sabato 15 gennaio 2022

 


SETTE STORIE GOTICHE

Karen Blixen 


I SOGNATORI

In una notte di plenilunio dell'anno 1863, un dhow navigava da Lamu verso Zanzibar, costeggiando la terra a un miglio circa al largo.

Fuggiva a vele spiegate davanti al monsone, e portava un carico di avorio e corni di rinoceronte. Questi ultimi sono tenuti in gran conto come afrodisiaco, e i mercanti vengono a cercarli a Zanzibar da paesi lontani come la Cina. Ma accanto a tali merci il dhow trasportava anche un carico segreto, il quale avrebbe destato e stimolato grandi forze, e di cui neppure si sognavano le contrade immerse nel sonno che esso costeggiava.

Quella placida notte era inquietante nella sua profonda silenziosa calma, come se qualcosa avesse turbato il mondo; come se l'anima della Terra, per virtù di magia, fosse stata capovolta. Da paesi lontani giungeva sfrenato il monsone, e sotto il suo impeto andavano i flutti nel loro lungo viaggio, vegliati dallo sguardo vago e luminoso della luna. Ma il chiarore dell'astro sulle acque era così vivido da far pensare che il mare, in realtà, irradiasse tutta la luce del mondo per rifletterla nei cieli. Le onde apparivano un tutto solido, al quale il piede avrebbe potuto affidarsi sicuro, mentre si sarebbe invece potuti precipitare e affondare nel cielo vertiginoso, nelle turbolente e insondabili profondità di argentei mondi: mondi di un argento ora vivido ora cupo e appannato, ma pur sempre argento riflesso in argento irrequieto e mutevole che torreggiava in un'intensità lenta e inconsistente.

I due schiavi a prua erano immobili come statue, e i loro corpi, nudi sino alla cintola nella torrida notte, si fondevano col grigiore del mare là dove non vi batteva la luna, si che solo per le nette ombre scure lungo il dorso e le reni, quelle forme si stagliavano contro la vasta superficie. Nel plenilunio il berretto rosso d'uno di essi aveva un lucore cupo di prugna matura. Ma l'angolo d'una vela, cogliendo la luce, luccicava come il ventre bianco d'un pesce morto. L'aria era calda come quella d'una serra, e così umida che tavole e gomene a bordo trasudavano un umore salmastro. Il mare grosso cantava e mormorava lungo la prua e la poppa.

Una piccola lanterna pendeva sul ponte di poppa; e attorno al suo lume si raggruppavano tre uomini.

II primo di essi era il giovane Said Ben Ahamed, figlio della sorella di Tippo Tip,2 e affettuosamente amato dal grand'uomo. Per il tradimento di certi suoi rivali egli aveva scontato due anni di prigionia nel settentrione, e attraverso molte e strane vicende era riuscito a fuggire e a raggiungere Lamu. Ora si trovava lì sconosciuto a tutti; e tornava in patria, dove si sarebbevendicato dei suoi nemici. E a spingere la nave era in realtà, più potente del monsone, la speranza di vendicarsi racchiusa nel cuore di Said. Essa serviva al tempo stesso da vela e da zavorra al dhow. Molti importanti personaggi si sarebbero affrettati a radunare i loro averi e i loro harem per fuggire prima che fosse troppo tardi, se avessero saputo che Said si trovava quella notte a bordo di una nave in rotta verso Zanzibar. Ma già in altri racconti è stata narrata la vendetta di Said.

Ora egli sedeva sul ponte, a gambe incrociate, e riposava le mani mollemente giunte sulle tavole davanti a sé, immerso in profondi pensieri.

Il secondo, e il più anziano della compagnia, era un personaggio che godeva di una gran fama, il molto rinomato narratore di favole Mira Jama in persona, le fantasie della cui mente hanno formato la gioia di centinaia di tribù. Al pari di Said, egli sedeva a gambe incrociate e volgeva il dorso alla luna; ma la notte era abbastanza chiara per rivelare che in un qualche incontro col proprio destino, Mira Jama aveva avuto naso e orecchie spiccati netti dalla bruna testa. Pur essendo vestito miseramente, egli serbava una certa cura del proprio aspetto. Intorno alla vita sottile portava un'ampia sciarpa di sbiadita seta scarlatta, che talora, a un suo movimento subitaneo, alla luce della piccola lanterna fiammeggiava e ardeva come fuoco o come puro rubino.

Terzo della compagnia era Lincoln Forsner, un inglese rosso di capelli chiamato Tembu dagli indigeni delle coste, un nome che può significare avorio o alcool, come più vi piace. Lincoln proveniva da una ricca famiglia britannica, ed era stato sbalestrato da molti venti, prima di starsene lì coricato a ventre piatto sul ponte di quel dhoiu, vestito d'una camicia araba e d'un paio di ampi calzoni indiani, benché sbarbato e provvisto di aristocratiche basette. Egli masticava le foglie secche che i Suaheli chiamano murungu, e che tengono svegli e in una piacevole disposizione di spirito; di quando in quando cacciava fuori un lungo getto di saliva. Ciò lo rendeva pieno di comunicativa. S'era unito alla spedizione di Said per affetto verso il giovine e anche per vedere come sarebbe andata a finire la faccenda; nello stesso modo, sotto diversi cieli, aveva seguito più di un'avventura. Si sentiva il cuore leggero. Andava pazzo per la vita marinara, e lo soddisfacevano la rapida corsa sul mare, la calma notte e la luna piena.

— Come mai, Mira, — egli disse — non hai una storiada raccontarci stanotte, mentre si naviga? Ne sapevi una volta di storie, di quelle che fanno agghiacciare il sangue nelle vene e scacciano la voglia di fidarsi dei più vecchi amici: storie adatte a una notte calda e a gente avviata a grandi imprese. Non ne sai più nessuna? —.

— No, Tembu, non ne so più, — disse Mira — e questa è di per sé una triste storia, buona per gente avviata a grandi imprese. Una volta ero sì un grande narratore di favole, specializzato in storie da far agghiacciare il sangue nelle vene. Demoni, veleno, tradimento, supplizi, buio pesto e pazzi furiosi: era questa la mercanzia di Mira —.

— Ora rammento una delle tue favole, — disse Lincoln — con la quale mettesti paura a me e a due giovani danzatrici di Lamu, che davvero non avrebbero dovuto avere alcun motivo di spaventarsene; e per tutta la notte non potemmo dormire. Il Sultano voleva una vergine vera, e dopo molte fatiche gliene venne mandata una dai monti. Ma egli la trovò che… —.

— Si, sì… — e Mira prese a narrare la storia; s'era improvvisamente trasformato in viso, e i suoi occhi scuri brillavano e le sue mani rivivevano, le mani del vecchio cantastorie, come due vecchie serpi ammaestrate che il flauto richiama fuori della loro cesta. — Il Sultano voleva una vergine vera, che neppure sapesse che cosa fosse un uomo. A prezzo di grandi fatiche gliene andarono a prendere una nel regno delle Amazzoni tra i monti, dove tutti i fanciulli maschi venivano uccisi dalle donne, le quali selvaggiamente guerreggiavano per conto loro. Ma quando il Sultano si recò da lei, tra i tendaggi della porta la vide intenta a guardar fuori contemplando un giovane portatore d'acqua che entrava e usciva dal palazzo, e la sentì mormorare tra sé: — Ah! In che gran bel posto sono capitata; quella creatura laggiù dev'essere Iddio, o un angelo vigoroso, proprio quello che scaglia la folgore. Ora posso morir tranquilla, perché ho veduto quel che nessuno ha visto mai —. E in quel momento anche il giovane portatore d'acqua alzò gli occhi verso la finestra, e rimase là a fissare la vergine. Allora il Sultano si rattristò molto, e fece seppellire insieme la vergine e il giovine in un sarcofago di marmo largo quanto un letto nuziale; li fece seppellire vivi sotto un palmizio nel giardino; e seduto sotto quell'albero soleva domandarsi la ragione di molte cose, chiedendosi perché non potesse mai esaudire il desiderio del proprio cuore, e si faceva suonare il flauto daun giovanetto. Questa è la storia che hai sentito una volta —.

— Si, ma era raccontata meglio — disse Lincoln.

— È vero — disse Mira. — E la gente non poteva far senza Mira, allora. Alla gente piace sentirsi accapponar la pelle. I potenti della terra, pieni fino alla gola dei dolciumi della vita, vogliono sentirsi gelare il sangue nelle vene. Le oneste dame alle quali non capitava mai nulla, bramavano tremare nella pace del loro letto, per una volta almeno… Storie di fughe e inseguimenti ispiravano passi più aerei alle danzatrici. Ah! Come mi voleva bene il mondo, a quei tempi! Allora ero un bell'uomo dalle guance pienotte. Bevevo vini nobili, portavo vesti trapunte d'oro e collane d'ambra e bruciavo incenso nelle mie stanze —.

— E come mai avvenne in te questo cambiamento? — domandò Lincoln.

— Ahimè! — disse Mira, tornando alla placidità di prima. — Con l'andar degli anni ho perduto il potere di metter paura. Una volta che si sia veduto il vero volto delle cose, non è più possibile far versi su di esse. Quando ci si è intrattenuti coi fantasmi e si è avuto a che fare coi diavoli, alla fin fine si ha più paura dei creditori che di essi; e quando si è stati fatti becchi, si perde ogni timore delle corna. Ho troppa familiarità con la vita; ormai, essa non m'alletta più a credere che una cosa qualsiasi possa essere molto peggiore di un'altra. Il giorno e la notte, un nemico e un amico - io so bene che è sempre la medesima canzoncina. Come potete metter paura agli altri, se voi stesso vi siete scordato di quel che è la paura? Una volta, avevo inventato una storia davvero tragica, una storia grandiosa, piena di angosce, che piaceva a tutti; e narrava di un giovane, cui in ultimo vengono mozzati naso e orecchie. Ora, se anche volessi, non riuscirei più a far rabbrividire nessuno con quella favola; perché so, ora, che esser senza naso e senza orecchie non è poi molto peggio che averli. Ecco perché mi vedete qui, tutto pelle e ossa, e con quattro vecchi cenci indosso, compagno di Said in cattività e nella miseria, invece di ronzare intorno ai troni dei potenti, fiorente e vezzeggiato da tutti com'era il giovane Mira Jama —.

— Ma non potresti inventare una storia terribile, una storia di miseria e di esecrazione? —.

— No, — disse fieramente il rapsodo — non è questo il genere di storie che racconta Mira Jama —.

— Ahimè, si, Mira, — disse Lincoln voltandosi sul fianco — cos'è mai la vita, a ben pensarci, se non un'eccellente macchina congegnata con cura e infinitamente complicata, la quale serve per trasformare grassi cuccioli pazzerelli in vecchi cani rognosi eciechi, e superbi destrieri di guerra in ronzini spelacchiati, e ragazzi floridi ai quali il mondo rivela grandi delizie e terrori, in vecchi smidollati, dagli occhi lacrimosi, che bevono pozioni di corno di rinoceronte? —.

— Oh, Lincoln Forsner, — disse il rapsodo dal naso mozzo — che cosa è l'uomo, se ci pensate bene, se non un'ingegnosa macchina minuziosamente congegnata, per trasformare il vino di Shiraz in orina? Ci si può addirittura domandare quale sia il desiderio e il piacere più intenso: bere o pisciare? Ma tra l'una cosa e l'altra, che cosa si è compiuto? Un canto è stato composto, un bacio dato, un calunniatore punito; un profeta è stato concepito, qualcuno ha pronunciato una giusta sentenza e giocato una burla. Il mondo ha sorseggiato il giovane rapsodo Mira; e questa bevanda gli ha dato alla testa, gli è corsa per le vene, lo ha fatto risplendere di calore e di colori. Ora, io sono un poco in ribasso; l'effetto sta per finire. Ben presto il mondo si rallegrerà altrettanto di pisciarmi, e non so, a dir la verità, se io stesso non lo stia aiutando un pochino ad espellermi. Ma le favole che ho creato, quelle rimarranno —.

— Ma nel frattempo, come fai per mostrare al mondo una faccia così allegra, con la vita che ti sta alle costole per liberarsi di te? — gli domandò Lincoln.

— Sogno — rispose Mira.

— Sogni? —.

— Si, per grazia di Dio, ogni notte, non appena mi addormento, sogno. E nei miei sogni so ancora che cosa sia la paura. Oh, è un mondo terribile, quello dei miei sogni. Qualche volta porto con me qualcosa che mi è infinitamente caro e prezioso, pur sapendo benissimo che non esiste nulla di simile al mondo; e mi sembra di dover custodire queste cose contro qualche orrendo pericolo, quali non ne esistono nel mondo reale. Mi sembra inoltre di dover essere colpito, fulminato, se perdo queste cose, benché sappia altrettanto bene che nel mondo della veglia non si è né colpiti né fulminati, qualsiasi cosa ci venga a mancare. Nei miei sogni, l'oscurità è popolata di orrori indescrivibili, ma qualche volta vivo anche fughe e inseguimenti di celestiale delizia —.

Tacque per un poco, quindi riprese:

— Ma a piacermi soprattutto nei sogni, è questo: che intorno a me il mondo si crea senza alcuno sforzo da parte mia. Ora, ad esempio, se voglio andare a Gaza, dovrò contrattare una barca, e acquistare le provviste e riporle, e ben disporre le vele, e farmi magari venire i calli alle mani a furia di remare. E poi, una volta arrivato a Gaza, che cosa farò, là? Anche a questo debbo pensare. Ma in sogno, mi trovo a salire una lunga fila di gradini che vengono su dal mare; non li ho mai visti prima, quei gradini, eppure sento che il solo salirli è una gran felicità, e che mi condurranno verso godimenti senza pari. Oppure mi trovo a caccia per una lunga fila di basse colline, e sono circondato da gente munita di arco e frecce e da cani al guinzaglio. Ma che cosa debba cacciare, e come mai mi trovi lì, questo non lo so. Una volta entrai in una stanza da un balcone; albeggiava appena, e sul pavimento di pietra vedevo un paio di minuscoli sandali; vedendoli, pensavo: sono di lei. E il cuore mi traboccava di delizia, mi batteva di gioia. Ma intanto, non m'ero minimamente affannato. Non m'era costato fatica avere quella donna. Altre volte presentivo che fuori, dietro la porta, c'era un uomo enorme e nero, nero come la pece, appostato lì per uccidermi; eppure, non avevo fatto nulla per inimicarmelo, e aspettavo appunto che il sogno m'insegnasse come dovevo fare per sfuggirgli, perché da solo non me la sarei potuta cavare. Nei miei sogni, specie da quando sono stato in prigione con Said, la volta del cielo è sempre altissima, e di solito io mi vedo come una figura minuscola in un paesaggio sconfinato o in una gran casa. Un giovane non troverebbe alcun piacere in tutte queste cose; ma io, vedete, vi trovo la stessa delizia che si prova quando si piscia dopo aver bevuto vino a sazietà —.

— Non so nulla di queste cose, Mira; a me accade raramente di sognare — disse Lincoln.

— Oh! Lincoln, che tu possa vivere a lungo! — disse il vecchio Mira. — Tu sogni invero più di quanto non sogni io stesso. Vuoi che non riconosca i sognatori, quando m'imbatto in uno di essi? Tu sogni a occhi aperti, tu cammini sognando. Non vuoi far nulla da te per scegliere quel die ti garba: lasci che il mondo si formi attorno a te, e poi apri gli occhi per vedere dove ti trovi. Questo tuo viaggio, stanotte, è un sogno. Tu ti lasci condurre dalle onde del destino, e domani aprirai gli occhi per vedere dove sei arrivato —.

— Per vedere il tuo bel viso — disse Lincoln.

— Tu non sai, Tembu, — disse a un tratto Mira, dopo un silenzio — che se nel piantare una pianta di caffè si piega la radice, dopo un po' di tempo l'alberello comincia a gettare quasi alla superficie del terreno una miriade di piccole radici delicate. Una pianta simile non sarà mai rigogliosa e non darà frutti, ma fiorirà più doviziosamente delle altre. Quelle piccole radici sono i sogni della pianta: mettendole fuori, non sente più il bisogno di pensare alla radice grande. Esse la tengono in vita, non troppo a lungo, ma solo un poco. Oppure, se più vi piace, potete dire che la fanno morire. Perché in realtà, sognare è la maniera con cui le persone bennate si tolgono la vita.

— Se vuoi dormire di notte, Lincoln, non devi già pensare, come ti consiglieranno molti, a una lunga fila di pecore o di cammelli che passa attraverso a un cancello; perché procederanno in un'unica direzione, e i tuoi pensieri li seguiranno. Devi pensare invece a una sorgente profonda; dal fondo di quella sorgente, proprio nel mezzo, scaturisce uno zampillo, il quale si divide in tanti rivoli che se he vanno da ogni parte possibile, come i raggi di una stella. Se riuscirai a fare scorrere i tuoi pensieri insieme all'acqua, non già in una sola direzione, ma ugualmente verso ogni parte, allora cadrai addormentato. Se poi riuscirai a far sì che il tuo cuore si dissolva totalmente in questo diramarsi, come la pianta del caffè si dissolve nelle piccole radici alla superficie, allora morirai —.

— Dunque tu pensi che io sia arrivato a questo punto: che voglia dimenticare la mia radice? — domandò Lincoln.

— Sì; dev'essere così. A meno che, al pari di molti compatrioti tuoi, tu non ne abbia mai cavato molto —.

— A meno che non sia così — disse Lincoln.

Tacquero, mentre la nave correva sulle onde. Uno schiavo prese un flauto e ne cavò qualche nota, per provarlo.

— Perché Said non ci dice nulla? — domandò Lincoln a Mira.

Said alzò un poco gli occhi e sorrise, ma non aprì bocca.

— Perché pensa — rispose Mira. — Questa nostra conversazione gli sembra alquanto insignificante —.

— A che cosa pensa? — domandò Lincoln.

Mira rifletté un poco. — Ecco, — disse — non vi sono che due specie di pensieri plausibili per un uomo di intelletto. Uno è questo: Che cosa farò tra un momento? O stanotte? o domani? E l'altro: Qual era lo scopo di Dio quando ha creato il mondo, il mare, il deserto, il cavallo, i venti, la donna, l'ambra, i pesci, il vino? Said pensa all'una o all'altra di queste due cose —.

— Forse sogna — disse Lincoln.

— No, — disse Mira dopo un momento — non Said. Egli non ha ancora imparato a sognare. Il mondo lo sta appunto bevendo. Said gli va alla testa e gli scorre per le vene. Vuole comandare al battito del suo cuore. Non sogna, ma forse prega Iddio. Quando si è finito di pregare Iddio - cioè, quando si mettono le radici alla superficie -allora si comincia a sognare. Può darsi che questa notte Said preghi Iddio, e scagli la sua preghiera verso il Signore con tanta forza quanta quella con cui l'angelo, il giorno del Giudizio, lancerà al mondo il suono della sua tromba; con tanta violenza quanto quella con cui l'elefante si accoppia. Said dice a Dio: Lasciami essere il mondo intero —.

E dopo qualche minuto, Mira riprese: — Egli dice: Non mostrerò pietà, e non ne chiedo alcuna. Ma ecco dove Said si sbaglia. Egli mostrerà pietà, prima ancora che ci abbia lasciati —.

— Ti accade mai di sognare due volte dello stesso luogo? — domandò Lincoln.

— Sì, sì — disse Mira. — È un grande favore divino, una gran delizia per l'anima dei sognatori. Dopo molto tempo, sognando, ritorno ai luoghi di un antico sogno, e il cuore mi si fonde di delizia —.

Il viaggio continuava. Ora tacevano tutti; poi, all'improvviso, Lincoln mutò posizione e si alzò a sedere, accomodandosi a suo agio. Sputò sul ponte il resto del murungu, e dopo essersi frugato in tasca si arrotolò una sigaretta.

— Dal momento che non ne sai nessuna, questa notte ti racconterò io una storia, Mira — disse. — Tu mi hai rammentato cose da tempo trascorse. Molte belle storie sono giunte dai tuoi paesi ai nostri, e hanno allietato la mia fanciullezza. Ora ti voglio raccontare questa, per la gioia dei tuoi orecchi, Mira, e per il bene di Said, al quale la mia storia potrà riuscire utile. Saprete come vent'annior sono io abbia imparato, come dici tu, Mira, a sognare; e chi fosse la donna che me lo insegnò. Tutto è accaduto così come vi dirò. Ma per quanto concerne i nomi e i luoghi e le condizioni di vita nei paesi in cui la mia storia si svolge, anche se vi sembreranno assai strane, non vi darò spiegazioni. Dovrete capire quel che potete, e lasciar da parte il resto. Non è un cattivo segno per una storia, se la si capisce soltanto a metà —.

Vent'anni fa, quand'ero un giovanotto di ventitré anni, mi trovavo in una sera d'inverno nella stanza di un albergo di montagna; e fuori c'era neve, bufera, nuvoloni e una luna di malaugurio.

Ora dovete sapere che il continente europeo, di cui avrete udito parlare, consiste di due parti di cui una è assai più piacevole dell'altra; e queste due parti sono separate da una catena di monti alti e scoscesi. È impossibile valicarli, fuorché in qualche punto, dove la conformazione dei monti è un po' meno ostile che in altri, e dove a prezzo di grandi fatiche sono state costruite strade che conducono da un versante all'altro. Vicino all'albergo ove alloggiavo si trovava appunto uno di quei passi. Una strada sulla quale potevano transitare pedoni, cavalli, muli e anche carrozze era stata tagliata nella roccia; e in cima al valico, dove, dopo aver maledetto il destino che v'ha condotto a quella laboriosa ascesa, cominciate a discendere per sentire ben presto un'aria dolcissima carezzarvi il viso e i polmoni, una confraternita di santi uomini ha innalzato un gran caseggiato per offrir ristoro ai viaggiatori.

Dal settentrione, dove tutto era gelo e morte, viaggiavo allora verso il mezzogiorno azzurro e voluttuoso. L'albergo era la mia ultima tappa prima della ripida salita alla cima del valico, che avrei intrapreso il giorno seguente. Era ancora un po' presto nella stagione per quel genere di viaggi; sulla strada si incontrava poca gente, e più su sulle montagne la neve era molto alta.

Agli occhi del mondo facevo la figura di un bel giovanotto ricco e allegro il quale sfarfallava da un piacere all'altro, e per via cercava di cavar da ogni cosa il meglio che poteva. Ma in verità ero sbatacchiato qua e là dal mio cuore dolente, povero pazzo a caccia di una donna.

Sì, Mira, credilo o no: di una donna. Già l'avevo cercata nei più diversi luoghi. A dire il vero la mia impresa era così disperata, che certo vi avrei rinunciato, se fosse stato in mio potere di farlo. Ma la mia stessa anima, Mira, mio caro, era migrata nel seno di quella donna.

E non si trattava neppure di una giovane della mia età. Aveva parecchi anni più di me. Della sua vita non sapevo nulla, se non cose che mi riusciva assai dolorosa mandar giù; e quel che era peggio, non avevo nessuna ragione di credere ch'ella sarebbe stata molto soddisfatta se fossi riuscito a scovarla.

Ecco come si erano svolte le cose: Mio padre, un uomo assai ricco, possedeva in Inghilterra grandi fabbriche e una bella proprietà in campagna, oltre a una famiglia numerosa e a una enorme capacità di lavoro. Leggeva spesso la Bibbia - il nostro Libro Sacro - e aveva finito con il credersi l'unico rappresentante di Dio in terra. Se riuscisse a distinguere tra il suo timor di Dio e la stima di se stesso, questo non lo so. Secondo lui, era suo dovere trasformare un mondo caotico in un universo ispirato all'ordine, e badare a che ogni cosa fosse utile - il che, agli occhi suoi, significava utile a lui. Nella sua natura ho riscontrato due sole cose contro cui egli nulla poteva: contro gli stessi suoi principi, nutriva un prepotente amore per la musica, in particolare per l'opera italiana; e qualche volta non riusciva a dormire la notte. Più tardi, una mia zia, sorella sua, che non lo poteva soffrire, mi raccontò che in gioventù, nelle Indie occidentali, egli aveva spinto al suicidio un uomo, o forse lo aveva addirittura ucciso di sua mano. Forse era questo a tenerlo desto la notte. Io e la mia sorella gemella eravamo di parecchi anni più giovani degli altri fratelli e sorelle. Che razza di estro avesse morso mio padre, per indurlo a generare due figli ancora quando già aveva avuto tanti guai con gli altri, non saprei dirlo. Il giorno del Giudizio Universale gli chiederò di spiegarmelo. A volte ho pensato che fosse davvero lo spettro di quel signore delle Indie occidentali a perseguitarlo.

Niente di quel che facevo piaceva a mio padre. In ultimo cominciai a sospettare di essere per lui una vera spina nel cuore e a dirmi che, se non fosse stato lui a procrearmi, gli avrebbe fatto piacere vedermi fare una brutta fine. Sentivo che tra l'una e le tre del mattino venivo stiracchiato, martellato e foggiato in ogni sorta di forme perché, in qualità di — mio figlio Lincoln —, potessi almeno riuscire utile. Quanto a me, di solito, durante quelle ore me la spassavo allegramente e facevo gazzarra; a quel tempo ero ufficiale in un reggimento elegante, dove, per mantenere il mio prestigio tra i figli delle più antiche famiglie del paese, spendevo una discreta parte dei quattrini, del tempo e dell'esperienza che mio padre stimava, a buon diritto e con ragione, esser roba sua.

Pressappoco in quell'epoca un nostro vicino morì e lasciò una vedova in giovane età. Era ricca e graziosa, il suo matrimonio non era stato felice, e nelle sue pene aveva trovato sollievo in un'amicizia sentimentale con la mia gemella, la quale mi rassomigliava al punto che quando indossavo le sue vesti, nessuno avrebbe saputo distinguerci l'uno dall'altra. Quindi, mio padre pensò che quella signora avrebbe forse acconsentito a sposarmi, liberandolo in tal modo del mio peso col caricarselo sulle proprie spalle. Quella prospettiva mi garbava, come qualsiasi novità che mi offrisse allora la vita. Una sola cosa chiesi a mio padre: il permesso di lasciarmi viaggiare sul continente europeo durante l'anno di lutto della signora. In quei giorni avevo diverse e svariate passioni molto decise, per il vino, il gioco, il combattimento dei galli e la compagnia delle zingare, unitamente a una mania delle discussioni teologiche ereditata da mio padre - tutte cose di cui, stimava il mio genitore, sarebbe stato utile liberarmi prima di impalmare la vedova, o che, se non altro, avrei fatto bene a non lasciarle contemplare troppo da vicino finché ella era in tempo a cambiar parere. Certo mio padre, il quale mi sapeva pronto e ardente nelle avventure amorose, temeva ch'io potessi sedurre la mia fidanzata e indurla a relazioni troppo intime, profittando della vicinanza delle nostre case in campagna e, forse, della somiglianza con mia sorella. Per tutte queste ragioni, il vecchio acconsenti a lasciarmi viaggiare per nove mesi, in compagnia di un suo antico compagno di scuola il quale viveva della sua carità ed era ben contento di rendersi grato almeno in questo modo. Di costui riuscii però a sbarazzarmi ben presto, perché non appena fummo a Roma egli si diede a certi studi sui misteri dell'antico culto priapeo di Lampsaco, e io potei godermela per mio conto.

Ma nel quarto mese del mio anno di grazia mi accadde d'innamorarmi di una donna conosciuta in un bordello a Roma. M'ero recato là una sera con una brigata di studenti di teologia. Non era quindi un sito brillante, ricercato da persone facoltose desiderose di divertirsi a ogni costo; e nemmeno un bugigattolo frequentato da artisti o da lestofanti. Era, né più né meno, uno stabilimento rispettabile e borghese. Ricordo ancora la stretta viuzza, e gli svariati odori che vi si confondevano. Se mai tornassi a sentirli, saprei d'esser ritornato a casa mia. Devo a quella donna se ho capito, e se ricordo tuttora, il senso di parole come lagrime, cuore, nostalgia, stelle… parole di cui vi servite voialtri poeti. Già; in quanto alle stelle, Mira, c'era molto in lei che richiamava alla mente una stella. Tra lei e le altre donne correva la stessa differenza che passa tra un cielo scuro e un cielo stellato. Forse in vita tua avrai incontrato donne di questo genere, che splendono di luce propria e brillano al buio, fosforescenti come il legno dell'agar.

Quando, il giorno dopo, mi svegliai nel mio albergo a Roma, mi prese una gran paura. Pensavo: ero ubriaco, iersera; i vapori dell'alcool mi hanno giocato un brutto tiro. Non esistono di queste donne. E a quell'idea mi sentivo addosso brividi caldi e freddi. Ma poi, mentre me ne stavo lì, a letto, tornavo a pensare: non è possibile che di testa mia abbia inventato una creatura come quella donna. Che! Appena il nostro maggiore poeta sarebbe stato capace di una cosa simile. Mai e poi mai avrei saputo immaginarmi una donna così piena di vita, una così gran forza. Mi alzai e tornai dritto filato in quella casa, e ve la trovai, tale e quale la ricordavo.Più tardi, m'avvidi che nella straordinaria impressione di vitalità immensa ch'ella mi dava, c'era, dopo tutto, qualcosa di falso; lei non possedeva affatto la forza che dimostrava. Ora vi dirò come stavano le cose: se per tutta la vita avete bordeggiato contro venti e correnti, e una volta tanto vi trovate improvvisamente su una nave che vada, come noi stanotte, con una marea forte e spinta dal vento, è inevitabile che rimaniate grandemente impressionati dalla forza della nave. Vi sbaglierete; eppure, in certo modo, avrete anche ragione, poiché la potenza del vento e del mare possono, a buon diritto, attribuirsi alla nave, se essa, fra tutte le altre navi, ha saputo farsene degli alleati. Così per tutta la vita io, sotto l'egida di mio padre, avevo imparato a bordeggiare contro i venti e le correnti della vita. Tra le braccia di quella donna mi sentivo in pieno accordo con essi, sollevato e trascinato dalla vita stessa; e ciò, secondo il mio giudizio d'allora, era dovuto alla grande forza della donna. E sì che non sapevo affatto fino a qual punto ella si fosse alleata a tutti i venti e a tutte le correnti della vita.

Dopo quella prima notte fummo sempre assieme. Non sono mai stato capace di cavar nulla di buono dall'ortodosso modo di fare all'amore del mio paese, che comincia in salotto con banalità, salamelecchi, risatine, e attraverso toccatine di mani e di piedi finisce con ciò che generalmente si reputa il culmine: a letto. Quell'avventura amorosa a Roma, cominciata a letto con l'aiuto del vino e di molte chiassose canzoni, per dar luogo poi a una specie di corteggiamento e d'amicizia che fino a quel momento mi erano rimasti ignoti, è la sola che m'abbia mai soddisfatto. Trascorso qualche tempo, conducevo spesso fuori la donna per un'intera giornata; o magari per una giornata e una notte. Comperai un carrozzino con un cavallo, e con esso ci recavamo in giro per Roma e per la Campagna romana, spingendoci sino a Frascati e a Nemi. Cenavamo nelle piccole osterie, e al mattino presto, a volte, sostavamo per strada, lasciando pascolare il cavallo sul ciglio, intanto che noi, seduti sull'erba, vuotavamo una bottiglia di vinello rosso aspro e fresco e mangiavamo uva e mandorle, guardando i corvi che roteavano numerosi sulla gran piana, e le cui ombre, sulle erbe basse, spesso correvano a fianco della nostra carrozza. Una volta, in un villaggio, da un balcone assistemmo a una festa; nella notte serena, una fontana era illuminata tutt'attorno da lampioncini alla veneziana. Parecchie volte arrivammo anche fin sulla riva del mare. S'era a settembre; un bel mese, a Roma. La natura comincia a dorarsi, ma l'aria è pura come acqua montanina, e pare strano che sia piena di allodole, le quali là cantano a quell'epoca dell'anno.

Olalla godeva di tutte queste cose. Adorava l'Italia, e s'intendeva molto di ghiottonerie e di vini. A volte, gaia come un arcobaleno, in scialle di cachemire e piume, si vestiva come la mantenuta d'un principe, e non v'era lady inglese capace di starle a pari. Altre volte invece s'adornava del fazzoletto di tela delle — ciociare — e ballava alla campagnola nei villaggi; e invano avreste cercato una ballerina più robusta e graziosa, quantunque preferisse starsene seduta accanto a me a veder ballare gli altri. Con straordinaria vivacità accoglieva ogni impressione. Dovunque ci recassimo insieme, ella osservava assai più cose di me; e sì che per tutta la vita mi è sempre piaciuto godere di quel che mi sta attorno. Ma al tempo stesso ella non sembrava far gran differenza tra gioia e dolore, o tra cose tristi e cose piacevoli. Come se in cuor suo fosse stata convinta che erano la stessa cosa, accoglieva tutto con la medesima buona grazia.

Un pomeriggio, verso il tramonto, ritornavamo in città; a testa nuda, Olalla guidava il cavallo e lo frustò sino a spingerlo al galoppo. In quel momento la brezza, scostandole dal viso i lunghi riccioli bruni, tornò a rivelarmi la lunga cicatrice di una scottatura, la quale, simile a un serpentello bianco, correva dall'orecchio sinistro alla clavicola. Come già altre volte, le domandai in qual modo si fosse così malamente scottata. Ella non mi diede risposta, ma cominciò invece a parlare di tutti gli illustri prelati e commercianti di Roma innamoratisi di lei, finché ridendo le dissi che non aveva cuore. A tali mie parole restò un poco in silenzio, mentre seguitavamo ad andare al galoppo, e il sole vivido ci abbacinava.

— Oh, sì, — ella disse finalmente — un cuore ce l'ho. Ma è sepolto nel giardino di una villetta bianca vicino a Milano —.

— Per sempre? — domandai.

— Sì, per sempre, — rispose — perché quello è il più bel posto del mondo —.

— Ma che cosa c'è, dunque, — le domandai, assillato dalla gelosia — in una villetta bianca vicino a Milano, che possa trattenere per sempre il tuo cuore? —.

— Non lo so — mi rispose Olalla. — Non ci sarà più un gran che, ora, da quando nessuno sarchia il giardino o accorda il pianoforte. Ora vi abiteranno degli stranieri, forse. Ma c'è il chiaro di luna, quando la luna brilla, e vi sono le anime dei morti —.

Non accadeva di rado ch'ella parlasse in quel modo vago, bizzarro; ed era allora così piena di grazia soave, e anche di una certa umiltà, che sempre mi affascinava. Faceva il possibile pur di piacermi, ma non già come una serva che per timore di contrariare diventi compassata, ma come un ricco che da una cornucopia riversi benefici sul capo d'altri. Simile a una leonessa domata, provvista di robuste zanne e artigli, che s'insinui nel vostro favore. Qualche volta mi faceva l'effetto di una bambina, e poi tornava a sembrarmi vecchia al pari di quegli acquedotti costruiti migliaia d'anni fa, che dominano la Campagna e proiettano le lunghe ombre delle loro maestose e antiche mura screpolate, splendenti al sole come ambra. Allora, accanto a lei mi sentivo una cosa goffa e nuova al mondo, un fanciullino sciocco. E sempre c'era intorno a lei quel non so che, per cui la sentivo tanto più forte di me. La stessa impressione avrei provato, credo, se m'avessero detto ch'ella era capace di volare, e che si sarebbeinvolata lontana da me e dalla terra, se solo avesse voluto.

Ma soltanto alla fine di settembre cominciai a pensare all'avvenire. Capivo che non m'era più possibile vivere senza Olalla. Sentivo che se avessi cercato di allontanarmene, il mio cuore sarebbe corso verso di lei come acqua giù per un pendio; non mi restava dunque che sposarla, e condurla con me in Inghilterra.

Se avesse sollevato la minima obiezione allorché glielo proposi, in seguito non sarei rimasto così sconvolto dal suo comportamento. Ma disse subito che sarebbe venuta. A partire da quel momento, anzi, si dimostrò più carezzevole, più piena di dolcezza di quanto non fosse mai stata; e discorrevamo della nostra futura vita in Inghilterra e di ogni cosa di quel paese, e ne ridevamo assieme. Le raccontai di mio padre, le dissi che era stato sempre appassionato dell'opera italiana; ed era, ancora, il più bel complimento che mi riuscisse di fargli. Parlandole di tutto ciò, sapevo che in Inghilterra mai più mi sarei annoiato.

Pressappoco in quel periodo mi colpì per la prima volta, quando mi recavo da Olalla, una figura d'uomo che mai avevo notato prima. In principio non ci avevo fatto caso, ma dopo il nostro sesto o settimo incontro, quell'uomo cominciò ad occupare i miei pensieri, provocando in me un curioso malessere. Era un ebreo sui cinquanta o sessant'anni, piuttosto smilzo, vestito assai riccamente; portava anelli di diamanti alle dita e aveva i modi d'un vecchio gentiluomo del gran mondo. Era pallido di carnagione, con occhi assai scuri. Mai lo vidi con Olalla, né dentro la casa; ma mi imbattevo in lui ogni volta che vi entravo o ne uscivo, tanto da farmi pensare ch'egli girasse intorno a Olalla come la luna attorno al sole. Qualcosa di straordinario dovetti trovare in lui fin da principio, altrimenti non mi sarei fitto in capo l'idea, da cui ora non potevo più liberarmi, che avesse un qualche influsso su Olalla e fosse, nella vita di lei, uno spirito malefico. Finii con l'interessarmi tanto a quell'uomo che dal mio domestico italiano feci prendere informazioni su di lui all'albergo dove alloggiava, e seppi così che era un ebreo olandese favolosamente ricco e che si chiamava Marco Cocoza.

Ero tanto curioso di sapere che cosa potesse cercare un uomo simile nei pressi della casa di Olalla, che in ultimo, contro la mia volontà - perché avevo paura di ciò che m'avrebbe risposto - domandai a Olalla se lo conosceva. Ella mi pose due dita sotto il mento e me lo alzò, dicendomi: — Non hai notato, carissimo,3 che io non ho ombra? Una volta vendetti la mia ombra al diavolo, in cambio di un po' di pace in cuore, di un po' d'allegria. Quell'uomo che tu hai visto in strada… con la tua consueta perspicacia, non stenterai a capire come egli altro non sia se non la mia ombra, con la quale non ho più nulla a che vedere. Il diavolo, qualche volta, le permette di fare una passeggiatina. È naturale che allora essa cerchi di tornare da me per stendersi ai miei piedi come una volta. Ma io non intendo permetterglielo, per nessuna ragione. Se lo permettessi, il diavolo potrebbe far valere i suoi diritti! Mettiti dunque il cuore in pace, angelo mio —.

A modo suo, pensai, una volta tanto ella diceva la verità, non c'era dubbio. Me ne resi conto, infatti, mentre parlava; non aveva ombra. Accanto a lei non v'era nulla di nero né di triste, e le cupe ombre delle preoccupazioni, del rimpianto, dell'ambizione o della paura, che sembravano inseparabili da tutti i mortali - anche da me stesso, benché a quei tempi io non fossi che un ragazzo piuttosto spensierato - erano state bandite dalla presenza di Olalla. E così la baciai, dicendo che avremmo dunque lasciato la sua ombra fuori in strada e abbassato le persiane.

Sempre in quei giorni cominciò a invadermi una strana impressione, che in seguito ho provato altre volte, e che innocentemente scambiai allora per felicità. Mi pareva che, ovunque andassi, il mondo perdesse il suo peso e si elevasse a poco a poco nell'aria: un mondo di sola luce, e privo di qualsiasi solidità. Non esisteva più nulla di statico. Castel Sant'Angelo non era altro che un castello in aria, e sentivo che avrei potuto sollevare la stessa Basilica di San Pietro con due dita. Né temevo di vedermi investito da una carrozza, per istrada, tanto ero sicuro che legno e cavalli non dovessero aver più peso che se fossero stati ritagliati nella carta. Questa convinzione mi rendeva straordinariamente felice, anche se un po' sventato, e la consideravo il presagio di una più grande felicità futura, di una specie di apoteosi. L'universo, e io con esso, pensavo, volava verso il settimo cielo. Ora, purtroppo, so bene ciò che significa: è il principio di un addio per sempre; è il canto del gallo all'alba. Dopo d'allora, nei miei viaggi, m'è accaduto che un intero paese o un gruppo di persone assumessero quell'aspetto imponderabile. Da un certo punto di vista avevo ragione; il mondo intorno a me metteva le ali, s'involava verso l'alto. Io solo, troppo pesante per volare, ero destinato a rimanere indietro nella più nera desolazione.

Mentre andavo accarezzando l'idea di scrivere a mio padre una lettera in cui gli avrei detto che non potevo sposare la vedova, mi giunse notizia che uno dei miei fratelli, ufficiale di marina, si trovava a Napoli col suo vascello. Pensai che sarebbe stato meglio dare a lui la lettera da portare a mio padre, e dissi a Olalla che dovevo recarmi a Napoli per un paio di giorni. Le domandai se avrebbe visto il vecchio ebreo durante la mia assenza, ma mi assicurò che non lo avrebbe avvicinato né gli avrebbe parlato.

Con mio fratello non mi trovai troppo d'accordo. Parlando con lui, vedevo per la prima volta come i miei progetti per l'avvenire sarebbero apparsi agli occhi degli altri, e mi sentivo assai infelice. Poiché, mentre i loro punti di vista mi apparivano più che mai idioti e inumani, per la prima volta, da quando avevo conosciuto Olalla, qualcosa veniva a rievocarmi l'atmosfera morta e stagnante del mio passato mondo e della mia casa. Tuttavia consegnai la lettera a mio fratello, pregandolo di perorare la mia causa presso nostro padre come meglio poteva; e mi affrettai a tornare a Roma.

Al mio ritorno, scoprii che Olalla era partita. In quella tal casa mi dissero, sulle prime, ch'era morta improvvisamente di febbre. Il colpo mi fece cadere gravemente ammalato; per tre giorni credetti d'essere sull'orlo della pazzia. Ma presto mi resi conto che non poteva essere vero, e allora mi rivolsi a ogni abitante della casa, supplicando e minacciando affinché mi si dicesse tutto. Capivo ormai che avrei dovuto toglierla da quel luogo prima di andare a Napoli - ma d'altronde, a che mi sarebbe servito, se Olalla aveva in animo di lasciarmi? Una strana superstizione mi faceva collegare la sua scomparsa con l'ebreo, e in un ultimo colloquio con la padrona del bordello l'afferrai alla gola, le dissi che sapevo ogni cosa, e le giurai che l'avrei strangolata se non m'avesse detto la verità. Terrorizzata, la vecchia confessò: Si, era stato lui. Olalla era uscita di casa, un giorno, e non aveva più fatto ritorno. Il giorno dopo un vecchio signore ebreo, un individuo pallido, dagli occhi neri come il carbone, s'era presentato alla casa, aveva regolato quanto Olalla doveva, e versato alla madama4 una somma affinché evitasse ogni seccatura. — E dove sono andati? — gridai; e, nell'impossibilità di dare sfogo alla mia disperazione uccidendo quella vecchia femmina giallognola, mi sentivo male. Ma ella non seppe dirmi nulla di più; però, riflettendo, le parve d'aver udito l'ebreo nominare col suo domestico una città che si chiamava Basilea.

Mi recai dunque a Basilea; ma chi non ha provato non avrà idea delle difficoltà che incontra chi cerca, in una città straniera, una persona di cui non conosce il nome.

Le mie ricerche erano rese ancor più difficili perché ignoravo in quale strato sociale avrei dovuto cercare Olalla. Se ella se n'era andata con l'ebreo, sarebbe potuta essere ormai una gran dama che avrei incontrato nella sua carrozza personale. Ma per quale motivo l'ebreo l'aveva lasciata in quella casa dove l'avevo trovata a Roma? Per qualche ragione a me ignota, egli poteva fare adesso la stessa cosa. Cercai quindi in tutte le case malfamate di Basilea, più numerose di quanto uno potrebbe credere, in quanto Basilea è la città europea che sostiene più severamente la santità del matrimonio. Ma di Olalla non trovai traccia. Allora pensai ad Amsterdam, dove almeno il nome di Cocoza mi sarebbe servito di guida. Ad Amsterdam trovai infatti la bella vecchia casa dell'ebreo, e seppi come egli fosse uno degli uomini più ricchi della città, e come da trecento anni la sua famiglia commerciasse in diamanti. Quanto a lui, mi venne detto, si trovava sempre in viaggio. In quel momento doveva essere a Gerusalemme. Da Amsterdam seguii varie false piste che mi condussero in diversi paesi; e quell'esasperante viaggio si protrasse per ben cinque mesi. Alla fine risolsi di recarmi a Gerusalemme; e mi trovavo sulla via del ritorno verso l'Italia, per imbarcarmi a Genova, e con la mente riandavo a tutte queste cose, allorché, come già ho detto, me ne stavo seduto nell'albergo di Andermatt, in attesa di valicare la montagna il giorno dopo.Il giorno prima avevo ricevuto una lettera di mio padre che m'era corsa dietro per qualche mese, essendomi stata rispedita da un luogo all'altro. Ecco quanto egli scriveva:

— Ora sono in grado di giudicare la tua condotta con calma e comprensione; e lo debbo alla consultazione di una raccolta di documenti di famiglia, ai quali da tre mesi a questa parte ho dedicato molto tempo e attenzione. Dallo studio di queste carte risulta chiaro come, da duecento anni in qua, un destino tra i più singolari gravi sulla nostra famiglia.

— Come famiglia, la nostra è migliore di tante altre per la sola ragione che tra noi s'è trovato sempre un individuo, il quale si è assunto il peso di tutti i vizi e le debolezze della sua generazione. Le pecche che normalmente sarebbero andate suddivise fra un intero gruppo di persone si sono così raccolte sul capo di uno solo, e in questo modo gli altri hanno potuto essere quel che sono stati e sono.

— Scorrendo le suddette carte, non mi rimane più alcun dubbio su tale fatto. Ho potuto individuare il delinquente prescelto per ben sette generazioni, a cominciare dalla nostra prozia Elisabetta, sulla cui condotta non intendo dilungarmi ora. Mi limiterò a citare l'esempio dei miei zii Enrico e Ambrogio, i quali ai tempi loro senza alcun dubbio… —.

E qui, a conferma della teoria di mio padre, seguivano diversi nomi e dati. La lettera seguitava quindi:

— Io non so se la cessazione di un tale strano stato di cose non sarebbe un colpo fatale più che una benedizione per la nostra stirpe. Si eliminerebbero forse molti inconvenienti e molte ansie, ma potrebbe anche accadere che la nostra famiglia diventasse come tutte le altre.

— Quanto a te, ti sei rifiutato con tanta ostinazione di seguire i miei consigli e i miei ordini, ch'io ho ogni motivo di ritenerti la vittima designata della tua generazione. Hai rifiutato di mostrare, con il tuo esempio, quanto sia attraente la virtù e ovvia la ricompensa a ogni buona azione. Considero ormai i miei rapporti con te con sufficiente filosofia per poterti dare la mia benedizione nel compimento di una vita che renderà disobbedienza figliale, debolezza e vizio un esempio utilmente ripugnante e scoraggiante per la generazione che tu rappresenti nella nostra famiglia —.

Non rividi mai più mio padre. Ma dal mio antico precettore, che mi accadde d'incontrare parecchi anni dopo a Smirne, in tristi circostanze, ebbi notizie sue. Egli s'era riconciliato con la situazione, tanto da impalmare lui stesso la mia vedovella. Ebbero un figlio, e mio padre lo battezzò Lincoln. Non saprei dire se lo fece perché, in fin dei conti, mi voleva più bene di quanto avessi creduto, o allo scopo di porre in fuga spiacevoli meditazioni che potevano tormentarlo tra l'una e le tre di notte, in rapporto al ricordo di suo figlio Lincoln.

Avevo letto due volte la sua lettera, e la stavo cavando di tasca con l'intenzione di rileggerla ancora per passare il tempo, quando, alzando il capo, vidi due giovani che dalla gelida notte di fuori entravano nella sala da pranzo dell'albergo. Uno di essi lo conoscevo, e pensai che se m'avesse scorto, sarebbe venuto a sedersi vicino a me, come infatti fece. Così passammo tutti e tre insieme il resto della serata.Il primo di quei due giovanotti molto eleganti e garbati era il rampollo d'una nobile famiglia di Coburgo che avevo conosciuto un anno avanti in Inghilterra, dove era stato inviato a studiare il sistema parlamentare (visto che intendeva entrare in diplomazia) e l'allevamento dei cavalli, la risorsa principale di quella casata. Si chiamava Federico Hohenemser, ma nell'aspetto e nei modi mi rammentava a tal punto un cane di nome Pilot che avevo avuto una volta, che solevo chiamarlo così. Era un bel giovane, alto e biondo.


    Siccome, Mira, ti farà piacere veder applicata la tua ingegnosa parabola, ti dirò che era, costui, un individuo che la vita non acconsentiva a mandar giù a nessun costo. Egli ardeva dal desiderio di essere inghiottito dalla vita, e non perdeva occasione di tentar di cacciarlesi in gola, ma essa lo rifiutava con ostinazione. Si dava il caso che ogni tanto essa ne sorseggiasse un pochetto, tanto per infondergli un'illusione; ma non era mai un buon sorso intero; e poi, anche in quei casi non sapeva fare a meno di vomitarlo. Che cosa vi fosse in lui a rivoltarle tanto lo stomaco, non potrei dirtelo; so soltanto questo: tutti quelli che lo avvicinavano provavano, pressappoco, la stessa impressione, e cioè, mentre non avevano nulla contro di lui, lo giudicavano un individuo di cui non avrebbero saputo che farsi. Per questa ragione egli si trovava, intellettualmente, allo stato di un embrione assai immaturo.


    È probabile che occorra una certa dose d'abilità o di fortuna, in un uomo, per affermarsi come embrione. Il mio amico Pilot non era mai andato oltre. Credo ch'egli stesso, e non di rado, trovasse la propria situazione alquanto preoccupante; e ne aveva motivo. Talora i suoi occhi azzurri riflettevano in maniera oltremodo penosa la disperata lotta per l'esistenza che aveva luogo nel suo intimo. Se mai gli riusciva di avere gusti personali, li sfruttava fino in fondo. E parlava allora delle sue preferenze per il tal vino o per il tal altro, come se ci tenesse a impressionare profondamente con una scoperta così preziosa. Un filosofo che studiai a scuola e che sarebbe andato a genio a te, Mira, ha detto: — Penso, dunque sono —. Così il mio amico Pilot ripeteva a se stesso e al mondo: — Preferisco il vino della Mosella a quello del Reno; dunque esisto —. Se gli accadeva di divertirsi a uno spettacolo o a un gioco, per l'intera serata era capace di ripetere: — Questo è il genere di cose che mi diverte —. Ma era privo d'immaginazione; e, oltretutto, molto sincero. Non avrebbe saputo inventar nessuna favola; si limitava a descrivere quelle preferenze che realmente scopriva nel proprio spirito, e che eran sempre d'una preziosa rarità. È probabile che fosse la stessa mancanza d'immaginazione a impedirgli di esistere. Perché chi vuol creare, tu lo sai, Mira, deve prima immaginare, e siccome egli non sapeva immaginare com'era Federico Hohenemser, non riusciva a creare nessun Federico Hohenemser.


    Come già ho detto, gli avevo dato il nome di un mio cane cui era toccata in sorte la medesima indole; questo cane non aveva mai la più lontana idea di ciò che volesse o dovesse fare, tanto che finii con lo sparargli una fucilata. Il Dio di Federico Hohenemser era assai più tollerante verso di lui, in ultima analisi.


    Ciò nonostante, Pilot faceva la sua figura nella società continentale dell'Europa, dove, suppongo, si esige soltanto un minimo di esistenza da parte di chi la frequenta. Inoltre, era un giovanotto ricco, aveva una carnagione bianca e rosea, con un paio di vigorosi polpacci - tutte cose di cui andava non poco vanitoso - e c'erano persino delle signore anziane che lo trovavano un giovane modello. Mi voleva bene, ed era tutto ringalluzzito di aver prodotto su di me un'impressione così decisa da meritarsi un soprannome. Una persona, pensava, mi ha dato un soprannome. Dunque esisto.


    Questa volta, non appena mi si avvicinò, notai in lui un mutamento. Si era dischiuso alla vita; risplendeva tutto. Così il mio cane Pilot risplendeva e dimenava la coda nelle rare occasioni in cui sperava d'aver provato davvero la propria esistenza. Poteva darsi che nel caso di quest'uomo si trattasse dell'effetto della nuova amicizia col giovane signore che era con lui. In ogni caso, aveva l'aria di esser certo di giocare con me, nel corso della serata, una gran bella carta. Sospirai. Davvero, quella sera avrei dato molto per la compagnia di un buon cane; e con rimpianto pensai ai miei cani in Inghilterra.


    L'amico presentatomi da Pilot era uno svedese, il Barone Guildenstern. Dieci minuti appena erano trascorsi da quando avevo il piacere della compagnia di quei due, e già entrambi mi avevano informato come il Barone, nel suo paese, godesse fama di gran seduttore di donne. Ciò mi indusse a meditare - benché i miei rapporti con altre persone sfiorassero appena la superficie del mio spirito - sulla specie di donne che si dovevano trovare in Svezia. Le signore che m'hanno fatto l'onore di lasciarsi sedurre da me, hanno sempre insistito nel voler decidere loro chi dovesse essere la figura centrale del quadro. Di questo sono stato loro grato, perché in ciò appunto consisteva per me la varietà di una procedura altrimenti monotona. Ma nel caso del Barone, appariva chiaro che la sua persona aveva costituito sempre e unicamente il centro di gravità. Lo avreste giudicato una natura poco entusiasta, pur mentre parlava delle bellezze che aveva insidiate; ma non lo avreste certo trovato privo di entusiasmo, una volta che vi aveva costretto a volgere gli occhi verso ciò che s'era fitto in capo di farvi ammirare. Dai discorsi di lui risultava che tutte le dame dei suoi pensieri avevano appartenuto esattamente alla medesima specie, ed era una specie che io non ho mai avute il bene d'incontrare. Visto ch'egli si era rivelato l'eroe li ogni singola avventura, restava da chiedersi perché mai si fosse data tanta pena - ed era evidente che egli era pronto a sopportare qualsiasi pena, in quelle avventure - per ottenere, una volta dopo l'altra, una replica del medesimo giochetto. In principio, dal momento che ero giovane anch'io, una simile sovrabbondanza di appetito mi fece una grande impressione.


    Tuttavia, non ci volle molto perché da quella conversazione, assai animata e ancora più accesa quando avemmo vuotato assieme alcune bottiglie, traessi la chiave dell'esistenza del giovane svedese; essa si compendiava nell'unica parola — gara —. Per lui, la vita era una gara in cui egli aveva bisogno di brillare al disopra degli altri concorrenti. Io stesso, da ragazzo, ero stato piuttosto ambizioso nelle gare, ma avevo perso ogni vanità personale mentre ancora frequentavo le scuole, e ormai, a meno che una cosa non fosse di per se stessa di mio gusto, mi pareva stupido darmi molta pena per essa, soltanto perché il caso voleva che anche altri la trovassero di loro gusto. Ma quel Barone svedese non la pensavacosì. Per lui, non esisteva nulla al mondo che fosse buono o cattivo in se stesso. Egli aspettava sempre di cogliere dagli altri una traccia, un odore da seguirsi, che lo portasse a scoprire quanto vi fosse di prezioso agli occhi loro, per poi sopraffarli proprio nella conquista di quelle cose o, addirittura, per strappargliele. Quand'era abbandonato a se stesso si sentiva perduto. A questo modo, finiva con il dipendere dagli altri assai più di Pilot stesso, ed è probabile che temesse la solitudine come il diavolo. La sua vita passata - mi pareva di capire dai suoi discorsi - egli la vedeva unicamente come una serie di trionfi su una serie di rivali e nient'altro che questo, benché avesse già qualche anno più di me. Né i suoi rivali, né le sue vittime Io interessavano minimamente; non nutriva per loro né ammirazione né pietà, né altri sentimenti all'infuori dell'invidia o del disprezzo.


    Eppure non era uno sciocco. All'opposto, direi che si trattava di un individuo assai accorto. Nella vita, aveva assunto i modi di un bravo ragazzo comune e sincero, al quale si perdonano certe rozzezze in grazia del suo spirito aperto e semplice. Ciononostante, aveva un occhio attento e sagace, e quando meno ve lo aspettavate vi spiava per carpirvi un giudizio su questa o su quella cosa al solo scopo di portarvela via. Poiché era totalmente privo di quella sensibilità che fa percepire alle persone normali la tensione delle cose, aveva senza dubbio una forza e una energia straordinarie, e ai propri occhi e a quelli degli altri appariva un gigante di fronte a coloro che hanno un po' di fantasia e di pietà.


    I due andavano magnificamente d'accordo; Pilot si sentiva lusingato del fatto di esistere agli occhi dell'originale giovane svedese: ho un amico che è un grande seduttore di donne, pensava, dunque esisto; mentre il Barone era assai soddisfatto di aver eclissato tutti gli amici del ricco giovane tedesco, e di suscitare la sua ammirazione. Tutto ciò sarebbe andato benissimo, se non ci fossi stato io. Ma essi si sentivano attirati verso di me da una forza magnetica; Pilot si pavoneggiava ai miei occhi col suo amico, e il Barone si slanciava già sulle peste di qualcosa che io avrei potuto apprezzare o desiderare, e che egli avrebbe potuto vincermi o carpirmi.

Dopo un poco la conversazione del Barone mi tediò a tal punto ch'io mi dedicai a Pilot - cosa che la gente faceva di rado -, e non appena ne ebbe l'occasione egli incominciò a rivelarmi le grandi novità nella sua vita.


    — Ah! Lincoln, se tu sapessi tutto, non gradiresti troppo di farti vedere in mia compagnia — mi disse. — Non sarò fuor di pericolo finché non avrò lasciato la Svizzera. I muri hanno orecchie, in un paese dove regna tanto fermento politico —. E dopo una pausa, durante la quale osservò l'effetto delle sue parole, prosegui: — Vengo da Lucerna —.


    Ora, non ignoravo che vi erano stati disordini in quella città, ma non m'era mai venuto in mente che Pilot potesse esservi stato coinvolto.


    — Faceva caldo, da quelle parti! — diss'egli. Povero Pilot! Su quella sua bocca piccina, dal timido sorriso, la stessa verità pareva una goffa bugia. Il Barone, ne son certo, avrebbe snocciolato un intero rosario di menzogne con tanta disinvoltura che nessuno si sarebbe sognato di metterle in dubbio. — Ho ucciso un uomo, negli scontri sulle barricate del tre marzo — disse Pilot.


    Sapevo che s'era combattuto per le vie, tra le autorità costituite da una parte, in particolare i partigiani dei preti, e il popolo sollevatosi a ribellione dall'altra. — Dici davvero? — esclamai, con una punta d'invidia verso di lui che s'era trovato in una sommossa. — E hai ucciso un ribelle? —. Ai miei occhi, Pilot era stato sempre un individuo altamente rispettabile e di scarsa intelligenza. Mi pareva ovvio ch'egli avesse dovuto schierarsi dalla parte dei preti, e questo almeno non glielo invidiavo.


    Tutto fiero, e con aria misteriosa, Pilot scosse il capo. — Ho ucciso il Vicario del Vescovo di San Gallo — disse poi.


    Di quell'uccisione i giornali avevano parlato ampiamente, e s'era cercato l'assassino in lungo e in largo. Era naturale che fossi ansioso di sapere in qual modo Pilot era giunto a compiere quell'atto di coraggio, e lo incitai a raccontarmi l'avventura per filo e per segno. Il Barone, annoiato dal resoconto delle gesta marziali d'altri, se ne stava seduto senza ascoltare; beveva e guardava la gente che entrava e usciva.

— Quando partii da Coburgo, — disse Pilot — la mia intenzione era di trattenermi tre settimane a Lucerna, presso mio zio De Watteville. Mentre stavo per partire, tutte le signore eleganti della città, una dopo l'altra, vennero a pregarmi di portar loro da Lucerna un cappellino di una certa modista che chiamavano Madama Lola. Questa donna, mi assicuravano, era celebre da un capo all'altro dell'Europa. Dalle grandi corti, dalle capitali le dame andavano a servirsi da lei; mai, nella storia della modisteria, s'era visto un genio simile. Io non avevo, inutile dirlo, nulla in contrario a rendere servizio alle signore della mia città nativa; me ne partii dunque con le tasche rigonfie di piccoli campioni di seta, e persino, credetemi o no, con ciocche delle chiome alle quali Madama Lola avrebbe accompagnato i cappellini. Tuttavia a Lucerna trovai l'aria così densa di discussioni politiche, da farmi dimenticar Madama Lola e tutto quanto, finché una sera, mentre cenavo in compagnia di alti personaggi politici, mi accadde di tirar fuori, insieme al fazzoletto, un ritaglio di raso rosa, e dovetti dare spiegazioni. Con mio vivo stupore, la conversazione si volse immediatamente alla modista. La conoscevano tutti; gli uomini sposati e i clericali più degli altri. Era vero, disse il Vescovo di San Gallo, il quale si trovava presente, che quella donna era un genio. Al pari d'una bacchetta magica, il più lieve tocco della sua mano creava prodigi d'arte e d'eleganza, e da Pietroburgo, da Madrid e persino da Roma le grandi dame venivano in pellegrinaggio alla sua bottega. Ma ella era ben altro ancora; la si sospettava di essere una cospiratrice della più bell'acqua, la quale del suo laboratorio si serviva come d'un luogo di raduno per i più pericolosi rivoluzionari. E anche in questo campo ell'era un genio, una Circe, la quale muoveva e organizzava ogni cosa con le sue manine; e il più rozzo dei suoi partigiani sarebbe morto per lei.


    — Tutti m'avvertirono così caldamente di stare alla larga da Madama Lola, che naturalmente, per prima cosa, il giorno dopo mi recai da lei, a casa sua, nella via che m'era stata indicata. In quell'occasione, non trovai altro che una simpatica e spiritosa donnina. Ella prese nota di tutte le mie ordinazioni, e parlò con me del mio viaggio, e persino del mio carattere e della mia carriera. Mentre ero là entrò un giovanotto dai capelli rossi, e tornò a uscire; aveva tutta l'aria di un rivoluzionario, ma Madama Lola non gli dedicò molta attenzione.


    — Mentre lavorava a tutti quei cappellini da me ordinati, a Lucerna l'atmosfera andava facendosi sempre più minacciosa; un vero uragano gravava sulla città. Mio zio, che occupava un'alta posizione nel Consiglio municipale, prevedeva un disastro. S'affrettò a spedire la zia e le sue figliole nel loro castello in campagna, e mi consigliò di seguirle. Ma io sentivo che non me ne sarei potuto andare senza aver rivisto Madama Lola, e senza aver ritirato i cappellini.


    — Il giorno in cui finalmente mi recai da lei, regnava per le vie un'agitazione tale, che fui costretto ad arrivare all'abitazione di Madama Lola per un intrico di viuzze laterali, e anche così mi riuscì estremamente difficile. Ma una volta giunto dinanzi alla casa, constatai come dalla soglia alla soffitta essa fosse un incessante andirivieni d'una turbolenta massa di gente armata; il luogo intero ribolliva come la caldaia d'una strega. Non sembrava davvero il momento di parlar di cappellini. Madama Lola, in piedi dietro il banco, parlava coi presenti, impartiva ordini; e non appena mi scorse mi cadde addirittura tra le braccia, gridando: — Ah! finalmente il vostro cuore vi ha spinto per la giusta via! —. E in quel momento stesso l'intera folla, e lei con essa, si precipitò fuori dalla casa e giù per la strada. Fui trascinato anch'io; a meno che non fossi stato così contagiato dall'entusiasmo di quella donna, da unirmi agli altri di mia spontanea volontà. Cosi, in meno d'un secondo mi trovai scaraventato in pieno combattimento sulle barricate, e non mi scostai più dal fianco di Madama Lola.


    — Ella caricava i fucili e li porgeva ai combattenti; e per quella terribile bisogna usava lo stesso spirito e la stessa abilità di cui s'era servita per guarnire i cappellini. Tutti coloro che la circondavano, anche se animosi, non potevano fare a meno d'aver paura, e con ragione; ma lei, Madama Lola, non mostrava la minima paura. Si sarebbe detto che nel porgere i fucili agli uomini sulle barricate, porgesse loro, insieme con l'arme, un po' della propria intrepidezza. Lo vedevo dalle loro facce. E fu davvero singolare che io stesso fossi rimasto istantaneamente convinto che nulla di male poteva accadere a Madama Lola, e neppure a me, fin quando le sarei stato vicino. Rammentai come la nostra vecchia cuoca, a Coburgo, fosse solita dirmi che un gatto ha nove vite; Madama Lola, pensavo, doveva avere dentro di sé le nove vite di un gatto. In quel momento, vedevo veramente in lei un essere sovrumano, benché non fosse, credo d'avervelo già detto, una signora di nobile nascita, ma soltanto una modista di Lucerna, e neppure molto giovane.


    — In quel momento anch'io, trasportato dalla furia che mi ferveva intorno, afferrai un fucile e feci fuoco sulla folla di soldati e guardie di città che lentamente avanzava contro di noi su per la strada. Tenuto conto della situazione, poteva darsi benissimo che mio zio De Watteville fosse a capo di quella gente, ma non pensavo a lui. Nello stesso momento fui colpito, non so come; e caddi privo di sensi.


    — Quando rinvenni mi trovavo a letto, in una stanzetta; e Madama Lola era con me, là in quella stessa stanza buia. Non appena cercai di muovermi, m'avvidi che avevo la gamba destra fasciata. Vedendomi desto, Madama Lola proruppe in un'esclamazione di gioia, ma tosto si avvicinò, col dito sulle labbra. Mi disse poi che i tumulti erano cessati, e che io avevo ucciso il Vicario del Vescovo di San Gallo. Mi pregò di starmene ben tranquillo, prima di tutto per via della gamba, spezzata da una fucilata, e in secondo luogo, perché a Lucerna le cose erano ancora tutt'altro che calme. Correvo un gran pericolo, e la mia presenza in casa di lei doveva restare un segreto.


    — Così passai tre settimane in una soffitta in casa di Madama Lola, ed ella mi curò. La sommossa continuava, e udivo l'eco delle fucilate. Ma la mia mente si soffermava appena su queste cose, sulla mia ferita, su quel che avevo fatto e su ciò che avrebbe detto la mia famiglia. Mi pareva, non so come, di essermi librato molto in alto sul mondo in cui solevo vivere; e ora mi trovavo solo lassù, solo con quella donna. Un dottore veniva a visitarmi di tanto in tanto. Non veniva nessun altro. Poi, Lola si metteva lo scialle e mi lasciava per un poco, pregandomi di starmene ben tranquillo fino a quando non fosse tornata. Le ore in cui era assente mi parevano sempre interminabilmente lunghe.— Ma quando mi teneva compagnia discorrevamo molto. Dopo, ripensandovi, ricordai che non si era mostrata molto loquace; ero io a parlare, a parlare come avevo sempre desiderato. Insomma, là in quella soffitta ho capito la vita e il mondo, me stesso e anche Dio. In particolare, poi, parlavamo delle grandi cose che avrei compiuto. Già, capirete, avevo fatto abbastanza per far parlare la gente di me, ma tutti e due stimavamo che questo fosse soltanto il principio.


    — Quando seppi che molti amici di Madama Lola avevano abbandonato Lucerna, e che per amor mio ella affrontava il pericolo, la scongiurai di andarsene. Ma no, mi disse; non m'avrebbe lasciato per nulla al mondo. Anzitutto, dopo il gesto che avevo compiuto, i rivoluzionari di Lucerna mi consideravano un fratello, ed erano pronti a dar la vita per me. Ma più ancora, ella mi spiegò arrossendo fino alla radice dei capelli, nel caso che i tiranni della città o le guardie ci avessero scoperti, dovevamo entrambi affermare di non aver preso alcuna parte alla sommossa, e dire che ci trovavamo lì unicamente per via d'un intrigo amoroso. Ella avrebbe recitato la parte della mia amante, e io quella di un suo spasimante buscatosi una ferita per mano di un rivale geloso. Anche se tutta quella faccenda era una commedia, tali parole tornarono a mettermi in cuore una felicità senza limiti; e sognavo ciò che avrei fatto non appena fossi riuscito a reggermi in piedi. Ah! Non so quale vera avventura amorosa avrebbe potuto rendermi più felice!


    — Una sera, finalmente, Madama Lola disse che il dottore m'aveva dichiarato fuori pericolo, e che dovevamo separarci. Lei lasciava Lucerna quella sera stessa; e io sarei partito alla chetichella l'indomani mattina presto. Un amico avrebbe messo la sua vettura a mia disposizione, e m'avrebbe accompagnato di persona fuori della città. A quelle parole, m'invase una specie di terrore. Ma agii troppo lentamente; e quando compresi quel che accadeva nell'animo mio, era troppo tardi. Intanto, Madama Lola continuava a parlarmi dolcemente. Avrei avuto, diceva, una ricompensa per i guai che avevo passato; ella m'avrebbe regalato tutti i cappellini che aveva in bottega. — Io, infatti, non tornerò più a Lucerna — disse. E così, con l'aiuto della sua servetta, sali e discese una dozzina di volte su e giù per le scale, carica di cappelliere di cartone che posava intorno a me. Mi colse un riso che non potevo più frenare, in quanto mi trovai quasi seppellito da una valanga di cappellini di tutti i colori dell'arcobaleno, guarniti di fiori e nastri e piume.  Il piancito, il letto, la seggiola e il tavolo ne erano coperti; ed è probabile che fossero i più graziosi cappellini del mondo. — Ora — disse Madama Lola quando la stanzetta ne fu piena — avete qui di che conquistare i cuori delle donne —. Si mise in testa una cuffietta assai semplice, si avvolse nello scialle e mi prese la mano, dicendomi: — Non mi serbate rancore. Ho cercato di farvi del bene —. Mi cinse il collo con le braccia, mi baciò, e scomparve. — Lola! — gridai, e ricaddi privo di sensi nella poltrona. Quando poi rinvenni, passai una nottata terribile. Non avevo davvero nulla di piacevole a cui pensare. Anche l'immagine del Vicario del Vescovo di San Gallo cominciava a perseguitarmi, e mi pareva di non dover mai più trovare pace al mondo.


    — Lola non m'aveva mentito. La mattina seguente, un signore anziano, un ebreo, vestito con la più grande eleganza, si presentò all'uscita della mia soffitta, e ai piedi delle scale trovai il suo bell'equipaggio che mi attendeva. Attraversammo la città, dove qua e là scorsi ancora tracce dei combattimenti; e intanto il mio compagno m'intratteneva garbatamente. Mentre andavamo avvicinandoci ai sobborghi, mi disse: — La carrozza del Barone de Watteville ci verrà incontro presso il tal parco. Ma il vostro comportamento ha urtato alquanto i sentimenti di monsieur vostro zio, ed egli mi ha incaricato di dirvi che preferirebbe vedervi continuare subito il vostro viaggio, e incontrarvi soltanto più tardi — Ma lo zio sa dunque ciò che m'è accaduto? — esclamai, al colmo della sorpresa.


    — Si — disse il vecchio ebreo. — L'ha saputo sin dal principio. Il Barone gode di grande influenza presso il clero di Lucerna, ed è assai dubbio che ve la sareste cavata senza di lui —. Non dissi più nulla; procedemmo in silenzio, e io mi sentii alquanto scombussolato.


    — La carrozza di mio zio aspettava infatti nelle vicinanze di un parco, come aveva asserito l'ebreo. Quando ci fermammo, ne discese un uomo che ci venne lentamente incontro, e riconobbi il giovane dai capelli rossi che avevo visto in casa di Lola quando v'ero stato per la prima volta, e più tardi anche sulle barricate. Ora aveva un aspetto assai malconcio, camminava zoppicando, e il suo viso, mentre egli s'inchinava al mio compagno, m'apparve severo e molto pallido. Eppure, guardandomi sorrise tutt'a un tratto, e udii che diceva: — Questo sarebbe dunque il piccolo cardellino che Madama Lola teneva in gabbia? —.— Sicuro, — rispose sorridendo il vecchio ebreo — questo è il suo golem —.


    — Non sapevo allora quel che scoprii in seguito: golem, in ebraico, significa una gran figura di creta, alla quale la vita è stata insufflata per virtù di magia; e il più delle volte è il cieco strumento di un delitto che lo stregone non s'azzarda a compiere di persona. Queste figure, di solito, s'immaginano alte di statura e dotate di molta forza.


    — I due mi aiutarono a salire nella carrozza dello zio, e ci accomiatammo. Troppe cose, ora, mi si affollavano disordinate alla mente, e non sapevo dove ritrovare me stesso. L'odore della polvere sulle barricate, i nostri discorsi intorno a Dio, e il bacio di Lola lassù nella soffitta, insieme a tutti quei cappellini che ella m'aveva regalato… tutto ciò mi roteava dinanzi agli occhi, come le macchie colorate che vi vedete dinanzi dopo aver fissato il sole. Non direi che, da allora in poi, il mio pensiero si sia soffermato troppo sulle grandi gesta che avrei dovuto compiere. Non riesco neppure a ricordare quali fossero. Ma insomma, ho ucciso il Vicario del Vescovo di San Gallo, e debbo star molto attento fino a quando non avrò messo piede fuori di questo paese. Ho consultato un dottore, il quale mi ha detto che la gamba mi è stata messa a posto con estrema abilità, come se non fosse neppur stata rotta —.


    — Sicché — dissi — ora tentate di ritrovare quella donna, e la cercate dovunque, e non dormite nemmeno la notte? —.


    — L'avete capito? — disse Pilot. — Sì, la sto cercando. Non so che cosa pensare, né che cosa fare fino a quando non l'avrò riveduta. Eppure, sapete, non era giovane, e neppure di nobile nascita, ma appena una modista di Lucerna… —.


    Avevo dunque udito la storia di Pilot. E più d'una volta, ascoltandola, m'ero sentito rabbrividire. Troppe cose, in quella storia, mi parevano allarmanti. Pensavo: non una sola volta mi sono ubriacato da quando ho perduto Olalla, non una sola volta fino a stasera. È evidente che dopo aver bevuto, ora, sia pure soltanto un paio di bottiglie di questo vino svizzero, la testa non mi regge più. Ecco che cosa mi capita perché ho pensato per tanto tempo a una sola cosa. Questa storia del mio amico somiglia troppo aun mio sogno. Troppe cose, in questa sua donna delle barricate, mi ricordano le maniere della cortigiana di Roma: e quando poi, nel bel mezzo del racconto, un vecchio ebreo appare come il djinn della lampada meravigliosa, è logico ch'io debba sentirmi girare un poco la testa. E quanto ci sarà, mi domando, da questo al manicomio?


    Per risolvere il dilemma seguitai a bere.


    Durante il racconto di Pilot, il Barone Guildenstern m'aveva guardato ogni tanto con un sorriso, e qualche volta m'aveva anche fatto un cenno. Ma siccome la storia tirava per le lunghe, egli finì con il disinteressarsene, e si fece portare una nuova bottiglia. La sturò, e riempì i bicchieri.


    — Mio buon Fritz, — disse ridendo — so che le signore ci tengono, ai cappellini. Per le donne, un marito significa una persona che comprerà loro cappellini di tutte le forme e colori, che Dio lo benedica! Ma come indumento da togliere a una donna non è certo un gran che. Io ho sempre lasciato che lo tenessero in testa, il loro cappellino, dopo che tutto il resto se n'era andato; e quanto al vedermelo gettare in faccia, preferisco la camicia —.


    — Sicché, vuol dire che non avete mai fatto la corte a una donna senza toglierle la camicia? — domandò Pilot un poco irritato, guardando dritto davanti a sé, come a cose lontane.


    Il Barone lo osservava attento, come se fosse stato sul punto di scoprire che una disdetta e un appetito insoddisfatto potevano avere un qualche valore, per certa gente. — Caro amico, — disse — in cambio della vostra confessione vi racconterò la mia avventura.


    — Sette anni fa, fui invitato dal colonnello del mio reggimento di Stoccolma, il Principe Oscar, alla Scuola d'equitazione di Saumur. Siccome m'ero cacciato in un guaio a Saumur, non rimasi alla Scuola per tutta la durata del corso; ma posso dire d'avervi passato qualche ora piacevole in compagnia di due ricchi giovani, amici miei; uno era Waldemar Natog–Dag, venuto con me dalla Svezia, l'altro un belga, il Barone Clootz, il quale appartenevaalla nuova nobiltà e possedeva una grande fortuna.


    — Grazie ad alcune lettere di presentazione forniteci da certe nostre vecchie zie, Waldemar e io capitammo per un periodo di tempo in una bizzarra comunità di vecchi legittimisti rovinati, appartenenti alla più alta aristocrazia, i quali avevano perduto tutti i loro beni durante la Rivoluzione francese, e vivevano in un piccolo borgo di provincia nei pressi di Saumur.


    — Era tutta gente molto avanti negli anni, perché, in gioventù, le dame non avevano avuto dote per trovar marito, e agli uomini non erano bastati i mezzi per mantenere una famiglia secondo le esigenze del loro antico nome; cosicché non era nata nessuna nuova generazione. Potevano quindi prevedere la prossima fine del mondo ch'era stato loro, ed essere giovani ai loro occhi significava di per sé appartenere a un ambiente di seconda mano. Le signore fecero le più grandi meraviglie sulle lettere delle mie zie, e si stupirono delle singolari condizioni che regnavano in Svezia, dove la nobiltà aveva ancora il coraggio di mettere al mondo dei figli.


    — Quella compagnia mi annoiava a morte. Mi pareva di esser collocato su un palchetto con bottiglie di vino vecchio e barattoli di sottaceti, ben sigillati e ricoperti di carta pergamenata.


    — In quegli ambienti si faceva un gran parlare di una giovane e ricca signora, che da un anno affittava una graziosa casa di campagna fuori della cittadina. Anch'io, nelle mie cavalcate mattutine, avevo notato la villa e i giardini cintati. A tutta prima mi interessai pochissimo a lei. Sarà un'altra di quella compagnia di beghine, pensai; ma mi domandai tuttavia come mai in lei le qualità della giovinezza e della ricchezza non costituissero una colpa, ma anzi sembrassero cattivarle tutti i vecchi e aridi cuori del vicinato. I quali si fecero premura di fornirmi la spiegazione, informandomi che quella dama aveva votato la propria vita alla memoria del Generale Zumala Carregui, il quale, se non erro, era stato un eroe e un martire per la causa del legittimo pretendente al trono di Spagna, ed era caduto ucciso dai ribelli. In onore del Generale ella vestiva solo di bianco, mangiava soltanto di magro, si limitava a bere acqua, e ogni anno si recava in pellegrinaggio sulla sua tomba in Spagna. Faceva molta beneficenza, manteneva una scuola per i bambini del villaggio, e un ospedale.Di quando in quando le accadeva anche di avere visioni e di udire voci, probabilmente l'armoniosa e marziale voce del Generale Zumala. Per tutte queste cose era tenuta in gran conto. Il fatto che prima della dipartita del martire ella avesse intrattenuto con lui rapporti di una natura più terrena, non intaccava per nulla il suo buon nome. Anzi, la schiera di vecchie zitelle d'ambo i sessi era alquanto incuriosita dall'idea di tanta esperienza in quella santa donna, come dovettero certo esserlo le undicimila Vergini di Colonia, allorché in paradiso fecero la conoscenza di quella gran santa che era Maria di Magdala.


    — Ma il cuore del mio amico Waldemar, quando conobbe quella dama, si liquefece con la rapidità di una zolletta di zucchero in una tazza di caffè bollente; egli mi disse: — Arvid, non ho mai conosciuto una donna simile, e so che era il volere del fato ch'io l'incontrassi. Perché, come tu sai, il mio nome è notte e giorno, e il mio blasone è bipartito di bianco e nero. Perciò ella è destinata a me, o io a lei. In questa Madama Rosalba ferve certo più vita che in qualsiasi altra persona io abbia mai conosciuto. È una santa se mai ve ne fu una al mondo, e nella sua santità usa lo stesso vigore di un condottiero che vada all'assalto di una cittadella. Nella cerchia di quei vecchi perispermi secchi, ella è come un fiore fresco e rigoglioso: è un cigno nel lago della vita perenne. Questa è la parte bianca del mio blasone. Al tempo stesso, aleggia intorno a lei la morte, e questa è la parte nera delle armi dei Natog–Dag. Queste cose posso spiegartele soltanto con una metafora, la stessa che mi è venuta alla mente la prima volta che guardai Rosalba. Da quando ci troviamo qui, abbiamo udito parlar molto di vinicoltura, e sappiamo anche che, per ottenere alla perfezione il vino bianco di queste terre, i contadini lasciano i grappoli sulla vite più a lungo che per gli altri vini. In questo modo essi seccano un poco, e arrivano a uno stato di maturazione avanzata che li fa diventare dolcissimi. Inoltre, sviluppano una particolare qualità detta in francese pourriture noble, e in tedesco Edelfaule, e che appunto conferisce il profumo al vino. Nell'atmosfera di Rosalba, Arvid, esiste un profumo quale non lo si sente in quella di nessuna altra donna. Può darsi che sia l'autentico odore di santità, o la nobile putrefazione, la regale ruggine corrosiva di un vino generoso e raro. Oppure, Arvid, amico mio, può darsi che siano entrambe le cose, in un'anima bipartita di bianco e nero, l'anima di una Natog–Dag… —.


    — La domenica seguente, dopo la messa - eravamo in maggio - riuscii a farmi presentare a Madama Rosalba, a pranzo in casa d'uno dei miei vecchi amici.


    — Nonostante la loro indigenza, quei vecchi aristocratici tenevano una tavola tutt'altro che cattiva, e non disprezzavano una buona bottiglia di vino. Ma la giovane donna mangiava lenticchie e pane secco, con un bicchier d'acqua; e lo faceva con tanta soave e disinvolta gravità, che la sua astinenza appariva assai nobile, e a nessuno sarebbe venuto in mente di offrirle qualcos'altro. Dopo il pranzo, nel salone fresco e buio, ella intrattenne la compagnia descrivendo, con la stessa franca modestia, una visione avuta di recente. S'era trovata, disse, in un gran prato fiorito, con un numeroso stuolo di bimbi, i quali avevano tutti attorno al capo una leggera aureola, chiara come la fiammella d'una piccola candela. E le si era fatto incontro san Giuseppe, ad annunciarle che quello era il Paradiso, e che lei avrebbe fatto da governante ai piccini. I quali, spiegò, altri non erano se non i primi fra tutti i martiri, i fanciulli di Giudea trucidati da Erode. E le fece notare quale dolce compito sarebbe stato il suo, perché, come il Signore aveva sofferto ed era morto per amore dell'umanità, così quei bimbi avevano sofferto ed erano morti per amore del Signore. A tali parole, una gran felicità l'aveva invasa, e sospirando beata ella aveva dichiarato che per tutta l'eternità non avrebbe desiderato altro che custodire quei piccoli martiri e trastullarsi con essi.


    — Non ch'io abbia gran fede nelle visioni o nel Paradiso, ma mentre la giovane donna raccontava, non ponevo neppure in dubbio che non avesse visto con i suoi occhi ciò che descriveva, né tanto meno che non fosse eletta per il Paradiso. C'era in lei tanta vita, che non si poteva fare a meno di sentire che la scelta era caduta bene; i piccoli martiri si sarebbero divertiti un mondo.— E a un tratto, mentre stava parlando, ella alzò gli occhi. Buon Dio, che occhi straordinari! Erano dotati di un magnetismo incredibile, e quando vi scoccava una delle sue occhiate micidiali, era fatta!


    — Ora, mentre ascoltavo anch'io con gravità Madama Rosalba, osservando intorno a me il beato circolo dei suoi vecchi discepoli, mi andavo convincendo che, ben nascosto sotto a tutta quella faccenda, si celava un inganno bello e buono. Rosalba poteva essere una santa della più bell'acqua. Poteva inoltre, come da un corno dell'abbondanza, riversare benefici su ricchi e poveri. Poteva darsi che avesse amato il Generale Zumala Carregui, nel qual caso il Generale era da invidiarsi. Ma non aveva certo amato lui solo al mondo, né viveva ora soltanto nel suo ricordo. La monogamia - perché esiste, e io stesso sono stato amato da donne monogame per inclinazione - si rivela, in una donna. Si potrà confondere la monaca e la prostituta; ma quelle signore che in India, a quanto ho sentito, supplicano di esser gettate sul rogo funebre dei loro mariti, le si riconosce a prima vista. O questa Rosalba, questo candido cigno, pensavo, può contare i nomi dei suoi amanti coi grani del rosario, o è una perversa zitella - e come zitella non era neppure giovane, in quanto passava i trentanni - che per disperazione recita davanti ai miei legittimisti la parte dell'amante d'un generale.


    — Rosalba si era limitata a guardarmi una sola volta, ma la mia presenza non l'aveva lasciata indifferente. Per quanto seduti distanti l'uno dall'altra, lei ed io ci trovavamo a contatto come se avessimo eseguito un passo a due nel bel mezzo d'un palcoscenico, attorniati dall'attempato corpo di ballo. E quand'ella si avvicinò alla finestra per guardare se c'era la sua carrozza, le pieghe della veste bianca e i riccioli dei capelli neri si movevano e fluttuavano unicamente per me.


    — Pensavo: mai invita mia ho avuto un rivale morto. Stiamo un poco a vedere di che cosa è capace il Generale Zumala. A Pasqua avevo dovuto mandar giù un'intera predica su santa Maria di Magdala — questa santa sarebbe stata più difficile da sedursi di qualsiasi altra che portasse lo stesso nome? O più facile? Il vecchio destriero di guerra, così si dice, drizza le orecchie al suono della tromba.


    — Non andò molto, e divenni un ospite assiduo al castello di Madama Rosalba. Ignoro se la vecchia comunità aristocratica avesse la più lontana idea del pericolo che correva la sua santa. Ella m'aveva accettato come compagno nelle sue visite ai poveri e agli infermi. In principio, la consultavo parecchio intorno alla mia anima. Le confessai diversi peccati miei e nessuno tra essi parve impressionarla in particolar modo; anzi, si sarebbe detto che avessero, agli occhi suoi, una cert'aria di famiglia. I consigli ch'ella mi diede mi parvero veramente buoni, e credo che se avessi avuto l'intenzione di emendarmi avrei fatto bene a seguirli. Ella serbava sempre gli stessi modi gravi e dolci e dimostrava una certa simpatia per me, ma nel nostro amoroso passo a due mi sembrava alquanto lenta di movimenti. Io, dal canto mio, portavo pazienza. Dovevo tener d'occhio il mio giovane amico Waldemar, e sapevo che alla fine della danza tenevo in serbo una piacevole sorpresa per Rosalba.


    — C'era, in quella dimora, una cosa che mi pareva strana. Sono stato educato da buon luterano, e il giorno di Natale, la mia buona nonnina mi conduceva in chiesa. Ho sentito più d'una predica, e conosco la differenza tra santità e peccato quanto il vecchio Pastore Methodius in persona anche se i nostri gusti personali in materia non s'accordano troppo. Ma, sul mio onore di soldato, con Rosalba era ben difficile capirne qualcosa. Ella ragionava di teologia con altrettanta voluttà come se la mensa del Signore fosse stata l'unico luogo adatto per un buongustaio; e quando parlavamo d'amore, lo faceva apparire come un passatempo degno d'un asilo infantile. Ciò non mi piaceva affatto. Ho avuto una governante che credeva alle streghe, e qualche volta, in compagnia di Rosalba, rammentavo le cupe fiabe della vecchia Maja–Lisa. Ma anche così, mai m'era accaduto d'imbattermi in una santa strega, in una lussuriosa santa di quella razza.— Finii, tuttavia, con l'ottenere da Rosalba la promessa d'un convegno: in casa sua, un venerdì, sul tardi nel pomeriggio. Quel giorno, andavano tutti ai funerali della vedova d'un maresciallo, che aveva quasi raggiunto i cent'anni. Era già quasi la fine di giugno; cominciavo a essere seccato delle tergiversazioni di Rosalba, e in cuor mio pensai: O è per venerdì, o non mi metterò mai più a far la corte a una donna.


    — Ora, vi dirò che l'avventura sarebbe potuta finire in modo ben diverso, se non fosse accaduto un altro fatto, a Saumur. Ma si diede il caso che un ricchissimo vecchio signore ebreo - un ebreo dello stesso stile di quello della tua storia, Fritz - sostasse nella cittadina, nel corso del suo viaggio di ritorno dalla Spagna. Tutto quel che possedeva era quanto c'era di meglio, e non si faceva che parlare del suo equipaggio, dei suoi domestici e dei suoi diamanti. Ma ciò che andò dritto al cuore dell'intera Scuola d'equitazione, fu una coppia di cavalli andalusi che l'ebreo aveva recato con sé; erano, particolarmente uno di essi, i più belli che mai si fossero visti in Francia. Neppure nel mio reggimento in Svezia se ne sarebbero trovati gli uguali. Per di più, erano stati addestrati nel maneggio reale a Madrid; e non era una vergogna che si dovessero vedere nelle mani di un ebreo, e di un borghese per giunta?


    — Questi cavalli, di cui si parlava tanto, m'indussero per qualche giorno a trascurare Madama Rosalba. Pochi tra noi avrebbero avuto mezzi sufficienti per acquistarli, eppure consideravamo un punto d'onore che quelle bestie non lasciassero Saumur. Alla fine il Barone Clootz, che oltre a essere milionario era anche un giovane di molto spirito, una sera dopo cena fece una proposta a cinque di noi, che da tempo erano suoi intimi amici e compagni. Promise che avrebbe acquistato uno dei cavalli dell'ebreo, e che lo avrebbe messo quale posta in una gara in cui avremmo dato prova di ciò che eravamo capaci di fare. Le regole di questa gara comportavano che entro una giornata percorressimo a cavallo tre miglia francesi, bevessimo tre bottiglie di vino del paese, e contemporaneamente conquistassimo tre signore. A noi lo stabilire l'ordine in cui i diversi avvenimenti dovevano aver luogo; ma il cavallo dell'ebreo sarebbe stato di colui che fosse arrivato per primo alla casa del Barone Clootz dopo aver rispettato tutte le condizioni.


    — La proposta venne accolta con grande entusiasmo; e già, in cuor mio, andavo escogitando l'ordine consecutivo dei tre articoli del regolamento, e passavo in rivista le belle donne della regione che facevano parte della mia cerchia di conoscenze, quando ricordai che il giorno prescelto per la gara era proprio lo stesso del mio convegno con Madama Rosalba. Lo stesso motivo aveva condotto, per due scopi ben diversi, alla scelta di quel giorno: perché il fior fiore della città si sarebbe trovato impegnato coi funerali, e quindi impossibilitato a cacciare il naso nei nostri affari.


    — Avevo molta fiducia nelle mie forze; e allontanandomi a braccetto col mio amico Waldemar, pensavo che la burla era davvero impagabile. Egli non aveva cessato di adorare Rosalba, dal basso del piedistallo su cui l'aveva collocata, al punto che non si sarebbe rifiutato, credo, di cambiar religione e di farsi frate per amor suo. Troppo spesso mi toccava star a sentire i suoi panegirici su di lei. Tuttavia, dopo qualche discussione eravamo riusciti a persuaderlo a prender parte alla nostra gara; e siccome era un cavallerizzo passabile, forse non gli dispiaceva di esibirsi davanti a Rosalba in groppa al cavallo andaluso.


    — Non per vantarmi, ma il pomeriggio di quel venerdì fui puntuale al convegno nel bianco castello di Rosalba. La sua cameriera - perché non rimaneva anima viva al castello, all'infuori di lei: tutti erano andati al funerale - mi condusse sino al boudoir della signora, situato nella torre, e in cima a una lunga scala di pietra. Le persiane erano abbassate, la stanza era immersa nel buio o quasi, e a chi giungeva da fuori, pareva fresca come una chiesa. C'era una profusione di candidi gigli, che saturavano l'aria del loro profumo. Su una tavola si trovavano dei bicchieri, e una bottiglia del miglior vino ch'io abbia mai gustato, un Ghàteau Yquem asciutto; e quella sarebbe stata la mia terza bottiglia della giornata.


    — C'era anche Rosalba. Vestita, come sempre, con grande semplicità; ma di colpo ella era balzata al culmine della sua bellezza.


    — Ora, se ciò che m'accadde in quella torre può sembrare alquanto folle e fantastico, e richiamare alla mente una fiaba o una storia macabra piuttosto che un'avventura romantica, la colpa non è mia. Vero è che la giornata era afosa; tanto che un temporale si scatenò poi nella notte; e che quando giunsi, dalla strada bianca, un po' traballante negli stivaloni da cacciatore, non mi sentivo affatto sicuro della mia testa. Può darsi ch'io fossi innamorato di Rosalba più di quanto non supponessi, perché mi pareva che tutto ballasse il girotondo intorno a me e che le bottiglie e la selvaggia galoppata fossero soltanto le cerimonie iniziatone di quel gran momento di passione. Però, ricordo benissimo tutto ciò che accadde.


    — Non avevo molto tempo da perdere. Stordito com'ero, con la stanza intera che mi faceva l'altalena dinanzi agli occhi, le parole mi fiorivano facili sulla bocca, e ben presto ebbi tra le braccia Rosalba già mezzo discinta. Bianca, languida, madida in viso, ella pareva un giglio nella tempesta; ma ecco che con le braccia tese mi respinse, dicendomi: — Ascoltami un momento! Qui siamo soli. Non c'è nessuno in tutta la casa, nessuno fuorché noi e la mia cameriera, la bella giovane che ti ha condotto quassù. Non hai paura? … Arvid, non hai mai udito la storia di Don Giovanni? —. E tale era l'intensità del suo sguardo ch'io mi sentii in dovere di risponderle che avevo udito l'opera omonima. — Rammenterai allora — seguitò Rosalba — la scena in cui la statua del Commendatore viene a prendere Don Giovanni? Ebbene, c'è una statua come quella in Ispagna, sulla tomba del generale Zumala —. E io: — Ebbene, sia pace all'anima sua, allora! —.


    — Un momento! — disse Rosalba. — Rosalba ha appartenuto al generale Zumala Carregui. Se lo tradirà, è destinata a scomparire, la povera Rosalba. Ma un'opera, presto o tardi, deve pure avere un quinto atto. E tu, mia stella del Nord, ne sarai l'eroe. Anche il tuo onore è in gioco in questa faccenda come se tu fossi una donna! Non avresti alcuna compassione di Maria di Magdala. Anche Rosalba è stata al pari di lei una bolla iridescente; se la infrangi, non ti rimarrà altro che una gocciola d'umore. Ma era tempo che ella se ne andasse. Troppa gente, a cominciare dal suo creatore, si andava innamorando di lei. Tu le darai il suo gran finale tragico. Non c'è altro uomo al mondo, forse, che avrebbe potuto farlo così bene. Sei degno d'entrare in scena! —.


    — Fammi entrare, allora… — ansimai.


    — E non hai dunque pietà della povera Rosalba? — ella esclamò. — Che ella perda il suo ultimo rifugio, che sia dannata, perseguitata per sempre… tutto ciò non significa nulla per te? —.


    — Tu stessa non hai pietà di me! — gridai io.


    — Ah! Quanto sei in errore! — esclamò Rosalba. — Solo per te, Arvid, io soffro, solo per te non ho pace. Ti aspetta un avvenire orrendo… il nulla, un deserto… oh, che torture! Se potessi, ti aiuterei; ma non posso. Il ricordo di Rosalba non ti riuscirà mai utile; il suo esempio non può esserti d'aiuto. Può darsi, chissà, che il ricordo di quest'ora, un giorno o l'altro, sia un bene per te, ma anche ciò non è certo… Ah, mio amore, se per salvarti ti facessi dono di un bel cavallo delle mie stalle, sellato di tutto punto, focoso tanto da condurti via al galoppo, via da questa terribile trappola e dalla perdizione di entrambi… se mandassi la mia cameriera, la bella giovane che ti ha condotto fin quassù, insieme con te a sceglierlo, te ne andresti? —. E intanto s'era drizzata in piedi, in tutta la sua maestà, e mi teneva la mano sul petto così come io tenevo la mia sul suo; e con la voce d'una sibilla, disse: — Fra poco potrà essere troppo tardi; fra poco udremo sulle scale quel passo fatale, marmo su marmo… —.


    — Nell'agitazione aveva gettato indietro i capelli bruni, che di solito le ricadevano inanellandosi lungo le guance; e vidi che invero portava sul corpo il marchio d'una strega. Dall'orecchio sinistro alla clavicola correva una profonda cicatrice, simile a un serpentello bianco… —.


    A queste parole del Barone, Pilot esclamò: — Cosa? Che state dicendo? —.


    — Ho detto — ripetè paziente il Barone, tutto ringalluzzito dall'impressione che aveva prodotto il suo racconto — che dall'orecchio sinistro alla clavicola correva una cicatrice, simile a un serpentello… —.


    — Ho capito! — gridò Pilot. — Ma perché ripetete le mie parole? La modista di Lucerna, Madama Lola, aveva una cicatrice identica sul collo, e non è passata neppure un'ora da quando ve l'ho descritta! —.


    — Non me ne avete detto una parola — replicò il Barone.


    — Come? Non ho detto…? — gridò Pilot rivolgendosi a me.


    Ma io tacqui. Sto sognando, pensavo tra me. In questo momento, giurerei che è un sogno. Quest'albergo, Pilot e il Barone svedese, tutto è parte di un sogno. Buon Dio, che incubo! Stavolta, pensavo, ho smarrito per davvero il ben dell'intelletto, ora manca solo che Olalla entri da quella porta, svelta svelta, come accade sempre in sogno. E così pensando non distoglievo gli occhi dalla porta.


    Di tanto in tanto, mentre parlavamo, dalla porta d'ingresso erano entrati nuovi ospiti; chi si sedeva, chi attraversava la stanza per avviarsi alle camere interne dell'albergo. A questo punto entrarono una signora e la sua cameriera; svelte e silenziose ci passarono accanto. La signora era avvolta in una cappa nera, che le dissimulava il viso e la figura. La cameriera portava le trecce intorno al capo, secondo la moda svizzera, e recava sul braccio gli scialli. Entrambe avevano un'aria così modesta, che persino il Barone non diede loro più di un'occhiata. Erano già scomparse, quando Pilot, interrompendosi di colpo a mezzo dell'accalorata disputa col Barone, rimase immobile come una statua con lo sguardo fisso nella direzione delle due donne. Poiché ridendo - avevamo bevuto tutti abbastanza da trovarci ridicoli a vicenda - gli domandammo che cosa l'avesse còlto, egli volse il faccione verso di noi. — Quella… — esclamò, ancor più eccitato dal suono della sua stessa voce — quella era lei. Era Madama Lola di Lucerna —.


    Dunque la folgore della follia era caduta; ma aveva colpito Pilot, e non me. Tuttavia, chi poteva dire ciò che sarebbe accaduto fra un istante? E invero, alle sue parole m'era parso che quella signora avesse in sé qualcosa di familiare… Pilot, intanto, si andava strappando i capelli. — Andiamo, ragazzo mio — gli dissi prendendolo per il braccio. — Non è il caso di perdere la testa. Ora andremo a domandare insieme al portiere, che certo conosce la signora, se non sia la levatrice di Andermatt, la quale, come constateremo, non avrà nulla a che fare con la Vergine d'Orléans —. E sempre ridendo lo trassi verso il banco del portiere, e cominciai a interrogare il vecchio svizzero calvo sul conto delle due signore. Il portiere, che stava contando diversi elegantissimi bagagli, sulle prime non ci diede troppo retta.


    — Suvvia, — gli feci — eccovi una generosa ricompensa in cambio di un piccolo favore. Quella signora dalla mantiglia nera è per caso una rivoluzionaria che ha ispirato l'assassinio del Vicario del Vescovo di San Gallo? O una mistica che ha dedicato la propria vita alla memoria del Generale Zumala Carregui? O una prostituta romana? —. Lasciando cadere la matita, il vecchio mi guardò a bocca aperta.


    — Che Dio m'aiuti, signore, che cosa dite mai? — esclamò. — La signora che ha attraversato or ora la sala da pranzo, e che alloggia al numero nove, è la moglie dello Herr Stadtrat Heerbrand di Altdorf. Il signor Consigliere è l'uomo più autorevole di tutto il paese, ed era rimasto vedovo con una numerosa famiglia. L'attuale Frau Stadtràtin Heerbrand è vedova d'un negoziante di vini italiano, e possiede in Toscana una grande proprietà, che la obbliga a viaggiare avanti e indietro. Ad Altdorf, dove le tre figlie di mia figlia sono al suo servizio, ella gode della più alta considerazione. Detta la moda in tutta la città, ed è ben nota la sua abilità nel giocare a carte —.


    — E allora, Pilot? — dissi, riconducendolo al suo posto, in quanto era così stupefatto che se lo avessi lasciato sarebbe rimasto là dove si trovava. — Ecco una soluzione prosaica del nostro enigma. Stanotte potremo dormire i sonni tranquilli al numero otto e dieci, con la Frau Stadtràtin nel letto accanto al nostro dall'altra parte del muro —.


    Non guardavo troppo dove andavo; e urtai un individuo che, con un bastoncino in mano, passava lentamente per la sala da pranzo e camminava nella stessa nostra direzione. Avendogli io chiesto scusa alzò un poco il cappello a staio, e vidi allora che altri non era se non Marco Cocoza, il vecchio ebreo di Roma. Un attimo dopo, era già scomparso passando per la medesima porta della signora.Trascorso il primo momento, che fu di terrore bell'e buono al vedere quel viso pallido dagli occhi neri e profondi, mi colse una furia tale che tremavo da capo a piedi. Tu sai, Mira, ch'io sono lento ad andare in bestia, e così ero anche da giovanotto. Ma quando mi accade, è un gran sollievo per me. Da troppo tempo mi sentivo avvilito, deluso, gabbato e inoperoso; la mia disperazione aveva raggiunto il culmine allorché m'ero imbattuto in quei due amici. Ora, pensai, se davvero tutto al mondo congiura contro di me, e in modo ugualmente spregevole, ecco giunto il momento di fare a pugni. Tali, almeno, erano i miei sentimenti in quel momento. Più tardi, riflettei che nulla in me aveva provocato il cambiamento; era bastata la vicinanza di quella donna. Passando a due metri di distanza da me, col fruscio delle gonne m'aveva liberato il cuore da un peso, e ancora una volta il vento della vita tornava a gonfiare le mie vele, e le sue correnti sollevavano la mia chiglia.


    Un'occhiata ai miei due compagni mi bastò per capire che entrambi avevano riconosciuto l'ebreo. Nel loro stupore, parevano due fantocci. Quale si fosse la magia che m'aveva colpito, essa li aveva avvolti quanto me, altrimenti, avrei dovuto crederli creature nate nella mia fantasia. Ma poco m'importava. Ormai, ero ben deciso a mettere con le spalle al muro il destino. Tolsi dal portafogli un biglietto di visita, vi scrissi il nome del vecchio ebreo e una sfida in piena regola, nel miglior stile, chiedendogli di ricevermi immediatamente; e gli feci portare il biglietto nella sua stanza dal cameriere dell'albergo. Colui che Olalla aveva chiamato la sua ombra non m'incuteva il minimo timore. Ero fermamente convinto che avesse fatto lega col demonio, ma dovevo vederlo, a qualsiasi costo. Tuttavia il cameriere tornò per dirmi che ciò era impossibile. L'anziano signore si era già coricato, dopo essersi fatto portare una bevanda calda dal domestico; aveva messo il chiavistello alla porta e non voleva essere disturbato. Dissi all'uomo che si trattava di un affare della più grande importanza, ma egli si rifiutò di obbedirmi oltre. Conosceva quell'ospite, che viaggiava nel proprio equipaggio coi suoi domestici personali, ed era un uomo favolosamente ricco.


    — È arrivato qui in compagnia di Madama Heerbrand? — domandai al cameriere.


    — Niente affatto — dichiarò il poveraccio, certo tutt'altro che rassicurato dalla mia faccia. E non credeva neppure, soggiunse, che la signora e il signore si conoscessero.


    Il pensiero di dover aspettare un'intera nottata prima di poter agire mi riusciva odioso. Ma non restava altro da fare; accostai quindi una seggiola al caminetto e attizzai il fuoco, non osando coricarmi. Timoroso che la donna uscisse dall'albergo al mattino per tempo, richiamai il cameriere, gli diedi una mancia e gli ingiunsi di farmi sapere quando la signora del numero nove sarebbe stata sul punto di lasciare l'albergo.


    — Ma signore, — disse il giovanotto — la signora è già partita —.


    — Partita? — esclamai: e, come una doppia eco, Pilot e il Barone ripeterono la mia esclamazione. Sì, era partita. Non appena uscita da quella tal porta, era tornata al banco del portiere per un'altra, in grande angustia, e sui due piedi aveva ordinato una carrozza che la conducesse all'Ospizio quella notte stessa. E aveva spiegato al portiere come avesse trovato all'albergo una lettera con la notizia che sua sorella si trovava moribonda in Italia. Partire era questione di vita o di morte.


    — Ma è possibile mettersi per quella strada di notte — domandai — e con un tempaccio simile? — Il cameriere ammise che sarebbe stata un'ardua impresa; ma la signora aveva insistito, e offerto due, tre volte il prezzo della gita, torcendosi le mani così disperatamente, che il vetturale s'era mosso a pietà di lei. Del resto, non sarebbe stato facile rifiutarsi di accontentare la Frau Stadtràtin Heerbrand; non si trattava d'una signora qualsiasi. Già, era partita. Non avevamo sentito le ruote della carrozza? Era vero. Infatti, avevamo appena udito uno stridere di ruote.


    Eccoci dunque lì, come tre segugi attorno alla tana della volpe.


    Non dubitai affatto che fosse stata l'apparizione del vecchio ebreo a porre in fuga la donna. Egli era realmente uno stregone, un demonio, lo djinn riuscito in qualche modo ad avere in suo potere la bella dama. Per un attimo, l'impossibilità di giungere fino a lui e di ucciderlo mi gettò nella più nera disperazione. Ma avrei causato uno scompiglio troppo grande e me lo avrebbero impedito. Non mi rimaneva altro da fare che seguire Olalla e proteggerla da quell'uomo. A tale idea, il cuore mi si involò alto come un'allodola.


    Occorse non poca fatica per trovare una carrozza; a trionfare di questa difficoltà fu il Barone, il quale si dimostrò oltremodo energico e pratico. Ignorando ch'io potessi avere un qualche interesse personale in quell'avventura, i miei compagni sembravano sorpresi di tanto zelo da parte mia; al Barone, il quale mi credeva alquanto brillo, non spiaceva tuttavia di poter contare su uno spettatore di più per le sue gesta. Quanto a Pilot, interpretò le mie premure come una prova della mia amicizia verso di lui; non solo, ma benché avesse l'aria di uno che ha ricevuto una mazzata sul capo, tentò di tradurre in parole la sua riconoscenza. — Vai a farti friggere, Pilot! — gli dissi; e allora si contentò di stringermi la mano.


    Finalmente, essendo riusciti a procurarci un veicolo a peso d'oro, ci mettemmo tutti e tre in viaggio per l'Ospizio.


    Il vento soffiava impetuoso, e la neve copriva alta la strada. Di conseguenza la nostra carrozza procedeva assai irregolarmente, traballando e a sbalzi; e a tratti si fermava anche. Dal momento in cui ci eravamo rintanati in quella carrozza chiusa dove si respirava a fatica, non pronunciammo più parola. Un turbinio di neve rendeva opachi i vetri degli sportelli. Avrei giurato che in cuor suo ciascuno di noi avrebbe dato non so che per veder perire i suoi due compagni di viaggio. Ma il pensiero di rivedere Olalla non tardò ad assorbirmi così interamente, che ben presto il mondo esteriore si dileguò e scomparve agli occhi miei. E intanto, la carrozza saliva, saliva. Ci avrebbe condotti fino in cielo? Il mio cielo, se avessi avuto libera la scelta, sarebbe stato altrettanto tumultuoso e sconvolto da impetuose correnti d'aria.


    Via via che salivamo, la strada diventava più ripida e la neve più implacabile che mai. Il vetturale e il garzone non riuscivano a vederci a cinque passi. D'un tratto la carrozza traballò più forte, e si fermò là dov'era, come inchiodata. Il vetturale balzò di cassetta, spalancò lo sportello lasciando entrare una gran folata di vento e neve, e, coperto anch'egli da capo a piedi di neve, ci gridò dentro, imbestialito, che era impossibile tirar fuori la carrozza dal mucchio di neve in cui s'era cacciata.


    Tenemmo un breve consiglio, il quale non significava proprio nulla per nessuno di noi tre, in quanto nessuno intendeva rinunciare al viaggio. Scendemmo dunque, ci abbottonammo il pastrano, ci tirammo su il bavero, e, piegati in due come vecchietti, riprendemmo l'inseguimento.


    Intanto aveva cessato di nevicare. Il cielo era quasi sereno; e la luna, che sembrava correre tra nuvolette diafane, ci rischiarava la via. Ma il vento aveva una forza terribile, lassù. Nel momento in cui scesi di carrozza rammentai una fiaba che avevo udito raccontare da bambino, nella quale una vecchia strega tiene tutti i venti del cielo imprigionati entro un sacco. Quella gola, pensai, doveva essere il sacco della strega. I venti rinchiusi là dentro si scatenavano selvaggi, balzavano giù impetuosi, come molossi che dessero strattoni alla catena. Ora sembravano soffiare giù a piombo sulle nostre teste, poi tornavano a sollevarsi da terra in un mulinello, lanciando spolverìi di neve sino al cielo. Se dentro la carrozza avevamo sentito il freddo, fuori, all'altezza alla quale ci trovavamo, l'aria era gelida come se ci avessero rovesciato in capo un secchio d'acqua diaccia. Riuscivamo appena a respirare. Ma tutta quella gran furia di elementi mi fece bene. In un mondo, in una notte simile avrei ritrovato Olalla; ella aveva bisogno di me.


    Le figure dei miei compagni di viaggio, già a pochi passi vaghe e nebulose come ombre sulla strada nevosa, non mi dicevano nulla. Sentivo che quella caccia era mia, mia soltanto; e non tardai a trovarmi un bel tratto in avanti. Dopo poco, avevo già perduto di vista Pilot; il Barone si manteneva ancora abbastanza vicino, ma non mi raggiunse.


    D'un tratto, dopo un'ora circa di cammino, a una svolta attorno a una rupe, ecco che, scaraventata là di sghimbescio sul ciglio della strada, una grossa cosa quadrata mi apparve come una torre. Era la berlina di Olalla. Incagliata, a metà rovesciata al pari della nostra, rimaneva lì; e non aveva più né cavalli né cocchiere. Di colpo spalancai lo sportello, e una donna che si trovava dentro cacciò uno strillo acutissimo; era la cameriera che avevo veduta all'albergo. Sepolta sotto gli scialli, se ne stava raggomitolata sul fondo del coupé. Era sola; e quando vide che non avevo intenzione di ucciderla né di derubarla, mi gridò che il loro vetturale, dopo aver rinunciato, al pari del nostro, a proseguire il viaggio, aveva staccato i cavalli per condurli al riparo. Ma dove si trovava la sua padrona? le gridai a mia volta. Aveva continuato la via a piedi, mi disse la cameriera, la quale appariva in preda al più vivo spavento, e, tra lagrime e singhiozzi, tanto che a mala pena potevo capire la sue parole, descriveva la fuga di Olalla e il pericolo ch'ella correva. Poiché la ragazza minacciava di avvinghiarsi a me, mi strappai da lei e le sbattei lo sportello in faccia. Quale terrore, quale pericolo albergava dunque in quella berlina, per cacciarne fuori una donna e spingerla sola nel cuor della notte, tra monti selvaggi? Quale tragedia incombeva su di lei, accanto al vecchio ebreo di Amsterdam?


    M'ero fermato vicino alla berlina un quarto d'ora forse, e ciò aveva dato modo al Barone di raggiungermi. Nella gelida notte di luna, alla luce dei due fanali della carrozza tuttora accesi, il viso di quell'uomo mi apparve d'un rosso fiamma, e mi colpì stranamente. Egli mi si avvicinò; protetti dal veicolo scambiammo qualche parola, quindi riprendemmo la strada, e per un pezzo camminammo a fianco a fianco.


    A un certo punto, dove la strada si faceva più ripida, attraverso un nugolo di neve che il vento spazzava come il fumo d'una cannonata, scorsi dinanzi a me, a poco più d'un centinaio di passi, un'ombra scura che sarebbe potuta essere una figura umana. Sulle prime essa appariva e scompariva, e tra la notte e l'uragano riusciva assai difficile discernerla. Ma dopo qualche tempo, se anche non ero riuscito ad avvicinarla, i miei occhi la vedevano più distinta e non la perdevo più di vista. Su per l'erta via perigliosa, l'ombra andava rapida quanto me, e mi tornò alla mente quella mia fantasia: che Olalla, se soltanto avesse voluto, sarebbe stata capace di spiccare il volo. Il vento le sollevava le vesti; a volte, anche, gliele gonfiava, sì ch'ella pareva una civetta bizzosa dalle ali tese, appollaiata su un ramo; e talora, con le vesti attorcigliate intorno alle lunghe gambe, era una gru quando corre a terra per cogliere il vento e librarsi in volo.


    A quella vista, la vicinanza del Barone mi divenne intollerabile. Da sei mesi davo la caccia a Olalla, per raggiungerla infine su per quel valico, e volevo trovarmi solo con lei. Ma a che sarebbe servito spiegar queste cose al Barone? Mi fermai; egli si fermò con me. Lo afferrai per il bavero, gli diedi un urtone. La salita lo aveva stancato; respirava a fatica e un paio di volte s'era fermato. Ma la mia stretta e ciò che lesse sulla mia faccia gl'infusero nuova vita. Per nulla al mondo m'avrebbe lasciato proseguire solo! Vidi un balenar d'occhi e di denti. Per qualche minuto lottammo sulla strada accidentata; a un tratto egli mi gettò a terra il cappello, che il vento trascinò lontano. Ma, senza abbandonare il bavero, gli menai un tale manrovescio in viso da fargli perdere l'equilibrio. Cadde sul terreno sdrucciolevole, rotolò all'indietro. Ma nel cadere s'era afferrato a una sciarpa che avevo attorno al collo, e per poco non mi strangolò. Maledicendo l'indugio mi slanciai di corsa, accaldato e tremante per lo sforzo compiuto.


    Di nuovo mi trovavo solo, ed ero sicuro ormai di raggiungere Olalla su quelle alte cime. Quella certezza mi riempiva al tempo stesso di un'immensa felicità, e della paura che m'aveva còlto là presso la berlina. L'una e l'altra m'incalzavano con uguale veemenza. E mentre correvo giù in terra come la luna lassù nei cieli, tornava ad assalirmi il pensiero che dovevo essere pazzo. Quella situazione era davvero tale da far impazzire, adatta a una qualche stravagante commedia in un teatro di Roma. Eccomi, a caccia di una donna che amavo, ed ella fuggiva davanti a me nella notte con tutta la furia di cui erano capaci le sue gambe, convinta che io fossi quel medesimo vecchio nemico suo e mio che per primo ci aveva divisi, e ch'io non vedevo l'ora di ammazzare. Non una sola volta girò il capo verso di me; quanto al gridarle qualche parola, sarebbe stata impresa disperata, col vento che soffiava. E tanto io che lei adoperavamo tutte le nostre forze, nella caccia e nella fuga; ciononostante, col nostro passo, piegati in due come vecchi, non riuscivamo forse a percorrere più di due miglia all'ora. Ma la cosa più strana, quella che maggiormente mi assillava, era ch'ella potesse credermi il vecchio ebreo. Nelle strade di Roma e nell'albergo di Andermatt, l'avevo veduto camminare adagio, con l'aiuto di un bastone. Io ero giovane, buon ginnasta per di più, eppure ella mi scambiava per quell'altro. In realtà colui doveva essere un demonio, oppure aveva il potere di affidare le sue missioni ai demoni. Davvero cominciavo a temere di essere un suo messaggero, inviato da lui. Forse che, senza saperlo, mi trovavo già in sua balìa? Ero dunque, contro la mia volontà, il folletto del vecchio stregone di Amsterdam?


    Con tutti questi pensieri che mi turbinavano nel capo, avevo guadagnato terreno su Olalla. E poi, spronato dalla vicinanza di lei, pazzo dal desiderio di raggiungerla e di afferrarla, per un ultimo tratto ebbi quasi le ali ai piedi. All'improvviso il suo lungo mantello, che il vento ricacciava indietro, mi schiaffeggiò il viso; un attimo dopo ero al suo fianco, la sorpassavo, e volgendomi di colpo, la fermavo. La foga della corsa me la gettò tra le braccia, e sarebbe caduta se non l'avessi sorretta. Così, avvinghiati in un abbraccio, sostammo sotto la tempestosa luna d'inverno. Stretti l'uno contro l'altra dalla stessa furia degli elementi, ansimavamo entrambi.


    Lo sai, Mira, che l'insensatezza della natura umana non ha limiti? Avevo corso disperatamente, certo che non appena ritrovata Olalla, avrei ritrovato con lei la mia felicità di Roma. Non ricordo più, ora, che cosa avessi avuto in animo di fare - se prenderla tra le braccia e amarla lì dove l'avrei trovata, o se ucciderla affinché non potesse rendermi mai più infelice. Ebbi, è vero, un attimo di quella felicità, nel momento stesso in cui me la strinsi al cuore e sentii il suo respiro alitarmi in viso, e aderirmi al corpo le tanto sognate forme; ma fu un attimo appena. Intanto, il cappellino di Olalla, al pari del mio cappello, era volato via ed era scomparso. Il suo volto, vicinissimo al mio, era bianco come un panno lavato, e i grandi occhi dilatati parevano due stagni. In quel volto lessi che la terrorizzavo. Non fuggiva l'ebreo, fuggiva me.


    Molti anni dopo, trovandomi in piena tempesta sul Mediterraneo, mi accadde di avere vicino, per un attimo, il grifo d'un falco che a più riprese aveva tentato di aggrapparsi al sartiame della mia nave, prima che il vento lo spazzasse via, tra le onde. Tale mi si mostrava il viso di Olalla, là su quel valico alpestre. Anche quel falco era in preda a una folle insensata paura, sfinito di fatica, e senza speranza.


    Quando capii, dovetti fissarla, credo, terrorizzato quanto lei, e gridarle il suo nome in viso, due, tre volte. Ella non aveva più fiato per parlare, e non so se mi udì.


    Ora che la proteggevo dal vento, i lunghi capelli neri e le vesti scure le si afflosciarono attorno al corpo. Parve mutare forma, e trasformarsi in una colonna, tra le mie braccia. Dopo esser rimasti immoti un momento, le parlai: — Perché mi fuggi? —. Ella mi guardò: — Chi siete? — disse infine. La strinsi a me, la baciai due volte. Aveva la pelle gelida sotto le mie labbra. Senza batter ciglio si lasciò baciare; né più né meno che se fossero stati i fiocchi di neve e l'aria impetuosa a premerle le labbra, invece del mio volto e della mia bocca. — Olalla, — dissi — vita mia, ti ho cercata per il mondo intero. Non possiamo restare uniti, ora? —.


    — Son tutta sola qui… — diss'ella, dopo un poco. — Mi avete messo paura. Chi siete? —.


    A questo punto, mi parve d'esser stato sbattuto da un punto cardinale all'altro, e pensai che poteva bastare, per il momento. Mi fermai dunque, risoluto a considerare con freddezza la situazione. Non potevo lasciar sola Olalla, nella notte, al vento. Senza cessare di sostenerla col braccio destro, allentai un poco la stretta.


    — Madama, — dissi — sono un'inglese, in viaggio per queste dannate montagne. Il mio nome è Lincoln Forsner. Non sta bene che una signora si trovi sola per queste brutte strade, a quest'ora della notte. Onoratissimo se vorrete permettermi di accompagnarvi sino all'Ospizio —.


    Ella parve riflettere un momento, e intanto s'appoggiava con garbo al mio braccio. Ma subito disse: — Non posso fare un passo di più —.


    Era ovvio che non poteva. Se non l'avessi sostenuta, sarebbe piombata a terra. Che fare? Ella alzò il capo a guardarsi d'attorno, poi contemplò la luna. Non appena ebbe ripreso forza, disse: — Lasciate che mi riposi un momento. Sediamoci qui; ci riposeremo un poco. Dopo, potrò arrivare sino all'Ospizio con voi —.


    Mi guardai intorno, in cerca di un posto riparato e, non troppo lontano da dove ci trovavamo, ne scorsi uno che m'ispirava fiducia, sotto un gran sasso sporgente sulla strada. Anche laggiù la neve s'era ammassata, ma entro quella specie di conca il vento arrivava meno impetuoso. Distava forse dieci passi; e vi condussi, o meglio vi portai Olalla. Mi tolsi il pastrano e la sciarpa di lana con la quale il Barone m'aveva mezzo strangolato, e accomodai Olalla come meglio potei. La notte, intanto, aveva continuato a rasserenarsi. Tutto lo sconfinato paesaggio ci si apriva dinanzi come una sola distesa bianca e vivida, tranne quando, a tratti, una nube velava la luna. Sperando che lì almeno saremmo potuti rimanere un poco tranquilli, sedetti accanto a Olalla.


    Ella mi stava vicina, la spalla accosto alla mia, calma come una buona amica. Una volta di più sentivo in lei quello cui già ho accennato: dolore e sofferenza non incidevano sull'animo suo; tutto, in certo qual modo, le era indifferente. In quella fredda desolata gola alpestre se ne stava come una bambina seduta in un prato fiorito, la gonna colma dei fiori che ha raccolti.


    — Che cosa vi ha mai condotto tra queste montagne, Madama? — le domandai, dopo una pausa. — Io viaggio in cerca di qualche cosa, ma non ho fortuna. Volevo soccorrervi, e mi duole d'avervi spaventata, perché a questo modo mi riuscirà più difficile esservi d'aiuto —.


    — Sì, — ella rispose dopo un silenzio — non è facile vivere, per nessuno. La stessa cosa accadeva anche con Madama Nannina. Voleva menarle a bacchetta, le sue ragazze, e nello stesso tempo non le piaceva tarparci le ali, perché allora non avremmo più servito a dovere i suoi clienti —.


    Madama Nannina era la tenutaria della casa di cui ho già parlato, a Roma. Olalla mi diceva queste cose in tono amichevole, come per usarmi una cortesia. Evidentemente, pensava che essendo io stato così gentile da riconoscere ch'ella era una sconosciuta per me, poteva ben ricambiarmi, mostrando a sua volta die ci conoscevamo da parecchio tempo.


    — Soltanto qui fa così freddo — dissi. — Domani, quando scenderete per l'altro versante del valico, troverete un vento di primavera. In Italia è primavera, ora, e scommetto che a Roma sono già tornate le rondini —.


    — Primavera? — disse Olalla. — No, non ancora. Ma verrà presto, e sarà una gran bella cosa per voi che siete giovane —.


    — Lo sai, Mira, — disse Lincoln interrompendo il racconto — che è questa la prima volta in cui ripenso a quell'ora lassù? Mi sta tornando alla mente, per così dire, minuto per minuto, via via che te ne parlo. E non saprei dire perché non vi abbia mai pensato prima. Forse è la luna a farmi ricordare… È la stessa di allora —.


    — Madama, — le dissi — se ci trovassimo al mio paese, ora, non appena giunti sotto un tetto qualsiasi vi preparerei una bevanda che vi ridonerebbe la vita - si, e lo zenzero vi brucerebbe la bocca, in fede mia! —. E le descrissi i nostri robusti liquori; e come si bevono davanti al caminetto acceso, quando si rientra a casa in una giornata d'inverno, le mani e i piedi gelati. Così venimmo a parlare di bevande e di cibi; e di come avremmo fatto, se fossimo rimasti bloccati per sempre lassù. Faceva bene, poter discorrere e farsi sentire senza dover urlare. In fondo, quella caverna sotto la roccia ci sembrava una casa, una casa tutta nostra come non l'avevamo divisa mai finora. E mi pareva che ci saremmo potuti adattare benissimo, lì dentro, e che persino mio padre, qualora avessi potuto evocarne lo spirito, si sarebbe unito a noi tutto contento e orgoglioso. Olalla non parlava molto, ma rideva ogni tanto alle mie parole. Anch'io, del resto, tacevo ogni tanto. Così passammo un tre quarti d'ora, forse. Sapevo bene che addormentarsi sarebbe stato pericoloso.


    Proprio in quel momento scorsi una luce sulla strada e due lugubri figure che avanzavano nel suo alone, soffermandosi di tanto in tanto. Erano Pilot, stanco morto e indolenzito dall'ascesa, e il Barone che s'appoggiava al braccio di lui e zoppicava su per la strada accidentata, nel chiaro di luna. Seppi in seguito come lo svedese si fosse slogato la caviglia, cadendo, e come Pilot, raggiuntolo, lo avesse aiutato a rialzarsi e soccorso. Il Barone lo aveva mandato a prendere uno dei fanali ancora accesi della carrozza di Olalla. Lo stavano reggendo a stento ed erano entrambi irrigiditi dal gelo.


    La mia cattiva stella volle che i due, soffermatisi a riprendere le forze prima di proseguire, posassero il fanale in terra proprio dinanzi al nostro rifugio. Pilot non ci vide; lui non vedeva mai nulla del mondo circostante. Ma il Barone, pur zoppicante e bianco in viso per lo spasimo, stava all'erta e aveva un par d'occhi degni d'una lince. Egli si voltò, costringendo Pilot a fare altrettanto. Nello scorgerli, ero balzato in piedi. Tanto valeva, pensai, che m'avessero raggiunto; forse m'avrebbero aiutato a portare Olalla fino all'Ospizio.


    Non credo che il Barone avesse voglia di fare un'altra volta a pugni con me, ma certo era inviperito. È probabile che non fosse facile indurlo ad attaccar briga con un uomo robusto quanto lui; ma lì, doveva sentire di avere Pilot dalla sua. Forse gli aveva descritto la nostra lotta, rappresentandomi come un pazzoide o un ubriaco.


    — Evviva! — gridò. — La caccia è finita e l'inglese ha vinto. Egli ha saputo sfruttare subito la situazione, e a dieci gradi sotto zero, per di più. Non avremmo dovuto invogliarlo, descrivendogli tanti vezzi… Già, finora non ha conosciuto altre donne all'infuori di quelle del suo paese, e siamo stati noi a farlo ammattire. Ma è tempo che diamo anche noi un'occhiata alla signora, Fritz —.


    E, via via che s'avvicinavano, avevano l'aria di due uccellacci di malaugurio. Pilot teneva il fanale in modo che la luce cadesse in pieno su Olalla, la quale s'era alzata in piedi e mi stava al fianco, ma senza più appoggiarsi a me.


    Il Barone la fissava; e così Pilot. — Dunque siete voi, mia santa Rosalba, — disse il primo — intenta a fare una breve sosta prima di ascendere al cielo. Vi auguro buona fortuna nella vostra futura e più gradevole carriera —.


    Mi accorsi che Olalla, a quelle parole, frenava a stento il riso. Ogni volta che il suo sguardo cadeva sullo svedese, le veniva da ridere. Ma era molto pallida, e ad ogni minuto andava impallidendo sempre più.


    A questo punto Pilot, che con il fanale in mano aveva l'aria d'esserne abbacinato anche lui, mosse un passo verso di noi e fissò in volto Olalla. — Madama Lola! — gridò. — Siete voi? —.


    — No, non sono io — ella rispose. — Siete in errore —.


    Pilot apparve terribilmente confuso, a quella risposta. Si strappava i capelli; e io temetti di vederlo impazzire da un momento all'altro. — Non m'ingannate, vi supplico — disse. — Ditemi chi siete, allora! —.


    — Il mio nome non significherebbe nulla per voi — disse Olalla. — Io non vi conosco affatto —.


    — So che siete in collera con me — esclamò Pilot — perché ho raccontato la nostra storia ad altri! Ma non sapevo come comportarmi… Credetemi, da quando vi ho veduta per l'ultima volta, non sapevo più che fare. Sono molto infelice, Madama Lola. Ditemi chi siete —.


    Alla luce del fanale vedevo ora che le vesti di Olalla erano rigide e lucide di neve gelata, e che una crosta di ghiaccio le ricopriva le scarpe. Ma non tentai di trascinarla via, e rimasi lì ad ascoltare.


    A un tratto, Pilot cadde in ginocchio dinanzi a lei, nella neve. — Madama Lola! — esclamò. — Salvatemi. Siete la sola perdona al mondo che possa farlo. Quelle settimane di Lucerna sono stati gli unici momenti della mia vita in cui mi sia sentito felice. E tutte le gesta che avrei dovuto compiere! Ora non ricordo più di che si trattasse. Via, ditemi chi siete! —.


    Il Barone afferrò il fanale che Pilot aveva posato in terra, e lo sollevò alto. Si sentiva nauseato, credo, vedendo il suo compagno umiliarsi fino a quel punto. — Quella Madama Rosalba… — esclamò — elle se moque des gens! Me l'avevano pur detto, fin da principio. Ma non riderà a lungo del piccolo Arvid Guildenstern. La santa donna ha un piccolo neo bruno sul dorso. Non ci vorrà molto per accertarcene; così sapremo chi è —.Tornai ad accorgermi che Olalla tratteneva a stento una risata. — Se vi avessi conosciuto — disse con dolcezza a Pilot — non vi avrei certo fatto alcun male. Avrei cercato di darvi un po' di gioia. Ma non vi conosco. E ora, lasciatemi andare —.


    Adagio si volse a me e mi guardò, come fiduciosa ch'io avrei preso le sue parti. Così avrei fatto, dieci minuti prima, e contro il mondo intero; ma è straordinario quanto presto ci si guasti in cattiva compagnia. Quando udii quegli altri uomini parlare come a una vecchia conoscenza, io, che pure la conoscevo tanto più intimamente di loro, mi voltai verso di lei e la guardai in viso. — Dite loro chi siete! — gridai. — Ditelo dunque! —.


    Ella mi rivolse un lungo sguardo cupo e radioso, poi distolse gli occhi da me e guardò la luna. Un gran brivido la scuoteva tutta.


    — Porremo fine al mistero — disse il Barone — quando avremo trovato il vecchio ebreo. A quanto pare, è stato lui ad aiutarvi in tutti i vostri travestimenti —.


    — Di chi state parlando? — disse Olalla con una risatina. — Qui non c'è nessun vecchio ebreo —.


    — Ma non molto lontano di qui — disse il Barone — ci troveremo tutti riuniti all'Ospizio —.


    A tali parole Olalla rimase immobile come una statua. E quella sua immobilità verso gli altri mi riuscì intollerabile. — Caccerò via questi due uomini, — le dissi — ma a patto che mi diciate la verità… Chi siete? —.


    Non si mosse né mi guardò. Ma un attimo dopo, fece proprio ciò che avevo sempre temuto: dispiegò le ali e volò via. Sotto il gran disco bianco della luna, ella compiè un solo ampio movimento, lanciandosi lontano da noi tutti, e subito il vento la colse, le gonfiò le vesti. Già ho detto come, fuggendo dinanzi a me su per l'erta, sembrasse uno smisurato uccello in corsa per cogliere il vento e librarsi a volo. Ora, ella si regolava come un rondone, che pronto a volare si getta da un tetto, o dall'alto d'una rupe. Per un attimo parve alzarsi col vento; poi, attraversando di corsa la strada, con tutte le sue forze si precipitò dal ciglio entro l'abisso, e scomparve ai nostri occhi.


    Non avevo avuto il tempo di tentar di fermarla, e per un secondo pensai di seguirla. Ma quando, sull'orlo del precipizio, mi sporsi, vidi ch'ella non era caduta molto lontano, bensì su una specie di sporgenza circa sei metri più in basso. Alla luce incerta, appariva bocconi, tutta coperta dall'ampio mantello.


    Mi trovai accanto Pilot che singhiozzava forte, e tra tutti e tre lavorammo circa un'ora per riportarla su. Alla luce del fanale lacerammo i nostri pastrani in tante strisce, e le legammo assieme. Appendemmo poi il fanale oltre l'orlo della strada; ma sul più bello, la candela essendo ormai consumata, esso si spense. L'oscurità e la neve che ricominciava a cadere resero molto più difficile il salvataggio.


    La prima volta che venni calato giù non riuscii a raggiungere quella specie di terrazza, e rimasi penzoloni in aria. Finalmente, trovato un punto d'appoggio, toccai Olalla. Mi sembrò senza vita; le alzai il capo che ricadde come la corolla d'un fiore morto; ma il corpo era ancora tepido. Tentai di legarle la striscia di panno attorno alla vita, ma così non andava bene. Allorché i miei compagni s'accinsero a tirar su quel corpo, esso sbatteva orrendamente contro la roccia. Dovetti gridar loro di smettere, e ripresi la donna fra le braccia. Ci trovavamo su una sporgenza stretta e coperta di neve, e non era facile muovervisi. Sotto di noi si spalancava il gran baratro. Una, due volte disperai di poterla riportare su; e pensai che era stata la mia domanda a cacciarla, in ultimo, verso quella gran morte bianca, illuminata dalla luna.


    Finalmente riuscii a fare una specie di cappio entro cui porreil piede, e ad assicurare il corpo di Olalla al mio; gridai allora agli altri di tirarci su. Ciò avvenne assai più rapidamente e facilmente di quanto non avessi creduto. Mentre ci scioglievano, e io piombavo a terra stremato di forze, udii parecchie voci gridare attorno a noi: — Non è morta! —.


    Non rimasi affatto sorpreso, quando, rialzando il capo, vidi accanto ai miei compagni il vecchio ebreo di Roma, Amsterdam e Andermatt. Mi sembrò più che naturale ch'egli si trovasse con noi. La sua carrozza era ferma sulla strada, e il suo cocchiere e il suo domestico avevano aiutato gli altri a tirarmi su insieme a Olalla. Come quella pesante berlina fosse riuscita ad arrivare fin lassù, con quella strada e quella nottata, lo ignoro; solo a un ebreo tutto è possibile.


    Olalla venne adagiata entro la carrozza; e siccome avevo le mani e le ginocchia che sanguinavano, l'ebreo m'invitò a salire. Reggendo in grembo i piedi di Olalla sedetti accanto a lui; e mi tornò alla mente la prima volta che lo avevo incontrato nel vicolo romano. Morivo di sete e battevo i denti, perché ero tutto coperto di sudore diaccio, e l'aria della notte mi arrivava fino alle ossa. Finalmente giungemmo all'Ospizio, un grande edificio quadrato, tutto costruito in pietra: un paio di finestre erano ancora illuminate, e alcuni monaci ci vennero incontro.


    Mi fu dato un po' di vino caldo da bere, e potei lavarmi le mani. Quando chiesi di Olalla mi condussero in una vasta sala, dove, su di un tavolo, ardevano due candele.


    Immota come prima, Olalla giaceva su una barella posata a terra. Forse avevano avuto intenzione di portarla altrove, ma vi avevano rinunciato; dopo averle slacciato le vesti, le avevano disteso indosso una gran coperta di pelliccia, che apparteneva all'ebreo. Ella reclinava il capo sul cuscino; un'ombra fitta le velava una parte del viso.


    Il vecchio ebreo le sedeva accanto; non s'era tolto ancora il mantello foderato di pelliccia, né il cappello a staio, e posava il mento sul pomo della mazza, anch'egli immobile; e non distoglieva i neri occhi dal viso di Olalla. Nel guardare un'alta pendola che era nella stanza, rimasi assai sorpreso vedendo che erano appena le tre dopo la mezzanotte.


    Sedetti anch'io, e rimasi a lungo senza parlare. Poi, come l'orologio batté l'ora, mi decisi a rivolgere la parola all'ebreo. Se con la mia domanda avevo ucciso Olalla, tanto valeva averne ora la certezza; ed egli doveva sapere la verità. Alle mie brevi parole rispose con molta urbanità. Allora gli dissi tutto ciò che sapevo di Olalla; e lo pregai di parlarmi a sua volta di lei, mentre la vegliavamo. Sulle prime, parve poco disposto a parlare; ma in ultimo divenne assai loquace. Anche Pilot e il Barone erano entrati, intanto. Il primo, che s'era seduto in fondo alla stanza, s'avvicinò per dare un'occhiata a Olalla, poi tornò alla sua seggiola: il Barone si addormentò sulla sua. Più tardi, tuttavia, si destò e si uni a noi.


    — Questa donna — disse l'ebreo — l'ho conosciuta in tempi in cui il mondo intero la conosceva e l'idolatrava sotto il suo vero nome. Era la cantante Pellegrina Leoni —.


    Lì per lì, quelle parole non significarono nulla per me, tanto che segui un silenzio. Poi, la mia memoria si ridestò, e mi ricondusse alla fanciullezza.


    — Come? — esclamai. — Non è possibile! Quella grande artista era la stella che faceva delirare mio padre e mia madre. Non parlavano d'altro, quando tornarono dal loro viaggio in Italia. E come ricordo bene le loro lagrime, allorché rimase ferita nell'incendio del teatro d'opera a Milano, e morì! Ma queste cose debbono essere accadute che io avevo dieci anni appena, circa tredici anni fa —.


    — No — disse l'ebreo. — S1, ella morì. La grande cantante morì. Tredici anni or sono, avete detto benissimo. Ma la donna, per tredici anni, ha seguitato a vivere —.


    — Spiegatevi meglio — dissi io.


    — Spiegarmi meglio? — ripetè l'ebreo. — Pretendete molto, signorino mio. Tanto varrebbe che diceste: Rivestite il vostro pensiero di frasi come quelle che sono abituato a sentire, e che non significano nulla. Nell'incendio del teatro a Milano, Pellegrina rimase gravemente ferita. Tra le lesioni e l'emozione, perdette la voce. E per tutto il resto della sua vita, non cantò più una sola nota —.


    Mentre egli parlava, mi apparve chiaro che doveva esser quella la prima volta in cui rivestiva di parole quella vicenda. La sofferenza, lo sgomento che egli esprimeva col suo stesso dire mi colpirono tanto che non trovai parole per rispondergli; eppure avrei voluto saperne di più, in quanto ben poco m'avevano spiegato quelle dichiarazioni. Ma fu Pilot a domandare: — Ella non morì, allora? —.


    — Morì, visse. Visse, morì — disse l'ebreo. — Visse né più né meno che uno di voi, se non di più —.


    — Eppure, tutti l'hanno creduta morta — osservò Pilot.


    — Fu lei a lasciarlo credere — disse l'ebreo. — Ci costò -a me e a lei - non poca fatica, lasciare il mondo in quest'illusione. Vidi la sua bara scendere nella fossa. E le feci innalzare un monumento —.


    — Eravate il suo amante? — domandò il Barone.


    — No! — rispose il vecchio ebreo, con grande fierezza e disprezzo. — No; ho veduto i suoi amanti correrle dietro, guaiolarle d'attorno, lusingarla, accapigliarsi per lei. No. Io ero il suo amico. Quando alle porte del Paradiso il custode mi domanderà chi sono, a quell'arcangelo non dovrò dire il mio nome, né la mia posizione o le mie azioni, per esser riconosciuto, ma gli risponderò: — Sono l'amico di Pellegrina Leoni —. E voi che ora l'avete uccisa, come mi avete detto, domandandole chi fosse; voi, quando sarà giunta l'ora e vi si domanderà chi siete, che cosa risponderete, voi? Dinanzi a Dio, dovrete dare le vostre generalità, come all'albergo di Andermatt —.


    A quelle parole, Pilot si mostrò imbarazzato; parve sul punto di parlare, ma non aprì bocca.


    — Ora, signorini miei, — disse il vecchio ebreo — permettetemi di raccontarvi questa storia a mio piacimento. E prestatemi attenzione, perché non sarà mai più ripetuta.