sabato 15 gennaio 2022

LA VOLPE E IL SIPARIO Alda Merini

 


LA VOLPE E IL SIPARIO

Alda Merini

I.

La mia veste, pallida semente,

ha attecchito dentro la poesia...

(soffio d’alba che fiorisce e pace ardente dell’amore).

Ascolta, il passo breve delle cose

– assai più breve delle tue finestre –

quel respiro che esce dal tuo sguardo

chiama un nome immediato: la tua donna.

È fatta di ombra e ciclamini,

ti chiede il tuo mistero

e tu non lo sai dare.

Con le mani

sfiori profili di una lunga serie di segni

che si chiamano rime.

Sotto, credi,

c’è presenza vera di foglie;

un incredibile cammino

che diventa una meta di coraggio.

Immagine 1 LA VOLPE E IL SIPARIO

Devastate sono le tue ansie

come devastazione di un naturale colle

che abbia embrioni di luce,

infisso nel terreno molle

e la chiusura del doppio pantano

in cui affogano le sirene,

che hanno il malleolo d’oro

e sciropposa la voce; tu o scamandro

che vieti al padre l’avida vista,

richiama le siepi divine di Grecia

dove il minotauro salta

in cerca del tesoro.

Non essere rupe o preghiera

o qualche cosa che somigli al balcone

dove Giulietta implorò un cielo di morte

e una morte di cielo.

Avidamente sognano le donne

l’imbarcadero del sogno

e cercano il tuo volto

come la più festosa delle lucerne.

Così nel tempio ove – Afrodite d’oro –

vantai ciclamini dei versi,

in cambio tu, spauracchio inatteso

di tante paure,

avrai grolle d’oro

ed ansia del mio momento.

Immagine 2 LA VOLPE E IL SIPARIO

Avidamente in solchi di paura

cerco il mio genocidio,

l’acqua che vada al di là del pantano

per il grigiore di una antica farfalla.

Il vernacolo del mio vestito

lascia ferme le nudità ulteriori

nella roccia del mio momento.

Soave sarà il ristoro dell’ospite

al tuo saliscendi privato

dove la campana suona per l’emigrante

che viene dalla campagna e dal destino.

Il forte della tua

domus aurea

con tanto di usignoli al cancello

che flettono la voce pura

nel grembo spettacolare di Atride

salva il vacuo della parola

da quel nappo di canto

che dà la tua fatica di sempre.

Immagine 3 LA VOLPE E IL SIPARIO

Il tuo braccio farà vendetta

di tanti fiori smarriti sul cammino dell’arte

come un folle coppiere

che abbia spezzato il tumulo e l’amore.

O Shakespeare della pittura

che infondi nefasti e prodigi

dentro il sentire del tutto,

quando il maniero sorge alla collina...

Tu hai rotto le censure del tempo:

tutto ciò che è sceso ritornerà disciplina

nelle tue mani piene di rumore.

O dammi canto da cantar soave,

sì che lacrime di cielo

colorino la vita.

La tavolozza ha sette mutamenti,

uno per ogni bacio che mi hai dato.

Sette baci di labbra ed assoluto,

sette mammelle gonfie di teatro.

Immagine 4 LA VOLPE E IL SIPARIO

Assetato di baci,

branca d’acqua felice

che mescoli i colori,

tu, mio bronzo nudo.

La mia falce di aria e di lira

non dice più nulla.

Solo vorrei

che tu guardassi il luogo

della penombra dove ancora vivo

e vi versassi qualche linimento

come si versa piano alle fanciulle

il primo bacio che le porta via.

Il poema di luce che mi canti

lascia un’orma di tragico mistero

sulle mie spalle.

A te che vivi e muori

quando morendo si alza primavera,

cosa dire del giorno che mi attende?

Lui è come un drago dalle mille facce

che mi abbraccia nel seno del destino

e vive vittorioso con la luce

e l’ansia nelle pupille delicate.

Io vorrei che frugassi la parola

per lasciarmi

nel tondo del mio viso

soltanto il bacio.

O dannato di tenero universo,

tu che bevi manciate di fango,

ascolta.

Al di là delle chiome

disserrato come un giglio

è il canto del poeta;

lucciola che trascorre dentro il male

come l’ombra di un torrente sopito.

Prendi me donna e fanne il tuo ascolto,

prendi me pavida e rendimi giusta,

prendi me gambo e rendimi fiore,

per la carezza lieve del dipinto di Apollo

che genera Aretusa.

Sono venuta a te con il velo della mia carne

pusillanime fino alla croce

e ho stampato dentro i tuoi flutti

la processione delle mie barche:

è un porto la mente dove il coraggio s’affloscia

di fronte al sogghigno e dopo

la barriera è così incerta di tale destino

che le maghe, i foschi gineprai del mio tutto,

“I canti di Maldoror”,

e la tua angelica forma,

fanno tutt’uno dentro il germe dell’arte:

ma a noi questo è segreto.

O cavaliere dei miei lombi segreti,

la ragazza incespica dentro i peli del pube

dove l’ampiezza delle caverne

fa di donna rovesciata nell’erba

il supplizio di Tantalo infinito,

quello che arde nel glicine a maggio.

Gli Apostoli dei miei segreti

visiteranno queste antiche grazie.

Avrai qualità infinite

nel lasciarmi morire,

tu che aspergi forsennatamente

il mio ultimo crollo;

o nume del mio potere,

apri le musicali scoperte

del germe dell’abbandono.

Immagine 5 LA VOLPE E IL SIPARIO

Un prato senza vita è la notte,

un prato che non dà sofferenza,

soffuso di canti e di stelle e di intimi abbandoni.

La notte è quel piacere distante

che fa vibrare il sonno pacifico delle alghe,

che addormenta il nostro impulso vitale di morte.

La notte è sofferenza estrema

se tu non sei qui a mettere i semi

della eterna adolescenza

nel mio incantesimo,

nel mio corpo disfatto.

Sono assetata del primo sangue

della rima sofferta,

verginità di lettere di amore

e di mostruosi impatti col demonio

perché sono viva con gli angeli

e con gli angeli ho voglia

di ritrovare la terra, di toccarla,

di sentirla mia ed evangelica.

Sono la carne stessa che chiede la sua disfatta

dopo un cominciamento di amore,

dopo una sofferenza estrema,

dopo il canto dell’angelo;

la carne che trova il suo principio,

lo esalta fin dentro il livore dell’inverno

perché il tuo amore è l’inverno estremo della paura

ma anche il tempo della domanda infinita

del salto, del rancore aperto.

Mi sento, amore, inseguita da tutti

come se queste persone, queste bocche

volessero mangiare la mia carne

che soffre spasimi di amore e di attesa.

Tutto ciò che è entrato a far parte della mia faccia,

tutto ciò che è salito sul mio lungo aspetto di donna

così circolare, così demoniaco, così bianco,

ripete nel tuo volto il vagito

di questa scrittura

ora inferma e ora piena di salute,

di quella salute che, paga di se stessa e felice,

vuole finalmente morire nel tuo ricordo.

La carne e il sospiro

a Sergio Bagnoli

Io sono la tua carne,

la carne eletta del tuo spirito.

Non potrai mai visitarmi nel giorno

prima che il puro lavacro del sogno

mi abbia incenerita

per restituirmi a te in pagine di poesia,

in sospiri di lunga attesa.

Temo per il mio dolore,

come se la tua dolcezza

potesse farlo morire

e privarmi così di quel paesaggio misterioso

che sono i ricordi.

Sono piena di riti

e della logica dei ricordi

che viene dopo, quando si affaccia alla mia vita

il rendiconto della verità giornaliera,

il sogno affogato nell’acqua.

Sono misteriosa come tutti,

ogni mio movimento è un miracolo

e tu lo sai,

ma il grande passo

che io possa fare è quello di venire da te

(un viaggio infinito senza ristoro,

forse un viaggio che mi porterebbe a morire

perché io sono il canto e la lunga strada).

Il canto muore, va a morire

nelle viscere della terra

perché io sono la misura

del tuo grande spettacolo di uomo;

sono lo spettatore vivo

delle tue rimembranze ma anche l’insetto,

l’animale che sogna e che divora.

Prima della poesia viene la pace,

un lago sempiterno e pieno

sopra il quale non passa nulla,

neanche un veliero;

prima della poesia viene la morte,

qualche cosa che balza e rimbalza

sopra le acque; il lungo cammino

di una folla di genio e di malizia

che porta lontano,

ma io e te siamo soli

come se fossimo stati creati

primi e per la prima volta;

io e te siamo riemersi dal fango della folla

e giornalmente tentiamo di rimanere soli

in questa risma di carte

che è il grande spettacolo dei vivi.

Io e te siamo esangui,

senza voglia di finire questo incantesimo.

Incolori e indomiti, siamo soli

nel limbo del nostro piacere

perché io e te

siamo pieni di amore carnale,

io e te.

L’ora più solare per me

quella che più mi prende il corpo

quella che più mi prende la mente

quella che più mi perdona

è quando tu mi parli.

Sciarade infinite,

infiniti enigmi,

una così devastante arsura,

un tremito da far paura

che mi abita il cuore.

Rumore di pelle sul pavimento

come se cadessi sfinita:

da me si diparte la vita

e d’un bianchissimo armento io

pastora senza giudizio

di te amor mio mi prendo il vizio.

Vizio che prende un bambino

vizio che prende l’adolescente

quando l’amore è furente

quando l’amore è divino.

Adesso sono una pioggia spenta

dopo che l’orma del tuo cammino

si è fermata ai miei occhi.

Che ciglio devastante il tuo!

Come mi penetri le ossa!

Se piangessi, tu verresti a riprendermi.

Ma io ho bisogno del mio dolore

per poterti capire.

Immagine 6 LA VOLPE E IL SIPARIO

Potresti anche telefonarmi

e dirmi in un soffio di vita

che hai bisogno del mio racconto:

favole di una bimba che legge i sospiri,

favole di una donna che vuole amare,

una donna che cerca un prete

per avere l’estrema unzione.

Che insostenibile chiaroscuro,

mutevole concetto di ogni giorno,

parola d’ordine che dice: non vengo

e ti lascio morire poco a poco.

Perché questa lentezza del caos?

Perché il verbo non mi avvicina?

Perché non mangio i frammenti di ieri

come se fosse un futuro d’amore?

Emergi nei tuoi bianchi sepolcri,

o mia Sarajevo.

Nulla che possa compararsi a un uomo

che ti lascia supina

con il seme di Bacco nella testa.

Esseri invisibili

fanno morire l’amore,

con infule bugiarde

che ti sparano addosso:

il manicomio,

questa casa bianca

dove tu mi accompagni.

Quieta misericordia la tua,

la mia piena di fallimento:

una buca d’acqua

in cui bagno il mio piede di ninfa

che ritorna freddo dopo l’amore.

Come in una giacenza di morte

dove la vita più non si ritrova.

Immagine 7 LA VOLPE E IL SIPARIO

La tua pelle color colore

che abita sempre nella mia carne

e che bruciando nella mia passione

mandava odore di mirra.

Quella tua pelle così brunita,

così scarlatta, così ferita.

Quell’odore di uomo riverso

su marciapiede di donna

calcando il mio marciapiede,

sollevando il dolore

in delirio d’amore,

in delirio di prepotenza:

la tua pelle contro il mio guscio,

la tua pelle appesa al mio uscio.

Batto alla tua porta di sogno

con le mie nocche leggere,

con le mie mani leggere

come una bimba che cerca pace.

Vorrei parlarti del freddo del cuore,

del mio cuore di radice ferita.

Vorrei dirti che come te

ho bevuto un vino di troppo,

un vino di giusquiamo dolce,

un vino volonteroso

per cui la volontà dei poeti

diventa roccia sicura.

Tu che sei scalatore di mondi,

dovresti dirmi

perché la grazia rimane indietro

e perché dove c’è neve c’è freddo,

e dove c’è fuoco di passione

riarde il malefizio.

Ma poiché mi gratifico molto

di ciò che non ho in assoluto,

vorrei dirti che il mio cammino

è fatto di rose rosse

ogni volta che dal mio sguardo lui cade

come falce in cerca della morte.

Se l’occhio solare del firmamento

potesse darti il gelo del mio cuore

– perché io non ti vedo

e tenebra mi sembra la luce

e ancora la luce tenebra –

se io potessi spingere il vascello della mia ira

contro il solo tormento

che sei tu mio scoglio,

e avvolgerti dentro le vele

di una grande carezza,

la mia disperazione diventerebbe fango,

il mio fango diventerebbe preghiera.

Spegnimi come il lume della notte,

come il delirio della fantasia.

Spegnimi come donna e come mimo,

come pagliaccio che non ha nessuno.

Spegnimi perché ho rotta la sottana:

uno strappo che è largo come il cuore.

Immagine 8 LA VOLPE E IL SIPARIO

Di questi venti giorni passati con tenero soffrire

dentro le braccia come fossi unita

a un legame fantasma che disperde,

ho pensato che sarebbe stato facile finire

questa vita che muore già da tempo,

e trascinando la mia malafede

ho visto che sul tenero mercato dell’arte

ci sono fiumi di cavalli;

là gente dove si baratta per un soldo,

gente che vende qui pure i poeti.

Questo è il Naviglio.

Ma io mi sento sommersa dal tuo amore

e non capisco più cosa mi tiene:

se il gran villano della mia vita

o un lungo bacio

che tu non mi hai dato.

La mia poesia è alacre come il fuoco,

trascorre tra le mie dita come un rosario.

Non prego perché sono un poeta della sventura

che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,

sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,

sono il poeta che canta e non trova parole,

sono la paglia arida sopra cui batte il suono,

sono la ninnanànna che fa piangere i figli,

sono la vanagloria che si lascia cadere,

il manto di metallo di una lunga preghiera

del passato cordoglio che non vede la luce.

Versi angelici sono i tuoi

dove tu ti addormenti felice

presso le mie finestre

per ridestarti in un mattino di canti;

versi angelici e versi di nessuna natura

dove la tua tenaglia,

il tuo manto di contadino

che arde sopra le mie zolle

comincia a sperperare

la semina ardita delle parole.

Sono incantata

dal tempo che scorre tra le tue dita,

che entra a far parte della follia

e la divora e la spegne

e sottende agli intimi segreti.

Sono innamorata di ciò che muore

e di ciò che non batte ciglio,

tentando di aprire vasti vaticini

grandi come il mio verso.

Il vantaggio di un grande poeta

è di essere sordo al suono del disonore,

ed alto è il suo metro di linguaggio nudo

come è nudo il suo corpo in amore,

spugna obliqua che si imbeve di tutto.

Il poeta transita nel nome di Dio

come dentro la sua pagoda

dove si afflosciano amanti sfiniti

e cartelle di disonore.

Il poeta trama le ambasce del suo discorso,

vuol vivere lontano dall’io

nel censimento fragile della parola.

Immagine 9 LA VOLPE E IL SIPARIO

La casa del mio silenzio.

Dove le ore sorvegliano chiuse

i miei momenti di amore.

Aspetto che tu ritorni

con le palme riverse in alto

come un calice nuovo

in questa casa sordida e grande,

dove abitano gli gnomi della mia chiaroveggenza;

aspetto che tu ritorni, caro.

Insieme alla morte compagna di flutti,

la morte che è sorda e muta,

e longitudinale come il pensiero,

la morte che mi sorveglia,

adagiando cuscini di spasimo

sopra le spalle nude...

Ahimè morte amara

del mio assurdo perdono,

ahimè morte antelucana,

ahimè preghiera che non ha nascita.

Dove è depositato il mio amore?

in quale teca di ferro?

chi l’ha coronato ospite indegno

della mia tracotanza di poeta?

dove il cardellino del suo giovane cuore?

dove l’ambascia del suo pensiero?

dove l’otre del suo benefizio?

Cantine piene di rabbia ha dentro,

cantine piene di nebbia,

come vino che si amalgama al mosto

e ai piedi infetti dei contadini,

cantine piene di ebbrezza.

Angeli

Angeli delicati come rose,

fiori perfetti della fantasia,

peregrini del mondo, musicali

adoratori di luce, angeli-mondi,

come è l’asperula quando si alza

da un labbro che è ferito dalla grazia.

Angeli lunghi come la mia attesa,

fonti di amore e di gran pentimento,

fiori del bene, mondi di paura,

trasalimenti puri della voce.

Angeli grandi come i mutamenti,

materno divenire della specie.

Angeli muti come la parola

quando se ne va da un labbro che è divino,

angeli-donne che io vedo in amore,

notturne detrattrici del pensiero.

Angeli scalzi che non hanno misura,

angeli della folla o mia paura.

Quasimodo dice che chi ha visto l’incanto delle sirene

ha sempre negli inguini il pungiglione dell’ape

come qualcosa che gli sovrasti il cranio

e che lo faccia nudo di grondanti capelli.

Dice Quasimodo che ostia è il poeta

così calibrato che vola nei giardini dell’Eden

e nessuno è pieno d’ira come il poeta stesso

che vede l’ingiustizia contro le sue rime,

e la malagrazia del tempo, grave nelle sue trame.

Immagine 10 LA VOLPE E IL SIPARIO

Mia figlia che mi vide una notte morire

disse che avevo un amante

e mi condannò al manicomio.

Era piccola lei e forse malata,

era soltanto una bambina.

O amanti che io non ho avuto

solo di pensiero e vertice di discorsi,

amanti che io ho veramente amato,

amanti pieni di canto

che mi avete dato nell’ombra

la frescura del freddo,

un salmodiare infinito...

Entrambe sognatrici sognavamo un amore:

mia figlia visionaria mi condannò alla vita

e così arranco sopra questi pontili.

Il freddo degli amanti mi fa tanto patire

e sola, a volte, come cicala ferita grido.

Acqua, acqua limitrofa,

germe del mio principio,

germe di dea,

che mai ha avuto nessuno:

acqua dei miei figli,

acqua che salta sul muro,

acqua rubiconda

vanto di tanti gigli

e lavacro di pianto.

Tu che vedi il mio amato

corri da lui, supina,

che è un amore sudato.

Acqua, acqua bianca di Venere

tu sei soltanto madre,

a me fosti matrigna.

Io che ho le gote leggiadre

di tanta disciplina

di tanto amaro seme

di tanto disperato vivere.

I falsi-bugiardi del Naviglio

I falsi-bugiardi del Naviglio

che somigliano ad acque infette

e sono banderuole ferite

dalla confusione e dal freddo;

i falsi-bugiardi che seminano zizzania ovunque,

in quella palandrana di desiderio

che sono le loro sconfitte;

queste donne amalgamate con i loro panni

mi hanno fatto perdere la virtù della vita

e il giaggiolo del canto.

Il fiore di gaggìa che entrava dalla finestra

si è spento come la morte di un uomo

che mi ha preso tra le sue braccia,

trovandomi bella e ardita come le mie parole.

Ho perso un braccio nella fatica di vivere,

l’unico braccio che aveva carezzato la luna,

levato in mezzo a questo assurdo fragore

per cercare l’aiuto di lui

su di me premuto contro la fede,

premuto contro l’amore,

soli come firmamento taciuto.

Ho cercato negozi in queste aree infami

dove il vento riporta calunnie

insieme alle mie catene;

gente che arde per pochi soldi,

donnette primordiali

che trovano nell’occhio di una vetrina

gli sguardi sepolti dell’ignoranza,

gente che ricama quadri di atroci sconfitte

dove la sconfitta ragiona nell’alba,

e persone che tagliano le sottane

con forbici di dolore.

E tutti in questo pavimento di morte

vorrebbero vedere atterrata la maggiore nemica

che vedono sul volto mio

e sul volto di tutti,

che è la morte che gira sul fianco

di giorno e di notte

in attesa che la preda viva di sola aria,

torni nel vento come la cicala ferita

a tessere mandole d’amore.

Immagine 11 LA VOLPE E IL SIPARIO

È morta, la donna dai mille volti

che portava via le mie speranze,

che filava menzogne

dentro la siepe della mia esultanza. È morta.

Il suo sguardo freddo e libero

somigliava alla canaglia del Naviglio

che parte da queste rive

per andare lontano, molto lontano,

dove giace il dolore,

dove si levano le parche inumane.

Lei era una parca e soleva lievitare nel buio

come la parola immonda;

lei era qualche cosa che apre

e chiude i battenti;

era il principio dell’apostasìa

e conosceva a memoria i figli del mio pensiero;

era qualche cosa che veste e purifica

le bambole immonde

perché le esalta nella parola

e le fa vivere di ambasce.

Così, sopra il freddo pavimento,

anche lei ha tremato dentro la morte

e l’ha percorsa come un’alba furente.

Poi, finalmente è stata priva di pensiero,

finalmente ha teso l’ultimo arco,

finalmente si è scaricata

della sua fredda vergogna

e ha avuto il panico della verità assoluta.

Lei, la bambola di razza

che portava via la solitudine da se stessa

e che la rimorchiava nell’inferno.

Lei la donna indelicata e scurrile,

la mantide afflitta da una voce perdente;

lei caos tremebondo che soffriva di fosche paure,

l’alba dell’immane ferita è caduta là

dove più esaltava la sua grandezza:

in un pezzo di marciapiede

che la folla non ha mai calpestato,

scivolando via con ala radente di volatile

sopra la turpe menzogna.

Potrei incontrarti per ogni evenienza,

ma non è così facile ingannarmi

e non è gioia che mi tenga ferma.

A volte io respiro nella notte

e penso a quante luci sono morte

intorno a un cimitero di bambina.

Darsi a un amore è una cosa così grande

che potrebbe sconvolgere una guerra

e disarmare molta gente in pace.

C’era una manciata di semi odorosi

nelle mie mani per te,

e un ricordo lontano di cose accadute

ma senza sentimento.

Pensavo che tu fossi la mia strada,

e ho messo calzature leggere

perché tu mi credessi un’ombra.

Ho vagato solitaria con te dentro la mia stoltezza.

Non ti dissi che ero innamorata

fino al pudore,

finché non vidi sangue nella mia mente:

come se partito da me

mi avessi rapito il fulgore degli anni.

E così ho aspettato che tu rinverdissi

e che da erba diventassi un altare;

ma come tutti gli altari

ti sei fatto pietra.

Ti dirò, nel disegno dei miei giorni

c’era una casa piena di primizie;

mi sentivo Flora dalle molte braccia

quando, Anfitrione, tu mi offristi un desco.

Erano i giorni santi dell’attesa

quando io meditavo tra le palme.

Ma sono rimasta ahimè senza la casa,

senza il vitto migliore dei tuoi giorni;

e ho mangiato per te aride spezie,

cose di nessun conto per nessuno.

Ma stranamente mi sento una fata

che non ha speso tutto il suo denaro.

II.


  

    

    


    

       


      Volpe, assurda signora della terra

    


    

       


      senza tentacoli né prede

    


    

       


      con il solo fogliame della bugia

    


    

       


      madre che non hai mai dormito

    


    

       


      sapresti darmi la vellutata immagine

    


    

       


      di una donna che non è mai sazia di vento

    


    

       


      e che corre da un posto all’altro

    


    

       


      come se avesse un vicolo nel cuore.

    

  


  Mi rimproverano gli orpelli


  le camicie smisurate, i costi,


  le troppe fatiche angeliche.


  Ho duemila amanti mai visti


  gente che mi farebbe il bucato


  ma nessuno pensa


  che il miglior vestito per i trofei


  è la camicia di forza bianca


  con fiori sulla schiena


  per tutta la gloria che ci sorpassa.


  


  a Luca Carrà


  Intanto l’ombra è il quieto passaggio


  di una vita molesta che discende


  fino al ginocchio del conquistatore.


  Sempre chi vince piega la sua pelle


  al peccato degli altri chi si copra di


  tanto ardimento è simile ad un vinto.


  Ogni conquistatore è già per terra


  così si salgono forti montagne


  per vedere pacifiche vallate.


  Giunge a me la calura dell’estate


  ma non ti bacio sulla bocca come una volta,


  sei rimasto freddo dentro la morte come un faraone.


  Potessi aggiungere qualche cosa al vento


  che ti ha afferrato un piatto di minestra


  perché i morti appassiscono lontano


  insieme all’uva piena del ricordo.


  


  Egli tarda a venire e il cuore è spento


  come un braciere su cui cade l’acqua.


  La sua distanza mi fa forsennata


  e mi cadono in cuore


  i suoi begli occhi come due pietre rosse


  dai colori di sangue.


  È questo il mio mutar d’amore.


  Prendimi nelle rapide stagioni


  io mi sento in silenzio con la vita.


  Sapessi cosa costa


  germogliare a freddo


  in un terreno senza pace.


  Io non ho più radici,


  e tu Nicola mi balzi al labbro.


  Il petalo migliore


  che io avessi scoperto


  tra i giardini.


  


  Il tuo ombelico azzurro


  fonte di grazia divina


  ha partorito il figlio


  del mio crocefisso.


  Gli dei non c’erano ancora,


  ma sognando il tempio di Vesta


  io ti ho riconosciuta

Ho conosciuto l’amore amico,


  un fallo che uccide l’anima


  che rompe le ossa.


  Nessun uomo ha sparato meglio


  di questo mio amante.


  Ma io Giovanna d’Arco


  mi sento disarcionata.


  


  Il giallo


  Il giallo,


  una bionda fanciulla,


  il giallo della menzogna,


  colore di gelosia,


  la rabbia dei potenti


  e la stagione del cuore.


  Sono tanti i motivi, amico,


  però si muore d’amore.


  Prendimi la pelle di un tempo,


  divino amore,


  quella scorticata e precisa


  che hanno dato le mie labbra.


  Le mie labbra


  sono ombre funeste.


  Prendi i miei baci, amore,


  prendimi la polvere delle ali,


  perché possa volarti sul cammino,


  io fantasma gioioso


  degli specchi.


  Ala che sfiori il mio bel corpo


  come se fosse virginale appena


  e vi metti lo sperma del pensiero:


  polluzione notturna è la veggenza.


  Occhi di Dio che si posano piano


  ti accarezza la fronte


  e la tua morte si allontana


  ruggendo come un cane.


  È stata una vestale


  una giovane donna a portarti il silenzio


  sui monti della morte.


  All’uomo la solitudine fa paura


  ma tu che hai varcato i confini


  di ogni visibile spazio


  sei più in alto di qualsiasi astronauta.


  Tu sei oltre la luna dei manicomi:


  sei ormai nella parola di Dio.


  


  Un amore, un amore.


  Ho sete dell’aria


  che vibra dell’amore.


  Ho un caldo di gelo intorno


  il caldo della morte.


  Ma l’amore apre nel tuo passaggio segreto,


  entra nei visceri adolescenti.


  L’amore è il tuo canto del cigno.


  Leda, l’amore è una piccola morte.


  Il verme che divora il sangue


  non è sempre un malanno,


  a volte è una finestra socchiusa.


  Lontano nei paesi caldi


  dove l’odio non gela,


  qui dentro la mia casa


  non scende una carezza.


  Solo tu Vanni mi carezzavi


  con antiche parole,


  la vita è bella, bella,


  e bisogna andare avanti.


  Quattro stanze per Roberto Volponi


  

    

    


    

       


      ... grave quell’ora che a te mi conduce,

    


    

       


      e mi sento un aperto solleone

    


    

       


      che abbia bruciato con fragore

    


    

       


      gonfie orde di grano...

    

  


  I


  Sul tuo volto vorrei tessere


  amore finemente:


  una gualdrappa per le molte guerre,


  quelle di amore che tu non mi hai fatto,


  o tiratore d’arco, più veloce del canto.


  II


  Mentre cerco vita nel tuo volto,


  dolcissimo Roberto che mi cadi


  pesantemente tra le molte braccia,


  io sono Diana, forsennata caccia


  che trova dentro i rivoli del sogno


  grandi cerbiatti dagli occhi di rima.


  III


  Carezzami o luna fortemente


  appesa dentro l’inguine del sole.


  Tu che molesti in me l’ultima stella


  del divino Roberto che mi cade


  frantumandosi all’alba tra le braccia.


  IV


  Sono folle d’amore per la sera


  quando cade la luna dolcemente


  sui miei trascorsi;


  in limpide mannelle lego


  le mie parole nello spazio


  per farti dono della mia poesia;


  quando la luce che trionfa nella sera,


  addormentata a notte le fanciulle


  piene di canto e gravide di sale;


  ed esse scendono giù fino alla ripa


  del firmamento e sono bozzoli d’aria


  che cantano al vento le carole vane...


  In morte di Titano


  

    

    


    

       


      Il poeta piange il suo limite pieno

    


    

       


      che stava nelle braccia di Titano

    


    

       


      per la masturbazione con l’eterno.

    

  


  I


  Infelice te che dormi


  nei limiti oscuri


  al contatto beato della memoria


  e che premi giacigli fragili


  di dimore infinite.


  Infelice te che conosci


  gli dei del silenzio


  e le intime libagioni,


  che suoni i tuoi carmi belli


  nell’ansia del mattino.


  Da noi la crocifissione è immediata


  e il male un pugno di grano,


  inferno rischiarato


  dal riso del sole


  che vola sui nostri destini.


  II


  Sgombrate l’ale


  del tuo ciglio migliore


  e del tuo capo perfetto,


  o uomo di desiderio


  che avevi mano


  svelta nel cammino


  e il piglio di chi è


  presago di morte,


  angeli senza pace


  volano sul tuo volto


  mentre io dormo assorta


  nel paradiso.


  III


  Capelli di ragazzo erano i tuoi


  e piombo fuso all’alluce perfetto


  che ristava maleodorante nelle scarpe.


  Lì era un vivere pieno


  in quell’odore di selva


  che qui ti accompagnava supino.


  Odisseo, per dimenticare


  il tuo amore


  ogni sera alle nove benedette


  guardo al Naviglio


  chiudere i cancelli.


  IV


  Avevi la faccia di Beethoven giovane


  e il tuo archetto era il ciglio


  di un limite irrisorio


  dove a tratti salivano le api


  del tuo fermo pensiero.


  V


  Poderose le milionate


  che giocavi al casinò di San Remo


  mentre io trafitta


  da una pace immemore


  urlavo la tua assenza.


  Eri colui che porta la pietra


  di sotto una giacca celeste cielo


  con un fiore all’occhiello


  come Wilde.


  VI


  Mi mandavi parole benedette


  prima del carme – un piacere sublime –


  un concerto così di malagrazia


  sopra gli ardui cammini della sera.


  Eri cosciente di quel tuo travaglio


  così umano e perciò come un foglio


  dove adagio scrivevo le mie rime

APPENDICE


  Oh primavera oscura


  strano presagio d’amore


  dimorare nel grembo di un ragazzo.


  È come abbattere il sole


  e il turbine del rancore


  ti assottiglia le vene


  e vedi crescere fra l’erba


  un fiore scuro.


  


  E infine io ti congedo da me


  come un’acqua che non corre tra i boschi


  e non fa lievitare nulla:


  ogni cosa messa in natura


  deve dare grandine o vento


  e non mai sortilegio d’amore.


  Tu sei stato una magia ossessiva,


  vattene con le altre streghe.


  Sembra un Cipriota costui


  che vive nell’isola di Ogigia


  e in quella di Cipro


  dove abita la sfortuna.


  Lì, insieme alla tempesta di Otello


  egli porta la spada del dominio


  e la mette nel cuore delle donne


  e sfiora il ventre con le sue carezze


  finché esse gemono come acqua


  ed escono dal loro letto


  per andare a morire di spavento.


  


  Rapido io potrei dirti


  quanto è lungo il piacere,


  una figura solamente


  che salta di divieto in divieto


  per correre al collo di Diana.


  O gemma purissima del peccato,


  chi ti ha così involto?


  Chi in te ha taciuto?


  È stato solamente il sogno


  figlio maledetto di tutti


  che ostacola i morti


  e fa soffrire la gente.


  Gli indovini soffrono nel vedere


  il loro cuore migliore


  afflitto dalle dita del destino


  e gemono come corpi sedotti


  in riva al fiume.


  Gli indovini muoiono


  sapendo che le finestre


  non hanno fioritura di verde


  e che la lotta per la vita


  va a catafascio


  per colpa di una donna.


  a Simone Bandirali


  Il mio amore perduto era come un’oasi


  fresca piena di palmizi e sereni,


  il mio amore perduto si chiamava Gesù


  in quanto era fede viva,


  il mio amore perduto, Simone,


  era prima del tradimento di Giuda


  quando un fosco vicino


  il nano disperato, la seppia


  levò contro di lui il vento


  della sua rabbia.


  Aveva cosce gentili


  come quelle dei liberi fanciulli


  e nessuna nebbia negli occhi,


  aveva mutamenti di umore,


  come qualsiasi amante


  era folle e ragionevole


  come chi ama e mi chiamava donna


  e non poetessa.


  La sorcière

Ma porte s’ouvre


  et tu reviens


  à ma chanson.


  Pourquoi tu


  ne me donnes pas


  les jeux amoureux?


  Pourquoi tu


  te lèves


  pour aller au mariage?


  Je suis ta jeunesse


  et elle


  c’est la sorcière


  qui moleste


  ton cœur.


  Je pleure et je prie


  que l’allure se converte


  en douleur. La peine


  c’est un arbre et c’est


  la sorcière,


  la sorcière qui te parle


  pour te dire:


  rappelle-moi


  et oublie celle qui pleure


  avant de mourir


  d’amour.


  Adieu


  Je voudrais que tu


  me chantes


  avec ta religion,


  où le mensonge n’est pas.


  Le cœur c’est une


  rivière


  et tu es l’eau qui


  chante


  et que je bois


  heureuse.


  Vidi nel campo della giovinezza


  qualcosa che sortiva di lontano:


  era il colore della fantasia


  e andai nel cielo a riscoprire


  il dono degli occhi, che fuggire nell’amato


  e così dentro l’arca nel pensiero io stampo


  la magnifica ossessione


  del tuo starmi lontano,


  nel colore un momento fisso


  che non parla,


  vorrei con il mio martello


  colpirti sulle labbra bisognose.


  


  Amore


  Quando s’incomincia


  il cammino dell’amicizia


  e poi ci si stringe


  la mano


  allora incomincia un amore


  amore lontano


  ma quando tu mi baci,


  credi, alla mia bocca nasce


  un fiore selvaggio


  e guai chi me lo tocca.


  Ho cercato i tuoi cento colori


  maestro


  per dirmi se era davvero rosso.


  Un fiore che fa per tre.


  È l’ultima occasione amore,


  l’ultima occasione.


  Il tempio della mia malinconia


  era un tempio pieno di perle.


  È l’ultima avventura,


  poi chiuderò la mia città.


  Oh mare che mi semini di notte


  addormentato si è il mio tenero giorno


  nelle lunghe dita della primavera.


  Ahimè, che nella mia terra


  non cresce più il fiore del suo bacio


  e più non mi addormenta.


  Essa giace, è un feto musicale


  che muore nel mio grembo


  e partorirlo io non riesco.


  È un morto che cammina


  con la speranza della prima vita.


  Da te non scende un bacio,


  niente ti muove la corazza dei sensi


  e lasci morta la mano del Poeta.


  Ti contenti di dirgli che non fai fatica


  nel pensiero e nell’amore


  mentre tu sei convinto


  che nel girare un perno o una ruota


  si muova il creato o il firmamento.


  Vorrei averti


  e non averti


  mai.


  È tale il mio


  pericolo


  in amore


  che potrei perdere


  in te


  la mia maschera


  viva


  di poeta.