mercoledì 26 gennaio 2022

WALDEN OVVERO VITA NEI BOSCHI Henry David Thoreau



WALDEN OVVERO VITA NEI BOSCHI

     Henry David Thoreau

Economia

Quando scrissi le pagine seguenti – o piuttosto gran parte di esse – vivevo da solo nei boschi, a un miglio di distanza da qualsiasi vicino, in una casa che mi ero costruito da solo, sulla riva del Lago di Walden, a Concord, nel Massachusetts, e mi guadagnavo da vivere solamente col lavoro delle mie mani. Vissi lì per due anni e due mesi. Al momento sono tornato a soggiornare nella vita civilizzata.

Non imporrei tanto le mie faccende all’attenzione dei miei lettori se i miei concittadini non avessero fatto domande – che qualcuno chiamerebbe impertinenti sebbene a me non lo sembrino affatto, anzi, date le circostanze, molto naturali e pertinenti – riguardo al mio modo di vivere. Alcuni hanno chiesto cosa avessi da mangiare; se non mi sentissi solo; se non avessi paura; e cose simili. Altri sono stati curiosi di apprendere quanta parte del mio reddito dedicassi a scopi caritatevoli; e alcuni, con una famiglia numerosa, quanti bambini poveri mantenessi. Dunque, a chi fra i miei lettori non prova particolare interesse per la mia persona chiederò di perdonarmi se in questo libro mi impegnerò a rispondere ad alcune di quelle domande. In gran parte dei libri, l’io, la prima persona, è omessa; in questo sarà mantenuta; dal punto di vista dell’egoismo, questa è la differenza principale. Comunemente non ricordiamo che, dopo tutto, è sempre la prima persona a parlare. Non parlerei tanto di me se esistesse qualcun altro che conoscessi altrettanto bene. Sfortunatamente, sono confinato a questo tema dalla limitatezza della mia esperienza. Inoltre io, da parte mia, esigo da ogni scrittore, all’inizio o alla fine, un resoconto semplice e sincero della sua vita, e non solamente quanto ha sentito dire della vita di altri uomini; un resoconto simile a quello che invierebbe ai suoi parenti da una terra lontana; perché se ha vissuto con sincerità, deve essere stato in una terra lontana dalla mia. Forse queste pagine sono rivolte più specificamente agli studenti poveri. Quanto al resto dei miei lettori, essi accetteranno le parti che più saranno valide per loro. Confido che nessuno sforzerà le cuciture quando indosserà la giacca, perché potrà essere di buona utilità a chi la troverà della giusta misura.

Vorrei dire qualcosa, non tanto riguardo ai cinesi o agli abitanti delle Isole Sandwich, quanto a voi che leggete queste pagine, che – si dice – vivete nella Nuova Inghilterra; qualcosa della vostra condizione, soprattutto della condizione o delle circostanze esteriori e terrene in questo mondo, in questa città; vale a dire, se sia necessario che esse siano cattive come sono, se le si possa migliorare o meno. Ho viaggiato molto a Concord, e ovunque, nelle botteghe, negli uffici e nei campi, i suoi abitanti mi sono sembrati patire una penitenza, in mille maniere degne di nota. Quel che ho sentito dei bramini che siedono esposti a quattro fiamme, con gli occhi fissi sul sole; o appesi, sospesi a testa in giù, sul fuoco; o che guardano il cielo da dietro le spalle “finché non diventa loro impossibile riprendere la posizione naturale, mentre per la torsione del collo nulla può raggiungere lo stomaco tranne i liquidi”; o che dimorano, incatenati a vita, ai piedi di un albero; o che, come dei millepiedi, misurano col loro corpo l’ampiezza di vasti imperi; o che restano in piedi su una gamba sola in cima a una colonna – ma perfino queste forme di penitenza volontaria sono poco più incredibili e stupefacenti delle scene a cui assisto quotidianamente. Le dodici fatiche di Ercole erano una sciocchezza se paragonate a quelle intraprese dai miei vicini; perché quelle erano solo dodici, e avevano una fine; ma non sono mai riuscito a vedere questi uomini uccidere o catturare alcun mostro, o terminare alcuna fatica. Non hanno l’amico Iolao a bruciare con un ferro caldo la testa dell’Idra; al contrario, non appena una testa viene schiacciata, ne spuntano due.

Vedo dei giovani, miei concittadini, la cui sventura è di aver ereditato fattorie, case, granai, bestiame e attrezzi per la coltivazione, perché è più facile acquisirli che liberarsene. Sarebbe stato meglio se fossero nati in un pascolo aperto e fossero stati allattati da una lupa, perché avrebbero visto con occhi più limpidi in quale campo erano stati chiamati a lavorare. Chi è stato a renderli servi della terra? Perché si trovano a dover mangiare dai loro sessanta acri quando l’uomo è condannato a mangiare solo il suo mucchietto di polvere? Perché devono cominciare a scavarsi la tomba non appena sono nati? Devono vivere la vita di un uomo, spingendo tutto questo davanti a sé, e cavarsela meglio che possono. Quante povere anime immortali ho incontrato, pressoché schiacciate e soffocate da tale peso, che strisciavano lungo la strada della vita, spingendo davanti a sé un granaio di settantacinque piedi per quaranta, senza mai pulirne le stalle Augee, e cento acri di terra da coltivare e falciare, da pascolo e legna! Il senzaterra, che lotta senza aver ereditato tale inutile ingombro, trova lavoro sufficiente da sottomettere e coltivare qualche piede cubo di carne.

Ma gli uomini lavorano sotto l’influsso di un errore. La parte migliore dell’uomo è presto arata nel terreno per farne concime. Per un destino apparente, comunemente chiamato necessità, sono impiegati – come dice un vecchio libro – a dissotterrare un tesoro che le falene e la ruggine corromperanno, e che i ladri deprederanno. È la vita di uno stolto, come scopriranno all’approssimarsi della sua fine, se non prima. Si dice che Deucalione e Pirra crearono gli uomini gettandosi dei sassi alle spalle, sopra la testa:

Inde genus durum sumus, experiensque lavorum,
Et documenta damus qua simus origine nati.

O, nella rima sonora tipica di Raleigh:

Da ciò la nostra stirpe ha il cuore duro, che sopporta dolore e affanno

Provando che i nostri corpi una natura pietrosa hanno.

Tanta è la cieca obbedienza a un oracolo brancolante nel buio, da gettarsi dei sassi alle spalle, sopra la testa, senza guardare dove cadano.

Alcuni di voi, lo sappiamo tutti, sono poveri, trovano duro vivere, talvolta nemmeno riescono a respirare. Non ho dubbi che alcuni di voi che leggono questo libro non ce la fanno a pagare tutti i pasti che hanno consumato, o le giacche e le scarpe che indossano o che hanno già logorato, e sono giunti fino a questa pagina spendendo tempo rubato o preso in prestito, trafugando un’ora ai loro creditori. È più che evidente – perché l’esperienza mi ha aguzzato la vista – quale vita infima e furtiva molti di voi stiano vivendo; sempre sul limite, cercando di entrare in affari e di uscire dai debiti, una palude antichissima chiamata dai latini aes alienum, il bronzo degli altri, perché alcune delle loro monete erano fatte di bronzo; vivendo, morendo, essendo sepolti con questo bronzo degli altri; sempre promettendo di pagare, promettendo di pagare domani e morendo oggi, insolventi; cercando di ingraziarsi qualcuno per ricevere dei favori, di ottenere credito, in chissà quanti modi, tolti i reati da prigione statale; mentendo, lusingando, votando, contraendovi in un guscio di urbanità, o dilatandovi in un’atmosfera di sottile e vaporosa generosità, così da convincere il vostro vicino a lasciarvi fabbricare le sue scarpe, o il suo cappello, o la sua giacca, o la sua carrozza, o a importare spezie per lui; ammalandovi per riuscire a metter da parte qualcosa per le giornate di malattia, qualcosa da riporre in una vecchia cassa o in una calza dietro lo stucco, o, più al sicuro, in una solida banca; non importa dove, non importa se molto o se poco.

Talvolta mi stupisco che si possa essere, potrei quasi dire, così frivoli da impegnarsi in quella forma di servitù, grossolana ma un po’ straniera, chiamata Schiavitù dei Neri, tanti sono i padroni scaltri e sottili che ci rendono schiavi al Nord come al Sud. È duro avere un sovrintendente del Sud; è peggiore averne uno del Nord; ma peggio di tutto è quando siete lo schiavista di voi stessi. Si parla della divinità dell’uomo! Guardate il carrettiere sulla strada, che va al mercato di giorno e di notte; ci può essere una qualche divinità in lui? Il suo più alto dovere è dare foraggio e acqua ai suoi cavalli! Per lui, cosa può contare il proprio destino, paragonato agli interessi di trasporto? Non è il cocchiere del Cavalier Datti-una-mossa? Quanto sarà divino, quanto sarà immortale? Vedete come si abbassa e striscia, come passa tutta la giornata vagamente impaurito, senza essere immortale né divino, ma schiavo e prigioniero dell’opinione che ha di se stesso, una fama guadagnata con le proprie azioni. L’opinione pubblica è un tiranno debole, se paragonato con la nostra opinione privata. Ciò che un uomo pensa di sé, è questo che determina, o piuttosto indica, il suo destino. L’autoemancipazione nelle Indie Occidentali della fantasia e dell’immaginazione – quale Wilberforce esiste per raggiungerla? Pensate anche alle signore della terra che intessono cuscini da toeletta per ritardare l’ultimo giorno, per non tradire un interesse troppo acerbo nel loro destino! Come se si potesse ammazzare il tempo senza ferire l’eternità.

La massa degli uomini conduce una vita di silenziosa disperazione. Ciò che si chiama rassegnazione è disperazione confermata. Dalla città disperata entrate nella campagna disperata, e dovete consolarvi col coraggio dei visoni e dei topi muschiati. Una disperazione stereotipa ma inconsapevole si nasconde anche sotto ciò che chiamiamo i giochi e i divertimenti dell’umanità. Non c’è gioco in essi, perché viene dopo il lavoro. Ma non fare cose disperate è una caratteristica della saggezza.

Quando consideriamo quale sia, per usare le parole del catechismo, lo scopo principale dell’uomo, e quali siano le vere necessità e i veri mezzi della vita, sembra che gli uomini abbiano deliberatamente scelto il modo di vita comune, avendolo preferito a ogni altro. Eppure essi ritengono onestamente di non avere alcuna scelta. Ma le nature attente e sane ricordano che il sole si è alzato luminoso. Non è mai troppo tardi per rinunciare ai nostri pregiudizi. Non ci si può fidare, senza prove, di alcun modo di pensare o di fare, per quanto antico. Ciò che oggi tutti riecheggiano, o silenziosamente ignorano in quanto quotidiano, domani può rivelarsi una falsità, un mero fumo dell’opinione, che qualcuno aveva preso per una nuvola capace di spruzzare pioggia portatrice di fertilità sui campi. Ciò che i vecchi dicono che non potete fare, provatelo – e scoprirete di poterlo fare. Vecchie azioni per i vecchi, e nuove azioni per gente nuova. Forse una volta i vecchi non ne sapevano abbastanza da procurarsi combustibile fresco per tener vivo il fuoco; la gente nuova mette un po’ di legna secca sotto una caldaia, e prende a girare il mondo alla velocità degli uccelli, in un vortice che ucciderebbe i vecchi, come dice il motto. L’età avanzata non dà una qualifica migliore – a malapena una uguale – della gioventù per fare da insegnante, perché ha portato più perdite che profitti. Si può quasi dubitare se anche il più saggio fra gli uomini abbia appreso dal vivere alcunché di valore assoluto. Nella pratica, i vecchi non hanno consigli davvero importanti da dare ai giovani; la loro esperienza è stata talmente parziale, e la loro vita un tale miserabile fallimento, dovuto – essi credono – a motivi personali; e può darsi che sia rimasta loro un po’ di fiducia per smentire quell’esperienza, e che siano solo meno giovani di prima. Ho vissuto una trentina d’anni su questo pianeta, e devo ancora udire la prima sillaba di un consiglio valido, o almeno sincero, da chi è più anziano di me. Non mi hanno detto nulla, e probabilmente non possono dirmi nulla, a questo proposito. Ecco la vita, un esperimento in gran parte mai tentato da parte mia; ma non mi aiuta il fatto che lo abbiano tentato loro. Se ho una qualche esperienza che ritengo valida, sono certo che i miei mentori non me ne hanno mai parlato.

Un agricoltore mi dice: “Non puoi vivere solo di alimenti vegetali, perché non forniscono nulla con cui farci le ossa”; e così lui dedica religiosamente una parte della giornata a rifornire il suo sistema con la materia prima delle ossa; camminando e parlando dietro i suoi buoi, che, con ossa piene di vegetali, spingono lui e il suo ingombrante aratro, quale che sia l’ostacolo. In alcuni circoli, i più derelitti e malati, alcune cose sono davvero necessità di vita, e invece in altri sono semplici lussi, e in altri ancora sono del tutto sconosciute.

Ad alcuni tutto il terreno della vita umana sembra essere stato percorso dai loro predecessori, sulle vette come nelle valli, e sembra sia stato provveduto a tutto. Secondo Evelyn, “il saggio Salomone emanò prescrizioni perfino sulla distanza da tenere fra gli alberi; e i pretori romani decisero con che frequenza si potesse entrare nella terra del vicino per raccogliervi le ghiande cadute in terra senza commettere violazione di proprietà, e quale quota gli appartenesse”. Ippocrate lasciò perfino istruzioni sul modo di tagliarsi le unghie, cioè a filo con le punte delle dita, né più corte né più lunghe. Indubbiamente, anche il tedio e la noia che si dice abbiano esaurito la varietà e le gioie della vita sono vecchi come Adamo. Ma le capacità dell’uomo non sono mai state misurate, né dobbiamo giudicare ciò che egli può fare sulla base di qualche precedente, così scarsi sono stati i tentativi. Per quanti fallimenti vi siano stati finora, “non affliggerti, figlio mio, perché chi mai ti assegnerà ciò che hai lasciato a metà?”.

Potremmo mettere alla prova la nostra vita con mille semplici esperimenti; per esempio, che lo stesso sole che mi fa maturare i fagioli illumina allo stesso tempo un sistema di Terre come la nostra. Questo, se lo avessi ricordato, mi avrebbe evitato alcuni errori. Questa non era la luce in cui li ho zappati. Le stelle sono i vertici di quali meravigliosi triangoli? Quali esseri lontani e diversi, nelle varie dimore dell’universo, stanno contemplando la stessa stella allo stesso momento! La Natura e la vita umana sono varie come le nostre costituzioni. Chi dirà mai quali prospettive la vita offra a un altro? Può aver mai luogo un miracolo più grande del guardare l’uno attraverso gli occhi dell’altro per un istante? Dovremmo vivere in tutte le epoche del mondo in un’ora; sì, in tutti i mondi di tutte le epoche. La Storia, la Poesia, la Mitologia!... Non conosco letture altrettanto sorprendenti e informative sull’esperienza di un altro.

La maggior parte di ciò che il mio vicino chiama bene, credo nella mia anima che sia male, e se c’è alcunché di cui mi pento, è molto probabilmente la mia buona condotta. Quale demone mi ha mai posseduto per farmi comportare così bene? Puoi dirmi le cose più dolci, vecchio – tu che hai vissuto per settant’anni senza onore alcuno; io sento una voce irresistibile che mi invita ad andar via da tutto questo. Una generazione abbandona le imprese di un’altra come navi naufragate.

Senz’altro, penso che possiamo essere molto più fiduciosi di quel che siamo. Possiamo rinunciare ad altrettanta cura di noi stessi di quanta, in tutta onestà, ne concediamo altrove. La Natura è altrettanto adatta alla nostra debolezza che alla nostra forza. L’incessante ansia e lo sforzo di alcuni è una forma di malattia pressoché incurabile. Siamo fatti per esagerare l’importanza del lavoro che facciamo; eppure quanto ce n’è ancora da fare! Ovvero, che succede se ci ammaliamo? Quanto siamo vigili! Determinati a non vivere per fede se possiamo evitarlo; tutto il giorno in allerta, la notte diciamo di malavoglia le nostre preghiere e scegliamo l’incertezza. Così totalmente e sinceramente siamo costretti a vivere, deferenti verso la nostra vita, e negando la possibilità del cambiamento. C’è solo un modo, diciamo; ma ci sono altrettanti modi di quanti raggi si possano tracciare a partire da un unico centro. Ogni cambiamento è un miracolo da contemplare; ma è un miracolo che si verifica in ogni istante. Dice Confucio: “Sapere che sappiamo quel che sappiamo, e che non sappiamo quel che non sappiamo, è questo il vero sapere”. Quando un uomo avrà ridotto un fatto dell’immaginazione a un fatto della comprensione, prevedo che tutti alla lunga stabiliranno la loro vita su quella base.

Consideriamo per un attimo in che cosa consista gran parte dei problemi e dell’ansia a cui mi sono riferito, e quanto sia necessario che noi siamo agitati o almeno vigili. Sarebbe di qualche vantaggio vivere una vita primitiva e di frontiera, pur nel mezzo di una civiltà esteriore, se non altro per apprendere quali siano le brute necessità della vita, e quali metodi si siano usati per ottenerle; o perfino per dare un’occhiata ai vecchi registri dei mercanti, per vedere cosa gli uomini comprassero più spesso nelle botteghe, cosa conservassero, cioè quali fossero i generi più comuni. Perché i progressi della storia hanno avuto solo un’influenza minima sulle leggi essenziali dell’esistenza umana; come i nostri scheletri, probabilmente, non le si può distinguere dalle leggi dei nostri antenati.

Con le parole necessità della vita intendo tutto ciò di quanto l’uomo ottiene coi propri sforzi, che sia stato sin dall’inizio – o lo sia diventato con l’uso prolungato – così importante per la vita umana che pochi, per una natura selvaggia, povertà o filosofia, hanno mai provato a rinunciarvi. Per molte creature non c’è in questo senso che una necessità nella vita, il Cibo. Per il bisonte della prateria si tratta di qualche pollice d’erba saporita, con dell’acqua da bere; a meno che non cerchi il Riparo della foresta o l’ombra della montagna. Nessuna fra le creature animali richiede più che Cibo e Riparo. Nel nostro clima, si possono suddividere le necessità della vita per l’uomo, con una certa accuratezza, sotto i titoli di: Cibo, Riparo, Vestiario e Combustibile; perché finché non ci assicuriamo queste cose, non siamo pronti a considerare i veri problemi della vita con libertà e con una prospettiva di successo. L’uomo ha inventato non solo le case ma i vestiti e la cottura del cibo; e forse dall’accidentale scoperta del calore del fuoco, e dal suo conseguente uso, sorse la reale possibilità di sedervisi accanto. Osserviamo cani e gatti acquisire la stessa seconda natura. Per mezzo di Riparo e Vestiario adeguati, noi manteniamo con accortezza il nostro calore interno; ma non è con un eccesso di questi o del Combustibile, cioè di un calore esterno maggiore del nostro calore interno, che si può propriamente dire che la Cucina abbia inizio? Darwin, il naturalista, dice degli abitanti della Tierra del Fuego che mentre il suo gruppo, ben coperto e seduto accanto al fuoco, era tutt’altro che troppo al caldo, si osservò che quei selvaggi, nudi e più lontani, erano “grondanti sudore come se li si stesse arrostendo”. Così, ci si dice, l’abitante della Nuova Olanda gira nudo impunemente, mentre l’europeo rabbrividisce vestito. È proprio impossibile combinare la solidità di questi selvaggi con l’intellettualità dell’uomo civilizzato? Secondo Liebig, il corpo umano è una stufa, e il cibo è la sostanza che mantiene la combustione interna nei polmoni. Col tempo freddo mangiamo di più, con quello caldo di meno. Il calore animale è il risultato di una combustione lenta, e la malattia e la morte hanno luogo quando diventa troppo rapida; per carenza di combustibile, o per qualche difetto nel tiraggio dell’aria, il fuoco si estingue. Sicuramente il calore vitale non va confuso col fuoco; ma l’analogia si ferma qui. Dal precedente elenco sembra, dunque, che l’espressione vita animale sia quasi un sinonimo di calore animale; perché mentre il Cibo va considerato come il Combustibile che alimenta il fuoco dentro di noi – e il Combustibile serve solo a preparare quel Cibo o ad aumentare il calore dei nostri corpi aggiungendosi a quello esterno – anche il Riparo e il Vestiario servono solo a trattenere il calore così generato e assorbito.

Per i nostri corpi, allora, la grande necessità è tenersi al caldo, trattenere il calore vitale dentro di noi. Quanta pena ci accolliamo di conseguenza, non solo mediante Cibo, Vestiario e Riparo, ma con i nostri letti, che sono i nostri vestiti notturni, derubando il nido e le piume degli uccelli per preparare questo riparo nel Riparo, come la talpa ha il letto d’erba e foglie in fondo alla sua buca! Il povero ha l’abitudine di lamentarsi che il mondo è freddo; e al freddo, fisico e sociale, attribuiamo direttamente gran parte delle nostre afflizioni. L’estate, in certi climi, consente all’uomo una vita degna dell’Elisio. Allora non serve combustibile, tranne per cuocere il Cibo; il sole fa da fuoco, e molti frutti sono cotti a sufficienza dai suoi raggi; mentre il Cibo è generalmente più vario e più facile da ottenere; e Vestiario e Riparo sono totalmente – o quasi – inutili. Al tempo presente e in questo paese, come scopro attraverso l’esperienza, qualche ausilio, un coltello, un’ascia, una vanga, una carriola ecc., e per chi è studioso, una lampada, della cancelleria e l’accesso a qualche libro sono quasi delle necessità, e tutte ottenibili a costo minimo. Eppure alcuni, non dei saggi, vanno dall’altra parte del globo, in regioni barbare e insalubri, e si dedicano al commercio per dieci o vent’anni, per poter vivere – cioè, tenersi comodamente al caldo – e infine morire nella Nuova Inghilterra. I lussuosamente ricchi si tengono non soltanto comodamente ma innaturalmente al caldo; come sottintendevo prima, si cuociono, à la mode naturalmente.

Gran parte dei lussi, e molte delle cosiddette comodità della vita, non soltanto sono tutt’altro che indispensabili, ma sono autentici ostacoli per l’elevazione dell’umanità. Per quanto riguarda i lussi e le comodità, i più saggi hanno sempre condotto una vita più semplice e grama dei poveri. Non è mai esistita alcuna classe più povera nelle ricchezze esteriori, e più ricca in quelle interiori, degli antichi filosofi cinesi, indù, persiani e greci. Non sappiamo molto di loro. È notevole che sappiamo così tanto di loro. Lo stesso è vero per i moderni riformatori e benefattori della loro razza. Nessuno può essere un osservatore imparziale della vita umana o un saggio, se non dalla posizione vantaggiosa di ciò che noi dovremmo chiamare povertà volontaria. Il frutto di una vita di lusso è il lusso, nell’agricoltura o nel commercio, nella letteratura o nell’arte. Oggigiorno ci sono professori di filosofia, ma non filosofi. Eppure è degno di ammirazione insegnare, perché una volta era degno di ammirazione vivere. Essere un filosofo non è solamente avere pensieri sottili, e neppure fondare una scuola, ma amare la sapienza al punto da vivere secondo i suoi dettami, con una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. È risolvere alcuni dei problemi della vita, non solo nella teoria ma nella pratica. Il successo dei grandi studiosi e pensatori è generalmente un successo da cortigiano, non regale, non virile. Si arrangiano a vivere conformandosi, vivendo in pratica come i loro padri, e non sono affatto i progenitori di una razza di uomini più nobili. Ma perché gli uomini degenerano? Cos’è che fa estinguere le famiglie? Qual è la natura del lusso che debilita e distrugge le nazioni? Siamo sicuri che non vi sia nulla di ciò nella nostra vita? Il filosofo è in anticipo sul suo tempo anche nelle forme esteriori della vita. Non si ciba, non si ripara, non si veste, non si riscalda come i suoi contemporanei. Come fa un uomo a essere filosofo e non mantenere il suo calore vitale con metodi migliori degli altri uomini?

Quando un uomo si è riscaldato nei vari modi descritti, cosa gli manca ancora? Di certo non più calore dello stesso tipo, o un’alimentazione maggiore e più ricca, case più grandi e più splendide, fuochi incessanti, più numerosi e più caldi, e così via. Quando ha ottenuto le cose che sono necessarie alla vita, c’è un’alternativa rispetto all’ottenimento del superfluo; ed è avventurarsi nella vita, essendo iniziata la sua fuga dalle fatiche più umili. Sembra esserci un terreno idoneo alla semina, perché ha spinto in profondità le sue radicette, e ora può anche spingere in alto il suo germoglio, con fiducia. Perché l’uomo si sarà radicato così fermamente nella terra, se non per ascendere allo stesso modo nell’alto dei cieli? Perché le piante più nobili si stimano per il frutto che finalmente generano nell’aria e nella luce, lontano da terra, e non le si tratta come le più umili erbe commestibili che, pur se biennali, si coltivano solo finché non hanno sviluppato appieno le loro radici, e spesso se ne taglia la cima a questo scopo, cosicché molti non le riconoscerebbero nella stagione della fioritura.

Non intendo prescrivere regole alle nature forti e valorose, che baderanno ai propri affari in paradiso come all’inferno, e forse costruiranno in modo più magnifico e spenderanno con più prodigalità dei più ricchi, senza mai impoverirsi, senza rendersi conto di come vivono; come se queste nature esistessero, in effetti, fuori dai sogni. Né a coloro che trovano incoraggiamento e ispirazione precisamente nella condizione presente delle cose, e la prediligono con l’affetto e l’entusiasmo degli amanti – e in una certa misura mi riconosco in questo gruppo. Non parlo a coloro che sono ben impiegati, in qualunque posizione, e sanno se lo sono o meno; ma principalmente alla massa di uomini che sono scontenti, e si lamentano pigramente della durezza del loro destino o dei tempi, quando potrebbero migliorarli. Ci sono alcuni che si lamentano più energicamente e inconsolabilmente di chiunque altro, perché stanno, dicono, facendo il loro dovere. Ho anche in mente quella classe apparentemente ricca, ma in realtà la più terribilmente impoverita di tutte, che ha accumulato scorie, ma non sa come utilizzarle o come liberarsene, e ha forgiato così le proprie catene d’oro o d’argento.

Se dovessi provare a dire come abbia desiderato trascorrere la mia vita negli anni passati, probabilmente sorprenderei chi fra i miei lettori ne conosce un po’ la storia; sicuramente stupirebbe chi non ne sa nulla. Farò solo degli accenni alle imprese che ho prediletto.

In ogni clima, a ogni ora del giorno o della notte, sono stato ansioso di migliorare l’ultimo momento, per farne anche una tacca sul mio bastone; di stare in quel punto d’incontro fra due eternità, il passato e il futuro, che è il momento presente; di segnare quella linea. Mi scuserete qualche oscurità, perché vi sono più segreti nel mio mestiere che in gran parte degli altri – segreti non mantenuti volontariamente, ma inseparabili dalla sua natura. Sarei felice di dire tutto ciò che conosco, senza mai dipingere “Vietato l’accesso” sulla mia porta.

Molto tempo fa persi un cane, un cavallo baio e una tortora, e sono ancora sulle loro tracce. Molti sono i viaggiatori a cui ho parlato di loro, descrivendone le orme e a quali richiami rispondessero. Ne ho incontrati uno o due che avevano udito il cane, e lo scalpitare del cavallo, e perfino visto la tortora sparire dietro una nuvola, e sembravano altrettanto ansiosi di ritrovarli come se fossero stati loro stessi a perderli.

Anticipare, non semplicemente l’alba e il sorger del sole, ma, se possibile, la Natura stessa! Quante mattine, d’estate e d’inverno, prima che un solo vicino si fosse diretto a curare i suoi affari, ero già intento ai miei! Senza dubbio, molti dei miei concittadini mi hanno incontrato al ritorno da quest’impresa, agricoltori in partenza per Boston mentre si faceva giorno, o boscaioli che andavano al lavoro. È vero che non ho mai materialmente assistito il sole nel suo sorgere, ma, non dubitate, solo esservi presente era della massima importanza.

Così, quante giornate d’autunno, e anche d’inverno, ho trascorso fuori città, cercando di udire cosa vi fosse nel vento, di udirlo e portarlo prontamente via! In questo, ho quasi affondato tutto il mio capitale, e ho quasi perso il fiato nella transazione, mentre mi ci lanciavo a capofitto. Se avesse interessato uno dei due partiti politici, potete contarci, sarebbe apparso sulla “Gazette”, non appena si fosse sparsa la voce. Altre volte, guardando dall’osservatorio di una rupe o di un albero, per telegrafare ogni nuovo arrivo; o in attesa che calasse la notte, la sera in cima ai colli, per riuscire ad afferrare qualcosa, anche se non ho mai preso molto, e quel che prendevo, come la manna, si dissolveva nuovamente nel cielo.

Per molto tempo sono stato reporter per un giornale dalla circolazione non molto ampia, il cui direttore non si è ancora deciso a stampare molti dei miei contributi; com’è fin troppo comune per gli scrittori, ho ottenuto solo dolori per le mie fatiche. Comunque, in questo caso le mie fatiche erano il premio di se stesse.

Per molti anni mi sono autonominato ispettore delle nevicate e dei temporali, e ho svolto fedelmente il mio compito; topografo, se non delle strade, dei sentieri nella foresta e delle scorciatoie attraverso i terreni, tenendoli aperti, e tenendo i ponti sopra le scarpate agibili in tutte le stagioni, laddove il pubblico ne avesse testimoniato l’utilità.

Mi sono preso cura del bestiame libero della città, che dava molti problemi a ogni fedele mandriano, scavalcando gli steccati; e ho tenuto d’occhio gli angoli e i cantoni meno frequentati delle fattorie; sebbene non sapessi sempre se Giona o Salomone stessero lavorando quel giorno in un dato campo; quelli non erano affari miei. Ho annaffiato il mirtillo rosso, il ciliegio selvatico e il bagolaro, il pino rosso e il frassino nero, l’uva bianca e la violacciocca, che altrimenti sarebbero appassiti nella stagione secca.

In breve, ho continuato così per molto tempo – posso dirlo senza vantarmene – badando fedelmente ai miei affari, finché non divenne sempre più evidente che i miei concittadini non mi avrebbero dopo tutto inserito nell’elenco dei funzionari municipali, né avrebbero fatto della mia posizione una sinecura con un modesto compenso. I miei conti, che posso giurare di aver sempre tenuto con fedeltà, non li ho, in effetti, mai fatti rivedere, e ancor meno accettare, ancor meno pagare e chiudere. Tuttavia, non mi sono ancora rassegnato.

Non molto tempo dopo, un indiano vagabondo andò a vendere canestri alla casa di un ben noto avvocato delle vicinanze. “Desiderate comprare canestri?” chiese. “No, non ne vogliamo,” fu la risposta. “Che cosa?” esclamò l’indiano mentre usciva dalla porta. “Volete affamarci?” Avendo visto l’industrioso vicino bianco così benestante – perché l’avvocato doveva solamente intrecciare argomenti, e per magia ne derivavano ricchezza e considerazione – si era detto: “Entrerò in affari; intreccerò canestri; è una cosa che so fare”. Pensando che, avendo fatto i canestri, avrebbe fatto la sua parte; poi comprarli sarebbe stata la parte dell’uomo bianco. Non aveva scoperto che gli era necessario rendere proficuo all’altro comprarli, o almeno fargli pensare che lo fosse. Anch’io avevo intrecciato una specie di canestro dalla trama delicata, ma non avevo reso proficuo a nessuno comprarli. Nondimeno, nel mio caso, ritenni che intrecciarli fosse proficuo per me; e invece di studiare come rendere proficuo agli altri uomini comprare i miei canestri, studiai piuttosto come evitare la necessità di venderli. La vita che gli uomini lodano e considerano come un successo non è che uno dei tipi possibili. Perché mai dovremmo esagerare un tipo a spese degli altri?

Scoprendo che era improbabile che i miei concittadini mi offrissero un posto nel tribunale, o alcuna sinecura o fonte di reddito altrove, e che avrei dovuto arrangiarmi per mio conto, mi rivolsi più esclusivamente che mai ai boschi, dove ero più conosciuto. Mi determinai a entrare in affari immediatamente, senza aspettare di acquisire il consueto capitale, utilizzando i magri mezzi che già possedevo. Il mio scopo andando al Lago di Walden non era vivere in maniera parsimoniosa, né vivere in maniera costosa, ma negoziare una trattativa privata, con ostacoli minimi; non riuscire a portarla a compimento per mancanza di un po’ di senso comune, spirito d’iniziativa e talento per gli affari, sembrava non tanto triste ma stupido.

Mi sono sempre sforzato di acquisire abitudini rigorose negli affari; sono indispensabili a tutti. Se il vostro commercio è con l’Impero celeste, allora un ufficetto sulla costa, in qualche porto di Salem, sarà una base sufficiente. Esporterete gli articoli che può permettersi il paese, puri prodotti locali, molto ghiaccio, legna di pino e un po’ di granito, sempre su vascelli del luogo. Queste saranno buone iniziative. Supervisionare di persona ogni dettaglio; essere allo stesso tempo pilota e capitano, proprietario e assicuratore; leggere ogni lettera ricevuta, e scrivere o leggere ogni lettera spedita; sovrintendere allo scarico delle importazioni di giorno e di notte; essere in molte parti della costa quasi allo stesso tempo – spesso i carichi più ricchi saranno scaricati sulla riva del Jersey; essere telegrafo di voi stessi, perlustrando instancabilmente l’orizzonte, parlando a tutti i vascelli di passaggio diretti verso la costa; mantenere una spedizione continua di merci, per rifornire un mercato così lontano ed esorbitante; tenervi informati sullo stato dei mercati, sulle prospettive di guerra e pace ovunque, e anticipare le tendenze del commercio e della civiltà – approfittando dei risultati di tutte le spedizioni d’esplorazione, usando nuovi passaggi e tutti gli avanzamenti nella navigazione; le carte da studiare, la posizione degli scogli o di nuovi fari e boe da accertare, e sempre, sempre, le tavole logaritmiche da correggere, perché a causa di qualche errore di calcolo spesso naufraga su una roccia la nave che avrebbe dovuto raggiungere un molo amico – il fato mai rivelato di La Pérouse; la scienza universale con cui tenere il passo, studiando la vita di tutti i grandi scopritori e dei navigatori, dei grandi avventurieri e dei mercanti, da Annone e dai fenici fino a oggi; infine, i conti delle azioni da seguire con regolarità, per capire la vostra posizione. È un lavoro che mette alla prova le facoltà di un uomo – tali problemi di profitti e perdite, di interessi, di tara e abbuono, e prendendo la misura di tutte le varianti, come richiede un sapere universale.

Ho pensato che il Lago di Walden fosse un buon posto per gli affari, non solamente a causa della ferrovia e del commercio del ghiaccio; offre vantaggi che potrebbe non esser conveniente divulgare; è un buon porto e una buona fondazione. Non ci sono le paludi della Neva da colmare; anche dovendo costruire ovunque sulle assi trasportate da voi. Si dice che un’ondata di marea, col vento dell’ovest e col ghiaccio della Neva, spazzerebbe via San Pietroburgo dalla faccia della terra.

Mentre stavo per entrare in quest’affare senza il consueto capitale, poteva non esser facile fare congetture riguardanti l’ottenimento di quei mezzi tuttora indispensabili per simili intraprese. Per quanto riguarda il Vestiario – per giungere subito all’aspetto pratico della questione – forse siamo spesso spinti più dall’amore per la novità e dalla considerazione dell’opinione degli uomini, che dalla vera utilità. Chi ha un lavoro da fare ricordi che l’oggetto del vestirsi è, primo, trattenere il calore vitale e, secondo, in questo stato della società, coprire la nudità, e potrà giudicare quanto di ogni lavoro necessario o importante possa esser compiuto senza accrescere il proprio guardaroba. I re e le regine che indossano un abito una volta sola, per quanto fatto da un sarto o da una sarta appositamente per le loro maestà, non possono conoscere il conforto di indossare un abito della giusta misura. Non sono più di attaccapanni su cui appendere i vestiti puliti. Ogni giorno i nostri abiti si assimilano a noi, ricevendo l’impronta del carattere di chi li indossa, finché non esitiamo a metterli via senza il ritardo, le cure mediche e le simili solennità che riserviamo ai nostri corpi. Nessun uomo è mai sceso nella mia stima perché aveva una toppa nei vestiti; eppure sono certo che ci si preoccupi più, in genere, di avere vestiti alla moda, o almeno puliti e non rattoppati, che di avere una coscienza pulita. Ma anche qualora lo strappo non sia rammendato, forse il peggior vizio che tradisce è l’improvvidenza. A volte metto alla prova i miei conoscenti con esami come questo: “Chi potrebbe indossare una toppa, o solamente un paio di rammendi in più, sul ginocchio?”. Molti si comportano come se ritenessero che le loro prospettive nella vita cadessero in rovina se dovessero farlo. Sarebbe più facile per loro zoppicare fino in città con una gamba rotta che con pantaloni strappati. Se avviene un incidente alle gambe di un gentiluomo, spesso le si può aggiustare; ma se un incidente simile avviene alle gambe dei pantaloni, non c’è rimedio; perché egli prenderà in considerazione non ciò che è davvero rispettabile ma ciò che è rispettato. Non conosciamo che pochi uomini, e moltissimi cappotti e pantaloni. Abbigliate uno spaventapasseri con la vostra ultima camicia, e voi mettetevi scamiciati al suo fianco, chi non saluterebbe prima lo spaventapasseri? Attraversando un campo di grano l’altro giorno, accanto a un cappello e a un cappotto appesi a un bastone, riconobbi il proprietario della fattoria. Era solo un po’ più segnato dal tempo, rispetto all’ultima volta che lo avevo visto. Ho sentito di un cane che abbaiava a ogni estraneo che si avvicinasse alla residenza del suo padrone con i vestiti addosso, ma che era facilmente ridotto al silenzio da un ladro nudo. È una domanda interessante chiedersi quanto gli uomini manterrebbero il loro rispettivo rango se fossero spogliati dei loro vestiti. In tal caso, potreste dire con sicurezza, in una qualunque compagnia di uomini civilizzati, chi appartiene alla classe più privilegiata? Quando la signora Pfeiffer, nei suoi viaggi avventurosi intorno al mondo, dall’Est all’Ovest, era giunta quasi fino a casa, nella Russia asiatica, affermava di aver sentito la necessità di indossare abiti diversi da quelli di viaggio, andando a incontrare le autorità, perché “adesso era in un paese civile, dove [...] la gente è giudicata dai vestiti”. Perfino nelle nostre democratiche città della Nuova Inghilterra, l’accidentale possesso della ricchezza e la sua manifestazione attraverso i vestiti e l’ostentazione, ottengono al possessore un rispetto quasi universale. Ma coloro che concedono tale rispetto, per quanto numerosi, sono profondamente pagani, e hanno bisogno che si mandi loro un missionario. Inoltre, i vestiti hanno introdotto il cucito, un tipo di lavoro che si può dire infinito; il vestito di una donna, almeno, non è mai completato.

A un uomo che avesse infine trovato qualcosa da fare non servirà un abito nuovo per farlo; gli basterà quello vecchio, che ha preso polvere in soffitta per un periodo indeterminato. Le scarpe vecchie serviranno all’eroe più a lungo che al suo valletto – se un eroe può mai avere un valletto; i piedi nudi sono più vecchi delle scarpe, e può farseli bastare. Solo chi va alle soirées e alle aule legislative deve avere giacche nuove, giacche da cambiare così spesso come cambia l’uomo dentro di esse. Ma se la mia giacca e i miei pantaloni, il mio cappello e le mie scarpe sono adatte all’adorazione di Dio, mi saranno sufficienti; non è così? Chi non ha mai visto i suoi abiti vecchi, come la sua vecchia giacca, consumata davvero, dissolta nei suoi elementi primitivi, in modo che non era un atto di carità darla a qualche ragazzo povero, perché magari la desse a qualcuno ancora più povero – o dovremmo dire più ricco – a cui sarebbe bastato ancora di meno? Io dico, fate attenzione a ogni impresa che richieda vestiti nuovi, e non piuttosto una persona nuova che li indossi. Se avete una nuova impresa davanti a voi, tentatela coi vostri vestiti vecchi. A tutti gli uomini serve non qualcosa con cui farlo, ma qualcosa da fare, o piuttosto qualcosa da essere. Forse non dovremmo mai procurarci un vestito nuovo, non importa quanto sia sporco o stracciato quello vecchio, finché non ci siamo comportati, non abbiamo navigato o intrapreso in modo tale da sentirci uomini nuovi in abiti vecchi, e che tenerli sarebbe come conservare vino nuovo in bottiglie vecchie. La nostra stagione della muta, come quella degli uccelli, deve essere una crisi nella nostra vita. Il tuffolo si ritira in uno stagno solitario per trascorrerla. Così anche il serpente si libera delle sue squame, e il bruco del suo cappotto da verme, grazie a un industriarsi e a un espandersi interiori; perché i vestiti non sono che la nostra pellicola esteriore e la nostra spoglia mortale. Altrimenti ci si ritroverà a navigare sotto falsa bandiera, e infine saremo inevitabilmente destituiti dalla nostra stessa opinione, oltre a quella dell’umanità.

Indossiamo un vestito dopo l’altro, quasi crescessimo come le piante esogene, per accumulazione esterna. I nostri vestiti esterni, spesso leggeri e colorati, sono la nostra epidermide o pelle falsa, che non partecipa della nostra vita, e possono essere tolti qua e là senza ferite fatali; i nostri vestiti più pesanti, indossati costantemente, sono il nostro tegumento o corteccia cellulare; ma le nostre camicie sono il nostro liber o la vera corteccia, che non possono essere rimossi senza incidere e dunque abbattere l’uomo. Credo che tutte le razze in qualche stagione debbano indossare qualcosa di equivalente alla camicia. È desiderabile che un uomo sia vestito in maniera così semplice da poter imporre le mani su di sé la notte, e da poter vivere in ogni aspetto in modo così pronto e coerente da potere, se un nemico conquistasse la città, uscire dalla sua porta a mani vuote, senza preoccupazione. Quando un indumento pesante è, per lo più, buono come tre leggeri, e si può ottenere vestiario economico a prezzi davvero adatti a ogni cliente; mentre si può comprare per cinque dollari un cappotto pesante che può durare altrettanti anni, per due dollari pantaloni pesanti, per un dollaro e mezzo un paio di stivali di pelle di vacca, per un quarto di dollaro un cappello estivo, e per sessantadue centesimi e mezzo un cappello invernale, o si può farne in casa uno migliore per il costo nominale, dov’è uno così povero che, abbigliato in tal guisa, grazie ai suoi guadagni, non sia considerato con reverenza dai saggi?

Quando chiedo un abito di una forma particolare, la mia sarta mi dice con aria grave: “Non li fanno così adesso”, senza enfatizzare per nulla chi siano “essi”, quasi citasse un’autorità impersonale come i Fati, e trovo difficile farmi fare ciò che voglio, semplicemente perché lei non può credere che io voglia ciò che dico, che sia così avventato. Quando ascolto questa sentenza oracolare, per un attimo mi assorbo nel pensiero, enfatizzando a mio beneficio separatamente ogni parola in modo da raggiungerne il significato, per scoprire con quale grado di parentela Essi siano imparentati a me, e quale autorità possano avere in un affare che mi tocca così da vicino; e finalmente, tendo a risponderle con uguale aria di mistero, senza ulteriore enfasi su di “essi”: “È vero, non li hanno fatti più così ultimamente, ma adesso sì”. A cosa serve prendermi le misure se lei non misura il mio carattere ma solo l’ampiezza delle mie spalle, come se fossero un gancio a cui appendere la giacca? Non adoriamo le Grazie o le Parche, ma la Moda. Lei intreccia, intesse e taglia con piena autorità. A Parigi, la scimmia capo si mette un berretto da viaggiatore e tutte le scimmie d’America fanno lo stesso. Talvolta dispero di ottenere che si faccia alcunché di semplice e onesto con l’aiuto degli uomini. Prima li si dovrebbe far passare attraverso un potente torchio, per spremerne via le vecchie nozioni, in modo che non si possano rimettere subito in piedi; e poi ce ne sarebbe qualcuno con un verme dentro la testa, spuntato da un uovo depositato lì non si sa quando – perché nemmeno il fuoco uccide queste cose – e voi avreste buttato via il vostro lavoro. Nondimeno, non dimenticheremo che si parla del grano egiziano trasmessoci da una mummia.

Nel complesso, ritengo che non si possa sostenere che il vestirsi sia assurto, in questo o in ogni altro paese, al rango di arte. Al momento gli uomini si arrangiano a indossare quel che riescono a trovare. Come marinai naufraghi, si mettono quel che trovano sulla spiaggia, e alla minima distanza, di spazio o di tempo, ridono delle mascherate degli altri. Ogni generazione ride delle vecchie mode, ma segue religiosamente le nuove. Ci divertiamo guardando il costume di Enrico VIII o della regina Elisabetta, come se fossero quelli del re e della regina dell’Isola dei Cannibali. Ogni costume, tolto da un uomo, è pietoso o grottesco. Sono solo lo sguardo serio che ne promana e la vita sincera che vi passa che frenano la risata e consacrano il costume di un popolo. Se Arlecchino è colto dallo spasmo di una colica, le sue bardature si adatteranno anche a quell’umore. Quando il soldato è colpito da una palla di cannone, gli stracci sono eleganti come la porpora reale.

Il gusto infantile e selvaggio di uomini e donne per i nuovi motivi porta chissà quanti a tremare e a sbirciare nei caleidoscopi in modo da scoprire la particolare figura richiesta da questa generazione odierna. I fabbricanti hanno imparato che questo gusto è un puro capriccio. Di due motivi che differiscono solo per qualche filo più o meno di un certo colore, l’uno si venderà prontamente, l’altro resterà sullo scaffale, anche se di frequente avviene che dopo lo scorrere di una stagione il secondo diventi più alla moda. Relativamente parlando, il tatuaggio non è l’orribile costume di cui si parla. Non è barbaro semplicemente perché la stampa si imprime sulla pelle ed è inalterabile.

Non riesco a credere che il nostro sistema industriale sia il miglior modo con cui gli uomini possano ottenere il vestiario. La condizione degli operai diventa giorno dopo giorno come quella degli inglesi; e non c’è da stupirsi giacché, per quanto abbia sentito e osservato, l’obiettivo principale non è che l’umanità sia abbigliata bene e onestamente, ma, senza dubbio, che le corporazioni si arricchiscano. Alla lunga, gli uomini colpiscono solo il bersaglio a cui mirano. Perciò, se devono fallire immediatamente, è meglio che mirino in alto.

Per quanto riguarda il Riparo, non negherò che sia adesso una necessità della vita, sebbene ci siano esempi di uomini che ne hanno fatto a meno per lunghi periodi in paesi più freddi di questo. Samuel Laing dice che “i lapponi col loro abito di pelle, e con un sacco di pelle che si mette sopra la testa e le spalle, dormiranno sulla neve notte dopo notte [...] in un freddo tale da estirpare la vita da chi vi venisse esposto con un abito di lana”. Li aveva visti dormire così. Eppure, aggiunge: “Non sono più resistenti di altri popoli”. Ma probabilmente l’uomo non è vissuto a lungo sulla terra senza scoprire la convenienza di una casa, i conforti domestici – espressione che può aver originariamente significato più le soddisfazioni della casa che quelle della famiglia; sebbene queste debbano essere estremamente parziali e occasionali in quei climi dove associamo la casa, nei nostri pensieri, soprattutto all’inverno o alla stagione piovosa, e dove per due terzi dell’anno è inutile, se non come parasole. Nel nostro clima, d’estate, la casa era originariamente quasi solamente una copertura per la notte. Nelle gazzette indiane, un wigwam era simbolo di un giorno di marcia, e una loro fila intagliata o dipinta sulla corteccia di un albero significava che vi si erano accampati un certo numero di volte. L’uomo non sarebbe stato dotato di membra così grandi e robuste se non avesse dovuto cercare di restringere il suo mondo, e rinchiudere uno spazio che gli fosse adatto. All’inizio, era nudo e all’aperto. Ma sebbene questa condizione fosse abbastanza piacevole col tempo caldo e sereno, di giorno, la stagione delle piogge e l’inverno, senza parlare del sole torrido, forse ne avrebbero estirpato la razza appena sbocciata, se non si fosse affrettato a vestirsi col riparo di una casa. Adamo ed Eva, secondo la favola, indossarono le foglie di fico prima degli altri vestiti. L’uomo desiderava una casa, un luogo di calore, o di conforto; prima veniva il calore fisico, poi quello degli affetti.

Possiamo immaginare un tempo in cui, nell’infanzia della razza umana, alcuni intraprendenti mortali strisciarono nella cavità di una roccia cercando riparo. In una certa misura, ogni bambino dà un nuovo inizio al mondo, e ama stare all’aperto, anche se è freddo e umido. Gioca a farsi una casa, oltre che a cavalcare, avendone l’istinto. Chi non ricorda l’interesse con cui, da giovane, aveva guardato una roccia sporgente, o qualunque ingresso di una grotta? Era il naturale anelito di quella parte dei nostri antenati più primitivi che ancora sopravvive in noi. Dalla caverna siamo avanzati fino ai tetti di corteccia e rami, di tela intessuta e distesa, di erba e paglia, di tavole e assi, di pietre e tegole. Infine, non sappiamo cosa sia vivere all’aria aperta, e la nostra vita è domestica in più sensi di quanto riteniamo. Dal focolare al campo vi è una grande distanza. Sarebbe forse bene se spendessimo una parte maggiore dei nostri giorni e delle nostre notti senza frammettere ostruzioni fra noi e i corpi celesti, se il poeta non parlasse così tanto da sotto un tetto, o se il santo non vi dimorasse così a lungo. Gli uccelli non cantano nelle caverne, né le colombe alimentano la loro innocenza nella piccionaia.

Comunque, se si progetta di costruire una dimora, sarebbe giusto esercitare un po’ di astuzia yankee, in modo da non ritrovarsi alla fine in un’officina, un labirinto senza via d’uscita, in un museo, in un ospizio, in una prigione, o invece in uno splendido mausoleo. Considerate prima quanto sia misero il riparo assolutamente necessario. Ho visto gli indiani Penobscot di questa città, che vivevano in tende di cotone sottile, mentre la neve intorno a loro raggiungeva un piede d’altezza, e pensavo che sarebbero stati lieti se fosse stata più alta, per tener lontano il vento. In precedenza, quando guadagnarmi onestamente da vivere lasciandomi la libertà di perseguire i miei scopi era una questione che mi tormentava più di ora – perché sfortunatamente sono diventato un po’ insensibile –, vedevo un grosso capanno vicino alla ferrovia, lungo sei piedi e largo tre, in cui gli operai chiudevano i loro arnesi di notte, e mi fece pensare che chiunque ne avesse la forte necessità potesse ottenerne uno a un dollaro e, avendovi praticato qualche foro col succhiello per farvi entrare almeno l’aria, ci potesse andare quando pioveva e di notte, chiudendo il coperchio, e in tal modo godendo della libertà dell’amore ed essendo liberi nell’anima. Questa non sembrava la peggiore, né assolutamente la più spregevole delle alternative. Potevate rimanere seduti anche fin tardi se lo desideravate e, ogniqualvolta vi alzavate, uscire senza un proprietario o un padrone di casa a tormentarvi per l’affitto. Molti uomini sono molestati fino alla morte per pagare l’affitto di una scatola più grande e più lussuosa, e non sarebbero morti di freddo in una scatola come quella. Non sto per nulla scherzando. L’economia è un argomento che si può trattare con leggerezza, ma a cui non si può rinunciare. Una volta si poteva costruire una casa comoda per una razza rude e forte, che viveva in gran parte all’aperto, quasi del tutto coi materiali forniti pronti dalla Natura. Gookin, che era sovrintendente ai sudditi indiani della colonia del Massachusetts, scrivendo nel 1674, dice: “Le migliori fra le loro case sono coperte in maniera molto ordinata, solida e calda, con cortecce d’albero, tagliate nella stagione in cui la linfa è più abbondante, facendone grandi scaglie, comprimendole con legna pesante quando sono verdi. [...] I tipi più ordinari sono coperti con stuoie fatte con una sorta di giunco, e sono anch’essi solidi e caldi, ma non buoni come il precedente. [...] Ne ho viste alcune lunghe sessanta o cento piedi, e larghe venti piedi. [...] Ho spesso dimorato nei loro wigwam, trovandoli caldi come le migliori case inglesi”. Aggiunge che nelle case vi erano tappeti ed erano tappezzate di stuoie ben lavorate e adornate, e fornite di vari utensili. Gli indiani erano talmente avanzati da saper temperare l’effetto del vento con una stuoia sospesa su un foro nel tetto, e mossa con una corda. Tale alloggio era inizialmente costruito in un giorno o due al massimo, e smontato e rimesso in piedi in poche ore; e ogni famiglia ne possedeva uno, o vi aveva i suoi appartamenti.

Nella condizione dei selvaggi, ogni famiglia possiede un riparo dei migliori, sufficiente per le necessità più rozze e semplici; ma io ritengo di parlare con cognizione di causa dicendo che, pur avendo gli uccelli dell’aria il loro nido, le volpi la loro tana e i selvaggi il loro wigwam, nella moderna società civile non più di metà delle famiglie possiede un riparo. Nei grandi paesi e città, dove più prevale la civiltà, il numero dei possessori di un riparo è una minuscola frazione della totalità. Per questo indumento esterno necessario a tutti, divenuto indispensabile d’estate e d’inverno, il resto delle persone paga una tassa annua con cui si potrebbe comprare un intero villaggio di wigwam indiani; ma al momento sembra convenire mantenerli in povertà per tutta la vita. Qui non intendo insistere sugli svantaggi dell’affitto rispetto a quelli della proprietà, ma è evidente che il selvaggio possiede il suo riparo perché costa poco, mentre l’uomo civile comunemente affitta il suo perché non può permettersi di possederlo; e neppure riesce, infine, a permetterselo più agevolmente. Però, mi risponde qualcuno, al solo prezzo di questa tassa l’uomo civile povero si assicura una dimora che è un palazzo rispetto a quella dei selvaggi. Una pigione annua da venticinque a cento dollari – questi sono i tassi del paese – gli dà diritto a beneficiare di avanzamenti secolari, di camere spaziose, con pareti ben dipinte e tappezzate, caminetti Rumford, montanti intonacati, veneziane alle finestre, pompe di rame, serrature a molla, una comoda cantina, e molte altre cose. Ma si dà il caso che colui che si dice goda di queste cose sia comunemente un uomo civile povero, mentre il selvaggio che non le ha è ricco, per un selvaggio! Se si afferma che la civiltà è un reale avanzamento nella condizione umana – e io ritengo che lo sia, sebbene solo i saggi sappiano migliorare i loro privilegi –, bisogna mostrare che ha prodotto abitazioni migliori senza renderle più costose; e il costo è l’ammontare di ciò che chiamerò vita, richiesta in cambio, immediatamente o in prospettiva. Una casa media in questo quartiere costa forse ottocento dollari, e per mettere da parte la somma ci vorranno da dieci a quindici anni della vita di un lavoratore, anche senza l’ingombro di una famiglia – stimando il valore pecuniario del lavoro di chiunque a un dollaro al giorno, perché se alcuni ricevono di più, altri ricevono di meno – cosicché deve aver trascorso più di metà della sua vita prima di potersi guadagnare un wigwam tutto suo. Se invece immaginiamo che paghi una pigione, questa non è che una dubbia scelta fra due mali. Sarebbe stato forse saggio il selvaggio che avesse scambiato il suo wigwam con un palazzo a queste condizioni?

Si può ritenere che io riduca quasi tutto il vantaggio di mantenere questa superflua proprietà a quello di un fondo di riserva per il futuro – per quanto riguarda l’individuo, soprattutto per garantire le spese dei funerali. Ma forse a un uomo non si dovrebbe chiedere di seppellire se stesso. Nondimeno, questo indica un’importante distinzione, quella fra l’uomo civilizzato e il selvaggio; senza dubbio, esistono progetti che vanno a nostro beneficio nel rendere la vita di un popolo civilizzato un’istituzione in cui assorbire in gran misura la vita dell’individuo, allo scopo di conservare e perfezionare quella della razza. Ma io desidero mostrare quale sia il sacrificio speso per questo vantaggio, e suggerire che potremmo forse vivere in modo da assicurarci tutto il vantaggio senza patire nulla dello svantaggio. Cosa intendete dicendo che i poveri li avete sempre con voi, o che i padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?

Finché vivo, dice Dio Signore, non avrete altre occasioni di usare questo proverbio in Israele.

Guarda, tutte le anime sono mie; come l’anima del padre, così anche l’anima del figlio è mia; l’anima che pecca morirà.

Quando considero i miei vicini, gli agricoltori di Concord, che sono ricchi almeno come le altre classi, scopro che in gran parte essi hanno faticato per venti, trenta o quarant’anni per diventare proprietari delle loro fattorie, solitamente ereditate con ipoteche, o altrimenti con soldi presi in prestito – e possiamo considerare un terzo di quelle fatiche come il costo della loro casa – ma solitamente non le hanno ancora finite di pagare. È vero che talora i gravami superano il valore della fattoria, cosicché la fattoria stessa diviene un grosso peso, eppure ci si dice di averla ereditata sapendolo bene. Chiedendo a dei periti, ho avuto la sorpresa di apprendere che non saprebbero di primo acchito nominare una dozzina di persone in città che posseggano fattorie libere da vincoli. Se volete sapere la storia di queste tenute, chiedete alla banca che ne tiene l’ipoteca. L’uomo che ha effettivamente pagato la sua fattoria avendola lavorata è così raro che tutti i suoi vicini ve lo saprebbero indicare. Dubito che ve ne siano tre a Concord. Quanto si dice dei mercanti – che la stragrande maggioranza, forse perfino novantasette su cento, è certa di andare fallita – è ugualmente vero degli agricoltori. Quanto ai mercanti, tuttavia, uno di loro dice opportunamente che in gran parte i loro fallimenti non sono genuini fallimenti pecuniari, ma solo incapacità di soddisfare gli impegni presi, in quanto non convenienti; cioè, è il carattere morale che si spezza. Ma questo conferisce alla faccenda un aspetto infinitamente peggiore, e inoltre suggerisce che probabilmente neppure gli altri tre riescano a salvarsi l’anima, ma forse fanno bancarotta in un senso peggiore di coloro che falliscono onestamente. La bancarotta e il rifiuto di pagare i debiti sono le pedane su cui molto della nostra civiltà volteggia e fa i salti mortali, mentre il selvaggio sta fermo sulla tavola anelastica della carestia. Eppure la Fiera del bestiame del Middlesex esplode ogni anno con éclat, come se tutte le giunture della macchina agricola combaciassero a perfezione.

L’agricoltore si sforza di risolvere il problema di guadagnarsi da vivere con una formula più complicata del problema stesso. Per comprarsi i lacci delle scarpe, specula in mandrie di bestiame. Con abilità consumata ha preparato il cappio della sua trappola per afferrare comodità e indipendenza, e poi, nel voltarsi, ci infila la gamba. Questa è la ragione per cui è povero; e per una ragione simile, per quanto circondati dal lusso, siamo tutti poveri rispetto alle mille comodità dei selvaggi. Come canta Chapman:

La falsa società degli uomini –
– per la grandezza terrena
Ogni celeste conforto dissolve in aria.

E quando l’agricoltore ha ottenuto una casa, può darsi che non sia diventato più ricco ma bensì più povero, e che sia la casa ad aver preso lui. Per quanto capisco, questa è la valida obiezione sollevata da Momo sulla casa costruita da Minerva, dicendo che “non l’aveva resa mobile, nel senso di evitare un brutto quartiere”; e la si può sollevare ancora, perché le nostre case sono proprietà così rigide che spesso vi siamo imprigionati piuttosto che alloggiati; e il brutto quartiere da evitare siamo noi stessi con il nostro scorbuto. Conosco almeno una o due famiglie in questa città che, per quasi una generazione, hanno desiderato vendere la loro casa in periferia per trasferirsi al centro, ma non vi sono riusciti, e solo la morte li libererà.

D’accordo, la maggioranza è in grado di possedere o affittare, infine, una casa moderna con tutti i suoi conforti. Mentre la civiltà ci ha migliorato le case, non ha ugualmente migliorato gli uomini destinati ad abitarle. Ha creato palazzi, ma non è stato così facile creare nobili e re. E se le mete perseguite dall’uomo civile non sono più degne di quelle del selvaggio, se quest’ultimo impiega gran parte della sua vita a ottenere solamente le necessità e le comodità più grossolane, perché mai dovrebbe avere una dimora migliore del primo?

Ma come vanno le cose per la minoranza povera? Forse si scoprirà che nell’esatta proporzione con cui, nelle circostanze esteriori, alcuni sono stati posti al di sopra dei selvaggi, altri sono stati degradati al di sotto. Il lusso di una classe è controbilanciato dall’indigenza di un’altra. Da un lato vi è il palazzo, dall’altra l’ospizio e il “povero silenzioso”. Le miriadi che hanno costruito le piramidi perché fossero tombe dei faraoni erano nutrite d’aglio, e forse non ricevevano una decente sepoltura a loro volta. Il muratore, una volta terminato il cornicione di un palazzo, la sera forse torna in una capanna che non vale neppure un wigwam. È un errore supporre che, in un paese che esibisce le solite prove dell’esistenza della civiltà, la condizione di una grossa parte di abitanti non sia degradata come quella dei selvaggi. Per ora mi riferirò ai poveri degradati, non ai ricchi degradati. Per riconoscerli non devo guardare oltre le baracche che costeggiano le nostre ferrovie, il massimo avanzamento della civiltà, dove vedo nelle mie camminate giornaliere esseri umani che abitano in stie, con la porta aperta tutto l’inverno per avere luce, senza che si veda o si immagini alcuna legna, e le forme dei vecchi come dei giovani si rattrappiscono in permanenza per la prolungata abitudine a rannicchiarsi dal freddo e dalla miseria, e lo sviluppo di tutte le membra e facoltà ne è bloccato. È senz’altro giusto osservare la classe col cui lavoro si compiono le opere che contraddistinguono questa generazione. Tale, in misura maggiore o minore, è anche la condizione degli operai di tutti i tipi in Inghilterra, che è la grande officina del mondo. O potrei far riferimento all’Irlanda, che è segnata sulle mappe fra i luoghi bianchi, illuminati come le aree inesplorate. Si metta a confronto la condizione fisica degli irlandesi con quella degli indiani del Nordamerica, o con gli abitanti delle isole dei Mari del Sud, o con ogni altra razza selvaggia prima che si degradasse per il contatto con l’uomo civilizzato. Eppure non ho dubbi che i governanti di quel popolo siano altrettanto saggi della media dei governanti civilizzati. La loro condizione dimostra soltanto che lo squallore può coesistere con la civiltà. Ora, non ho quasi bisogno di far riferimento ai lavoratori dei nostri stati del Sud che producono le materie da esportazione di questo paese, e che sono essi stessi una materia prima del Sud. Mi limiterò a quelli che si dice siano in circostanze moderate.

Quasi tutti gli uomini sembrano non aver mai considerato cosa sia una casa, e restano effettivamente anche se inutilmente poveri per tutta la vita, perché pensano di doverne avere una come quella dei loro vicini. Come se si dovesse indossare qualunque tipo di giacca che il sarto abbia tagliato, o, avendo gradualmente abbandonato il cappello di foglie di palma o il berretto di pelle di marmotta, ci si dovesse lamentare dei tempi difficili perché non ci si è potuto permettere di comprare una corona! È possibile inventare una casa ancor più conveniente e lussuosa di quelle che abbiamo, e tutti ammetterebbero di non potersi permettere di pagarla. Dovremo sempre studiare per ottenere più cose del genere, e non accontentarci, qualche volta, di meno? Dovrà il cittadino rispettabile dunque insegnare con gravità, col precetto e con l’esempio, la necessità che il giovane fornisca prima di morire un certo numero di galosce e ombrelli, e camere degli ospiti vuote per ospiti vuoti? Perché i nostri mobili non dovrebbero essere semplici come quelli di arabi e indiani? Quando penso ai benefattori dell’umanità, che destiniamo all’apoteosi come messaggeri del cielo, portatori di doni divini per l’uomo, nella mia mente non vedo un seguito di servitori alle loro calcagna, o carrozze cariche di mobili alla moda. Oppure: e se io concedessi – non sarebbe una concessione singolare? Che i nostri mobili fossero più complessi di quelli dell’arabo, se anche gli fossimo superiori moralmente e intellettualmente! Al momento le nostre case ne sono ingombrate e imbruttite, e la buona casalinga ne spazzerebbe via la gran parte nello scarico, per non lasciare a metà il suo lavoro mattutino. Il lavoro mattutino! Per i rossori di Aurora e per la musica di Memnone, quale dovrebbe essere il lavoro mattutino dell’uomo su questa terra? Avevo tre pezzi di calcare sul mio scrittoio, ma fui terrorizzato scoprendo di doverli spolverare quotidianamente, mentre il mobilio della mia mente era ancora privo di polvere, e li gettai disgustato fuori dalla finestra. Come avrei potuto, allora, avere una casa ammobiliata? Preferirei stare seduto all’aria aperta, perché sull’erba non si raccoglie la polvere, a meno che l’uomo non abbia arato il terreno.

Sono i dissipati dai gusti lussuosi a stabilire le mode che il gregge segue con tanta diligenza. Il viaggiatore che fa tappa nelle cosiddette case migliori, lo scopre presto, poiché i pubblicani presumono che sia un Sardanapalo, e se si consegnasse alla loro tenera misericordia, sarebbe presto del tutto svirilizzato. Credo che nella carrozza ferroviaria tendiamo a spendere più nel lusso che nella sicurezza e nella convenienza, senza ottenerle, ed essa minaccia di diventare niente più di un moderno salotto, con divani, ottomane e tendine, e cento altre cose orientali, che portiamo nell’Occidente insieme a noi, inventate per le signore dell’harem e per gli effeminati nativi dell’Impero celeste – cose di cui Jonathan l’Americano dovrebbe vergognarsi di conoscere il nome. Preferirei stare seduto su una zucca, e averla tutta per me, che stare in mezzo a una folla su un cuscino di velluto. Preferirei percorrere la terra su un carro trainato dai buoi, ma con libertà di circolazione, che andare in paradiso sulla carrozza di lusso di un treno da escursione, e respirare malaria per tutto il viaggio.

La stessa semplicità e nudità della vita umana nelle epoche primitive implicano almeno questo vantaggio, che gli hanno permesso di continuare a soggiornare nella Natura. Quando si era rinvigorito con cibo e sonno, egli contemplava nuovamente il suo viaggio. Una volta dimorava, per così dire, in una tenda su questo mondo, e superava sempre le valli, o attraversava le pianure, o scalava le cime delle montagne. Ma, guardate! Gli uomini sono diventati gli strumenti dei loro strumenti. L’uomo indipendente che raccoglieva i frutti quando aveva fame è diventato un contadino; e colui che si fermava sotto un albero per trovare un riparo è diventato casalingo. Adesso non ci accampiamo più per la notte, bensì ci siamo fermati sulla terra dimenticando il cielo. Abbiamo adottato il cristianesimo semplicemente come metodo avanzato di agri-cultura. Abbiamo costruito un palazzo di famiglia per questo mondo, e una tomba di famiglia per l’altro. Le migliori opere d’arte sono espressione della lotta dell’uomo per liberarsi da questa condizione, ma l’effetto della nostra arte è semplicemente di renderci confortevole questo stato inferiore, e di farci dimenticare quello superiore. In questo villaggio non ci sarebbe proprio alcun posto per un’opera di bella arte che dovesse giungere fra noi, perché le nostre vite, le nostre case e strade non ci forniscono un piedistallo appropriato. Non c’è un chiodo per appenderci un quadro, né uno scaffale per ricevere il busto di un eroe o di un santo. Quando considero come sono costruite e pagate, o non pagate, le nostre case, e come si gestisce e si sostiene la loro economia interna, mi meraviglio che il pavimento non inghiottisca il visitatore mentre ammira i fronzoli sulla base del caminetto, per farlo arrivare in cantina, fino alle fondamenta solide e oneste, pur se fatte di terra. Non posso non percepire che questa cosiddetta vita ricca e raffinata sia una cosa colta al volo con un balzo, e non proseguo nel godimento delle belle arti che l’adornano, essendo la mia attenzione completamente occupata dal balzo; perché rammento che il più grande vero balzo che si ricordi, dovuto solo ai muscoli umani, è quello di certi arabi vagabondi, che si dice abbiano superato venticinque piedi su terreno piano. Senza sostegno fittizio, l’uomo è certo di tornare a terra oltre quella distanza. La prima domanda che sono tentato di porre al proprietario di tale improprietà è: cos’è che ti dà forza? Sei uno dei novantasette falliti? O dei tre che hanno avuto successo? Rispondi a queste domande, e poi forse potrò guardare i tuoi fronzoli e li troverò ornamentali. Mettere il carro davanti ai buoi non è bello né utile. Prima di adornare la nostra casa con oggetti di bellezza bisogna spogliare le pareti, e bisogna spogliare la nostra vita, e porre a fondamenta un buon governo della casa e una bella vita: ora, il gusto del bello si coltiva meglio all’aperto, dove non esiste casa o governante.

Il vecchio Johnson, nel suo Wonder-Working Providence, parlando dei primi coloni di questa città, di cui era contemporaneo, ci dice che “essi si rintanarono nella terra sotto una collina per trovare un primo riparo e, ammucchiando terra sopra del legname, accesero un fumoso fuoco contro il terreno, dal lato più alto”. Non “provvidero alle case”, dice, “finché la terra, per misericordia divina, non generò pane per nutrirli”, e il raccolto del primo anno fu così scarso che “furono costretti a mangiare fette di pane sottilissime, per tutta quella lunga stagione”. Il segretario della provincia della Nuova Olanda, scrivendo in olandese nel 1650, per informare chi desiderava procurarsi della terra, afferma più specificamente che “chi nella Nuova Olanda, e specialmente nella Nuova Inghilterra, non ha mezzi per costruirsi subito delle case coloniche come vorrebbe, scava una fossa quadrata nel terreno, a mo’ di cantina, profonda sei o sette piedi, lunga e larga come sembra opportuno, puntella la terra dall’interno ponendo legna intorno alle pareti, e circonda la legna con corteccia d’alberi o altro per evitare che la terra frani; dà a questa cantina un pavimento d’assi, e un rivestimento in alto per fare il soffitto, innalza un tetto di tavole, e le ricopre con corteccia o zolle verdi, così da vivere in queste case all’asciutto e al caldo con tutta la famiglia per due, tre, o quattro anni – s’intende creando divisioni attraverso queste cantine, idonee alla dimensione della famiglia. I ricchi e i notabili della Nuova Inghilterra, al principio delle colonie, cominciarono così le loro abitazioni, per due ragioni: primo, per non sprecar tempo nella costruzione, e non trovarsi senza mangiare la stagione seguente; secondo, per non scoraggiare i lavoranti poveri portati in massa dalla madrepatria. Nel corso di tre o quattro anni, quando il paese era diventato idoneo all’agricoltura, si costruirono belle case, spendendo parecchie migliaia di dollari”.

Nel corso preso dai nostri antenati, si manifestava almeno prudenza, come se il loro principio fosse di soddisfare innanzitutto le necessità più pressanti. Ma sono soddisfatte le necessità più pressanti adesso? Quando penso di acquistare una delle nostre lussuose dimore, me ne ritraggo, perché, per così dire, il paese non si è ancora adattato alla cultura umana, e siamo ancora costretti a tagliare il nostro pane spirituale in fette ancor più sottili di quanto fecero i nostri antenati coi loro cereali. Non che ogni ornamento architettonico vada trascurato, anche nei periodi più duri; ma facciamo sì che le nostre case siano prima tappezzate di bellezza, là dove vengano in contatto con la nostra vita, come la conchiglia in cui alloggia il mollusco, e non ne siano sovraccariche. Ma, ahimè, sono entrato in una o due di esse, so di cosa sono tappezzate.

Sebbene non siamo degenerati al punto da vivere oggi in una caverna o in un wigwam, o da vestirci di pelli, è senz’altro meglio accettare i vantaggi, pur se comprati a così caro prezzo, offerti dall’invenzione e dall’industriosità del genere umano. In un quartiere come questo, le assi e le traverse, la calce e i mattoni sono più economici e si ottengono più facilmente di caverne idonee, tronchi interi o sufficienti quantità di corteccia, o perfino di argilla ben cotta o pietre piatte. Parlo con competenza dell’argomento, perché l’ho voluto conoscere nella teoria e nella pratica. Con un po’ più di intelligenza potremmo usare questi materiali per diventare più ricchi dei più ricchi d’oggi, e trasformare la nostra civiltà in una benedizione. L’uomo civilizzato è un selvaggio più esperto e più saggio. Ma affrettiamoci a parlare del mio esperimento.

Verso la fine del marzo 1845, presi in prestito un’ascia e mi diressi nei boschi presso il Lago di Walden, vicino al luogo dove intendevo costruirmi la casa, e cominciai a tagliare dei pini bianchi, alti, appuntiti e ancora giovani, per ricavarne legname. È difficile dare inizio a qualcosa senza prendere nulla in prestito, ma forse è la maniera più generosa, che permette al prossimo di avere un interesse nella vostra impresa. Il proprietario dell’ascia, mentre me la lasciava, disse che era la pupilla dei suoi occhi; ma io la restituii più affilata di come l’avessi ricevuta. Dove lavorai era il piacevole pendio di un colle, coperto di pinete, oltre le quali vedevo il lago, e un piccolo campo aperto fra i boschi dove spuntavano pini e noci. Non si era ancora sciolto il ghiaccio nel lago, anche se c’erano spazi aperti, e tutto era scuro e saturo d’acqua. Ci fu qualche leggero fiocco di neve durante le giornate in cui vi lavorai; ma per lo più quando arrivavo alla ferrovia, tornando a casa, mucchi gialli di sabbia si stendevano luccicanti nell’aria nebbiosa, e i binari brillavano alla luce della primavera, e sentivo l’allodola, la pavoncella e altri uccelli già arrivati a cominciare un altro anno con noi. Erano piacevoli giornate di primavera, in cui il disgelo scioglieva la terra e l’inverno dello scontento umano, e la vita che si era stesa torpida cominciava a stiracchiarsi. Un giorno, quando l’ascia mi era uscita dal manico e avevo tagliato un cuneo da un noce verde battendolo con una pietra, e avevo posto tutto quanto a inumidirsi nello stagno per gonfiare il legno, vidi un serpente striato correre nell’acqua e fermarsi sul fondo, in apparenza senza problemi, per tutto il tempo in cui stetti lì, per più di un quarto d’ora; forse perché non era del tutto uscito dal torpore. Mi sembrò che per un motivo simile gli uomini restano nella loro attuale condizione inferiore e primitiva; ma se sentissero l’influsso della primavera delle primavere a scuoterli, ascenderebbero necessariamente a una vita superiore, più eterea. Avevo già visto serpenti sul mio cammino, nelle mattine di gelo, con parti del loro corpo ancora intorpidite e irrigidite, in attesa del sole e del disgelo. Il primo aprile la pioggia sciolse il ghiaccio, e mentre iniziava una giornata di nebbia, sentii un’oca solitaria che si avventurava sullo stagno, schiamazzando come se si fosse perduta, o come se fosse lo spirito della nebbia.

Continuai così per alcuni giorni, abbattendo e tagliando legna, e anche montanti e travi, tutti con la mia ascia sottile, senza molti pensieri comunicabili o eruditi, cantando da solo:

Gli uomini dicono di sapere tante cose;
Ma guarda! hanno messo le ali,
Le arti e le scienze,
E mille applicazioni;
Il vento che soffia
È ciò che tutti sanno.

Tagliai le travi principali spesse sei pollici, con la maggior parte dei montanti su due lati soltanto, e le assi e le altre tavole per il pavimento da un lato, lasciando il resto della corteccia, così da essere diritti come gli alberi segati, e molto più forti. Ciascun ceppo fu attentamente incastrato con mortasa e tenone, perché stavolta avevo preso in prestito altri arnesi. Le mie giornate nei boschi non erano lunghe; ma di solito mi portavo un pranzo di pane e burro, e leggevo il giornale in cui era avvolto, a mezzogiorno, seduto fra i rami di pino verde che avevo tagliato, e al mio pane si impartiva parte di quella fragranza, perché le mie mani erano coperte da una spessa coltre di resina. Prima di aver finito, ero più amico che nemico dei pini, pur avendone abbattuti alcuni, ma avendoli conosciuti meglio. Talvolta qualcuno, vagando nel bosco, era attratto dal suono della mia ascia, e chiacchieravamo piacevolmente fra le schegge che avevo prodotto.

A metà aprile – perché non mettevo fretta al mio lavoro, ma piuttosto cercavo di goderlo il più possibile – l’intelaiatura della mia casa fu pronta per essere innalzata. Avevo già comprato la baracca di James Collins, un irlandese che lavorava per la ferrovia di Fitchburg, per ricavarne assi. La baracca di James Collins era considerata insolitamente ben fatta. Non era in casa quando lo chiamai per vederla. Mi incamminai al di fuori, dapprima senza essere visto dall’interno, per quanto era spessa e alta la finestra. Era di piccole dimensioni, col tetto a punta, come un cottage, e non c’era molto altro da vedere, coi rifiuti che la circondavano, alti cinque piedi come un mucchio di concime. Il tetto era la parte più solida, sebbene alquanto sbilenco e consumato dal sole. Non c’era una soglia, ma c’era un passaggio perenne per le galline sotto l’asse della porta. La signora C. venne all’uscio e mi disse di guardare all’interno. Mentre mi avvicinavo, entrarono le galline. Era buio, quasi tutto coperto da uno sporco pavimento, umido, viscido e malaticcio, e solo qua e là c’era un’asse ben piantata. Accese un lume per mostrarmi l’interno del tetto e delle pareti, e anche che le tavole del pavimento continuavano sotto il letto, avvisandomi di non inoltrarmi nella cantina, una sorta di fosso profondo due piedi. In parole sue, erano “buone assi in alto, buone assi tutt’intorno, e una buona finestra”; fatta di due quadrati in origine; solo la gatta ne era uscita di recente. C’era una stufa, un letto, e un posto per sedersi, un bimbo che vi era nato, un parasole di seta, uno specchio dalla cornice dorata, e un macinino da caffè nuovo di zecca, appeso a un rametto di quercia, e questo era tutto. Si concluse presto l’acquisto, perché James nel frattempo era tornato. Io dovevo pagare quattro dollari e venticinque centesimi la sera stessa, lui svuotarla alle cinque di mattina l’indomani, senza venderla a nessun altro nel frattempo: io ne avrei preso possesso alle sei. Sarebbe stato bene, disse lui, esserci presto, per anticipare certe pretese, vaghe e del tutto ingiustificate, sull’affitto del terreno e del combustibile. Mi assicurò che questo era l’unico vincolo. Alle sei incontrai lui e la sua famiglia sulla strada. Un grosso fagotto conteneva tutto ciò che avevano – letto, macinino, specchio, galline –, tutto tranne la gatta, che fuggì nei boschi e divenne una gatta selvatica e, come appresi in seguito, si infilò in una trappola per marmotte, e così alla fine divenne una gatta morta.

Abbattei l’abitazione la mattina stessa, estraendone i chiodi, e la trasportai accanto al lago un po’ alla volta con un carretto, disponendo le tavole sull’erba perché al sole si asciugassero e riprendessero la loro forma. Un tordo mattiniero mi cantò una nota o due mentre procedevo sul sentiero nel bosco. Fui informato furtivamente da un giovane irlandese che il vicino Seeley, suo compatriota, mentre ero via, trasferiva i chiodi ancora in condizioni tollerabili, diritti e utilizzabili, i ganci e le punte di ferro nelle proprie tasche, e poi restava a passare la giornata con me, e guardava riposato la devastazione, disinteressato e con pensieri primaverili, essendoci scarso lavoro, come disse lui. Era lì a rappresentare lo spettatore, e contribuì a fare di questo evento apparentemente insignificante uno all’altezza della rimozione degli dei di Troia.

Mi scavai la cantina sul fianco di una collina rivolta a sud, dove una marmotta si era in precedenza scavata la tana, attraverso radici di sommacco, di more e attraverso la più bassa chiazza di vegetazione, sei piedi quadrati e profonda sette, raggiungendo una sabbia fine, dove le patate non si sarebbero congelate neppure con l’inverno peggiore. Lasciai i lati in pendenza, senza ricoprirli di pietra; ma non essendo mai stata colpita dal sole, la sabbia è tuttora al suo posto. Non fu che il lavoro di due ore. Questa rottura del terreno mi diede particolare piacere, perché in quasi tutte le latitudini gli uomini scavano la terra alla ricerca di una temperatura costante. Sotto la più splendida casa di città si trova ancora la cantina dove si conservano le radici, come una volta, e molto tempo dopo la scomparsa della sovrastruttura, la posterità ne osserva la presa sulla terra. Ancora la casa non è che la veranda all’entrata di una tana.

Col passar del tempo, all’inizio di maggio, con l’aiuto di alcuni conoscenti, più per migliorare, in un’occasione così buona, lo spirito di buon vicinato che per necessità, tirai su l’intelaiatura della casa. Nessuno mai fu più onorato di me dal carattere dei propri muratori. Erano destinati, ne sono certo, ad assistere un giorno al sorgere di strutture ben più nobili. Cominciai a occupare la casa il 4 luglio, non appena ebbe pavimento e tetto, perché le tavole furono attentamente laccate e sovrapposte, in modo da essere perfettamente resistenti alla pioggia; ma prima di disporre le tavole, preparai su un lato la base del camino, portando con le braccia dal lago due carrettate di pietre su per la collina. Costruii il camino dopo la zappatura autunnale, prima che il fuoco diventasse necessario a riscaldarmi, cuocendo nel frattempo all’aperto, per terra, la mattina presto: ritengo ancora che questo modo sia sotto molti aspetti più conveniente e gradevole di quello solito. Quando pioveva prima che fosse cotto il pane, fissavo qualche tavola sopra il fuoco, e mi sedevo sotto di esse a tener d’occhio la mia pagnotta, trascorrendo così delle ore piacevoli. Leggevo poco, ma i pochi ritagli di carta che stavano a terra, che mi facevano da fagotto e tovaglia, mi intrattennero molto, e infatti risposero allo stesso scopo dell’Iliade.

Varrebbe la pena costruire con volontà ancor maggiore della mia, se si considera per esempio quale importanza hanno nella natura umana una porta, una finestra, una cantina, una soffitta, e non alzando forse mai alcuna sovrastruttura finché non troviamo un motivo migliore delle nostre necessità terrene. C’è un po’ della stessa attitudine nell’uomo che si costruisce la casa e nell’uccello che si costruisce il nido. Chissà, se gli uomini si costruissero le abitazioni con le loro mani, e provvedessero al cibo per sé e per la famiglia con sufficiente onestà e semplicità, non si svilupperebbe universalmente la facoltà poetica, come gli uccelli che cantano universalmente mentre sono così impegnati? Ma, ahimè!, facciamo come il molotro e il cuculo, che depongono le uova nei nidi costruiti da altri uccelli, senza rallegrare il viaggiatore con le loro note ciarliere e prive di musicalità. Dovremo lasciare al falegname il piacere della costruzione? Quanto conta l’architettura nell’esperienza della massa degli uomini? Mai, in tutte le mie passeggiate, mi sono imbattuto in un uomo impegnato in un’occupazione semplice e naturale come la costruzione della propria casa. Noi apparteniamo alla comunità. Non è solo il sarto a essere la nona parte di un uomo: altrettanto vale per il predicatore, il mercante e il contadino. Dove finirà questa divisione del lavoro? E a quale obiettivo ultimo serve? Senza dubbio, un altro può anche pensare al mio posto; ma non è desiderabile che ciò avvenga escludendo che lo faccia io.

È vero, ci sono cosiddetti architetti in questo paese, e ho sentito dire che almeno uno è mosso dall’idea di creare ornamenti architettonici che abbiano un centro di verità, una necessità, e dunque una bellezza – a lui sembrò una rivelazione. Da riformatore sentimentale dell’architettura, cominciò dal cornicione, non dalle fondamenta. Si trattava solo di porre un centro di verità dentro gli ornamenti, come ogni prugna caramellata ha dentro di sé un seme di mandorla o di cumino – sebbene io ritenga che le mandorle siano più salutari senza zucchero – e non si trattava di come l’abitante, il dimorante, può costruire veramente dentro e fuori di sé, lasciando che gli ornamenti badino a se stessi. Quale uomo ragionevole ha mai supposto che gli ornamenti fossero qualcosa di puramente esteriore ed epidermico, che la tartaruga abbia il suo guscio punteggiato, o il mollusco le sue tinte di madreperla con un contratto simile a quello degli abitanti di Broadway per la Trinity Church? Ma un uomo ha a che fare con lo stile architettonico della sua casa come la tartaruga col suo guscio: né deve il soldato essere così pigro da cercare di dipingere l’esatto colore della sua virtù sul proprio stendardo. Lo scoprirà il nemico. Potrà impallidire quando arriva la prova suprema. Quest’uomo mi sembrava sporgersi dal cornicione, sussurrando timoroso la sua mezza verità ai rozzi occupanti che in realtà ne sapevano più di lui. Ogni bellezza architettonica che vedo ora, so che è cresciuta gradualmente dall’interno verso l’esterno, dalle necessità e dal carattere dell’inquilino, che è l’unico costruttore, a partire da una sincerità e nobiltà inconsapevole, senza la minima preoccupazione per l’apparenza; e ogniqualvolta si destina alla produzione una bellezza accessoria di questo tipo, essa sarà prodotta da una bellezza della vita ugualmente inconsapevole. Le dimore più interessanti di questo paese, come sanno i pittori, sono le meno pretenziose, solitamente umili capanne di tronchi e cottage per poveri; è la vita degli abitanti di cui sono il guscio, e non semplicemente le peculiarità della loro superficie, a renderle pittoresche; e ugualmente interessante sarà la scatola suburbana del cittadino, quando la sua vita sarà altrettanto semplice e gradevole per l’immaginazione, e con poco sforzo di ricerca dell’effetto nello stile dell’abitazione. Una gran quantità di ornamenti architettonici sono letteralmente vuoti, e una brezza settembrina li spazzerebbe via, come piume prese a prestito, senza danno per la sostanza. Chi non ha olive o vino in cantina può fare a meno dell’architettura. E se si facesse lo stesso trambusto per gli ornamenti stilistici della letteratura, e se gli architetti delle nostre Bibbie spendessero per le loro cornici lo stesso tempo degli architetti per le nostre chiese? Così sono fatte le belles-lettres e le beauxarts, e i loro professori. Davvero una gran preoccupazione per un uomo, sapere quanto sia inclinata qualche trave sopra o sotto di lui, e di quali colori sia dipinta la sua scatola. Significherebbero qualcosa se, in qualsiasi senso degno di considerazione, fosse stato lui a inclinarle e a passare il colore; ma quando lo spirito abbandona il suo ospite, è come costruirsi la propria bara – l’architettura della tomba – e “falegname” non è che un sinonimo di “fabbricante di bare”. Dice un uomo, per disperazione o indifferenza verso la vita: “Raccogli una manciata di terra ai tuoi piedi, e dipingiti la casa di quel colore”. Sta pensando alla sua stretta, ultima abitazione? Anche in questo caso, lanciamo un centesimo di rame e scopriamolo. Quanto tempo libero deve avere! Perché raccogliere una manciata di sporcizia? Meglio dipingervi la casa col vostro colorito; che impallidisca o arrossisca insieme a voi. Un’impresa che migliorerebbe lo stile architettonico dei cottage! Quando i miei ornamenti saranno pronti, li indosserò.

Prima dell’inverno costruii il camino, e rivestii i lati della mia casa, che erano già protetti dalla pioggia, con tavole imperfette e ricche di linfa, fatte col primo taglio del ceppo, dopo averne dovuto pareggiare i margini con la pialla.

Ho dunque una casa solida, rivestita e intonacata, larga dieci piedi e lunga quindici, con montanti di otto piedi, una soffitta e un ripostiglio, una finestra grande su ogni lato, due botole, una porta sul fondo, e un caminetto di mattoni di fronte. Il costo esatto della mia casa, pagando il normale prezzo per i materiali usati, ma non contando la manodopera, a cui ho provveduto da me, fu come segue; e ne do i particolari perché pochi sono in grado di dire esattamente quanto costi la loro casa, e ancora meno – se pur ne esistono – possono dare il costo singolo dei vari materiali che la compongono:

Assi

$ 8,03½

– Per lo più provenienti dalla capanna

Tavole di scarto per il tetto e i lati

4,00

Listelli

1,25

Due finestre di seconda mano, con vetri

2,43

1000 mattoni vecchi

4,00

Due casse di calce

   2,40 –

Troppo cara
Crine

   0,31 –

Più del necessario
Supporto per il camino

0,15

Chiodi

3,90

Cardini e viti

0,14

Catenaccio

0,10

Gesso

0,01

Trasporto

   1,40 –

In gran parte portati a spalla
In tutto

 $ 28,12½

Questi sono tutti i materiali, tranne la legna, le pietre e la sabbia, che ho fatto mie per diritto di occupazione. Ho anche una piccola baracca annessa, fatta per lo più con la roba avanzata dopo aver costruito la casa.

Intendo costruirmi una casa che sorpasserà tutte le altre sul corso di Concord, per grandiosità e per lusso, non appena ne avrò voglia e se non mi costerà più di questa.

Scoprii così che lo studente che desideri un riparo può ottenerne uno che dura una vita con una spesa non maggiore della pigione annua che paga adesso. Se sembro vantarmi più del giusto, la mia scusa è che mi vanto a nome dell’umanità piuttosto che a mio nome soltanto; e le mie mancanze e incoerenze non toccano la verità della mia affermazione. Nonostante tante banalità e ipocrisie – la crusca che trovo difficile separare dal mio grano, ma per cui sono spiacente come tutti gli altri – mi farò avanti per esprimermi liberamente sull’argomento, tale è il sollievo che ciò porta al sistema morale e fisico; e sono deciso a non diventare l’avvocato del diavolo per via dell’umiltà. Mi sforzerò di pronunciare una buona parola in favore della verità. Allo Harvard College di Cambridge, solo l’affitto della stanza di uno studente, poco più grande della mia, è di trenta dollari l’anno, sebbene la corporazione abbia avuto il vantaggio di costruirne trentadue una in fila all’altra sotto lo stesso tetto, e l’inquilino patisca l’inconveniente di avere molti vicini rumorosi, e forse gli capiti di risiedere al quarto piano. Non posso non pensare che se avessimo più vera saggezza a tal proposito, non solo servirebbe meno istruzione perché, in effetti, ne sarebbe stata già acquisita a sufficienza, ma la spesa pecuniaria per farsi un’istruzione svanirebbe in gran misura. Quei servizi richiesti dallo studente, a Cambridge o altrove, costano a lui o a qualcun altro un sacrificio dieci volte maggiore di quanto avverrebbe con un’appropriata amministrazione da ambo le parti. Quelle cose per cui si esigono più soldi non sono mai quelle che più mancano allo studente. La retta, per esempio, è una voce importante nella fattura dell’anno accademico, mentre non si fa pagare l’istruzione – dal valore molto maggiore – ottenuta frequentando i più colti fra i suoi coetanei. Il modo di finanziare un college è, normalmente, quello di racimolare una sottoscrizione in dollari e centesimi, seguendo poi ciecamente e fino all’estremo il principio della divisione del lavoro, un principio da non seguire mai se non con circospezione – chiamare un appaltatore che ne fa un’occasione di speculazione, e impiega irlandesi o altri operai per disporne materialmente le fondamenta, mentre gli studenti che verranno dovranno adattarvisi; e per questa trascuratezza dovranno pagare le generazioni successive. Penso che sarebbe meglio di così, per lo studente o per coloro che desiderano riceverne beneficio, disporre le fondamenta loro stessi. Lo studente che si assicura il desiderato isolamento e tempo libero sfuggendo sistematicamente a qualsiasi fatica necessaria all’uomo, si defrauda dell’unica esperienza che può rendere fruttuoso il suo tempo libero. “Ma,” dice uno, “non intenderai che gli studenti dovrebbero andare a lavorare con le mani e non con la testa?” Non intendo esattamente questo, ma intendo qualcosa che si potrebbe ritenere molto simile; intendo che non dovrebbero giocare alla vita, o semplicemente studiarla, mentre la comunità li sostiene in questo costoso gioco, ma dovrebbero viverla con avidità, dall’inizio alla fine. Come potrebbero imparare a vivere i giovani meglio che tentando subito l’esperimento del vivere? Ritengo che questo eserciterebbe la loro mente quanto la matematica. Se desiderassi che un ragazzo sapesse qualcosa sulle arti e sulle scienze, per esempio, non perseguirei il corso comune, ovvero di mandarlo semplicemente nelle vicinanze di qualche professore, dove si professa e si pratica tutto tranne l’arte della vita: scrutare il mondo attraverso un telescopio o un microscopio, e mai attraverso l’occhio naturale; studiare la chimica, e non imparare come si fa il pane; o la meccanica, e non imparare come lo si guadagna; scoprire nuovi satelliti di Nettuno, e non accorgersi dei granelli nel proprio occhio, o di quale astro vagante lui stesso sia un satellite; o essere divorato dai mostri che gli sciamano tutt’intorno, mentre contempla i mostri in una goccia d’aceto. Chi sarebbe avanzato maggiormente alla fine del mese, il ragazzo che si è fatto un coltello dal minerale che ha scavato e fuso, leggendo il necessario per farlo, o il ragazzo che nel frattempo ha frequentato le lezioni di metallurgia all’Istituto Lowell, e ha ricevuto un temperino Rodgers da suo padre? Chi avrebbe avuto più probabilità di tagliarsi le dita? Con grande stupore fui informato, lasciando il college, di aver studiato navigazione! Ne avrei saputo di più facendomi un giro al porto. Anche allo studente povero si insegna e viene fatta studiare solo l’economia politica, mentre quell’economia del vivere che è sinonimo di filosofia non è neppure insegnata con sincerità nei nostri college. La conseguenza è che, mentre legge Adam Smith, Ricardo e Say, trascina irrimediabilmente suo padre nei debiti.

Come i nostri college, lo stesso vale per cento “avanzamenti moderni”; c’è un’illusione che li riguarda; non c’è sempre un vero miglioramento. Il diavolo continua a esigere interessi composti fino all’ultimo per la sua quota iniziale e i numerosi successivi investimenti. Le nostre invenzioni sono normalmente dei bei giocattoli, che distraggono la nostra attenzione dalle cose serie. Non sono che mezzi avanzati per un fine arretrato, un fine che sin dall’inizio era troppo facile da raggiungere; come le ferrovie che portano da Boston a New York. Abbiamo una gran fretta di costruire un telegrafo magnetico dal Maine al Texas; ma può darsi che il Maine e il Texas non abbiano nulla di importante da comunicarsi. Entrambi sono nella situazione dell’uomo impaziente di essere presentato a una distinta donna sorda, ma quando fu presentato e gli fu posto in mano un capo del suo cornetto acustico, non ebbe niente da dire. Come se l’obiettivo principale fosse parlare velocemente e non parlare sensibilmente. Siamo ansiosi di scavare una galleria sotto l’Atlantico, e di portare il Vecchio Mondo qualche settimana più vicino al Nuovo; ma forse la prima notizia che trapelerà all’ampio, pendente orecchio americano sarà che la principessa Adelaide ha la tosse convulsa. Dopo tutto, non è l’uomo il cui cavallo trotta a un miglio al minuto a portare i messaggi più importanti; egli non è un evangelista, né arriva mangiando locuste e miele selvatico. Dubito che Flying Childers abbia mai portato un sacco di grano al mulino.

Mi si dice: “Mi meraviglio che tu non accumuli denaro; ami viaggiare; potresti salire in carrozza e andare a Fitchburg oggi a vedere il paese”. Ma io sono più saggio. Ho imparato che il viaggiatore più rapido è quello che va a piedi. Io dico al mio amico: “Supponi che facciamo a chi arriva per primo. La distanza è trenta miglia; la tariffa, novanta centesimi. Cioè quasi una giornata di salario. Ricordo quando il salario era sessanta centesimi al giorno per gli operai di questa strada. Allora, io parto a piedi e arrivo prima di notte; ho viaggiato a quel passo per tutta la settimana. Nel frattempo, ti sarai guadagnato il biglietto e arriverai domani, o forse stasera se hai abbastanza fortuna da trovare lavoro in tempo. Invece di andare a Fitchburg, starai qui a lavorare per gran parte della giornata. E allora, anche se la ferrovia arrivasse intorno al mondo, penso che ti rimarrei davanti; e per quanto riguarda vedere il paese e farmi esperienze di quel tipo, dovrei rinunciare del tutto alla tua amicizia”.

Questa è la legge universale, che nessun uomo dovrebbe mai cercare di mettere in scacco, e quanto alla ferrovia potremmo dire che non conta proprio niente. Rendere disponibile a tutta l’umanità una ferrovia intorno al mondo equivale a graduare tutta la superficie del pianeta. Gli uomini hanno la vaga nozione che se persistono abbastanza a lungo in quest’attività fatta di azioni e picconi, tutti a lungo andare arriveranno a destinazione, quasi in un attimo, e in cambio di niente; ma sebbene la folla stia correndo verso il deposito, e il controllore gridi: “Tutti a bordo!”, quando svanisce il fumo e si condensa il vapore ci si accorgerà che stanno viaggiando solo in pochi, mentre il resto viene investito – e questo sarà chiamato, e sarà, “un triste incidente”. Senza dubbio, infine potranno viaggiare tutti coloro che si sono guadagnati il costo del biglietto, o almeno se sopravvivono per farlo, ma a quel punto avranno probabilmente perso l’elasticità e il desiderio di viaggiare. Questo spendere la parte migliore della propria vita guadagnando soldi allo scopo di godere di una discutibile libertà durante gli anni meno validi, mi fa venire in mente l’inglese che prima andò in India a guadagnare una fortuna per poter tornare in Inghilterra a vivere la vita di un poeta. Si sarebbe dovuto ritirare subito in soffitta. “Che cosa?” esclama un milione di irlandesi spuntando da tutte le baracche del paese. “Questa ferrovia che abbiamo costruito non è una cosa buona?” Sì, rispondo io, relativamente buona, cioè avreste potuto far di peggio; ma vorrei, perché siete miei fratelli, che poteste passare il vostro tempo meglio che scavando in questa sporcizia.

Prima di finire la casa, desiderando guadagnare dieci o dodici dollari in maniera onesta e gradevole, per affrontare le spese inattese, piantai circa due acri e mezzo di terreno leggero e sabbioso lì vicino, soprattutto a fagioli, ma anche una piccola parte a patate, granturco, piselli e rape. L’intero lotto era di undici acri, per lo più con pini e noci, ed era stato venduto la stagione precedente per otto dollari e otto centesimi all’acro. Un contadino disse che non “serviva a niente se non a farci squittire gli scoiattoli”. Non misi letame sul terreno, non essendone il proprietario ma solo un occupante; non aspettandomi di coltivarne altrettanto in seguito, non lo vangai tutto in una volta. Arandolo, tirai fuori parecchie corde di ceppi, che mi rifornirono di combustibile per molto tempo, e lasciai piccoli cerchi di terriccio vergine, facili da distinguere per tutta l’estate perché i fagioli vi crebbero rigogliosi. Il legname dietro la casa, secco e in gran parte invendibile, e quello portato dal lago, mi fornirono il resto del combustibile. Fui costretto a noleggiare una pariglia e un uomo per l’aratura, anche se guidai io stesso l’aratro. Le uscite per la mia fattoria, nella prima stagione, furono (per arnesi, semi, manodopera, ecc.) di 14,72½ $. Il grano per la semina mi fu dato. Questo non ha un costo apprezzabile, a meno che non si progetti di piantarne più del necessario. Raccolsi dodici bushels di fagioli e diciotto di patate, oltre a un po’ di piselli e grano dolce. Il grano giallo e le rape furono troppo tardive per darmi alcunché. I miei introiti dalla fattoria furono in tutto:

$23,44
Dedotte le uscite14,72½
Rimanente$  8,71½

oltre al raccolto consumato e disponibile al momento in cui feci questa stima, del valore di 4,50 $ – la quantità disponibile compensava di poco quel po’ d’erba che non coltivai. Tutto considerato – cioè, considerata l’importanza dell’anima di un uomo e dell’oggi –, nonostante il poco tempo occupato dal mio esperimento, anzi, in parte proprio grazie al suo carattere transitorio, ritengo che quell’anno me la cavassi meglio di ogni altro agricoltore di Concord.

L’anno successivo feci ancora meglio, perché zappai tutta la terra che mi serviva, circa un terzo d’acro; e imparai dall’esperienza di entrambi gli anni, non essendo per nulla intimorito dai molti celebri studi sulla coltivazione – Arthur Young fra gli altri –, secondo cui se si vive con semplicità e si mangia solo il raccolto che si è coltivato, e non si coltiva più del necessario per mangiare, e senza scambiarlo per una quantità insufficiente di cose più lussuose e costose, si ha bisogno di coltivare solo poche pertiche di terra, e che è meglio zappare che usare i buoi per arare, e scegliere ogni tanto un punto nuovo piuttosto che concimare quello vecchio; così si può fare tutto il lavoro agricolo nel tempo libero d’estate, lavorando, per così dire, con la mano sinistra, e non ci si lega a un bue, a un cavallo, o a un maiale, come oggi. Desidero parlare con imparzialità su questo punto, come persona non interessata al successo o al fallimento dell’attuale sistema economico e sociale. Ero più indipendente di qualunque agricoltore di Concord, perché non mi ero ancorato a una casa o a un podere, ma potevo seguire l’inclinazione del mio genio, che è sempre molto sbilenca. Oltre a stare già meglio di loro, se mi fosse bruciata la casa o se il raccolto fosse andato male, sarei stato ricco quasi come prima.

Tendo a pensare che non sono tanto gli uomini a custodire le mandrie, quanto le mandrie a custodire gli uomini, essendo maggiore la libertà di cui godono. Fra uomini e buoi c’è uno scambio di lavoro, ma se consideriamo solo il lavoro necessario, si vedrà che i buoi sono in gran vantaggio, essendo maggiore il loro podere. L’uomo fa la sua parte dello scambio durante le sei settimane della fienagione, che non è lavoro da ragazzi. Certo, nessuna nazione che vivesse sotto ogni aspetto in modo semplice, cioè nessuna nazione di filosofi, commetterebbe un errore così grande da usare il lavoro degli animali. È vero che non è mai esistita né è probabile che esista presto una nazione di filosofi, e neppure sono certo che la sua esistenza sia desiderabile. Tuttavia, io non avrei mai domato un cavallo o un toro, né lo avrei ospitato allo scopo di farlo lavorare per me, nel timore di diventare nulla più di un cavallaro o di un mandriano; e se, così facendo, sembra essere la società a guadagnarci, siamo certi che il guadagno di uno non sia la perdita di un altro, e che lo stalliere non abbia lo stesso motivo di soddisfazione del suo padrone? Ammettiamo che non si sarebbero potute costruire alcune opere pubbliche senza quest’ausilio, e che l’uomo ne condivida la gloria col bue e col cavallo; ne consegue allora che non avrebbe potuto compiere opere ancor più degne? Quando gli uomini cominciano a fare con la loro assistenza non solo i lavori inutili o artistici, ma quelli legati al lusso e all’ozio, è inevitabile che alcuni facciano tutto quel lavoro col bue o, in altre parole, diventino schiavi dei più forti. Allora, l’uomo non lavora solo per l’animale che ha dentro di sé, ma – a simbolo di ciò – per l’animale che ha fuori di sé. Sebbene abbiamo molte solide case di mattoni e pietra, si misura ancora la prosperità dell’agricoltore dal grado in cui il suo fienile torreggia sulla casa. Si dice che questa città abbia le case più grandi di tutta la regione per buoi, vacche e cavalli, e non sfigura negli edifici pubblici; ma in questa contea ci sono pochissime sale per la preghiera o la parola libera. Non dovrebbe essere attraverso l’architettura, o almeno attraverso il potere di pensiero astratto, che le nazioni cercano di celebrare se stesse? Quanto è più ammirevole il Bhagvat-Gita di tutte le rovine d’Oriente? Le torri e i templi sono i lussi dei principi. Una mente semplice e indipendente non si affatica al cenno di alcun principe. Il genio non è proprietà di alcun imperatore, né lo sono beni materiali come l’argento, l’oro o il marmo, se non in minima misura. A qual fine, ditemi, si lavora così tanta pietra? In Arcadia, quando c’ero, non vidi nessuno che martellava la pietra. Le nazioni sono colte dall’insana ambizione di perpetuare la propria memoria grazie alla quantità di pietre scolpite che si lasciano dietro. E se si ponesse una ugual fatica per smussare e ingentilire le maniere? Un frammento di buon senso sarebbe più memorabile di un monumento alto come la luna. Preferisco molto più vedere le pietre al loro posto. La grandezza di Tebe fu una grandezza volgare. È più ragionevole una pertica di muro di pietra che recinga il campo di un uomo onesto che una Tebe dalle cento porte che abbia deviato dai veri fini della vita. Sono le religioni e le civiltà barbariche e pagane che edificano splendidi templi; ma ciò che chiamereste cristianesimo non lo fa. Gran parte della pietra che una nazione lavora, serve a farne la tomba. Si seppellisce viva. Per quanto riguarda le piramidi, non c’è nulla di cui meravigliarsi, se non il fatto di trovare tanti uomini talmente degradati da spendere la vita costruendo una tomba per un sempliciotto ambizioso, che sarebbe stato più saggio e virile annegare nel Nilo, per poi darne il corpo in pasto ai cani. Potrei magari inventare una scusa per loro e per lui, ma non ho tempo per farlo. Per quanto riguarda la religione e l’amore per l’arte dei costruttori, è più o meno la stessa in tutto il mondo, che l’edificio sia un tempio egizio o la Banca degli Stati Uniti. Il costo è maggiore dei risultati. La molla è la vanità. Assistita dall’amore per l’aglio e il pane e burro. Il sig. Balcom, promettente giovane architetto, disegna sul retro della sua copia di Vitruvio con matita e righello, e lascia il lavoro alla Dobson & Figli, tagliapietre. Quando i trenta secoli cominceranno a guardarlo, l’umanità alzerà lo sguardo. Per quanto riguarda le vostre alte torri e i vostri monumenti, una volta c’era un pazzo in questa città che voleva scavare una galleria fino in Cina, e arrivò al punto, disse lui, di sentire il rintocco di pentole e pignatte cinesi; ma penso che non devierò mai dalla mia strada per ammirare il buco che ha fatto. Molti si interessano ai monumenti dell’Oriente e dell’Occidente – per sapere chi li ha costruiti. Da parte mia, vorrei sapere chi sia stato, in quei giorni, a non costruirne – chi fosse al di sopra di tali sciocchezze. Ma procederò con le mie statistiche.

Con l’agrimensura, la falegnameria, e giornate di lavoro di numerosi altri tipi svolte nel frattempo al villaggio – perché ho tanti mestieri quante sono le dita delle mani – avevo guadagnato 13,34 $. Le spese per il cibo in otto mesi, ovvero dal 4 luglio al primo marzo, quando feci queste stime, pur avendovi vissuto più di due anni – senza contare le patate, un po’ di grano verde e dei piselli che avevo coltivato, e non considerando il valore di ciò che era a disposizione in quella data – erano:

Riso$ 1,73½
Melassa   1,73Il tipo più economico di saccarina
Farina di segale   1,04¾
Farina di granturco   0,99¾Più economica della segale
Maiale   0,22

Farina di grano

   0,88    

parentesi graffa chiusaCosta più del granturco, in tempo e faticaparentesigraffa chiusa con la dicitura: gli esperimenti che fallirono
Zucchero0,80
Lardo0,65
Mele0,25
Mela secca0,22
Patate dolci0,10
Una zucca0,06
Un cocomero0,02
Sale0,03

Sì, in tutto mangiai proprio 8,74 $; ma non renderei pubblica la mia colpa così, senza arrossire, se non sapessi che molti dei miei lettori ne erano ugualmente colpevoli insieme a me, e che le loro azioni non sarebbero apparse migliori, una volta stampate. L’anno dopo mi capitò, a volte, di prendere una gran quantità di pesce per pranzo, e una volta giunsi a macellare una marmotta che mi aveva devastato il campo di fagioli – ne eseguii la trasmigrazione, come direbbero i tartari – e la divorai, in parte a scopo di esperimento; ma sebbene mi offrisse un temporaneo godimento, nonostante un sapore di muschio, mi resi conto che l’uso prolungato non l’avrebbe resa una buona pratica, comunque la pensiate sul farvi preparare e farcire una marmotta dal macellaio del villaggio.

L’abbigliamento e alcune spese occasionali nello stesso periodo, sebbene si possa dedurre poco da questo elemento, ammontarono a:

$8,40¾
Olio e alcuni utensili
per casa2,00

Dunque tutte le uscite pecuniarie, tranne il bucato e i rammendi, che furono in gran parte fatti fuori dalla casa e non ne ho ancora ricevuto il conto – e queste sono proprio tutte le maniere in cui per necessità escono i soldi, in questa parte del mondo – furono:

Casa

$  28,12½

Fattoria, un anno

    14,72½

Cibo, otto mesi

   8,74

Vestiti, ecc., otto mesi

      8,40¾

Olio, ecc., otto mesi

   2,00

 

 

In tutto

$  61,99¾

Mi rivolgo ora a chi fra i miei lettori deve guadagnarsi da vivere. E a questo scopo ho venduto, come prodotti della terra:

$  23,44

Guadagnati con giornate di lavoro

    13,34

 

 

In tutto

$  36,78

che sottratti dalla somma delle uscite lasciano un bilancio di 25,21¾ $ da un lato – e questi sono pressappoco i mezzi con cui ho iniziato, e la misura delle spese in cui sono incorso – e dall’altro, oltre al tempo libero, all’indipendenza e alla salute così assicurate, una casa comoda per me, per tutto il tempo in cui avessi scelto di occuparla.

Queste statistiche, per quanto possano sembrare casuali e dunque poco istruttive, avendo una certa completezza, hanno anche un certo valore. Niente mi era stato dato di cui non abbia reso conto. Dalla stima suddetta, sembra che soltanto il cibo mi sia costato monetariamente ventisette centesimi a settimana. Si trattò, per quasi due anni a seguire, di farina di segale e granturco senza lievito, patate, riso, pochissimo maiale salato, melassa e sale, e acqua come bevanda. Era giusto che dovessi vivere soprattutto di riso, io che avevo così amato la filosofia dell’India. Per rispondere alle obiezioni di alcuni inveterati cavillatori, posso anche affermare che, se occasionalmente ho mangiato fuori, come sempre avevo fatto e confido di avere ancora l’opportunità di fare, avvenne di frequente a detrimento della mia sistemazione domestica. Ma essendo il mangiar fuori, come ho affermato, un elemento costante, ciò non intacca una dichiarazione comparativa come questa.

Dalla mia esperienza biennale, appresi che costerebbe una fatica incredibilmente piccola ottenere il cibo necessario, perfino a questa latitudine; che un uomo può usare una dieta semplice come quella degli animali, e ancora mantenere salute e forza. Ho fatto pranzi soddisfacenti – soddisfacenti sotto parecchi aspetti – semplicemente con un piatto di portulaca (Portulaca oleracea), raccolta nel mio campo di grano, bollita e salata. Ne do il nome latino a causa della salacia del suo nome volgare. E cosa mai può desiderare un uomo ragionevole, in tempo di pace, in giornate ordinarie, più di un sufficiente numero di spighe verdi di grano dolce, bollite con l’aggiunta di sale? Perfino la minima varietà che usavo era una concessione alle esigenze dell’appetito, e non alla salute. Eppure gli uomini sono giunti al punto che spesso si affamano, non per mancanza del necessario, ma per mancanza del lusso; e conosco una buona donna che pensa che suo figlio abbia perso la vita perché iniziò a bere solo acqua.

Il lettore si accorgerà che sto trattando l’argomento da un punto di vista economico piuttosto che dietetico, e non si avventurerà a mettere alla prova la mia astinenza a meno che non abbia una dispensa ben fornita.

Io, all’inizio, feci un pane di pura farina di granturco e sale, focacce genuine cotte sul fuoco fuori dalla mia porta, su una tavola o sulla punta di un bastone che avevo segato costruendomi la casa; ma sapeva di fumo e resina di pino. Ho provato anche con la farina di grano e finalmente ho trovato una mescola di farina di segale e granturco molto conveniente e gradevole. Nel tempo freddo non era piacere da poco cuocere parecchie piccole pagnotte di questo tipo, una dopo l’altra, curandole e rivoltandole con altrettanta attenzione di un egiziano con le sue uova mentre si schiudono. Erano un vero frutto di cereali, che io facevo maturare, e avevano per i miei sensi una fragranza pari ad altri frutti nobili, e che conservavo il più possibile avvolgendole con un panno. Feci uno studio sull’antica e indispensabile arte della panificazione, consultando tutte le autorità che mi si offrivano, tornando ai giorni primitivi e alla prima invenzione della varietà non fermentata, quando dalla vita selvatica fatta di carne e noci, gli uomini per la prima volta giunsero alla mitezza e alla raffinatezza di questa dieta, e viaggiando gradualmente, nei miei studi, attraverso quel casuale inacidirsi della pasta che, si immagina, insegnò il processo della lievitazione, e attraverso le varie fermentazioni che seguirono, fino ad arrivare al “buon pane, dolce e sano”, il sostegno della vita. Il lievito, che alcuni considerano l’anima del pane, lo spiritus che ne riempie il tessuto cellulare, conservato religiosamente come il fuoco delle Vestali – qualche preziosa bottiglia, immagino, portata dal Mayflower, provvide ai bisogni dell’America, e la sua influenza continua a crescere, gonfiandosi, diffondendosi a ondate cereali per tutto il paese –, ebbene, mi procuravo questo seme al villaggio, regolarmente e fedelmente, finché una mattina dimenticai le regole, e bruciai il lievito; con questo incidente scoprii che nemmeno esso era indispensabile – perché le mie scoperte avvenivano col procedimento analitico e non sintetico – e sono stato lieto di ometterlo in seguito, anche se gran parte delle casalinghe mi assicurava convinta che non ci può essere pane sicuro e sano senza lievito, e gli anziani mi profetizzavano un rapido decadimento delle forze vitali. Eppure scoprii che non era un ingrediente essenziale, e dopo averne fatto a meno per un anno sono ancora nella terra dei vivi; e sono lieto di essere sfuggito alla seccatura di portarne una bottiglia in tasca, che talvolta purtroppo scoppiava e mi si svuotava addosso. Ometterlo è più semplice e più dignitoso. L’uomo è un animale che più di ogni altro sa adattarsi a ogni clima e a ogni circostanza. E non mettevo nel pane neppure soda, o altri acidi o alcali. Sembrerebbe che lo abbia fatto secondo la ricetta data da Marco Porzio Catone, circa due secoli prima di Cristo: “Panem depsticium sic facito. Manus mortariumque bene lavato. Farinam in mortarium indito, aquae paulatim addito, subigidoque pulchre. Ubi bene subegeris, defingito, coquitoque sub testu”. Che io intendo come: “Impastate il pane così. Lavate bene le mani e la madia. Mettete la farina nella madia, aggiungete gradualmente l’acqua, e impastatela del tutto. Quando lo avete impastato bene, dategli forma e cuocetelo sotto un coperchio”, cioè in uno stampo. Neppure una parola sul lievito. Ma non usai sempre questo bastone della vita. A un certo punto, a causa del vuoto nella mia borsa, non ne vidi per più di un mese.

Ogni abitante della Nuova Inghilterra potrebbe coltivare con facilità tutto l’occorrente per il pane, in questa terra di segale e granturco, senza dipendere da mercati lontani e fluttuanti. Eppure siamo talmente lontani dalla semplicità e dall’indipendenza che, nelle botteghe di Concord, si vende raramente la farina fresca e dolce, e a malapena si usano polenta e grano in forme ancor più rozze. Per lo più l’agricoltore dà al bestiame e ai maiali il grano di produzione propria, e compra in bottega la farina, che solo nei casi migliori è altrettanto salutare, a un costo maggiore. Mi resi conto di poter coltivare facilmente un bushel o due di segale e granturco, perché la prima crescerà anche sul terreno più povero, e l’altro non richiede il migliore, e macinarle a mano, facendo così a meno di riso e maiale; e se dovevo avere dello zucchero concentrato, scoprii con l’esperienza di poter fare un’ottima melassa dalle zucche e dalle barbabietole, e sapevo che mi bastava solo piantare qualche acero per ottenerla ancor più facilmente, e mentre questi crescevano, potevo usare vari sostituti oltre a quelli che ho nominato. “Perché”, come cantavano i nostri antenati:

possiamo fare liquore per addolcirci le labbra
Con zucche, pastinaca e schegge di noce.

Infine, per quanto riguarda il sale, la più grossolana di tutte le droghe, ottenerlo poteva essere una buona occasione per una visita al mare, o, se ne avessi fatto del tutto a meno, avrei probabilmente bevuto meno acqua. Non ho mai saputo che gli indiani si siano mai curati di cercarlo.

In questo modo riuscii a evitare ogni commercio o baratto riguardante il cibo e, avendo già un riparo, rimaneva solo da ottenere vestiti e combustibile. I pantaloni che porto adesso furono tessuti dalla famiglia di un contadino (grazie al cielo c’è ancora tanta virtù nell’uomo); perché penso che la caduta dallo stato di agricoltore a quello di operaio sia altrettanto grandiosa e memorabile della caduta dallo stato di uomo a quello di agricoltore – e in un nuovo paese il combustibile è un ostacolo. Come habitat, se non mi fosse ancora concesso occupare una terra, potrei acquistarne un acro allo stesso prezzo per cui fu venduta la terra da me coltivata – cioè, otto dollari e otto centesimi. Ma, per come stavano le cose, ritenni di averne incrementato il valore occupandola.

C’è una certa classe di increduli che talvolta mi chiede se penso di poter vivere di solo cibo vegetale; e per colpire la questione alla radice – perché la radice è la fede – ho l’abitudine di rispondere che riesco a vivere di chiodi. Se non riescono a capirmi, non capiranno molto di quel che ho da dire. Da parte mia, sono contento quando sento di esperimenti dello stesso tipo; come un giovane che ha tentato di vivere per due settimane di spighe di grano duro e crudo, usando i denti come mortaio. La tribù degli scoiattoli ha fatto lo stesso esperimento con successo. La razza umana è interessata a questi esperimenti, sebbene qualche vecchia che non ne è più capace, o che ha una quota di qualche mulino, si possa allarmare.

I miei mobili, quelli fatti da me stesso e tutto il rimanente, non mi sono costati nulla di cui non abbia reso conto; consistevano in un letto, un tavolo, una scrivania, tre sedie, uno specchio del diametro di tre pollici, un paio di molle e alari, un bricco, un pentolino, una padella, un catino, due coltelli e due forchette, tre piatti, una tazza, un cucchiaio, una brocca per l’olio, una per la melassa e una lampada laccata. Nessuno è così povero da doversi sedere su una zucca. Sarebbe inettitudine. Nelle soffitte del paese c’è una quantità delle sedie che preferisco, e basta prenderle. Mobili! Grazie a Dio, sono capace di sedermi o stare in piedi senza l’aiuto di un magazzino di mobili. Chi, se non un filosofo, non si vergognerebbe di vedere i suoi mobili chiusi su un carro che viaggiano esposti alla luce del cielo e agli occhi degli uomini, miserabile rendiconto di scatole vuote! Quelli sono i mobili di Spaulding. Non sono mai riuscito a capire, ispezionando il carico, se appartenesse a un cosiddetto ricco o a un povero; il proprietario sembrava sempre in miseria. Davvero, più si hanno cose del genere, più si è poveri. Ciascun carico sembra contenere il contenuto di una dozzina di baracche; e se una baracca è povera, qui lo si è dodici volte tanto. Per carità, ditemi per quale motivo traslochiamo se non per liberarci dei nostri mobili, le nostre exuviae; per andare infine via da un mondo e verso un altro con mobili nuovi, e far bruciare i vecchi? È come se tutte queste trappole fossero legate alla cintura di un uomo, incapace di muoversi attraverso il terreno aspro dove si gettano le nostre cose senza trascinarcele dietro – trascinandosi dietro la sua trappola. È la volpe fortunata quella che riesce a lasciare la coda nella trappola. Il topo muschiato si staccherà a morsi la terza gamba per liberarsi. Non c’è da stupirsi che l’uomo abbia perso la sua elasticità. Così spesso si trova in una situazione di stallo! “Signore, se posso permettermi, cosa intendete per stallo?” Se siete un osservatore, ogni volta che incontrate un uomo vedrete tutto quello che possiede, sì, e dietro di lui molto di ciò che fa finta di ripudiare, perfino i mobili di cucina e tutto il ciarpame che conserva e non brucia, e sembrerà che vi sia aggiogato, mentre avanza come può. Penso che in stallo sia l’uomo che è passato attraverso un pertugio o un passaggio dove la sua slitta carica di mobili non riesce a seguirlo. Non posso che provare compassione quando sento un uomo dall’aria distinta e asciutta, libero in apparenza, tutto bardato e pronto, parlare dei suoi “mobili”, che siano assicurati o meno. “Ma cosa farò dei miei mobili?” La mia gaia farfalla, allora, si è impigliata in una ragnatela. Scoprirete che perfino chi sembra non averne avuti da tempo, se indagate più da vicino, ne ha accumulati un po’ in qualche fienile. Oggi guardo all’Inghilterra come a un vecchio gentiluomo che viaggia con grandi quantità di bagagli, ciarpame accumulato in una lunga pratica casalinga, che non ha il coraggio di bruciare; baule grande, baule piccolo, cappelliera e fagotto. Gettate via almeno i primi tre. Supererebbe le forze di un uomo in salute, oggigiorno, prendere il proprio letto e camminare, ma sicuramente consiglierei all’ammalato di mettere giù il suo e mettersi a correre. Quando ho incontrato un immigrante barcollante sotto un fagotto che conteneva tutte le sue cose – che sembrava un enorme bubbone che gli era cresciuto dietro al collo – ne ho avuto pietà, non perché quelle fossero tutte le sue cose, ma perché aveva tutto quello da portarsi dietro. Se dovrò trasportare tutte le mie trappole, farò attenzione che siano leggere, e non mi tocchino in una parte vitale. Ma forse sarebbe più saggio non metterci mai la zampa.

Osserverei, a proposito, che non ho speso nulla in tende, perché non ho guardoni da tener fuori, tranne il sole e la luna, e sono disposto a lasciarli guardare. La luna non mi inacidirà il latte, né mi rovinerà la carne, e il sole non mi danneggerà i mobili né mi scolorirà il tappeto, e se talvolta è un amico troppo caloroso, sono convinto che sia ancora più economico ritirarmi dietro una tenda fornita dalla Natura, piuttosto che aggiungere anche un singolo elemento ai dettagli del governo della casa. Una signora una volta mi ha offerto una stuoia, ma non avendo spazio libero in casa, né tempo libero in casa o fuori per sbatterla, la rifiutai, preferendo pulirmi i piedi sulla zolla d’erba davanti alla porta. È meglio evitare gli inizi del male.

Non molto tempo dopo, presenziai all’asta degli effetti personali di un diacono, perché la sua vita non era stata priva di effetti...

Il male che gli uomini fanno vive dopo di loro.1

Come sempre, una gran quantità era ciarpame che aveva cominciato ad accumulare dal tempo di suo padre. Fra l’altro c’era una tenia seccata. E ora, dopo essere state per mezzo secolo in soffitta e in altri luoghi polverosi, queste cose non venivano bruciate; invece di un falò, una loro purificante distruzione, c’era un’asta, che ne accresceva la quantità. I vicini si radunarono avidamente per osservarle, le comprarono tutte, e con attenzione le trasportarono nelle loro soffitte e nei loro luoghi polverosi, per tenercele finché non si liquideranno le loro proprietà, quando tutto ricomincerà un’altra volta. Quando muore, un uomo solleva la polvere.

Potremmo forse imitare con profitto i costumi delle nazioni selvagge, perché esse hanno almeno l’apparenza di gettar via ogni anno le loro spoglie; ne hanno un’idea, anche se non la realtà. Non sarebbe bene se anche noi celebrassimo il busk, la “festa dei primi frutti”, come Bartram descrive i costumi degli indiani Mucclasse? “Quando una città celebra il busk,” dice, “avendo in precedenza rinnovato abiti, pentole, padelle, mobili e utensili di casa, radunano tutti gli abiti logori e le altre cose da buttare, spazzano e ripuliscono le case, le piazze e l’intera città da ogni sporcizia, che – insieme al grano rimasto e alle altre provviste vecchie – gettano in un unico mucchio e consumano col fuoco. Dopo aver preso la medicina e digiunato per tre giorni, ogni fuoco in città viene spento. Durante questo digiuno si astengono dal gratificare qualunque appetito o passione. Si proclama un’amnistia generale; tutti i malfattori possono tornare alla loro città...

“La quarta mattina il gran sacerdote, sfregando della legna secca, produce un nuovo fuoco nella pubblica piazza, dal quale ogni abitazione della città si rifornisce con una fiamma nuova e pura.”

Banchettano allora col grano e la frutta novella, e ballano e cantano per tre giorni, “e per i quattro giorni seguenti ricevono visite e stanno in allegria con gli amici delle città vicine, che si sono purificati e preparati allo stesso modo”.

Anche i messicani praticavano una simile purificazione ogni cinquantadue anni, ritenendo che fosse l’ora della fine del mondo.

Non ho mai sentito parlare di un sacramento – cioè, come lo definisce il dizionario, “il segno visibile esteriore di una grazia spirituale interiore” – più sincero di questo, e non ho dubbi che fossero originariamente ispirati direttamente dal cielo, pur non avendo il resoconto biblico della rivelazione.

Per più di cinque anni mi mantenni così, solamente col lavoro delle mie mani, e scoprii che lavorando circa sei settimane l’anno potevo soddisfare tutte le spese per guadagnarmi da vivere. Avevo tutto l’inverno e gran parte dell’estate liberi per lo studio. Ho provato doviziosamente a far scuola, scoprendo che le spese erano in proporzione – o piuttosto fuori proporzione – alle entrate, perché ero costretto a vestire e ad addestrarmi, per non dire a pensare e a credere, secondo la situazione, e persi il mio tempo nell’affare. Non insegnando per il bene del prossimo, ma semplicemente per vivere, fu un fallimento. Ho provato il commercio; ma scoprii che ci sarebbero voluti dieci anni per imparare il mestiere, e poi avrei preso la direzione del diavolo. Avevo davvero paura che a quel punto avrei fatto ciò che si chiama buoni affari. Mentre prima mi guardavo intorno per vedere cosa fare per vivere, avendo fresca nella mente una triste esperienza vissuta per conformarmi ai desideri degli amici come punizione della mia ingenuità, pensai spesso e seriamente di andare a raccogliere mirtilli; cosa che sicuramente avrei potuto fare, e quel piccolo profitto sarebbe bastato – perché la mia maggiore abilità è stata nel voler poco – richiedendo così poco capitale, così poca distrazione dai miei abituali umori, almeno così ritenevo stupidamente. Mentre i miei conoscenti si lanciavano senza esitare nel commercio o nelle professioni, io contemplavo quell’occupazione come molto simile alle loro; percorrendo le colline tutta l’estate per raccogliere le more che mi capitavano, e poi darle via senza preoccuparmene; così, per custodire il gregge di Admeto, sognai anche di raccogliere erbe selvatiche, o di portare piante sempreverdi a quei paesani che amavano i ricordi dei boschi, o anche in città, caricando un carretto da fieno. Ma da allora ho appreso che il commercio maledice tutto ciò che tocca, e anche commerciando in messaggi dal cielo la maledizione del commercio si attaccherebbe al mestiere.

Preferendo certe cose al posto di altre, e dando speciale valore alla mia libertà, in quanto potevo avere una vita dura e aver successo allo stesso tempo, non desideravo ancora passare il mio tempo guadagnando ricchi tappeti o altri mobili eleganti, o una cucina delicata, o una casa in stile greco o gotico. Se c’è qualcuno per cui non è un’interruzione acquisire queste cose, e che sa come usarle una volta acquisite, cedo a loro la caccia. Alcuni sono “industriosi” e sembrano amare il lavoro in quanto tale, forse perché li allontana da malefatte peggiori; a loro non ho, al momento, nulla da dire. A chi non saprebbe che fare potendo godere più tempo libero di ora, potrei consigliare di lavorare il doppio – lavorare finché non si pagano da vivere e ottengono i loro documenti di libertà. Per me, scoprii che l’occupazione di lavoratore a giornata era la più indipendente di tutte, soprattutto poiché servivano solo trenta o quaranta giorni per mantenermi. La giornata del bracciante finisce quando cala il sole, e poi è libero di dedicarsi allo scopo che ha scelto, che non dipende dal lavoro; ma il suo datore di lavoro, che specula di mese in mese, non ha sollievo dall’inizio alla fine dell’anno.

In breve, sono convinto, per fede e per esperienza, che mantenersi su questa terra non sia una fatica ma un passatempo, se viviamo con semplicità e saggezza; in quanto gli scopi delle nazioni più semplici sono i divertimenti di quelle più artificiose. Non è necessario guadagnarsi da vivere col sudore della fronte, a meno che non si sudi più facilmente di me.

Un giovane di mia conoscenza, che aveva ereditato qualche acro, mi disse che pensava che sarebbe vissuto come me, se ne avesse avuto i mezzi. Io non vorrei che nessuno adottasse il mio modo di vita, per qualunque motivo; perché, oltre al fatto che quando lo avesse imparato io ne avrei potuto trovare un altro per me, desidero che ci sia al mondo il maggior numero possibile di persone diverse; ma renderei ciascuno molto attento a scoprire e perseguire il suo modo; e non invece quello del padre, della madre o del vicino. Il giovane può costruire, piantare o navigare, permettiamogli solo che non gli sia impedito fare quel che mi dice di voler fare. È seguendo un solo punto matematico che si è saggi, come il marinaio o lo schiavo fuggitivo tiene d’occhio la stella polare; ma quella è una guida sufficiente per tutta la vita. Possiamo non arrivare in porto entro un periodo calcolabile, ma conserveremo la rotta giusta.

Senza dubbio, in questo caso, ciò che è vero per uno è ancor più vero per mille, così come una casa grande non è in proporzione più costosa di una casa piccola, dato che un tetto può coprire, una cantina può essere alla base della casa e un muro può separare parecchi appartamenti. Da parte mia, preferivo una dimora solitaria. Inoltre, sarà solitamente meno caro costruire tutto da te che convincere un altro del vantaggio di un muro comune; e quando lo avessi fatto, la separazione comune, per essere poco costosa, deve essere sottile, e quell’altro può essere un cattivo vicino, e non fare la sua parte delle riparazioni. L’unica cooperazione che è di solito possibile è eccessivamente parziale e superficiale; e la poca cooperazione vera è come se non ci fosse, essendo un’armonia impossibile da udire. Se un uomo ha fede, coopererà con ugual fede ovunque; se non ha fede, continuerà a vivere come il resto del mondo, in qualunque compagnia si unisca. Cooperare, nel senso più alto come in quello più basso, significa guadagnarsi da vivere insieme. Ho sentito recentemente proporre che due giovani viaggiassero insieme per il mondo, uno senza soldi, guadagnandosi i propri mezzi mentre viaggiava, vicino all’albero e dietro l’aratro, l’altro con una lettera di credito in tasca. Fu facile vedere che non avrebbero potuto restare compagni e cooperare per molto tempo, dato che uno non avrebbe operato affatto. Soprattutto, come implicavo, l’uomo che viaggia da solo può partire oggi; ma chi va con un altro deve aspettare finché l’altro è pronto, e può passare molto tempo prima che partano.

Ma tutto questo è molto egoistico, ho sentito dire da qualcuno dei miei concittadini. Confesso di avere finora dedicato poco alle imprese filantropiche. Ho fatto dei sacrifici per senso del dovere, e fra l’altro ho sacrificato anche questo piacere. Ci sono quelli che hanno usato tutte le loro arti per persuadermi a intraprendere il sostentamento di qualche famiglia povera della città; e se non avessi altro da fare – perché è il diavolo che trova lavoro all’ozioso – potrei provare un passatempo del genere. Comunque, quando ho pensato di dedicarmici, e obbligarmi con loro davanti al cielo a mantenere certi poveri in tutte le stesse comodità che godo io, avventurandomi perfino a far loro un’offerta, tutti fino all’ultimo hanno preferito rimaner poveri. Mentre i miei concittadini e concittadine si dedicano in tanti modi al bene del prossimo, confido che almeno a uno si risparmino altri scopi meno umanitari. Anche per la carità, ci vuole genio. E quella di Benefattore è fra le professioni di cui c’è fin troppa abbondanza. Inoltre, l’ho provata con onestà e, per quanto possa sembrar strano, sono soddisfatto di sapere che non si confà alla mia costituzione. Probabilmente non dovrei consapevolmente e deliberatamente abbandonare la mia personale vocazione a fare il bene richiestomi dalla società, a salvare l’universo dalla distruzione; e credo che una coerenza simile ma infinitamente più grande sia tutto ciò che lo conserva adesso. Ma non mi metterei mai fra un uomo e il suo genio; e a chi fa questo lavoro che io declino, con tutto il cuore, l’anima e la vita, io direi: “Persevera, anche se il mondo lo chiama far del male, com’è probabile che faccia”.

Sono lontano dal ritenere che il mio sia un caso particolare; senza dubbio molti miei lettori si difenderebbero allo stesso modo. Non esito a dirlo, per fare qualcosa – non voglio dire che i miei vicini la considererebbero qualcosa di buono – sarei un eccellente elemento da assumere; ma per fare cosa, spetta al datore di lavoro scoprirlo. Il bene che faccio, nel senso comune della parola, deve essere fuori dal mio percorso principale, e in gran parte del tutto non intenzionale. In pratica, dicono gli uomini: “Comincia dove sei e come sei, senza mirare soprattutto a diventare di maggior valore, e con gentilezza spensierata procedi a far bene”. Se dovessi predicare in questa vena, direi piuttosto: “Incominciate a esser buoni”. Come se il sole dovesse fermarsi quando ha acceso il suo fuoco con lo splendore della luna o di una stella di sesta grandezza, e procedere come un Robin Goodfellow, lo spiritello che sbircia dalle finestre dei cottage, ispira i pazzi, guasta la carne, e rende visibile il buio, invece di aumentare regolarmente il suo geniale e benefico calore finché non è della luminosità che nessuno può guardare dritto negli occhi, e poi, e nel frattempo, percorrere il mondo nella sua orbita, facendo del bene; o piuttosto, come un filosofo più sincero ha scoperto, facendo che il mondo lo insegua alla ricerca del bene. Quando Fetonte, desiderando dimostrare con la beneficenza la sua nascita celeste, ebbe il carro del Sole per un solo giorno, portandolo fuori dal percorso battuto, infiammò numerose file di case nelle strade inferiori del cielo, bruciò la superficie della terra, seccò ogni sorgente e creò il grande deserto del Sahara, finché infine Giove non lo precipitò a capofitto sulla terra con un fulmine e il Sole, addolorato per la sua morte, smise di splendere per un anno.

Non c’è odore peggiore di quello che sale dal bene corrotto. È una carogna umana e divina. Se sapessi con certezza che un uomo stesse venendo a casa mia col consapevole progetto di fare del bene, fuggirei a salvarmi la vita, come da quel vento, secco e riarso, dei deserti africani che si chiama simun, che riempie di polvere la bocca, il naso e le orecchie fino a far soffocare, per paura che mi si facesse un po’ di quel bene – che un po’ del suo virus mi si mischiasse nel sangue. No, in questo caso preferirei soffrire il male alla maniera naturale. Per me un uomo non è un uomo buono perché mi dà da mangiare se sono affamato, o mi riscalda se sto congelando, o mi tira fuori da un burrone se dovessi mai cadervi dentro. Posso trovarvi un cane Terranova che farebbe lo stesso. La filantropia non è amore per il prossimo nel senso più ampio. Howard era indubbiamente un uomo eccezionalmente gentile e degno, a modo suo, e ha la sua soddisfazione; ma, relativamente parlando, che cosa sono cento Howard per noi, se la loro filantropia non aiuta noi che siamo nella condizione migliore, quando siamo più meritevoli di aiuto? Non ho mai sentito di una riunione filantropica in cui si proponesse sinceramente di fare del bene a me, o a quelli come me.

I gesuiti furono molto sorpresi da quegli indiani che, essendo arsi sul rogo, suggerivano nuovi modi di tortura ai loro tormentatori. Essendo superiori alla sofferenza fisica, avveniva talvolta che fossero superiori a ogni consolazione che i missionari potessero offrire; e la legge del fare ciò che si vuole fatto a noi persuadeva poco le orecchie di quelli a cui, dal canto loro, non importava cosa gli fosse fatto, che amavano il proprio nemico in modo nuovo, e giunsero quasi a perdonarli liberamente per ciò che facevano.

Assicuratevi di dare ai poveri l’aiuto più necessario, anche se sarà il vostro esempio a lasciarveli dietro. Se date del denaro, spendete voi stessi e non limitatevi ad abbandonarlo a loro. Talvolta facciamo curiosi errori. Spesso il povero non è infreddolito e affamato, quanto sporco, stracciato e rozzo. È in parte per il suo gusto e non solamente la sua sventura. Se gli date soldi, forse si comprerà altri stracci. Fui mosso a pietà dai goffi operai irlandesi che tagliavano il ghiaccio sul lago, con vestiti poveri e laceri, mentre tremavo nei miei abiti più distinti e alla moda, finché, un giorno di freddo tagliente, uno che era scivolato in acqua venne a casa mia a riscaldarsi, e lo vidi togliersi tre paia di calzoni e due paia di calze fino a raggiungere la pelle; è vero che erano sporche e stracciate, ma si poté permettere di rifiutare gli abiti extra che gli offrivo, per quanti ne aveva intra. Questo cambio era tutto ciò che gli serviva. Allora cominciai a compatirmi, e vidi che sarebbe stata maggior carità dare a me stesso una camicia di flanella che un abito intero a lui. Ci sono centinaia di persone a cercar di tagliare i rami del male, per ognuno che colpisce alla radice, e può darsi che chi dà ai bisognosi la maggior quantità di tempo e denaro sia colui che fa di più, col suo modo di vita, per produrre quella miseria che si sforza invano di alleviare. È il pio schiavista che dona la decima delle sue vendite di schiavi a comprare la libertà domenicale per gli altri. Alcuni mostrano la loro gentilezza verso i poveri impiegandoli nelle loro cucine. Non sarebbero più gentili se vi impiegassero se stessi? Vi vantate di spendere la decima parte del vostro reddito in opere di carità; forse dovreste spendere così i nove decimi, e farla finita. In quel modo, la società recupera solo la decima parte della proprietà. Questo si deve alla generosità di colui che vi si trova in possesso, o alla passività degli amministratori della giustizia?

La filantropia è quasi l’unica virtù sufficientemente apprezzata dall’umanità. Non basta, è grandemente sopravvalutata, ed è il nostro egoismo a sopravvalutarla. Un povero robusto, in una giornata di sole qui a Concord, mi tesseva le lodi di un concittadino perché, diceva, era gentile verso i poveri, intendendo se stesso. Gli zii e zie gentili della razza umana ricevono più stima dei nostri veri padri e madri spirituali. Una volta ho sentito parlare dell’Inghilterra un reverendo, un uomo di erudizione e intelligenza, dopo aver enumerato le sue ricchezze scientifiche, letterarie e politiche – Shakespeare, Bacon, Cromwell, Milton, Newton e altri – e parlare poi dei suoi eroi cristiani che, come richiesto dalla sua professione, elevò in una posizione molto superiore agli altri, come i più grandi fra i grandi. Erano Penn, Howard e la signora Fry. Tutti devono sentire la falsità e l’ipocrisia di tutto questo. Gli ultimi non erano i migliori uomini e donne d’Inghilterra; solo, forse, i suoi migliori filantropi.

Non sminuirei nulla della lode dovuta alla filantropia, ma semplicemente esigerei giustizia per tutti coloro che, con la vita e le opere, sono una benedizione per l’umanità. In un uomo non do il massimo valore alla rettitudine e alla benevolenza, che sono, per così dire, il suo gambo e le sue foglie. Quelle piante verdi da cui, una volta secche, facciamo tisane per i malati, servono uno scopo umile, e sono spesso impiegate dai ciarlatani. Da un uomo, voglio il fiore e il frutto; voglio che un po’ di fragranza aleggi da lui verso di me, con qualcosa di maturo a dar sapore al nostro rapporto. La sua bontà non deve essere un atto parziale e transitorio, ma una costante sovrabbondanza che non gli costa nulla e di cui è inconsapevole. Questa è una carità che nasconde una moltitudine di peccati. Fin troppo spesso, il filantropo circonda l’umanità, come un’atmosfera, col ricordo dei propri dolori smessi, e la chiama “comprensione”. Dovremmo impartire il nostro coraggio e non la nostra disperazione, la nostra salute e agio e non la nostra malattia, preoccupandoci che questa non si diffonda per contagio. Da quali pianure meridionali sale la voce del pianto? Sotto quali latitudini risiede il pagano a cui dovremmo mandare la luce? Chi è quell’uomo intemperato e animalesco che dovremmo redimere? Se qualcosa affligge un uomo, così da non svolgere le sue funzioni – anche se ha un dolore nelle viscere, perché è quella la sede della compassione – egli si accingerà d’incanto a riformare il mondo! Essendo un microcosmo in sé, egli scopre – ed è una vera scoperta, e lui lo scopritore – che il mondo ha mangiato mele verdi; ai suoi occhi, infatti, il globo stesso è una grande mela verde che corre il rischio, tremendo a pensarsi, di essere consumata a morsi, piano piano, prima di diventar matura; e subito la sua drastica filantropia va alla ricerca di eschimesi e patagoni, e abbraccia i popolosi villaggi di Cina e India; e così, in pochi anni di attività filantropica, mentre i poteri lo usano per i propri fini, si curerà indubbiamente della propria dispepsia, e il globo acquisirà un lieve rossore su una o entrambe le guance, e la vita perderà la sua durezza e tornerà dolce e salubre. Non ho mai sognato enormità maggiori di quelle che ho commesso. Non ho mai conosciuto, né mai conoscerò, un uomo peggiore di me stesso.

Credo che a render triste il riformatore non sia la sua solidarietà per il prossimo che soffre ma, per quanto sia il più santo fra i figli di Dio, la sua afflizione privata. Lasciate che questa si sistemi, che la primavera lo raggiunga, e abbandonerà i suoi generosi compagni senza una parola di scusa. Il mio pretesto per non tener discorsi sull’uso del tabacco è che non l’ho mai masticato; quella è una penitenza che devono pagare i masticatori di tabacco pentiti; pur essendo tante le cose che ho masticato, e contro cui potrei far discorsi. Se vi si ingannerà mai fino a coinvolgervi in qualcuna di queste filantropie, che la vostra mano sinistra non sappia cosa fa la destra, perché non vale la pena di saperlo. Salvate chi sta affogando e allacciatevi le scarpe. Prendetevi tempo, e mettetevi a fare del lavoro libero.

I nostri costumi si sono corrotti a forza di comunicare coi santi. I nostri libri d’inni risuonano di melodiche maledizioni verso Dio, e di eterna sopportazione verso di lui. Si potrebbe dire che perfino i profeti e i redentori abbiano consolato le paure dell’uomo, piuttosto che confermarne le speranze. Non c’è un luogo ove si documenti un esempio di semplice e irreprimibile soddisfazione per il dono della vita, una memorabile lode a Dio. La salute e il successo mi fanno sempre del bene, comunque lontane e distanti possano apparire; la malattia e il fallimento mi rendono sempre triste e mi fanno sempre del male, qualunque solidarietà ci sia fra noi. Allora, se dunque risanassimo l’umanità con veri mezzi indiani, botanici, magnetici o naturali, cerchiamo prima di essere semplici e buoni come la Natura, disperdiamo le nubi che ci incombono sugli occhi, e infondiamo un po’ di vita nei nostri pori. Non accontentiamoci di essere sovrintendenti dei poveri, ma sforziamoci di far parte dei degni del mondo.

Leggo che nel Gulistan, o il giardino dei fiori, dello sceicco Sadi di Shiraz: “Fecero a un saggio una domanda, dicendo: ‘Dei molti celebri alberi che Dio l’Altissimo ha creato alti e ombrosi, nessuno si chiama azad, cioè libero, eccetto il cipresso, che non dà frutto; che mistero è questo?’. Lui rispose: ‘Ciascuno ha il proprio frutto, e la stagione deputata, durante il cui corso è fresco e rigoglioso, e durante la cui assenza è secco e avvizzito; il cipresso non è esposto a nessuno dei due stati ma resta sempre in fiore; e di questa natura sono gli azad, gli indipendenti in religione. Non puntate il cuore su ciò che è transitorio; perché il Djilah, cioè il Tigri, continuerà ad attraversare Baghdad anche quando la razza dei califfi sarà estinta; se la tua mano è colma, sii prodigo come il dattero, ma se non offre nulla da dar via, sii un azad, un uomo libero, come il cipresso’”.

VERSI COMPLEMENTARI
LE PRETESE DELLA POVERTÀ

Tu pretendi troppo, povero disgraziato bisognoso,
Chiedendo un posto nel firmamento,
Perché il tuo umile cottage, o la tua botte,
Nutre qualche pigra o pedante virtù
Alla squallida luce del sole o presso ombrose sorgenti,
Con radici ed erbe aromatiche; dove la tua mano destra,
Strappando dalla mente quelle passioni umane
Sui cui tronchi fioriscono limpide virtù in boccio,
Degrada la natura e ottunde i sensi,
E, come la Gorgone, trasforma uomini attivi in pietra.
Non esigiamo la stolida compagnia
Della tua temperanza nata dalla necessità,
O quell’innaturale stupidità
Che non conosce gioia o dolore; né la tua forzata,
Falsamente esaltata fortitudine passiva
Al di sopra dell’attività. Questa bassa abietta stirpe,
Che si pone fissa nella mediocrità,
È degna della tua mente servile; ma noi promuoviamo
Solo quelle virtù che ammettono l’eccesso,
Atti di coraggio e prodigalità, magnificenza regale,
Prudenza onniveggente, magnanimità
Che non conosce confini, e quell’eroica virtù
Di cui l’antichità non ci ha lasciato il nome,
Ma solo il modello di Ercole,
Achille, Teseo. Torna alla tua odiosa cella;
E quando vedi la nuova sfera illuminata
Studia per sapere chi furono quegli illustri.

T. CAREW

1 William Shakespeare, Giulio Cesare, tr. it. di Agostino Lombardo, Feltrinelli, Milano 2000, p. 129.

Dove vivevo e perché

In una certa stagione della nostra vita, ci abituiamo a prendere in considerazione qualsiasi punto come possibile luogo per una casa. Ho dunque perlustrato la campagna in ogni parte, entro una dozzina di miglia da dove vivo. Nell’immaginazione ho comprato tutte le fattorie, una dopo l’altra, perché erano tutte in vendita e ne conoscevo il prezzo. Mi feci una camminata per la tenuta di ogni contadino, assaggiandone le mele selvatiche, discutendone la gestione con lui, prendendola al suo prezzo, a ogni prezzo, ipotecandogliela nella mia mente; ho perfino proposto un prezzo più alto; ho preso tutto tranne l’atto di vendita (ho sostituito l’atto con la parola, talmente amo parlare); l’ho coltivata e ho coltivato lui – confido – in una certa misura, tirandomi indietro quando il mio godimento era stato sufficiente, lasciandolo a continuare il suo lavoro. Questa esperienza mi portò a esser considerato dai miei amici una sorta di agente immobiliare. Ovunque mi sedessi, lì avrei potuto vivere, e il paesaggio si irradiava da me. Cos’è una casa se non una sedes, una sede? – meglio se una sede di campagna. Scoprii molti siti adatti a una casa, dei quali non ce ne potevano essere migliori, che alcuni avrebbero potuto considerare troppo lontani dal villaggio, ma ai miei occhi era il villaggio a esser troppo lontano. Ebbene, potrei abitarci, dicevo; e ci abitavo, per un’ora, una vita estiva e autunnale; vidi come lasciar scorrere gli anni, temperare l’inverno, e vedere l’arrivo della primavera. I futuri abitanti di questa regione, ovunque potranno farsi casa, stiano certi di esser stati anticipati. Bastava un pomeriggio per mettere la terra a frutteto, legname e pascolo, e per decidere quali buone querce o pini sarebbero stati lasciati dov’erano di fronte alla porta, e dove poter disporre col risultato migliore degli alberi malati; e poi la lasciavo com’era, incolta forse, perché un uomo è ricco in proporzione al numero di cose che può permettersi di lasciar perdere.

L’immaginazione mi portò al punto di ricevere un rifiuto da parecchie fattorie – il rifiuto era tutto ciò che volevo – ma non mi sono mai bruciato le dita con un effettivo possesso. Mi avvicinai all’effettivo possesso quando comprai la proprietà Hollowell, e avevo cominciato a fare la cernita dei miei semi, e a raccogliere i materiali per farmi una carriola per trasportarli; ma prima che il proprietario potesse darmi l’atto, sua moglie – ogni uomo ha una moglie del genere – cambiò idea ed espresse il desiderio di tenerla, e mi offrì dieci dollari per liberarlo dall’obbligazione. Ora, a dire la verità non avevo che dieci centesimi in tutto, e andava oltre le mie capacità aritmetiche capire se io fossi l’uomo che aveva dieci centesimi, una fattoria, dieci dollari, o tutto quanto insieme. Comunque, gli lasciai tenere i dieci dollari e anche il podere, perché l’avevo portata avanti abbastanza; o piuttosto, per essere generoso, gli vendetti il podere per ciò a cui rinunciai e, non essendo lui un uomo ricco, gli feci dieci dollari di regalo, e ancora mi erano rimasti i dieci centesimi, i semi, e il materiale per la carriola. Scoprii così di essere ricco senza aver danneggiato la mia povertà. Però mantenni il paesaggio, e da allora ho portato via quel che mi fruttava senza bisogno di carriole. Per quanto riguarda i paesaggi,

Sono il monarca di quel che scruto,
Nessuno c’è a disputarmene il diritto.

Ho sovente visto un poeta andar via, avendo goduto della parte più valida di un podere, mentre il rozzo contadino pensava che avesse preso solo qualche mela selvatica. Invece, il proprietario non sa, per molto tempo, che quando un poeta gli ha messo in versi la fattoria, il più ammirevole tipo di recinto invisibile, l’ha onestamente fatta sua, munta e scremata, e ha preso tutta la crema, lasciando all’agricoltore solo il latte scremato.

Le vere attrattive della fattoria Hollowell, per me, erano: il suo completo isolamento, essendo a circa due miglia dal villaggio, a mezzo miglio dal primo vicino, e separata dalla strada maestra da un ampio terreno; il confine del fiume, che secondo il proprietario la proteggeva con la nebbia dalle gelate primaverili, anche se ciò non contava niente per me; il colore grigio e la condizione di rovina della casa e del fienile, e gli steccati diroccati, che mettevano un grande intervallo fra me e l’ultimo occupante; i meli vuoti, coperti di licheni, mangiati dai conigli, che mostravano quali vicini avrei avuto; ma soprattutto il ricordo che ne avevo sin dai primi viaggi risalendo il fiume, quando la casa era nascosta dietro un denso bosco di aceri rossi al di là dei quali sentivo il cane abbaiare. Avevo fretta di comprarla, prima che il proprietario finisse di buttar via i sassi, di tagliare i meli vuoti, di sradicare certe betulle giovani spuntate nel pascolo, o, in breve, di fare qualunque altro miglioramento. Per godere di questi vantaggi ero pronto a portarla avanti, a prendermi il mondo sulle spalle come Atlante – non ho mai sentito quale compenso ricevesse per questo – e a fare tutte quelle cose che non avevano altro motivo o pretesto se non che io potessi pagare per farle e non fossi molestato nel mio possesso; perché sapevo nel frattempo che mi avrebbe fruttato il più abbondante fra i raccolti che volevo se solo mi fossi potuto permettere di lasciarla com’era. Ma le cose andarono come ho detto.

Tutto ciò che posso dire, dunque, sull’agricoltura su larga scala (ho sempre coltivato un giardino) era che avevo tenuto pronti i miei semi. Molti pensano che i semi migliorino col tempo. Non ho dubbio che gli anni discriminino fra quelli buoni e quelli cattivi; e quando alla fine li pianterò, una delusione sarà meno probabile. Ma direi al mio prossimo, una volta per tutte: “Fin quando è possibile, vivete liberi e senza impegni”. Fa poca differenza se avete un impegno con una fattoria o con la prigione di contea.

Il vecchio Catone, il cui De re rustica è il mio Cultivator, dice (l’unica traduzione che abbia visto toglie ogni senso al passaggio): “Quando pensate a farvi una fattoria, rigiratevela nella mente, per non comprarla con avidità; e non risparmiatevi la fatica di vederla, né pensate che sia abbastanza guardarla una volta. Più spesso vi andate, più vi piacerà, se è buona”. Penso di non comprare con avidità, ma andrò a visitarla finché vivo, e mi ci farò seppellire, in modo che infine mi piaccia ancor di più.

Questo fu il mio successivo esperimento del genere, e intendo descriverlo in maggior dettaglio; per convenienza, trattando l’esperienza di due anni in uno. Come ho detto, non mi propongo di scrivere un’ode alla delusione, ma di vantarmi bramoso come un galletto al mattino, ritto sul trespolo, anche solo per svegliare i miei vicini.

Quando per la prima volta presi dimora nei boschi, cioè vi cominciai a passare la notte oltre al giorno, il che, casualmente, avvenne il giorno dell’Indipendenza, il 4 luglio 1845, la mia casa non era pronta per l’inverno, ma era solamente una difesa dalla pioggia, senza intonaco o camino, le pareti fatte di rozze tavole segnate dalle intemperie, con ampie crepe che la rendevano fredda la notte. I bianchi montanti verticali, tagliati da poco, e la porta e gli infissi appena piallati le davano un aspetto pulito e arioso, specialmente la mattina, quando la legna era satura di rugiada, cosicché io fantasticavo che per mezzogiorno avrebbe iniziato a trasudare resina. Per la mia immaginazione, manteneva per tutta la giornata più o meno lo stesso carattere aurorale, che mi ricordava una certa casa di montagna che avevo visitato l’anno prima. Era una capanna ariosa e senza intonaco, adatta a ricevere un dio viaggiante, e dove una dea avrebbe potuto far strascicare la sua veste. I venti che sfioravano l’abitazione erano gli stessi che spazzavano le montagne, trasportando i frammenti, le parti celesti, della musica terrestre. Il vento del mattino soffia per sempre, il poema della creazione è ininterrotto, ma poche sono le orecchie che l’ascoltano. Ovunque, l’Olimpo non è che l’esterno della terra.

L’unica casa di cui fossi mai stato proprietario in precedenza, con l’eccezione di una barca, era una tenda, che usavo di tanto in tanto nelle mie escursioni estive, e la tengo ancora, arrotolata in soffitta; ma la barca, dopo esser passata di mano in mano, è scesa lungo la corrente del tempo. Con questo riparo più solido intorno a me, avevo iniziato a far progressi per stabilirmi nel mondo. Questa struttura, così poco rivestita, era una specie di cristallizzazione intorno a me, e reagiva al suo costruttore. Suggeriva un poco l’abbozzo di un quadro. Non avevo bisogno di uscire per avere aria, perché l’atmosfera all’interno non aveva perso freschezza. Anche nel tempo più piovoso, non stavo tanto dentro ma dietro una porta. Dice l’Harivansa: “Una dimora senza uccelli è come una carne senza condimento”. La mia dimora non era così, perché mi trovai improvvisamente gli uccelli come vicini; non dopo averne imprigionato uno, ma essendomi ingabbiato vicino a loro. Non ero solo più vicino ad alcuni di quelli che solitamente frequentano il giardino e il frutteto, ma a quei cantori della foresta, più selvatici e vibranti, che mai o raramente fanno una serenata per gli abitanti del villaggio – il tordo dei boschi, il cataro fosco, la tangara scarlatta, il passero dei campi, il caprimulgo, e molti altri.

Mi ero stabilito presso la riva di un laghetto, circa un miglio e mezzo a sud del paese di Concord e un po’ più in alto, nel mezzo di un ampio bosco fra quella città e Lincoln, e circa due miglia a sud del nostro unico campo ad aver ottenuto un po’ di notorietà, il Concord Battle Ground; ma ero così in basso nel bosco che il mio orizzonte più lontano era la riva opposta, a mezzo miglio di distanza, coperta di alberi come tutto il resto. La prima settimana, ovunque lo guardassi mi colpiva il lago montano, in alto su un pendio, con la parte inferiore molto più in alto della superficie degli altri laghi, e, allo spuntar del sole, lo vedevo togliersi la veste notturna della sua nebbia, e qua e là, gradualmente, si rivelavano le sue dolci increspature e la sua liscia superficie riflettente, mentre le nebbie, come fantasmi, si ritiravano rapidamente in ogni direzione verso i boschi, come l’interrompersi di qualche conventicola notturna. La stessa rugiada sembrava incombere sugli alberi e sui fianchi delle montagne fino a giorno inoltrato, più del solito.

Questo laghetto fu un vicino di gran valore nelle pause di qualche gentile acquazzone d’agosto, quando, l’aria e l’acqua perfettamente immobili ma col cielo coperto, a metà del pomeriggio c’era la serenità della sera, e il tordo dei boschi cantava facendosi udire da una riva all’altra. Un lago come questo non è mai calmo come in questi momenti; ed essendo la parte serena dell’aria sovrastante bassa e scura per le nuvole, l’acqua, piena di luci e riflessi, diventa un secondo cielo, più basso e più grave. Da un vicino colle, dove il bosco era stato tagliato di recente, c’era una vista piacevole verso sud, al di là del lago, attraverso un’ampia fenditura nelle colline che formava la riva, dove i pendii opposti, scendendo l’uno verso l’altro, suggerivano un torrente che scorreva in quella direzione attraverso una valle boscosa – ma il torrente non c’era. In quel modo scrutavo attraverso e sopra le vicine verdi colline, fino a quelle lontane e più alte, all’orizzonte, tinte d’azzurro. In effetti, mettendomi in punta di piedi intravedevo alcune vette delle catene montagnose a nordovest, ancora più azzurre e lontane, genuino conio della Zecca celeste, e anche qualche parte del villaggio. Ma in altre direzioni, anche da quel punto, non vedevo al di sopra o al di là dei boschi che mi circondavano. È bene avere dell’acqua nelle vicinanze per dare spinta e galleggiamento alla terra. Si dà valore perfino al più piccolo dei pozzi, perché guardandolo ci si accorge che la terra non è continentale ma insulare. Questo è altrettanto importante che tenere il burro in fresco. Quando guardavo oltre il lago da questa vetta verso i prati di Sudbury, che in periodo di piena si distinguevano più elevati, forse per un miraggio nel subbuglio della valle, come una moneta in un bacile, tutta la terra al di là del lago sembrava una crosta sottile, isolata e galleggiante perfino sulla pellicola d’acqua frapposta, e mi sovveniva che ciò su cui abitavo era terra asciutta.

Sebbene dalla mia porta la vista fosse ancor più limitata, non mi sentivo affatto costretto o confinato. C’era abbastanza pascolo per la mia immaginazione. Il basso pianoro di arbusti di querce verso cui andava la riva opposta, si stendeva verso le praterie dell’Ovest e le steppe di Tartaria, offrendo ampio spazio per tutte le vagabonde famiglie degli uomini. “Nessuno al mondo è felice se non gli esseri che godono liberi di un vasto orizzonte,” disse Damodara, quando alle sue mandrie necessitarono pascoli nuovi e più grandi.

Il tempo e il luogo erano cambiati, e abitavo più vicino a quelle parti dell’universo e a quelle epoche storiche che mi avevano più attratto. Dove vivevo era altrettanto lontano di molte regioni osservate la notte dagli astronomi. Siamo soliti immaginare luoghi rari e dilettevoli in remoti e più celesti angoli del sistema solare, dietro la costellazione della Sedia di Cassiopea, lontano dal rumore e dal disturbo. Scoprii che la mia casa era situata in una parte dell’universo davvero remota, ma sempre nuova e mai profanata. Se valeva la pena stabilirsi in quei luoghi presso le Pleiadi o le Iadi, Aldebaran o Alair, allora ero già lì, o comunque ugualmente remoto dalla vita che mi ero lasciato dietro, rimpicciolito e sfavillando con un raggio così sottile che il mio vicino mi avrebbe visto solo nelle notti senza luna. Era quella la porzione del creato che avevo occupato:

C’era un pastore che vi abitava,
E alto il suo pensiero saliva
Come i monti dove il suo gregge
Lo nutriva di ora in ora

Cosa penseremmo della vita del pastore se il suo gregge si fosse spinto sempre in pascoli più alti dei suoi pensieri?

Ogni mattina era un allegro invito a dare alla mia vita la stessa semplicità e, se posso dire, la stessa innocenza della Natura stessa. Sono stato un adoratore di Aurora sincero come i greci. Mi alzavo presto e mi bagnavo nel lago; era un esercizio religioso, e una delle cose migliori che facessi. Dicono che sulla vasca da bagno del re Tching-thang fossero incisi caratteri che dicevano: “Rinnovati completamente tutti i giorni; e poi rifallo ancora, e poi ancora, e per sempre”. Questo lo posso capire. Il mattino ci riporta alle epoche eroiche. Il fievole ronzio di una zanzara che svolgeva un giro invisibile e inimmaginabile delle mie stanze allo spuntar dell’alba, quando ero seduto con porta e finestre aperte, mi toccava come avrebbero fatto le trombe della celebrità. Era il requiem di Omero; un’Iliade Odissea dell’aria, che cantava la sua ira e il suo vagabondare. C’era qualcosa di cosmico; un’inserzione, aperta fino a esaurimento, sull’imperituro vigore e fertilità del mondo. Il mattino, la più memorabile stagione della giornata, è l’ora del risveglio. Allora c’è meno sonnolenza in noi; e almeno per un’ora, si sveglia una parte di noi che dorme tutto il resto del giorno e della notte. C’è poco da aspettarci dal giorno, se lo si può chiamare così, in cui non siamo svegliati dal nostro Genio ma dal meccanico scuoterci di qualche servitore; in cui non siamo svegliati dalle nostre rinnovate forze e aspirazioni intime, accompagnate dalle ondulazioni della musica celeste, e non della sirena di una fabbrica, e da una fragranza che riempie l’aria – portandoci a una vita più alta di quella in cui ci siamo addormentati; e così l’oscurità porta il suo frutto, e si dimostra buona, non meno della luce. Quell’uomo che non crede che ogni giorno contenga un’ora precedente, più sacra e aurorale di quella non ancora profanata, prova disperazione per la vita, e persegue una via in discesa verso il buio. Dopo una parziale cessazione della vita sensibile, l’anima dell’uomo – o piuttosto i suoi organi – si rinvigorisce quotidianamente, e il suo Genio mette alla prova la vita nobile che può dare. Tutti gli eventi memorabili, direi, traspirano nell’ora e nell’atmosfera del mattino. I Veda dicono: “Tutto l’intelletto si risveglia col mattino”. La poesia e l’arte, e le più belle e più memorabili azioni umane, risalgono a quest’ora. Tutti i poeti e gli eroi, come Memnone, sono figli di Aurora, ed emettono la loro musica al far del giorno. Per chi, con un pensiero elastico e vigoroso, tiene il passo del sole, il giorno è un perpetuo mattino. Non importa cosa dica l’orologio o gli atteggiamenti e le fatiche degli uomini. Il mattino è quando sono sveglio e quando c’è l’alba dentro di me. Perché mai gli uomini danno un resoconto così povero della loro giornata se non perché stanno dormendo? Non sono così incapaci nel calcolo. Se non fossero stati sopraffatti dal torpore, avrebbero fatto qualcosa. Ci sono milioni abbastanza svegli da svolgere lavoro fisico; ma solo uno su un milione è abbastanza sveglio da svolgere un effettivo lavoro intellettuale, solo uno su cento milioni una vita poetica o divina. Essere svegli è essere vivi. Non ho mai ancora incontrato un uomo che fosse del tutto sveglio. Come avrei potuto guardarlo in volto?

Dobbiamo imparare a risvegliarci e a restare svegli, non con ausili meccanici ma con un’infinita attesa dell’alba, che non ci abbandoni neppure nel sonno più profondo. Non conosco fatto più incoraggiante dell’indiscutibile capacità da parte dell’uomo di elevare la propria vita con uno sforzo consapevole. È già qualcosa essere in grado di dipingere un certo quadro, o di scolpire una statua, e dunque di rendere belli alcuni oggetti; ma è ancora più glorioso scolpire e dipingere l’atmosfera e il mezzo attraverso cui osserviamo – cosa che possiamo fare moralmente. Influire sulle proprietà del giorno: questa è la più alta fra le arti. Ognuno ha il compito di rendere la propria vita, in tutti i particolari, degna di essere contemplata nella sua ora più elevata e critica. Se rifiutassimo, o piuttosto consumassimo, le misere informazioni che riusciamo a ottenere, gli oracoli ci informerebbero distintamente su come potremmo farlo.

Andai nei boschi perché desideravo vivere deliberatamente, affrontare solo i fatti essenziali della vita, e vedere se non potessi imparare cosa avesse da insegnare, senza scoprire, giunto alla morte, di non aver vissuto. Non desideravo vivere ciò che non era una vita, per quanto caro mi sia il vivere; né desideravo praticare la rassegnazione, a meno che non fosse necessaria. Volevo vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, vivere in modo così risoluto e spartano da sbaragliare tutto quanto non fosse vita; da aprirmi con la falce un varco ampio e raso terra, da spingere nell’angolo la vita e ridurla ai minimi termini; e, se si fosse dimostrata essere meschina, da arrivare, perché no?, alla sua completa e genuina meschinità, rendendola pubblica al mondo; o se fosse stata sublime, da conoscerla per esperienza; e da essere in grado di darne un resoconto sincero nella mia successiva escursione letteraria. Perché gran parte degli uomini, mi pare, ha una strana incertezza al riguardo, se sia del diavolo o di Dio, e ha un po’ frettolosamente concluso che il primo fine dell’uomo su questa terra è “rendere gloria a Dio e goderlo per l’eternità”.

Eppure viviamo meschinamente come formiche, anche se la favola ci racconta che tanto tempo fa fummo trasformati in uomini; come pigmei combattiamo con le gru; accumuliamo errore su errore, e colpo su colpo, e la migliore delle nostre virtù è occasionata da uno squallore superfluo ed evitabile. La nostra vita è spezzettata in minuzie. Un uomo onesto non ha bisogno di contare oltre le dieci dita delle mani, aggiungendo in casi estremi quelle dei piedi, e fare un mucchio del resto. Semplicità, semplicità, semplicità! dico io; che i vostri affari siano due o tre, e non cento o mille; invece che a un milione contate fino a mezza dozzina, e fatevi i conti sulle mani. In mezzo al mare incostante di questa vita civilizzata, sono tali le nuvole, le tempeste, le sabbie mobili, e mille e un altro elemento che un uomo deve sopportare per non colare a picco, affondare e non giungere mai in porto navigando alla cieca; e chi ci riesce deve avere grandi capacità di calcolo. Semplificate, semplificate. Invece di tre pasti al giorno fatene solo uno, se necessario; invece di cento piatti, cinque; e riducete le altre cose in proporzione. La nostra vita è come la Confederazione tedesca, fatta di staterelli dai confini sempre così fluttuanti che neppure un tedesco vi può dire quali siano al momento. La stessa nazione, con tutti i suoi cosiddetti avanzamenti interni – che fra l’altro sono tutti esterni e superficiali – è precisamente un’istituzione impacciata e cresciuta troppo, ingombra di mobili e incespicante sulle proprie trappole, rovinata dal lusso e da spese sventate, per mancanza di calcolo e di un fine degno, come i milioni di famiglie che vi risiedono; e l’unica cura per entrambi sta in un’economia rigida, una vita semplice e uno scopo elevato, severi e più che spartani. Essa vive troppo velocemente. Gli uomini ritengono indubbio ed essenziale che la nazione abbia un commercio, esporti ghiaccio, parli attraverso il telegrafo e viaggi a trenta miglia all’ora, che loro lo facciano o meno; ma è un po’ incerto se dobbiamo vivere come babbuini o come uomini. Se non posiamo le traversine, non forgiamo i binari e non ci dedichiamo al lavoro di giorno e di notte, ma armeggiamo con le nostre vite per migliorare quelle, chi costruirà le ferrovie? E se non si costruiscono le ferrovie, come andremo in paradiso in orario? Ma se stiamo a casa e ci facciamo gli affari nostri, chi vorrà le ferrovie? Non siamo noi a viaggiare sulla ferrovia, è la ferrovia a viaggiare su di noi. Avete mai pensato che sono quelle traversine a sostenere la ferrovia? Ognuna di loro è un uomo, un irlandese oppure uno yankee. I binari sono posti su di esse e coperti di sabbia, e i vagoni vi scorrono agevolmente sopra. Sono traversine solide, vi assicuro. E ogni pochi anni si dispone un nuovo lotto per viaggiarci sopra; in modo che, se qualcuno ha il piacere di andare per ferrovia, altri hanno la sventura di esser messi su un binario quando sono espulsi da una città. E quando investono un uomo che cammina nel sonno, una traversina di troppo è nella posizione sbagliata, e ci si sveglia, si fermano d’improvviso i vagoni e si fa un gran fracasso, come se questa fosse l’eccezione. Sono contento di sapere che ci vuole una banda di uomini ogni cinque miglia per mettere le traversine nei loro alloggiamenti, perché questo è un segno che un giorno ne potranno uscire.

Perché dovremmo vivere una tale vita di fretta e spreco? Siamo determinati a morire di fame prima d’essere affamati. Gli uomini dicono di fare una cosa oggi per risparmiarne nove domani, e così fanno mille cose oggi per risparmiarne nove domani. Quanto al lavoro, non ne abbiamo che sia di alcuna utilità. Abbiamo il ballo di San Vito e non riusciamo a tener ferma la testa. Se dessi solo qualche strattone alla corda del campanile, come si fa per il fuoco, cioè senza far rintoccare la campana come per la funzione, potrei dire che non esiste un uomo sul suo podere fuori Concord, nonostante gli impegni pressanti che stamattina gli sono già così spesso serviti da scusa, né un ragazzo o una donna, che non abbandonerebbe tutto per seguire quel suono, non tanto per salvare le proprietà dalle fiamme ma, se confessassimo la verità, per vederle bruciare, dato che devono bruciare ma non siamo stati noi, lo si sappia, ad appiccare il fuoco – o per spegnerlo, e dare una mano se lo si fa con uguale abilità; sì, anche se fosse la chiesa stessa a bruciare. Quasi nessuno fa la sua mezz’ora di pisolino dopo pranzo senza alzare la testa e dire, al risveglio: “Quali sono le notizie?”, come se il resto dell’umanità fosse stato di sentinella. Alcuni danno istruzioni per esser svegliati ogni mezz’ora, indubbiamente senz’altro scopo; e poi, come ricompensa, dicono cosa hanno sognato. Dopo una notte di sonno le notizie sono indispensabili come la colazione. “Per favore ditemi tutte le novità che sono successe a chiunque si trovi su questo mondo”, e uno legge, mentre prende il caffè e un dolce, che stamattina un uomo ha avuto un occhio cavato sul fiume Wachito, senza mai sognare mentre vive nella buia inesplorata grotta dei mammut di questo mondo, e mentre lui stesso non ha che i rudimenti di un occhio.

Da parte mia, potrei facilmente fare a meno dell’ufficio postale. Penso che attraverso di esso si facciano pochissime comunicazioni importanti. Per parlare criticamente, non ho mai ricevuto più di una o due lettere in vita mia – ho scritto qualche anno fa – che valessero l’affrancatura. La tariffa postale è, comunemente, un’istituzione attraverso cui si può con serietà offrire a un uomo un penny per i suoi pensieri, come così spesso si fa per scherzo. E sono certo di non aver mai letto notizie memorabili sul giornale. Se leggiamo di un uomo derubato, assassinato o ucciso in un incidente, di una casa bruciata, di una nave naufragata, di una nave a vapore esplosa, di una mucca investita sulla Western Railroad, di un cane idrofobo ucciso, o di un’invasione di cavallette d’inverno, non ci serve leggere di altri casi. Uno basta. Se conoscete il principio, cosa v’importa delle miriadi di esempi e applicazioni? Per un filosofo tutte quelle che si chiamano notizie sono pettegolezzo, e chi le redige e le legge sono vecchie che prendono il tè. Eppure non sono pochi a essere avidi di questo pettegolezzo. Ho sentito che l’altro giorno c’è stato un tale trambusto in uno degli uffici per sapere le notizie appena giunte dall’estero, che la pressione ha rotto parecchie grandi lastre quadrate di vetro appartenenti all’ente – notizie che, credo seriamente, uno spirito intelligente avrebbe potuto scrivere con sufficiente accuratezza con dodici mesi o anche dodici anni di anticipo. Quanto alla Spagna, per esempio, se sapete come inserire ogni tanto, nelle giuste proporzioni, i nomi di Don Carlos, dell’Infanta, di Don Pedro, Siviglia e Granada – i nomi possono essere cambiati un po’ dall’ultima volta che ho visto i giornali – e servire una corrida in mancanza di altri intrattenimenti, si sarebbe fedeli alla lettera, e ci si darebbe un’idea dello stato o del disfacimento delle cose in Spagna altrettanto precisa dei più succinti e lucidi servizi di qualunque giornale sotto quel titolo: e quanto all’Inghilterra, l’ultimo ritaglio significativo (o quasi) da quell’area è stato la rivoluzione del 1649; e se avete saputo la storia dei suoi raccolti in un anno medio, non avete più necessità di preoccuparvene, a meno che le vostre speculazioni non siano di carattere meramente pecuniario. Da quanto può giudicare uno che raramente guarda i giornali, non succede mai niente di nuovo all’estero, senza far eccezione per la Rivoluzione francese.

Quali notizie! Quanto è più importante sapere ciò che non invecchia mai! “Kieou-pe-yu (gran dignitario dello stato di Wei) mandò un uomo da Khoung-tseu per sapere sue notizie. Khoung-tseu fece sedere il messaggero accanto a sé, e lo interrogò in questi termini: ‘Cosa sta facendo il tuo padrone?’. Il messaggero rispose rispettoso: ‘Il mio padrone desidera diminuire il numero delle sue colpe, ma non sa come farlo’. Andato via il messaggero, il filosofo osservò: ‘Che degno messaggero! Che degno messaggero!’.” Il predicatore, invece di tormentare le orecchie di contadini sonnolenti nel loro giorno di riposo alla fine della settimana – perché la domenica è la giusta conclusione di una settimana spesa male, e non il fresco e coraggioso inizio di una settimana nuova – col suo ennesimo sermone sciatto, dovrebbe gridare con voce di tuono: “Fermatevi! Basta! Perché così veloci in apparenza, ma invece così mortalmente lenti?”.

Si considerano inganni e illusioni come le più solide delle verità, mentre la realtà resta favolosa. Se gli uomini osservassero con continuità soltanto le realtà, senza concedersi illusioni, la vita sarebbe come una fiaba e una storia delle Mille e una notte, a paragone. Se rispettassimo solo ciò che è inevitabile e ha diritto di esserlo, le strade risuonerebbero di musica e poesia. Quando, saggiamente, non ci facciamo prendere dalla precipitazione, ci rendiamo conto che solo le cose grandi e degne hanno un’esistenza permanente e assoluta, che le paure e i piaceri meschini sono solo l’ombra della realtà. Questo è sempre entusiasmante e sublime. Chiudendo gli occhi, assopendoci e consentendo all’inganno delle apparenze, gli uomini stabiliscono e confermano ovunque una vita quotidiana fatta di routine e abitudine, costruita sempre su fondamenta puramente illusorie. I bambini, che giocano alla vita, ne discernono le vere leggi e i rapporti in modo più chiaro degli uomini, che non riescono a viverla degnamente, ma pensano di essere più saggi grazie all’esperienza, cioè grazie al fallimento. In un libro indù, ho letto: “C’era il figlio di un re che, espulso dalla sua città nell’infanzia, fu cresciuto da un forestiero e, giungendo alla maturità in quello stato, immaginava di appartenere alla razza barbara con cui viveva. Quando uno dei ministri del padre lo scoprì, gli rivelò cosa fosse, si rimosse il malinteso sulla sua natura e lui seppe di essere un principe. Così, l’anima,” continua il filosofo indù, “a partire dalle circostanze in cui è situata, fraintende il proprio carattere, finché la verità non gli sia rivelata da un sacro insegnante, e allora sa di essere Brahma”. Mi rendo conto che noi abitanti della Nuova Inghilterra conduciamo questa vita meschina perché la nostra visione non penetra la superficie delle cose. Pensiamo che ciò che appareè. Se un uomo camminasse per questa città e vedesse solo la realtà, dove pensate che andrebbe la “Mill-dam”, la chiusa del mulino, che ne è il centro? Se dovesse darci un resoconto delle realtà osservate, dalla sua descrizione non riconosceremmo il luogo. Guardate i luoghi di culto, il tribunale, la prigione, le botteghe, le abitazioni, dite cosa sia ciascuna di quelle cose davanti a uno sguardo sincero, e andrebbero tutte in pezzi nel vostro resoconto. Gli uomini prendono la verità per qualcosa di remoto, alla periferia del sistema, oltre la stella più lontana, prima di Adamo e dopo l’ultimo uomo. C’è davvero qualcosa di vero e remoto nell’eternità. Ma tutti questi tempi, luoghi e occasioni sono qui e ora. Dio stesso culmina nel presente, e mai sarà più divino dopo il trascorrere del tempo. E noi siamo capaci di apprendere totalmente ciò che è sublime e nobile solo facendoci instillare e bagnare perpetuamente dalla realtà che ci circonda. Con costanza e obbedienza, l’universo risponde ai nostri concetti; possiamo viaggiare veloci o lenti, ma la pista è aperta a noi. E allora, passiamo la vita concependo. Finora, il poeta o l’artista non hanno mai avuto un progetto tanto bello e nobile, che almeno qualcuno dei suoi posteri potrà portare a compimento.

Passiamo una giornata deliberatamente come la Natura, senza deragliare per ogni guscio di noce o ala di zanzara che cada sui binari. Alziamoci presto e rapidi, e rompiamo il digiuno notturno facendo colazione, gentilmente e senza disturbo; che vadano e vengano le compagnie, che suonino le campane e gridino i bambini – determinati a vivere la nostra giornata. Perché mai dovremmo buttarci sott’acqua e seguire la corrente? Non lasciamoci sconvolgere e sopraffare da quella turbinosa e terribile rapida chiamata pranzo, situata nelle secche meridiane. Doppiate questo pericolo e sarete al sicuro, perché il resto della strada è in discesa. Con i nervi tesi, col vigore del mattino, navigatela guardando altrove, legati all’albero come Ulisse. Se la macchina fischia, lasciatela fischiare finché non diventa rauca. Se suona la campana, perché mai dovremmo affrettarci? Penseremo a quale musica somigli. Troviamoci una posizione, e poi muoviamo e infiliamo i piedi giù nel fango e nella melma dell’opinione, del pregiudizio, della tradizione, dell’illusione e dell’apparenza, quell’alluvione che ricopre il globo attraverso Parigi e Londra, New York, Boston e Concord, attraverso la Chiesa e lo stato, attraverso la poesia, la filosofia e la religione, fino a raggiungere il fondo solido e il posto della roccia, ciò che chiamiamo realtà, e diciamo: “Ecco, non c’è da sbagliarci”; e poi iniziamo, avendo un point d’appui, al di sotto della piena, del gelo e del fuoco, un posto dove potreste costruire un muro o fondare uno stato, o erigere con sicurezza un lampione o forse un misuratore, non un Nilometro ma un Realometro, affinché le ere future possano sapere quanto sia profonda la piena di inganni e apparenze raccoltasi nel corso del tempo. Se vi alzate affrontando un fatto faccia a faccia, vedrete il sole sfavillare su entrambe le superfici, come se fosse una scimitarra, e ne sentirete il dolce filo che vi divide in due attraverso il cuore e il midollo, cosicché concluderete felicemente la vostra carriera mortale. Che sia vita o morte, bramiamo solo la realtà. Se davvero stiamo morendo, ascoltiamo il rantolo che abbiamo in gola e sentiamo il freddo nelle estremità; se siamo vivi, continuiamo i nostri affari.

Il tempo non è che un torrente in cui vado a pesca. Ne bevo l’acqua; ma mentre bevo vedo il fondo sabbioso e mi accorgo di quanto sia basso. La sua lieve corrente scivola via, ma l’eternità rimane. Vorrei bere più in profondità, e pescare nel cielo, dove i ciottoli sul fondo sono le stelle. Non so contare fino a uno. Non conosco la prima lettera dell’alfabeto. Ho sempre rimpianto di non essere saggio com’ero il giorno in cui sono nato. L’intelletto è una mannaia, che discerne e si fa strada tagliando fino al segreto delle cose. Non desidero essere occupato con le mani più del necessario. La mia testa è mani e piedi. Sento che tutte le mie migliori facoltà vi sono concentrate. Il mio istinto mi dice che la testa è un organo per scavarmi la tana, come per alcune creature il muso e le zampe anteriori, e con essa scaverei e mi rintanerei in queste colline. Penso che la vena più ricca sia nelle vicinanze; dunque io giudico grazie al bastone del rabdomante e ai sottili vapori che si levano; e qui comincerò a scavare.

Leggere

Con un po’ più di volontà nella scelta degli obiettivi, tutti gli uomini diventerebbero forse studiosi e osservatori, perché di certo la loro natura e il loro destino sono di interesse per tutti. Accumulando proprietà per noi stessi o per la posterità, fondando una famiglia o uno stato, o perfino acquisendo notorietà, siamo mortali; ma affrontando la verità siamo immortali, e non c’è da temere il mutamento o gli incidenti. Il più antico filosofo egizio, o forse indù, sollevò un angolo del velo dalla statua della divinità; e ancora la veste tremante resta sollevata, e ne osservo la stessa gloria che osservò lui, poiché c’ero io in lui quando fu così audace da farlo, e ora c’è lui in me a rivedere quella visione. Su quella veste non si è posata la polvere; neppure un momento è trascorso da quando quella divinità fu rivelata. Il tempo in cui dimostriamo di avanzare, o che è indimostrabile, non è passato, presente, o futuro.

La mia residenza era più favorevole di un’università, non solo al pensiero ma alle letture serie; e sebbene fossi oltre la portata delle normali biblioteche itineranti, ero più che mai giunto sotto l’influenza di quei libri che circolano per il mondo, le cui frasi furono per la prima volta scritte su corteccia d’albero, e che ora sono semplicemente copiati ogni tanto su carta di lino. Dice il poeta Mîr Camar Uddîn Mast: “Mettermi seduto per attraversare le regioni del mondo spirituale; ho goduto di questo privilegio nei libri. Intossicarmi con un singolo bicchiere di vino; ho provato questo piacere quando ho bevuto il liquore delle dottrine esoteriche”. Ho tenuto l’Iliade di Omero sul mio tavolo per tutta l’estate, anche se solo ogni tanto ne ho guardato le pagine. Dapprima l’incessante lavoro manuale, perché avevo la casa da finire e contemporaneamente i fagioli da zappare, mi rese impossibile studiare di più. Lessi uno o due vacui libri di viaggio nelle pause del lavoro, finché quell’opera mi fece vergognare di me stesso, e mi chiesi dove fosse che io vivessi.

Lo studente può leggere Omero o Eschilo in greco senza pericolo di apparire dissipato o amante del lusso, perché ciò implica che in una certa misura ne emula gli eroi, e consacra alle loro pagine le ore del mattino. I libri eroici, anche se stampati nei caratteri della nostra madrelingua, saranno sempre in una lingua morta per tempi degenerati; e dobbiamo laboriosamente cercare il significato di ciascuna parola e verso, congetturando un senso maggiore di quello che ci permettono gli usi comuni, a partire dalla saggezza, dal valore e dalla generosità che ci troviamo ad avere. La stampa moderna, economica e fertile, pur con tutte le sue traduzioni, ha fatto poco per avvicinarci agli eroici scrittori dell’antichità. Essi sembrano più solitari che mai, e il carattere in cui sono stampati altrettanto raro e curioso. Vale la pena di spendere giornate giovanili e ore costose, per imparare anche solo poche parole di una lingua antica, sollevate dalla banalità della strada, perché fungano perpetuamente da suggerimento e provocazione. Non è invano che il contadino ricorda e ripete le poche parole latine che ha sentito. Gli uomini talvolta parlano come se lo studio dei classici dovesse, alla lunga, condurre a studi più moderni e pratici; ma lo studente avventuroso studierà sempre i classici, in qualunque lingua possano essere scritti e per quanto antichi siano. Perché cosa sono mai i classici se non la registrazione dei più nobili pensieri dell’uomo? Sono i soli oracoli che non sono decaduti, e in essi si risponde alle domande più moderne come mai hanno fatto Delfi e Dodona. Tanto varrebbe omettere di studiare la Natura, solo perché è vecchia. Leggere bene, cioè leggere libri sinceri con spirito sincero, è un esercizio nobile, e che metterà il lettore alla prova più di ogni esercizio a cui danno valore i costumi del momento. Richiede un addestramento come quello a cui si sottopongono gli atleti, la ferma intenzione quasi dell’intera vita di raggiungere quest’obiettivo. I libri vanno letti intenzionalmente e riservatamente, così come sono stati scritti. Non basta neppure saper parlare la lingua della nazione che li ha scritti, perché c’è un intervallo memorabile fra la lingua parlata e la lingua scritta, la lingua udita e la lingua letta. L’una è comunemente transitoria, un suono, una lingua, solo un dialetto, quasi animalesca, e la impariamo inconsapevolmente. L’altra ne è la maturità e l’esperienza; se quella è la nostra lingua madre, questa è la nostra lingua padre, un’espressione riservata e scelta, troppo significativa per essere udita dall’orecchio, e nella quale dobbiamo rinascere per poterla parlare. Le folle di uomini che semplicemente parlavano le lingue greca e latina nel Medioevo, per un accidente di nascita, non avevano titolo per leggere le opere di genio scritte in quelle lingue; perché non furono scritte nel greco o nel latino che loro conoscevano, ma nell’esclusiva lingua della letteratura. Non avevano appreso i più nobili dialetti di Grecia e Roma, mentre gli stessi materiali su cui erano state scritte erano per loro carta straccia, e invece davano valore alla dozzinale letteratura contemporanea. Ma quando le varie nazioni d’Europa ebbero acquisito proprie lingue distinte, sia pur grossolane ma sufficienti agli scopi delle loro letterature nascenti, allora l’erudizione rinacque per la prima volta, e gli studiosi furono in grado di discernere dalla loro lontananza i tesori dell’antichità. Ciò che la moltitudine romana e greca non poteva udire, con l’andare degli anni qualche studioso lo poteva leggere, e solo qualche studioso lo fa ancora.

Per quanto possiamo ammirare le occasionali esplosioni d’eloquenza di un oratore, comunemente le più nobili parole scritte sono dietro o sopra la volatile lingua parlata, così come il firmamento e le stelle sono dietro le nuvole. Lì sono le stelle, coloro che le sanno leggere. Gli astronomi le commentano e le osservano eternamente. Non sono esalazioni come i nostri colloqui e i nostri vaporosi respiri quotidiani. Normalmente si scopre che ciò che si chiama eloquenza nel foro è retorica nello studio. L’oratore cede all’ispirazione di un’occasione transitoria, e parla alla folla davanti a lui, a coloro che lo possono udire, ma lo scrittore, per cui l’occasione è la sua vita, molto più serena, e che sarebbe distratto dall’evento e dalla folla che ispirano l’oratore, parla all’intelletto e al cuore dell’umanità, a tutti coloro che, in ogni epoca, lo possono capire.

Non c’è da meravigliarsi che Alessandro portasse con sé l’Iliade in ogni spedizione, in uno scrigno prezioso. Una parola scritta è la più scelta delle reliquie. È una cosa allo stesso tempo più intima e più universale di ogni altra opera d’arte. È l’opera d’arte più vicina alla vita stessa. Può essere tradotta in ogni lingua, e non solo letta ma effettivamente respirata da tutte le labbra umane; rappresentata non solo su tela o marmo, ma incisa dal respiro della vita stessa. Il simbolo del pensiero di un uomo antico diventa il discorso di un uomo moderno. Duemila estati hanno impartito ai monumenti della letteratura della Grecia, come alle sue statue, solo una tinta più matura, dorata e autunnale, perché hanno trasportato la propria atmosfera serena e celeste in ogni terra, per proteggerli dalla corrosione del tempo. I libri sono la ricchezza di cui il mondo fa tesoro, e la giusta eredità delle generazioni e delle nazioni. I libri, i più antichi e i migliori, sono naturalmente e a pieno diritto sugli scaffali di ogni cottage. Non hanno una causa da invocare, ma quando illuminano e sostengono il lettore, il suo senso comune non li rifiuterà. I loro autori sono un’aristocrazia naturale e irresistibile per ogni società e, più di re e imperatori, esercitano un’influenza sull’umanità. Quando il mercante incolto e forse sprezzante ha guadagnato, con l’iniziativa e l’industriosità, il tempo libero e l’indipendenza che desidera, ed è ammesso nella cerchia della ricchezza e della moda, infine si rivolge inevitabilmente alla cerchia ancora più elevata ma finora inaccessibile, quella dell’intelletto e del genio, ed è sensibile solo all’imperfezione della sua cultura, e alla vanità e all’insufficienza di tutte le sue ricchezze, e dimostra ulteriormente il suo buon senso con la pena che si dà per assicurare ai propri figli quella cultura intellettuale la cui mancanza avverte così acutamente; ed è così che diventa fondatore di una famiglia.

Chi non ha imparato a leggere i classici antichi nella lingua in cui sono stati scritti deve avere una conoscenza molto imperfetta della storia della razza umana; perché è notevole che non si sia fatta alcuna loro trascrizione in alcuna lingua moderna. Omero non è mai stato stampato in inglese, né Eschilo, neppure Virgilio – opere raffinate, solidamente eseguite e belle quasi come il mattino stesso; perché gli scrittori successivi, qualunque cosa diciamo del loro genio, hanno raramente eguagliato – se pur mai l’hanno fatto – l’elaborata bellezza e finitura, e l’eroica fatica letteraria di tutta una vita degli antichi. Può dire di averli dimenticati solo chi non li ha mai conosciuti. Sarà tempo di dimenticarli quando avremo l’erudizione e il genio che ci renderà in grado di apprezzarli e prestar loro attenzione. Sarà un’età davvero ricca quella in cui le reliquie che chiamiamo classici e le Scritture – reliquie più che classiche, più antiche e ancor meno conosciute – delle nazioni si saranno ulteriormente accumulate, quando i Vaticani saranno pieni dei Veda, dei Zendasvesta e delle Bibbie, insieme agli Omero, ai Dante e agli Shakespeare, e quando tutti i secoli a venire avranno depositato con successo i loro trofei nel foro del mondo. Con una simile pila, possiamo sperare di scalare finalmente il cielo.

Le opere dei grandi poeti non sono mai state lette dall’umanità, perché solo i grandi poeti possono leggerle. Sono state lette solo come la moltitudine legge le stelle, nel caso migliore astrologicamente e non astronomicamente. Gran parte degli uomini ha imparato a leggere per servire una misera convenienza, come ha imparato a far di conto per tenere i registri e non farsi ingannare nel commercio; ma del leggere come nobile esercizio intellettuale sa poco o nulla; eppure solo questo può chiamarsi leggere nel senso alto, non ciò che ci culla come un oggetto di lusso e permette alle facoltà più nobili di dormire per un po’, mentre dobbiamo metterci in punta di piedi per leggere dedicandovi le nostre ore più attente e vigili.

Credo che dopo aver imparato le lettere dell’alfabeto dovremmo leggere il meglio che ci sia nella letteratura, e non ripetere per sempre l’ABC e i monosillabi come in quarta o in quinta, seduti all’ultimo banco per tutta la vita. Gran parte degli uomini è soddisfatta se legge o sente leggere la Bibbia, e forse è stata convinta dalla saggezza di quell’unico libro, e per il resto della vita vegeta e dissipa le proprie facoltà in ciò che si chiama lettura leggera. C’è un’opera in parecchi volumi nella nostra Biblioteca itinerante chiamata Little Reading, Piccola lettura, che pensavo si riferisse a una città così chiamata e in cui non ero stato. Ci sono coloro che, come i cormorani e gli struzzi, riescono a digerire cose del genere, anche dopo un pranzo completo di carne e verdura, perché non permettono che nulla vada sprecato. Se c’è chi fornisce questo foraggio, loro sono le macchine per leggerlo. Leggono la novemillesima storia su Zebulon e Sefronia, quanto si amassero come nessun altro prima, come il corso del loro amore non andasse liscio, e anzi quanto incespicò mentre procedeva, per poi rialzarsi e continuare! O come qualche sventurato salisse su una guglia, mentre avrebbe fatto meglio a non salire nemmeno su un campanile; e poi, avendolo senza necessità portato fin lì, il romanziere suona felice la campana perché tutto il mondo si raduni a sentire – o bella! – come sia tornato giù! Da parte mia, penso che farebbero meglio a trasformare tutti quegli aspiranti eroi del romanzesco universale in banderuole di forma umana, così come sono soliti mettere gli eroi in mezzo alle costellazioni, lasciandoli a ondeggiare al vento finché non arrugginiscono, e senza farli scendere affatto a disturbare gli uomini onesti con le loro burle. La prossima volta che il romanziere suonerà la campana, non muoverò un passo anche se stesse bruciando la sala delle riunioni. “The Skip of the Tip-Toe-Hop, Romanzo del Medioevo, del celebrato autore di Tittle-Tol-Tan, prossimamente a puntate mensili; grande ressa; non tutti insieme!” Si legge tutto questo con gli occhi sgranati, un’acuta e primitiva curiosità, e uno stomaco instancabile, alle cui pareti non servono stimoli, proprio come uno scolaro di quattro anni con la sua edizione di Cenerentola da due centesimi e dalla copertina dorata – senza che io veda un progresso nella pronuncia, nell’accento o nell’enfasi, né una maggiore abilità nell’estrarvi o nell’inserirvi una morale. Il risultato è un affievolirsi della vista, una stagnazione della circolazione vitale, un generale deliquio e un cedimento di tutte le facoltà intellettuali. Questo tipo di pane allo zenzero viene cotto quotidianamente e con più solerzia di quello di grano puro, o di segale e granturco, quasi in ogni forno, e trova un mercato più sicuro.

I migliori libri non vengono letti neppure da coloro che sono chiamati buoni lettori. Cosa costituisce la cultura della nostra Concord? Con pochissime eccezioni, in questa città non esiste gusto per i libri migliori o almeno per quelli buoni, anche di letteratura inglese, le cui parole tutti sanno leggere e sillabare. Perfino chi è andato al college e gli uomini di cosiddetta educazione liberale, qui e altrove, hanno in realtà poca o nessuna conoscenza dei classici inglesi; e quanto alla saggezza umana tramandata, i classici antichi e le Bibbie, che sono accessibili a chiunque ne conosca l’esistenza, ci si sforza più debolmente che altrove di familiarizzarsi con essi. Conosco un taglialegna di mezz’età che prende un giornale francese, non per le notizie, dice lui – perché è al di sopra di ciò – ma per “esercitarsi”, essendo canadese di nascita; e quando gli chiedo quale consideri la cosa migliore da fare al mondo, dice: “Oltre a questo, far pratica e migliorare l’inglese”. Questo è più o meno ciò che fa o a cui aspira, generalmente, chi è andato al college, e a quello scopo prende il giornale inglese. Chi ha magari appena letto uno dei migliori libri inglesi, quante persone troverà con cui avere una conversazione al proposito? O immaginiamo che abbia letto un classico greco o latino in originale, le cui lodi siano state celebrate rendendolo familiare anche ai cosiddetti analfabeti; non troverà assolutamente nessuno con cui parlarne, e dovrà tacerne. In effetti, è difficile che un professore di un nostro college, se ha padroneggiato le difficoltà della lingua, abbia padroneggiato quelle dell’ingegno e della poesia di un poeta greco, e ne abbia una comprensione da comunicare al lettore attento ed eroico; e quanto alle Sacre Scritture, ovvero alle Bibbie dell’umanità, chi in questa città me ne saprebbe anche solo dire i titoli? La gran parte degli uomini non sa che altre nazioni oltre a quella ebraica hanno avuto una Scrittura. Un uomo, qualunque uomo, farà di tutto per raccogliere un dollaro d’argento; ma ecco le parole d’oro, quelle proferite dagli uomini più saggi dell’antichità, del cui valore ci assicurano i sapienti di ogni epoca successiva; eppure non impariamo letture oltre all’Easy Reading, ai sussidiari e ai libri di testo; e quando lasciamo la scuola, il Little Reading e quelli di storie, fatti per ragazzi e principianti; e le nostre letture, la nostra conversazione e il nostro pensiero sono tutti a un livello bassissimo, degno solo di pigmei e nani.

Io aspiro a conoscere uomini più saggi di quelli prodotti dalla terra di Concord, i nomi dei quali conosciamo a malapena. O dovrei sentire il nome di Platone senza mai leggerne i libri? Come se Platone fosse un mio concittadino e io non lo vedessi mai – è il mio vicino e non l’ho mai sentito parlare e non ho mai partecipato della saggezza delle sue parole. Ma come stanno le cose in realtà? I suoi Dialoghi, che contengono quanto c’è di immortale in lui, sono sullo scaffale a fianco, eppure non li ho mai letti. Siamo sottoistruiti, squallidi e analfabeti; e da questo punto di vista confesso di non fare gran distinzione fra l’analfabetismo di quei miei concittadini che non sanno leggere affatto, e quello di chi ha appreso soltanto a leggere cose per bambini e intelletti deboli. Dovremmo essere allo stesso livello dei migliori dell’antichità, ma dovremmo prima sapere quanto fossero bravi quelli. Siamo una razza dall’intelligenza di un uccellino, e ci eleviamo poco più in alto, nei nostri voli intellettuali, delle colonne del quotidiano.

Non tutti i libri sono tardi come i loro lettori. Ci sono probabilmente parole rivolte esattamente alla nostra condizione, che, se potessimo davvero udirle e capirle, sarebbero più salutari per la nostra vita del mattino o della primavera, e forse darebbero una nuova luce al volto delle cose. Quanti uomini hanno fatto risalire alla lettura di un libro una nuova epoca nella loro vita? Forse esiste anche per noi un libro che spiegherà i nostri miracoli e ce ne rivelerà di nuovi. Potremmo trovarvi pronunciate cose al momento impronunciabili. A tutti i sapienti sono capitate le stesse domande che ci disturbano, ci confondono e ci sconcertano; nessuna è stata omessa; e ciascuno vi ha dato risposta, secondo la sua abilità, con le parole e con la vita. Inoltre, con la saggezza impareremo la generosità. Il solitario bracciante in una fattoria alla periferia di Concord, che ha avuto una conversione e una personale esperienza religiosa, ed è spinto dalla sua fede a una silenziosa gravità ed esclusività, può ritenere che non sia vero; ma Zoroastro, migliaia di anni fa, viaggiò per la stessa strada ed ebbe la stessa esperienza; lui però, essendo saggio, seppe che era universale, e trattò di conseguenza i suoi vicini, e si dice perfino che sia stato lui a inventare e stabilire il culto fra gli uomini. Che in umiltà comunichi con Zoroastro allora, e attraverso le influenze illustri che allargano le vedute, con Gesù Cristo stesso, e che la “nostra Chiesa” cada in disuso.

Ci vantiamo di appartenere al diciannovesimo secolo, e di avanzare più rapidi di ogni nazione. Ma considerate quanto faccia poco questo villaggio per la sua cultura. Non desidero lusingare i miei concittadini, né essere lusingato da loro, perché ciò non migliorerà né me né loro. Abbiamo bisogno di esser provocati – pungolati come dei buoi, quali siamo, a trottare. Abbiamo un sistema scolastico di base relativamente decente, ma solo scuole per bambini; e, con l’eccezione del macilento Lyceum, la sala conferenze, d’inverno e di recente il misero inizio di una biblioteca, suggeritoci dallo stato, niente scuole per noi. Spendiamo di più per quasi ogni articolo di nutrimento o denutrimento corporale, che per il nostro alimento mentale. È ora di cominciare ad avere scuole pubbliche al di sopra di quelle di base, di non abbandonare l’istruzione quando cominciamo a essere uomini e donne. È ora che i villaggi siano università, e i loro anziani docenti, col tempo libero – se siamo davvero così benestanti – perseguano il libero studio per il resto della vita. Bisogna confinare per sempre il mondo a una Parigi o a una Oxford? Non potrebbero gli studenti alloggiare e avere un’istruzione liberale sotto il cielo di Concord? Non possiamo pagare un Abelard che ci faccia lezione? Ahimè! Nel foraggiare il bestiame e nel lavorare a bottega, siamo tenuti lontano dalla scuola per troppo tempo, e la nostra istruzione ne resta tristemente trascurata. In questo paese, il villaggio dovrebbe, sotto certi punti di vista, prendere il posto della nobiltà in Europa. Dovrebbe essere il mecenate delle belle arti. È abbastanza ricco per farlo. Gli manca solo magnanimità e raffinatezza. Può spendere abbastanza soldi per le cose a cui danno valore l’agricoltore e il commerciante, ma si considera utopico proporre di spender soldi per cose che uomini più intelligenti considerano di valore molto maggiore. Questa città ha speso diciassettemila dollari per un municipio, grazie alla fortuna o alla politica, ma probabilmente non spenderà altrettanto per l’intelligenza viva, la carne da mettere in quel guscio, neppure in cent’anni. I centoventicinque dollari raccolti annualmente con gli abbonamenti al Lyceum durante l’inverno sono una spesa migliore di ogni altra identica cifra raccolta in città. Se viviamo nel diciannovesimo secolo, perché non dovremmo godere i vantaggi che offre? Perché la nostra vita dovrebbe essere provinciale, sotto qualunque punto di vista? Se leggiamo i giornali, perché non saltiamo i pettegolezzi di Boston e non prendiamo subito il miglior giornale al mondo – invece di succhiare la pappetta dei giornali “per famiglie”, o sfogliare “Olive-Branches” qui nella Nuova Inghilterra? Perché dovremmo lasciare che siano Harper & Brothers e Redding & Co. a scegliere le nostre letture? Come il nobile di gusto colto si circonda di tutto ciò a cui conduce la sua cultura – genio, sapere, spirito, libri, quadri, statue, musica, strumenti filosofici e così via – così faccia il villaggio, senza limitarsi ad avere un pedagogo, un parroco, un sacrestano, una biblioteca parrocchiale e tre probiviri, solo perché i nostri antenati pellegrini una volta hanno passato un freddo inverno su una tetra roccia insieme a loro. Agire collettivamente è agire secondo lo spirito delle nostre istituzioni; e sono certo che, così come la nostra situazione si fa più florida, i nostri mezzi sono più grandi di quelli dei nobili. La Nuova Inghilterra può assumere tutti i saggi del mondo perché vengano a insegnarvi, e può alloggiarli per tutto l’anno, senza essere affatto provinciale. Questa è la scuola insolita che vogliamo. Invece di nobili, che ci siano nobili villaggi pieni di uomini. Se necessario, rinunciamo a un ponte sul fiume, facciamo un giro più lungo in quel punto, e edifichiamo almeno un arco sopra il più buio abisso d’ignoranza che ci circonda.

Suoni

Ma mentre siamo confinati ai libri, anche i più scelti e i classici, e leggiamo solo particolari lingue scritte, che a loro volta non sono che dialettali e provinciali, corriamo il rischio di dimenticare la lingua che parlano tutte le cose e tutti gli eventi, senza metafora, l’unica a essere diffusa come uno standard. Molto viene pubblicato, ma poco stampato. I raggi che fluiscono attraverso le persiane non saranno più ricordati quando la persiana sarà completamente rimossa. Nessun metodo o disciplina può far superare il bisogno di essere sempre vigili. Cos’è un corso di storia, di filosofia o di poesia, non importa quanto ben scelta, o la migliore delle società, o la più ammirevole delle abitudini di vita, se paragonata alla disciplina di guardare sempre ciò che va visto? Sarai un lettore, semplicemente uno studente, o un veggente? Leggi il tuo fato, guarda ciò che ti è davanti, e cammina nel futuro.

La prima estate, non lessi libri; zappai fagioli. Anzi, spesso feci di meglio. Ci furono momenti in cui non mi potevo permettere di sacrificare il fiore dell’attimo presente a qualsiasi lavoro, della testa o delle mani. Amo avere ampi margini nella mia vita. Talvolta, in un mattino d’estate, dopo essermi fatto il solito bagno, mi sedevo sull’assolata soglia di casa, dall’alba fino a mezzogiorno, assorto in fantasticherie, fra pini, noci e sommacchi, in solitudine e quiete indisturbata, mentre intorno gli uccelli cantavano e senza far rumore mi svolazzavano in casa, finché il sole non si insinuava dalla finestra rivolta a occidente, o finché il rumore del carro di qualche viaggiatore sulla lontana strada maestra non mi rammentava il passar del tempo. Come grano di notte crebbi in quelle stagioni, che erano molto meglio di qualunque lavoro manuale. Esse non furono un tempo sottratto alla vita, ma molto oltre e al di sopra della mia solita razione. Compresi cosa intendessero gli orientali parlando di contemplazione e di abbandono delle opere. Per lo più, non mi curavo di come passassero le ore. Il giorno avanzava come per illuminare qualche mio lavoro; era mattina, e poi, guarda, adesso è sera, e non si è compiuto nulla di memorabile. Invece di cantare come gli uccelli, sorridevo in silenzio per la mia incessante buona fortuna. Come il passero aveva il suo trillo, seduto sul noce davanti alla mia porta, io avevo il mio chiocciare, o il mio gorgheggio soppresso, che si poteva sentir provenire dal mio nido. Le mie giornate non erano giorni della settimana che portavano il marchio di una divinità pagana, né erano tritati in ore e tormentati dal ticchettio dell’orologio; perché io vivevo come la tribù indiana Puri, di cui si dice: “Hanno una sola parola per dire ieri, oggi e domani, e ne esprimono la varietà dei significati indicando indietro per ieri, in avanti per domani, e in alto per il giorno in corso”. Questa era mera pigrizia per i miei concittadini, indubbiamente; ma se gli uccelli mi avessero messo alla prova secondo il loro metro, non mi avrebbero trovato manchevole. Un uomo deve trovare le sue occasioni dentro di sé, è vero. Il giorno naturale è molto calmo, e farà tutto tranne esprimere riprovazione per la sua indolenza.

Ho avuto almeno questo vantaggio, per il mio modo di vita, rispetto a coloro che erano obbligati a guardare fuori per gli svaghi, alla società e al teatro: che la mia stessa vita era divenuta il mio svago, e non cessava mai di essere nuova. Era un dramma con molte scene e senza un finale. Se fossimo sempre intenti a guadagnarci da vivere, e a regolarci la vita secondo il modo migliore e più recente da noi appreso, non saremmo mai disturbati dall’ennui. Seguite abbastanza da vicino il vostro genio, e non mancherà di mostrarvi una nuova prospettiva ogni ora. I lavori di casa erano un piacevole passatempo. Quando il pavimento era sporco, mi alzavo presto e, mettendo tutti i mobili sull’erba fuori dalla porta, facendo un solo mucchio di letto e lettiera, buttavo acqua sul pavimento, ci spargevo sopra della sabbia bianca presa dal lago, e poi lo strofinavo con una scopa rendendolo pulito e bianco; e per l’ora in cui i paesani avevano fatto colazione, il sole del mattino mi aveva asciugato la casa abbastanza da permettermi di rientrare, e le mie meditazioni erano quasi ininterrotte. Era piacevole vedere tutti i miei effetti casalinghi sull’erba, in un mucchietto come il fagotto di uno zingaro, e il mio tavolo a tre gambe, da cui non rimuovevo libri, penna e inchiostro, fra i pini e i noci. Anch’essi sembravano contenti di uscire, come se non volessero esser riportati dentro. Talvolta fui tentato di stenderci un telone e mettermici seduto sopra. Valeva la pena vedere il sole che splendeva su queste cose, e sentire il vento libero soffiarci sopra; quanto sembrano più interessanti i più familiari oggetti di casa all’aperto piuttosto che in casa. Un uccello si posa sul ramo accanto, il semprevivo cresce sotto il tavolo, e i rami di more si attorcigliano intorno alle sue gambe; tutt’intorno è cosparso di pigne, ricci di castagna e foglie di fragola. Sembrava come se fosse così che queste forme giungessero a trasferirsi nei nostri mobili, tavoli, sedie e letti – perché una volta erano fra loro.

La mia casa era sul pendio di un colle, prossimo all’orlo di un grande bosco, nel mezzo di una giovane foresta di pini rossi e noci, a mezza dozzina di pertiche dal lago, verso cui uno stretto sentiero scendeva dalla collina. Nel cortile sul davanti crescevano fragole, more e semprevivi, iperico e verghe d’oro, arbusti di quercia e ciliegi selvatici, mirtilli e arachidi. Verso la fine di maggio, il ciliegio selvatico (Cerasus pumila) adornava i bordi del sentiero coi suoi fiori delicati, disposti in ombrelli cilindrici intorno ai corti steli, che infine, in autunno, sotto il peso di grosse e belle ciliegie, cadevano da ogni lato in ghirlande simili a raggi. Le assaggiai come complimento alla Natura, per quanto fossero tutt’altro che gustose. Il sommacco (Rhus glabra) cresceva rigoglioso intorno alla casa, spingendosi in alto sull’argine che avevo costruito, e crescendo alto cinque o sei piedi già la prima stagione. La sua tropicale, ampia foglia pennata era piacevole da guardare, anche se strana. I grandi boccioli, che spuntavano d’improvviso a tarda primavera da gambi secchi che erano sembrati morti, si sviluppavano come per magia in rami aggraziati, verdi e teneri, del diametro di un pollice; e talvolta, mentre sedevo presso la finestra, per quanto crescevano così sbadati, affaticando i loro deboli nodi, sentivo un ramo fresco e tenero che cadeva improvvisamente a terra come un ventaglio, spezzato dal suo stesso peso. In agosto, le grandi masse di more che, in fiore, avevano attirato molte api selvatiche, gradualmente assumevano il loro luminoso e vellutato colore rosso, e sotto il loro peso, nuovamente, si piegavano e spezzavano i teneri gambi.

Mentre sto seduto alla finestra in questo pomeriggio d’estate, i falchi volano in cerchio intorno alla mia radura; il parapiglia dei piccioni selvatici, che mi attraversano la visuale volando in gruppi di due o tre, o appollaiati e irrequieti sui rami di pino bianco dietro la casa, dà voce all’aria; un falco pescatore increspa la vitrea superficie del lago e porta su un pesce; un visone esce furtivo dalla palude davanti alla mia porta e afferra una rana vicino alla riva; il falasco si piega sotto il peso degli uccelli palustri che svolazzano qua e là; e per l’ultima mezz’ora ho udito lo sferragliare dei vagoni ferroviari, che ora muore e ora torna alla vita come il batter d’ali di una pernice, mentre trasporta viaggiatori da Boston alla campagna. Perché non ho vissuto lontano dal mondo come quel ragazzo che, ho sentito, fu assunto da un contadino nella parte ovest della città, ma poco dopo scappò per tornare a casa, male in arnese e pieno di nostalgia. Non aveva mai visto un posto così deprimente e fuori mano; la gente era tutta andata via; diavolo, non si sentiva nemmeno il fischio del treno! Dubito che adesso esista ancora un posto del genere nel Massachusetts:

In verità, il nostro villaggio è diventato un bersaglio
Per una di quelle beffarde frecce della ferrovia, e sulla
Nostra pacifica pianura il suono che ci placa è:
Concord.

La ferrovia di Fitchburg tocca il lago a circa cento pertiche a sud di dove abito. Di solito vado al villaggio seguendone il percorso e con questo legame resto, per così dire, imparentato alla società. Gli uomini sui treni merci, che percorrono tutta la lunghezza della strada, mi fanno un inchino come a un vecchio amico, per quanto spesso mi sorpassano, e in apparenza mi prendono per un operaio; ed è quello che sono. Anch’io sarei volentieri un riparatore di binari, da qualche parte nell’orbita della terra.

Il fischio della locomotiva penetra i miei boschi d’estate e d’inverno, suonando come il grido di un falco che vola sull’aia di un contadino, informandomi che molti irrequieti mercanti di città, o degli avventurosi commercianti di campagna, stanno giungendo ai confini della città. Mentre giungono in vista, si gridano a vicenda l’avvertimento di togliersi dai binari, che si sente talvolta oltre i confini di due città. Ecco le tue spezie, campagna; le vostre razioni, campagnoli! Né c’è nessuno così indipendente sul suo podere da poter dir loro di no. Ed ecco la vostra paga per loro! grida il fischietto del campagnolo; legna come lunghi arieti alla velocità di venti miglia all’ora che colpiscono le mura della città, e abbastanza sedie da far sedere tutti coloro che, stanchi, appesantiti e affaticati, vi abitano all’interno. Con immensa, goffa civiltà, la campagna porge una sedia alla città. Tutte le colline degli indiani vengono spogliate, tutti i prati setacciati per rifornire di mirtilli la città. A nord il cotone, a sud la stoffa tessuta; a nord la seta, a sud la lana; a nord i libri, ma ecco andare a sud lo spirito che li scrive.

Quando incontro la locomotiva col suo corteo di vagoni che si muove seguendo il moto planetario – o piuttosto come una cometa, perché l’osservatore non sa se con quella velocità e direzione rivisiterà mai questo sistema, dato che la sua orbita non sembra una curva chiusa –, con la sua nuvola di vapore simile a una bandiera ondeggiante dietro le sue ghirlande d’oro e argento, come molte soffici nubi che ho visto, alte in cielo, dispiegando la sua massa alla luce, come se questo semidio viaggiante, questo dominatore delle nuvole, stesse per trasformare il cielo del tramonto nella livrea del suo seguito; quando sento il cavallo di ferro far riecheggiare le colline col suo sbuffo di tuono, che scuote la terra coi piedi ed emette fuoco e fumo dalle narici (non so proprio che tipo di cavallo alato o di focoso drago metteranno nella nuova mitologia), sembra che la terra abbia finalmente avuto una razza degna di abitarla. Se solo tutto fosse come sembra, e gli uomini asservissero gli elementi per fini nobili! Se la nube che incombe sul motore fosse il sudore di atti eroici, o benefica per gli uomini come quella che fluttua sui campi del contadino, allora gli elementi e la Natura stessa accompagnerebbero allegramente gli uomini nelle loro missioni, e ne sarebbero la scorta.

Osservo il passaggio mattutino dei vagoni con lo stesso sentimento col quale osservo il sorgere del sole, che è altrettanto regolare. Il treno di nuvole che si stende dietro di loro e si alza sempre più alto, che va in cielo mentre i vagoni vanno a Boston, nasconde il sole per un minuto e getta nell’ombra il mio campo lontano, un treno celeste accanto al quale il meschino corteo di vagoni che abbraccia la terra non è che una punta di lancia. Lo stalliere del cavallo di ferro si è alzato presto in questo mattino d’inverno, alla luce delle stelle sulle montagne, per foraggiare e porre i finimenti al destriero. Anche il fuoco è stato svegliato presto, per mettere dentro di lui il calore vitale e farlo partire. Se solo l’impresa fosse innocente come è precoce! Se la neve è profonda, si allacciano le scarpe da neve, e con l’aratro gigante si scava un solco dalla montagna fino al mare, in cui i vagoni, come una seminatrice al seguito, cospargono la campagna di uomini irrequieti e merci fluttuanti. Tutto il giorno il destriero di ferro s’invola per la campagna, fermandosi solo per far riposare il suo padrone, e io vengo svegliato a mezzanotte dal suo spavaldo sbuffo di girovago quando, in una remota valle del bosco, affronta gli elementi ricoperti di ghiaccio e neve; e raggiungerà la scuderia solo con la stella del mattino, per ricominciare da capo i suoi viaggi senza riposo o neppure un pisolino. O forse, la sera, lo sento nella sua stalla mentre soffia via le energie superflue della giornata, per calmarsi i nervi e raffreddare il fegato e il cervello con qualche ora di ferreo sonno. Se solo l’impresa fosse altrettanto eroica e autorevole quanto è protratta e instancabile!

Lontano, attraverso boschi poco frequentati, al confine fra le città, dove una volta, di giorno, penetrava solo il cacciatore, nelle ore più buie della notte guizzano questi luminosi vagoni di prima classe, senza che i loro abitanti se ne rendano conto; una volta fermandosi in una brillante stazioncina di paese o di città, dove si raduna una folla di società, la volta successiva nella Dismal Swamp, la tetra palude, dove spaventa il gufo e la volpe. Le partenze e gli arrivi dei vagoni segnano ormai le epoche della giornata del villaggio. Vanno e vengono con tale regolarità e precisione, e il loro fischio si può sentire in tale lontananza, che i contadini fissano l’orologio sentendoli, e così una sola istituzione ben condotta riesce a regolare un intero paese. Non sono progrediti almeno un po’ in puntualità dal tempo dell’invenzione della ferrovia? Non parlano e non pensano più veloce nel deposito di quanto non facessero alla fermata della carrozza a cavalli? C’è qualcosa di elettrificante nell’atmosfera del primo. Mi sono stupito dei miracoli che ha compiuto; perfino alcuni dei miei vicini i quali, lo avrei profetizzato una volta per tutte, non sarebbero mai andati a Boston con un mezzo così sollecito, erano qui vicino quando è suonata la campana. Fare le cose “alla maniera ferroviaria” è lo slogan d’oggi; e vale la pena ricevere con tale frequenza e sincerità l’avvertimento di togliersi dai binari. In questo caso non c’è motivo di fermarsi a leggere la formula del Riot Act, né aprire il fuoco sulla testa della folla. Abbiamo costruito un fato, un Atropos, che non gira mai il volto (che questo sia il nome della vostra macchina). Agli uomini si pubblicizza che a una certa ora e a un certo minuto si spareranno queste frecce verso certi punti della bussola, ma senza interferire con gli affari di alcuno, e i bambini vanno a scuola seguendo l’altro percorso. Viviamo in maniera più sicura grazie a esso. Siamo tutti educati, allora, a essere figli di Tell. L’aria è piena di frecce invisibili. Ogni sentiero tranne il tuo è il sentiero del fato. Continua a seguire il tuo binario, allora.

A raccomandarmi il commercio è il suo coraggio e spirito d’iniziativa. Non si mette a mani giunte per pregare Giove. Tutti i giorni vedo questi uomini badare ai propri affari con maggiore o minore coraggio e soddisfazione, facendo anche più di quel che sospettano, e forse impiegati meglio di quanto avrebbero potuto escogitare consapevolmente. Sono toccato meno dall’eroismo di coloro che mantennero la posizione per mezz’ora sul fronte di Buena Vista, che dal continuo, gioioso valore degli uomini che d’inverno abitano lo spalaneve; che non hanno solo il coraggio delle tre del mattino, che Bonaparte riteneva il più raro, ma il cui coraggio non va a riposare così presto, che vanno a dormire solo quando dorme la tempesta o si congelano i muscoli del loro destriero di ferro. Questa mattina della Grande nevicata, che forse infuria ancora, congelando il sangue degli uomini, sento il suono soffocato della campana della loro macchina che esce dal banco di nebbia del loro respiro gelato, che annuncia che i vagoni arrivano, senza ritardo, nonostante il veto di una nevicata dal Nordest della Nuova Inghilterra, e osservo lo spalatore ricoperto di neve e brina, con la testa che sbircia dalla lama dell’aratro che rivolta più che margherite e tane di topi campagnoli, zolle simili ai macigni della Sierra Nevada, che occupano un posto esterno nell’universo.

Il commercio è sorprendentemente fiducioso e sereno, vigile, avventuroso e instancabile. È inoltre molto naturale, molto più di tante fantastiche iniziative ed esperimenti sentimentali, ecco il motivo del suo singolare successo. Sono rinvigorito e dilatato quando il treno merci mi sferraglia accanto, e sento l’odore emanato da tutte le provviste lungo il percorso che va dal Long Wharf di Boston fino al Lago Champlain, che mi ricordano posti stranieri, scogliere di corallo, oceani indiani, climi tropicali e l’estensione del globo. Mi sento un cittadino del mondo alla vista delle foglie di palma che l’estate prossima copriranno tante teste color stoppa della Nuova Inghilterra, canapa di Manila e gusci di cocco, vecchia carne salata, sacchi di iuta, rottami di ferro e chiodi arrugginiti. Questo vagone carico di vele strappate è adesso più leggibile e interessante che se fosse impresso su carta e libri stampati. Chi potrebbe scrivere altrettanto vividamente di questi squarci la storia delle tempeste superate? Sono bozze che non hanno bisogno di correzione. Ecco il legname dei boschi del Maine, che non è andato fino al mare con l’ultima piena ed è salito a quattro dollari il migliaio a causa di quello che vi è andato o si è spaccato: pino, abete, cedro, di prima, seconda, terza e quarta qualità, da agitare davanti all’orso, all’alce e al caribù. Poi scorre la calce di Thomaston, di prima scelta, che arriverà molto lontano fra le colline prima di essere spenta. Queste balle di stracci, di tutti i colori e qualità, la più infima condizione a cui discendano il cotone e il lino, l’esito finale dei vestiti, con motivi che ora non vengono più celebrati, tranne forse a Milwaukee, come quegli splendidi articoli, tessuti stampati, percalle, mussole e così via, inglesi, francesi o americani, raccolti da ogni angolo della moda come della povertà, destinati a diventare carta dello stesso colore o di poche tinte, su cui di certo saranno scritti racconti di vita reale, elevata o miserabile, e basata sui fatti! Questo carro chiuso manda odore di pesce salato, il forte aroma del commercio e della Nuova Inghilterra, che mi rammenta i Grandi banchi e le zone di pesca. Chi non ha mai visto un pesce salato, acconciato ben bene per questo mondo in modo che nulla possa guastarlo, che farebbe la perseveranza dei santi? Col quale potresti spazzare o pavimentare le strade, e spaccare la sterpaglia per fare il fuoco, e col quale il carrettiere può trovar riparo per sé e per il suo carico dal sole, dal vento e dalla pioggia, e il mercante – uno di Concord lo fece – può appenderlo sulla porta come insegna quando entra in affari, finché infine neppure il suo cliente più anziano può dire se fosse animale, vegetale o minerale, ma restando sempre puro come un fiocco di neve, e se fosse messo in pentola e bollito, ne uscirebbe un eccellente pesce scuro per il pranzo del sabato. Poi le pelli spagnole, con la coda che conserva ancora la posizione e l’angolo d’inclinazione che aveva quando i buoi a cui apparteneva scorrazzavano per le pampas del Sudamerica, un tipo tutto ostinazione, da cui si evince quanto siano senza speranza e incurabili tutti i vizi di costituzione. Confesso che, praticamente parlando, quando ho appreso la vera disposizione di un uomo, non ho speranze di cambiarla in meglio o in peggio, in questa condizione dell’esistenza. Come dicono gli orientali: “La coda di un cane può essere riscaldata, schiacciata e piegata con legacci, e dopo averci faticato per dodici anni, manterrà ancora la sua forma naturale”. La sola cura efficace per la pertinacia esibita da queste code è di incollarle, e allora resteranno ferme e al loro posto. Ecco un barile di melassa o brandy, diretto a John Smith di Cuttingsville nel Vermont, mercante nelle Green Mountains, che importa merci per i contadini che si trovano vicino alla zona che ha dissodato, e ora forse si spreme le grosse meningi pensando agli ultimi arrivi sulla costa, a come possano influenzargli i prezzi, mentre dice ai suoi clienti, adesso come altre venti volte prima di stamattina, che ne aspetta un po’ di prima qualità col prossimo treno. È pubblicizzato sul “Cuttingsville Times”.

Mentre arrivano queste cose, altre se ne vanno. Avvisato dal suono sibilante, alzo lo sguardo dal mio libro e vedo dei pini alti, abbattuti su colline molto più a nord, che si sono fatti strada scavalcando le Green Mountains e il fiume Connecticut; scoccati come una freccia attraversano la città in venti minuti, senza che ci siano altri occhi a osservarne la partenza salendo

per l’albero maestro
di qualche grande ammiraglia.1

E ascoltate! ecco arrivare il treno che solleva in aria il bestiame di mille colline, ovili, stalle e vaccherie, mandriani coi loro bastoni, e ragazzi pastori nel mezzo del loro gregge, tutto tranne i pascoli di montagna, turbinanti come foglie soffiate dalla montagna coi venti di settembre. L’aria è piena dei belati di pecore e vitelli, e del calpestio dei buoi, come se stesse passando un’intera valle pastorale. Quando il vecchio ariete in testa fa suonare il suo campanaccio, le montagne si mettono a saltellare come arieti, e le collinette come agnelli. Anche un vagone di mandriani, lì in mezzo, tutt’uno col loro gregge, senza più la loro vocazione ma ancora aggrappati al loro inutile bastone come insegna dell’incarico. Ma i loro cani dove sono? La loro è una fuga disordinata, sono disorientati, hanno perso la traccia dell’odore. Credo di sentirli abbaiare dietro le Peterboro’ Hills, o affannarsi sul versante ovest delle Green Mountains. Non ci saranno al momento della morte. Anche loro sono senza vocazione. La loro fedeltà e scaltrezza non sono più senza pari adesso. Sgattaioleranno vergognosi nei loro canili, o forse fuggiranno, diventando selvatici e stringendo alleanza con il lupo e la volpe. Eccoti la vita pastorale che turbina via. Ma suona la campana, e devo andar via dai binari e far passare i vagoni:

Che cos’è la ferrovia per me?
Non vado mai a vedere
Dove finisce.
Riempie qualche valle,
E crea stormi per le rondini,
Fa soffiare la sabbia,
E fa crescere le more.

Ma io la attraverso come una strada carraia nel bosco. Non mi farò cavare gli occhi e assordare le orecchie dal suo fumo, dal suo vapore e dal suo fischio.

Ora che i vagoni sono passati, e insieme a loro tutta l’irrequietezza del mondo, e i pesci nel lago non ne sentono più il rombo, sono più solo che mai. Per il resto del lungo pomeriggio, forse, le mie meditazioni saranno interrotte solo dal debole rumore di un carretto o di una pariglia in lontananza lungo la strada maestra.

Talvolta, la domenica, col vento favorevole sentivo le campane, la campana di Lincoln, Acton, Bedford o Concord, una melodia debole, dolce e, per così dire, naturale, che valeva la pena importare nella terra selvaggia. A distanza sufficiente al di là del bosco, questo suono acquisisce un certo ronzio vibratorio, come se gli aghi di pino all’orizzonte stessero scorrendo le corde di un’arpa. Tutti i suoni, se uditi alla massima distanza possibile, producono esattamente lo stesso effetto, la vibrazione di una lira universale, proprio come l’atmosfera frapposta rende una cresta di terreno interessante agli occhi, col colore azzurro che le impartisce. Mi giunse in questo caso una melodia distorta dall’aria, che aveva conversato con ogni foglia e ago del bosco, quella parte del suono che gli elementi avevano preso, modulato e fatto riecheggiare di valle in valle. L’eco è, in una certa misura, un suono originario, e da ciò proviene la sua magia e il suo fascino. Non è meramente una ripetizione di ciò che vale la pena di ripetere nella campana, ma in parte la voce del bosco; le stesse banali parole e note cantate da una ninfa dei boschi.

La sera, il lontano muggito di una vacca, all’orizzonte oltre il bosco, risuonava dolce e melodioso, e dapprima lo prendevo per la voce di certi menestrelli che talvolta mi facevano una serenata, in giro per colli e valli; ma presto fui deluso, in modo non spiacevole, quando si prolungò nell’economica, naturale musica della vacca. Non intendo essere ironico, ma esprimere il mio apprezzamento per il canto di quei giovani, quando affermo di percepirne chiaramente l’affinità con la musica delle vacche, e che essi erano in fondo un’articolazione della Natura.

Regolarmente, alle sette e mezza, per parte dell’estate, dopo il passaggio del treno serale, i caprimulghi cantavano i loro vespri per mezz’ora, appollaiati su un ceppo vicino alla mia porta, o su una delle travi del tetto di casa. Cominciavano a cantare quasi con la stessa precisione dell’orologio, entro cinque minuti da un certo momento, facendo riferimento ogni sera all’ora del tramonto. Avevo una rara opportunità per familiarizzarmi con le loro abitudini. Talvolta ne sentivo quattro o cinque contemporaneamente, in diverse parti del bosco, ognuno casualmente una battuta dietro un altro, e così vicini da distinguere non solo lo schiocco dopo ciascuna nota, ma spesso anche quel singolare ronzio simile a quello di una mosca presa in una ragnatela, solo più forte in proporzione. Talvolta uno volava in cerchio tutt’intorno a me nel bosco, a pochi piedi di distanza, come se fosse legato con una corda, quando probabilmente mi trovavo vicino alle sue uova. Cantavano a intervalli per tutta la notte, ed erano sempre più musicali che mai poco prima e al momento dell’alba.

Quando gli altri uccelli si fermano i barbagianni prendono l’incarico, come donne in lutto col loro antico u-lulu. Il loro lugubre grido è davvero degno di Ben Jonson. Sapienti megere di mezzanotte! Non è l’onesto e tagliente tu-uit tu-u dei poeti ma, senza scherzare, una solenne cantilena cimiteriale, la mutua consolazione degli amanti suicidi che ricordano i tormenti e le delizie dell’amore supremo nei boschi dell’inferno. Eppure io amo sentire il loro lamento, le loro risposte dolenti, che vibrano ai lati del bosco, rammentandomi talvolta la musica e gli uccelli canterini; come se fosse il lato oscuro e piangente della musica, i rimpianti e i sospiri che accettano lieti di esser cantati. Sono gli spiriti, i bassi spiriti e i presagi malinconici, delle anime cadute che, una volta in forma umana, hanno camminato di notte per la terra e hanno commesso atti di oscurità, espiando adesso per i loro peccati con i loro lamentosi inni e trenodie, nello scenario delle loro trasgressioni. Mi danno un nuovo senso della varietà e della capacità di quella Natura che è nostra dimora comune. Oh-o-oo-o che io non fossi mai natoooo! sospira uno, da questa parte del lago, volando in cerchio, con l’irrequietudine della disperazione, fino ad appollaiarsi di nuovo su una quercia grigia. Poi... che io non fossi mai natooooo! un altro fa eco dall’altra parte con tremula sincerità, e il natoooo! giunge debole in lontananza nel bosco di Lincoln.

Ricevetti anche la serenata di un gufo. Vicino, lo immaginavo come il più malinconico suono della Natura, come se intendesse fare uno stereotipo e rendere permanente nel suo coro il gemito di un essere umano morente, una povera debole reliquia della mortalità che si è lasciata la speranza alle spalle, e ulula come un animale, ma con singhiozzi umani, mentre entra nella valle oscura, reso più tremendo da una certa melodiosità gorgogliante – mi trovo a cominciare con le lettere g-l quando provo a imitarlo –, espressiva di una mente che ha raggiunto lo stadio ammuffito e gelatinoso nella mortificazione di ogni pensiero salutare e coraggioso. Mi rammentava i ghoul, gli idioti e le urla dei pazzi. Ma ora ce n’è uno che risponde dai boschi lontani con una distorsione resa davvero melodiosa dalla distanza: Hoo hoo hoo, hoorer hoo; e in effetti suggeriva per lo più soltanto associazioni piacevoli, che la sentissi di giorno o di notte, d’estate o d’inverno.

Sono felice che esistano i gufi. Che siano loro a fare gridi idioti e maniaci al posto degli uomini. È un suono ammirevolmente adatto a paludi e boschi crepuscolari, mai illuminati dal giorno, che suggeriscono una Natura, vasta e sottosviluppata, che gli uomini non hanno riconosciuto. Rappresentano il severo crepuscolo e i pensieri insoddisfatti che tutti hanno. Per tutta la giornata il sole splende sulla superficie di una selvaggia palude, dove si innalza la quercia doppia, a cui si attaccano i licheni usnea, sopra la quale volano in cerchio dei falchetti, con la cincia che biascica fra i sempreverdi, e sotto la quale si imboscano la pernice e il coniglio; ma ora è l’alba di una giornata più adatta e cupa, e una diversa razza di creature si sveglia per esprimere il significato della Natura.

La sera tardi, sentivo il lontano rombo dei carri sui ponti – un suono che di notte si sente più lontano di qualunque altro –, l’abbaiare dei cani, e talvolta di nuovo il muggire di una vacca sconsolata in un fienile lontano. Nel frattempo tutta la riva risuonava dello strombazzare delle rane toro, i gagliardi spiriti di beoni e festaioli impenitenti, che cercano di cantare un inno nel lago del loro Stige – se le Ninfe di Walden mi perdonano il paragone, perché pur non esistendo erbacce, ci sono le rane –, che volentieri manterrebbero le esilaranti regole delle loro vecchie tavolate festive, anche se le loro voci sono diventate rauche e solennemente gravi, prendendosi gioco dell’allegria, e il vino ha perso sapore, ed è diventato solo un liquore che distende i ventri, e non giunge mai una dolce ubriachezza a sommergere il ricordo del passato, ma solo una saturazione, un impregnarsi e una distensione. La più dirigenziale, col mento su una ninfea a forma di cuore, che serve da salvietta per i suoi amici sbavanti, sotto questa riva settentrionale tracanna un sorso profondo di quell’acqua una volta disprezzata, e passa la tazza con l’esclamazione tr-r-r-oonk, tr-r-r-oonk, tr-o-o-nk! E subito arriva sull’acqua, da un’ansa lontana, la stessa parola d’ordine ripetuta, dove la successiva in ordine di anzianità e diametro ha bevuto la sua parte fino al segno; e quando si è seguita l’osservanza per tutto il perimetro del lago, allora il maestro di cerimonie esclama soddisfatto: tr-r-r-oonk! E ognuna lo ripete a turno, fino a quella meno distesa, con la pancia più debole e flaccida, affinché non ci siano sbagli; e allora la coppa fa il giro ancora, e poi ancora, finché il sole non disperde la nebbia del mattino, e solo il patriarca non è sott’acqua, ma invano urla ogni tanto il suo troonk, facendo pausa in attesa di una risposta.

Non sono certo di aver mai sentito il canto del gallo dal mio terreno, e pensai che valesse la pena tenere un galletto, soltanto per la sua musica, come uccello canterino. Il canto di questo fagiano indiano, una volta selvatico, è senz’altro il più notevole di tutti, e se li si potesse naturalizzare senza addomesticarli, diventerebbe presto il suono più famoso dei nostri boschi, superando il clangore dell’oca e lo stridere dei gufi; e poi immaginate il chiocciare delle galline che riempie le pause quando riposano le trombe dei loro signori! Nessuna meraviglia che l’uomo abbia aggiunto questo uccello agli animali domestici – per non parlare di uova e cosciotti. Camminare in un mattino d’inverno in un bosco dove abbondassero questi uccelli, nei loro boschi nativi, e sentire i galletti selvatici cantare sugli alberi, sommergendo le note più flebili degli altri uccelli... pensateci! Metterebbe in allarme le nazioni. Chi non si alzerebbe presto, per alzarsi sempre più presto ogni successivo giorno della sua vita, fino a diventare indicibilmente sano, ricco e saggio? Il canto di questo uccello straniero viene celebrato da poeti di tutti i paesi, insieme alle note dei loro nativi cantori. È perfino più indigeno dei nativi. È sempre in buona salute, ha polmoni solidi e uno spirito inflessibile. Perfino il marinaio sull’Atlantico e sul Pacifico viene svegliato dalla sua voce; ma il suo suono stridulo non mi ha mai scosso dai miei sonni. Non tenevo cane, gatto, mucca, maiale o gallina, tanto che avreste detto che c’era una carenza di suoni domestici; neppure una zangola o un filatoio, né un canto di pentolino o un fischio di caffettiera, né un pianto di bambini a confortarmi. Un uomo d’altri tempi avrebbe perso la ragione o sarebbe morto di noia in questa situazione. Nemmeno topi nel muro, perché si erano trovati alla fame, o piuttosto non avevano mai trovato un’esca, solo scoiattoli sul tetto e sotto il pavimento, un caprimulgo sulla trave del tetto, una ghiandaia che gridava sotto la finestra, una lepre o una marmotta sotto la casa, un barbagianni o un gufo sul retro, uno stormo di oche selvatiche o un tuffolo ridente sul lago, e una volpe che abbaiava di notte. Neppure un’allodola o un rigogolo, quei miti uccelli da piantagione, hanno mai visitato la mia radura. Niente galletti a cantare o galline a chiocciare nell’aia. Niente aia! Solo Natura non recintata a raggiungervi fin sulla soglia. Una giovane foresta che vi cresceva sotto la finestra, e sommacchi selvatici e rovi di more che vi irrompono in cantina; testardi pini rossi che sfregano e crepitano contro le assi del tetto per mancanza di spazio, con le radici che giungono fin sotto la casa. Come combustibile, invece di una tegola o di un’imposta soffiata via dal vento, un albero di pino spezzato o sradicato dietro casa vostra. Durante la Grande nevicata, piuttosto che non avere alcun sentiero che conducesse alla porta del cortile sul davanti – niente porta – niente cortile – e niente sentiero che conducesse al mondo civilizzato!

1 John Milton, Paradiso perduto, a cura di Roberto Sanesi, Mondadori, Milano 2000, p. 21. [N.d.T.]


Solitudine

Questa è una serata deliziosa, in cui tutto il corpo è un solo senso, e assorbe piacere da ogni poro. Con una strana libertà vado e vengo nella Natura, ne sono parte. Mentre cammino lungo la riva pietrosa del lago – in maniche di camicia anche se fa fresco, tira vento e ci sono nuvole – e non c’è nulla di speciale ad attrarmi, tutti gli elementi mi sono insolitamente congeniali. Le rane toro strombazzano per annunciare la notte, e il canto del caprimulgo è trasportato dal vento mentre increspa l’acqua che attraversa. L’immedesimazione con gli ontani e i pioppi mi toglie quasi il respiro; eppure, come il lago, la mia serenità è increspata ma non arruffata. Queste piccole onde sollevate dal vento serale sono altrettanto lontane da una tempesta della liscia superficie riflettente. Anche se ora fa buio, il vento soffia e ruggisce ancora nel bosco, le onde continuano a infrangersi, e alcune creature cullano tutte le altre con le loro note. Il riposo non è mai completo. Gli animali più selvatici non riposano, ma vanno proprio ora in cerca di prede; la volpe, la puzzola e il coniglio ora vagano per i campi senza paura. Sono i guardiani della Natura, legami che ci connettono ai giorni della vita animata.

Quando torno a casa, scopro che ci sono stati visitatori che hanno lasciato il loro biglietto da visita, un mazzo di fiori, una ghirlanda di sempreverdi, o un nome a matita su una foglia di noce ingiallita o su una scheggia di legno. Chi viene di rado nel bosco prende in mano un pezzetto di foresta per giocarci lungo il cammino, e me lo lascia, intenzionalmente o per caso. Uno ha pelato una bacchetta di salice, l’ha intrecciata in un anello e l’ha fatta cadere sul mio tavolo. Riuscivo sempre a capire se fossero capitati visitatori in mia assenza, dai rami o dall’erba piegati, dall’impronta delle scarpe, e generalmente capivo anche di quale sesso, età o rango fossero, da qualche lieve traccia lasciata, come un fiore fatto cadere, un mazzo d’erba colto e gettato via, magari lontano verso la ferrovia a mezzo miglio di distanza, o da un persistente odore di sigaro o pipa. Anzi, sovente il passaggio di un viaggiatore lungo la strada maestra a sessanta pertiche di distanza mi veniva notificato proprio dall’odore della pipa.

Di solito c’è spazio sufficiente fra di noi. Il nostro orizzonte non ci raggiunge mai fino ai gomiti. Il fitto bosco non ci arriva mai alla porta, e neppure il lago, ma in qualche modo è sempre terra dissodata, familiare e da noi consumata, appropriata e recintata in una maniera o nell’altra, e reclamata alla Natura. Per quale ragione ho quest’ampia portata e questo itinerario, alcune miglia quadrate di foresta disabitata, come spazio privato, abbandonatomi dagli uomini? Il mio vicino più prossimo è a un miglio di distanza, e nessuna casa è visibile entro mezzo miglio dalla mia, se non dalla cima delle colline. Il mio orizzonte è limitato da boschi, tutto per me; una vista da lontano della ferrovia dove tocca il lago da un lato, e quella dello steccato che costeggia il sentiero fra i boschi dall’altro. Ma in gran parte, dove vivo è altrettanto solitario delle praterie. È altrettanto Asia o Africa che Nuova Inghilterra. Ho, per così dire, un mio sole, una mia luna e delle mie stelle, e un piccolo mondo tutto per me. Di notte non c’era mai un viaggiatore che passasse da casa mia, o che mi bussasse alla porta, più che se fossi il primo o l’ultimo uomo al mondo; tranne in primavera, quando a lunghi intervalli ne venivano alcuni dal villaggio a pescare pesci gatto – chiaramente pescavano molto più nel Lago di Walden che nel proprio carattere, e con l’oscurità davano esca ai loro ami – ma presto si ritiravano, solitamente con cesti molto leggeri, lasciando “il mondo all’oscurità e a me”, e il nero nocciolo della notte non era mai profanato da vicini umani. Credo che gli uomini abbiano generalmente ancora paura della notte, anche se le streghe sono state tutte impiccate e si sono introdotti il cristianesimo e le candele.

Eppure mi resi talvolta conto che in qualunque oggetto naturale si può trovare la compagnia più dolce e tenera, più innocente e incoraggiante, anche per il povero misantropo e per il più malinconico degli uomini. Non ci può essere malinconia nera per colui che vive nel mezzo della Natura, con i sensi tranquilli. Non c’era mai stata una tempesta che non fosse musica eolia per l’orecchio sano e innocente. Nulla può, di diritto, costringere un uomo semplice e coraggioso a una tristezza volgare. Mentre godo l’amicizia delle stagioni, confido che nulla possa rendermi la vita un peso. La pioggia gentile che oggi mi innaffia i fagioli e mi tiene in casa non è cupa e malinconica, ma è di giovamento anche per me. Pur impedendomi di zapparli, vale molto più del mio zappare. Se continuasse fino a far marcire i semi nel terreno e a distruggere le patate nella terra bassa, sarebbe comunque buona per l’erba della parte alta e, essendo di giovamento per l’erba, lo sarebbe per me. Talvolta, quando mi paragono agli altri uomini, sembra che io sia stato maggiormente favorito dagli dei, al di là di qualunque tradimento di cui sappia; come se avessi una garanzia e una certezza da parte loro che i miei simili non hanno, e fossi guidato e guardato in modo particolare. Non mi sto adulando, ma se possibile sono loro che adulano me. Non mi sono mai sentito solo, e neppure in minima parte oppresso dal senso di solitudine, tranne una volta, e cioè poche settimane dopo essere arrivato nel bosco, quando, per un’ora, mi venne il dubbio che la vicinanza degli uomini fosse essenziale a una vita sana e serena. Essere solo era qualcosa di spiacevole. Ma allo stesso tempo, ero consapevole di una leggera insanità nel mio umore, e mi sembrò di prevedere una ripresa. Nel mezzo di una pioggia gentile, mentre prevalevano questi pensieri, ebbi improvvisamente la sensazione della dolce e benefica compagnia della Natura, nel picchiettio delle gocce e in ogni suono e vista intorno alla mia casa, un’amicizia infinita e indescrivibile, che mi sostenne subitaneamente, come un’atmosfera, che rendeva insignificanti i vantaggi immaginati della vicinanza umana, e da allora non ci ho più pensato. Ogni piccolo ago di pino si espandeva e si gonfiava partecipe, e mi dava amicizia. Ero così distintamente conscio della presenza di qualcosa a me affine, perfino in scenari che siamo abituati a chiamare selvaggi e cupi, e anche che i miei più umani e massimi consanguinei non erano una persona o un paesano, tanto da pensare che nessun luogo mi sarebbe mai potuto essere estraneo:

Il lutto prematuro consuma i tristi;
Pochi sono i loro giorni nella terra dei vivi,
Bella figlia di Toscar.

Alcune delle mie ore più piacevoli occorsero durante i lunghi temporali di primavera o d’autunno, che mi confinavano in casa per tutto il pomeriggio oltre che al mattino, calmato dal loro rombo incessante e scrosciante; quando un crepuscolo precoce annunciava una lunga sera in cui molti pensieri avevano tempo di radicarsi e dispiegarsi. In quelle insistenti piogge di nordest che mettono così alla prova le case del villaggio, quando le ragazze erano pronte alla porta d’ingresso con secchio e spazzolone per tener fuori il diluvio, mi sedevo dietro alla porta della mia casetta, che era tutta ingresso, e ne godevo pienamente la protezione. Durante un pesante temporale un fulmine colpì un grande pino dall’altra parte del lago, facendo un solco a spirale, molto vistoso e perfettamente regolare, dall’alto verso il basso, largo quattro o cinque pollici, come si intaglierebbe un bastone da passeggio. Ci sono passato accanto ancora l’altro giorno, e mi sono intimorito a guardarlo e a osservare quel marchio, ora più distinto che mai, dove otto anni fa una saetta terrificante e irresistibile era scesa dal cielo inoffensivo. Spesso gli uomini mi dicono: “Penso che ti senta solo laggiù, e che vorresti essere più vicino alla gente, specialmente nei giorni e nelle notti di pioggia e neve”. Sono tentato di risponder loro: “Tutta la terra in cui abitiamo non è che un punto nello spazio. Quanto lontano, pensate, abitano i due abitanti più lontani di quella stella, l’ampiezza del cui disco non possiamo apprezzare coi nostri strumenti? Perché mai dovrei sentirmi solo? Il nostro pianeta non è nella Via Lattea? Questa domanda che mi hai fatto non mi sembra la più importante. Che tipo di spazio è quello che separa un uomo dai suoi simili e lo rende solitario? Ho scoperto che nessun esercizio delle gambe può avvicinare due menti l’una all’altra. A cosa vogliamo abitare vicino? Non di certo a molti uomini, al deposito, all’ufficio postale, all’osteria, alla sala riunioni, alla scuola, all’alimentari, alla Beacon Hill di Boston o ai Five Points di Manhattan, dove di solito gli uomini fanno congrega, ma alla fonte perenne della nostra vita, da cui in tutta la nostra esperienza l’abbiamo scoperta scaturire, come il salice sta vicino all’acqua e spinge le radici in quella direzione. Questo varierà secondo le diverse nature, ma questo è il luogo dove il saggio si scaverà la cantina”. Una sera sorpresi uno dei miei concittadini, che ha accumulato quella che si chiama “una bella proprietà” – anche se non sono mai riuscito a vederla nel modo giusto – sulla strada di Walden, mentre portava due capi di bestiame al mercato, che mi chiese come mi fossi potuto convincere a rinunciare a così tante comodità della vita. Risposi che, ne sono molto sicuro, mi piaceva discretamente; non stavo scherzando. E così andai a casa e mi misi a letto, e lo lasciai in cammino, al buio e nel fango, verso Brighton – o la Città dei buoi – luogo che avrebbe raggiunto a una certa ora del mattino.

A un morto, ogni prospettiva di svegliarsi o venire alla luce rende indifferenti qualunque tempo o luogo. Il luogo dove può avvenire è sempre lo stesso, e indescrivibilmente piacevole a tutti i nostri sensi. Per lo più, noi permettiamo solo a circostanze esteriori e transitorie di creare delle occasioni. Ma quelle sono, in effetti, le nostre cause di distrazione. Più prossimo a tutte le cose è quel potere che ne plasma l’essere. Vicino a noi le leggi più grandi sono continuamente messe in atto. Vicino a noi non è l’operaio che abbiamo assunto, con cui amiamo tanto parlare, ma l’operaio di cui noi siamo il lavoro.

“Com’è vasta e profonda l’influenza dei sottili poteri del cielo e della terra!

“Cerchiamo di percepirli e non li vediamo; cerchiamo di udirli e non li udiamo; identificati con la sostanza delle cose, non possono esserne separati.

“Essi fanno sì che in tutto l’universo gli uomini purifichino e santifichino i loro cuori, e indossino gli abiti della festa per offrire sacrifici e oblazioni ai loro antenati. È un oceano di sottili intelligenze. Sono ovunque, sopra di noi, alla nostra sinistra, alla nostra destra; ci circondano da tutti i lati.”

Siamo i soggetti di un esperimento che mi interessa non poco. Non possiamo fare a meno della società del pettegolezzo, in queste circostanze, e avere i nostri pensieri a rallegrarci? Confucio dice con sincerità: “La virtù non rimane un orfano abbandonato; deve necessariamente avere dei vicini”.

Col pensiero possiamo essere accanto a noi stessi, nel senso giusto. Con un consapevole sforzo della mente possiamo elevarci dalle azioni e dalle loro conseguenze; e tutte le cose, buone e cattive, ci scorrono accanto come un torrente. Non siamo completamente coinvolti nella Natura. Posso essere legna trasportata dalla corrente, o Indra che la guarda dal cielo. Posso essere toccato da uno spettacolo teatrale; d’altro canto, posso non essere toccato da un evento reale che sembra riguardarmi molto di più. Conosco solo me stesso come entità umana; la scena, per così dire, dei pensieri e degli affetti; e sono sensibile a una certa doppiezza con la quale posso rendermi distante da me stesso come da un altro. Per quanto sia intensa la mia esperienza, sono consapevole della presenza e della critica di una parte di me, che, per così dire, non è parte di me ma uno spettatore, che non condivide l’esperienza ma ne prende nota; e questo non è più “me” che “te”. Quando finisce lo spettacolo, possiamo dire la tragedia, della vita, lo spettatore va per la sua strada. Era una sorta di racconto, solo un’opera dell’immaginazione per quanto lo riguardava. Questa doppiezza, talvolta, ci può rendere pessimi vicini e amici.

Trovo salutare essere da solo per gran parte del tempo. Essere in compagnia, anche dei migliori, è spesso stancante e fatuo. Amo essere da solo. Non ho mai trovato un compagno che mi desse tanta compagnia come la solitudine. Per lo più, siamo più soli quando usciamo fra gli uomini che quando restiamo nella nostra camera. Un uomo che pensa o lavora è sempre solo, lasciamolo stare dove vuole. La solitudine non si misura dalle miglia di spazio che si frappongono fra un uomo e i suoi simili. Lo studente davvero diligente in uno degli affollati alveari del Cambridge College è solitario come un derviscio nel deserto. Il contadino può lavorare nei campi o nei boschi tutto il giorno, zappando o tagliando legna, senza sentirsi solo, perché è impegnato; ma quando torna a casa la notte non riesce a star seduto in una stanza da solo, alla mercé dei suoi pensieri, ma deve stare dove possa “vedere gente”, rilassarsi e – pensa lui – ricompensarsi per la solitudine della sua giornata; dunque si chiede come fa lo studente a sedere da solo in casa tutta la notte e gran parte del giorno senza noia e malinconia “blu”; ma non si rende conto che lo studente, anche se a casa, è ancora al lavoro nel suo campo, e taglia la sua legna, come il contadino nel suo, e a sua volta cerca la stessa ricreazione e la stessa compagnia dell’altro, anche se in forma più compatta.

La compagnia è normalmente troppo facile da avere. Ci incontriamo a brevi intervalli, senza aver avuto tempo di acquisire alcun nuovo valore per l’altro. Ci incontriamo per i pasti tre volte al giorno e diamo un assaggio a quel formaggio vecchio e muffito che siamo. Abbiamo dovuto concordare un certo sistema di regole, chiamato etichetta e buona educazione, per rendere tollerabili questi frequenti incontri, perché non si giunga alla guerra aperta. Ci incontriamo all’ufficio postale, alla riunione e intorno al caminetto ogni sera; viviamo attaccati, ci togliamo spazio a vicenda, e inciampiamo l’uno nell’altro; e penso che così perdiamo un po’ di rispetto reciproco. Di certo una frequenza minore basterebbe a tutte le comunicazioni importanti e cordiali. Considerate le ragazze di una fabbrica, mai sole, nemmeno nei sogni. Sarebbe meglio se abitassero ciascuna in un miglio quadrato, come faccio io. Il valore di un uomo non sta nella sua pelle, che lo dobbiamo toccare.

Ho sentito di un uomo perduto nei boschi, morente di fame e stanchezza ai piedi di un albero, la cui solitudine trovò sollievo per le grottesche visioni con cui, a causa della debolezza corporea, lo circondò la sua immaginazione malata, e che credeva reali. Così anche noi, grazie alla salute e alla forza fisica e mentale, possiamo continuamente essere tenuti allegri da una simile – ma più normale e naturale – compagnia, e giungere a sapere di non essere mai soli.

Ho molta compagnia nella mia casa; specialmente la mattina, quando non ci sono visitatori. Fatemi suggerire qualche paragone, che può trasmettere un’idea della mia situazione. Non sono più solo del tuffolo nel lago, che ride a voce così alta, o dello stesso Lago di Walden. Quale compagnia ha quel lago solitario, dico io? Eppure non ha diavoli blu, ma angeli, nel colore azzurro delle sue acque. Il sole è solo, tranne nel cielo coperto, quando talvolta sembrano essercene due, ma uno è per finta. Dio è solo, ma il diavolo è tutt’altro che solo; frequenta tante compagnie; è legione. Non sono più solo di un barbasso o di un dente di leone nel pascolo, di una foglia di fagiolo, di un’acetosa, di una mosca cavallina, o di un calabrone. Non sono più solo del Mill Brook, il Ruscello del mulino, di una banderuola segnavento, della stella polare, del vento del sud, di una pioggia di aprile, del disgelo di gennaio, o del primo ragno in una casa nuova.

Ho visite occasionali nelle lunghe sere d’inverno, quando la neve cade forte e il vento ulula nel bosco, da parte di un vecchio colono, un proprietario originario, che si dice abbia scavato il Lago di Walden, costruendone gli argini di pietra e circondandolo di legno di pino; che mi racconta storie dei vecchi tempi e di nuove eternità; e fra noi riusciamo a passare una serata gioiosa con allegria sociale e piacevoli visioni delle cose, anche senza mele o sidro – un uomo molto saggio e simpatico, a cui voglio molto bene, che rimane più riservato di quanto abbiano mai fatto Goffe o Whalley; e anche se si ritiene sia morto, nessuno sa mostrare dove sia sepolto. Anche un’anziana gentildonna dimora nelle vicinanze, invisibile a quasi tutti, nel cui giardino dalle erbe odorose amo talvolta passeggiare, raccogliendo erbe medicinali e ascoltando le sue favole; perché ha un genio dalla fertilità senza pari, e mi sa raccontare l’originale di ogni favola, e su quale fatto si basi ciascuna, perché l’evento accadde quando lei era giovane. Una vecchia dama arzilla e rubiconda, che prova gioia in ogni tempo e in ogni stagione, e che probabilmente sopravviverà a tutti i suoi figli.

L’indescrivibile innocenza e beneficenza della Natura – del sole, del vento e della pioggia, dell’estate e dell’inverno – concedono per sempre una tale salute e una tale allegria! E tale simpatia hanno verso la nostra razza che tutta la Natura sarebbe toccata, e impallidirebbe lo splendore del sole, i venti sospirerebbero con voce umana, le nubi piangerebbero lacrime, e i boschi perderebbero le foglie spogliandosi a mezz’estate, se solo un uomo provasse dolore per una giusta causa. Non avrò comunicazione con la terra? Non sono anch’io in parte fatto di foglie e di forma vegetale?

Dov’è la pillola che ci fa star bene, sereni, contenti? Non quella mia o quella del mio bisnonno, ma le medicine universali, vegetali, botaniche della nostra nonna Natura, con le quali lei si è mantenuta sempre giovane ed è sopravvissuta a così tanti vecchi Parr dei suoi tempi, nutrendo la sua salute col loro grasso in decadimento. Come mia panacea, invece di una di quelle fiale da ciarlatani, attinte dall’Acheronte e dal Mar Morto, che ci arrivano da quei lunghi carri bassi, simili a golette nere, che talvolta vediamo trasportare bottiglie, fatemi avere un sorso d’aria del mattino, non annacquata. L’aria del mattino! Se gli uomini non la berranno alla sorgente del giorno, allora dobbiamo imbottigliarne un po’ e venderla all’emporio, a beneficio di chi ha perso il biglietto dell’abbonamento alle ore del mattino in questo mondo. Ma ricordate, non si manterrà neppure fino a mezzogiorno, anche nella cantina più fresca, ma farà saltare il turacciolo molto prima, seguendo verso ovest i passi di Aurora. Non sono un adoratore di Igea, che era figlia di quel vecchio dottore erborista, Esculapio, e che è rappresentata sui monumenti tenendo un serpente in una mano, e nell’altra una tazza da cui talvolta beve il serpente; ma di Ebe, coppiera di Giove, che era figlia di Giunone e della lattuga selvatica, e che aveva il potere di riportare dei e uomini al vigore della gioventù. Fu probabilmente l’unica giovane donna dalla costituzione interamente solida, sana e robusta che abbia mai calcato il globo, e ovunque arrivasse era primavera.

Quando scrissi le pagine seguenti – o piuttosto gran parte di esse – vivevo da solo nei boschi, a un miglio di distanza da qualsiasi vicino, in una casa che mi ero costruito da solo, sulla riva del Lago di Walden, a Concord, nel Massachusetts, e mi guadagnavo da vivere solamente col lavoro delle mie mani. Vissi lì per due anni e due mesi. Al momento sono tornato a soggiornare nella vita civilizzata.

Non imporrei tanto le mie faccende all’attenzione dei miei lettori se i miei concittadini non avessero fatto domande – che qualcuno chiamerebbe impertinenti sebbene a me non lo sembrino affatto, anzi, date le circostanze, molto naturali e pertinenti – riguardo al mio modo di vivere. Alcuni hanno chiesto cosa avessi da mangiare; se non mi sentissi solo; se non avessi paura; e cose simili. Altri sono stati curiosi di apprendere quanta parte del mio reddito dedicassi a scopi caritatevoli; e alcuni, con una famiglia numerosa, quanti bambini poveri mantenessi. Dunque, a chi fra i miei lettori non prova particolare interesse per la mia persona chiederò di perdonarmi se in questo libro mi impegnerò a rispondere ad alcune di quelle domande. In gran parte dei libri, l’io, la prima persona, è omessa; in questo sarà mantenuta; dal punto di vista dell’egoismo, questa è la differenza principale. Comunemente non ricordiamo che, dopo tutto, è sempre la prima persona a parlare. Non parlerei tanto di me se esistesse qualcun altro che conoscessi altrettanto bene. Sfortunatamente, sono confinato a questo tema dalla limitatezza della mia esperienza. Inoltre io, da parte mia, esigo da ogni scrittore, all’inizio o alla fine, un resoconto semplice e sincero della sua vita, e non solamente quanto ha sentito dire della vita di altri uomini; un resoconto simile a quello che invierebbe ai suoi parenti da una terra lontana; perché se ha vissuto con sincerità, deve essere stato in una terra lontana dalla mia. Forse queste pagine sono rivolte più specificamente agli studenti poveri. Quanto al resto dei miei lettori, essi accetteranno le parti che più saranno valide per loro. Confido che nessuno sforzerà le cuciture quando indosserà la giacca, perché potrà essere di buona utilità a chi la troverà della giusta misura.

Vorrei dire qualcosa, non tanto riguardo ai cinesi o agli abitanti delle Isole Sandwich, quanto a voi che leggete queste pagine, che – si dice – vivete nella Nuova Inghilterra; qualcosa della vostra condizione, soprattutto della condizione o delle circostanze esteriori e terrene in questo mondo, in questa città; vale a dire, se sia necessario che esse siano cattive come sono, se le si possa migliorare o meno. Ho viaggiato molto a Concord, e ovunque, nelle botteghe, negli uffici e nei campi, i suoi abitanti mi sono sembrati patire una penitenza, in mille maniere degne di nota. Quel che ho sentito dei bramini che siedono esposti a quattro fiamme, con gli occhi fissi sul sole; o appesi, sospesi a testa in giù, sul fuoco; o che guardano il cielo da dietro le spalle “finché non diventa loro impossibile riprendere la posizione naturale, mentre per la torsione del collo nulla può raggiungere lo stomaco tranne i liquidi”; o che dimorano, incatenati a vita, ai piedi di un albero; o che, come dei millepiedi, misurano col loro corpo l’ampiezza di vasti imperi; o che restano in piedi su una gamba sola in cima a una colonna – ma perfino queste forme di penitenza volontaria sono poco più incredibili e stupefacenti delle scene a cui assisto quotidianamente. Le dodici fatiche di Ercole erano una sciocchezza se paragonate a quelle intraprese dai miei vicini; perché quelle erano solo dodici, e avevano una fine; ma non sono mai riuscito a vedere questi uomini uccidere o catturare alcun mostro, o terminare alcuna fatica. Non hanno l’amico Iolao a bruciare con un ferro caldo la testa dell’Idra; al contrario, non appena una testa viene schiacciata, ne spuntano due.

Vedo dei giovani, miei concittadini, la cui sventura è di aver ereditato fattorie, case, granai, bestiame e attrezzi per la coltivazione, perché è più facile acquisirli che liberarsene. Sarebbe stato meglio se fossero nati in un pascolo aperto e fossero stati allattati da una lupa, perché avrebbero visto con occhi più limpidi in quale campo erano stati chiamati a lavorare. Chi è stato a renderli servi della terra? Perché si trovano a dover mangiare dai loro sessanta acri quando l’uomo è condannato a mangiare solo il suo mucchietto di polvere? Perché devono cominciare a scavarsi la tomba non appena sono nati? Devono vivere la vita di un uomo, spingendo tutto questo davanti a sé, e cavarsela meglio che possono. Quante povere anime immortali ho incontrato, pressoché schiacciate e soffocate da tale peso, che strisciavano lungo la strada della vita, spingendo davanti a sé un granaio di settantacinque piedi per quaranta, senza mai pulirne le stalle Augee, e cento acri di terra da coltivare e falciare, da pascolo e legna! Il senzaterra, che lotta senza aver ereditato tale inutile ingombro, trova lavoro sufficiente da sottomettere e coltivare qualche piede cubo di carne.

Ma gli uomini lavorano sotto l’influsso di un errore. La parte migliore dell’uomo è presto arata nel terreno per farne concime. Per un destino apparente, comunemente chiamato necessità, sono impiegati – come dice un vecchio libro – a dissotterrare un tesoro che le falene e la ruggine corromperanno, e che i ladri deprederanno. È la vita di uno stolto, come scopriranno all’approssimarsi della sua fine, se non prima. Si dice che Deucalione e Pirra crearono gli uomini gettandosi dei sassi alle spalle, sopra la testa:

Inde genus durum sumus, experiensque lavorum,
Et documenta damus qua simus origine nati.

O, nella rima sonora tipica di Raleigh:

Da ciò la nostra stirpe ha il cuore duro, che sopporta dolore e affanno

Provando che i nostri corpi una natura pietrosa hanno.

Tanta è la cieca obbedienza a un oracolo brancolante nel buio, da gettarsi dei sassi alle spalle, sopra la testa, senza guardare dove cadano.

Alcuni di voi, lo sappiamo tutti, sono poveri, trovano duro vivere, talvolta nemmeno riescono a respirare. Non ho dubbi che alcuni di voi che leggono questo libro non ce la fanno a pagare tutti i pasti che hanno consumato, o le giacche e le scarpe che indossano o che hanno già logorato, e sono giunti fino a questa pagina spendendo tempo rubato o preso in prestito, trafugando un’ora ai loro creditori. È più che evidente – perché l’esperienza mi ha aguzzato la vista – quale vita infima e furtiva molti di voi stiano vivendo; sempre sul limite, cercando di entrare in affari e di uscire dai debiti, una palude antichissima chiamata dai latini aes alienum, il bronzo degli altri, perché alcune delle loro monete erano fatte di bronzo; vivendo, morendo, essendo sepolti con questo bronzo degli altri; sempre promettendo di pagare, promettendo di pagare domani e morendo oggi, insolventi; cercando di ingraziarsi qualcuno per ricevere dei favori, di ottenere credito, in chissà quanti modi, tolti i reati da prigione statale; mentendo, lusingando, votando, contraendovi in un guscio di urbanità, o dilatandovi in un’atmosfera di sottile e vaporosa generosità, così da convincere il vostro vicino a lasciarvi fabbricare le sue scarpe, o il suo cappello, o la sua giacca, o la sua carrozza, o a importare spezie per lui; ammalandovi per riuscire a metter da parte qualcosa per le giornate di malattia, qualcosa da riporre in una vecchia cassa o in una calza dietro lo stucco, o, più al sicuro, in una solida banca; non importa dove, non importa se molto o se poco.

Talvolta mi stupisco che si possa essere, potrei quasi dire, così frivoli da impegnarsi in quella forma di servitù, grossolana ma un po’ straniera, chiamata Schiavitù dei Neri, tanti sono i padroni scaltri e sottili che ci rendono schiavi al Nord come al Sud. È duro avere un sovrintendente del Sud; è peggiore averne uno del Nord; ma peggio di tutto è quando siete lo schiavista di voi stessi. Si parla della divinità dell’uomo! Guardate il carrettiere sulla strada, che va al mercato di giorno e di notte; ci può essere una qualche divinità in lui? Il suo più alto dovere è dare foraggio e acqua ai suoi cavalli! Per lui, cosa può contare il proprio destino, paragonato agli interessi di trasporto? Non è il cocchiere del Cavalier Datti-una-mossa? Quanto sarà divino, quanto sarà immortale? Vedete come si abbassa e striscia, come passa tutta la giornata vagamente impaurito, senza essere immortale né divino, ma schiavo e prigioniero dell’opinione che ha di se stesso, una fama guadagnata con le proprie azioni. L’opinione pubblica è un tiranno debole, se paragonato con la nostra opinione privata. Ciò che un uomo pensa di sé, è questo che determina, o piuttosto indica, il suo destino. L’autoemancipazione nelle Indie Occidentali della fantasia e dell’immaginazione – quale Wilberforce esiste per raggiungerla? Pensate anche alle signore della terra che intessono cuscini da toeletta per ritardare l’ultimo giorno, per non tradire un interesse troppo acerbo nel loro destino! Come se si potesse ammazzare il tempo senza ferire l’eternità.

La massa degli uomini conduce una vita di silenziosa disperazione. Ciò che si chiama rassegnazione è disperazione confermata. Dalla città disperata entrate nella campagna disperata, e dovete consolarvi col coraggio dei visoni e dei topi muschiati. Una disperazione stereotipa ma inconsapevole si nasconde anche sotto ciò che chiamiamo i giochi e i divertimenti dell’umanità. Non c’è gioco in essi, perché viene dopo il lavoro. Ma non fare cose disperate è una caratteristica della saggezza.

Quando consideriamo quale sia, per usare le parole del catechismo, lo scopo principale dell’uomo, e quali siano le vere necessità e i veri mezzi della vita, sembra che gli uomini abbiano deliberatamente scelto il modo di vita comune, avendolo preferito a ogni altro. Eppure essi ritengono onestamente di non avere alcuna scelta. Ma le nature attente e sane ricordano che il sole si è alzato luminoso. Non è mai troppo tardi per rinunciare ai nostri pregiudizi. Non ci si può fidare, senza prove, di alcun modo di pensare o di fare, per quanto antico. Ciò che oggi tutti riecheggiano, o silenziosamente ignorano in quanto quotidiano, domani può rivelarsi una falsità, un mero fumo dell’opinione, che qualcuno aveva preso per una nuvola capace di spruzzare pioggia portatrice di fertilità sui campi. Ciò che i vecchi dicono che non potete fare, provatelo – e scoprirete di poterlo fare. Vecchie azioni per i vecchi, e nuove azioni per gente nuova. Forse una volta i vecchi non ne sapevano abbastanza da procurarsi combustibile fresco per tener vivo il fuoco; la gente nuova mette un po’ di legna secca sotto una caldaia, e prende a girare il mondo alla velocità degli uccelli, in un vortice che ucciderebbe i vecchi, come dice il motto. L’età avanzata non dà una qualifica migliore – a malapena una uguale – della gioventù per fare da insegnante, perché ha portato più perdite che profitti. Si può quasi dubitare se anche il più saggio fra gli uomini abbia appreso dal vivere alcunché di valore assoluto. Nella pratica, i vecchi non hanno consigli davvero importanti da dare ai giovani; la loro esperienza è stata talmente parziale, e la loro vita un tale miserabile fallimento, dovuto – essi credono – a motivi personali; e può darsi che sia rimasta loro un po’ di fiducia per smentire quell’esperienza, e che siano solo meno giovani di prima. Ho vissuto una trentina d’anni su questo pianeta, e devo ancora udire la prima sillaba di un consiglio valido, o almeno sincero, da chi è più anziano di me. Non mi hanno detto nulla, e probabilmente non possono dirmi nulla, a questo proposito. Ecco la vita, un esperimento in gran parte mai tentato da parte mia; ma non mi aiuta il fatto che lo abbiano tentato loro. Se ho una qualche esperienza che ritengo valida, sono certo che i miei mentori non me ne hanno mai parlato.

Un agricoltore mi dice: “Non puoi vivere solo di alimenti vegetali, perché non forniscono nulla con cui farci le ossa”; e così lui dedica religiosamente una parte della giornata a rifornire il suo sistema con la materia prima delle ossa; camminando e parlando dietro i suoi buoi, che, con ossa piene di vegetali, spingono lui e il suo ingombrante aratro, quale che sia l’ostacolo. In alcuni circoli, i più derelitti e malati, alcune cose sono davvero necessità di vita, e invece in altri sono semplici lussi, e in altri ancora sono del tutto sconosciute.

Ad alcuni tutto il terreno della vita umana sembra essere stato percorso dai loro predecessori, sulle vette come nelle valli, e sembra sia stato provveduto a tutto. Secondo Evelyn, “il saggio Salomone emanò prescrizioni perfino sulla distanza da tenere fra gli alberi; e i pretori romani decisero con che frequenza si potesse entrare nella terra del vicino per raccogliervi le ghiande cadute in terra senza commettere violazione di proprietà, e quale quota gli appartenesse”. Ippocrate lasciò perfino istruzioni sul modo di tagliarsi le unghie, cioè a filo con le punte delle dita, né più corte né più lunghe. Indubbiamente, anche il tedio e la noia che si dice abbiano esaurito la varietà e le gioie della vita sono vecchi come Adamo. Ma le capacità dell’uomo non sono mai state misurate, né dobbiamo giudicare ciò che egli può fare sulla base di qualche precedente, così scarsi sono stati i tentativi. Per quanti fallimenti vi siano stati finora, “non affliggerti, figlio mio, perché chi mai ti assegnerà ciò che hai lasciato a metà?”.

Potremmo mettere alla prova la nostra vita con mille semplici esperimenti; per esempio, che lo stesso sole che mi fa maturare i fagioli illumina allo stesso tempo un sistema di Terre come la nostra. Questo, se lo avessi ricordato, mi avrebbe evitato alcuni errori. Questa non era la luce in cui li ho zappati. Le stelle sono i vertici di quali meravigliosi triangoli? Quali esseri lontani e diversi, nelle varie dimore dell’universo, stanno contemplando la stessa stella allo stesso momento! La Natura e la vita umana sono varie come le nostre costituzioni. Chi dirà mai quali prospettive la vita offra a un altro? Può aver mai luogo un miracolo più grande del guardare l’uno attraverso gli occhi dell’altro per un istante? Dovremmo vivere in tutte le epoche del mondo in un’ora; sì, in tutti i mondi di tutte le epoche. La Storia, la Poesia, la Mitologia!... Non conosco letture altrettanto sorprendenti e informative sull’esperienza di un altro.

La maggior parte di ciò che il mio vicino chiama bene, credo nella mia anima che sia male, e se c’è alcunché di cui mi pento, è molto probabilmente la mia buona condotta. Quale demone mi ha mai posseduto per farmi comportare così bene? Puoi dirmi le cose più dolci, vecchio – tu che hai vissuto per settant’anni senza onore alcuno; io sento una voce irresistibile che mi invita ad andar via da tutto questo. Una generazione abbandona le imprese di un’altra come navi naufragate.

Senz’altro, penso che possiamo essere molto più fiduciosi di quel che siamo. Possiamo rinunciare ad altrettanta cura di noi stessi di quanta, in tutta onestà, ne concediamo altrove. La Natura è altrettanto adatta alla nostra debolezza che alla nostra forza. L’incessante ansia e lo sforzo di alcuni è una forma di malattia pressoché incurabile. Siamo fatti per esagerare l’importanza del lavoro che facciamo; eppure quanto ce n’è ancora da fare! Ovvero, che succede se ci ammaliamo? Quanto siamo vigili! Determinati a non vivere per fede se possiamo evitarlo; tutto il giorno in allerta, la notte diciamo di malavoglia le nostre preghiere e scegliamo l’incertezza. Così totalmente e sinceramente siamo costretti a vivere, deferenti verso la nostra vita, e negando la possibilità del cambiamento. C’è solo un modo, diciamo; ma ci sono altrettanti modi di quanti raggi si possano tracciare a partire da un unico centro. Ogni cambiamento è un miracolo da contemplare; ma è un miracolo che si verifica in ogni istante. Dice Confucio: “Sapere che sappiamo quel che sappiamo, e che non sappiamo quel che non sappiamo, è questo il vero sapere”. Quando un uomo avrà ridotto un fatto dell’immaginazione a un fatto della comprensione, prevedo che tutti alla lunga stabiliranno la loro vita su quella base.

Consideriamo per un attimo in che cosa consista gran parte dei problemi e dell’ansia a cui mi sono riferito, e quanto sia necessario che noi siamo agitati o almeno vigili. Sarebbe di qualche vantaggio vivere una vita primitiva e di frontiera, pur nel mezzo di una civiltà esteriore, se non altro per apprendere quali siano le brute necessità della vita, e quali metodi si siano usati per ottenerle; o perfino per dare un’occhiata ai vecchi registri dei mercanti, per vedere cosa gli uomini comprassero più spesso nelle botteghe, cosa conservassero, cioè quali fossero i generi più comuni. Perché i progressi della storia hanno avuto solo un’influenza minima sulle leggi essenziali dell’esistenza umana; come i nostri scheletri, probabilmente, non le si può distinguere dalle leggi dei nostri antenati.

Con le parole necessità della vita intendo tutto ciò di quanto l’uomo ottiene coi propri sforzi, che sia stato sin dall’inizio – o lo sia diventato con l’uso prolungato – così importante per la vita umana che pochi, per una natura selvaggia, povertà o filosofia, hanno mai provato a rinunciarvi. Per molte creature non c’è in questo senso che una necessità nella vita, il Cibo. Per il bisonte della prateria si tratta di qualche pollice d’erba saporita, con dell’acqua da bere; a meno che non cerchi il Riparo della foresta o l’ombra della montagna. Nessuna fra le creature animali richiede più che Cibo e Riparo. Nel nostro clima, si possono suddividere le necessità della vita per l’uomo, con una certa accuratezza, sotto i titoli di: Cibo, Riparo, Vestiario e Combustibile; perché finché non ci assicuriamo queste cose, non siamo pronti a considerare i veri problemi della vita con libertà e con una prospettiva di successo. L’uomo ha inventato non solo le case ma i vestiti e la cottura del cibo; e forse dall’accidentale scoperta del calore del fuoco, e dal suo conseguente uso, sorse la reale possibilità di sedervisi accanto. Osserviamo cani e gatti acquisire la stessa seconda natura. Per mezzo di Riparo e Vestiario adeguati, noi manteniamo con accortezza il nostro calore interno; ma non è con un eccesso di questi o del Combustibile, cioè di un calore esterno maggiore del nostro calore interno, che si può propriamente dire che la Cucina abbia inizio? Darwin, il naturalista, dice degli abitanti della Tierra del Fuego che mentre il suo gruppo, ben coperto e seduto accanto al fuoco, era tutt’altro che troppo al caldo, si osservò che quei selvaggi, nudi e più lontani, erano “grondanti sudore come se li si stesse arrostendo”. Così, ci si dice, l’abitante della Nuova Olanda gira nudo impunemente, mentre l’europeo rabbrividisce vestito. È proprio impossibile combinare la solidità di questi selvaggi con l’intellettualità dell’uomo civilizzato? Secondo Liebig, il corpo umano è una stufa, e il cibo è la sostanza che mantiene la combustione interna nei polmoni. Col tempo freddo mangiamo di più, con quello caldo di meno. Il calore animale è il risultato di una combustione lenta, e la malattia e la morte hanno luogo quando diventa troppo rapida; per carenza di combustibile, o per qualche difetto nel tiraggio dell’aria, il fuoco si estingue. Sicuramente il calore vitale non va confuso col fuoco; ma l’analogia si ferma qui. Dal precedente elenco sembra, dunque, che l’espressione vita animale sia quasi un sinonimo di calore animale; perché mentre il Cibo va considerato come il Combustibile che alimenta il fuoco dentro di noi – e il Combustibile serve solo a preparare quel Cibo o ad aumentare il calore dei nostri corpi aggiungendosi a quello esterno – anche il Riparo e il Vestiario servono solo a trattenere il calore così generato e assorbito.

Per i nostri corpi, allora, la grande necessità è tenersi al caldo, trattenere il calore vitale dentro di noi. Quanta pena ci accolliamo di conseguenza, non solo mediante Cibo, Vestiario e Riparo, ma con i nostri letti, che sono i nostri vestiti notturni, derubando il nido e le piume degli uccelli per preparare questo riparo nel Riparo, come la talpa ha il letto d’erba e foglie in fondo alla sua buca! Il povero ha l’abitudine di lamentarsi che il mondo è freddo; e al freddo, fisico e sociale, attribuiamo direttamente gran parte delle nostre afflizioni. L’estate, in certi climi, consente all’uomo una vita degna dell’Elisio. Allora non serve combustibile, tranne per cuocere il Cibo; il sole fa da fuoco, e molti frutti sono cotti a sufficienza dai suoi raggi; mentre il Cibo è generalmente più vario e più facile da ottenere; e Vestiario e Riparo sono totalmente – o quasi – inutili. Al tempo presente e in questo paese, come scopro attraverso l’esperienza, qualche ausilio, un coltello, un’ascia, una vanga, una carriola ecc., e per chi è studioso, una lampada, della cancelleria e l’accesso a qualche libro sono quasi delle necessità, e tutte ottenibili a costo minimo. Eppure alcuni, non dei saggi, vanno dall’altra parte del globo, in regioni barbare e insalubri, e si dedicano al commercio per dieci o vent’anni, per poter vivere – cioè, tenersi comodamente al caldo – e infine morire nella Nuova Inghilterra. I lussuosamente ricchi si tengono non soltanto comodamente ma innaturalmente al caldo; come sottintendevo prima, si cuociono, à la mode naturalmente.

Gran parte dei lussi, e molte delle cosiddette comodità della vita, non soltanto sono tutt’altro che indispensabili, ma sono autentici ostacoli per l’elevazione dell’umanità. Per quanto riguarda i lussi e le comodità, i più saggi hanno sempre condotto una vita più semplice e grama dei poveri. Non è mai esistita alcuna classe più povera nelle ricchezze esteriori, e più ricca in quelle interiori, degli antichi filosofi cinesi, indù, persiani e greci. Non sappiamo molto di loro. È notevole che sappiamo così tanto di loro. Lo stesso è vero per i moderni riformatori e benefattori della loro razza. Nessuno può essere un osservatore imparziale della vita umana o un saggio, se non dalla posizione vantaggiosa di ciò che noi dovremmo chiamare povertà volontaria. Il frutto di una vita di lusso è il lusso, nell’agricoltura o nel commercio, nella letteratura o nell’arte. Oggigiorno ci sono professori di filosofia, ma non filosofi. Eppure è degno di ammirazione insegnare, perché una volta era degno di ammirazione vivere. Essere un filosofo non è solamente avere pensieri sottili, e neppure fondare una scuola, ma amare la sapienza al punto da vivere secondo i suoi dettami, con una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. È risolvere alcuni dei problemi della vita, non solo nella teoria ma nella pratica. Il successo dei grandi studiosi e pensatori è generalmente un successo da cortigiano, non regale, non virile. Si arrangiano a vivere conformandosi, vivendo in pratica come i loro padri, e non sono affatto i progenitori di una razza di uomini più nobili. Ma perché gli uomini degenerano? Cos’è che fa estinguere le famiglie? Qual è la natura del lusso che debilita e distrugge le nazioni? Siamo sicuri che non vi sia nulla di ciò nella nostra vita? Il filosofo è in anticipo sul suo tempo anche nelle forme esteriori della vita. Non si ciba, non si ripara, non si veste, non si riscalda come i suoi contemporanei. Come fa un uomo a essere filosofo e non mantenere il suo calore vitale con metodi migliori degli altri uomini?

Quando un uomo si è riscaldato nei vari modi descritti, cosa gli manca ancora? Di certo non più calore dello stesso tipo, o un’alimentazione maggiore e più ricca, case più grandi e più splendide, fuochi incessanti, più numerosi e più caldi, e così via. Quando ha ottenuto le cose che sono necessarie alla vita, c’è un’alternativa rispetto all’ottenimento del superfluo; ed è avventurarsi nella vita, essendo iniziata la sua fuga dalle fatiche più umili. Sembra esserci un terreno idoneo alla semina, perché ha spinto in profondità le sue radicette, e ora può anche spingere in alto il suo germoglio, con fiducia. Perché l’uomo si sarà radicato così fermamente nella terra, se non per ascendere allo stesso modo nell’alto dei cieli? Perché le piante più nobili si stimano per il frutto che finalmente generano nell’aria e nella luce, lontano da terra, e non le si tratta come le più umili erbe commestibili che, pur se biennali, si coltivano solo finché non hanno sviluppato appieno le loro radici, e spesso se ne taglia la cima a questo scopo, cosicché molti non le riconoscerebbero nella stagione della fioritura.

Non intendo prescrivere regole alle nature forti e valorose, che baderanno ai propri affari in paradiso come all’inferno, e forse costruiranno in modo più magnifico e spenderanno con più prodigalità dei più ricchi, senza mai impoverirsi, senza rendersi conto di come vivono; come se queste nature esistessero, in effetti, fuori dai sogni. Né a coloro che trovano incoraggiamento e ispirazione precisamente nella condizione presente delle cose, e la prediligono con l’affetto e l’entusiasmo degli amanti – e in una certa misura mi riconosco in questo gruppo. Non parlo a coloro che sono ben impiegati, in qualunque posizione, e sanno se lo sono o meno; ma principalmente alla massa di uomini che sono scontenti, e si lamentano pigramente della durezza del loro destino o dei tempi, quando potrebbero migliorarli. Ci sono alcuni che si lamentano più energicamente e inconsolabilmente di chiunque altro, perché stanno, dicono, facendo il loro dovere. Ho anche in mente quella classe apparentemente ricca, ma in realtà la più terribilmente impoverita di tutte, che ha accumulato scorie, ma non sa come utilizzarle o come liberarsene, e ha forgiato così le proprie catene d’oro o d’argento.

Se dovessi provare a dire come abbia desiderato trascorrere la mia vita negli anni passati, probabilmente sorprenderei chi fra i miei lettori ne conosce un po’ la storia; sicuramente stupirebbe chi non ne sa nulla. Farò solo degli accenni alle imprese che ho prediletto.

In ogni clima, a ogni ora del giorno o della notte, sono stato ansioso di migliorare l’ultimo momento, per farne anche una tacca sul mio bastone; di stare in quel punto d’incontro fra due eternità, il passato e il futuro, che è il momento presente; di segnare quella linea. Mi scuserete qualche oscurità, perché vi sono più segreti nel mio mestiere che in gran parte degli altri – segreti non mantenuti volontariamente, ma inseparabili dalla sua natura. Sarei felice di dire tutto ciò che conosco, senza mai dipingere “Vietato l’accesso” sulla mia porta.

Molto tempo fa persi un cane, un cavallo baio e una tortora, e sono ancora sulle loro tracce. Molti sono i viaggiatori a cui ho parlato di loro, descrivendone le orme e a quali richiami rispondessero. Ne ho incontrati uno o due che avevano udito il cane, e lo scalpitare del cavallo, e perfino visto la tortora sparire dietro una nuvola, e sembravano altrettanto ansiosi di ritrovarli come se fossero stati loro stessi a perderli.

Anticipare, non semplicemente l’alba e il sorger del sole, ma, se possibile, la Natura stessa! Quante mattine, d’estate e d’inverno, prima che un solo vicino si fosse diretto a curare i suoi affari, ero già intento ai miei! Senza dubbio, molti dei miei concittadini mi hanno incontrato al ritorno da quest’impresa, agricoltori in partenza per Boston mentre si faceva giorno, o boscaioli che andavano al lavoro. È vero che non ho mai materialmente assistito il sole nel suo sorgere, ma, non dubitate, solo esservi presente era della massima importanza.

Così, quante giornate d’autunno, e anche d’inverno, ho trascorso fuori città, cercando di udire cosa vi fosse nel vento, di udirlo e portarlo prontamente via! In questo, ho quasi affondato tutto il mio capitale, e ho quasi perso il fiato nella transazione, mentre mi ci lanciavo a capofitto. Se avesse interessato uno dei due partiti politici, potete contarci, sarebbe apparso sulla “Gazette”, non appena si fosse sparsa la voce. Altre volte, guardando dall’osservatorio di una rupe o di un albero, per telegrafare ogni nuovo arrivo; o in attesa che calasse la notte, la sera in cima ai colli, per riuscire ad afferrare qualcosa, anche se non ho mai preso molto, e quel che prendevo, come la manna, si dissolveva nuovamente nel cielo.

Per molto tempo sono stato reporter per un giornale dalla circolazione non molto ampia, il cui direttore non si è ancora deciso a stampare molti dei miei contributi; com’è fin troppo comune per gli scrittori, ho ottenuto solo dolori per le mie fatiche. Comunque, in questo caso le mie fatiche erano il premio di se stesse.

Per molti anni mi sono autonominato ispettore delle nevicate e dei temporali, e ho svolto fedelmente il mio compito; topografo, se non delle strade, dei sentieri nella foresta e delle scorciatoie attraverso i terreni, tenendoli aperti, e tenendo i ponti sopra le scarpate agibili in tutte le stagioni, laddove il pubblico ne avesse testimoniato l’utilità.

Mi sono preso cura del bestiame libero della città, che dava molti problemi a ogni fedele mandriano, scavalcando gli steccati; e ho tenuto d’occhio gli angoli e i cantoni meno frequentati delle fattorie; sebbene non sapessi sempre se Giona o Salomone stessero lavorando quel giorno in un dato campo; quelli non erano affari miei. Ho annaffiato il mirtillo rosso, il ciliegio selvatico e il bagolaro, il pino rosso e il frassino nero, l’uva bianca e la violacciocca, che altrimenti sarebbero appassiti nella stagione secca.

In breve, ho continuato così per molto tempo – posso dirlo senza vantarmene – badando fedelmente ai miei affari, finché non divenne sempre più evidente che i miei concittadini non mi avrebbero dopo tutto inserito nell’elenco dei funzionari municipali, né avrebbero fatto della mia posizione una sinecura con un modesto compenso. I miei conti, che posso giurare di aver sempre tenuto con fedeltà, non li ho, in effetti, mai fatti rivedere, e ancor meno accettare, ancor meno pagare e chiudere. Tuttavia, non mi sono ancora rassegnato.

Non molto tempo dopo, un indiano vagabondo andò a vendere canestri alla casa di un ben noto avvocato delle vicinanze. “Desiderate comprare canestri?” chiese. “No, non ne vogliamo,” fu la risposta. “Che cosa?” esclamò l’indiano mentre usciva dalla porta. “Volete affamarci?” Avendo visto l’industrioso vicino bianco così benestante – perché l’avvocato doveva solamente intrecciare argomenti, e per magia ne derivavano ricchezza e considerazione – si era detto: “Entrerò in affari; intreccerò canestri; è una cosa che so fare”. Pensando che, avendo fatto i canestri, avrebbe fatto la sua parte; poi comprarli sarebbe stata la parte dell’uomo bianco. Non aveva scoperto che gli era necessario rendere proficuo all’altro comprarli, o almeno fargli pensare che lo fosse. Anch’io avevo intrecciato una specie di canestro dalla trama delicata, ma non avevo reso proficuo a nessuno comprarli. Nondimeno, nel mio caso, ritenni che intrecciarli fosse proficuo per me; e invece di studiare come rendere proficuo agli altri uomini comprare i miei canestri, studiai piuttosto come evitare la necessità di venderli. La vita che gli uomini lodano e considerano come un successo non è che uno dei tipi possibili. Perché mai dovremmo esagerare un tipo a spese degli altri?

Scoprendo che era improbabile che i miei concittadini mi offrissero un posto nel tribunale, o alcuna sinecura o fonte di reddito altrove, e che avrei dovuto arrangiarmi per mio conto, mi rivolsi più esclusivamente che mai ai boschi, dove ero più conosciuto. Mi determinai a entrare in affari immediatamente, senza aspettare di acquisire il consueto capitale, utilizzando i magri mezzi che già possedevo. Il mio scopo andando al Lago di Walden non era vivere in maniera parsimoniosa, né vivere in maniera costosa, ma negoziare una trattativa privata, con ostacoli minimi; non riuscire a portarla a compimento per mancanza di un po’ di senso comune, spirito d’iniziativa e talento per gli affari, sembrava non tanto triste ma stupido.

Mi sono sempre sforzato di acquisire abitudini rigorose negli affari; sono indispensabili a tutti. Se il vostro commercio è con l’Impero celeste, allora un ufficetto sulla costa, in qualche porto di Salem, sarà una base sufficiente. Esporterete gli articoli che può permettersi il paese, puri prodotti locali, molto ghiaccio, legna di pino e un po’ di granito, sempre su vascelli del luogo. Queste saranno buone iniziative. Supervisionare di persona ogni dettaglio; essere allo stesso tempo pilota e capitano, proprietario e assicuratore; leggere ogni lettera ricevuta, e scrivere o leggere ogni lettera spedita; sovrintendere allo scarico delle importazioni di giorno e di notte; essere in molte parti della costa quasi allo stesso tempo – spesso i carichi più ricchi saranno scaricati sulla riva del Jersey; essere telegrafo di voi stessi, perlustrando instancabilmente l’orizzonte, parlando a tutti i vascelli di passaggio diretti verso la costa; mantenere una spedizione continua di merci, per rifornire un mercato così lontano ed esorbitante; tenervi informati sullo stato dei mercati, sulle prospettive di guerra e pace ovunque, e anticipare le tendenze del commercio e della civiltà – approfittando dei risultati di tutte le spedizioni d’esplorazione, usando nuovi passaggi e tutti gli avanzamenti nella navigazione; le carte da studiare, la posizione degli scogli o di nuovi fari e boe da accertare, e sempre, sempre, le tavole logaritmiche da correggere, perché a causa di qualche errore di calcolo spesso naufraga su una roccia la nave che avrebbe dovuto raggiungere un molo amico – il fato mai rivelato di La Pérouse; la scienza universale con cui tenere il passo, studiando la vita di tutti i grandi scopritori e dei navigatori, dei grandi avventurieri e dei mercanti, da Annone e dai fenici fino a oggi; infine, i conti delle azioni da seguire con regolarità, per capire la vostra posizione. È un lavoro che mette alla prova le facoltà di un uomo – tali problemi di profitti e perdite, di interessi, di tara e abbuono, e prendendo la misura di tutte le varianti, come richiede un sapere universale.

Ho pensato che il Lago di Walden fosse un buon posto per gli affari, non solamente a causa della ferrovia e del commercio del ghiaccio; offre vantaggi che potrebbe non esser conveniente divulgare; è un buon porto e una buona fondazione. Non ci sono le paludi della Neva da colmare; anche dovendo costruire ovunque sulle assi trasportate da voi. Si dice che un’ondata di marea, col vento dell’ovest e col ghiaccio della Neva, spazzerebbe via San Pietroburgo dalla faccia della terra.

Mentre stavo per entrare in quest’affare senza il consueto capitale, poteva non esser facile fare congetture riguardanti l’ottenimento di quei mezzi tuttora indispensabili per simili intraprese. Per quanto riguarda il Vestiario – per giungere subito all’aspetto pratico della questione – forse siamo spesso spinti più dall’amore per la novità e dalla considerazione dell’opinione degli uomini, che dalla vera utilità. Chi ha un lavoro da fare ricordi che l’oggetto del vestirsi è, primo, trattenere il calore vitale e, secondo, in questo stato della società, coprire la nudità, e potrà giudicare quanto di ogni lavoro necessario o importante possa esser compiuto senza accrescere il proprio guardaroba. I re e le regine che indossano un abito una volta sola, per quanto fatto da un sarto o da una sarta appositamente per le loro maestà, non possono conoscere il conforto di indossare un abito della giusta misura. Non sono più di attaccapanni su cui appendere i vestiti puliti. Ogni giorno i nostri abiti si assimilano a noi, ricevendo l’impronta del carattere di chi li indossa, finché non esitiamo a metterli via senza il ritardo, le cure mediche e le simili solennità che riserviamo ai nostri corpi. Nessun uomo è mai sceso nella mia stima perché aveva una toppa nei vestiti; eppure sono certo che ci si preoccupi più, in genere, di avere vestiti alla moda, o almeno puliti e non rattoppati, che di avere una coscienza pulita. Ma anche qualora lo strappo non sia rammendato, forse il peggior vizio che tradisce è l’improvvidenza. A volte metto alla prova i miei conoscenti con esami come questo: “Chi potrebbe indossare una toppa, o solamente un paio di rammendi in più, sul ginocchio?”. Molti si comportano come se ritenessero che le loro prospettive nella vita cadessero in rovina se dovessero farlo. Sarebbe più facile per loro zoppicare fino in città con una gamba rotta che con pantaloni strappati. Se avviene un incidente alle gambe di un gentiluomo, spesso le si può aggiustare; ma se un incidente simile avviene alle gambe dei pantaloni, non c’è rimedio; perché egli prenderà in considerazione non ciò che è davvero rispettabile ma ciò che è rispettato. Non conosciamo che pochi uomini, e moltissimi cappotti e pantaloni. Abbigliate uno spaventapasseri con la vostra ultima camicia, e voi mettetevi scamiciati al suo fianco, chi non saluterebbe prima lo spaventapasseri? Attraversando un campo di grano l’altro giorno, accanto a un cappello e a un cappotto appesi a un bastone, riconobbi il proprietario della fattoria. Era solo un po’ più segnato dal tempo, rispetto all’ultima volta che lo avevo visto. Ho sentito di un cane che abbaiava a ogni estraneo che si avvicinasse alla residenza del suo padrone con i vestiti addosso, ma che era facilmente ridotto al silenzio da un ladro nudo. È una domanda interessante chiedersi quanto gli uomini manterrebbero il loro rispettivo rango se fossero spogliati dei loro vestiti. In tal caso, potreste dire con sicurezza, in una qualunque compagnia di uomini civilizzati, chi appartiene alla classe più privilegiata? Quando la signora Pfeiffer, nei suoi viaggi avventurosi intorno al mondo, dall’Est all’Ovest, era giunta quasi fino a casa, nella Russia asiatica, affermava di aver sentito la necessità di indossare abiti diversi da quelli di viaggio, andando a incontrare le autorità, perché “adesso era in un paese civile, dove [...] la gente è giudicata dai vestiti”. Perfino nelle nostre democratiche città della Nuova Inghilterra, l’accidentale possesso della ricchezza e la sua manifestazione attraverso i vestiti e l’ostentazione, ottengono al possessore un rispetto quasi universale. Ma coloro che concedono tale rispetto, per quanto numerosi, sono profondamente pagani, e hanno bisogno che si mandi loro un missionario. Inoltre, i vestiti hanno introdotto il cucito, un tipo di lavoro che si può dire infinito; il vestito di una donna, almeno, non è mai completato.

A un uomo che avesse infine trovato qualcosa da fare non servirà un abito nuovo per farlo; gli basterà quello vecchio, che ha preso polvere in soffitta per un periodo indeterminato. Le scarpe vecchie serviranno all’eroe più a lungo che al suo valletto – se un eroe può mai avere un valletto; i piedi nudi sono più vecchi delle scarpe, e può farseli bastare. Solo chi va alle soirées e alle aule legislative deve avere giacche nuove, giacche da cambiare così spesso come cambia l’uomo dentro di esse. Ma se la mia giacca e i miei pantaloni, il mio cappello e le mie scarpe sono adatte all’adorazione di Dio, mi saranno sufficienti; non è così? Chi non ha mai visto i suoi abiti vecchi, come la sua vecchia giacca, consumata davvero, dissolta nei suoi elementi primitivi, in modo che non era un atto di carità darla a qualche ragazzo povero, perché magari la desse a qualcuno ancora più povero – o dovremmo dire più ricco – a cui sarebbe bastato ancora di meno? Io dico, fate attenzione a ogni impresa che richieda vestiti nuovi, e non piuttosto una persona nuova che li indossi. Se avete una nuova impresa davanti a voi, tentatela coi vostri vestiti vecchi. A tutti gli uomini serve non qualcosa con cui farlo, ma qualcosa da fare, o piuttosto qualcosa da essere. Forse non dovremmo mai procurarci un vestito nuovo, non importa quanto sia sporco o stracciato quello vecchio, finché non ci siamo comportati, non abbiamo navigato o intrapreso in modo tale da sentirci uomini nuovi in abiti vecchi, e che tenerli sarebbe come conservare vino nuovo in bottiglie vecchie. La nostra stagione della muta, come quella degli uccelli, deve essere una crisi nella nostra vita. Il tuffolo si ritira in uno stagno solitario per trascorrerla. Così anche il serpente si libera delle sue squame, e il bruco del suo cappotto da verme, grazie a un industriarsi e a un espandersi interiori; perché i vestiti non sono che la nostra pellicola esteriore e la nostra spoglia mortale. Altrimenti ci si ritroverà a navigare sotto falsa bandiera, e infine saremo inevitabilmente destituiti dalla nostra stessa opinione, oltre a quella dell’umanità.

Indossiamo un vestito dopo l’altro, quasi crescessimo come le piante esogene, per accumulazione esterna. I nostri vestiti esterni, spesso leggeri e colorati, sono la nostra epidermide o pelle falsa, che non partecipa della nostra vita, e possono essere tolti qua e là senza ferite fatali; i nostri vestiti più pesanti, indossati costantemente, sono il nostro tegumento o corteccia cellulare; ma le nostre camicie sono il nostro liber o la vera corteccia, che non possono essere rimossi senza incidere e dunque abbattere l’uomo. Credo che tutte le razze in qualche stagione debbano indossare qualcosa di equivalente alla camicia. È desiderabile che un uomo sia vestito in maniera così semplice da poter imporre le mani su di sé la notte, e da poter vivere in ogni aspetto in modo così pronto e coerente da potere, se un nemico conquistasse la città, uscire dalla sua porta a mani vuote, senza preoccupazione. Quando un indumento pesante è, per lo più, buono come tre leggeri, e si può ottenere vestiario economico a prezzi davvero adatti a ogni cliente; mentre si può comprare per cinque dollari un cappotto pesante che può durare altrettanti anni, per due dollari pantaloni pesanti, per un dollaro e mezzo un paio di stivali di pelle di vacca, per un quarto di dollaro un cappello estivo, e per sessantadue centesimi e mezzo un cappello invernale, o si può farne in casa uno migliore per il costo nominale, dov’è uno così povero che, abbigliato in tal guisa, grazie ai suoi guadagni, non sia considerato con reverenza dai saggi?

Quando chiedo un abito di una forma particolare, la mia sarta mi dice con aria grave: “Non li fanno così adesso”, senza enfatizzare per nulla chi siano “essi”, quasi citasse un’autorità impersonale come i Fati, e trovo difficile farmi fare ciò che voglio, semplicemente perché lei non può credere che io voglia ciò che dico, che sia così avventato. Quando ascolto questa sentenza oracolare, per un attimo mi assorbo nel pensiero, enfatizzando a mio beneficio separatamente ogni parola in modo da raggiungerne il significato, per scoprire con quale grado di parentela Essi siano imparentati a me, e quale autorità possano avere in un affare che mi tocca così da vicino; e finalmente, tendo a risponderle con uguale aria di mistero, senza ulteriore enfasi su di “essi”: “È vero, non li hanno fatti più così ultimamente, ma adesso sì”. A cosa serve prendermi le misure se lei non misura il mio carattere ma solo l’ampiezza delle mie spalle, come se fossero un gancio a cui appendere la giacca? Non adoriamo le Grazie o le Parche, ma la Moda. Lei intreccia, intesse e taglia con piena autorità. A Parigi, la scimmia capo si mette un berretto da viaggiatore e tutte le scimmie d’America fanno lo stesso. Talvolta dispero di ottenere che si faccia alcunché di semplice e onesto con l’aiuto degli uomini. Prima li si dovrebbe far passare attraverso un potente torchio, per spremerne via le vecchie nozioni, in modo che non si possano rimettere subito in piedi; e poi ce ne sarebbe qualcuno con un verme dentro la testa, spuntato da un uovo depositato lì non si sa quando – perché nemmeno il fuoco uccide queste cose – e voi avreste buttato via il vostro lavoro. Nondimeno, non dimenticheremo che si parla del grano egiziano trasmessoci da una mummia.

Nel complesso, ritengo che non si possa sostenere che il vestirsi sia assurto, in questo o in ogni altro paese, al rango di arte. Al momento gli uomini si arrangiano a indossare quel che riescono a trovare. Come marinai naufraghi, si mettono quel che trovano sulla spiaggia, e alla minima distanza, di spazio o di tempo, ridono delle mascherate degli altri. Ogni generazione ride delle vecchie mode, ma segue religiosamente le nuove. Ci divertiamo guardando il costume di Enrico VIII o della regina Elisabetta, come se fossero quelli del re e della regina dell’Isola dei Cannibali. Ogni costume, tolto da un uomo, è pietoso o grottesco. Sono solo lo sguardo serio che ne promana e la vita sincera che vi passa che frenano la risata e consacrano il costume di un popolo. Se Arlecchino è colto dallo spasmo di una colica, le sue bardature si adatteranno anche a quell’umore. Quando il soldato è colpito da una palla di cannone, gli stracci sono eleganti come la porpora reale.

Il gusto infantile e selvaggio di uomini e donne per i nuovi motivi porta chissà quanti a tremare e a sbirciare nei caleidoscopi in modo da scoprire la particolare figura richiesta da questa generazione odierna. I fabbricanti hanno imparato che questo gusto è un puro capriccio. Di due motivi che differiscono solo per qualche filo più o meno di un certo colore, l’uno si venderà prontamente, l’altro resterà sullo scaffale, anche se di frequente avviene che dopo lo scorrere di una stagione il secondo diventi più alla moda. Relativamente parlando, il tatuaggio non è l’orribile costume di cui si parla. Non è barbaro semplicemente perché la stampa si imprime sulla pelle ed è inalterabile.

Non riesco a credere che il nostro sistema industriale sia il miglior modo con cui gli uomini possano ottenere il vestiario. La condizione degli operai diventa giorno dopo giorno come quella degli inglesi; e non c’è da stupirsi giacché, per quanto abbia sentito e osservato, l’obiettivo principale non è che l’umanità sia abbigliata bene e onestamente, ma, senza dubbio, che le corporazioni si arricchiscano. Alla lunga, gli uomini colpiscono solo il bersaglio a cui mirano. Perciò, se devono fallire immediatamente, è meglio che mirino in alto.

Per quanto riguarda il Riparo, non negherò che sia adesso una necessità della vita, sebbene ci siano esempi di uomini che ne hanno fatto a meno per lunghi periodi in paesi più freddi di questo. Samuel Laing dice che “i lapponi col loro abito di pelle, e con un sacco di pelle che si mette sopra la testa e le spalle, dormiranno sulla neve notte dopo notte [...] in un freddo tale da estirpare la vita da chi vi venisse esposto con un abito di lana”. Li aveva visti dormire così. Eppure, aggiunge: “Non sono più resistenti di altri popoli”. Ma probabilmente l’uomo non è vissuto a lungo sulla terra senza scoprire la convenienza di una casa, i conforti domestici – espressione che può aver originariamente significato più le soddisfazioni della casa che quelle della famiglia; sebbene queste debbano essere estremamente parziali e occasionali in quei climi dove associamo la casa, nei nostri pensieri, soprattutto all’inverno o alla stagione piovosa, e dove per due terzi dell’anno è inutile, se non come parasole. Nel nostro clima, d’estate, la casa era originariamente quasi solamente una copertura per la notte. Nelle gazzette indiane, un wigwam era simbolo di un giorno di marcia, e una loro fila intagliata o dipinta sulla corteccia di un albero significava che vi si erano accampati un certo numero di volte. L’uomo non sarebbe stato dotato di membra così grandi e robuste se non avesse dovuto cercare di restringere il suo mondo, e rinchiudere uno spazio che gli fosse adatto. All’inizio, era nudo e all’aperto. Ma sebbene questa condizione fosse abbastanza piacevole col tempo caldo e sereno, di giorno, la stagione delle piogge e l’inverno, senza parlare del sole torrido, forse ne avrebbero estirpato la razza appena sbocciata, se non si fosse affrettato a vestirsi col riparo di una casa. Adamo ed Eva, secondo la favola, indossarono le foglie di fico prima degli altri vestiti. L’uomo desiderava una casa, un luogo di calore, o di conforto; prima veniva il calore fisico, poi quello degli affetti.

Possiamo immaginare un tempo in cui, nell’infanzia della razza umana, alcuni intraprendenti mortali strisciarono nella cavità di una roccia cercando riparo. In una certa misura, ogni bambino dà un nuovo inizio al mondo, e ama stare all’aperto, anche se è freddo e umido. Gioca a farsi una casa, oltre che a cavalcare, avendone l’istinto. Chi non ricorda l’interesse con cui, da giovane, aveva guardato una roccia sporgente, o qualunque ingresso di una grotta? Era il naturale anelito di quella parte dei nostri antenati più primitivi che ancora sopravvive in noi. Dalla caverna siamo avanzati fino ai tetti di corteccia e rami, di tela intessuta e distesa, di erba e paglia, di tavole e assi, di pietre e tegole. Infine, non sappiamo cosa sia vivere all’aria aperta, e la nostra vita è domestica in più sensi di quanto riteniamo. Dal focolare al campo vi è una grande distanza. Sarebbe forse bene se spendessimo una parte maggiore dei nostri giorni e delle nostre notti senza frammettere ostruzioni fra noi e i corpi celesti, se il poeta non parlasse così tanto da sotto un tetto, o se il santo non vi dimorasse così a lungo. Gli uccelli non cantano nelle caverne, né le colombe alimentano la loro innocenza nella piccionaia.

Comunque, se si progetta di costruire una dimora, sarebbe giusto esercitare un po’ di astuzia yankee, in modo da non ritrovarsi alla fine in un’officina, un labirinto senza via d’uscita, in un museo, in un ospizio, in una prigione, o invece in uno splendido mausoleo. Considerate prima quanto sia misero il riparo assolutamente necessario. Ho visto gli indiani Penobscot di questa città, che vivevano in tende di cotone sottile, mentre la neve intorno a loro raggiungeva un piede d’altezza, e pensavo che sarebbero stati lieti se fosse stata più alta, per tener lontano il vento. In precedenza, quando guadagnarmi onestamente da vivere lasciandomi la libertà di perseguire i miei scopi era una questione che mi tormentava più di ora – perché sfortunatamente sono diventato un po’ insensibile –, vedevo un grosso capanno vicino alla ferrovia, lungo sei piedi e largo tre, in cui gli operai chiudevano i loro arnesi di notte, e mi fece pensare che chiunque ne avesse la forte necessità potesse ottenerne uno a un dollaro e, avendovi praticato qualche foro col succhiello per farvi entrare almeno l’aria, ci potesse andare quando pioveva e di notte, chiudendo il coperchio, e in tal modo godendo della libertà dell’amore ed essendo liberi nell’anima. Questa non sembrava la peggiore, né assolutamente la più spregevole delle alternative. Potevate rimanere seduti anche fin tardi se lo desideravate e, ogniqualvolta vi alzavate, uscire senza un proprietario o un padrone di casa a tormentarvi per l’affitto. Molti uomini sono molestati fino alla morte per pagare l’affitto di una scatola più grande e più lussuosa, e non sarebbero morti di freddo in una scatola come quella. Non sto per nulla scherzando. L’economia è un argomento che si può trattare con leggerezza, ma a cui non si può rinunciare. Una volta si poteva costruire una casa comoda per una razza rude e forte, che viveva in gran parte all’aperto, quasi del tutto coi materiali forniti pronti dalla Natura. Gookin, che era sovrintendente ai sudditi indiani della colonia del Massachusetts, scrivendo nel 1674, dice: “Le migliori fra le loro case sono coperte in maniera molto ordinata, solida e calda, con cortecce d’albero, tagliate nella stagione in cui la linfa è più abbondante, facendone grandi scaglie, comprimendole con legna pesante quando sono verdi. [...] I tipi più ordinari sono coperti con stuoie fatte con una sorta di giunco, e sono anch’essi solidi e caldi, ma non buoni come il precedente. [...] Ne ho viste alcune lunghe sessanta o cento piedi, e larghe venti piedi. [...] Ho spesso dimorato nei loro wigwam, trovandoli caldi come le migliori case inglesi”. Aggiunge che nelle case vi erano tappeti ed erano tappezzate di stuoie ben lavorate e adornate, e fornite di vari utensili. Gli indiani erano talmente avanzati da saper temperare l’effetto del vento con una stuoia sospesa su un foro nel tetto, e mossa con una corda. Tale alloggio era inizialmente costruito in un giorno o due al massimo, e smontato e rimesso in piedi in poche ore; e ogni famiglia ne possedeva uno, o vi aveva i suoi appartamenti.

Nella condizione dei selvaggi, ogni famiglia possiede un riparo dei migliori, sufficiente per le necessità più rozze e semplici; ma io ritengo di parlare con cognizione di causa dicendo che, pur avendo gli uccelli dell’aria il loro nido, le volpi la loro tana e i selvaggi il loro wigwam, nella moderna società civile non più di metà delle famiglie possiede un riparo. Nei grandi paesi e città, dove più prevale la civiltà, il numero dei possessori di un riparo è una minuscola frazione della totalità. Per questo indumento esterno necessario a tutti, divenuto indispensabile d’estate e d’inverno, il resto delle persone paga una tassa annua con cui si potrebbe comprare un intero villaggio di wigwam indiani; ma al momento sembra convenire mantenerli in povertà per tutta la vita. Qui non intendo insistere sugli svantaggi dell’affitto rispetto a quelli della proprietà, ma è evidente che il selvaggio possiede il suo riparo perché costa poco, mentre l’uomo civile comunemente affitta il suo perché non può permettersi di possederlo; e neppure riesce, infine, a permetterselo più agevolmente. Però, mi risponde qualcuno, al solo prezzo di questa tassa l’uomo civile povero si assicura una dimora che è un palazzo rispetto a quella dei selvaggi. Una pigione annua da venticinque a cento dollari – questi sono i tassi del paese – gli dà diritto a beneficiare di avanzamenti secolari, di camere spaziose, con pareti ben dipinte e tappezzate, caminetti Rumford, montanti intonacati, veneziane alle finestre, pompe di rame, serrature a molla, una comoda cantina, e molte altre cose. Ma si dà il caso che colui che si dice goda di queste cose sia comunemente un uomo civile povero, mentre il selvaggio che non le ha è ricco, per un selvaggio! Se si afferma che la civiltà è un reale avanzamento nella condizione umana – e io ritengo che lo sia, sebbene solo i saggi sappiano migliorare i loro privilegi –, bisogna mostrare che ha prodotto abitazioni migliori senza renderle più costose; e il costo è l’ammontare di ciò che chiamerò vita, richiesta in cambio, immediatamente o in prospettiva. Una casa media in questo quartiere costa forse ottocento dollari, e per mettere da parte la somma ci vorranno da dieci a quindici anni della vita di un lavoratore, anche senza l’ingombro di una famiglia – stimando il valore pecuniario del lavoro di chiunque a un dollaro al giorno, perché se alcuni ricevono di più, altri ricevono di meno – cosicché deve aver trascorso più di metà della sua vita prima di potersi guadagnare un wigwam tutto suo. Se invece immaginiamo che paghi una pigione, questa non è che una dubbia scelta fra due mali. Sarebbe stato forse saggio il selvaggio che avesse scambiato il suo wigwam con un palazzo a queste condizioni?

Si può ritenere che io riduca quasi tutto il vantaggio di mantenere questa superflua proprietà a quello di un fondo di riserva per il futuro – per quanto riguarda l’individuo, soprattutto per garantire le spese dei funerali. Ma forse a un uomo non si dovrebbe chiedere di seppellire se stesso. Nondimeno, questo indica un’importante distinzione, quella fra l’uomo civilizzato e il selvaggio; senza dubbio, esistono progetti che vanno a nostro beneficio nel rendere la vita di un popolo civilizzato un’istituzione in cui assorbire in gran misura la vita dell’individuo, allo scopo di conservare e perfezionare quella della razza. Ma io desidero mostrare quale sia il sacrificio speso per questo vantaggio, e suggerire che potremmo forse vivere in modo da assicurarci tutto il vantaggio senza patire nulla dello svantaggio. Cosa intendete dicendo che i poveri li avete sempre con voi, o che i padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?

Finché vivo, dice Dio Signore, non avrete altre occasioni di usare questo proverbio in Israele.

Guarda, tutte le anime sono mie; come l’anima del padre, così anche l’anima del figlio è mia; l’anima che pecca morirà.

Quando considero i miei vicini, gli agricoltori di Concord, che sono ricchi almeno come le altre classi, scopro che in gran parte essi hanno faticato per venti, trenta o quarant’anni per diventare proprietari delle loro fattorie, solitamente ereditate con ipoteche, o altrimenti con soldi presi in prestito – e possiamo considerare un terzo di quelle fatiche come il costo della loro casa – ma solitamente non le hanno ancora finite di pagare. È vero che talora i gravami superano il valore della fattoria, cosicché la fattoria stessa diviene un grosso peso, eppure ci si dice di averla ereditata sapendolo bene. Chiedendo a dei periti, ho avuto la sorpresa di apprendere che non saprebbero di primo acchito nominare una dozzina di persone in città che posseggano fattorie libere da vincoli. Se volete sapere la storia di queste tenute, chiedete alla banca che ne tiene l’ipoteca. L’uomo che ha effettivamente pagato la sua fattoria avendola lavorata è così raro che tutti i suoi vicini ve lo saprebbero indicare. Dubito che ve ne siano tre a Concord. Quanto si dice dei mercanti – che la stragrande maggioranza, forse perfino novantasette su cento, è certa di andare fallita – è ugualmente vero degli agricoltori. Quanto ai mercanti, tuttavia, uno di loro dice opportunamente che in gran parte i loro fallimenti non sono genuini fallimenti pecuniari, ma solo incapacità di soddisfare gli impegni presi, in quanto non convenienti; cioè, è il carattere morale che si spezza. Ma questo conferisce alla faccenda un aspetto infinitamente peggiore, e inoltre suggerisce che probabilmente neppure gli altri tre riescano a salvarsi l’anima, ma forse fanno bancarotta in un senso peggiore di coloro che falliscono onestamente. La bancarotta e il rifiuto di pagare i debiti sono le pedane su cui molto della nostra civiltà volteggia e fa i salti mortali, mentre il selvaggio sta fermo sulla tavola anelastica della carestia. Eppure la Fiera del bestiame del Middlesex esplode ogni anno con éclat, come se tutte le giunture della macchina agricola combaciassero a perfezione.

L’agricoltore si sforza di risolvere il problema di guadagnarsi da vivere con una formula più complicata del problema stesso. Per comprarsi i lacci delle scarpe, specula in mandrie di bestiame. Con abilità consumata ha preparato il cappio della sua trappola per afferrare comodità e indipendenza, e poi, nel voltarsi, ci infila la gamba. Questa è la ragione per cui è povero; e per una ragione simile, per quanto circondati dal lusso, siamo tutti poveri rispetto alle mille comodità dei selvaggi. Come canta Chapman:

La falsa società degli uomini –
– per la grandezza terrena
Ogni celeste conforto dissolve in aria.

E quando l’agricoltore ha ottenuto una casa, può darsi che non sia diventato più ricco ma bensì più povero, e che sia la casa ad aver preso lui. Per quanto capisco, questa è la valida obiezione sollevata da Momo sulla casa costruita da Minerva, dicendo che “non l’aveva resa mobile, nel senso di evitare un brutto quartiere”; e la si può sollevare ancora, perché le nostre case sono proprietà così rigide che spesso vi siamo imprigionati piuttosto che alloggiati; e il brutto quartiere da evitare siamo noi stessi con il nostro scorbuto. Conosco almeno una o due famiglie in questa città che, per quasi una generazione, hanno desiderato vendere la loro casa in periferia per trasferirsi al centro, ma non vi sono riusciti, e solo la morte li libererà.

D’accordo, la maggioranza è in grado di possedere o affittare, infine, una casa moderna con tutti i suoi conforti. Mentre la civiltà ci ha migliorato le case, non ha ugualmente migliorato gli uomini destinati ad abitarle. Ha creato palazzi, ma non è stato così facile creare nobili e re. E se le mete perseguite dall’uomo civile non sono più degne di quelle del selvaggio, se quest’ultimo impiega gran parte della sua vita a ottenere solamente le necessità e le comodità più grossolane, perché mai dovrebbe avere una dimora migliore del primo?

Ma come vanno le cose per la minoranza povera? Forse si scoprirà che nell’esatta proporzione con cui, nelle circostanze esteriori, alcuni sono stati posti al di sopra dei selvaggi, altri sono stati degradati al di sotto. Il lusso di una classe è controbilanciato dall’indigenza di un’altra. Da un lato vi è il palazzo, dall’altra l’ospizio e il “povero silenzioso”. Le miriadi che hanno costruito le piramidi perché fossero tombe dei faraoni erano nutrite d’aglio, e forse non ricevevano una decente sepoltura a loro volta. Il muratore, una volta terminato il cornicione di un palazzo, la sera forse torna in una capanna che non vale neppure un wigwam. È un errore supporre che, in un paese che esibisce le solite prove dell’esistenza della civiltà, la condizione di una grossa parte di abitanti non sia degradata come quella dei selvaggi. Per ora mi riferirò ai poveri degradati, non ai ricchi degradati. Per riconoscerli non devo guardare oltre le baracche che costeggiano le nostre ferrovie, il massimo avanzamento della civiltà, dove vedo nelle mie camminate giornaliere esseri umani che abitano in stie, con la porta aperta tutto l’inverno per avere luce, senza che si veda o si immagini alcuna legna, e le forme dei vecchi come dei giovani si rattrappiscono in permanenza per la prolungata abitudine a rannicchiarsi dal freddo e dalla miseria, e lo sviluppo di tutte le membra e facoltà ne è bloccato. È senz’altro giusto osservare la classe col cui lavoro si compiono le opere che contraddistinguono questa generazione. Tale, in misura maggiore o minore, è anche la condizione degli operai di tutti i tipi in Inghilterra, che è la grande officina del mondo. O potrei far riferimento all’Irlanda, che è segnata sulle mappe fra i luoghi bianchi, illuminati come le aree inesplorate. Si metta a confronto la condizione fisica degli irlandesi con quella degli indiani del Nordamerica, o con gli abitanti delle isole dei Mari del Sud, o con ogni altra razza selvaggia prima che si degradasse per il contatto con l’uomo civilizzato. Eppure non ho dubbi che i governanti di quel popolo siano altrettanto saggi della media dei governanti civilizzati. La loro condizione dimostra soltanto che lo squallore può coesistere con la civiltà. Ora, non ho quasi bisogno di far riferimento ai lavoratori dei nostri stati del Sud che producono le materie da esportazione di questo paese, e che sono essi stessi una materia prima del Sud. Mi limiterò a quelli che si dice siano in circostanze moderate.

Quasi tutti gli uomini sembrano non aver mai considerato cosa sia una casa, e restano effettivamente anche se inutilmente poveri per tutta la vita, perché pensano di doverne avere una come quella dei loro vicini. Come se si dovesse indossare qualunque tipo di giacca che il sarto abbia tagliato, o, avendo gradualmente abbandonato il cappello di foglie di palma o il berretto di pelle di marmotta, ci si dovesse lamentare dei tempi difficili perché non ci si è potuto permettere di comprare una corona! È possibile inventare una casa ancor più conveniente e lussuosa di quelle che abbiamo, e tutti ammetterebbero di non potersi permettere di pagarla. Dovremo sempre studiare per ottenere più cose del genere, e non accontentarci, qualche volta, di meno? Dovrà il cittadino rispettabile dunque insegnare con gravità, col precetto e con l’esempio, la necessità che il giovane fornisca prima di morire un certo numero di galosce e ombrelli, e camere degli ospiti vuote per ospiti vuoti? Perché i nostri mobili non dovrebbero essere semplici come quelli di arabi e indiani? Quando penso ai benefattori dell’umanità, che destiniamo all’apoteosi come messaggeri del cielo, portatori di doni divini per l’uomo, nella mia mente non vedo un seguito di servitori alle loro calcagna, o carrozze cariche di mobili alla moda. Oppure: e se io concedessi – non sarebbe una concessione singolare? Che i nostri mobili fossero più complessi di quelli dell’arabo, se anche gli fossimo superiori moralmente e intellettualmente! Al momento le nostre case ne sono ingombrate e imbruttite, e la buona casalinga ne spazzerebbe via la gran parte nello scarico, per non lasciare a metà il suo lavoro mattutino. Il lavoro mattutino! Per i rossori di Aurora e per la musica di Memnone, quale dovrebbe essere il lavoro mattutino dell’uomo su questa terra? Avevo tre pezzi di calcare sul mio scrittoio, ma fui terrorizzato scoprendo di doverli spolverare quotidianamente, mentre il mobilio della mia mente era ancora privo di polvere, e li gettai disgustato fuori dalla finestra. Come avrei potuto, allora, avere una casa ammobiliata? Preferirei stare seduto all’aria aperta, perché sull’erba non si raccoglie la polvere, a meno che l’uomo non abbia arato il terreno.

Sono i dissipati dai gusti lussuosi a stabilire le mode che il gregge segue con tanta diligenza. Il viaggiatore che fa tappa nelle cosiddette case migliori, lo scopre presto, poiché i pubblicani presumono che sia un Sardanapalo, e se si consegnasse alla loro tenera misericordia, sarebbe presto del tutto svirilizzato. Credo che nella carrozza ferroviaria tendiamo a spendere più nel lusso che nella sicurezza e nella convenienza, senza ottenerle, ed essa minaccia di diventare niente più di un moderno salotto, con divani, ottomane e tendine, e cento altre cose orientali, che portiamo nell’Occidente insieme a noi, inventate per le signore dell’harem e per gli effeminati nativi dell’Impero celeste – cose di cui Jonathan l’Americano dovrebbe vergognarsi di conoscere il nome. Preferirei stare seduto su una zucca, e averla tutta per me, che stare in mezzo a una folla su un cuscino di velluto. Preferirei percorrere la terra su un carro trainato dai buoi, ma con libertà di circolazione, che andare in paradiso sulla carrozza di lusso di un treno da escursione, e respirare malaria per tutto il viaggio.

La stessa semplicità e nudità della vita umana nelle epoche primitive implicano almeno questo vantaggio, che gli hanno permesso di continuare a soggiornare nella Natura. Quando si era rinvigorito con cibo e sonno, egli contemplava nuovamente il suo viaggio. Una volta dimorava, per così dire, in una tenda su questo mondo, e superava sempre le valli, o attraversava le pianure, o scalava le cime delle montagne. Ma, guardate! Gli uomini sono diventati gli strumenti dei loro strumenti. L’uomo indipendente che raccoglieva i frutti quando aveva fame è diventato un contadino; e colui che si fermava sotto un albero per trovare un riparo è diventato casalingo. Adesso non ci accampiamo più per la notte, bensì ci siamo fermati sulla terra dimenticando il cielo. Abbiamo adottato il cristianesimo semplicemente come metodo avanzato di agri-cultura. Abbiamo costruito un palazzo di famiglia per questo mondo, e una tomba di famiglia per l’altro. Le migliori opere d’arte sono espressione della lotta dell’uomo per liberarsi da questa condizione, ma l’effetto della nostra arte è semplicemente di renderci confortevole questo stato inferiore, e di farci dimenticare quello superiore. In questo villaggio non ci sarebbe proprio alcun posto per un’opera di bella arte che dovesse giungere fra noi, perché le nostre vite, le nostre case e strade non ci forniscono un piedistallo appropriato. Non c’è un chiodo per appenderci un quadro, né uno scaffale per ricevere il busto di un eroe o di un santo. Quando considero come sono costruite e pagate, o non pagate, le nostre case, e come si gestisce e si sostiene la loro economia interna, mi meraviglio che il pavimento non inghiottisca il visitatore mentre ammira i fronzoli sulla base del caminetto, per farlo arrivare in cantina, fino alle fondamenta solide e oneste, pur se fatte di terra. Non posso non percepire che questa cosiddetta vita ricca e raffinata sia una cosa colta al volo con un balzo, e non proseguo nel godimento delle belle arti che l’adornano, essendo la mia attenzione completamente occupata dal balzo; perché rammento che il più grande vero balzo che si ricordi, dovuto solo ai muscoli umani, è quello di certi arabi vagabondi, che si dice abbiano superato venticinque piedi su terreno piano. Senza sostegno fittizio, l’uomo è certo di tornare a terra oltre quella distanza. La prima domanda che sono tentato di porre al proprietario di tale improprietà è: cos’è che ti dà forza? Sei uno dei novantasette falliti? O dei tre che hanno avuto successo? Rispondi a queste domande, e poi forse potrò guardare i tuoi fronzoli e li troverò ornamentali. Mettere il carro davanti ai buoi non è bello né utile. Prima di adornare la nostra casa con oggetti di bellezza bisogna spogliare le pareti, e bisogna spogliare la nostra vita, e porre a fondamenta un buon governo della casa e una bella vita: ora, il gusto del bello si coltiva meglio all’aperto, dove non esiste casa o governante.

Il vecchio Johnson, nel suo Wonder-Working Providence, parlando dei primi coloni di questa città, di cui era contemporaneo, ci dice che “essi si rintanarono nella terra sotto una collina per trovare un primo riparo e, ammucchiando terra sopra del legname, accesero un fumoso fuoco contro il terreno, dal lato più alto”. Non “provvidero alle case”, dice, “finché la terra, per misericordia divina, non generò pane per nutrirli”, e il raccolto del primo anno fu così scarso che “furono costretti a mangiare fette di pane sottilissime, per tutta quella lunga stagione”. Il segretario della provincia della Nuova Olanda, scrivendo in olandese nel 1650, per informare chi desiderava procurarsi della terra, afferma più specificamente che “chi nella Nuova Olanda, e specialmente nella Nuova Inghilterra, non ha mezzi per costruirsi subito delle case coloniche come vorrebbe, scava una fossa quadrata nel terreno, a mo’ di cantina, profonda sei o sette piedi, lunga e larga come sembra opportuno, puntella la terra dall’interno ponendo legna intorno alle pareti, e circonda la legna con corteccia d’alberi o altro per evitare che la terra frani; dà a questa cantina un pavimento d’assi, e un rivestimento in alto per fare il soffitto, innalza un tetto di tavole, e le ricopre con corteccia o zolle verdi, così da vivere in queste case all’asciutto e al caldo con tutta la famiglia per due, tre, o quattro anni – s’intende creando divisioni attraverso queste cantine, idonee alla dimensione della famiglia. I ricchi e i notabili della Nuova Inghilterra, al principio delle colonie, cominciarono così le loro abitazioni, per due ragioni: primo, per non sprecar tempo nella costruzione, e non trovarsi senza mangiare la stagione seguente; secondo, per non scoraggiare i lavoranti poveri portati in massa dalla madrepatria. Nel corso di tre o quattro anni, quando il paese era diventato idoneo all’agricoltura, si costruirono belle case, spendendo parecchie migliaia di dollari”.

Nel corso preso dai nostri antenati, si manifestava almeno prudenza, come se il loro principio fosse di soddisfare innanzitutto le necessità più pressanti. Ma sono soddisfatte le necessità più pressanti adesso? Quando penso di acquistare una delle nostre lussuose dimore, me ne ritraggo, perché, per così dire, il paese non si è ancora adattato alla cultura umana, e siamo ancora costretti a tagliare il nostro pane spirituale in fette ancor più sottili di quanto fecero i nostri antenati coi loro cereali. Non che ogni ornamento architettonico vada trascurato, anche nei periodi più duri; ma facciamo sì che le nostre case siano prima tappezzate di bellezza, là dove vengano in contatto con la nostra vita, come la conchiglia in cui alloggia il mollusco, e non ne siano sovraccariche. Ma, ahimè, sono entrato in una o due di esse, so di cosa sono tappezzate.

Sebbene non siamo degenerati al punto da vivere oggi in una caverna o in un wigwam, o da vestirci di pelli, è senz’altro meglio accettare i vantaggi, pur se comprati a così caro prezzo, offerti dall’invenzione e dall’industriosità del genere umano. In un quartiere come questo, le assi e le traverse, la calce e i mattoni sono più economici e si ottengono più facilmente di caverne idonee, tronchi interi o sufficienti quantità di corteccia, o perfino di argilla ben cotta o pietre piatte. Parlo con competenza dell’argomento, perché l’ho voluto conoscere nella teoria e nella pratica. Con un po’ più di intelligenza potremmo usare questi materiali per diventare più ricchi dei più ricchi d’oggi, e trasformare la nostra civiltà in una benedizione. L’uomo civilizzato è un selvaggio più esperto e più saggio. Ma affrettiamoci a parlare del mio esperimento.

Verso la fine del marzo 1845, presi in prestito un’ascia e mi diressi nei boschi presso il Lago di Walden, vicino al luogo dove intendevo costruirmi la casa, e cominciai a tagliare dei pini bianchi, alti, appuntiti e ancora giovani, per ricavarne legname. È difficile dare inizio a qualcosa senza prendere nulla in prestito, ma forse è la maniera più generosa, che permette al prossimo di avere un interesse nella vostra impresa. Il proprietario dell’ascia, mentre me la lasciava, disse che era la pupilla dei suoi occhi; ma io la restituii più affilata di come l’avessi ricevuta. Dove lavorai era il piacevole pendio di un colle, coperto di pinete, oltre le quali vedevo il lago, e un piccolo campo aperto fra i boschi dove spuntavano pini e noci. Non si era ancora sciolto il ghiaccio nel lago, anche se c’erano spazi aperti, e tutto era scuro e saturo d’acqua. Ci fu qualche leggero fiocco di neve durante le giornate in cui vi lavorai; ma per lo più quando arrivavo alla ferrovia, tornando a casa, mucchi gialli di sabbia si stendevano luccicanti nell’aria nebbiosa, e i binari brillavano alla luce della primavera, e sentivo l’allodola, la pavoncella e altri uccelli già arrivati a cominciare un altro anno con noi. Erano piacevoli giornate di primavera, in cui il disgelo scioglieva la terra e l’inverno dello scontento umano, e la vita che si era stesa torpida cominciava a stiracchiarsi. Un giorno, quando l’ascia mi era uscita dal manico e avevo tagliato un cuneo da un noce verde battendolo con una pietra, e avevo posto tutto quanto a inumidirsi nello stagno per gonfiare il legno, vidi un serpente striato correre nell’acqua e fermarsi sul fondo, in apparenza senza problemi, per tutto il tempo in cui stetti lì, per più di un quarto d’ora; forse perché non era del tutto uscito dal torpore. Mi sembrò che per un motivo simile gli uomini restano nella loro attuale condizione inferiore e primitiva; ma se sentissero l’influsso della primavera delle primavere a scuoterli, ascenderebbero necessariamente a una vita superiore, più eterea. Avevo già visto serpenti sul mio cammino, nelle mattine di gelo, con parti del loro corpo ancora intorpidite e irrigidite, in attesa del sole e del disgelo. Il primo aprile la pioggia sciolse il ghiaccio, e mentre iniziava una giornata di nebbia, sentii un’oca solitaria che si avventurava sullo stagno, schiamazzando come se si fosse perduta, o come se fosse lo spirito della nebbia.

Continuai così per alcuni giorni, abbattendo e tagliando legna, e anche montanti e travi, tutti con la mia ascia sottile, senza molti pensieri comunicabili o eruditi, cantando da solo:

Gli uomini dicono di sapere tante cose;
Ma guarda! hanno messo le ali,
Le arti e le scienze,
E mille applicazioni;
Il vento che soffia
È ciò che tutti sanno.

Tagliai le travi principali spesse sei pollici, con la maggior parte dei montanti su due lati soltanto, e le assi e le altre tavole per il pavimento da un lato, lasciando il resto della corteccia, così da essere diritti come gli alberi segati, e molto più forti. Ciascun ceppo fu attentamente incastrato con mortasa e tenone, perché stavolta avevo preso in prestito altri arnesi. Le mie giornate nei boschi non erano lunghe; ma di solito mi portavo un pranzo di pane e burro, e leggevo il giornale in cui era avvolto, a mezzogiorno, seduto fra i rami di pino verde che avevo tagliato, e al mio pane si impartiva parte di quella fragranza, perché le mie mani erano coperte da una spessa coltre di resina. Prima di aver finito, ero più amico che nemico dei pini, pur avendone abbattuti alcuni, ma avendoli conosciuti meglio. Talvolta qualcuno, vagando nel bosco, era attratto dal suono della mia ascia, e chiacchieravamo piacevolmente fra le schegge che avevo prodotto.

A metà aprile – perché non mettevo fretta al mio lavoro, ma piuttosto cercavo di goderlo il più possibile – l’intelaiatura della mia casa fu pronta per essere innalzata. Avevo già comprato la baracca di James Collins, un irlandese che lavorava per la ferrovia di Fitchburg, per ricavarne assi. La baracca di James Collins era considerata insolitamente ben fatta. Non era in casa quando lo chiamai per vederla. Mi incamminai al di fuori, dapprima senza essere visto dall’interno, per quanto era spessa e alta la finestra. Era di piccole dimensioni, col tetto a punta, come un cottage, e non c’era molto altro da vedere, coi rifiuti che la circondavano, alti cinque piedi come un mucchio di concime. Il tetto era la parte più solida, sebbene alquanto sbilenco e consumato dal sole. Non c’era una soglia, ma c’era un passaggio perenne per le galline sotto l’asse della porta. La signora C. venne all’uscio e mi disse di guardare all’interno. Mentre mi avvicinavo, entrarono le galline. Era buio, quasi tutto coperto da uno sporco pavimento, umido, viscido e malaticcio, e solo qua e là c’era un’asse ben piantata. Accese un lume per mostrarmi l’interno del tetto e delle pareti, e anche che le tavole del pavimento continuavano sotto il letto, avvisandomi di non inoltrarmi nella cantina, una sorta di fosso profondo due piedi. In parole sue, erano “buone assi in alto, buone assi tutt’intorno, e una buona finestra”; fatta di due quadrati in origine; solo la gatta ne era uscita di recente. C’era una stufa, un letto, e un posto per sedersi, un bimbo che vi era nato, un parasole di seta, uno specchio dalla cornice dorata, e un macinino da caffè nuovo di zecca, appeso a un rametto di quercia, e questo era tutto. Si concluse presto l’acquisto, perché James nel frattempo era tornato. Io dovevo pagare quattro dollari e venticinque centesimi la sera stessa, lui svuotarla alle cinque di mattina l’indomani, senza venderla a nessun altro nel frattempo: io ne avrei preso possesso alle sei. Sarebbe stato bene, disse lui, esserci presto, per anticipare certe pretese, vaghe e del tutto ingiustificate, sull’affitto del terreno e del combustibile. Mi assicurò che questo era l’unico vincolo. Alle sei incontrai lui e la sua famiglia sulla strada. Un grosso fagotto conteneva tutto ciò che avevano – letto, macinino, specchio, galline –, tutto tranne la gatta, che fuggì nei boschi e divenne una gatta selvatica e, come appresi in seguito, si infilò in una trappola per marmotte, e così alla fine divenne una gatta morta.

Abbattei l’abitazione la mattina stessa, estraendone i chiodi, e la trasportai accanto al lago un po’ alla volta con un carretto, disponendo le tavole sull’erba perché al sole si asciugassero e riprendessero la loro forma. Un tordo mattiniero mi cantò una nota o due mentre procedevo sul sentiero nel bosco. Fui informato furtivamente da un giovane irlandese che il vicino Seeley, suo compatriota, mentre ero via, trasferiva i chiodi ancora in condizioni tollerabili, diritti e utilizzabili, i ganci e le punte di ferro nelle proprie tasche, e poi restava a passare la giornata con me, e guardava riposato la devastazione, disinteressato e con pensieri primaverili, essendoci scarso lavoro, come disse lui. Era lì a rappresentare lo spettatore, e contribuì a fare di questo evento apparentemente insignificante uno all’altezza della rimozione degli dei di Troia.

Mi scavai la cantina sul fianco di una collina rivolta a sud, dove una marmotta si era in precedenza scavata la tana, attraverso radici di sommacco, di more e attraverso la più bassa chiazza di vegetazione, sei piedi quadrati e profonda sette, raggiungendo una sabbia fine, dove le patate non si sarebbero congelate neppure con l’inverno peggiore. Lasciai i lati in pendenza, senza ricoprirli di pietra; ma non essendo mai stata colpita dal sole, la sabbia è tuttora al suo posto. Non fu che il lavoro di due ore. Questa rottura del terreno mi diede particolare piacere, perché in quasi tutte le latitudini gli uomini scavano la terra alla ricerca di una temperatura costante. Sotto la più splendida casa di città si trova ancora la cantina dove si conservano le radici, come una volta, e molto tempo dopo la scomparsa della sovrastruttura, la posterità ne osserva la presa sulla terra. Ancora la casa non è che la veranda all’entrata di una tana.

Col passar del tempo, all’inizio di maggio, con l’aiuto di alcuni conoscenti, più per migliorare, in un’occasione così buona, lo spirito di buon vicinato che per necessità, tirai su l’intelaiatura della casa. Nessuno mai fu più onorato di me dal carattere dei propri muratori. Erano destinati, ne sono certo, ad assistere un giorno al sorgere di strutture ben più nobili. Cominciai a occupare la casa il 4 luglio, non appena ebbe pavimento e tetto, perché le tavole furono attentamente laccate e sovrapposte, in modo da essere perfettamente resistenti alla pioggia; ma prima di disporre le tavole, preparai su un lato la base del camino, portando con le braccia dal lago due carrettate di pietre su per la collina. Costruii il camino dopo la zappatura autunnale, prima che il fuoco diventasse necessario a riscaldarmi, cuocendo nel frattempo all’aperto, per terra, la mattina presto: ritengo ancora che questo modo sia sotto molti aspetti più conveniente e gradevole di quello solito. Quando pioveva prima che fosse cotto il pane, fissavo qualche tavola sopra il fuoco, e mi sedevo sotto di esse a tener d’occhio la mia pagnotta, trascorrendo così delle ore piacevoli. Leggevo poco, ma i pochi ritagli di carta che stavano a terra, che mi facevano da fagotto e tovaglia, mi intrattennero molto, e infatti risposero allo stesso scopo dell’Iliade.

Varrebbe la pena costruire con volontà ancor maggiore della mia, se si considera per esempio quale importanza hanno nella natura umana una porta, una finestra, una cantina, una soffitta, e non alzando forse mai alcuna sovrastruttura finché non troviamo un motivo migliore delle nostre necessità terrene. C’è un po’ della stessa attitudine nell’uomo che si costruisce la casa e nell’uccello che si costruisce il nido. Chissà, se gli uomini si costruissero le abitazioni con le loro mani, e provvedessero al cibo per sé e per la famiglia con sufficiente onestà e semplicità, non si svilupperebbe universalmente la facoltà poetica, come gli uccelli che cantano universalmente mentre sono così impegnati? Ma, ahimè!, facciamo come il molotro e il cuculo, che depongono le uova nei nidi costruiti da altri uccelli, senza rallegrare il viaggiatore con le loro note ciarliere e prive di musicalità. Dovremo lasciare al falegname il piacere della costruzione? Quanto conta l’architettura nell’esperienza della massa degli uomini? Mai, in tutte le mie passeggiate, mi sono imbattuto in un uomo impegnato in un’occupazione semplice e naturale come la costruzione della propria casa. Noi apparteniamo alla comunità. Non è solo il sarto a essere la nona parte di un uomo: altrettanto vale per il predicatore, il mercante e il contadino. Dove finirà questa divisione del lavoro? E a quale obiettivo ultimo serve? Senza dubbio, un altro può anche pensare al mio posto; ma non è desiderabile che ciò avvenga escludendo che lo faccia io.

È vero, ci sono cosiddetti architetti in questo paese, e ho sentito dire che almeno uno è mosso dall’idea di creare ornamenti architettonici che abbiano un centro di verità, una necessità, e dunque una bellezza – a lui sembrò una rivelazione. Da riformatore sentimentale dell’architettura, cominciò dal cornicione, non dalle fondamenta. Si trattava solo di porre un centro di verità dentro gli ornamenti, come ogni prugna caramellata ha dentro di sé un seme di mandorla o di cumino – sebbene io ritenga che le mandorle siano più salutari senza zucchero – e non si trattava di come l’abitante, il dimorante, può costruire veramente dentro e fuori di sé, lasciando che gli ornamenti badino a se stessi. Quale uomo ragionevole ha mai supposto che gli ornamenti fossero qualcosa di puramente esteriore ed epidermico, che la tartaruga abbia il suo guscio punteggiato, o il mollusco le sue tinte di madreperla con un contratto simile a quello degli abitanti di Broadway per la Trinity Church? Ma un uomo ha a che fare con lo stile architettonico della sua casa come la tartaruga col suo guscio: né deve il soldato essere così pigro da cercare di dipingere l’esatto colore della sua virtù sul proprio stendardo. Lo scoprirà il nemico. Potrà impallidire quando arriva la prova suprema. Quest’uomo mi sembrava sporgersi dal cornicione, sussurrando timoroso la sua mezza verità ai rozzi occupanti che in realtà ne sapevano più di lui. Ogni bellezza architettonica che vedo ora, so che è cresciuta gradualmente dall’interno verso l’esterno, dalle necessità e dal carattere dell’inquilino, che è l’unico costruttore, a partire da una sincerità e nobiltà inconsapevole, senza la minima preoccupazione per l’apparenza; e ogniqualvolta si destina alla produzione una bellezza accessoria di questo tipo, essa sarà prodotta da una bellezza della vita ugualmente inconsapevole. Le dimore più interessanti di questo paese, come sanno i pittori, sono le meno pretenziose, solitamente umili capanne di tronchi e cottage per poveri; è la vita degli abitanti di cui sono il guscio, e non semplicemente le peculiarità della loro superficie, a renderle pittoresche; e ugualmente interessante sarà la scatola suburbana del cittadino, quando la sua vita sarà altrettanto semplice e gradevole per l’immaginazione, e con poco sforzo di ricerca dell’effetto nello stile dell’abitazione. Una gran quantità di ornamenti architettonici sono letteralmente vuoti, e una brezza settembrina li spazzerebbe via, come piume prese a prestito, senza danno per la sostanza. Chi non ha olive o vino in cantina può fare a meno dell’architettura. E se si facesse lo stesso trambusto per gli ornamenti stilistici della letteratura, e se gli architetti delle nostre Bibbie spendessero per le loro cornici lo stesso tempo degli architetti per le nostre chiese? Così sono fatte le belles-lettres e le beauxarts, e i loro professori. Davvero una gran preoccupazione per un uomo, sapere quanto sia inclinata qualche trave sopra o sotto di lui, e di quali colori sia dipinta la sua scatola. Significherebbero qualcosa se, in qualsiasi senso degno di considerazione, fosse stato lui a inclinarle e a passare il colore; ma quando lo spirito abbandona il suo ospite, è come costruirsi la propria bara – l’architettura della tomba – e “falegname” non è che un sinonimo di “fabbricante di bare”. Dice un uomo, per disperazione o indifferenza verso la vita: “Raccogli una manciata di terra ai tuoi piedi, e dipingiti la casa di quel colore”. Sta pensando alla sua stretta, ultima abitazione? Anche in questo caso, lanciamo un centesimo di rame e scopriamolo. Quanto tempo libero deve avere! Perché raccogliere una manciata di sporcizia? Meglio dipingervi la casa col vostro colorito; che impallidisca o arrossisca insieme a voi. Un’impresa che migliorerebbe lo stile architettonico dei cottage! Quando i miei ornamenti saranno pronti, li indosserò.

Prima dell’inverno costruii il camino, e rivestii i lati della mia casa, che erano già protetti dalla pioggia, con tavole imperfette e ricche di linfa, fatte col primo taglio del ceppo, dopo averne dovuto pareggiare i margini con la pialla.

Ho dunque una casa solida, rivestita e intonacata, larga dieci piedi e lunga quindici, con montanti di otto piedi, una soffitta e un ripostiglio, una finestra grande su ogni lato, due botole, una porta sul fondo, e un caminetto di mattoni di fronte. Il costo esatto della mia casa, pagando il normale prezzo per i materiali usati, ma non contando la manodopera, a cui ho provveduto da me, fu come segue; e ne do i particolari perché pochi sono in grado di dire esattamente quanto costi la loro casa, e ancora meno – se pur ne esistono – possono dare il costo singolo dei vari materiali che la compongono:

Assi

$ 8,03½

– Per lo più provenienti dalla capanna

Tavole di scarto per il tetto e i lati

4,00

Listelli

1,25

Due finestre di seconda mano, con vetri

2,43

1000 mattoni vecchi

4,00

Due casse di calce

   2,40 –

Troppo cara
Crine

   0,31 –

Più del necessario
Supporto per il camino

0,15

Chiodi

3,90

Cardini e viti

0,14

Catenaccio

0,10

Gesso

0,01

Trasporto

   1,40 –

In gran parte portati a spalla
In tutto

 $ 28,12½

Questi sono tutti i materiali, tranne la legna, le pietre e la sabbia, che ho fatto mie per diritto di occupazione. Ho anche una piccola baracca annessa, fatta per lo più con la roba avanzata dopo aver costruito la casa.

Intendo costruirmi una casa che sorpasserà tutte le altre sul corso di Concord, per grandiosità e per lusso, non appena ne avrò voglia e se non mi costerà più di questa.

Scoprii così che lo studente che desideri un riparo può ottenerne uno che dura una vita con una spesa non maggiore della pigione annua che paga adesso. Se sembro vantarmi più del giusto, la mia scusa è che mi vanto a nome dell’umanità piuttosto che a mio nome soltanto; e le mie mancanze e incoerenze non toccano la verità della mia affermazione. Nonostante tante banalità e ipocrisie – la crusca che trovo difficile separare dal mio grano, ma per cui sono spiacente come tutti gli altri – mi farò avanti per esprimermi liberamente sull’argomento, tale è il sollievo che ciò porta al sistema morale e fisico; e sono deciso a non diventare l’avvocato del diavolo per via dell’umiltà. Mi sforzerò di pronunciare una buona parola in favore della verità. Allo Harvard College di Cambridge, solo l’affitto della stanza di uno studente, poco più grande della mia, è di trenta dollari l’anno, sebbene la corporazione abbia avuto il vantaggio di costruirne trentadue una in fila all’altra sotto lo stesso tetto, e l’inquilino patisca l’inconveniente di avere molti vicini rumorosi, e forse gli capiti di risiedere al quarto piano. Non posso non pensare che se avessimo più vera saggezza a tal proposito, non solo servirebbe meno istruzione perché, in effetti, ne sarebbe stata già acquisita a sufficienza, ma la spesa pecuniaria per farsi un’istruzione svanirebbe in gran misura. Quei servizi richiesti dallo studente, a Cambridge o altrove, costano a lui o a qualcun altro un sacrificio dieci volte maggiore di quanto avverrebbe con un’appropriata amministrazione da ambo le parti. Quelle cose per cui si esigono più soldi non sono mai quelle che più mancano allo studente. La retta, per esempio, è una voce importante nella fattura dell’anno accademico, mentre non si fa pagare l’istruzione – dal valore molto maggiore – ottenuta frequentando i più colti fra i suoi coetanei. Il modo di finanziare un college è, normalmente, quello di racimolare una sottoscrizione in dollari e centesimi, seguendo poi ciecamente e fino all’estremo il principio della divisione del lavoro, un principio da non seguire mai se non con circospezione – chiamare un appaltatore che ne fa un’occasione di speculazione, e impiega irlandesi o altri operai per disporne materialmente le fondamenta, mentre gli studenti che verranno dovranno adattarvisi; e per questa trascuratezza dovranno pagare le generazioni successive. Penso che sarebbe meglio di così, per lo studente o per coloro che desiderano riceverne beneficio, disporre le fondamenta loro stessi. Lo studente che si assicura il desiderato isolamento e tempo libero sfuggendo sistematicamente a qualsiasi fatica necessaria all’uomo, si defrauda dell’unica esperienza che può rendere fruttuoso il suo tempo libero. “Ma,” dice uno, “non intenderai che gli studenti dovrebbero andare a lavorare con le mani e non con la testa?” Non intendo esattamente questo, ma intendo qualcosa che si potrebbe ritenere molto simile; intendo che non dovrebbero giocare alla vita, o semplicemente studiarla, mentre la comunità li sostiene in questo costoso gioco, ma dovrebbero viverla con avidità, dall’inizio alla fine. Come potrebbero imparare a vivere i giovani meglio che tentando subito l’esperimento del vivere? Ritengo che questo eserciterebbe la loro mente quanto la matematica. Se desiderassi che un ragazzo sapesse qualcosa sulle arti e sulle scienze, per esempio, non perseguirei il corso comune, ovvero di mandarlo semplicemente nelle vicinanze di qualche professore, dove si professa e si pratica tutto tranne l’arte della vita: scrutare il mondo attraverso un telescopio o un microscopio, e mai attraverso l’occhio naturale; studiare la chimica, e non imparare come si fa il pane; o la meccanica, e non imparare come lo si guadagna; scoprire nuovi satelliti di Nettuno, e non accorgersi dei granelli nel proprio occhio, o di quale astro vagante lui stesso sia un satellite; o essere divorato dai mostri che gli sciamano tutt’intorno, mentre contempla i mostri in una goccia d’aceto. Chi sarebbe avanzato maggiormente alla fine del mese, il ragazzo che si è fatto un coltello dal minerale che ha scavato e fuso, leggendo il necessario per farlo, o il ragazzo che nel frattempo ha frequentato le lezioni di metallurgia all’Istituto Lowell, e ha ricevuto un temperino Rodgers da suo padre? Chi avrebbe avuto più probabilità di tagliarsi le dita? Con grande stupore fui informato, lasciando il college, di aver studiato navigazione! Ne avrei saputo di più facendomi un giro al porto. Anche allo studente povero si insegna e viene fatta studiare solo l’economia politica, mentre quell’economia del vivere che è sinonimo di filosofia non è neppure insegnata con sincerità nei nostri college. La conseguenza è che, mentre legge Adam Smith, Ricardo e Say, trascina irrimediabilmente suo padre nei debiti.

Come i nostri college, lo stesso vale per cento “avanzamenti moderni”; c’è un’illusione che li riguarda; non c’è sempre un vero miglioramento. Il diavolo continua a esigere interessi composti fino all’ultimo per la sua quota iniziale e i numerosi successivi investimenti. Le nostre invenzioni sono normalmente dei bei giocattoli, che distraggono la nostra attenzione dalle cose serie. Non sono che mezzi avanzati per un fine arretrato, un fine che sin dall’inizio era troppo facile da raggiungere; come le ferrovie che portano da Boston a New York. Abbiamo una gran fretta di costruire un telegrafo magnetico dal Maine al Texas; ma può darsi che il Maine e il Texas non abbiano nulla di importante da comunicarsi. Entrambi sono nella situazione dell’uomo impaziente di essere presentato a una distinta donna sorda, ma quando fu presentato e gli fu posto in mano un capo del suo cornetto acustico, non ebbe niente da dire. Come se l’obiettivo principale fosse parlare velocemente e non parlare sensibilmente. Siamo ansiosi di scavare una galleria sotto l’Atlantico, e di portare il Vecchio Mondo qualche settimana più vicino al Nuovo; ma forse la prima notizia che trapelerà all’ampio, pendente orecchio americano sarà che la principessa Adelaide ha la tosse convulsa. Dopo tutto, non è l’uomo il cui cavallo trotta a un miglio al minuto a portare i messaggi più importanti; egli non è un evangelista, né arriva mangiando locuste e miele selvatico. Dubito che Flying Childers abbia mai portato un sacco di grano al mulino.

Mi si dice: “Mi meraviglio che tu non accumuli denaro; ami viaggiare; potresti salire in carrozza e andare a Fitchburg oggi a vedere il paese”. Ma io sono più saggio. Ho imparato che il viaggiatore più rapido è quello che va a piedi. Io dico al mio amico: “Supponi che facciamo a chi arriva per primo. La distanza è trenta miglia; la tariffa, novanta centesimi. Cioè quasi una giornata di salario. Ricordo quando il salario era sessanta centesimi al giorno per gli operai di questa strada. Allora, io parto a piedi e arrivo prima di notte; ho viaggiato a quel passo per tutta la settimana. Nel frattempo, ti sarai guadagnato il biglietto e arriverai domani, o forse stasera se hai abbastanza fortuna da trovare lavoro in tempo. Invece di andare a Fitchburg, starai qui a lavorare per gran parte della giornata. E allora, anche se la ferrovia arrivasse intorno al mondo, penso che ti rimarrei davanti; e per quanto riguarda vedere il paese e farmi esperienze di quel tipo, dovrei rinunciare del tutto alla tua amicizia”.

Questa è la legge universale, che nessun uomo dovrebbe mai cercare di mettere in scacco, e quanto alla ferrovia potremmo dire che non conta proprio niente. Rendere disponibile a tutta l’umanità una ferrovia intorno al mondo equivale a graduare tutta la superficie del pianeta. Gli uomini hanno la vaga nozione che se persistono abbastanza a lungo in quest’attività fatta di azioni e picconi, tutti a lungo andare arriveranno a destinazione, quasi in un attimo, e in cambio di niente; ma sebbene la folla stia correndo verso il deposito, e il controllore gridi: “Tutti a bordo!”, quando svanisce il fumo e si condensa il vapore ci si accorgerà che stanno viaggiando solo in pochi, mentre il resto viene investito – e questo sarà chiamato, e sarà, “un triste incidente”. Senza dubbio, infine potranno viaggiare tutti coloro che si sono guadagnati il costo del biglietto, o almeno se sopravvivono per farlo, ma a quel punto avranno probabilmente perso l’elasticità e il desiderio di viaggiare. Questo spendere la parte migliore della propria vita guadagnando soldi allo scopo di godere di una discutibile libertà durante gli anni meno validi, mi fa venire in mente l’inglese che prima andò in India a guadagnare una fortuna per poter tornare in Inghilterra a vivere la vita di un poeta. Si sarebbe dovuto ritirare subito in soffitta. “Che cosa?” esclama un milione di irlandesi spuntando da tutte le baracche del paese. “Questa ferrovia che abbiamo costruito non è una cosa buona?” Sì, rispondo io, relativamente buona, cioè avreste potuto far di peggio; ma vorrei, perché siete miei fratelli, che poteste passare il vostro tempo meglio che scavando in questa sporcizia.

Prima di finire la casa, desiderando guadagnare dieci o dodici dollari in maniera onesta e gradevole, per affrontare le spese inattese, piantai circa due acri e mezzo di terreno leggero e sabbioso lì vicino, soprattutto a fagioli, ma anche una piccola parte a patate, granturco, piselli e rape. L’intero lotto era di undici acri, per lo più con pini e noci, ed era stato venduto la stagione precedente per otto dollari e otto centesimi all’acro. Un contadino disse che non “serviva a niente se non a farci squittire gli scoiattoli”. Non misi letame sul terreno, non essendone il proprietario ma solo un occupante; non aspettandomi di coltivarne altrettanto in seguito, non lo vangai tutto in una volta. Arandolo, tirai fuori parecchie corde di ceppi, che mi rifornirono di combustibile per molto tempo, e lasciai piccoli cerchi di terriccio vergine, facili da distinguere per tutta l’estate perché i fagioli vi crebbero rigogliosi. Il legname dietro la casa, secco e in gran parte invendibile, e quello portato dal lago, mi fornirono il resto del combustibile. Fui costretto a noleggiare una pariglia e un uomo per l’aratura, anche se guidai io stesso l’aratro. Le uscite per la mia fattoria, nella prima stagione, furono (per arnesi, semi, manodopera, ecc.) di 14,72½ $. Il grano per la semina mi fu dato. Questo non ha un costo apprezzabile, a meno che non si progetti di piantarne più del necessario. Raccolsi dodici bushels di fagioli e diciotto di patate, oltre a un po’ di piselli e grano dolce. Il grano giallo e le rape furono troppo tardive per darmi alcunché. I miei introiti dalla fattoria furono in tutto:

$23,44
Dedotte le uscite14,72½
Rimanente$  8,71½

oltre al raccolto consumato e disponibile al momento in cui feci questa stima, del valore di 4,50 $ – la quantità disponibile compensava di poco quel po’ d’erba che non coltivai. Tutto considerato – cioè, considerata l’importanza dell’anima di un uomo e dell’oggi –, nonostante il poco tempo occupato dal mio esperimento, anzi, in parte proprio grazie al suo carattere transitorio, ritengo che quell’anno me la cavassi meglio di ogni altro agricoltore di Concord.

L’anno successivo feci ancora meglio, perché zappai tutta la terra che mi serviva, circa un terzo d’acro; e imparai dall’esperienza di entrambi gli anni, non essendo per nulla intimorito dai molti celebri studi sulla coltivazione – Arthur Young fra gli altri –, secondo cui se si vive con semplicità e si mangia solo il raccolto che si è coltivato, e non si coltiva più del necessario per mangiare, e senza scambiarlo per una quantità insufficiente di cose più lussuose e costose, si ha bisogno di coltivare solo poche pertiche di terra, e che è meglio zappare che usare i buoi per arare, e scegliere ogni tanto un punto nuovo piuttosto che concimare quello vecchio; così si può fare tutto il lavoro agricolo nel tempo libero d’estate, lavorando, per così dire, con la mano sinistra, e non ci si lega a un bue, a un cavallo, o a un maiale, come oggi. Desidero parlare con imparzialità su questo punto, come persona non interessata al successo o al fallimento dell’attuale sistema economico e sociale. Ero più indipendente di qualunque agricoltore di Concord, perché non mi ero ancorato a una casa o a un podere, ma potevo seguire l’inclinazione del mio genio, che è sempre molto sbilenca. Oltre a stare già meglio di loro, se mi fosse bruciata la casa o se il raccolto fosse andato male, sarei stato ricco quasi come prima.

Tendo a pensare che non sono tanto gli uomini a custodire le mandrie, quanto le mandrie a custodire gli uomini, essendo maggiore la libertà di cui godono. Fra uomini e buoi c’è uno scambio di lavoro, ma se consideriamo solo il lavoro necessario, si vedrà che i buoi sono in gran vantaggio, essendo maggiore il loro podere. L’uomo fa la sua parte dello scambio durante le sei settimane della fienagione, che non è lavoro da ragazzi. Certo, nessuna nazione che vivesse sotto ogni aspetto in modo semplice, cioè nessuna nazione di filosofi, commetterebbe un errore così grande da usare il lavoro degli animali. È vero che non è mai esistita né è probabile che esista presto una nazione di filosofi, e neppure sono certo che la sua esistenza sia desiderabile. Tuttavia, io non avrei mai domato un cavallo o un toro, né lo avrei ospitato allo scopo di farlo lavorare per me, nel timore di diventare nulla più di un cavallaro o di un mandriano; e se, così facendo, sembra essere la società a guadagnarci, siamo certi che il guadagno di uno non sia la perdita di un altro, e che lo stalliere non abbia lo stesso motivo di soddisfazione del suo padrone? Ammettiamo che non si sarebbero potute costruire alcune opere pubbliche senza quest’ausilio, e che l’uomo ne condivida la gloria col bue e col cavallo; ne consegue allora che non avrebbe potuto compiere opere ancor più degne? Quando gli uomini cominciano a fare con la loro assistenza non solo i lavori inutili o artistici, ma quelli legati al lusso e all’ozio, è inevitabile che alcuni facciano tutto quel lavoro col bue o, in altre parole, diventino schiavi dei più forti. Allora, l’uomo non lavora solo per l’animale che ha dentro di sé, ma – a simbolo di ciò – per l’animale che ha fuori di sé. Sebbene abbiamo molte solide case di mattoni e pietra, si misura ancora la prosperità dell’agricoltore dal grado in cui il suo fienile torreggia sulla casa. Si dice che questa città abbia le case più grandi di tutta la regione per buoi, vacche e cavalli, e non sfigura negli edifici pubblici; ma in questa contea ci sono pochissime sale per la preghiera o la parola libera. Non dovrebbe essere attraverso l’architettura, o almeno attraverso il potere di pensiero astratto, che le nazioni cercano di celebrare se stesse? Quanto è più ammirevole il Bhagvat-Gita di tutte le rovine d’Oriente? Le torri e i templi sono i lussi dei principi. Una mente semplice e indipendente non si affatica al cenno di alcun principe. Il genio non è proprietà di alcun imperatore, né lo sono beni materiali come l’argento, l’oro o il marmo, se non in minima misura. A qual fine, ditemi, si lavora così tanta pietra? In Arcadia, quando c’ero, non vidi nessuno che martellava la pietra. Le nazioni sono colte dall’insana ambizione di perpetuare la propria memoria grazie alla quantità di pietre scolpite che si lasciano dietro. E se si ponesse una ugual fatica per smussare e ingentilire le maniere? Un frammento di buon senso sarebbe più memorabile di un monumento alto come la luna. Preferisco molto più vedere le pietre al loro posto. La grandezza di Tebe fu una grandezza volgare. È più ragionevole una pertica di muro di pietra che recinga il campo di un uomo onesto che una Tebe dalle cento porte che abbia deviato dai veri fini della vita. Sono le religioni e le civiltà barbariche e pagane che edificano splendidi templi; ma ciò che chiamereste cristianesimo non lo fa. Gran parte della pietra che una nazione lavora, serve a farne la tomba. Si seppellisce viva. Per quanto riguarda le piramidi, non c’è nulla di cui meravigliarsi, se non il fatto di trovare tanti uomini talmente degradati da spendere la vita costruendo una tomba per un sempliciotto ambizioso, che sarebbe stato più saggio e virile annegare nel Nilo, per poi darne il corpo in pasto ai cani. Potrei magari inventare una scusa per loro e per lui, ma non ho tempo per farlo. Per quanto riguarda la religione e l’amore per l’arte dei costruttori, è più o meno la stessa in tutto il mondo, che l’edificio sia un tempio egizio o la Banca degli Stati Uniti. Il costo è maggiore dei risultati. La molla è la vanità. Assistita dall’amore per l’aglio e il pane e burro. Il sig. Balcom, promettente giovane architetto, disegna sul retro della sua copia di Vitruvio con matita e righello, e lascia il lavoro alla Dobson & Figli, tagliapietre. Quando i trenta secoli cominceranno a guardarlo, l’umanità alzerà lo sguardo. Per quanto riguarda le vostre alte torri e i vostri monumenti, una volta c’era un pazzo in questa città che voleva scavare una galleria fino in Cina, e arrivò al punto, disse lui, di sentire il rintocco di pentole e pignatte cinesi; ma penso che non devierò mai dalla mia strada per ammirare il buco che ha fatto. Molti si interessano ai monumenti dell’Oriente e dell’Occidente – per sapere chi li ha costruiti. Da parte mia, vorrei sapere chi sia stato, in quei giorni, a non costruirne – chi fosse al di sopra di tali sciocchezze. Ma procederò con le mie statistiche.

Con l’agrimensura, la falegnameria, e giornate di lavoro di numerosi altri tipi svolte nel frattempo al villaggio – perché ho tanti mestieri quante sono le dita delle mani – avevo guadagnato 13,34 $. Le spese per il cibo in otto mesi, ovvero dal 4 luglio al primo marzo, quando feci queste stime, pur avendovi vissuto più di due anni – senza contare le patate, un po’ di grano verde e dei piselli che avevo coltivato, e non considerando il valore di ciò che era a disposizione in quella data – erano:

Riso$ 1,73½
Melassa   1,73Il tipo più economico di saccarina
Farina di segale   1,04¾
Farina di granturco   0,99¾Più economica della segale
Maiale   0,22

Farina di grano

   0,88    

parentesi graffa chiusaCosta più del granturco, in tempo e faticaparentesigraffa chiusa con la dicitura: gli esperimenti che fallirono
Zucchero0,80
Lardo0,65
Mele0,25
Mela secca0,22
Patate dolci0,10
Una zucca0,06
Un cocomero0,02
Sale0,03

Sì, in tutto mangiai proprio 8,74 $; ma non renderei pubblica la mia colpa così, senza arrossire, se non sapessi che molti dei miei lettori ne erano ugualmente colpevoli insieme a me, e che le loro azioni non sarebbero apparse migliori, una volta stampate. L’anno dopo mi capitò, a volte, di prendere una gran quantità di pesce per pranzo, e una volta giunsi a macellare una marmotta che mi aveva devastato il campo di fagioli – ne eseguii la trasmigrazione, come direbbero i tartari – e la divorai, in parte a scopo di esperimento; ma sebbene mi offrisse un temporaneo godimento, nonostante un sapore di muschio, mi resi conto che l’uso prolungato non l’avrebbe resa una buona pratica, comunque la pensiate sul farvi preparare e farcire una marmotta dal macellaio del villaggio.

L’abbigliamento e alcune spese occasionali nello stesso periodo, sebbene si possa dedurre poco da questo elemento, ammontarono a:

$8,40¾
Olio e alcuni utensili
per casa2,00

Dunque tutte le uscite pecuniarie, tranne il bucato e i rammendi, che furono in gran parte fatti fuori dalla casa e non ne ho ancora ricevuto il conto – e queste sono proprio tutte le maniere in cui per necessità escono i soldi, in questa parte del mondo – furono:

Casa

$  28,12½

Fattoria, un anno

    14,72½

Cibo, otto mesi

   8,74

Vestiti, ecc., otto mesi

      8,40¾

Olio, ecc., otto mesi

   2,00

 

 

In tutto

$  61,99¾

Mi rivolgo ora a chi fra i miei lettori deve guadagnarsi da vivere. E a questo scopo ho venduto, come prodotti della terra:

$  23,44

Guadagnati con giornate di lavoro

    13,34

 

 

In tutto

$  36,78

che sottratti dalla somma delle uscite lasciano un bilancio di 25,21¾ $ da un lato – e questi sono pressappoco i mezzi con cui ho iniziato, e la misura delle spese in cui sono incorso – e dall’altro, oltre al tempo libero, all’indipendenza e alla salute così assicurate, una casa comoda per me, per tutto il tempo in cui avessi scelto di occuparla.

Queste statistiche, per quanto possano sembrare casuali e dunque poco istruttive, avendo una certa completezza, hanno anche un certo valore. Niente mi era stato dato di cui non abbia reso conto. Dalla stima suddetta, sembra che soltanto il cibo mi sia costato monetariamente ventisette centesimi a settimana. Si trattò, per quasi due anni a seguire, di farina di segale e granturco senza lievito, patate, riso, pochissimo maiale salato, melassa e sale, e acqua come bevanda. Era giusto che dovessi vivere soprattutto di riso, io che avevo così amato la filosofia dell’India. Per rispondere alle obiezioni di alcuni inveterati cavillatori, posso anche affermare che, se occasionalmente ho mangiato fuori, come sempre avevo fatto e confido di avere ancora l’opportunità di fare, avvenne di frequente a detrimento della mia sistemazione domestica. Ma essendo il mangiar fuori, come ho affermato, un elemento costante, ciò non intacca una dichiarazione comparativa come questa.

Dalla mia esperienza biennale, appresi che costerebbe una fatica incredibilmente piccola ottenere il cibo necessario, perfino a questa latitudine; che un uomo può usare una dieta semplice come quella degli animali, e ancora mantenere salute e forza. Ho fatto pranzi soddisfacenti – soddisfacenti sotto parecchi aspetti – semplicemente con un piatto di portulaca (Portulaca oleracea), raccolta nel mio campo di grano, bollita e salata. Ne do il nome latino a causa della salacia del suo nome volgare. E cosa mai può desiderare un uomo ragionevole, in tempo di pace, in giornate ordinarie, più di un sufficiente numero di spighe verdi di grano dolce, bollite con l’aggiunta di sale? Perfino la minima varietà che usavo era una concessione alle esigenze dell’appetito, e non alla salute. Eppure gli uomini sono giunti al punto che spesso si affamano, non per mancanza del necessario, ma per mancanza del lusso; e conosco una buona donna che pensa che suo figlio abbia perso la vita perché iniziò a bere solo acqua.

Il lettore si accorgerà che sto trattando l’argomento da un punto di vista economico piuttosto che dietetico, e non si avventurerà a mettere alla prova la mia astinenza a meno che non abbia una dispensa ben fornita.

Io, all’inizio, feci un pane di pura farina di granturco e sale, focacce genuine cotte sul fuoco fuori dalla mia porta, su una tavola o sulla punta di un bastone che avevo segato costruendomi la casa; ma sapeva di fumo e resina di pino. Ho provato anche con la farina di grano e finalmente ho trovato una mescola di farina di segale e granturco molto conveniente e gradevole. Nel tempo freddo non era piacere da poco cuocere parecchie piccole pagnotte di questo tipo, una dopo l’altra, curandole e rivoltandole con altrettanta attenzione di un egiziano con le sue uova mentre si schiudono. Erano un vero frutto di cereali, che io facevo maturare, e avevano per i miei sensi una fragranza pari ad altri frutti nobili, e che conservavo il più possibile avvolgendole con un panno. Feci uno studio sull’antica e indispensabile arte della panificazione, consultando tutte le autorità che mi si offrivano, tornando ai giorni primitivi e alla prima invenzione della varietà non fermentata, quando dalla vita selvatica fatta di carne e noci, gli uomini per la prima volta giunsero alla mitezza e alla raffinatezza di questa dieta, e viaggiando gradualmente, nei miei studi, attraverso quel casuale inacidirsi della pasta che, si immagina, insegnò il processo della lievitazione, e attraverso le varie fermentazioni che seguirono, fino ad arrivare al “buon pane, dolce e sano”, il sostegno della vita. Il lievito, che alcuni considerano l’anima del pane, lo spiritus che ne riempie il tessuto cellulare, conservato religiosamente come il fuoco delle Vestali – qualche preziosa bottiglia, immagino, portata dal Mayflower, provvide ai bisogni dell’America, e la sua influenza continua a crescere, gonfiandosi, diffondendosi a ondate cereali per tutto il paese –, ebbene, mi procuravo questo seme al villaggio, regolarmente e fedelmente, finché una mattina dimenticai le regole, e bruciai il lievito; con questo incidente scoprii che nemmeno esso era indispensabile – perché le mie scoperte avvenivano col procedimento analitico e non sintetico – e sono stato lieto di ometterlo in seguito, anche se gran parte delle casalinghe mi assicurava convinta che non ci può essere pane sicuro e sano senza lievito, e gli anziani mi profetizzavano un rapido decadimento delle forze vitali. Eppure scoprii che non era un ingrediente essenziale, e dopo averne fatto a meno per un anno sono ancora nella terra dei vivi; e sono lieto di essere sfuggito alla seccatura di portarne una bottiglia in tasca, che talvolta purtroppo scoppiava e mi si svuotava addosso. Ometterlo è più semplice e più dignitoso. L’uomo è un animale che più di ogni altro sa adattarsi a ogni clima e a ogni circostanza. E non mettevo nel pane neppure soda, o altri acidi o alcali. Sembrerebbe che lo abbia fatto secondo la ricetta data da Marco Porzio Catone, circa due secoli prima di Cristo: “Panem depsticium sic facito. Manus mortariumque bene lavato. Farinam in mortarium indito, aquae paulatim addito, subigidoque pulchre. Ubi bene subegeris, defingito, coquitoque sub testu”. Che io intendo come: “Impastate il pane così. Lavate bene le mani e la madia. Mettete la farina nella madia, aggiungete gradualmente l’acqua, e impastatela del tutto. Quando lo avete impastato bene, dategli forma e cuocetelo sotto un coperchio”, cioè in uno stampo. Neppure una parola sul lievito. Ma non usai sempre questo bastone della vita. A un certo punto, a causa del vuoto nella mia borsa, non ne vidi per più di un mese.

Ogni abitante della Nuova Inghilterra potrebbe coltivare con facilità tutto l’occorrente per il pane, in questa terra di segale e granturco, senza dipendere da mercati lontani e fluttuanti. Eppure siamo talmente lontani dalla semplicità e dall’indipendenza che, nelle botteghe di Concord, si vende raramente la farina fresca e dolce, e a malapena si usano polenta e grano in forme ancor più rozze. Per lo più l’agricoltore dà al bestiame e ai maiali il grano di produzione propria, e compra in bottega la farina, che solo nei casi migliori è altrettanto salutare, a un costo maggiore. Mi resi conto di poter coltivare facilmente un bushel o due di segale e granturco, perché la prima crescerà anche sul terreno più povero, e l’altro non richiede il migliore, e macinarle a mano, facendo così a meno di riso e maiale; e se dovevo avere dello zucchero concentrato, scoprii con l’esperienza di poter fare un’ottima melassa dalle zucche e dalle barbabietole, e sapevo che mi bastava solo piantare qualche acero per ottenerla ancor più facilmente, e mentre questi crescevano, potevo usare vari sostituti oltre a quelli che ho nominato. “Perché”, come cantavano i nostri antenati:

possiamo fare liquore per addolcirci le labbra
Con zucche, pastinaca e schegge di noce.

Infine, per quanto riguarda il sale, la più grossolana di tutte le droghe, ottenerlo poteva essere una buona occasione per una visita al mare, o, se ne avessi fatto del tutto a meno, avrei probabilmente bevuto meno acqua. Non ho mai saputo che gli indiani si siano mai curati di cercarlo.

In questo modo riuscii a evitare ogni commercio o baratto riguardante il cibo e, avendo già un riparo, rimaneva solo da ottenere vestiti e combustibile. I pantaloni che porto adesso furono tessuti dalla famiglia di un contadino (grazie al cielo c’è ancora tanta virtù nell’uomo); perché penso che la caduta dallo stato di agricoltore a quello di operaio sia altrettanto grandiosa e memorabile della caduta dallo stato di uomo a quello di agricoltore – e in un nuovo paese il combustibile è un ostacolo. Come habitat, se non mi fosse ancora concesso occupare una terra, potrei acquistarne un acro allo stesso prezzo per cui fu venduta la terra da me coltivata – cioè, otto dollari e otto centesimi. Ma, per come stavano le cose, ritenni di averne incrementato il valore occupandola.

C’è una certa classe di increduli che talvolta mi chiede se penso di poter vivere di solo cibo vegetale; e per colpire la questione alla radice – perché la radice è la fede – ho l’abitudine di rispondere che riesco a vivere di chiodi. Se non riescono a capirmi, non capiranno molto di quel che ho da dire. Da parte mia, sono contento quando sento di esperimenti dello stesso tipo; come un giovane che ha tentato di vivere per due settimane di spighe di grano duro e crudo, usando i denti come mortaio. La tribù degli scoiattoli ha fatto lo stesso esperimento con successo. La razza umana è interessata a questi esperimenti, sebbene qualche vecchia che non ne è più capace, o che ha una quota di qualche mulino, si possa allarmare.

I miei mobili, quelli fatti da me stesso e tutto il rimanente, non mi sono costati nulla di cui non abbia reso conto; consistevano in un letto, un tavolo, una scrivania, tre sedie, uno specchio del diametro di tre pollici, un paio di molle e alari, un bricco, un pentolino, una padella, un catino, due coltelli e due forchette, tre piatti, una tazza, un cucchiaio, una brocca per l’olio, una per la melassa e una lampada laccata. Nessuno è così povero da doversi sedere su una zucca. Sarebbe inettitudine. Nelle soffitte del paese c’è una quantità delle sedie che preferisco, e basta prenderle. Mobili! Grazie a Dio, sono capace di sedermi o stare in piedi senza l’aiuto di un magazzino di mobili. Chi, se non un filosofo, non si vergognerebbe di vedere i suoi mobili chiusi su un carro che viaggiano esposti alla luce del cielo e agli occhi degli uomini, miserabile rendiconto di scatole vuote! Quelli sono i mobili di Spaulding. Non sono mai riuscito a capire, ispezionando il carico, se appartenesse a un cosiddetto ricco o a un povero; il proprietario sembrava sempre in miseria. Davvero, più si hanno cose del genere, più si è poveri. Ciascun carico sembra contenere il contenuto di una dozzina di baracche; e se una baracca è povera, qui lo si è dodici volte tanto. Per carità, ditemi per quale motivo traslochiamo se non per liberarci dei nostri mobili, le nostre exuviae; per andare infine via da un mondo e verso un altro con mobili nuovi, e far bruciare i vecchi? È come se tutte queste trappole fossero legate alla cintura di un uomo, incapace di muoversi attraverso il terreno aspro dove si gettano le nostre cose senza trascinarcele dietro – trascinandosi dietro la sua trappola. È la volpe fortunata quella che riesce a lasciare la coda nella trappola. Il topo muschiato si staccherà a morsi la terza gamba per liberarsi. Non c’è da stupirsi che l’uomo abbia perso la sua elasticità. Così spesso si trova in una situazione di stallo! “Signore, se posso permettermi, cosa intendete per stallo?” Se siete un osservatore, ogni volta che incontrate un uomo vedrete tutto quello che possiede, sì, e dietro di lui molto di ciò che fa finta di ripudiare, perfino i mobili di cucina e tutto il ciarpame che conserva e non brucia, e sembrerà che vi sia aggiogato, mentre avanza come può. Penso che in stallo sia l’uomo che è passato attraverso un pertugio o un passaggio dove la sua slitta carica di mobili non riesce a seguirlo. Non posso che provare compassione quando sento un uomo dall’aria distinta e asciutta, libero in apparenza, tutto bardato e pronto, parlare dei suoi “mobili”, che siano assicurati o meno. “Ma cosa farò dei miei mobili?” La mia gaia farfalla, allora, si è impigliata in una ragnatela. Scoprirete che perfino chi sembra non averne avuti da tempo, se indagate più da vicino, ne ha accumulati un po’ in qualche fienile. Oggi guardo all’Inghilterra come a un vecchio gentiluomo che viaggia con grandi quantità di bagagli, ciarpame accumulato in una lunga pratica casalinga, che non ha il coraggio di bruciare; baule grande, baule piccolo, cappelliera e fagotto. Gettate via almeno i primi tre. Supererebbe le forze di un uomo in salute, oggigiorno, prendere il proprio letto e camminare, ma sicuramente consiglierei all’ammalato di mettere giù il suo e mettersi a correre. Quando ho incontrato un immigrante barcollante sotto un fagotto che conteneva tutte le sue cose – che sembrava un enorme bubbone che gli era cresciuto dietro al collo – ne ho avuto pietà, non perché quelle fossero tutte le sue cose, ma perché aveva tutto quello da portarsi dietro. Se dovrò trasportare tutte le mie trappole, farò attenzione che siano leggere, e non mi tocchino in una parte vitale. Ma forse sarebbe più saggio non metterci mai la zampa.

Osserverei, a proposito, che non ho speso nulla in tende, perché non ho guardoni da tener fuori, tranne il sole e la luna, e sono disposto a lasciarli guardare. La luna non mi inacidirà il latte, né mi rovinerà la carne, e il sole non mi danneggerà i mobili né mi scolorirà il tappeto, e se talvolta è un amico troppo caloroso, sono convinto che sia ancora più economico ritirarmi dietro una tenda fornita dalla Natura, piuttosto che aggiungere anche un singolo elemento ai dettagli del governo della casa. Una signora una volta mi ha offerto una stuoia, ma non avendo spazio libero in casa, né tempo libero in casa o fuori per sbatterla, la rifiutai, preferendo pulirmi i piedi sulla zolla d’erba davanti alla porta. È meglio evitare gli inizi del male.

Non molto tempo dopo, presenziai all’asta degli effetti personali di un diacono, perché la sua vita non era stata priva di effetti...

Il male che gli uomini fanno vive dopo di loro.1

Come sempre, una gran quantità era ciarpame che aveva cominciato ad accumulare dal tempo di suo padre. Fra l’altro c’era una tenia seccata. E ora, dopo essere state per mezzo secolo in soffitta e in altri luoghi polverosi, queste cose non venivano bruciate; invece di un falò, una loro purificante distruzione, c’era un’asta, che ne accresceva la quantità. I vicini si radunarono avidamente per osservarle, le comprarono tutte, e con attenzione le trasportarono nelle loro soffitte e nei loro luoghi polverosi, per tenercele finché non si liquideranno le loro proprietà, quando tutto ricomincerà un’altra volta. Quando muore, un uomo solleva la polvere.

Potremmo forse imitare con profitto i costumi delle nazioni selvagge, perché esse hanno almeno l’apparenza di gettar via ogni anno le loro spoglie; ne hanno un’idea, anche se non la realtà. Non sarebbe bene se anche noi celebrassimo il busk, la “festa dei primi frutti”, come Bartram descrive i costumi degli indiani Mucclasse? “Quando una città celebra il busk,” dice, “avendo in precedenza rinnovato abiti, pentole, padelle, mobili e utensili di casa, radunano tutti gli abiti logori e le altre cose da buttare, spazzano e ripuliscono le case, le piazze e l’intera città da ogni sporcizia, che – insieme al grano rimasto e alle altre provviste vecchie – gettano in un unico mucchio e consumano col fuoco. Dopo aver preso la medicina e digiunato per tre giorni, ogni fuoco in città viene spento. Durante questo digiuno si astengono dal gratificare qualunque appetito o passione. Si proclama un’amnistia generale; tutti i malfattori possono tornare alla loro città...

“La quarta mattina il gran sacerdote, sfregando della legna secca, produce un nuovo fuoco nella pubblica piazza, dal quale ogni abitazione della città si rifornisce con una fiamma nuova e pura.”

Banchettano allora col grano e la frutta novella, e ballano e cantano per tre giorni, “e per i quattro giorni seguenti ricevono visite e stanno in allegria con gli amici delle città vicine, che si sono purificati e preparati allo stesso modo”.

Anche i messicani praticavano una simile purificazione ogni cinquantadue anni, ritenendo che fosse l’ora della fine del mondo.

Non ho mai sentito parlare di un sacramento – cioè, come lo definisce il dizionario, “il segno visibile esteriore di una grazia spirituale interiore” – più sincero di questo, e non ho dubbi che fossero originariamente ispirati direttamente dal cielo, pur non avendo il resoconto biblico della rivelazione.

Per più di cinque anni mi mantenni così, solamente col lavoro delle mie mani, e scoprii che lavorando circa sei settimane l’anno potevo soddisfare tutte le spese per guadagnarmi da vivere. Avevo tutto l’inverno e gran parte dell’estate liberi per lo studio. Ho provato doviziosamente a far scuola, scoprendo che le spese erano in proporzione – o piuttosto fuori proporzione – alle entrate, perché ero costretto a vestire e ad addestrarmi, per non dire a pensare e a credere, secondo la situazione, e persi il mio tempo nell’affare. Non insegnando per il bene del prossimo, ma semplicemente per vivere, fu un fallimento. Ho provato il commercio; ma scoprii che ci sarebbero voluti dieci anni per imparare il mestiere, e poi avrei preso la direzione del diavolo. Avevo davvero paura che a quel punto avrei fatto ciò che si chiama buoni affari. Mentre prima mi guardavo intorno per vedere cosa fare per vivere, avendo fresca nella mente una triste esperienza vissuta per conformarmi ai desideri degli amici come punizione della mia ingenuità, pensai spesso e seriamente di andare a raccogliere mirtilli; cosa che sicuramente avrei potuto fare, e quel piccolo profitto sarebbe bastato – perché la mia maggiore abilità è stata nel voler poco – richiedendo così poco capitale, così poca distrazione dai miei abituali umori, almeno così ritenevo stupidamente. Mentre i miei conoscenti si lanciavano senza esitare nel commercio o nelle professioni, io contemplavo quell’occupazione come molto simile alle loro; percorrendo le colline tutta l’estate per raccogliere le more che mi capitavano, e poi darle via senza preoccuparmene; così, per custodire il gregge di Admeto, sognai anche di raccogliere erbe selvatiche, o di portare piante sempreverdi a quei paesani che amavano i ricordi dei boschi, o anche in città, caricando un carretto da fieno. Ma da allora ho appreso che il commercio maledice tutto ciò che tocca, e anche commerciando in messaggi dal cielo la maledizione del commercio si attaccherebbe al mestiere.

Preferendo certe cose al posto di altre, e dando speciale valore alla mia libertà, in quanto potevo avere una vita dura e aver successo allo stesso tempo, non desideravo ancora passare il mio tempo guadagnando ricchi tappeti o altri mobili eleganti, o una cucina delicata, o una casa in stile greco o gotico. Se c’è qualcuno per cui non è un’interruzione acquisire queste cose, e che sa come usarle una volta acquisite, cedo a loro la caccia. Alcuni sono “industriosi” e sembrano amare il lavoro in quanto tale, forse perché li allontana da malefatte peggiori; a loro non ho, al momento, nulla da dire. A chi non saprebbe che fare potendo godere più tempo libero di ora, potrei consigliare di lavorare il doppio – lavorare finché non si pagano da vivere e ottengono i loro documenti di libertà. Per me, scoprii che l’occupazione di lavoratore a giornata era la più indipendente di tutte, soprattutto poiché servivano solo trenta o quaranta giorni per mantenermi. La giornata del bracciante finisce quando cala il sole, e poi è libero di dedicarsi allo scopo che ha scelto, che non dipende dal lavoro; ma il suo datore di lavoro, che specula di mese in mese, non ha sollievo dall’inizio alla fine dell’anno.

In breve, sono convinto, per fede e per esperienza, che mantenersi su questa terra non sia una fatica ma un passatempo, se viviamo con semplicità e saggezza; in quanto gli scopi delle nazioni più semplici sono i divertimenti di quelle più artificiose. Non è necessario guadagnarsi da vivere col sudore della fronte, a meno che non si sudi più facilmente di me.

Un giovane di mia conoscenza, che aveva ereditato qualche acro, mi disse che pensava che sarebbe vissuto come me, se ne avesse avuto i mezzi. Io non vorrei che nessuno adottasse il mio modo di vita, per qualunque motivo; perché, oltre al fatto che quando lo avesse imparato io ne avrei potuto trovare un altro per me, desidero che ci sia al mondo il maggior numero possibile di persone diverse; ma renderei ciascuno molto attento a scoprire e perseguire il suo modo; e non invece quello del padre, della madre o del vicino. Il giovane può costruire, piantare o navigare, permettiamogli solo che non gli sia impedito fare quel che mi dice di voler fare. È seguendo un solo punto matematico che si è saggi, come il marinaio o lo schiavo fuggitivo tiene d’occhio la stella polare; ma quella è una guida sufficiente per tutta la vita. Possiamo non arrivare in porto entro un periodo calcolabile, ma conserveremo la rotta giusta.

Senza dubbio, in questo caso, ciò che è vero per uno è ancor più vero per mille, così come una casa grande non è in proporzione più costosa di una casa piccola, dato che un tetto può coprire, una cantina può essere alla base della casa e un muro può separare parecchi appartamenti. Da parte mia, preferivo una dimora solitaria. Inoltre, sarà solitamente meno caro costruire tutto da te che convincere un altro del vantaggio di un muro comune; e quando lo avessi fatto, la separazione comune, per essere poco costosa, deve essere sottile, e quell’altro può essere un cattivo vicino, e non fare la sua parte delle riparazioni. L’unica cooperazione che è di solito possibile è eccessivamente parziale e superficiale; e la poca cooperazione vera è come se non ci fosse, essendo un’armonia impossibile da udire. Se un uomo ha fede, coopererà con ugual fede ovunque; se non ha fede, continuerà a vivere come il resto del mondo, in qualunque compagnia si unisca. Cooperare, nel senso più alto come in quello più basso, significa guadagnarsi da vivere insieme. Ho sentito recentemente proporre che due giovani viaggiassero insieme per il mondo, uno senza soldi, guadagnandosi i propri mezzi mentre viaggiava, vicino all’albero e dietro l’aratro, l’altro con una lettera di credito in tasca. Fu facile vedere che non avrebbero potuto restare compagni e cooperare per molto tempo, dato che uno non avrebbe operato affatto. Soprattutto, come implicavo, l’uomo che viaggia da solo può partire oggi; ma chi va con un altro deve aspettare finché l’altro è pronto, e può passare molto tempo prima che partano.

Ma tutto questo è molto egoistico, ho sentito dire da qualcuno dei miei concittadini. Confesso di avere finora dedicato poco alle imprese filantropiche. Ho fatto dei sacrifici per senso del dovere, e fra l’altro ho sacrificato anche questo piacere. Ci sono quelli che hanno usato tutte le loro arti per persuadermi a intraprendere il sostentamento di qualche famiglia povera della città; e se non avessi altro da fare – perché è il diavolo che trova lavoro all’ozioso – potrei provare un passatempo del genere. Comunque, quando ho pensato di dedicarmici, e obbligarmi con loro davanti al cielo a mantenere certi poveri in tutte le stesse comodità che godo io, avventurandomi perfino a far loro un’offerta, tutti fino all’ultimo hanno preferito rimaner poveri. Mentre i miei concittadini e concittadine si dedicano in tanti modi al bene del prossimo, confido che almeno a uno si risparmino altri scopi meno umanitari. Anche per la carità, ci vuole genio. E quella di Benefattore è fra le professioni di cui c’è fin troppa abbondanza. Inoltre, l’ho provata con onestà e, per quanto possa sembrar strano, sono soddisfatto di sapere che non si confà alla mia costituzione. Probabilmente non dovrei consapevolmente e deliberatamente abbandonare la mia personale vocazione a fare il bene richiestomi dalla società, a salvare l’universo dalla distruzione; e credo che una coerenza simile ma infinitamente più grande sia tutto ciò che lo conserva adesso. Ma non mi metterei mai fra un uomo e il suo genio; e a chi fa questo lavoro che io declino, con tutto il cuore, l’anima e la vita, io direi: “Persevera, anche se il mondo lo chiama far del male, com’è probabile che faccia”.

Sono lontano dal ritenere che il mio sia un caso particolare; senza dubbio molti miei lettori si difenderebbero allo stesso modo. Non esito a dirlo, per fare qualcosa – non voglio dire che i miei vicini la considererebbero qualcosa di buono – sarei un eccellente elemento da assumere; ma per fare cosa, spetta al datore di lavoro scoprirlo. Il bene che faccio, nel senso comune della parola, deve essere fuori dal mio percorso principale, e in gran parte del tutto non intenzionale. In pratica, dicono gli uomini: “Comincia dove sei e come sei, senza mirare soprattutto a diventare di maggior valore, e con gentilezza spensierata procedi a far bene”. Se dovessi predicare in questa vena, direi piuttosto: “Incominciate a esser buoni”. Come se il sole dovesse fermarsi quando ha acceso il suo fuoco con lo splendore della luna o di una stella di sesta grandezza, e procedere come un Robin Goodfellow, lo spiritello che sbircia dalle finestre dei cottage, ispira i pazzi, guasta la carne, e rende visibile il buio, invece di aumentare regolarmente il suo geniale e benefico calore finché non è della luminosità che nessuno può guardare dritto negli occhi, e poi, e nel frattempo, percorrere il mondo nella sua orbita, facendo del bene; o piuttosto, come un filosofo più sincero ha scoperto, facendo che il mondo lo insegua alla ricerca del bene. Quando Fetonte, desiderando dimostrare con la beneficenza la sua nascita celeste, ebbe il carro del Sole per un solo giorno, portandolo fuori dal percorso battuto, infiammò numerose file di case nelle strade inferiori del cielo, bruciò la superficie della terra, seccò ogni sorgente e creò il grande deserto del Sahara, finché infine Giove non lo precipitò a capofitto sulla terra con un fulmine e il Sole, addolorato per la sua morte, smise di splendere per un anno.

Non c’è odore peggiore di quello che sale dal bene corrotto. È una carogna umana e divina. Se sapessi con certezza che un uomo stesse venendo a casa mia col consapevole progetto di fare del bene, fuggirei a salvarmi la vita, come da quel vento, secco e riarso, dei deserti africani che si chiama simun, che riempie di polvere la bocca, il naso e le orecchie fino a far soffocare, per paura che mi si facesse un po’ di quel bene – che un po’ del suo virus mi si mischiasse nel sangue. No, in questo caso preferirei soffrire il male alla maniera naturale. Per me un uomo non è un uomo buono perché mi dà da mangiare se sono affamato, o mi riscalda se sto congelando, o mi tira fuori da un burrone se dovessi mai cadervi dentro. Posso trovarvi un cane Terranova che farebbe lo stesso. La filantropia non è amore per il prossimo nel senso più ampio. Howard era indubbiamente un uomo eccezionalmente gentile e degno, a modo suo, e ha la sua soddisfazione; ma, relativamente parlando, che cosa sono cento Howard per noi, se la loro filantropia non aiuta noi che siamo nella condizione migliore, quando siamo più meritevoli di aiuto? Non ho mai sentito di una riunione filantropica in cui si proponesse sinceramente di fare del bene a me, o a quelli come me.

I gesuiti furono molto sorpresi da quegli indiani che, essendo arsi sul rogo, suggerivano nuovi modi di tortura ai loro tormentatori. Essendo superiori alla sofferenza fisica, avveniva talvolta che fossero superiori a ogni consolazione che i missionari potessero offrire; e la legge del fare ciò che si vuole fatto a noi persuadeva poco le orecchie di quelli a cui, dal canto loro, non importava cosa gli fosse fatto, che amavano il proprio nemico in modo nuovo, e giunsero quasi a perdonarli liberamente per ciò che facevano.

Assicuratevi di dare ai poveri l’aiuto più necessario, anche se sarà il vostro esempio a lasciarveli dietro. Se date del denaro, spendete voi stessi e non limitatevi ad abbandonarlo a loro. Talvolta facciamo curiosi errori. Spesso il povero non è infreddolito e affamato, quanto sporco, stracciato e rozzo. È in parte per il suo gusto e non solamente la sua sventura. Se gli date soldi, forse si comprerà altri stracci. Fui mosso a pietà dai goffi operai irlandesi che tagliavano il ghiaccio sul lago, con vestiti poveri e laceri, mentre tremavo nei miei abiti più distinti e alla moda, finché, un giorno di freddo tagliente, uno che era scivolato in acqua venne a casa mia a riscaldarsi, e lo vidi togliersi tre paia di calzoni e due paia di calze fino a raggiungere la pelle; è vero che erano sporche e stracciate, ma si poté permettere di rifiutare gli abiti extra che gli offrivo, per quanti ne aveva intra. Questo cambio era tutto ciò che gli serviva. Allora cominciai a compatirmi, e vidi che sarebbe stata maggior carità dare a me stesso una camicia di flanella che un abito intero a lui. Ci sono centinaia di persone a cercar di tagliare i rami del male, per ognuno che colpisce alla radice, e può darsi che chi dà ai bisognosi la maggior quantità di tempo e denaro sia colui che fa di più, col suo modo di vita, per produrre quella miseria che si sforza invano di alleviare. È il pio schiavista che dona la decima delle sue vendite di schiavi a comprare la libertà domenicale per gli altri. Alcuni mostrano la loro gentilezza verso i poveri impiegandoli nelle loro cucine. Non sarebbero più gentili se vi impiegassero se stessi? Vi vantate di spendere la decima parte del vostro reddito in opere di carità; forse dovreste spendere così i nove decimi, e farla finita. In quel modo, la società recupera solo la decima parte della proprietà. Questo si deve alla generosità di colui che vi si trova in possesso, o alla passività degli amministratori della giustizia?

La filantropia è quasi l’unica virtù sufficientemente apprezzata dall’umanità. Non basta, è grandemente sopravvalutata, ed è il nostro egoismo a sopravvalutarla. Un povero robusto, in una giornata di sole qui a Concord, mi tesseva le lodi di un concittadino perché, diceva, era gentile verso i poveri, intendendo se stesso. Gli zii e zie gentili della razza umana ricevono più stima dei nostri veri padri e madri spirituali. Una volta ho sentito parlare dell’Inghilterra un reverendo, un uomo di erudizione e intelligenza, dopo aver enumerato le sue ricchezze scientifiche, letterarie e politiche – Shakespeare, Bacon, Cromwell, Milton, Newton e altri – e parlare poi dei suoi eroi cristiani che, come richiesto dalla sua professione, elevò in una posizione molto superiore agli altri, come i più grandi fra i grandi. Erano Penn, Howard e la signora Fry. Tutti devono sentire la falsità e l’ipocrisia di tutto questo. Gli ultimi non erano i migliori uomini e donne d’Inghilterra; solo, forse, i suoi migliori filantropi.

Non sminuirei nulla della lode dovuta alla filantropia, ma semplicemente esigerei giustizia per tutti coloro che, con la vita e le opere, sono una benedizione per l’umanità. In un uomo non do il massimo valore alla rettitudine e alla benevolenza, che sono, per così dire, il suo gambo e le sue foglie. Quelle piante verdi da cui, una volta secche, facciamo tisane per i malati, servono uno scopo umile, e sono spesso impiegate dai ciarlatani. Da un uomo, voglio il fiore e il frutto; voglio che un po’ di fragranza aleggi da lui verso di me, con qualcosa di maturo a dar sapore al nostro rapporto. La sua bontà non deve essere un atto parziale e transitorio, ma una costante sovrabbondanza che non gli costa nulla e di cui è inconsapevole. Questa è una carità che nasconde una moltitudine di peccati. Fin troppo spesso, il filantropo circonda l’umanità, come un’atmosfera, col ricordo dei propri dolori smessi, e la chiama “comprensione”. Dovremmo impartire il nostro coraggio e non la nostra disperazione, la nostra salute e agio e non la nostra malattia, preoccupandoci che questa non si diffonda per contagio. Da quali pianure meridionali sale la voce del pianto? Sotto quali latitudini risiede il pagano a cui dovremmo mandare la luce? Chi è quell’uomo intemperato e animalesco che dovremmo redimere? Se qualcosa affligge un uomo, così da non svolgere le sue funzioni – anche se ha un dolore nelle viscere, perché è quella la sede della compassione – egli si accingerà d’incanto a riformare il mondo! Essendo un microcosmo in sé, egli scopre – ed è una vera scoperta, e lui lo scopritore – che il mondo ha mangiato mele verdi; ai suoi occhi, infatti, il globo stesso è una grande mela verde che corre il rischio, tremendo a pensarsi, di essere consumata a morsi, piano piano, prima di diventar matura; e subito la sua drastica filantropia va alla ricerca di eschimesi e patagoni, e abbraccia i popolosi villaggi di Cina e India; e così, in pochi anni di attività filantropica, mentre i poteri lo usano per i propri fini, si curerà indubbiamente della propria dispepsia, e il globo acquisirà un lieve rossore su una o entrambe le guance, e la vita perderà la sua durezza e tornerà dolce e salubre. Non ho mai sognato enormità maggiori di quelle che ho commesso. Non ho mai conosciuto, né mai conoscerò, un uomo peggiore di me stesso.

Credo che a render triste il riformatore non sia la sua solidarietà per il prossimo che soffre ma, per quanto sia il più santo fra i figli di Dio, la sua afflizione privata. Lasciate che questa si sistemi, che la primavera lo raggiunga, e abbandonerà i suoi generosi compagni senza una parola di scusa. Il mio pretesto per non tener discorsi sull’uso del tabacco è che non l’ho mai masticato; quella è una penitenza che devono pagare i masticatori di tabacco pentiti; pur essendo tante le cose che ho masticato, e contro cui potrei far discorsi. Se vi si ingannerà mai fino a coinvolgervi in qualcuna di queste filantropie, che la vostra mano sinistra non sappia cosa fa la destra, perché non vale la pena di saperlo. Salvate chi sta affogando e allacciatevi le scarpe. Prendetevi tempo, e mettetevi a fare del lavoro libero.

I nostri costumi si sono corrotti a forza di comunicare coi santi. I nostri libri d’inni risuonano di melodiche maledizioni verso Dio, e di eterna sopportazione verso di lui. Si potrebbe dire che perfino i profeti e i redentori abbiano consolato le paure dell’uomo, piuttosto che confermarne le speranze. Non c’è un luogo ove si documenti un esempio di semplice e irreprimibile soddisfazione per il dono della vita, una memorabile lode a Dio. La salute e il successo mi fanno sempre del bene, comunque lontane e distanti possano apparire; la malattia e il fallimento mi rendono sempre triste e mi fanno sempre del male, qualunque solidarietà ci sia fra noi. Allora, se dunque risanassimo l’umanità con veri mezzi indiani, botanici, magnetici o naturali, cerchiamo prima di essere semplici e buoni come la Natura, disperdiamo le nubi che ci incombono sugli occhi, e infondiamo un po’ di vita nei nostri pori. Non accontentiamoci di essere sovrintendenti dei poveri, ma sforziamoci di far parte dei degni del mondo.

Leggo che nel Gulistan, o il giardino dei fiori, dello sceicco Sadi di Shiraz: “Fecero a un saggio una domanda, dicendo: ‘Dei molti celebri alberi che Dio l’Altissimo ha creato alti e ombrosi, nessuno si chiama azad, cioè libero, eccetto il cipresso, che non dà frutto; che mistero è questo?’. Lui rispose: ‘Ciascuno ha il proprio frutto, e la stagione deputata, durante il cui corso è fresco e rigoglioso, e durante la cui assenza è secco e avvizzito; il cipresso non è esposto a nessuno dei due stati ma resta sempre in fiore; e di questa natura sono gli azad, gli indipendenti in religione. Non puntate il cuore su ciò che è transitorio; perché il Djilah, cioè il Tigri, continuerà ad attraversare Baghdad anche quando la razza dei califfi sarà estinta; se la tua mano è colma, sii prodigo come il dattero, ma se non offre nulla da dar via, sii un azad, un uomo libero, come il cipresso’”.

VERSI COMPLEMENTARI
LE PRETESE DELLA POVERTÀ

Tu pretendi troppo, povero disgraziato bisognoso,
Chiedendo un posto nel firmamento,
Perché il tuo umile cottage, o la tua botte,
Nutre qualche pigra o pedante virtù
Alla squallida luce del sole o presso ombrose sorgenti,
Con radici ed erbe aromatiche; dove la tua mano destra,
Strappando dalla mente quelle passioni umane
Sui cui tronchi fioriscono limpide virtù in boccio,
Degrada la natura e ottunde i sensi,
E, come la Gorgone, trasforma uomini attivi in pietra.
Non esigiamo la stolida compagnia
Della tua temperanza nata dalla necessità,
O quell’innaturale stupidità
Che non conosce gioia o dolore; né la tua forzata,
Falsamente esaltata fortitudine passiva
Al di sopra dell’attività. Questa bassa abietta stirpe,
Che si pone fissa nella mediocrità,
È degna della tua mente servile; ma noi promuoviamo
Solo quelle virtù che ammettono l’eccesso,
Atti di coraggio e prodigalità, magnificenza regale,
Prudenza onniveggente, magnanimità
Che non conosce confini, e quell’eroica virtù
Di cui l’antichità non ci ha lasciato il nome,
Ma solo il modello di Ercole,
Achille, Teseo. Torna alla tua odiosa cella;
E quando vedi la nuova sfera illuminata
Studia per sapere chi furono quegli illustri.

T. CAREW

1 William Shakespeare, Giulio Cesare, tr. it. di Agostino Lombardo, Feltrinelli, Milano 2000, p. 129.

Dove vivevo e perché

In una certa stagione della nostra vita, ci abituiamo a prendere in considerazione qualsiasi punto come possibile luogo per una casa. Ho dunque perlustrato la campagna in ogni parte, entro una dozzina di miglia da dove vivo. Nell’immaginazione ho comprato tutte le fattorie, una dopo l’altra, perché erano tutte in vendita e ne conoscevo il prezzo. Mi feci una camminata per la tenuta di ogni contadino, assaggiandone le mele selvatiche, discutendone la gestione con lui, prendendola al suo prezzo, a ogni prezzo, ipotecandogliela nella mia mente; ho perfino proposto un prezzo più alto; ho preso tutto tranne l’atto di vendita (ho sostituito l’atto con la parola, talmente amo parlare); l’ho coltivata e ho coltivato lui – confido – in una certa misura, tirandomi indietro quando il mio godimento era stato sufficiente, lasciandolo a continuare il suo lavoro. Questa esperienza mi portò a esser considerato dai miei amici una sorta di agente immobiliare. Ovunque mi sedessi, lì avrei potuto vivere, e il paesaggio si irradiava da me. Cos’è una casa se non una sedes, una sede? – meglio se una sede di campagna. Scoprii molti siti adatti a una casa, dei quali non ce ne potevano essere migliori, che alcuni avrebbero potuto considerare troppo lontani dal villaggio, ma ai miei occhi era il villaggio a esser troppo lontano. Ebbene, potrei abitarci, dicevo; e ci abitavo, per un’ora, una vita estiva e autunnale; vidi come lasciar scorrere gli anni, temperare l’inverno, e vedere l’arrivo della primavera. I futuri abitanti di questa regione, ovunque potranno farsi casa, stiano certi di esser stati anticipati. Bastava un pomeriggio per mettere la terra a frutteto, legname e pascolo, e per decidere quali buone querce o pini sarebbero stati lasciati dov’erano di fronte alla porta, e dove poter disporre col risultato migliore degli alberi malati; e poi la lasciavo com’era, incolta forse, perché un uomo è ricco in proporzione al numero di cose che può permettersi di lasciar perdere.

L’immaginazione mi portò al punto di ricevere un rifiuto da parecchie fattorie – il rifiuto era tutto ciò che volevo – ma non mi sono mai bruciato le dita con un effettivo possesso. Mi avvicinai all’effettivo possesso quando comprai la proprietà Hollowell, e avevo cominciato a fare la cernita dei miei semi, e a raccogliere i materiali per farmi una carriola per trasportarli; ma prima che il proprietario potesse darmi l’atto, sua moglie – ogni uomo ha una moglie del genere – cambiò idea ed espresse il desiderio di tenerla, e mi offrì dieci dollari per liberarlo dall’obbligazione. Ora, a dire la verità non avevo che dieci centesimi in tutto, e andava oltre le mie capacità aritmetiche capire se io fossi l’uomo che aveva dieci centesimi, una fattoria, dieci dollari, o tutto quanto insieme. Comunque, gli lasciai tenere i dieci dollari e anche il podere, perché l’avevo portata avanti abbastanza; o piuttosto, per essere generoso, gli vendetti il podere per ciò a cui rinunciai e, non essendo lui un uomo ricco, gli feci dieci dollari di regalo, e ancora mi erano rimasti i dieci centesimi, i semi, e il materiale per la carriola. Scoprii così di essere ricco senza aver danneggiato la mia povertà. Però mantenni il paesaggio, e da allora ho portato via quel che mi fruttava senza bisogno di carriole. Per quanto riguarda i paesaggi,

Sono il monarca di quel che scruto,
Nessuno c’è a disputarmene il diritto.

Ho sovente visto un poeta andar via, avendo goduto della parte più valida di un podere, mentre il rozzo contadino pensava che avesse preso solo qualche mela selvatica. Invece, il proprietario non sa, per molto tempo, che quando un poeta gli ha messo in versi la fattoria, il più ammirevole tipo di recinto invisibile, l’ha onestamente fatta sua, munta e scremata, e ha preso tutta la crema, lasciando all’agricoltore solo il latte scremato.

Le vere attrattive della fattoria Hollowell, per me, erano: il suo completo isolamento, essendo a circa due miglia dal villaggio, a mezzo miglio dal primo vicino, e separata dalla strada maestra da un ampio terreno; il confine del fiume, che secondo il proprietario la proteggeva con la nebbia dalle gelate primaverili, anche se ciò non contava niente per me; il colore grigio e la condizione di rovina della casa e del fienile, e gli steccati diroccati, che mettevano un grande intervallo fra me e l’ultimo occupante; i meli vuoti, coperti di licheni, mangiati dai conigli, che mostravano quali vicini avrei avuto; ma soprattutto il ricordo che ne avevo sin dai primi viaggi risalendo il fiume, quando la casa era nascosta dietro un denso bosco di aceri rossi al di là dei quali sentivo il cane abbaiare. Avevo fretta di comprarla, prima che il proprietario finisse di buttar via i sassi, di tagliare i meli vuoti, di sradicare certe betulle giovani spuntate nel pascolo, o, in breve, di fare qualunque altro miglioramento. Per godere di questi vantaggi ero pronto a portarla avanti, a prendermi il mondo sulle spalle come Atlante – non ho mai sentito quale compenso ricevesse per questo – e a fare tutte quelle cose che non avevano altro motivo o pretesto se non che io potessi pagare per farle e non fossi molestato nel mio possesso; perché sapevo nel frattempo che mi avrebbe fruttato il più abbondante fra i raccolti che volevo se solo mi fossi potuto permettere di lasciarla com’era. Ma le cose andarono come ho detto.

Tutto ciò che posso dire, dunque, sull’agricoltura su larga scala (ho sempre coltivato un giardino) era che avevo tenuto pronti i miei semi. Molti pensano che i semi migliorino col tempo. Non ho dubbio che gli anni discriminino fra quelli buoni e quelli cattivi; e quando alla fine li pianterò, una delusione sarà meno probabile. Ma direi al mio prossimo, una volta per tutte: “Fin quando è possibile, vivete liberi e senza impegni”. Fa poca differenza se avete un impegno con una fattoria o con la prigione di contea.

Il vecchio Catone, il cui De re rustica è il mio Cultivator, dice (l’unica traduzione che abbia visto toglie ogni senso al passaggio): “Quando pensate a farvi una fattoria, rigiratevela nella mente, per non comprarla con avidità; e non risparmiatevi la fatica di vederla, né pensate che sia abbastanza guardarla una volta. Più spesso vi andate, più vi piacerà, se è buona”. Penso di non comprare con avidità, ma andrò a visitarla finché vivo, e mi ci farò seppellire, in modo che infine mi piaccia ancor di più.

Questo fu il mio successivo esperimento del genere, e intendo descriverlo in maggior dettaglio; per convenienza, trattando l’esperienza di due anni in uno. Come ho detto, non mi propongo di scrivere un’ode alla delusione, ma di vantarmi bramoso come un galletto al mattino, ritto sul trespolo, anche solo per svegliare i miei vicini.

Quando per la prima volta presi dimora nei boschi, cioè vi cominciai a passare la notte oltre al giorno, il che, casualmente, avvenne il giorno dell’Indipendenza, il 4 luglio 1845, la mia casa non era pronta per l’inverno, ma era solamente una difesa dalla pioggia, senza intonaco o camino, le pareti fatte di rozze tavole segnate dalle intemperie, con ampie crepe che la rendevano fredda la notte. I bianchi montanti verticali, tagliati da poco, e la porta e gli infissi appena piallati le davano un aspetto pulito e arioso, specialmente la mattina, quando la legna era satura di rugiada, cosicché io fantasticavo che per mezzogiorno avrebbe iniziato a trasudare resina. Per la mia immaginazione, manteneva per tutta la giornata più o meno lo stesso carattere aurorale, che mi ricordava una certa casa di montagna che avevo visitato l’anno prima. Era una capanna ariosa e senza intonaco, adatta a ricevere un dio viaggiante, e dove una dea avrebbe potuto far strascicare la sua veste. I venti che sfioravano l’abitazione erano gli stessi che spazzavano le montagne, trasportando i frammenti, le parti celesti, della musica terrestre. Il vento del mattino soffia per sempre, il poema della creazione è ininterrotto, ma poche sono le orecchie che l’ascoltano. Ovunque, l’Olimpo non è che l’esterno della terra.

L’unica casa di cui fossi mai stato proprietario in precedenza, con l’eccezione di una barca, era una tenda, che usavo di tanto in tanto nelle mie escursioni estive, e la tengo ancora, arrotolata in soffitta; ma la barca, dopo esser passata di mano in mano, è scesa lungo la corrente del tempo. Con questo riparo più solido intorno a me, avevo iniziato a far progressi per stabilirmi nel mondo. Questa struttura, così poco rivestita, era una specie di cristallizzazione intorno a me, e reagiva al suo costruttore. Suggeriva un poco l’abbozzo di un quadro. Non avevo bisogno di uscire per avere aria, perché l’atmosfera all’interno non aveva perso freschezza. Anche nel tempo più piovoso, non stavo tanto dentro ma dietro una porta. Dice l’Harivansa: “Una dimora senza uccelli è come una carne senza condimento”. La mia dimora non era così, perché mi trovai improvvisamente gli uccelli come vicini; non dopo averne imprigionato uno, ma essendomi ingabbiato vicino a loro. Non ero solo più vicino ad alcuni di quelli che solitamente frequentano il giardino e il frutteto, ma a quei cantori della foresta, più selvatici e vibranti, che mai o raramente fanno una serenata per gli abitanti del villaggio – il tordo dei boschi, il cataro fosco, la tangara scarlatta, il passero dei campi, il caprimulgo, e molti altri.

Mi ero stabilito presso la riva di un laghetto, circa un miglio e mezzo a sud del paese di Concord e un po’ più in alto, nel mezzo di un ampio bosco fra quella città e Lincoln, e circa due miglia a sud del nostro unico campo ad aver ottenuto un po’ di notorietà, il Concord Battle Ground; ma ero così in basso nel bosco che il mio orizzonte più lontano era la riva opposta, a mezzo miglio di distanza, coperta di alberi come tutto il resto. La prima settimana, ovunque lo guardassi mi colpiva il lago montano, in alto su un pendio, con la parte inferiore molto più in alto della superficie degli altri laghi, e, allo spuntar del sole, lo vedevo togliersi la veste notturna della sua nebbia, e qua e là, gradualmente, si rivelavano le sue dolci increspature e la sua liscia superficie riflettente, mentre le nebbie, come fantasmi, si ritiravano rapidamente in ogni direzione verso i boschi, come l’interrompersi di qualche conventicola notturna. La stessa rugiada sembrava incombere sugli alberi e sui fianchi delle montagne fino a giorno inoltrato, più del solito.

Questo laghetto fu un vicino di gran valore nelle pause di qualche gentile acquazzone d’agosto, quando, l’aria e l’acqua perfettamente immobili ma col cielo coperto, a metà del pomeriggio c’era la serenità della sera, e il tordo dei boschi cantava facendosi udire da una riva all’altra. Un lago come questo non è mai calmo come in questi momenti; ed essendo la parte serena dell’aria sovrastante bassa e scura per le nuvole, l’acqua, piena di luci e riflessi, diventa un secondo cielo, più basso e più grave. Da un vicino colle, dove il bosco era stato tagliato di recente, c’era una vista piacevole verso sud, al di là del lago, attraverso un’ampia fenditura nelle colline che formava la riva, dove i pendii opposti, scendendo l’uno verso l’altro, suggerivano un torrente che scorreva in quella direzione attraverso una valle boscosa – ma il torrente non c’era. In quel modo scrutavo attraverso e sopra le vicine verdi colline, fino a quelle lontane e più alte, all’orizzonte, tinte d’azzurro. In effetti, mettendomi in punta di piedi intravedevo alcune vette delle catene montagnose a nordovest, ancora più azzurre e lontane, genuino conio della Zecca celeste, e anche qualche parte del villaggio. Ma in altre direzioni, anche da quel punto, non vedevo al di sopra o al di là dei boschi che mi circondavano. È bene avere dell’acqua nelle vicinanze per dare spinta e galleggiamento alla terra. Si dà valore perfino al più piccolo dei pozzi, perché guardandolo ci si accorge che la terra non è continentale ma insulare. Questo è altrettanto importante che tenere il burro in fresco. Quando guardavo oltre il lago da questa vetta verso i prati di Sudbury, che in periodo di piena si distinguevano più elevati, forse per un miraggio nel subbuglio della valle, come una moneta in un bacile, tutta la terra al di là del lago sembrava una crosta sottile, isolata e galleggiante perfino sulla pellicola d’acqua frapposta, e mi sovveniva che ciò su cui abitavo era terra asciutta.

Sebbene dalla mia porta la vista fosse ancor più limitata, non mi sentivo affatto costretto o confinato. C’era abbastanza pascolo per la mia immaginazione. Il basso pianoro di arbusti di querce verso cui andava la riva opposta, si stendeva verso le praterie dell’Ovest e le steppe di Tartaria, offrendo ampio spazio per tutte le vagabonde famiglie degli uomini. “Nessuno al mondo è felice se non gli esseri che godono liberi di un vasto orizzonte,” disse Damodara, quando alle sue mandrie necessitarono pascoli nuovi e più grandi.

Il tempo e il luogo erano cambiati, e abitavo più vicino a quelle parti dell’universo e a quelle epoche storiche che mi avevano più attratto. Dove vivevo era altrettanto lontano di molte regioni osservate la notte dagli astronomi. Siamo soliti immaginare luoghi rari e dilettevoli in remoti e più celesti angoli del sistema solare, dietro la costellazione della Sedia di Cassiopea, lontano dal rumore e dal disturbo. Scoprii che la mia casa era situata in una parte dell’universo davvero remota, ma sempre nuova e mai profanata. Se valeva la pena stabilirsi in quei luoghi presso le Pleiadi o le Iadi, Aldebaran o Alair, allora ero già lì, o comunque ugualmente remoto dalla vita che mi ero lasciato dietro, rimpicciolito e sfavillando con un raggio così sottile che il mio vicino mi avrebbe visto solo nelle notti senza luna. Era quella la porzione del creato che avevo occupato:

C’era un pastore che vi abitava,
E alto il suo pensiero saliva
Come i monti dove il suo gregge
Lo nutriva di ora in ora

Cosa penseremmo della vita del pastore se il suo gregge si fosse spinto sempre in pascoli più alti dei suoi pensieri?

Ogni mattina era un allegro invito a dare alla mia vita la stessa semplicità e, se posso dire, la stessa innocenza della Natura stessa. Sono stato un adoratore di Aurora sincero come i greci. Mi alzavo presto e mi bagnavo nel lago; era un esercizio religioso, e una delle cose migliori che facessi. Dicono che sulla vasca da bagno del re Tching-thang fossero incisi caratteri che dicevano: “Rinnovati completamente tutti i giorni; e poi rifallo ancora, e poi ancora, e per sempre”. Questo lo posso capire. Il mattino ci riporta alle epoche eroiche. Il fievole ronzio di una zanzara che svolgeva un giro invisibile e inimmaginabile delle mie stanze allo spuntar dell’alba, quando ero seduto con porta e finestre aperte, mi toccava come avrebbero fatto le trombe della celebrità. Era il requiem di Omero; un’Iliade Odissea dell’aria, che cantava la sua ira e il suo vagabondare. C’era qualcosa di cosmico; un’inserzione, aperta fino a esaurimento, sull’imperituro vigore e fertilità del mondo. Il mattino, la più memorabile stagione della giornata, è l’ora del risveglio. Allora c’è meno sonnolenza in noi; e almeno per un’ora, si sveglia una parte di noi che dorme tutto il resto del giorno e della notte. C’è poco da aspettarci dal giorno, se lo si può chiamare così, in cui non siamo svegliati dal nostro Genio ma dal meccanico scuoterci di qualche servitore; in cui non siamo svegliati dalle nostre rinnovate forze e aspirazioni intime, accompagnate dalle ondulazioni della musica celeste, e non della sirena di una fabbrica, e da una fragranza che riempie l’aria – portandoci a una vita più alta di quella in cui ci siamo addormentati; e così l’oscurità porta il suo frutto, e si dimostra buona, non meno della luce. Quell’uomo che non crede che ogni giorno contenga un’ora precedente, più sacra e aurorale di quella non ancora profanata, prova disperazione per la vita, e persegue una via in discesa verso il buio. Dopo una parziale cessazione della vita sensibile, l’anima dell’uomo – o piuttosto i suoi organi – si rinvigorisce quotidianamente, e il suo Genio mette alla prova la vita nobile che può dare. Tutti gli eventi memorabili, direi, traspirano nell’ora e nell’atmosfera del mattino. I Veda dicono: “Tutto l’intelletto si risveglia col mattino”. La poesia e l’arte, e le più belle e più memorabili azioni umane, risalgono a quest’ora. Tutti i poeti e gli eroi, come Memnone, sono figli di Aurora, ed emettono la loro musica al far del giorno. Per chi, con un pensiero elastico e vigoroso, tiene il passo del sole, il giorno è un perpetuo mattino. Non importa cosa dica l’orologio o gli atteggiamenti e le fatiche degli uomini. Il mattino è quando sono sveglio e quando c’è l’alba dentro di me. Perché mai gli uomini danno un resoconto così povero della loro giornata se non perché stanno dormendo? Non sono così incapaci nel calcolo. Se non fossero stati sopraffatti dal torpore, avrebbero fatto qualcosa. Ci sono milioni abbastanza svegli da svolgere lavoro fisico; ma solo uno su un milione è abbastanza sveglio da svolgere un effettivo lavoro intellettuale, solo uno su cento milioni una vita poetica o divina. Essere svegli è essere vivi. Non ho mai ancora incontrato un uomo che fosse del tutto sveglio. Come avrei potuto guardarlo in volto?

Dobbiamo imparare a risvegliarci e a restare svegli, non con ausili meccanici ma con un’infinita attesa dell’alba, che non ci abbandoni neppure nel sonno più profondo. Non conosco fatto più incoraggiante dell’indiscutibile capacità da parte dell’uomo di elevare la propria vita con uno sforzo consapevole. È già qualcosa essere in grado di dipingere un certo quadro, o di scolpire una statua, e dunque di rendere belli alcuni oggetti; ma è ancora più glorioso scolpire e dipingere l’atmosfera e il mezzo attraverso cui osserviamo – cosa che possiamo fare moralmente. Influire sulle proprietà del giorno: questa è la più alta fra le arti. Ognuno ha il compito di rendere la propria vita, in tutti i particolari, degna di essere contemplata nella sua ora più elevata e critica. Se rifiutassimo, o piuttosto consumassimo, le misere informazioni che riusciamo a ottenere, gli oracoli ci informerebbero distintamente su come potremmo farlo.

Andai nei boschi perché desideravo vivere deliberatamente, affrontare solo i fatti essenziali della vita, e vedere se non potessi imparare cosa avesse da insegnare, senza scoprire, giunto alla morte, di non aver vissuto. Non desideravo vivere ciò che non era una vita, per quanto caro mi sia il vivere; né desideravo praticare la rassegnazione, a meno che non fosse necessaria. Volevo vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, vivere in modo così risoluto e spartano da sbaragliare tutto quanto non fosse vita; da aprirmi con la falce un varco ampio e raso terra, da spingere nell’angolo la vita e ridurla ai minimi termini; e, se si fosse dimostrata essere meschina, da arrivare, perché no?, alla sua completa e genuina meschinità, rendendola pubblica al mondo; o se fosse stata sublime, da conoscerla per esperienza; e da essere in grado di darne un resoconto sincero nella mia successiva escursione letteraria. Perché gran parte degli uomini, mi pare, ha una strana incertezza al riguardo, se sia del diavolo o di Dio, e ha un po’ frettolosamente concluso che il primo fine dell’uomo su questa terra è “rendere gloria a Dio e goderlo per l’eternità”.

Eppure viviamo meschinamente come formiche, anche se la favola ci racconta che tanto tempo fa fummo trasformati in uomini; come pigmei combattiamo con le gru; accumuliamo errore su errore, e colpo su colpo, e la migliore delle nostre virtù è occasionata da uno squallore superfluo ed evitabile. La nostra vita è spezzettata in minuzie. Un uomo onesto non ha bisogno di contare oltre le dieci dita delle mani, aggiungendo in casi estremi quelle dei piedi, e fare un mucchio del resto. Semplicità, semplicità, semplicità! dico io; che i vostri affari siano due o tre, e non cento o mille; invece che a un milione contate fino a mezza dozzina, e fatevi i conti sulle mani. In mezzo al mare incostante di questa vita civilizzata, sono tali le nuvole, le tempeste, le sabbie mobili, e mille e un altro elemento che un uomo deve sopportare per non colare a picco, affondare e non giungere mai in porto navigando alla cieca; e chi ci riesce deve avere grandi capacità di calcolo. Semplificate, semplificate. Invece di tre pasti al giorno fatene solo uno, se necessario; invece di cento piatti, cinque; e riducete le altre cose in proporzione. La nostra vita è come la Confederazione tedesca, fatta di staterelli dai confini sempre così fluttuanti che neppure un tedesco vi può dire quali siano al momento. La stessa nazione, con tutti i suoi cosiddetti avanzamenti interni – che fra l’altro sono tutti esterni e superficiali – è precisamente un’istituzione impacciata e cresciuta troppo, ingombra di mobili e incespicante sulle proprie trappole, rovinata dal lusso e da spese sventate, per mancanza di calcolo e di un fine degno, come i milioni di famiglie che vi risiedono; e l’unica cura per entrambi sta in un’economia rigida, una vita semplice e uno scopo elevato, severi e più che spartani. Essa vive troppo velocemente. Gli uomini ritengono indubbio ed essenziale che la nazione abbia un commercio, esporti ghiaccio, parli attraverso il telegrafo e viaggi a trenta miglia all’ora, che loro lo facciano o meno; ma è un po’ incerto se dobbiamo vivere come babbuini o come uomini. Se non posiamo le traversine, non forgiamo i binari e non ci dedichiamo al lavoro di giorno e di notte, ma armeggiamo con le nostre vite per migliorare quelle, chi costruirà le ferrovie? E se non si costruiscono le ferrovie, come andremo in paradiso in orario? Ma se stiamo a casa e ci facciamo gli affari nostri, chi vorrà le ferrovie? Non siamo noi a viaggiare sulla ferrovia, è la ferrovia a viaggiare su di noi. Avete mai pensato che sono quelle traversine a sostenere la ferrovia? Ognuna di loro è un uomo, un irlandese oppure uno yankee. I binari sono posti su di esse e coperti di sabbia, e i vagoni vi scorrono agevolmente sopra. Sono traversine solide, vi assicuro. E ogni pochi anni si dispone un nuovo lotto per viaggiarci sopra; in modo che, se qualcuno ha il piacere di andare per ferrovia, altri hanno la sventura di esser messi su un binario quando sono espulsi da una città. E quando investono un uomo che cammina nel sonno, una traversina di troppo è nella posizione sbagliata, e ci si sveglia, si fermano d’improvviso i vagoni e si fa un gran fracasso, come se questa fosse l’eccezione. Sono contento di sapere che ci vuole una banda di uomini ogni cinque miglia per mettere le traversine nei loro alloggiamenti, perché questo è un segno che un giorno ne potranno uscire.

Perché dovremmo vivere una tale vita di fretta e spreco? Siamo determinati a morire di fame prima d’essere affamati. Gli uomini dicono di fare una cosa oggi per risparmiarne nove domani, e così fanno mille cose oggi per risparmiarne nove domani. Quanto al lavoro, non ne abbiamo che sia di alcuna utilità. Abbiamo il ballo di San Vito e non riusciamo a tener ferma la testa. Se dessi solo qualche strattone alla corda del campanile, come si fa per il fuoco, cioè senza far rintoccare la campana come per la funzione, potrei dire che non esiste un uomo sul suo podere fuori Concord, nonostante gli impegni pressanti che stamattina gli sono già così spesso serviti da scusa, né un ragazzo o una donna, che non abbandonerebbe tutto per seguire quel suono, non tanto per salvare le proprietà dalle fiamme ma, se confessassimo la verità, per vederle bruciare, dato che devono bruciare ma non siamo stati noi, lo si sappia, ad appiccare il fuoco – o per spegnerlo, e dare una mano se lo si fa con uguale abilità; sì, anche se fosse la chiesa stessa a bruciare. Quasi nessuno fa la sua mezz’ora di pisolino dopo pranzo senza alzare la testa e dire, al risveglio: “Quali sono le notizie?”, come se il resto dell’umanità fosse stato di sentinella. Alcuni danno istruzioni per esser svegliati ogni mezz’ora, indubbiamente senz’altro scopo; e poi, come ricompensa, dicono cosa hanno sognato. Dopo una notte di sonno le notizie sono indispensabili come la colazione. “Per favore ditemi tutte le novità che sono successe a chiunque si trovi su questo mondo”, e uno legge, mentre prende il caffè e un dolce, che stamattina un uomo ha avuto un occhio cavato sul fiume Wachito, senza mai sognare mentre vive nella buia inesplorata grotta dei mammut di questo mondo, e mentre lui stesso non ha che i rudimenti di un occhio.

Da parte mia, potrei facilmente fare a meno dell’ufficio postale. Penso che attraverso di esso si facciano pochissime comunicazioni importanti. Per parlare criticamente, non ho mai ricevuto più di una o due lettere in vita mia – ho scritto qualche anno fa – che valessero l’affrancatura. La tariffa postale è, comunemente, un’istituzione attraverso cui si può con serietà offrire a un uomo un penny per i suoi pensieri, come così spesso si fa per scherzo. E sono certo di non aver mai letto notizie memorabili sul giornale. Se leggiamo di un uomo derubato, assassinato o ucciso in un incidente, di una casa bruciata, di una nave naufragata, di una nave a vapore esplosa, di una mucca investita sulla Western Railroad, di un cane idrofobo ucciso, o di un’invasione di cavallette d’inverno, non ci serve leggere di altri casi. Uno basta. Se conoscete il principio, cosa v’importa delle miriadi di esempi e applicazioni? Per un filosofo tutte quelle che si chiamano notizie sono pettegolezzo, e chi le redige e le legge sono vecchie che prendono il tè. Eppure non sono pochi a essere avidi di questo pettegolezzo. Ho sentito che l’altro giorno c’è stato un tale trambusto in uno degli uffici per sapere le notizie appena giunte dall’estero, che la pressione ha rotto parecchie grandi lastre quadrate di vetro appartenenti all’ente – notizie che, credo seriamente, uno spirito intelligente avrebbe potuto scrivere con sufficiente accuratezza con dodici mesi o anche dodici anni di anticipo. Quanto alla Spagna, per esempio, se sapete come inserire ogni tanto, nelle giuste proporzioni, i nomi di Don Carlos, dell’Infanta, di Don Pedro, Siviglia e Granada – i nomi possono essere cambiati un po’ dall’ultima volta che ho visto i giornali – e servire una corrida in mancanza di altri intrattenimenti, si sarebbe fedeli alla lettera, e ci si darebbe un’idea dello stato o del disfacimento delle cose in Spagna altrettanto precisa dei più succinti e lucidi servizi di qualunque giornale sotto quel titolo: e quanto all’Inghilterra, l’ultimo ritaglio significativo (o quasi) da quell’area è stato la rivoluzione del 1649; e se avete saputo la storia dei suoi raccolti in un anno medio, non avete più necessità di preoccuparvene, a meno che le vostre speculazioni non siano di carattere meramente pecuniario. Da quanto può giudicare uno che raramente guarda i giornali, non succede mai niente di nuovo all’estero, senza far eccezione per la Rivoluzione francese.

Quali notizie! Quanto è più importante sapere ciò che non invecchia mai! “Kieou-pe-yu (gran dignitario dello stato di Wei) mandò un uomo da Khoung-tseu per sapere sue notizie. Khoung-tseu fece sedere il messaggero accanto a sé, e lo interrogò in questi termini: ‘Cosa sta facendo il tuo padrone?’. Il messaggero rispose rispettoso: ‘Il mio padrone desidera diminuire il numero delle sue colpe, ma non sa come farlo’. Andato via il messaggero, il filosofo osservò: ‘Che degno messaggero! Che degno messaggero!’.” Il predicatore, invece di tormentare le orecchie di contadini sonnolenti nel loro giorno di riposo alla fine della settimana – perché la domenica è la giusta conclusione di una settimana spesa male, e non il fresco e coraggioso inizio di una settimana nuova – col suo ennesimo sermone sciatto, dovrebbe gridare con voce di tuono: “Fermatevi! Basta! Perché così veloci in apparenza, ma invece così mortalmente lenti?”.

Si considerano inganni e illusioni come le più solide delle verità, mentre la realtà resta favolosa. Se gli uomini osservassero con continuità soltanto le realtà, senza concedersi illusioni, la vita sarebbe come una fiaba e una storia delle Mille e una notte, a paragone. Se rispettassimo solo ciò che è inevitabile e ha diritto di esserlo, le strade risuonerebbero di musica e poesia. Quando, saggiamente, non ci facciamo prendere dalla precipitazione, ci rendiamo conto che solo le cose grandi e degne hanno un’esistenza permanente e assoluta, che le paure e i piaceri meschini sono solo l’ombra della realtà. Questo è sempre entusiasmante e sublime. Chiudendo gli occhi, assopendoci e consentendo all’inganno delle apparenze, gli uomini stabiliscono e confermano ovunque una vita quotidiana fatta di routine e abitudine, costruita sempre su fondamenta puramente illusorie. I bambini, che giocano alla vita, ne discernono le vere leggi e i rapporti in modo più chiaro degli uomini, che non riescono a viverla degnamente, ma pensano di essere più saggi grazie all’esperienza, cioè grazie al fallimento. In un libro indù, ho letto: “C’era il figlio di un re che, espulso dalla sua città nell’infanzia, fu cresciuto da un forestiero e, giungendo alla maturità in quello stato, immaginava di appartenere alla razza barbara con cui viveva. Quando uno dei ministri del padre lo scoprì, gli rivelò cosa fosse, si rimosse il malinteso sulla sua natura e lui seppe di essere un principe. Così, l’anima,” continua il filosofo indù, “a partire dalle circostanze in cui è situata, fraintende il proprio carattere, finché la verità non gli sia rivelata da un sacro insegnante, e allora sa di essere Brahma”. Mi rendo conto che noi abitanti della Nuova Inghilterra conduciamo questa vita meschina perché la nostra visione non penetra la superficie delle cose. Pensiamo che ciò che appareè. Se un uomo camminasse per questa città e vedesse solo la realtà, dove pensate che andrebbe la “Mill-dam”, la chiusa del mulino, che ne è il centro? Se dovesse darci un resoconto delle realtà osservate, dalla sua descrizione non riconosceremmo il luogo. Guardate i luoghi di culto, il tribunale, la prigione, le botteghe, le abitazioni, dite cosa sia ciascuna di quelle cose davanti a uno sguardo sincero, e andrebbero tutte in pezzi nel vostro resoconto. Gli uomini prendono la verità per qualcosa di remoto, alla periferia del sistema, oltre la stella più lontana, prima di Adamo e dopo l’ultimo uomo. C’è davvero qualcosa di vero e remoto nell’eternità. Ma tutti questi tempi, luoghi e occasioni sono qui e ora. Dio stesso culmina nel presente, e mai sarà più divino dopo il trascorrere del tempo. E noi siamo capaci di apprendere totalmente ciò che è sublime e nobile solo facendoci instillare e bagnare perpetuamente dalla realtà che ci circonda. Con costanza e obbedienza, l’universo risponde ai nostri concetti; possiamo viaggiare veloci o lenti, ma la pista è aperta a noi. E allora, passiamo la vita concependo. Finora, il poeta o l’artista non hanno mai avuto un progetto tanto bello e nobile, che almeno qualcuno dei suoi posteri potrà portare a compimento.

Passiamo una giornata deliberatamente come la Natura, senza deragliare per ogni guscio di noce o ala di zanzara che cada sui binari. Alziamoci presto e rapidi, e rompiamo il digiuno notturno facendo colazione, gentilmente e senza disturbo; che vadano e vengano le compagnie, che suonino le campane e gridino i bambini – determinati a vivere la nostra giornata. Perché mai dovremmo buttarci sott’acqua e seguire la corrente? Non lasciamoci sconvolgere e sopraffare da quella turbinosa e terribile rapida chiamata pranzo, situata nelle secche meridiane. Doppiate questo pericolo e sarete al sicuro, perché il resto della strada è in discesa. Con i nervi tesi, col vigore del mattino, navigatela guardando altrove, legati all’albero come Ulisse. Se la macchina fischia, lasciatela fischiare finché non diventa rauca. Se suona la campana, perché mai dovremmo affrettarci? Penseremo a quale musica somigli. Troviamoci una posizione, e poi muoviamo e infiliamo i piedi giù nel fango e nella melma dell’opinione, del pregiudizio, della tradizione, dell’illusione e dell’apparenza, quell’alluvione che ricopre il globo attraverso Parigi e Londra, New York, Boston e Concord, attraverso la Chiesa e lo stato, attraverso la poesia, la filosofia e la religione, fino a raggiungere il fondo solido e il posto della roccia, ciò che chiamiamo realtà, e diciamo: “Ecco, non c’è da sbagliarci”; e poi iniziamo, avendo un point d’appui, al di sotto della piena, del gelo e del fuoco, un posto dove potreste costruire un muro o fondare uno stato, o erigere con sicurezza un lampione o forse un misuratore, non un Nilometro ma un Realometro, affinché le ere future possano sapere quanto sia profonda la piena di inganni e apparenze raccoltasi nel corso del tempo. Se vi alzate affrontando un fatto faccia a faccia, vedrete il sole sfavillare su entrambe le superfici, come se fosse una scimitarra, e ne sentirete il dolce filo che vi divide in due attraverso il cuore e il midollo, cosicché concluderete felicemente la vostra carriera mortale. Che sia vita o morte, bramiamo solo la realtà. Se davvero stiamo morendo, ascoltiamo il rantolo che abbiamo in gola e sentiamo il freddo nelle estremità; se siamo vivi, continuiamo i nostri affari.

Il tempo non è che un torrente in cui vado a pesca. Ne bevo l’acqua; ma mentre bevo vedo il fondo sabbioso e mi accorgo di quanto sia basso. La sua lieve corrente scivola via, ma l’eternità rimane. Vorrei bere più in profondità, e pescare nel cielo, dove i ciottoli sul fondo sono le stelle. Non so contare fino a uno. Non conosco la prima lettera dell’alfabeto. Ho sempre rimpianto di non essere saggio com’ero il giorno in cui sono nato. L’intelletto è una mannaia, che discerne e si fa strada tagliando fino al segreto delle cose. Non desidero essere occupato con le mani più del necessario. La mia testa è mani e piedi. Sento che tutte le mie migliori facoltà vi sono concentrate. Il mio istinto mi dice che la testa è un organo per scavarmi la tana, come per alcune creature il muso e le zampe anteriori, e con essa scaverei e mi rintanerei in queste colline. Penso che la vena più ricca sia nelle vicinanze; dunque io giudico grazie al bastone del rabdomante e ai sottili vapori che si levano; e qui comincerò a scavare.

Leggere

Con un po’ più di volontà nella scelta degli obiettivi, tutti gli uomini diventerebbero forse studiosi e osservatori, perché di certo la loro natura e il loro destino sono di interesse per tutti. Accumulando proprietà per noi stessi o per la posterità, fondando una famiglia o uno stato, o perfino acquisendo notorietà, siamo mortali; ma affrontando la verità siamo immortali, e non c’è da temere il mutamento o gli incidenti. Il più antico filosofo egizio, o forse indù, sollevò un angolo del velo dalla statua della divinità; e ancora la veste tremante resta sollevata, e ne osservo la stessa gloria che osservò lui, poiché c’ero io in lui quando fu così audace da farlo, e ora c’è lui in me a rivedere quella visione. Su quella veste non si è posata la polvere; neppure un momento è trascorso da quando quella divinità fu rivelata. Il tempo in cui dimostriamo di avanzare, o che è indimostrabile, non è passato, presente, o futuro.

La mia residenza era più favorevole di un’università, non solo al pensiero ma alle letture serie; e sebbene fossi oltre la portata delle normali biblioteche itineranti, ero più che mai giunto sotto l’influenza di quei libri che circolano per il mondo, le cui frasi furono per la prima volta scritte su corteccia d’albero, e che ora sono semplicemente copiati ogni tanto su carta di lino. Dice il poeta Mîr Camar Uddîn Mast: “Mettermi seduto per attraversare le regioni del mondo spirituale; ho goduto di questo privilegio nei libri. Intossicarmi con un singolo bicchiere di vino; ho provato questo piacere quando ho bevuto il liquore delle dottrine esoteriche”. Ho tenuto l’Iliade di Omero sul mio tavolo per tutta l’estate, anche se solo ogni tanto ne ho guardato le pagine. Dapprima l’incessante lavoro manuale, perché avevo la casa da finire e contemporaneamente i fagioli da zappare, mi rese impossibile studiare di più. Lessi uno o due vacui libri di viaggio nelle pause del lavoro, finché quell’opera mi fece vergognare di me stesso, e mi chiesi dove fosse che io vivessi.

Lo studente può leggere Omero o Eschilo in greco senza pericolo di apparire dissipato o amante del lusso, perché ciò implica che in una certa misura ne emula gli eroi, e consacra alle loro pagine le ore del mattino. I libri eroici, anche se stampati nei caratteri della nostra madrelingua, saranno sempre in una lingua morta per tempi degenerati; e dobbiamo laboriosamente cercare il significato di ciascuna parola e verso, congetturando un senso maggiore di quello che ci permettono gli usi comuni, a partire dalla saggezza, dal valore e dalla generosità che ci troviamo ad avere. La stampa moderna, economica e fertile, pur con tutte le sue traduzioni, ha fatto poco per avvicinarci agli eroici scrittori dell’antichità. Essi sembrano più solitari che mai, e il carattere in cui sono stampati altrettanto raro e curioso. Vale la pena di spendere giornate giovanili e ore costose, per imparare anche solo poche parole di una lingua antica, sollevate dalla banalità della strada, perché fungano perpetuamente da suggerimento e provocazione. Non è invano che il contadino ricorda e ripete le poche parole latine che ha sentito. Gli uomini talvolta parlano come se lo studio dei classici dovesse, alla lunga, condurre a studi più moderni e pratici; ma lo studente avventuroso studierà sempre i classici, in qualunque lingua possano essere scritti e per quanto antichi siano. Perché cosa sono mai i classici se non la registrazione dei più nobili pensieri dell’uomo? Sono i soli oracoli che non sono decaduti, e in essi si risponde alle domande più moderne come mai hanno fatto Delfi e Dodona. Tanto varrebbe omettere di studiare la Natura, solo perché è vecchia. Leggere bene, cioè leggere libri sinceri con spirito sincero, è un esercizio nobile, e che metterà il lettore alla prova più di ogni esercizio a cui danno valore i costumi del momento. Richiede un addestramento come quello a cui si sottopongono gli atleti, la ferma intenzione quasi dell’intera vita di raggiungere quest’obiettivo. I libri vanno letti intenzionalmente e riservatamente, così come sono stati scritti. Non basta neppure saper parlare la lingua della nazione che li ha scritti, perché c’è un intervallo memorabile fra la lingua parlata e la lingua scritta, la lingua udita e la lingua letta. L’una è comunemente transitoria, un suono, una lingua, solo un dialetto, quasi animalesca, e la impariamo inconsapevolmente. L’altra ne è la maturità e l’esperienza; se quella è la nostra lingua madre, questa è la nostra lingua padre, un’espressione riservata e scelta, troppo significativa per essere udita dall’orecchio, e nella quale dobbiamo rinascere per poterla parlare. Le folle di uomini che semplicemente parlavano le lingue greca e latina nel Medioevo, per un accidente di nascita, non avevano titolo per leggere le opere di genio scritte in quelle lingue; perché non furono scritte nel greco o nel latino che loro conoscevano, ma nell’esclusiva lingua della letteratura. Non avevano appreso i più nobili dialetti di Grecia e Roma, mentre gli stessi materiali su cui erano state scritte erano per loro carta straccia, e invece davano valore alla dozzinale letteratura contemporanea. Ma quando le varie nazioni d’Europa ebbero acquisito proprie lingue distinte, sia pur grossolane ma sufficienti agli scopi delle loro letterature nascenti, allora l’erudizione rinacque per la prima volta, e gli studiosi furono in grado di discernere dalla loro lontananza i tesori dell’antichità. Ciò che la moltitudine romana e greca non poteva udire, con l’andare degli anni qualche studioso lo poteva leggere, e solo qualche studioso lo fa ancora.

Per quanto possiamo ammirare le occasionali esplosioni d’eloquenza di un oratore, comunemente le più nobili parole scritte sono dietro o sopra la volatile lingua parlata, così come il firmamento e le stelle sono dietro le nuvole. Lì sono le stelle, coloro che le sanno leggere. Gli astronomi le commentano e le osservano eternamente. Non sono esalazioni come i nostri colloqui e i nostri vaporosi respiri quotidiani. Normalmente si scopre che ciò che si chiama eloquenza nel foro è retorica nello studio. L’oratore cede all’ispirazione di un’occasione transitoria, e parla alla folla davanti a lui, a coloro che lo possono udire, ma lo scrittore, per cui l’occasione è la sua vita, molto più serena, e che sarebbe distratto dall’evento e dalla folla che ispirano l’oratore, parla all’intelletto e al cuore dell’umanità, a tutti coloro che, in ogni epoca, lo possono capire.

Non c’è da meravigliarsi che Alessandro portasse con sé l’Iliade in ogni spedizione, in uno scrigno prezioso. Una parola scritta è la più scelta delle reliquie. È una cosa allo stesso tempo più intima e più universale di ogni altra opera d’arte. È l’opera d’arte più vicina alla vita stessa. Può essere tradotta in ogni lingua, e non solo letta ma effettivamente respirata da tutte le labbra umane; rappresentata non solo su tela o marmo, ma incisa dal respiro della vita stessa. Il simbolo del pensiero di un uomo antico diventa il discorso di un uomo moderno. Duemila estati hanno impartito ai monumenti della letteratura della Grecia, come alle sue statue, solo una tinta più matura, dorata e autunnale, perché hanno trasportato la propria atmosfera serena e celeste in ogni terra, per proteggerli dalla corrosione del tempo. I libri sono la ricchezza di cui il mondo fa tesoro, e la giusta eredità delle generazioni e delle nazioni. I libri, i più antichi e i migliori, sono naturalmente e a pieno diritto sugli scaffali di ogni cottage. Non hanno una causa da invocare, ma quando illuminano e sostengono il lettore, il suo senso comune non li rifiuterà. I loro autori sono un’aristocrazia naturale e irresistibile per ogni società e, più di re e imperatori, esercitano un’influenza sull’umanità. Quando il mercante incolto e forse sprezzante ha guadagnato, con l’iniziativa e l’industriosità, il tempo libero e l’indipendenza che desidera, ed è ammesso nella cerchia della ricchezza e della moda, infine si rivolge inevitabilmente alla cerchia ancora più elevata ma finora inaccessibile, quella dell’intelletto e del genio, ed è sensibile solo all’imperfezione della sua cultura, e alla vanità e all’insufficienza di tutte le sue ricchezze, e dimostra ulteriormente il suo buon senso con la pena che si dà per assicurare ai propri figli quella cultura intellettuale la cui mancanza avverte così acutamente; ed è così che diventa fondatore di una famiglia.

Chi non ha imparato a leggere i classici antichi nella lingua in cui sono stati scritti deve avere una conoscenza molto imperfetta della storia della razza umana; perché è notevole che non si sia fatta alcuna loro trascrizione in alcuna lingua moderna. Omero non è mai stato stampato in inglese, né Eschilo, neppure Virgilio – opere raffinate, solidamente eseguite e belle quasi come il mattino stesso; perché gli scrittori successivi, qualunque cosa diciamo del loro genio, hanno raramente eguagliato – se pur mai l’hanno fatto – l’elaborata bellezza e finitura, e l’eroica fatica letteraria di tutta una vita degli antichi. Può dire di averli dimenticati solo chi non li ha mai conosciuti. Sarà tempo di dimenticarli quando avremo l’erudizione e il genio che ci renderà in grado di apprezzarli e prestar loro attenzione. Sarà un’età davvero ricca quella in cui le reliquie che chiamiamo classici e le Scritture – reliquie più che classiche, più antiche e ancor meno conosciute – delle nazioni si saranno ulteriormente accumulate, quando i Vaticani saranno pieni dei Veda, dei Zendasvesta e delle Bibbie, insieme agli Omero, ai Dante e agli Shakespeare, e quando tutti i secoli a venire avranno depositato con successo i loro trofei nel foro del mondo. Con una simile pila, possiamo sperare di scalare finalmente il cielo.

Le opere dei grandi poeti non sono mai state lette dall’umanità, perché solo i grandi poeti possono leggerle. Sono state lette solo come la moltitudine legge le stelle, nel caso migliore astrologicamente e non astronomicamente. Gran parte degli uomini ha imparato a leggere per servire una misera convenienza, come ha imparato a far di conto per tenere i registri e non farsi ingannare nel commercio; ma del leggere come nobile esercizio intellettuale sa poco o nulla; eppure solo questo può chiamarsi leggere nel senso alto, non ciò che ci culla come un oggetto di lusso e permette alle facoltà più nobili di dormire per un po’, mentre dobbiamo metterci in punta di piedi per leggere dedicandovi le nostre ore più attente e vigili.

Credo che dopo aver imparato le lettere dell’alfabeto dovremmo leggere il meglio che ci sia nella letteratura, e non ripetere per sempre l’ABC e i monosillabi come in quarta o in quinta, seduti all’ultimo banco per tutta la vita. Gran parte degli uomini è soddisfatta se legge o sente leggere la Bibbia, e forse è stata convinta dalla saggezza di quell’unico libro, e per il resto della vita vegeta e dissipa le proprie facoltà in ciò che si chiama lettura leggera. C’è un’opera in parecchi volumi nella nostra Biblioteca itinerante chiamata Little Reading, Piccola lettura, che pensavo si riferisse a una città così chiamata e in cui non ero stato. Ci sono coloro che, come i cormorani e gli struzzi, riescono a digerire cose del genere, anche dopo un pranzo completo di carne e verdura, perché non permettono che nulla vada sprecato. Se c’è chi fornisce questo foraggio, loro sono le macchine per leggerlo. Leggono la novemillesima storia su Zebulon e Sefronia, quanto si amassero come nessun altro prima, come il corso del loro amore non andasse liscio, e anzi quanto incespicò mentre procedeva, per poi rialzarsi e continuare! O come qualche sventurato salisse su una guglia, mentre avrebbe fatto meglio a non salire nemmeno su un campanile; e poi, avendolo senza necessità portato fin lì, il romanziere suona felice la campana perché tutto il mondo si raduni a sentire – o bella! – come sia tornato giù! Da parte mia, penso che farebbero meglio a trasformare tutti quegli aspiranti eroi del romanzesco universale in banderuole di forma umana, così come sono soliti mettere gli eroi in mezzo alle costellazioni, lasciandoli a ondeggiare al vento finché non arrugginiscono, e senza farli scendere affatto a disturbare gli uomini onesti con le loro burle. La prossima volta che il romanziere suonerà la campana, non muoverò un passo anche se stesse bruciando la sala delle riunioni. “The Skip of the Tip-Toe-Hop, Romanzo del Medioevo, del celebrato autore di Tittle-Tol-Tan, prossimamente a puntate mensili; grande ressa; non tutti insieme!” Si legge tutto questo con gli occhi sgranati, un’acuta e primitiva curiosità, e uno stomaco instancabile, alle cui pareti non servono stimoli, proprio come uno scolaro di quattro anni con la sua edizione di Cenerentola da due centesimi e dalla copertina dorata – senza che io veda un progresso nella pronuncia, nell’accento o nell’enfasi, né una maggiore abilità nell’estrarvi o nell’inserirvi una morale. Il risultato è un affievolirsi della vista, una stagnazione della circolazione vitale, un generale deliquio e un cedimento di tutte le facoltà intellettuali. Questo tipo di pane allo zenzero viene cotto quotidianamente e con più solerzia di quello di grano puro, o di segale e granturco, quasi in ogni forno, e trova un mercato più sicuro.

I migliori libri non vengono letti neppure da coloro che sono chiamati buoni lettori. Cosa costituisce la cultura della nostra Concord? Con pochissime eccezioni, in questa città non esiste gusto per i libri migliori o almeno per quelli buoni, anche di letteratura inglese, le cui parole tutti sanno leggere e sillabare. Perfino chi è andato al college e gli uomini di cosiddetta educazione liberale, qui e altrove, hanno in realtà poca o nessuna conoscenza dei classici inglesi; e quanto alla saggezza umana tramandata, i classici antichi e le Bibbie, che sono accessibili a chiunque ne conosca l’esistenza, ci si sforza più debolmente che altrove di familiarizzarsi con essi. Conosco un taglialegna di mezz’età che prende un giornale francese, non per le notizie, dice lui – perché è al di sopra di ciò – ma per “esercitarsi”, essendo canadese di nascita; e quando gli chiedo quale consideri la cosa migliore da fare al mondo, dice: “Oltre a questo, far pratica e migliorare l’inglese”. Questo è più o meno ciò che fa o a cui aspira, generalmente, chi è andato al college, e a quello scopo prende il giornale inglese. Chi ha magari appena letto uno dei migliori libri inglesi, quante persone troverà con cui avere una conversazione al proposito? O immaginiamo che abbia letto un classico greco o latino in originale, le cui lodi siano state celebrate rendendolo familiare anche ai cosiddetti analfabeti; non troverà assolutamente nessuno con cui parlarne, e dovrà tacerne. In effetti, è difficile che un professore di un nostro college, se ha padroneggiato le difficoltà della lingua, abbia padroneggiato quelle dell’ingegno e della poesia di un poeta greco, e ne abbia una comprensione da comunicare al lettore attento ed eroico; e quanto alle Sacre Scritture, ovvero alle Bibbie dell’umanità, chi in questa città me ne saprebbe anche solo dire i titoli? La gran parte degli uomini non sa che altre nazioni oltre a quella ebraica hanno avuto una Scrittura. Un uomo, qualunque uomo, farà di tutto per raccogliere un dollaro d’argento; ma ecco le parole d’oro, quelle proferite dagli uomini più saggi dell’antichità, del cui valore ci assicurano i sapienti di ogni epoca successiva; eppure non impariamo letture oltre all’Easy Reading, ai sussidiari e ai libri di testo; e quando lasciamo la scuola, il Little Reading e quelli di storie, fatti per ragazzi e principianti; e le nostre letture, la nostra conversazione e il nostro pensiero sono tutti a un livello bassissimo, degno solo di pigmei e nani.

Io aspiro a conoscere uomini più saggi di quelli prodotti dalla terra di Concord, i nomi dei quali conosciamo a malapena. O dovrei sentire il nome di Platone senza mai leggerne i libri? Come se Platone fosse un mio concittadino e io non lo vedessi mai – è il mio vicino e non l’ho mai sentito parlare e non ho mai partecipato della saggezza delle sue parole. Ma come stanno le cose in realtà? I suoi Dialoghi, che contengono quanto c’è di immortale in lui, sono sullo scaffale a fianco, eppure non li ho mai letti. Siamo sottoistruiti, squallidi e analfabeti; e da questo punto di vista confesso di non fare gran distinzione fra l’analfabetismo di quei miei concittadini che non sanno leggere affatto, e quello di chi ha appreso soltanto a leggere cose per bambini e intelletti deboli. Dovremmo essere allo stesso livello dei migliori dell’antichità, ma dovremmo prima sapere quanto fossero bravi quelli. Siamo una razza dall’intelligenza di un uccellino, e ci eleviamo poco più in alto, nei nostri voli intellettuali, delle colonne del quotidiano.

Non tutti i libri sono tardi come i loro lettori. Ci sono probabilmente parole rivolte esattamente alla nostra condizione, che, se potessimo davvero udirle e capirle, sarebbero più salutari per la nostra vita del mattino o della primavera, e forse darebbero una nuova luce al volto delle cose. Quanti uomini hanno fatto risalire alla lettura di un libro una nuova epoca nella loro vita? Forse esiste anche per noi un libro che spiegherà i nostri miracoli e ce ne rivelerà di nuovi. Potremmo trovarvi pronunciate cose al momento impronunciabili. A tutti i sapienti sono capitate le stesse domande che ci disturbano, ci confondono e ci sconcertano; nessuna è stata omessa; e ciascuno vi ha dato risposta, secondo la sua abilità, con le parole e con la vita. Inoltre, con la saggezza impareremo la generosità. Il solitario bracciante in una fattoria alla periferia di Concord, che ha avuto una conversione e una personale esperienza religiosa, ed è spinto dalla sua fede a una silenziosa gravità ed esclusività, può ritenere che non sia vero; ma Zoroastro, migliaia di anni fa, viaggiò per la stessa strada ed ebbe la stessa esperienza; lui però, essendo saggio, seppe che era universale, e trattò di conseguenza i suoi vicini, e si dice perfino che sia stato lui a inventare e stabilire il culto fra gli uomini. Che in umiltà comunichi con Zoroastro allora, e attraverso le influenze illustri che allargano le vedute, con Gesù Cristo stesso, e che la “nostra Chiesa” cada in disuso.

Ci vantiamo di appartenere al diciannovesimo secolo, e di avanzare più rapidi di ogni nazione. Ma considerate quanto faccia poco questo villaggio per la sua cultura. Non desidero lusingare i miei concittadini, né essere lusingato da loro, perché ciò non migliorerà né me né loro. Abbiamo bisogno di esser provocati – pungolati come dei buoi, quali siamo, a trottare. Abbiamo un sistema scolastico di base relativamente decente, ma solo scuole per bambini; e, con l’eccezione del macilento Lyceum, la sala conferenze, d’inverno e di recente il misero inizio di una biblioteca, suggeritoci dallo stato, niente scuole per noi. Spendiamo di più per quasi ogni articolo di nutrimento o denutrimento corporale, che per il nostro alimento mentale. È ora di cominciare ad avere scuole pubbliche al di sopra di quelle di base, di non abbandonare l’istruzione quando cominciamo a essere uomini e donne. È ora che i villaggi siano università, e i loro anziani docenti, col tempo libero – se siamo davvero così benestanti – perseguano il libero studio per il resto della vita. Bisogna confinare per sempre il mondo a una Parigi o a una Oxford? Non potrebbero gli studenti alloggiare e avere un’istruzione liberale sotto il cielo di Concord? Non possiamo pagare un Abelard che ci faccia lezione? Ahimè! Nel foraggiare il bestiame e nel lavorare a bottega, siamo tenuti lontano dalla scuola per troppo tempo, e la nostra istruzione ne resta tristemente trascurata. In questo paese, il villaggio dovrebbe, sotto certi punti di vista, prendere il posto della nobiltà in Europa. Dovrebbe essere il mecenate delle belle arti. È abbastanza ricco per farlo. Gli manca solo magnanimità e raffinatezza. Può spendere abbastanza soldi per le cose a cui danno valore l’agricoltore e il commerciante, ma si considera utopico proporre di spender soldi per cose che uomini più intelligenti considerano di valore molto maggiore. Questa città ha speso diciassettemila dollari per un municipio, grazie alla fortuna o alla politica, ma probabilmente non spenderà altrettanto per l’intelligenza viva, la carne da mettere in quel guscio, neppure in cent’anni. I centoventicinque dollari raccolti annualmente con gli abbonamenti al Lyceum durante l’inverno sono una spesa migliore di ogni altra identica cifra raccolta in città. Se viviamo nel diciannovesimo secolo, perché non dovremmo godere i vantaggi che offre? Perché la nostra vita dovrebbe essere provinciale, sotto qualunque punto di vista? Se leggiamo i giornali, perché non saltiamo i pettegolezzi di Boston e non prendiamo subito il miglior giornale al mondo – invece di succhiare la pappetta dei giornali “per famiglie”, o sfogliare “Olive-Branches” qui nella Nuova Inghilterra? Perché dovremmo lasciare che siano Harper & Brothers e Redding & Co. a scegliere le nostre letture? Come il nobile di gusto colto si circonda di tutto ciò a cui conduce la sua cultura – genio, sapere, spirito, libri, quadri, statue, musica, strumenti filosofici e così via – così faccia il villaggio, senza limitarsi ad avere un pedagogo, un parroco, un sacrestano, una biblioteca parrocchiale e tre probiviri, solo perché i nostri antenati pellegrini una volta hanno passato un freddo inverno su una tetra roccia insieme a loro. Agire collettivamente è agire secondo lo spirito delle nostre istituzioni; e sono certo che, così come la nostra situazione si fa più florida, i nostri mezzi sono più grandi di quelli dei nobili. La Nuova Inghilterra può assumere tutti i saggi del mondo perché vengano a insegnarvi, e può alloggiarli per tutto l’anno, senza essere affatto provinciale. Questa è la scuola insolita che vogliamo. Invece di nobili, che ci siano nobili villaggi pieni di uomini. Se necessario, rinunciamo a un ponte sul fiume, facciamo un giro più lungo in quel punto, e edifichiamo almeno un arco sopra il più buio abisso d’ignoranza che ci circonda.

Suoni

Ma mentre siamo confinati ai libri, anche i più scelti e i classici, e leggiamo solo particolari lingue scritte, che a loro volta non sono che dialettali e provinciali, corriamo il rischio di dimenticare la lingua che parlano tutte le cose e tutti gli eventi, senza metafora, l’unica a essere diffusa come uno standard. Molto viene pubblicato, ma poco stampato. I raggi che fluiscono attraverso le persiane non saranno più ricordati quando la persiana sarà completamente rimossa. Nessun metodo o disciplina può far superare il bisogno di essere sempre vigili. Cos’è un corso di storia, di filosofia o di poesia, non importa quanto ben scelta, o la migliore delle società, o la più ammirevole delle abitudini di vita, se paragonata alla disciplina di guardare sempre ciò che va visto? Sarai un lettore, semplicemente uno studente, o un veggente? Leggi il tuo fato, guarda ciò che ti è davanti, e cammina nel futuro.

La prima estate, non lessi libri; zappai fagioli. Anzi, spesso feci di meglio. Ci furono momenti in cui non mi potevo permettere di sacrificare il fiore dell’attimo presente a qualsiasi lavoro, della testa o delle mani. Amo avere ampi margini nella mia vita. Talvolta, in un mattino d’estate, dopo essermi fatto il solito bagno, mi sedevo sull’assolata soglia di casa, dall’alba fino a mezzogiorno, assorto in fantasticherie, fra pini, noci e sommacchi, in solitudine e quiete indisturbata, mentre intorno gli uccelli cantavano e senza far rumore mi svolazzavano in casa, finché il sole non si insinuava dalla finestra rivolta a occidente, o finché il rumore del carro di qualche viaggiatore sulla lontana strada maestra non mi rammentava il passar del tempo. Come grano di notte crebbi in quelle stagioni, che erano molto meglio di qualunque lavoro manuale. Esse non furono un tempo sottratto alla vita, ma molto oltre e al di sopra della mia solita razione. Compresi cosa intendessero gli orientali parlando di contemplazione e di abbandono delle opere. Per lo più, non mi curavo di come passassero le ore. Il giorno avanzava come per illuminare qualche mio lavoro; era mattina, e poi, guarda, adesso è sera, e non si è compiuto nulla di memorabile. Invece di cantare come gli uccelli, sorridevo in silenzio per la mia incessante buona fortuna. Come il passero aveva il suo trillo, seduto sul noce davanti alla mia porta, io avevo il mio chiocciare, o il mio gorgheggio soppresso, che si poteva sentir provenire dal mio nido. Le mie giornate non erano giorni della settimana che portavano il marchio di una divinità pagana, né erano tritati in ore e tormentati dal ticchettio dell’orologio; perché io vivevo come la tribù indiana Puri, di cui si dice: “Hanno una sola parola per dire ieri, oggi e domani, e ne esprimono la varietà dei significati indicando indietro per ieri, in avanti per domani, e in alto per il giorno in corso”. Questa era mera pigrizia per i miei concittadini, indubbiamente; ma se gli uccelli mi avessero messo alla prova secondo il loro metro, non mi avrebbero trovato manchevole. Un uomo deve trovare le sue occasioni dentro di sé, è vero. Il giorno naturale è molto calmo, e farà tutto tranne esprimere riprovazione per la sua indolenza.

Ho avuto almeno questo vantaggio, per il mio modo di vita, rispetto a coloro che erano obbligati a guardare fuori per gli svaghi, alla società e al teatro: che la mia stessa vita era divenuta il mio svago, e non cessava mai di essere nuova. Era un dramma con molte scene e senza un finale. Se fossimo sempre intenti a guadagnarci da vivere, e a regolarci la vita secondo il modo migliore e più recente da noi appreso, non saremmo mai disturbati dall’ennui. Seguite abbastanza da vicino il vostro genio, e non mancherà di mostrarvi una nuova prospettiva ogni ora. I lavori di casa erano un piacevole passatempo. Quando il pavimento era sporco, mi alzavo presto e, mettendo tutti i mobili sull’erba fuori dalla porta, facendo un solo mucchio di letto e lettiera, buttavo acqua sul pavimento, ci spargevo sopra della sabbia bianca presa dal lago, e poi lo strofinavo con una scopa rendendolo pulito e bianco; e per l’ora in cui i paesani avevano fatto colazione, il sole del mattino mi aveva asciugato la casa abbastanza da permettermi di rientrare, e le mie meditazioni erano quasi ininterrotte. Era piacevole vedere tutti i miei effetti casalinghi sull’erba, in un mucchietto come il fagotto di uno zingaro, e il mio tavolo a tre gambe, da cui non rimuovevo libri, penna e inchiostro, fra i pini e i noci. Anch’essi sembravano contenti di uscire, come se non volessero esser riportati dentro. Talvolta fui tentato di stenderci un telone e mettermici seduto sopra. Valeva la pena vedere il sole che splendeva su queste cose, e sentire il vento libero soffiarci sopra; quanto sembrano più interessanti i più familiari oggetti di casa all’aperto piuttosto che in casa. Un uccello si posa sul ramo accanto, il semprevivo cresce sotto il tavolo, e i rami di more si attorcigliano intorno alle sue gambe; tutt’intorno è cosparso di pigne, ricci di castagna e foglie di fragola. Sembrava come se fosse così che queste forme giungessero a trasferirsi nei nostri mobili, tavoli, sedie e letti – perché una volta erano fra loro.

La mia casa era sul pendio di un colle, prossimo all’orlo di un grande bosco, nel mezzo di una giovane foresta di pini rossi e noci, a mezza dozzina di pertiche dal lago, verso cui uno stretto sentiero scendeva dalla collina. Nel cortile sul davanti crescevano fragole, more e semprevivi, iperico e verghe d’oro, arbusti di quercia e ciliegi selvatici, mirtilli e arachidi. Verso la fine di maggio, il ciliegio selvatico (Cerasus pumila) adornava i bordi del sentiero coi suoi fiori delicati, disposti in ombrelli cilindrici intorno ai corti steli, che infine, in autunno, sotto il peso di grosse e belle ciliegie, cadevano da ogni lato in ghirlande simili a raggi. Le assaggiai come complimento alla Natura, per quanto fossero tutt’altro che gustose. Il sommacco (Rhus glabra) cresceva rigoglioso intorno alla casa, spingendosi in alto sull’argine che avevo costruito, e crescendo alto cinque o sei piedi già la prima stagione. La sua tropicale, ampia foglia pennata era piacevole da guardare, anche se strana. I grandi boccioli, che spuntavano d’improvviso a tarda primavera da gambi secchi che erano sembrati morti, si sviluppavano come per magia in rami aggraziati, verdi e teneri, del diametro di un pollice; e talvolta, mentre sedevo presso la finestra, per quanto crescevano così sbadati, affaticando i loro deboli nodi, sentivo un ramo fresco e tenero che cadeva improvvisamente a terra come un ventaglio, spezzato dal suo stesso peso. In agosto, le grandi masse di more che, in fiore, avevano attirato molte api selvatiche, gradualmente assumevano il loro luminoso e vellutato colore rosso, e sotto il loro peso, nuovamente, si piegavano e spezzavano i teneri gambi.

Mentre sto seduto alla finestra in questo pomeriggio d’estate, i falchi volano in cerchio intorno alla mia radura; il parapiglia dei piccioni selvatici, che mi attraversano la visuale volando in gruppi di due o tre, o appollaiati e irrequieti sui rami di pino bianco dietro la casa, dà voce all’aria; un falco pescatore increspa la vitrea superficie del lago e porta su un pesce; un visone esce furtivo dalla palude davanti alla mia porta e afferra una rana vicino alla riva; il falasco si piega sotto il peso degli uccelli palustri che svolazzano qua e là; e per l’ultima mezz’ora ho udito lo sferragliare dei vagoni ferroviari, che ora muore e ora torna alla vita come il batter d’ali di una pernice, mentre trasporta viaggiatori da Boston alla campagna. Perché non ho vissuto lontano dal mondo come quel ragazzo che, ho sentito, fu assunto da un contadino nella parte ovest della città, ma poco dopo scappò per tornare a casa, male in arnese e pieno di nostalgia. Non aveva mai visto un posto così deprimente e fuori mano; la gente era tutta andata via; diavolo, non si sentiva nemmeno il fischio del treno! Dubito che adesso esista ancora un posto del genere nel Massachusetts:

In verità, il nostro villaggio è diventato un bersaglio
Per una di quelle beffarde frecce della ferrovia, e sulla
Nostra pacifica pianura il suono che ci placa è:
Concord.

La ferrovia di Fitchburg tocca il lago a circa cento pertiche a sud di dove abito. Di solito vado al villaggio seguendone il percorso e con questo legame resto, per così dire, imparentato alla società. Gli uomini sui treni merci, che percorrono tutta la lunghezza della strada, mi fanno un inchino come a un vecchio amico, per quanto spesso mi sorpassano, e in apparenza mi prendono per un operaio; ed è quello che sono. Anch’io sarei volentieri un riparatore di binari, da qualche parte nell’orbita della terra.

Il fischio della locomotiva penetra i miei boschi d’estate e d’inverno, suonando come il grido di un falco che vola sull’aia di un contadino, informandomi che molti irrequieti mercanti di città, o degli avventurosi commercianti di campagna, stanno giungendo ai confini della città. Mentre giungono in vista, si gridano a vicenda l’avvertimento di togliersi dai binari, che si sente talvolta oltre i confini di due città. Ecco le tue spezie, campagna; le vostre razioni, campagnoli! Né c’è nessuno così indipendente sul suo podere da poter dir loro di no. Ed ecco la vostra paga per loro! grida il fischietto del campagnolo; legna come lunghi arieti alla velocità di venti miglia all’ora che colpiscono le mura della città, e abbastanza sedie da far sedere tutti coloro che, stanchi, appesantiti e affaticati, vi abitano all’interno. Con immensa, goffa civiltà, la campagna porge una sedia alla città. Tutte le colline degli indiani vengono spogliate, tutti i prati setacciati per rifornire di mirtilli la città. A nord il cotone, a sud la stoffa tessuta; a nord la seta, a sud la lana; a nord i libri, ma ecco andare a sud lo spirito che li scrive.

Quando incontro la locomotiva col suo corteo di vagoni che si muove seguendo il moto planetario – o piuttosto come una cometa, perché l’osservatore non sa se con quella velocità e direzione rivisiterà mai questo sistema, dato che la sua orbita non sembra una curva chiusa –, con la sua nuvola di vapore simile a una bandiera ondeggiante dietro le sue ghirlande d’oro e argento, come molte soffici nubi che ho visto, alte in cielo, dispiegando la sua massa alla luce, come se questo semidio viaggiante, questo dominatore delle nuvole, stesse per trasformare il cielo del tramonto nella livrea del suo seguito; quando sento il cavallo di ferro far riecheggiare le colline col suo sbuffo di tuono, che scuote la terra coi piedi ed emette fuoco e fumo dalle narici (non so proprio che tipo di cavallo alato o di focoso drago metteranno nella nuova mitologia), sembra che la terra abbia finalmente avuto una razza degna di abitarla. Se solo tutto fosse come sembra, e gli uomini asservissero gli elementi per fini nobili! Se la nube che incombe sul motore fosse il sudore di atti eroici, o benefica per gli uomini come quella che fluttua sui campi del contadino, allora gli elementi e la Natura stessa accompagnerebbero allegramente gli uomini nelle loro missioni, e ne sarebbero la scorta.

Osservo il passaggio mattutino dei vagoni con lo stesso sentimento col quale osservo il sorgere del sole, che è altrettanto regolare. Il treno di nuvole che si stende dietro di loro e si alza sempre più alto, che va in cielo mentre i vagoni vanno a Boston, nasconde il sole per un minuto e getta nell’ombra il mio campo lontano, un treno celeste accanto al quale il meschino corteo di vagoni che abbraccia la terra non è che una punta di lancia. Lo stalliere del cavallo di ferro si è alzato presto in questo mattino d’inverno, alla luce delle stelle sulle montagne, per foraggiare e porre i finimenti al destriero. Anche il fuoco è stato svegliato presto, per mettere dentro di lui il calore vitale e farlo partire. Se solo l’impresa fosse innocente come è precoce! Se la neve è profonda, si allacciano le scarpe da neve, e con l’aratro gigante si scava un solco dalla montagna fino al mare, in cui i vagoni, come una seminatrice al seguito, cospargono la campagna di uomini irrequieti e merci fluttuanti. Tutto il giorno il destriero di ferro s’invola per la campagna, fermandosi solo per far riposare il suo padrone, e io vengo svegliato a mezzanotte dal suo spavaldo sbuffo di girovago quando, in una remota valle del bosco, affronta gli elementi ricoperti di ghiaccio e neve; e raggiungerà la scuderia solo con la stella del mattino, per ricominciare da capo i suoi viaggi senza riposo o neppure un pisolino. O forse, la sera, lo sento nella sua stalla mentre soffia via le energie superflue della giornata, per calmarsi i nervi e raffreddare il fegato e il cervello con qualche ora di ferreo sonno. Se solo l’impresa fosse altrettanto eroica e autorevole quanto è protratta e instancabile!

Lontano, attraverso boschi poco frequentati, al confine fra le città, dove una volta, di giorno, penetrava solo il cacciatore, nelle ore più buie della notte guizzano questi luminosi vagoni di prima classe, senza che i loro abitanti se ne rendano conto; una volta fermandosi in una brillante stazioncina di paese o di città, dove si raduna una folla di società, la volta successiva nella Dismal Swamp, la tetra palude, dove spaventa il gufo e la volpe. Le partenze e gli arrivi dei vagoni segnano ormai le epoche della giornata del villaggio. Vanno e vengono con tale regolarità e precisione, e il loro fischio si può sentire in tale lontananza, che i contadini fissano l’orologio sentendoli, e così una sola istituzione ben condotta riesce a regolare un intero paese. Non sono progrediti almeno un po’ in puntualità dal tempo dell’invenzione della ferrovia? Non parlano e non pensano più veloce nel deposito di quanto non facessero alla fermata della carrozza a cavalli? C’è qualcosa di elettrificante nell’atmosfera del primo. Mi sono stupito dei miracoli che ha compiuto; perfino alcuni dei miei vicini i quali, lo avrei profetizzato una volta per tutte, non sarebbero mai andati a Boston con un mezzo così sollecito, erano qui vicino quando è suonata la campana. Fare le cose “alla maniera ferroviaria” è lo slogan d’oggi; e vale la pena ricevere con tale frequenza e sincerità l’avvertimento di togliersi dai binari. In questo caso non c’è motivo di fermarsi a leggere la formula del Riot Act, né aprire il fuoco sulla testa della folla. Abbiamo costruito un fato, un Atropos, che non gira mai il volto (che questo sia il nome della vostra macchina). Agli uomini si pubblicizza che a una certa ora e a un certo minuto si spareranno queste frecce verso certi punti della bussola, ma senza interferire con gli affari di alcuno, e i bambini vanno a scuola seguendo l’altro percorso. Viviamo in maniera più sicura grazie a esso. Siamo tutti educati, allora, a essere figli di Tell. L’aria è piena di frecce invisibili. Ogni sentiero tranne il tuo è il sentiero del fato. Continua a seguire il tuo binario, allora.

A raccomandarmi il commercio è il suo coraggio e spirito d’iniziativa. Non si mette a mani giunte per pregare Giove. Tutti i giorni vedo questi uomini badare ai propri affari con maggiore o minore coraggio e soddisfazione, facendo anche più di quel che sospettano, e forse impiegati meglio di quanto avrebbero potuto escogitare consapevolmente. Sono toccato meno dall’eroismo di coloro che mantennero la posizione per mezz’ora sul fronte di Buena Vista, che dal continuo, gioioso valore degli uomini che d’inverno abitano lo spalaneve; che non hanno solo il coraggio delle tre del mattino, che Bonaparte riteneva il più raro, ma il cui coraggio non va a riposare così presto, che vanno a dormire solo quando dorme la tempesta o si congelano i muscoli del loro destriero di ferro. Questa mattina della Grande nevicata, che forse infuria ancora, congelando il sangue degli uomini, sento il suono soffocato della campana della loro macchina che esce dal banco di nebbia del loro respiro gelato, che annuncia che i vagoni arrivano, senza ritardo, nonostante il veto di una nevicata dal Nordest della Nuova Inghilterra, e osservo lo spalatore ricoperto di neve e brina, con la testa che sbircia dalla lama dell’aratro che rivolta più che margherite e tane di topi campagnoli, zolle simili ai macigni della Sierra Nevada, che occupano un posto esterno nell’universo.

Il commercio è sorprendentemente fiducioso e sereno, vigile, avventuroso e instancabile. È inoltre molto naturale, molto più di tante fantastiche iniziative ed esperimenti sentimentali, ecco il motivo del suo singolare successo. Sono rinvigorito e dilatato quando il treno merci mi sferraglia accanto, e sento l’odore emanato da tutte le provviste lungo il percorso che va dal Long Wharf di Boston fino al Lago Champlain, che mi ricordano posti stranieri, scogliere di corallo, oceani indiani, climi tropicali e l’estensione del globo. Mi sento un cittadino del mondo alla vista delle foglie di palma che l’estate prossima copriranno tante teste color stoppa della Nuova Inghilterra, canapa di Manila e gusci di cocco, vecchia carne salata, sacchi di iuta, rottami di ferro e chiodi arrugginiti. Questo vagone carico di vele strappate è adesso più leggibile e interessante che se fosse impresso su carta e libri stampati. Chi potrebbe scrivere altrettanto vividamente di questi squarci la storia delle tempeste superate? Sono bozze che non hanno bisogno di correzione. Ecco il legname dei boschi del Maine, che non è andato fino al mare con l’ultima piena ed è salito a quattro dollari il migliaio a causa di quello che vi è andato o si è spaccato: pino, abete, cedro, di prima, seconda, terza e quarta qualità, da agitare davanti all’orso, all’alce e al caribù. Poi scorre la calce di Thomaston, di prima scelta, che arriverà molto lontano fra le colline prima di essere spenta. Queste balle di stracci, di tutti i colori e qualità, la più infima condizione a cui discendano il cotone e il lino, l’esito finale dei vestiti, con motivi che ora non vengono più celebrati, tranne forse a Milwaukee, come quegli splendidi articoli, tessuti stampati, percalle, mussole e così via, inglesi, francesi o americani, raccolti da ogni angolo della moda come della povertà, destinati a diventare carta dello stesso colore o di poche tinte, su cui di certo saranno scritti racconti di vita reale, elevata o miserabile, e basata sui fatti! Questo carro chiuso manda odore di pesce salato, il forte aroma del commercio e della Nuova Inghilterra, che mi rammenta i Grandi banchi e le zone di pesca. Chi non ha mai visto un pesce salato, acconciato ben bene per questo mondo in modo che nulla possa guastarlo, che farebbe la perseveranza dei santi? Col quale potresti spazzare o pavimentare le strade, e spaccare la sterpaglia per fare il fuoco, e col quale il carrettiere può trovar riparo per sé e per il suo carico dal sole, dal vento e dalla pioggia, e il mercante – uno di Concord lo fece – può appenderlo sulla porta come insegna quando entra in affari, finché infine neppure il suo cliente più anziano può dire se fosse animale, vegetale o minerale, ma restando sempre puro come un fiocco di neve, e se fosse messo in pentola e bollito, ne uscirebbe un eccellente pesce scuro per il pranzo del sabato. Poi le pelli spagnole, con la coda che conserva ancora la posizione e l’angolo d’inclinazione che aveva quando i buoi a cui apparteneva scorrazzavano per le pampas del Sudamerica, un tipo tutto ostinazione, da cui si evince quanto siano senza speranza e incurabili tutti i vizi di costituzione. Confesso che, praticamente parlando, quando ho appreso la vera disposizione di un uomo, non ho speranze di cambiarla in meglio o in peggio, in questa condizione dell’esistenza. Come dicono gli orientali: “La coda di un cane può essere riscaldata, schiacciata e piegata con legacci, e dopo averci faticato per dodici anni, manterrà ancora la sua forma naturale”. La sola cura efficace per la pertinacia esibita da queste code è di incollarle, e allora resteranno ferme e al loro posto. Ecco un barile di melassa o brandy, diretto a John Smith di Cuttingsville nel Vermont, mercante nelle Green Mountains, che importa merci per i contadini che si trovano vicino alla zona che ha dissodato, e ora forse si spreme le grosse meningi pensando agli ultimi arrivi sulla costa, a come possano influenzargli i prezzi, mentre dice ai suoi clienti, adesso come altre venti volte prima di stamattina, che ne aspetta un po’ di prima qualità col prossimo treno. È pubblicizzato sul “Cuttingsville Times”.

Mentre arrivano queste cose, altre se ne vanno. Avvisato dal suono sibilante, alzo lo sguardo dal mio libro e vedo dei pini alti, abbattuti su colline molto più a nord, che si sono fatti strada scavalcando le Green Mountains e il fiume Connecticut; scoccati come una freccia attraversano la città in venti minuti, senza che ci siano altri occhi a osservarne la partenza salendo

per l’albero maestro
di qualche grande ammiraglia.1

E ascoltate! ecco arrivare il treno che solleva in aria il bestiame di mille colline, ovili, stalle e vaccherie, mandriani coi loro bastoni, e ragazzi pastori nel mezzo del loro gregge, tutto tranne i pascoli di montagna, turbinanti come foglie soffiate dalla montagna coi venti di settembre. L’aria è piena dei belati di pecore e vitelli, e del calpestio dei buoi, come se stesse passando un’intera valle pastorale. Quando il vecchio ariete in testa fa suonare il suo campanaccio, le montagne si mettono a saltellare come arieti, e le collinette come agnelli. Anche un vagone di mandriani, lì in mezzo, tutt’uno col loro gregge, senza più la loro vocazione ma ancora aggrappati al loro inutile bastone come insegna dell’incarico. Ma i loro cani dove sono? La loro è una fuga disordinata, sono disorientati, hanno perso la traccia dell’odore. Credo di sentirli abbaiare dietro le Peterboro’ Hills, o affannarsi sul versante ovest delle Green Mountains. Non ci saranno al momento della morte. Anche loro sono senza vocazione. La loro fedeltà e scaltrezza non sono più senza pari adesso. Sgattaioleranno vergognosi nei loro canili, o forse fuggiranno, diventando selvatici e stringendo alleanza con il lupo e la volpe. Eccoti la vita pastorale che turbina via. Ma suona la campana, e devo andar via dai binari e far passare i vagoni:

Che cos’è la ferrovia per me?
Non vado mai a vedere
Dove finisce.
Riempie qualche valle,
E crea stormi per le rondini,
Fa soffiare la sabbia,
E fa crescere le more.

Ma io la attraverso come una strada carraia nel bosco. Non mi farò cavare gli occhi e assordare le orecchie dal suo fumo, dal suo vapore e dal suo fischio.

Ora che i vagoni sono passati, e insieme a loro tutta l’irrequietezza del mondo, e i pesci nel lago non ne sentono più il rombo, sono più solo che mai. Per il resto del lungo pomeriggio, forse, le mie meditazioni saranno interrotte solo dal debole rumore di un carretto o di una pariglia in lontananza lungo la strada maestra.

Talvolta, la domenica, col vento favorevole sentivo le campane, la campana di Lincoln, Acton, Bedford o Concord, una melodia debole, dolce e, per così dire, naturale, che valeva la pena importare nella terra selvaggia. A distanza sufficiente al di là del bosco, questo suono acquisisce un certo ronzio vibratorio, come se gli aghi di pino all’orizzonte stessero scorrendo le corde di un’arpa. Tutti i suoni, se uditi alla massima distanza possibile, producono esattamente lo stesso effetto, la vibrazione di una lira universale, proprio come l’atmosfera frapposta rende una cresta di terreno interessante agli occhi, col colore azzurro che le impartisce. Mi giunse in questo caso una melodia distorta dall’aria, che aveva conversato con ogni foglia e ago del bosco, quella parte del suono che gli elementi avevano preso, modulato e fatto riecheggiare di valle in valle. L’eco è, in una certa misura, un suono originario, e da ciò proviene la sua magia e il suo fascino. Non è meramente una ripetizione di ciò che vale la pena di ripetere nella campana, ma in parte la voce del bosco; le stesse banali parole e note cantate da una ninfa dei boschi.

La sera, il lontano muggito di una vacca, all’orizzonte oltre il bosco, risuonava dolce e melodioso, e dapprima lo prendevo per la voce di certi menestrelli che talvolta mi facevano una serenata, in giro per colli e valli; ma presto fui deluso, in modo non spiacevole, quando si prolungò nell’economica, naturale musica della vacca. Non intendo essere ironico, ma esprimere il mio apprezzamento per il canto di quei giovani, quando affermo di percepirne chiaramente l’affinità con la musica delle vacche, e che essi erano in fondo un’articolazione della Natura.

Regolarmente, alle sette e mezza, per parte dell’estate, dopo il passaggio del treno serale, i caprimulghi cantavano i loro vespri per mezz’ora, appollaiati su un ceppo vicino alla mia porta, o su una delle travi del tetto di casa. Cominciavano a cantare quasi con la stessa precisione dell’orologio, entro cinque minuti da un certo momento, facendo riferimento ogni sera all’ora del tramonto. Avevo una rara opportunità per familiarizzarmi con le loro abitudini. Talvolta ne sentivo quattro o cinque contemporaneamente, in diverse parti del bosco, ognuno casualmente una battuta dietro un altro, e così vicini da distinguere non solo lo schiocco dopo ciascuna nota, ma spesso anche quel singolare ronzio simile a quello di una mosca presa in una ragnatela, solo più forte in proporzione. Talvolta uno volava in cerchio tutt’intorno a me nel bosco, a pochi piedi di distanza, come se fosse legato con una corda, quando probabilmente mi trovavo vicino alle sue uova. Cantavano a intervalli per tutta la notte, ed erano sempre più musicali che mai poco prima e al momento dell’alba.

Quando gli altri uccelli si fermano i barbagianni prendono l’incarico, come donne in lutto col loro antico u-lulu. Il loro lugubre grido è davvero degno di Ben Jonson. Sapienti megere di mezzanotte! Non è l’onesto e tagliente tu-uit tu-u dei poeti ma, senza scherzare, una solenne cantilena cimiteriale, la mutua consolazione degli amanti suicidi che ricordano i tormenti e le delizie dell’amore supremo nei boschi dell’inferno. Eppure io amo sentire il loro lamento, le loro risposte dolenti, che vibrano ai lati del bosco, rammentandomi talvolta la musica e gli uccelli canterini; come se fosse il lato oscuro e piangente della musica, i rimpianti e i sospiri che accettano lieti di esser cantati. Sono gli spiriti, i bassi spiriti e i presagi malinconici, delle anime cadute che, una volta in forma umana, hanno camminato di notte per la terra e hanno commesso atti di oscurità, espiando adesso per i loro peccati con i loro lamentosi inni e trenodie, nello scenario delle loro trasgressioni. Mi danno un nuovo senso della varietà e della capacità di quella Natura che è nostra dimora comune. Oh-o-oo-o che io non fossi mai natoooo! sospira uno, da questa parte del lago, volando in cerchio, con l’irrequietudine della disperazione, fino ad appollaiarsi di nuovo su una quercia grigia. Poi... che io non fossi mai natooooo! un altro fa eco dall’altra parte con tremula sincerità, e il natoooo! giunge debole in lontananza nel bosco di Lincoln.

Ricevetti anche la serenata di un gufo. Vicino, lo immaginavo come il più malinconico suono della Natura, come se intendesse fare uno stereotipo e rendere permanente nel suo coro il gemito di un essere umano morente, una povera debole reliquia della mortalità che si è lasciata la speranza alle spalle, e ulula come un animale, ma con singhiozzi umani, mentre entra nella valle oscura, reso più tremendo da una certa melodiosità gorgogliante – mi trovo a cominciare con le lettere g-l quando provo a imitarlo –, espressiva di una mente che ha raggiunto lo stadio ammuffito e gelatinoso nella mortificazione di ogni pensiero salutare e coraggioso. Mi rammentava i ghoul, gli idioti e le urla dei pazzi. Ma ora ce n’è uno che risponde dai boschi lontani con una distorsione resa davvero melodiosa dalla distanza: Hoo hoo hoo, hoorer hoo; e in effetti suggeriva per lo più soltanto associazioni piacevoli, che la sentissi di giorno o di notte, d’estate o d’inverno.

Sono felice che esistano i gufi. Che siano loro a fare gridi idioti e maniaci al posto degli uomini. È un suono ammirevolmente adatto a paludi e boschi crepuscolari, mai illuminati dal giorno, che suggeriscono una Natura, vasta e sottosviluppata, che gli uomini non hanno riconosciuto. Rappresentano il severo crepuscolo e i pensieri insoddisfatti che tutti hanno. Per tutta la giornata il sole splende sulla superficie di una selvaggia palude, dove si innalza la quercia doppia, a cui si attaccano i licheni usnea, sopra la quale volano in cerchio dei falchetti, con la cincia che biascica fra i sempreverdi, e sotto la quale si imboscano la pernice e il coniglio; ma ora è l’alba di una giornata più adatta e cupa, e una diversa razza di creature si sveglia per esprimere il significato della Natura.

La sera tardi, sentivo il lontano rombo dei carri sui ponti – un suono che di notte si sente più lontano di qualunque altro –, l’abbaiare dei cani, e talvolta di nuovo il muggire di una vacca sconsolata in un fienile lontano. Nel frattempo tutta la riva risuonava dello strombazzare delle rane toro, i gagliardi spiriti di beoni e festaioli impenitenti, che cercano di cantare un inno nel lago del loro Stige – se le Ninfe di Walden mi perdonano il paragone, perché pur non esistendo erbacce, ci sono le rane –, che volentieri manterrebbero le esilaranti regole delle loro vecchie tavolate festive, anche se le loro voci sono diventate rauche e solennemente gravi, prendendosi gioco dell’allegria, e il vino ha perso sapore, ed è diventato solo un liquore che distende i ventri, e non giunge mai una dolce ubriachezza a sommergere il ricordo del passato, ma solo una saturazione, un impregnarsi e una distensione. La più dirigenziale, col mento su una ninfea a forma di cuore, che serve da salvietta per i suoi amici sbavanti, sotto questa riva settentrionale tracanna un sorso profondo di quell’acqua una volta disprezzata, e passa la tazza con l’esclamazione tr-r-r-oonk, tr-r-r-oonk, tr-o-o-nk! E subito arriva sull’acqua, da un’ansa lontana, la stessa parola d’ordine ripetuta, dove la successiva in ordine di anzianità e diametro ha bevuto la sua parte fino al segno; e quando si è seguita l’osservanza per tutto il perimetro del lago, allora il maestro di cerimonie esclama soddisfatto: tr-r-r-oonk! E ognuna lo ripete a turno, fino a quella meno distesa, con la pancia più debole e flaccida, affinché non ci siano sbagli; e allora la coppa fa il giro ancora, e poi ancora, finché il sole non disperde la nebbia del mattino, e solo il patriarca non è sott’acqua, ma invano urla ogni tanto il suo troonk, facendo pausa in attesa di una risposta.

Non sono certo di aver mai sentito il canto del gallo dal mio terreno, e pensai che valesse la pena tenere un galletto, soltanto per la sua musica, come uccello canterino. Il canto di questo fagiano indiano, una volta selvatico, è senz’altro il più notevole di tutti, e se li si potesse naturalizzare senza addomesticarli, diventerebbe presto il suono più famoso dei nostri boschi, superando il clangore dell’oca e lo stridere dei gufi; e poi immaginate il chiocciare delle galline che riempie le pause quando riposano le trombe dei loro signori! Nessuna meraviglia che l’uomo abbia aggiunto questo uccello agli animali domestici – per non parlare di uova e cosciotti. Camminare in un mattino d’inverno in un bosco dove abbondassero questi uccelli, nei loro boschi nativi, e sentire i galletti selvatici cantare sugli alberi, sommergendo le note più flebili degli altri uccelli... pensateci! Metterebbe in allarme le nazioni. Chi non si alzerebbe presto, per alzarsi sempre più presto ogni successivo giorno della sua vita, fino a diventare indicibilmente sano, ricco e saggio? Il canto di questo uccello straniero viene celebrato da poeti di tutti i paesi, insieme alle note dei loro nativi cantori. È perfino più indigeno dei nativi. È sempre in buona salute, ha polmoni solidi e uno spirito inflessibile. Perfino il marinaio sull’Atlantico e sul Pacifico viene svegliato dalla sua voce; ma il suo suono stridulo non mi ha mai scosso dai miei sonni. Non tenevo cane, gatto, mucca, maiale o gallina, tanto che avreste detto che c’era una carenza di suoni domestici; neppure una zangola o un filatoio, né un canto di pentolino o un fischio di caffettiera, né un pianto di bambini a confortarmi. Un uomo d’altri tempi avrebbe perso la ragione o sarebbe morto di noia in questa situazione. Nemmeno topi nel muro, perché si erano trovati alla fame, o piuttosto non avevano mai trovato un’esca, solo scoiattoli sul tetto e sotto il pavimento, un caprimulgo sulla trave del tetto, una ghiandaia che gridava sotto la finestra, una lepre o una marmotta sotto la casa, un barbagianni o un gufo sul retro, uno stormo di oche selvatiche o un tuffolo ridente sul lago, e una volpe che abbaiava di notte. Neppure un’allodola o un rigogolo, quei miti uccelli da piantagione, hanno mai visitato la mia radura. Niente galletti a cantare o galline a chiocciare nell’aia. Niente aia! Solo Natura non recintata a raggiungervi fin sulla soglia. Una giovane foresta che vi cresceva sotto la finestra, e sommacchi selvatici e rovi di more che vi irrompono in cantina; testardi pini rossi che sfregano e crepitano contro le assi del tetto per mancanza di spazio, con le radici che giungono fin sotto la casa. Come combustibile, invece di una tegola o di un’imposta soffiata via dal vento, un albero di pino spezzato o sradicato dietro casa vostra. Durante la Grande nevicata, piuttosto che non avere alcun sentiero che conducesse alla porta del cortile sul davanti – niente porta – niente cortile – e niente sentiero che conducesse al mondo civilizzato!

1 John Milton, Paradiso perduto, a cura di Roberto Sanesi, Mondadori, Milano 2000, p. 21. [N.d.T.]

Solitudine

Questa è una serata deliziosa, in cui tutto il corpo è un solo senso, e assorbe piacere da ogni poro. Con una strana libertà vado e vengo nella Natura, ne sono parte. Mentre cammino lungo la riva pietrosa del lago – in maniche di camicia anche se fa fresco, tira vento e ci sono nuvole – e non c’è nulla di speciale ad attrarmi, tutti gli elementi mi sono insolitamente congeniali. Le rane toro strombazzano per annunciare la notte, e il canto del caprimulgo è trasportato dal vento mentre increspa l’acqua che attraversa. L’immedesimazione con gli ontani e i pioppi mi toglie quasi il respiro; eppure, come il lago, la mia serenità è increspata ma non arruffata. Queste piccole onde sollevate dal vento serale sono altrettanto lontane da una tempesta della liscia superficie riflettente. Anche se ora fa buio, il vento soffia e ruggisce ancora nel bosco, le onde continuano a infrangersi, e alcune creature cullano tutte le altre con le loro note. Il riposo non è mai completo. Gli animali più selvatici non riposano, ma vanno proprio ora in cerca di prede; la volpe, la puzzola e il coniglio ora vagano per i campi senza paura. Sono i guardiani della Natura, legami che ci connettono ai giorni della vita animata.

Quando torno a casa, scopro che ci sono stati visitatori che hanno lasciato il loro biglietto da visita, un mazzo di fiori, una ghirlanda di sempreverdi, o un nome a matita su una foglia di noce ingiallita o su una scheggia di legno. Chi viene di rado nel bosco prende in mano un pezzetto di foresta per giocarci lungo il cammino, e me lo lascia, intenzionalmente o per caso. Uno ha pelato una bacchetta di salice, l’ha intrecciata in un anello e l’ha fatta cadere sul mio tavolo. Riuscivo sempre a capire se fossero capitati visitatori in mia assenza, dai rami o dall’erba piegati, dall’impronta delle scarpe, e generalmente capivo anche di quale sesso, età o rango fossero, da qualche lieve traccia lasciata, come un fiore fatto cadere, un mazzo d’erba colto e gettato via, magari lontano verso la ferrovia a mezzo miglio di distanza, o da un persistente odore di sigaro o pipa. Anzi, sovente il passaggio di un viaggiatore lungo la strada maestra a sessanta pertiche di distanza mi veniva notificato proprio dall’odore della pipa.

Di solito c’è spazio sufficiente fra di noi. Il nostro orizzonte non ci raggiunge mai fino ai gomiti. Il fitto bosco non ci arriva mai alla porta, e neppure il lago, ma in qualche modo è sempre terra dissodata, familiare e da noi consumata, appropriata e recintata in una maniera o nell’altra, e reclamata alla Natura. Per quale ragione ho quest’ampia portata e questo itinerario, alcune miglia quadrate di foresta disabitata, come spazio privato, abbandonatomi dagli uomini? Il mio vicino più prossimo è a un miglio di distanza, e nessuna casa è visibile entro mezzo miglio dalla mia, se non dalla cima delle colline. Il mio orizzonte è limitato da boschi, tutto per me; una vista da lontano della ferrovia dove tocca il lago da un lato, e quella dello steccato che costeggia il sentiero fra i boschi dall’altro. Ma in gran parte, dove vivo è altrettanto solitario delle praterie. È altrettanto Asia o Africa che Nuova Inghilterra. Ho, per così dire, un mio sole, una mia luna e delle mie stelle, e un piccolo mondo tutto per me. Di notte non c’era mai un viaggiatore che passasse da casa mia, o che mi bussasse alla porta, più che se fossi il primo o l’ultimo uomo al mondo; tranne in primavera, quando a lunghi intervalli ne venivano alcuni dal villaggio a pescare pesci gatto – chiaramente pescavano molto più nel Lago di Walden che nel proprio carattere, e con l’oscurità davano esca ai loro ami – ma presto si ritiravano, solitamente con cesti molto leggeri, lasciando “il mondo all’oscurità e a me”, e il nero nocciolo della notte non era mai profanato da vicini umani. Credo che gli uomini abbiano generalmente ancora paura della notte, anche se le streghe sono state tutte impiccate e si sono introdotti il cristianesimo e le candele.

Eppure mi resi talvolta conto che in qualunque oggetto naturale si può trovare la compagnia più dolce e tenera, più innocente e incoraggiante, anche per il povero misantropo e per il più malinconico degli uomini. Non ci può essere malinconia nera per colui che vive nel mezzo della Natura, con i sensi tranquilli. Non c’era mai stata una tempesta che non fosse musica eolia per l’orecchio sano e innocente. Nulla può, di diritto, costringere un uomo semplice e coraggioso a una tristezza volgare. Mentre godo l’amicizia delle stagioni, confido che nulla possa rendermi la vita un peso. La pioggia gentile che oggi mi innaffia i fagioli e mi tiene in casa non è cupa e malinconica, ma è di giovamento anche per me. Pur impedendomi di zapparli, vale molto più del mio zappare. Se continuasse fino a far marcire i semi nel terreno e a distruggere le patate nella terra bassa, sarebbe comunque buona per l’erba della parte alta e, essendo di giovamento per l’erba, lo sarebbe per me. Talvolta, quando mi paragono agli altri uomini, sembra che io sia stato maggiormente favorito dagli dei, al di là di qualunque tradimento di cui sappia; come se avessi una garanzia e una certezza da parte loro che i miei simili non hanno, e fossi guidato e guardato in modo particolare. Non mi sto adulando, ma se possibile sono loro che adulano me. Non mi sono mai sentito solo, e neppure in minima parte oppresso dal senso di solitudine, tranne una volta, e cioè poche settimane dopo essere arrivato nel bosco, quando, per un’ora, mi venne il dubbio che la vicinanza degli uomini fosse essenziale a una vita sana e serena. Essere solo era qualcosa di spiacevole. Ma allo stesso tempo, ero consapevole di una leggera insanità nel mio umore, e mi sembrò di prevedere una ripresa. Nel mezzo di una pioggia gentile, mentre prevalevano questi pensieri, ebbi improvvisamente la sensazione della dolce e benefica compagnia della Natura, nel picchiettio delle gocce e in ogni suono e vista intorno alla mia casa, un’amicizia infinita e indescrivibile, che mi sostenne subitaneamente, come un’atmosfera, che rendeva insignificanti i vantaggi immaginati della vicinanza umana, e da allora non ci ho più pensato. Ogni piccolo ago di pino si espandeva e si gonfiava partecipe, e mi dava amicizia. Ero così distintamente conscio della presenza di qualcosa a me affine, perfino in scenari che siamo abituati a chiamare selvaggi e cupi, e anche che i miei più umani e massimi consanguinei non erano una persona o un paesano, tanto da pensare che nessun luogo mi sarebbe mai potuto essere estraneo:

Il lutto prematuro consuma i tristi;
Pochi sono i loro giorni nella terra dei vivi,
Bella figlia di Toscar.

Alcune delle mie ore più piacevoli occorsero durante i lunghi temporali di primavera o d’autunno, che mi confinavano in casa per tutto il pomeriggio oltre che al mattino, calmato dal loro rombo incessante e scrosciante; quando un crepuscolo precoce annunciava una lunga sera in cui molti pensieri avevano tempo di radicarsi e dispiegarsi. In quelle insistenti piogge di nordest che mettono così alla prova le case del villaggio, quando le ragazze erano pronte alla porta d’ingresso con secchio e spazzolone per tener fuori il diluvio, mi sedevo dietro alla porta della mia casetta, che era tutta ingresso, e ne godevo pienamente la protezione. Durante un pesante temporale un fulmine colpì un grande pino dall’altra parte del lago, facendo un solco a spirale, molto vistoso e perfettamente regolare, dall’alto verso il basso, largo quattro o cinque pollici, come si intaglierebbe un bastone da passeggio. Ci sono passato accanto ancora l’altro giorno, e mi sono intimorito a guardarlo e a osservare quel marchio, ora più distinto che mai, dove otto anni fa una saetta terrificante e irresistibile era scesa dal cielo inoffensivo. Spesso gli uomini mi dicono: “Penso che ti senta solo laggiù, e che vorresti essere più vicino alla gente, specialmente nei giorni e nelle notti di pioggia e neve”. Sono tentato di risponder loro: “Tutta la terra in cui abitiamo non è che un punto nello spazio. Quanto lontano, pensate, abitano i due abitanti più lontani di quella stella, l’ampiezza del cui disco non possiamo apprezzare coi nostri strumenti? Perché mai dovrei sentirmi solo? Il nostro pianeta non è nella Via Lattea? Questa domanda che mi hai fatto non mi sembra la più importante. Che tipo di spazio è quello che separa un uomo dai suoi simili e lo rende solitario? Ho scoperto che nessun esercizio delle gambe può avvicinare due menti l’una all’altra. A cosa vogliamo abitare vicino? Non di certo a molti uomini, al deposito, all’ufficio postale, all’osteria, alla sala riunioni, alla scuola, all’alimentari, alla Beacon Hill di Boston o ai Five Points di Manhattan, dove di solito gli uomini fanno congrega, ma alla fonte perenne della nostra vita, da cui in tutta la nostra esperienza l’abbiamo scoperta scaturire, come il salice sta vicino all’acqua e spinge le radici in quella direzione. Questo varierà secondo le diverse nature, ma questo è il luogo dove il saggio si scaverà la cantina”. Una sera sorpresi uno dei miei concittadini, che ha accumulato quella che si chiama “una bella proprietà” – anche se non sono mai riuscito a vederla nel modo giusto – sulla strada di Walden, mentre portava due capi di bestiame al mercato, che mi chiese come mi fossi potuto convincere a rinunciare a così tante comodità della vita. Risposi che, ne sono molto sicuro, mi piaceva discretamente; non stavo scherzando. E così andai a casa e mi misi a letto, e lo lasciai in cammino, al buio e nel fango, verso Brighton – o la Città dei buoi – luogo che avrebbe raggiunto a una certa ora del mattino.

A un morto, ogni prospettiva di svegliarsi o venire alla luce rende indifferenti qualunque tempo o luogo. Il luogo dove può avvenire è sempre lo stesso, e indescrivibilmente piacevole a tutti i nostri sensi. Per lo più, noi permettiamo solo a circostanze esteriori e transitorie di creare delle occasioni. Ma quelle sono, in effetti, le nostre cause di distrazione. Più prossimo a tutte le cose è quel potere che ne plasma l’essere. Vicino a noi le leggi più grandi sono continuamente messe in atto. Vicino a noi non è l’operaio che abbiamo assunto, con cui amiamo tanto parlare, ma l’operaio di cui noi siamo il lavoro.

“Com’è vasta e profonda l’influenza dei sottili poteri del cielo e della terra!

“Cerchiamo di percepirli e non li vediamo; cerchiamo di udirli e non li udiamo; identificati con la sostanza delle cose, non possono esserne separati.

“Essi fanno sì che in tutto l’universo gli uomini purifichino e santifichino i loro cuori, e indossino gli abiti della festa per offrire sacrifici e oblazioni ai loro antenati. È un oceano di sottili intelligenze. Sono ovunque, sopra di noi, alla nostra sinistra, alla nostra destra; ci circondano da tutti i lati.”

Siamo i soggetti di un esperimento che mi interessa non poco. Non possiamo fare a meno della società del pettegolezzo, in queste circostanze, e avere i nostri pensieri a rallegrarci? Confucio dice con sincerità: “La virtù non rimane un orfano abbandonato; deve necessariamente avere dei vicini”.

Col pensiero possiamo essere accanto a noi stessi, nel senso giusto. Con un consapevole sforzo della mente possiamo elevarci dalle azioni e dalle loro conseguenze; e tutte le cose, buone e cattive, ci scorrono accanto come un torrente. Non siamo completamente coinvolti nella Natura. Posso essere legna trasportata dalla corrente, o Indra che la guarda dal cielo. Posso essere toccato da uno spettacolo teatrale; d’altro canto, posso non essere toccato da un evento reale che sembra riguardarmi molto di più. Conosco solo me stesso come entità umana; la scena, per così dire, dei pensieri e degli affetti; e sono sensibile a una certa doppiezza con la quale posso rendermi distante da me stesso come da un altro. Per quanto sia intensa la mia esperienza, sono consapevole della presenza e della critica di una parte di me, che, per così dire, non è parte di me ma uno spettatore, che non condivide l’esperienza ma ne prende nota; e questo non è più “me” che “te”. Quando finisce lo spettacolo, possiamo dire la tragedia, della vita, lo spettatore va per la sua strada. Era una sorta di racconto, solo un’opera dell’immaginazione per quanto lo riguardava. Questa doppiezza, talvolta, ci può rendere pessimi vicini e amici.

Trovo salutare essere da solo per gran parte del tempo. Essere in compagnia, anche dei migliori, è spesso stancante e fatuo. Amo essere da solo. Non ho mai trovato un compagno che mi desse tanta compagnia come la solitudine. Per lo più, siamo più soli quando usciamo fra gli uomini che quando restiamo nella nostra camera. Un uomo che pensa o lavora è sempre solo, lasciamolo stare dove vuole. La solitudine non si misura dalle miglia di spazio che si frappongono fra un uomo e i suoi simili. Lo studente davvero diligente in uno degli affollati alveari del Cambridge College è solitario come un derviscio nel deserto. Il contadino può lavorare nei campi o nei boschi tutto il giorno, zappando o tagliando legna, senza sentirsi solo, perché è impegnato; ma quando torna a casa la notte non riesce a star seduto in una stanza da solo, alla mercé dei suoi pensieri, ma deve stare dove possa “vedere gente”, rilassarsi e – pensa lui – ricompensarsi per la solitudine della sua giornata; dunque si chiede come fa lo studente a sedere da solo in casa tutta la notte e gran parte del giorno senza noia e malinconia “blu”; ma non si rende conto che lo studente, anche se a casa, è ancora al lavoro nel suo campo, e taglia la sua legna, come il contadino nel suo, e a sua volta cerca la stessa ricreazione e la stessa compagnia dell’altro, anche se in forma più compatta.

La compagnia è normalmente troppo facile da avere. Ci incontriamo a brevi intervalli, senza aver avuto tempo di acquisire alcun nuovo valore per l’altro. Ci incontriamo per i pasti tre volte al giorno e diamo un assaggio a quel formaggio vecchio e muffito che siamo. Abbiamo dovuto concordare un certo sistema di regole, chiamato etichetta e buona educazione, per rendere tollerabili questi frequenti incontri, perché non si giunga alla guerra aperta. Ci incontriamo all’ufficio postale, alla riunione e intorno al caminetto ogni sera; viviamo attaccati, ci togliamo spazio a vicenda, e inciampiamo l’uno nell’altro; e penso che così perdiamo un po’ di rispetto reciproco. Di certo una frequenza minore basterebbe a tutte le comunicazioni importanti e cordiali. Considerate le ragazze di una fabbrica, mai sole, nemmeno nei sogni. Sarebbe meglio se abitassero ciascuna in un miglio quadrato, come faccio io. Il valore di un uomo non sta nella sua pelle, che lo dobbiamo toccare.

Ho sentito di un uomo perduto nei boschi, morente di fame e stanchezza ai piedi di un albero, la cui solitudine trovò sollievo per le grottesche visioni con cui, a causa della debolezza corporea, lo circondò la sua immaginazione malata, e che credeva reali. Così anche noi, grazie alla salute e alla forza fisica e mentale, possiamo continuamente essere tenuti allegri da una simile – ma più normale e naturale – compagnia, e giungere a sapere di non essere mai soli.

Ho molta compagnia nella mia casa; specialmente la mattina, quando non ci sono visitatori. Fatemi suggerire qualche paragone, che può trasmettere un’idea della mia situazione. Non sono più solo del tuffolo nel lago, che ride a voce così alta, o dello stesso Lago di Walden. Quale compagnia ha quel lago solitario, dico io? Eppure non ha diavoli blu, ma angeli, nel colore azzurro delle sue acque. Il sole è solo, tranne nel cielo coperto, quando talvolta sembrano essercene due, ma uno è per finta. Dio è solo, ma il diavolo è tutt’altro che solo; frequenta tante compagnie; è legione. Non sono più solo di un barbasso o di un dente di leone nel pascolo, di una foglia di fagiolo, di un’acetosa, di una mosca cavallina, o di un calabrone. Non sono più solo del Mill Brook, il Ruscello del mulino, di una banderuola segnavento, della stella polare, del vento del sud, di una pioggia di aprile, del disgelo di gennaio, o del primo ragno in una casa nuova.

Ho visite occasionali nelle lunghe sere d’inverno, quando la neve cade forte e il vento ulula nel bosco, da parte di un vecchio colono, un proprietario originario, che si dice abbia scavato il Lago di Walden, costruendone gli argini di pietra e circondandolo di legno di pino; che mi racconta storie dei vecchi tempi e di nuove eternità; e fra noi riusciamo a passare una serata gioiosa con allegria sociale e piacevoli visioni delle cose, anche senza mele o sidro – un uomo molto saggio e simpatico, a cui voglio molto bene, che rimane più riservato di quanto abbiano mai fatto Goffe o Whalley; e anche se si ritiene sia morto, nessuno sa mostrare dove sia sepolto. Anche un’anziana gentildonna dimora nelle vicinanze, invisibile a quasi tutti, nel cui giardino dalle erbe odorose amo talvolta passeggiare, raccogliendo erbe medicinali e ascoltando le sue favole; perché ha un genio dalla fertilità senza pari, e mi sa raccontare l’originale di ogni favola, e su quale fatto si basi ciascuna, perché l’evento accadde quando lei era giovane. Una vecchia dama arzilla e rubiconda, che prova gioia in ogni tempo e in ogni stagione, e che probabilmente sopravviverà a tutti i suoi figli.

L’indescrivibile innocenza e beneficenza della Natura – del sole, del vento e della pioggia, dell’estate e dell’inverno – concedono per sempre una tale salute e una tale allegria! E tale simpatia hanno verso la nostra razza che tutta la Natura sarebbe toccata, e impallidirebbe lo splendore del sole, i venti sospirerebbero con voce umana, le nubi piangerebbero lacrime, e i boschi perderebbero le foglie spogliandosi a mezz’estate, se solo un uomo provasse dolore per una giusta causa. Non avrò comunicazione con la terra? Non sono anch’io in parte fatto di foglie e di forma vegetale?

Dov’è la pillola che ci fa star bene, sereni, contenti? Non quella mia o quella del mio bisnonno, ma le medicine universali, vegetali, botaniche della nostra nonna Natura, con le quali lei si è mantenuta sempre giovane ed è sopravvissuta a così tanti vecchi Parr dei suoi tempi, nutrendo la sua salute col loro grasso in decadimento. Come mia panacea, invece di una di quelle fiale da ciarlatani, attinte dall’Acheronte e dal Mar Morto, che ci arrivano da quei lunghi carri bassi, simili a golette nere, che talvolta vediamo trasportare bottiglie, fatemi avere un sorso d’aria del mattino, non annacquata. L’aria del mattino! Se gli uomini non la berranno alla sorgente del giorno, allora dobbiamo imbottigliarne un po’ e venderla all’emporio, a beneficio di chi ha perso il biglietto dell’abbonamento alle ore del mattino in questo mondo. Ma ricordate, non si manterrà neppure fino a mezzogiorno, anche nella cantina più fresca, ma farà saltare il turacciolo molto prima, seguendo verso ovest i passi di Aurora. Non sono un adoratore di Igea, che era figlia di quel vecchio dottore erborista, Esculapio, e che è rappresentata sui monumenti tenendo un serpente in una mano, e nell’altra una tazza da cui talvolta beve il serpente; ma di Ebe, coppiera di Giove, che era figlia di Giunone e della lattuga selvatica, e che aveva il potere di riportare dei e uomini al vigore della gioventù. Fu probabilmente l’unica giovane donna dalla costituzione interamente solida, sana e robusta che abbia mai calcato il globo, e ovunque arrivasse era primavera.

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