mercoledì 12 gennaio 2022

IL RACCONTO DELLO STUDENTE Estratto da "LE MENZOGNE DELLA NOTTE" di Gesualdo Bufalino

 


V

IL RACCONTO DELLO STUDENTE

ovvero

NARCISO SALVATO DALLE ACQUE

 

Estratto da "LE MENZOGNE DELLA NOTTE" 

di Gesualdo Bufalino 

 

“Il mio racconto,“ esordì Narciso, ”sarà un racconto d’amore. Di come, negato originariamente all’amore, io abbia saputo inventarlo, formandolo da una mia costola e con un po’ del mio fiato dandogli battesimo e vita. Poich’esso è, com’io credo, non un fuoco che abbisogni di manuali acciarini, ma una combustione spontanea dell’anima che solo quando già lingueggia e divampa cerca fuori di sé l’essere dove appiccarsi. Sfuggevole sentimento, dotato di caratteri così ripugnanti fra loro da somigliare a quei mali che un unico nome designa ma variano infinitamente nei sintomi e negli effetti. A che punto esso m’abbia condotto è, al presente, visibile a tutti: a un punto di perdizione. Tuttavia non saprei maledirlo, dovendogli, qualunque cosa s’intenda con questa parola, la felicità. Dirò quindi come n’ebbi desiderio e notizia, disinganno e speranza, sin dagli anni più distanti; cosa feci per sperimentarlo; come mi diede alla fine certezza intera di me. Questo, soprattutto, il suo dono. Io non ero nessuno, dapprima, non sapevo chi ero. Solo dall’amore appresi il mio viso e mi conobbi persona.

Comincerò dall’inizio. La mia famiglia era di ricchi drappieri che commerciavano con tutta Europa. Mio padre, uomo dispotico e pieno di sangue, tornava dai lunghi viaggi d’Olanda o Turchia con una straniera diversa ogni volta, che pretendeva d’imporre in casa e tenervela, finché non fosse ripartito con lei. Mia madre, bellissima ma consumata dalle assenze di lui, e, più, dalle sdegnose presenze, quanto ne era reietta tanto lo inseguiva amorosamente da presso. Capace, pur di appaciarselo, di tentarlo con misere arti al debito coniugale, nella speranza di regalargli, dopo la femmina, l’erede maschio sognato. Che fui io, uccidendola con la mia nascita.

Trascorsi così un’infanzia di selvaggio, in una casa adriatica, pensile sopra il mare, difesa alle spalle da un giardino di meraviglie. In compagnia d’una sorella, Olimpia, ai cui occhi non cessavo d’essere un colpevole matricida, e d’un aio senza dottrina. Vedendo mio padre due o tre volte l’anno: il tempo d’apparire e sparire; con donne al fianco sempre più insondabili nella tenebra dei loro linguaggi.

M’educò un poco la musica, di cui m’invaghii ascoltando in soffitta una scatola armonica, ch’era appartenuta a mia madre, e le strombettate del giardiniere Gaspare, già trombetta al servizio d’un nobile veneto e delle cacce sue lungo il Brenta. Fu lui a darmi lezioni d’oboe e di corno, di soppiatto, fra solaio e cantina, dove orecchie nemiche non potessero trasalire ai nostri hallalì. Presto di maestri non ebbi bisogno e mi piacque andarmene per le terre d’intorno, quindi, seduto all’ombra d’un albero o d’un muretto, soffiare a perdifiato nello strumento. Ore inebriate, né so quante altre avrei vissute uguali e innocenti, se un giorno, mentre suonavo nel bosco, non avessi visto passarmi davanti e fermarsi una giovinetta villana, che conduceva una cavalla alla monta. Mi pregò di chetarmi, ché non turbassi la bestia. Avrei potuto in compenso accompagnarla e reggere il morso. Mi parve un gioco nuovo e ci andai. Qui vidi un grande stallone, ingabbiato in quei vincoli che chiamano ‘travaglio’, subito impennarsi all’odore della femmina che giungeva; quindi, aiutato per mano, introdursi nel sugo rosso di quella e abbandonarlesi sopra, mostrando, nel sollevarsene, languidi gli occhi e le froge d’una malinconia quasi umana.

La novità sull’istante non mi sconvolse granché, bensì ne cavai una sorta di bambinesca fierezza. Ammesso a un segreto di adulti, mi sentivo costretto alla più delicata omertà e impegnato a scoprire da solo per quali tramiti il sentimento d’amore, di cui avevo sinora udito solo in confuso, istigasse a pratiche tanto acrobatiche e tristi. Cominciai dunque a spiare, non potendo altro, gli accoppiamenti degli altri animali, dai cani alle mosche, secondo che l’ingordigia del mio sguardo sapeva appurarli. Febbrili e laidi moti mi parvero, ancora una volta, e ne fui dissuaso. Salvo quel mattino che vidi due farfalle, baciandosi ala con ala, su un calice di fiordaliso soavemente svenire.

Era venuta intanto la primavera dei miei tredici anni e sempre più spesso, riposto in pace il corno d’ottone, giacendo appoggiato a un tronco con le mani intrecciate dietro la nuca, osservavo il mio piccolo membro inturgidirsi e naturalmente levarsi, né gli cercavo altro sollievo se non di pollùere senza sogni, la notte appresso, fra le lenzuola. Tuttavia mi sentii strano un giorno che, in assenza di Gaspare, toccò a me mungere le mammelle d’una capra. Né esitai un altro giorno a cercar di sforzarla, non per voglia ma per mera curiosità meccanica. Senza fortuna, per fortuna, essendo l’animale balzato via bisbeticamente, squilibrandomi discinto sopra le erbe del prato…

Smisi allora di sentire nella semplice parola amore un suono di privilegio e magia, a somiglianza di quelle sillabe greche che, pronunziate, concedevano accesso ai misteri. E mi prese un disgusto, nei canti dei poeti, di chiunque si fa dal desiderio gonfiare bovinamente le tempie; oppure, istupidito e sudato, lo prostra la sazietà accanto a un corpo d’estranea.

Che dire di più? Scacciato da ogni altro oggetto, m’indussi a innamorarmi di me. Emulo, se i nomi son numi, di quell’altro Narciso ch’era perito mirandosi a una fontana. Non fu raro, quindi, che mia sorella mi sorprendesse nudo in piedi dinanzi a uno specchio e mi colpisse per gioco astioso coi pugni, non senza un torbido e un curioso nelle pupille, per esser frattanto cresciuta, ben altrimenti da me, volenterosa dei contatti del corpo. Tanto da farsene accorto persino mio padre nella fretta dei suoi soggiorni e da cercarle freno chiamando in casa un tutore. Costui, fatti sempre più radi i ritorni paterni, divenne vero arbitro nostro. Donde presero avvio le mie venture seguenti.

Avvenne un giorno di maggio. Gaspare sarchiava il giardino, mentre io m’ero appartato, al mio solito e a sua insaputa, in una nicchia di rami e foglie. Leggevo un libro, ricordo, ma senza entrarci dentro con l’animo, spiccandone piuttosto fate morgane di suoni, con cui, a occhi chiusi, giocare. Quando li riapersi, il servo s’era seduto per riposo sotto una tettoia di frasche e s’asciugava il petto aperto con una pezzuola turchina. Era, Gaspare, un uomo di cinquant’anni, fatticcio e sodo, con un petto di quercia, quale si compete a un suonatore di corno. Ed ecco Olimpia sorgere da non so dove, irrequieta e ondosa nelle sue vesti leggere. Ora accostandosi ora scostandosi dalla capanna. Un’ape non è diversa quando corteggia il grembo d’un fiore. Infine la vidi insinuarsi a fianco dell’uomo, chiedergli non so che, lui nemmeno rispondere, stupefatto. Né passò molto che lei si sollevò i panni, si stese a fianco di quello, seduto. Porto ancora in me la visione, come d’un cadavere d’annegata, di quel ventre di lei perlaceo, timidamente ovale, fiorito, dov’è l’attacco delle gambe, d’un esiguo pelame di cagnuola neonata.

La faccia di Gaspare aveva assunto frattanto la tinta, fra purpurea e terrea, d’un ubriacone, ma le sue mani restavano irremovibili lungo i fianchi. Neppure si mossero, per aiuto o rifiuto, quando lei lo sbottonò. Fu a questo punto che, mio malgrado, mi misi a gridare e li sciolsi.

Accorse per lo strepito alla finestra il tutore. Olimpia non fece in tempo a ricomporsi o non volle; ma accusò l’altro di averla tentata. Io invano la contraddissi.

L’esito fu la cacciata del servo e la mia fuga con lui. Per puntiglio o sentimento d’innocenza offesa o istantaneo spirito d’avventura. Né Gaspare m’avrebbe voluto con sé, epperò non poté esimersi, quando lo raggiunsi, con un fagottino legato al mignolo, presso la locanda del Leon d’Oro.

Dei successivi accidenti non conta discorrere. Errai per anni in compagnia del mio socio, di qua e di là dei confini, noncurante dei piaceri di giovinezza, e ostinato in una crudele verginità; ma maturando, via via che crescevo e leggevo, una passione di affrancamento per tutti i popoli, che mi teneva le veci delle passioni d’amore. Fu allora, ricordate?, che vi conobbi per caso a un tavolo di riversino e, a dispetto degli anni acerbi, m’iniziaste agli arcani del Comitato. Venuto in sospetto della polizia criminale per aver diffuso nelle scuole la semenza dei tempi nuovi, mi fu giocoforza salvarmi nel Settentrione, dove giunsi con lettere di Gaspare per il suo padrone d’un tempo.

Era, costui, un patrizio di nome Grimaldi, di spiriti liberali, che abitava una villa a specchio del fiume, cinta da un verziere tale e quale il mio dell’infanzia. Il luogo mi sedusse all’istante, con la sua peschiera adorna di statue, le logge, le colombaie, le piante a frutto, le selvatichine, gl’infiniti nascondigli d’agio e dolcezza. Me ne venne una pace e un gusto del trasognare che avevo disimparato. Assunto come domestico, per pura lustra, avevo in realtà tempo a ogni cosa e ne profittai per restituirmi alle mie letture e curiosità di ragazzo, che alternavo e mischiavo con l’esercizio del corno. Ciò mi promosse a far numero, con molti dilettanti delle ville vicine, in un’orchestra che lor signori adunavano in tempo d’estate onde allietarsi la villeggiatura. Coi quali una sera il Grimaldi volle ripetere l’occasione di quelle musiche di fuochi e d’acque che solevano nel secolo scorso blandire i cuori dei re sul Tamigi. Ce ne vollero, di prove, per apprendere le partiture, ma l’occasione mi piacque, così propizia a svogliarmi dall’amor proprio e ad invogliarmi l’altrui. Sicché, quando venne l’ora, presi posto col mio strumento a tracolla sulla zattera dei musicanti, ch’era poi quella adibita di giorno al trasporto del tabacco sul fiume. Ivi stipati in parecchie decine, avremmo con l’aiuto d’una voga cadenzata e lunga viaggiato di villa in villa lungo le pieghe dell’acqua, raccogliendo dietro di noi nuove barche sino a raggiungere, sempre suonando, l’approdo della Malcontenta, dove un banchetto all’aperto, preceduto dagli artifici e seguito da un bal masqué, avrebbe chiuso la notte. E che notte fu quella! Voglio ricordarmene per conforto di questa odierna che volge…

Io m’ero raccolto a poppa, nel gruppo dei fiati, e suonavo con l’aire e la migliore lena del mondo; sentendomi, benché giacessi sull’orlo del duro fasciame e mi premessero al fianco grevi membra e afosi respiri, il postiglione e l’ammiraglio di quell’imbarco: colui che coi semplici assoli del suo olifante guida le ciurme d’amore ad un’ignota Citera… Così scorrevo in quella mansuetudine d’acque dove s’affondavano i remi come dita nell’intimo d’una grande capigliatura; fra un fuggire di rive contrarie, qui scure di salici e ontani, laggiù punteggiate di lumi… Scorrevo e suonavo con gli altri tutti, ma era come se fossi solo a suonare sotto la tazza capovolta del cielo; solo a sentire il rollio del legno e il bordone della corrente accompagnare la barcarola; solo a scorgere l’ombra dei remi comporre coi raggi di luna i più giocondi alfabeti…

Seguiva il rimanente naviglio, peote, brazzere, bragozzi, quale più quale meno vicino. Sennonché talvolta ci si ponevano a lato, per voglia di ascolto migliore o affinché mirassero nei minimi tratti come sbocciava fra cielo e fiume, dalla scherma di mani e bocche, il diafano fiore del suono. Fra gli altri un burchiello, più curioso e insistente, infine s’accostò quasi a toccarci. Scomparsa in quell’istante la luna entro un complesso di nubi, e accesosi il lume d’una fiaccola a prua, se ne illuminò a giorno, fra due figure d’ufficiali in piedi, l’immagine d’una fanciulla seduta. Smisi di suonare e presi a guardarla. Non mi crederete ma un solo baleno bastò per potervi ora dire per filo e per segno qual era.

Vi dirò che aveva capelli bruni, secondo ciò che appariva fuor della cuffia di velo; spartiti, come da una ferita, da una scriminatura imperiosa, sì da risultarne due bande morbide e lisce, che sulle tempie si sfrangiavano in anella di ricci e spiovevano sopra le spalle. Alta e forte la fronte, ma crespe dolorose la corrugavano. Negli occhi, viceversa, splendeva la più immemore gioventù: due tondi marenghi, due gocciole di firmamento mediterraneo, quando è senza una nuvola né ancora lo annerisce il presagio dell’equinozio imminente. Infine, dentro l’iride, una malizia volubile, cui rispondeva un’altra malizia, delle labbra socchiuse, che sembravano baciar l’aria ad ogni respiro. Quanto al naso, alle gote, al mento, sebbene perfetti di forma e salute, spiritosamente sparivano dietro quella mostra di sguardi e risa come vereconde comparse dietro un duello d’eroi. Né per questo la cera e l’aria perdevano un proprio stampo d’orgoglio e di strenua regalità. Alla quale crescevano forza lo sfavillio delle gemme e l’opulenza dell’abito, effuso sino a spazzare le umili assi, ma rarefatto a sommo del busto, dove l’alabastro del seno, mal custodito dallo scialle di casimira, faceva guerra alla luna.

Solamente mi mancava di conoscerne il nome. Ma in quella: ‘Eunice!’ una voce chiamò da un felze vicino. Lei si volse e così seppi chi amavo. Rise, anche, nel chiedere: ‘O che?’ Tanto occorse perch’io, vedendole guizzar fra i denti nel riso il pesciolino della lingua, capissi che sarei morto di mille morti al solo patto di poterlo ghermire nella mia rete.

Mi sbadai, in quel mentre, del tutto. Non mi ci volle di più per cascare capofitto col mio strumento dentro le acque del fiume.

Nessuno se ne accorse, tanto fu morbido il tonfo. Salvo che, venuto meno il mio squillo d’attacco nella fanfara del minuetto, ciascuno mi cercò invano con gli occhi al mio posto e ne nacque tumulto. Ma già soccorrevoli mani m’avevano issato a bordo della barca di lei… ‘Narciso salvato dalle acque!’ mi canzonò a piena gola, quando balbettando le ebbi detto il mio nome, mentre con tutto il corpo le ruscellavo sui piedi.

M’aiutarono a scuotere il gelo dall’ossa, con un sorso o due d’una ruvida bibita, i due ufficiali di scorta, ch’erano poi tali solo per travestimento, nell’occorrenza del ballo. Subito dopo toccammo terra e potei meglio rinvigorirmi nella cucina della dimora, dove m’offrirono per cambio d’abito asciutto un guardaroba di maschere. Scelsi, non so perché, un mefisto nero su un costume di Arlecchino, quindi attesi che dal prato si sparecchiassero le guantiere e si desse inizio al visibilio dei fuochi, per confondermi senza sospetto degli invitati alla ricerca di Eunice. Non mi fu difficile riconoscerla, benché si fosse posta sugli occhi una fettuccia di velluto. Più difficile, iniziate le danze, ottenerla dama in un giro di valzer. Non parve ravvisarmi né io lo desideravo, contento di volteggiare con lei, tenendola fra le braccia. Innamorato e beato di esserlo…

Ho spesso riflettuto più tardi su questo fulmineo alleluia che fu l’amor mio per Eunice. E mi sono convinto ch’è stato come in quella dottrina d’un savio antico che il mio pedagogo s’ingegnava d’insegnarmi quand’ero ragazzo. Secondo cui noi serbiamo nell’anima il modello di un’idea già contemplata in un altro destino e nel nuovo stato perduta. Finché sulla terra non ne incontriamo esempi incarnati e la reminiscenza in questi di quella c’invaghisce d’un tratto la mente, facendola da bruta filosofa. Così Eunice, quella sera: Idea di bellezza e di spirito, trionfo di fiamme e di carne, etereo volume calato nel senso, senso rapito oltre i sensi… Qualcosa che forse due parole, per come le intendo all’ingrosso, saprebbero meglio dilucidare: il magnete e l’elettrico.

Volavo dunque tenendola fra le braccia, senza profferire una sillaba, tuttavia corso da visibili brividi. Allora lei mi burlò, nell’atto che un cavaliere sopravveniva a pretendere il cambio: ‘Salvato dalle acque, sia pure; ma dal raffreddore, mai più!’

Capii che m’aveva indovinato anche lei e questo fece una complicità fra noi due. Tanto più che, con rapido gesto togliendosi la mascheretta, mi lanciò un sorriso di luce, mentre in braccio all’altro già si partiva. Non seppi risponderle altrimenti che con un identico gesto: cavandomi a mia volta la maschera e mostrando a lei, ma anche all’universale, il mio viso di servo e d’intruso. Non l’avessi mai fatto: dovette intervenire il Grimaldi e portarmi via, a braccetto, in un mormorio generale. Cavatosi il camauro di lino, da doge, con cui s’era travisata la testa, mi rinfacciò con paterno bollore quell’esibizione imprudente. Non lo ascoltai, lo incalzavo chiedendogli di Eunice, chi era. Impietrai nell’udire ch’era già maritata: con un Veniero Manin, un patrizio che languiva nei Piombi, reo confesso di presiedere una vendita carbonara. ‘Come!’ esclamai. ‘E io?’ Sino a tal punto m’ero bambinamente convinto che lei fosse mia, dal momento ch’io ero e mi sentivo suo. Non vi so dire, nei giorni seguenti, le mie tempeste, la commozione allo stomaco e al petto. Anche pensando all’assente, di cui male mi sarei perdonato d’insidiare la sposa, mentre lui per la stessa mia Causa pativa. Invano il Grimaldi mi consolò. ‘Sono perduto,’ ripetevo e pensavo di lasciarmi morire. Ero a questi estremi quando lei mi mandò a chiamare con un corriere. La lettera giungeva dalla laguna, dove s’era recata ad assistere il marito da presso. Lette le poche righe, non esitai né pensai più ai miei presunti doveri: amavo, come si ama a diciannove anni e in Italia. M’accomiatai dal mio protettore, presi con me due pistole con poco bagaglio, e partii. Il viaggio era breve ma non perciò più sicuro. Io ero stato sinora in villa, tranquillo, fra vicini solidali e discreti, camuffato da innocuo. Ora la strada maestra presentava più d’un pericolo. Il mio nome di bandito, la taglia, i connotati erano su tutte le bocche. Benché forestiero, anzi perché forestiero, sarei stato esposto alle più pettegole indagini. Ed era possibilissimo che la polizia imperiale riportasse vittoria dove quella del re aveva fallito… Con l’aiuto di Dio venni in porto. Ma non era di paura il batticuore che, salendo le scale, mi fermò ad ogni gradino.

Bussai infine, mi fu aperto. Era la prima volta che, dopo il ballo, le stavo vicino e sempre più mi stupivo che lei non gridasse d’amarmi, tanto naturale era amarla per me. Mi disse invece che sapeva del mio valore, dei miei trascorsi settari, e che perciò m’aveva chiamato, non giudicando nessuno più degno d’esserle accanto in un’impresa terribile, ch’era la fuga di suo marito.

‘Tanto lo ama,’ pensai e mi sentii venire un groppo alla gola. ‘Non mi amerà, non può amarmi!’

Ugualmente m’inginocchiai: ‘Sempre,’ le dissi, ‘sono stato incline alle sfide da cui potessi uscire perdente. Questa poi, qualunque sia per esserne la riuscita, mi vedrà perdente, so io bene perché. E tuttavia eccomi ai tuoi piedi: forze, vita, speranze. Fanne quello che vuoi.’

Si chinò impetuosamente e mi baciò sulla fronte. ‘Non sarà bisogno la vita,’ mi disse. ‘Almeno spero. Il mio piano è recarmi, come m’è concesso nei giorni dati, a visitare in cella il mio sposo, in compagnia d’una sua sorella che per complessione ed età gli somiglia. Quindi, scambiate fra loro le vesti, salvarci noi due, lasciando alla coraggiosa giovine le tristizie d’una piccola pena, ma sottraendo l’uomo a un giudizio senza rimedio.’

Come mi mostravo incredulo del successo: ‘Non dubitare,’ m’assicurò. ‘M’aiuteranno le ombre della sera a far ciechi i guardiani ma, più ancora, una borsa piena.’ M’aveva frattanto rialzato con mani affettuose. ‘Tu,’ proseguì, ‘dovrai predisporre fuor delle mura carrozze, cambi di cavalli, armi, abiti; indi accompagnarci oltre Appennino, sino ai rifugi, che già conosci, del Padreterno…’

Dissi di sì, senza quasi capire, ero come in un fascino, vedendomela palpitare accanto con le guance accese da un rosso cinabro che non la vergogna ma era l’eccitazione a irradiarle sotto la pelle.

C’incontrammo da allora tutti i giorni. Le chiesi, con rispetto e senza pretendere nulla in cambio, di poterle parlare un poco d’amore. Come uno che si confessi a una grata o a una stella.

Uno sfogo che mi fu concesso a patto di non pretendere una sillaba sola in risposta. Così avvenne, in ogni incontro, nel momento di congedarmi. E ne sorrido ancor oggi, pensando al decorso bizzarro di quei nostri trattenimenti: sottomessi per ore e ore al raziocinio più freddo, nello scrutinio del piano di fuga, sicché nessun calcolo erroneo avesse a guastarlo o scherzo del caso; quindi conclusi da un soliloquio e delirio mio, con lei in ascolto impassibile, senza che un solo moto del viso o della persona m’inducesse a sperarla partecipe. Sino a quando, dopo due voltate di clessidra, ch’era il termine che la sua pazienza mi offriva, lei, dal suo astratto trono levandosi, offriva alla mia mano la sua e col suggello d’un bacio in fronte, filantropico, m’accomiatava.

Giunse il giorno prescritto alla fuga. Di come essa venne al proposito, l’Europa intera ha parlato e non dirò oltre. Quel che non sapete abbastanza sono gli accidenti nostri di terra in terra, dopo che ci trovammo fuori dei termini dell’impero, nello stato della Chiesa. Vi eravamo arrivati in abito di viaggiatori, con cavalcature fresche e adatte a trascorrere le montagne; ma già Veniero m’era parso, non so se giudicando equamente o per effetto di geloso livore, uomo cedevole, di fatue fattezze e maniere. Da non capirsi due cose: come avesse ardito appassionarsi alle sorti dei popoli e quindi esporsi alle folgori dei governi; e come potuto indurre sensi d’affetto nel cuore di lei così tenero e fiero…

Cavalcammo la notte, scegliendo i tragitti più cupi, onde eludere i gendarmi, ma non sì che non dovessimo cercare cibo e sollievo di sonno in qualche albergo romito. Così appunto, trovandoci già fuori delle strette più aspre, mentre stavamo mangiando nella sala terrena di un’osteria, entrarono tre persone con aria di cacciatori, con bisacce, cannocchiali, carabine, che tenevano a bandoliera. Da cui fummo richiesti del nostro essere e dove andassimo, ma senza sospetto, per sola ciarla da desco. Al che Veniero, turbato, esibire senza ragione le sue carte, che a nome d’un Savelli, artefatte, gli aveva procurate a Roma la famosa Vanina, già in fama di carboneria anni addietro, prima d’andar sposa a un principe dei maggiori.

Trasalì nel mirarle il più anziano dei tre e parlò in disparte con gli altri. Indi ci salutò protestando di dover correre alle poste del verro. Capimmo meglio cosa intendeva quando rientrò al seguito d’un drappello di sbirri, accusandoci che il giovine il cui nome figurava sul passaporto era defunto da un anno, per testimonianza comune. Ma Eunice, intrepidamente: ‘Sia pure. Vero è che viaggiamo in incognito, la nostra è una fuga d’amanti. Né vogliamo che i nomi veri trapelino.’ E qui sussurrò all’orecchio del brigadiere un nome di famiglia cardinalizia che gli fece cambiare colore.

‘Ma lui?’ obiettò il militare, indicandomi.

‘È al nostro servizio,’ dichiarò, maestosa, la donna.

Sarebbero forse state bastevoli all’uomo giustificazioni tanto sfrontate, se non si fosse intromesso il capo dei cacciatori: ‘So che si cerca un evaso dai Piombi. Pende sul suo capo una taglia e la voglio. Sarà preda più ricca, stamani, di qualsivoglia cinghiale.’ Io tacevo, con le mani strette sui calci delle pistole. Ma Veniero, all’improvviso: ‘Non serve tentare di proteggerlo,’ profferì freddamente. ‘È lui,’ e m’indicò, ‘il Manin che cercate.’

Eunice lo fissò con inesprimibile raccapriccio, io con stupore. Ma subito, magnanimamente: ‘È vero, sono io,’ gridai. ‘Prendetemi, se potete!’ e feci atto di estrarre le armi, ma quelli mi balzarono addosso. Nel trambusto che seguì, Veniero s’eclissò, lei rimase. Fu in quell’istante che, da un batter di palpebra, seppi d’essere amato. Più tardi, chiuso in Castel Sant’Angelo, e aspettando che m’estradassero quaggiù, donde ne era venuta richiesta, ebbi da lei i segni d’una passione finalmente uguale alla mia. Veniva a trovarmi ogni giorno, libera com’era, non essendole stati apposti se non lievi reati, dai quali l’amicizia della Savelli l’ebbe presto prosciolta. E mi parlava dietro l’intreccio dei ferri, avidamente sfregando le labbra contro la dura barriera che le vietava le mie. Oh, quante parole di brace e fantasie di libertà e promesse di voluttà, che mi lasciavano esangue, incapace di levarmi dalla panca dov’ero stato seduto ad udire…

Alla fine, or sono tre anni giusti, si ordinò di condurmi via. Fu di notte, all’impensata. Ma voi sapevate ben l’ora e il sito, amici, per avviso segreto del Padreterno, che veramente mai come in questo caso vide, previde e provvide dalla sua cattedra altolocata. E chissà che darebbe il Governatore per sapere chi si nasconde sotto la larva di quel soprannome!

L’assalto alla scorta che mi trasferiva alle regie prigioni, siete voi che l’avete compiuto, io ne intesi assai poco, ammanettato al chiuso, fra le quattro pareti della carrozza, e col dorso rivolto ai cavalli, che non scorgessi dove si andava. Solamente ho negli occhi, appena misi piede sul suolo e mi scatenaste e ci fummo riabbracciati, l’atto di tutti di alzare una fronte riconoscente alla bellezza della volta celeste. Benché subito mi venne un morso nel cuore, calpestando senza volere la salma d’un nemico nell’erba: un imberbe caporale di Fondi, con cui prima avevo celiato, durante il viaggio, ed ora mi s’arrendeva sotto le scarpe nella sua malleabile, slogata inerzia d’ucciso. Eunice me ne fece scordare, ch’era venuta con voi ed era rimasta ad attendere dietro un albero, in agonia di vedermi…

Così, quella notte, quando ci trovammo alfine al sicuro, imparai da lei veramente l’amore. Voi dormivate, amici, nell’asilo d’una capanna, noi sotto il cielo nudo, in un incavo del terreno, chiusi da un ombrello di foglie ampio quanto una cupola. E temo di parervi troppo impudico, ma non so tenermi dal descrivere con parole le delizie che mi si aprirono allora. E di lei, come si spogliò timidamente nel minuscolo albore, che sino a noi trapelava, ed era, non la luna, no, ma un suo profetico assaggio, una luminescenza, una cipria, quale rimane alle siepi dopo ch’è trascorsa una lucciola. Di lei, bianca e tremante sopra di me, quasi ignara, anche se un po’ meno di me, delle movenze d’amore. E come insieme affondammo in un mobile turbinio. Con onde che mi correvano dal calcagno alla nuca, impercettibili prima, simili ai gemiti fievoli d’una risacca; poi più turbate, forse sotto l’impulso d’una brezza repentina; quindi grosse a crosciarmi dentro con un fragore che pareva di bufera, ma subito s’addolciva, ripetendomi nella conca dell’orecchio il grido antico dell’oboe nei miei meriggi d’estate…

‘Eunice,’ chiamavo allora inaudibilmente, e con dita mai stanche tornavo a carezzarle la guancia, cercavo un ricciolo dove avvolgerle, un grappolo nuovo di lei da mangiare, da bere con le mie labbra… Supino, aiutandomi la luna come in quella notte sul Brenta, contemplavo il suo grande viso pendere sopra di me.

C’era un silenzio, attorno, c’era una pace…

Ecco, ho avuto, dopo, altri amori; altre volte, e più, m’ha stupito l’abbondanza della mia felicità. Ma soltanto quella, non altre notti, ricorderò fra quattr’ore, sotto il filo della mannaia.“