possiamo pensare al passato, possiamo immaginare il futuro. Possiamo capire l’universo, possiamo elaborarlo, possiamo esplorarlo con la mente e con il corpo, con ragione e con l’emozione. Dal nostro angolino solitario del cosmo abbiamo usato la creatività e l’immaginazione per formare parole, immagini, strutture e suoni per esprimere i nostri desideri e le nostre frustrazioni, le nostre incertezze e le nostre rivelazioni, i nostri fallimenti e i nostri trionfi. Abbiamo usato l’inventiva e la perseveranza per sfiorare i limiti stessi dello spazio interiore ed esteriore, determinando le leggi fondamentali che governano come brillano le stelle e come viaggia la luce, come passa il tempo e come si espande lo spazio – leggi che ci permettono di sbirciare fino a un momento dopo l’inizio dell’universo e poi spostare lo sguardo e contemplarne la fine.
Queste spettacolari intuizioni sono accompagnate da domande profonde e insistenti. Perché esiste qualcosa anziché il nulla? Che cosa scatenò l’inizio della vita? Come emerse la consapevolezza cosciente? Abbiamo esplorato una vasta gamma di ipotesi, ma non abbiamo risposte definitive. Forse il nostro cervello, ben adattato alla sopravvivenza sul pianeta Terra, non è strutturato per risolvere questi misteri. O forse, dato che la nostra intelligenza continua a evolversi, la nostra interazione con la realtà acquisirà un carattere completamente diverso, facendo sí che i giganteschi interrogativi di oggi diventino irrilevanti. Anche se sono possibili entrambe le cose, il fatto che il mondo cosí come lo comprendiamo oggi, con i misteri ancora irrisolti e tutto il resto, stia insieme con una coerenza matematica e fisica cosí rigorosa, e il fatto che siamo stati in grado di decifrare gran parte di questa coerenza, mi suggerisce che non è vera né l’una né l’altra cosa. Non ci manca la capacità intellettiva. Non stiamo fissando la parete della grotta di Platone, ignari di un genere radicalmente diverso di verità, al di là della nostra portata, capace di offrire all’improvviso una nuova e sorprendente chiarezza.
Mentre sfrecciamo verso un cosmo freddo e vuoto, dobbiamo accettare che non esiste nessun progetto grandioso. Le particelle non hanno uno scopo. Non esiste una risposta finale che aleggia nelle profondità dello spazio in attesa di essere scoperta. È vero invece che certe collezioni speciali di particelle possono pensare, percepire e riflettere e, nell’ambito di questi mondi soggettivi, possono creare uno scopo. Pertanto, nella nostra ricerca per arrivare a comprendere la natura umana, l’unica direzione in cui guardare è verso l’interno. Questa è la direzione nobile in cui guardare. È una direzione che rinuncia a risposte preconfezionate e si rivolge al viaggio individuale di costruzione del nostro significato personale. È una direzione che porta al cuore dell’espressione creativa e alla fonte delle nostre narrazioni piú durature. La scienza è uno strumento potente e raffinato per comprendere una realtà esterna. Ma nell’ambito di quella spiegazione, di quella comprensione, ogni altra cosa è la specie umana che contempla sé stessa, capendo ciò di cui ha bisogno per andare avanti, e narrando una storia che riverbera nell’oscurità, una storia scolpita nel suono e incisa nel silenzio, una storia che, nella sua forma migliore, muove l’anima.
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