lunedì 10 gennaio 2022

IL LETTORE SUL LETTINO Di Guido Vitiello

 
IL LETTORE SUL LETTINO 

Di Guido Vitiello

Ho amato i libri di un amore passionale, poligamico, vizioso, incontenibile, maniacale. Ho sedotto e stuprato libri. Ho abbandonato libri in stato interessante. Ho ucciso libri per gelosia, altri ho scelto per odio di altri libri che non volevano amarmi.

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa

Guido Vitiello è filosofo di formazione e sicuramente lettore per disposizione genetica. È docente di cinema e tiene due rubriche giornalistiche. Quella su “Il Foglio” si chiama Il Bi e il Ba (a qualcuno viene in mente Nino FRASSICA?). Quella su “Internazionale” si intitola Il bibliopatologo risponde, che è tutto un programma.

In questo suo saggio, Il lettore sul lettino. Tic, manie e stravaganze di chi ama i libri (Einaudi 2021), dal tono ironico e nel contempo colto, Guido Vitiello propone delle riflessioni a impronta psicanalitica su varie tipologie di lettori (libridinosi, bibliomaniaci, devoti del parallelepipedo), dal lettore dongiovannesco a quello cataloghista, dal lettore monogamico a quello poligamico. Una riflessione che va dal modo di leggere al modo di relazionarsi col libro.

Lo sapevate che gli uomini portano i libri quasi fossero una 24 ore mentre le donne tendono a tenerli in grembo quali neonati da accudire?
E poi ci sono gli accumulatori di libri che li raccolgono, anzi li accolgono nella propria vita per possederli (“tsundoku”) e non per leggerli,
“Tsundoku è una parola d’uso colloquiale che si può tradurre come “l’atto di comprare un libro per poi non leggerlo, di solito mettendolo in una pila di altri libri non letti”.”
Anche perché chi è sempre capace di portare a termine la lettura, accettando di giungere alla fine del rapporto? Il rischio di depressione post lettura è severo:
“Si annuncia verso tre quarti del libro, quando lo spessore delle pagine residue si assottiglia: i più tenaci si impongono di centellinare quel che resta, ma presto o tardi l’appuntamento tanto temuto con la parola fine arriva.”

Molte e interessanti le variegate informazioni che troviamo in questo saggio. Ad esempio: che dire del citato artista americano Dennis Malone, che ha trascritto Moby Dick su sei rotoli di carta igienica? Quale sarà stata la sua idea?
Non da ultima è sicuramente apprezzabile l’ampia bibliografia citata dall’autore. Offre interessanti spunti per chi, dopo aver letto il saggio, ha intenzione di continuare a leggere serialmente…
Personalmente, sono d’accordo con Plinio il Vecchio:

“Nullus est liber tam malus, ut non aliqua parte prosit: nessun libro è così cattivo che in qualche sua parte non possa giovare.”
Ma questo vale solo per le letture attive. A mio modesto avviso, quelle passive hanno soprattutto dell’erotomanico o, più candidamente, sono dei racconti tra il mitologico e il favolistico simili e stimolanti l’attività onirica; secondo il filosofo francese Jules De Gauthier: “Il potere concesso all’uomo di credersi diverso da quello che è”. Ovvero la possibilità di trovare un mondo alternativo gratificante, forse compensatorio come nel caso dei “viveurs de romans” quali Don Chisciotte e Madame Bovary.
Perché molti lettori sottolineano i libri, ci scribacchiano sopra, fanno le orecchie ai bordi delle pagine, mentre altri guardano con orrore al più lieve maltrattamento? E quali segreti custodiscono gli scaffali delle biblioteche domestiche? Se i volumi sono disposti in file doppie, cosa si nasconde nelle retrovie? Una ricognizione ricca e spiazzante di quelle perversioni che rendono erotico e nevrotico il nostro rapporto con i libri. Come nelle migliori famiglie, anche in quella degli amanti dei libri non manca qualche zio matto, il cui ritratto è tenuto prudentemente in soffitta: il collezionista pluriomicida, il cleptomane impenitente, quello che si mangia la carta. Ma non è di loro che parla questo libro. Più che ai lettori psicotici, si dedica ai turbamenti del lettore nevrotico, che poi altri non è che il lettore comune. C’è chi è colto dall’angoscia se deve prestare un libro; chi si obbliga, mentre legge, a non sbadigliare; c’è il lettore poliamoroso che legge più libri contemporaneamente o, al contrario, il monogamo seriale che non tocca un romanzo prima di averne finito un altro; chi si vergogna a dire di non aver letto un classico e perciò l’ha sempre, per definizione, «riletto » e chi annota i libri seguendo un proprio cifrario idiosincratico... Se è vero che la lettura è un «vizio impunito» che ci porta a considerare normali dei comportamenti che in qualunque altro ambito apparirebbero perversi – pensiamo al gesto di annusare voluttuosamente la carta –, allora non dobbiamo stupirci di fronte alle mille stramberie del lettore comune, che, visto da vicino, ci apparirà molto meno comune di quanto sembra. Un campionario brillante, colto e divertente delle abitudini che circondano l’uso dei libri e dei meccanismi profondi che regolano i piaceri e i dispiaceri della lettura.
IL LETTORE SUL LETTINO

 Curar nevrotici con la propria autoanalisi

Cinque cents, prego.

Lucy van Pelt

C’è una vecchia battuta, di solito attribuita al drammaturgo Jerome Lawrence, ma credo dovuta in origine al genio di un chirurgo inglese, Lord Webb-Johnson. Dice pressappoco cosí: il nevrotico costruisce castelli in aria, lo psicotico ci abita, lo psichiatra riscuote l’affitto. È la battuta chiave di questo libro: tutto sta a mettere «librerie» al posto di «castelli».

Qualcuno la prende un po’ troppo alla lettera, rivelando una sinistra contiguità tra la biblioteca domestica del maniaco dei libri e la stanza imbottita dell’ospedale psichiatrico. Pensate a Jean des Esseintes, il dandy parigino di Controcorrente di J.-K. Huysmans, che si fa rilegare pareti e soffitto in marocchino per vivere in una specie di libro gigante; o al sinologo Peter Kien, protagonista di Auto da fé di Elias Canetti, che tappezza le pareti di libri fino al soffitto e fa murare anche le finestre, accontentandosi della luce che filtra dai lucernari (non va a finire bene, come si può intuire dal titolo incendiario e da qualche semplice considerazione sull’infiammabilità della carta); o ancora a Carlos Brauer, il bibliofilo impazzito di un romanzo breve di Carlos María Domínguez, La casa di carta, che edifica su una spiaggia sperduta una casupola di libri-mattoni:

Un Borges per completare la base della finestra, un Vallejo accanto alla porta, con sopra Kafka e di fianco Kant, e una dura edizione rilegata di Addio alle armi, di Hemingway; e poi Cortázar, e Vargas Llosa, sempre voluminoso; Valle-Inclán con Aristotele, Camus con Morosoli, e Shakespeare, fatalmente legato a Marlowe dall’impasto di cemento; tutti destinati a innalzare un muro, a gettare ombra.

E va bene, direte voi, questi sono romanzi. Ma non v’illudete: le cronache dei secoli passati, specie dell’Ottocento, riportano casi perfino piú inquietanti. Un picchiatello inglese, tale Sir Thomas Phillipps, si era messo in testa di procurarsi una copia di ogni libro in circolazione, e quando morí lasciò detto nel testamento che nessuno si azzardasse a riordinare la sua inumana collezione, racchiusa in un edificio in stile neogreco che pareva il Partenone, e soprattutto che non ci mettesse piede il genero, che sospettava essere un ladro di manoscritti. Un suo connazionale, Sir Richard Heber, dovette comprare otto case – quattro in Inghilterra, quattro nel continente – per sistemare i suoi libri, ciascuno dei quali possedeva in tre copie: la prima per conservarla, la seconda per leggerla, la terza per prestarla agli amici. Il grado eroico della bibliomania ha ispirato anche crimini, di solito circondati da un alone leggendario – dalla cleptomania di un conte e matematico opportunamente chiamato Guglielmo Libri agli omicidi multipli di Johann Georg Tinius, pastore protestante che uccise due ricche vedove a colpi di martello per soddisfare la sua fame di libri. E non poteva mancare il cannibale, nella fattispecie quello che si mangia la carta – tutti ne hanno avuto uno in classe, all’asilo, ma l’avventuriero settecentesco Johann Ernst Biren pensò bene di continuare anche da grande.

Come nelle migliori famiglie, insomma, anche in quella degli amanti dei libri non manca qualche zio matto, il cui ritratto è tenuto prudentemente in soffitta. Sono casi studiati dagli psichiatri, schedati dai criminologi, frugati morbosamente dagli amanti delle bizzarrie. Ma non è di loro che parlerà questo libro, se non per additarli come spauracchi, come fantasmi ammonitori, come esempi iperbolici di vizi che generalmente si presentano in forma meno eclatante. Piú che ai lettori psicotici, insomma, ci dedicheremo ai turbamenti del lettore nevrotico, che poi altri non è che il lettore comune – quel common reader di cui Virginia Woolf tracciò quasi cent’anni fa un identikit tuttora utile.

Il lettore comune, scriveva Woolf nel 1925, va tenuto ben distinto dal critico e dallo studioso. Non si presume che sia coltissimo e, a dirla tutta, neppure troppo intelligente. Legge per suo diletto, non per impartire conoscenza agli altri o raddrizzarne le opinioni. Può permettersi quindi di essere frettoloso, approssimativo, superficiale. È libero di fare e disfare mondi nella fantasia, e mentre legge «non smette mai di tirar su un suo pur sgangherato e traballante edificio» (eccoli, i castelli in aria del lettore nevrotico). Incontriamo questo ritratto sulla soglia di una celebre raccolta di saggi di Virginia Woolf, Il lettore comune. È l’iscrizione benevola all’ingresso di un tempio, messa lí per non scoraggiare i passanti e i semplici curiosi, che potrebbero fuggire intimiditi. Peccato però che, visto da vicino, il lettore comune sia meno comune di quanto sembrava. Solo che per accorgercene dobbiamo entrare nel tempio da una porticina laterale.

Facciamo qualche passo indietro – una pagina appena – e noteremo che prima di quel ritratto cosí affabile e lusinghiero del lettore comune Virginia Woolf aveva apposto una dedica: A Lytton Strachey. Suo amico intimo, lui pure critico e scrittore, nel giro di Bloomsbury lo chiamavano the great Strachey; e non per vezzeggiarlo, né per accostarlo scherzosamente a Gatsby o ad Alessandro Magno, ma per distinguerlo da the little Strachey, ossia il fratello minore James, psicoanalista e traduttore in inglese delle opere di Sigmund Freud, di cui negli anni Venti era stato anche paziente. È lui la nostra porticina. Il 19 marzo del 1930, alla British Psycho-Analytical Society di Londra, il piccolo Strachey aveva tenuto un intervento dal titolo: Some Unconscious Factors in Reading. Era la prima ferita narcisistica inferta al lettore comune.

Strachey aveva osservato delle strane abitudini in alcuni dei suoi pazienti. Uno di loro, per esempio, leggeva con enorme difficoltà, paralizzato da mille inibizioni. Teneva sempre una matita in mano, e in fondo a ogni pagina – ma solo se aveva la certezza di aver capito tutto – metteva una spunta. Questo nei giorni buoni, intendiamoci; perché nei giorni cattivi metteva una spunta alla fine di ogni paragrafo, o di ogni riga. Nei periodi veramente bui, o se il libro gli pareva di speciale importanza, una spunta dopo ogni parola. Inutile dire che leggeva ben poco; in compenso consumava moltissime matite. Un altro paziente di Strachey, correttore di bozze (che come vedremo è una patologia a sé), viveva nella perenne ossessione che gli fosse sfuggito qualche refuso madornale, e questo dubbio lo obbligava a leggere e rileggere in continuazione. Casi come questi mostrano che al lettore comune di Virginia Woolf, che in teoria dovrebbe leggere for his own pleasure, a volte è precluso ogni piacere.

Ma di che natura è il piacere della lettura? Quali pulsioni serve a sublimare? Strachey rispondeva che accanto alla scopofilia (il piacere di guardare) e alle pulsioni della fase anale (il piacere di ordinare e immagazzinare) il ruolo dominante lo giocano le pulsioni legate alla fase orale. Lo rivelano metafore molto comuni: lettori «voraci», libri «indigesti» e altri che si lasciano «divorare». Il lettore immerso nel suo libro, irritato da qualunque fonte di disturbo, ricorda il poppante attaccato al seno materno. Non a caso, notava Strachey, i bambini leggono sempre tenendo a portata di mano qualcosa da sgranocchiare, o mal che vada si mettono un dito in bocca; e anche gli adulti sprofondano nella poltrona piú comoda con una pipa e un whisky e soda (parlava evidentemente degli adulti degli anni Trenta, quelli che noi abbiamo visto solo nei film). Fin qui tutto bene. Ma lo stadio orale dello sviluppo psicosessuale, insegna Freud, è diviso in due fasi; alla beatitudine sdentata del poppante segue presto la fase sadico-orale, e gli ostacoli al piacere della lettura secondo Strachey derivano da lí. Quando prevalgono le tendenze distruttive, non ci nutriamo piú fiduciosamente delle parole altrui, ma le addentiamo, le sminuzziamo, vogliamo assaggiarle bene prima di mandarle giú, per paura che siano velenose. Ecco spiegate le piccole manie dei due pazienti ossessivi.

E cosa rappresentano inconsciamente i libri? Qui la conferenza prendeva una piega alquanto disgustosa, e possiamo solo augurarci che sia stata tenuta lontano dai pasti: ne parleremo piú in là. Diciamo intanto che, in un crescendo visionario, Strachey trasformava il libro in un grande teatro edipico in cui la pagina vergine sta per il corpo materno, le parole stampate sono i pensieri fertili ma profanatori emessi dal padre, e il lettore ha la parte del figlio «desideroso di farsi strada con violenza nel corpo della madre, di scoprire cosa c’è dentro, di strappare via da lei le tracce del padre, di divorarle, di farle proprie, di esserne lui stesso fecondato». Ecco perché, osservava in una noticina in coda, molti lettori sottolineano i libri, ci scribacchiano sopra, li mutilano, fanno le orecchie ai bordi delle pagine, mentre il vero bibliofilo – che a quanto pare è paralizzato dal triangolo edipico – guarda con orrore al piú lieve maltrattamento.

Ricapitolando: nel common reader si nascondono un poppante recidivo, un voyeur, un maniaco dell’ordine, un sadico, uno stupratore incestuoso, un parricida. E ora tutti a chiedere scusa a Baudelaire, che ci aveva dato solo degli ipocriti.

Leggere è un vizio, «come tutte le abitudini alle quali torniamo con un sentimento vivo di piacere, nelle quali ci rifugiamo e ci isoliamo, e che ci consolano e ci servono da rivincita nelle nostre piccole delusioni», riconobbe il poeta Valéry Larbaud negli stessi anni in cui Virginia Woolf blandiva il lettore comune; ma è anche, a differenza di quasi tutte le altre abitudini compulsive, un vice impuni, un vizio impunito «che ci dà l’illusione di condurci alla virtú». Ne consegue che piú siamo viziosi, piú ce ne vantiamo. È la radice di quasi tutti i problemi che ci affliggeranno nelle prossime pagine, e nessuno ha saputo dissotterrarla meglio di Somerset Maugham nel racconto Il sacco dei libri:

C’è chi legge per istruirsi, cosa lodevole; c’è chi legge per divertimento, gusto innocente, ma molti leggono per abitudine, e questo non mi sembra né lodevole né innocente. A questa deplorevole categoria appartengo io stesso. La conversazione, dopo un certo tempo, mi secca; i giochi di società mi stancano, e i pensieri miei, che dovrebbero essere il conforto immancabile dell’uomo ragionevole, tendono a esaurirsi. Allora mi precipito sui libri come un fumatore d’oppio che si getta sulla sua pipetta. Piuttosto di nulla mi leggerei l’orario delle ferrovie o il catalogo dell’Unione Militare, anzi ho trascorso molte ore piacevoli leggendo l’uno e l’altro. C’era un tempo che non uscivo mai senza portare in tasca un catalogo di libri usati, lettura fra le piú gustose. Naturalmente leggere in questa maniera è paragonabile al vizio degli stupefacenti, e stupisco sempre della faccia tosta di chi, leggendo tutto il giorno, disprezza gli analfabeti. Da quale punto di vista superiore è preferibile aver letto mille libri invece di aver arato mille solchi? Ammettiamo che per noi la lettura è soltanto uno stupefacente, di cui non possiamo fare a meno. Chi di noi non conosce l’irrequietezza che lo prende quando è stato troppo tempo senza leggere? L’affanno, il cattivo umore; e il sospiro di sollievo appena trova una pagina stampata? Evitiamo dunque di vantarcene, come non si vantano i miseri schiavi della siringa o del mezzo litro.

Potrebbe essere l’avvio di una ipotetica terapia di disintossicazione per i bibliodipendenti. Come nei famosi twelve steps degli Alcolisti Anonimi, anche qui il primo dei dodici passi del programma è la dichiarazione di resa: dobbiamo ammettere che siamo in balía di una forza piú grande di noi, e che questa forza ha poco a che fare con il piacere della lettura, non piú di quanto l’alcolismo abbia a che fare con il gusto per il vino (i due vizi, per inciso, possono combinarsi benissimo: «Assaporai sulla lingua una frase, ed era piú buona del vino», dice il lettore-bevitore di un altro racconto di Maugham, L’elemento umano).

Ironicamente, l’illuminazione sullo stadio avanzato della mia bibliomania mi è arrivata per posta una decina d’anni fa. Mi recapitarono un misterioso pacco che conteneva il libro di un certo Ernest Kurtz intitolato Not God: A History of Alcoholics Anonymous. Da dove sbucava? Era un errore di spedizione? Chi me lo aveva regalato? E perché mandare proprio a me un tomo di 450 pagine sulla storia degli Alcolisti Anonimi? C’era una lezione da imparare, o era addirittura un avvertimento malavitoso, una minaccia trasversale? La verità, una volta scoperta, fu ben piú umiliante: lo avevo ordinato io stesso in un accesso di accumulazione selvaggia, e me ne ero scordato.

Su questa nevrosi diffusa si era soffermato il filosofo Giuseppe Rensi nelle Lettere spirituali:

Quante volte non ti è accaduto di sentire che se non hai quel libro ti manca un elemento capitale della tua cultura, di resistere a lungo alla tentazione di acquistarlo, ma invano, ché piú resistevi piú quel libro ti appariva indispensabile e vergognoso l’esserne privo; e, quando finalmente hai ceduto e lo hai acquistato, dopo un’occhiata all’indice e ad alcune pagine, vederti improvvisamente venir meno il bisogno di esso, cosicché non lo hai letto piú per gran tempo seppure lo hai letto mai! Non accade diversamente circa il desiderio d’una donna.

È un dongiovannismo cartaceo a cui si addice l’aggettivo coniato dall’editore Vanni Scheiwiller, libridinoso, e forse cosí dovremmo chiamarci: Libridinosi Anonimi. Non fosse che la lussuria è tutto sommato il minore dei nostri vizi. Leggete Louis Bollioud-Mermet (Sulla bibliomania, 1761) e scoprirete che il bibliomane ha ottimi punteggi in tutti i peccati capitali. Non solo è un accidioso («si stabilisce in permanenza nei negozi dei librai, porta a spasso la sua noia da un negozio all’altro»), è anche un avaro che «non si stanca di accumulare tesori senza mai goderne», un superbo (le mensole affollate sono «archi di trionfo che il bibliomane ha innalzato alla propria ridicola vanità») e un goloso che «ha assaggiato ogni genere di dottrina» ma «si è nutrito male, in un modo piú adatto a esaurire le forze che ad aumentarle». Aggiungerei l’invidia per la libreria del vicino, che per definizione è sempre piú verde e piú ricca, e l’ira potenzialmente omicida verso chi tarda a restituirgli un libro prestato. Sette su sette.

Ma per tutti e sette ci amministriamo da soli l’assoluzione: non per caso lo chiamano il vizio impunito. I libri sono una zona franca in cui abitudini e inclinazioni che in qualunque altro ambito ci apparirebbero come sintomi nevrotici, compulsioni incontrollabili, oscure parafilie, diventano per magia motivi di vanto, adorabili idiosincrasie, segni di devozione al piú puro degli amori – l’amore per la cultura. Pensate solo al famigerato odore della carta, in cui tanti nostalgici tuffano avidamente il naso per scongiurare l’impoverimento sensoriale della parola elettronica. Ebbene, rispondiamo con un sorriso d’intesa a chi confessa, nel mezzo di una cena, di venerare l’odore di certe vecchie edizioni; ma strabuzziamo gli occhi se la stessa persona, con altrettanta franchezza, ci dice di andar matto per l’odore della lingerie appena indossata. Eppure, non si scampa: in entrambi i casi è in ballo quello che Freud chiamava Riechlust o piacere olfattivo. Certi odori, aggirando la barriera civilizzatrice della rimozione, riconducono il feticista a un paradiso perduto al di qua del pulito e dello sporco, un giardino di sensazioni sulle quali pesa ormai una condanna. Ma anche senza passare per Freud, è cosí grande la distanza tra Baudelaire che s’immerge nei «profumi pesanti di languore» di una chioma femminile, bevendo «a lunghi sorsi il vino del ricordo», e il bibliofilo che annusa la carta di un volume antico fino a gremire di fantasmi la sua alcova-biblioteca?

Stabilito che il lettore comune è un comunissimo nevrotico, resta da capire a che titolo io sia qui a riscuotere l’affitto dei suoi castelli in aria. Freud aveva contemplato il caso della psicoanalisi condotta da non medici, ma non di quella condotta da non psicoanalisti. E se era corso a prendere le difese dell’allievo Theodor Reik, accusato di esercizio abusivo della professione medica perché curava pazienti con una laurea in filosofia, nel mio caso, fidatevi, sarebbe il primo a chiamare i gendarmi. Tutto quel che posso vantare sono anni di esercizio abusivo di una professione abusiva, condotto impunemente nella speranza che i due abusi, anziché sommarsi, si elidessero. Nel 2016 ho creato una rubrica delle lettere sul sito del settimanale «Internazionale», Il bibliopatologo risponde, con l’idea di arrivare a una prima ricognizione delle abitudini, dei tic, delle fobie e dei rituali che circondano l’uso dei libri – il primo Rapporto Kinsey sulle perversioni inconfessate del lettore. Dopo trecento casi clinici e altrettanti accessi di ipocondria dello sventurato analista, è stato chiaro che la mia sola autorità era quella del nevrotico tra i nevrotici. Come il dottor Fassbender di Ciao Pussycat – un Peter Sellers con una parrucca agghiacciante e un fortissimo accento tedesco – «io uso ogni tipo di cura, purché non sia ortodosso». Dalla cassetta degli attrezzi della psicologia e della psicoanalisi sono pronto a estrarre gli utensili piú vari – teorie nobili, meno nobili, desuete, eccentriche, incoerenti, in lotta l’una con l’altra – purché mi consentano di lanciare congetture sui meccanismi profondi che regolano i piaceri e i dispiaceri della lettura.

E per darvi subito un’idea di quanto sono spregiudicato, ho esordito con un piccolo gesto di cleptomania: il titolo di questa introduzione l’ho rubato a un libro di Cesare Musatti, Curar nevrotici con la propria autoanalisi; il cui primo capitolo, nemmeno a farlo apposta, era Esercizio abusivo della professione medicaCinque cents, prego.


Coperte di Linus e stracci di lino

E ho visto l’eterno Lacchè reggere il mio soprabito ghignando,

E a farla breve, ho avuto paura.

T. S. Eliot, Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock

Il mio primo giocattolo – il primo di cui abbia memoria – è stato un libro: I Bis-Bis e gli animali del bosco, un piccolo album quadrato di Till & Magnus, misteriosi nomi scandinavi dietro cui si nascondevano un milanese e un genovese, l’illustratore Piero Ventura e lo scrittore per ragazzi Gian Paolo Ceserani. È spuntato fuori da uno scatolone un pomeriggio di qualche anno fa, mentre con flemma fantasticante riordinavo la soffitta della casa di famiglia. I Bis-Bis somigliavano molto ai Barbapapà, nati in Francia qualche anno prima, tanto da supporre che fossero due rami dello stesso albero genealogico, e che questo albero fosse per la precisione un pero, visto che dava frutti oblunghi, rotondetti e con dei fianchi generosi da venere ottentotta. I Bis-Bis avevano un nemico giurato, Giacca. Tanto loro erano paffuti quanto Giacca era impalpabile e spettrale: un’ombra con gli occhi sgranati, fasciata in un impermeabile grigio, che stava acquattata ora dietro a un cespuglio, ora dietro al tronco di un albero. Stanarlo nei disegni non sempre era facile, specie per un bambino di tre anni, e proprio questo era il gioco che facevo insieme alla mamma: «Dov’è Giacca?»; «Eccolo, Giacca!»

Senza saperlo, e con otto anni di anticipo sull’illustratore inglese Martin Handford, io e la mamma avevamo escogitato un rudimentale Where’s Wally? – la serie di libri per bambini dove devi far tana a un omino con una maglia da gondoliere a strisce bianche e rosse nascosto nella folla. Ma forse è piú corretto dire che entrambi i giochi erano variazioni del gioco piú antico del mondo – quello del cucú o bubú sèttete, per gli inglesi peek-a-boocou-cou per i francesi, Guck-Guck per i tedeschi: ogni bambino terrestre ha la sua formula locale da scandire. Si gioca a perdersi e a ritrovarsi, a perdere e a ritrovare la mamma, allenandosi cosí a padroneggiare l’angoscia della separazione e a capire che le cose e le persone continuano a sussistere anche mentre non le vediamo. Il nipotino di Freud, un bambino di un anno e mezzo di nome Ernst, si era inventato un gioco dello stesso genere usando un rocchetto di legno avvolto da un filo: prima lo scagliava lontano esclamando fort (via, lontano); poi, tirando il filo, lo richiamava a sé con un trionfale da (qui). La mamma va via, la mamma torna. Dobbiamo concluderne che il padre della psicoanalisi era anche il nonno di un infante di genio: a differenza del bambino comune, che scaraventa a terra le cose aspettandosi che un adulto da riporto, amorevolmente esasperato, le raccolga per lui, il piccolo Ernst aveva messo a punto un suo prototipo di yo-yo. Peccato che lo avessero già brevettato in America cinquant’anni prima: fort-da sarebbe stato, oltretutto, un nome piú appropriato di yo-yo, se pensiamo che i primi a giocarci – sotto il rivelatore nome di émigrette – erano stati gli aristocratici francesi che la Rivoluzione aveva scaraventato fort, lontano dalla madrepatria.

Ma torniamo ai Bis-Bis, al loro picnic nel bosco e alle macchinazioni del diabolico Giacca, appostato nel fitto del fogliame per rubare il cestino alla piccola brigata paffuta. Doveva essere la primavera del 1979 – l’ho ricostruito dal colophon del mio album perduto e ritrovato – quando i miei dovettero andare per qualche giorno a Firenze, lasciandomi a Napoli in balía di nonne e zie. Era la prima volta che partivano – ma cosa voleva dire, di preciso, «partire»? non ne avevo idea – ed è anche il mio ricordo piú antico: la mamma che saluta sorridente sulla soglia di casa come niente fosse, la porta che si chiude alle sue spalle, la luce del primo pomeriggio che di colpo si fa fioca e nemica, il grande soggiorno disabitato, un bambino inconsolabile che solo in quel momento intuisce il senso del verbo «partire» e che si getta sul lettone dei genitori con l’album dei Bis-Bis a domandarsi da solo, a voce alta: «Dov’è Giacca?»; salvo constatare che, una volta scovato tra i cespugli il villain con l’impermeabile grigio, la magia di sempre non si compiva piú.

Il mio primo giocattolo è stato un libro, ma io da solo non ci sapevo giocare.

Londra, 8 ottobre 1966. Lo yo-yo compie cent’anni, perlomeno nella forma brevettata dai due americani che hanno battuto sul tempo il piccolo Ernst; ma non è questa la ragione per cui la British Psycho-Analytical Society organizza un banchetto celebrativo. L’occasione è il completamento della traduzione delle opere di Freud, i ventiquattro volumi della Standard Edition, e il festeggiato è il nostro James Strachey. Proprio lui, il piccolo Strachey ormai settantanovenne (dunque a rigore non piú cosí piccolo) che si è votato per decenni a quell’opera monumentale con tanta forza d’immedesimazione da essere ormai indistinguibile a occhio nudo dal fondatore della psicoanalisi – stessa barba bianca, stessi baffi, stessa montatura di occhiali.

Prende la parola il presidente Donald Winnicott, psicoanalista geniale, che ha molto apprezzato all’epoca quell’articolo sull’inconscio del lettore. Winnicott conosce Strachey come le sue tasche, e Strachey a sua volta conosce anche il doppiofondo delle tasche di Winnicott, già che lo ha avuto in cura per dieci anni, al ritmo di sei sedute alla settimana: si fa in tempo a venirsi a noia. A fianco del presidente siede l’ospite d’onore Anna Freud, l’ultimogenita, l’unica ad aver portato avanti la ditta di famiglia (ha anche analizzato Ernst, il misconosciuto inventore dello yo-yo). Winnicott – un tipo eccentrico come solo certi inglesi di genio sanno essere – pensa bene di celebrare la Standard Edition con un discorso sull’unica cosa che nei ventiquattro volumi proprio non c’è, e che ne richiederebbe un venticinquesimo. Bel guastafeste, vero? Nella sua cartografia della mente umana, dice Winnicott, Freud si è dimenticato di assegnare un luogo alle nostre esperienze culturali. Certo, si è inventato l’idea della sublimazione, che è lo spostamento di una pulsione sessuale verso una meta piú nobile ed elevata, e alla luce di questa idea ha decifrato romanzi, miti, favole, racconti fantastici. Ma la sublimazione non è una regione a sé; indica semmai la varietà delle imprese architettoniche – dalle capanne del folklore ai castelli della grande arte – che l’umanità ha innalzato sul solo terreno edificabile, quello della sessualità. Se le radi al suolo, è di nuovo tutto sesso a perdita d’occhio. Possibile che la cultura non abbia, nella nostra psiche, una stanza tutta per sé?

Winnicott pensava di aver individuato sulle mappe la patria interiore delle nostre esperienze culturali, e in quel nuevo mundo aveva piantato la sua bandiera: lo battezzò Spazio Potenziale o Area dell’Illusione. È una regione che si dischiude lentamente tra l’io e il mondo, come per effetto di una deriva dei continenti. All’inizio, mamma e bambino sono una cosa sola – e diciamocelo, doveva essere una pacchia. Nove mesi di vitto e alloggio intrauterino, e poi, anche dopo il check-out, un trattamento di tutto riguardo. La mamma anticipa premurosamente ogni bisogno del neonato, sembra quasi che sia un’apparizione suscitata dalla sua onnipotenza, basta la scampanellata di un pianticello e lei – «Comandi?» – accorre. Certo, non durerà in eterno: presto il nostro poppante a pensione completa dovrà rassegnarsi all’idea che la locandiera ha un’esistenza indipendente dai suoi capricci, e che c’è tutto un mondo là fuori che non esiste solo per obbedire al suo estro. Ma salvo traumi precoci lo scoprirà per gradi, attraversando appunto l’Area dell’Illusione: uno spazio intermedio che sta tra l’io e il non io, tra il mondo soggettivo e il mondo oggettivo, dove si è uniti nella separazione e separati nell’unione, uno spazio che non è tutto materiale e non è tutto mentale, che non cade per intero sotto la dura giurisdizione della realtà ma neppure è plasmabile da cima a fondo per mezzo della fantasia. Questo soffice Stato-cuscinetto che si insedia tra il bambino e il mondo è la patria elettiva dei primi rudimentali giochi, a cominciare dal bubú sèttete, ma vedrà sorgere piú tardi i palazzi sontuosi dell’arte, della letteratura, della musica, della religione, della creazione scientifica, di tutte le espressioni della vita immaginativa.

Da grandi magari ci divertiremo nei giardinetti dello Spazio Potenziale con i Fratelli Karamazov, per quanto ci si possa divertire tra il muso lungo di Ivan e i dispetti di Smerdjakov; da piccolissimi, però, ci accontentavamo di compagni di gioco assai meno pretenziosi: il ciuccio, la bambola, l’orsacchiotto di pezza, il pannuccino impregnato di odori rassicuranti e familiari, il brandello di coperta dai mille usi tutti rigorosamente antiigienici. Winnicott li chiamò «oggetti transizionali», proprio perché servono a gestire i commerci tra l’io e il mondo, due regni confinanti e potenzialmente in guerra. Gli oggetti transizionali sono prolungamenti della nostra psiche, ma sono anche al di fuori di noi. Bambolotti e peluche non sono allucinazioni, tant’è vero che possiamo palparli, morderli, stropicciarli, esattamente come tutti gli altri oggetti; ma non sono neppure semplici cose tra le cose, pezzi intercambiabili del grande magazzino del mondo materiale. Sono oggetti prodigiosi, animati e inanimati allo stesso tempo: un orsetto, all’occorrenza, sa diventare il piú amorevole dei custodi, trattenendo il calore della mamma lontana o assente, salvo poi tornare disciplinatamente alla sua vita di stoffa. Se la mamma resta latitante troppo a lungo, la trattativa non va a buon fine e l’oggetto transizionale rischia di ossificarsi in feticcio, trasformando l’Area dell’Illusione in un reame tetro e senza gioia.

Una volta che l’io e il mondo hanno raggiunto un accordo di separazione consensuale, gli oggetti transizionali perdono gran parte della loro funzione mediatrice, ma questo non vuol dire che perdano del tutto le loro qualità, o che queste qualità non si apprendano ad altri oggetti con cui abbiamo a che fare nella vita adulta. Alcuni sono amuleti privati, decifrabili alla luce della storia personale di ciascuno; altri hanno portata epocale, e da qualche anno gli psicoanalisti descrivono lo smartphone come l’oggetto transizionale di un’intera generazione, già che negozia i nostri rapporti con il mondo, occupa uno spazio che non è materiale né mentale, e non ce ne separiamo piú volentieri di quanto Linus si separasse dalla sua coperta, foss’anche per il tempo di un bucato.

Ebbene, per noi lettori nevrotici i libri sono gli oggetti che meglio conservano le virtú miracolose di quei protogiocattoli. In parte lo si deve alla loro speciale natura. Sono oggetti materiali o mentali, i libri? Li tocchiamo, li annusiamo, li soppesiamo, li allineiamo sugli scaffali, li portiamo con noi nei nascondigli piú inviolabili, di solito li prestiamo malvolentieri, li sgualciamo o li maltrattiamo in vario modo. Nessuno può negare che appartengano al mondo fisico, come i cavatappi, le stampelle e gli orsacchiotti di pezza. Ma quando ci addentriamo nelle loro pagine, sono ancora inanimati? Pian piano, immersi nella lettura, ci dimentichiamo della loro esistenza materiale, della carta e dell’inchiostro; diventano una dépendance della nostra mente, e in quello spazio lasciamo che compiano ogni sorta di operazioni magiche: creano e distruggono universi, resuscitano i morti, fanno sparire per incanto la stanza intorno a noi e il peso del corpo, ci eccitano e ci placano, scatenano il batticuore, fanno affiorare le lacrime, sospendono il tempo e annullano lo spazio, risvegliano a tradimento i nostri ricordi piú segreti, ci tuffano nel trambusto di vite mai vissute che ci paiono in quel momento piú vere della nostra. Poi li chiudiamo, li riponiamo sullo scaffale ed ecco che di colpo, misteriosamente, tornano a essere dei mansueti parallelepipedi di carta tra parallelepipedi di carta.

Per quanto s’impegnino, a forza di titoli altisonanti, copertine contegnose e rilegature rispettabili, a far dimenticare i loro umili natali, basta percorrere a ritroso l’albero genealogico per dissotterrarne la radice infantile. Mi capita di sentirmi molto serio mentre leggo Il catechismo di Ginevra o il Leviatano; poi però mi ricordo che per me Calvin & Hobbes, prima che un riformatore religioso e un filosofo politico, erano stati, rispettivamente, un bambino di sei anni e la sua tigre di pezza che diventava una tigre viva, nei fumetti di Bill Watterson. E comincio a sospettare che un sottile filo genealogico allacci la coperta di Linus – l’oggetto transizionale piú famoso del mondo – agli stracci di lino con cui, mille anni fa, cominciammo a produrre la carta dei nostri libri.

Se l’idea del libro come coperta di Linus proprio non vi persuade, proverò con un’altra storia. Nel settembre del 1915, lo abbiamo visto, nonno Freud è in visita ad Amburgo, dove osserva il piccolo Ernst che lancia e rilancia il suo rocchetto di legno. Diciamolo: che passatempo deprimente. Avrà avuto almeno un orsacchiotto, il poverino? Immagino di sí, perché all’epoca li producevano per lo piú in Germania. In Gran Bretagna, invece, per via del blocco delle importazioni dovuto alla guerra, c’era abbondanza di bambini angosciati ma penuria di orsetti. Fu allora che la ditta Chad Valley Toys and Games di Harborne, Birmingham, decise di aggiungere al suo catalogo un Teddy bear, aprendo ai bambini del Regno la sua santabarbara di oggetti transizionali. Prima di far fortuna con gli orsacchiotti, però, i Johnson erano stati editori, e avevano legato il marchio Chad Valley ai libri e ai giochi da tavolo.

Nella lista dei loro libri-giocattolo ce n’è uno che salta all’occhio, in senso molto letterale: The Pop-up Book. Lo apri in un punto qualunque, e vien su un cartoncino sagomato con una figura umoristica, issato dalla tensione di un elastico. Oggi i libri pop-up sono molto comuni, e non c’è bambino che non abbia visto draghi, castelli, arcobaleni, sfere armillari o macchine leonardesche ergersi vertiginosamente dalle pagine in tutta la gloria della terza dimensione; ma nel primo Novecento erano una novità, e a dargli il nome che tuttora portano fu proprio The Pop-up Book, apparso in un momento imprecisato tra il 1912 e il 1914.

Questo per i bambini; perché per gli adulti ci stava pensando qualcun altro. Proprio nello stesso intervallo di anni, infatti, un appartato signore parigino cominciava a pubblicare a sue spese il piú strabiliante romanzo pop-up della storia. Lui però si faceva schermo dietro a un diverso trucco illusionistico:

E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, cosí ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

È la scena della madeleine, la piú celebre di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Il lettore arriva a queste righe e si ritrova di colpo bambino. Un intero villaggio – oplà – è spuntato per magia dalle pagine del libro che tiene tra le mani come una scodella di porcellana! E non un villaggio di figurine di cartone, disposte alla bell’e meglio come quinte teatrali; un villaggio animato, fiorito, brulicante di vita e di odori e di colori che d’un tratto gli sembrano piú vividi di quelli che intravede oltre i bordi della pagina. È l’illusione letteraria sorpresa nel suo stesso farsi. Non è servita neppure l’umile attrezzeria di scena dei libri pop-up: è bastato seguire con gli occhi delle file ordinate di segni neri su un rettangolo bianco, e per un dedalo di vie mentali che la familiarità non rende meno misteriose, siamo sbucati chissà come in un paesino della valle della Loira, cent’anni fa. Da quel momento in poi potremo visitarlo, sulla pagina e nell’immaginazione, per il resto dei nostri giorni.

Il mio primo giocattolo è stato un libro, e il mio primo libro è stato un giocattolo – del resto, quale carriera di lettore non è stata inaugurata da un volumetto di stoffa o di gomma? Ma anche tutti i libri successivi, in un modo o nell’altro, lo sono stati. Certo, perché la coperta di Linus compia i suoi prodigi bisogna saperci giocare, e bisogna soprattutto aver fiducia nei suoi poteri. E io, dopo quell’incidente lontano, quando temei che la mamma fosse scomparsa per non ricomparire mai piú, ho sempre faticato un po’. Tra il fort e il da, tra il bubú e il sèttete, erano passati troppi giorni di buio e di caos interiore perché potessi, in seguito, permettermi il lusso di giocare senza angoscia: l’Area dell’Illusione che Winnicott l’esploratore aveva scoperto e cartografato sarebbe rimasta, per me, una regione disseminata di pericoli e di terrori, circondata sulle mappe da iscrizioni ammonitrici e da disegni minacciosi di leoni o di draghi. O forse è solo il modo in cui me la racconto, perché ogni lettore nevrotico ha i suoi miti privati, le sue favole autobiografiche, i capitoli del suo romanzo familiare. Chissà se le cose andarono davvero come mi ostino a ricordarle, o se tutto si esaurí in un pianterello.

Quanto a Giacca, l’ospite non invitato che rovina il pic-nic, lo considero tuttora il mio piccolo Et in Arcadia ego – come in quei quadri del Seicento dove, tra ninfe e pastorelli, la Morte in persona viene a ricordare che neppure il piú luminoso degli idilli è al riparo dalla sua ombra nera: anche nell’Arcadia, io ci sono. L’avrei incrociato molte volte ancora, Giacca, nelle mie passeggiate di lettore, sempre mimetizzato in quella tenuta anonima da uomo d’affari o da professionista. Era l’eterno lacchè che regge il soprabito ghignando, nel Canto d’amore di J. Alfred Prufrock di T. S. Eliot. Era l’addetto al guardaroba che porge a Freud la contromarca con il numero 62, che lui teme sia una profezia sull’età della sua morte. Era l’uomo con l’impermeabile marrone che Leopold Bloom avvista per la prima volta al cimitero, e che farà capolino per tutto l’Ulisse: «Mr Bloom s’era fermato dietro, col cappello in mano, a contare le teste scoperte. Dodici. Sono il tredicesimo. No. Quel tale col macintosh è il tredicesimo. Il numero della morte. Da dove diavolo è uscito?»

E anche se l’Ulisse di Joyce è un libro un po’ diverso dai miei Bis-Bis, a ogni nuova apparizione dell’uomo con il macintosh una voce dentro di me ripeteva: «Dov’è Giacca?»; «Eccolo, Giacca!»

La disputa sul sesso dei libri

Che i libri siano il tuo harem e tu il loro Gran Turco.

Bernard-Henri Gausseron, Bouquiniana

Quando i barbari illetterati lanceranno l’assedio finale alla nostra cittadella di occhialuti e di inchiostrati, facciamo in modo che ci trovino riuniti in concilio a discutere sul sesso dei libri. Sarebbe una bella immagine da consegnare ai posteri, non vi pare? La scena dei dotti di Costantinopoli che disquisiscono sul sesso degli angeli con i Turchi alle porte, per quanto leggendaria, è letterariamente cosí bella che merita un rifacimento; tanto piú che la questione del sesso dei libri è meno bizantina di quanto sembri, e può avere ricadute molto concrete. Il regolamento di una biblioteca inglese, nel 1863, dava disposizioni precise contro la promiscuità e il concubinaggio: «Le opere degli uomini e quelle delle donne per decenza siano tenute separate e poste su scaffali lontani. La loro vicinanza è inammissibile a meno che gli autori non siano sposati». Misura ingenua, perché non sono certo i cromosomi e i gameti degli autori a determinare il sesso dei loro volumi. E allora, sono maschi o femmine i libri? Sono naturalmente ermafroditi, spiritualmente androgini, gender fluid? O dobbiamo considerarli oggetti asessuati?

Apriamo il nostro concilio bizantino, cari vescovi e metropoliti della religione del Libro. Vi risparmio il discorso inaugurale dell’imperatore, che in mancanza di meglio dovrei essere io, e do subito inizio alla prima sessione. Chiede la parola, a sorpresa, un chirurgo di Detroit trapiantato in California. Che sia un intruso, un perditempo? Leonard Shlain era un pioniere della chirurgia laparoscopica o mininvasiva, ma soprattutto era una delle innumerevoli appendici viventi a Bouvard e Pécuchet. Come i due amici dilettanti del romanzo incompiuto di Gustave Flaubert, infatti, il dottor Shlain ambiva a essere un uomo enciclopedico nell’epoca dello specialismo, cosa che di solito ti condanna a diventare un casinista – un casinista rinascimentale magari, ma pur sempre un casinista. E Shlain – che del resto si chiamava Leonard, e aveva scritto un libro sul cervello di Leonardo da Vinci – non fece eccezione. La laparoscopia gli stava stretta; lui voleva essere artista, inventore, antropologo, pedagogo, conferenziere, studioso di arte contemporanea, di fisica quantistica e, già che c’era, dei rapporti tra l’una e l’altra.

Nel 1998 il dottor Shlain pubblicò il suo libro piú fortunato, The Alphabet versus the Goddess. La tesi era alquanto spericolata. Per un tempo lunghissimo, di cui abbiamo perso quasi ogni traccia, regnava sull’umanità un matriarcato pacifico e benigno. Veneravamo la Grande Dea, e il nostro rapporto con il mondo era guidato dall’emisfero destro del cervello, olistico-intuitivo. L’immagine trionfava sul frigido logos. Ma tutto andò a rotoli quando «un abile Sumero, per la prima volta, impresse un bastoncino acuminato nell’argilla umida e inventò la scrittura». Da questo peccato originale – descritto non per caso come una penetrazione violenta, un’effrazione, quasi uno stupro simbolico – comincia a instaurarsi il dominio maschile, fondato sull’altro emisfero cerebrale, quello logico-discorsivo, e dunque sull’astrazione, sul calcolo, sul dualismo e su ogni sorta di dicotomie bellicose. Molti secoli dopo, la rivoluzione tipografica di Gutenberg avrebbe dato il colpo di grazia alla Dea. Ancora una volta, come nella celebre pagina di Victor Hugo, ceci tuera cela, il libro ucciderà la cattedrale; solo che cela per Shlain non era Notre-Dame, era addirittura la Grande Madre. Che feuilleton, ragazzi!

La ricetta di Shlain era tutto sommato semplice: sminuzzare le congetture piú arrischiate dell’ultimo Marshall McLuhan – il geniale mediologo canadese che Alberto Arbasino aveva già per suo conto paragonato a Bouvard e Pécuchet –, mescolarle alle speculazioni dell’archeologa lituana Marija Gimbutas sulla preistoria matriarcale e bollire il tutto in un’insipida brodaglia New Age. A rigore, il minestrone di Shlain era una delle tante sottomarche della zuppa Campbell, da intendersi non come industria conserviera produttrice di quei bei barattoli bianchi e rossi resi celebri dall’arte di Andy Warhol ma come Joseph Campbell, lo studioso di mitologia, psicologia junghiana e religioni comparate dall’incalcolabile influenza sul sincretismo californiano dell’ultimo mezzo secolo. Comunque si siano svolte le cose in cucina, nel piatto c’è una tesi perentoria: il libro, ci assicura il dottor Shlain, è maschio. Non solo: è il fondamento stesso del patriarcato, con i suoi dèi barbuti e i suoi imperiosi testi sacri, ed è il simbolo piú potente dell’alleanza tra il fallo e il logos… E qui si sente un brusio d’impazienza nella sala del nostro concilio: decostruzionisti e femministe, convenuti dalla Francia e dall’America, protestano che il legame tra il fallocentrismo e il logocentrismo è scoperta loro, che hanno perfino inventato un buffo neologismo per compendiarli, «fallogocentrismo». Ma c’è un motivo se ai loro arzigogoli – che non chiamerò bizantinismi per rispetto ai dotti di Bisanzio – ho preferito il fumettone di un affabulatore americano di talento: non vorrei che finissimo tutti a tifare per i Turchi.

Mormorii, sbuffi e mugugni dileguano non appena chiede la parola il secondo oratore: il dottor Sigmund Freud, da Vienna. Al suono di quel nome venerando, l’aula piomba in un silenzio carico di soggezione e di attesa. Cosa dirà, il padre della psicoanalisi? Scioglierà una volta per tutte il dilemma del sesso dei libri? Era facile ridacchiare sul dottor Shlain paragonandolo a Bouvard e Pécuchet, ma con il dottor Freud, penserete, è tutta un’altra storia. Guai però a sottovalutare la chiaroveggenza di Flaubert: neppure i piú grandi scampano alla sua satira preventiva. C’è un punto del romanzo in cui i due eclettici buontemponi – che si dedicano di volta in volta alla medicina, alla chimica, alla geologia, alla politica, alla letteratura, alla psicologia, alla ginnastica, allo spiritismo, alla magia, alla filosofia, alla pedagogia – hanno l’uzzolo di diventare archeologi. Si mettono cosí a tentare di decifrare i simboli dell’antichità piú remota:

Le torri, le piramidi, i ceri, le pietre miliari, e perfino gli alberi significavano il fallo, e per Bouvard e Pécuchet tutto divenne fallo. Raccolsero delle bilancine da carrozza, delle gambe di poltrone, dei catenacci di cantina, dei pestelli da farmacista. Quando qualcuno li vedeva, chiedevano: «A che cosa vi sembra che assomiglino?»

Poi confidavano il mistero e, se gli altri protestavano, alzavano le spalle in tono di compassione.

Vent’anni dopo Freud pubblica L’interpretazione dei sogni, e il gioco gli sfugge di mano: «Tutti gli oggetti allungati: bastoni, tronchi, ombrelli (per il modo di aprirli, che può essere paragonato all’erezione!) intendono rappresentare il membro maschile, cosí come tutte le armi lunghe e acuminate: coltelli, pugnali, picche». Per inciso, il paragone tra l’apertura dell’ombrello e l’erezione suscita molte domande, se non altro sugli strani ombrelli che dovevano circolare in casa Freud o sulla imperscrutabile meccanica del suo apparato genitale. L’elenco non è finito. I simboli fallici comprendono lime per unghie, cappelli da donna, cravatte, aerostati, rubinetti, annaffiatori, matite, funghi, lampade a saliscendi. «Tutti i complicati macchinari e gli apparecchi dei sogni sono con ogni probabilità organi genitali», cosí come «tutte le armi e tutti gli arnesi: aratro, martello, schioppo, rivoltella, pugnale, sciabola, e cosí via». Ma sono simboli fallici anche i fiori. E i capelli. E i nasi. E i bambini piccoli. E moltissimi animali: pesci, lumache, gatti, topi, serpenti… L’elenco è lungo, e nell’elenco il libro non c’è. Tutto sta ad aver pazienza, però: lo troveremo qualche anno dopo, nel 1917, in un paragrafo dell’Introduzione alla psicoanalisi dedicato al simbolismo dei sogni. Pozzi, fosse, caverne, bottiglie, scatole, astucci, valigie, borse, navi, barattoli rappresentano i genitali femminili, scrive Freud nel suo supplemento al catalogo. «Tuttavia anche certi materiali sono simboli della donna: il legno, la carta e certi oggetti che sono fatti con questi materiali, come il tavolo e il libro». E questo, capite bene, è un bel colpo di scena. Il libro, il nostro patriarca tascabile, sarebbe dunque un simbolo femminile? L’associazione è meno stravagante di quanto si pensi, e ha una lunga storia nell’immaginario colto e popolare, perlomeno dal Medioevo in giú. Ci si divertirono piú di tutti i poeti elisabettiani – e lo stesso Shakespeare non si tirò indietro. Nelle arguzie metaforiche dei secentisti il libro diventa una prostituta, disponibile giorno e notte a chi voglia compulsarla; ed è anche, tramite l’allusione pruriginosa al two-leaved book, un’immagine dei genitali della donna.

Freud però non va al di là di questa breve catena di associazioni: la materia prima femminile del legno, la carta, il libro. È il momento di dar la parola a Melanie Klein, viennese approdata a Londra, che ha dedicato il meglio dei suoi studi alla psicoanalisi dei bambini, e che dalla fine degli anni Venti ha fatto scoperte essenziali per il tema del nostro concilio. Klein si spinge piú in là del maestro: non solo il libro è femmina, ma il corpo della madre è il nostro libro originario, il primo che vogliamo leggere voracemente, a costo di sgualcirlo o di smembrarlo. Nelle fantasie dei suoi piccoli pazienti Klein aveva visto spesso all’opera il Wisstrieb – bella parola freudiana che nella traduzione macchinosa di Strachey era diventata la «pulsione epistemofilica», ma che noi possiamo confidenzialmente chiamare desiderio di conoscenza. Il bambino vuole sapere cosa c’è dentro il corpo della mamma; ma questa curiosità, germe di ogni futura vita intellettuale, si associa a impulsi sadici e distruttivi – il desiderio di penetrare, forzare, sminuzzare, possedere – che possono farsi intollerabilmente angosciosi, cosí carichi di sensi di colpa da sfociare in inibizioni di vario tipo. Per esempio, nell’inibizione a leggere (se ne era accorto – ricordate? – proprio Strachey in quel suo saggio sull’inconscio del lettore, che Melanie Klein aveva letto, amato e ripetutamente citato). La psicoanalista racconta di una bambina di sei anni di nome Erna che non voleva piú saperne di imparare: l’aritmetica e la scrittura erano, per il suo inconscio, violenti attacchi sadici contro la mamma. E la lettura, grazie all’equivalenza simbolica tra il corpo materno e i libri, era la sottrazione violenta di tutto ciò che la mamma, nelle sue fantasie, conteneva. Meglio non leggere piú.

È bastato un paio di interventi, e già le cose sembrano irrimediabilmente ingarbugliate. Il libro ha ucciso la Grande Madre. La Grande Madre è un libro. Come se ne esce?

La contraddizione non sembra facile da sciogliere, in compenso è facilissima da vivere, come rivelano alcuni secoli di storia della bibliofilia. Perciò lasciamo pure i nostri sapienti alle amorevoli attenzioni dei Turchi e dedichiamoci a Richard de Bury, vescovo di Durham, noto soprattutto come autore del Philobiblon, un trattatello sulla passione per i libri completato nel 1344 e pubblicato solo un secolo piú tardi. A prima vista, la faccenda è semplice. De Bury usa l’espediente retorico di far parlare i libri in prima persona, e quelli si lamentano della loro eterna rivale: la donna, graziosamente definita bestia bipedalis. Questa bestia bipede, dicono i libri maltrattati e ignorati, «dimostra che fra tutti gli arnesi della casa siamo superflui, si lagna della nostra totale inutilità all’economia domestica e propone di scambiarci con veli preziosi, scialli, tessuti di seta e ben tinti di porpora, vesti e pellicce varie, lini e lane».

Amor di libri è amor di sapienza, ammonisce De Bury, ed «estingue come rugiada celeste l’ardore dei vizi della carne». Il libro, in breve, è un antidoto alla donna: alla sua frivolezza sensuale, alla sua vanità, alle sue lusinghe. E allora com’è che quando si mette a parlare dei suoi tesori librari questo chierico medievale sembra di colpo un dandy estenuato di fine Ottocento che ripercorre memorie d’alcova? De Bury confessa di star seduto in mezzo ai libri «con maggior diletto di uno speziale raffinato fra i depositi degli aromi». E quei giorni a Parigi, poi! «Lí, biblioteche piú inebrianti delle stanze odorose di profumi»: un serraglio di carta. Se parla del modo di conservare i libri, ecco che lascia intravedere il lezio cerimoniale del feticista: ha orrore per chi «osa toccarli con mani sporche», per chi imbratta le loro pagine immacolate con avanzi di cibi o con segnacci, per chi non usa «la massima delicatezza nel chiudere e nell’aprire i volumi», che «vanno conservati con molta piú cura che non le scarpe». Improvvisamente, pare di leggere Baudelaire; o forse la mia è un’illusione ottica, perché il Philobiblon fu tradotto in francese nel 1856, un anno prima della prima edizione dei Fiori del male. I bibliomani fin-de-siècle saranno a metà strada tra il chierico e il dandy, assommando la misoginia di entrambi.

«La donna, spesso gelosa del libro, è una Bibliofobica per istinto», annota Octave Uzanne nel Dictionnaire bibliophilosophique, 1896. Ma se è tanto gelosa una ragione c’è: il libro riceve tutte le attenzioni di un’amante, e ne ha tutti gli attributi. La bibliofilia è un club per soli uomini che non vogliono essere disturbati da donne in carne e ossa – specie dalle mogli – mentre vanno a caccia di donne di carta. Già Casanova, nel secolo precedente, aveva paragonato la donna a un libro che deve piacerci per il frontespizio. Dopo aver stabilito che l’amore «è solo un sentimento di curiosità piú o meno intenso» – eccoci di nuovo alle prese con il Wisstrieb – Casanova dice che il nostro desiderio di leggere un libro, o una donna, è proporzionale all’interesse che suscita il frontespizio, ossia il volto, gli abiti, la figura; ma aggiunge che il grande seduttore, come il bibliofilo, s’incuriosisce anche degli esemplari brutti: «Tenta quindi di sfogliare il libro, ma le pagine non sono state aperte e quindi incontra qualche resistenza»… I bibliofili francesi di fine Ottocento comporranno su queste similitudini maliziose variazioni in ogni chiave, dall’arguto al lugubre. Uzanne paragona le edizioni di lusso alle donne troppo ben vestite che non concedono alcuna libertà all’amante col pretesto che il loro abito si sgualcirebbe, e loda in compenso l’abbordabilità di un bouquin, che «come le prostitute dei vecchi tempi, si offre a tutti». Anche per la donna vergine ha in serbo un aggettivo da bibliofilo: inédit. Su una metafora simile il poeta Théophile Gautier aveva già morbosamente indugiato: «L’unico piacere che un libro ancora mi procura è il brivido di un tagliacarte d’avorio nelle sue pagine intonse; è una verginità come qualunque altra, ed è sempre piacevole prenderla». La trasformazione del libro in donna-feticcio ebbe il suo versante macabro – la fascinazione per i libri rilegati in pelle di jeune fille, opportunamente conciata, al centro di mille dicerie e leggende nere – ma anche il suo versante cortese. Bibliophile Jacob, al secolo Paul Lacroix, nel 1840 riferí il caso di un uomo che «si mise alla ricerca di un libro immaginario di cui aveva sentito parlare, e morí di dolore per non averlo trovato, convinto che un rivale custodisse questo tesoro in cambio del quale egli avrebbe dato la pietra filosofale». Non sembra forse di riascoltare la storia del trovatore Jaufré Rudel, che s’innamorò della contessa di Tripoli senza averla mai vista, per averla sentita lodare da certi pellegrini di Antiochia, e che si fece crociato nella speranza di incontrarla, per poi morire tra le sue braccia?

Collezionisti di trofei umani, defloratori seriali armati di tagliacarte, bibliomani morti di crepacuore inseguendo libri fantasma… Siamo finiti nei castelli dove abitano i lettori psicotici – gli zii matti di cui avevo promesso di parlarvi il meno possibile, salvo che i loro destini miserandi servissero a illuminare i malanni del lettore nevrotico, o lettore comune. Ma è proprio questo il caso: nessun amante dei libri può sottrarsi al gioco d’ombre di un mutevole teatro interiore. Del resto, se il libro conserva qualcosa dei nostri orsacchiotti o delle nostre bambole, è fatale che si offra a tutte le proiezioni. Non solo intorno al loro sesso, ma anche sulla loro età e sul loro ruolo nella nostra vita. Il libro sarà il padre severo che ci scruta dallo scaffale piú alto, sarà la madre a cui strappare i segreti della vita, sarà l’amante da portarsi a letto, sarà il bambino da cullare in braccio, o sarà tutte queste cose a turno.

Chi o cosa è il libro che teniamo in mano? Nel 1976 Thomas P. Hanaway e Gordon M. Burghardt, due psichiatri del Tennessee, pubblicarono uno studio, portato avanti per quattro anni, sul modo in cui maschi e femmine camminano con un libro in mano; scoprirono che all’asilo non ci sono differenze apprezzabili, ma che con l’età e lo stabilirsi degli stereotipi sessuali gli stili di book carrying si divaricano nettamente: «Per lo piú i maschi portano i libri ai loro lati, con le braccia relativamente dritte, mentre le donne di solito appoggiano i libri sui fianchi o sulle ossa pelviche e li cullano tra le braccia». Un esperimento simile, protratto stavolta per sei anni, è stato condotto a Ginevra nei primi anni Novanta, e ha mostrato che la differenza tra gli stili persiste ma si è attenuata.

Sono studi molto specialistici che si concentrano sui portatori, non sull’oggetto portato, ma chissà che non se ne possa trarre qualche indicazione sul tipo di proiezioni associate ai due stili, insomma su ciò che vediamo o alluciniamo nei libri. Dopo un esperimento mentale durato né quattro né sei anni, ma verosimilmente tra i quattro e i sei minuti, azzarderei che nel primo caso il libro è una ventiquattr’ore, nel secondo un neonato. Anche qui, inutile dirlo, sono in gioco stereotipi sessuali. Ma consideratelo piú che altro come uno spunto di autoanalisi selvaggia; perché la disputa sul sesso dei libri, come quella sulla loro età, non è affare che si possa delegare a un concilio di dotti: dobbiamo scioglierla noi stessi, nel nostro foro interiore. Da bravi dilettanti, con la benedizione di Bouvard e Pécuchet.


Il sacro parallelepipedo

… ma presto aveva abbandonato quel severo Dio unico che era Yahveh per consacrarsi al rutilante e sfaccettato politeismo dei libri.

Stefan Zweig, Mendel dei libri

Quando uno dei suoi operai gli annunciò l’intenzione di sposare la cuoca del campo, il signor Ross non sapeva bene cosa inventarsi. Il decoro imponeva di sancire quell’unione con una cerimonia religiosa – la nostra storia si svolge centocinquant’anni fa, Ross era un inglese ai tempi della regina Vittoria, e i due innamorati avevano poco da fare gli allegri concubini – ma preti a portata di mano non ce n’erano. C’era solo lui, che però non era un parroco, era un ingegnere, e si trovava in quel paese sperduto dell’America Centrale solo per dirigere la costruzione di una ferrovia. Il signor Ross tuttavia non si perdette d’animo. Una domenica radunò i cinquecento operai e comparí davanti ai promessi sposi indossando una bella vestaglia da notte – la cosa piú simile a un abito talare che offrisse il suo guardaroba. Non c’era, in quel cantiere, neppure una Bibbia: l’unico libro che Ross aveva portato con sé era il Tristram Shandy, il capolavoro umoristico di Laurence Sterne. Fortuna che gli operai del posto parlavano a malapena lo spagnolo, e non capivano una parola d’inglese. Fu cosí che l’ingegnere in vestaglia lesse con voce solenne un capitolo di Sterne e li dichiarò marito e moglie. Mi piace immaginare che sia stato un matrimonio felicissimo.

Disgraziatamente non sapremo mai quale capitolo declamò Ross, e soprattutto se sia riuscito a trattenere le risate; sappiamo però che per compiere la cerimonia dovette servirsi dei poteri invisibili che la Bibbia, il libro dei libri, aveva trasferito nel corso dei secoli a tutti gli altri, perfino a quelli piú profani, triviali o insignificanti. E noi abbiamo poco da scherzare su quei poveri indigeni del 1870, pieni di stupore reverenziale davanti a un libro di cui non sapevano nulla, se non che aveva appunto la forma di un libro; abbiamo poco da scherzare, dico, perché non siamo meno primitivi di loro. Per sbarazzarci della nostra indebita boria da civilizzati, capovolgiamo l’astuzia dell’ingegnere, e proviamo a leggere la Bibbia come un apologo umoristico.

Quando Mosè scende dal monte Sinai con le Tavole della Legge fresche fresche di tipografia divina, fa una brutta scoperta: gli Israeliti, forse annoiati dalla sua lunga assenza, si sono fatti un vitello di metallo fuso e ora danzano e gozzovigliano intorno al loro idolo pagano. Mosè non se ne stupisce – Dio stesso, da buon amico, gli aveva dato una soffiata – ma questo non gli impedisce di metter su una sfuriata da marito tradito: era rientrato in casa con quei due pacchettini per la moglie, e se la ritrova a letto con il primo Baal o Astarte di passaggio, la svergognata. L’Esodo racconta la scena nel dettaglio. Mosè sgrida malamente Israele, fa fuori il rivale con ferocia molto creativa (riduce il vitello in polvere, disperde la polvere nell’acqua e costringe gli idolatri fedifraghi a bersela); e già che c’è, visto che non è piú tanto in vena di regali, spacca le Tavole della Legge. E questo, per quanto si possa simpatizzare con il patriarca, sembra veramente un po’ troppo: ma come, hai appena ricevuto il libro piú prezioso dell’universo e lo fai a pezzi per una crisi di nervi? Evidentemente, però, la cosa preziosa non erano i lastroni di pietra, erano le parole che Yahveh ci aveva inciso sopra. E infatti il Signore non ci trova niente di sacrilego, e quando Mosè torna da lui non lo sgrida neppure. Portami altre due tavole, si limita a dirgli, e io ti stampo subito una seconda edizione: che sarà mai.

Molte cose sono accadute, da quel giorno leggendario, per farci perdere di vista la distinzione tra il libro come testo e il libro come oggetto su cui il testo è impresso, e per far trasmigrare il sacro dall’uno all’altro. Sarà che lungo i secoli il libro è stato, per generazioni e generazioni di fedeli, prima di tutto un arredo liturgico, fascinoso e tremendo come i reliquari, i calici e i cibori; sarà che, anche quando Gutenberg fece entrare la Bibbia nell’epoca della riproducibilità tecnica, ad arrivare nelle case era comunque il testo sacro; insomma, la storia è po’ troppo lunga e complicata per ripercorrerla qui, ma è andata a finire che noi moderni, che crediamo sempre meno nelle dieci regole del Sinai e a malapena ci ricordiamo in quale libro dell’Antico Testamento sono riportate, siamo diventati piú duri di cervice degli antichi Israeliti. Con la stessa ottusità idolatrica con cui quelli veneravano il vitello d’oro, ci siamo messi a riverire il lastrone di pietra e il suo rampollo, il parallelepipedo di carta. Per vie misteriose e un tantino superstiziose, ci siamo persuasi che l’oggetto-libro abbia in sé dei poteri benefici, e che tutte le parole, anche le piú insulse, guadagnino un prestigio speciale dall’essere racchiuse in quel formato e solo in quello. Da questa premessa abbiamo fatto discendere le interdizioni piú arcaiche e irrazionali; e quasi senza accorgercene, siamo diventati feticisti del parallelepipedo.

La parola feticismo è ambigua; lo era già quando comparve per la prima volta, tra i navigatori portoghesi di cinquecento anni fa, e i secoli successivi non hanno fatto che ingarbugliare la matassa. Propongo di accantonare l’accezione degli psicoanalisti (anche se ce ne sarebbe da dire, quanto a perversione, sugli annusatori e i carezzatori di carta) e di usarla in un senso decisamente démodé, quello degli etnologi ottocenteschi. Negli stessi anni in cui l’ingegnere vittoriano in vestaglia sposava l’operaio e la cuoca con un libro a caso, confidando nel potere mistico di un particolare solido geometrico, Sir Edward Burnett Tylor, un gentiluomo londinese la cui lunga e veneranda barba non aveva nulla da invidiare a quella di Mosè (versione Michelangelo) s’impegnava a decifrare, da buon evoluzionista darwiniano, gli stadi piú arcaici dello sviluppo religioso dell’umanità. Il feticismo, scriveva nel 1871 nella sua grande opera Primitive Culture, è «la dottrina degli spiriti incarnati in certi oggetti materiali, degli spiriti attaccati a questi oggetti, o degli spiriti che esercitano un’influenza per il tramite di questi oggetti». Tylor citava il culto reso ai blocchi di legno o di pietra che tanto aveva sconcertato i missionari cristiani, ma si affrettava a precisare che un oggetto qualunque può servire come feticcio, e che non solo se ne circondano i selvaggi, ma spesso anche gli uomini piú civilizzati.

La favola etnologica, dunque, parla anche di noi. Non dico che siamo indistinguibili dagli adoratori di ciocchi di legno, ma se dovessi racchiudere in un’immagine il nostro rapporto con il libro, sceglierei a colpo sicuro gli australopitechi accucciati intorno al monolite nero di 2001: Odissea nello spazio: un oggetto venuto da un altro mondo che affascina e spaventa, e che con la sua presenza muta spinge i suoi villosi adoratori verso l’intelligenza e l’evoluzione. Non sarà un caso se nel lastrone nero e lucido del film di Stanley Kubrick, da cinquant’anni al centro delle interpretazioni piú forsennate, un critico francese ha creduto di vedere una tavola della legge senza comandamenti.

Non è un’immagine da buttar via, badate, e prima di accantonarla con sussiego da Sapiens Sapiens date almeno un’occhiata ai quadri di Gabriel von Max, pittore bavarese nato a Praga che era anche un convinto darwinista e un allevatore di scimmie: in uno c’è una scimmia dignitosissima che legge un manuale di anatomia; in un altro le scimmie davanti al libro sono due, e discutono animatamente sulla teoria del monismo di Ernst Haeckel. Una ha perfino una lente di ingrandimento. Se però il paragone scimpanzesco vi pare troppo degradante, provate almeno a identificarvi con la meraviglia infantile del piccolo Jean-Paul Sartre nella casa del nonno editore: «Non sapevo ancora leggere, ma già le riverivo queste pietre fitte: ritte o inclinate, strette come mattoni sui ripiani della libreria o nobilmente spaziate in viali di menhir». La libreria era un tempio, «un minuscolo santuario circondato di monumenti tozzi, antichi, che mi avevano visto nascere, che mi avrebbero visto morire, e la cui permanenza mi garantiva un avvenire calmo quanto il passato». È il versante salutare del feticismo del libro, quello che ci porta a venerare i parallelepipedi di carta perché in essi s’incarna lo spirito degli antenati del villaggio; in particolare lo spirito di quei grandi autori classici che oggi qualcuno insolentisce come dead white males, e che Sartre trattava con delicata devozione:

Per me non erano morti, via, non completamente: s’erano trasformati in libri. Corneille, un tomo robusto, rugoso, dorso di cuoio, che puzzava di colla. Questo personaggio scomodo e severo, dalle parole difficili, aveva gli angoli che mi ferivano le cosce quando lo trasportavo. Ma, appena aperto, mi offriva le sue incisioni, cupe e dolci come confidenze. Flaubert, un libriccino rilegato in tela, inodoro, picchiettato di macchioline come di lentiggini. Victor Hugo, il molteplice, nidificava contemporaneamente su tutti i ripiani. Ciò per quanto riguarda i corpi; quanto alle anime, esse frequentavano le opere: le pagine erano finestre, un volto dal di fuori s’incollava sul vetro, qualcuno mi spiava; fingevo di non notare alcunché, continuavo la mia lettura, con gli occhi attaccati alle parole sotto lo sguardo fisso del fu Chateaubriand.

Questa devozione benigna proietta però un’ombra patologica: sono i tabú arcaici che circondano il nostro feticcio, e che lungo la strada sono diventati, secondo la piú classica lezione della psicoanalisi, l’oggetto di piccoli rituali ossessivo-compulsivi. I cerimoniali del nevrotico, scriveva Freud in un breve articolo del 1907 intitolato Comportamenti ossessivi e pratiche religiose, visti dal di fuori danno l’impressione di essere semplici formalità, e neppure agli occhi di chi li compie sembrano voler dire chissà che. Eppure, la piú insignificante alterazione della liturgia può scatenare angosce profondissime: è come se dal compimento minuzioso di quei gesti – ripiegare le coperte in un certo modo, disporre i vestiti secondo un ordine invariabile – dipendesse la tenuta del mondo mentale del paziente, che diversamente cadrebbe in pezzi.

Ebbene, anche il rapporto del lettore nevrotico con i libri è disseminato di rituali e interdizioni rispetto ai quali, a voler essere evoluzionisti fino in fondo, i dieci comandamenti sono un distillato di modernità e di spirito illuministico.

Primo, non buttare. Avete mai provato a gettare un libro, anche il piú deplorevole dei libri, nella spazzatura? Sentirete una forza soprannaturale che vi trattiene nel momento di lasciarlo cadere nel cestino, piú irresistibile dell’angelo che fermò la mano di Abramo pronta ad abbattersi su Isacco. Eppure, per quanto possiamo sforzarci di razionalizzare, ossia di cucire un vestitino intellettuale accettabile intorno a un’angoscia nevrotica, è fin troppo evidente che si tratta di un riflesso superstizioso. Riporto la testimonianza candida e onesta di un’adorabile signora di Philadelphia. Helene Hanff, scrittrice, è nota soprattutto per le lettere che si scambiò lungo vent’anni con un libraio antiquario di Londra, Frank Doel, fino alla morte di quest’ultimo nel 1969. Dal carteggio, pubblicato con il titolo 84, Charing Cross Road, è stato tratto un film con Anne Bancroft e Anthony Hopkins… ma cosa sto a darvi tutti questi dettagli: se siete lettori nevrotici come me, il libro lo conoscete già, e anche il film. Nessuno può seriamente dubitare che Helene Hanff amasse i libri. Eppure, sentite cosa scriveva al libraio Doel il 18 settembre del 1952:

Ogni primavera, faccio le pulizie generali alla mia libreria ed elimino i libri che non rileggerò mai piú, come elimino i vecchi vestiti che so che non indosserò mai piú. E tutti si scandalizzano molto per questo. I miei amici sono strani con i libri. Leggono tutti i best seller, li divorano il piú velocemente possibile, penso che saltino un sacco di pagine. E non rileggono MAI nulla una seconda volta, di modo che un anno dopo non ne ricordano una sola parola. Eppure, se mi vedono buttare un libro nel cestino o darlo via si scandalizzano profondamente. Secondo loro compri un libro, lo leggi, lo metti nella libreria, non lo riapri piú per il resto dei tuoi giorni, ma NON LO BUTTI VIA! SOPRATTUTTO SE HA UNA COPERTINA RIGIDA! E perché mai? Personalmente non riesco a immaginare nulla di meno sacrosanto di un libro brutto o addirittura di un libro mediocre.

Cosí parla una lettrice non nevrotica. Il tabú del cassonetto è un privilegio immotivato, che non accetteremmo di accordare a nessun’altra specie merceologica. Tutto si butta: vestiti logori, cibi scaduti, lampadine fulminate, mobili desueti, pile di giornali, oggetti che ingombrano senza dare nessun beneficio. I libri no. I libri si conservano, e se li scopriamo ammucchiati in un cassonetto sentiamo che c’è qualcosa, se non proprio di sacrilego, quantomeno di incongruo: come trovare un paio di scarpe in frigorifero. Per quale ipotetico inverno, come formichine, stipiamo cose che non ci serviranno mai? E che se proprio dovessero servirci – ma non ci serviranno, e lo sappiamo bene – le biblioteche stan lí apposta? Fanne uno scatolone e mettili in soffitta, dicono i piú pavidi, convinti di aver trovato una soluzione di compromesso, se non fosse che nella lingua impietosa del dottor Freud compromesso è sinonimo di sintomo nevrotico. Quante volte siamo andati a recuperare un libro sepolto in chissà quale pacco polveroso? La soffitta è come il famigerato periodo di riflessione quando un amore finisce, un sotterfugio dettato dal senso di colpa: caro Atlante De Agostini 1992, ti sto scaricando, ma non ho il coraggio di dirtelo in faccia.

Eppure io, lettore nevrotico tra lettori nevrotici, predico bene ma razzolo malissimo, come la mamma del granchio nella favola di Esopo che comandava al figlio di camminare dritto. Ho conservato tutti i parallelepipedi della mia vita di lettore: libri scolastici, manuali di istruzioni di tecnologie obsolete da decenni, un vasto assortimento di primi volumi omaggio di enciclopedie allegate ai quotidiani (so tutto sulle persone i cui cognomi cominciano per A), doppioni, triploni… questi e altri ectoplasmi fluttuano nella soffitta familiare, sospesi in una dimensione intermedia tra la persistenza e l’estinzione per la quale forse solo il Libro tibetano dei morti ha le metafore adatte.

In Ruined by Reading, la scrittrice Lynne Sharon Schwartz racconta le sue disavventure nevrotiche con un libro – uno solo – «troppo orribile per vivere», e che aveva pertanto condannato alla pena del cassonetto. Non lo avesse mai fatto. «Per tutto il giorno il pensiero di quel libro in mezzo a ossi di pollo e noccioli d’oliva mi ha tormentato. Cinque o sei volte l’ho tolto e rimesso, come un boia che abbia scrupoli sulla pena capitale. Infine l’ho sistemato su uno scaffale alto dove non avrei dovuto vederlo». Scena degna del Cuore rivelatore di Poe – l’assassino che crede di sentire il battito cardiaco della sua vittima sotto le tavole del pavimento dove ha nascosto il cadavere, e impazzisce.

Confesso, solo una volta nella mia vita sono riuscito a contravvenire a questo retaggio atavico e a violare fino in fondo il tabú. Ho buttato nella spazzatura il libro di un vip televisivo di cui non m’importava nulla; un libro cosí insulso che nemmeno l’autore, che chiaramente non lo aveva scritto, avrebbe mai osato leggere. Eppure… Eppure, il ricordo di quel delitto mi assilla da anni. Credo che un giorno lo ricomprerò in due o tre copie, per placare le ire del sacro parallelepipedo.

Secondo, non mollare. Alcuni lettori nevrotici non sanno liberarsi da questo comandamento, e se lasciano un libro a metà sono divorati dai sensi di colpa. Verso l’autore, verso sé stessi, ma soprattutto verso il grande feticcio. Salman Rushdie racconta che da ragazzo aveva preso l’abitudine di baciare ogni libro che abbandonava, per scusarsi della mancanza di rispetto. Molto poetico, non c’è dubbio; quanto a modernità, però, se vogliamo collocarlo su una scala evoluzionistica alla Tylor, siamo piú o meno all’altezza dei cacciatori paleolitici che abbattuto il bisonte correvano a riappacificarsi con la Signora degli Animali. E tuttavia, la nevrosi della lettura integrale è ancora molto diffusa.

Annie François, redattrice di una casa editrice parigina, ha passato la vita tra i libri. Solo intorno ai cinquant’anni, però, si è sentita abbastanza libera da attribuirsi il diritto di piantare un brutto libro senza averlo finito. Prima di questa liberazione, racconta nell’«autobiobibliografia» La lettrice, «un vecchio vezzo giudaico-cristiano in favore di una possibile redenzione mi costringeva a subire il martirio fino alla fine». Lettore mio, lettore mio, perché mi hai abbandonato? Quel lamento del libro immolato doveva essere insopportabile alle sue orecchie, come il belato degli agnellini per la dottoressa Clarice Starling del Silenzio degli innocenti. Al piú ignobile dei manoscritti arrivato presso la sua casa editrice Annie François riservava l’onore di una lettura completa, e anche in casa propria, con le letture di piacere, le cose non andavano meglio: «Se capitava che una noia mortale mi assalisse fin dalla prima riga, andavo comunque fino in fondo. Anche qui mi sono fatta piú audace. Se un libro non riesce ad avvincermi dopo trenta pagine, lo mollo». E quando lo molla si sorprende a constatare che l’universo, incredibilmente, non crolla a pezzi. Anzi, confida, «vengo pervasa da una sorta di immenso giubilo. Un senso di liberazione ben superiore alla pienezza che si prova chiudendo certi libri magnifici». E va bene, lo abbiamo imparato sui banchi di scuola, tra Leopardi e Schopenhauer, che il piacere è la cessazione del dolore. Ma il giubilo di Annie François è davvero un po’ troppo enfatico per non insospettire uno psicoanalista: si era liberata non solo di un brutto libro, ma anche della soggezione nevrotica al sacro parallelepipedo.

Anche per questo secondo tabú le razionalizzazioni abbondano. Perché incaponirsi a finire i libri? Alcuni usano argomenti che stanno tra la parsimonia e la disciplina alimentare infantile, insomma l’eco interiorizzata della voce della mamma che ti diceva di non alzarti da tavola finché non avessi svuotato il piatto: «Ho appena cominciato a leggere il primo tomo di una trilogia distopico-fantapolitico-poliziesca di 2200 pagine e 4,8 kg, è una rottura micidiale, gradirei morire, ma ho speso diciotto euro e cinquanta centesimi e a questo punto devo leggerla fino in fondo, tutti e tre i tomi». Visto da vicino, il ragionamento si rivela frutto di un’aritmetica fantastica, che potremmo esplicitare cosí: «Ho buttato dei soldi, ora per pareggiare i conti devo buttare anche del tempo». Ditemi voi se non è un calcolo nevrotico.

Altri, in uno sforzo di razionalizzazione piú sottile, cercano di mettere la loro nevrosi sul conto di Plinio il Vecchio, per via dello sciagurato principio che insegnò al nipote Plinio il Giovane, e che questi passò all’amico Bebio Macro e, per suo tramite, alla posterità: Nullus est liber tam malus, ut non aliqua parte prosit, nessun libro è cosí cattivo che in qualche sua parte non possa giovare. Ora, mi sembra imprudente trascurare il dettaglio che nel I secolo dopo Cristo circolava qualche libro in meno di oggi, e che nessuno poteva prevedere che saremmo finiti sotto un’eruzione editoriale assai piú tumultuosa di quella del Vesuvio in cui morí Plinio. Sono ragionevolmente certo che il Vecchio, se avesse avuto una visione profetica delle fiumane laviche di carta e di inchiostro che si rovesciano ogni settimana sui banchi delle nostre librerie, si sarebbe affrettato a ripudiare il suo motto imprudente, a capovolgerlo, perfino a maledirlo.

Terzo, non sbadigliare. Cosí scrive Evagrio Pontico, monaco vissuto nel IV secolo dopo Cristo:

L’accidioso, quando legge, sbadiglia spesso, e cade facilmente nel sonno, si sfrega il viso, stende le braccia e alza gli occhi dal libro, fissandoli alla parete. Messosi ancora un po’ a leggere, si affatica inutilmente, ritornando sul significato delle parole; conta le pagine, valuta l’impaginazione, critica la scrittura e l’ornato. Alla fine, chiuso il libro, ci mette la testa sopra e dorme un sonno decisamente non profondo, perché la fame risveglia la sua anima e le angosce riprendono.

Non facciamo l’errore di scambiarla per una descrizione bonaria: l’accidia è un peccato capitale, nonché uno degli otto spiriti della malvagità enumerati da Evagrio.

Ne è rimasta, presso i lettori profani, una certa riluttanza a confessare la noia, soprattutto quando sono a cospetto di libri che l’opinione prevalente propone come importanti, imponenti, imprescindibili. Il sintomo è la «repressione degli sbadigli», e non viene dalle opere di Freud, bensí dalla burla di un suo arcinemico, il crociano Francesco Flora. È uno dei filosofi idealisti che quando la psicoanalisi, passando per Trieste, posò i suoi bagagli in Italia e cercò di acclimatarsi nei grandi centri della nostra cultura, scrutarono quella dottrina esotica dall’aspetto un po’ losco con un misto di sospetto, incomprensione e aperta ripulsa. Nel 1934, in uno spietato e moraleggiante Congedo a Freud, Flora ironizzava sul «pansessualismo» della psicoanalisi:

Se domani qualcuno volesse costruire una teoria psicologica per mostrare che il vero scopo della vita umana è quello di sboccare in una serie di sbadigli, e che la repressione degli sbadigli è la vera origine dei mali (tra le norme di buona educazione c’è quella di evitare gli sbadigli in pubblico, e gli sbadigli si vendicano di noi con le forme di nevrosi!); e che l’atto sessuale è un’allegoria dello sbadiglio, e il sogno uno sbadiglio represso, tutti gli argomenti andrebbero bene, sol che si ordinassero su una trama d’aspetto scientifico.

È un peccato che Flora non abbia dipanato piú a lungo questo bozzolo di teoria, che l’abbia usata solo come esempio sarcastico: io dico che avrebbe potuto estrarne fili preziosi. Quando, come lettori, ci sottomettiamo a una Legge sadica e irragionevole – vedi il secondo comandamento: non mollare – il nostro inconscio si vendica a suon di sbadigli. Questo contegno tradisce un’idea della lettura come liturgia tetra e puritana; e solo in una cultura segretamente fondata sulla «repressione degli sbadigli» poteva nascere la formula guilty pleasure, il piacere colpevole di leggere un libro appassionante ma pubblicamente disprezzato, che ci portiamo a letto in segreto ma non oseremmo presentare in società: in breve, il best seller come prostituta delle lettere.

Sulla rivista «Tempo Presente», nel 1962, Giovanni Russo diede il resoconto di un simposio tra amici e colleghi sul costume letterario. Si erano chiesti se la Noia avesse o meno «il diritto di assidersi al fianco della Musa», e come mai critici e recensori avessero uno strano pudore a farne un metro per giudicare il valore di un libro. Diceva uno dei convitati:

Mi domando: i critici non sentono il morso della noia? Che cos’è la noia se non il rinsecchirsi, il rinchiudersi, lo sfiorire nell’animo del lettore della disponibilità a sentire l’«opera d’arte», a comunicare con i personaggi, a godere della loro vita artistica? La mancanza di severe reprimende alla noia da parte degli autorevoli critici è quanto mai dannosa.

Infortuni del terzo comandamento. È un precetto che va perdendo la sua presa, incalzato com’è dall’impazienza un po’ capricciosa di lettori con la smania di essere intrattenuti. Ma la «repressione degli sbadigli» sopravvive ancora nelle pagine culturali dei giornali, soprattutto tra le righe delle recensioni. Quando un critico vuole far trapelare che si è annoiato a morte, ma ha paura di confessarlo prima di tutto a sé stesso, userà il piú vuoto, fiacco e cerebrale degli aggettivi, che possiamo decifrare come un sintomo nevrotico, una soluzione di compromesso tra ciò che l’inconscio indisciplinato avverte e ciò che il Super-Io culturale prescrive. Questo aggettivo è «interessante». Immagino come debba sentirsi un giovane scrittore quando viene elogiato per il suo «esordio interessante»: piú o meno come la ragazza bruttina che si sente etichettare come «un tipo». Non dovrà stupirsi, poi, se troverà il suo critico a letto con un best seller. Un guilty pleasure e via – si fa sempre in tempo a confessarsi e a ottenere il perdono degli spiriti magni.

Quarto, non sottolineare a penna; quinto, non fare orecchie… Quanto piú ascendiamo verso le cime psicotiche dove albergano i nostri zii matti, i bibliofili e i collezionisti, tanto piú i divieti, i tabú e le regole rituali si infittiscono e prendono un volto persecutorio. Per il comune lettore nevrotico, grazie al cielo, la precettistica fossile dei sommi sacerdoti è un’eco piú flebile, come le reminiscenze del catechismo. Il suo culto discreto per il libro assume le forme piú tolleranti e calorose che sono spesso tipiche della devozione popolare: qualche pellegrinaggio ai santuari dei festival e delle fiere, un inchino appena accennato presso le vetrine delle librerie, un timido scappellarsi davanti agli scaffali piú alti, dove dimorano gli spiriti degli antenati.

Picnic sul ciglio dell’abisso

Della pila di libri che una tronca

Ombra allunga sul tavolo impreciso

Ce n’è qualcuno che non leggeremo.

Jorge Luis Borges, Limiti

Chi si ricorda com’è che Zelig diventa Zelig? Qual è l’incidente fatale che spinge il protagonista del film di Woody Allen a imboccare la china che passo dopo passo lo porterà a trasformarsi in un camaleonte umano? Lo confessa lui stesso sotto ipnosi alla sua psichiatra, la dottoressa Eudora Fletcher: quand’era ragazzino, Leonard Zelig fece finta di aver letto Moby Dick. Si vergognava di ammettere la sua lacuna davanti ai compagni di scuola piú intelligenti, e da quella prima simulazione prese avvio la sua carriera di mutaforma compulsivo. Ben prima di Woody Allen, a imbarazzi dello stesso genere si era dedicato lo scrittore americano Frank Moore Colby in un libro del 1905 intitolato, molto opportunamente, Imaginary Obligations: «Ci sono ambienti letterari in cui il libro è uno strumento di tirannia. Se non l’hai letto, ti senti indicibilmente abietto, perché il libro che non hai letto è sempre l’unico al mondo che avresti dovuto leggere».

Certo, potresti esibire giocondamente la tua ignoranza, ma i dolenti eruditi ti guarderebbero come uno che ha appena confessato di non aver mai usato una forchetta. Cosí soccombi all’«obbligo immaginario», e il modo piú o meno aggraziato in cui ti pieghi alla pressione sociale rivela infallibilmente la tua tempra: «Le persone deboli e sensibili balbetteranno invariabilmente una bugia», per poi sgattaiolare via con la loro vergogna. Ci sono tuttavia compromessi anche piú meschini. Qualcuno, per esempio, non dirà apertamente di aver letto il libro, ma ne parlerà come se lo avesse fatto, azzardando «quei commenti vaghi e universali che sa essere veri per qualsiasi cosa, ovunque». Ah beh, è lo spaccato di un’epoca, di un ambiente; sí beh, è uno studio sull’animo umano e sulle sue contraddizioni. Volendo, c’è un mazzo di parole pronte all’uso da cui pescare in caso di necessità: autentico, interessante, potente, graffiante… Non diversamente, per mimetizzarsi tra gli intenditori di vini, c’è chi manda a memoria tre o quattro formule passe-partout – corposo, fruttato, strutturato, sentori tannici – e spera cosí di passarla liscia. Ma non è finita qui. Lo stadio successivo di Colby è l’inganno involontario: «Parlando dei libri come se li avesse letti, arriva a convincersi di averlo fatto. Usa citazioni di terza mano come se fossero proprie». Cosí nasce uno Zelig.

Si tratta, insomma, di addestrarsi nella disciplina che Arthur Schopenhauer chiamava «leggere a tempo, in modo, cioè, che tutti quanti leggano sempre la medesima cosa, vale a dire l’ultima novità, onde avere nei loro circoli materia di conversazione». È una varietà del nuoto sincronizzato, ma la si può praticare senza nuotare, ovvero senza leggere. Fingersi «lettori forti» – a proposito, da dove sbuca questa buffa formula, che pare ricalcata su «taglie forti»? – non è difficile e non richiede abilità particolari. Oggi possiamo contare perfino su due manuali per imparare rapidamente l’arte di parlare di un libro senza averlo letto – il primo è di Pierre Bayard, il secondo lo ha scritto in risposta Henry Hitchings, per correggere l’inclinazione teorica francese con un tocco di pragmatismo anglosassone. Aggiungerei a questi due un titolo indigeno, Non leggete i libri: fateveli raccontare, manuale umoristico di Luciano Bianciardi pubblicato a puntate nel 1967 sul settimanale «ABC» che istruiva gli aspiranti intellettuali ai sottili stratagemmi della millanteria. Certo, bisogna stare attenti a non farsi prendere la mano, per non finire come quel personaggio di un raccontino di Woody Allen che si vantava di essere «uno che ha fatto fuori Finnegans Wake mentre era sull’ottovolante di Coney Island». Alla spacconeria c’è un limite. Anche perché, nella sciagurata ipotesi che un impostore di quelle proporzioni venisse smascherato, potrebbe esser costretto a una grandiosa carneficina di parenti, amici, vicini e colleghi, alla maniera di Jean-Claude Romand, la cui vicenda ha ispirato L’avversario di Emmanuel Carrère (l’ho letto? non l’ho letto? ho visto solo il film? chissà). Questo però di solito non accade: una delle leggi non scritte del galateo culturale raccomanda di non indagare troppo sulle deficienze altrui per timore che s’indaghi sulle nostre.

La benemerita ipocrisia di corte o di salotto risolve metà del problema, ma lascia intatta l’altra metà; perché ad angosciarci non è solo il timore di venire esclusi dalla cerchia dei bambini prodigio che hanno già letto Moby Dick, è qualcosa di piú profondo, che non riguarda il sentimento sociale della vergogna bensí quello solitario e tutto interiore della colpa. E a pungolare il senso di colpa dei lettori nevrotici è soprattutto una famiglia di libri noti fin dagli anni di scuola per il loro sottile sadismo mentale: i classici. Sono il nostro Super-Io di carta.

Ma cos’è un classico? Per rispondere potremmo partire dai classici sul classico, come Qu’est-ce qu’un classique? di Sainte-Beuve e What is a classic? di T. S. Eliot; ma per capire a sua volta cosa rende classici questi testi sul classico imboccheremmo la classica scala a chiocciola del regressus in infinitum, e sai i capitomboli. Meglio ripiegare su due battute di spirito che descrivono, piú che il classico reale, il classico percepito; piú che il classico in sé, il classico in noi. La prima: un classico è «qualcosa che tutti vogliono aver letto e nessuno vuole leggere» (Caleb Winchester, professore di letteratura inglese, citato da Mark Twain nel discorso Sparizione della letteratura). La seconda: «I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: “Sto rileggendo…” e mai “Sto leggendo…”» (Italo Calvino, Perché leggere i classici).

Se le incrociamo – il famigerato «combinato disposto» dei giuristi – viene fuori una tagliola psicologica micidiale: 1) vogliamo aver letto tutti i classici, e 2) non possiamo concepire di non averli letti; ma 3) siamo inibiti a leggerli, non ultimo perché, cominciando a farlo, constatiamo che non riusciremo mai a finirli tutti. Ne deriva, per quanto suoni controintuitivo, che leggere i classici è il peggiore ostacolo al bisogno psicologico di averli letti. Ed è a questo punto che dovrebbero entrare gli infermieri.

Da bambino passavo ore a perlustrare con lo sguardo la grande libreria che occupava tutta la parete del soggiorno. Mio papà aveva sistemato i classici su ripiani abbastanza alti perché io non potessi raggiungerli (intendiamoci, non era quello il suo scopo, salvo che per Marziale: pensava che i suoi epigrammi fossero troppo sconci per me), ma abbastanza bassi da permettermi di leggere tutti quegli autori e titoli dal suono arcano, che soltanto a sillabarli mi mettevano addosso una specie di terrore reverenziale. Quei libri allineati a schiera – che mi davano sdegnosamente i dorsi, ma che pure acconsentivano alle mie esplorazioni senza opporre resistenza – mi lanciavano da lassú un messaggio duplice: erano lo spettro punitivo di tutto quel che avrei dovuto essere, e che vergognosamente non ero, e che soprattutto non sarei mai stato, io indegno marmocchio; ed erano l’immagine luminosa di tutto quel che aspiravo a essere, e che un giorno senza dubbio sarei diventato, io divino fanciullo. Nel linguaggio di Freud, potrei dire che il Super-Io e l’Ideale dell’Io mi scrutavano come due occhi dalla stessa mensola.

Del Super-Io cartaceo e dei suoi sensi di colpa sarebbe relativamente facile sbarazzarsi, se solo fossimo animali razionali. Umberto Eco, con generoso spirito tomistico, offrí la prova matematica dell’implausibilità delle richieste che quello scaffale tirannico fa gravare sulla nostra psiche. In una Bustina di Minerva del 1997, Quanti libri non abbiamo letto?, Eco prendeva come riferimento il Dizionario Bompiani delle Opere: «Nell’edizione attualmente in commercio, le Opere contano 5450 pagine. Calcolando a occhio che vi siano in media tre opere per pagina, abbiamo 16 350 opere». Non generiche opere, badate, ma classici. Sedicimilatrecentocinquanta classici. Proponeva poi di stimare in quattro giorni il tempo che un lettore medio (uno che ha anche altre cose da fare nella vita) impiega a leggere un libro: «Ora quattro giorni per ogni opera registrata dal Dizionario Bompiani farebbe 65 400 giorni: dividete per 365 e avete quasi 180 anni. Il ragionamento non fa una grinza. Nessuno può aver letto o leggere tutte le opere che contano».

Pare facile, vero? Eppure il lettore nevrotico ancora si accosta alle nuove letture facendosi scudo della piú comica, della piú sconsiderata, della piú folle delle metafore: colmare lacune. Colmare lacune! L’origine dei nostri guai, come si vede, è prima di tutto topologica: abbiamo un’immagine tecnicamente delirante della conformazione dello spazio culturale. A un livello semiconsapevole, prudentemente non esplicitato, ce lo raffiguriamo come uno strano oggetto geometrico, un gruviera pieno di forellini – era uno degli esempi cari a Benoît Mandelbrot, il matematico fondatore della geometria frattale – che con pazienza, libro dopo libro, classico dopo classico, riusciremo infine a otturare, magari con il metodo dell’Autodidatta di Sartre, che leggeva tutti i libri della biblioteca locale in ordine alfabetico. Se provassimo a risalire da questa immagine del gruviera culturale all’equazione che può averla generata, scopriremmo che il lettore nevrotico è convinto di avere un’aspettativa di vita che si aggira tra i settecento e gli ottocento anni, una cosa tra il patriarca biblico, Nosferatu e il Conte di Saint-Germain. Nei casi piú gravi, si considera un residente a pieno diritto della Città degli Immortali di Borges.

Ora, non vorrei rovinare la festa, ma trovo che sarebbe piú saggio seguire la via inversa: partendo cioè dai calcoli di Eco, proviamo a formalizzarli per ottenere un’immagine il piú possibile realistica dello spazio culturale. Al posto del gruviera, potrebbe venirne fuori una variante della sfera della conoscenza di Blaise Pascal: quanto piú leggiamo, tanto piú la sfera si espande; ma quanto piú la sfera si espande, tanto piú cresce la sua superficie di contatto con l’universo di ignoranza che la circonda, e in cui è condannata a fluttuare per l’eternità. Oppure, dopo aver elaborato i calcoli, il computer ci presenterà impietosamente qualcosa di simile al diagramma di un buco nero: un esiguo orlo pianeggiante che subito sprofonda in una voragine senza fine. Se anziché alle formalizzazioni del computer volessimo attingere al repertorio della grande arte, consiglio di dare un’occhiata a quella Vanitas di Hans Holbein il Giovane in cui una figura dinoccolata legge un libro in posa molto disinvolta – il gomito appoggiato sul ripiano, il volto reclinato sulla mano, i piedi incrociati. Dimenticavo: la figura in questione è uno scheletro.

Colmare lacune! Non sentite anche voi l’eco di una risata cosmica, mentre pronunciate queste parole? Non esistono lacune da colmare, disgraziati mortali. C’è un’unica, abissale, vertiginosa lacuna in cui Dio stesso ha il terrore di affacciarsi. Tutto quel che possiamo permetterci è un picnic sul ciglio dell’abisso.

Io porto il gruviera.

Messa la sordina al baritono del Super-Io, possiamo finalmente ascoltare la voce bianca dell’Ideale dell’Io, che a volte si confonde con la prima, la accompagna, la puntella con mille variazioni armoniche, ma che proviene da tutt’altra regione: il senso di onnipotenza che avevamo da bambini. E non è, questa, una voce che si possa confutare con calcoli di ragioneria, con la disciplina della partita doppia – profitti di lettura, perdite di tempo – perché in cuor nostro sappiamo che quella regione esiste. L’abbiamo visitata. Tutti i lettori sono diventati tali nella Città degli Immortali: i lunghi pomeriggi d’estate dell’infanzia o della prima giovinezza. Che ne sapevamo, allora, del tempo?

Nessuno meglio di Marcel Proust ha saputo descrivere questa aurora immemoriale del lettore:

Non ci sono forse giorni della nostra infanzia vissuti piú pienamente di quelli che abbiamo creduto di aver lasciato senza viverli, quelli trascorsi insieme a un libro prediletto. Tutto ciò che sembrava riempirli per gli altri, e che evitavamo come un ostacolo volgare a un piacere divino: il gioco per il quale un amico veniva a cercarci nel passaggio piú interessante, l’ape o il raggio di sole fastidiosi che ci costringevano ad alzare gli occhi dalla pagina o a cambiare posto, le provviste per la merenda che ci avevano fatto portare e lasciavamo in disparte sulla panchina, senza toccarle, mentre sopra la nostra testa, la forza del cielo declinava nel cielo azzurro, la cena per cui eravamo dovuti rientrare e durante la quale pensavamo solo a salire di sopra per finire, subito dopo il capitolo interrotto, tutto questo, di cui la lettura avrebbe dovuto impedirci di percepire altro che l’inopportunità, ne incideva al contrario un ricordo talmente dolce (talmente piú prezioso, a nostro attuale giudizio, di quello che allora leggevamo con tanto amore) che, se ancor oggi ci capita di sfogliare quei libri di un tempo, è come i soli calendari che abbiamo conservato dei giorni andati, con la speranza di vedere riflessi nelle loro pagine stagni e dimore che non esistono piú.

Passata la prima stagione, quella beatitudine intemporale ci è preclusa, e ci sembra scomparsa per sempre; eppure esiste un luogo in cui continua a vivere la sua vita sonnecchiante, discreta, inavvertita. Questo luogo sono gli scaffali della nostra libreria. Lí la lettura liberata dal tempo non vive solo come vestigio nei libri che abbiamo letto da bambini e che conserviamo perché ci ricordino dei giorni andati; vive anche, segretamente, nei libri che non abbiamo letto ancora e che probabilmente non leggeremo mai. Non trovate che ci sia qualcosa di consolante, in questa dismisura? Il silenzio eterno delle biblioteche infinite non mi spaventa, ma mi rasserena, per via di quello che Diderot, nel Sogno di D’Alembert, chiamava il «sofisma dell’effimero», il sofisma dell’essere transitorio che crede nell’eternità del mondo: «A memoria di rosa, non s’è mai visto morire un giardiniere». E noi non arriveremo mai a leggere l’ultimo classico, proprio come non ci sarà concesso di testimoniare l’estinzione della vita sulla Terra, non potremo assistere con i nostri occhi allo spegnimento del Sole, non saremo lí a piangere la morte termica dell’universo.

Cosí, mi rivedo di nuovo bambino accucciato davanti alla libreria di papà, ma stavolta quell’orografia impervia di volumi irraggiungibili è un paesaggio su cui gli occhi possono riposare. È vero, un classico è «qualcosa che tutti vogliono aver letto e nessuno vuole leggere», e quanto piú alta è la montagna di pagine che s’interpone tra il leggere, infinito presente, e l’aver letto, infinito passato, tanto piú possiamo esser certi che quel desiderio resterà inappagato. Se però a ricordarcelo non è il Super-Io biblioteconomo che tiene la misura della nostra inadeguatezza, ma il bambino immortale che fummo nei pomeriggi d’estate, ecco che quei massicci di carta e d’inchiostro ci appaiono di colpo come un tenue profilo su una stampa giapponese, utile a fissare l’orizzonte del nostro spirito sulla linea che separa due infiniti.

Frammenti di un discorso poliamoroso

Ho amato i libri di un amore passionale, poligamico, vizioso, incontenibile, maniacale. Ho sedotto e stuprato libri. Ho abbandonato libri in stato interessante. Ho ucciso libri per gelosia, altri ho scelto per odio di altri libri che non volevano amarmi.

Giorgio Manganelli, Il rumore sottile della prosa

Fatmé, la piú devota tra le cinque mogli di Usbek, è pronta a giurare al tempo stesso che il marito è il piú incantevole degli uomini e che non ne ha mai conosciuti altri: «Quando ti sposai, i miei occhi non avevano ancora visto il viso di un uomo: tu sei tuttora il solo che mi è stato permesso vedere». Questo circolo vizioso dalle Lettere persiane di Montesquieu ricorda da vicino il leggendario sillogismo del califfo Omar, secondo cui i libri nella biblioteca di Alessandria o dicono le stesse cose del Corano (e allora sono inutili: tanto vale bruciarli) o dicono cose diverse (e allora sono blasfemi: tanto vale bruciarli). Due esempi di dedizione caparbiamente ottusa, a un uomo o a un libro. L’analogia non è fortuita: tutto quel che si può dire del matrimonio, dell’adulterio, della promiscuità o della poligamia trova una corrispondenza puntuale nei nostri amori di carta.

Il tipo del monogamo assoluto, che dedica l’intera vita a un libro, ha ancora i suoi esponenti religiosi ma è ormai molto raro tra i lettori profani – con l’eccezione, forse, di qualche adorabile monomane che vive a tempo pieno, domeniche e festività incluse, nella Recherche, nel Finnegans Wake, o in un altro di quei classici labirintici che sono, alla fin fine, testi sacri secolari. Potremmo definirlo lettore claustrofilico, adottando una formula dello psicoanalista Elvio Fachinelli: fosse per lui, non uscirebbe mai dal libro in cui si è murato vivo, e dove trascorre un interminabile «soggiorno intrauterino». La reputazione di questo tipo di lettore è legata a due formule, quasi identiche ma dai significati contrapposti. Una dice: timeo hominem unius libri, temo l’uomo di un solo libro; l’altra, semplicemente: homo unius libri – ma in senso elogiativo. La prima formula è spesso citata in difesa del libertinismo letterario («Guardati da colui che non ha letto che un libro solo», raccomanda Giacomo Casanova, l’uomo che aveva amato di uno stesso amore curioso biblioteche di femmine e serragli di libri); la seconda è usata, invece, per invitare a non disperdersi in mille letture superficiali, saltabeccando da un libro all’altro (es estudiante notable el que lo es de un libro solo, dice Lope de Vega, e sembra quasi ribattere, dal passato, a Casanova). La cosa buffa è che entrambe le citazioni sono attribuite, per vie molto apocrife, a una sola persona: Tommaso d’Aquino, l’uomo che per capire un solo libro, la Bibbia, aveva letto tutti i libri del mondo.

Agli antipodi del monomane claustrofilico troviamo il lettore dongiovannesco, a cui manca solo un Leporello bibliotecario che gli tenga aggiornato il catalogo di tutti i libri sedotti e abbandonati, d’ogni grado, d’ogni forma, d’ogni età: purché porti una copertina, voi sapete quel che fa. Quando questo lettore dissoluto s’immerge troppo a fondo in un romanzo, al punto da sentirsene legato, si tormenta al pensiero di tutte le avventure letterarie che la fedeltà a quel libro gli preclude. In questo senso lo si potrebbe definire lettore claustrofobico: si sente in trappola, gli manca il respiro, ha l’impressione che le pagine si ripieghino su di lui come pareti di una stanza, che lo schiaccino… Deve scappare prima che sia troppo tardi, e respirare l’aria di una nuova lettura! Si mette allora a rincorrere come un satiro gonnelle di carta, a sfogliarle, a compulsarle, a stropicciarle, a fare orecchie e segnacci sulle loro pagine, a strappar loro le rilegature di dosso; con il rischio, o la maledizione, di non godere pienamente di nessuna.

Compassionevole carriera veramente (da donnaiuolo a voyeur, come accade), quella che conduce il bibliomane, con un panino in una mano e un tagliacarte nell’altra, a spilluzzicare qua e là la sua razione quotidiana di tomi, senza aver mai l’agio di consumarne uno intero. Compassionevole carriera, il cui finale comporta le tinte bigie del disincanto, – ha scritto una volta Gesualdo Bufalino. – Non altrimenti una sera, nel castello di Dux, sarà capitato a Giacomo Casanova di guardare con occhi placidi di sonno un seno di serva occhieggiare fra due bottoni; o a Don Giovanni di dire a Leporello che no, spegnesse pure le torce, andasse pure a dormire, non avrebbe dovuto aprire a nessuna, stavolta. Lo stesso con la carta stampata, temo, ed è una malinconia maggiore.

Chi cercasse un equivalente libresco delle memorie dei grandi libertini, farebbe bene a leggere The Love Affairs of a Bibliomaniac (1896), in cui l’americano Eugene Field descriveva la parabola che dal «primo amore» culmina nella «malattia chiamata cataloghite». La carne è triste, hélas.

I lettori comuni si collocano di solito in un punto intermedio tra la monaca di clausura e il libertino. Molto diffuso, forse tuttora prevalente, è il tipo del monogamo seriale: si lega a un libro e non sfiora neppure con il pensiero gli altri prima di essere arrivato all’ultima pagina, che lo scioglierà dai voti. In nome di questa fedeltà è pronto a sopportare tutti i fastidi della vita matrimoniale: lamentele, abitudini irritanti, routine sfiancanti, intercalari ossessivi, tempi morti, digressioni soporifere – Manzoni che t’intrattiene un po’ troppo con la vigna di Renzo, Don DeLillo che ti attacca un bottone interminabile sul baseball – e a lungo andare si affeziona perfino al russare del coniuge; perché anche il buon Omero, ce l’hanno insegnato a scuola, quandoque dormitat, come certi mariti appesantiti dal pranzo della domenica che sembrano far tutt’uno col sofà.

Lynne Sharon Schwartz conosceva bene la dedizione eroica, a un passo dalla santità, che può esigere questo voto nuziale:

Cosí, come i recidivi del matrimonio, prendo il nuovo libro in buona fede, progettando di accompagnarlo, nella buona e nella cattiva sorte, finché l’ultima pagina non ci separi, ma… a un certo punto smette di essere divertente. Altri libri, piú intriganti, mandano feromoni. Dopotutto ci sono tanti libri deliziosi nel mondo. Perché indugiare con uno che non offre nuove delizie, che non mi porta in qualche posto dove non sono mai stata? Mi sento distaccata dal libro che ho sul grembo proprio come il marito o la moglie disamorata si sente estraniata dal corpo che ha accanto e si chiede: perché sono qui?

Ed è cosí che il monogamo irrequieto, solleticato dai feromoni, comincia a sfogliare altri libri, a leggerne con aria vaga le prime pagine, poi i primi capitoli, finendo a volte per confondere i personaggi, sovrapporre gli intrecci e ritrovarsi nell’incubo del marito infedele che teme di invocare, a letto, la moglie con il nome dell’amante (o viceversa). Piú saggio, in questo, è il lettore apertamente poligamo, che come Usbek il persiano ha cinque libri sempre a disposizione nell’harem domestico del suo comodino, purché siano abbastanza diversi da non consentire equivoci e da non suscitare contese di legittimità.

Non dimentichiamo, infine, il vedovo inconsolabile: quello che ha conosciuto troppo presto il grande amore letterario, e si convince che nessuno potrà mai essere alla sua altezza. È un destino ben triste, se ci pensate. Amori e libri dovrebbero procedere, idealmente, in accordo con le età della vita: alle elementari, una tenera e casta predilezione per il primo della classe con il ciuffo biondo (Il piccolo principe); poi, arrivata la pubertà, le prime cotte per il poco di buono con cui la mamma ti proibisce di uscire (Bukowski), per il bel tenebroso che fa discorsi strani ma che suonano profondi (Hesse), per lo sbandato che ti ispira la missione crocerossistica di rimetterlo in riga (Kerouac). E infine, quando viene il tempo di maritarsi o di ammogliarsi, si dovrebbero fare gli incontri giusti. Perché la sorte ha voluto mettere sul tuo cammino Stendhal prima del tempo, condannandoti a una vedovanza precoce?

Lettori di questo genere passano la vita in gramaglie, ma il lutto segue come un’ombra anche il monogamo seriale. Perché accanto alla depressione post-partum e alla depressione post-coitum, esiste anche la depressione post-librum. Gli americani la chiamano post-book blues. Non credo che la si trovi nei manuali diagnostici dei disturbi mentali, ma non c’è lettore che non l’abbia sofferta, nel dire addio a un romanzo molto amato. Si annuncia verso tre quarti del libro, quando lo spessore delle pagine residue si assottiglia: i piú tenaci si impongono di centellinare quel che resta, ma presto o tardi l’appuntamento tanto temuto con la parola fine arriva. Che succede, allora? Sulle prime siamo invasi da uno strano e quasi euforico sollievo: è il modo in cui la nostra mente cerca di ingannarsi, e di illudersi che non avrà nessuna ripercussione con cui fare i conti. Solo quando la notizia che il libro è veramente finito viene recapitata dalla testa al cuore, appaiono i primi sintomi. Alcuni sprofondano in una malinconia stuporosa e greve, in un’abulia contro la quale sentono di non poter nulla; gironzolano per casa imbambolati, sbattendo contro gli stipiti di tutte le porte, mettendo il sale nel caffè, il dentifricio nel frigorifero e le pantofole nel forno, come sotto l’effetto di un violentissimo jet-lag (e in effetti, qualcosa accomuna il ritorno da terre lontane e il congedo da un mondo immaginario in cui ci siamo molto addentrati). In altri l’atterraggio dai cieli della finzione prende la forma piú esaltata, ma al fondo altrettanto cupa, del furor malinconico: non si danno pace, si gettano subito su un altro libro, e poi su un altro ancora, cercando in tutti di riacciuffare l’ombra di quello appena perduto. Invano.

Successore novo vincitur omnis amor, ogni amore è vinto dal successivo, rammentava Ovidio ai cuori straziati; ed è la stessa consolazione che ci passiamo l’un l’altro fin da ragazzini ricorrendo alla formula «chiodo scaccia chiodo». Proverbio antico, che Cicerone per primo applicò all’amore. Ma ai libri? Qui le cose sono un po’ diverse. Fortuna o sfortuna vuole che i romanzi, a differenza degli amori perduti, siano stampati in molte copie e restino sempre a disposizione per riletture da cima a fondo, sbirciate occasionali, furtivi ritorni di fiamma. Certo, non sarà mai la stessa cosa. Ma non sarà mai, neppure, quel che il formulario popolare della saggezza amorosa chiama «minestra riscaldata». Potremo dirci, come accade guardando le fotografie dei vecchi amori: ma come facevo a strapparmi i capelli per quel tipo improbabile? Ma scopriremo che non si può leggere due volte lo stesso romanzo proprio come non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Lo specchietto a conchiglia in cui ci guardammo ragazzini è uguale oggi a com’era allora, ma ogni volta che torneremo ad aprirlo rifletterà un’immagine diversa.

Non dico che sia una scoperta piacevole, anzi: è un ritrovarsi mutati nello specchio immutabile di una pagina, è un continuo disconoscersi, un constatare nostro malgrado lo scorrere del tempo; in breve, è una preparazione letteraria alla morte. Nella biblioteca di casa, se attraversiamo i suoi scaffali in un’ora di malinconia, ci sembrerà di vedere un piccolo camposanto. «Chiodo scaccia chiodo. Ma quattro chiodi fanno una croce», annotava Cesare Pavese nei suoi ultimi giorni.

L’analogia tra libri e amori, come tutte le analogie, illumina alcuni tratti, magnificandoli, ma altri ne lascia in ombra; e quando si pretende di spingerla piú in là del dovuto, genera equivoci e miraggi da cui il saggio non deve farsi abbindolare. Per esempio, guai a farne discendere regole di comportamento e codici d’onore. Cercando sul Battaglia la parola «intonso», accanto alle accezioni che interessano parrucchieri, giardinieri e altri sfoltitori di chiome, ne troveremo due che sembrano perfette per far nascere uno di questi equivoci. La prima è estensiva: «Che ha i fogli non ancora tagliati, non rifilato (un libro); che presenta il margine intatto (la pagina di un libro). Anche: che non è mai stato aperto né letto». La seconda è figurata: «Illibato. “Ha replicato che la sua ragazza è ancora intonsa; e che, con lei, giuoca soltanto” (Bartolini)». Prima della rifilatura meccanica, in effetti, l’approccio a un libro appena uscito dai torchi dello stampatore aveva qualcosa di una deflorazione: solo facendo scorrere un tagliacarte lungo le piegature dei fogli si potevano separare le pagine e immergersi nella lettura. Da molto tempo la lettura non è piú condizionata a questo gesto preliminare, e il peggio che capiti di dover fare a un libro è rimuovere la pellicola trasparente che lo avvolge (diciamo pure, per restare in metafora, che basta spogliarlo del suo attillatissimo abitino di cellophane).

Se insisto su questo bizzarro accostamento tra il libro illibato e la vergine intonsa (o viceversa) è perché molti lettori della specie piú diffusa, i monogami seriali, mostrano di avere un po’ troppo riguardo per l’onore dei libri, imponendosi obblighi morali impropri. Sono come coscienziosi giovanotti d’altri tempi i quali, consapevoli delle responsabilità che sarebbero discese dal loro capriccio, non osassero accostarsi alla giovane timida con cui pure, nella chiesa del paese, si scambiavano ogni domenica occhiate ardenti. Allo stesso modo, se hanno avuto la curiosità di cominciare un libro, sentono oscuramente che è loro dovere farsene carico fino in fondo: praticano la lettura riparatrice, stretta parente del vecchio matrimonio riparatore. Ma con i libri è lecito essere mascalzoni: sedurli e abbandonarli, comprometterli agli occhi del mondo, ingannarli, fare con essi i nostri comodi per poi passarli a un lettore ancora piú mascalzone. E il risultato di questa libertà di costumi è eminentemente morale: la stessa attitudine che nella vita sentimentale può essere segno di immaturità, è prova di maturità se riferita ai libri. Il grande lettore deve farsi spietato, diceva Ennio Flaiano, non deve aver riguardo per i libri mediocri, cosí da restare circondato solo dai migliori: «E si diventa perfidi, si arriva a capire un libro nuovo ad apertura di pagina, a liberarsene subito». Giuseppe Prezzolini la chiamava «lettura d’assaggio», e la associava alla maturazione intellettuale.

A Swann bastava leggere su un giornale i nomi delle persone che si trovavano a un pranzo per indovinarne infallibilmente la sfumatura d’eleganza, «come un letterato, alla semplice lettura d’una frase, valuta l’esatta qualità del suo autore». C’è una spavalda ironia, una signorile svagatezza nel far cadere una similitudine cosí perentoria in un romanzo di quasi un milione e mezzo di parole. Non mi coglierai in fallo neppure su una frase còlta a caso, sembra suggerire Proust al lettore, a patto che tu abbia con la letteratura la stessa consuetudine che Swann aveva con la mondanità. Lo spirito snobistico, insomma, è la via maestra per la saggezza e la nobiltà d’animo letteraria.

I primi libri, come i primi amori, dobbiamo attraversarli fino in fondo, salvo poi chiederci – dopo cinque anni o cinquecento pagine – come potemmo un giorno guardarli con tanto trasporto, se oggi ci sono cosí indifferenti. Scopriremo allora che è stato proprio quell’amore, quel libro, a portarci fino al punto da volercene congedare; che lo abbiamo usato come una scala a pioli, e che le altre le saliremo con piú facilità. Quando il nostro gusto si sarà affinato, un’occhiata furtiva basterà a capire che quella scala invitante non potrà portarci su nessun’altura che non avessimo conquistato già. Diventiamo incontentabili, bizzosi, e incolpiamo le nostre pretese esagerate. Ma non si può percorrere a ritroso la scala del gusto, non piú di quanto si possa comandarsi di amare qualcuno che a prima vista non ci piace. Si dirà che è suppergiú quello che Swann fa con Odette, che proprio non era il suo tipo. Poco male: se avesse applicato agli amori la saggezza che usava con i pranzi, oggi non avremmo la Recherche. E con questo, possiamo congedare senza rimpianti la nostra analogia.

Il libro boomerang

Quale forza contenuta nella cosa donata fa sí che il donatario la ricambi?

Marcel Mauss, Saggio sul dono

Da bambino mi hanno rubato mille volte il naso. All’epoca i furti di nasi erano all’ordine del giorno, una vera emergenza per la sicurezza; ma le forze dell’ordine non vigilavano, e dirò di piú, una buona parte di questi atti criminosi si consumava in famiglia, al riparo delle mura domestiche. Non c’è zia che non mi abbia scippato almeno una volta il naso, che misteriosamente ricompariva in forma di pollice, una falange sporgente tra l’indice e il medio. Caspita che brutto naso, era il mio primo pensiero. Grazie al cielo però continuavo a respirare, e se mi cercavo il naso lo ritrovavo al suo posto, magicamente riformato.

Se lo avessi visto girare in carrozza per la città, come nel racconto di Gogol, probabilmente avrei sviluppato qualcosa di simile alla sindrome dell’arto fantasma. Oliver Sacks, in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, racconta il caso di un marinaio che si era reciso accidentalmente l’indice della mano destra: «Nei quarant’anni seguenti fu tormentato dal fastidioso fantasma del dito rigidamente teso, com’era nel momento in cui se l’era reciso. Ogni volta che si avvicinava la mano alla faccia, per esempio per mangiare o per grattarsi il naso, temeva che il dito fantasma gli cavasse un occhio». Suona come un racconto dell’orrore, vero?

Io ormai la questione del naso l’ho risolta – so che è stabilmente qui, al centro della faccia –, in compenso potrei elencare a uno a uno tutti gli arti fantasma della mia biblioteca, tutti i volumi amputati dall’infanzia a oggi: i libri perduti o trafugati in un trasloco, i libri prestati e mai riavuti indietro, i libri regalati frettolosamente nella convinzione, peraltro non irragionevole, di poterne fare a meno, i libri che qualcuno deve avermi rubato, qualcuno che ora ridacchia nell’ombra come ridacchiavano le mie zie godendosi la loro refurtiva nasale.

«Nel momento in cui presto un libro, comincio a sentirne la mancanza», ha scritto Anatole Broyard, che di libri ne recensí centinaia per il «New York Times», oltre a scriverne di suoi. «La mia mente va allo spazio vuoto sullo scaffale, come la lingua al dente cavato. La mia sicurezza è infranta, il mio equilibrio messo a repentaglio, i miei affetti sono confusi, le barriere contro il caos assottigliate». Naso per naso, dente per dente: per i lettori piú inclini alla bibliomania la libreria di casa è in tutto e per tutto un’estensione del corpo, un esoscheletro cartaceo, e questo li rende recalcitranti al prestito (chi darebbe la tibia in uso a un amico, anche solo per qualche settimana?) e ipersensibili ai vuoti. Ma anche molti lettori comuni collocano i libri, se non proprio nella roccaforte degli organi vitali, quanto meno nella cinta immediatamente esterna, dove stanno ammucchiate, alla rinfusa, le cose intime: lo spazzolino da denti, la biancheria, il pin del bancomat, il fazzoletto, il piatto in cui stanno mangiando, l’asciugamani del bidet. Tutte cose che è sconveniente chiedere in prestito, e che è imbarazzante sia concedere sia negare a chi, ciononostante, ce le chiede: uno spazzolino non è un dente, un fazzoletto non è un naso, ma poco ci manca. Per i non lettori, invece, i libri appartengono al magazzino degli oggetti impersonali, come gli ombrelli o le penne biro, che sono di tutti e di nessuno. «Nei confronti dei libri presi in prestito si mantiene sempre una certa distante cortesia», scrive Rilke nel Diario fiorentino. «Non leggerei mai a letto o in veste da camera il libro imprestatomi da una fanciulla, e non porrei mai un’opera presa dalla grande libreria di un collega nella mia piccola raccolta, ma le assegnerei un posto privilegiato sul mio tavolo». Il solo modo per accostarsi a essi, aggiunge, è col cappello in mano: «Con i libri presi in prestito non si stabilisce nessun rapporto, si rimane sempre al “lei”». Dall’insieme mentale in cui le persone implicate nel prestito collocano i libri possono nascere gli equivoci piú vari – sospetti di tirchieria, di rapacità, accuse di sfrontatezza. Ma anche i prestiti tra pari, per cosí dire, possono creare duelli, stalli alla messicana, occasionali carneficine.

Sappiamo bene che i prestiti, specie quelli in denaro, stabiliscono un rapporto asimmetrico tra il debitore e il creditore, inclinando la bilancia a vantaggio di quest’ultimo. Chi riceve un prestito, foss’anche dal piú liberale degli amici, si sente in soggezione, quando non proprio in difetto, finché non abbia ripristinato l’equilibro iniziale. Per questa ragione Polonio, nell’Amleto, raccomanda di non prestare denaro e non chiederne in prestito, perché spesso cosí si perde e il denaro e l’amico. Il libro è l’unico oggetto in grado di inclinare la bilancia verso l’altro piatto, redistribuendo i carichi di apprensione: chi lo prende in prestito si convince per qualche ragione che ormai gli appartiene, e dorme sonni tranquilli; ma anche il prestatore, in cuor suo, sa bene che non lo riavrà piú indietro. E si rigira nel letto.

«Non c’è spettacolo piú terrificante di un ospite nella tua casa che sorprendi a fissare i tuoi libri», notò lo scrittore americano Roger Rosenblatt in un delizioso monologo sulla bibliomania. E non è il suo giudizio che temi, anzi: sei ben felice se il tuo ospite trova i tuoi libri poco interessanti, se si limita a esplorarne distrattamente i dorsi. Poi però i suoi occhi si fermano, e la mano si dirige verso un punto preciso dello scaffale. A quel punto non c’è piú niente da fare. Impietrisci. L’ospite sorride, e tu senti arrivare da lontano la domanda fatale:

«Ti dispiace se prendo in prestito questo libro?»

(Dispiacere? Perché dovrebbe dispiacermi? Il fatto che mi sono imbattuto in quel libro in una libreria di Parigi nell’aprile del 1959 – credo fosse il 13, il pomeriggio, piovigginava –; che l’ho trovato dopo averne cercato una copia in tutta Europa e in Nordamerica; che ha orecchie in passaggi che per la mia vita significano piú del battito del mio cuore; che il solo toccare le sue pagine mi richiama, in un flusso proustiano, il mio primo amore, i miei sogni piú cari. Dovrebbe dispiacermi che tu cerchi di portarmi via tutto questo? Che senza dubbio non lo riavrò mai piú? E anche se un giorno me lo restituirai, io sarò avvizzito, tu noncurante, e il libro sarà tutto rovinato dai tuoi maltrattamenti? Mi dispiace?)

«Niente affatto. Spero che ti piaccia».

Per scongiurare questi drammi, un tempo si adottavano metodi molto persuasivi: le maledizioni. Per tutto il Medioevo e nei primi secoli dell’età moderna erano una cosa seria, volta a proteggere le biblioteche dai ladri e dai furbi. Scagliavano anatemi dal frontespizio, agitavano minacce di scomunica, descrivevano con dovizia di particolari il fuoco eterno in cui il ladro di libri sarebbe arrostito per l’eternità insieme a Caino e a Giuda. Dal Rinascimento queste minacce hanno cominciato a prendere una piega scherzosa, sono diventate un vezzo da collezionisti; le antiche maledizioni si sarebbero sciolte infine in epigrammi umoristici, spesso in latino maccheronico, come questo di F. Wilson Dobbs (A Riming Warning for Book Borrowers, 1899):

Si quisquis furetur

This little libellum,

Per Bacchum, per Jovem!

I’ll kill him, I’ll fell him,

In ventrem illius

I’ll stick my scalpellum,

And teach him to steal

My little libellum.

Una volta fatto il danno e prestato il libro, però, è difficile che una maledizione rimetta a posto le cose: le minacce soprannaturali, nei nostri tempi secolarizzati, hanno un potere di deterrenza piuttosto affievolito. Se n’era accorto nei primi anni Trenta l’umorista napoletano Giuseppe Marotta. Non gli era valso a nulla scrivere a caratteri indelebili sul frontespizio di un libro, prima di prestarlo, «sette anni di guai a chi lo detiene abusivamente»; anche l’espediente di farlo annusare al cane, per poi sguinzagliarlo alla riconquista del maltolto, si era rivelato impraticabile. Cosí, Marotta guardò all’Australia e propose di «ideare una foggia di libro che abbia tutti i principî dinamici del “boomerang”. È vero che il boomerang qualche volta non torna a chi l’ha lanciato; ma allora significa che ha ucciso».

Maledizioni, malocchi e congegni omicidi aborigeni sono tutti stratagemmi rispettabili e benintenzionati, ma non tengono conto della regola generale, o meglio dell’eccezione generale: nel caso dei libri, e solo dei libri, le conseguenze incresciose del prestito non ricadono sul beneficiario, bensí sul prestatore; ed è col suo stesso sangue che questi dovrà ripagare quella fatale imprudenza. Oddio, forse non con il sangue, ma il prezzo può essere comunque altissimo. La disavventura del fratello di Zuckerman, in Zuckerman scatenato di Philip Roth, è un monito per tutti quelli che danno libri in prestito con leggerezza, specie quelli che lo fanno per frivole ragioni di corteggiamento:

– Sai perché ho sposato Carol? […]

– No, – rispose Zuckerman, al quale Carol era sempre sembrata carina, ma noiosa, – no davvero.

– Non è stato perché piangeva. Non è stato perché le avevo messo il distintivo all’occhiello e l’anello al dito. Non è stato neanche perché i nostri genitori si aspettavano che lo facessimo… Le avevo prestato un libro. Le avevo prestato un libro, e sapevo che se non l’avessi sposata non l’avrei piú rivisto.

– Che libro era?

– Il lavoro dell’attore. Un libro di Stanislavskij.

– Non potevi comprarne un altro?

– C’erano le mie note.

La morale è semplice: se qualcuno, foss’anche la piú incantevole e conturbante delle creature, ti chiede un libro in prestito, metti a tacere il richiamo della specie, strozza in gola il bramito del cervo schopenhaueriano in fregola, corri a farti una doccia fredda e comprane immediatamente un’altra copia. Regalare libri per non prestarli: non c’è altra via. «Io ho soltanto quel che ho donato»; a questa frase del triumviro Marco Antonio suggerirei un’aggiunta apocrifa: «Perché mi sono guardato bene dal prestarlo». Questo però ci introduce a un altro genere di guai.

Guai? Perché guai? Cosa c’è di piú bello che regalare un libro! Ecco, questo è uno dei piú perniciosi idola tribus di noi devoti del parallelepipedo. Il dono, se lo si considera solo dal punto di vista del donatore, è già di per sé una grande sbornia di dopamina, ma la festa di autoadulazione e di autogratificazione è resa piú intensa dalla radicata superstizione che attribuisce ai libri, in quanto tali, virtú benigne. «Quando faccio un dono, è un piacere che mi offro», dice il tenero Rousseau nella sesta promenade, ed è la confessione, franca fino alla sfacciataggine, di un io che si rosola impudicamente nella propria benevolenza, usando il regalo come specchio in cui vedersi piú bello. Le cose però si complicano quando abbiamo la cortesia di spostarci un poco e di far spazio, nello specchio, anche all’immagine del destinatario.

La logica del dono, ci hanno insegnato gli antropologi, è vicinissima alla logica della vendetta. Sono due territori confinanti, e la frontiera è cosí imprecisa che per un nonnulla ci si ritrova a passare dall’uno all’altro. In entrambi i casi è all’opera un vincolo di reciprocità: il dono dev’essere contraccambiato, il sangue versato dev’essere ripagato, nella speranza di ripristinare un equilibrio per sua natura molto instabile. «Gli scambi sono guerre pacificamente risolte, le guerre sono il risultato di transazioni sfortunate», ha scritto Claude Lévi-Strauss, e io dico che ci risparmieremmo molti equivoci se capissimo, una buona volta, che nel mondo dei doni il cavallo di Troia non è un’eccezione, è la regola. Nel piú grazioso dei pacchettini si annida sempre, se non un esercito nemico, un pericolo.

Ma cosa c’era nel cavallo di Troia? Che domande: guerrieri achei. D’accordo, ma quanti? Qui i conteggi variano molto, dai tredici della Piccola Iliade ai cinquanta della Biblioteca di Apollodoro, ma c’è chi ha detto ventitre, chi trenta, chi quaranta. Qualcuno l’ha sparata grossa: tremila, piú dei passeggeri del Titanic. E in effetti, c’è chi dice che il cavallo di Troia fosse in realtà una nave (ma non un transatlantico). Secondo lo storico americano Barry Strauss è piú probabile che il cavallo, se esistette, fosse vuoto: una semplice esca. Se poi apriamo il Satyricon di Petronio e lo chiediamo a quel millantatore di Trimalcione, ci dirà che nel cavallo di Troia c’era Niobe, e che ce l’aveva messa Dedalo. Ricapitolando: nel cavallo di Troia, che forse era una nave, c’erano zero, una, tredici, ventitre, trenta, quaranta, cinquanta o tremila persone. Pirandello era un dilettante.

Questa premessa era necessaria per rimuovere la fuliggine di banalità e di secchioneria dalla formula che sto per rifilarvi, l’abusatissimo timeo Danaos dell’Eneide: temo i Greci anche se portano doni. Ogni libro è un cavallo di Troia, per la sua duplice natura di oggetto materiale e di oggetto mentale: stiamo intrufolando dei pensieri nel cuore della cittadella nemica, acquattati in silenzio tra due copertine. Ma è un cavallo donato a cui ci è impossibile guardare in bocca, perché non sappiamo quanti e quali pensieri si apriranno un varco in quel luogo cosí intimo e pressoché inaccessibile. L’amico troiano potrebbe non aprire affatto il libro, per noia o per sospetto, e i pensieri armati morirebbero d’inedia o d’asfissia nel ventre del cavallo. Oppure potrebbe aprirlo, e trovarlo vuoto. Piú probabilmente ne usciranno dei pensieri, tanti o pochi, ma non si muoveranno nella sua mente come una falange: si disperderanno, ciascuno a perlustrare il suo sentiero sinaptico e a cercare lí i suoi alleati. C’è perfino il rischio che portino alla rovina la città assediata.

Sento già arrivare la prossima obiezione: tutto sta a far le cose con cura, e a regalare un libro che sia cucito su misura per il suo destinatario. E qui si scoperchia ancora un altro vaso di Pandora, perché questa sartoria artigianale è tutto fuorché una scienza esatta. L’utopia di abbinare libri e lettori secondo criteri psicologici ha una lunga storia, che si annuncia in Italia alla fine dell’Ottocento con l’inchiesta biblio-psicologica di Guicciardi e De Sarlo e arriva fino alla biblioterapia dei nostri giorni. Tra l’una e l’altra c’era stato un tentativo piú ambiziosamente sistematico, quello del russo Nicolas Rubakin, erudito e rivoluzionario, fondatore di una disciplina che battezzò psicologia bibliologica. Tramite la valutazione statistica delle eccitazioni sperimentate dal lettore nel corso della lettura, Rubakin contava di arrivare a sposare perfettamente le caratteristiche delle diverse personalità a classi di libri affini. Aveva anche approntato un cervellotico questionario di un’ottantina di domande per l’autoanalisi, «Lettore conosci te stesso». Rubakin era certo che in futuro «tutti i libri stampati avranno sul frontespizio un’indicazione della loro classificazione bibliopsicologica», e affidava un compito sublime ai bibliotecari, quello di «guidare l’ascesa spirituale dei lettori verso la fase superiore della coscienza cosmica». E pensare che è già cosí difficile indovinare il libro giusto per chi abbiamo accanto. Racconta Roberto Bolaño:

Il primo libro che mi regalò la prima ragazza di cui mi innamorai e con la quale andai a vivere fu un libro di Mircea Eliade. Ancora oggi non so che cosa volesse dirmi con quel regalo. Un altro, meno stupido di me, l’avrebbe capito subito che quella relazione non sarebbe durata a lungo e avrebbe preso le opportune precauzioni per non soffrire troppo.

Bolaño non dice quale dei moltissimi libri dello storico delle religioni rumeno aveva ricevuto in dono; ma fa intuire che non era il regalo giusto, e che quella ragazza aveva capito poco di lui. Che cosa voleva dirgli? E soprattutto, voleva dirgli qualcosa?

Non sempre è facile capirlo, come mostra il caso di un celebre libro strenna dell’antichità. Era successo che per i Saturnali, la festa di dicembre in cui i romani si scambiavano piccoli doni detti appunto strenae, Licinio Calvo aveva regalato all’amico Catullo un’orribile antologia poetica. Si beccò in risposta un carme satirico. Se non ti amassi piú dei miei occhi, gli dice pressappoco Catullo, per questo dono ti detesterei: che ti ho fatto di male per meritarmi tutti questi poetastri? Volevi rovinarmi la festa? Gli dèi maledicano il cliente che ti ha regalato il libro! Catullo suppone che Calvo gli abbia rifilato il regalo di un cliente che voleva sdebitarsi per una consulenza legale. Fin dai tempi dei Romani, insomma, era destino dei libri strenna essere riciclati sotto Natale. Il carme si chiude su un annuncio di vendetta: mi farò un bel giro tra i librai, dice, e ti ricambierò con poeti altrettanto orrendi.

Forse Licinio Calvo voleva sbarazzarsi del libro, forse era solo un burlone, poco conta: è impossibile non dire nulla con un regalo, e la sua implicita richiesta di reciprocità rende difficile svincolarlo dalla logica della vendetta. Possiamo capir meglio tutto questo con l’aiuto di una popolarissima sitcom americana degli anni Novanta, Seinfeld, creata da Jerry Seinfeld e Larry David, che sta agli scambi di regali nelle società contemporanee come il Saggio sul dono di Marcel Mauss a quelli dei maori neozelandesi o degli indigeni delle isole Trobriand. Se vi pare che io esageri, date retta a René Girard:

Probabilmente il pubblico di Shakespeare apprezzava il suo modo di ritrarre le relazioni umane alla stessa maniera in cui noi apprezziamo Seinfeld, senza veramente capire la sua perspicacia in materia di interazione mimetica. Devo dire che c’è piú realtà sociale in sitcom come Seinfeld che in gran parte della sociologia accademica.

Due episodi saranno la nostra guida antropologica. Prima lezione, The Deal. Jerry Seinfeld ed Elaine Benes un tempo stavano insieme, ma ora sono amici. Stremati da mesi di astinenza sessuale, una sera decidono di andare a letto, e la loro relazione comincia a prendere una forma inclassificabile. Si avvicina la data del compleanno di Elaine, e Jerry ha il terrore di mandarle il messaggio sbagliato: qualunque cosa le regali, si dice, lei convocherà esperte da tutto il paese per interpretarne il significato latente. Sceglie allora di fare un sopralluogo in un negozio di articoli da regalo in compagnia del suo migliore amico George Costanza. Da un posto simile non può venire niente di buono, come aveva avvertito Theodor W. Adorno in Minima Moralia: «La decadenza del dono si esprime nella penosa invenzione degli articoli da regalo, che presuppongono già che non si sappia che cosa regalare, perché, in realtà, non si ha nessuna voglia di farlo. Queste merci sono irrelate come i loro acquirenti: fondi di magazzino fin dal primo giorno». Merci che non hanno rapporti per persone che non hanno rapporti.

Jerry e George passano in rassegna le opzioni. Un carillon? Troppo da fidanzati. Un portacandele? Troppo romantico. Lingerie? Troppo erotico. L’attrezzo per fare i waffle? Troppo casalingo. Va a finire che Jerry regala a Elaine una busta con 182 dollari: che si compri lei ciò che vuole. Ma i doni sono transazioni complesse, e quello di Jerry si rivela un faux pas imperdonabile. Sperando, con il piú neutro dei regali, di non far passare nessuna immagine, Jerry ha fatto passare la peggiore di tutte: «Dei soldi? E cosa sei, mio zio?»

Non si scappa: un regalo non è un oggetto che passa da una mano all’altra; nel ventre del piú innocuo cavalluccio di Troia si nasconde, quanto meno, l’immagine che abbiamo dell’altro e del nostro rapporto con lei o con lui. Questo ci porta alla seconda lezione, The Label Maker. È la grande puntata sul dono, quella che ha introdotto nel linguaggio comune degli americani parole come regifting, che indica il riciclaggio di un regalo sgradito, o degifting, ossia il riprendersi indietro un regalo: una girandola di variazioni che avrebbe fatto la gioia di Mauss, che dava molto peso alla sovrapposizione semantica, nelle lingue germaniche, tra gift come dono e Gift come veleno. Nell’episodio vari oggetti sono regalati, riciclati e ritirati, mentre in una linea narrativa parallela due personaggi giocano una surreale partita a RisiKo!, il gioco di strategia militare. Fate però attenzione al colpo di genio, annunciato già dal titolo: il regalo che passa di mano in mano è un’etichettatrice (molti da bambini ne avevano una, e creavano con zelo notarile etichette in rilievo per i loro giochi, in caso sorgessero, tra fratelli, dubbi sul proprietario). Con le migliori intenzioni di scegliere il libro perfetto per una persona, le stiamo appiccicando sulla fronte un’etichetta, la leghiamo cioè a un’immagine mentale, le imponiamo un sigillo magico. E rischiamo di intrappolarla in un vestito che potrebbe rivelarsi troppo stretto, della foggia sbagliata, di un colore orribile.

Scartato il pacchetto, ecco che sul volto del malcapitato si disegna un indecifrabile sorriso, tra la paresi e lo spasmo cinico. «La coscienza di Zeno? Vuole dirmi che sono un inetto?» «Il male oscuro di Giuseppe Berto. Ho l’aria cosí abbattuta?» «Lo scroccone di Jules Renard. Eppure le ultime due cene le ho pagate io, mi pare». «L’idiota? Ok, quando è troppo è troppo. Chiedo il divorzio».


Psicopatologia delle copertine

Quand’anche rimanessimo in silenzio,

senza profferir verbo, il nostro aspetto

e queste nostre vesti ti direbbero

che genere di vita abbiam vissuto.

Shakespeare, Coriolano

Dopo la Scuola di Francoforte venne la Scuola di Frank-N-Furter, che non è un misconosciuto filosofo tedesco rivale di Theodor W. Adorno, ma il «dolce travestito» del Rocky Horror Picture Show. Era lui, se ricordate, che esortava i timidi sposini capitati nel suo castello a non giudicare un libro dalla copertina – per poi, un attimo dopo, sfilarsi la lugubre cappa gotica e rivelare un corsetto nero cosparso di lustrini, due guanti lunghi fino al gomito, un girocollo di perle giganti e poi giarrettiere, calze a rete e tacchi alti. Nel caso specifico, bisogna riconoscere che non aveva tutti i torti. Ma guai a ricavarne un principio generale. Non solo si può giudicare un libro dalla copertina: lo si deve fare, tanto piú che la fonte di quel luogo comune non è neppure un messia erotico venuto dalla Transilvania transessuale, è un piú banale mugnaio dell’Ottocento, il signor Tulliver del Mulino sulla Floss di George Eliot, che comprava i libri in blocco nella convinzione ottusa che, avendo la stessa rilegatura, dovessero essere tutti buoni libri, checché ne dicesse l’opinione comune – «Pare però che non si debba proprio giudicare dalle apparenze. Complicato, questo mondaccio». A sua discolpa dobbiamo dire che i libri di quell’epoca si somigliavano tra di loro piú dei nostri, quanto meno a un occhio inesperto: le sovraccoperte sarebbero arrivate solo nel secolo successivo, rendendo piú facile il compito di giudicare il monaco dall’abito. La sovraccoperta, infatti, sta al libro come l’indumento all’uomo, e non è un caso che in inglese la si chiami jacket. È una giacca tagliata su misura per il libro, che può essere sobria o sgargiante, elegante o pacchiana.
Esiste, anche in questo settore della moda, un codice non scritto che il giornalista americano Paul Collins ha provato a esplicitare: «Se una copertina ha il titolo in rilievo, metallizzato, o entrambe le cose, allora è come se dicesse al lettore: Salve, sono un romanzo rosa, o un noir, o l’autobiografia di un’attrice. Ai lettori che non amano questi generi, il titolo dice: Salve. Sono robaccia». Poi bisogna considerare la palette cromatica: «I colori vivaci e brillanti sono obbligatori per i suddetti libri con i titoli in rilievo»; d’altro canto, «un’opera di Letteratura Seria avrà colori smorzati, simili a macchie di tè». Ed è bene prestare attenzione alla fotografia dell’autore, perché le sue dimensioni sono inversamente proporzionali alla qualità del libro, e anche la riproduzione – a colori o in bianco e nero – è indicativa: «Se la foto a colori dell’autore è in copertina e la occupa tutta, allora il libro è senza dubbio robaccia». Criteri di questo genere sono per natura mutevoli nel tempo e sensibili ai contesti nazionali. Lo scrittore Antonio Baldini, per esempio, nel 1924 rimpiangeva lo stile sobrio dei libri della sua giovinezza e trovava disdicevoli, oltre a mille altre frivolezze tipografiche, i disegni sulle copertine: quando vide un’edizione di Giuseppe Parini con un’immagine del poeta nudo in cima a una gradinata – «Nudo l’abate Parini!» – ebbe un mancamento. Se fosse vissuto abbastanza a lungo per vedere (esiste, giuro) un’edizione della Certosa di Parma di Stendhal con in copertina una certosa, intesa non come abbazia di certosini ma come formaggio molle lombardo, con sopra un paio di foglioline di basilico per gradire, ci sarebbe rimasto secco.
Il nostro gusto è indissociabile dal disgusto per il cattivo gusto altrui, come sappiamo dal sociologo Pierre Bourdieu, e questa gerarchia di predilezioni estetiche, questo sistema implicito di inclusioni e di esclusioni, è al servizio dei meccanismi sociali della distinzione. Anche nel paese dei libri esiste una stratificazione sociale molto articolata, e tutt’altro che stabile. È una lotta senza tregua per salire di status bibliografico, per essere ammessi nell’alta società degli scaffali, per mettersi in vista sulla piazza dei librai; o viceversa è uno sforzo orgoglioso per conservare privilegi declinanti, ostentando l’appartenenza a una cerchia di volumi blasonata. Questa grande commedia dell’ambizione e dello snobismo meriterebbe, piú che un Bourdieu, un Balzac.
A ben pensarci, di questo romanzo esiste già un abbozzo inconsapevole; si chiama Masscult e Midcult e lo ha scritto nel 1960 il critico americano Dwight Macdonald. La trama, in breve: c’erano una volta l’Alta Cultura e l’Arte Popolare, separate da un fossato pressoché invalicabile. La nobiltà aveva i suoi intrattenimenti altezzosi, i suoi poeti di corte, i suoi musicisti austeri e le sue danze compostissime; la plebe dal canto suo aveva messo su un repertorio di feste, canzoni, fiabe e spettacoli, e anche se politicamente se la passava malissimo aveva una cultura di cui non lamentarsi. Poi però, sulle ali del capitalismo, è arrivata la Cultura di Massa. E questa mascalzona, danarosa quanto cinica, ha compromesso l’innocenza dell’Arte Popolare, inondando il popolo di filmacci, canzonette, rotocalchi e libri gialli. Fin qui, il melodramma familiare di Macdonald è quasi indistinguibile da quello dei suoi ispiratori, Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, i due padri della Scuola di Francoforte che una quindicina di anni prima avevano pubblicato il loro celebre saggio sull’industria culturale. Macdonald però aggiunge un colpo di scena da romanzo ottocentesco: un matrimonio tra membri di classi diverse. È uno schema collaudato. Dalla mésalliance tra una marchesa italiana e un soldato napoleonico era nato Fabrizio del Dongo, l’ambiziosissimo eroe della Certosa di Parma (quella non spalmabile). Ebbene, non paga di aver corrotto l’Arte Popolare, la Cultura di Massa ha preteso di avere rapporti innaturali con l’Alta Cultura. Ne è nato un «bastardo» – Macdonald sceglie proprio questo epiteto – di nome Midcult, o Mezzacultura. La vicenda di questo rampollo illegittimo suonerà familiare a tutti gli amanti del romanzo francese: Midcult ha l’orgoglio sanguinante a causa delle origini vili del padre, quel Masscult da cui ha ereditato una incorreggibile volgarità. Vorrebbe somigliare alla madre, l’Alta Cultura, la cui antica eleganza gli è tuttavia inaccessibile. Fa del suo meglio per imitarne stili e rituali; ma al dunque non ottiene che di svilirli, adulterarli e contraffarli, e il meglio che riesce a ricavare da questi sforzi di emulazione è un goffo mascheramento, che tradisce i suoi poco limpidi natali.
Entrate in qualunque libreria per osservare il seguito di questa saga familiare: dalle ambizioni di Midcult sono nati, in tipografia, mille nouveaux riches e parvenus di carta, una nidiata di piccoloborghesi ambiziosi e incerti del proprio status: libri miserelli se non proprio ignobili che per distinguersi dalla massa dei thriller o dei romanzi rosa, con cui hanno il giustificato terrore di essere confusi, si presentano al gran ballo libresco ostentando i paramenti dell’alta società editoriale: tinte pastello, fotografie seppia dell’autore, riproduzioni di particolari di quadri; a volte li vedi perfino comparire con addosso un jacket, o sovraccoperta, rifatto su qualche modello di sartoria editoriale francese o americana. Vedrete danzare questi debuttanti sotto gli occhi alteri degli aristocratici decaduti, membri di casati editoriali un tempo illustri, i cui stemmi araldici incutevano soggezione, che oggi si arrabattano a salvare le apparenze del prestigio impacchettando tra le copertine di collane gloriose libri che non hanno piú un soldo di talento in tasca. La morale è che è sempre piú difficile giudicare un libro dalla copertina; e forse anche Adorno, oggi, si iscriverebbe alla Scuola di Frank-N-Furter.
Perché mettiamo tanta cura nel creare vestiti per i libri? La storia, come tutte le storie di questo mondo, è antica quanto Adamo ed Eva. I due progenitori si accorgono di essere nudi, e si coprono alla bell’e meglio con una foglia di fico. Intorno alla foglia, va da sé, continuano a essere nudi come prima, ma da quel momento tutti gli occhi del mondo – generazioni su generazioni di amanti dell’arte, chierici lubrici e fedeli iconoduli – saranno puntati sulla foglia: che cosa ci sarà là sotto? È la contraddizione originaria dell’abbigliamento, che Georg Simmel segnalò nel 1909 in un saggio sulla civetteria:

Chi si adorna, anche parzialmente, ricopre o nasconde ciò che viene adornato; ma chi si ricopre o si nasconde richiama l’attenzione su di sé e sulle proprie attrattive. È per cosí dire una necessità ottica che il primo gradino dell’abbigliamento debba fissare la contemporaneità del sí e del no, che è poi la formula generale della civetteria.

Contraddizione però non è la parola piú adatta. A trovarne una migliore può aiutarci il freudiano John Carl Flügel, autore nel 1930 di una Psicologia dell’abbigliamento. Ci vestiamo per tre ragioni, dice Flügel: abbellimento, pudore, protezione. Sembra un semplice elenco, ma se lo osserviamo da vicino è un campo di battaglia. «Lo scopo essenziale dell’ornamento è quello di rendere l’aspetto del corpo piú bello, in modo da attrarre lo sguardo di ammirazione di altre persone»; viceversa, «il pudore tende a farci nascondere gli eventuali pregi del corpo e in genere a cercare di non attirare l’attenzione degli altri su di noi». Esibire e nascondere non vanno d’accordo, e soddisfare completamente e simultaneamente entrambe le tendenze, dice Flügel, non è possibile. Le potenze in conflitto devono perciò sedersi a un tavolo e firmare un compromesso – gli accordi di pace del guardaroba. La psicoanalisi ha un nome preciso per i compromessi tra impulsi in guerra, e questo nome è «sintomi nevrotici». L’esempio di Flügel è il rossore: chi si vergogna vorrebbe scomparire alla vista altrui, e arrossisce; ma proprio quell’alterazione cutanea attira gli sguardi del mondo e soddisfa un esibizionismo inconscio: «Nei termini di questa stretta analogia si può invero affermare che i vestiti assomigliano a un perpetuo rossore sul corpo dell’umanità».


L’ambivalenza del coprire e dello svelare, dell’attirare l’attenzione con lo stesso gesto con cui la si storna, vale anche per i libri e per le loro copertine. Non perché i libri abbiano una vita psichica autonoma, beninteso; ma perché siamo noi ad averla, noi che li portiamo a spasso nel grande teatro della vita sociale e per loro tramite mettiamo in scena timidezze e civetterie, esibizionismi e imbarazzi. Provate a guardarvi intorno. Che cosa cerca di comunicare quello studente pallido e ombroso che, rincantucciato nel vagone di una metropolitana, non stacca gli occhi e gli occhiali dai Frammenti di Eraclito, avendo però cura che gli altri passeggeri, i profani e i dormienti, possano spiarne la copertina? La sua posa ambivalente sembra dirci che non ha bisogno di noi, che forse perfino ci disprezza; ma che, allo stesso tempo, non può fare a meno del pubblico dei disprezzati per vedere riconosciuta la propria superiorità. È la dialettica elementare del risentimento, ma non è certo l’unica ragione per sfoggiare una copertina. Ricordo ancora una scena degli anni del liceo: durante l’ora di educazione fisica la compagna di scuola desiderata da tutti leggeva, ostentatamente assorta, Il diario segreto di Laura Palmer, la conturbante confessione di una teenager divisa tra sesso, droga e sciamanesimo (Twin Peaks era da poco arrivato in Italia); e ogni tanto ne sollevava sbadatamente gli occhi, ma solo per accertarsi che continuassimo a fissarla ammirati: era un caso di scuola (superiore) di civetteria simmeliana, un morbido oscillare tra il sí e il no, un chiamare a raccolta gli sguardi per poi bloccarli sull’uscio. La scena mi torna in mente ogni giorno davanti alle fotografie con cui lettori e lettrici, sui social network, si mostrano nell’atto di leggere – su un divano, in un letto sfatto ad arte, su una spiaggia, al bordo di una piscina. Anche in questa esibizione del proprio astrarsi dal mondo possiamo riconoscere, se non un sintomo nevrotico, un compromesso tra due spinte di portata epocale. O meglio, tra due figure di lettori.
Da una parte c’è il lettore classico, l’erede della bookishness di cui George Steiner paventava l’imminente sparizione. Considera la lettura un piacere privato, da coltivare al riparo dagli occhi del mondo, e cerca il luogo ideale per appartarsi con il suo libro. Può essere un angolo ignorato della casa, una vasca da bagno, il vagone di un treno, una panchina in un giardinetto pubblico – qualunque luogo, purché gli consenta di restare da solo. Solitamente è il suo letto. Edith Wharton leggeva e scriveva in una stanza da letto dove era ammessa solo la governante (all’occasione una segretaria, che raccoglieva i fogli dal pavimento per batterli a macchina); Colette passò gli ultimi anni galleggiando sul suo radeau-lit o letto-zattera, come l’aveva battezzato. Leggere a letto, ha osservato Alberto Manguel, è un’azione che «svolgendosi fra le lenzuola, nel regno della lussuria e dell’ozio peccaminoso, ha il fascino delle cose proibite».
Ma i social network sono un letto a tre piazze, e accanto al lettore classico si è intrufolato il barbaro. Lo chiamo cosí senza sussiego aristocratico, solo perché nel saggio I barbari Alessandro Baricco ha trovato le parole per descriverlo. Questo secondo amante, piú giovane e impaziente, coltiva «l’idea che il valore del libro stia nel suo offrirsi come tessera di un’esperienza piú ampia: come segmento di una sequenza che è partita altrove e che, magari, finirà altrove». Si tuffa tra le pagine, e tra le lenzuola, ma tira fuori la testa di continuo. Le sue brevi apnee servono a pescare dal fondo marino coralli, perle, frammenti di relitti, cose ricche e strane da smerciare sulla terraferma dei social network. Legge una frase che lo folgora, e si precipita a fotografarla perché tutti la vedano con lui. L’intimità a due con il libro gli pesa come una reclusione, ma non possiamo fargliene una colpa. La bookishness richiedeva un’economia dello spazio e dell’ozio che è venuta meno per mille ragioni; e i media elettronici hanno tolto quasi ogni significato sociale agli spazi chiusi. Seppellirsi in una stanza e in un libro è sempre piú difficile e sempre piú innaturale. Eppure, il lettore classico continua a tormentarci come lo spirito di Vadinho in Dona Flor e i suoi due mariti di Jorge Amado. Andremo avanti con il ménage à trois? Butteremo fuori dal letto uno dei due mariti? Per adesso, abbiamo siglato un compromesso nevrotico: autoritratto con libro, su letto o su divano.
Niente di nuovo, penserete. Una lunga tradizione iconografica mostra lettori assorti sotto un albero, in un’Arcadia di sogno, o lettrici adagiate su una dormeuse, in un salottino accogliente. È vero, ma la finzione voleva che il pittore li avesse sorpresi in quell’atteggiamento e li avesse ritratti a loro insaputa. Offrendo consapevolmente lo spettacolo pubblico della nostra intimità la neghiamo alla radice. Ci teniamo abbracciati al lettore classico, ma strizziamo continuamente l’occhio al barbaro sull’altro fianco del letto, che si precipita a vantarsi in diretta dell’impresa erotica.
I libri digitali ci riportano ai tempi del mugnaio Tulliver. Non hanno un vestito, indossano tutti la stessa divisa sobria, e rischiano di rovinare lo spettacolo quotidiano in cui tutti siamo al contempo attori e spettatori. Quali copertine sbirceremo, in autobus o in metropolitana, tra le mani del nostro dirimpettaio? «Ossessionati da quello sguardo inquisitore o curioso – raramente benevolo – che si finge di ignorare, si fa anche finta di leggere, si perde il filo, si protesta interiormente, – scrive Annie François. – Eppure si è scampati al peggio, al temibile “Cosa legge di bello?” che prelude al “rimorchio”». Un giorno Alberto Manguel notò nella metropolitana di Toronto una donna – non ne ricorda il volto né l’abito né l’età – che leggeva Borges, e avrebbe voluto mandarle un cenno d’intesa, da affiliato alla stessa setta.
Chissà per quanto tempo ancora si potrà fare una candid camera come Subway Reading, girata nel 2016 dal comico americano Scott Rogowsky, che saliva sulla metropolitana di New York e si metteva a leggere finti libri dai titoli formidabili. Alcuni erano un po’ macabri, come Mille posti da visitare prima di essere giustiziati dall’Isis; altri erano politicamente scorrettissimi: c’era, per esempio, Adolf Hitler, Mein Kampf per bambini (prefazione di Roald Dahl) o Deepak Chopra, Come nascondere la tua erezione a Dio. E quest’ultimo titolo, si può dire, riconnette tutti i fili causando un bel cortocircuito, se ricordiamo che Agostino, nel De Civitate Dei, aveva dato a intendere che a rendere vergognosa la nudità di Adamo era stata l’«impudente novità» del membro eretto.
All’inizio dell’Uomo senza qualità, Ulrich risistema e arreda la malandata palazzina viennese di cui è appena entrato in possesso. Per quest’uomo della possibilità, la cui vita è «un filato fatto di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi», non è per niente un compito facile:

La responsabilità di arredarsi la casa lo agitava moltissimo, e si sentiva pendere sul capo il minaccioso avvertimento «Dimmi come abiti e ti dirò chi sei», che tante volte aveva letto nelle riviste specializzate. Dopo aver consultato minuziosamente tali riviste, concluse che era meglio intraprendere da solo la costruzione della propria personalità.

Ma Ulrich è cosí cronicamente indeciso che finisce per affidarsi agli arredatori.
Il sociologo Peter Berger ha letto in questo episodio un ritratto accurato della condizione dell’individuo moderno, che non trovando in sé nulla di saldo a cui ancorarsi «arreda la sua vita come arreda la sua casa, e molto spesso il secondo arredo è simbolo del primo». Lo stesso potremmo dire per la biblioteca domestica. Quante cose si capiscono delle persone guardando le loro librerie! Certo, ci sono anche librerie senza qualità. Forse non sono molti quelli che comprano i libri a metro in base alle tinte del salotto, ma c’è chi si affida all’equivalente delle «riviste specializzate» di Ulrich, procurandosi diligentemente le novità che l’industria editoriale gli spinge sotto il naso come imprescindibili. In tutti gli altri casi, possiamo trarre moltissime notizie dalla scelta dei libri, dalla loro disposizione, dai criteri di classificazione e anche da certi dettagli minori: sono allineati al bordo anteriore degli scaffali, quasi a sporgersi su un precipizio? Sono, al contrario, addossati alla parete? A naso, direi che la seconda scelta appartiene a un tipo umano piú timoroso, lo stesso che rimbocca le coperte fino a immobilizzarsi, nemmeno fosse un paziente psichiatrico a rischio di fuga, e che allaccia la cintura ad altitudini ascellari, nel timore inspiegabile che i pantaloni volino via da soli.
La libreria ha l’aria di un magazzino, o alcuni libri sono girati di faccia, per sottrarsi all’anonimato delle file e fare sfoggio della propria copertina? Non è un dettaglio trascurabile. Un tempo, la differenza tra le residenze aristocratiche e le case borghesi consisteva in questo: che nelle prime anche le stanze da letto potevano essere usate per le feste, nelle seconde anche i salotti servivano al disbrigo degli affari quotidiani. Lo stesso vale per gli scaffali. Non è solo una scelta tra due stili, ma anche tra due tipi di personalità. In Provaci ancora Sam Woody Allen viveva in un appartamento open space – la nuova Versailles di massa – sfruttato come palcoscenico per i suoi goffi tentativi di seduzione. Tutto era disposto meticolosamente, libri, riviste, dischi, perfino una medaglia sportiva (comprata da un compagno di scuola piú atletico). Non cosí diversi erano i vezzi del romanziere Hugh Walpole. Da giovane aveva una libreria ancora molto modesta, «ma i raffinati poeti e drammaturghi, i saggisti di qualità superiore e uno o due romanzi in francese (per me quasi interamente incomprensibili) erano disposti in modo ostentato sui miei scaffali; ero sempre contrariato se qualcuno entrava nella mia stanza e non li notava». Non dimentichiamo che un’altra funzione dell’abbigliamento – a sentire l’architetto Bernard Rudofsky, autore di un geniale libro sul tema – è la selezione sessuale, e che i vestiti sono un surrogato delle fastose apparenze usate da molte specie animali per sedurre.
E poi: ci sono doppie o triple file? E in questo caso, cosa si nasconde nelle retrovie? E c’è forse in casa una libreria segreta, diciamo pure esoterica, collocata in una stanza a cui non si è ammessi se non al termine di un’iniziazione? La doppia biblioteca è come il trucco secentesco della doppia maschera, suprema mistificazione per cui quando ci si toglieva la maschera piú esterna tutti s’illudevano di aver visto il vero volto. Il poeta Philip Larkin aveva in questo un criterio rigoroso: «Tengo i romanzi e i gialli in camera da letto, di modo che i visitatori non siano tentati di chiederli in prestito; il salotto ospita le forme piú alte di letteratura (e i miei libri di jazz, una collezione tutt’altro che esaustiva), mentre l’atrio lo riservo a libri meticolosamente scelti per accelerare l’ospite che se ne sta andando».
Che relazione c’è tra la letteratura esposta in salotto allo sguardo dei profani e le misteriose letture del boudoir riservate agli adepti? Corrispondenza, stridore, schizofrenia? Forse oltre quella soglia ci sono collezioni di racconti libertini settecenteschi e trattati di magia tantrica. Forse ci sono libri di cui (a torto o a ragione) ci si vergogna, manuali di self-help e romanzi di chick lit. Forse ci sono libri cosí eruditi da spaventare l’uomo comune – commenti ad Avicenna, studi di prosodia e metrica greca. O magari, come nel mio caso, vecchie annate di Topolino.
Ha scritto Anatole Broyard che i volumi allineati nella libreria di una persona «sono una metafora, come l’immagine a raggi X del proprio corpo che Clawdia Chauchat dà a Hans Castorp dopo la notte passata insieme nella Montagna incantata. Una libreria racconta di chi la possiede almeno quanto il famoso armadietto dei medicinali di J. D. Salinger». E cosí torniamo al nostro conflitto originario tra l’ornamento e il pudore, e ai diversi compromessi che può ispirare. Il cosiddetto Bookshelf Porn – i blog degli esibizionisti degli scaffali, file di volumi di perfetti sconosciuti che mostrano il loro lato piú osé, il dorso, costringendoci a un’intimità non richiesta – è il punto estremo della sventatezza. Agli antipodi c’è chi, come Roberto Calasso, veste i libri della biblioteca di pergamino, quella specie di carta velina che spesso ricopre i volumi d’antiquariato: «Il pergamino rende molto piú difficile, per un occasionale visitatore, individuare i titoli dei libri. E questo frena ogni eccesso di intimità». Nel guardaroba dei libri c’è posto anche per il négligé.

Una tazza tutta per sé

Quando andate dal vostro analista, vi domanda che cosa leggete quando siete al gabinetto? Dovrebbe domandarvelo.

Henry Miller, I libri della mia vita

È tempo che l’onorata metafora della torre d’avorio ceda il passo a quella, piú dimessa, del trono di ceramica. Il gabinetto è l’ultimo rifugio degli spiriti solitari, il precario sostituto moderno della colonna del monaco stilita o dello studiolo dell’umanista quattrocentesco. Non è storia nuova. I teologi medievali si erano chiesti se la latrina fosse un luogo appropriato dove pregare. Alla questione aveva già fatto cenno Agostino, ma fu un monaco agostiniano tormentato dalla stitichezza a metterla al centro dei suoi pensieri, lo stesso monaco che proprio nella latrina della torre ricevette dallo Spirito Santo la rivelazione della dottrina della giustificazione e fondò il Protestantesimo. Nei Discorsi a tavola Martin Lutero, ossessionato com’era dalle immagini scatologiche, suggerí anche la risposta che il monaco super latrinam deve dare al diavolo che lo deride perché prega in un luogo cosí lurido: Deo quod supra, tibi quod cadit infra. A Dio quel che è sopra, a te ciò che cade sotto. Ne resta un’eco nella celebre hit da oratorio o da canzoniere scout Cacca al diavolo, fiori a Gesú.

Se si può pregare sul gabinetto, a maggior ragione ci si può leggere. Nella Vita di san Gregorio, del XII secolo, la latrina è presentata come «un luogo di ritiro in cui le tavolette possono essere lette in piena tranquillità». Ma saranno i lettori moderni a fare del cesso il proprio cubicolo profano per isolarsi dal mondo. Marcel Proust, per esempio, si dedicava ai libri e alle fantasticherie nella stanzetta «destinata a un uso piú speciale e volgare». E Carlo Dossi, in una delle Note azzurre, aveva immaginato una soluzione ingegnosa per abolire ogni distinzione tra il gabinetto e la biblioteca: «Proporrei quindi di far stampare i libri in carta da cesso, in modo che collocati nelle latrine si possano i libri strappare foglio a foglio o svolgerli a pezzi da rotoletti». Sarebbe stata una sintesi un po’ triviale tra il libro come lo conosciamo, il codex, e il suo antenato, il volumen, il rotolo di papiro o pergamena. In effetti, in tempi recenti c’è chi ha tentato soluzioni simili. Lo scrittore giapponese Koji Suzuki, noto per il romanzo horror da cui è tratto il film The Ring, nel 2009 ha stampato su carta igienica una breve novella, Drop, che occupava novanta centimetri (a spanne, meno di dieci strappi) e che era riprodotta piú volte sullo stesso rotolo. E un artista della Florida, Dennis Malone, ha trascritto integralmente Moby Dick, note incluse, su sei rotoli di carta igienica. Lo scroscio del discarico, in effetti, può aggiungere una nota di realismo a una storia marinaresca. Ma sono esperimenti marginali. Piú fortunata è la serie di libri da gabinetto Uncle John’s Bathroom Reader, inaugurata nel 1988 dal Bathroom Reader’s Institute (sí, esiste), che ha venduto milioni di copie delle sue miscellanee di storielle, curiosità, notiziole e pettegolezzi buoni per tutti gli intestini.

Henry Miller non avrebbe approvato libri del genere. Da giovane era stato un lettore da gabinetto, ma poi aveva scelto di sbrigare le sue incombenze letterarie (e ci auguriamo solo quelle) in mezzo ai boschi, preferibilmente accanto a un ruscello. Il suo argomento contro le letture scadenti presuppone la perfetta analogia tra cicli dell’alimentazione fisici e mentali:

Se nutrire il corpo e la mente è di vitale importanza, lo è altrettanto eliminare dal corpo e dalla mente ciò che è già servito al suo scopo. Ciò che non è stato utilizzato, «immagazzinato», diventa velenoso. Questo è puro buonsenso. Ne segue pertanto, come la notte il giorno, che se andate al bagno per eliminare la materia di scarto che avete accumulato nel vostro organismo, rendete un cattivo servigio a voi stessi se impiegate questi preziosi momenti per riempire la mente di «robaccia».

Pensereste forse, per risparmiare tempo, di mangiare e bere mentre siete seduti sul cesso?

Noi magari non lo penseremmo, ma qualcuno lo ha pensato. Ricordate il piccolo Strachey, e il suo articolo sui fattori inconsci della lettura che a un certo punto prendeva una piega disgustosa? Bene, è arrivato il momento di parlarne. Strachey riportava il caso di un suo paziente ossessivo con tratti paranoidi che passava le giornate nei bagni pubblici, dove lavorava, scriveva, leggeva e consumava i suoi pasti. Ne aveva fatto il suo ufficio. La sua massima soddisfazione – oltre a masturbarsi con una mentina infilata nel sedere – consisteva nel mangiare una crostata alla crema nell’esatto momento in cui defecava. Con un paio di passaggi logici rapidi e audaci, il nostro psicoanalista concludeva che alla radice della passione per la lettura c’è una sublimazione della coprofagia. I libri e le pagine stampate rappresentano gli escrementi – qualcosa di scuro che si deposita sulla carta immacolata, sporcandola – e a questa associazione inconscia è legata l’abitudine di leggere sul gabinetto. Chissà che questo non aiuti a spiegare l’episodio di Lutero che scaglia contro Satana un calamaio pieno di inchiostro nero (fenomenologicamente, non siamo cosí lontani dal lancio delle feci caro agli scimpanzé).

Le deduzioni di Strachey non erano proprio ferree, ma anche senza addentrarsi nei labirinti intestinali cosí a fondo da ritrovarsi all’uscita sul retro, il rapporto metaforico tra libri e cibo è uno dei piú antichi, misteriosi e indissolubili che esistano. Holbrook Jackson dedicò ben due sezioni del suo trattato finto-barocco The Anatomy of Bibliomania ai mangiatori e ai bevitori di libri, e le sue illustrazioni di questo nesso simbolico sono cosí numerose che è quasi impossibile scegliere quali citare. Tutto comincia con la visione del profeta Ezechiele. Presso il fiume Chebar, nella terra dei Caldei, gli appare una figura soprannaturale di metallo incandescente su un trono di zaffiro circondato dal fuoco (praticamente un quadro di Francis Bacon), e gli intima: «Apri la bocca e mangia ciò che io ti do». Una mano imperiosa gli porge il rotolo di un libro, un involtino su cui sono scritti lamenti, pianti e gemiti vari, ma il sapore è tutt’altra cosa: «Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele». Qualcosa di simile accade a Giovanni di Patmos nell’Apocalisse, quando gli appare un angelo con un libriccino. «Prendilo e mangialo, – gli dice, – quando lo inghiottirai, sarà amaro allo stomaco, ma in bocca sarà dolce come il miele». Giovanni lo mangia, e anche questo libro mantiene la promessa: è dolce come quello di Ezechiele, «ma quando lo inghiottii, sentii amarezza allo stomaco». I biblisti avranno riempito senz’altro biblioteche di sottilissime esegesi sulle digestioni comparate di Ezechiele e Giovanni; e come sempre, anche in questo caso c’è il ritratto dello zio matto da andare a ripescare in soffitta: l’avventuriero settecentesco Johann Ernst Biren, signore di Curlandia, che aveva il vizio di trangugiare carta inchiostrata, inclusi trattati internazionali e documenti preziosi (gli ha dedicato un bel libro Edgardo Franzosini, sulla scorta di una pagina di Balzac).

Leggere e mangiare sono attività gemelle, con tutte le sfumature della gourmandise. Galileo, per esempio, detestava Tasso quanto amava Ariosto, e se i versi del primo gli sembravano cetrioli, quelli del secondo lo deliziavano come «saporiti poponi», ossia meloni. Il poeta Coventry Patmore, dal canto suo, paragonò Shakespeare al roastbeef; e credo non ci sia complimento migliore per uno scrittore. Ma piú che gli abbinamenti del gusto, che sono largamente soggettivi – prendete due degustatori del Nome della rosa di Eco: per Piergiorgio Bellocchio era una zuppa immangiabile, per Grazia Cherchi un equivalente delle patatine di McDonald’s – contano gli stili di masticazione e digestione. La formula piú celebre la dobbiamo a Francis Bacon (il filosofo, stavolta): «Ci sono i libri da assaggiare, i libri da inghiottire e i pochi da masticare e digerire».

Quand’ero un adolescente culturalmente onnivoro, ricordo che mio padre notò sulla mia scrivania due libri, La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper e Lo scambio simbolico e la morte di Jean Baudrillard. «Che ci fanno l’uno accanto all’altro una bistecca e un soufflé?», mi chiese a bruciapelo. A dirla tutta, quel libro di Baudrillard non mi sembrava propriamente un soufflé, era una micidiale raclette ipercolesterolica a base di semiotica, marxismo e psicoanalisi che credo tuttora di non aver digerito, ma da allora ho preso l’abitudine di controllare con piú coscienziosità l’etichetta nutrizionale dei cibi intellettuali che assumo. Con la saggistica, il mio apparato digerente ha una lunga storia di intolleranze, collocate su uno spettro molto ben definito. A un estremo stanno i libri-crostaceo, quelli che ti impongono di lottare con pervicaci corazze, antenne sporgenti e chele minacciose – gerghi tecnici intimidatori, concrezioni di parole astratte, interminabili premesse metodologiche, inutili preamboli su tutto ciò che il libro non dirà – per arrivare, sfiniti, a un minuscolo gheriglio di polpa rosa, che se va bene sa di aragosta, se va male è insapore come un chewing gum (un’esperienza di masticazione che Bacon non poteva conoscere, e che definisce a meraviglia quasi tutta la Theory postmoderna). All’estremo opposto stanno i libri - passato di verdure, quelli dalle idee chiacchierine e dallo stile scorrevole, ma cosí scorrevole da non incontrare resistenza alcuna nella loro marcia dentro il mio organismo. Vorrei poterne menzionare almeno uno, se solo lo sciacquone della memoria non se li fosse portati con sé.

In generale, molti lettori si accostano alla saggistica con la stessa ritrosia mentale del bambino verso la frutta che dev’essere sbucciata, o che è piena di semi, o che fa presagire lunghi sforzi di masticazione. Con la letteratura di finzione le cose sono molto diverse. Norman Holland, uno studioso e critico letterario d’impronta psicoanalitica, sosteneva, come Strachey, che leggere storie ci riporta alle fantasie della fase orale – divorare, incorporare, introiettare – e ci rimette nella condizione del poppante attaccato al seno. Ma questa regressione non è soltanto innocua o rassicurante, perché include il rischio di finire sbranati. Quando leggiamo un racconto d’avventura, una favola, una storia di fantascienza, «dobbiamo “avere fiducia in” questo nuovo mondo come ci fideremmo di una madre che ci nutre, assorbirlo ed esserne assorbiti». Aggiunge che la faccenda può prendere anche una piega molto letterale: «Talvolta il caratteristico “mangia o vieni mangiato” della fantasia diviene completamente esplicito come in Hänsel e Gretel o Pincher Martin di Golding, dove il protagonista si ritrova naufrago e affamato su uno scoglio in mezzo all’Atlantico che si rivela essere un suo dente».

Credo che questo spieghi la difficoltà che alcuni incontrano nell’abbandonarsi alle storie. E ripenso all’illustrazione del pittore siciliano Aleardo Terzi sui risguardi di una Enciclopedia della fiaba che mio padre mi leggeva da piccolo (e che mio nonno, suppongo, aveva letto a lui: è un libro di fine anni Quaranta). C’erano dei bambini che spingevano con tutte le forze per richiudere un enorme volume dal quale un drago minacciava di uscire; e a giudicare dagli occhi strabuzzati del povero drago, lo spiaccicamento tra le pagine era quasi compiuto. Tuttora, quando mi capita di riaprire quel vecchio libro che ormai quasi si sbriciola tra le mani, tutto rappezzato con lo scotch, che non farebbe paura neppure a un bambino, ho un raggelante attimo di esitazione in cui mi domando se azzannerò o finirò azzannato.

Come tutti i lettori nevrotici, ho avuto ogni sorta di disturbi alimentari legati ai libri e alla lettura. Spesso ho sperimentato una fame smodata e tutta astratta di libri, la stessa di cui parla Melanie Klein in un saggio del 1931 sull’inibizione intellettuale, dove si sofferma sulla «smania di introiettare tutto quello che è a disposizione, congiunta all’incapacità di distinguere ciò che è valido da ciò che non lo è». Klein pensava che questa fame di libri derivasse da una sensazione infantile di vuoto e di impoverimento sempre incombente, una minaccia che il lettore vorace tenta di scongiurare accumulando provviste nel proprio magazzino interiore. Ebbene, leggevo anch’io come un forsennato, ma neppure mi bastava, perché avevo gli occhi decisamente piú grandi della pancia. Un banco imbandito di libri usati con l’insegna «tutto a metà prezzo» mi attirava come un neonato smanioso di attaccarsi a un seno gigante. Una parete intera di volumi di una collana amata, ordinati secondo le sfumature di colore delle copertine, mi lasciava con l’acquolina in bocca, ammaliato come il narratore della Recherche in villeggiatura a Balbec quando avvista sulla spiaggia la variopinta brigata delle fanciulle in fiore – «Vi erano accostati gli aspetti piú diversi, tutte le gamme di colore vi comparivano una accanto all’altra». Poi certo, quando estrae un singolo fiore dal mazzo delle jeunes filles, Albertine, il miraggio di abbondanza svanisce e le cose si fanno abbastanza complicate da richiedere altri cinque volumi di romanzo. Ugualmente, non c’è altro modo di congiungersi al seno della Grande Dea dei libri che tirare giú dallo scaffale un volume, uno solo, e cominciare a leggerlo. Con quel libro concreto passeremo momenti incantevoli o noiosi, grandi scoperte e piccole incomprensioni, entusiasmi e frustrazioni; ma bella o brutta, sarà un’esperienza di natura del tutto diversa da quella che allucinavamo nella pienezza fantasmatica della libreria. Il famelico senso di vuoto che ci spinge indiscriminatamente verso i libri e il nutrimento che può darci un libro singolo appartengono a due mondi lontanissimi e non comunicanti, ma ci illudiamo che il secondo possa estinguere il primo.

I libri sono cibo per la mente, recita un luogo comune caro agli amanti della lettura. Ed è vero, come attesta il legame metaforico millenario. Ma allora perché non abbracciare l’analogia in tutte le sue conseguenze, suggerendo i necessari corollari dietologici e tossicologici? Non si può prescrivere a un solo corpo una sola dieta senza che questa sia dannosa a una parte e utile all’altra, dice l’Ateniese nelle Leggi di Platone. E la cosa non riguarda solo i corpi e i cibi: «La maggioranza degli esseri umani, – scrive il grecista Eric Dodds commentando Platone, – può conservarsi in buona salute spirituale solo mediante una accurata dieta di “incantesimi”, cioè di miti edificanti e di formule energetiche di carattere morale».

Una dieta di incantesimi non richiede un nutrizionista ma un mago, e la mia me la sono fatta prescrivere da Louis Pauwels, autore insieme a Jacques Bergier del leggendario Il mattino dei maghi. Nel suo breviario di massime di vita, L’apprentissage de la sérénité, Pauwels dice che esistono quattro tipi di lettura: la lettura di distrazione (evasioni di ogni genere), la lettura di acquisizione (il sapere), la lettura di trasporto (le grandi opere letterarie) e la lettura di elevazione (filosofia, saggezza, spiritualità). «Cosí come si variano i cibi nello stesso pasto, variate le letture. Passate da un genere all’altro, secondo l’umore, l’istinto, l’appetito, senza gerarchia né complessi». Sul comodino di Pauwels, per esempio, c’era una pila di libri cosí composta: «Un giallo (la distrazione). Un’opera di astronomia contemporanea (il sapere). Un Čechov (il trasporto). L’insegnamento di Ramakrishna (l’elevazione)».

Sul comodino, dice lui, perché è bello vantarsi dei livres de chevet. Ma io non escludo che fossero i suoi livres de toilette.

Fenomeni paranormali in libreria

Escludo si possa fare della psicologia plausibile fino a che la psicologia non avrà assorbito anche la parapsicologia.

Roberto Bazlen a Luciano Foà, 1960

La volta in cui Sigmund Freud fu sfiorato dalla tentazione del paranormale c’era di mezzo una libreria. Era successo questo: all’inizio della primavera del 1909, Carl Gustav Jung era andato a trovarlo a Vienna e dopo cena, quando si erano ritirati nello studio di Freud, gli aveva chiesto cosa ne pensasse di precognizione e parapsicologia. Nulla sembrava scuotere il saldo positivismo di Freud, tanto che l’allievo, irritato da quel tono sbrigativo di supponenza, cominciò ad avvertire una strana sensazione al diaframma, come se si stesse trasformando in metallo arroventato. In quel momento ci fu uno schianto nella libreria, cosí forte che entrambi balzarono in piedi per paura che gli cadesse addosso. «Ecco, questo è un esempio del cosiddetto fenomeno di esteriorizzazione catalitica», disse Jung. «Suvvia, – ribatté Freud, – questa è una vera sciocchezza!» Ma Jung non si perdette d’animo: «Vi sbagliate, Herr Professor, e per provarvelo ora vi predíco che tra poco ci sarà un altro scoppio!» E cosí fu.

Freud lí per lí era turbato, ma si ricompose presto: «La mia credulità, – scrisse a Jung poche settimane dopo, – svaní non appena cessò la suggestione della sua presenza». Nella stanza di fronte alla mia, ragionava Freud in quella lettera, questi scricchiolii si sentono spesso perché due stele egizie posano sui ripiani di quercia della libreria; nell’altra stanza, dove avvenne l’episodio, sono invece rarissimi, ma sono continuati anche dopo il congedo di Jung, per poi cessare: «I mobili mi stanno dinanzi, non piú animati da spiriti, come appariva al poeta la natura, non piú animata dagli dèi, quando essi abbandonarono la Grecia. Perciò ecco che inforco di nuovo i miei paterni occhiali montati in corno e ammonisco il mio caro figliolo a conservare una mente fredda». Con due rintocchi, uno piú cupo e profondo (le stele egizie ridotte a soprammobili), l’altro piú delicato e malinconico (l’eco degli Dèi della Grecia di Schiller che si esiliano dalla natura), quel grande scrittore che era Freud aveva dato al suo allievo una compendiosa lezione sul «disincanto del mondo», come lo avrebbe battezzato di lí a poco Max Weber.

Eppure, qualcosa non torna. Scricchiola la libreria egizia; scricchiola la libreria ellenica, e continua a scricchiolare per un pezzo dopo che Jung se n’è andato. Io qualche domanda in piú me la sarei fatta. Non ho idea di cosa sia una esteriorizzazione catalitica, non ho trovato traccia della formula al di fuori delle pagine di Jung (già nell’Ottocento gli occultisti la chiamavano «psicocinesi») e per quel che mi riguarda potrebbe essere anche una variante esoterica della supercazzola. Dirò di piú: con o senza occhiali di corno, escludo che sia stata la forza psichica di Jung, utilizzando il suo diaframma arroventato come trampolino di lancio, a balzare sugli scaffali e a farli tremare. Ma come molti lettori ho il sospetto – diciamo: la certezza nevrotica – che i libri abbiano un’anima, una vita autonoma, e che siano capaci di muoversi, dunque anche di fare i matti nelle librerie.

Quando si tratta di libri, sono un convinto animista – altra nozione un po’ desueta, coniata, come quella di feticismo, dagli etnologi ottocenteschi. Alcuni lettori, notava Holbrook Jackson in The Anatomy of Bibliomania, «arrivano ad amare i libri di per sé stessi, li trasfigurano mediante le passioni, e per un geniale animismo li rendono piú reali, piú vivi di ogni altra cosa corporea». Il capitolo in cui cadono queste frasi si intitola Of Bookfellowship, e con un florilegio di citazioni erudite parla appunto della compagnia dei libri: dice che sono i migliori tra gli amici, che con i libri puoi conversare amabilmente, che restano sempre uguali a sé stessi eppure sono nuovi ogni volta, che non si offendono se li trascuri e sono sempre pronti a spalancare le pagine per te. Sono variazioni su un’antica metafora cara agli umanisti. Ma il lettore nevrotico, piú vicino alla religione dei primitivi, le prende molto alla lettera.

Le domande essenziali se le è poste Bernard Pivot, critico letterario, animatore di alcune delle piú fortunate trasmissioni culturali della tv francese. Per esempio: i libri si riproducono tra di loro? «Certo che sí. Come spiegarsi altrimenti la presenza, soprattutto nelle pile trascurate o in quegli scaffali la cui oscurità favorisce le audacie, di opere sconosciute? Chi non si è trovato in casa con in mano un libro il cui autore e titolo non gli evocavano nessun ricordo? Bisogna allora far ricorso alla spiegazione per mezzo della riproduzione». Pivot ipotizza che questi libri sovrannumerari, che non si sa bene da dove vengano, si formino per un misterioso processo di autocreazione: parole, frasi, paragrafi o interi capitoli che non ne possono piú di stare in un libro – perché si sentono trascurati, maltrattati, usati a sproposito – sgattaiolano fuori dalle pagine, cercano la compagnia di altri fuggiaschi e raggiunta una massa critica danno vita a un aggregato nuovo, che sembra spuntare dal nulla sulla libreria. Un’altra ipotesi – fondata sulle simpatie occulte anziché sulle antipatie coalizzate – la dobbiamo allo scrittore messicano Alberto Ruy Sánchez: «Si dice che se di notte si lasciano fianco a fianco, in certe sezioni molto gradevoli della biblioteca di Mogador, due libri con qualche affinità, al mattino se ne trovano tre». Tu pensi che i libri ti diano semplicemente il dorso e quelli invece fanno, per usare una bella metafora erotica, la bête à deux dos, l’animale con due dorsi. Dottrine di questo genere sono affascinanti, ma se inforchiamo gli occhiali di corno del positivista constatiamo che sono probabilmente destinate all’estinzione, incapaci di sopravvivere ai rigori della confutazione scientifica. Come l’astrologia dopo gli esperimenti di Bertram Forer, la teoria della germinazione preternaturale dei libri è messa a dura prova dalla pratica degli acquisti online. Cosí, quando trovo nella mia libreria un misterioso orfanello, della cui provenienza non ricordo nulla e la cui presenza mi pare del tutto incongrua, nove volte su dieci la posta elettronica mi fornisce la prova dell’ipotesi piú prosaica: l’ho adottato io, e subito dimenticato. Padre snaturato.

Chiede ancora Pivot: i libri possono muoversi autonomamente? «Sí. Prova ne è che alcuni cambiano da soli di posto sullo scaffale, che non li ritroviamo dove li avevamo messi e che il loro movimento scompiglia l’ordine alfabetico. Il piú delle volte a spiegare queste dislocazioni incongrue sono liti tra vicini». Capita cioè che certi libri «non permettano di essere accostati a volumi notoriamente mediocri o a opere i cui autori gli paiono indegni di una coabitazione con il nome impresso sulla loro copertina. Stretti gli uni contro gli altri, come potrebbero non avere reazioni epidermiche?» Forse anche per evitare queste liti condominiali, lo storico dell’arte Aby Warburg ridisponeva continuamente i libri della biblioteca in base a una misteriosa «legge del buon vicinato», un sistema di corrispondenze che poteva lasciare sconcertato il visitatore.

Pivot si era condannato a questa continua gazzarra da ballatoio perché aveva scelto di sistemare i suoi inquilini secondo l’ordine alfabetico, astratto criterio di censimento che genera equivoci, malcontenti e afflizioni. Susan Sontag, per esempio, malsopportava l’idea di dover tenere Platone e Pynchon sullo stesso scaffale. E di che potrebbero parlare Hannah Arendt e Isaac Asimov, messi fianco a fianco? Si chiederebbero se si può spiegare il comportamento di Adolf Eichmann a partire dalle tre leggi della robotica? Don DeLillo e Fëdor Dostoevskij avranno certo qualcosa da dirsi, ma non conoscono l’uno la lingua dell’altro e finirebbero per esprimersi a gesti (che spreco); per giunta, se il russo scoprisse che Underworld si può tradurre con «sottosuolo», potrebbe nascerne una contesa legale o, peggio, una nuova guerra fredda. Bisogna usare ogni sforzo diplomatico per prevenire tali guerre. Jonathan Swift provò a sventare la battaglia tra libri Antichi e Moderni nella Biblioteca di St. James. Prevedendo tafferugli sugli scaffali, suggerí di «tenere accoppiati i campioni delle opposte fazioni, o tutt’al piú mescolati, in modo da neutralizzarsi a vicenda con la loro stessa malignità, come si annullano, mescolandoli, i veleni dagli effetti antitetici». Fu tutto vano, e scorsero fiumi d’inchiostro: The Battle of the Books è il resoconto della storica battaglia di quel venerdí del 1704.

Non solo i libri possono muoversi da uno scaffale all’altro: possono anche fare i bagagli e, nottetempo, scappare di casa. Sempre per via delle liti tra vicini, dice Pivot, ma anche per ripicca orgogliosa: «Un libro può sentirsi umiliato se nessuno lo apre mai, se è stato relegato su uno scaffale inaccessibile dove lo sguardo del suo proprietario-lettore non l’ha sfiorato da molti anni, se la polvere si accumula su di lui…» So per esperienza che questi libri hanno un’occasione d’oro per organizzare una fuga: il trasloco. L’ultima volta che ho cambiato casa ho cominciato ad accorgermi di strane lacune (di nuovo, la sindrome dell’arto fantasma). Un giorno non trovavo un libro, poi non ne trovavo un altro, poi un altro ancora. Alla fine ne avevo contati una dozzina: 1984 di George Orwell, la Institutio oratoria di Quintiliano, il libricino di Proust Sur la lecture che avevo regalato a mia madre dopo il mio primo viaggio a Parigi, la banned lecture dell’occultista sataneggiante Aleister Crowley su Gilles de Rais prototipo storico di Barbablú (che è come dire la biografia del dottor Mengele scritta dal Canaro della Magliana)… Avrei potuto dare la colpa al caos che regna da sempre nella mia testa e nella mia libreria, ma sarebbe stato troppo maturo. Cosí ho cominciato a fantasticare su un mitico scatolone perduto, forse fatto scomparire da una massoneria di traslocatori bibliofili, ma piú probabilmente formatosi secondo imperscrutabili leggi di affinità. Mi sono messo allora a cercare un legame invisibile tra i volumi di cui avevo perso le tracce, e immancabilmente l’ho trovato – perché cosí funziona la mente umana, quando ci si mette d’impegno e sbriglia la paranoia. Quell’immaginario romanzo bibliografico era senz’altro un degno omaggio letterario ai miei desaparecidos. Ma forse si erano solo sentiti trascurati. Libri miei, doveste mai leggere queste righe: la porta di casa è sempre aperta.

Fin qui abbiamo parlato di fenomeni paranormali che capita di osservare solo occasionalmente, di eventi rari e perturbanti. La prova piú ordinaria e piú vistosa della vita autonoma dei libri sta però nella loro ferocia di invasori, nella loro capacità di colonizzare i nostri spazi. «La vera ambizione dei libri, – scrive ancora Pivot, – è di cacciare gli uomini dalle biblioteche e dalle loro case e di occuparne tutto il territorio per un godimento grandioso e solitario». Non sono schizzinosi come noi: una volta esaurite le mensole e le librerie, si accontentano delle cantine, dei sottoscala, dei bagni, delle scarpiere, dei cassetti della biancheria, delle cassette della frutta. Della nostra libertà se ne infischiano. Sono in cerca del loro Lebensraum – lo «spazio vitale» dei nazisti – e le stanze della nostra casa sono i Sudeti, l’Austria, la Polonia. Premono alle nostre frontiere, creano torri e fortezze sul comodino, ci impediscono di camminare senza calpestarli o, peggio, inciamparci. E su noi tutti aleggia l’incubo piú nero: la fine del compositore Charles-Valentin Alkan, che il 30 marzo 1888 fu ritrovato morto in casa, schiacciato dal crollo della sua libreria mentre cercava di raggiungere il Talmud su uno scaffale alto (la storia è leggendaria ed è stata smentita, ma fossi in lui me la terrei stretta, perché la realtà è ben piú imbarazzante: a schiacciarlo fu probabilmente un pesante portaombrelli).

È comprensibile che l’invaso, il quale s’illude di esser padrone dei libri per il trascurabile accidente di averli un giorno comprati, voglia imporre su di essi il proprio ordine, stabilire il logos laddove regnava il caos. I criteri di ordinamento – per generi, per epoche, per autori, per cronologia – sono la delizia dell’illuminismo dei biblioteconomi, che hanno architettato sistemi di classificazione sofisticati e composto trattati di meticoloso rigore. Ma guai a dimenticarci del sostrato animistico su cui erigiamo queste pericolanti palafitte. Perché possiamo dirci finché vogliamo che i libri sono oggetti tra gli oggetti, inerti blocchi di carta senza volontà né anima, che non si curano di dove li posiamo e di cosa facciamo in loro presenza, che restano impenetrabili alla fantasmagoria di proiezioni interiori con cui li avvolgiamo. Ma la verità è che sono oggetti magici. Il luogo che abitano è infatti quel regno di mezzo, né reale né immaginario, né mentale né materiale, né interiore né esteriore, sotto la cui giurisdizione fino al Rinascimento cadevano l’amore e la magia. Non sarà un caso se qualche studioso delle tradizioni magiche ed esoteriche ha suggerito che Winnicott, teorizzando l’Area dell’Illusione e lo Spazio Potenziale, non ha fatto che riscoprire un’Atlantide sommersa su cui fino al Cinquecento gli uomini avevano camminato quotidianamente.

Questo implica che ogni operazione compiuta con i libri, sui libri e per mezzo dei libri – mescolarli, separarli, suggerirli, prestarli, regalarli, bruciarli, perfino leggerli – è un’operazione magica. Del resto, magia e mnemotecnica sono andate a braccetto per secoli. La biblioteca di casa è, in piccolo, il teatro della memoria di un mago rinascimentale – idea che troviamo nella Plutosofia di Filippo Gesualdo, del 1592, dove un capitolo intero è dedicato alla Libreria della memoria, e che ritroviamo secoli dopo nella biblioteca-cervello dell’Uomo senza qualità di Musil. È una mente o anima artificiale, lo specchio esteriore di un paesaggio interiore, un palcoscenico su cui possiamo assistere allo spettacolo allegorico della conoscenza in atto, un luogo dell’immaginazione che consente di agire sulla nostra mente operando sulla combinazione e la ricombinazione dei volumi. Il processo, va da sé, è bidirezionale: ogni nuova interrelazione dei libri ci induce a considerare una diversa interrelazione degli oggetti mentali; e ogni ordine della nostra biblioteca, per quanto apparentemente casuale, avventizio o dettato da ragioni contingenti – per esempio, ho dovuto mettere i miei libri sui cani accanto a quelli di fantascienza, perché era l’unico spazio rimasto libero – illumina una nuova porzione del nostro paesaggio interiore: tra i miei libri di fantascienza c’è Anni senza fine di Clifford Simak, dove l’umanità si è estinta e il pianeta è dominato dai cani. Nella libreria che ho di fronte mentre scrivo, lo scaffale piú alto è occupato dai libri di teologia, poi ci sono diversi scaffali di argomento mitologico, a seguire ce n’è uno dedicato alle fiabe, poi ancora una sezione di etnologia e folklore, e in basso i libri di psicoanalisi. È un ordine di cui saprei ricostruire la genesi, tutt’altro che pianificata: ho messo in alto i libri di teologia perché li prendo sempre piú di rado; le fiabe le ho sistemate lí in mezzo perché occupavano esattamente quello spazio vacante. Ma quando lo abbraccio in un colpo d’occhio, vedo un disegno armonioso che non sapevo di aver composto.

A proposito: trattandosi di psicoanalisi, il libro di Jung che racconta l’episodio paranormale nello studio di Freud – Ricordi, sogni, riflessioni – è sul piú basso degli scaffali, praticamente a terra. Per scaramanzia: non sia mai che in un raptus di esteriorizzazione catalitica mi facesse fare la fine di Alkan.

Siamo tutti rilegati in pelle

Compagno, questo non è un libro

chi tocca questo tocca un uomo.

Walt Whitman, Foglie d’erba

La notte, se penso ai mille refusi annidati nei libri della mia biblioteca che riposano tronfi e impuniti, non mi addormento piú. Avverto oscuramente che l’ordine del mondo dev’essere ripristinato prima di consegnarlo al sonno, e fantastico di raddrizzare quegli errori come un cavaliere con la matita in resta. È allora che vorrei farmi bello citando George Steiner – «Colui che lascia passare i refusi senza correggerli non è soltanto un ignorante: bestemmia contro lo spirito e contro il senso. Forse, in una cultura secolare, può essere definito nel modo piú ordinato come lo stato di grazia quello in cui l’individuo non trascura la correzione degli errata letterali…» – ma chi voglio prendere in giro, sono solo un lettore nevrotico con il suo stupido disturbo ossessivo-compulsivo. E lo era anche Steiner.

Non che quei riferimenti alla santità e alla grazia fossero fuori luogo, anzi; i refusi hanno origine diabolica, e il demone che li dissemina sulla pagina ha anche un nome: Titivillus. Se ne ha notizia fin dal Medioevo, ma solo nella Francia di fine Ottocento gli venne riconosciuta la funzione di travisatore degli amanuensi, démon des copistes et des moines étourdis, che infila in un sacco le sillabe che l’orante ha dimenticato di salmodiare e il copista di trascrivere. Scrive Anatole France: «Credo che questo diavolo cavilloso, ammesso che sia sopravvissuto all’invenzione della stampa, svolga oggi il compito ingrato di rivelare i refusi disseminati nei libri che pretendono di essere accurati». Dalla natura diabolica di Titivillus, tuttavia, non è lecito dedurre la santità o lo stato di grazia del correttore, anzi. Il lettore armato di matita rossa e blu non è un san Michele che brandisce il gladio, è semmai uno dei tanti travestimenti dell’uomo che volendo far l’angelo fa la bestia: ossia il millenarista, l’utopista, l’edificatore del paradiso in terra. «L’Utopia significa semplicemente l’esattezza! Il comunismo significa togliere gli errata dalla storia. Dall’uomo. Correggere bozze», dice il protagonista di un romanzo di George Steiner, Il correttore. Il guaio è che gli errata della storia sono di solito dei poveri erranti. Robert Conquest inaugurò la sua opera sulla Grande carestia staliniana invitando il lettore a calcolare che «nel corso delle azioni qui raccontate persero la vita circa venti persone per, non ogni parola, ma ogni lettera di questo libro». E sono quasi cinquecento pagine. Ricordatevene, quando i refusi-kulaki vi mettono in corpo la prurigine di purificare e distruggere: siete a un passo dal Patto Molotov-Ribbentrop con i Grammar Nazi.

Correggere i refusi sui libri già stampati, come faceva Julio Cortázar, è un’abitudine poco diffusa, e tutto fa supporre che lo resterà, salvo ritorni di fiamma totalitari. Quasi universale, al contrario, è la pratica di sottolineare e annotare. Ma è lecito scrivere sui libri? Certo, purché sia a matita, diranno in molti (e io tra questi). E come mai soltanto a matita? Perché il grigio della grafite è un colore piú tenue del blu o del nero dell’inchiostro, e perché sappiamo che si tratta di un gesto in teoria reversibile. In teoria, appunto; è una possibilità astratta destinata quasi sempre a rimanere tale. Soprattutto, insegue un sogno impossibile. Se, dice Tommaso d’Aquino, neppure Dio può restituire la verginità a una giovane e fare come se non l’avesse mai perduta (Utrum Deus possit virginem reparare), cancellare i segni a matita da un libro non farà di esso un libro intonso. Ma possiamo sempre illuderci che sia cosí, adottando quel meccanismo di difesa che Freud chiamava Ungeschehenmachen, «rendere non accaduto». So del caso di un lettore che comprava libri usati e poi passava mattinate intere a cancellare le tracce lasciate dal lettore precedente. Mi ha ricordato quel paziente di Elvio Fachinelli, un piccolo industriale di mezza età che aveva escogitato un incredibile rituale di «annullamento» (cosí lo chiamava lui) delle azioni che considerava peccaminose. Quest’uomo ripercorreva in senso inverso tutte le tappe dell’azione vergognosa: usciva dal luogo del misfatto camminando all’indietro, scendeva le scale voltato all’insú, guidava in retromarcia fino a casa, risaliva le scale guardando in basso (e non oso immaginare cosa prevedesse il suo rituale nell’evenienza in cui, poniamo, sul tragitto si fosse fermato a mangiare un panino). Il caso risale alla seconda metà degli anni Settanta, ed è buffo notare che, proprio mentre la JVC presentava sul mercato il formato VHS, il paziente di Fachinelli stava lavorando a una specie di tasto rewind esistenziale.

Il lettore comune non si infligge questi rituali ossessivi, e se proprio ci tiene compra un libro immacolato. Quando è lui a scriverci sopra, poi, non avrà la sensazione della sporcizia; anzi, sottolineando e annotando un libro sentirà di averlo fatto proprio. Etologicamente, lo scrivere sui libri ricorda la cosiddetta «marcatura del territorio», comportamento tipico di certi animali un po’ bulli chiamati, appunto, animali territoriali. Per far capire chi comanda nel loro quartiere si servono dei mezzi piú vari. I cani, in buona compagnia con i rinoceronti e altre bestie, usano l’urina. Gli ippopotami marcano il territorio con lo sterco, e tutto lascia immaginare che sappiano essere molto persuasivi. Altri animali ancora, tra i marsupiali e i roditori, preferiscono la saliva – e chi di noi da bambino non ha leccato copiosamente un cono gelato pur di non doverlo offrire al fratellino o all’amico?

I lettori canini cospargono i libri di abbondanti minzioni di stilografica o di evidenziatore perché la semplice matita non ha secrezioni abbastanza odorose; quelli piú vergognosi delle proprie origini animali si affidano invece agli artigli, e pur di non depositare sulla pagina le loro deiezioni imprimono con l’unghia un segno quasi invisibile, che apparirà solo in controluce. Tutti gli altri usano banalmente la matita per ricordarsi i passaggi che trovano interessanti, ed è all’incirca la stessa cosa che fanno alcuni mammiferi, specie quelli che regnano su un territorio abbastanza esteso: la marcatura, in quel caso, ribadisce il possesso ma ha anche funzione mnemotecnica. La frase «il cane ha lasciato un ricordino» va presa molto piú alla lettera di quanto pensiamo.

Chissà cosa direbbe uno psicoanalista non abusivo, se si trovasse per le mani un libro della mia famiglia. Mio padre lasciava sui libri lievi segni di matita tracciati usando un segnalibro come righello, e annotava qualche parola ai margini con una grafia minutissima e indecifrabile; poi arrivava mia madre, e li trasformava in club sandwich: li farciva con la carta stagnola dei pacchetti di sigarette e con i fiori lasciati a essiccare, e aggiungeva al primo strato di sottolineature, cosí ben pettinato, un supplemento di segni sghembi e approssimativi. Quando arrivavo io per la terza lettura, ero costretto a inventarmi qualcosa di ancora diverso: asterischi, punti esclamativi, altri geroglifici.

Ci si può innamorare, per cose del genere. In Fosca di Iginio Ugo Tarchetti, quando Giorgio presta alcuni libri all’eroina, che ancora non conosce, le sottolineature accendono il suo desiderio:

Nella Nuova Eloisa trovai molti passi controsegnati in margine con matita, e una striscia di carta postavi per segnacolo, su cui vi era scritto da un lato Sursum, e dall’altro Excelsior.

I passi controsegnati rivelavano, assieme alla natura intima dei suoi patimenti, una intelligenza robusta, fina, perspicace. Quella donna aveva dell’ingegno.

Da ventenne scapigliato, avevo escogitato un metodo tarchettiano per capire se una ragazza faceva per me, una tecnica di decifrazione delle sottolineature presenti nei libri della malcapitata. Era un metodo grossolano, da processo sommario, ma spero possa servire anche oggi ai cuori solitari di tutte le inclinazioni. Consideriamo anzitutto le varianti estreme; sono molto rare, ma chi le incontra farebbe bene a fuggire a gambe levate. Se sui libri non c’è traccia di sottolineature e perfino il dorso non presenta segni d’uso, delle due, l’una: o non li ha neppure aperti, o li ha letti con tale cura feticistica da credere che abbia usato dei guanti sterilizzati. Ergo, o usa i libri come attrezzeria di rappresentanza, come nelle teche delle sale d’aspetto di certi professionisti, o ha un rapporto cosí schizzinoso con i sensi e la materia da farvi intravedere all’orizzonte una dolorosa penuria di effusioni. Agli antipodi sta il caso in cui un libro è integralmente sottolineato, e quando dico integralmente intendo che all’incirca ogni parola è stata ritenuta meritevole di una speciale evidenza. Consistendo l’intelligenza umana nella facoltà di operare scelte ed estrarre fili dalla grande matassa del mondo, dobbiamo presumere che la vostra cavia inclini alla cretinaggine. Non invitatela neppure a prendere un gelato, perché se lo pianterà in fronte con un sorriso gongolante.

A volte, piú che sottolineature, il libro presenta un cifrario arcano di girigogoli, punti esclamativi insistiti, parole in maiuscolo da cui promana un’aura di rivelazione grandiosa e fatale. Ora, mi direte che anche in certi taccuini di Nietzsche si trovano di queste stravaganze; ma appunto, di lí a poco lo avrebbero rinchiuso nel manicomio di Jena. Per chiunque non stia scrivendo La volontà di potenza, questi teatrali entusiasmi sono solitamente i segni di un’intossicazione bovaristica. Se poi a bordo pagina trovate annotazioni come «Sí! Síí! Sííí!» e altre esclamazioni di giubilo che suonerebbero piú appropriate nell’atto amoroso, è la prova che la vostra cavia vive in un similmondo allucinatorio di gratificazioni multiorgasmiche. Per vostra sfortuna non siete un libro.

Ci sono anche i casi in cui il libro è sottolineato con righello, squadra, goniometro e altri strumenti di precisione. Si può ipotizzare qui una certa tendenza all’ipercontrollo, nonché una mente anelastica e impermeabile alle sollecitazioni del mondo. La cavia sembra adottare con qualunque libro, foss’anche Rimbaud, il metodo appreso nella facoltà di ingegneria o in un corso di logica. Immagino che passerebbe ogni vostra frase smancerosa al vaglio del neopositivismo logico: se vi azzardate a sussurrare «dolce passerotto», vi obietterà che secondo Rudolf Carnap e A. J. Ayer trattasi di un enunciato logicamente inconsistente.

C’è poi il caso in cui il libro mostra i segni di una lettura viscerale e tempestosa: è tutto stropicciato, i segni a matita sono disordinati e coprono parte del testo, gli angoli delle pagine sono ripiegati, a pagina 27 c’è un insetto spiaccicato, a pagina 80 uno scontrino del night club L’Ippopotamo, a pagina 162 il guacamole rende illeggibili due paragrafi, le ultime trenta pagine sono bombate perché sono chissà come finite in acqua e poi riasciugate. Se lo sgrullate, ne usciranno granelli di sabbia, fiori secchi, peli di gatto, i resti essiccati di un supplí. Vi siete imbattuti in una persona passionale, con un sincero amore per la lettura. Sperate che tratti voi come ha trattato il suo libro, ma fate in modo di tenerla lontana anni luce dalla vostra biblioteca.

Per parte mia, ho un debole per le annotazioni discrete da cui emerge un rispetto dell’oggetto-libro che potrebbe indicare un atteggiamento simile nei confronti degli altri esseri rilegati presenti in natura. Ma ho legato la mia vita a una lettrice del tipo viscerale e pasticcione, perché il mio metodo fatto in casa, inutile dirlo, non funziona. Spero tuttavia che le mie manchevolezze di scienziato sperimentale non spingano il lettore a dubitare troppo della legge generale, del grande arcano che ispirava le mie perizie tarchettiane e che considero tuttora valido: nel rapporto con i libri si riflette qualcosa del rapporto con gli umani.

Sono stato anch’io fresco di stampa, intorno alle 20:30 di sabato 15 novembre 1975, appena uscito dalla tipografia materna; fa fede il braccialetto della clinica, che considero il mio colophon. Ero rilegato in pelle. Poi la vita ha cominciato a sgualcirmi, a stropicciarmi, a scrivermi addosso con il suo erpice, ed eccomi qua. «Tra tutti gli oggetti inanimati, tra tutte le creazioni dell’uomo i libri sono i piú vicini a noi, perché contengono il nostro pensiero, le nostre ambizioni, le nostre indignazioni, le nostre illusioni, la nostra fedeltà alla verità e la nostra persistente inclinazione all’errore, – dice Joseph Conrad; – ma piú di tutto ci somigliano nel loro precario rapporto con la vita». L’epitaffio di Benjamin Franklin, che purtroppo non venne usato, è la massima espressione di questo biblioantropomorfismo:

Il corpo

Di B. Franklin, stampatore

Come la copertina di un vecchio libro

Le cui pagine sono state strappate,

e spogliate delle loro dorature,

giace qui, cibo per i vermi.

Ma l’Opera non andrà perduta

Perché essa, crediamo,

riapparirà ancora una volta

in una nuova e piú elegante edizione

corretta e approvata

dall’Autore.

L’Autore in questione, del resto, aveva già manifestato i suoi poteri di resurrezione editoriale. Scrive nel XII secolo il vescovo Garnerio di Langres: «Per dirlo in sintesi, libro grandissimo è il Figlio incarnato, poiché come mediante la scrittura la parola viene unita alla pelle [della pergamena], cosí mediante l’assunzione della condizione umana la Parola del Padre si è unita alla carne». Inutile dire che questa associazione di Gesú al libro si è estesa anche a tutti gli altri uomini. Dalla metafora medievale del «libro del cuore» a quella moderna del «libro della mente», dal bibliotecario di Arcimboldo fatto tutto di libri alle illustrazioni di Jonathan Wolstenholme in cui i libri hanno le braccia, si azzuffano, scrivono, leggono e giocano a scacchi, secoli di cultura testimoniano la nostra identificazione privilegiata con questo manufatto assai diverso dagli altri. E anche se da qualche decennio attingiamo il grosso delle nostre metafore all’informatica, ancora ci capita di dire che il tale ha un brutto carattere, che ci ha fatto una cattiva impressione, che è ormai per noi un libro aperto e che è venuta l’ora di voltar pagina.

Siamo libri che non hanno speranza di scampare al tarlo della carta, salvo imbalsamazioni ben fatte. Il bandito James Allen, alla vigilia della morte in prigione nel 1837, dettò le sue memorie al carceriere, e chiese come ultimo desiderio che gli fosse prelevata dalla schiena una quantità di pelle sufficiente a rilegarle. Il medico portò la pelle in una conceria locale, dove fu trattata per somigliare alla pelle di un cervo, quindi da un rilegatore che abbellí la copertina con un rettangolo di pelle nera rifinito in oro su cui era scritto Hic liber Waltonis cute compactus est («Questo libro è rilegato in pelle di Walton», che era uno dei nomi usati da James Allen). Anche la nevrosi eroica del collezionista, la sua ricerca di prime edizioni in condizioni impeccabili, è una partita con la morte. Per lui i libri, ha suggerito lo psicoanalista Werner Muensterberger, sono doppi cartacei di un sé malcerto e vacillante. Le schiere di volumi intatti e incorrotti rivelano un tentativo disperato di tacitare il caos interiore, mettere la sordina all’angoscia, risalire il corso del tempo, soffocare il senso di caducità, nascondere agli altri e a sé stessi la consapevolezza di una tarlatura inemendabile. Il collezionista si mette allora sulle tracce di un libro appartenuto a un immortale del passato, nella speranza che un poco del suo spirito sia rimasto impigliato tra le pagine – ed è come se comprasse titoli nobiliari, si creasse ad arte una genealogia favolosa (fantasia tipica dei melanconici, come il «principe d’Aquitania» Gérard de Nerval). Tenta con immane sforzo di preservare in eterno lo stato nascente del libro, schermandolo da ogni contatto con il tempo e la corruzione.

Ma è uno sforzo vano. Siamo stati tutti freschi di stampa, prima che le Edizioni dell’Utero ci mettessero in commercio, e un’ostetrica non abbastanza bibliofila maneggiasse il tagliacarte sul nostro cordone, rovinandoci per sempre la rilegatura.

Un demone di nome Tsundoku

E inutilmente da vetrine e lungosenna squillano dorsi multicolori e si levano profumi di carta; inutilmente straripano di primizie proibite i cataloghi degli editori, domestici cafarnai dove ogni giorno un cadavere scaccia l’altro, come in una punizione dantesca di simoniaci, lasciando dal terreno affiorare appena un paio di estremità sgambettanti.

Gesualdo Bufalino, Cere perse

Fino a qualche anno fa sono stato, nella geopolitica portatile della mia famiglia, il parente in via di sviluppo. Avevo una spesa fuori controllo, un bilancio dissestato e vivevo nell’incubo costante del default. Tutto questo perché compravo libri ben al di sopra dei miei mezzi, facendo crescere a dismisura il debito con la mia sorella maggiore industrializzata. Lei, con liberalità non so piú se sovrana o giubilare, ciclicamente cancellava il debito. Ma come tra le nazioni, cosí tra i fratelli: invece di approfittarne per risanare le finanze e dedicarmi ai settori vitali – cibo, salute, un’igiene domestica da primo mondo – tornavo come il piú prevedibile dei governi corrotti a sperperare tutto, se non in armi, in libri. E alla fine dell’anno fiscale ero di nuovo al punto di partenza: accumulatore seriale di libri, fratello a rischio di default fino al successivo azzeramento del debito.

Poi un giorno mia sorella dovette capire il meccanismo, perché si presentò al tavolo dei negoziati – un tavolo con pane e coperto: era una pizzeria a metà strada tra le rispettive residenze – prestandomi un libro che non avrei mai pensato di leggere: I love shopping di Sophie Kinsella. Fin dalle prime pagine – erano estratti conto di carte di credito, lettere via via piú minacciose delle banche alla protagonista che sfondava regolarmente il tetto di spesa – capii che la favola parlava di me. O meglio, non lo capii allora, lo avrei capito piú tardi, perché ero ancora intrappolato nella superstizione che sta alla radice di tutte le nevrosi da libro: l’idea che i vizi capitali (l’avidità, in questo caso) si capovolgano in virtú quando hanno per oggetto i parallelepipedi di carta. E invece avrei dovuto intuire che ero posseduto da un demone piú potente del babilonese Pazuzu: il giapponese Tsundoku.

Tsundoku è una parola d’uso colloquiale che si può tradurre come «l’atto di comprare un libro e poi non leggerlo, di solito mettendolo in una pila di altri libri non letti». Tutto questo in tre sillabe: non oso immaginare cosa avrebbe potuto inventarsi un tedesco, una di quelle parole composte che esasperavano Mark Twain, una cosa come Gekaufteundnichtgelesenbücherstapeln. Tsundoku è il demone che ti spinge verso la cassa di una libreria con una pila di ventisette libri in grembo, che ti fa accumulare centinaia di titoli nel carrello di una libreria online.

Associo la sua figura demoniaca a un incubo ricorrente, quello del tassametro impazzito che corre vertiginosamente verso cifre stellari mentre il passeggero ha i brividi freddi d’angoscia. Di qualcosa del genere scrisse Sigmund Freud nel saggio Sul sogno, riferendo le libere associazioni suscitate da alcune immagini oniriche:

Mi ero allontanato da una piccola brigata insieme a un amico che si offrí di prendere una carrozza per ricondurmi a casa. «Ne preferisco una col tassametro, – mi disse, – ci tiene occupati tanto gradevolmente; si ha sempre qualcosa da guardare». Quando fummo seduti in carrozza e il vetturino mise in funzione il tassametro, facendo apparire i primi sessanta centesimi, continuai il suo scherzo: «Siamo appena saliti e già gli dobbiamo sessanta centesimi». La carrozza a tassametro […] mi rende avaro e interessato, perché mi ricorda continuamente il mio debito.

Meine Schuld: gli anni della crisi finanziaria hanno insegnato a tutti, anche ai piú distratti, che la parola tedesca per «debito» vuol dire anche «colpa». È quel che avverto davanti ai libri che lievitano nel mio carrello, mentre le lancette corrono inesorabili lasciandomi in debito – e in colpa – a cospetto dei grandi autori che non ho letto. Ma sotto la colpa, scavando, trovi la tragedia; e se per l’antropologia dell’uomo colpevole, lacerato dal conflitto tra le sue pulsioni e le leggi della civiltà, dobbiamo bussare alla porta di Freud, per capire la tragedia del lettore accumulatore bisogna far visita a un altro psicoanalista, Heinz Kohut. All’uomo colpevole Kohut contrappose appunto l’uomo tragico, che è squassato da un conflitto diverso, quello tra il finito e l’infinito, perché «cerca, quasi sempre senza riuscirci, di realizzare nel breve spazio della sua vita il programma esistente nel suo profondo». Se volessimo aggravare l’angoscia potremmo aggiungere al carrello già straripante anche Kierkegaard e Unamuno, far salire a bordo esistenzialisti e psicologi esistenziali, ma le loro carrozze a tassametro ci porterebbero sempre lí, dove nostro malgrado stazioniamo tutti: alla coscienza della tragica sproporzione tra l’infinito che ci portiamo dentro e la finitezza della vita, tra il desiderio di dispiegare le possibilità che intravediamo e il tempo risibile che ci è assegnato per compiere l’impresa.

Le biblioteche sterminate, gli elenchi dei mille classici imprescindibili, i cataloghi senza fondo delle librerie offrono al lettore la stessa rivelazione. Tutto sta ad avvertire il rintocco cupo della tragedia sotto il ticchettio frenetico dell’angoscia. E se proprio vogliamo chiamare un vetturino, c’è Emilio Cecchi con le sue Corse al trotto:

Lí davanti il tassametro anch’esso galoppa, con l’affannoso ticchettío d’un grosso orologio impazzito. La cifra paurosa che nel tassametro cresce a ogni scatto, mai avremo come pagarla, per potere scendere. Ed a questa velocità sempre piú disperata, chi ha core di buttarsi disotto? Impassibile, stecchito, il conducente ci volta le spalle. E se gli potessimo vedere il viso, si vedrebbe un teschio.

Tsundoku può prendere molti aspetti, anche meno lugubri dello scheletrico conducente, e grazie a questa abilità può mimetizzarsi in tutti i contesti. Al parigino Charles Asselineau, autore nel 1860 di un divertimento intitolato L’Inferno del bibliofilo, apparve sotto forma di un demone elegante – redingote con il bavero verde grigiastro, cappello dalla lunga falda inclinato sul naso – per trascinare il suo eroe negli inferi del Lungosenna, tra il girone delle bancarelle e quello delle aste di libri. «Compra e non pensarci», gli sussurra affabilmente il demone ogni volta che lo vede tentennare; e cosí, un acquisto dissennato dopo l’altro, il bibliofilo si ritrova carico come una bestia da soma di libri che non ha nessuna intenzione di leggere, e indebitato per piú di trentamila franchi. L’unico modo che ha per racimolare una cifra simile, a quel punto, è vendere la sua adorata biblioteca, su cui si avventa una legione di bibliofili, come gli spiriti immondi di Gerasa che s’impossessano di un branco di porci e corrono verso un precipizio:

Un gruppo di librai, guidati dal demone, penetrò nel mio studio, aprí violentemente le librerie e gettò a piene braccia i miei libri al resto della banda rimasta nel cortile. I libri cadevano come pioggia e si smussavano sul selciato, dove i banditi, eccitati come un branco di scolari, li raccoglievano buttandoli dentro i cesti e li accatastavano ballandoci intorno, come fanno i vendemmiatori nel tino. «Ancora! Ancora!» urlava il demone.

Per visitare Giuseppe Pontiggia, Tsundoku volle assumere la forma di un Mefistofele savio e moraleggiante, dettandogli il decalogo Sull’acquisto dei libri. Il primo precetto – «Non acquistare i libri per leggerli questa sera. Ma acquista solo quei libri che, anche questa sera, avresti voglia di sfogliare» – è ingannevolmente prudente, quasi un invito alla bibliomania di sussistenza. Ma il folklore e la letteratura fantastica traboccano di storie dove un imprudente che si crede furbo, fatta una piccola concessione a Satana, si ritrova in sua balía per l’eternità. Comandamento dopo comandamento, infatti, le cose peggiorano. Quarto: «Se un libro ti attira veramente, non badare al prezzo. È il modo piú sicuro per fare debiti, ma anche per evitare le recriminazioni di una vita. Il rammarico per un acquisto sbagliato è niente in confronto all’angoscia per un acquisto mancato». Ecco Satana che si veste di falsa saggezza mondana, la stessa di quel proverbio che preferisce i rimorsi ai rimpianti! Il quinto comandamento impartisce una sottile disciplina dell’autoinganno, quasi una controascesi luciferina: «Rinvia i propositi di moderazione alla chiusura di ogni mostra, asta, e occasioni simili, cosí come i propositi di dieta alla fine di ogni pranzo. E parti da un progetto di spesa piú elevato del ragionevole, cosí avrai la sensazione di aver risparmiato». Con il sesto, a possessione già avanzata, compare al fianco di Pontiggia l’ombra avida di un altro dannato: «Non indugiare nell’acquistare i libri che ti interessano. Ogni bibliomane sa che proprio quei libri ti vengono sottratti, mentre guardi altrove, da mani occulte e rapaci, che l’edizione nel frattempo si è esaurita e sarà difficile trovarne una copia anche in antiquariato». Chi avverte quelle dita ossute che stanno per sfilargli sotto il naso il libro agognato è già nelle tenebre esteriori, dove è pianto e stridore di denti. Il nono comandamento è degno di una scena del Faust, quella in cui Mefistofele convince l’Imperatore a stampare cartamoneta: «Quando il prezzo ti turba, pensa alla parola magica, alibi di tutti gli affari irreali: investimento».

Alla fine della lettura, per colpa di Pontiggia, su tutto il mio sistema segreto di corrispondenze fantastiche – «Se cito il libro tal dei tali è la prova che mi è servito, dunque è come se mi fossi rifatto del prezzo», oppure: «Lo infilo a caso in una bibliografia, cosí saprò che i talenti hanno fruttato», o ancora (che pena di me): «Sono letture preparatorie per libri futuri» –, su tutta questa aritmetica da campo dei miracoli, su questa cabala di zecchini seppelliti in libreria da cui spunteranno altri zecchini, si era impresso ormai il marchio del demone: Tsundoku.

Il Prufrock di T. S. Eliot diceva di aver misurato la sua vita in cucchiaini di caffè. Io ho misurato la mia adolescenza in volumetti della collana Millelire. Era l’unica moneta che avesse corso nel mio regno. I miei genitori mi regalavano un paio di scarpe, un pullover, un cappotto? Io, che consideravo i vestiti una cosa frivola e sarei volentieri andato a scuola con una pelle di cammello, alla moda di Giovanni Battista, calcolavo subito la conversione nella mia bibliovaluta e piantavo una scena madre da finale di Schindler’s List: per questo cappotto avrei potuto avere duecento, trecento libri da mille lire! Tutto questo mi rendeva insopportabile, come potete immaginare, ma il mio vizio era visto di buon occhio in casa: almeno non si droga, avranno pensato.

Lo psichiatra Emil Kraepelin, nel 1915, coniò per questo vizio il termine oniomania (dal greco oniomai, acquistare), affiancandola a due manie socialmente piú dannose, la cleptomania e la piromania. Ovviamente si può sempre rubare un libro e dargli fuoco, ma finché ci si limita a comprarlo tutto sommato si resta nel perimetro della civiltà – un buon punto a favore della bibliomania. Perché facciamo acquisti forsennati? Gli psicologi non hanno una risposta univoca. Nella dipendenza da shopping convergono elementi ossessivo-compulsivi e depressivi; il tentativo di placare l’ansia, di ripristinare la stima di sé, di riscattare l’impotenza, di mettere a tacere un senso di vuoto interiore. Il fatto che i libri siano socialmente approvati – è raro che qualcuno li consideri uno spreco immorale – dispensa l’oniomaniaco da quella che gli psicologi chiamano la «quarta fase», ossia la depressione-autofustigazione dopo l’orgasmo dell’acquisto. Non sempre, poi, la loro promessa è fallace: se mi sento solo e ho l’impulso a comprare un cappello, dopo l’acquisto sarò un uomo solo con un cappello da idiota; se compro i Saggi di Montaigne, chissà che mi senta davvero meno solo – altro punto a favore della bibliomania (è la voce del demone che parla in me).

La psicoanalista Joyce McDougall si ispira a un’intuizione paradossale di Winnicott, quella secondo cui il fondamento della capacità di stare da soli è l’esperienza infantile di stare da soli in presenza di qualcuno, solitamente la mamma, che protegge la nostra solitudine. Chi da piccolo non ha imparato a star da solo e a fronteggiare con le proprie forze le tensioni dolorose, specie la separazione dalla madre, da grande potrebbe darsi allo shopping selvaggio perché è cronicamente in cerca di oggetti transizionali in grado di placare l’angoscia. I conti tornerebbero con i miei Bis-Bis e con l’arcinemico Giacca della mia infanzia.

Ma nel comprare libri non c’è solo il lenimento di un’angoscia antica, o l’ebbrezza menzognera della possessione demoniaca – tutte cose da sudditi. C’è anche un piacere piú schietto e signorile: lo chiamerei, con Ortega y Gasset, la felicità della caccia. E la caccia è l’attività aristocratica e libera per eccellenza, praticata per secoli da re e nobili, invidiata dai borghesi, sognata dagli umili, collocata al rango piú alto del repertorio delle forme della vita felice. Ebbene, la caccia al libro non è da meno. Ma siccome non si dà ars venatoria senza trattati di cinegetica e senza una qualche etica sportiva, Holbrook Jackson ne ha proposta una semplice semplice in quattro regole. Primo, il cacciatore di libri deve cacciare da solo e non per procura, deve cioè sottoporsi all’ansia, alla fatica e non ultimo ai rischi economici della sua impresa. Secondo, deve amare la preda «come il cacciatore di volpi dichiara di amare la volpe, ma senza il desiderio di distruggerla». Terzo, deve conservare i suoi libri per studi utili, letture di piacere, o per la compagnia della loro presenza. Quarto, deve andare a caccia dei libri che piacciono a lui e non di quelli approvati dalla moda o dal costume. Solo cosí avrà accesso alla felicità aristocratica della caccia al libro.

La terza regola – leggere le prede anziché farle marcire – è la piú universalmente disattesa. Il fatto è che non diamo mai retta a Mosè, né sul vitello d’oro, né sulla manna dal cielo. Quando Dio fa piovere quel cibo miracoloso, il patriarca comanda agli Israeliti di raccoglierne ciascuno quanto può mangiarne, non una briciola di piú. Eppure, racconta il libro dell’Esodo, «essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridí». Le biblioteche al massimo generano tarli e polvere, e ci sono anche lettori – non so decidermi se siano illuminati o solo scriteriati – che non accumulano libri, ma ne traggono l’alimento che gli serve per poi sbarazzarsene con liberalità. Il loro è però un modo di fare che contravviene a tutti gli istinti di noi bibliomani, ed è anche contrario al senso comune – against the grain, secondo un’espressione idiomatica inglese che fa molto al caso nostro, già che la piú antica forma di accumulazione è stata l’agricoltura, e che il granaio è il progenitore di tutti i nostri tesori, di tutte le nostre banche, di tutti i nostri depositi di Paperone. Abbiamo cominciato diecimila anni fa immagazzinando cereali, e ora alcuni di noi immagazzinano volumi che non leggeranno – o non rileggeranno – mai. E fatalmente, se ne intristiscono. Perché sarà pur vero, come voleva Borges, che il paradiso è una biblioteca, ma nei giardini dell’Eden ci si annoia a morte: laggiú non risuona mai un corno di caccia, e senza caccia non c’è felicità. «Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose», dice Pascal; non la lepre, ma la caccia alla lepre. La disponibilità simultanea e illimitata di tutti i beni che desideravamo ci è inaspettatamente odiosa, perché ci mette davanti alla constatazione che non è il loro possesso ciò che avrebbe potuto renderci felici; e ci sono autoinganni vitali che è prudente preservare, come grosse pietre che, se scostate dall’erba per accanimento illuministico, lasciano sgusciar fuori qualche serpente velenoso.

Ci sono libri che ho inseguito per anni. Per esempio, la monografia di Emmanuel Carrère sul regista che ho piú amato fin dalla scuola media, Werner Herzog. Era stata pubblicata nel 1982, quando Carrère era un collaboratore poco piú che ventenne di «Positif» e «Télérama». Il senso di tripudio che provai quando, ragazzino, con la febbre alta, lo trovai per caso su una bancarella parigina, ancora oggi non saprei descriverlo. E ogni volta che ne avvisto una copia all’orizzonte – lo stesso vale per tutti gli altri libri che avrei rincorso in seguito – sento una voce che mi sprona: compralo di nuovo! Ripeti il gesto trionfante di quando, dopo averlo braccato per chilometri, riuscisti finalmente ad abbattere il cinghiale! Non si può mangiare due volte lo stesso cinghiale, direte voi. Ma cosa pretendete, che sia un impulso razionale? Pensate piuttosto a quel film di Herzog, Cuore di vetro, in cui un veggente lotta con un orso invisibile e poi progetta di mangiarselo per cena. A smuoversi sono gli strati atavici della mente, gli istinti ereditari, i luoghi sommersi in cui l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. Senza accorgermene, ero tornato a essere un baldanzoso cacciatore paleolitico.

Altre volte mi assale a tradimento il neolitico dell’agricoltura, con la sua spinta a immagazzinare e a fare scorte per l’inverno. Vivendo, come tutti i lettori nevrotici a uno stadio avanzato, nel terrore di perdere la mia biblioteca – per via di crolli, incendi, allagamenti, razzíe dei barbari, granchi giganti – mi dico che una copia in piú di un libro raro non fa mai male. Cosí, quando trovai una decina di copie dell’Amleto di Jules Laforgue tradotto da Ennio Flaiano, nell’edizione Scheiwiller del 1987, pensai bene di comprarle tutte e dieci. È una quantità che dovrebbe mettere il mio raccolto al riparo dalle locuste, dalla pioggia di fuoco e di ghiaccio e dalle altre otto piaghe d’Egitto. Mi direte voi: ma questi magazzini esistono già, si chiamano biblioteche e ti salvano da un pericolo ben piú reale, il collasso del tuo spazio abitativo. Ancora? Ma cosa pretendete, che sia un impulso razionale?

L’epoca eroica della caccia al libro è ormai al tramonto, soppiantata da infallibili ma piú tristi algoritmi. Chi cerca un libro, oggi, lo trova solitamente in pochi minuti. Ma trova per lo piú ciò che cercava, e raramente fa l’incontro fatale con un libro che non conosceva e che non immaginava di desiderare. Lo scrittore Mark Forsyth ricorda che Romeo e Giulietta si incontrano accidentalmente al ballo in maschera, quando Romeo è ancora innamorato di Rosalina e Giulietta non è innamorata di nessuno, sa solo che odia i Montecchi. In un ideale profilo di dating online, «Romeo avrebbe indicato NO CAPULETI e Giulietta avrebbe specificato NO MONTECCHI». Come risultato, «la versione moderna di Romeo e Giulietta si svolgerebbe pressappoco cosí: lui odiava i Capuleti; lei odiava i Montecchi. Si mettono alla ricerca su www.cercasingleaverona.it e tutti e due finiscono per ritrovarsi, ragionevolmente ma non particolarmente felici, con una persona che corrisponde pedissequamente alle caratteristiche che ciascuno di loro ha indicato». Lo stesso, dice Forsyth, accade con la ricerca di libri; ottieni ciò che già sapevi di volere, ma questo non basta: «Le cose migliori sono quelle di cui non conoscevi l’esistenza fino al momento in cui non le hai avute».

Le ricerche sulla rete non mancano di aspetti avventurosi e offrono anche occasionali entusiasmi, piú spesso di quanto si pensi; ma una scorribanda tra bancarelle di libri usati suscitava quel tipo di attenzione che per Ortega era tipica del cacciatore, l’uomo all’erta che non presume di sapere da dove verrà l’occasione, che non guarda in una direzione determinata sicuro che proprio da lí verrà la sua preda; un’attenzione paradossale, acuita e dilatata, concentrata e diffusa a un tempo; «un’attenzione “universale” che non si fissa su nessun punto e cerca di essere in tutti». Era una delle forme della vita felice, e la stiamo smarrendo.

Cortocircuiti tra la lettura e la vita

Nessuna delle nostre emozioni è schietta.

Gioie, dolori, amori, vendette, i nostri singhiozzi, le nostre risate, le passioni, i delitti; tutto è copiato, tutto!

Jules Vallès, Les victimes du livre

«Bisognerebbe leggere sempre di meno, e non sempre di piú». Varcata la soglia dei sessant’anni, Henry Miller si accorse di aver passato troppo tempo tra i libri. Magari non quanto uno studioso o un topo di biblioteca, diceva lui, che di certo poteva vantare una vita piuttosto avventurosa; «e tuttavia ho letto indubbiamente almeno cento volte di piú di quanto avrei dovuto leggere per il mio bene». Aggiungeva, di passaggio, che i libri in commercio sono troppi, e il grosso è roba mediocre o bassa divulgazione; tanto vale stamparne qualcuno di meno, visti i risultati deprimenti, su cui stendeva il velo di una litote: «Oggi gli illetterati, decisamente, non sono i meno intelligenti tra noi».

La sua disillusione era tutto fuorché nuova. Il dotto rinascimentale Cornelio Agrippa di Nettesheim aveva pubblicato una minuziosa invettiva contro «l’incertitudine e la vanità delle scienze» (De incertitudine et vanitate scientiarium, 1530), che si apriva con il motto nihil scire foelicissima vita – «Felicissima vita è il non saper nulla» – e dopo un centinaio di capitoli, ciascuno dedicato alla demolizione di un ramo del sapere dalla grammatica alla teologia, si chiudeva con una Digressione in lode dello asino. Qui Agrippa sosteneva che «spessissime volte un uomo ignorante et idiota vede quelle cose che non può vedere un dottore scolastico corrotto nelle scienze umane». Anche lui, come Miller, doveva aver letto cento volte piú del dovuto, e vagheggiava una felice asinità. Allo stesso modo, gli inglesi dicono ignorance is bliss, l’ignoranza è una benedizione, ma la fonte è un’ode del poeta settecentesco Thomas Gray, non proprio un contadino o uno speziale. Sono vezzi da eruditi annoiati, che in epoche lontane avevano un tratto umoristico e paradossale, ma che avvicinandosi ai nostri tempi si sono fatti via via piú cupi e disperati.

La formula piú famosa è di Mallarmé: «La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri!» Quel verso dava voce al male di un’epoca intera, che si estende, grosso modo, dalla metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento: la nausea dell’intelligenza, della lucidità, dell’erudizione antiquaria, di una coscienza troppo acuminata di sé e del mondo, di una vita schiacciata sotto il peso di biblioteche straripanti quanto sterili. Il morbo era stato incubato dal Faust di Goethe – il cui modello storico era proprio Agrippa – che entrava in scena proclamando di volersi «strappare ai fumi spessi del sapere», e si era aggravato di generazione in generazione fino al Faust di Pessoa, che aveva bevuto fino in fondo il calice del pensiero e lo aveva trovato orribilmente vuoto. La letteratura di quella lunga stagione è un grande sanatorio di annoiati cronici dalla milza rigonfia, impazienti di togliersi le bende e le ingessature della cultura libresca per ritrovare il contatto con la realtà – tramite le droghe, la religione, l’esoterismo, la vita avventurosa, la guerra, l’erotismo, la militanza politica. «Meglio la barbarie della noia!», grida Théophile Gautier. La barbarie risponderà presto alla chiamata scatenando due guerre mondiali, e non certo per colpa dei letterati; ma se tanti si gettarono con malsano entusiasmo nelle trincee era anche per sfuggire alla morsa gelida dell’intelligenza e al peso delle troppe letture. Finita la stagione delle carneficine, nei nostri tempi relativamente pacifici il vezzo antico si è riproposto sotto la forma di uno stucchevole manierismo della disperazione – il lamento egotistico del letterato che srotola per centinaia di pagine le minuzie della sua coscienza ipertrofica, della sua impotenza a vivere e della sua paralisi esistenziale.

Henry Miller – il suo libro è del 1952 – propone un rimedio ingannevolmente semplice: «Chi cerca la conoscenza o la saggezza, farebbe meglio ad andare direttamente alla fonte. E la fonte non è il dotto o il filosofo, né il maestro, il santo, o l’insegnante, ma la vita stessa – la diretta esperienza della vita». Uno dice: bene, ora chiudo il libro di Miller e mi butto a capofitto nella realtà, straccio il diploma e divento uno dei tanti laureati all’università della vita. Piano con gli entusiasmi però, perché Miller non è un Gassman che strombazza col clacson tritonale sotto casa di noi studenti secchioni per trascinarci tra spiagge e balere, e infatti due righe sotto specifica: «Quando dico vita, penso naturalmente a qualcosa di diverso da quello che intendiamo oggi. Penso alla vita di cui parla D. H. Lawrence in Luoghi etruschi». Nota a piè di pagina: «1. Etruscan places, Martin Secker, London, 1932. Vedi le pagine 88-93». Dunque, vediamo se ho capito bene: non bisogna leggere troppo, bisogna uscire all’aria aperta e vivere; per immergersi nella vita con la baldanza di un antico etrusco, però, la prima cosa da fare è andare nella piú vicina biblioteca e chiedere un libro di Lawrence del 1932. Non se ne esce. La via di fuga dal labirinto di carta è lastricata di carta.

È un caso di scuola di comma 22, come nell’omonimo romanzo di Joseph Heller («Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo»). Un circolo vizioso esistenziale: inseguire la vita leggendo libri sulla vita. Ma ci sono molti modi di esserne intrappolati. Il piú comico è quello del lettore che non si accorge neppure della ricorsività del comma, e cerca la vita direttamente nei libri. E non in forma diluita, surrogata o risarcitoria, no: è la vita nel senso piú pieno e barbarico quella che rincorre tra le pagine. Di solito le sue preferenze vanno al tipo dello scrittore viscerale, lo scrittore che professa d’immergersi nel corpo e nel sangue della parola, che si sforza di generare in chi lo legge ferite e traumi e incubi e orgasmi e brividi e insonnie e infarti, che annuncia di calarsi negli abissi dell’innominabile, e che – assicurano i suoi non meno viscerali recensori – spinge la letteratura fino a quel limite estremo passato il quale non è piú letteratura ma vita o addirittura vita-oltre-la-vita, esperienza mistica. Li guardo tutti e tre – lo scrittore, il recensore, il lettore – e non posso fare a meno di pensare a quel personaggio di Carlo Verdone che teorizza che «il rapporto col flipper è come un rapporto sessuale, come un amplesso» e per darne dimostrazione ci monta sopra e comincia a possederlo selvaggiamente, il tutto per far colpo su un ragazzotto con gli occhiali dalle lenti piú spesse di fondi di bottiglia. Il cortocircuito tra la lettura e la vita finisce di solito in un tilt.

La poetica dell’amplesso con il flipper, della copula immaginaria con una realtà chimerica e inafferrabile, è una forma di iperbovarismo inconsapevole. Complementare, e non meno pernicioso, è l’ipobovarismo che affligge un altro tipo di lettore, quello che tenta di spezzare il circolo vizioso tra la lettura e la vita innalzando tra l’una e l’altra una muraglia teorica che ha in cima gerghi aguzzi d’accademia. È il lettore affetto da quella «pazzia mandarinesca del discorso secondario» che secondo George Steiner produce una forma di anestesia, un meccanismo di difesa volto a proteggere il nostro sonnambulismo dai rischi di un’improvvisa illuminazione. Avendo contratto per via universitaria qualche virus narratologico, filosofico o semiotico, il nostro lettore si è persuaso che i testi non abbiano nulla a che fare con il mondo al di fuori di essi, e alla fin fine neppure con il loro autore, dato per morto o per vacante. La letteratura non parla che di sé stessa e a sé stessa, e le opere chiacchierano amabilmente tra di loro, sollevando il vortice di un discorso critico che gira altrettanto a vuoto. «Realtà» è una parola che dev’essere neutralizzata con una coppia di virgolette ammiccanti, ma è meglio schermarsi del tutto da quel contatto imbarazzante e chiamarla «referente», frigida parola che, è stato detto, fa pensare a un paio di pinze schizzinose usate per non entrare in contatto con la realtà neppure quando è della realtà che si parla.

La cintura di castità teorica e l’amplesso infoiato con il flipper sono i due estremi di uno spettro sul quale sono disposte le mille sottilissime gradazioni del bovarismo. I casi piú acuti di questa intossicazione letteraria risalgono, com’è facile intuire, alla seconda metà dell’Ottocento. Ecco come Federico De Roberto descrive il vizio di Teresa, l’eroina del suo romanzo L’illusione:

Adesso conosceva la vita! Ed una vita intensa ella viveva, con i suoi libri. Slanci d’entusiasmo e dolori sconfinati, raccapricci e fremiti, sorrisi e lacrime, essi le davano tutto. Alle volte, dopo lunghe ore di lettura, si alzava con un’oppressione fisica, un disgusto, una nausea per tutte le cose, per le volgarità dell’esistenza alle quali doveva sottostare e che l’agguagliavano alla folla bruta e aborrita. Rifiutava i cibi, voleva potersi nutrir d’aria, si procurava finalmente qualcuno dei suoi attacchi nervosi. Piú degli eroi di quei libri ella amava le eroine; vedeva nelle donne altrettante sorelle. E le lunghe descrizioni, le pagine piene di narrazione monotona l’infastidivano: ne saltava molte, per arrivare ai colloqui d’amore, alle scene dolci o tremende, alle catastrofi improvvise, che la lasciavano sbalordita e febbricitante. Che lacrime le costavano quei libri!

L’immedesimazione morbosa scaturita da una sensibilità estenuata; la vita vicaria che fa da compensazione a un’esistenza buia e volgare; l’ubriacatura fantastica che sfocia in qualcosa di molto simile a un attacco isterico. Il quadro sintomatico della lettrice allo stadio avanzato del bovarismo è attestato in quegli anni da decine di romanzi, saggi polemici, opere edificanti, trattati sociologici, medici e psichiatrici. Pedagoghi e moralisti descrivono la lettura come un vizio, non diverso dall’alcolismo o dalla masturbazione, e il romanzo come un agente di corruzione. L’arte non è da meno: in quadri come La lettrice di romanzi di Antoine Wiertz e La bibliotecaria di Félicien Rops, una donna nuda è sdraiata mollemente su un letto sfatto accanto al quale fa capolino un diavoletto carico di libri. Quanto ai giovani lettori, la scienza misogina dell’epoca sosteneva che un’eccessiva indulgenza al vizio romanzesco li indebolisse, rendendoli piú facilmente inclini all’onanismo e all’omosessualità, e che li effeminasse – insomma che li trasformasse in lettrici.

Nel 1925 Albert Thibaudet battezzò questo tipo di lettore viveur de romans, «l’uomo che vive i romanzi, che vive in modo romanzesco», e gli trovò un padrino e una madrina: Don Chisciotte e Madame Bovary. Sappiamo bene quanto i due libri siano imparentati; il capolavoro di Cervantes fu il primo amore letterario di Flaubert bambino, «il libro che conoscevo a memoria prima ancora di saper leggere». Don Chisciotte perde il senno dietro ai romanzi cavallereschi cosí come Madame Bovary si ammala per i romanzi sentimentali. Ortega y Gasset scrisse una volta che l’eroina di Flaubert è «un Don Chisciotte in gonnella», ed è buffo, perché a rigore un Don Chisciotte in gonnella esisteva già, anzi ne esistevano molte: la piú celebre si chiama Arabella, ed è la deliziosa protagonista di un romanzo di Charlotte Lennox, The Female Quixote, scritto un secolo prima di Madame Bovary. È la figlia di un marchese che vive in una villa isolata dal mondo con una biblioteca piena di pessime traduzioni di romance francesi d’amore e d’avventura. Li ha letti tanto intensamente che non conosce altra vita che quella romanzesca: si comporta come fosse una delle loro eroine, una Mandane o una Artamene (e i suoi compassionevoli corteggiatori le danno pazientemente corda). Se nella villa compare un servitore di bell’aspetto, Arabella conclude che è certamente un principe in incognito; se s’imbatte in uno sconosciuto a cavallo, è senz’altro un rapitore. Come esistono Don Chisciotte in gonnella, cosí esistono Madame Bovary in pantaloni – tale è l’eroe di uno dei primi romanzi di Anatole France, Les désirs de Jean Servien. Insomma, la famiglia è popolosa. E non dobbiamo stupircene; perché Don Chisciotte e Madame Bovary non vanno annoverati tra gli zii matti, sono al contrario perfettamente normali.

Tra il 1892 e il 1902 il filosofo Jules de Gaultier elaborò una geniale teoria del bovarismo. Con questo nome battezzava una facoltà universale ed essenziale, «il potere concesso all’uomo di credersi diverso da quello che è» – non soltanto mentre legge un romanzo, ma sempre. Il bovarista si identifica con un’immagine che ha sostituito alla propria persona, e per favorire questa illusione imita tutto ciò che è possibile del personaggio che ha deciso di incarnare. La distanza tra la realtà e l’immagine è calcolabile. Supponendo di raffigurare con una linea la realtà di ciò che siamo e con un’altra l’immagine a cui vorremmo corrispondere, tra queste due linee si genererà un angolo piú o meno ottuso che De Gaultier chiama l’indice bovaristico. Questo indice misura «il divario che c’è in ogni individuo tra l’immaginario e il reale, tra ciò che esso è e quel che crede di essere». Stabilito questo, si potrà calcolare che Madame Bovary ha un elevato indice bovaristico, ma anche gli altri personaggi del romanzo sono affetti in gradi e modi diversi dallo stesso male. Anzi, tutti i personaggi di tutti i romanzi. Anzi, tutti gli esseri umani. Ampliando di capitolo in capitolo i suoi giri, De Gaultier arrivava a postulare «il bovarismo essenziale dell’umanità».

Anche il donchisciottismo è patologia comune. Nel 1982 lo psicologo californiano Theodore R. Sarbin scrisse un saggio intitolato The Quixotic Principle, il principio donchisciottesco, dove mostrava che la formazione della propria identità attraverso le letture è qualcosa che avviene anche fuori dai romanzi, nel mondo cosiddetto reale. Riferiva il caso di un suo ex paziente, un certo Jack N., un laureato in lettere che aveva appena cominciato uno studio approfondito su Ernest Hemingway. Jack era un ragazzo inconcludente e goffo, maltrattato dalla sua famiglia e convinto di essere un totale fallimento. Durante il suo periodo hemingwayano, tuttavia, Sarbin notò uno strano cambiamento: innanzitutto, Jack cominciò a mettersi vestiti che sembravano presi in un negozio per boscaioli. Voleva diventare un corrispondente di guerra, uno scrittore di racconti e di romanzi di avventura. In breve, voleva diventare Hemingway. «L’immagine mascolina di Hemingway e l’immagine passiva di sé che aveva coltivato per tutta una vita erano ovviamente incongruenti», nota Sarbin. Ma a Jack questo non sembrava un problema, perché aveva scelto di ispirarsi a un racconto di Hemingway, La breve vita felice di Francis Macomber, in cui un americano che va a un safari in Africa decide di capovolgere la propria vita per vendicare un affronto alla sua mascolinità. Vedendolo scappare davanti a un leone, infatti, la moglie lo disprezza e lo tradisce con la guida del safari; lui allora parte alla riscossa, ammazza dei bufali feroci e si sente virilissimo. Solo per poco, però; perché la moglie gli spara un colpo alla testa, e la sua morte alquanto sospetta vien fatta passare per un incidente di caccia. Ebbene, mentre meditava sui modi per imitare il suo modello, Jack N. seppe dell’opportunità di diventare tenente nel corpo dei Marines. La sua occasione, finalmente! Erano i primi anni Cinquanta, cosí dopo un breve addestramento lo mandarono a combattere in Corea come capo plotone. Doveva fare pattugliamenti notturni, distruggere avamposti nemici, catturare soldati. Non manca il lato comico: «Mi scriveva lettere dettagliate per raccontare le sue avventure, – dice Sarbin. – Lo stile era conciso e molto simile a quello di Hemingway». L’impresa donchisciottesca sembrava riuscita alla perfezione, ma Jack N. avrebbe fatto bene a scegliere con piú attenzione il suo modello letterario: la sua «breve vita felice» fu di poco piú lunga di quella di Francis Macomber, e una notte, dopo appena un mese da capo plotone, finí ucciso durante una ronda.

Dove collocare un caso simile nel circolo vizioso tra la lettura e la vita? Sicuramente Jack N. aveva abbandonato la cultura libresca per gettarsi a capofitto nella realtà piú avventurosa, come Rimbaud che volta le spalle allo scrittoio e si mette a trafficare armi in Abissinia; ma la vita gli si era presentata, ironicamente, come un ultimo travestimento della letteratura. Era diventato un plagio vivente. E forse il cuore della faccenda è tutto qui: fuori dai libri non troveremo quella che Miller chiamava la «diretta esperienza della vita», perché una cosa simile, semplicemente, non esiste. Tra noi e il mondo si frapporranno sempre lenti deformanti di varia foggia, materia e spessore, e queste lenti avranno per lo piú la forma di storie. Dopo aver esposto il caso di Jack N., Sarbin lo rileggeva alla luce di una delle nozioni centrali della psicologia di Alfred Adler, quella delle finzioni-guida. Adler – il piú negletto del trio fondativo della psicologia del profondo, eclissato da Freud e Jung – aveva tratto spunto da un libro non distante per ispirazione da quello di De Gaultier sul bovarismo, La filosofia del come se del neokantiano Hans Vaihinger, che aspirava a comporre un «sistema delle finzioni scientifiche, etico-pratiche e religiose del genere umano». Ebbene, dice Adler che tutti gli uomini, sani o nevrotici, si orientano nella vita per mezzo di una finzione-guida che rappresenta l’ideale della personalità. È un’astrazione indispensabile allo sviluppo della psiche – il bambino che impara a fare i primi passi si fa guidare da una meta qualunque, scelta arbitrariamente; ed è anche una specie di anticipazione, se non una promessa: «Essa è il bastone di maresciallo che ogni soldato insignificante porta nel suo zaino». L’uomo sano usa le finzioni pragmaticamente, e sa all’occasione liberarsi di questa gruccia, o barattarla con un’altra che si adatti meglio alla realtà su cui deve camminare. Il nevrotico, al contrario, è «inchiodato alla croce della sua finzione» e «subisce l’influenza ipnotizzante d’un piano di vita fittizio». Curiosamente, il primo esempio che fa Adler è un riassunto perfetto del racconto di Hemingway, la finzione-guida di un uomo che identifica il proprio sentimento di inferiorità con la femminilità e che aspira perciò a una virilità compensatoria: «Io sono (come) una femmina e vorrei essere un maschio».

Il paziente di Sarbin – al pari di Don Chisciotte, di Madame Bovary, di Arabella o di Jean Servien – aveva modellato la sua finzione su una fonte letteraria esteriore e riconoscibile, con tanto di autore, titolo, data e luogo di stampa; il piú di noi non saprebbe rintracciare sullo scaffale il prototipo letterario della propria vita, ma questo non vuol dire che le storie in cui ci siamo imbattuti nella nostra carriera di lettori non abbiano concorso a rafforzare, se non proprio a creare, le nostre finzioni-guida.

Il fatto è che abbiamo la testa piena di letteratura, e solitamente di cattiva letteratura. Crediamo di cavare da noi stessi, come ragni, i fili viscosi delle nostre narrazioni, e ne intessiamo ragnatele in cui, pensando di intrappolare il mondo, finiamo per intrappolarci da soli. Ma per lo piú peschiamo in qualche punto intermedio del nostro spirito – non abbastanza profondo per attingere alla zona in cui secondo alcuni albergano gli archetipi, ma non abbastanza superficiale per essere accessibile alla luce della piena coscienza – in cui si sono depositate fantasie puerili, trame abborracciate, melodrammi scadenti che recitiamo con un letteralismo tetro e ottuso, immedesimandoci pienamente – vorrei dire: bovaristicamente – con i loro eroi e le loro eroine. Alcune di queste storie sono diventate proverbiali: la donna che ama troppo, il vendicatore dei torti del mondo, la vittima destinata a soffrire, lo sfortunato che incappa sempre negli incontri sbagliati, l’outsider arrabbiato, il duro dal cuore tenero.

Ebbene, se mi chiedessero a che cosa serve la letteratura, la buona letteratura, direi che serve a scacciare la moneta della cattiva letteratura, la gramigna di cui sono infestate le nostre vite, e a correggere questi canovacci dozzinali che il nostro affabulatore interiore intreccia senza tregua plagiando qua e là, perché non conosce altro modo di dar senso ai casi del mondo e alle azioni degli uomini. Abbiamo tutti delle lenti letterarie a fondo di bottiglia in dotazione fin dalla prima infanzia, e non è certo cacciando bufali o partendo per il fronte che ce ne sbarazzeremo. Possiamo, questo sí, usare la letteratura come un gabinetto di ottica dove tornire, levigare e lustrare le nostre lenti, di modo da correggere le deformazioni piú vistose e addestrarci nell’arte dell’attenzione, la sola che conti, la sola che abbia il potere di affrancarci dalla sudditanza alle nostre storie.

Due frasi di Flaubert: «Madame Bovary non ha niente di vero»; «Madame Bovary c’est moi». Un altro comma 22? Una nuova forma del paradosso del mentitore? O è la semplice rivelazione che siamo la finzione che scegliamo di vivere?

Come va a finire?

Ed ecco, trova un passo, un passo eterno, in cui legge queste parole profetiche: «Quando il lettore arriverà alla fine di questa dolorosa storia morirà con me». […] Se continuava a leggerlo, a viverlo, correva il rischio di morire quando fosse morto il personaggio romanzesco; ma se non lo avesse letto piú, se non avesse vissuto piú il libro, sarebbe vissuto?

Miguel de Unamuno, Come si fa un romanzo

Qualcuno ha detto che il segnalibro è come l’orologio fermo trovato al polso della vittima in un romanzo giallo. È una misura del tempo – di quanto ne abbiamo già speso, di quanto ne passeremo ancora tra le pagine, di quanto ne resta da vivere ai personaggi del romanzo prima che i loro destini si compiano e tutto il loro mondo sia rituffato nel buio. Nella Storia della Rivoluzione francese, Jules Michelet riferisce questo episodio, avvenuto a Lione nel 1794: «Uno dei condannati, che quando lo chiamarono stava leggendo, continuò a leggere fino al patibolo; arrivato ai piedi della ghigliottina, mise il segno alla pagina». Il tempo della vita e il tempo della lettura stavano per disallinearsi irreparabilmente; ma quel condannato senza nome, con signorile sprezzatura, compí il gesto che avrebbe compiuto in qualunque altro giorno. Capita pressoché a tutti i lettori che la morte li colga con un libro in sospeso, ma per ciascun lettore questo accade una volta sola. Per tutti i libri che non sono l’ultimo vale il contrario: sono loro a finire sotto i nostri occhi prima di noi, lasciandoci l’ebbrezza vittoriosa dei sopravvissuti.

Di certo, il finale dei romanzi innesca nei lettori i sintomi nevrotici piú vari. C’è chi, quando l’ora si approssima, rilegge due volte ogni pagina per arrivare il piú tardi possibile alla fine, chi corre spedito all’ultima riga per accertarsi che non troverà brutte sorprese, chi appena richiuso un libro attacca subito il successivo, chi ne legge tanti contemporaneamente per non dover mai fare esperienza del vuoto. La lettura è una goccia in cui si riflettono cose piú grandi, e ciascuno di questi stratagemmi lascia intravedere con un certo nitore un atteggiamento nei confronti della morte e del lutto, due cose – soprattutto la seconda – con cui abbiamo disimparato a fare i conti. Sappiamo da Philippe Ariès che al parossismo ottocentesco del cordoglio è seguita, nel Novecento, un’imbarazzata proibizione, e che il tabú del lutto ha rimpiazzato il tabú vittoriano del sesso.

La mia fidanzata dimentica sistematicamente i finali dei libri. Lei dice di essere smemorata, ed è vero, ma sappiamo da Freud che l’oblio non è mai innocente, che tutto ciò che abbiamo scordato lo abbiamo scordato per una ragione, e che la segreta disposizione di chi dimentica è rivolta a un unico scopo: la «fuga da ciò che è spiacevole». Ed è spiacevole che un libro finisca, bella o brutta che sia l’ultima pagina. Se il finale di un libro è una piccola morte, dimenticarlo ci risparmia un piccolo lutto. Magari ne ricordiamo minuziosamente l’atmosfera, qualche scena importante, o addirittura intere frasi, perché non temiamo la morte letteraria al punto da non amare la vita. Ma una nebbia deliberata avvolgerà dopo la lettura le circostanze del decesso.

Modellando il tempo come l’architettura modella lo spazio, il romanzo è un laboratorio che ci consente di fare esperimenti con la nostra mortalità in condizioni di relativa sicurezza. Sappiamo bene che il filo della nostra vita sarà reciso al momento sbagliato: troppo presto per i nostri gusti, solitamente, e in un modo che non avremmo mai immaginato. Sappiamo anche che quel momento ci coglierà quasi sicuramente nel mezzo di qualcosa che avremmo voluto portare a compimento, foss’anche una lunga dormita o una lunga degenza. Da un pezzo ho dimenticato come va a finire Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, ma non dimenticherò mai la morte del tenente Angustina: «Che cosa volevi dire, Angustina? Te ne sei andato senza terminare la frase; forse era una cosa stupida e qualunque, forse un’assurda speranza, forse anche niente». Quante storie resteranno in sospeso, quanti personaggi non vedremo entrare in scena, quanti finali non conosceremo mai! Il finale di una nostra vita ipotetica, se fosse durata piú a lungo; il finale delle vite dei nostri cari e dei nostri amici che ci sopravvivranno; il finale di tutte le storie piú grandi di noi a cui ci eravamo appassionati – che si tratti del campionato di calcio o del conflitto mediorientale. Ci perderemo le puntate successive del mondo, e non possiamo farci niente. O meglio, possiamo fare solo una cosa, per piccina che sia: creare e visitare dei mondi in miniatura ai quali ci è concesso assegnare sovranamente un inizio e una fine. I romanzi, appunto.

Cosí, la prospettiva di morire prima di aver finito il libro che abbiamo tra le mani ci fa sentire due volte insicuri, perché ci costringe a constatare che il laboratorio letterario in cui ci muovevamo con tanta padronanza non era sigillato ermeticamente, e che in fin dei conti si può morire anche mentre si gioca al morto. È un’angoscia di secondo grado. La si può lenire? A rigore, nulla vieta di leggere subito il finale di ogni libro che intendiamo cominciare, come faceva Billy Crystal in Harry ti presento Sally. Anticipare come andrà a finire, nella lettura o nella vita, è il modo piú banale per attenuare l’ansia. Ma è come gettare il bambino con l’acqua sporca; perché quell’ansia, quell’incertezza, è l’avventura stessa della lettura. Diventeremmo come cacciatori che si aggirano per boschi narrativi disabitati e silenziosi, tra carcasse di animali morti e mucchi di ossa già spolpate; o come l’opossum che si finge morto per sfuggire ai predatori, e aggirare l’incontro fatale con il lupus in fabula. La triste verità è che non c’è modo di sfuggirgli, e non c’è tanatosi che possa salvarci. I lupi sono dappertutto, ma almeno quelli di carta non possono ucciderci. Se ci aggrediscono, è per offrirci una provvidenziale preparazione. Un «apparecchio alla morte», secondo la formula antica di sant’Alfonso Maria de’ Liguori.

Nell’estate del 1913, l’ultima estate prima della guerra mondiale, davanti alla bellezza della campagna nel suo pieno rigoglio Sigmund Freud provò a consolare un giovane poeta che viveva angosciato dall’idea della morte. O almeno è cosí che la racconta lui in un breve scritto intitolato Caducità. Il giovane poeta era Rainer Maria Rilke, e a dirla tutta non era cosí giovane, andava per la quarantina, e probabilmente l’incontro avvenne all’inizio dell’autunno, a margine di un congresso, non proprio in aperta campagna – ma sappiamo come va con questi grandi aneddoti, raramente sopravvivono alle pedanterie del fact checking: o li rimaneggi un po’, o l’effetto allegorico va a farsi benedire.

Rilke non tollerava il pensiero che la bellezza del mondo dovesse andar perduta, che ogni cosa fosse destinata presto o tardi all’estinzione. Freud tentò di consolarlo con una perorazione in difesa della caducità che ho sempre trovato bassamente pretesca, come i «sofismi di cenere» dei falsi amici di Giobbe: «Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio». E ancora: «Se un fiore fiorisce una sola notte, non per ciò la sua fioritura ci appare meno splendida». Bella scoperta, caro Freud, ma devi dimostrarci che se il fiore fosse immortale finirebbe per apparirci cosí insulso da preferire la morte. Il sermone lasciò indifferente Rilke, che restò immerso nel suo taedium vitae – con ottime ragioni, vorrei aggiungere.

Ripenso all’esempio di Freud ogni volta che trovo un fiore appassito tra le pagine di un libro. Non c’è dubbio che quei segnalibri vegetali abbiano qualcosa di mortuario. Lo notava, con tutto lo svenevole manierismo del caso, Pitigrilli nel suo galateo: «Io credo che il piú commovente omaggio floreale che riceva un autore non siano i lauri posati sulla sua tomba, ma quelle violette e quei ciclami che hanno profumato un endecasillabo, tinteggiato come una pennellata di acquerello un aforisma, consacrato nell’impronta di un petalo la morte dell’eroina». Proprio quest’aura cimiteriale, questa contiguità tra gli allori sulla tomba e le violette tra le pagine, porta a scegliere altri segnacoli per marcare il progresso nella lettura. «Bisogna evitare di mettere nei libri fiori o foglie perché, appassendo, fiori e foglie trasmettono il tempo ai libri: che da questo contagio sono di per sé immuni», ha scritto Maurizio Bettini: «L’unica cosa che i libri sopportano tra le loro pagine è il segnalibro, che non è contagioso e non ha nulla a che fare col tempo». Può essere una striscia di cartoncino lucido, che sfiora le pagine con la sua ala rude per poi lasciare i libri alla loro eterna giovinezza; può essere un biglietto usato dell’autobus, un brandello di carta di giornale o anche la carta stagnola di un pacchetto di sigarette, sempre che non si preferisca infilare la sovraccoperta tra le pagine come un lenzuolo ben rimboccato. L’espediente piú tenero lo aveva escogitato mio papà: infilava nei libri cose che sarebbe stato contento di ritrovare dieci o vent’anni dopo – biglietti di auguri, soprattutto disegni di noi bambini – e poi se ne dimenticava. Erano bombe a orologeria proustiane, appuntamenti imprevedibili con il tempo ritrovato.

Non solo la morte ci coglierà nel bel mezzo di un libro, ma ci separerà dalla nostra biblioteca, il coriaceo esoscheletro con cui ci siamo fatti largo tra le asperità della vita. Come tra gli animali, cosí tra gli uomini: ci sono bestiole scavatrici che si preparano con le unghie il bunker della tana, uccelli che creano nidi elegantissimi da rivista di arredamento (peccato siano fatti per lo piú di bava), insetti palazzinari che erigono giganteschi comprensori di residenze a basso costo, come le formiche o le termiti, animali selvatici che non hanno bisogno di rifugio e possono dormire beatamente all’aria aperta, perché all’occorrenza sanno sfuggire ai predatori correndo all’impazzata; e poi c’è lei, la mite tartaruga, che non ha proprio l’estro della velocista, e che si trascina con flemma la sua casa-carapace. Per l’amante dei libri, questo carapace è la biblioteca personale. La si può muovere, certo, anche se goffamente e un po’ a fatica, e a volte è sballottata qua e là da divorzi, traslochi, sfratti, spostamenti repentini. Ma idealmente dovrebbe stare sempre al suo posto, intorno alla sua tartaruga, che poi saremmo noi. Casa è dove sono i nostri libri.

Anche in questo la vita ci dà l’occasione di un «apparecchio alla morte» relativamente innocuo, ed è la scelta dei libri da mettere in valigia quando partiamo per le vacanze. È allora che dobbiamo abbandonare la nave e saltare su una scialuppa, dove avremo messo solo l’essenziale. Già, ma qual è l’essenziale? Per molti è una scelta che può durare giorni, e che dopo lunghe tribolazioni si risolve in un rifiuto di scegliere, come accade al narratore di quel racconto di Somerset Maugham, Il sacco dei libri:

– Non mi direte mica che viaggiate con tutti questi libri? Santo cielo, che malloppo!

Si chinò e prese a scorrere rapidamente i titoli. C’erano libri di ogni specie: versi, romanzi, opere filosofiche, saggi critici (dicono che i libri che parlano di libri sono inutili; io li trovo di lettura piacevolissima), biografie, storia; c’erano libri da leggere quando si è ammalati e libri da leggere quando il cervello, in ottima forma, cerca un avversario con cui misurarsi. C’erano quei libri che per tutta la vita desideriamo leggere senza mai trovarne il tempo; c’erano i libri da leggere navigando su navi da carico, e in questa categoria c’erano libri particolari per i giorni di burrasca, quando la cabina scricchiola tutta e ci si deve incastrare nella cuccetta per non cadere. C’erano anche quei libri, scelti unicamente in base al formato, da leggere nelle spedizioni con bagaglio leggero, e ce n’erano di quelli che si leggono quando ogni altra lettura è impossibile.

I libri digitali ci esonerano dall’incombenza di trascinare sacchi pesanti in giro per il mondo, ma la facoltà di racchiudere biblioteche intere in un dispositivo tascabile ci ha anche privati di quella via crucis penitenziale che quanto meno ci metteva di fronte alla nostra irragionevole ingordigia. Aldous Huxley ironizzava sulle illusioni dei turisti che «partono per una vacanza di quindici giorni in Francia portando con sé La critica della ragion puraApparenza e realtà, le opere complete di Dante e Il ramo d’oro. Tornano a casa e scoprono di aver letto qualcosa meno di mezzo capitolo del Ramo d’oro e i primi cinquantadue versi dell’Inferno». Confessava di essere stato anche lui uno di loro, ma con il tempo si era proposto di partire leggero, senza piú quei tomi imponenti che «hanno viaggiato con me per migliaia di chilometri attraverso l’Europa intera e sono tornati a casa con i loro segreti inviolati». Sospetto però che i piani di lettura irrealistici siano anch’essi un tentativo di giocare a scacchi con la morte: quella valigia imbottita di libri non racchiude forse la velata promessa di una vacanza senza fine? Per la stessa ragione accumuliamo volumi su volumi nella nostra biblioteca, nell’illusione che per il prezzo di ogni libro ci sia concesso in cambio il tempo necessario a leggerlo. È il tempo, che mettiamo in valigia o sugli scaffali.

Verrà però il giorno in cui dovremo partire senza bagaglio. Che ne sarà allora della nostra casa-carapace? Louis Bollioud-Mermet compiangeva cosí la vanità del bibliomane:

Per chi ha innalzato questo edificio letterario, fatto di materiali diversi ognuno dei quali è costato tante ricerche, pene e soldi? Egli lo ignora. «Accumula tesori e non sa per chi». Può essere che andranno a un erede a cui non importerà nulla di una tale eredità, tranne che subito la ricondurrà all’aspetto originale e cioè convertirà al piú presto i libri in soldi. Allora si vedrà questo assortimento di libri, riunito con tanta difficoltà, disperdersi qui e là, per non ricongiungersi piú e finire da quasi altrettanti nuovi padroni quanti sono essi stessi. Il vecchio padrone ha avuto un bel mettere il suo nome sopra i titoli e scarabocchiare i frontespizi ostentando le sue qualità: tutte queste iscrizioni, ex libris, ex bibliotheca, dureranno giusto il tempo necessario a rendere pubblica la sua vanità e la sua follia. Dopo saranno subito cancellate.

Non rassegnandosi a questo epilogo, i piú superbi prendono esempio dall’Egitto dei faraoni, e sperano di fare della biblioteca il proprio corredo funerario che li accompagni nel grande viaggio nell’oltretomba. Danno allora istruzioni ai figli e agli eredi che non spostino un solo volume, e che preservino intatto il loro doppio cartaceo fino alla fine dei tempi. Ma forse non è il caso di prendere a modello la civiltà piú necrofila della storia umana. Meglio consentire ai libri di fuggire dall’Egitto e di seguire le vie della diaspora, proprio come il popolo che secondo Heinrich Heine aveva fatto della Torah la sua «patria portatile».

Dar via i propri libri «è un po’ cominciare a morire», disse Leonardo Sciascia nei suoi ultimi anni, annunciando di voler donare parte delle sue decine di migliaia di volumi alla biblioteca comunale di Racalmuto. Dopo tutto, l’unico modo che i libri hanno per continuare a vivere è finire nelle mani di qualcuno che voglia rianimarli. Possiamo, come tartarughe, morire sotto il peso del nostro carapace e lí restare sepolti. O possiamo ispirarci alla saggezza del paguro bernardo, il crostaceo che con le sue chele poderose si sradica dal guscio protettivo e parte in pellegrinaggio, alla ricerca di una casa piú grande. Lo chiamano l’Eremita.

Il Buddha nel sidecar

Oggi, come fossi una farfalla le cui ali sono state sfregate allo sfinimento, riesco a riaprirle, a sbatterle e a planare, fendendo l’aria. Erano mesi che non leggevo cosí a lungo. A volte penso che il paradiso consista in una lettura continua e inesauribile. È quel rapimento intenso, ipnotico e incorporeo che sempre mi catturava da bambina e che a volte ritorna, quaggiú, con una violenza che mi stordisce. Ho detto di volare? E allora come potrei sentirmi giú? Infatti, mia cara Ethel, la condizione in cui ci si trova quando si legge consiste nella completa eliminazione dell’ego, di quell’ego che si fa eretto come quella parte del corpo che non oso nominare.

Virginia Woolf a Ethel Smyth, 29 luglio 1934

Prima di Madame Bovary, prima di donna Arabella, prima perfino di Don Chisciotte ci fu santa Teresa d’Avila. La grande mistica spagnola, da ragazzina, era stata una divoratrice di libri. Sua madre amava i romanzi cavallereschi, e da lei la piccola Teresa aveva ereditato la passione ma non il senso della misura. Aveva contratto il vizio impunito, come racconta nella Vita, e lo coltivava in segreto:

Io cominciai a prendere l’abitudine di leggerli, e da quel piccolo suo difetto ebbero inizio il raffreddarsi dei miei buoni desideri e le mie manchevolezze in tutto il resto. Né mi sembrava che vi fosse alcun male nello spendere tante ore del giorno e della notte in cosí vana occupazione e di nascosto da mio padre. Me ne estasiavo a tal punto che, se non avevo un libro nuovo, non mi sembrava di avere alcuna gioia.

Teresa sapeva immergersi in quelle storie d’armi e d’amori leggendari con pieno abbandono, e leggendo si dimenticava di sé e del mondo. Poi trovò la forza di smettere – «Altri non volli piú leggerne, ormai esperta del danno che mi avevano arrecato» – e di dedicarsi per intero alla vita spirituale. Un’altra cosa sapeva fare, Teresa d’Avila: sollevarsi fisicamente da terra e restare sospesa a mezz’aria. E anche quel dono avrebbe preferito riceverlo in segreto, di nascosto non dal padre, stavolta, ma dalle consorelle: «Una volta, essendomi sopravvenuto mentre ero in ginocchio, in coro, con tutte le monache, ne provai una grande pena, sembrandomi una cosa talmente straordinaria che non avrebbe mancato, subito, di far rumore».

C’è un nesso tra i due doni, la lettura estasiata e la levitazione? La formula che usiamo piú spesso per descrivere l’abbandono all’illusione letteraria l’ha coniata, tre secoli dopo santa Teresa, il poeta Samuel Taylor Coleridge: è la willing suspension of disbelief, la sospensione volontaria dell’incredulità. Sospensione sta qui per interruzione temporanea e circoscritta, ma la parola indica anche, nella lingua di Coleridge come nella nostra, il restare sollevati da terra. Pochi ricordano che il poeta era un cultore delle scienze e un appassionato di Isaac Newton, e che aveva provato a replicare in proprio i suoi esperimenti sulla gravità. Il duplice significato di suspension ha avuto pure i suoi usi pubblicitari: la formula di Coleridge è stata usata per commercializzare una sedia ergonomica basata su una tecnologia di sospensione, e il Museum of Science and Industry di Chicago, anni fa, ha promosso una mostra di costruzioni in Lego con la foto di un ponte sospeso nel vuoto e lo slogan Build a bridge that suspends disbelief.

La willing suspension of disbelief è insomma l’arte di levitare, nel coro di un monastero o tra le pagine di un romanzo. In essa, dice Coleridge, consiste la poetic faith, la fede poetica. Per Teresa la levitazione era una grazia soprannaturale, che non aveva nessun rapporto con la sua volontà: «Quando volevo resistere, mi sembrava che mi sollevasse da terra una forza cosí potente, che non so a che cosa paragonarla, perché aveva molto maggior impeto delle altre forze spirituali», scrive ancora nella Vita, e lo stare in balía di questa potenza sovrumana le creava un penoso imbarazzo: «Supplicai molto il Signore di non volermi piú concedere grazie che avessero manifestazioni esteriori».

In India le cose sono un po’ diverse, e la levitazione non è una grazia concessa dal capriccio divino, è uno dei cosiddetti siddhi, i poteri miracolosi che l’asceta può acquisire per mezzo della meditazione. In altre parole, si può imparare a volare. Del resto, Coleridge aveva parlato di sospensione volontaria dell’incredulità, e chissà perché quel willing viene quasi sempre omesso o considerato ridondante. Eppure è raro che i poeti scelgano le parole a caso. In una lettera del 1818, come non bastasse, Coleridge aveva scritto che quando siamo a teatro cediamo all’illusione drammatica «con il consenso e il supporto positivo della nostra volontà. Noi scegliamo di essere ingannati».

Non è la sola cosa che scegliamo e che impariamo. Anni fa, quando è nato il mio primo nipotino, ho fatto un’incredibile scoperta dell’acqua calda: addormentarsi è una cosa che si impara. Il poveretto starnazzava come un antifurto, e io dovevo cullarlo per ore al suono di Bob Marley, l’unica musica in grado di narcotizzarlo, come avevo appreso dopo molte prove ed errori. Gli avevo anche regalato, per aggiungere all’operazione un tocco di realismo, un cappellino giamaicano con i dreadlocks incorporati. L’aneddoto potrà sembrare carnevalesco, ma anche da adulti l’accompagnamento al sonno non è un momento qualunque del giorno, e c’è un motivo se in quello spazio liminale prendono forma i rituali piú strani. Sigmund Freud racconta il caso di una nevrotica ossessiva che per addormentarsi doveva disporre il cuscino superiore alla maniera di una losanga sopra gli altri cuscini, e poi poggiare la testa al centro della composizione… E qui, come pappagallini, gli spiriti di Bouvard e Pécuchet si posavano sulla spalla del padre della psicoanalisi per suggerirgli l’interpretazione: la losanga rappresenta – ma tu pensa! – l’organo genitale femminile, e la testa della paziente – chi l’avrebbe mai detto? – è un simbolo fallico. Sarà. Io ci vedevo piuttosto una madonnina gotica nella sua mandorla. Del resto, l’attraversamento della soglia tra la veglia e il sonno è anche il momento delle preghiere, degli scongiuri, dei rituali purificatori che ci liberano dalle incrostazioni residuali del giorno.

Quando eravamo piccoli era un culto amministrato dalla mamma, che conosceva il rosario incantatorio delle ninne nanne e i libri liturgici delle fiabe. Poi è toccato cavarcela da soli, e ognuno ha trovato il modo piú congeniale per autoipnotizzarsi e cadere in trance – chi la preghiera, chi la masturbazione, chi l’elencazione minuziosa delle cose da fare l’indomani, chi la conta delle pecore, chi la suscitazione di immagini ipnagogiche concilianti, chi l’ascolto della radio. Per il nostro protagonista, il lettore nevrotico, il compito di propiziare il sonno è affidato ai libri, specialmente ai romanzi – e il nesso tra narrazione e sonno è cosí stretto che in alcune culture primitive era proibito raccontare storie prima del tramonto.

Cosí come abbiamo imparato a addormentarci, abbiamo imparato l’arte di abbandonarci all’illusione letteraria, che secondo Coleridge differisce dal sogno per grado, ma non per natura. È stato un lungo apprendistato, ma ce ne siamo dimenticati. Un giorno ci hanno detto che quegli strani segni neri disposti su un rettangolo bianco corrispondevano a dei suoni, i quali, allineati in un ordine preciso, potevano comporre delle parole, che a loro volta evocavano delle cose che dovevamo disporre nella nostra immaginazione secondo certe regole per suscitare mondi nei quali, misteriosamente, abbiamo cominciato a credere. Se vi pare semplice, è solo perché questa intricatissima sequenza di operazioni si è spostata, con l’abitudine, dalla luce della coscienza alla penombra dell’automatismo.

Avete mai osservato il volo dei gabbiani o dei rondoni? Da bambino, affacciato al balcone di una casa di villeggiatura, ci passavo le ore. Li vedevo sbattere l’aria con accanimento fino a prendere quota e poi, le ali immobili e dispiegate, incidere senza sforzo le loro limpide traiettorie nell’azzurro. Anche molti rapaci, come l’aquila o il falco, volano pressappoco cosí. Qualcosa di simile accade nella vita di ogni lettore. Quando da piccoli ci insegnano a leggere, sperimentiamo un continuo attrito: dapprincipio ogni lettera è un impaccio, un ostacolo; con fatica sorvoliamo la distesa di una frase e conquistiamo esausti l’approdo del punto fermo. Nell’impresa ci aiutiamo sillabando con la voce, o con il movimento delle labbra, e solo dopo un lungo addestramento l’occhio riesce a planare sulla pagina. Diventa possibile perfino leggere distrattamente, meccanicamente, scorrendo righe su righe senza far caso a una sola parola – per poi scivolare nel sonno. Questo passaggio che per il lettore singolo avviene nella tarda infanzia, per la nostra civiltà è arrivato a compimento intorno al XVIII secolo. Anni fa, in spiaggia, ebbi la fortuna di assistere a una piccola scena archetipica. I miei nipotini (che nel frattempo erano diventati due), allora di sette e cinque anni, leggevano insieme Topolino sotto l’ombrellone. Il piú grande finiva prima e voleva voltare pagina; il piccolo si sentiva raggirato: «Uffa, lui fa finta di leggere, non muove neanche la bocca!» Scena archetipica, dicevo, perché rimanda al passo delle Confessioni in cui Agostino descrive le strane abitudini di lettura di sant’Ambrogio: «Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano».

La lettura mentale o endofasica era ancora piuttosto rara, e fino al Medioevo i pochi che sapevano leggere facevano piú o meno come il mio nipotino piú piccolo. Con la diffusione della stampa la ruminazione a voce alta uscí di scena, e finí per rintanarsi tra i bimbi dell’asilo. Abbiamo imparato a librarci sulle parole senza muovere le ali, scordandoci di avere un corpo e un peso, aiutati da pagine anch’esse terse come un cielo sgombro: la nitidezza della scrittura tipografica ci ha fatto dimenticare la materialità impervia dei manoscritti, e i libri sono diventati cosí maneggevoli che non c’era piú bisogno di stare in piedi davanti a un leggio sotto una volta gelida. Potevamo, nella lettura, dimenticarci del libro come oggetto materiale. Una volta che abbiamo imparato a volare come rapaci, ci servivano storie da divorare. Fu cosí che inventammo il romanzo, la forma narrativa ideale per nutrire questo nuovo modo di lettura forsennato e vorace: «Non si rilegge mai un romanzo», aveva detto nel 1745 il moralista Vauvenargues, sentendo venire da lontano uno stormo di lettori volanti. Volanti, ma di un volo sonnambulo.

Un identico nervosismo accomuna il dormiente svegliato bruscamente dal suo sonno e il lettore strappato alla sua immersione nel mondo del romanzo. Di solito è per via di qualche intrusione esterna – il telefono che suona, una lite in strada, qualcuno che entra nella stanza e ci riporta alle noie della vita vigile. Ma è un equilibrio sempre precario.

Capita a volte che a spezzare l’incanto sia un difetto di fabbrica dell’apparato illusionistico. Di colpo, il fragile edificio dell’illusione romanzesca, casupola di bambú in mezzo agli uragani, si spezza. È domenica, stiamo leggendo Le avventure di Robinson Crusoe e non c’è nessuno in casa che possa strapparci al sogno. Poco dopo mezzogiorno, quando il mare è calmo, il naufrago si toglie i vestiti di dosso e raggiunge a nuoto la nave arenata, per issarsi a bordo e approvvigionarsi alle scorte di viveri. Scopre con sollievo che sono ancora asciutte e intatte, cosí corre alla dispensa e si riempie le tasche di biscotti. Un momento: quali tasche, se era nudo? Anche i romanzi hanno i loro bloopers, nonché i loro lettori con l’hobby della caccia alla papera. Sono dei simpatici guastafeste, ma per quanto possano guastarle non hanno il potere di farle fallire: il nostro desiderio di sospendere l’incredulità davanti alla finzione è abbastanza forte da trovare in sé la generosità di perdonare le sviste in nome della poetic faith, che ci raccomanda di posare la penna rossa e cooperare con il demiurgo pasticcione, purché, beninteso, non sia troppo pasticcione: «Lo so benissimo che questi libri sono pieni zeppi di imprecisioni tecniche, – spiega Georges Simenon alla sua creatura piú famosa, nel dialogo immaginario di Le memorie di Maigret. – Inutile star lí a elencarle. Sappia che sono volute e gliene spiegherò la ragione». In quella fervente apologia della religione romanzesca, Simenon spiega a Maigret che la verità non sembra mai vera, e che a volte bisogna ritoccarla con l’arte perché l’edificio dell’illusione non crolli.

Lo psicologo Victor Nell descrive il nostro stato mentale di lettori come una varietà di trance ipnotica, e si rifà alla classica idea freudiana secondo cui la letteratura e l’arte hanno una stretta parentela con i sogni a occhi aperti. Ricorda anche che in moltissime lingue esistono espressioni che associano la lettura a un rapimento estatico: essere presi e trascinati via da un romanzo, venire trasportati in un altro mondo, o viceversa essere risucchiati in esso, sprofondare nelle sue pagine. Sono echi attutiti ma ben riconoscibili del lessico mistico: «Vi sentite portare via, ma non sapete dove, – scrive ancora Teresa intorno alle sue levitazioni, in cui – se ne andava via l’anima, e per lo piú la testa la seguiva». Non voglio certo dire che leggere sia un’esperienza mistica – a smentirlo seccamente è la santa in persona, che si disintossicò dai romanzi. Chi fosse in cerca di uno yoga della lettura, vada a trovare nei boschi il Thoreau di Walden. Dico però che la lettura può offrire la migliore approssimazione profana di quel raccoglimento, di quell’assorbimento in sé stessi, di quell’attenzione perfetta e disinteressata che gli spagnoli chiamano ensimismamiento.

Come si impara ad abbandonarsi, cosí lo si può disimparare, e perdere la fede poetica. Questo accade solitamente nella lunga traversata del deserto tra le prime e le ultime favole, tra i pomeriggi infiniti dell’infanzia e i pomeriggi infiniti dell’età pensionabile, due fonti dove il tempo scorre quieto e quasi immobile, propizio ai bagni caldi della lettura. La nostra concentrazione yogica vien meno, perdiamo i siddhi e non sappiamo piú tenerci in sospensione volontaria. Avevamo imparato a camminare sulle acque, ma ora come Pietro ci spaventiamo per la violenza del vento e rischiamo di finire annegati. Uomo di poca fede, perché hai dubitato?

Quasi tutti i lettori oggi si lamentano di non riuscire piú a concentrarsi nella lettura, e in larga maggioranza danno la colpa al loro smartphone. Non hanno tutti i torti. Rispetto al libro, lo smartphone è come un fratellino appena nato che reclama attenzioni con il pianterello ininterrotto dei trilli, delle notifiche, delle vibrazioni. E noi non possiamo servire due padroni, dice Gesú, figuriamoci poi se questi padroni sono entrambi dei bebè. Il libro sarà pure il primogenito, ma reclama la stessa attenzione del nuovo arrivato, e prima ancora dell’attenzione si contende – guai a dimenticarsene – le nostre mani. Non foss’altro perché bisogna tenersi questo fagottino di carta tra le mani, o al limite in una mano sola (Rousseau parlava dei livres qu’on ne lit que d’une main, ed è un modo proverbiale per riferirsi alla letteratura erotica), la lettura si presta male a diventare un’attività di sottofondo. Per giunta, il secondogenito ha un’influenza nefasta sul primo. Dice la neuroscienziata Maryanne Wolf che la piú grande dote del nostro cervello, l’adattabilità, potrebbe rivelarsi una condanna, la premessa della nostra autoestinzione come lettori: per rispondere agli stimoli digitali, infatti, stiamo alterando rapidamente processi cognitivi che si erano collaudati in secoli di consuetudine con i libri. Rischiamo di perdere la capacità di lettura profonda, o deep reading, il «libero dono dell’immersione nella vita della lettura». Per correre ai ripari prima che sia troppo tardi, dobbiamo trovare il modo di isolarci dal mondo in compagnia dei nostri libri. C’è un precedente da tenere in conto.

Nel luglio del 1925 Hugo Gernsback, inventore e scrittore, nonché padre e padrino della fantascienza (è lui che l’ha battezzata science fiction), presenta la sua nuova trovata ai lettori della rivista «Science and Invention». Si chiama The Isolator, ed è un casco simile a quelli dei sommozzatori, munito di bombola di ossigeno. Immagina di startene seduto nel tuo studio, scrive Gernsback. Magari hai chiuso le finestre, ma dai vetri filtrano comunque i rumori della strada. Qualcuno sbatte una porta, e tu perdi il filo del ragionamento. Suona il telefono, o il citofono. Senza contare i mille modi in cui puoi diventare il disturbatore di te stesso. Che fare? Niente paura, Gernsback ha costruito un casco di legno rivestito su entrambi i lati di sughero e ricoperto esteriormente di feltro, con due finestrelle per gli occhi e un diaframma che consente di respirare ma fa da schermo ai rumori. Era soddisfatto dell’invenzione, racconta, ma stimava un’efficacia del 75 per cento. Cosí ha cominciato a costruire un secondo prototipo (non ancora completato, al momento in cui scrive il suo articolo), eliminando del tutto il legno e aggiungendo un cuscinetto d’aria, in modo da escludere il 90 o il 95 per cento dei rumori. Poi certo, anche la vista ha le sue distrazioni, cosí Gernsback ha dipinto di nero le lenti, salvo due striscioline in cui entra soltanto una riga: quella che devi leggere, o scrivere. Controindicazioni? Nessuna, salvo che dopo quindici minuti sei completamente rintronato. Nulla che non si possa risolvere aggiungendo una bombola di ossigeno, però. Ricapitolando: niente rumori, la visuale ridotta a una sola riga e, per rendere l’esperienza piú piacevole, un respiratore artificiale. Con questo perfezionamento, conclude Gernsback, «la costruzione dell’Isolatore sarà considerata un grande investimento».

Le immagini con cui Gernsback illustra la sua invenzione sono un capolavoro di comicità involontaria, e fanno pensare a quella volta in cui Salvador Dalí – era il 1936 – si presentò a una conferenza, a Londra, in uno scafandro da palombaro, simbolo della discesa nell’inconscio. Si accostò al microfono, ma ovviamente nessuno sentiva niente da dietro il casco di metallo. Poi cominciò a mancargli l’aria, e allora prese a dimenarsi come un ossesso, ma il pubblico applaudiva: pensavano fosse tutto parte della performance surrealista. Per fortuna la moglie se ne accorse in tempo, salvandolo dal soffocamento.

Non c’è scafandro che possa sostituire l’arte della concentrazione e dell’ensimismamiento, ma per quel che conta ho scoperto un rimedio che mi ha dispensato dal monastero o dal pellegrinaggio in Oriente. Avete mai visto, a Venezia, il quadro di Vittore Carpaccio Visione di Sant’Agostino? Il santo è nel suo studio, e non c’è studioso che non glielo invidierebbe: una stanza ampia e sfarzosa, con il soffitto dipinto, piena di cose bellissime – strumenti astronomici, anticaglie, curiosità da collezionista – ma che non dà l’aria di essere affollata. Sul lato destro siede Agostino, davanti a una scrivania illuminata dalla finestra vicina. Il tavolo è coperto di libri, e anche sulla parete sinistra, cosí lontana che il santo dovrebbe fare molti passi per raggiungerla, notiamo una lunghissima mensola piena di volumi di tutti i colori. Agostino però guarda verso la finestra, perché qualcosa l’ha distolto dalla lettura: è san Girolamo, che secondo una leggenda medievale gli è apparso in visione poco prima della morte. C’è voluto un miracolo per farlo distrarre. Bella forza, direte voi: con uno studio come quello, chiunque riuscirebbe a concentrarsi.

Io penso però che lo studio c’entri poco. Perché vi ho detto cosa c’è a destra e cosa c’è a sinistra, ma non vi ho ancora detto cosa c’è al centro della stanza. Un cagnolino. Per la precisione, un volpino italiano, detto anche pumetto. È un cane molto piccolo e molto giocherellone, con un sorriso irresistibile (sempre che quello dei cani si possa definire sorriso: io dico di sí, checché ne pensino gli specialisti), un pelo bianco esuberante e un senso molto tenace della custodia della casa. Nel quadro di Carpaccio, il cagnolino è seduto e guarda il suo padrone con quello sguardo assorto e irremissibile di cui solo i cani sono capaci. Non escludo che sia merito suo se sant’Agostino riusciva a concentrarsi cosí bene. Ma come, direte voi, un cane non è una fonte continua di distrazioni? Se riesce addirittura a svegliarci con i suoi latrati, non farà ancora di peggio con il piccolo sonno sognante della lettura?

Cerchiamo di mettere le cose in prospettiva. Konrad Lorenz tentò di immaginare le prime orde umane, tormentate dalla cronica mancanza di sonno, perennemente guardinghe, minacciate da mille insidie. Se questi uomini riuscivano a dormire un poco, è perché a circondarli c’erano gli sciacalli, i cui ululati li avvisavano dei predatori in agguato. Qualcuno ha ipotizzato perfino che il sonno profondo sia stato un dono dei cani (e dei lupi) agli uomini. Se non avessimo avuto accanto quei compagni dall’udito finissimo pronti a suonare l’allarme, non avremmo mai potuto arrenderci placidamente al sonno. Ebbene, ora che abbiamo porte blindate e sistemi antifurto, e che i cani non ci servono piú per dormire sonni tranquilli, noi cosa facciamo? Ci lamentiamo se continuano a fare quel che hanno fatto per noi dall’alba dei tempi, avvisarci del pericolo? Specie di ingrati!

Il sonno profondo non è piú minacciato dai predatori, ma la razza umana, come abbiamo visto, rischia di perdere un’altra facoltà vitale conquistata non senza fatica, la lettura profonda. Certo, potremmo inventare caschi isolanti perfezionati, ripudiare lo smartphone secondogenito e gettarlo nel cassonetto, al limite risolvere il problema alla radice e metterci a lezione dagli Amish. Ma chissà che la lettura profonda, cosí come il sonno profondo, non abbia bisogno semplicemente di un guardiano, di un custode.

Potrà suonare sciocco, ma io ho ritrovato la capacità di leggere profondamente, scordandomi di me stesso e del mondo, solo quando ho adottato il mio cane Emilio. Non saprei spiegare perché, e probabilmente se tentassi di farlo darei molte ragioni per ridermi dietro (fatale imprudenza, nell’ultima pagina di un libro); e tuttavia, è una constatazione che si è imposta alla mia coscienza con la naturalezza delle cose evidenti, senza bisogno di lambiccarmi il cervello in congetture strane. Riesco a dirlo solo con un’immagine da road movie degli anni Sessanta: avere un cane per compagno è come percorrere le strade della vita con il Buddha nel sidecar. Lo stesso vale per le strade della lettura.

Noi magari saremo poco versati nella meditazione, ma accanto a noi sta una creatura che non sembra conoscere la distrazione. La sua testolina non è mai affollata dalla chiacchiera interiore e dalla fantasticheria. Che se ne stia quieto a sonnecchiare ai nostri piedi, che ci fissi come il volpino di sant’Agostino, che la sua attenzione sia calamitata da un gioco, da un suono, da qualcosa che si muove, tutto il suo essere vive in un presente dilatato, a cui richiama con dolce imperio anche noi. Un odore che si avvicina, un odore che si allontana: non altro sono per lui il passato e il futuro, immerso com’è con tutto il naso, senza coscienza e senza sforzo, nel paradossale nunc stans di Boezio, l’eterno ora.

Del resto, come sappiamo da Groucho Marx, all’infuori del cane il libro è il migliore amico dell’uomo, dentro il cane è troppo scuro per leggere.

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