I
So bene che lei non verrà. Ma l’attesa mi regala un piacere a sé. Che importanza potrebbe avere quest’ora se riuscissi a esprimere ciò che sto provando. Nella corretta esposizione dei propri desideri si impone un calcolo prudente. Quando l’attesa sarà passata, più tardi, forse sarò in grado di descrivere quest’ora trascorsa accanto a una finestra, credendo di scorgere lei in alcuni passanti. Ma tu, sì, proprio tu, buffone! Tu sai benissimo che non sarò mai capace di descriverlo. Tutto quel che sai fare è definire fatale dolore questa vicenda; e io la chiamerei gioia se, di colpo, accadesse l’impossibile.
Dolore e gioia: ah, voi, che parole terribili siete! Tremende! Quanto è costata, all’essere umano, ogni parola... Adesso, in questo istante, capisco che genere di cose si nascondono negli interstizi del significato di ogni parola. È forse la prima volta che amo con tanta forza. Tutti i miei difetti (che credevo per lo più virtù) si manifestano a uno a uno come esempi di dolore e di gioia. Nondimeno, qualche virtù sembra che l’abbia: pare insomma che io sia capace di amare un’altra persona. un altro essere, assolutamente sconosciuto, impensabile. Sembra che sia capace, in cuor mio, di compiere tanti sacrifici, e grandi imprese, e rinunce per lei. Forse non sono dunque un individuo così vile. Mi sento persino pronto a lottare. Proverei cioè nostalgia per un’altra persona, coglierei un soffio del suo odore, la penserei, sarei triste per lei. Ha torto, Balzac, quando dice: «L’amore, anche quando fosse inconscio, sarebbe un intrigo di calcoli». Questo è vero fra i borghesi. Ma io non faccio calcoli, né consci, né inconsci. Sono pieno di infinite cose incalcolabili. Se la mia amata vuole fare calcoli, si accomodi. Resta che io, da parte mia, di calcoli non ne faccio.
Il tempo trascorre. Accendo un’altra sigaretta. Una ragazza, con il suo cane, si stacca da un affollamento nella strada e supera una donna cristiana vestita di nero che cammina con un bastone dalla punta d’argento. Il focoso garzone del mobilificio sogghigna. Al banco dell’ortolano un soldato compra dell’uva. Una macchina sfreccia, passa un uomo con qualcosa sottobraccio. Un tram è in arrivo sul viale e io mi domando: «Lei arriverà da giù?». Ora la gente spunterà dalla via secondaria.
E se la vedessi tra la folla? Che cosa farei, allora?
La settimana scorsa era andata diversamente. «Verrò per un’ultima volta» aveva detto, ed era venuta davvero. Che cos’era successo? Ci eravamo seduti l’uno di fronte all’altro, per una mezz’ora. Come mi ero sembrato apatico, freddo, distante! Lei, invece, era più fine, più viva, più bizzarra. «Non verrò più» aveva detto. Ma ieri io ho insistito di nuovo. «Va bene, domani verrò. Aspettami» aveva risposto. So bene che non verrà. Ah, questo aspettare il suo arrivo... Ma la scelta sta appunto tra l’attesa con lei nei pensieri, e l’attesa e basta...
Imploro Dio di sottoporla al castigo che sto patendo io: «Fa’, mio Signore, che desideri con ardore qualcuno! Fa’ che si trascuri, che non badi a come campare, all’aria, all’acqua, a nutrirsi! Fa’ che anche lei resti ad aspettare davanti a una finestra!».
Capelli e barba sono imbianchiti qua e là. Ma io sono sempre alla finestra, in attesa di un’apparizione. Quantunque le cose siano fin troppo vere all’inizio, ora non sono altro che pure illusioni.
Il garzone del mobilificio sta entrando nel negozio con una bottiglietta in mano. Dall’ortolano un uomo, in abito blu scuro, sta scegliendo i meloni. Passano alcune scolarette.
Lo scenario cambia di minuto in minuto, di ora in ora; quando la strada sarà completamente deserta non sarà più la stessa. Osserverò questa scena mutevole e ti aspetterò, ogni giorno, fino a sera. Una volta sceso il buio, me ne andrò a bere. Poi, ti troverò di nuovo. Questa sera il mio scopo è semplicemente quello di guardarti da lontano. Ti passerò davanti salutandoti. Ne sono certo: tu non vuoi venire da me, e pazienza! Vuol dire che mi metterò a sedere da qualche parte sul vaporetto, in un punto dove possa vederti e tenere gli occhi fissi su di te, finché non avremo attraccato. Ti arrabbierai, se mi vedi. Ti confonderai, dimenticherai quel che stavi dicendo. Potresti anche cambiare di posto. Se invece non mi vedessi, avrò la fortuna di fissarti a lungo.
L’ortolano ha legato tre meloni a una di quelle aste che sporgono dal tendone. I meloni si toccano piano piano, dolci, dondolanti.
II
Non è venuta, la mia amata. Chiedo scusa a voi; voi due, i miei amici più cari, per non avervi ancora potuto scrivere. Ne è passato di tempo – saranno circa trent’anni – dall’ultima volta che vi ho dato mie notizie. Se mi chiedete perché non l’ho fatto, adesso ve lo spiego. Miei cari e diletti amici! Sono venuti in tanti a raccontarmi cose brutte su di voi, e sempre alle vostre spalle! Voi non ci credereste, alle cose che hanno spifferato. Vi assicuro che persino quelli che vi vogliono bene mugugnano e sussurrano a mezza voce, e se si parlava di voi se ne uscivano con un disgustato: «No, no... per carità, lascia perdere!». La maldicenza, si sa, stordisce e travia le persone, e le distoglie dal retto cammino; che cosa possiamo farci? Invece io non vi ho mai evitato, voi lo sapete bene, e nemmeno ho finto di non vedervi se vi incrociavo per strada. Tanti altri l’hanno fatto, eh, sì, sappiatelo! Ma lasciate che ve lo dica, amici miei, proprio oggi che capisco il vostro valore: io non l’ho mai fatto.
Non offendetevi! Siete creature dalle qualità talmente inattingibili – me ne rendo conto solo oggi – che comprenderei se mi diceste: «Eri libero di non salutarci...».
Non ho saputo amarvi con l’intensità degna di voi. Di questo sono a chiedervi di scusarmi, premettendo vuoti e assurdi discorsi al fine di tornare al culmine dell’antica intesa.
Vi voglio bene. Forse non più del bene che voglio alla mia amata umana, ma per lo meno altrettanto. Per me – sapete? – il «molto» e il «poco» non esistono. È tutto un circolare di corrispondenze alla pari. Vogliate perdonare la mia vena poetica. Voi, così gentili, che a passi ovattati e amorevoli venite a me nei momenti peggiori, in silenzio, per arruffarmi i capelli e baciarmi le mani e i piedi come cani smarriti: oh, come vi amo!
Quando il mio amore umano tralascia di venire da me, tutta presa dai suoi calcoli gretti, ecco che voi, al contrario, venite festosi e giocondi. Chissà, forse un giorno non verrete più neppure voi.
E ancora: benché uno di voi non sia che il frutto della vite e l’altro non sia che erba, sapete ricorrere a mille espedienti per avvicinarvi a un uomo. Mi piacerebbe soltanto che veniste di vostra spontanea volontà. Se possedessi la mia propria vigna, potrei produrre il mio vino da bere tutto l’anno, che il mio amore venga o non venga, che io sia di buono o di cattivo umore. Se avessi il mio campo di tabacco, ogni volta che fossi irritato o chissà che altro, potrei dire per tutto l’anno: «Ehi, tu, uomo, perché non ti fumi una bella sigaretta?». Care sigarette, non dovrei più comprarvi dal droghiere dell’angolo con il suo brutto muso, o dal tabacchino con la faccia cadaverica. Ah, quanto migliore sarebbe il mio avvenire, e quanto più sicuro! La nostra amicizia, così come quella con il mio amore, dipende dal denaro. Oh, ma che mi importa? L’amicizia che mi state dimostrando adesso non mi era mai stata manifestata da nessun altro. Sapevo bene che l’essere umano non l’avrebbe mai potuta dimostrare, eppure l’avrei amato in ogni caso. Ma voi siete i miei migliori amici. In questi tempi spaventosi siete venuti a me con passi lievi, e avete messo il mio cuore nelle vostre mani, e la mia testa nella vostra voluttà! Sono felice. E, d’ora in poi, è probabile che lo sarò solo con voi. Per potervi celebrare, quale sublime poeta avrei voluto che esistesse, oh, voi, coppia di amati, meritevoli di un encomio. Il vostro posto in me sta nella fessura delle mie labbra. Che Iddio vi protegga.
III
DOPO IL SUO ARRIVO
Visto che non è arrivata all’ora promessa, mi sono preso una bottiglia di vino; mi sono acceso una sigaretta e ho scritto la lettera, amici miei, con la sigaretta innaffiata dal vino... Dopo il primo bicchiere e la quinta sigaretta, mi sono quasi calmato. Per amarla, l’amo ancora, ma non mi preoccupo troppo del suo mancato arrivo. Per un poco mi sono quietato al punto da assopirmi. Nel sogno, il campanello di una porta suonava, ma non riuscivo a svegliarmi. Dopo che il campanello è suonato ancora due volte, sono balzato su e mi sono precipitato ad aprire.
Stava lì davanti. Il suo viso tondo guarda il mio, gonfio di sonno e del vino bevuto. Ora capisco quanto fosse importante prepararsi a quel momento. L’ho accolta con un fare disinvolto. Dov’erano finiti i miei entusiasmi, le mie euforie? E dentro di me, dov’era il senso della mia grande felicità? Non sono riuscito a ritrovare traccia di tutto ciò. Ma respiravo in un modo diverso. Allora le ho preso le mani. Le ho baciato i polsi, ossia il posto che più mi piaceva di lei. Siamo usciti di casa insieme... L’ho accompagnata fino a Tünel. L’ho fatta salire sul treno. Io sono rimasto dal lato di Beyoğlu. Sono entrato in un caffè.
Ecco che cosa sono riuscito a scrivere, della parte «dopo il suo arrivo»... Se penso a quali e quante cose avevo progettato di scrivere. «Ah, una volta che sarà venuta...» mi dicevo.
Allora: è venuta e se n’è andata. Scrivilo, su! Scrivi un po’ di quella grande gioia. Forza, vediamo!
Con tristezza e rimpianto, ho lasciato un giovane ragazzo che avevo conosciuto in un viaggio da Marsiglia al Pireo, al quale mi ero legato d’amore e amicizia grandi nel giro di cinque giorni. Dopo cinque giorni, ci siamo separati con mille ricordi d’infanzia, quasi avessimo fatto la stessa scuola, negli stessi anni e nella stessa classe. Se la sorte un giorno ci riunisse gli chiederò, accomunandolo ai miei amici d’infanzia: «A che scuola andavamo insieme?».
Su questa nave ho incontrato anche una ragazza. Era innamorata di un giovanotto. «È proprio un asino!» mi diceva. «Io lo amo così tanto, ma lui non viene a dirmi buongiorno al mattino. E se gli capita di venire non dice una parola».
Dissi allora io a quella ragazza:
«Ma ci sono io».
«Ahimè, sì,» ha detto lei «ma voi siete brutto».
Ci siamo seduti vicini sul ponte buio e stellato. Le ho preso la mano. Lei, a occhi chiusi, col pensiero a quel giovanotto, ha stretto la mia.
Piegandomi, le ho sussurrato all’orecchio: «Non è tutto la stessa cosa? In una notte buia, ogni persona, tutti noi, non siamo la stessa cosa? Proprio come lo sono un uomo e una donna. Chiudi gli occhi e sogna». Nell’oscurità, sognando quel ragazzo stupendo, lei si è rannicchiata contro di me, abbracciata a me, con il suo corpo esile e triste, opaco.
Un prete che avevo incontrato, anche lui, sulla nave, mi è venuto accanto mentre agonizzavo per un amico lasciato in un porto, e mi ha detto:
«Il piacere è la cosa più incostante e volubile. È un gas che scappa dal buco più piccolo. Non è per questo che siamo continuamente costretti a cambiare piaceri e diletti? E ogni volta, dopo averli cambiati, è forse possibile arrestare di nuovo quella cupezza, la disperazione, la sofferenza? Figliolo, è Dio l’unica felicità».
Sono arrossito per aver ricevuto da un prete il conforto che mi ero aspettato dal buio e dalla solitudine.
Ma era notte. Grandi cieli e grandi stelle. L’albero della nave puntava fisso su una stella splendente. La Via Lattea era limpida, trasparente. Ho alzato gli occhi. Nascosto dentro il vuoto, affidandomi a un Dio che avevo creato attraverso pensieri ossessivi, ho chiuso gli occhi, e quella notte, sul ponte della Tadla, ho dormito come un bambino senza pensieri.