venerdì 21 gennaio 2022

L'UOMO A UNA DIMENSIONE Herbert Marcuse



 L'UOMO A UNA DIMENSIONE

Herbert Marcuse

Introduzione
La paralisi della critica: la società senza opposizione

 

 

 

La minaccia di una catastrofe atomica, che potrebbe spazzar via la razza umana, non serve nel medesimo tempo a proteggere le stesse forze che perpetuano tale pericolo? Gli sforzi per prevenire una simile catastrofe pongono in ombra la ricerca delle sue cause potenziali nella società industriale contemporanea. Queste cause rimangono non identificate, non chiarite, non soggette ad attacchi del pubblico, poiché si trovano spinte in secondo piano dinanzi alla troppo ovvia minaccia dall’esterno – l’Ovest minacciato dall’Est, l’Est minacciato dall’Ovest. Egualmente ovvio è il bisogno di essere preparati, di vivere sull’orlo della guerra, di far fronte alla sfida. Ci si sottomette alla produzione in tempo di pace dei mezzi di distruzione, al perfezionamento dello spreco, ad essere educati per una difesa che deforma i difensori e ciò che essi difendono.

Se si tenta di porre in relazione le cause del pericolo con il modo in cui la società è organizzata e organizza i suoi membri, ci troviamo immediatamente dinanzi al fatto che la società industriale avanzata diventa più ricca, più grande e migliore a mano a mano che perpetua il pericolo. La struttura della difesa rende la vita più facile ad un numero crescente di persone ed estende il dominio dell’uomo sulla natura; in queste circostanze, i nostri mezzi di comunicazione di massa trovano poche difficoltà nel vendere interessi particolari come fossero quelli di tutti gli uomini ragionevoli. I bisogni politici della società diventano bisogni e aspirazioni individuali, la loro soddisfazione favorisce lo sviluppo degli affari e del bene comune, e ambedue appaiono come la personificazione stessa della ragione.

E tuttavia questa società è, nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza – individuale, nazionale e internazionale.

Questa repressione, così differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno sviluppati, della nostra società, opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e tecnica, ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita.

Indagare quali sono le radici di questo sviluppo ed esaminare le loro alternative storiche rientra negli scopi di una teoria critica della società contemporanea, teoria che analizza la società alla luce delle capacità che essa usa o non usa, o di cui abusa, per migliorare la condizione umana. Ma quali sono i criteri di una critica del genere?

In essa hanno certamente parte dei giudizi di valore. Il modo vigente di organizzare una società è posto a confronto con altri modi possibili, che si ritiene offrano migliori opportunità per alleviare la lotta dell’uomo per resistenza: una specifica pratica storica è posta a confronto con le sue alternative storiche. Sin dall’inizio ogni teoria critica della società si trova così dinanzi al problema dell’obbiettività storica, problema che sorge nei due punti in cui l’analisi implica giudizi di valore:

 

1) Il giudizio che la vita umana è degna di essere vissuta, o meglio che può e dovrebbe essere resa degna di essere vissuta. Questo giudizio è sotteso ad ogni sforzo, ad ogni impresa intellettuale; esso è un a priori della teoria sociale, e quando lo si rigetti (ciò che è perfettamente logico) si rigetta pure la teoria.

2) Il giudizio che in una data società esistono possibilità specifiche per migliorare la vita umana e modi e mezzi specifici per realizzare codeste possibilità. L’analisi critica deve dimostrare la validità obbiettiva di questi giudizi e la dimostrazione deve procedere su basi empiriche. La società costituita dispone di risorse intellettuali e materiali in quantità e qualità misurabili. In che modo queste risorse possono venire usate per lo sviluppo e soddisfazioni ottimali di bisogni e facoltà individuali, con il minimo di fatica e di pena? La teoria sociale è una teoria della storia e la storia è il regno della possibilità nel regno della necessità. Di conseguenza dobbiamo chiederci quali sono, tra i vari modi potenziali e reali di organizzare ed utilizzare le risorse disponibili, quelli che offrono le maggiori possibilità per uno sviluppo ottimale.

 

Il tentativo di rispondere a queste domande richiede, all’inizio, una serie di astrazioni. Al fine di identificare e definire le possibilità esistenti per uno sviluppo ottimale, la teoria critica deve astrarre dal modo in cui esse sono organizzate e utilizzate al presente, nonché dai risultati di questo modo di organizzarle e utilizzarle. Tale astrazione, che rifiuta di accettare l’universo dato dei fatti come il contesto decisivo per la validazione, tale analisi «trascendente» dei fatti, condotta alla luce delle loro possibilità arrestate e negate, pertiene alla struttura stessa della teoria sociale. Essa si oppone ad ogni metafisica in virtù del carattere rigorosamente storico della trascendenza1. Le «possibilità» debbono essere alla portata della società considerata; debbono essere scopi definibili in termini pratici. Nello stesso senso l’astrazione dalle istituzioni vigenti deve esprimere una tendenza reale, in quanto la loro trasformazione deve corrispondere ad un bisogno autentico della popolazione interessata. La teoria sociale riguarda le alternative storiche che assillano la società costituita come tendenze e forze sovversive. I valori annessi alle alternative diventano fatti quando sono tradotti in realtà dalla pratica storica. I concetti teorici sono portati a compimento con il mutamento sociale.

Ma a questo punto la società industriale avanzata pone dinanzi alla critica una situazione che sembra privare quest’ultima delle sue stesse basi. Il progresso tecnico esteso a tutto un sistema di dominio e di coordinazione crea forme di vita e di potere che appaiono conciliare le forze che si oppongono al sistema, e sconfiggere o confutare ogni protesta formulata in nome delle prospettive storiche di libertà dalla fatica e dal dominio. La società contemporanea sembra capace di contenere il mutamento sociale, inteso come mutamento qualitativo che porterebbe a stabilire istituzioni essenzialmente diverse, imprimerebbe una nuova direzione al processo produttivo e introdurrebbe nuovi modi di esistenza per l’uomo. Questa capacità di contenere il mutamento sociale è forse il successo più caratteristico della società industriale avanzata; l’accettazione generale dello scopo nazionale, le misure politiche avallate da tutti i partiti, il declino del pluralismo, la connivenza del mondo degli affari e dei sindacati entro lo stato forte, sono altrettante testimonianze di quell’integrazione degli opposti che è al tempo stesso il risultato, non meno che il requisito, di tale successo.

Un breve confronto tra lo stadio formativo della teoria della società industriale e la sua situazione presente può contribuire a mostrare come le basi della critica siano state alterate. All’origine, nella prima metà dell’Ottocento, quando elaborò i primi concetti di un’alternativa, la critica della società industriale pervenne alla concretezza in una mediazione storica tra teoria e pratica, valori e fatti, bisogni e scopi. Questa mediazione storica ebbe luogo nella coscienza e nell’azione politica delle due grandi classi che si fronteggiavano nella società: la borghesia e il proletariato. Nel mondo capitalista esse sono ancora le classi fondamentali; tuttavia lo sviluppo capitalista ha alterato la struttura e la funzione di queste due classi in modo tale che esse non appaiono più essere agenti di trasformazione storica. Un interesse prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale unisce gli antagonisti d’un tempo nelle aree più avanzate della società contemporanea. E nella misura in cui il progresso tecnico assicura lo sviluppo e la coesione della società comunista, l’idea stessa di un mutamento qualitativo passa in secondo piano dinanzi alla nozione realistica di una evoluzione non-esplosiva. Nell’impossibilità di indicare in concreto quali agenti ed enti di mutamento sociale sono disponibili, la critica è costretta ad arretrare verso un alto livello di astrazione. Non v’è alcun terreno su cui la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione si incontrino. Persino l’analisi strettamente empirica delle alternative storiche sembra essere una speculazione irrealistica, e il farle proprie sembra essere un fatto di preferenza personale (o di gruppo).

Ma l’assenza di agenti di mutamento confuta forse la teoria? Dinanzi a fatti apparentemente contraddittori, l’analisi critica continua ad insistere che il bisogno di un mutamento qualitativo non è mai stato così urgente. Ma chi ne ha bisogno? La risposta è pur sempre la stessa: è la società come un tutto ad averne bisogno, per ciascuno dei suoi membri. L’unione di una produttività crescente e di una crescente capacità di distruzione; la politica condotta sull’orlo dell’annientamento; la resa del pensiero, della speranza, della paura alle decisioni delle potenze in atto; il perdurare della povertà in presenza di una ricchezza senza precedenti costituiscono la più imparziale delle accuse, anche se non sono la raison d’être di questa società ma solamente il suo sottoprodotto: la sua razionalità travolgente, motore di efficienza e di sviluppo, è essa stessa irrazionale.

Il fatto che la grande maggioranza della popolazione accetta ed è spinta ad accettare la società presente non rende questa meno irrazionale e meno riprovevole. La distinzione tra coscienza autentica e falsa coscienza, tra interesse reale e interesse immediato, conserva ancora un significato. La distinzione deve tuttavia essere verificata. Gli uomini debbono rendersene conto e trovare la via che porta dalla falsa coscienza alla coscienza autentica, dall’interesse immediato al loro interesse reale. Essi possono far questo solamente se avvertono il bisogno di mutare il loro modo di vita, di negare il positivo, di rifiutarlo. È precisamente questo bisogno che la società costituita si adopera a reprimere, nella misura in cui essa è capace di «distribuire dei beni» su scala sempre più ampia e di usare la conquista scientifica della natura per la conquista scientifica dell’uomo.

Posto dinanzi al carattere totale delle realizzazioni della società industriale avanzata, la teoria critica si trova priva di argomenti razionali per trascendere la società stessa. Il vuoto giunge a svuotare la stessa struttura della teoria, posto che le categorie di una teoria sociale critica sono state sviluppate nel periodo in cui il bisogno di respingere e sovvertire era incorporato negazione di forze sociali efficaci. Tali categorie erano in essenza dei concetti negativi, dei concetti d’opposizione, i quali definivano le contraddizioni realmente esistenti nella società europea dell’Ottocento. Perfino la categoria «società» esprimeva l’acuto conflitto esistente tra la sfera sociale e quella politica – la società era antagonista rispetto allo Stato. Del pari, termini come individuo, classe, privato, famiglia, denotavano sfere e forze non ancora integrate con le condizioni vigenti, erano sfere di tensione e di contraddizione. Con la crescente integrazione della società industriale, queste categorie vanno perdendo la loro connotazione critica e tendono a diventare termini descrittivi, ingannevoli od operativi.

Un tentativo di riprendere l’intento critico di queste categorie, e di comprendere come l’intento sia stato soppresso dalla realtà sociale, si configura in partenza come una regressione da una teoria congiunta con la pratica storica ad un pensiero astratto, speculativo: dalla critica dell’economia politica alla filosofia. Tale carattere ideologico della critica deriva dal fatto che l’analisi è costretta a procedere da una posizione «esterna» rispetto alle tendenze positive come a quelle negative, alle tendenze produttive come a quelle distruttive nella società. La società industriale moderna rappresenta l’identità diffusa di questi opposti – è il tutto che è in questione. Al tempo stesso la teoria non può assumere una posizione meramente speculativa; deve essere una posizione storica, nel senso che deve essere fondata sulle capacità di una data società.

Questa situazione ambigua implica una ambiguità ancora più fondamentale. L’uomo a una dimensione oscillerà da capo a fondo tra due ipotesi contraddittorie: 1) che la società industriale avanzata sia capace di reprimere ogni mutamento qualitativo per il futuro che si può prevedere; 2) che esistano oggi forze e tendenze capaci di interrompere tale operazione repressiva e fare esplodere la società. Io non credo si possa dare una risposta netta; ambedue le tendenze sono tra noi, fianco a fianco, ed anzi avviene che una includa l’altra. La prima tendenza predomina e qualsiasi condizione possa darsi per rovesciare la situazione viene usata per impedire che ciò avvenga. La situazione potrebbe essere modificata da un incidente, ma, a meno che il riconoscimento di quanto viene fatto e di quanto viene impedito sovverta la coscienza e il comportamento dell’uomo, nemmeno una catastrofe produrrà il mutamento.

 

L’analisi è centrata sulla società industriale avanzata, in cui l’apparato tecnico di produzione e di distribuzione (con un settore sempre più ampio in cui predomina l’automazione) funziona non come la somma di semplici strumenti, che possono essere isolati dai loro effetti sociali e politici, ma piuttosto come un sistema che determina a priori il prodotto dell’apparato non meno che le operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo. In questa società l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. In tal modo esso dissolve l’opposizione tra esistenza privata ed esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali. La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli. La tendenza totalitaria di questi controlli sembra affermarsi in un altro senso ancora – diffondendosi nelle aree meno sviluppate e persino nelle aree preindustriali del mondo, creando aspetti simili nello sviluppo del capitalismo e del comunismo.

Di fronte ai tratti totalitari di questa società, la nozione tradizionale della «neutralità» della tecnologia non può più essere sostenuta. La tecnologia come tale non può essere isolata dall’uso cui è adibita; la società tecnologica è un sistema di dominio che prende ad operare sin dal momento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate.

Il modo in cui una società organizza la vita dei suoi membri comporta una scelta iniziale tra alternative storiche che sono determinate dal livello preesistente della cultura materiale ed intellettuale. La scelta stessa deriva dal gioco degli interessi dominanti. Essa prefigura modi specifici di trasformare e utilizzare l’uomo e la natura e respinge gli altri modi. È un «progetto» di realizzazione tra altri2. Ma una volta che il progetto è diventato operativo nelle istituzioni e relazioni di base, esso tende a diventare esclusivo e a determinare lo sviluppo della società come un tutto. Come universo tecnologico, la società industriale avanzata è un universo politico, l’ultimo stadio della realizzazione di un progetto storico specifico, vale a dire l’esperienza, la trasformazione, l’organizzazione della natura come un mero oggetto di dominio.

Via via che il progetto si dispiega, esso plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative. La produttività e il potenziale di sviluppo di questo sistema stabilizzano la società e limitano il progresso tecnico mantenendolo entro il quadro del dominio. La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica.

Nel discutere le tendenze familiari della civiltà industriale avanzata ho fatto riferimento di rado a testi specifici. Il materiale è raccolto e descritto nella vasta letteratura sociologica e psicologica in tema di tecnologia e di mutamento sociale, di organizzazione scientifica del lavoro, di società per azioni, di mutamenti nel carattere del lavoro industriale e delle forze di lavoro, ecc. Vi sono molte analisi dei fatti del tutto prive di contenuti ideologici: si veda The Modern Corporation and Private Property di Berle e Means3i rapporti del Temporary National Economic Committee del 76° Congresso degli Stati Uniti sulla Concentration of Economic Power, le pubblicazioni della AFL-CIO su Automation and Major Technological Change, e altre come «News and Letters» e «Correspondence» di Detroit. Vorrei qui sottolineare l’importanza vitale dell’opera di C. Wright Mills, e di studi che vengono spesso guardati con cipiglio perché sono giudicati semplicisti, esagerati, o scritti con facilità giornalistica: The Hidden Persuaders4The Status Seekers5 e The Waste Makers di Vance Packard, The Organization Man6 di William H. Whyte e The Warfare State di Fred J. Cook, appartengono a questa categoria. Certo, l’assenza di analisi teorica in queste opere lascia coperte e protette le radici delle condizioni che in esse si descrivono, ma se le si lascia parlare, tali condizioni parlano abbastanza chiaramente da sole. La prova più evidente può forse essere ottenuta guardando semplicemente la televisione o ascoltando la radio per un’ora intera per un paio di giorni, non escludendo gli inserti pubblicitari, e cambiando ogni tanto la stazione.

La mia analisi è centrata su tendenze che operano nelle società contemporanee più altamente sviluppate. All’interno e all’esterno di queste, vi sono larghe zone in cui le tendenze che descrivo non prevalgono – vorrei dire, non prevalgono ancora. Io proietto queste tendenze nel prossimo futuro e offro alcune ipotesi, nulla più.

1.
Le nuove forme di controllo

 

 

 

Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico. In verità, che cosa potrebbe essere più razionale della soppressione dell’individualità nel corso della meccanizzazione di attività socialmente necessarie ma faticose; della concentrazione di imprese individuali in società per azioni più efficaci e più produttive; della regolazione della libera concorrenza tra soggetti economici non egualmente attrezzati; della limitazione di prerogative e sovranità nazionali che impediscono l’organizzazione internazionale delle risorse. Che questo ordine tecnologico comporti pure un coordinamento politico ed intellettuale è uno sviluppo che si può rimpiangere, ma che è tuttavia promettente.

I diritti e le libertà che furono fattori d’importanza vitale alle origini e nelle prime fasi della società industriale cedono il passo ad una fase più avanzata di questa; essi vanno perdendo il contenuto e il fondamento logico tradizionali. Le libertà di pensiero, di parola e di coscienza erano idee essenzialmente critiche, al pari della libera iniziativa che servivano a promuovere e a proteggere, intese comprano a sostituire una cultura materiale e intellettuale obsolescente con una più produttiva e razionale. Una volta istituzionalizzati, questi diritti e libertà condivisero il fato della società di cui erano divenuti parte integrante. La realizzazione elimina le premesse.

Nella misura in cui la libertà dal bisogno, sostanza concreta di ogni libertà, sta diventando una possibilità reale, le libertà correlate ad uno stato di minor produttività vanno perdendo il contenuto di un tempo. L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto alla opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata. Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo. Sotto questo aspetto, il fatto che la capacità di soddisfare i bisogni in misura crescente sia assicurata da un sistema autoritario o da uno non autoritario sembra fare poca differenza. In presenza di un livello di vita via via più elevato, il non conformarsi al sistema sembra essere socialmente inutile, tanto più quando la cosa comporta tangibili svantaggi economici e politici e pone in pericolo il fluido operare dell’insieme. Almeno per quanto concerne le necessità della vita, non sembra davvero esservi alcuna ragione per cui la produzione e distribuzione di beni e servizi dovrebbero essere svolte mediante la concorrenza competitiva di libertà individuali.

Sin dall’inizio la libera iniziativa non fu propriamente una benedizione. In quanto libertà di lavorare o di far la fame, essa voleva dire fatica, insicurezza e paura per la gran maggioranza della popolazione. Se l’individuo non fosse più obbligato a provare quanto vale sul mercato, nella sua qualità di libero soggetto economico, la scomparsa di questo genere di libertà sarebbe uno dei più grandi successi della civiltà. I processi tecnologici di meccanizzazione e di unificazione potrebbero liberare l’energia di molti individui, facendola confluire in un regno ancora inesplorato di libertà al di là della necessità. La stessa struttura dell’esistenza umana ne sarebbe modificata; l’individuo verrebbe liberato dal lavoro di un mondo che gli impone bisogni e possibilità a lui estranei. L’individuo sarebbe libero di esercitare la sua autonomia in una vita che sarebbe ormai veramente sua. Se fosse possibile organizzare e dirigere l’apparato produttivo verso la soddisfazione dei bisogni vitali, il controllo di esso potrebbe benissimo venire accentrato; tale controllo non sarebbe d’ostacolo all’autonomia individuale, ma la renderebbe possibile.

Questo obbiettivo è pienamente alla portata della società industriale avanzata, rappresentando esso il «fine» della razionalità tecnologica. Nella realtà sembra però operare la tendenza contraria: l’apparato impone le sue esigenze economiche e politiche, in vista della difesa e dell’espansione, sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura materiale come su quella intellettuale. In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine «totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un «pluralismo» di partiti, di giornali, di «poteri controbilanciantisi», ecc.7

Al presente il potere politico si afferma in forza del potere che detiene sulla produzione per mezzo di macchine e sull’organizzazione tecnica dell’apparato. Il governo delle società industriali avanzate e di quelle in sviluppo può reggersi e garantirsi solamente quando riesce a mobilitare, organizzare e sfruttare la produttività tecnica, scientifica e meccanica di cui la civiltà industriale può disporre. A sua volta questa produttività mobilita la società nel suo insieme, al di sopra e al di là di ogni particolare interesse individuale o di gruppo. Il fatto bruto che il potere fisico (soltanto fisico?) della macchina supera quello dell’individuo e di ogni gruppo particolare di individui, fa della macchina il più efficace degli strumenti politici in ogni società la cui organizzazione di base sia quella della produzione per mezzo di macchine. La tendenza politica può tuttavia essere rovesciata; in essenza il potere della macchina non è altro che il potere dell’uomo accumulato e proiettato. Nella misura in cui il mondo del lavoro è concepito come una macchina e meccanizzato di conseguenza, esso diventa la base potenziale di una nuova libertà per l’uomo.

La civiltà industriale contemporanea mostra di aver raggiunto lo stadio in cui «la libera società» non può più essere definita adeguatamente nei termini tradizionali delle libertà economiche, politiche ed intellettuali; non perché queste libertà siano divenute insignificanti, ma perché hanno un significato troppo ricco per confinarlo entro le forme tradizionali. Occorrono nuovi modi di realizzazione, tali da corrispondere alle nuove capacità della società.

Codesti nuovi modi possono venire indicati solo in termini negativi poiché equivarrebbero alla negazione dei modi che ora prevalgono. In tal senso, libertà economica significherebbe libertà dalla economia, libertà dal controllo di forze e relazioni economiche; libertà dalla lotta quotidiana per resistenza, dal problema di guadagnarsi la vita. Libertà politica significherebbe liberazione degli individui da una politica su cui essi non hanno alcun controllo effettivo. Del pari la libertà intellettuale equivarrebbe alla restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa, ed equivarrebbe pure all’abolizione dell’«opinione pubblica», assieme con i suoi produttori. Il suono irrealistico che hanno queste proposizioni è indicativo non tanto del loro carattere utopico, quanto dell’intensità delle forze che impediscono di tradurle in atto. La forma più efficace e durevole di lotta contro la liberazione è la coltivazione di bisogni materiali e intellettuali che perpetuano forme obsolete di lotta per l’esistenza.

L’intensità, la soddisfazione e persino il carattere dei bisogni umani, al di sopra del livello biologico, sono sempre stati condizionati a priori. Che la possibilità di fare o lasciare, godere o distruggere, possedere o respingere qualcosa sia percepita o no come un bisogno dipende da che la cosa sia considerata o no desiderabile e necessaria per le istituzioni e gli interessi sociali al momento prevalenti. In questo senso i bisogni umani sono bisogni storici e, nella misura in cui la società richiede lo sviluppo repressivo dell’individuo, i bisogni di questo e la richiesta di soddisfarli sono soggetti a norme critiche di importanza generale.

È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni «falsi» sono quelli che vengono sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. Può essere che l’individuo trovi estremo piacere nel soddisfarli, ma questa felicità non è una condizione che debba essere conservata e protetta se serve ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla. Il risultato è pertanto un’euforia nel mezzo dell’infelicità. La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni.

Tali bisogni hanno un contenuto e una funzione sociali che sono determinati da potenze esterne, sulle quali l’individuo non ha alcun controllo; lo sviluppo e la soddisfazione di essi hanno carattere eteronomo. Non importa in quale misura tali bisogni possano essere divenuti quelli propri dell’individuo, riprodotti e rafforzati dalle sue condizioni di esistenza; non importa fino a qual punto egli si identifica con loro, e si ritrova nell’atto di soddisfarli: essi continuano ad essere ciò che erano sin dall’inizio, i prodotti di una società i cui interessi dominanti chiedono forme di repressione.

Il prevalere di bisogni repressivi è un fatto compiuto, accettato nel mezzo dell’ignoranza e della sconfitta, ma è un fatto che deve essere rimosso sia nell’interesse dell’individuo felice sia di tutti coloro la cui miseria è il prezzo della sua soddisfazione. I soli bisogni che hanno un diritto illimitato ad essere soddisfatti sono quelli vitali: il cibo, il vestire, un’abitazione adeguata al livello di cultura che è possibile raggiungere. La soddisfazione di questi bisogni è un requisito necessario per poter soddisfare tutti gli altri bisogni, sia quelli non sublimati sia quelli sublimati.

Per ogni consapevolezza e coscienza, per ogni esperienza che non accetti l’interesse sociale prevalente come la legge suprema del pensiero e della condotta, l’universo costituito dei bisogni e delle soddisfazioni è un fatto che va posto in questione – posto in questione in termini di verità e falsità. Questi termini hanno carattere interamente storico e la loro obbiettività è storica. Il giudizio sui bisogni e sul modo di soddisfarli, sotto le condizioni date, implica dei criteri di priorità, criteri che si riferiscono allo sviluppo ottimale dell’individuo, di tutti gli individui, in relazione all’impiego ottimale delle risorse materiali e intellettuali di cui l’uomo può disporre. Queste risorse sono calcolabili. La «verità» e la «falsità» dei bisogni designano condizioni obbiettive nella misura in cui la soddisfazione universale dei bisogni vitali e, al di là di questa, la progressiva riduzione della fatica e della povertà sono criteri universalmente validi. Come criteri storici, tuttavia, non soltanto essi variano a seconda del luogo e dello stadio di sviluppo, ma possono venir definiti solamente in contraddizione (più o meno grande) rispetto ai criteri che ora prevalgono. Quale tribunale può mai pretendere di avere l’autorità di decidere?

 

In ultima analisi sono gli individui che debbono dire quali sono i bisogni veri e falsi, ma soltanto in ultima analisi; ossia solo se e quando essi sono liberi di dare una risposta. Fintanto che sono ritenuti incapaci di essere autonomi, fintanto che sono indottrinati e manipolati (sino al livello degli istinti), la risposta che essi dànno a tale domanda non può essere accettata come fosse la loro. Per lo stesso motivo, tuttavia, nessun tribunale può legittimamente arrogarsi il diritto di decidere quali bisogni dovrebbero essere sviluppati e soddisfatti. Qualsiasi tribunale del genere è da biasimare, benché la nostra ripulsa non elimini certo la domanda: in che modo delle persone che sono state l’oggetto di un dominio efficace e produttivo possono creare da sé le condizioni della libertà8?

Quanto più l’amministrazione repressiva della società diventa razionale, produttiva, tecnica, tanto più inimmaginabili sono i mezzi ed i modi mediante i quali gli individui amministrati potrebbero spezzare la loro servitù e conseguire la propria liberazione. Certo, imporre la Ragione su una intera società è un’idea paradossale e scandalosa – benché si potrebbe ben discutere la integrità di una società che pone in ridicolo quest’idea, nel mentre riduce la propria popolazione ad oggetto di amministrazione totale. Ogni liberazione dipende dalla coscienza della servitù, e l’emergere di questa coscienza è sempre ostacolato dal predominare di bisogni e soddisfazioni che sono divenuti in larga misura quelli propri dell’individuo. In ogni caso il processo sostituisce un sistema di precondizionamento con un altro; lo scopo ideale è la sostituzione di bisogni falsi da parte di bisogni veri, l’abbandono della soddisfazione repressiva.

Il tratto distintivo della società industriale avanzata è il modo come riesce a soffocare efficacemente quei bisogni che chiedono di essere liberati – liberati anche da ciò che è tollerabile e remunerativo e confortevole – nel mentre alimenta e assolve la potenza distruttiva e la funzione repressiva della società opulenta. Qui i controlli sociali esigono che si sviluppi il bisogno ossessivo di produrre e consumare lo spreco; il bisogno di lavorare sino all’istupidimento, quando ciò non è più una necessità reale; il bisogno di modi di rilassarsi che alleviano e prolungano tale istupidimento; il bisogno di mantenere libertà ingannevoli come la libera concorrenza a prezzi amministrati, una stampa libera che si censura da sola, la scelta libera tra marche e aggeggi vari.

Sotto il governo di un tutto repressivo, la libertà può essere trasformata in un possente strumento di dominio. Non è l’ambito delle scelte aperte all’individuo il fattore decisivo nel determinare il grado della libertà umana, ma che cosa può essere scelto e che cosa è scelto dall’individuo. Il criterio della libera scelta non può mai essere un criterio assoluto, ma non è nemmeno del tutto relativo. La libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi. La libera scelta tra un’ampia varietà di beni e di servizi non significa libertà se questi beni e servizi alimentano i controlli sociali su una vita di fatica e di paura – se, cioè, alimentano l’alienazione. E la riproduzione spontanea da parte dell’individuo di bisogni che gli sono stati imposti non costituisce una forma di autonomia: comprova soltanto l’efficacia dei controlli.

 

La nostra insistenza sulla profondità e l’efficacia di questi controlli va incontro all’obbiezione che noi sopravvalutiamo grandemente il potere di indottrinamento dei «media», e che in ogni caso le persone sentirebbero e soddisferebbero da sole i bisogni che, al presente, sono loro imposti. L’obbiezione non coglie il punto. Il precondizionamento non incomincia con la produzione in massa di programmi radio-televisivi e con l’accentramento del controllo di questi mezzi. Quando si arriva a questa fase, le persone sono esseri condizionati da lungo tempo; la differenza decisiva sta nell’appiattimento del contrasto (o del conflitto) tra il dato e il possibile, tra i bisogni soddisfatti e quelli insoddisfatti. Il cosiddetto livellamento delle distinzioni di classe rivela qui la sua funzione ideologica. Se il lavoratore ed il suo capo assistono al medesimo programma televisivo e visitano gli stessi luoghi di vacanza, se la dattilografa si trucca e si veste in modo altrettanto attraente della figlia del padrone, se il negro possiede una Cadillac, se tutti leggono lo stesso giornale, ne deriva che questa assimilazione non indica tanto la scomparsa delle classi, quanto la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono fatti propri dalla maggioranza della popolazione.

In realtà, nelle zone più altamente sviluppate della società contemporanea il trapianto dei bisogni sociali nei bisogni individuali è così efficace che la differenza tra i due sembra essere puramente teorica. È mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e di indottrinamento? Tra l’automobile come jattura e come comodità? Tra gli orrori e i comodi dell’architettura funzionale? Tra il lavoro che serve alla difesa nazionale e quello che giova soprattutto ai profitti delle società per azioni? Tra il piacere privato e l’utilità commerciale e politica connessa all’aumento del tasso di natalità?

A questo punto ci troviamo nuovamente dinanzi ad uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale avanzata: il carattere razionale della sua irrazionalità. La sua produttività ed efficienza, la sua capacità di accrescere e diffondere le comodità, di trasformare lo spreco in bisogno, e la distruzione in costruzione; la misura in cui questa civiltà trasforma il mondo oggettuale in una estensione della mente e del corpo dell’uomo, rendono discutibile la nozione stessa di alienazione. Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto.

 

Le forme prevalenti di controllo sociale hanno carattere tecnologico in senso nuovo. Si sa che la struttura tecnica e l’efficacia dell’apparato produttivo e distruttivo sono state uno strumento della maggior importanza per assoggettare la popolazione alla forma stabilita di divisione sociale del lavoro durante tutta l’epoca moderna. Tale integrazione, inoltre, è stata sempre accompagnata da forme più ovvie di costrizione: la perdita dei mezzi di sussistenza, l’amministrazione della giustizia, la polizia, le forze armate. Così avviene tuttora. Nell’epoca contemporanea, tuttavia, i controlli tecnologici appaiono essere l’incarnazione stessa della Ragione a vantaggio di tutti i gruppi ed interessi sociali, in misura tale che ogni contraddizione sembra irrazionale e ogni azione contraria impossibile.

Nessuna meraviglia, dunque, se nelle aree più avanzate di questa civiltà i controlli sociali siano stati introiettati al punto in cui persino la protesta individuale resta colpita alle radici. Il rifiuto intellettuale ed emotivo di «allinearsi» sembra essere un segno di nevrosi e di impotenza. È questo l’aspetto socio-psicologico dell’evento politico che distingue l’epoca contemporanea: il tramonto delle forze storiche che, nella fase precedente della società industriale, parvero rappresentare la possibilità di nuove forme di esistenza.

È possibile, tuttavia, che il termine «introiezione» non serva più a descrivere il modo in cui l’individuo riproduce e perpetua per conto proprio i controlli esterni esercitati dalla sua società. Tale termine richiama alla mente una varietà di processi relativamente spontanei, mediante i quali un Io (Ego) trasferisce l’«esterno» all’«interno». In tal senso l’introiezione implica l’esistenza di una dimensione interiore distinta dalle esigenze esterne ed anzi antagonistica nei loro confronti – una coscienza individuale ed un inconscio individuale, separati dall’opinione e dal comportamento pubblici9. L’idea di una «libertà interiore» appare qui nella sua realtà: essa designa lo spazio privato in cui l’uomo può diventare e rimanere «se stesso».

Oggi questo spazio privato è stato invaso e sminuzzato dalla realtà tecnologica. La produzione e la distribuzione di massa reclamano l’individuo intero, e la psicologia industriale ha smesso da tempo di essere confinata alla fabbrica. I molteplici processi d’introiezione sembrano essersi fossilizzati in reazioni quasi meccaniche. Il risultato non è l’adattamento ma la mimesi: un’identificazione immediata dell’individuo con la sua società e, tramite questa, con la società come un tutto.

Questa identificazione immediata, automatica (che può darsi abbia caratterizzato forme primitive di associazione) riappare nell’alta civiltà industriale; la sua nuova «immediatezza» tuttavia, è il prodotto di una amministrazione e organizzazione sofisticata quanto scientifica. In questo processo la dimensione «interiore» della mente, in cui l’opposizione allo status quo può prendere radice, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della Ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società industriale avanzata riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione. La spinta del progresso porta la Ragione a sottomettersi ai fatti della vita, e alla capacità dinamica di produrre in maggior copia fatti connessi allo stesso tipo di vita. L’efficienza del sistema ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo dell’insieme. Se gli individui si ritrovano nelle cose che plasmano la loro vita, essi lo fanno non formulando la legge delle cose, ma accettandola – non la legge della fisica, ma la legge della loro società.

Ho osservato poc’anzi che il concetto di alienazione sembra diventare discutibile quando gli individui si identificano con l’esistenza che è loro imposta e trovano in essa compimento e soddisfazione. Questa identificazione non è illusione ma realtà. La realtà, d’altra parte, costituisce uno stadio più avanzato di alienazione. Quest’ultima è diventata completamente oggettiva; il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata. V’è soltanto una dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma. Le realizzazioni del progresso si sottraggono sia all’accusa che alla giustificazione ideologica; dinanzi al loro tribunale, la «falsa coscienza» della loro razionalità diventa la coscienza autentica.

Questo assorbimento dell’ideologia nella realtà non significa d’altra parte che si approssimi la «fine dell’ideologia». Al contrario, la cultura industriale avanzata è, in senso specifico, più ideologica della precedente, in quanto al presente l’ideologia è inserita nello stesso processo di produzione10. In forma provocatoria, questa proposizione rivela gli aspetti politici della razionalità tecnologica che oggi predomina. L’apparato produttivo, i beni ed i servizi che esso produce, «vendono» o impongono il sistema sociale come un tutto. I mezzi di trasporto e di comunicazione di massa, le merci che si usano per abitare, nutrirsi e vestirsi, il flusso irresistibile dell’industria del divertimento e dell’informazione, recano con se atteggiamenti ed abiti prescritti, determinate reazioni intellettuali ed emotive che legano i consumatori, più o meno piacevolmente, ai produttori, e, tramite questi, all’insieme. I prodotti indottrinano e manipolano; promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria falsità. E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere. È un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale milita contro un mutamento qualitativo. Per tal via emergono forme di pensiero e di comportamento ad una dimensione in cui idee, aspirazioni e obbiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono o respinti, o ridotti ai termini di detto universo. Essi sono definiti in modo nuovo ad opera della razionalità del sistema in atto e della sua estensione quantitativa.

 

Questa tendenza si può collegare a due recenti sviluppi nel campo del metodo scientifico: l’operazionismo nelle scienze fisiche, il comportamentismo nelle scienze sociali. L’aspetto comune è un empirismo totale nel modo di trattare i concetti; il significato di questi viene ristretto alla rappresentazione di particolari operazioni e comportamenti. Il criterio operazionistico è ben illustrato dall’analisi di P. W. Bridgman del concetto di lunghezza11:

 

È chiaro che noi sappiamo che cosa intendiamo per lunghezza solo se sappiamo dire qual è la lunghezza di un qualsiasi oggetto, e il fisico non chiede altro. Per trovare la lunghezza di un oggetto dobbiamo compiere certe operazioni fisiche. Il concetto di lunghezza viene perciò fissato quando le operazioni mediante le quali essa è misurata sono definite: in altri termini, il concetto di lunghezza non implica nulla più e nulla meno dell’insieme di operazioni mediante le quali la lunghezza è determinata. In generale, per un concetto qualsiasi noi non intendiamo altro che un insieme di operazioni; il concetto è sinonimo dell’insieme di operazioni corrispondenti.

 

Bridgman ha scorto le vaste implicazioni di questo modo di pensare per l’insieme della società12:

 

Adottare il criterio operazionistico comporta assai più che non una mera restrizione del senso che ha per noi il termine «concetto»; comporta un mutamento di ampia portata in tutti i nostri abiti di pensiero, in quanto non ci permetteremo più di usare come strumenti, quando pensiamo, concetti di cui non possiamo dare una descrizione adeguata in termini di operazioni.

 

La predizione di Bridgman si è avverata. Il nuovo modo di pensare è oggi la tendenza predominante in filosofia, in psicologia, in sociologia e in altri campi. Molti dei concetti capaci di recare i più gravi turbamenti vengono «eliminati» mostrando che non è possibile dare una descrizione adeguata di essi in termini di operazione o di comportamento. L’assalto dell’empirista radicale (in seguito, nei capitoli VII e VIII, esamineremo più da vicino la sua pretesa di essere empirista) fornisce in tal modo agli intellettuali la giustificazione metodologica per svuotare di senso l’attività della mente: forma di positivismo che, col suo diniego degli elementi trascendenti della Ragione, costituisce il riscontro accademico del comportamento socialmente richiesto.

Al di fuori dellestablishment accademico, «il mutamento di ampia portata in tutti i nostri abiti di pensiero» è più serio. Esso serve a coordinare idee e scopi con quelli che il sistema dominante esige, a inserirli nel sistema, e a respingere quelli che sono irreconciliabili con esso. L’avvento di tale realtà a una sola dimensione non significa peraltro che il materialismo regni, e che le attività spirituali, metafisiche e bohémiennes stiano svanendo. Al contrario, v’è una profusione di «Preghiamo insieme questa settimana», «Perché non provare Dio», di Zen, di esistenzialismo, di giovani arrabbiati, ecc. Ma tali forme di protesta e di trascendenza non contraddicono più lo status quo e non hanno più carattere negativo. Esse sono piuttosto la parte cerimoniale del comportamentismo pratico, la sua negazione innocua, e sono prontamente assimilate dallo status quo come parte della sua dieta igienica.

 

Il pensiero a una dimensione è promosso sistematicamente dai potenti della politica e da coloro che li riforniscono di informazioni per la massa. Il loro universo di discorso è popolato da ipotesi autovalidantisi, le quali, ripetute incessantemente da fonti monopolizzate, diventano definizioni o dettati ipnotici. Per esempio, «libere» sono le istituzioni che operano (e sono adoperate) nei paesi del Mondo Libero; ogni altra forma trascendente di libertà equivale per definizione all’anarchia, o al comunismo, o è propaganda. «Socialistiche» sono tutte le interferenze nel campo dell’iniziativa privata che non sono compiute dalla stessa iniziativa privata (o in forza di contratti governativi), come rassicurazione medica estesa a tutti e a tutti i tipi di malattia, o la protezione della natura dagli eccessi della speculazione, o l’istituzione di servizi pubblici che possono ledere il profitto privato. Questa logica totalitaria del fatto compiuto ha la sua controparte ad Oriente. Laggiù, la libertà è il modo di vita istituito dal regime comunista, e ogni altra forma trascendente di libertà è detta capitalistica, o revisionista, o appartiene al settarismo di sinistra. In ambedue i campi, le idee non operative non sono riconosciute come forme di comportamento, sono sovversive. Il movimento del pensiero viene arrestato dinanzi a barriere che appaiono come i limiti stessi della Ragione.

Tale limitazione del pensiero non è certo nuova. Nella forma speculativa come in quella empirica, il razionalismo moderno in ascesa mostra uno stridente contrasto tra un estremo radicalismo critico nel campo scientifico e filosofico, da un lato, e un quietismo acritico nell’atteggiamento verso le istituzioni sociali stabilite e funzionanti, dall’altro. Così l’ego cogitans di Descartes doveva lasciare intatti i «grandi corpi pubblici», e Hobbes sosteneva che «il presente dovrebbe sempre essere preferito, conservato, e definito il migliore». Kant era d’accordo con Locke nel giustificare la rivoluzione se e quando essa riesce ad organizzare l’insieme del sistema e ad impedire la sovversione.

Questi accomodanti concetti di Ragione erano tuttavia contraddetti di continuo dall’evidente miseria e ingiustizia dei «grandi corpi pubblici» e dalla presenza di coloro che si ribellavano efficacemente ad essi, in modo più o meno consapevole. Nella società esistevano condizioni tali da provocare e permettere una reale dissociazione dallo stato di cose stabilito; esisteva una dimensione privata non meno che politica in cui la dissociazione poteva svilupparsi in opposizione effettiva, mettendo alla prova la sua forza e la validità dei suoi obbiettivi.

Con la graduale soppressione di questa dimensione da parte della società, l’autolimitazione del pensiero assume un significato più ampio. L’interrelazione tra i processi scientifico-filosofici e quelli sociali, tra la Ragione teorica e quella pratica, si afferma «dietro le spalle» degli scienziati e dei filosofi. La società sbarra la strada a tutta una serie di operazioni e comportamenti d’opposizione; i concetti che attengono a questi sono resi, di conseguenza, illusori o insignificanti. La trascendenza storica viene vista come trascendenza metafisica, inaccettabile alla scienza ed al pensiero scientifico. Il punto di vista operazionista e comportamentista, adottato largamente come «abito di pensiero», diventa il punto di vista dell’universo costituito di discorso e di azione, di bisogni ed aspirazioni. La «astuzia della Ragione» opera, come ha fatto spesso, nell’interesse delle potenze in atto. L’insistenza sui concetti operativi e comportamentisti si volge contro gli sforzi che il pensiero e il comportamento liberi compiono per distogliersi dalla realtà data e per considerare le alternative soppresse. La Ragione teorica e quella pratica, il comportamentismo accademico e quello sociale si incontrano su un terreno comune: quello di una società avanzata che fa del progresso tecnico e scientifico uno strumento di dominio.

«Progresso» non è un termine neutrale; designa un movimento verso fini specifici, e questi sono definiti dalle possibilità che esistono per migliorare la condizione umana. La società industriale avanzata si sta avvicinando allo stadio in cui la continuazione del progresso richiederebbe un rovesciamento radicale della direzione e organizzazione del progresso che oggi prevalgono. Questo stadio sarebbe raggiunto quando la produzione materiale (inclusi i servizi necessari) fosse automatizzata ad un punto tale da poter soddisfare tutti i bisogni vitali mentre il tempo di lavoro necessario sarebbe ridotto ai margini. Da questo punto in avanti, il progresso tecnico trascenderebbe il regno della necessità, dove ha servito come strumento del dominio e dello sfruttamento che limitavano per tal via la sua razionalità; la tecnologia diverrebbe soggetta al libero gioco delle facoltà nella lotta per la pacificazione della natura e della società.

Un simile stato è raffigurato nella nozione marxiana della «abolizione del lavoro». Il termine «pacificazione dell’esistenza» sembra meglio adatto a designare l’alternativa storica di un mondo il quale, tramite un conflitto internazionale che trasforma e sospende le contraddizioni entro le società costituite, procede sull’orlo di una guerra totale. «Pacificare resistenza» significa portare su un nuovo piano la lotta dell’uomo con l’uomo e con la natura, realizzando condizioni nelle quali i bisogni, i desideri e le aspirazioni in concorrenza non siano più organizzati da interessi costituiti per il dominio e la scarsità – un tipo di organizzazione che perpetua le forme distruttive di questa lotta.

La battaglia che oggi viene condotta contro questa alternativa storica trova una solida base nella massa della popolazione soggetta, e trova la sua ideologia nel fatto che il pensiero e il comportamento sono rigidamente orientati verso l’universo dato dei fatti. Convalidato dai successi della scienza e della tecnologia, giustificato dalla sua crescente produttività, lo status quo sfida ogni trascendenza. Posta dinanzi alla possibilità di pacificare resistenza in forza dei suoi successi tecnici e intellettuali, la società industriale matura si chiude in sé per rifiutare l’alternativa: in teoria e in pratica l’operazionismo diventa la teoria e la pratica del contenimento. Al di sotto della sua ovvia dinamica di superficie, questa società è un sistema di vita completamente statico, che si tiene in moto da solo con la sua produttività oppressiva e la sua benefica coordinazione. Il contenimento del progresso tecnico dà la mano allo sviluppo di questo nella direzione stabilita. Nonostante i lacci politici imposti dallo status quo, quanto più la tecnologia appare capace di creare le condizioni per la pacificazione, tanto più le menti e i corpi degli uomini sono organizzati per resistere a tale alternativa.

Le aree più avanzate della società industriale mostrano da cima a fondo questi due tratti: una tendenza alla piena realizzazione della razionalità tecnologica, e sforzi intensivi per contenere tale tendenza entro le istituzioni stabilite. Ecco la contraddizione interna di questa civiltà, l’elemento irrazionale nella sua razionalità. È il contrassegno delle sue realizzazioni. La società industriale che fa proprie la tecnologia e la scienza è organizzata per conseguire un dominio sempre più efficace sull’uomo e sulla natura, per utilizzare in modo sempre più efficace le sue risorse. Diventa irrazionale quando il successo di questi sforzi apre nuove dimensioni alla realizzazione dell’uomo. Organizzarsi per la pace è cosa diversa dall’organizzarsi per la guerra; le istituzioni che servirono alla lotta per l’esistenza non possono servire alla pacificazione della medesima. La vita come fine è qualitativamente diversa dalla vita come mezzo.

Un tal modo di esistenza, qualitativamente nuovo, non può in alcun caso configurarsi come il mero sottoprodotto di mutamenti economici e politici, come l’effetto più o meno spontaneo delle nuove istituzioni che sarebbe necessario costituire. Un mutamento qualitativo implica pure un mutamento nella base tecnica su cui la società riposa; base che oggi sostiene le istituzioni economiche e politiche per cui mezzo la «seconda natura» dell’uomo come oggetto aggressivo di amministrazione viene stabilizzata. Le tecniche dell’industrializzazione sono tecniche politiche; come tali, esse pregiudicano le possibilità della Ragione e della Libertà.

Si sa che il lavoro faticoso deve precedere la riduzione del lavoro, e l’industrializzazione deve precedere lo sviluppo di bisogni e soddisfazioni umane. Visto però che ogni libertà dipende dalla conquista della necessità esterna, la realizzazione della libertà dipende dalle tecniche di tale conquista. La più alta produttività del lavoro può venir usata per perpetuare il lavoro e la fatica, e l’industrializzazione più efficiente può servire a limitare ed a manipolare i bisogni.

Quando si raggiunge questo punto, la dominazione – sotto specie di opulenza e di libertà – si estende a tutte le sfere dell’esistenza privata e pubblica, integra ogni opposizione genuina, assorbe in sé ogni alternativa. La razionalità tecnologica rivela il suo carattere politico allorché diventa il gran veicolo d’una dominazione più efficace, creando un universo veramente totalitario in cui società e natura, mente e corpo sono tenuti in uno stato di mobilitazione permanente per la difesa di questo stesso universo.

2.
La chiusura dell’universo politico

 

 

 

La società della mobilitazione totale, che va prendendo forma nelle aree più avanzate della civiltà industriale, combina in unione produttiva i tratti dello stato del benessere e dello stato belligerante. A paragone delle società che l’hanno preceduta, si tratta invero di una «nuova società». Le zone tradizionali di disturbo vengono ripulite o isolate, gli elementi di rottura sono posti sotto controllo. Le tendenze principali sono note: sottomissione dell’economia nazionale ai bisogni delle grandi società con il governo che serve come forza che stimola, sorregge, e talvolta esercita anche un controllo; inserimento dell’economia stessa in un sistema mondiale di alleanze militari, di accordi monetari, di assistenza tecnica, e di piani di sviluppo; graduale elisione delle differenze tra la popolazione in tuta e quella col colletto bianco, tra il tipo di direzione proprio del mondo degli affari e quello dei sindacati, tra attività del tempo libero e aspirazioni di differenti classi sociali; promozione di una armonia prestabilita tra la cultura accademica e i fini della nazione; invasione del domicilio privato da parte di una compatta opinione pubblica; apertura della camera da letto ai mezzi di comunicazione di massa.

Nella sfera politica questa tendenza si manifesta in una mancata unificazione o convergenza degli opposti.

Le decisioni prese di comune accordo dai due maggiori partiti in tema di politica estera prevalgono, richiamandosi alla minaccia del comunismo internazionale, su interessi di gruppo tra loro in concorrenza, e si estendono alla politica interna, dove i programmi dei grandi partiti diventano sempre meno distinguibili, perfino nel grado di ipocrisia e nell’odore dei clichés. Tale unificazione degli opposti incide sulla possibilità stessa di un mutamento sociale, in quanto coinvolge quegli strati sociali sul cui dosso il sistema progredisce; quelle stesse classi, in altre parole, la cui esistenza impersonava un tempo l’opposizione al sistema come un tutto.

Negli Stati Uniti è evidente la collusione e l’alleanza tra il mondo degli affari e le organizzazioni dei lavoratori. In Labor Looks at Labor: A Conversation, pubblicato nel 1963 dal Centro per lo studio delle istituzioni democratiche, ci vien detto:

 

Quel che è successo è che il sindacato non riesce quasi più a distinguersi dall’azienda – ai suoi propri occhi. Assistiamo oggi al fenomeno di sindacati e di aziende che formano insieme un gruppo di pressione. È difficile che il sindacato possa convincere i lavoratori dell’industria missilistica che l’azienda per cui lavorano è uno sporco padrone quando sindacato e azienda stanno premendo insieme per ottenere maggiori contratti nel campo dei missili, e per attirare nella zona altre industrie che lavorino per la difesa, o quando appaiono insieme davanti al Congresso e insieme chiedono che si costruiscano missili invece di bombardieri o bombe invece di missili, a seconda del contratto che al momento hanno in mano.

 

   Il Partito laburista britannico, i cui capi competono con i capi conservatori nel promuovere l’interesse nazionale, trova difficoltà a salvare un pur modesto programma di nazionalizzazione parziale. Nella Germania Occidentale, dove si è posto fuori legge il Partito comunista, il Partito socialdemocratico ha ufficialmente abbandonato il programma marxista, dando in tal modo prova convincente della sua rispettabilità. Tale è la situazione nei principali paesi industriali dell’Occidente. A Oriente, la graduale riduzione dei controlli politici diretti sta ad attestare la crescente fiducia che vien riposta sull’efficacia dei controlli tecnologici come strumenti di dominio. Quanto ai forti partiti comunisti in Francia e in Italia, essi fan fede della generale tendenza delle circostanze aderendo ad un programma minimo, che archivia l’idea di una conquista rivoluzionaria del potere e si conforma alle regole del gioco parlamentare.

Tuttavia, benché sia scorretto considerare come «stranieri» i partiti francese ed italiano nel senso che siano sostenuti da una potenza straniera, in questa propaganda v’è un grano di verità non voluto: essi sono stranieri nella misura in cui testimoniano di una storia passata (o futura) nella realtà presente. Se essi hanno accettato di operare entro il quadro del sistema stabilito, ciò non è dovuto solamente a ragioni tattiche e ad una strategia a breve raggio, ma è dovuto al fatto che la loro base sociale è stata indebolita e i loro obbiettivi sono stati alterati dalla trasformazione del sistema capitalistico (e lo stesso è avvenuto con gli obbiettivi dell’Unione Sovietica che ha avallato questo cambio di rotta). Questi partiti comunisti nazionali svolgono il ruolo storico di partiti dell’opposizione legale «condannati» a non poter essere radicali. Essi testimoniano della profondità e portata dell’integrazione capitalistica, e delle condizioni che fanno apparire la differenza qualitativa di interessi in conflitto come differenze quantitative entro la società costituita.

 

Nessuna analisi in profondità sembra necessaria al fine di trovare le ragioni di questi sviluppi. Quanto all’Occidente: i conflitti che esistevano un tempo entro la società sono modificati e sottoposti ad arbitrato sotto il duplice (ed interrelato) influsso del progresso tecnico e del comunismo internazionale. Le lotte di classe si attenuano e le «contraddizioni imperialistiche» sono poste tra parentesi di fronte alla minaccia dall’esterno. Mobilitata contro questa minaccia, la società capitalistica mostra un’unione e coesione interne sconosciute agli stadi precedenti della civiltà industriale. È una coesione fondata su basi del tutto materiali; la mobilitazione contro il nemico agisce come uno stimolo possente della produzione e del livello di occupazione, sostenendo, per tal via, l’alto tenore di vita.

Su queste basi ecco sorgere un universo amministrativo in cui le depressioni sono controllate ed i conflitti stabilizzati, grazie ai benefici effetti della produttività crescente e della minaccia di una guerra nucleare. Questa stabilizzazione è «temporanea», nel senso che non tocca le radici dei conflitti che Marx scorgeva nel modo di produzione capitalistico (contraddizione tra proprietà privata dei mezzi di produzione e la produttività sociale), o è una trasformazione vera e propria della struttura antagonistica che risolve le contraddizioni rendendole tollerabili? E se è vera la seconda alternativa, in che modo essa muta le relazioni tra capitalismo e socialismo – relazione che fece apparire il secondo come la negazione storica del primo?

 

 

Il contenimento del mutamento sociale.

La teoria marxiana classica raffigura la transizione del capitalismo al socialismo come una rivoluzione politica: il proletariato distrugge l’apparato politico del capitalismo, ma conserva l’apparato tecnologico, socializzandolo. V’è continuità nella rivoluzione: la razionalità tecnologica, liberata da restrizioni e distruzioni irrazionali, si sostiene e giunge a consumazione nella nuova società. A proposito di tale continuità, che ha importanza vitale per la nozione di socialismo come negazione determinata del capitalismo, è interessante leggere una nota marxista sovietica13:

 

1) Benché lo sviluppo della tecnologia sia soggetto alle leggi economiche di ciascuna formazione sociale, esso non giunge a termine quando cessano di operare le leggi della formazione, come avviene invece con altri fattori economici. Allorché nel processo rivoluzionario i vecchi rapporti di produzione vengono spezzati, la tecnologia rimane, e, subordinata alle leggi economiche della nuova formazione, continua a svilupparsi a velocità accelerata. 2) Contrariamente allo sviluppo della base economica nelle società antagonistiche, la tecnologia non si sviluppa a balzi, bensì mediante una accumulazione graduale di elementi qualitativamente nuovi, mentre gli elementi qualitativamente invecchiati scompaiono. 3) [Irrilevante in questo contesto].

 

Nel capitalismo avanzato la razionalità tecnica è incorporata, nonostante l’uso irrazionale che di essa vien fatto, nell’apparato produttivo. Ciò si applica non soltanto alle fabbriche e agli utensili meccanizzati ed allo sfruttamento delle risorse, ma anche alla forma del lavoro visto come adattamento al processo di fabbricazione mediante macchine, e come sua manipolazione, secondo quanto stabilito dalla «organizzazione scientifica del lavoro». Né la nazionalizzazione né la socializzazione alterano di per sé questa concrezione fisica della razionalità tecnologica; al contrario, quest’ultima rimane una condizione preliminare per lo sviluppo socialista di tutte le forze produttive.

Marx sosteneva, è vero, che l’organizzazione e la direzione dell’apparato produttivo da parte dei «produttori immediati» avrebbe introdotto un mutamento qualitativo nella continuità tecnica: avrebbe recato con sé, in altre parole, una produzione diretta a soddisfare bisogni individuabili liberamente sviluppantisi. Tuttavia, nella misura in cui l’apparato tecnico esistente ingloba l’esistenza pubblica e privata in tutte le sfere della società – ossia nella misura in cui esso diventa il mezzo di controllo, di promozione della coesione in un universo politico che incorpora pure le classi lavoratrici – in tal misura il mutamento qualitativo implicherebbe un mutamento nella stessa struttura tecnologica. E tale mutamento presuppone che le classi lavoratrici siano alienate da codesto universo nella loro stessa esistenza, che la loro coscienza riconosca l’impossibilità totale di continuare ad esistere in detto universo, di modo che il bisogno di un mutamento qualitativo è questione di vita o di morte. La negazione, insomma, esiste prima del mutamento, e la nozione che le forze storiche liberatrici si sviluppano entro la società costituita è una pietra angolare della teoria marxiana14.

Ora è precisamente questa nuova coscienza, questo «spazio interno» – il solo in cui possa attuarsi la pratica storica trascendente – ad essere escluso da una società in cui i soggetti come gli oggetti costituiscono strumenti in un tutto che ha la sua raison d’être nei successi della sua strapotente produttività. La sua promessa suprema è una vita sempre più confortevole per un numero sempre più grande di persone, le quali, in senso stretto, non sanno immaginare un universo di discorso e d’azione qualitativamente differente, poiché la capacità di contenere e manipolare l’immaginazione e lo sforzo sovversivi è parte integrante della società data. Coloro la cui vita rappresenta l’inferno della Società Opulenta sono tenuti a bada con una brutalità che fa rivivere pratiche in atto nel medioevo e all’inizio dell’età moderna. Per gli altri, meno sottoprivilegiati, la società prende cura del bisogno di liberazione soddisfacendo i bisogni che rendono la servitù ben accetta e fors’anche inosservata, e ciò viene compiuto nel corso stesso del processo di produzione. Sotto questa spinta, le classi lavoratrici nelle zone avanzate della civiltà industriale stanno subendo una trasformazione decisiva, oggetto di molta ricerca sociologica. Elencherò qui i fattori principali di questa trasformazione:

 

1) La meccanizzazione sta sempre più riducendo la quantità e l’intensità dell’energia fisica erogata nel lavoro. Tale evoluzione ha grande importanza per il concetto marxiano di lavoratore (proletario). Per Marx, il proletario è in primo luogo il lavoratore manuale che spende ed esaurisce la sua energia fisica nel processo di lavoro, anche se lavora con macchine. L’acquisto e l’uso di questa energia fisica, in condizioni subumane, a favore dell’appropriazione privata del plusvalore, comportava i rivoltanti aspetti inumani dello sfruttamento. La nozione marxiana denuncia la sofferenza fisica e l’indigenza del lavoratore. È questo l’elemento materiale, tangibile, nella schiavitù e nell’alienazione del salariato – la dimensione fisiologica e biologica del capitalismo classico.

 

Nei secoli passati, una causa importante di alienazione stava nel fatto che l’essere umano prestava la sua individualità biologica all’organizzazione tecnica: era lui che reggeva gli utensili; i complessi tecnici non potevano costituirsi se non incorporando l’uomo come sostegno di utensili. Il carattere deformante della professione era, al tempo stesso, psichico e somatico15.

 

Oggi la meccanizzazione sempre più completa del lavoro nel capitalismo avanzato, se da un lato alimenta lo sfruttamento, dall’altro modifica l’atteggiamento e lo status dello sfruttato. Nel mondo tecnologico, il lavoro meccanizzato in cui reazioni automatiche e semiautomatiche riempiono la maggior parte (se non la totalità) del tempo di lavoro, resta pur sempre, come occupazione che dura una vita, una schiavitù inumana che strema e istupidisce – tanto più stremante a causa del ritmo accelerato, del controllo degli addetti macchina (piuttosto che del prodotto), e dell’isolamento dei lavoratori gli uni dagli altri16. Certo, questa forma di ingrata fatica sta ad attestare la presenza di forme d’automazione arrestataparziale, e di sezioni automatizzate, semiautomatizzate, e non-automatizzate, che coesistono entro lo stesso stabilimento; ma anche in queste condizioni «la tecnologia ha sostituito tensione o sforzo mentale alla fatica muscolare»17. Per quanto riguarda gli stabilimenti automatizzati più avanzati, si sottolinea la trasformazione dell’energia fisica in capacità tecniche e mentali:

 

… capacità di testa più che di mano, di logico più che di artigiano; di nervi più che di muscoli; di pilota più che di lavoratore manuale; di addetto alla manutenzione più che di addetto alla macchina18.

 

Questo tipo di magistrale asservimento non è diverso, in essenza, da quello della dattilografa, dell’impiegato di sportello in una banca, del venditore o della venditrice «d’assalto», e dell’annunciatore televisivo. Standardizzazione e routine rendono simili mansioni produttive e mansioni non-produttive. Il proletario degli stadi precedenti del capitalismo era invero una bestia da soma, che produceva con la fatica del corpo le necessità ed i lussi della vita mentre viveva da parte sua in sudicia povertà. Egli era, in tal senso, la negazione vivente della sua società19. Per contrasto, il lavoratore organizzato nelle aree avanzate della società tecnologica vive tal negazione in modo assai meno palese e, al pari degli altri oggetti umani della divisione sociale del lavoro, viene incorporato nella comunità tecnologica della popolazione amministrata. Nelle aree, inoltre, in cui l’automazione si è maggiormente affermata, qualche sorta di comunità tecnologica sembra integrare gli atomi umani al lavoro. La macchina sembra instillare negli addetti una specie di ritmo ipnotico:

 

Si concorda in genere nel dire che movimenti interdipendenti compiuti in modo ritmico da un gruppo di persone sono fonte di soddisfazione – prescindendo completamente da ciò che detti movimenti producono20;

 

e il sociologo osservatore crede che questa sia una ragione del graduale sviluppo di un «clima generale» più «favorevole sia alla produzione sia a certe importanti forme di soddisfazione umana». Egli parla dello «sviluppo di un forte sentimento di gruppo in ogni squadra» e cita un lavoratore che dice: «Dopotutto noi siamo nel pieno della corrente…»21. La frase esprime in modo mirabile il cambiamento avvenuto nell’asservimento meccanizzato; le cose corrono piuttosto che opprimere, e recano con sé nella corrente lo strumento umano, non solo il suo corpo ma anche la sua mente e persino il suo spirito. Un’osservazione di Sartre spiega come il processo operi in profondo:

 

Nei primi tempi delle macchine semiautomatiche, certe inchieste hanno mostrato che le operaie a cottimo si lasciavano andare, lavorando, a fantasticherie d’ordine sessuale, rivedevano nella mente la camera, il lume, la notte, tutto ciò che non interessa se non la persona nella solitudine della coppia racchiusa in sé. Ma è la macchina in lei che sognava carezze…22.

 

Il processo della macchina nell’universo tecnologico spezza la più intima sfera privata della libertà e congiunge sessualità e lavoro in un automatismo ritmico, inconscio – processo parallelo a quello che rende sempre più simili tra loro i diversi tipi di mansione.

 

2) La tendenza alla scomparsa delle differenze tra le mansioni si palesa nella stratificazione professionale. Nelle industrie chiave, le forze di lavoro in «colletto blu» declinano in relazione ai «colletti bianchi»; il numero dei lavoratori non direttamente produttivi aumenta23. Questo mutamento quantitativo si collega ad un mutamento nel carattere dei principali strumenti di produzione24. Nello stadio avanzato di meccanizzazione, come parte della realtà tecnologica, la macchina non è

 

una unità assoluta, ma soltanto una realtà tecnica individualizzata, aperta in due direzioni: quella della relazione agli elementi e quella delle relazioni interindividuali nel complesso tecnico25.

 

Nella misura in cui la macchina diventa essa stessa un sistema di utensili meccanici e di relazioni, estendendosi in tal modo ben al di là del processo di lavoro individuale, essa afferma il suo più vasto dominio riducendo l’«autonomia professionale» del lavoratore manuale, e integrandola con altre professioni che sorreggono e dirigono il complesso tecnico. È vero che l’autonomia «professionale» del lavoratore di un tempo era piuttosto un asservimento professionale. Ma questo modo specifico di asservimento era al tempo stesso la fonte del suo potere specifico, professionale, di negazione – il potere di fermare un processo che minacciava di annichilirlo come essere umano. Ora il lavoratore va perdendo l’autonomia professionale che faceva di lui il membro di una classe a parte, rispetto agli altri gruppi professionali, perché incorporava il rifiuto della società costituita.

Il mutamento tecnologico che tende a eliminare la macchina come strumento individuale di produzione, come «unità assoluta», sembra annullare la nozione marxiana della «composizione organica del capitale» e, con essa, la teoria della creazione di plusvalore. Secondo Marx, la macchina non crea mai valore: essa trasferisce semplicemente il proprio valore nel prodotto, mentre il plusvalore risulta dallo sfruttamento del lavoro vivente. La macchina incorpora forza lavoro umana e, per suo tramite, il lavoro passato (lavoro morto) si conserva e determina il lavoro vivente. Ora l’automazione sembra alterare qualitativamente la relazione tra lavoro morto e lavoro vivente; essa procede verso il punto in cui la produttività è determinata «dalle macchine, e non dal rendimento individuale»26. Capita inoltre che la stessa misurazione del rendimento individuale diventi impossibile:

 

L’automazione nel senso più largo significa, in effetti, la fine della misurazione del lavoro… Con l’automazione non si può misurare il rendimento di un singolo individuo; si può misurare semplicemente il grado di utilizzazione dell’impianto. Se tale concetto viene generalizzato… non v’è più, ad esempio, alcuna ragione di pagare un uomo a cottimo o ad ore, ossia non v’è più alcuna ragione di conservare il «sistema di retribuzione dualistico» degli stipendi e dei salari27.

 

Daniel Bell, l’autore di questo studio, procede collegando questo mutamento tecnologico al sistema storico dell’industrializzazione: il significato dell’industrializzazione non venne in luce con l’avvento delle fabbriche, bensì

 

venne in luce con la misurazione del lavoro. Quando il lavoro si può misurare, quando si può vincolare un uomo alla mansione, quando si può imbrigliarlo e misurare il suo rendimento in rapporto ai pezzi lavorati e pagarlo a cottimo o ad ore, allora si può parlare di industrializzazione in senso moderno28.

 

Ciò che è in palio in questi mutamenti tecnologici è ben più che un sistema di retribuzione, la relazione del lavoratore con le altre classi e l’organizzazione del lavoro. È in palio la compatibilità del progresso tecnico con le istituzioni stesse nel cui ambito l’industrializzazione si è sviluppata.

 

3) Questi mutamenti nel carattere del lavoro e degli strumenti di produzione mutano l’atteggiamento e la coscienza del lavoratore, fatto che diventa manifesto nella tanto discussa «integrazione sociale e culturale» della classe lavoratrice entro la società capitalistica. Si tratta di un mutamento che tocca solamente la coscienza? La risposta affermativa, data con frequenza da parte marxista, sembra stranamente inconsistente. Un mutamento si fondamentale nella coscienza è comprensibile ove non si assuma un mutamento corrispondente nell’«essere sociale»? Pur ammettendo un alto grado di indipendenza dell’ideologia, i legami che connettono detto mutamento alla trasformazione del processo produttivo depongono contro un’interpretazione del genere. L’eliminazione delle differenze nei bisogni e nelle aspirazioni, nel tenore di vita, nelle attività del tempo libero, nella sfera politica, deriva da un’integrazione che si verifica nella fabbrica, nel processo materiale di produzione. Resta certo da vedere se si possa parlare di «integrazione volontaria» (Serge Mallet) in un senso che non sia ironico. Nella situazione attuale i tratti negativi dell’automazione sono predominanti: accelerazione dei ritmi di lavoro, disoccupazione tecnologica, rafforzamento del potere delle direzioni aziendali, accresciuta impotenza e rassegnazione da parte dei lavoratori. Le possibilità di promozione declinano a mano a mano che le direzioni mostrano di preferire i diplomati degli istituti tecnici ed i laureati29Vi sono tuttavia altre tendenze. La stessa organizzazione tecnologica che tende a produrre una comunità di macchine al lavoro genera pure una più vasta interdipendenza che finisce per integrare il lavoratore nella fabbrica30. Si nota, da parte dei lavoratori, il «vivo desiderio» di «partecipare alla soluzione di problemi produttivi», un «desiderio di impegnarsi attivamente per applicare il proprio cervello in problemi tecnici e produttivi, che è precisamente ciò che la tecnologia richiede»31. In alcune aziende tecnicamente più avanzate, i lavoratori mostrano persino un interesse costituito per l’azienda – effetto spesso osservato della «partecipazione dei lavoratori» nell’impresa capitalistica. Una descrizione assai stimolante che si riferisce alle raffinerie altamente americanizzate costruite dalla Caltex ad Ambès, in Francia, può servire per caratterizzare tale tendenza. I lavoratori dell’impianto sono consapevoli dei legami che li vincolano all’impresa:

 

Legami professionali, legami sociali, legami materiali: il mestiere appreso nella raffineria, l’abitudine ai rapporti di produzione che in essa si sono stabiliti, i molteplici benefici sociali che in caso di morte improvvisa, di grave malattia, di inabilità al lavoro, infine di vecchiaia, gli sono assicurati per il solo fatto di appartenere all’azienda, prolungando al di là del periodo produttivo della vita la sicurezza del domani, In tal modo la nozione di questo contratto vivo e indistruttibile con la Caltex li porta a preoccuparsi con una attenzione ed una lucidità inattese della gestione finanziaria dell’impresa. I membri delle commissioni interne spulciano la contabilità della società con la cura gelosa che soltanto degli azionisti coscienziosi vi dedicherebbero. La direzione della Caltex può certo fregarsi le mani quando i sindacati accettano di soprassedere alle rivendicazioni salariali, in presenza di nuovi bisogni di investimento. Essa comincia però a manifestare le più «legittime» inquietudini allorché, prendendo alla lettera i bilanci truccati della filiale francese, i sindacati si inquietano per gli affari «svantaggiosi» conclusi da quest’ultima, e spingono l’audacia fino a discutere i prezzi di costo e a suggerire misure per realizzare economie32!

 

4) Il nuovo mondo tecnologico del lavoro porta in tal modo a indebolire la posizione negativa della classe lavoratrice: questa non appare più come la contraddizione vivente della società costituita. La tendenza è rafforzata dagli effetti che l’organizzazione tecnologica della produzione esercita dall’altra parte della barricata sulle direzioni d’azienda. Il dominio prende veste di amministrazione33. I padroni ed i proprietari capitalisti vanno perdendo la loro identità come agenti responsabili, per assumere la funzione di burocrati nella macchina delle corporations. Entro la vasta gerarchia dei comitati di direzione, gerarchia che si estende ben al di là della singola impresa, sino al laboratorio scientifico e all’istituto di ricerca, al governo centrale e allo scopo nazionale, la fonte tangibile dello sfruttamento scompare dietro la facciata della razionalità obbiettiva. L’odio e la frustrazione sono privati del loro bersaglio specifico, ed il velo tecnologico maschera la riproduzione della disuguaglianza e dell’asservimento34. Col progresso tecnico come strumento, la non-libertà – intesa come soggezione dell’uomo al suo apparato produttivo – viene perpetuata e intensificata sotto forma di molte piccole libertà e agi. L’aspetto nuovo è la razionalità sopraffattrice di questa impresa irrazionale, e la profondità del precondizionamento che plasma gli impulsi dell’istinto e le aspirazioni degli individui, oscurando la differenza tra coscienza falsa e coscienza autentica. Di fatto, né l’impiego di controlli amministrativi piuttosto che fisici (come la fame, la dipendenza personale, la forza), né il mutato carattere del lavoro pesante, né l’assimilazione reciproca delle classi professionali, né la progressiva uguaglianza nella sfera del consumo possono compensare il fatto che decisioni relative a questioni di vita e di morte, di sicurezza personale e nazionale sono prese in luoghi sui quali gli individui non hanno alcun controllo. Gli schiavi della civiltà industriale sviluppata sono schiavi sublimati, ma sono pur sempre schiavi, poiché la schiavitù è determinata

 

non dall’obbedienza, né dall’asprezza della fatica, bensì dallo stato di strumento e dalla riduzione dell’uomo allo stato di cosa35.

 

Questa è la servitù allo stato puro: esistere come strumento, come cosa. E tale modo di esistere non viene certo abolito se la cosa è animata e si sceglie il proprio cibo materiale ed intellettuale, se non sente di esser cosa, se è graziosa, pulita, capace di movimento. D’altra parte, a mano a mano che la reificazione tende ad assumere carattere totalitario in virtù della sua forma tecnologica, gli organizzatori e gli amministratori si trovano sempre più a dipendere dall’apparato che essi organizzano ed amministrano. E tale dipendenza reciproca non è più la relazione dialettica tra il Padrone e il Servo, spezzata nella lotta per esser riconosciuti dall’altro, ma è piuttosto un circolo vizioso che racchiude sia il Padrone che il Servo. Sono i tecnici a governare, o non sono pur essi soggetti al governo degli altri, che si fondano sui tecnici per formulare ed eseguire i lor propri piani?

 

… la pressione dell’odierna corsa agli armamenti, per sua natura altamente tecnologica, ha tolto l’iniziativa ed il potere di prendere decisioni cruciali dalle mani di funzionari governativi responsabili, e l’ha posta nelle mani di tecnici, progettisti e scienziati, stipendiati da grandi imperi industriali e incaricati di fare gli interessi dei loro datori di lavoro. Il loro compito sta nello escogitare nuove armi e persuadere i militari che il futuro della loro professione, e dell’intero paese, dipende dal fatto di comprare ciò che loro hanno inventato36.

 

Come le imprese produttive contano sui militari per garantire la propria conservazione e sviluppo, così i militari contano sulle grandi società «non soltanto per avere le armi, ma anche per sapere di che tipo di armi han bisogno, quanto costeranno, e quanto ci vorrà per produrle»37. Un circolo vizioso sembra davvero l’immagine più adeguata per una società che si va espandendo e perpetuando nella direzione che essa stessa ha prestabilito, spinta dai crescenti bisogni che genera e che al tempo stesso mira a contenere.

 

 

Prospettive di contenimento.

 

C’è ragione di sperare che questa catena di produttività e repressione insieme crescenti possa mai essere spezzata? Per dare una risposta bisognerebbe tentare di proiettare nel futuro gli sviluppi del presente, supponendo che l’evoluzione sia relativamente normale; trascurando, in altre parole, la possibilità realissima di una guerra nucleare. In tale prospettiva, il Nemico assumerebbe carattere «permanente», ossia il comunismo continuerebbe a coesistere con il capitalismo. Al tempo stesso, quest’ultimo continuerebbe ad essere capace di mantenere e anzi migliorare l’attuale tenore di vita per una parte crescente della popolazione, ad onta e per mezzo d’una produzione intensificata dei mezzi di distruzione, e d’uno spreco metodico di risorse e di talenti. Questa capacità si è affermata nonostante e per mezzo di due guerre mondiali e dell’incalcolabile regresso materiale ed intellettuale prodotto dai sistemi fascisti.

La base materiale di tale capacità si troverebbe ancor sempre in questi fattori:

 

a) la crescente produttività del lavoro (progresso tecnico);

b) l’aumento del tasso di natalità della popolazione soggetta;

c) un’economia perennemente impostata sui bisogni della difesa;

d) l’integrazione politico-economica dei paesi capitalistici, e l’espansione delle loro relazioni con le zone sottosviluppate.

 

Tuttavia il perdurare del conflitto tra le capacità produttive della società ed il loro impiego a fini di distruzione e di oppressione renderebbero necessari sforzi sempre più intensi per imporre alla popolazione le esigenze dell’apparato: disfarsi della capacità produttiva in eccesso, creare il bisogno di comperare i beni che si devono vendere realizzando un profitto, e il desiderio di lavorare per produrli e diffonderli. Il sistema tende in tal modo sia verso forme di amministrazione totale, sia verso la totale dipendenza dall’amministrazione da parte dei maggiori enti pubblici e privati, rafforzando l’armonia prestabilita tra l’interesse delle grandi società pubbliche e private e quello dei loro clienti e servitori. Né una nazionalizzazione parziale né una diffusa partecipazione dei lavoratori alla direzione ed agli utili delle imprese basterebbero di per sé per mutare questo sistema di dominazione – fino a che gli stessi lavoratori continuano a fungere da forza di sostegno.

 

 

Esistono tendenze centrifughe, all’interno e all’esterno. Una di esse è intrinseca al progresso tecnico, ovvero all’automazione. Ho avanzato sopra l’ipotesi che il diffondersi dell’automazione è qualcosa di più che non la crescita quantitativa della meccanizzazione; è un mutamento nel carattere delle forze produttive di base38. Sembra che l’automazione spinta ai limiti della possibilità tecnica sia incompatibile con una società fondata sullo sfruttamento privato della forza lavoro umana nel processo di produzione. Quasi un secolo prima che l’automazione divenisse realtà, Marx aveva scorto quali mutamenti esplosivi essa poteva recare:

 

Via via che la grande industria si sviluppa, la creazione di ricchezza reale dipende meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro erogata che dalla potenza degli strumenti messi in moto durante il tempo di lavoro. Questi strumenti, con la loro possente efficacia, non stanno in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che si richiede per produrli; la loro efficacia dipende piuttosto dal livello raggiunto dalla scienza e dal progresso tecnologico, ovvero dall’applicazione della scienza alla produzione… Il lavoro umano allora non appare più racchiuso nel processo di produzione; l’uomo si collega al processo di produzione come sorvegliante e regolatore (Wächter und Regulator)… Egli sta al di fuori del processo di produzione invece di essere l’agente principale nel processo medesimo… In questa trasformazione, il fondamento della produzione e della ricchezza non è più il lavoro immediato compiuto dall’uomo, né il suo tempo di lavoro, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva universale (Produktivkraft), cioè delle sue conoscenze e del suo dominio della natura tramite la sua esistenza sociale; in una parola, del suo sviluppo come individuo societario (gesellschaftlichen Individuums). Il furto del tempo di lavoro di un uomo, su cui la ricchezza [sociale] riposa ancor oggi, appare allora come una ben misera base a confronto della nuova base che la grande industria ha creato. Non appena il lavoro umano nella sua forma immediata abbia cessato di essere la fonte principale di ricchezza, il tempo di lavoro cesserà di essere e deve necessariamente cessare di essere la misura della ricchezza, e il valore di scambio deve necessariamente cessare di essere la misura del valore d’uso. Il superlavoro della massa [della popolazione] ha così cessato di essere la condizione per lo sviluppo della ricchezza sociale (des allgemeinen Reichtums), e l’ozio dei pochi ha cessato di essere la condizione per lo sviluppo delle facoltà intellettuali universali dell’uomo. Il modo di produzione che si fonda sul valore di scambio viene così a crollare…39.

 

L’automazione pare davvero essere il grande catalizzatore della società industriale avanzata. È un catalizzatore esplosivo o, a seconda, non esplosivo, che opera un mutamento qualitativo nella base materiale, strumento tecnico del salto dalla quantità alla qualità. Il processo sociale dell’automazione esprime infatti la trasformazione o meglio la trasmutazione della forza lavoro, in cui quest’ultima, separata dall’individuo, diventa un oggetto produttore indipendente e quindi un soggetto autonomo.

Dovesse mai divenire il processo di produzione materiale, l’automazione rivoluzionerebbe la società intera. La reificazione della forza lavoro umana, portata alla perfezione, spezzerebbe la forma reificata, tagliando la catena che lega l’individuo alla macchina, al meccanismo per mezzo del quale il suo stesso lavoro lo rende schiavo. L’automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale dell’uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà.

Nello stadio attuale del capitalismo avanzato, le organizzazioni dei lavoratori si oppongono giustamente all’automazione quando questa non sia compensata da altre forme di occupazione. Esse insistono sull’impiego estensivo di forza lavoro nella produzione materiale e si oppongono in tal modo al progresso tecnico. Così facendo, tuttavia, esse si oppongono pure all’impiego più efficiente del capitale, intralciando gli sforzi sempre più intensi per elevare la produttività del lavoro. In altre parole, se lo sviluppo dell’automazione fosse arrestato per lungo tempo, ciò potrebbe indebolire la posizione del capitale nei confronti della concorrenza nazionale ed internazionale, provocare una depressione di ampia portata e riattivare, di conseguenza, il conflitto degli interessi di classe.

Questa possibilità diventa più realistica via via che la contesa tra capitalismo e comunismo si sposta dal campo militare a quello sociale ed economico. Grazie al potere dell’amministrazione totale, nel sistema sovietico l’automazione può procedere con maggior rapidità, una volta che un certo livello tecnico sia stato raggiunto. Questa minaccia alla sua posizione nel quadro della concorrenza internazionale forzerebbe il mondo occidentale ad accelerare la razionalizzazione del processo produttivo. Tale razionalizzazione incontra una ferma resistenza da parte dei lavoratori, ma ad essa non si accompagna una radicalizzazione politica. Almeno negli Stati Uniti, i capi dei lavoratori non mostrano di avere mete né mezzi che escano dal quadro comune dell’interesse nazionale e di gruppo, dove quest’ultimo è sempre sottomesso o soggetto al primo. Codeste forze centrifughe sono ancor sempre controllabili entro tale quadro.

Anche qui il declinare della proporzione di forza lavoro umana nel processo produttivo comporta un declino nel potere politico dell’opposizione. In vista del peso crescente che gli impiegati sono venuti assumendo in questo processo, la radicalizzazione politica dovrebbe essere necessariamente accompagnata dall’emergere di una coscienza ed azione politica autonoma tra i gruppi di impiegati, cosa assai poco probabile nella società industriale avanzata. L’intensificarsi della pressione per organizzare le masse crescenti degli impiegati nei sindacati industriali40, posto che ottenga qualche successo, può favorire lo sviluppo di una coscienza sindacale entro questi gruppi, ma è assai difficile che li spinga verso posizioni politiche radicali.

 

Sul piano politico, la presenza d’un maggior numero di impiegati nei sindacati dei lavoratori fornirà ai portavoce di questi e ai liberali l’occasione per identificare più veracemente gli «interessi dei lavoratori» con quelli della comunità. La base di massa dei sindacati come gruppo di pressione continuerà ad ampliarsi, e i loro dirigenti si troveranno inevitabilmente implicati in contrattazioni di maggior portata, interessanti l’economia nazionale41.

 

In queste circostanze, la possibilità di contenere pulitamente le tendenze centrifughe dipende innanzi tutto dall’abilità degli interessi costituiti di adattare se stessi e la loro economia ai requisiti dello Stato del Benessere. Un forte aumento della spesa e dell’intervento statali, pianificazione a livello nazionale ed internazionale, un programma esteso di aiuti all’estero, piani di previdenza sociale vieppiù comprensivi, lavori pubblici su vasta scala, e forse anche forme parziali di nazionalizzazione rientrano fra i suddetti requisiti42. Io credo che gli interessi dominanti finiranno gradualmente per accettare tali requisiti, pur tra molte esitazioni, e per affidare la difesa delle loro prerogative ad un potere più efficace.

Se ci volgiamo ora a considerare quali prospettive esistono per contenere il mutamento sociale nell’altro sistema di civiltà industriale, nella società sovietica43, ci si imbatte sin dall’inizio in due aspetti che rendono ardua ogni comparazione: a) dal punto di vista cronologico la società sovietica si trova ad uno stadio precedente di industrializzazione, con larghi settori non ancora usciti dallo stadio pre tecnologico; b) dal punto di vista strutturale, le sue istituzioni economiche e politiche sono essenzialmente diverse (nazionalizzazione totale e dittatura).

Le connessioni esistenti tra i due aspetti aggravano le difficoltà dell’analisi. L’arretratezza storica non solo pone in grado ma anzi forza l’industrializzazione sovietica a procedere senza ricorrere allo spreco e all’obsolescenza pianificati, o alle restrizioni sulla produttività imposte dagli interessi del profitto privato, ed a soddisfare in modo pianificato, dopo che è stata data priorità ai bisogni militari e politici, se non simultaneamente alla soddisfazione di questi, i bisogni vitali che ancora esistono.

Questa maggiore razionalità deindustrializzazione è forse solo il segno ed il vantaggio dell’arretratezza storica, incline a scomparire una volta che sia raggiunto il livello avanzato? È ancora l’arretratezza storica a rafforzare, d’altra parte – poste le condizioni della coesistenza competitiva con il capitalismo avanzato – lo sviluppo totale ed il controllo di tutte le risorse da parte di un regime dittatoriale? E quando avesse ottenuto lo scopo di «raggiungere e superare» la società capitalistica, sarebbe capace la società sovietica di alleviare i controlli totalitari sino al punto in cui un mutamento qualitativo potrebbe davvero aver luogo?

L’argomento della arretratezza storica, secondo il quale la liberazione, viste le condizioni presenti di immaturità materiale ed intellettuale, deve necessariamente venire dalla forza e dall’amministrazione, non forma soltanto il nucleo del marxismo sovietico, ma anche quello delle teorie della «dittatura educativa», da Platone a Rousseau. È facile porlo in ridicolo ma è difficile confutarlo, poiché ha il merito di riconoscere, senza molta ipocrisia, le condizioni (materiali ed intellettuali) che servono ad impedire una genuina ed intelligente autodeterminazione.

L’argomento vale inoltre a smascherare l’ideologia repressiva della libertà, secondo la quale la libertà umana può fiorire anche in una vita in cui prevalgono fatica, miseria e stupidità. Di fatto la società deve innanzi tutto creare i requisiti materiali della libertà per tutti i suoi membri, prima di poter essere una società libera; deve innanzi tutto creare la ricchezza prima di poterla distribuire a misura dei bisogni liberamente sviluppantisi dell’individuo; deve innanzi tutto porre in grado i suoi schiavi di apprendere a vedere e a pensare prima che questi capiscano quel che succede e che cosa da loro si può fare per cambiarlo. E nella misura in cui gli schiavi sono stati precondizionati ad esistere come schiavi e ad essere contenti di tale ruolo, la loro liberazione pare necessariamente venire dall’esterno e dall’alto. Essi devono venir «forzati ad essere liberi», a «vedere gli oggetti come sono, e talvolta come dovrebbero apparire», devono aver qualcuno che indichi loro la «buona via» di cui sono in cerca44.

Nonostante tutta la verità che contiene, tale argomento non può tuttavia dar risposta alla vecchia domanda: chi educa gli educatori, e dov’è la prova che essi sono in possesso del «bene»? La domanda non è invalidata dall’opporre che essa si applica egualmente a certe forme democratiche di governo in cui le decisioni fatali attorno a ciò che è bene per la nazione sono prese da rappresentanti eletti (o meglio sono avallate da rappresentanti eletti) – eletti in condizioni in cui prevalgono forme di indottrinamento efficaci e liberamente accettate. Con tutto ciò, la sola giustificazione possibile (quanto debole!) della «dittatura educativa» è che il terribile rischio che essa comporta non è detto sia più terribile del rischio che le grandi società liberali, al pari di quelle autoritarie, vanno ora correndo, né è detto che i costi siano molto più elevati.

La logica dialettica insiste peraltro, contro il linguaggio dei fatti bruti e dell’ideologia, che gli schiavi devono essere liberi per la loro liberazione prima di poter diventare liberi, e che il fine deve già operare nei mezzi disposti per raggiungerlo. L’affermazione di Marx per cui la liberazione della classe lavoratrice deve esser opera della classe medesima, implica appunto questo a priori. Il socialismo deve diventare realtà con il primo atto della rivoluzione, poiché esso deve già esistere nella coscienza e nell’azione di coloro che han portato avanti la rivoluzione.

Esiste, è vero, una «prima fase» nella costruzione del socialismo, durante la quale la nuova società è «ancora contrassegnata dai tratti di nascita della vecchia società dal cui grembo essa sorge»45, ma il mutamento qualitativo dalla vecchia alla nuova società è intervenuto all’inizio di questa fase. Stando a Marx, la «seconda fase» è già letteralmente costituita nella prima. Il modo di vita qualitativamente nuovo generato dal nuovo modo di produzione appare nel corso della rivoluzione socialista, che è il fine e si verifica alla fine del sistema capitalistico. La costruzione del socialismo comincia con la prima fase della rivoluzione.

Per lo stesso motivo, il passaggio dal momento del «a ciascuno secondo il suo lavoro» a quello del «a ciascuno secondo i suoi bisogni» è determinato dalla prima fase, ossia non soltanto dalla creazione della base tecnologica e materiale, ma anche (e questo è decisivo!) dal modo in cui questa viene creata. Il controllo del processo produttivo da parte dei «produttori immediati» è scorto come l’inizio dello sviluppo che distingue la storia degli uomini liberi dalla preistoria dell’uomo. Questa è una società in cui, per la prima volta, coloro che erano un tempo gli oggetti della produttività diventano individui umani che pianificano e usano gli strumenti del loro lavoro per realizzare i lor propri bisogni e facoltà umani. Per la prima volta nella storia, gli uomini agirebbero in modo libero e collettivo, riconoscendo la necessità che limita la loro libertà e la loro umanità e insieme opponendosi ad essa. Ogni repressione imposta dalla necessità sarebbe perciò una necessità veramente autoimposta. In contrasto con tale concezione, lo sviluppo attuale della società comunista contemporanea appare rimandare (o è forzato a rimandare dalla situazione internazionale) il mutamento qualitativo alla seconda fase, e la transizione dal capitalismo al socialismo appare pur sempre, ad onta della rivoluzione, come un mutamento quantitativo. L’asservimento dell’uomo ad opera degli strumenti del suo lavoro continua in una forma altamente razionalizzata e largamente efficiente, che ben promette per il futuro.

 

La situazione di coesistenza ostile può spiegare gli effetti terroristici dell’industrializzazione stalinista, ma mette anche in moto le forze che tendono a perpetuare il progresso tecnico come strumento di dominio; i mezzi pregiudicano il fine. Sempre supponendo che nessuna guerra nucleare o un’altra catastrofe ne tronchi lo sviluppo, il progresso tecnico produrrebbe un continuo aumento del tenore di vita ed un continuo allentamento dei controlli. L’economia nazionalizzata potrebbe sfruttare la produttività del lavoro e del capitale senza incontrare una resistenza strutturale46riducendo in misura considerevole, allo stesso tempo, le ore di lavoro e diffondendo sempre più i comodi della vita. E potrebbe compiere tutto ciò senza abbandonare la presa dell’amministrazione totale sul popolo. Non v’è alcuna ragione per ritenere che progresso tecnico più nazionalizzazione darebbero luogo ad una liberazione ed attivazione «automatica» delle forze che rappresentano la negazione. Al contrario, è probabile che la contraddizione tra le forze produttive in sviluppo e la loro organizzazione schiavistica – che perfino Stalin ammetteva apertamente essere una caratteristica dello sviluppo socialista sovietico47 – tenda ad appiattirsi piuttosto che ad aggravarsi. Quanto più i governanti sono capaci di produrre e distribuire beni di consumo, tanto più fermamente la popolazione soggetta sarà legata alle varie burocrazie che esercitano il potere.

Ma sebbene tali fattori tendenti ad arrestare il mutamento qualitativo nel sistema sovietico paiano simili a quelli che operano nella società capitalistica avanzata, la base di produzione socialista introduce una differenza decisiva. Nel sistema sovietico, l’organizzazione del processo produttivo separa certamente i «produttori immediati» (i lavoratori) dal controllo dei mezzi di produzione, introducendo in tal modo distinzioni di classe alla base stessa del sistema. Questa separazione fu introdotta in forza d’una decisione politica dopo il breve «periodo eroico» della Rivoluzione bolscevica, ed è sempre stata mantenuta dopo d’allora. Essa non costituisce peraltro il motore del processo produttivo; non è insita in questo processo com’è invece la divisione tra capitale e lavoro derivante dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Di conseguenza, gli strati dominanti sono pur essi separabili dal processo produttivo, nel senso di essere sostituibili senza che ciò faccia esplodere le istituzioni fondamentali della società.

È questa la mezza verità nella tesi dei marxisti sovietici per cui le contraddizioni esistenti tra i «rapporti di produzione in ritardo ed il carattere delle forze produttive» possono venir risolte senza una esplosione, e la «coerenza» tra i due fattori può ottenersi tramite un «mutamento graduale»48. L’altra metà di questa verità è che il mutamento quantitativo dovrebbe ancor sempre volgersi in mutamento qualitativo, nella scomparsa dello Stato, del Partito, del Piano, ecc., come potenze indipendenti che si sovrappongono agli individui. Fintanto che questo mutamento lasciasse intatta la base materiale della società (il processo produttivo nazionalizzato), esso sarebbe limitato ad una rivoluzione politica. Se invece potesse condurre all’autodeterminazione nella base stessa dell’esistenza umana, ossia nella dimensione del lavoro necessario, si avrebbe la più radicale e completa rivoluzione della storia. Distribuzione dei mezzi necessari alla vita a prescindere dalla prestazione di lavoro, riduzione delle ore lavorative ad una quota minima, educazione universale polivalente atta a favorire l’intercambiabilità delle funzioni – tutte queste sono le condizioni preliminari ma non i contenuti dell’autodeterminazione. Sono condizioni che potrebbero pur sempre essere create come esito di una amministrazione imposta dall’alto, ma il fatto stesso di crearle significherebbe la fine di questa. È vero che una società industriale matura e libera continuerebbe a fondarsi sulla divisione del lavoro, la quale implica necessariamente una disuguaglianza di funzioni a motivo di autentici bisogni sociali, di esigenze tecniche, e delle differenze fisiche e mentali che esistono tra gli individui. In questo caso, tuttavia, le funzioni dei dirigenti e dei capi non recherebbero più con sé il privilegio di governare la vita di altri a favore di qualche interesse particolare. Una transizione del genere costituisce un processo rivoluzionario piuttosto che evolutivo, anche là dove si fondi su una economia integralmente nazionalizzata e pianificata.

 

Possiamo supporre che il sistema comunista, nella forma in cui esiste oggi, tenda a sviluppare (o piuttosto sia costretto a sviluppare in virtù della competizione internazionale) le condizioni che renderebbero possibile la transizione di cui s’è parlato? A tale supposizione si oppongono argomenti di notevole peso. Uno di essi sottolinea la dura resistenza che sarebbe opposta dal fortilizio dei burocrati – resistenza che trova la sua raison d’être proprio negli stessi fattori che sostengono la spinta a creare le condizioni preliminari della liberazione, ossia la competizione in termini di vita e di morte con il mondo capitalistico.

È possibile fare a meno della nozione di una «brama di potere» innata nella natura umana. Si tratta di un concetto psicologico affatto dubbio, grossolanamente inadeguato per analizzare gli sviluppi d’una società. La questione non è se le burocrazie comuniste «cederebbero» la loro posizione privilegiata una volta che il livello di un possibile mutamento qualitativo fosse raggiunto, ma se esse saranno capaci di impedire che tale livello sia raggiunto. Per poter far questo, esse dovrebbero arrestare lo sviluppo materiale ed intellettuale al punto in cui il dominio sia ancora razionale e vantaggioso, in cui la popolazione soggetta possa ancora venir legata al posto di lavoro e all’interesse dello stato o di altre istituzioni stabilite. Anche qui il fattore decisivo sembra essere la situazione globale della coesistenza, da lungo tempo divenuta un fattore che influenza la situazione interna delle due società avversarie. Il bisogno di utilizzare integralmente il progresso tecnico, e di sopravvivere in virtù di un tenore di vita superiore, può dimostrarsi più forte della resistenza delle burocrazie costituite.

 

Vorrei aggiungere alcune osservazioni in merito all’opinione, da molti condivisa, per cui il recente sviluppo dei paesi arretrati potrebbe non soltanto modificare le prospettive dei paesi industriali avanzati, ma anche costituire una «terza forza» capace di crescere sino a divenire una potenza relativamente indipendente. Nei termini della discussione condotta finora, dobbiamo chiederci quali prove vi siano che i paesi ex coloniali o semi coloniali sarebbero capaci di adottare un modo di industrializzazione essenzialmente diverso rispetto al capitalismo ed al comunismo contemporaneo. V’è forse qualcosa nella cultura e nella tradizione indigena di queste zone che possa indicare una tale alternativa? Le mie osservazioni saranno limitate al caso di paesi arretrati che hanno già iniziato il processo di industrializzazione, ossia di paesi dove l’industrializzazione coesiste con una cultura preindustriale ed antindustriale pressoché intatta (India, Egitto).

Questi paesi imboccano ora la strada dell’industrializzazione con una popolazione per nulla educata ai valori della produttività autoalimentantesi, dell’efficienza, della razionalità tecnologica; in altre parole, con una popolazione che in larga maggioranza non è ancora stata trasformata in forza di lavoro separata dai mezzi di produzione. Si può dire che queste condizioni favoriscano il confluire in forme originali del processo di industrializzazione e di quello di liberazione, dando luogo ad un modo di industrializzazione essenzialmente diverso, il quale costruirebbe l’apparato produttivo non soltanto in accordo con i bisogni vitali della popolazione interessata, ma anche in vista dello scopo di pacificare la lotta per l’esistenza?

L’industrializzazione in queste zone arretrate non avviene nel vuoto. Avviene in una situazione storica in cui il capitale sociale che si richiede per l’accumulazione primitiva deve essere ottenuto largamente dall’esterno, dal blocco capitalista o da quello comunista – o da entrambi. Per di più sono in molti a pensare che per restare indipendenti occorre che l’industrializzazione sia rapida, e sia raggiunto al più presto un livello di produttività tale da assicurare un’autonomia relativa nella competizione con i due giganti.

In queste circostanze, per trasformarsi in società industriali le società sottosviluppate devono liberarsi al più presto possibile delle forme pretecnologiche. Questo vale specialmente per i paesi dove persino i bisogni più vitali della popolazione sono lungi dall’essere soddisfatti, dove il tenore di vita terribilmente basso richiede in primo luogo prodotti di massa, ovvero una produzione e distribuzione di massa meccanizzata e unificata. In questi stessi paesi il peso morto dei costumi e delle condizioni pretecnologiche e persino pre – «borghesi» offre una forte resistenza a tale sviluppo imposto dall’alto. Il processo di produzione per mezzo di macchine richiede (come processo sociale) che tutti obbediscano ad un sistema di potenze anonime, richiede una secolarizzazione totale e la distruzione di valori e di istituzioni la cui desantificazione è appena incominciata. È ragionevole assumere che, sotto la spinta dei due grandi sistemi di amministrazione tecnologica totale, tale resistenza verrà dissolta con metodi liberali e democratici? Che i paesi sottosviluppati siano in grado di compiere il salto storico dalla società pre-tecnologica a quella post-tecnologica, dove l’apparato tecnologico, posto infine sotto controllo, potrebbe fornire le basi per un’autentica democrazia? Al contrario, sembra piuttosto che lo sviluppo di questi paesi, imposto dall’alto, recherà con sé un periodo di amministrazione totale più violento e più duro di quello attraversato dalle società avanzate, le quali possono fondarsi sulle realizzazioni dell’età liberale. Per riassumere: è probabile che le aree arretrate soccombano o ad una delle varie forme di neocolonialismo o ad un sistema più o meno terroristico di accumulazione primitiva.

Una seconda alternativa sembra peraltro possibile49. Se l’industrializzazione e l’introduzione della tecnologia nei paesi arretrati incontrassero una forte resistenza da parte dei modi di vita e di lavoro tradizionali, indigeni, una resistenza che non vien meno neppure dinanzi alla prospettiva affatto tangibile d’una vita migliore e più facile, può avvenire che questa tradizione pretecnologica diventi essa stessa la fonte del progresso e dell’industrializzazione?

Un progresso autonomo di questo tipo richiederebbe una politica sociale ed economica pianificata, la quale, invece di sovra imporre la nuova tecnologia sui modi tradizionali di vita e di lavoro, fosse volta a sviluppare e a migliorare questi ultimi sul loro stesso terreno, eliminando le forze oppressive e sfruttatrici (materiali nonché religiose) che li rendono incapaci di assicurare lo sviluppo di una esistenza umana. Requisiti necessari a tal fine sarebbero una rivoluzione sociale, la riforma agraria e la riduzione della popolazione in eccesso, ma non l’industrializzazione secondo il modello delle civiltà avanzate. Un progresso su basi indigene sembra invero possibile nelle zone in cui le risorse naturali, ove siano liberate da sovrastrutture oppressive, sono ancor sufficienti non soltanto per sopravvivere ma anche per condurre una vita umana. E dove così non è, non si potrebbe fare in modo che diventino sufficienti con l’aiuto graduale e selettivo della tecnologia, entro il quadro delle forme tradizionali?

Se questo è il caso, si vedrebbero allora prevalere condizioni che non esistono (e non sono mai esistite) nelle società industriali avanzate di più vecchia origine; in altre parole i «produttori immediati» avrebbero infine la possibilità di creare con il loro lavoro e tempo libero le condizioni del loro progresso, e determinare il ritmo e la direzione di questo. L’autodeterminazione procederebbe a partire dalla base ed il lavoro per le cose necessarie potrebbe trascendere se stesso avvicinando il momento del lavoro come fonte di gratificazione.

Ma pur dando per scontate queste supposizioni astratte, i limiti bruti che si pongono all’autodeterminazione vanno riconosciuti. È difficile pensare che la rivoluzione iniziale, la quale dovrebbe porre le premesse per il nuovo sviluppo abolendo lo sfruttamento mentale e materiale, possa verificarsi come azione spontanea. Un progresso su basi indigene presupporrebbe inoltre un mutamento nella politica dei due grandi blocchi di potenze industriali che oggi imprimono al mondo i loro caratteri, ovvero l’abbandono del neocolonialismo in tutte le sue forme. Al presente non si vede alcun segno di un tal mutamento.

 

 Lo Stato del benessere e lo Stato belligerante.

 

Riassumendo: le prospettive di contenere il mutamento offerte dalla politica della razionalità tecnologica dipendono dalle prospettive dello stato del benessere. Tale stato sembra capace di elevare il livello della vita amministrata, capacità inerente in tutte le società industriali avanzate in cui l’apparato tecnico, costituito come potenza separata sovrastante gli individui, dipende per funzionare dallo sviluppo intensificato e dall’espansione della produttività. In tali condizioni il declino della libertà e dell’opposizione non è un fatto di deterioramento o di corruzione morale od intellettuale. È piuttosto un processo sociale obbiettivo, nella misura in cui la produzione e la distribuzione di una crescente quantità di beni e servizi fanno dell’ubbidienza un atteggiamento tecnologico razionale.

E però, con tutta la sua razionalità, lo Stato del benessere è uno stato in cui regna l’illibertà, poiché la sua amministrazione totalmente accentrata impone una restrizione sistematica su a) il tempo libero «tecnicamente» disponibile50b) la quantità e la qualità di beni e servizi «tecnicamente» disponibili per i bisogni vitali dell’individuo; c) l’intelligenza (cosciente ed inconscia) capace di comprendere e realizzare le possibilità di autodeterminazione.

La tarda società industriale ha accresciuto piuttosto che ridotto il bisogno di funzioni parassitane ed alienate (per l’insieme della società se non per l’individuo). La pubblicità, le relazioni pubbliche, l’indottrinamento, l’obsolescenza pianificata non rappresentano più spese generali improduttive ma sono piuttosto elementi dei costi base di produzione. Al fine di essere efficace, tale produzione di spreco socialmente necessario richiede una continua razionalizzazione, ossia l’impiego incessante di tecniche avanzate e di conoscenze scientifiche. Ne segue che un sempre più elevato tenore di vita è il sottoprodotto quasi inevitabile della società industriale manipolata politicamente, una volta che un certo livello di arretratezza sia stato superato. La crescente produttività del lavoro crea una sempre più ampia eccedenza di prodotto il quale, sia esso appropriato e distribuito dai privati o dal centro, permette un aumento dei consumi ad onta delle diversioni sempre più marcate imposte alla produttività. Fintanto che prevale questa combinazione, essa riduce il valore d’uso della libertà; non v’è alcuna ragione di insistere sulla autodeterminazione quando la vita amministrata è così confortevole, è anzi la «buona» vita. È questo il terreno razionale e materiale su cui si fonda l’unificazione degli opposti, il comportamento politico unidimensionale. Su questo terreno le forze politiche trascendenti che esistono entro la società sono bloccate, ed un mutamento qualitativo appare possibile soltanto come mutamento proveniente dall’esterno.

Respingere lo Stato del benessere a favore di un’idea astratta della libertà è cosa che convince poco. La perdita delle libertà economiche e politiche che furono le vere conquiste dei due secoli precedenti può sembrare un danno da poco in uno stato capace di rendere sicura e confortevole la vita amministrata51. Se gli individui sono soddisfatti, al punto d’esser felici, dei beni e dei servizi loro offerti dall’amministrazione, perché mai dovrebbero insistere per avere istituzioni differenti capaci di produrre in modo differente beni e servizi differenti? E se gli individui sono precondizionati di modo che i beni che li soddisfano includono pure pensieri, sentimenti, aspirazioni, perché mai dovrebbero voler pensare, sentire, ed esercitare l’immaginazione da soli? È vero, le merci materiali e mentali offerte possono essere cattive, fonti di spreco, pattume – ma il Geist e la conoscenza non sono argomenti efficaci contro la soddisfazione dei bisogni.

La critica dello Stato del benessere svolta in termini liberali o conservatori (con o senza il prefisso «neo») dipende, per essere valida, dall’esistenza delle stesse condizioni che questo ha superato, cioè un basso grado di ricchezza sociale e di sviluppo tecnologico. Gli aspetti sinistri di questa posizione critica sono palesi nella lotta contro l’espansione della legislazione sociale e contro un adeguato aumento delle spese governative per servizi che non siano quelli connessi con la difesa militare.

La denuncia delle capacità oppressive dello Stato del benessere serve in tal modo a proteggere le capacità oppressive della società che ha preceduto lo Stato del benessere. Nello stadio più avanzato del capitalismo, questa società è un sistema moderatamente pluralistico, nel quale le istituzioni in concorrenza fra loro convergono nel solidificare il potere dell’insieme sull’individuo. D’altra parte, per l’individuo amministrato un’amministrazione pluralistica è assai meglio di una amministrazione totale. Nel primo caso un’istituzione può sempre proteggerlo contro l’altra; un’organizzazione può moderare la spinta dell’altra; si può calcolare quali possibilità esistono di sfuggire e mutare rotta. Il governo di diritto, quali che siano le sue limitazioni, è pur sempre infinitamente più sicuro del governo al di sopra o in assenza del diritto.

 

In vista delle tendenze che oggi prevalgono, bisogna tuttavia chiedersi se questa forma di pluralismo non acceleri la distruzione del pluralismo stesso. La società industriale avanzata è veramente un sistema di poteri che si controbilanciano l’uno con l’altro. Ma queste forze si elidono a vicenda e finiscono per riunirsi a livello superiore, nell’interesse comune che esse hanno a difendere ed estendere la posizione acquisita, a combattere le alternative storiche, a contenere il mutamento qualitativo. I poteri controbilanciantisi non includono quelli che vanno contro l’insieme del sistema52. Essi tendono ad immunizzare l’insieme del sistema contro la negazione dall’interno come dall’esterno; la politica estera del contenimento appare come una estensione della politica interna orientata nel medesimo senso.

La realtà del pluralismo diventa ideologica, ingannevole. Esso sembra estendere più che ridurre la manipolazione e la coordinazione, sembra promuovere l’integrazione funesta piuttosto che contrapporsi ad essa. Le istituzioni libere competono con quelle autoritarie nel fare del Nemico una forza mortale che opera entro il sistema. E questa forza mortifera stimola lo sviluppo e l’iniziativa, non in virtù delle dimensioni e della spinta economica del «settore» che opera per la difesa, ma in virtù del fatto che la società come un tutto diventa una società fondata sui bisogni della difesa. Perché il Nemico è un dato permanente. Non fa parte della situazione d’emergenza ma del normale stato di cose. Esso avanza minacce in tempo di pace non meno che in tempo di guerra (e forse ancor più); in tal modo esso viene inserito nel sistema come forza coesiva.

Né la produttività crescente, né l’alto tenore di vita dipendono dalla minaccia esterna, ma da questa dipende il fatto di usarli per contenere il mutamento sociale e perpetuare la servitù. Il Nemico è il denominatore comune di tutto ciò che si fa e non si fa. Ed esso non si identifica con il comunismo o il capitalismo quali sono in realtà; nei confronti dell’uno come dell’altro, il Nemico è lo spettro reale della liberazione.

Ripeto: la follia del tutto giustifica le follie particolari e trasforma i delitti contro l’umanità in un’impresa razionale. Quando il popolo, stimolato ad arte dalle autorità pubbliche e private, si prepara a vivere in regime di mobilitazione generale, esso mostra d’esser ragionevole non soltanto a causa della presenza del Nemico, ma pure a causa delle possibilità di investimento e d’occupazione offerte dall’industria e dalle attività di divertimento. Anche i calcoli più folli appaiono razionali: annientare cinque milioni di persone è preferibile che non annientarne dieci milioni, o venti, e così via. È futile obbiettare che una civiltà che giustifica la propria difesa con un calcolo del genere proclama la propria fine.

Date queste circostanze, anche le libertà e le possibilità di sortita che esistono al momento rientrano nel quadro dell’insieme organizzato. Nella fase attuale del mercato irreggimentato, la concorrenza rallenta o intensifica la corsa verso forme di ricambio e di obsolescenza sempre più rapide e vaste? I partiti politici competono per realizzare la pace o per sviluppare una industria degli armamenti più potente e costosa? La produzione dell’«opulenza» promuove o ritarda la soddisfazione di bisogni vitali tuttora insoddisfatti? Se fosse vera in ciascun caso la prima alternativa, l’attuale forma di pluralismo rafforzerebbe il potenziale volto a reprimere il mutamento qualitativo e, in tal modo, impedirebbe piuttosto che favorire la «catastrofe» dell’autodeterminazione. La democrazia apparirebbe come il più efficiente dei sistemi di dominazione.

 

L’immagine dello Stato del benessere abbozzata nei paragrafi precedenti è quella di un ibrido storico tra capitalismo organizzato e socialismo, tra servitù e libertà, tra totalitarismo e felicità. Che esso sia possibile, è provato a sufficienza dalle tendenze che oggi prevalgono nel progresso tecnico, mentre la sua esistenza è largamente minacciata da forze esplosive. Il pericolo maggiore, naturalmente, è che a forza di prepararsi per la guerra nucleare totale questa finisca per diventare realtà: il deterrente serve pure ad intralciare gli sforzi volti ad eliminare il bisogno del deterrente. Ma vi sono in gioco anche altri fattori capaci di impedire la piacevole unione di totalitarismo e felicità, manipolazione e democrazia, eteronomia ed autonomia – in breve, il perpetuarsi dell’armonia prestabilita tra comportamento organizzato e comportamento spontaneo, pensiero libero e pensiero condizionato, convenienza e convinzione.

Anche il capitalismo più altamente organizzato serba il bisogno sociale di procedere all’appropriazione e alla distribuzione private del profitto come regolatore dell’economia. In altre parole, esso continua a legare la soddisfazione dell’interesse generale a quella di particolari interessi costituiti. Così facendo, esso si trova ancor sempre dinanzi al conflitto tra la sempre più larga disponibilità di mezzi potenzialmente atti a pacificare la lotta per resistenza, ed il bisogno di intensificare codesta lotta; tra la progressiva «abolizione del lavoro» ed il bisogno di conservare il lavoro come fonte di profitto. Il conflitto perpetua resistenza inumana di coloro che formano la base umana della piramide sociale – gli ultimi venuti ed i poveri, i disoccupati e coloro che non sono occupabili, le razze di colore perseguitate, gli ospiti delle prigioni e delle case di cura per malattie mentali.

Nelle società comuniste contemporanee, il nemico esterno, l’arretratezza e l’eredità del terrore perpetuano i tratti oppressivi che distinguono la fase del «raggiungere e superare» le realizzazioni del capitalismo. La priorità attribuita ai mezzi sul fine, che potrebbe venire spezzata soltanto se si pervenisse alla pacificazione, riceve in tal modo sempre maggiore importanza, e capitalismo e comunismo continuano a competere senza impiegare la forza militare, su scala globale e per mezzo di istituzioni globali. La pacificazione comporterebbe l’emergere di una vera economia mondiale, e la fine dello stato nazione, dell’interesse nazionale, degli operatori economici nazionali insieme con le loro alleanze internazionali. Ed è precisamente contro questa possibilità che il mondo attuale si trova mobilitato:

 

L’ignoranza e l’incoscienza sono tali che i nazionalismi continuano a fiorire. Né l’armamento né l’industria del XX secolo permettono alle patrie di garantire la propria sicurezza e la propria vita se non facendo parte di insiemi organizzati che abbiano un peso mondiale, nella sfera militare come in quella economica. Ma ad Ovest non meno che ad Est le credenze collettive non assimilano i mutamenti reali. I Grandi formano i loro imperi, o ne riparano le mura senza accettare i mutamenti di regime economico e politico che darebbero efficienza e significato ad entrambe le coalizioni.

 

E poco oltre:

 

Ingannate dalla nazione e dalla classe, le masse sofferenti sono dovunque impegnate nell’asprezza di conflitti in cui i loro soli nemici sono i padroni che impiegano scientemente le mistificazioni dell’industria e del potere.

La collusione tra l’industria moderna e il potere fondato sul territorio è un vizio la cui realtà è più profonda che non le istituzioni e le strutture capitalistiche e comunistiche, e non è detto che nessuna dialettica necessaria lo debba necessariamente estirpare53.

 

La fatale interdipendenza dei due soli sistemi «sovrani» del mondo contemporaneo esprime il fatto che il conflitto tra progresso e politica, tra l’uomo e i suoi padroni è divenuto totale. Quando il capitalismo affronta la sfida del comunismo, sfodera le proprie migliori capacità: sviluppo spettacoloso di tutte le forze produttive, una volta posti sotto controllo gli interessi privati per il profitto che arrestano tale sviluppo. Quando il comunismo affronta la sfida del capitalismo, anch’esso manifesta le migliori capacità: comodità spettacolose, libertà, il fardello della vita reso più leggero. In entrambi i sistemi codeste capacità sono oggi distorte sino ad essere irriconoscibili, ed in entrambi i casi la ragione è alla fin fine la medesima: la lotta contro una forma di vita che dissolverebbe le basi del dominio.

3.
La conquista della coscienza infelice:
la desublimazione repressiva

 

 

 

Dopo aver discusso l’integrazione politica della società industriale avanzata, resa possibile dall’incremento della produttività tecnologica e dalla conquista accelerata dell’uomo e della natura, prenderemo ora in esame l’integrazione che vi corrisponde nel regno della cultura. In questo capitolo certe nozioni e immagini chiave della letteratura, ed il loro destino, serviranno ad illustrare come il progredire della razionalità tecnologica stia liquidando gli elementi d’opposizione e di trascendenza insiti nella «alta cultura». Essi soccombono di fatto al processo di desublimazione che prevale nei settori avanzati della società contemporanea.

 

I successi e i fallimenti di questa società intaccano alla radice la sua cultura superiore. La celebrazione della personalità autonoma, dell’umanesimo, dell’amore tragico e romantico appare come l’ideale di uno stadio di sviluppo ancora arretrato. Quel che si verifica ora non è tanto il degenerare dell’alta cultura in cultura di massa, quanto la confutazione della prima da parte della realtà. La realtà supera la sua cultura. L’uomo può compiere oggi cose più grandi che non gli eroi e i semidei della cultura; ha risolto molti problemi insolubili. Ma ha anche tradito la speranza e distrutto la verità che venivano conservate nelle sublimazioni dell’alta cultura. L’alta cultura, certo, è sempre stata in contraddizione con la realtà sociale, e soltanto una minoranza privilegiata ha goduto dei suoi benefici e rappresentato i suoi ideali. Le due sfere antagonistiche della società son sempre coesistite fianco a fianco; l’alta cultura si è sempre mostrata accomodante, mentre la realtà è stata turbata di rado dagli ideali e dalla verità di quella.

Ai giorni nostri l’aspetto nuovo è l’appiattirsi dell’antagonismo tra cultura e realtà sociale, tramite la distruzione dei nuclei d’opposizione, di trascendenza, di estraneità contenuti nell’alta cultura, in virtù dei quali essa costituiva un’altra dimensione della realtà. Codesta liquidazione della cultura a due dimensioni non ha luogo mediante la negazione ed il rigetto dei «valori culturali», bensì mediante il loro inserimento in massa nell’ordine stabilito, mediante la loro riproduzione ed esposizione su scala massiccia.

Essi servono di fatto come strumenti di coesione sociale. La grandezza di una letteratura e di un’arte libere, gli ideali dell’umanesimo, i dolori e le gioie dell’individuo, la realizzazione della personalità sono temi importanti nella lotta competitiva in corso tra Oriente ed Occidente. Essi dicono cose dure contro le forme attuali di comunismo, e, in pari tempo, sono quotidianamente amministrati e venduti. Il fatto che essi contraddicano la società che li spaccia non conta. Così come gli individui sanno o sentono che la pubblicità ed i programmi elettorali non han da essere necessariamente veri o giusti, e tuttavia li ascoltano e li leggono e persino accettano di farsi guidare da essi, così accettano i valori tradizionali e li assorbono come parte della loro attrezzatura mentale. Mescolando armoniosamente, e spesso in modo inavvertibile, arte, politica, religione e filosofia con annunci pubblicitari, le comunicazioni di massa riducono questi regni della cultura al loro denominatore comune – la forma di merce. La musica dell’anima è anche la musica del venditore. Quello che conta è il valore di scambio, non il valore di verità. Su di esso si impernia la razionalità dello status quo, e ogni forma di razionalità ad esso estranea viene piegata a suo favore.

Nel momento in cui le grandi parole della libertà e del progresso sono pronunciate da capi e politici nel corso d’una campagna elettorale, sugli schermi televisivi, sui palcoscenici e alla radio, esse si trasformano in suoni insignificanti che traggono significato solamente dal contesto in cui si mescolano propaganda, affari, disciplina e rilassamento. Questa assimilazione dell’ideale alla realtà fa fede della misura in cui l’ideale è stato superato. Costretto a sloggiare dal regno sublimato dell’anima e dello spirito o della vita interiore, esso viene tradotto in termini e problemi operativi. Ecco gli elementi progressivi della cultura di massa. La perversione sta ad indicare che la società industriale avanzata si trova ormai dinanzi alla possibilità di dar corpo materiale agli ideali. Le sue capacità stanno progressivamente riducendo la sfera di elementi sublimati in cui la condizione dell’uomo era rappresentata, idealizzata, e posta sotto accusa. L’alta cultura diventa parte della cultura materiale, e perde, nel corso della trasformazione, la maggior parte della sua verità.

 

L’alta cultura dell’Occidente – i cui valori morali, estetici ed intellettuali sono ancor professati dalla società industriale – era una cultura pre-tecnologica nel senso sia funzionale sia cronologico. La sua validità si fondava sull’esperienza di un mondo che non esiste più e non può essere richiamato in vita poiché è stato soppiantato in un senso preciso dalla società tecnologica. Essa restava inoltre, in larga parte, una cultura feudale, anche quando l’età borghese le fornì alcune delle sue espressioni più durevoli. Era feudale non solo per il fatto d’essere circoscritta a minoranze privilegiate, non solo per via del suo intrinseco elemento romantico (che discuteremo fra poco), ma anche perché le sue opere più genuine esprimevano una alienazione metodica, cosciente, rispetto all’intero mondo degli affari e dell’industria, e all’ordine sociale, oggetto di calcolo e di profitto, che su di esso si reggeva.

Benché trovasse chi lo rappresentava con ricchi colori e persino con toni elogiativi, nell’arte e nella letteratura, come avviene nei pittori olandesi del XVII secolo, nel Wilhelm Meister di Goethe, nel romanzo inglese dell’Ottocento, in Thomas Mann, l’ordine borghese rimase un ordine posto in ombra, schiacciato, confutato da un’altra dimensione che si opponeva in modo irreconciliabile al mondo degli affari e anzi lo poneva sotto accusa e lo negava. Nella letteratura, quest’altra dimensione è rappresentata non dagli eroi religiosi, spirituali, morali (che spesso sostengono l’ordine stabilito) ma piuttosto da personaggi in un certo senso sovversivi come l’artista, la prostituta, l’adultera, il gran criminale senza patria, il guerriero, il poeta-ribelle, il diavolo, l’idiota – coloro che non lavorano per vivere, almeno non in un modo ordinato e normale.

Questi personaggi, è vero, non sono scomparsi dalla letteratura della società industriale avanzata, ma pur sopravvivendo appaiono essenzialmente trasformati. La donna fatale, l’eroe nazionale, il beatnik, la casalinga nevrotica, il gangster, la stella del cinema, il capo d’industria carismatico, svolgono una funzione assai differente da quella dei loro predecessori culturali, ed anzi contraria. Essi non sono più immagini di un altro modo di vita, ma sono piuttosto ibridi o tipi usciti dalla solita vita, che servono ad affermare piuttosto che a negare l’ordine costituito.

Il mondo dei loro predecessori era certo un mondo arretrato, pretecnologico, un mondo pienamente consapevole della disuguaglianza e della fatica, dove il lavoro era ancora una funesta sfortuna, ma dove l’uomo e la natura non erano ancora organizzati come cose e strumenti. Con il suo codice di forme e maniere, con lo stile ed il vocabolario della letteratura e della filosofia, questa cultura del passato esprimeva il ritmo ed il contenuto di un universo in cui valli e foreste, villaggi e locande, nobili e contadini, saloni e corti facevano parte della realtà conosciuta. Nel verso e nella prosa di questa cultura pretecnologica è il ritmo di coloro che vanno a zonzo o viaggiano in carrozza, che hanno il tempo ed il piacere di pensare, di contemplare, sentire e narrare.

È una cultura invecchiata e superata, che può riprender vita solamente in sogni e regressioni infantili. In alcuni dei suoi elementi decisivi, tuttavia, essa è pure una cultura post-tecnologica. Le immagini e le posizioni più avanzate che ha espresso sembrano sopravvivere al loro assorbimento nel mondo degli agi e degli stimoli amministrati, continuano ad assillare la coscienza con la possibilità di rinascere nel momento della consumazione del progresso tecnico. Esse sono l’espressione di quella alienazione libera e consapevole dalle forme di vita stabilite con cui la letteratura e le arti si opponevano a queste stesse forme anche quando si prestavano ad ornarle.

 

In contrasto al concetto marxiano, che rimanda al rapporto dell’uomo con se stesso e con il proprio lavoro nella società capitalistica, la alienazione artistica consiste nella trascendenza consapevole dell’esistenza alienata; si tratta di una alienazione mediata, di «ordine superiore». Il conflitto con il mondo del progresso, la negazione dell’ordine economico, gli elementi antiborghesi nella letteratura e nell’arte borghesi non sono dovuti né alla povertà estetica dell’ordine predetto, né ad una reazione romantica, ovvero alla consacrazione nostalgica di uno stadio di civiltà che sta per scomparire. «Romantico» è un termine usato a fini di compiaciuta diffamazione, cui si ricorre facilmente per screditare posizioni d’avanguardia, così come il termine «decadente» vale a denunciare ben più spesso i tratti genuinamente progressivi di una cultura morente che non i veri fattori di decadenza. Le immagini tradizionali dell’alienazione artistica sono in effetti romantiche nella misura in cui sono esteticamente incompatibili con la società che si va sviluppando. L’essere incompatibili con questa è il segno della loro verità. Ciò che esse richiamano e conservano nella memoria appartiene al futuro: sono immagini di una gratificazione capace di dissolvere la società che la sopprime. Le grandi espressioni dell’arte e della letteratura surrealiste dei decenni tra il ‘20 e il ‘40 hanno ancor saputo richiamare in vita tali immagini con la loro funzione sovversiva e liberatrice. La portata e la parentela di queste immagini, e la dimensione che esse rivelano, sono indicate da esempi presi a caso dal vocabolario fondamentale della letteratura: l’Anima e lo Spirito e il Cuore; la recherche de l’absoluLes fleurs du malla femme-enfant; il Regno sul Mare; Le Bateau ivre e l’esca dalle lunghe zampe; Ferne e Heimat; e poi il rum diabolico, la macchina diabolica e il denaro diabolico; Don Giovanni e Romeo; il Gran Costruttore e Quando Noi Morti Ci Destiamo.

La semplice enumerazione di queste parole mostra che appartengono ad una dimensione perduta. Esse hanno perso ogni validità non perché siano obsolete da un punto di vista letterario; alcune di queste immagini appartengono alla letteratura contemporanea e sopravvivono nelle sue creazioni più avanzate. Ciò che è stato eliminato è la loro forza sovversiva, il loro contenuto distruttivo – la loro verità. Così trasformate, esse trovano posto nella vita quotidiana. Le opere alienate e alienanti della cultura intellettuale diventano beni e servizi a tutti familiari. La riproduzione ed il consumo in massa di tali immagini costituisce soltanto un mutamento quantitativo, una democratizzazione della cultura, col crescere del numero di coloro che sanno apprezzarle e capirle?

La verità della letteratura e dell’arte è sempre stata accettata (posto sia mai stata accettata) come una verità di ordine «superiore», che non doveva turbare e invero non turbava l’ordine economico. Quel che è mutato nel periodo contemporaneo è la differenza che prima esisteva tra i due ordini e le loro verità. Il potere assimilante della società svuota la dimensione artistica, assorbendone i contenuti antagonistici. Nel regno della cultura il nuovo totalitarismo si manifesta precisamente in un pluralismo armonioso, dove le opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente in un mare di indifferenza.

Prima che questa riconciliazione culturale fosse in atto la letteratura e l’arte erano essenzialmente alienazione; esse alimentavano e proteggevano la contraddizione, la coscienza infelice del mondo diviso, le possibilità frustrate, le speranze non realizzate, e le promesse tradite. Erano una forza razionale, cognitiva, volta a rivelare una dimensione dell’uomo e della natura che era repressa e respinta nella realtà. La loro verità stava nell’illusione evocata, nel loro insistere a creare un mondo in cui il terrore della vita era richiamato e sospeso, dominato da un atto di ricognizione. È questo il miracolo del capolavoro; è la tragedia, sostenuta sino all’ultimo, e la fine della tragedia, la sua soluzione impossibile. Vivere il proprio amore e il proprio odio, vivere ciò che si è, significa sconfitta, rassegnazione e morte. I crimini della società, l’inferno che l’uomo ha costruito per l’uomo, diventano indomabili forze cosmiche.

La tensione tra l’attuale ed il possibile è trasfigurata in un conflitto insolubile, in cui la riconciliazione avviene per grazia dell’opera come forma: la bellezza come «promessa di felicità». Nella forma dell’opera la situazione esistente è collocata in un’altra dimensione, dove la realtà data si mostra per quel che è. In tal modo essa dice la verità intorno a se stessa; il suo linguaggio cessa di essere il linguaggio dell’inganno, dell’ignoranza e della sottomissione. La finzione narrativa chiama i fatti per nome ed il regno di questi va a rotoli: la narrativa rovescia l’esperienza quotidiana e mostra come questa sia falsa e mutilata. Ma l’arte possiede questo magico potere soltanto come il potere della negazione. Essa può parlare il proprio linguaggio solo finché sono vive le immagini che rifiutano e confutano l’ordine costituito.

Madame Bovary di Flaubert si distingue da altre storie d’amore della letteratura contemporanea, egualmente tristi, per il fatto che il modesto vocabolario della donna che le corrispondeva nella vita reale, od i racconti che questa leggeva, ancor contenevano le immagini dell’eroina. L’ansia fu fatale a Madame Bovary perché non c’era uno psicoanalista, e ciò avveniva perché, nel mondo dell’eroina, egli non sarebbe stato capace di curarla. Essa lo avrebbe respinto come parte dell’ordine di Yonville che la distruggeva. La sua storia appare «tragica» perché la società in cui si svolse era una società arretrata, con una morale sessuale non ancor affrancata, ed una psicologia non ancor resa istituzionale. La società che le sarebbe succeduta ha «risolto» il problema dell’eroina sopprimendolo. Certo non avrebbe senso dire che la tragedia di Madame Bovary o quella di Romeo e Giulietta è risolta nella democrazia moderna, ma neppure avrebbe senso negare l’essenza storica della tragedia. La realtà tecnologica in sviluppo scalza non soltanto le forme tradizionali ma le basi stesse dell’alienazione artistica, ovvero tende ad invalidare non solamente certi «stili» ma pure la sostanza stessa dell’arte.

È vero, l’alienazione non è la sola caratteristica dell’arte. Una analisi od anche solo una posizione del problema non rientra nell’ambito di questo lavoro, ma qualcosa si può dire a fini di chiarimento. Nel corso di interi periodi di civiltà, l’arte appare essere del tutto integrata con la società del tempo. L’arte egizia, greca e gotica sono esempi familiari; anche Bach e Mozart sono citati di solito come prove del lato «positivo» dell’arte. Il posto dell’opera d’arte in una cultura pretecnologica a due dimensioni è ben diverso da quello che essa possiede in una civiltà ad una dimensione, ma l’alienazione caratterizza tanto l’arte che afferma quanto l’arte che nega.

La distinzione decisiva non è quella psicologica tra arte creata nella gioia e arte creata nel dolore, tra salute e nevrosi, bensì quella tra la realtà artistica e la realtà sociale. La rottura con quest’ultima, la capacità di trascenderla sul piano magico o razionale, è un tratto essenziale fin dell’arte più «positiva»; essa è alienata anche nei confronti del pubblico al quale si rivolge. Non importa quanto il tempio o la cattedrale fossero vicini e familiari alle persone che ci vivevano intorno; essi offrivano pur sempre un contrasto terrorizzante o edificante con la vita quotidiana dello schiavo, del contadino, dell’artigiano – e forse anche con quella dei loro padroni.

Ritualizzata o no, l’arte contiene la razionalità della negazione. Nelle sue posizioni più avanzate, essa rappresenta il Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è. I modi in cui l’uomo e le cose sono rappresentati, in cui sono fatti cantare e suonare e parlare, sono altrettanti modi di confutare, spezzare e ricreare la loro esistenza concreta. E tuttavia questi modi di negazione rendono omaggio alla società antagonistica cui sono collegati. Separato dalla sfera del lavoro in cui la società riproduce se stessa e la propria miseria, il mondo di forme d’arte che essi creano rimane, con tutta la sua verità, un privilegio ed un’illusione.

In questa forma esso continua ad esistere, ad onta di tutta la democratizzazione e popolarizzazione, nel corso dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento. L’«alta cultura» in cui questa alienazione si celebra ha i propri riti ed il proprio stile. Il salone, il concerto, l’opera, il teatro sono progettati per creare ed invocare un’altra dimensione della realtà. Per frequentarli occorre prepararsi come per una festa; essi escludono e trascendono l’esperienza quotidiana.

Ora questa lacuna essenziale tra le arti e l’ordine sociale in atto, tenuta aperta Nell’alienazione artistica, viene progressivamente colmata dalla società tecnologica in espansione. Con la sua graduale scomparsa, il Grande Rifiuto viene a sua volta rifiutato; l’«altra dimensione» viene assorbita nello stato di cose prevalente. Le opere nate dalla condizione alienata sono incorporate in questa società e circolano come parte integrante dell’attrezzatura che adorna lo stato di cose prevalente e ne illustra la psicologia. Esse diventano in tal modo strumenti pubblicitari – servono a vendere, a confortare o ad eccitare.

I neoconservatori che se la prendono con chi critica la cultura di massa da posizioni di sinistra, tendono a porre in ridicolo la protesta contro Bach come musica di fondo in cucina, contro Platone ed Hegel, Shelley e Baudelaire, Marx e Freud nel supermercato. Bisogna riconoscere, essi insistono, che i classici sono usciti dal mausoleo e son tornati in vita, che il popolo è, semplicemente, molto più colto. Questo è vero, ma, tornando in vita come classici, essi tornano in vita come altri da sé, privati della loro forza antagonistica, dell’estraniazione che era la dimensione stessa della loro verità. L’intento e la funzione di queste opere sono in tal modo mutate in misura fondamentale. Mentre un tempo esse contraddicevano lo status quo, la contraddizione è stata ora appianata.

Ma tale assimilazione è storicamente prematura, in quanto stabilisce un’eguaglianza culturale pur continuando a sorreggere la struttura del dominio. La società va eliminando le prerogative ed i privilegi della cultura feudale aristocratica insieme con il suo contenuto. Il fatto che le verità trascendenti delle belle arti, l’estetica della vita e del pensiero fossero accessibili solamente a poche persone ricche ed istruite era colpa d’una società repressiva. La colpa tuttavia non è ovviata dalle edizioni economiche, dall’istruzione per tutti, dai dischi microsolco e dall’abolizione dell’abito da sera a teatro e nella sala da concerto54. I privilegi culturali esprimevano l’ingiustizia nella sfera della libertà, la contraddizione tra ideologia e realtà, la separazione della produttività intellettuale da quella materiale; ma fornivano pure un regno ben protetto in cui le verità proibite potevano sopravvivere in una sorta di integrità astratta, ben al riparo dalla società che le sopprimeva.

Ora questo remoto riparo è stato eliminato e, con esso, la trasgressione e l’atto d’accusa. Il testo ed il tono sono ancora presenti, ma la distanza che fece di essi Aria di altri Pianeti55 è stata vinta. L’alienazione artistica è diventata altrettanto funzionale dell’architettura dei nuovi teatri e delle sale da concerto in cui tiene le proprie rappresentazioni. Anche qui, il razionale ed il male sono inseparabili. La nuova architettura è senza dubbio migliore, ovvero più bella e più pratica che non le mostruosità dell’era vittoriana. Ma essa è pure più «integrata», via via che il centro culturale diventa parte appropriata del centro commerciale, o del centro municipale, o del centro governativo. Ogni forma di dominio ha la sua estetica, ed il dominio democratico ha la sua estetica democratica. È bene che quasi tutti possano ora avere le belle arti a portata di mano, solo che girino una manopola, o mettano piede nel supermercato. Nel corso di tale diffusione, tuttavia, esse diventano ingranaggi d’una macchina culturale che riforma per intero il loro contenuto.

L’alienazione artistica soccombe, insieme con altri modi di negazione, al progredire della razionalità tecnologica. In qual misura il mutamento sia profondo ed irreversibile appare chiaro quando esso sia visto come un risultato del progresso tecnico. Nello stadio attuale le possibilità dell’uomo e della natura sono definite a nuovo, in corrispondenza con i nuovi mezzi disponibili per realizzarle, ed alla loro luce le immagini pretecnologiche stanno perdendo il potere che avevano.

Il loro valore di verità dipendeva in larga misura da una dimensione invitta ed incompresa dell’uomo e della natura, dagli stretti limiti posti all’organizzazione e alla manipolazione, dal «nucleo insolubile» che resisteva all’integrazione. Nella società industriale pienamente sviluppata questo nucleo insolubile viene progressivamente eroso dalla razionalità tecnologica. È ovvio, la trasformazione fisica del mondo implica la trasformazione mentale dei simboli, delle immagini e delle idee che ad esso si riferiscono. È ovvio, quando città e autostrade e parchi nazionali prendono il posto di villaggi, valli e foreste, quando i motoscafi sfrecciano sui laghi e gli aeroplani tagliano i cieli, allora questi luoghi perdono il loro carattere di realtà qualitativamente differente, di luoghi di contraddizione.

E poiché la contraddizione è opera del Logos, è confronto razionale di «ciò che non è» con «ciò che è», essa deve avere un mezzo di comunicazione. La lotta per questo mezzo, o piuttosto la lotta volta ad impedire il suo assorbimento nella singola dimensione predominante, è palese negli sforzi dell’avanguardia di creare un’estraniazione che renderebbe nuovamente comunicabile la verità artistica.

Di codesti sforzi Bertolt Brecht ha delineato i fondamenti teorici. Il carattere totale della società stabilita pone al commediografo la questione se sia ancora possibile «rappresentare nel teatro il mondo contemporaneo», intendo dire rappresentarlo in materia tale che lo spettatore riconosca la verità che l’opera vuole esprimere. Brecht risponde che il mondo contemporaneo può essere così rappresentato soltanto se viene rappresentato come un mondo soggetto a mutare56, come lo stato negativo che deve essere negato. Questa è dottrina che va imparata, compresa, e seguita nella pratica; ma il teatro è e dovrebbe essere divertimento, piacere. Tuttavia il divertirsi e l’imparare non sono opposti; divertirsi può essere il modo più efficace di imparare. Per insegnare ciò che il mondo contemporaneo veramente è, dietro il velo ideologico e materiale, e come può essere cambiato, il teatro deve spezzare l’identificazione dello spettatore con gli eventi che si svolgono sul palcoscenico. Non empatia e sentimento si richiedono, ma distacco e riflessione. Tocca all’«effetto d’estraniazione» (Verfremdungseffekt) produrre questa dissociazione in cui il mondo può essere riconosciuto per ciò che è, «Le cose della vita quotidiana sono tolte dal regno dell’evidenza ovvia…»57. «Ciò che è “naturale” deve assumere i caratteri dello straordinario. Soltanto in questa maniera si possono rivelare le leggi di causa ed effetto»58.

L’«effetto d’estraniazione» non è imposto alla letteratura dall’esterno. Esso costituisce piuttosto la risposta della letteratura alla minaccia del comportamentismo totale; è un tentativo di riscattare la razionalità del negativo. In tale tentativo il grande «conservatore» della letteratura unisce le proprie forze a quelle dell’attivista radicale. Paul Valéry insiste sul fatto che il linguaggio poetico è inevitabilmente spinto a schierarsi dalla parte della negazione. I versi di questo linguaggio «non parlano mai d’altro se non di cose assenti»59. Essi parlano di ciò che, pur essendo assente, assilla l’universo stabilito di discorso e di comportamento come la sua possibilità più vietata: né cielo né inferno, né bene né male, ma, semplicemente, «le bonheur». Il linguaggio poetico parla così di ciò che è di questo mondo, di ciò che è visibile, tangibile, udibile nell’uomo e nella natura – e di ciò che non è visto, non toccato, non udito.

Creandosi e muovendosi in un medium che illustra quel che manca, l’assente, il linguaggio poetico svolge una funzione cognitiva, ma si tratta d’una cognizione che sovverte il positivo. In questa sua funzione cognitiva, la poesia assolve il grande compito del pensiero:

 

il lavoro che fa vivere in noi ciò che non esiste60

 

Dare un nome alle «cose assenti» significa spezzare l’incanto delle cose che sono; significa, inoltre, far entrare un ordine di cose differente entro l’ordine stabilito – «il principio di un mondo»61.

Per esprimere quest’altro ordine, che rappresenta la trascendenza nell’unico mondo che esista, il linguaggio poetico dipende dagli elementi trascendenti del linguaggio ordinario62. Avviene tuttavia che la mobilitazione totale di tutti i «media» per la difesa della realtà stabilita abbia coordinato tra loro i mezzi d’espressione al punto che la comunicazione di contenuti trascendenti diventa tecnicamente impossibile. Lo spettro che ha ossessionato la coscienza artistica sin dai tempi di Mallarmé – l’impossibilità di parlare un linguaggio non reificato, di comunicare il negativo – non è più uno spettro: è diventato una realtà materiale.

Le opere letterarie veramente d’avanguardia comunicano la rottura con la comunicazione. Con Rimbaud, e poi con il dadaismo ed il surrealismo, la letteratura rigetta la struttura stessa del discorso che per tutta la storia della cultura ha collegato linguaggio artistico e linguaggio ordinario. Il sistema proposizionale63 (con la proposizione come unità di significato) era il medium in cui le due dimensioni della realtà potevano incontrarsi, comunicare ed essere comunicate. La poesia più sublime e la prosa più banale condividevano questo mezzo d’espressione. Poi la poesia moderna venne a «distruggere le relazioni del linguaggio e a riportare il discorso a serie di parole»64.

La parola rifiuta la regola saggia ed unificatrice della proposizione. Essa fa esplodere la struttura prestabilita del significato e, diventando essa stessa un «oggetto assoluto», designa un universo intollerabile, autodistruttivo, privo di continuità. Questa sovversione della struttura linguistica implica una sovversione nell’esperienza della natura:

 

La Natura diventa un insieme discontinuo di oggetti solitari e terribili, in quanto non esistono tra essi se non legami virtuali; nessuno sceglie per essi un senso privilegiato, o un impiego o un servizio, nessuno li riduce al significato d’un comportamento mentale o di un’intenzione, vale a dire, infine, d’una tenerezza… Queste parole-oggetto senza legami, forti della violenza del loro prorompere in luce… queste parole poetiche escludono gli uomini. Non esiste un umanesimo poetico della modernità: questo discorso è un discorso pieno di terrore, nel senso che pone l’uomo in relazione non con gli altri uomini, ma con le immagini più inumane della Natura: il ciclo, l’inferno, il sacro, l’infanzia, la follia, la materia pura, ecc.65.

 

I materiali tradizionali dell’arte (immagini, armonia, colori) riappaiono soltanto come «citazioni», residui di un significato appartenente al passato in un contesto che lo rifiuta. In questo senso i dipinti surrealisti

 

rappresentano ciò che l’oggettività copre di tabù perché svela la reificazione nella realtà e l’irrazionale che sopravvive nella sua razionalità. Il surrealismo riunisce ciò che l’oggettività nega all’uomo; le deformazioni dimostrano ciò che il tabù ha fatto alla cosa desiderata. Per loro mezzo il surrealismo recupera le cose invecchiate – un album di idiosincrasie dove la richiesta di felicità fa intravedere quel che gli uomini si vedono rifiutare nel loro mondo tecnicizzato66.

 

Da parte sua l’opera di Bertolt Brecht preserva la «promessa di felicità» contenuta nella narrativa romantica e nel Kitsch (chiar di luna e mare azzurro; melodia e casa dolce casa; fedeltà ed amore) trasformandola in fermento politico. I suoi personaggi parlano di paradisi perduti e di speranze indimenticabili («Vedi la luna su Soho, amor mio?» «Un giorno ancora, e il giorno fu azzurro». «Allora era sempre domenica». «E una nave con otto vele». «Vecchia luna di Bilbao, laggiù dove ancor abita l’amore»), mentre il canto è un canto di crudeltà e di avidità, di sfruttamento, d’inganno e di menzogne. Gli ingannati cantano il loro inganno, ma intanto imparano (o hanno imparato) a conoscerne le cause, ed è solo imparando a conoscere le cause (e i modi per farvi fronte) che essi ritrovano la verità del loro sogno.

Gli sforzi per ridar vita al Gran Rifiuto nel linguaggio letterario sono condannati ad essere assorbiti da ciò che intendono confutare. Come classici moderni, l’avanguardia e i beatnik si dividono il compito di divertire senza porre in pericolo la buona coscienza degli uomini di buona volontà. Il fatto che siano così assorbiti è giustificato dal progresso tecnico; il rifiuto è confutato dall’alleviamento della povertà nella società industriale avanzata. La liquidazione dell’alta cultura è un sottoprodotto della conquista della natura, e della progressiva conquista della scarsità.

Togliendo validità alle immagini predilette della trascendenza con l’inserirle nella propria onnipresente realtà quotidiana, questa società dà prova della misura in cui conflitti insolubili stanno diventando più facili da trattare – in cui tragedia e romanzo, sogni archetipici e angosce vengono resi suscettibili di soluzione e dissoluzione tecnica. Ci pensa lo psichiatra ai Don Giovanni, ai Romei, agli Amleti, ai Faust, così come ad Edipo: li cura. I governanti del mondo perdono le loro fattezze metafisiche. Le loro apparizioni alla televisione, alle conferenze stampa, in parlamento e alle udienze pubbliche si addicono difficilmente ad un dramma che non sia quello della pubblicità67mentre le conseguenze delle loro azioni superano di molto la portata del dramma.

Le ricette dell’inumanità e dell’ingiustizia sono amministrate da una burocrazia razionalmente organizzata, il cui centro vitale, tuttavia, permane invisibile. L’anima contiene pochi segreti e desideri che non possano essere discussi in modo piano e ragionato, analizzati e sottoposti a sondaggi d’opinione. La solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile. L’analisi logica e linguistica dimostra che i vecchi problemi metafisici sono problemi illusori; la ricerca del «significato» delle cose può venire riformulata come ricerca del significato delle parole, e l’universo stabilito di discorso e di comportamento può fornire criteri perfettamente adeguati per la risposta.

 

È un universo razionale, che blocca ogni via d’uscita in forza del mero peso e capacità del suo apparato. Nel rapporto con la realtà della vita quotidiana, l’alta cultura del passato era molte cose – opposizione ed ornamento, grido e rassegnazione. Ma era anche una prefigurazione del regno della libertà, il rifiuto di comportarsi in un dato modo. Tale rifiuto non può essere scartato senza un compenso che sembri dare più soddisfazione che non il rifiuto stesso. La conquista e l’unificazione degli opposti, che trova il suo coronamento ideologico nella trasformazione dell’alta cultura in cultura popolare, ha luogo su una base materiale di accresciuta soddisfazione. Questa è pure la base che permette di realizzare una travolgente desublimazione.

L’alienazione artistica è sublimazione. Essa crea immagini di condizioni irreconciliabili con il «principio di realtà» stabilito, le quali diventano tuttavia, come immagini culturali, non solo tollerabili ma persino edificanti e utili. Questo tipo di immagini va ora perdendo ogni validità. Il loro inserimento nella cucina, nell’ufficio, nella bottega; la loro trasmissione commerciale a fini economici come a fini di passatempo rappresentano, in un certo senso, una forma di desublimazione, la sostituzione di una gratificazione mediata con una immediata. Si tratta però di una desublimazione praticata da una «posizione di forza» da parte della società, la quale può permettersi di concedere più cose di un tempo perché i suoi interessi si son fusi con gli impulsi più intimi dei suoi cittadini, e perché le gioie che essa concede promuovono la coesione e la contentezza sociali.

Il «principio del piacere» assorbe il «principio di realtà»; la sessualità viene liberata (o meglio liberalizzata) in forme socialmente costruttive. Questa nozione implica che vi sono modi repressivi di desublimazione68, a confronto dei quali gli impulsi e gli scopi sublimati contengono una maggior dose di deviazione, di libertà, e di rifiuto di dar retta ai tabu sociali. Sembra che tale desublimazione repressiva operi davvero nella sfera sessuale, ed alla pari di quanto avviene nella desublimazione dell’alta cultura essa opera qui come sottoprodotto dei controlli sociali attivati dalla realtà tecnologica, che diffonde la libertà mentre intensifica il dominio. Il nesso tra desublimazione e società tecnologica può forse essere meglio illuminato se si esamina il mutamento avvenuto nell’uso sociale dell’energia istintuale.

Nella società d’oggi, non tutto il tempo speso su e con i meccanismi è tempo di lavoro (ovvero, fatica spiacevole ma necessaria), e non tutta l’energia risparmiata dalla macchina è forza lavoro. La meccanizzazione vale pure a «risparmiare» libido, l’energia degli istinti vitali, cioè vale ad impedire che essa sia consumata nei modi prima disponibili. È questo il nocciolo di verità contenuto nel contrasto romantico tra il viaggiatore moderno e il poeta o l’artigiano ambulante, tra linea di montaggio ed artigianato, cittadina e metropoli, pane fatto a macchina e pagnotta fatta in casa, barca a vela e fuoribordo, ecc. È vero, questo romantico mondo pretecnico era intriso di miseria, fatica e sudiciume, che a lor volta costituivano lo sfondo di ogni gioia e piacere. Tuttavia esisteva un «orizzonte», un medium di esperienza libidinale che oggi non esiste più.

Con la sua scomparsa (che di per sé è un requisito storico del progresso), tutta una dimensione di attività e passività umana è stata deerotizzata. L’ambiente da cui l’individuo poteva ricavare piacere, che egli poteva fare oggetto di un investimento affettivo (o catessi) poco meno gratificante che se si fosse trattato di una zona estesa del corpo, è stato drasticamente ristretto. Di conseguenza l’«universo» della catessi libidinale è stato parimenti ristretto. Il risultato è una localizzazione e contrazione della libido, la riduzione della sfera erotica all’esperienza ed alla soddisfazione sessuali69.

Si paragoni, ad esempio, il far l’amore in un prato e in un’automobile, durante una passeggiata fuori mura e in una strada di Manhattan. Nel primo caso, l’ambiente partecipa della catessi libidinale, la sollecita e tende ad assumere aspetti erotici. La libido si effonde al di là delle zone erogene immediate, in un processo di sublimazione non repressivo. Per contrasto, un ambiente meccanizzato sembra bloccare tale autotrascendenza della libido. Impedita nello sforzo di estendere il campo di gratificazione erotica, la libido diventa meno «polimorfa», meno capace d’assumere forme erotiche che vadano al di là della sessualità localizzata, e quest’ultima viene ad essere intensificata.

Diminuendo in tal modo l’energia erotica ed intensificando quella sessuale, la realtà tecnologica limita la portata della sublimazione, e al tempo stesso riduce pure il bisogno di questa. Nell’apparato mentale, la tensione tra quel che si desidera e quel che è permesso sembra abbassarsi considerevolmente, ed il principio di realtà non sembra più richiedere una vasta e penosa trasformazione dei bisogni istintuali. L’individuo deve adattarsi ad un mondo che non sembra più chiedergli di rinnegare i suoi bisogni più intimi – un mondo che non è essenzialmente ostile.

L’organismo viene quindi precondizionato in modo tale da accettare spontaneamente quel che gli si offre. Fintanto che la maggior libertà comporta una contrazione piuttosto che un’estensione e uno sviluppo dei bisogni istintuali, essa opera a favore anziché contro lo status quo di generale repressione, tanto che si potrebbe parlare di «desublimazione istituzionalizzata». Quest’ultima appare essere un fattore vitale nel formare la personalità autoritaria del nostro tempo.

 

È stato spesso notato che la civiltà industriale avanzata opera con un grado più elevato di libertà sessuale – «opera» nel senso che quest’ultima diventa un valore di mercato ed un fattore di costumi sociali. Senza che cessi di essere uno strumento di lavoro, si permette al corpo di esibire i propri aspetti sessuali nella vita quotidiana come nelle relazioni di lavoro. È questo uno dei risultati unici della società industriale, reso possibile dalla riduzione del lavoro fisico sporco e pesante; dalla disponibilità di capi d’abbigliamento belli ed a buon mercato, di cure di bellezza, di igiene fisica; dalle esigenze dell’industria pubblicitaria, ecc. La segretaria e la commessa sessualmente attraenti, il giovane dirigente ed il sorvegliante belli e virili sono merci che vanno benissimo sul mercato, ed il fatto di avere un’amante come si conviene – prerogativa un tempo di re, principi e signori – facilita la carriera persino dei funzionari di minor grado nella comunità degli affari.

Il funzionalismo, indossati panni d’artista, giova a promuovere detta tendenza. Negozi ed uffici si aprono alla vista con immense vetrate e pongono in mostra il loro personale; nell’interno, i banconi alti e le divisioni non trasparenti stanno scomparendo. L’erosione della privacy nei mastodontici edifici d’abitazione come nelle case suburbane spezza la barriera che prima separava l’individuo dall’esistenza pubblica e rende più visibili le attraenti qualità delle altre mogli e degli altri mariti.

Questa socializzazione non contraddice ma anzi completa la deerotizzazione dell’ambiente. Il sesso è integrato nelle relazioni di lavoro come nelle relazioni pubbliche, e per tal via gli si permette di trovar più facilmente soddisfazione (controllata). Il progresso tecnico ed una vita più confortevole permettono di includere sistematicamente certe componenti libidinali nel regno della produzione e dello scambio di merci. Ma per quanto possa essere controllata la mobilitazione dell’energia istintuale (in certi casi si tratta di «organizzazione scientifica del lavoro» applicata alla libido), per quanto possa servire a sostenere lo status quo, essa rappresenta pur sempre una gratificazione per gli individui amministrati, così come li diverte far scattare il fuoribordo, spingere sull’aiuola la falciatrice a motore e guidare l’auto ad alta velocità.

Questa mobilitazione ed amministrazione della libido può valere a spiegare in gran parte l’ossequienza volontaria, l’assenza di terrore, l’armonia prestabilita tra bisogni individuali e desideri, scopi ed aspirazioni socialmente richiesti. La conquista tecnologica e politica dei fattori trascendenti nell’esistenza umana, così caratteristica della civiltà industriale avanzata, si afferma nella sfera degli istinti, offrendo soddisfazioni tali da indurre alla sottomissione e indebolire la razionalità della protesta.

La gamma delle soddisfazioni socialmente permesse e desiderabili è stata molto ampliata, ma per loro tramite il principio del piacere viene ridotto, privato delle istanze irreconciliabili con la società stabilita. Grazie a questo processo di adattamento, il piacere genera la sottomissione.

In contrasto con i piaceri della desublimazione ben adattata, la sublimazione conserva la coscienza delle rinunce cui la società repressiva costringe l’individuo, e per tal via conserva il bisogno di liberazione. È vero che ogni sublimazione è imposta dal potere della società, ma la coscienza infelice di questo potere già trapela attraverso l’alienazione. È vero che ogni sublimazione accetta le barriere sociali poste alla gratificazione degli istinti, ma al tempo stesso trascende codeste barriere.

Censurando l’inconscio e ponendo le radici della coscienza, il Superego censura anche il censore, in quanto la coscienza sviluppata registra l’atto proibito non solo nell’individuo ma pure nella sua società. Al contrario, la perdita di coscienza dovuta alle libertà di gratificazione concesse da una società non libera dà origine ad una coscienza felice che facilita l’accettazione dei misfatti di questa società. È un indice del declino dell’autonomia e della comprensione. La sublimazione richiede un alto grado di autonomia e di comprensione, essendo una mediazione tra il conscio e l’inconscio, tra processi primari e processi secondari, tra l’intelletto e l’istinto, tra la rinuncia e la ribellione. Nelle sue forme più compiute come nell’opera artistica, la sublimazione diventa il potere cognitivo che sconfigge le forze repressive nel mentre cede ad esse.

Alla luce della funzione cognitiva di questa forma di sublimazione, la desublimazione che si sparge con tanta rapidità nella società industriale avanzata rivela la sua funzione veramente conformista. Codesta liberazione di sessualità (e di aggressività) libera gli impulsi istintuali da gran parte dell’infelicità e dello scontento che riflettono il potere repressivo dell’universo di soddisfazioni stabilito. Esiste certo una diffusa infelicità; e la coscienza felice e piuttosto precaria, crosta sottile che copre paura, frustrazione e disgusto. Tale infelicità si presta facilmente ad essere mobilitata per fini politici; senza spazio per uno sviluppo consapevole, essa può divenire una riserva d’energia istintuale disponibile per la rinascita di un modo di vivere e di morire di tipo fascista. Vi sono però molti modi in cui l’infelicità sottesa alla coscienza felice può venir trasformata in fonte di forza e di coesione per l’ordine sociale. I conflitti dell’individuo infelice sembrano ora assai più suscettibili di cura di quanto non fossero quelli che produssero il «malcontento della civiltà» di cui parla Freud, e sembra si possa definirli in modo più adeguato nei termini della «personalità nevrotica del nostro tempo» anziché nei termini dell’eterna lotta tra Eros e Thanatos.

 

Il modo in cui una desublimazione controllata può indebolire la rivolta degli istinti contro il principio di realtà stabilito viene in luce nel contrasto tra la rappresentazione della sessualità nella letteratura classica e romantica e nella letteratura contemporanea. Se si scelgono, tra le opere che appaiono determinate nella sostanza come nella forma interna da un intento erotico, esempi essenzialmente diversi come la Phèdre di Racine, Le affinità elettive di Goethe, Les fleurs du mal di Baudelaire, Anna Karénina di Tolstoj, si vedrà come la sessualità compaia regolarmente in forma altamente sublimata, «mediata», riflessiva – ma in tale forma essa è assoluta, aliena da ogni compromesso, incondizionata. Sin dall’inizio il dominio di Eros è anche quello di Thanatos. La consumazione implica la distruzione, non in senso morale o sociologico ma in senso ontologico. Essa è di là dal bene e dal male, di là dalla morale sociale, e in tal modo rimane fuori della portata del principio in realtà stabilito, che questo Eros rifiuta e fa saltare.

Per contrasto, la sessualità desublimata imperversa tra gli alcolizzati di O’Neill ed i primitivi di Faulkner, in Un tram che si chiama desiderio come in La gatta sul tetto che scotta, in Lolita, in tutte le storie di orge hollywoodiane e newyorkesi come nelle avventure di massaie suburbane. Qui è infinitamente più realistica, audace, priva di inibizioni. Fa parte integrante della società in cui queste cose succedono, ma non è mai la sua negazione. Quel che succede è certo folle ed osceno, virile e piccante, affatto immorale – e appunto per questo è perfettamente innocuo.

Liberata dalla forma sublimata che era il vero contrassegno dei suoi sogni irreconciliabili – una forma che è lo stile, il linguaggio in cui la storia è raccontata – la sessualità si tramuta in un veicolo per i bestsellers dell’oppressione. Di nessuna donna sessualmente attraente che compare nella letteratura contemporanea si potrebbe dire quel che Balzac dice di Ester, la prostituta: la sua tenerezza fiorisce soltanto nell’infinito. Questa società cambia tutto ciò che tocca in una fonte potenziale di progresso e di sfruttamento, di fatica miserabile e di soddisfazione, di libertà e di oppressione. La sessualità non fa eccezione.

 

Il concetto di desublimazione controllata implica la possibilità di uno scarico simultaneo di sessualità repressa e di aggressività; possibilità che pare incompatibile con la nozione freudiana di un quanto fisso di energia istintiva disponibile per essere distribuito tra i due impulsi primari. Secondo Freud, un rafforzamento della sessualità (libido) comporterebbe necessariamente un indebolirsi dell’aggressività, e viceversa. Tuttavia, se lo scarico socialmente permesso ed incoraggiato della libido coinvolge soprattutto forme di sessualità parziale e localizzata, ciò equivale di fatto a comprimere l’energia erotica, e tale desublimazione sarebbe affatto compatibile con lo sviluppo di forme di aggressività sia non sublimate sia sublimate. Queste ultime predominano in tutta la società industriale contemporanea.

È possibile che la cosa appaia così normale perché gli individui si vanno ormai abituando al rischio di venir dissolti e disintegrati nel corso delle normali attività per tener pronta la difesa nazionale? O non può essere che tale acquiescenza sia interamente dovuta al loro senso di impotenza? In ogni caso il rischio di una distruzione evitabile, prodotta dall’uomo, è diventato un elemento normale nell’organizzazione mentale come in quella materiale degli uomini, di modo che non può più servire per porre sotto accusa o confutare il sistema sociale stabilito. Inoltre, come parte della loro organizzazione domestica quotidiana, esso può addirittura servire per legarli al sistema. Le connessioni economiche e politiche tra il nemico assoluto e l’alto tenore di vita (ed il livello di occupazione desiderato) sono abbastanza trasparenti, ma anche abbastanza razionali da essere bene accette.

Supponendo che l’istinto di distruzione (in ultima analisi: l’istinto di morte) sia una componente importante dell’energia che alimenta la conquista tecnica dell’uomo e della natura, sembra che la crescente capacità della società di manipolare il progresso tecnico accresca pure la sua capacità di manipolare e controllare l’istinto in questione, ossia di soddisfarlo «produttivamente». Se così fosse la coesione sociale giungerebbe a coinvolgere le più profonde radici dell’istinto. Il rischio supremo e persino il fatto della guerra incontrerebbero non soltanto una accettazione impotente, ma anche un’approvazione istintiva da parte delle vittime. Anche qui si avrebbe una desublimazione controllata.

La desublimazione istituzionalizzata si presenta in tal modo come un aspetto della «conquista della trascendenza» attuata dalla società unidimensionale. Così come tende a ridurre, anzi ad assorbire l’opposizione (la differenza qualitativa!) nel regno della politica e dell’alta cultura, questa società tende allo stesso scopo nella sfera degli istinti. Il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative, e nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica, la coscienza felice giunge a prevalere.

Essa riflette la credenza che il reale è razionale, e che il sistema stabilito, nonostante tutto, mantiene le promesse. Gli individui son portati a scorgere nell’apparato produttivo l’agente effettivo del pensiero e dell’azione, a cui pensiero ed azione del singolo possono e debbono cedere il passo. Nel cambio, l’apparato assume pure il ruolo di un agente morale. La coscienza è assolta dalla reificazione, dalla generale necessità delle cose.

In questa necessità generale, non c’è posto per la colpa. Un uomo è capace di dare il segnale che annienta centinaia di migliaia di persone, poi di dichiarare di essere immune da ogni pena di coscienza, e di vivere dopo d’allora felice e contento. Le potenze antifasciste che sconfissero il fascismo sui campi di battaglia mietono i benefici degli scienziati, dei generali, degli ingegneri nazisti: hanno il vantaggio storico degli ultimi venuti. Quel che comincia come l’orrore dei campi di concentramento si trasforma nella pratica di addestrare le persone a vivere in condizioni anormali, a condurre un’esistenza umana sottoterra ed a sorbire la dose quotidiana di alimento radioattivo. Un pastore cristiano dichiara che non si contravviene ai principi cristiani se si impedisce al proprio vicino, con tutti i mezzi disponibili, di entrare nel nostro rifugio antibomba. Un altro pastore cristiano contraddice il collega ed afferma che è vero il contrario. Chi ha ragione? Anche qui la neutralità della razionalità tecnologica fa mostra di essere al di sopra della politica, e ancora una volta tradisce la propria falsità, perché in un caso come nell’altro essa serve la politica del dominio:

 

Il mondo dei campi di concentramento… non era una società eccezionalmente mostruosa. Ciò che vedevamo in esso era l’immagine, ed in un certo senso la quintessenza della società infernale in cui siamo gettati ogni giorno70.

 

Sembra che anche le violazioni più ripugnanti possano venire represse in modo tale che, a tutti i fini pratici, esse han cessato di essere un pericolo per la società; e quando esplodono, dando luogo a disturbi funzionali nell’individuo (come nel caso di uno dei piloti di Hiroshima), ciò non disturba il funzionamento della società. Una clinica per malattie mentali pone rimedio al disturbo.

La Coscienza Felice non ha limiti, capace com’è di combinare giochi con morte e trasfigurazione, in cui divertimento, lavoro di squadra ed importanza strategica si uniscono nel compensare l’armonia sociale. La Rand Corporation, che combina cultura accademica, ricerca, elementi militari, un buon clima e la buona vita, parla di tali giochi in uno stile amabilmente disinvolto, nel bollettino «RANDom News», volume IX, numero i, sotto il titolo Meglio sicuri che spiacenti. I razzi rombano, la bomba H attende, i voli spaziali procedono, ed il problema sta nel «come proteggere la nazione ed il mondo libero». In questa situazione gli esperti militari sono preoccupati, poiché «il costo di correr rischi, di far esperimenti e compiere un errore, può essere paurosamente alto». Ma qui arriva la RAND; la RAND interviene, e «dispositivi come il SAFE della RAND entrano nel quadro». «Il quadro in cui entrano non è un segreto». È un quadro in cui «il mondo diventa una mappa, i missili meri simboli [viva il potere lenitivo del simbolismo!], e le guerre sono soltanto [soltanto] piani e calcoli scritti sulla carta…» In questo quadro, la RAND ha trasfigurato il mondo m un interessante gioco tecnologico, e noi ci possiamo rilassare, visto che «gli esperti militari possono farsi una preziosa esperienza “sintetica” senza alcun rischio».

 

COME SI SVOLGE IL GIOCO

Per comprendere il gioco bisognerebbe parteciparvi, poiché la comprensione viene dal «fare esperienza».

Dato che i giocatori di SAFE provengono da quasi tutte le branche della RAND come pure dall’Aeronautica, può accadere che la squadra Azzurra comprenda un fisico, un ingegnere ed un economista. La squadra Rossa conterrà un campione dello stesso tipo.

Il primo giorno è preso da una sessione a squadre riunite che vengono informate sugli scopi del gioco ed invitate a studiare le regole. Il gioco comincia quando i giocatori delle due squadre sono tutti seduti attorno alle mappe nelle loro rispettive stanze. Ogni squadra riceve un memorandum dal Direttore di gioco. Questi memoranda, preparati di solito da un membro del Gruppo di controllo, forniscono una stima della situazione mondiale nel momento in cui il gioco si svolge, qualche informazione sulla condotta della squadra avversaria, gli obbiettivi che la squadra deve raggiungere, ed il bilancio di cui questa dispone. (I vari elementi sono cambiati ogni volta che si gioca, in modo da esplorare un’ampia gamma di possibilità strategiche).

Nel nostro gioco ipotetico, l’obbiettivo degli Azzurri sta nel mantenere una capacità deterrente sino alla fine del gioco, ovvero nel mantenere una forza capace di restituire colpo su colpo ai Rossi, in modo che questi non abbiano voglia di rischiare un attacco. (Gli Azzurri ricevono pure qualche informazione intorno alla condotta dei Rossi).

I Rossi si propongono come obbiettivo di raggiungere una superiorità di forze rispetto agli Azzurri.

I bilanci degli Azzurri e dei Rossi sono proporzionali ad autentici bilanci della difesa…

 

È un conforto sapere che il gioco si gioca sin dal 1961 alla RAND, «giù nel labirinto del nostro scantinato, in qualche posto sotto lo Snack Bar», e che «le liste sui muri delle stanze dei Rossi e degli Azzurri elencano le armi disponibili ed altri materiali bellici che le squadre acquistano… Circa settanta voci in tutto». C’è un «Direttore di gioco» che interpreta le regole, poiché ad onta del fatto che «il libro con le regole, completo di diagrammi ed illustrazioni tocchi le 66 pagine», durante il gioco sorgono inevitabilmente dei problemi. Il Direttore di gioco ha anche un’altra importante funzione: «senza informare in precedenza i giocatori», egli «fa scoppiare la guerra per avere una misura dell’efficacia delle forze militari esistenti». Dopo di che, annuncia il sottotitolo, «Caffè, Torta, e Idee». Rilassatevi! Il «gioco continua in periodi successivi, fino al 1972, quando finisce. A questo punto le squadre Azzurra e Rossa mettono da parte i missili e siedono assieme nella sessione “post mortem” a godersi il caffè ed i pasticcini». Ma non rilassatevi troppo: c’è «una situazione del mondo reale che non può essere trasferita efficacemente nel SAFE», e questa è la «negoziazione». Di questo siamo grati: la sola speranza rimasta nella situazione del mondo reale è al di fuori della portata della RAND.

Com’è ovvio, nel regno della Coscienza Felice non c’è posto per sensi di colpa, ed il calcolo s’incarica di tenere a bada la coscienza. Quando il tutto è in pericolo, non esiste più delitto che non sia quello di respingere il tutto, o di non difenderlo. Delitto, colpa e senso di colpa diventano un affare privato. Nella psiche dell’individuo Freud ha messo in luce la sede dei delitti dell’umanità, nella storia individuale la storia del tutto. Questo nesso fatale è stato abilmente soppresso. Coloro che si identificano con il tutto, che sono installati nella posizione di capi e difensori del tutto, possono forse commettere errori, ma non possono aver torto; essi non sono colpevoli. Può darsi che lo diventino nuovamente allorché questa identificazione non reggerà più, allorché se ne saranno andati.

4.
La chiusura dell’universo di discorso

 

 

Nell’attuale periodo storico, qualsiasi scritto politico non può far altro che confermare un universo poliziesco, e così qualsiasi scritto intellettuale non può far altro che costituire una paraletteratura che non osa più dire il proprio nome.

ROLAND BARTHES

 

La Coscienza Felice – la credenza che il reale è razionale e che il sistema mantiene le promesse – riflette il nuovo conformismo che è un lato della razionalità tecnologica tradotta in comportamento sociale. Dico nuovo perché razionale in misura senza precedenti. Esso sostiene una società che ha ridotto, e nelle aree più avanzate eliminato, l’irrazionalità più primitiva degli stadi precedenti, che prolunga e migliora la vita in modo più regolare di quanto avvenisse prima. La guerra d’annientamento non è ancora cominciata; i campi di sterminio nazisti sono stati aboliti. La Coscienza Felice respinge la connessione. La tortura è stata nuovamente introdotta come procedura normale, ma in una guerra coloniale che si svolge ai margini del mondo civile; e laggiù viene praticata con la coscienza tranquilla, perché la guerra è la guerra. Questa guerra, inoltre, si svolge ai margini, devasta solamente i paesi «sottosviluppati». Altrimenti regna dovunque la pace.

Il potere sull’uomo che questa società ha acquisito trova giustificazione quotidiana nella sua efficienza e produttività. Assimilando tutto ciò che tocca, assorbendo l’opposizione, prendendosi gioco della contraddizione, essa attesta la propria superiorità culturale. Nello stesso modo la distruzione delle risorse e la proliferazione dello spreco attestano la sua opulenza e «l’alto livello di benessere»; «la comunità se la passa troppo bene per darsi pensiero»71.

 

 

Il linguaggio dell’amministrazione totale.

 

Questa sorta di benessere, la sovrastruttura produttiva che poggia sulla base infelice della società, permea i «mezzi» che mediano il rapporto tra i padroni ed i loro dipendenti. Sono i suoi agenti pubblicitari a dar forma all’universo di comunicazione in cui il comportamento unidimensionale si esprime. Il suo linguaggio attesta l’identificazione e l’unificazione in corso, la promozione sistematica del pensiero e del fare positivo, l’attacco concertato alle idee trascendenti, critiche. Nei modi di parlare che oggi prevalgono si delinea il contrasto tra i modi di pensiero bidimensionali, dialettici, ed il comportamento tecnologico, ovvero gli «abiti di pensiero» sociali.

Nell’espressione di questi abiti di pensiero la tensione tra apparenza e realtà, fatto e fattore, sostanza e attributo tende a scomparire. Gli elementi di autonomia, di scoperta, di dimostrazione e critica recedono dinanzi alla designazione, all’asserzione, all’imitazione. Elementi magici, autoritari e rituali permeano la parlata ed il linguaggio. Il discorso viene privato delle mediazioni che rappresentano stadi diversi del processo di cognizione e di valutazione cognitiva. I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere ed a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, della verità con la verità stabilita, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione.

Queste identificazioni, che ebbero origine come un carattere dell’operazionismo72, riappaiono come caratteri del discorso nel comportamento sociale. Qui la funzionalizzazione del linguaggio serve a respingere gli elementi nonconformisti dalla struttura e dal movimento della parola parlata. Il vocabolario e la sintassi ne sono ugualmente colpiti. La società esprime i propri requisiti in modo diretto nel materiale linguistico, ma non senza opposizione; il linguaggio popolare sferza con ironia maliziosa e spavalda il discorso ufficiale e semiufficiale. Di rado il gergo e la parlata colloquiale sono stati altrettanto creativi. È come se l’uomo comune (o un suo anonimo portavoce) volesse affermare nel modo di parlare la propria umanità contro i poteri in atto, come se il rifiuto e la rivolta, ormai spenti nella sfera politica, esplodessero nel vocabolario che chiama le cose col loro nome: «riempicranio» e «testa d’uovo», «teletrappola», «pensatoio», «battersela» e «smammare».

Tuttavia, i laboratori che lavorano per la difesa e gli uffici dell’esecutivo, i governi e le macchine, i cronometristi ed i dirigenti, gli esperti di razionalizzazione del lavoro ed i saloni di bellezza politici (che forniscono ai leaders il trucco appropriato) parlano un linguaggio differente, e, almeno per ora, essi sembrano avere l’ultima parola. È la parola che ordina ed organizza, che induce le persone a fare, a comprare, e ad accettare. Viene trasmessa in uno stile che è una vera creazione linguistica; una sintassi in cui la struttura della proposizione è abbreviata, condensata in tal modo che non rimane alcuna tensione, alcuno «spazio» tra le parti della proposizione. Questa forma linguistica si oppone ad ogni sviluppo del significato. Cercherò ora di illustrare lo stile in parola.

Il tratto distintivo dell’operazionismo – rendere il concetto sinonimo dell’insieme corrispondente di operazioni73 – ricorre nella tendenza del linguaggio «a considerare i nomi di cose come se indicassero al tempo stesso il loro modo di operare, ed i nomi di proprietà ed i processi come simboli dell’apparato usato per rilevarli o produrli»74. È il ragionamento tecnologico, che tende «ad identificare le cose con la loro funzione»75.

Come abito di pensiero al di fuori del linguaggio scientifico e tecnico, questo modo di ragionare forma l’espressione di una dottrina specifica del comportamento sociale e politico. In questo universo di comportamento parola e concetto tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola. Il primo non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità (reazione). La parola diventa cliché, e, come cliché, governa la parlata o la scrittura; la comunicazione preclude per tal via uno sviluppo genuino del significato.

È vero che ogni linguaggio contiene innumerevoli termini il cui significato non è necessario sviluppare; tali sono i termini che designano gli oggetti ed i mezzi della vita quotidiana, della natura visibile, dei bisogni e desideri vitali. Questi termini sono compresi da tutti, cosicché non appena appaiono essi producono una risposta (linguistica od operativa) adeguata al contesto pragmatico in cui sono pronunciati.

La situazione è ben diversa rispetto ai termini che denotano cose od eventi che non rientrano in questo contesto non controverso. In tal caso la funzionalizzazione del linguaggio esprime una riduzione di significato che ha una connotazione politica. I nomi di cose non indicano soltanto «il loro modo di operare», ma anzi il loro (presente) modo di operare definisce e «chiude» il significato della cosa, escludendo altri modi di operare. Il nome governa la proposizione in maniera autoritaria e totalitaria, e la proposizione diventa una dichiarazione che va accettata in quanto respinge la dimostrazione, qualificazione, negazione del suo significato codificato e dichiarato.

Nei punti nodali dell’universo di discorso pubblico, compaiono proposizioni analitiche autovalidantisi, che funzionano come formule magico-rituali. Ficcate con un martellamento continuo nella mente dell’ascoltatore, esse pervengono a chiuderla nel cerchio delle condizioni prescritte dalla formula.

Ho già fatto riferimento alla ipotesi autovalidantesi come forma proposizionale nell’universo di discorso politico76. Nomi come «libertà», «uguaglianza», «democrazia» e «pace» implicano, da un punto di vista analitico, un assieme specifico di attributi che sono invariabilmente richiamati quando il nome è pronunciato o scritto. In Occidente il predicato analitico accompagna termini come libera iniziativa, impresa, elezioni, individuo; in Oriente, termini come operai e contadini, costruire il comunismo e il socialismo, abolire le classi sociali in conflitto. Da ambo le parti, portare il discorso al di là della chiusa struttura analitica è considerata cosa scorretta o propaganda, benché i mezzi per inculcare la verità ed il grado di punizione differiscano molto. In questo universo di discorso pubblico, il linguaggio procede per sinonimi e tautologie; di fatto esso non procede mai in direzione di una differenza qualitativa. La struttura analitica isola il sostantivo dominante da quei contenuti che potrebbero invalidare o quantomeno disturbare l’uso accettato del sostantivo stesso nei programmi politici e nell’opinione pubblica. Il concetto ritualizzato è reso immune alla contraddizione.

Così il fatto che il modo prevalente di essere liberi è la servitù, e che il modo prevalente di essere uguali è una disuguaglianza imposta dall’alto, non può trovare espressione a causa della rigida definizione di tali concetti nei termini dei poteri che plasmano il relativo universo di discorso. Il risultato è il familiare linguaggio orwelliano («la pace è guerra» e «la guerra è pace», ecc.), che non è certo un tratto esclusivo del totalitarismo terroristico. Né esso è meno orwelliano allorché la contraddizione non è esplicita nella proposizione ma è racchiusa nel nome. Che un partito politico il quale opera per la difesa e lo sviluppo del capitalismo si chiami «socialista», ed un governo dispotico «democratico», ed una elezione truccata «libera» sono fenomeni linguistici e politici familiari, che precedono di molto Orwell.

Relativamente nuova è l’accettazione generale di queste menzogne da parte dell’opinione pubblica e privata, la soppressione del loro mostruoso contenuto. La diffusione e l’efficacia di questo linguaggio testimoniano del trionfo della società sulle contraddizioni che albergano in essa; le contraddizioni sono riprodotte senza far saltare il sistema sociale. Ed è la contraddizione dichiarata, clamorosa, che viene usata come strumento di discorso e di pubblicità. La sintassi dell’abbreviazione riduttiva proclama la conciliazione degli opposti saldandoli insieme in una struttura solida e familiare. Tenterò in seguito di mostrare come la «bomba pulita» ed il «fall-out innocuo» siano soltanto creazioni estreme di uno stile normale. Considerata un tempo l’offesa principale contro la logica, la contraddizione appare ora come un principio della logica della manipolazione – caricatura realistica della dialettica. È la logica di una società che può permettersi di far a meno della logica e di giocare con la distruzione, una società in grado di dominare con mezzi tecnologici la mente e la materia.

L’universo di discorso in cui gli opposti sono conciliati possiede una solida base per compiere tale unificazione nella sua benefica capacità distruttiva. La riduzione d’ogni cosa a fatto commerciale unisce sfere di vita un tempo antagonistiche, e l’unione si esprime nella fluente congiunzione linguistica di parti del discorso in conflitto tra di loro. Ad una mente non ancora condizionata a sufficienza, molto di quanto si stampa e si dice in pubblico sembra del tutto surrealistico. Titoli come I lavoratori desiderano armonia tra i missili77e annunci pubblicitari come Rifugio di lusso contro la caduta di residui radioattivi78 possono ancor evocare una reazione ingenua, per cui si avverte che «Lavoratori», «Missili», e «Armonia» sono contraddizioni inconciliabili, e che nessuna logica e nessun linguaggio dovrebbero essere capaci di unire correttamente lusso e caduta di residui radioattivi. Tuttavia, la logica ed il linguaggio diventano perfettamente razionali quando apprendiamo che un «sommergibile nucleare attrezzato per lanciare missili balistici» «reca scritto sul cartellino 120 milioni di dollari» e che «tappeti, scaletta e TV» sono compresi nel prezzo se si sceglie il modello di rifugio da 1000 dollari. La convalida non sta principalmente nel fatto che questo linguaggio promuove le vendite (sembra che l’industria dei rifugi antiatomici non rendesse molto) ma piuttosto nel fatto di promuovere l’immediata identificazione dell’interesse particolare con quello generale, del Mondo degli Affari con la Potenza Nazionale, della prosperità con il potenziale disponibile per l’annientamento. È soltanto un lapsus della verità se un locale annuncia: «Rappresentazione speciale per la vigilia delle elezioni: la Danza della Morte di Strindberg»79. L’annuncio rivela la connessione informa meno ideologica di quanto non si ammetta di solito.

 

L’unificazione degli opposti che caratterizza lo stile commerciale e politico è uno dei molti modi in cui il discorso e la comunicazione si rendono immuni all’espressione della protesta e del rifiuto. Come possono protesta e rifiuto trovare la parola giusta quando gli organi dell’ordine costituito ammettono, dando pubblicità alla cosa, che la pace consiste realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra, che le armi definitive hanno un prezzo foriero di profitti e che il rifugio antiatomico può avere una sua aria domestica? Nell’esibire le proprie contraddizioni come contrassegno della sua verità, questo universo di discorso si chiude in sé escludendo ogni altro discorso che non si svolga nei suoi termini. E, grazie alla capacità di assimilare tutti gli altri termini ai propri, esso promette di combinare la maggiore tolleranza possibile con la maggior unità possibile. Il suo linguaggio sta non di meno a provare il carattere repressivo di questa unità. Tale linguaggio si articola in costruzioni che impongono all’ascoltatore un significato obliquo ed abbreviato, che bloccano lo sviluppo del contenuto, che spingono ad accettare ciò che viene offerto nella forma in cui è offerto.

Il predicato analitico è una costruzione repressiva di questo tipo. Il fatto che un nome specifico sia quasi sempre accoppiato con i medesimi aggettivi ed attributi «esplicativi» trasforma la proposizione in una formula ipnotica la quale, ripetuta senza fine, fissa il significato nella mente del destinatario. Egli non pensa ad altre spiegazioni del nome, essenzialmente differenti (e magari vere). Più avanti esamineremo altre costruzioni in cui si rivela il carattere autoritario di questo linguaggio. Esse hanno in comune una compressione telescopica ed un accorciamento della sintassi che taglia lo sviluppo del significato, creando immagini fisse che si impongono con concretezza sopraffattoria e pietrificata. È la tecnica ben nota dell’industria della pubblicità, che la usa metodicamente per «stabilire un’immagine» che aderisca alla mente ed al prodotto, ed aiuti a vendere gli uomini ed i beni. I testi parlati e scritti sono raggruppati attorno alle «righe d’impatto» ed agli «stimoli d’attenzione» che trasmettono l’immagine. L’immagine può essere la «libertà» o la «pace» o il «brav’uomo» o il «comunista» o «Miss Rheingold». Dal lettore o ascoltatore ci si attende che associ ad esse (come fa) una struttura fissa di istituzioni, atteggiamenti, aspirazioni, e che reagisca in modo fisso, specifico.

Al di fuori della sfera relativamente innocua della promozione commerciale, le conseguenze sono piuttosto serie, perché un linguaggio del genere è insieme «intimidazione e glorificazione»80. Le proposizioni prendono forma di comandi suggestivi – sono evocative piuttosto che dimostrative. Il predicato diventa una prescrizione; l’insieme della comunicazione ha un carattere ipnotico. Al tempo stesso è carico di falsa familiarità, risultato della continua ripetizione e del tono diretto e popolare che viene abilmente impartito alla comunicazione. Questa stabilisce una relazione immediata col destinatario, senza distanze di status, di educazione, di ufficio, e lo colpisce nell’atmosfera casalinga del soggiorno, della cucina e della camera da letto.

La stessa familiarità viene stabilita per mezzo del linguaggio personalizzato, che svolge un ruolo considerevole nelle tecniche avanzate di comunicazione81. Si tratta sempre del «vostro» deputato, della «vostra» strada, del «vostro» negozio favorito, del «vostro» giornale; ogni cosa viene portata «a voi», «voi» siete l’invitato, ecc. In questa maniera cose e funzioni affatto generali, prodotte in serie ed imposte al pubblico, sono presentate come se fossero create «specialmente per voi». Fa poca differenza che gli individui così interpellati ci credano o no; il successo di questa tecnica indica che essa promuove l’identificazione degli individui con le funzioni che essi e gli altri svolgono.

Nei settori più avanzati della comunicazione funzionale, manipolata, il linguaggio impone per mezzo di costruzioni veramente sorprendenti l’identificazione autoritaria di persone e funzioni. Un periodico come «Time» può servire quale esempio estremo di questa tendenza. Il modo in cui usa il genitivo possessivo fa sì che gli individui appaiano come mere appendici o proprietà del posto in cui vivono, del lavoro che svolgono, del loro datore di lavoro, o dell’impresa. Essi sono presentati come Byrd della Virginia, Blough della U. S. Steel, Nasser dell’Egitto. L’uso, nella costruzione, di attributi non sostenuti da verbi crea una sindrome fissa:

 

Il governatore della Georgia, forte di mano ma debole d’intelletto… aveva predisposto la scena, la settimana scorsa, per tenere uno dei suoi tumultuosi raduni politici.

 

Il governatore82, la sua funzione, le sue fattezze fisiche, e la sua condotta politica sono fusi insieme in una sola struttura indivisibile ed immutabile che sopraffà la mente del lettore con la sua naturale innocenza e immediatezza. La struttura non lascia posto per distinguere, sviluppare, differenziare i significati: esiste soltanto come un tutto. Dominato da tali immagini personalizzate ed ipnotiche, l’articolo può quindi procedere a fornire informazioni magari essenziali. Il testo rimane ben protetto entro la cornice, curata abilmente dai redattori, d’una storia di maggiore o minore interesse umano, secondo quanto prescrivono le direttive dell’editore.

L’uso di predicati sintetici, privi di verbi, è diffuso. Vedi ad esempio Teller «dalle sopracciglia cespugliose», il «padre della bomba H», «von Braun il missilista dalle spalle di toro», il «pranzo scientifico-militare»83 e il «sommergibile nucleare, lancia-missili-balistici». Tali costruzioni s’incontrano con particolare frequenza, forse non per accidente, nelle frasi che uniscono tecnologia, politica e sfera militare. Termini che designano sfere o qualità del tutto differenti sono colati a forza insieme in una forma rigida e sopraffattoria.

Anche qui si ha un effetto magico ed ipnotico; la proiezione di immagini che trasmettono un senso di unità irresistibile, di armonia delle contraddizioni. Così il Padre, l’essere amato e temuto, colui che semina la vita, genera la bomba H per annientare la vita; le iniziative «scientifico-militari» uniscono gli sforzi per ridurre l’ansia e la sofferenza con il compito di creare ansia e sofferenza. Ma a parte i predicati sintetici, ecco l’Accademia della Libertà per specialisti della guerra fredda84, e la «bomba pulita», che attribuisce alla distruzione una integrità morale e fisica. Le persone che parlano ed accettano un tale linguaggio sembrano immuni a tutto – e suscettibili di tutto. I predicati sintetici non sempre conciliano l’inconciliabile; spesso la combinazione è gentile, come nel caso del «missilista dalle spalle di toro», mentre altre volte trasmette un senso di minaccia, o di dinamica in atto. Ma l’effetto resta il medesimo. La struttura così imposta unisce attori e atti di violenza, di potenza, di protezione e di propaganda in un lampo fotografico. L’uomo o la cosa sono colti in movimento e soltanto in movimento – non può essere altrimenti.

 

Nota sulle abbreviazioni, NATO, SEATO, ONU, AFL-CIO, AEC, ma anche USSR, DDR, ecc. La maggior parte di codeste abbreviazioni sono perfettamente ragionevoli e appaiono giustificate dalla lunghezza dei termini non abbreviati. Ci si potrebbe tuttavia avventurare a scorgere in alcune di esse un’«astuzia della ragione»: l’abbreviazione può servire ad eliminare domande non gradite. Una sigla come NATO non dice quel che dice North Atlantic Treaty Organization, menzionando un trattato tra le nazioni che si affacciano sull’Atlantico del Nord, nel qual caso uno potrebbe chiedere perché ne siano membri la Grecia e la Turchia, USSR abbrevia Socialismo e Soviet; DDR mette in ombra l’aggettivo democratico, ONU evita di por l’accento su «unite»; SEATO evita di far pensare ai paesi del Sud-est asiatico che non vi appartengono, AFL-CIO sotterra le radicali differenze politiche che un tempo separavano le due organizzazioni, e AEC è solo un ente amministrativo tra tanti altri. Le abbreviazioni denotano solo e soltanto ciò che è istituzionalizzato in modo tale da tagliar fuori ogni connotazione trascendente. Il significato è rigido, manipolato, caricato ad arte. Una volta diventato un vocabolo ufficiale, continuamente ripetuto nell’uso comune, «sanzionato» dagli intellettuali, esso ha perso ogni valore cognitivo e serve solamente per richiamare un fatto fuori di discussione.

 

Questo stile possiede una concretezza sopraffattoria. La «cosa identificata con la funzione» è più reale che non la cosa distinta dalla funzione, e l’espressione linguistica di tale identificazione (nel sostantivo funzionale, e nelle molte forme di abbreviazione sintattica) crea un vocabolario ed una sintassi di base che sbarrano la strada ad ogni tentativo di differenziare, separare e distinguere. Codesto linguaggio, che impone senza tregua delle immagini, milita contro lo sviluppo e l’espressione di concetti. Immediato e diretto com’è, esso è d’intralcio al pensiero concettuale, ed in tal modo impedisce di pensare. Il concetto, infatti, non identifica la cosa e la funzione. Tale identificazione può ben essere il significato legittimo e forse anche il solo significato del concetto operativo e tecnologico, ma le definizioni operative e tecnologiche costituiscono usi specifici di concetti per fini specifici. Inoltre esse dissolvono i concetti in operazioni ed escludono l’intento concettuale che si oppone a tale dissoluzione. Prima di venir usato in senso operativo, il concetto nega l’identificazione della cosa con la sua funzione; esso distingue ciò che la cosa è dalle funzioni contingenti della cosa nella realtà stabilita.

Le tendenze oggi prevalenti nel linguaggio, che respingono le predette distinzioni, esprimono i mutamenti nel modo di pensare discussi nei capitoli precedenti; il linguaggio funzionalizzato, abbreviato e unificato è il linguaggio del pensiero unidimensionale. Al fine di illustrare come questo sia nuovo, voglio porlo brevemente a confronto con una filosofia classica della grammatica, che trascende l’universo del comportamento e collega le categorie linguistiche alle categorie ontologiche.

Secondo questa filosofia, il soggetto grammaticale di una proposizione è anzitutto una «sostanza» e rimane tale, quali che siano gli stati, le funzioni e le qualità che la proposizione predica del soggetto. Esso è collegato in modo attivo o passivo ai suoi predicati ma rimane diverso da essi. Se non è un nome proprio, il soggetto è più che un nome: esso nomina il concetto di una cosa, un universale che la proposizione definisce essere in un particolare stato o funzione. Il soggetto grammaticale regge quindi un significato che eccede quello espresso nella proposizione.

Nelle parole di Wilhelm von Humboldt: il nome come soggetto grammaticale denota qualcosa «capace di entrare in certe relazioni»85 ma non si identifica con le relazioni stesse. Inoltre rimane ciò che è sia nel contesto di tali relazioni sia in opposizione ad esse, in quanto è il loro nucleo «universale» e sostantivo. La sintesi operata dalla proposizione collega l’azione (o stato) con il soggetto in modo tale che questo viene designato come l’attore (o il vettore) e viene così distinto dallo stato in cui eventualmente si trova o dalla funzione che gli capita di svolgere. Nel dire «la folgore colpisce» uno «non pensa semplicemente al momento della folgorazione, ma alla folgore come cosa che colpisce», pensa ad un soggetto che è «passato all’azione». E se una proposizione dà la definizione del soggetto, così facendo non dissolve il soggetto nei suoi stati e funzioni, ma lo definisce come cosa che si trova in questo stato o esercita tale funzione. Il soggetto non scompare nei suoi predicati, ma neppure esiste come ente a sé prima e al di fuori dei predicati; esso si costituisce tramite i predicati, risultato di un processo di mediazione che si esprime nella proposizione.86

 

Ho alluso alla filosofia della grammatica al fine di illuminare sino a qual punto le abbreviazioni linguistiche indicano una abbreviazione del pensiero che alla lor volta esse sorreggono e promuovono. L’insistere sugli elementi filosofici della grammatica, sul nesso tra il «soggetto» grammaticale, quello logico e quello ontologico, mette in luce i contenuti che il linguaggio funzionale sopprime, bloccando loro la via dell’espressione e della comunicazione. L’abbreviazione del concetto in immagini fisse; l’arresto dello sviluppo in formule autovalidantisi di carattere ipnotico; l’immunità nei confronti della contraddizione; l’identificazione della cosa (e della persona) con la sua funzione – queste tendenze rivelano la mente unidimensionale nel linguaggio che parla.

Bloccando lo sviluppo del concetto, militando contro l’astrazione e la mediazione, arrendendosi ai fatti immediati, il comportamento linguistico respinge il riconoscimento dei fattori che operano dietro i fatti ed in tal modo rifiuta di riconoscere i fatti ed il loro contenuto storico. Nella e per la società, questa organizzazione del discorso funzionale ha importanza vitale, servendo come veicolo di coordinamento e di subordinazione. Il linguaggio unificato, funzionale, è un linguaggio irrimediabilmente anticritico e antidialettico. In esso la razionalità tradotta in norme operative e di comportamento assorbe gli elementi trascendenti e negativi della Ragione, e l’opposizione che essi rappresentano.

Più avanti discuterò87 questi elementi nei termini della tensione tra «è» e «dovrebbe», tra essenza ed apparenza, tra potenza e atto – l’ingresso del negativo nelle determinazioni positive della logica. Questa tensione sostenuta permea l’universo di discorso a due dimensioni che è l’universo proprio del pensiero critico, astratto. Le due dimensioni sono tra loro antagonistiche; la realtà partecipa di ambedue, ed i concetti dialettici sviluppano le contraddizioni reali. Nel corso del suo sviluppo, il pensiero dialettico giunse ad afferrare il carattere storico di tali contraddizioni ed a riconoscere nel processo onde esse si mediano un processo storico. In tal modo l’«altra» dimensione del pensiero si presentava come dimensione storica – la potenzialità come possibilità storica, la sua realizzazione come evento storico.

Sopprimere codesta dimensione Nell’universo sociale della razionalità operativa significa sopprimere la storia, e questa non è una questione accademica ma bensì politica. Significa sopprimere il passato stesso della società ed il suo futuro, nella misura in cui il futuro invoca il mutamento qualitativo, la negazione del presente. Un universo di discorso in cui le categorie della libertà sono divenute intercambiabili con i loro opposti, e anzi si identificano con questi, non solo pratica il linguaggio di Orwell o di Esopo, ma respinge e dimentica la realtà storica: l’orrore del fascismo, l’idea di socialismo, le condizioni che fondano la democrazia, il contenuto della libertà. Se una dittatura burocratica governa e definisce la società comunista, se regimi fascisti sono ammessi come membri del Mondo Libero, se l’economia del benessere del capitalismo illuminato è liquidata col definirla «socialismo», se i fondamenti della democrazia sono armoniosamente aboliti nella democrazia, allora i vecchi concetti storici sono invalidati da nuove definizioni operative debitamente aggiornate. Le nuove definizioni sono falsificazioni che, imposte dalle potenze in atto e dai poteri di fatto, servono a trasformare la falsità in verità.

Il linguaggio funzionale è un linguaggio radicalmente antistorico: la razionalità operativa non sa che farsene della ragione storica88. Non può essere che questa lotta contro la storia sia parte della lotta contro la dimensione della mente in cui potrebbero svilupparsi facoltà e forze centrifughe, tali da intralciare l’integrazione totale dell’individuo nella società? Ricordare il passato può dare origine ad intuizioni pericolose, e la società stabilita sembra temere i contenuti sovversivi della memoria, Ricordare è un modo di dissociarsi dai fatti come sono, un modo di «mediazione» che spezza per brevi momenti il potere onnipresente dei fatti dati. La memoria richiama il terrore e la speranza dei tempi passati. Entrambi tornano in vita, ma nella realtà il primo ricorre in forme sempre nuove mentre la seconda rimane speranza. E negli eventi personali che ricompaiono nella memoria dell’individuo si affermano le paure e le aspirazioni dell’umanità – l’universale nel particolare. Quel che la memoria conserva è storia. È questa che soccombe al potere totalitario dell’universo del comportamentismo.

 

Lo spettro di un’umanità senza memoria… non è un mero prodotto della decadenza… bensì è connesso necessariamente con il principio del progresso nella società borghese… Economisti e sociologi come Werner Sombart e Max Weber hanno posto in relazione il principio della tradizione con la società feudale, ed il principio della razionalità con la società borghese. Ma ciò non significa altro se non che il ricordo, il tempo, la memoria vengono liquidati dalla società borghese in sviluppo come una sorta di residuo irrazionale89.

 

Mentre tende a liquidare come «residuo irrazionale» gli incomodi elementi del Tempo e della Memoria, la progressiva razionalità della società industriale avanzata tende pure a liquidare l’incomoda razionalità contenuta in questo residuo irrazionale. Riconoscere il passato come presente, mettersi in rapporto con esso, contrasta la funzionalizzazione del pensiero da parte della realtà stabilita ed entro di questa. Significa militare contro la chiusura dell’universo di discorso e di comportamento; significa rendere possibile lo sviluppo di concetti che scuotono la stabilità dell’universo chiuso e lo trascendono per il fatto di concepirlo come universo storico. Posto dinanzi alla società data come oggetto della sua riflessione, il pensiero critico diventa coscienza storica, e come tale esso prende essenzialmente la forma di un giudizio90. Lungi dal richiedere un indifferente relativismo, esso cerca nella storia reale dell’uomo i criteri della verità e della falsità, del progresso e della regressione91. Mediare il passato con il presente porta alla luce i fattori che produssero i fatti, che determinarono il modo di vita, che decisero chi doveva essere padrone e chi servo; proietta i limiti e le alternative. Allorché questa coscienza critica parla, parla «il linguaggio della conoscenza» (Roland Barthes) che sfonda l’universo chiuso del discorso e la sua struttura pietrificata. I termini chiave di questo linguaggio non sono nomi ipnotici che evocano senza fine i medesimi predicati congelati nell’uso. Essi permettono uno sviluppo aperto, e anzi dispiegano il loro contenuto in predicati contraddittori.

Il Manifesto comunista fornisce un esempio classico. In esso ciascuno dei due termini chiave, borghesia e proletariato, «governa» dei predicati contraddittori. La «borghesia» è il soggetto del progresso tecnico, della liberazione, della conquista della natura, della creazione di ricchezza sociale, e della perversione e distruzione di questi risultati. In modo simile, il «proletariato» regge gli attributi dell’oppressione totale e della sconfitta totale dell’oppressione.

Tale relazione dialettica di termini opposti che si attua entro e per mezzo della proposizione è resa possibile dal riconoscimento del soggetto come agente storico la cui identità si costituisce in e contro la sua pratica storica, in contro la sua realtà sociale. Il discorso sviluppa ed esprime il conflitto che esiste tra la cosa e la funzione, ed il conflitto trova espressione linguistica in frasi che uniscono predicati contraddittori in un’unità logica, controparte concettuale della realtà obbiettiva. In contrasto con ogni tipo di linguaggio orwelliano, la contraddizione è dimostrata, resa esplicita, spiegata e denunciata.

Ho illustrato sin qui il contrasto tra i due linguaggi facendo riferimento allo stile della teoria marxiana, ma le qualità critiche, cognitive, non sono caratteristiche esclusive dello stile marxiano. È possibile ritrovarle (benché in modi diversi) nello stile della grande critica conservatrice e liberale del periodo in cui si afferma la società borghese. Per esempio, il linguaggio di Burke e di Tocqueville da un lato, e di John Stuart Mill dall’altro, è un linguaggio altamente dimostrativo, concettuale, «aperto», che ancora non soggiace alle formule ipnotico-rituali del neoconservatorismo e del neoliberalismo dei giorni nostri.

La ritualizzazione autoritaria del discorso, tuttavia, fa maggior impressione quando infesta lo stesso linguaggio dialettico. Le necessità dell’industrializzazione competitiva e l’assoggettamento dell’uomo all’apparato produttivo traspaiono dalla trasformazione autoritaria del linguaggio marxista nel linguaggio stalinista e poststalinista. A seconda di come sono interpretate dai capi che controllano l’apparato, codeste necessità definiscono quel che è giusto e quel che è sbagliato, il vero ed il falso, senza lasciar tempo o posto per una discussione che potrebbe far emergere delle alternative disgregatrici. Questo linguaggio non si presta più per nulla ad un «discorso». Esso enuncia e, in virtù del potere dell’apparato, stabilisce dei fatti; è una serie di enunciati che si convalidano da soli. Basterà qui citare92 e parafrasare il passo in cui Roland Barthes descrive i suoi caratteri magico-autoritari: «non rimane più alcun intervallo tra il nominare ed il giudicare, e la chiusura del linguaggio è completa…»

Il linguaggio chiuso non dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi. Quando definisce, la definizione diventa una «separazione del bene dal male»; stabilisce in modo indiscutibile torti e ragioni, e prende un valore per giustificarne un altro. Procede per tautologie, ma le tautologie sono «sentenze» terribilmente efficaci, in quanto esprimono un giudizio in «forma pregiudicata»; di fatto pronunciano condanne. Ad esempio, il «contenuto obbiettivo»; ossia la definizione di termini come «deviazionista», «revisionista», è quella del codice penale, e questa forma di convalida promuove una coscienza per cui il linguaggio dei poteri in atto è il linguaggio della verità93.

Sfortunatamente, questo non è tutto. Lo sviluppo produttivo della società comunista stabilita condanna pure l’opposizione comunista libertaria; il linguaggio che tenta di richiamare e conservare la verità originaria soccombe alla sua ritualizzazione. Il fatto di orientare il discorso (e l’azione) in base a termini come «il proletariato», «i consigli dei lavoratori», la «dittatura dell’apparato stalinista», diventa un modo di orientarsi in base a formule rituali stando alle quali «il proletariato» non esiste più o non esiste ancora, il controllo diretto «dal basso» interferirebbe con il progredire della produzione di massa, e la lotta contro la burocrazia indebolirebbe l’efficienza della sola forza reale che può essere mobilitata contro il capitalismo su scala internazionale. In questo caso il passato è rigidamente conservato ma non mediato con il presente. Ci si oppone ai concetti che diedero un senso ad una situazione storica, senza svilupparli nella situazione attuale; la loro dialettica viene bloccata.

 

Il linguaggio rituale-autoritario si diffonde per tutto il mondo contemporaneo, nei paesi democratici come in quelli non-democratici, nei paesi capitalistici ed in quelli non-capitalistici94. Secondo Roland Barthes, è questo il linguaggio «proprio di tutti i regimi autoritari», e dove mai si trova oggi una società, nell’orbita della civiltà industriale avanzata, che non sia soggetta ad un regime autoritario? Ora che la sostanza dei vari regimi non si manifesta più in modi di vivere alternativi, essa si adagia in tecniche alternative di manipolazione e di controllo. Il linguaggio non soltanto riflette tali controlli ma diventa pur esso uno strumento di controllo, anche là dove non trasmette ordini ma informazioni, dove non chiede obbedienza ma scelta, non sottomissione ma libertà.

Il controllo viene esercitato da tale linguaggio mediante la riduzione delle forme linguistiche e dei simboli usati per la riflessione, l’astrazione, lo sviluppo, la contraddizione, mediante la sostituzione di immagini a concetti. Esso nega o assorbe il vocabolario trascendente; non cerca ma stabilisce ed impone verità e falsità. Questo tipo di discorso, tuttavia, non ha carattere terroristico. Non sembra lecito assumere che i destinatari credano, o siano por tati a credere, ciò che vien detto loro. La nuova finezza del linguaggio magico-rituale è piuttosto da vedersi ne fatto che le persone non vi credono, o non se ne curano eppure agiscono in conformità ad esso. Uno non «crede» nella proposizione che esprime un concetto operativo, ma essa si giustifica nell’azione, nel portare a termine un lavoro, nel vendere e comprare, nel rifiuto di ascoltare altre opinioni, ecc.

Se il linguaggio della politica tende a diventare quello della pubblicità, colmando in tal modo la lacuna tra due sfere della società un tempo molto differenti, ne segue che tale tendenza sembra esprimere il grado in cui dominio ed amministrazione hanno cessato di essere funzioni separate ed indipendenti nella società tecnologica. Ciò non significa che il potere dei politici di professione sia diminuito; è vero il contrario. Quanto più la sfida che essi montano al fine di potervi far fronte assume carattere globale, quanto più la prossimità della distruzione totale sembra un fatto normale, tanto più essi sono liberi da una effettiva sovranità popolare. Ma il loro dominio è stato incorporato nelle prestazioni quotidiane e nei trattenimenti dei cittadini, ed i «simboli» della politica sono anche quelli degli affari, del commercio e del divertimento.

Le vicissitudini del linguaggio hanno un parallelo nelle vicissitudini del comportamento politico. Nella vendita di apparecchi che permettono di rilassarsi divertendosi nel rifugio antiatomico, nella ripresa televisiva dei candidati in lizza per coprire i ruoli più importanti della nazione, la congiunzione tra politica, affari e divertimento è completa. Ma la congiunzione è fraudolenta e fatalmente prematura, poiché affari e divertimento sono ancora la politica del dominio. Non si tratta ancora della satira dopo la tragedia, non è finis tragoediae – la tragedia può cominciare da un momento all’altro. Ed ancora una volta, vittima del rito non sarà l’eroe ma il popolo.

 

 

La ricerca dell’amministrazione totale.

 

La comunicazione funzionale è soltanto lo strato esterno dell’universo ad una sola dimensione in cui l’uomo è addestrato a dimenticare, a tradurre il negativo nel positivo in modo da poter continuare a funzionare, ridotto nelle sue facoltà ma atto alla bisogna e ragionevolmente efficiente. Le istituzioni della libertà di parola e della libertà di pensiero non intralciano il coordinamento della mente con la realtà stabilita. Ciò che avviene è una ridefinizione totale del pensiero stesso, della sua funzione e contenuto. Il coordinamento dell’individuo con la società giunge fino a quegli strati della mente in cui si elaborano proprio i concetti intesi a comprendere la realtà stabilita. Questi concetti sono presi dalla tradizione intellettuale e tradotti in termini operativi; la traduzione ha l’effetto di ridurre la tensione tra pensiero e realtà indebolendo il potere negativo del pensiero.

Questo è uno sviluppo di natura filosofica, ed al fine di chiarire la misura in cui esso rompe con la tradizione, l’analisi dovrà divenire via via più astratta e ideologica. È la sfera più remota dalla concretezza della società che può mostrare con maggior chiarezza fino a quale punto sia giunta la conquista del pensiero da parte della società. L’analisi, inoltre, dovrà risalire nella storia della tradizione filosofica, per cercare di identificare le tendenze che hanno condotto alla rottura.

Tuttavia, prima di entrare nell’analisi filosofica vorrei discutere brevemente, come transizione verso la sfera più astratta e teorica, due esempi (a mio parere rappresentativi) nel campo intermedio della ricerca empirica, esempi che toccano direttamente certe condizioni caratteristiche della società industriale avanzata. Questioni di linguaggio o di pensiero, di parole o di concetti; analisi linguistica o analisi epistemologica – la materia da discutere non ammette distinzioni accademiche tanto nitide. La separazione dell’analisi puramente linguistica dall’analisi concettuale esprime di per sé la nuova direzione del pensiero che i capitoli seguenti cercheranno di illustrare. Dato che questa critica della ricerca empirica viene intrapresa per preparare la successiva analisi filosofica – ed alla luce di essa – una definizione preliminare dell’uso del termine «concetto» che guida la critica può servire da introduzione.

Il termine «concetto» è preso qui a designare la rappresentazione mentale di qualcosa che è afferrato, compreso, conosciuto come risultato di un processo di riflessione. Questo qualcosa può essere un oggetto della pratica quotidiana, o una situazione, una società, un romanzo. In ogni caso, se sono compresi (begriffen; auf ihren Begriff gebracht), essi sono divenuti oggetti di pensiero, e, come tali, il loro contenuto e significato è identico e tuttavia differente rispetto agli oggetti reali dell’esperienza immediata. «Identico» in quanto il concetto denota la medesima cosa; «differente», in quanto il concetto è il risultato di una riflessione che ha afferrato la cosa nel contesto (e nella luce) di altre cose che non comparivano nell’esperienza immediata e che «spiegano» la cosa (mediazione).

 

Se il concetto non denota mai una particolare cosa concreta, se è sempre astratto e generale, ciò avviene perché esso comprende più ed altro d’una cosa particolare; esso comprende pure qualche condizione o relazione universale che è essenziale nella cosa particolare, determinando la forma in cui questa appare come oggetto concreto di esperienza. Se il concetto di una qualsiasi cosa concreta è il prodotto d’una classificazione, organizzazione ed astrazione mentali, questi processi mentali portano alla comprensione solo nella misura in cui ricostituiscono la cosa particolare nella sua condizione e relazione universale, trascendendo in tal modo la sua apparenza immediata verso la sua realtà.

Per lo stesso motivo, tutti i concetti cognitivi hanno un significato transitivo; essi vanno oltre al riferimento descrittivo a fatti particolari. E se i fatti sono quelli della società, i concetti cognitivi vanno pure al di là di ogni particolare contesto di fatti, sino a toccare i processi e le condizioni su cui poggia la società considerata, e che entrano in tutti i fatti particolari, in quanto fanno, sostengono e distruggono la società. Facendo riferimento a questa totalità storica, i concetti cognitivi trascendono ogni contesto operativo, ma la loro trascendenza ha carattere empirico poiché rende i fatti riconoscibili per ciò che realmente sono.

L’«eccesso» di significato rispetto al concetto operativo illumina la forma limitata ed anzi ingannevole in cui è possibile esperire i fatti; donde la tensione, l’incongruenza, il conflitto tra il concetto ed il fatto immediato (la cosa concreta), tra la parola che si riferisce al concetto e quella che si riferisce alle cose. Donde, ancora, la nozione della «realtà dell’universale» e il carattere acritico ed accomodante di quei modi di pensare che trattano i concetti come congegni della mente e traducono concetti universali in termini con referenti particolari oggettivi.

Dove questi concetti ridotti governano l’analisi della realtà umana, individuale o sociale, mentale o materiale, essi pervengono ad una falsa concretezza, una concretezza isolata dalle condizioni che costituiscono la sua realtà. In tale contesto, l’elaborazione operativa del concetto assume una funzione politica. L’individuo ed il suo comportamento sono analizzati da un punto di vista terapeutico al fine di adattarli alla società. Pensiero ed espressione, teoria e pratica devono esser portati ad aderire ai fatti dell’esistenza, senza lasciare spazio per la critica concettuale di tali fatti.

Il carattere terapeutico del concetto operativo appare con la massima chiarezza dove il pensiero concettuale viene posto metodicamente al servizio di attività volte ad esplorare e migliorare le condizioni sociali esistenti, nel quadro delle istituzioni esistenti; così avviene nella sociologia industriale, nella ricerca motivazionale, nelle ricerche di mercato e negli studi sull’opinione pubblica.

Se la forma data di società è e rimane il quadro di riferimento unico e definitivo per la teoria e per la pratica, non v’è nulla di male in questo tipo di sociologia e di psicologia. È meglio per l’umanità e per la produzione che le relazioni tra i lavoratori e le direzioni aziendali siano buone anziché cattive; che le condizioni di lavoro siano piacevoli anziché sgradevoli, che l’armonia invece del conflitto regni tra i desideri dei clienti ed i bisogni dell’economia e della politica.

Tuttavia la razionalità di questo tipo di scienza sociale appare in una luce diversa se la società data, pur continuando ad essere presa come quadro di riferimento, diventa l’oggetto di una teoria critica che mira alla struttura stessa di tale società — struttura che è presente in tutti i fatti e condizioni particolari e ne determina il posto e la funzione. Il carattere ideologico e politico di tale scienza sociale diventa allora palese, e l’elaborazione di concetti cognitivamente adeguati richiede che si vada oltre la concretezza fallace dell’empirismo positivista. Il concetto terapeutico ed operativo diventa falso nella misura in cui isola ed atomizza i fatti, li stabilizza entro l’insieme che esercita la repressione, ed accetta i termini di questo insieme come termini dell’analisi. La traduzione metodologica del concetto universale nel concetto operativo diventa quindi una riduzione repressiva del pensiero.95

Prenderò qui in esame, come esempio, un «classico» della sociologia industriale: lo studio delle relazioni di lavoro negli stabilimenti di Hawthorne della Western Electric Company96. È uno studio di vecchia data, intrapreso circa un quarto di secolo fa, e dopo d’allora i metodi sono stati molto raffinati. A mio giudizio, tuttavia, la loro sostanza e funzione è rimasta la medesima. Questo modo di pensare, inoltre, non solo si è diffuso in seguito in altri rami della scienza sociale e nella filosofia, ma ha pure contribuito a formare i soggetti umani di cui si occupa. I concetti operativi finiscono per generare metodi migliori di controllo sociale: essi diventano parte della scienza della direzione, Servizio Relazioni Umane. In Labor Looks At Labor si leggono queste parole d’un operaio dell’industria automobilistica:

 

Le direzioni non ci han potuto fermare con i picchetti; non ci han potuto fermare con mezzi diretti, e così si son messe a studiare le «relazioni umane» in campo economico, sociale e politico, per trovare il modo di fermare i sindacati.

 

Studiando le lagnanze dei lavoratori in merito alle condizioni di lavoro ed ai salari, i ricercatori si imbatterono nel fatto che la maggior parte di tali lagnanze erano formulate in frasi che contenevano «termini vaghi, indefiniti», mancavano di «riferimento obbiettivo» a «criteri generalmente accettati», e avevano caratteristiche «essenzialmente diverse dalle proprietà che si associano generalmente con fatti comuni»97. In altre parole, le lagnanze erano formulate in termini generali, tipo «i lavatoi sono poco puliti», «il posto è pericoloso», «le tariffe di cottimo sono troppo basse».

Guidati dal principio del pensiero operativo, i ricercatori si posero a tradurre o riformulare codeste frasi in modo tale da poter ridurre la loro genericità introducendo referenti particolari, ossia termini che designavano la particolare situazione in cui la lagnanza era nata e in quanto tali dipingevano «accuratamente le condizioni esistenti nell’azienda». La forma generale fu dissolta in enunciati che identificavano le particolari operazioni e condizioni da cui la lagnanza derivava, e di questa si tenne conto mutando le prime.

Ad esempio l’affermazione «i lavatoi sono sporchi» fu tradotta in quest’altra; «in quella data occasione mi recai nel tal lavatoio, ed il lavandino era un po’ sporco». Apposite indagini accertarono quindi che ciò era «largamente dovuto alla trascuratezza di alcuni indipendenti», fu lanciata una campagna contro l’abitudine di gettare cartaccia, sputare sul pavimento e altre simili pratiche, e nei lavatoi fu posto un piantone in servizio permanente. «Fu in questo modo che molte delle lagnanze vennero reinterpretate ed usate per effettuare dei miglioramenti»98.

Un altro esempio: l’operaio B dice in termini generali che le tariffe di cottimo della sua mansione sono troppo basse. L’intervista rivela che «sua moglie è all’ospedale ed egli è preoccupato per i conti del medico che dovrà pagare. In questo caso il contenuto latente nella lagnanza consiste nel fatto che i guadagni attuali di B non sono sufficienti, causa la malattia della moglie, per far fronte agli impegni finanziari del momento»99.

 

Una traduzione siffatta muta in modo significativo il contenuto della proposizione originale. Prima di essere tradotta, la frase esprime una condizione generale nella sua generalità («i salari sono troppo bassi»). Essa va oltre la condizione particolare in quel particolare stabilimento e va pure oltre la situazione particolare dell’operaio. Nella sua generalità e soltanto in quanto generale, l’enunciato esprime un’accusa globale che prende il caso particolare come manifestazione di uno stato di cose universale, lasciando intendere che questo potrebbe non mutare anche se quello fosse risolto.

La frase non tradotta stabilisce in tal modo una relazione concreta tra il caso particolare e l’insieme di cui questo è un caso; insieme che include condizioni esterne a quel dato lavoro, a quel dato stabilimento, a quella data situazione personale. Tale insieme viene eliminato nella traduzione, ed è questa operazione che rende possibile la cura. Può essere che il lavoratore non ne sia colpevole e che la lagnanza abbia davvero per lui quel significato particolare e personale che la traduzione mette in luce come suo «contenuto latente». Ma allora è il linguaggio che egli usa ad affermare la propria validità obbiettiva contro la sua coscienza, esprimendo condizioni che sono, anche se non sono «per lui». La concretezza del caso particolare che si ottiene per mezzo della traduzione, risulta da una serie di astrazioni dalla sua concretezza reale, che è da vedersi nel carattere universale del caso.

La traduzione collega l’affermazione generale all’esperienza personale del lavoratore che l’enuncia, ma si ferma al punto in cui il lavoratore come individuo si esperirebbe come «il lavoratore», e in cui il suo lavoro apparirebbe come «il lavoro» della classe lavoratrice. È necessario sottolineare che effettuando queste traduzioni il ricercatore operativo segue semplicemente il processo della realtà, e probabilmente anche le traduzioni che l’operaio compie per conto suo? L’arresto dell’esperienza non è prodotto dal ricercatore, la funzione di questi non è pensare nei termini di una teoria critica, bensì addestrare i capireparto ad usare «metodi più umani ed efficaci di trattare i loro operai»100 (dove solo il termine «umani» sembra avere carattere non operativo e richiederebbe d’essere analizzato).

Ma a mano a mano che questo modo aziendalistico di pensare e di condurre ricerche si diffonde in altre sfere del lavoro intellettuale, i servizi che esso rende diventano sempre meno separabili dalla sua validità scientifica. In tale contesto, la funzionalizzazione ha un effetto veramente terapeutico. Una volta che lo scontento personale sia isolato dalla infelicità generale, una volta che i concetti universali che si oppongono alla funzionalizzazione siano dissolti in referenti particolari, il caso diventa un incidente suscettibile di trattamento efficace.

Il caso, certo, resta pur sempre l’incidente di un universale – nessun modo di pensare può far a meno di universali – ma si tratta di un genere ben diverso rispetto al significato che esso possedeva prima che l’affermazione fosse tradotta. Una volta che i conti del medico siano stati saldati, il lavoratore B riconoscerà che, generalmente parlando, i salari non sono troppo bassi, erano insufficienti soltanto nella sua situazione individuale (che può esser simile ad altre situazioni individuali). Il suo caso è stato sussunto sotto un altro genere – quello dei casi di ristrettezze personali. Egli non è più un «operaio» o un «dipendente» (membro di una classe), ma l’operaio o il dipendente B nello stabilimento di Hawthorne della Western Electric Company.

Gli autori di Management and the Worker si rendevano ben conto di questa implicazione. Essi dicono che una delle funzioni fondamentali che occorre svolgere in una organizzazione industriale è «la funzione specifica del servizio del personale», e questa funzione richiede che quando ci si occupa di relazioni aziendali, si deve «pensare a quel che un particolare dipendente ha in mente in quanto lavoratore che ha avuto una particolare storia personale», o «in quanto dipendente il cui posto di lavoro sta in un dato luogo dello stabilimento che lo porta a contatto di date persone e gruppi di persone…» Per contrasto, gli autori respingono come incompatibile con la «funzione specifica del servizio del personale» un atteggiamento che si rivolga al dipendente «medio» o «tipico» o a ciò «che il lavoratore ha generalmente in mente»101.

Possiamo riassumere questi esempi ponendo a confronto le affermazioni originali e la loro traduzione nella forma funzionale. In ambedue i casi prendiamo le affermazioni alla lettera, lasciando da parte il problema della loro verifica.

 

1) «I salari sono troppo bassi». Il soggetto della proposizione è «salari», non la particolare retribuzione di un particolare operaio addetto ad un particolare lavoro. L’uomo che così si esprime non poteva pensare ad altro se non alla sua esperienza individuale, ma, nella forma in cui si esprime, egli trascende tale esperienza individuale. Il predicato «troppo bassi» è un aggettivo di relazione, il quale richiede un referente che non è designato nella proposizione: troppo bassi per chi o per che cosa? Tale referente potrebbe essere ancora l’individuo che parla, o i suoi compagni di lavoro, ma il nome generale (salari) regge l’intero movimento di pensiero espresso dalla proposizione e fa sì che gli altri elementi di questa condividano il suo carattere generale. Il referente resta indeterminato: «troppo bassi, in generale», o «troppo bassi per chiunque sia un salariato come me». La proposizione è astratta. Si riferisce a condizioni universali che nessun caso particolare può sostituire; il suo significato è «transitivo», contrariamente al significato di qualsiasi caso particolare. La proposizione richiede in verità di essere «tradotta» in un contesto più concreto, ma in un contesto dove i concetti universali non possono essere definiti da alcun insieme particolare di operazioni (quali la storia personale del lavoratore B, e la sua speciale funzione nell’officina Z). Il concetto «salari» si riferisce al gruppo «salariati», che integra tutte le storie personali ed i singoli posti di lavoro in un solo universale concreto.

2) «Causa la malattia della moglie, i guadagni attuali di B non sono sufficienti per far fronte ai suoi impegni». Si noti che in questa traduzione di 1) il soggetto è stato cambiato. Il concetto universale «salari» è sostituito da «i guadagni attuali di B», il cui significato è pienamente definito dall’insieme particolare di operazioni che B deve compiere al fine di pagare gli alimenti, gli abiti, la casa, le medicine che la sua famiglia consuma. La «transitività» del significato è stata abolita; il gruppo «salariati» è scomparso insieme con il soggetto «salari», e ciò che rimane è un caso particolare il quale, privato del suo significato transitivo, diventa suscettibile di trattamento secondo i criteri prevalenti nell’azienda in cui esso si verifica.

 

Che c’è di male in tutto ciò? Nulla. La traduzione dei concetti e della proposizione come insieme è convalidata dalla società cui il ricercatore si rivolge. La terapia riesce perché l’azienda o il governo possono permettersi di sopportare almeno una parte considerevole dei costi, perché sono disposti a farlo, e perché il paziente è disposto a sottomettersi ad un trattamento che promette di riuscire. I concetti vaghi, indefiniti, universali che comparivano nella lagnanza prima di essere tradotta erano veramente residui del passato; la loro persistenza nel linguaggio e nel pensiero era veramente un blocco (sia pure di importanza secondaria) alla comprensione ed alla collaborazione. Nella misura in cui la sociologia e psicologia operative hanno contribuito ad alleviare condizioni sub-umane, esse fanno parte del progresso intellettuale e materiale. Ma esse testimoniano pure della razionalità ambivalente del progresso, che soddisfa nel mentre esercita il suo potere repressivo, e reprime nel mentre soddisfa.

L’eliminazione del significato transitivo continua ad essere un tratto distintivo della sociologia empirica. Essa caratterizza pure un largo numero di studi che non sono intesi svolgere una funzione terapeutica a favore di interessi particolari. Risultato: una volta che l’eccesso «irrealistico» di significato sia abolito, l’indagine rimane confinata entro il vasto reame in cui la società stabilita convalida ed invalida ogni proposizione. In virtù della sua metodologia, questo tipo di empirismo ha carattere ideologico, che vogliamo illustrare prendendo in esame uno studio dell’attività politica negli Stati Uniti.

In uno scritto intitolato Competitive Pressure and Democratic Consent, Morris Janowitz e Dwaine Marvick vogliono «stimare la misura in cui un’elezione esprime effettivamente il processo democratico». Tale stima comporta una valutazione del processo elettorale «nei termini dei requisiti necessari per mantenere una società democratica», e ciò richiede a sua volta una definizione dell’aggettivo «democratica». Gli autori offrono la scelta tra due definizioni alternative, ovvero tra le teorie «del mandato» e le teorie «competitive» della democrazia:

 

Le teorie del «mandato», che traggono origine dalle concezioni classiche della democrazia, postulano che il processo di rappresentanza deriva da una serie ben definita di direttive che l’elettorato impone ai suoi rappresentanti. Un’elezione è una procedura di convenienza ed un metodo per assicurare che i rappresentanti rispettino le direttive formulate dai costituenti102.

 

Avviene che questa «concezione» fosse «respinta in anticipo come irrealistica, poiché assume l’esistenza di opinioni ed ideologie altamente articolate in merito ai temi della campagna; e questo non si verifica quasi mai negli Stati Uniti». La franchezza di questa affermazione di fatto è mitigata in qualche modo da un confortevole dubbio: «c’è da chiedersi se un’opinione pubblica così ben articolata sia mai esistita in un elettorato democratico dopo l’estensione del diritto di voto nel corso dell’Ottocento». Ad ogni buon conto gli autori accettano, in luogo della concezione respinta, la teoria «competitiva» della democrazia, per la quale un’elezione democratica è un processo in cui candidati che «competono per un pubblico ufficio» vengono «selezionati o respinti». Per essere veramente operativa, questa definizione richiede «criteri» atti a valutare il carattere della competizione politica. In quali casi la competizione politica produce un «processo di consenso», e quando produce invece un «processo di manipolazione»? Gli autori offrono una serie di tre criteri:

 

1) Un’elezione democratica richiede che la competizione tra i candidati in lizza sia estesa a tutto il corpo elettorale. L’elettorato deriva il proprio potere dalla sua abilità di scegliere tra almeno due concorrenti, ciascuno dei quali si ritiene abbia una ragionevole probabilità di vincere.

2) Un’elezione democratica richiede che ambedue [!] i partiti competano tra loro in modo equilibrato per mantenere i blocchi elettorali esistenti, per accattivarsi gli elettori indipendenti e per attirare i transfughi dai partiti avversari.

3) Un’elezione democratica richiede che ambedue [!] i partiti si impegnino vigorosamente per vincere l’elezione in corso; tuttavia, vincano o perdano, ambedue i partiti devono pure cercare di accrescere le loro possibilità di successo nelle prossime elezioni e in quelle successive…103.

 

Io credo che queste definizioni descrivano piuttosto accuratamente la situazione di fatto che esisteva al momento delle elezioni americane del 1952, che sono l’oggetto dell’analisi. In altre parole, i criteri per giudicare una data situazione di fatto sono quelli offerti (oppure imposti, dato che sono quelli di un sistema sociale ben funzionante e fermamente stabilito) da quella stessa situazione di fatto. L’analisi è «bloccata»; il giudizio è costretto a muoversi entro un contesto di fatti che escludono un giudizio sul contesto in cui i fatti si producono, prodotti dall’uomo, e in cui il loro significato, funzione e sviluppo sono determinati.

Vincolata a questo quadro, l’indagine imbocca un circolo vizioso e tende a convalidarsi da sola. Se il senso di «democratico» viene definito nei termini limitati ma realistici del processo elettorale in atto, allora tale processo appare democratico prima che si sappiano i risultati dell’indagine. Il quadro operativo, certo, permette ancora (ed anzi richiede) che si distingua tra consenso e manipolazione; l’elezione può essere più o meno democratica a seconda del grado di consenso e di manipolazione che viene rilevato. Gli autori arrivano alla conclusione che l’elezione del ’52 «fu caratterizzata da un processo di genuino consenso, in misura maggiore di quanto stime impressionistiche potevano lasciare intendere»104 – benché sarebbe un «grave errore» trascurare le «barriere» che si oppongono al consenso e negare che «fossero presenti pressioni manipolative»105. Oltre questa affermazione poco illuminante l’analisi operativa non può andare. In altre parole essa non può formulare una domanda cruciale: se il consenso stesso non fosse opera di manipolazione – domanda largamente giustificata dallo stato di cose esistente. L’analisi non può porre tale domanda perché questa trascenderebbe i suoi termini in direzione d’un significato transitivo, ovvero in direzione di un concetto di democrazia che mostrerebbe come l’elezione democratica sia un processo democratico piuttosto limitato.

È precisamente un tale concetto non operativo che viene respinto dagli autori come «irrealistico», in quanto definisce la democrazia in modo troppo avanzato, come il completo controllo del sistema di rappresentanza da parte dell’elettorato – il controllo popolare come sovranità popolare. E questo concetto non-operativo non è affatto un concetto estraneo. Non è per nulla un prodotto dell’immaginazione o del pensiero speculativo, ma anzi definisce l’intento storico della democrazia, le condizioni per le quali si combatté la lotta per la democrazia e che restano ancora da realizzare.

Tale concetto è inoltre impeccabilmente esatto dal punto di vista semantico, poiché significa nulla più e nulla meno di quel che dice; ovvero che è l’elettorato ad imporre le sue direttive ai rappresentanti, non questi a quello, che poi sceglie e rielegge i rappresentanti. Un elettorato autonomo, libero perché libero da indottrinamento e da manipolazione, mostrerebbe invero di possedere una «capacità di formulare opinioni ed articolare ideologie» che non è facile da trovare. Il concetto deve perciò essere respinto come «irrealistico» – non v’è altra scelta se si accetta la capacità di formulare opinioni ed articolare ideologie che esiste di fatto come elemento che prescrive i criteri validi dell’analisi sociologica. E se l’indottrinamento e la manipolazione hanno raggiunto lo stadio in cui l’opinione prevalente è falsa, in cui lo stato di cose esistente non e più riconosciuto per ciò che è, allora un’analisi che si impegna sul piano metodologico per respingere i concetti transitivi si consegna ad una falsa coscienza. Il suo stesso empirismo è ideologico.

Gli autori sono ben coscienti del problema. La «rigidità ideologica» presenta «serie implicazioni» al fine di stabilire il grado del consenso democratico. Ma, in verità, consenso nei confronti di che cosa? Nei confronti, naturalmente, dei candidati politici e della loro politica. Ma ciò non basta, perché allora il consenso nei confronti d’un regime fascista (e può avvenire che un tale regime sia oggetto d’un genuino consenso) sarebbe un processo democratico. Ne consegue che il consenso stesso deve essere valutato – valutato in termini di contenuto, di obbiettivi, di «valori» – e questo passo sembra richiedere concetti che hanno significato transitivo. Un passo così poco «scientifico» può tuttavia essere evitato se l’orientamento ideologico che si vuol valutare non è altro che l’orientamento dei due partiti esistenti, quelli che «competono efficacemente», oltre all’orientamento «ambivalente e neutralizzato» dei votanti106.

La tavola che fornisce i risultati di un sondaggio condotto per accertare l’orientamento ideologico mostra tre gradi di adesione alle ideologie del partito repubblicano e del partito democratico, oltre alle opinioni «ambivalenti e neutralizzate»107. I partiti come tali, la loro politica e le loro macchinazioni non sono messi in questione, né lo sono le reali differenze che esistono tra di essi per quanto concerne temi vitali (come la politica atomica e lo stato di preparazione totale); questioni che sembrano essenziali per definire i caratteri dei processi democratici, a meno che l’analisi operi con un concetto di democrazia che ripete semplicemente i tratti della forma stabilita di democrazia. Un concetto operativo di questo tipo non è del tutto inadeguato rispetto all’oggetto dell’indagine. Esso pone abbastanza chiaramente in luce le qualità che distinguono, ai giorni nostri, i sistemi democratici da quelli non-Democratici (ad esempio la presenza di una reale competizione tra candidati che rappresentano partiti differenti e la libertà dell’elettorato di scegliere tra loro), ma non appare più adeguato se il compito dell’analisi teorica è qualcosa di più e di diverso che non la semplice descrizione – se il compito sta nel comprendere, nel riconoscere i fatti per ciò che sono, ciò che «significano» per coloro cui essi si dànno come fatti e che devono vivere con essi. Nella teoria sociale riconoscere i fatti significa fame una critica.

Il punto è che i concetti operativi non bastano nemmeno per descrivere i fatti. Essi includono solamente certi aspetti e segmenti dei fatti che ove siano presi per il tutto privano la descrizione del suo carattere obbiettivo, empirico. Diamo un’occhiata, ad esempio, al concetto di «attività politica» nello studio Political Activity of American Citizens, condotto da Julian L. Woodward ed Elmo Roper108. Gli autori olirono una «definizione operativa del termine “attività politica”» che comprende «cinque tipi di comportamento»: 1) votare alle elezioni; 2) appoggiare qualche gruppo di pressione…; 3) comunicare di persona con membri della legislatura; 4) partecipare alla attività politica di partito…; 5) impegnarsi abitualmente nella diffusione di opinioni politiche mediante comunicazione orale…

Questi sono certamente «canali di possibile influenza su legislatori e funzionari del governo», ma una volta che si siano misurati in qualche modo si ottiene realmente «un metodo per separare le persone che sono relativamente attive in relazione a temi politici nazionali da quelle che sono relativamente inattive?» Sono incluse in essi attività decisive «in relazione a temi nazionali» come i contatti tecnici ed economici tra le grandi società ed il governo, e tra le stesse grandi società in posizione chiave? Includono essi la formulazione e disseminazione di opinioni, informazioni, trattenimenti «apolitici» da parte dei grandi mezzi pubblicitari? Tengono essi conto del ben diverso peso politico delle varie organizzazioni che prendono posizione su temi pubblici?

Se la risposta è negativa (e io credo debba esserlo) allora i fatti dell’attività politica non sono descritti ed accertati in modo adeguato. Molti fatti fondamentali, e io credo determinanti, restano fuori della portata del concetto operativo. Ed a causa di questa limitazione – questa avversione metodologica verso concetti transitivi che potrebbero mostrare i fatti nella loro vera luce e chiamarli con il lor vero nome – l’analisi descrittiva dei fatti blocca la loro comprensione e diventa un elemento dell’ideologia che li sostiene. Erigendo a propria norma la realtà sociale esistente, questa sociologia rafforza negli individui la «fede senza fede» nella realtà di cui sono vittime: «Dell’ideologia non resta nient’altro se non il riconoscimento di ciò che è, un modello di comportamento che si sottomette al potere schiacciante dello stato di cose stabilito»109. Contro questo empirismo ideologico, la semplice contraddizione riafferma il proprio diritto: «… ciò che è non può essere vero» 110.

Il pensiero a una dimensione

5.
Il pensiero negativo: la sconfitta della logica della protesta

 

 

 

«… Ciò che è non può essere vero». Al nostro orecchio ben addestrato questa affermazione appare frivola e ridicola, o scandalosa come quell’altra che sembra dire l’opposto: «ciò che è reale è razionale». Eppure appartengono entrambe alla tradizione del pensiero occidentale, e rivelano, in forma provocatoria perché abbreviata, l’idea di Ragione che ha guidato la sua logica. Ambedue esprimono inoltre lo stesso concetto, e cioè la struttura antagonistica della realtà e del pensiero che cerca di comprenderla. Il mondo dell’esperienza immediata – il mondo in cui ci troviamo a vivere – deve essere compreso, trasformato, anzi sovvertito al fine di diventare ciò che realmente è.

Nell’equazione Ragione = Verità = Realtà, che congiunge il mondo soggettivo e quello oggettivo in una unità antagonistica, la Ragione è il potere sovversivo, il «potere del negativo» che costituisce, in quanto Ragione teorica e pratica, la verità per gli uomini e per le cose – ovvero le condizioni in cui uomini e cose diventano ciò che realmente sono. Il tentativo di dimostrare che questa verità della teoria e della pratica non è una condizione soggettiva ma bensì oggettiva occupò fin dalle origini il pensiero occidentale e sta alle radici della sua logica – intendo la logica non come disciplina speciale della filosofia ma come modo di pensare appropriato per afferrare il reale come razionale.

L’universo totalitario della razionalità tecnologica è l’ultima incarnazione dell’idea di Ragione. In questo capitolo e nel successivo cercherò di identificare alcune delle fasi principali nello sviluppo di questa idea, del processo mediante il quale la logica divenne la logica del dominio. Tale analisi ideologica può contribuire alla comprensione dello sviluppo reale nella misura in cui è centrata sulla unione (e separazione) di teoria e pratica, di pensiero ed azione nel processo storico, visto come dispiegarsi di Ragione teorica e pratica in una sola unità.

Il chiuso universo operativo della civiltà industriale avanzata, con la sua terrificante armonia di libertà e oppressione, produttività e distruzione, sviluppo e regressione, è prefigurato in questa idea della Ragione come progetto storico specifico. Lo stadio tecnologico e quello pretecnologico hanno in comune certi concetti fondamentali dell’uomo e della natura che esprimono la continuità della tradizione occidentale. Su questa base comune, modi di pensare differenti sono in conflitto tra di loro, corrispondendo a modi differenti di afferrare, organizzare, mutare la società e la natura. Le tendenze alla stabilizzazione sono in conflitto con gli elementi sovversivi della Ragione, il potere del pensiero positivo è in conflitto col potere del pensiero negativo, finché i successi della civiltà industriale avanzata non portano la realtà unidimensionale a trionfare di tutte le contraddizioni.

Tale conflitto risale alle origini stesse del pensiero filosofico e trova espressione palese nel contrasto tra la logica dialettica di Platone e la logica formale dellOrganon aristotelico. Lo schema del modello classico del pensiero dialettico che delineeremo nelle pagine seguenti può preparare il terreno per un’analisi degli aspetti contrastanti della razionalità tecnologica.

Nella filosofia greca classica, la Ragione è la facoltà cognitiva atta a distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, nella misura in cui verità (e falsità) sono in primo luogo una condizione dell’Essere, della Realtà – e solo su questa base sono una proprietà di proposizioni. Il discorso vero, la logica, rivela ed esprime ciò che realmente è, in quanto distinto da ciò che appare (reale). In virtù di tale equazione tra Verità ed Essere (reale) la Verità è un valore, poiché Essere è meglio che Non-Essere. Quest’ultimo non equivale semplicemente al Nulla; è un attributo potenziale dell’essere e, allo stesso tempo, una minaccia – l’Essere può venirne distrutto. La lotta per la verità è una lotta contro la distruzione, per la salvezza (οζειν) dell’Essere (sforzo che a sua volta ha carattere distruttivo se attacca una realtà stabilita perché «non-vera»: Socrate contro la città stato d’Atene). In quanto la lotta per la verità «salva» la realtà dalla distruzione, la verità costituisce un impegno dell’esistenza umana. Essa rappresenta il progetto umano per eccellenza. Se l’uomo ha appreso a vedere e conoscere ciò che realmente è, egli agirà in modo conforme alla verità. L’epistemologia è di per sé un’etica, e l’etica è epistemologia.

Questa concezione riflette l’esperienza di un mondo in sé antagonistico, un mondo afflitto dal bisogno e dalla negazione, minacciato costantemente di distruzione, e tuttavia un mondo che è un cosmos, la cui struttura si accorda con le cause finali. Nella misura in cui l’esperienza di un mondo antagonistico guida lo sviluppo delle categorie filosofiche, la filosofia si muove in un universo in sé scisso, bidimensionale (déchirement ontologique). Apparenza e realtà, non-realtà e realtà (e, come vedremo, illibertà e libertà) sono condizioni ontologiche.

La distinzione non è dovuta ad una virtù o ad una pecca del pensiero astratto, bensì è radicata nell’esperienza dell’universo di cui il pensiero fa parte in teoria ed in pratica. In questo universo vi sono modi di essere in cui uomini e cose sono «in sé» e «per sé» e modi in cui essi non sono, e cioè in cui la loro natura (essenza) è distorta, limitata o negata. Superare queste condizioni negative è il processo dell’essere e del pensiero. La filosofia ha origine nella dialettica; il suo universo di discorso corrisponde ai fatti di una realtà antagonistica.

Quali sono i criteri per operare tale distinzione? Su quali basi si assegna l’attributo di «verità» ad un modo o condizione di essere piuttosto che all’altro? La filosofia greca classica riposa largamente su ciò che è stato definito in seguito (in modo alquanto derogativo) come «intuizione»: una forma di cognizione in cui l’oggetto del pensiero appare chiaramente come ciò che realmente è (nelle sue qualità essenziali), e sta in relazione antagonistica con la situazione immediata, contingente. Questa evidenza offerta dall’intuizione non è di fatto molto differente da quella cartesiana. Non è una misteriosa facoltà della mente, né una strana esperienza diretta, né è separata dall’analisi concettuale. Intuizione è piuttosto il termine (preliminare) di tale analisi, il risultato di una metodica mediazione intellettuale. Come tale essa rappresenta la mediazione dell’esperienza concreta.

La nozione di essenza dell’uomo può servire da illustrazione. Analizzato nella condizione in cui si trova nel suo universo, l’uomo sembra possedere certe facoltà e poteri che lo porrebbero in grado di condurre una «buona vita», e cioè una vita libera per quanto possibile da fatica, dipendenza e bruttezza. Attingere una tal vita significa attingere la «vita migliore», vivere in accordo con l’essenza della natura o dell’uomo.

Certo, questo è pur sempre quel che dice il filosofo; è lui che analizza la situazione umana. Egli sottopone l’esperienza al suo giudizio critico e questo contiene un giudizio di valore, nel senso che la libertà dalla fatica è preferibile alla fatica, e che una vita intelligente è preferibile ad una vita stupida. Di fatto la filosofia è nata con questi valori. Il pensiero scientifico doveva spezzare tale unione tra giudizio di valore ed analisi, poiché divenne via via più evidente che i valori filosofici non guidavano l’organizzazione della società, né la trasformazione della natura. Essi erano inefficaci, irreali. Già la concezione greca contiene un elemento storico: l’essenza dell’uomo è differente nello schiavo e nel libero cittadino, nel greco e nel barbaro. La civiltà ha superato (almeno in teoria) la cristallizzazione ontologica di questa differenza. Ma tale sviluppo non invalida ancora la distinzione tra natura essenziale e natura contingente, tra modi di esistenza autentici e modi inautentici – a condizione che la distinzione derivi da un’analisi logica della situazione empirica, e comprenda il potenziale di questa non meno che il suo carattere contingente.

 

Per il Platone degli ultimi dialoghi e per Aristotele i modi dell’Essere sono modi di movimento, transizione dalla potenza all’atto, realizzazione. L’Essere finito è una realizzazione incompleta, soggetta a mutare. La sua genesi corrisponde ad una corruzione; esso è permeato di negatività e per tal motivo non è vera realtà, Verità. L’indagine filosofica prende le mosse dal mondo finito per costruire una realtà che non è soggetta alla penosa differenza tra potenzialità ed attualità, che ha dominato la sua negatività ed è in sé completa ed indipendente – libera.

Questa scoperta è opera del Logos e dell’Eros. I due termini chiave designano due modi di negazione; cognizione erotica e cognizione logica rompono la presa della realtà stabilita, contingente, e lottano per una verità che è incompatibile con essa. Logos ed Eros hanno allo stesso tempo carattere soggettivo ed oggettivo. L’ascesa dalle forme «inferiori» a quelle «superiori» è un movimento della materia non meno che dell’intelletto. Secondo Aristotele la realtà perfetta, il dio, attrae il mondo sottostante ς ρμενον; egli è la causa finale di ogni essere. Logos ed Eros rappresentano in sé l’unità del positivo e del negativo, la creazione e la distruzione. Nelle esigenze del pensiero e nella follia dell’amore si ritrova il rifiuto distruttivo dei modi di vita stabiliti. La verità trasforma i modi di pensare e di esistere. Ragione e Libertà convergono.

Questa dinamica possiede tuttavia dei limiti intrinseci, in quanto il carattere antagonistico della realtà, il suo esplodere in modi di esistenza autentici ed inautentici appare essere un’immutabile condizione ontologica. Vi sono modi d’esistenza che non possono mai diventare «autentici» poiché non possono mai sostare nella realizzazione delle loro potenzialità, nella gioia dell’essere. Nella realtà umana, tutta l’esistenza che si spende per procurarsi le cose necessarie all’esistenza è quindi un’esistenza «inautentica», non libera. Ciò riflette ovviamente la condizione per nulla ontologica di una società fondata sulla nozione che la libertà è incompatibile con l’attività volta a procurare le necessità della vita, che tale attività è la funzione «naturale» di una classe specifica, e che la ricerca della verità e dell’esistenza autentica richiede che chi la persegue sia libero da ogni aspetto di tale attività. Questa è davvero la costellazione pretecnologica ed antitecnologica par excellence.

Ma la linea che realmente divide la razionalità pretecnologica dalla razionalità tecnologica non è quella che divide una società fondata sulla non libertà da una fondata sulla libertà. La società è ancor sempre organizzata in modo tale che procurare le necessità della vita costituisce l’occupazione a tempo pieno, per tutta la vita, di classi sociali specifiche, a cui non è per tal motivo concesso di essere libere e di condurre un’esistenza umana, In questo senso la nozione classica per cui la verità è incompatibile con la schiavitù imposta dal lavoro socialmente necessario è tuttora valida.

Il concetto classico implica che la libertà di pensiero e di parola deve restare un privilegio di classe fin tanto che dura tale schiavitù. Pensiero e parola pertengono infatti ad un soggetto pensante e parlante, e se la vita di questo dipende dallo svolgere una funzione impostagli da altri, ne segue che essa dipende dal modo in cui sono soddisfatti i requisiti di detta funzione – ovvero dipende da coloro che determinano questi requisiti. La linea divisoria tra lo stadio pretecnologico e quello tecnologico è piuttosto da vedersi nel modo in cui viene organizzata la subordinazione alle necessità della vita – al «guadagnarsi da vivere» – e nei nuovi modi di libertà e non libertà, verità e falsità che corrispondono a tale organizzazione.

 

Chi è, nella concezione classica, il soggetto che giunge ad afferrare la condizione ontologica di verità e non verità? È il signore della contemplazione pura (theoria), nonché della pratica guidata dalla teoria, cioè il filosofo-statista. Certo, la verità che egli conosce ed espone è in potenza accessibile a tutti. Condotto dal filosofo, lo schiavo nel Menone platonico è capace di afferrare la verità di un assioma geometrico, ossia una verità non suscettibile di mutare o corrompersi. Ma dato che la verità è uno stato dell’Essere non meno che del pensiero, e dato che quest’ultimo è espressione e manifestazione del primo, l’accesso alla verità rimane una mera potenzialità fin tanto che non sia unito ad una vita in armonia con la verità. Questo modo di esistenza è precluso allo schiavo come a chiunque debba spendere la vita per procurarsi le necessità della vita. Di conseguenza, se gli uomini non dovessero più spendere la vita nel regno della necessità, la verità ed un’esistenza veramente umana diverrebbero universali in senso stretto e reale. La filosofia prefigura l’eguaglianza dell’uomo ma si sottomette, al tempo stesso, alla negazione di fatto dell’eguaglianza. Nella realtà data, infatti, produrre le cose necessarie costituisce per la maggioranza il lavoro di tutta la vita, ed esse devono venir prodotte e servite in modo che la verità (che e libertà da necessità materiali) possa essere.

Qui la barriera storica arresta e deforma la ricerca della verità; alla divisione sociale del lavoro è conferita la dignità di una condizione ontologica. Se la verità presuppone la libertà dalla fatica, e se nella realtà sociale questa libertà è la prerogativa di una minoranza, ne segue che la realtà permette di raggiungere tale verità soltanto in modo approssimativo, e soltanto ad un gruppo privilegiato. Un simile stato di cose contraddice il carattere universale della verità, la quale definisce e «prescrive» non solo uno scopo teorico ma pure la vita migliore dell’uomo come tale, in relazione all’essenza dell’uomo. Detta contraddizione è insolubile per la filosofia, oppure non appare nemmeno come tale, in quanto corrisponde alla struttura di una società fondata sulla schiavitù o sulla servitù – struttura che la filosofia non arriva a trascendere. In tal modo essa si lascia dietro la storia, senza averla dominata, e pone la verità al sicuro elevandola sopra la realtà storica. In tale posizione la verità viene preservata intatta, non come una conquista del cielo o nel cielo, ma come una conquista del pensiero – intatta perché la nozione stessa di questa verità esprime l’idea che coloro che dedicano la vita a guadagnarsi da vivere non sono capaci di vivere un’esistenza umana.

 

Il concetto ontologico di verità sta al centro di una logica che può servire come modello della razionalità pretecnologica. È la razionalità di un universo di discorso a due dimensioni che contrasta con i modi di pensare e di agire unidimensionali che si sviluppano nel corso della realizzazione del progetto tecnologico.

Aristotele usa il termine «logos apofantico» al fine di distinguere un tipo specifico di Logos (parola, comunicazione) – quello che scopre verità e falsità ed è determinato nel suo sviluppo dalla differenza tra verità e falsità (De Interpretatione, 16b-17a). È la logica del giudizio, nel senso preciso di una sentenza (giudiziaria): attribuire (p) ad (S) perché e nella misura in cui pertiene ad (S), come proprietà di (S); ovvero negare (p) ad (S) perché e nella misura in cui non pertiene ad (S); ecc. Su questa base ontologica, la filosofia aristotelica procede a stabilire le «forme pure» di tutti i possibili predicati veri (e falsi), e diventa la logica formale dei giudizi.

Quando Husserl riprese l’idea di una logica apofantica, sottolineò l’intenzione critica che essa aveva in origine. Egli scorse tale intenzione nell’idea, appunto, di una logica dei giudizi, ossia nel fatto che il pensiero non si occupava direttamente dell’Essere (das Seiende selbst) ma piuttosto di «pretese», di proposizioni sull’Essere111Husserl vede in questo orientamento a proposito dei giudizi una restrizione ed un pregiudizio circa il compito e la portata della logica.

L’idea classica della logica mostra invero un pregiudizio ontologico: la struttura del giudizio (della proposizione) si riferisce ad una realtà divisa. Il discorso procede tra l’esperienza dell’Essere e del Non-Essere, tra essenza e fatto, generazione e corruzione, potenzialità e attualità. Da questa unità degli opposti, l’Organon aristotelico astrae le forme generali delle proposizioni e delle loro connessioni (corrette o scorrette); parti decisive di questa logica formale restano tuttavia aderenti alla metafisica aristotelica112.

Prima di questa formalizzazione, l’esperienza del mondo diviso aveva trovato la sua logica nella dialettica platonica. In essa i termini «Essere», «Non-Essere», «Movimento», «l’Uno e i Molti», «Identità», e «Contraddizione» vengono metodicamente tenuti aperti, ambigui, non chiaramente definiti. Essi hanno un orizzonte aperto, un intero universo di significato che viene gradualmente strutturato nel processo medesimo della comunicazione, ma che non è mai chiuso. Le proposizioni sono offerte, sviluppate e verificate in un dialogo, nel corso del quale l’interlocutore è portato a mettere in questione l’universo di esperienza e di linguaggio che di norma non è mai posto in questione, ed a entrare in una nuova dimensione del discorso; ma in ogni altro senso egli è libero ed il discorso è diretto a promuovere la sua libertà. Da lui ci si attende che vada oltre ciò che gli viene dato, così come foratore va oltre, nella proposizione che enuncia, alla posizione iniziale dei termini. Questi termini hanno molti significati poiché le condizioni a cui si riferiscono hanno molti lati, implicazioni, effetti che non possono essere isolati e resi stabili. Il loro sviluppo logico risponde al processo della realtà, o Sache selbst. Le leggi del pensiero sono leggi della realtà, o meglio diventano le leggi della realtà allorché il pensiero scorge nella verità dell’esperienza immediata la comparsa di un’altra verità, la verità delle vere Forme della realtà, delle Idee. Per tal ragione tra pensiero dialettico e la realtà data ve contraddizione piuttosto che corrispondenza; il giudizio vero giudica questa realtà non nei termini propri di questa, ma nei termini che configurano il suo rovesciamento. E in questo rovesciamento la realtà perviene alla propria verità.

Nella logica classica, il giudizio che costituiva il nucleo originale del pensiero dialettico era formalizzato nella forma proposizionale «S è p». Questa forma, tuttavia, nasconde anziché rivelare la proposizione dialettica fondamentale, che esprime il carattere negativo della realtà empirica. Giudicati alla luce della loro essenza e idea, uomini e cose esistono come altri da sé; di conseguenza il pensiero contraddice ciò che è (dato), oppone la sua verità a quella della realtà data. La verità che il pensiero configura è l’Idea. In quanto tale essa è, nei termini della realtà data, una «mera» Idea, una «mera» essenza – potenzialità.

Ma la potenzialità essenziale non è simile alle molte possibilità che sono contenute nell’universo dato di discorso e d’azione; la potenzialità essenziale appartiene ad un ordine assai differente. La sua realizzazione implica il rovesciamento dell’ordine stabilito, poiché pensare in accordo con la verità significa impegnarsi ad esistere in accordo con la verità. (In Platone i concetti estremi che illustrano tale rovesciamento sono la morte come il principio della vita del filosofo, e la liberazione violenta dalla Caverna). Il carattere sovversivo della verità conferisce quindi al pensiero una qualità imperativa. La logica s’incentra su giudizi che in quanto sono proposizioni dimostrative hanno carattere imperativo: il predicativo «è» implica un «dovrebbe».

Questo stile di pensiero contraddittorio, bidimensionale, rappresenta la forma interna non soltanto della logica dialettica ma di ogni filosofia che perviene ad affrontare la realtà. Le proposizioni che definiscono la realtà affermano come vero qualcosa che non esiste (al presente); esse contraddicono così ciò che esiste, negando la sua verità. Il giudizio affermativo contiene una negazione che scompare nella forma proposizionale (S è p). Si pensi ad esempio a proposizioni come «la virtù è conoscenza», «la giustizia è quello stato in cui ciascuno svolge la funzione per cui la natura lo ha reso più adatto», «ciò che è perfettamente reale è perfettamente conoscibile», «veruni est id, quod est», «l’uomo è libero», «lo Stato è la realtà della Ragione».

Se queste proposizioni hanno da esser vere, ne segue che la copula «è» enuncia un «dover essere», un desideratum. Essa giudica le condizioni in cui la virtù non è conoscenza, in cui gli uomini non svolgono la funzione cui sono per natura più adatti, in cui non sono liberi, ecc. La forma categorica S-p enuncia che (S) non è (S); (S) è definito come altro da sé. La verifica della proposizione implica un processo di fatto non meno che di pensiero: (S) deve diventare ciò che è. L’enunciato categorico si trasforma così in un imperativo categorico; non enuncia un fatto, bensì la necessità di realizzare un fatto. Essa potrebbe leggersi, ad esempio, come segue: l’uomo non è (di fatto) libero, dotato di diritti inalienabili, ecc., ma così dovrebbe essere, poiché egli è libero agli occhi di Dio, per natura, ecc.113.

 

Il pensiero dialettico concepisce la tensione critica tra «è» e «dovrebbe» innanzi tutto come una condizione ontologica, attinente alla struttura stessa dell’Essere. Tuttavia il riconoscimento di questo stato dell’Essere – la sua teoria – propone fin dal principio una pratica concreta. Visti alla luce di una verità che appare in essi falsata o negata, i fatti dati appaiono anch’essi falsi e negativi.

Di conseguenza il pensiero è condotto dalla situazione dei suoi oggetti a misurare la loro verità nei termini di un’altra logica, di un altro universo di discorso. Questa logica proietta un altro modo di esistere: la realizzazione della verità nelle parole e negli atti dell’uomo. E dato che tale progetto implica l’uomo come «animale sociale», la polis, il movimento del pensiero ha un contenuto politico. Il discorso socratico è in tal senso un discorso politico, in quanto contraddice le istituzioni politiche stabilite. La ricerca della definizione corretta, del «concetto» di virtù, giustizia, pietà e conoscenza diventa un’impresa sovversiva, poiché il concetto propone una nuova polis.

Il pensiero non ha alcun potere per produrre un simile mutamento a meno di trascendere se stesso nella pratica, ed è proprio la dissociazione dalla pratica materiale in cui ha origine la filosofia che dà al pensiero filosofico la sua qualità astratta ed ideologica. In virtù di questa dissociazione, il pensiero filosofico critico è per necessità trascendente e astratto. La filosofia condivide tale astrattezza con ogni pensiero autentico poiché chi non astrae da ciò che è dato, chi non collega i fatti ai fattori che li hanno prodotti, chi non disfà i fatti nella sua mente, in realtà non pensa. L’astrattezza è la vita stessa del pensiero, il segno della sua autenticità.

Ma vi sono astrazioni false e astrazioni vere. L’astrazione è un evento storico in un continuum storico. Essa procede su terreno storico, e rimane in rapporto con la base da cui prende le mosse: l’universo sociale stabilito. Anche là dove l’astrazione critica arriva a negare l’universo stabilito di discorso, la base sopravvive nella negazione (nella sovversione) e limita le possibilità della nuova posizione.

Alle origini classiche del pensiero filosofico, i concetti trascendenti restavano ancorati alla separazione prevalente tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, alla società esistente fondata sulla schiavitù. Lo stato «ideale» di Platone mantiene e riforma la schiavitù nel mentre la organizza in accordo con una verità eterna. In Aristotele, il filosofare (in cui la teoria e la pratica erano ancora unite) cede il passo alla supremazia del bios theoreticos, che non può certo pretendere di avere funzione e contenuto sovversivi. Coloro che portavano il peso della realtà inautentica e che sembravano quindi avere maggior bisogno di giungere a rovesciarla non presentavano interesse per la filosofia. Essa fece astrazione da loro, e continuò a farla.

In questo senso l’«idealismo» è inerente al pensiero filosofico poiché la nozione della supremazia del pensiero (della coscienza) dichiara al tempo stesso l’impotenza del pensiero in un mondo empirico che la filosofia trascende e corregge – nel pensiero. La razionalità nel cui nome la filosofia formulava i suoi giudizi venne a possedere quella «purezza» generale ed astratta che la rese immune al mondo in cui uno doveva vivere. Con l’eccezione degli «eretici» materialistici, il pensiero filosofico fu afflitto di rado dalle afflizioni dell’esistenza umana.

Paradossalmente, è proprio l’intento critico nel pensiero filosofico che porta alla purificazione idealistica – intento critico che si dirige al mondo empirico nel suo insieme, e non solamente a certi modi di pensare o di comportarsi entro di esso. Definendo i propri concetti in termini di potenzialità che attengono ad un ordine di pensiero e d’esistenza essenzialmente diverso, la critica filosofica si trova bloccata ad opera della realtà da cui si dissocia, e procede a costruire un regno della Ragione purgato di ogni contingenza empirica. Le due dimensioni del pensiero – quella delle verità essenziali e quella delle verità apparenti – non interferiscono più tra loro, e la loro relazione dialettica nel mondo concreto diventa una relazione astratta, epistemologica o ontologica. I giudizi formulati sulla realtà data sono rimpiazzati da proposizioni che definiscono le forme generali del pensiero, degli oggetti del pensiero, e delle relazioni tra il pensiero ed i suoi oggetti. Il soggetto del pensiero diventa la forma pura ed universale della soggettività, da cui sono rimossi tutti i particolari.

Per un soggetto tanto formale, la relazione tra ν e μη ν, mutamento e permanenza, potenza ed atto, verità e falsità, non presenta più un interesse esistenziale114: si tratta piuttosto di una questione di filosofia pura. È sorprendente il contrasto tra la logica dialettica di Platone e quella formale di Aristotele.

Nell’Organon aristotelico, il «termine» del sillogismo (horos) è «così vuoto di significato sostanziale, che una lettera dell’alfabeto può sostituirlo in modo affatto equivalente». Esso è dunque completamente differente dal termine (ancora horos) «metafisico» che designa il risultato della definizione essenziale, la risposta alla domanda: «τ στίν115. Kapp sostiene contro Prantl che i «due differenti significati sono del tutto indipendenti l’uno dall’altro e non furono mai confusi da Aristotele». In ogni caso, nella logica formale il pensiero è ordinato in modo assai differente da quello del dialogo platonico.

Nella logica formale, il pensiero è indifferente verso i propri oggetti. Siano essi mentali o fisici, pertengano alla società o alla natura, essi vengono assoggettati alle medesime leggi generali di organizzazione, calcolo, e conclusione – ma essi sono tali in quanto simboli o segni fungibili, astrazion fatta dalla loro particolare «sostanza.». Questa qualità generale (qualità quantitativa) è la condizione preliminare della legge e dell’ordine, nella logica come nella società; è il prezzo del controllo universale.

 

La generalità del concetto che la logica del discorso ha sviluppato, trova il suo fondamento nella realtà del dominio116.

 

La Metafisica di Aristotele afferma la connessione tra concetto e controllo: la conoscenza delle «cause prime» è – come conoscenza dell’universale – la più efficace e sicura delle conoscenze, poiché disporre delle cause significa disporre dei loro effetti. In forza del concetto universale, il pensiero giunge a dominare i casi particolari. Tuttavia, anche l’universo più formalizzato della logica si riferisce sempre alla struttura più generale del mondo conosciuto e sperimentato; la forma pura è ancor sempre quella del contenuto che essa formalizza. L’idea stessa della logica formale è un evento storico nello sviluppo degli strumenti mentali e fisici per la diffusione universale del controllo e della calcolabilità. Nel corso di questa impresa, l’uomo doveva creare l’armonia teorica in luogo della discordia reale, sbarazzare il pensiero dalle contraddizioni, ipostatizzare le unità identificabili e fungibili nel complesso processo della società e della natura.

Sotto il governo della logica formale, la nozione del conflitto tra essenza ed apparenza è del tutto inutile se non addirittura priva di significato; il contenuto materiale è neutralizzato; il principio di identità è separato dal principio di contraddizione (le contraddizioni sono la macchia di un modo di pensare scorretto); le cause finali sono rimosse dall’ordine logico. Ben definiti nello scopo e nella funzione, i concetti diventano strumenti di predizione e di controllo. La logica formale diventa così il primo passo della lunga strada verso il pensiero scientifico – soltanto il primo passo, poiché un grado molto più alto di astrazione e matematizzazione è richiesto per adeguare i modi di pensare alla razionalità tecnologica.

I metodi del procedimento logico differiscono molto nella logica antica e in quella moderna, ma al di là di ogni differenza vi è la costruzione di un ordine universalmente valido di pensiero, neutrale per quanto riguarda il contenuto materiale. Molto tempo prima che l’uomo tecnologico e la natura tecnologica emergessero come oggetti di controllo e calcolo razionale, l’intelletto fu posto in grado di compiere generalizzazioni astratte. I termini che potevano essere ordinati entro un coerente sistema logico, libero da contraddizioni o con contraddizioni suscettibili di riduzione, furono separati da quelli che così non si prestavano. Fu fatta distinzione tra la dimensione universale, calcolabile, «obbiettiva» del pensiero e quella particolare, incalcolabile, soggettiva; quest’ultima è stata ammessa nella scienza solamente dopo una serie di riduzioni.

La logica formale prefigura la riduzione di qualità secondarie a qualità primarie, nel corso della quale le prime diventano le proprietà misurabili e controllabili della fisica. Gli elementi del pensiero possono quindi essere organizzati scientificamente, così come gli elementi umani possono essere organizzati nella realtà sociale. Razionalità pretecnologica e tecnologica, ontologia e tecnologia sono collegate fra loro da quegli elementi del pensiero che adattano le regole del pensiero alle regole del controllo e del dominio. I modi di dominio pretecnologici sono essenzialmente differenti dai modi di dominio tecnologici – differenti come la schiavitù dal lavoro salariato, il paganesimo dalla cristianità, la città stato dalla nazione, la strage della popolazione di una città conquistata dai campi di concentramento nazisti. Tuttavia, la storia è ancor sempre la storia del dominio, e la logica del pensiero rimane la logica del dominio.

La logica formale attribuiva una validità universale alle leggi del pensiero. Del resto, senza questa universalità il pensiero sarebbe stato una faccenda privata e non impegnativa, incapace di comprendere anche il più piccolo settore dell’esistenza. Il pensiero è sempre più e altro che il mero pensiero individuale: se mi metto a pensare a certi individui in una situazione specifica, io li colloco in un contesto sopraindividuale del quale essi partecipano, e penso per concetti generali. Tutti gli oggetti del pensiero sono universali. Ma è altrettanto vero che il significato sopraindividuale, l’universalità d’un concetto, non è mai meramente formale; essa è costituita infatti dalle interrelazioni tra i soggetti (pensanti e agenti) ed il loro mondo117. L’astrazione logica è anche un’astrazione sociologica. C’è una mimesis logica che formula le leggi del pensiero in un accordo protettivo con le leggi della società, ma si tratta soltanto di un modo di pensare tra altri.

La sterilità della logica formale aristotelica è stata spesso notata. Il pensiero filosofico si è sviluppato a fianco di questa logica e anche al di fuori di essa. Nelle loro opere più significative né gli idealisti né i materialisti, come pure i razionalisti o gli empiristi sembrano doverle qualcosa. La logica formale è stata aliena da ogni trascendenza nella sua stessa struttura. Essa ha canonizzato e organizzato il pensiero entro una struttura fissa oltre la quale nessun sillogismo può avere accesso – è rimasta «analitica». La logica ha proceduto come una disciplina particolare parallelamente allo sviluppo reale del pensiero filosofico, senza cambiamenti essenziali nonostante i nuovi concetti ed i nuovi contenuti che hanno segnato tale sviluppo.

Di fatto, né gli Scolastici né il razionalismo e l’empirismo all’inizio dell’età moderna ebbero alcuna ragione da opporre al modo di pensare che ha canonizzato le sue forme generali nella logica aristotelica. Il suo intento era quanto meno in accordo con la validità e la precisione scientifiche, e ciò che rimaneva non interferiva con l’elaborazione concettuale della nuova esperienza e dei nuovi fatti.

La logica contemporanea, matematica e simbolica, è certo molto diversa dalla logica classica che l’ha preceduta, ma con essa condivide un’opposizione radicale alla logica dialettica. Nei termini di questa opposizione, la vecchia logica formale e la nuova esprimono il medesimo modo di pensare. Da quest’ultimo è stato eliminato quel «negativo» che prendeva tanto posto alle origini della logica e del pensiero filosofico – l’esperienza del potere negatore, ingannevole e contraffattone della realtà stabilita. E con l’eliminazione di tale esperienza, lo sforzo concettuale di sostenere la tensione tra «è» e «dovrebbe» – e di sovvertire l’universo dato di discorso in nome della sua propria verità – è del pari eliminato da ogni pensiero che debba essere obbiettivo, esatto e scientifico. Il sovvertimento scientifico dell’esperienza immediata che stabilisce la verità della scienza in opposizione a quella dell’esperienza immediata non sviluppa infatti i concetti che recano in sé la protesta ed il rifiuto. La nuova verità scientifica che si oppone a quella accolta un tempo, non contiene in sé il giudizio che condanna la realtà stabilita.

Per contro, il pensiero dialettico è e rimane non scientifico nella misura in cui esso è siffatto giudizio, e questo è imposto al pensiero dialettico dalla natura del suo oggetto – dalla sua oggettività. Questo oggetto è la realtà nella sua genuina concretezza; la logica dialettica vieta ogni astrazione che lasci il contenuto concreto solitario e lontano, incompreso. Hegel scorge nella filosofia critica del suo tempo la «paura dell’oggetto» (Angst vor dem Objekt), e chiede che un pensiero genuinamente scientifico superi questa forma di paura ed includa il «logico ed il razionale-puro» (das Logische, das Rein-Vernünftige) nella stessa concretezza dei suoi oggetti118. La logica dialettica non può essere formale poiché è determinata dal reale, che è concreto. E tale concretezza, lungi dall’opporsi ad un sistema di principî e concetti generali, richiede un simile sistema di logica poiché dipende da leggi generali che costituiscono la razionalità del reale. È la razionalità della contraddizione, dell’opposizione di forze, tendenze, elementi, che costituisce il movimento del reale e, ove sia compreso, il concetto del reale.

Esistendo come contraddizione vivente tra essenza ed apparenza, gli oggetti del pensiero sono quella «negatività interna»119 che è la qualità specifica del loro concetto. La definizione dialettica definisce il movimento delle cose da ciò che non sono a ciò che sono. Lo sviluppo di elementi contraddittori, che determina la struttura del suo oggetto, stabilisce del pari la struttura del pensiero dialettico. Oggetto della logica dialettica non è né la forma astratta e generale del pensiero – né i dati dell’esperienza immediata. La logica dialettica disfà le astrazioni della logica formale e della filosofia trascendentale, ma rifiuta pure la concretezza dell’esperienza immediata. Nella misura in cui questa esperienza si ferma alle cose come appaiono e come sogliono essere, si tratta di un’esperienza limitata e anzi falsa. Essa perviene alla sua verità solo se si libera dalla oggettività illusoria che nasconde i fattori dietro i fatti – vale a dire, se comprende il suo mondo come un universo storicoin cui i fatti stabiliti sono opera della pratica storica dell’uomo. Tale pratica (intellettuale e materiale) è la realtà nei dati dell’esperienza; è anche la realtà compresa dalla logica dialettica.

Quando il contenuto storico entra nel concetto dialettico e determina sotto il rispetto metodologico il suo sviluppo e la sua funzione, il pensiero dialettico perviene alla concretezza che collega la struttura del pensiero a quella della realtà. La verità logica diventa verità storica. La tensione ontologica tra essenza ed apparenza, tra «è» e «dovrebbe» diventa tensione storica, e la «negatività interna» del mondo oggetto è intesa come l’opera del soggetto storico – l’uomo nella sua lotta con la natura e la società. La ragione diventa ragione storica. Essa contraddice l’ordine stabilito degli uomini e delle cose a favore di forze già esistenti nella società che rivelano il carattere irrazionale di quest’ordine – poiché «razionale» è un modo di pensiero e di azione che è volto a ridurre l’ignoranza, la distruzione, la brutalità e l’oppressione.

La trasformazione della dialettica da ontologica a storica mantiene la doppia dimensione del pensiero filosofico come pensiero critico, negativo. Ma ora essenza ed apparenza, «è» e «dovrebbe», si affrontano nel conflitto tra forze attuali e capacità potenziali nella società. Si affrontano non però come Ragione e Non-Ragione, Giusto e Ingiusto, poiché entrambi sono parte integrante del medesimo universo stabilito, entrambi partecipano di Ragione e Non-Ragione, di Giustizia ed Ingiustizia. Lo schiavo è capace di eliminare i padroni e di collaborare con loro; i padroni sono capaci di migliorare la vita dello schiavo e di accrescere al tempo stesso l’intensità dello sfruttamento. L’idea di Ragione fa parte del movimento del pensiero e dell’azione; è un’esigenza teorica e pratica.

Se la logica dialettica intende la contraddizione come «necessità» che rileva dalla «natura stessa del pensiero» (zur Natur der Denkbestimmungen)120, ciò avviene perché la contraddizione appartiene alla natura stessa dell’oggetto del pensiero, alla realtà, dove la Ragione è anche Non-Ragione, e dove l’irrazionale è anche razionale. Reciprocamente, ogni realtà stabilita prende partito contro la logica delle contraddizioni, favorendo i modi di pensare che sostengono le forme stabilite di vita ed i modi di comportamento che le riproducono e le migliorano. La realtà data ha la sua propria logica e la sua propria verità; lo sforzo di comprenderle come tali e di trascenderle presuppone una logica differente, una verità contraddittoria. Esse pertengono a modi di pensare che sono alieni dall’operazionismo nella loro stessa struttura, alieni dall’operazionismo della scienza come del senso comune; la loro concretezza storica milita contro la quantificazione e la matematizzazione da un lato, contro il positivismo e l’empirismo dall’altro lato. Così questi modi di pensare appaiono essere un relitto del passato, come ogni filosofia non scientifica e non empirica. Essi arretrano di fronte ad una teoria e ad una pratica della ragione più efficaci.

6.
Dal pensiero negativo al pensiero positivo.
La razionalità tecnologica e la logica del dominio

 

 

 

Nella realtà sociale, nonostante tutti i mutamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo rimane il continuum storico che congiunge la Ragione pretecnologica a quella tecnologica. La società che progetta e intraprende la trasformazione tecnologica della natura trasforma tuttavia la base del dominio, sostituendo gradualmente la dipendenza personale (dello schiavo dal padrone, del servo dal signore del feudo, del feudatario dal donatore del feudo) in dipendenza dall’«ordine oggettivo delle cose» (dalle leggi economiche, dal mercato, ecc.). Senza dubbio, l’«ordine oggettivo delle cose» è esso stesso il risultato del dominio, ma ciò non diminuisce il fatto che il dominio genera al presente una più alta razionalità – quella di una società che sostiene la sua struttura gerarchica mentre sfrutta sempre più efficacemente le risorse naturali e mentali e distribuisce su scala sempre più ampia i benefici tratti da tale sfruttamento. I limiti di siffatta razionalità, e la sua forza sinistra, si mostrano nel progressivo asservimento dell’uomo da parte di un apparato produttivo che perpetua la lotta per resistenza e la dilata in una lotta internazionale totale che attenta alle vite di coloro che costruiscono ed usano l’apparato stesso.

A questo punto diventa chiaro che ci dev’essere qualcosa di sbagliato nella razionalità del sistema. Ciò che è sbagliato è la maniera in cui gli uomini hanno organizzato il loro lavoro in società. Questo è ormai fuor di discussione, oggi che, da una parte, perfino i grossi imprenditori sono disposti a sacrificare le fortune dell’iniziativa privata e della «libera» concorrenza ai benefizi delle commesse e degli interventi regolativi del governo, mentre, d’altra parte, la costruzione socialista continua a svilupparsi lungo una linea di progressivo dominio. Tuttavia la questione non può fermarsi a questo punto. L’errata organizzazione della società richiede ulteriori spiegazioni in vista della situazione che si presenta nella società industriale avanzata, in cui l’integrazione delle forze sociali già negative e trascendenti entro il sistema stabilito sembra dar vita ad una nuova struttura sociale.

Questa trasformazione dell’opposizione da negativa in positiva porta in primo piano un problema: l’organizzazione «sbagliata», nel diventare totalitaria a causa delle sue forze interne, rifiuta le alternative. Certo è del tutto naturale, e non sembra richiedere particolari spiegazioni, che i tangibili benefìci del sistema siano considerati degni di essere difesi – specialmente di fronte alla forza repulsiva del comunismo dei giorni nostri, che sembra essere l’alternativa storica. Ma ciò appare naturale solo ad un modo di pensare e di comportarsi che non e incline e forse è anche incapace di comprendere ciò che avviene e perché avviene; un modo di pensare e di comportarsi che e immune da ogni forma di razionalità che non sia la razionalità stabilita. A seconda del grado in cui corrispondono alla realtà data, pensiero e comportamento esprimono una falsa coscienza, che si adatta e contribuisce a mantenere un ordine di fatti inautentico. Questa falsa coscienza è ormai incorporata nell’apparato tecnico dominante, che a sua volta la riproduce.

 

Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo. Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della società; è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità.

Tuttavia, l’apparato rende vano il suo stesso proposito se questo consiste nel creare un’esistenza umana sulle basi di una natura umanizzata. E se questo non è il suo proposito, la sua razionalità è ancora più sospetta. Ma è anche più logica, poiché sin dall’inizio il negativo è insito nel positivo, l’inumano nell’umanizzazione, la schiavitù nella liberazione. Questa dinamica è propria della realtà e non del pensiero, ma di una realtà nella quale il pensiero scientifico ha avuto una parte decisiva nel congiungere la ragione teorica alla ragion pratica.

La società ha riprodotto se stessa in un crescente insieme tecnico di oggetti e di relazioni che ha incluso l’utilizzazione tecnica di uomini; in altre parole, la lotta per l’esistenza e lo sfruttamento dell’uomo e della natura è diventata sempre più scientifica e razionale. Il doppio significato di «razionalizzazione» è rilevante in questo contesto. La gestione scientifica e la divisione scientifica del lavoro hanno largamente aumentato la produttività delle iniziative economiche, politiche e culturali. Risultato: un più alto tenore di vita. Nello stesso tempo e per le stesse ragioni, questa impresa razionale ha prodotto un modo di pensare e di comportarsi che ha giustificato ed assolto anche le più funeste ed oppressive caratteristiche da essa palesate. La razionalità scientifico-tecnica e la manipolazione sono saldate insieme in nuove forme di controllo sociale. Si può restare paghi della supposizione che tale esito poco scientifico è il risultato di una specifica applicazione della scienza da parte della società? Io ritengo che la direzione in cui essa è stata generalmente applicata fosse inerente nella scienza pura anche là dove non ci si poneva fini pratici, e che il punto di volta va visto nel momento in cui la Ragione teorica si trasforma in pratica sociale. Nel tentativo di verificare questa ipotesi, io rievocherò brevemente le origini metodologiche della nuova razionalità, ponendola a confronto con le caratteristiche del modello pretecnologico di cui si è discusso nel capitolo precedente.

 

La quantificazione della natura, che ha portato a fornire di essa una spiegazione in termini di strutture matematiche, ha separato la realtà da ogni scopo inerente e, di conseguenza, ha separato la verità dal bene, la scienza dall’etica. Poco importa come la scienza possa ora definire l’oggettività della natura e le relazioni tra le sue parti, essa non può concepirla scientificamente in termini di «cause finali». Né ha più importanza che il soggetto possa svolgere un ruolo costitutivo più o meno ampio come punto d’osservazione, di misura e di calcolo, visto che egli non può svolgere il suo ruolo scientifico come agente etico, estetico o politico. La tensione tra la Ragione da un lato, e, dall’altro, i bisogni e le strettezze della popolazione sottoposta (che è stata l’oggetto ma raramente il soggetto della Ragione), è stata presente sin dagli inizi del pensiero filosofico e scientifico. La «natura delle cose», compresa quella della società, e stata definita in modo da giustificare la repressione e persino la soppressione come del tutto razionali. La vera conoscenza e la ragione richiedono il dominio dei sensi se non la liberazione dai medesimi. L’unione di Logos ed Eros conduceva già in Platone alla supremazia del Logos; in Aristotele, la relazione tra il dio ed il mondo da lui mosso è «erotica» solo per analogia. Più tardi il precario legame ontologico tra Logos ed Eros si è spezzato, e la razionalità scientifica emerge come essenzialmente neutrale. Ciò che la natura (incluso l’uomo) può prefiggersi di ottenere è scientificamente razionale soltanto nei termini delle leggi generali del moto – fisiche, chimiche o biologiche.

Al di fuori di questa razionalità, si vive in un mondo di valori, e i valori separati dalla realtà oggettiva diventano soggettivi. L’unico modo di restituire ad essi una qualche astratta ed innocua validità, sembra essere una sanzione metafisica (legge divina e naturale). Ma tale sanzione non e verificabile e pertanto non è realmente oggettiva. I valori possono avere in sé una superiore dignità (morale e spirituale), ma non sono reali e quindi contano di meno nelle transazioni della vita reale – tanto meno quanto più sono elevati al di sopra della realtà.

Il fatto di venir sottratte alla realtà influisce su tutte le idee che, per la loro stessa natura, non possono essere verificate con metodi scientifici. Né ha importanza quanto possano essere riconosciute, rispettate, e consacrate a buon diritto; esse soffrono per il fatto di non essere oggettive. Ma proprio la loro mancanza di oggettività le rende fattori di coesione sociale. Siano umanitarie, religiose o morali, le idee sono soltanto «ideali»; esse non turbano eccessivamente un certo modo stabilito di vita, e neppure sono invalidate dal fatto di essere contraddette da un comportamento dettato dalle necessità quotidiane degli affari e della politica.

Se il Buono e il Bello, la Pace e la Giustizia non possono essere derivati né da condizioni ontologiche né da condizioni scientifico-razionali, essi non possono logicamente pretendere ad una validità universale, né ad essere realizzati su scala universale. In termini di ragione scientifica, essi rimangono una questione di preferenza, e nessuna risurrezione di qualche sorta di filosofia aristotelica o tomistica può salvare la situazione, poiché simile filosofia è confutata a priori dalla ragione scientifica. Il carattere ascientifico di tali idee indebolisce fatalmente l’opposizione alla realtà stabilita; le idee diventano puri ideali, ed il loro contenuto concreto e critico svanisce nell’atmosfera etica o metafisica.

 

Paradossalmente, tuttavia, il mondo oggettivo, rimasto con la sola dotazione di qualità quantificabili, viene a dipendere sempre più, nella sua oggettività, dal soggetto. Questo lungo processo comincia con l’algebrizzazione della geometria, che sostituisce le figure geometriche «visibili» con operazioni puramente mentali. Le forme estreme di tale processo si trovano in certe concezioni della filosofia scientifica contemporanea, secondo le quali ogni questione della scienza fisica è passibile di soluzione in termini di relazioni matematiche o logiche. La stessa nozione di una sostanza oggettiva, che si erge contro il soggetto, sembra disgregarsi. Partendo da indirizzi assai diversi, scienziati e filosofi della scienza giungono ad ipotesi simili circa la esclusione di particolari tipi di entità.

Ad esempio, la fisica «non misura le qualità oggettive del mondo esterno e materiale – queste sono soltanto il risultato del fatto d’aver compiuto date operazioni»121. Gli oggetti continuano ad esistere solo come «intermediari convenienti», come obsolescenti «postulati culturali»122. Svaniscono la compattezza e l’opacità delle cose: il mondo oggettivo perde il suo carattere «contestatorio», la sua capacità di opporsi al soggetto. Se proprio non si arriva a interpretarla nei termini della metafisica pitagorico-platonica, la Natura matematizzata, la realtà scientifica appare essere una realtà creata dall’intelletto.

Queste sono asserzioni estremistiche, rifiutate da interpretazioni più conservatrici, le quali sostengono che nella fisica contemporanea le proposizioni si riferiscono tuttora a «cose fisiche»123. Ma le cose fisiche diventano poi «eventi fisici», e quindi le proposizioni si riferiscono a (e si riferiscono solo a) attributi e relazioni che caratterizzano varie specie di processi e di oggetti fisici124. Max Born afferma:

 

… la teoria della relatività… non ha mai desistito dai tentativi di assegnare proprietà alla materia… [Ma] spesso una quantità misurabile non è una proprietà di una cosa, ma una proprietà della sua relazione con altre cose… In fisica la maggior parte delle misurazioni non riguardano direttamente le cose che ci interessano, ma qualche sorta di proiezione, prendendo la parola nel più largo senso possibile125.

 

E W. Heisenberg:

 

Ciò che noi stabiliamo matematicamente è solo in piccola parte un fatto obbiettivo; per la maggior parte è una rassegna di possibilità126.

 

Ora, «avvenimenti», «relazioni», «proiezioni», «possibilità» possono essere oggettivamente significanti soltanto per un soggetto – non soltanto in termini di osservabilità e di misurabilità, ma anche in termini di reale struttura effettiva dell’evento o della relazione. In altre parole, il soggetto di cui si tratta ha funzione costitutiva; è un soggetto possibile, per il quale alcuni dati devono o possono essere concepibili come eventi o relazioni. Se le cose stanno così, sarebbe ugualmente vera l’affermazione di Reichenbach, il quale dice che nella fisica le proposizioni possono essere formulate senza riferimento ad un osservatore reale, e il «disturbo recato dall’osservazione», è dovuto non all’osservatore umano ma allo strumento come «oggetto fisico»127.

Certamente, si può supporre che le equazioni stabilite dalla fisica matematica esprimano (formulino) la costellazione reale degli atomi, ossia la struttura oggettiva della materia. Prescindendo da ogni osservazione e misurazione «esterna» il soggetto A può «includere» B, «precedere» B, o «risultare in» B; B può essere «in mezzo a» C, «più largo di» C, ecc.; ma resta pur sempre vero che queste relazioni implicano una posizione, una distinzione e una identità nella differenza di A, B, C. Ciò implica in essi la capacità di essere identici nella differenza, di essere connessi a… in un certo modo specifico, di essere renitenti ad entrare in altre relazioni, ecc. Solo questa capacità sarebbe inerente nella materia, e quindi la materia stessa avrebbe una struttura obbiettivamente affine a quella della mente – una interpretazione che contiene un forte elemento idealistico:

 

… gli oggetti inanimati, senza esitazione, senza errore, semplicemente in forza della loro esistenza, integrano equazioni di cui non sanno nulla. Soggettivamente, la natura non appartiene alla mente – non pensa in termini matematici. Ma oggettivamente, la natura partecipa della mente – può essere pensata in termini matematici128.

 

Una interpretazione meno idealistica è offerta da Karl Popper129il quale sostiene che, nel suo sviluppo storico, la scienza fisica scopre e definisce strati differenti di una medesima realtà oggettiva. In tale processo, i concetti storicamente sorpassati sono stati cancellati ed il loro intento è integrato in quelli seguenti – un’interpretazione che sembra implicare un cammino progressivo verso il vero nucleo della realtà, cioè la verità assoluta. Oppure la realtà può rivelarsi simile a una cipolla, priva di nucleo centrale, e lo stesso concetto di verità scientifica può essere in pericolo.

 

Io non sto dicendo che la filosofia della fisica contemporanea neghi о anche metta in dubbio la realtà del mondo esterno, ma che essa, in un modo о nell’altro, sospende il giudizio su ciò che la realtà può essere, о considera la questione stessa priva di significato e senza risposta. Assunta a principio metodologico, questa sospensione ha una doppia conseguenza: a) rafforza il trasferimento dell’impegno teoretico dal metafisico «Che cosa è…?» (τ στίν) al funzionale «Come…?»; b) diffonde una certezza pratica (per quanto niente affatto assoluta) che nel suo agire con la materia essa è libera, con tranquilla coscienza, da impegni nei confronti di qualsivoglia sostanza al di fuori del contesto operativo. In altre parole, da un punto di vista teorico la trasformazione dell’uomo e della natura non ha altri limiti oggettivi che quelli offerti dalla fattualità bruta della materia, dalla resistenza non ancor domata che essa oppone alla conoscenza ed al controllo. A seconda del grado in cui tale concezione diventa applicabile ed operante nella realtà, quest’ultima è accostata come un sistema (ipotetico) di elementi strumentali; il metafisico «essere-così» cede il posto all’«essere strumento». Per di più, sperimentata la sua efficacia, tale concezione si comporta come un a priori – predetermina l’esperienza, anticipa la direzione in cui trasformare la natura, organizza l’insieme.

Abbiamo visto or ora come la filosofia contemporanea della scienza appaia in lotta con un elemento idealistico, e, nelle sue formulazioni estreme, si avvicini pericolosamente ad un concetto idealistico di natura. Tuttavia, il nuovo modo di pensare rimette l’idealismo «in piedi». Hegel ha compendiato l’ontologia idealistica: se la Ragione è il comun denominatore di soggetto e oggetto, ciò avviene come sintesi degli opposti. Con questa idea, l’omologia comprendeva la tensione tra soggetto ed oggetto; era satura di concretezza. La realtà della Ragione consisteva nel manifestarsi di tale tensione nella natura, nella storia, nella filosofia. Anche il sistema più rigidamente monistico conservava così l’idea di una sostanza che si dispiega nel soggetto e nell’oggetto – l’idea di una realtà antagonistica. Lo spirito scientifico ha progressivamente indebolito questo antagonismo. La filosofia scientifica moderna può ben iniziare con la nozione delle due sostanze, la res cogitans e la res extensa, ma via via che la materia estesa viene ricompresa in equazioni matematiche che, tradotte in tecnologia, la «rifanno», la res extensa perde il suo carattere di sostanza indipendente.

 

L’antica divisione del mondo fra processi oggettivi spaziotemporali e una mente in cui questi si riflettono – in altre parole, la differenza cartesiana tra res cogitans e res extensa – non è più un punto di partenza adatto per comprendere la scienza moderna130.

 

La divisione cartesiana del mondo è stata messa in dubbio anche sul suo proprio terreno. Husserl ha fatto notare che lEgo cartesiano era, in ultima analisi, non una sostanza realmente indipendente ma piuttosto il «residuo» o il limite della quantificazione; pare che l’idea galileiana del mondo come una res extensa «universale e assolutamente pura» dominasse a priori la concezione cartesiana131. In tal caso il dualismo cartesiano sarebbe illusorio, e la sostanza dell’io pensante di Descartes sarebbe simile alla res extensa, anticipando il soggetto scientifico che misura e compie osservazioni quantificabili. Il dualismo cartesiano implicherebbe già la sua negazione; esso aprirebbe, piuttosto che ostacolare, la strada all’avvento di un universo scientifico ad una sola dimensione in cui la natura partecipa «oggettivamente della mente», cioè del soggetto. E tale soggetto è collegato al suo mondo in un modo del tutto particolare:

 

… la natura è posta sotto il segno dell’uomo attivo, dell’uomo che inscrive la tecnica nella natura132.

 

La scienza della natura si sviluppa sotto la spinta di un a priori tecnologico che scorge nella natura null’altro che uno strumento potenziale, materia di controllo e di organizzazione. E la percezione della natura come strumento (ipotetico) precede lo sviluppo di ogni particolare organizzazione tecnica:

 

L’uomo moderno prende la totalità dell’Essere come materia prima per la produzione e sottomette la totalità del mondo-oggetto alla spinta e all’ordine della produzione (Herstellen). […] L’uso di macchinari e la produzione di macchine non sono la tecnica nel vero senso della parola, ma semplicemente uno strumento adeguato per la realizzazione (Einrichtung) dell’essenza della tecnica nel suo obbiettivo materiale grezzo133.

 

L’a priori tecnologico è un a priori politico in quanto la trasformazione della natura implica quella dell’uomo, e in quanto le «creazioni dell’uomo» escono da un insieme sociale e in esso rientrano. Qualcuno può anche insistere che il meccanismo dell’universo tecnologico è indifferente «come tale» a fini politici; esso può servire tanto da fattore di rivoluzione come di ritardo di una società. Un calcolatore elettronico può servire allo stesso modo un’amministrazione capitalista o una socialista; un ciclotrone può essere uno strumento ugualmente efficiente per chi vuole la guerra e per chi vuole la pace. Tale neutralità è contestata dalla polemica affermazione di Marx che il «mulino a braccia vi dà la società con il signore feudale; il mulino a vapore la società con l’industriale capitalista»134. E questa dichiarazione è ulteriormente modificata nella stessa teoria marxiana: il modo sociale di produzione, non la tecnica è il fattore storico di base. Tuttavia, quando la tecnica diventa la forma universale della produzione materiale, ciò delimita un’intiera cultura; configura una totalità storica – un «mondo».

 

Possiamo dire che l’evoluzione del metodo scientifico «riflette» puramente la trasformazione della realtà naturale in realtà tecnica nel corso dello sviluppo della civiltà industriale? Formulare in questo modo la relazione tra scienza e società vuol dire ammettere due regni ed eventi separati che si incontrano a mezza via, e cioè 1) la scienza ed il pensiero scientifico, con i loro concetti interni e la loro interna verità, e 2) l’uso e l’applicazione della scienza nella realtà sociale. In altre parole, non importa quanto sia stretta la connessione tra i due sviluppi, essi non si implicano e determinano a vicenda. La scienza pura non è scienza applicata; essa mantiene la sua identità e validità a prescindere dagli usi cui viene adibita. Per di più, il concetto della neutralità essenziale della scienza è esteso anche alla tecnica. La macchina è indifferente agli usi sociali cui viene assegnata, purché tali usi rientrino nelle sue capacità tecniche.

Considerato l’intrinseco carattere strumentale del metodo scientifico, questa interpretazione appare inadeguata. Una più stretta relazione sembra prevalere tra il pensiero scientifico e la sua applicazione, tra l’universo di discorso scientifico e quello del discorso e del comportamento ordinari – relazione che appare sussumere entrambi sotto la medesima logica e razionalità del dominio.

 

In uno sviluppo paradossale gli sforzi scientifici intesi ad affermare la rigida oggettività della natura hanno condotto a sopprimere in misura crescente la materialità della natura:

 

L’idea di una natura infinita esistente come tale, questa idea alla quale dobbiamo rinunciare, è il mito della scienza moderna. La scienza è partita distruggendo il mito del Medioevo. Ed ora la scienza è costretta, dalla sua interna coerenza, a riconoscere di aver semplicemente creato un mito al posto di un altro135.

 

Il processo che comincia con l’eliminazione delle sostanze indipendenti e delle cause finali perviene infine alla concezione dell’oggettività. Ma questa è una concezione altamente specifica, in cui l’oggetto si costituisce in una relazione affatto pratica con il soggetto.

 

E che cosa è la materia? Nella fisica atomica, la materia è definita dalle sue possibili reazioni agli esperimenti umani, e dalle leggi matematiche – cioè intellettuali – alle quali obbedisce. Noi definiamo la materia come un oggetto di possibili manipolazioni umane136.

 

Ma se così stan le cose, allora la scienza è diventata in se un fatto tecnologico:

 

La scienza pragmatica concepisce la natura nel modo che si conviene ad un’età tecnologica137.

 

A seconda del grado in cui l’operazionismo diventa il centro dell’impresa scientifica, la razionalità assume la forma di costruzione metodica; si tratta di organizzare e manipolare la materia vista come mero oggetto di controllo, come mezzo che si presta a tutti gli usi e a tutti i fini – strumento per sé, «in sé».

L’atteggiamento «corretto» verso lo strumento è quello tecnico, il logos corretto è tecno-logia, che progetta e risponde a una realtà tecnologica138. In tale realtà, la materia è «neutrale» quanto la scienza; l’oggettività non reca un telos in sé e neppure è proiettata verso un telos. Ma è precisamente il suo carattere neutrale che rapporta l’oggettività ad uno specifico Soggetto storico, cioè alla coscienza che prevale nella società dalla quale e per la quale la neutralità è stabilita. Tale carattere agisce tramite le astrazioni medesime che costituiscono la nuova razionalità, come un fattore interno piuttosto che esterno. L’operazionismo puro e applicato, la ragione teoretica e pratica, l’impresa scientifica e commerciale portano a termine la riduzione delle qualità secondarie a primarie, la quantificazione e l’astrazione da «particolari tipi di entità».

È vero, la razionalità della scienza pura è avalutativa e non ha nessun fine pratico, è «neutrale» rispetto a ogni valore estraneo che possa esserle imposto. Ma questa neutralità è un carattere positivo. La razionalità scientifica favorisce una specifica organizzazione della società, proprio perché concepisce una forma pura (o materia pura – qui i termini altre volte opposti convergono) che può essere piegata praticamente a tutti i fini. Formalizzazione e funzionalizzazione sono, antecedentemente ad ogni applicazione, le «forme pure» di una concreta pratica sociale. Mentre la scienza liberava la natura da ogni fine intrinseco e spogliava la materia di ogni qualità che non fosse qualità quantificabile, la società affrancava gli uomini dalla gerarchia «naturale» della dipendenza personale e li poneva in rapporto tra loro in riferimento a qualità quantificabili, come unità di un’astratta forza lavoro, calcolabile in unità di tempo. «In virtù della razionalizzazione dei modi di lavoro, l’eliminazione delle qualità è trasferita dall’universo della scienza a quello dell’esperienza quotidiana»139.

Tra i due processi di quantificazione, scientifica e societaria, esiste un’affinità ed un rapporto causale, o la connessione è semplicemente creata da una visione sociologica a posteriori? L’argomento sinora svolto prospettava che la nuova razionalità scientifica fosse in sé, nella sua stessa astrattezza e purezza, operativa; e questo perché si era sviluppata in vista di un orizzonte strumentale. L’osservazione e l’esperimento, l’organizzazione e la coordinazione metodiche di dati, proposizioni e conclusioni non procedono mai in uno spazio non strutturato, neutrale, teoretico. L’intento conoscitivo implica operazioni su oggetti, o astrazioni da oggetti che si succedono in un universo dato di discorso e d’azione. La scienza osserva, calcola e teorizza a partire da un punto determinato di questo universo. Le stelle osservate da Galileo erano le medesime dell’antichità classica, ma il differente universo di discorso e d’azione – in breve, la differente realtà sociale – aveva dischiuso nuovi indirizzi e campi d’osservazione, nuove possibilità di ordinare i dati osservati. Non voglio soffermarmi qui sulla relazione storica tra razionalità scientifica e razionalità societaria agli inizi del periodo moderno. Intendo piuttosto dimostrare il carattere strumentale interno di tale razionalità scientifica, in virtù della quale essa si pone come una tecnologia a priori, e come l’a priori di una tecnologia specifica – ovvero la tecnologia come forma di controllo e di dominio sociali.

Il pensiero scientifico moderno, in quanto pensiero puro, non mira a particolari scopi pratici né a particolari forme di dominio. Ma occorre dire che non esiste nulla di simile al dominio per sé. Come la teoria si sviluppa, essa astrae da un contenuto teleologico fattuale, o lo respinge: quello del concreto universo di discorso e d’azione che esiste al presente. È entro questo universo stesso che il progetto scientifico avviene o non avviene, che la teoria concepisce o no le possibili alternative, che le sue ipotesi sovvertono o estendono la realtà prestabilita.

I principî della scienza moderna furono strutturati a priori in modo tale da poter servire come strumenti concettuali per un universo di controllo produttivo, mosso dal proprio stesso impulso; l’operazionismo teorico finì per corrispondere all’operazionismo pratico. Il metodo scientifico che ha portato al dominio sempre più efficace della natura giunse così a fornire i concetti puri non meno che gli strumenti per il dominio sempre più efficace dell’uomo da parte dell’uomo, attraverso il dominio della natura. La ragione teoretica, rimanendo pura e neutrale, entrò al servizio della ragione pratica. La fusione si dimostrò vantaggiosa per entrambe. Oggi, il dominio si perpetua e si estende non soltanto attraverso la tecnologia ma come tecnologia, e quest’ultima fornisce una superiore legittimazione al potere politico che si espande sino ad assorbire tutte le sfere della cultura.

In questo universo, la tecnologia provvede inoltre una razionalizzazione egregia della non-libertà dell’uomo, e dimostra l’impossibilità «tecnica» di essere autonomi, di decidere personalmente della propria vita. L’assenza di libertà non appare infatti avere carattere irrazionale, né politico, ma sembra piuttosto dovuta alla sottomissione all’apparato tecnico che accresce i comodi della vita e aumenta la produttività del lavoro. In tal modo la razionalità tecnologica protegge piuttosto che abolire la legittimità del dominio, e l’orizzonte strumentale della ragione si apre su una società razionalmente totalitaria:

 

Si potrebbe chiamare filosofia autocratica delle tecniche quella che prende l’insieme tecnico come un luogo dove si utilizzano le macchine per acquisire potere. La macchina è soltanto un mezzo; lo scopo rimane la conquista della natura, l’addomesticamento delle forze naturali ottenuto per mezzo di un primo asservimento: la macchina è uno schiavo che serve a fare altri schiavi. Una tale ispirazione dominatrice e schiavistica può andare di pari passo con la richiesta di maggior libertà per l’uomo. Ma è difficile liberarsi trasferendo la schiavitù su altri esseri, uomini, animali o macchine; regnare su un popolo di macchine che sta asservendo il mondo intiero è pur sempre regnare, e ogni regno presuppone l’accettazione degli schemi dell’asservimento140.

 

La dinamica ininterrotta del progresso tecnico è ormai permeata di contenuto politico, ed il Logos della tecnica è stato riformulato nel Logos della servitù senza fine. La forza liberatrice della tecnologia – la strumentalizzazione delle cose – si muta in catena che blocca la liberazione, in strumentalizzazione dell’uomo.

 

Questa interpretazione vincolerebbe il progetto scientifico (metodo e teoria), prima di ogni applicazione e utilizzazione, ad uno specifico progetto societario, e cercherebbe il legame precisamente nella forma più intima della razionalità scientifica, cioè nel carattere funzionale dei suoi concetti. In altri termini, l’universo scientifico (ovvero non le proposizioni specifiche sulla struttura della materia, sull’energia, sulla loro relazione, ecc., bensì la proiezione della natura come materia quantificabile, come guida per l’accostamento ipotetico all’oggettività, e come espressione logico-matematica di questa) sarebbe l’orizzonte di una concreta pratica societaria, che verrebbe preservata nello sviluppo del progetto scientifico.

Ma anche dando per scontato lo strumentalismo interno della razionalità scientifica, l’assunto non fonderebbe ancora la validità socio-logica del progetto scientifico. Una volta ammesso che la formazione dei più astratti concetti scientifici continua a mantenere la relazione tra soggetto ed oggetto in un dato universo di discorso e d’azione, il legame tra ragione teoretica e ragione pratica può essere inteso in modi molto differenti.

Una differente interpretazione ci viene appunto offerta da Jean Piaget con la sua «epistemologia genetica». Piaget vede nella formazione di concetti scientifici una serie di astrazioni differenti da una relazione generale tra soggetto e oggetto. L’astrazione non deriva né dal mero oggetto – così che il soggetto agisce soltanto da punto neutrale di osservazione e misura – e neppure deriva dal soggetto come strumento della pura Ragione conoscitiva. Piaget distingue fra il processo cognitivo nella matematica e nella fisica. Nel primo caso si tratta di un’astrazione «all’interno dell’azione come tale»:

 

Contrariamente a quanto spesso si dice, le entità matematiche non risultano dunque da un’astrazione che ha la propria base negli oggetti, ma piuttosto da un’astrazione operata all’interno delle azioni come tali. Riunire, ordinare, smuovere, ecc., sono azioni assai più generali che pensare, spingere, ecc., poiché riguardano la coordinazione stessa di tutte le azioni particolari ed entrano in ognuna di esse come fattore coordinatore…141.

 

Le proposizioni matematiche esprimono quindi «un adattamento generale all’oggetto», in contrasto con gli adattamenti particolari che sono la caratteristica delle proposizioni vere nella fisica. La logica e la logica matematica sono «un’azione compiuta su un oggetto qualsiasi, cioè un’azione strutturata in modo generale»142; e questa «azione» ha validità generale in quanto

 

tale astrazione o differenziazione porta fino al centro delle coordinazioni ereditarie, poiché i meccanismi coordinatori dell’azione riguardano sempre, all’origine, coordinazioni riflesse ed istintive143.

 

In fisica, l’astrazione procede dall’oggetto ma è dovuta ad azioni specifiche compiute dal soggetto, cosicché l’astrazione assume necessariamente una forma logico-matematica. Ciò avviene in quanto

 

azioni particolari non danno luogo a una conoscenza se non quando sono coordinate tra loro e quando tale coordinazione è, per sua stessa natura, logico-matematica144.

 

L’astrazione in fisica riconduce necessariamente all’astrazione logico-matematica e quest’ultima è, in quanto pura coordinazione, la forma generale dell’azione – «l’azione come tale». E siffatta coordinazione costituisce l’oggettività perché serba in sé strutture ereditarie, «riflessive ed istintive».

L’interpretazione di Piaget ammette l’intimo carattere pratico della ragione teoretica, ma lo fa derivare da una struttura generale dell’azione che, in ultima analisi, è una struttura biologica ereditaria. Il metodo scientifico si fonderebbe da ultimo su una base biologica, che è al di sopra (o piuttosto al di sotto) della storia. Inoltre, ammesso che ogni conoscenza scientifica presupponga la coordinazione di particolari azioni, io non vedo perché tale coordinazione sia «per sua stessa natura» logico-matematica – a meno che le «particolari azioni» siano le operazioni scientifiche della fisica moderna, nel qual caso l’interpretazione diverrebbe un circolo chiuso.

 

In contrasto con l’analisi di Piaget, orientata piuttosto in senso psicologico e biologico, Husserl ci ha offerto una epistemologia genetica fondata sulla struttura storico-sociale della ragione scientifica. Intendo riferirmi all’opera di Husserl145 solo in quanto essa sottolinea fino a che punto la scienza moderna si pone come la «metodologia» di una realtà storica già stabilita, entro il cui universo essa si muove.

Husserl parte dal fatto che la matematizzazione della natura diede origine a conoscenze pratiche rivelatesi valide: alla costruzione cioè di una realtà «ideativa» che poteva essere effettivamente «correlata» con la realtà empirica (pp. 19, 42). Ma il successo scientifico rimandava ad una pratica pre-scientifica, che costituiva il fondamento originale (Sinnesfundament) della scienza galileiana. Questa base prescientifica della scienza nel mondo della pratica (Lebenswelt), che ha determinato la struttura teoretica, non fu posta in dubbio da Galileo, ma fu bensì posta in ombra (verdeckt) dallo sviluppo ulteriore della scienza. Il risultato fu l’illusione che la matematizzazione della natura avesse creato una «verità assoluta autonoma (eigenständige)» (pp. 49 sgg.), mentre in realtà si trattava pur sempre d’una tecnica e di un metodo specifici per la Lebenswelt. Il travestimento ideativo (Ideenkleid) della scienza matematica è quindi un travestimento di simboli che rappresenta e nello stesso tempo maschera (vertritt e verkleidet) il mondo della pratica (p. 52).

 

Qual è lo scopo e il contenuto originale, prescientifico, che si conserva nella struttura concettuale della scienza? La misurazione scopre nella pratica la possibilità di usare certe forme di base, modelli e rapporti, che sono universalmente «disponibili in forme identifiche, per la determinazione ed il calcolo esatti di relazioni e oggetti empirici» (p. 25). Con tutta la sua astrazione e generalizzazione, il metodo scientifico conserva (e maschera) la propria struttura prescientifica e tecnica; lo sviluppo della prima rappresenta (e maschera) lo sviluppo della seconda. Così la geometria classica «idealizza» la pratica dell’agrimensura e della rilevazione del terreno (Feldmesskunst). La geometria è la teoria della oggettivazione pratica.

Naturalmente, l’algebra e la logica matematica costruiscono una realtà ideativa assoluta, libera dalle incalcolabili incertezze e particolarità della Lebenswelt e dei soggetti che in esso vivono. Tuttavia, tale costruzione ideativa è la teoria e la tecnica per «idealizzare» la nuova Lebenswelt:

 

Nella pratica matematica raggiungiamo quanto ci è negato nella pratica empirica, cioè l’esattezza. È infatti possibile determinare le forme ideali in termini di identità assoluta… Come tali, esse diventano universalmente disponibili e fungibili… (p. 24).

 

La coordinazione (Zuordnung) del mondo ideativo con quello empirico ci rende capaci di «prevedere in anticipo le regolarità della Lebenswelt pratica»:

 

Una volta che si posseggono le formule, si possiede la capacità di previsione che si desidera nella pratica.

 

– la previsione di ciò che ci si deve aspettare nell’esperienza della vita concreta (p. 43).

Husserl sottolinea le connotazioni prescientifiche e tecniche della precisione e fungibilità matematiche. Questi concetti centrali della scienza moderna emergono non come sottoprodotti di una scienza pura, ma come parte della sua intima struttura concettuale. L’astrazione scientifica dalla concretezza e la quantificazione del qualitativo, che permettono di ottenere sia l’esattezza sia una validità universale, richiedono una specifica esperienza concreta della Lebenswelt – un modo particolare di «vedere» il mondo. E questo «vedere», nonostante il suo carattere «puro», disinteressato, è un vedere entro un contesto intenzionale e pratico, che anticipa (Voraussehen) e progetta (Vorhaben). La scienza galileiana è la scienza deiranticipare e del progettare con metodo, sistematicamente. Ma – questo è decisivo – si tratta di un modo specifico di anticipare e di progettare – un modo, cioè, che esperimenta, comprende e plasma il mondo nei termini di relazioni calcolabili e prevedibili tra unità esattamente identificabili. In questo progetto, la quantificabilità universale è una premessa necessaria per il dominio della natura. Le qualità individuali non quantificabili, ostacolano il cammino ad un’organizzazione di uomini e cose impostata secondo la forza, misurabile, che si può estrarre da essi. Ma questo è un progetto specifico, sociale e storico, e la coscienza che lo intraprende è il soggetto occulto della scienza galileiana; è la tecnica, l’arte dell’anticipare estesa all’infinito (ins Unendliche erweiterte Voraussicht: p. 51).

 

Ora, proprio perché la scienza galileiana è, nel modo di formare i concetti, la tecnica di una specifica Lebenswelt, questa non trascende e non può trascendere tale Lebenswelt. Essa rimane essenzialmente entro il quadro sperimentale di base ed entro l’universo di fini fissati da questa realtà. Con le parole di Husserl, nella scienza di Galileo «l’universo concreto della causalità diventa matematica applicata» (p. 112); ma il mondo della percezione e dell’esperienza,

 

nel quale si svolge praticamente tutta la nostra vita, resta, nella sua struttura essenziale, quello che è, immutato nel suo proprio stile causale… [p. 51. Corsivo mio].

 

È un’affermazione provocatoria, che si può facilmente minimizzare, ed io mi prendo la libertà di interpretarla in un modo che forse oltrepassa i suoi limiti. L’affermazione non si riferisce semplicemente al fatto che, nonostante la geometria non euclidea, noi continuiamo a percepire e ad agire in uno spazio tridimensionale; o all’altro fatto che, a dispetto del concetto «statistico» di causalità, noi agiamo tuttora, quando ci guida il senso comune, in accordo con le «vecchie» leggi di causalità. Né l’affermazione contraddice i mutamenti perpetui nel mondo della pratica quotidiana, quali risultano dalla «matematica applicata». Ben altro può essere in gioco: si tratta del limite inerente alla scienza stabilita ed al metodo scientifico, in virtù del quale essi estendono, razionalizzano e consolidano la Lebenswelt prevalente senza alterarne la struttura esistenziale, ovvero senza configurare un modo qualitativamente nuovo di «vedere», e nuove relazioni qualitative tra gli uomini e tra l’uomo e la natura.

Quanto alle forme istituzionalizzate di vita, la scienza (sia pura sia applicata) finisce così per avere una funzione stabilizzatrice, statica, conservatrice. Anche i suoi successi più rivoluzionari consisterebbero soltanto nel costruire e nel distruggere in accordo con una esperienza ed una organizzazione specifiche della realtà. La continua autocorrezione della scienza – la continua rivoluzione delle proprie ipotesi inerente al suo metodo – vale pur essa a sospingere ed estendere il medesimo universo storico, la medesima esperienza di fondo. Essa conserva lo stesso a priori formale, che torna a vantaggio di un contenuto molto materiale e pratico. Lungi dal voler minimizzare il mutamento fondamentale avvenuto con lo stabilirsi della scienza galileiana, l’interpretazione husserliana sottolinea la rottura radicale con la tradizione pregalileiana; l’orizzonte strumentalista del pensiero fu realmente un nuovo orizzonte. Esso ha creato il nuovo mondo della Ragione teoretica e pratica, ma è rimasto legato ad uno specifico mondo storico che ha dei limiti evidenti, nella teoria come nella pratica, nei suoi metodi puri come in quelli applicati.

La precedente disamina prospetta non solo le limitazioni ed i pregiudizi interni del metodo scientifico ma anche la sua soggettività storica. Di più, essa sembra implicare che vi sia bisogno di un tipo di «fisica qualitativa», della reviviscenza di filosofie teologiche, ecc. Ammetto che il sospetto è giustificato, ma a questo punto io posso solo asserire che tali idee oscurantiste sono lungi da me146.

Non importa come vengano definite la verità e l’oggettività, esse rimangono legate agli agenti umani della teoria e della pratica, e alla loro abilità di comprendere e cambiare il loro mondo. Questa abilità dipende a sua volta dal grado in cui la materia (qualunque essa sia) viene riconosciuta e compresa come ciò che è in tutte le forme particolari. Stando così le cose, la scienza contemporanea possiede, rispetto a quelle che l’hanno preceduta, una validità obbiettiva immensamente più grande. Si potrebbe anzi aggiungere che, al presente, il metodo scientifico è l’unico metodo che possa reclamare una tale validità; il gioco delle ipotesi e dei fatti osservabili convalida le ipotesi e stabilisce i fatti. Quel che sto cercando di dire è che la scienza, in virtù del suo metodo e dei suoi concetti, ha progettato e promosso un universo in cui il dominio della natura è rimasto legato al dominio dell’uomo – legame che rischia di essere fatale a questo universo intero. La Natura, scientificamente compresa e dominata, ricompare nell’apparato tecnico di produzione e distruzione che sostiene e migliora la vita degli individui nel mentre li assoggetta ai padroni dell’apparato. Così la gerarchia razionale si fonde con quella sociale. Se le cose stanno veramente così, allora un cambiamento in direzione progressista, tale da poter tagliare questo vincolo fatale, influirebbe anche sulla struttura propria della scienza, sul progetto scientifico. Le sue ipotesi, senza perdere nulla del loro carattere razionale, si svilupperebbero in un contesto sperimentale essenzialmente diverso (quello di un mondo pacificato); di conseguenza, la scienza giungerebbe a formulare concetti di natura essenzialmente diversi e a stabilire fatti essenzialmente differenti. La società razionale sovverte l’idea di Ragione.

Ho messo in rilievo che gli elementi di un siffatto sovvertimento, le concezioni di un’altra razionalità, furono presenti nella storia del pensiero sin dagli inizi. L’antica idea di uno stato in cui l’Essere giunge a compimento, dove la tensione tra «è» e «dovrebbe» è risolta nel ciclo di un eterno ritorno, partecipa della metafisica del dominio. Ma essa pertiene anche alla metafisica della liberazione – alla riconciliazione di Logos ed Eros. Tale idea prefigura l’arresto della produttività repressiva della Ragione, la fine del dominio nella gratificazione.

Le due razionalità in contrasto non possono essere fatte semplicemente coincidere con pensiero classico e pensiero moderno, nell’ordine, come avviene in John Dewey: «dal godimento contemplativo alla manipolazione ed al controllo attivi», e «dal conoscere come godimento estetico delle proprietà di natura… al conoscere come mezzo di controllo secolare»147. Il pensiero classico fu sufficientemente dedito alla logica del controllo secolare, e c’è nel pensiero moderno una componente sufficiente di accusa e di rifiuto per viziare la formulazione deweyana. La Ragione, come pensiero concettuale e come condotta, è necessariamente impero, dominio. Il Logos è legge, precetto, ordine per virtù di conoscenza. Nel sussumere casi particolari sotto un universale, nell’assoggettarli al loro universale, il pensiero giunge a dominare i casi particolari. Esso diventa capace non solo di comprendere ma anche di agire su di essi, di controllarli. Ma se è vero che ogni pensiero è sottoposto alle regole della logica, è anche vero che questa si dispiega in modo differente nei vari modi di pensare. La logica formale classica e la moderna logica simbolica, la logica trascendentale e la logica dialettica – ciascuna governa un differente universo di discorso e d’esperienza. Tutte quante si sono sviluppate entro un continuo storico di dominio al quale pagano un tributo. È questo continuo che conferisce ai modi del pensiero positivo il loro carattere conformista ed ideologico, e a quelli del pensiero negativo il loro carattere speculativo ed utopistico.

A mo’ di sommario, possiamo ora cercare di identificare più chiaramente il soggetto occulto della razionalità scientifica ed i fini nascosti nella sua forma pura. Il concetto scientifico di una natura universalmente controllabile configurò la natura come materia-in-funzione senza fine, mero oggetto di teoria e di pratica. In questa forma, il mondo-oggetto entrò a far parte della costruzione di un universo tecnologico – un universo di strumenti mentali e fisici, di mezzi in sé. Si tratta quindi di un sistema veramente «ipotetico», che dipende da un soggetto verificante e validante.

I processi di validazione e di verifica possono essere puramente teorici ma non avvengono mai nel vuoto, e mai hanno termine in una mente privata, individuale. Il sistema ipotetico di forme e funzioni viene a dipendere da un altro sistema – un universo di scopi prestabilito, nel quale e per il quale esso si sviluppa. Ciò che appariva estraneo, alieno al progetto teoretico, si mostra come parte della sua stessa struttura (metodo e concetti); l’oggettività pura si rivela quale oggetto per una soggettività che provvede il Telos, i fini. Nella costruzione della realtà tecnologica non c’è nulla di simile ad un ordine scientifico puramente razionale; il processo della razionalità tecnologica è un processo politico.

Soltanto nel medium della tecnologia l’uomo e la natura diventano oggetti fungibili di un’organizzazione. L’efficacia e la produttività universali dell’apparato nel quale essi sono inclusi occultano gli interessi particolari che organizzano l’apparato. In altre parole, la tecnologia è diventata il maggior veicolo di reificazione – di reificazione nella sua forma più matura ed efficace. Non soltanto la posizione sociale dell’individuo e la sua relazione con gli altri appaiono determinate da qualità e da leggi oggettive, ma queste sembrano perdere il loro carattere misterioso ed incontrollabile, e appaiono come manifestazioni calcolabili della razionalità (scientifica). Il mondo tende a diventare materia di amministrazione totale, che assorbe in sé anche gli amministratori. La tela di ragno del dominio è diventata la tela della Ragione stessa, e la società presente è fatalmente invischiata in essa. Ed i modi trascendenti del pensiero appaiono trascendere la stessa Ragione.

In queste condizioni, il pensiero scientifico (scientifico nel senso più lato, in quanto opposto al pensiero confuso, metafisico, emotivo ed illogico) assume, al di fuori delle scienze fisiche, la veste di un formalismo puro e in sé conchiuso (simbolismo) da un lato, e dall’altro lato quella di un empirismo totale. (Il contrasto non è un conflitto. Si osservi l’applicazione empirica della matematica e della logica simbolica nelle industrie elettroniche). In relazione all’universo stabilito di discorso e di comportamento, la non-contraddizione e la non-trascendenza sono il denominatore comune. L’empirismo totale rivela la sua funzione ideologica nella filosofia contemporanea. Rispetto a questa funzione, alcuni temi di analisi linguistica saranno discussi nel capitolo successivo. La discussione servirà a preparare il terreno per tentar di mostrare le barriere che impediscono a tale empirismo di venire alle prese con la realtà, e stabilire (o piuttosto ristabilire) i concetti che le potrebbero infrangere.

7.
Il trionfo del pensiero positivo:
la filosofia ad una dimensione

 

 

 

La nuova definizione del pensiero che aiuta a coordinare le operazioni mentali con quelle della realtà sociale mira ad una terapia. Il pensiero è in linea con la realtà quando è guarito dal desiderio di trasgredire uno schema concettuale che è o puramente assiomatico (la logica, la matematica) o è coestensivo con l’universo stabilito di discorso e di comportamento. In tal modo l’analisi linguistica sostiene di guarire pensiero e linguaggio da confuse nozioni metafisiche, dai «fantasmi» di un passato meno maturo e meno scientifico che ancora assillano la mente benché siano incapaci di designare o di spiegare. L’accento è posto sulla funzione terapeutica dell’analisi filosofica, sulla sua capacità di correggere comportamenti anormali nel pensare o nel parlare, di rimuovere oscurità, errori, e stranezze, o quanto meno di sopprimere la loro espressione.

Nel capitolo IV, ho discusso l’empirismo terapeutico di cui dà prova la sociologia nel portare in luce e nel correggere il comportamento anormale negli stabilimenti industriali, procedimento che implica l’esclusione di concetti critici capaci di mettere in rapporto tale comportamento con la società come complesso. Grazie a questa restrizione, il procedimento teorico diventa immediatamente pratico. Esso designa i metodi per una migliore amministrazione, una più sicura pianificazione, maggiore efficienza, un calcolo più rigoroso. L’analisi, a mezzo di correzioni e miglioramenti, conclude in un’apologia; l’empirismo dimostra di essere pensiero positivo.

L’analisi filosofica non si presta ad un’applicazione altrettanto immediata. A paragone delle realizzazioni della sociologia e della psicologia, il trattamento terapeutico del pensiero serba un carattere accademico. Naturalmente, la precisione di pensiero, la liberazione da spettri metafisici e da nozioni prive di significato possono ben essere considerati fini in se stessi. Per di più, la cura del pensiero nell’analisi linguistica è aliar suo e suo proprio diritto. Il suo carattere ideologico non deve essere pregiudicato col porre subito in relazione la lotta contro la trascendenza concettuale al di là dell’universo stabilito di discorso e la lotta contro la trascendenza politica al di là della società stabilita.

Come ogni filosofia degna del nome, l’analisi linguistica parla da sé e definisce il proprio atteggiamento verso la realtà. Essa indica quale suo principale interesse lo «sgonfiamento» dei concetti trascendenti, assumendo come quadro di riferimento l’uso comune delle parole, la varietà del comportamento prevalente. Con tali caratteristiche, essa definisce la propria posizione nella tradizione filosofica, al polo opposto rispetto a quei modi di pensare che hanno elaborato i loro concetti in tensione, ed anche in contraddizione, con l’universo prevalente di discorso e di comportamento.

Nei termini dell’universo stabilito, tali modi contraddicenti di pensare si pongono come pensiero negativo. «Il potere del negativo» è il principio che governa lo sviluppo dei concetti, e la contraddizione diventa la qualità che distingue la Ragione (Hegel). Questa qualità di pensiero non è stata relegata ad un certo tipo di razionalismo; fu anzi un elemento decisivo nella tradizione empirista. L’empirismo non è necessariamente positivo; il suo atteggiamento verso la realtà stabilita dipende dalla particolare dimensione dell’esperienza che serve come fonte di conoscenza e quadro di riferimento di base. Per esempio, pare che sensismo e materialismo abbiano di per sé carattere negativo rispetto a una società in cui gli istinti vitali ed i bisogni materiali vengono trascurati. Per contrasto, l’empirismo dell’analisi linguistica si muove entro uno schema che non permette una tale contraddizione, e questa autolimitazione all’universo prevalente di comportamento favorisce il sorgere di un atteggiamento intrinsecamente positivo. Ad onta dell’approccio rigidamente neutrale del filosofo, l’analisi così vincolata in partenza soccombe al potere del pensiero positivo.

Prima di provarmi a dimostrare il carattere intrinsecamente ideologico dell’analisi linguistica, devo cercare di giustificare il modo apparentemente arbitrario e sprezzante onde tratto i termini «positivo» e «positivismo» con un breve commento sulle loro origini. Sin dalla prima volta che venne usato, probabilmente nella scuola di Saint-Simon, il termine «positivismo» ha designato 1) la validazione del pensiero cognitivo per mezzo dell’esperienza fattuale; 2) l’orientamento del pensiero cognitivo verso le scienze fisiche come modello di certezza e di esattezza; 3) la persuasione che il progresso della conoscenza dipende da tale orientamento. Di conseguenza, il positivismo è una lotta contro tutte le metafisiche, i trascendentalismi, e gli idealismi, considerati modi di pensiero oscurantisti e regressivi. Al punto in cui la realtà data è scientificamente compresa e trasformata, al punto in cui la società diventa industriale e tecnologica, il positivismo trova nella società il mezzo per la realizzazione (e la convalida) dei suoi concetti: l’armonia tra la teoria e la pratica, tra la verità ed i fatti. Il pensiero filosofico si muta in pensiero affermativo; la critica filosofica giudica entro il quadro della società e stigmatizza le nozioni non-positive come mera speculazione, sogni o fantasie148.

L’universo di discorso e comportamento che incomincia ad esprimersi nel positivismo saint-simoniano è quello della realtà tecnologica. In esso, il mondo-oggetto è trasformato in istrumento. Molto di ciò che è ancora al di fuori del mondo strumentale – indomita, cieca natura – ora appare alla portata del progresso scientifico e tecnico. La dimensione metafisica, già campo naturale del pensiero razionale, diventa irrazionale e ascientifica. Sul terreno delle proprie realizzazioni la Ragione respinge la trascendenza, Nella fase più avanzata del positivismo contemporaneo, non è ormai più il progresso scientifico e tecnico che motiva la ripulsa; tuttavia, la contrazione del pensiero non è meno severa per essere autoimposta, per essere il metodo proprio della filosofia. Lo sforzo dei contemporanei per ridurre la portata e la verità della filosofia è enorme, ed i filosofi stessi proclamano la modestia e l’inefficienza della filosofia. Essa lascia intatta la realtà stabilita ed ha in orrore ogni trasgressione.

Il modo sprezzante con cui Austin tratta le alternative all’uso comune delle parole e tutto ciò che «ci viene in mente quando al pomeriggio stiamo in poltrona»; l’affermazione di Wittgenstein che la filosofia «lascia tutto come si trova» – tali dichiarazioni149 tradiscono, secondo me, il sado-masochismo accademico, l’autoumiliazione, e l’autodenigrazione dell’intellettuale la cui fatica non dà risultati di tipo scientifico o tecnico apprezzabili. Simili affermazioni di modestia e di dipendenza sembrano riecheggiare il virtuoso appagamento con cui Hume parlava delle limitazioni della ragione; una volta riconosciute e accettate, esse proteggono l’uomo da inutili avventure mentali, ma lo lasciano pienamente capace di orientarsi nell’ambiente dato. Resta il fatto che quando Hume voleva «sgonfiare» le sostanze egli combatteva contro una possente ideologia, mentre i suoi successori provvedono oggi una giustificazione intellettuale per quello che la società ha da lungo tempo realizzato – vale a dire, la denigrazione dei modi alternativi di pensare che contraddicono l’universo stabilito di discorso.

Lo stile con cui tale comportamentismo filosofico si presenta meriterebbe da solo un’analisi. Esso sembra muoversi tra i due poli di un’autorità pontificante e di una familiarità facilona. Entrambe le tendenze sono fuse perfettamente nell’uso ricorrente, da parte di Wittgenstein, dell’imperativo con l’intimo o condiscendente «du» («tu»)150; o nel capitolo iniziale di The Concept of Mind di Gilbert Ryle, dove la presentazione del «Mito cartesiano» come la «dottrina ufficiale» della relazione tra il corpo e la mente è seguita da una dimostrazione preliminare della sua «assurdità»; il che ricorda John Doe, Richard Roe, e ciò che essi pensano del «contribuente medio».

In tutto il lavoro degli analisti del linguaggio si ritrova questa familiarità con l’uomo della strada la cui parlata ha un ruolo così preminente nella filosofia linguistica. Il discorso alla mano è essenziale proprio perché esclude sin dall’inizio il vocabolario intellettualistico della «metafisica»; esso milita contro il non-conformismo intelligente, e mette in ridicolo le teste d’uovo. Il linguaggio di John Doe e di Richard Roe è il linguaggio proprio dell’uomo della strada; è il linguaggio che esprime il suo modo di fare; esso è dunque il segno della concretezza. Purtroppo è anche il segno di una falsa concretezza. Il linguaggio che fornisce la maggior parte del materiale per l’analisi è un linguaggio purgato, purgato non solo del suo vocabolario «non ortodosso», ma anche dei mezzi per esprimere un qualsiasi contenuto diverso da quello fornito agli individui dalla società in cui vivono. L’analista del linguaggio trova questo linguaggio purgato come un fatto compiuto, e prende il linguaggio impoverito come lo trova, isolandolo da ciò che non vi è espresso benché penetri nell’universo stabilito di discorso come elemento e fattore di significato.

Rendendo omaggio alla prevalente varietà di significati e di usi, al potere e al buon senso del parlar comune, nel mentre blocca (come materiale estraneo) l’analisi di ciò che tale parlata dice della società che vi ricorre, la filosofia linguistica reprime una volta di più ciò che è già continuamente represso in questo universo di discorso e di comportamento. L’autorità della filosofia dà la sua benedizione alle forze che fanno questo universo. L’analisi linguistica astrae da ciò che il linguaggio ordinario rivela nel parlare come parla, la mutilazione dell’uomo e della natura.

Inoltre, troppo spesso non è neppure il linguaggio comune che guida l’analisi, ma piuttosto atomi disgregati di linguaggio, sciocchi frammenti di discorso che suonano come chiacchiere infantili, quali «Questo mi sembra proprio un uomo che mangia papaveri», «Egli vide un pettirosso», «Io avevo un cappello». Wittgenstein dedica un bel po’ di acume e di spazio all’analisi di «La mia scopa è nell’angolo». Voglio citare, come esempio rappresentativo, un’analisi da Other Minds, di J. L. Austin151:

 

Si possono distinguere due modi piuttosto diversi di essere esitanti.

a) prendiamo il caso in cui stiamo gustando un certo sapore. Possiamo dire: «Non riesco proprio a capire che cosa sia: non ho mai assaggiato finora nulla che ci assomigli anche da lontano… No, non c’è verso: più ci penso e più mi confondo: è del tutto diverso e del tutto particolare, è un’esperienza affatto unica!» Ciò illustra il caso in cui non posso trovare nulla, nella mia passata esperienza, con cui paragonare il caso attuale: io sono certo che non ha nulla in comune con quanto ho assaggiato sinora, e nemmeno somiglia tanto a qualcosa che conosco da meritare la medesima descrizione. Questo caso, per quanto abbastanza peculiare, rientra nel caso più comune in cui non sono del tutto certo, o solo abbastanza certo, o praticamente certo, che si tratta del sapore, poniamo, del lauro. In tutti i casi siffatti, io mi sforzo di riconoscere l’ingrediente usato cercando nella mia esperienza passata qualcosa che gli somigli, qualche rassomiglianza per mezzo della quale esso meriti, più o meno positivamente, di essere descritto con la stessa parola descrittiva, e in questo sforzo registro vari gradi di successo.

b) L’altro caso è differente, per quanto si combini molto naturalmente con il primo. Ora, quello che cerco di fare è assaporare l’esperienza attuale, apprezzarla, percepirla vividamente. Non sono certo che sia il sapore dell’ananas: non c’è forse qualcosa, un sapore piccante, un che di aspro, o la mancanza di aspro, una sensazione pastosa che non si conviene affatto ad un ananas? Non c’è forse una punta caratteristica di verde, che escluderebbe la malva e difficilmente indicherebbe l’eliotropio? O forse è una cosa un po’ originale: bisogna che ci pensi di più, che lo esamini e riesamini: forse si può intravedere un luccichio innaturale, e quindi non sembra trattarsi di acqua. C’è qualcosa di poco netto in quello che al momento sentiamo, che non può essere corretto pensandoci, o non solamente pensandoci, ma con l’acuire il discernimento, con la discriminazione sensoriale (per quanto sia vero, naturalmente, che il pensare ad altri casi, più marcati, della nostra passata esperienza, può aiutare ed anzi effettivamente aiuta la nostra capacità di discriminare).

 

Che cosa c’è da biasimare in questa analisi? Nella sua esattezza e chiarezza non teme probabilmente confronti – è corretta. Ma questo è tutto, ed io sostengo che essa non solo non è sufficiente, ma è anzi funesta per il pensiero filosofico, e per il pensiero critico in quanto tale. Dal punto di vista filosofico, sorgono due questioni: 1) può mai l’interpretazione di concetti (o parole) orientarsi entro l’universo reale del discorso comune e anche conchiudervisi? 2) sono esattezza e chiarezza fini in sé, o non sono esse richieste piuttosto per altri fini?

Rispondo affermativamente alla prima domanda per quanto concerne la prima parte. Gli esempi più banali di discorso possono, proprio a causa del loro carattere banale, illuminare il mondo empirico nella sua realtà, e servire ad interpretare il modo in cui vi pensiamo e ne parliamo, come fanno le analisi di Sartre di un gruppo di persone che aspettano l’autobus, o l’analisi di Karl Kraus dei quotidiani. Tali analisi illuminano il mondo perché trascendono la concretezza immediata della situazione e la sua espressione. Esse lo trascendono in vista dei fattori che formano la situazione ed il comportamento della gente che parla (o tace) in quella situazione. (Negli esempi appena citati, questi fattori trascendenti sono ricondotti alla divisione sociale del lavoro). In tal modo l’analisi non si conchiude nell’universo del discorso comune, va oltre ed apre un universo qualitativamente differente, i termini del quale possono anche contraddire quello comune.

Faccio un altro esempio: frasi come «la mia scopa è nell’angolo» si potrebbero trovare anche nella Logica di Hegel, ma qui essi verrebbero mostrati come esempi inappropriati o anzi falsi. Essi sarebbero solo relitti, da superare con un discorso che nei concetti, nello stile e nella sintassi appartiene a un ordine differente – un discorso per il quale non è affatto «chiaro che ogni frase nel nostro linguaggio va bene com’è»152. Semmai è vero l’opposto – ogni frase va tanto poco bene quanto il mondo in cui questo linguaggio comunica.

La riduzione quasi masochistica del discorso all’umile e al comune viene eretta a programma: «se le parole “linguaggio”, “esperienza”, “mondo”, han da essere usate allora bisogna usarle nello stesso umile modo delle parole “ tavola”, “lampada”, “porta”»153. Noi dobbiamo «aderire ai soggetti dei nostri pensieri quotidiani, e non farci sviare ed immaginare di dover descrivere cose di estrema sottigliezza…»154 – come se questa fosse l’unica alternativa, e come se le «cose di estrema sottigliezza» non fossero un termine che ben si addice ai giochi linguistici di Wittgenstein, piuttosto che alla Critica della Ragion Pura di Kant. Il pensiero (o perlomeno la sua espressione) non solo è compresso nella camicia di forza dell’uso comune, ma è anche costretto a non chiedere e cercare soluzioni oltre quelle che trova già pronte. «I problemi si risolvono non con il ricorso a nuove informazioni, ma combinando diversamente quanto abbiamo sempre saputo»155.

La povertà della filosofia – un’etichetta che essa stessa si è attribuita – fedele con tutti i suoi concetti allo stato di cose esistente, diffida della possibilità di una nuova esperienza. La soggezione alla legge dei fatti stabiliti è totale – son solo dei fatti linguistici, beninteso, ma la società parla nel suo linguaggio, e a noi vien detto di obbedire. Le proibizioni sono severe e autoritarie: «La filosofia non può in alcun modo interferire con l’uso effettivo del linguaggio»156. «Noi non possiamo avanzare alcuna sorta di teoria. Non ci deve essere nulla di ipotetico nelle nostre considerazioni. Dobbiamo smettere di cercare una spiegazione, e la descrizione sola deve prenderne il posto»157.

Si può chiedere, che cosa rimane della filosofia? Che cosa rimane del pensiero, dell’intelligenza, senza nulla di ipotetico, senza nessuna spiegazione? Ciò che è in palio, tuttavia, non è la definizione o la dignità della filosofia. È piuttosto la possibilità di conservare e proteggere il diritto, il bisogno di pensare e di parlare in termini diversi da quelli dell’uso comune, in termini che sono densi di significato, razionali, e validi precisamente perché sono diversi. Siamo dinanzi al diffondersi di una nuova ideologia che si pone a descrivere ciò che sta succedendo (e ciò che significa) cominciando con l’eliminare i concetti capaci di comprendere ciò che succede (e ciò che significa).

Tanto per cominciare, esiste una differenza irriducibile tra l’universo di pensiero e di linguaggio quotidiani da un lato, e quello del pensiero e del linguaggio filosofici dall’altro lato. In circostanze normali, il linguaggio ordinario è veramente una forma di comportamento – uno strumento pratico. Quando qualcuno dice realmente: «La mia scopa è nell’angolo», è probabile ritenga che un altro che ha realmente chiesto della scopa stia per prenderla o per lasciarla, e ne sarà soddisfatto o seccato. In ogni caso, la frase ha compiuto la propria funzione con il causare una reazione a livello di comportamento: «l’effetto distrugge la causa; il fine assorbe i mezzi»158.

Per contrasto, se, in un testo o in un discorso filosofico, la parola «sostanza», «idea», «uomo», «alienazione» diventa il soggetto di una proposizione, non avrà luogo, né ci si aspetta che abbia luogo, alcuna trasformazione di significato in reazione manifesta. La parola rimane, per così dire, incompiuta – eccetto che nel pensiero, dove può dare origine ad altri pensieri. E attraverso una lunga serie di mediazioni entro un continuo storico, la proposizione può aiutare a formare e guidare la pratica. Ma la proposizione rimane incompiuta anche allora – solo il seguace dell’idealismo assoluto sostiene la tesi di una identità finale tra il pensiero ed il suo oggetto. Può darsi quindi che le parole cui la filosofia reca interesse non abbiano mai un uso «tanto umile… quanto quello delle parole “tavola”, “lampada”, “porta”».

 

Ne segue insomma che l’esattezza e la chiarezza in filosofia non possono essere raggiunte entro l’universo del discorso comune. I concetti filosofici mirano ad una dimensione di fatto e di significato che chiarisca le frasi e le parole frammentarie del discorso comune «dall’esterno», mostrando che questo «esterno» è essenziale per la comprensione del discorso comune. Oppure, se l’universo stesso del discorso comune diventa l’oggetto dell’analisi filosofica, il linguaggio della filosofia diventa un «metalinguaggio»159. Anche dove si muova negli umili termini del discorso comune, esso rimane antagonistico. Esso dissolve il contesto stabilito, entro il quale si esperisce il significato, in quello della sua realtà; esso astrae dalla concretezza immediata al fine di pervenire alla concretezza autentica.

Considerati da questa posizione, gli esempi di analisi linguistica citati sopra diventano discutibili come oggetti validi dell’analisi filosofica. La descrizione più puntuale e chiarificatrice dell’assaggiare qualcosa che ricorda o non ricorda il sapore dell’ananas potrà mai contribuire alla conoscenza filosofica? Potrà mai servire come una critica in cui sono in gioco controverse condizioni umane, condizioni diverse da quelle di un test medico o psicologico del gusto? Certamente non è questo l’intento dell’analisi di Austin. L’oggetto dell’analisi, sottratto dal più largo e folto contesto in cui chi parla discorre e vive, è rimosso dal medium universale in cui i concetti sono formati e diventano parole. Che cosa è questo contesto universale più ampio, in cui la gente parla ed agisce e che dà al discorso di ognuno il suo significato – questo contesto che non appare nell’analisi positivista, che è un a priori escluso dagli esempi come dall’analisi medesima?

 

Questo maggior contesto di esperienza, questo reale mondo empirico, è ancora oggi quello delle camere a gas e dei campi di concentramento, di Hiroshima e Nagasaki, delle Cadillac americane e delle Mercedes tedesche, del Pentagono e del Cremlino, delle città nucleari e delle comuni cinesi, di Cuba, del lavaggio dei cervelli e dei massacri. Ma il reale mondo empirico è anche quello in cui tutte queste cose sono ritenute ovvie, o dimenticate, o represse, o sconosciute, e quello in cui le persone sono libere. È un mondo in cui la scopa nell’angolo o il sapore di qualcosa come l’ananas sono cose molte importanti, e in cui il lavoro quotidiano e le comodità quotidiane sono forse gli unici elementi che entrano in ogni esperienza. E questo secondo, limitato universo empirico fa parte del primo; le potenze che governano il primo plasmano anche l’esperienza limitata.

Naturalmente, lo stabilire questa relazione non è compito del pensiero comune da svolgere col linguaggio comune. Se si tratta di trovare la scopa e assaggiare l’ananas, l’astrazione è giustificata ed il significato può essere accertato e descritto senza sconfinare nell’universo politico. Ma in filosofia, la questione non è come trovare la scopa od assaggiare l’ananas – e oggigiorno una filosofia empirica dovrebbe fondarsi meno che mai sull’esperienza astratta. Né questa astrattezza viene corretta se l’analisi linguistica è applicata a termini e a frasi politiche. Un’intera branca della filosofia analitica è occupata in questa impresa, ma già il suo metodo chiude la porta ai concetti di un’analisi politica, e cioè veramente critica. La traduzione in termini operativi e comportamentistici assimila termini quali «libertà», «governo», «Inghilterra», con altri quali «scopa» e «ananas», e la realtà dei primi con quella dei secondi.

 

Il linguaggio ordinario nel suo «umile uso» può avere certamente un interesse vitale per il pensiero filosofico critico, ma nel contesto di questo pensiero le parole perdono la loro semplice umiltà e rivelano quel qualcosa «nascosto» che non ha nessun interesse per Wittgenstein. Si consideri l’analisi del «qui» e dell’«ora» nella Fenomenologia di Hegel, oppure (sit venta verbo!) il suggerimento di Lenin sul come analizzare adeguatamente «questo bicchiere d’acqua» sul tavolo. Una tale analisi scopre nel linguaggio quotidiano la storia160 come dimensione occulta del significato – il dominio della società sul linguaggio che in essa si parla. E questa scoperta fa a pezzi la forma naturale e reificata in cui l’universo dato di discorso appare dapprima. Le parole si rivelano come termini genuini non solo nel senso grammaticale e logico-formale, ma anche in senso materiale; vale a dire, come limiti che definiscono il significato ed il suo sviluppo – i termini che la società impone al discorso, ed al comportamento. Tale dimensione storica del significato non può più essere chiarita da esempi quali «la mia scopa è nell’angolo» o «c’è del formaggio sulla tavola». Di fatto, tali affermazioni possono rivelare molte ambiguità, enigmi, stranezze, ma appartengono tutti allo stesso regno di giochi linguistici e di noia accademica.

Prendendo come punto di orientamento l’universo reificato del discorso quotidiano, e poi sviscerando e chiarificando tale discorso nei termini del predetto universo reificato, l’analisi prescinde dalla negazione, da ciò che è alieno ed antagonistico e non può essere compreso nei termini dell’uso stabilito. A forza di classificare e distinguere i significati, e di tenerli distinti, essa purga il pensiero ed il linguaggio da ogni contraddizione, illusione e trasgressione. Ma le trasgressioni non sono quelle della «ragione pura». Non sono trasgressioni metafisiche oltre i limiti della conoscenza possibile; esse aprono piuttosto un regno di conoscenza che va oltre il senso comune e la logica formale.

Sbarrando l’accesso a questo regno, la filosofia positivista erige per suo uso un mondo autosufficiente, chiuso e ben protetto contro l’ingresso di fattori esterni di disturbo. A tal riguardo fa poca differenza se il contesto che fornisce la convalida sia quello della matematica, o quello delle proposizioni logiche, o della consuetudine e dell’uso. In un modo o nell’altro, tutti i possibili predicati significativi sono pregiudicati. Il giudizio pregiudicante può essere tanto esteso quanto la lingua inglese parlata, o il vocabolario, o qualche altro codice o convenzione. Una volta accettato, esso costituisce un a priori empirico che non può essere trasceso.

Ma questa radicale accettazione dell’empirico viola l’empirico, perché in esso parla l’individuo mutilato, «astratto», che esperisce (ed esprime) solo quello che gli è dato (dato in senso letterale), che tocca solo i fatti e non i fattori, il cui comportamento è unidimensionale e manipolato. Per virtù della repressione di fatto, il mondo come viene esperito è il risultato di un’esperienza ristretta, e la ripulitura positivista della mente porta la mente ad allinearsi con l’esperienza ristretta.

In questa forma purgata, il mondo empirico diventa l’oggetto del pensiero positivo. Con tutto il suo esplorare, sceverare e chiarire ambiguità ed oscurità, il neopositivismo non ha interesse per la grande e generale ambiguità ed oscurità dell’universo stabilito dell’esperienza. E deve restare indifferente, poiché il metodo adottato da questa filosofia discredita o «traduce» i concetti che potrebbero guidare alla comprensione della realtà stabilita nella sua struttura irrazionale e repressiva; intendo i concetti del pensiero negativo. La trasformazione del pensiero critico in pensiero positivo ha luogo soprattutto nel trattamento terapeutico dei concetti universali; la loro traduzione in termini operativi e comportamentistici procede di pari passo con la traduzione sociologica di cui si è parlato precedentemente.

Il carattere terapeutico dell’analisi filosofica è fortemente accentuato; si mira a guarire dalle illusioni, dalle falsità, dalle oscurità, dagli enigmi insolubili, dalle domande senza risposta, dai fantasmi e dagli spettri. Chi è il paziente? In apparenza un certo tipo di intellettuale, la cui mente ed il cui linguaggio non sono conformi ai termini del discorso comune. Naturalmente c’è una buona porzione di psicoanalisi in questa filosofia – senza però l’intuizione fondamentale di Freud che il disturbo del paziente è radicato in un male generale, il quale non può essere curato dalla terapia analitica. Anzi, in un certo senso, secondo Freud, la malattia del paziente è una reazione di protesta contro il mondo malato in cui questi vive. Ma il medico deve ignorare il problema «morale». Egli deve rimettere in salute il paziente, ridargli la capacità di operare normalmente nel suo mondo.

Il filosofo non è un medico: il suo lavoro non è guarire gli individui ma comprendere il mondo in cui vivono; capirlo nei termini di ciò che esso ha fatto all’uomo, e di ciò che può fare all’uomo. La filosofia è infatti (da un punto di vista storico, e la sua storia è tuttora valida) il contrario di ciò che Wittgenstein la fece essere quando proclamò che essa rinunciava ad ogni teoria, e s’impegnava a «lasciare ogni cosa com’è». La filosofia non conosce «scoperta» più inutile di quella che «le dà pace, in modo che essa non sia tormentata oltre da questioni che la mettono in questione»161. E non c’è motto meno filosofico dell’asserzione del vescovo Butler che adorna i Principia Ethica di G. E. Moore: «Ogni cosa è ciò che è, e non un’altra cosa» – a meno che «è» sia inteso riferirsi alle differenze qualitative tra ciò che le cose realmente sono e ciò che son fatte essere.

 

La critica neopositivista dirige tuttora il suo sforzo principale contro i concetti metafisici, ed è motivata da una nozione di esattezza che o è quella della logica formale o è quella della descrizione empirica. Sia che l’esattezza venga cercata nella purezza analitica della logica e della matematica, oppure nella conformità con il linguaggio comune, ambedue i poli della filosofia contemporanea convergono nel medesimo rifiuto o deprezzamento di quegli elementi di pensiero e di discorso che trascendono il sistema di validazione in voga. Questa ostilità è più travolgente là dove prende forma di tolleranza – vale a dire dove un certo valore di verità è concesso ai concetti trascendenti in una dimensione separata di significato e d’importanza (verità poetica, verità metafisica). È proprio il disporre una speciale riserva in cui venga permesso al pensiero ed al linguaggio di essere legittimamente inesatti, vaghi ed anche contraddittori, infatti, il modo più efficace per proteggere l’universo normale di discorso dall’essere seriamente turbato da idee sconvenienti. Qualsiasi verità possa essere contenuta nella letteratura è una verità «poetica», qualsiasi verità possa essere contenuta nell’idealismo critico è una verità «metafisica»; la sua validità, semmai sussista, non impegna né il discorso ed il comportamento comuni, né la filosofia impostata su di essi. Questa nuova forma della dottrina della «doppia verità» sanziona la falsa coscienza con il negare la rilevanza del linguaggio trascendente per l’universo del linguaggio comune, con il proclamare una totale non-interferenza; laddove il valore di verità del primo consiste precisamente nella sua rilevanza per il secondo, nel fatto di interferire con questo.

 

Sotto le condizioni repressive in cui gli uomini pensano e vivono, il pensiero – ogni maniera di pensare che non sia confinata ad un indirizzo pragmatico entro lo status quo – può riconoscere i fatti e rispondere ai fatti solo se «guarda dietro» di essi. L’esperienza ha luogo davanti a un velo che nasconde, e se il mondo è l’apparenza di qualcosa che sta dietro il velo dell’esperienza immediata, allora, nei termini di Hegel, siamo noi stessi che stiamo dietro al velo. Noi stessi non come soggetti del senso comune, secondo che vorrebbe l’analisi linguistica, non come i soggetti «purificati» della misurazione scientifica, ma come i soggetti e gli oggetti della lotta storica dell’uomo con la natura e con la società. I fatti sono ciò che sono come eventi in questa lotta. La loro fattualità è storica, anche dove essa è ancora quella della natura bruta e non domata.

Questa dissoluzione intellettuale ed anzi sovversione dei fatti dati è il compito storico della filosofia e della dimensione filosofica. Anche il metodo scientifico va oltre i fatti, perfino contro i fatti dell’esperienza immediata. Il metodo scientifico si sviluppa nella tensione tra apparenza e realtà. La mediazione tra il soggetto e l’oggetto del pensiero, tuttavia, è essenzialmente differente. Nella scienza, il mezzo è il soggetto che osserva, misura, calcola, esperimenta, spoglio di ogni altra qualità; il soggetto astratto progetta e definisce l’oggetto astratto.

Per contrasto, gli oggetti del pensiero filosofico sono collegati ad una coscienza per la quale le qualità concrete entrano nei concetti e nella loro relazione. I concetti filosofici trattengono ed esplicano le mediazioni prescientifiche (il lavoro della pratica quotidiana, della organizzazione economica, dell’azione politica) che hanno reso il mondo-oggetto qual è realmente – un mondo in cui tutti i fatti sono eventi, accadimenti in un continuo storico.

La separazione della scienza dalla filosofia è essa stessa un evento storico. La fisica aristotelica era una parte della filosofia e, come tale, era materia preparatoria per la «scienza prima», l’ontologia. Il concetto aristotelico di materia si distingue da quello galileiano e postgalileiano non solo nei termini di differenti stadi di sviluppo del metodo scientifico (e di scoperta di differenti «strati» di realtà), ma anche, e forse principalmente, nei termini di differenti progetti storici, di una differente iniziativa storica che ha fondato una natura ed una società differenti. La fisica aristotelica diventa oggettivamente scorretta con la nuova esperienza e conoscenza della natura, con rimpianto storico di un nuovo mondo soggettivo ed oggettivo; la falsificazione della fisica aristotelica si estende quindi all’indietro, sino a includere la superata esperienza e comprensione del passato162.

Ma siano o no integrati nella scienza, i concetti filosofici rimangono in antagonismo con il regno del discorso comune, poiché continuano ad includere contenuti che non sono realizzati nella parola parlata, nel comportamento manifesto, nelle condizioni o disposizioni osservabili o nelle propensioni prevalenti. L’universo filosofico continua così a contenere «fantasmi», «finzioni» e «illusioni» che possono essere più razionali della loro negazione, in quanto sono concetti che riconoscono i limiti e gli inganni della razionalità prevalente. Essi esprimono l’esperienza che Wittgenstein respinge – ossia che, «contrariamente alle nostre idee preconcette, è possibile pensare “questo e quello” – qualunque cosa ciò significhi»163.

Il voler trascurare od eliminare questa specifica dimensione filosofica ha portato il positivismo contemporaneo a muoversi in un mondo di concretezza accademica sinteticamente impoverito, ed a creare più problemi illusori di quanti ne abbia distrutti. Di rado una filosofia ha esibito un più tortuoso esprit de sérieux di quello mostrato in certe analisi quali l’interpretazione di Three Blind Mice in uno studio su Linguaggio metafisico e linguaggio ideografico, dove si discute una «sequenza asimmetrica con tre elementi – Concetto di terna, Cecità, Regno dei topi – costruita artificialmente secondo i principî puri dell’ideografia»164.

Forse questo esempio è sleale. Tuttavia è giusto dire che la più astrusa metafisica non ha mai esibito preoccupazioni così artificiali e gergali come quelle che sono sorte in connessione con i problemi di riduzione, traduzione, descrizione, denotazione, dei nomi propri, ecc. Gli esempi sono abilmente mantenuti in equilibrio tra il serio e il faceto: la differenza tra Scott e l’autore di Waverly; la calvizie dell’attuale re di Francia; Joe Doe che incontra o non incontra il «contribuente medio» Richard Roe in strada; il fatto di vedere qui e ora una pezza rossa e dire «questo è rosso»; o la rivelazione del fatto che spesso la gente descrive sensazioni come emozioni, spasimi, tormenti, sussulti, sforzi violenti, pruriti, punture, brividi, ardori, pesi, nausee, bramosie, agghiacciamenti, languori, tensioni, rodimenti e collassi165.

Questa sorta di empirismo sostituisce all’odiato mondo dei fantasmi, dei miti, delle leggende e delle illusioni metafisiche un mondo di frammenti concettuali o sensori, di parole e di espressioni che vengono poi organizzate in una filosofia. E tutto ciò non soltanto è legittimo, è anche giusto, poiché rivela il grado al quale le idee non-operative, le aspirazioni, le memorie e le immagini sono diventate fungibili, irrazionali, confuse, o prive di significato.

Nel ripulire tanto pasticcio, la filosofia analitica concettualizza il comportamento tipico nella presente organizzazione tecnologica della realtà, ma accetta anche i verdetti di tale organizzazione; la demistificazione della vecchia ideologia diventa parte della nuova ideologia. Non solo le illusioni sono denigrate ma anche la verità contenuta in quelle illusioni. La nuova ideologia trova espressione in affermazioni quali «la filosofia afferma soltanto ciò che tutti ammettono», o che il nostro comune repertorio di parole incorpora «tutte le distinzioni che gli uomini hanno ritenuto opportuno stabilire».

Che cos’è questo «repertorio comune»? Include l’«idea» di Platone, l’«essenza» di Aristotele, il «Geist» di Hegel, il «Verdinglichung» di Marx, in una qualsiasi traduzione adeguata? Include le parole chiave del linguaggio poetico? Della prosa surrealista? E se così è, li contiene nel loro significato negativo – quello cioè che invalida l’universo dell’uso comune? Se no, tutto un insieme di distinzioni che gli uomini hanno ritenuto opportuno stabilire è respinto, trasferito nel regno della finzione o della mitologia; una coscienza mutilata e falsa viene proposta come coscienza vera che decide sul significato e l’espressione di ciò che è. Il resto è denunciato – e approvato – come finzione o mitologia.

Non è chiaro, tuttavia, quale parte sia da qualificare come mitologia. La mitologia, certo, è pensiero primitivo ed immaturo. Il processo di incivilimento invalida il mito (è quasi una definizione del progresso), ma può anche riportare il pensiero razionale allo stato mitologico. In quest’ultimo caso le teorie che identificano e progettano le possibilità storiche possono divenire irrazionali, o piuttosto apparire irrazionali, poiché contraddicono la razionalità dell’universo stabilito di discorso e di comportamento.

In tal modo, nel processo di incivilimento il mito dell’Età dell’Oro e del Millennio sono assoggettati ad una progressiva razionalizzazione. Gli elementi (storicamente) impossibili sono separati da quelli possibili – il sogno e la finzione dalla scienza, dalla tecnologia, e dagli affari. Nel xix secolo, le teorie socialiste tradussero il mito primario in termini sociologici, o meglio scoprirono nelle possibilità storiche esistenti il nucleo razionale del mito. Poi, tuttavia, iniziò il movimento contrario. Oggi le nozioni razionali e realistiche di ieri sembrano aver di nuovo carattere mitologico se confrontate con le condizioni attuali. La realtà delle classi lavoratrici nella società industriale avanzata fa del «proletariato» marxista un concetto mitologico; la realtà del socialismo odierno fa dell’idea marxiana un sogno. Il rovesciamento è causato dalla contraddizione fra teoria e fatti – una contraddizione che, di per sé, non falsifica ancora la prima. Il carattere speculativo, ascientifico della teoria critica deriva dal carattere specifico dei suoi concetti, che designano e definiscono l’irrazionale nel razionale, la mistificazione nella realtà. La loro qualità mitologica riflette la qualità mistificatrice dei fatti dati – l’armonizzazione illusoria delle contraddizioni della società.

 

Il successo tecnico della società industriale avanzata, e l’efficace manipolazione della produttività mentale e materiale ha prodotto uno spostamento del luogo in cui si attua la mistificazione. Se ha un senso dire che l’ideologia viene ad essere incorporata nel processo medesimo della produzione, può anche aver senso suggerire che in questa società è il razionale, piuttosto dell’irrazionale, che diventa il più efficace veicolo di mistificazione. L’idea che l’aumento della repressione nella società contemporanea si manifestasse anzitutto, nella sfera ideologica, con l’avvento di pseudofilosofie irrazionali (Lebensphilosophie; il concetto di Comunità opposto a quello di Società; Sangue e Terra, ecc.) fu confutata dal fascismo e dal nazionalsocialismo. Tali regimi negarono queste al pari delle loro «filosofie» irrazionali spingendo al massimo la razionalizzazione tecnica dell’apparato. È stata la mobilitazione totale dell’apparato materiale e mentale che compì l’opera e insediò il potere mistificatore di questo sulla società. Essa servì a rendere gli individui incapaci di vedere «dietro» all’apparato coloro che lo usavano, coloro che ne approfittavano, e coloro che lo pagavano.

Oggi, gli elementi mistificatori son posti sotto controllo e impiegati nella pubblicità produttiva, nella propaganda e nella politica. Magia, stregoneria ed abbandono estatico ricorrono nella pratica quotidiana in casa, nei negozi, nell’ufficio, e le realizzazioni razionali dissimulano la irrazionalità del tutto. Per esempio, l’approccio scientifico al fastidioso problema dell’annientamento reciproco - la matematica ed i conti dei morti, la misurazione della pioggia radioattiva che un giorno è una minaccia e il giorno dopo è trascurabile, gli esperimenti sulla capacità di resistenza in situazioni anormali – è mistificatore nella misura in cui favorisce (ed anzi richiede) un comportamento che accetta la follia. Esso si oppone così a un comportamento veramente razionale, ovvero al rifiuto di marciare uniti, allo sforzo di farla finita con le condizioni che generano la follia.

Contro la nuova mistificazione, che cambia la razionalità nel suo opposto, si deve affermare la distinzione. Il razionale non è irrazionale, e la differenza tra una rilevazione e un’analisi rigorose dei fatti, ed una speculazione vaga ed emotiva è essenziale come mai per l’addietro. Il guaio è che le statistiche, le misurazioni, e gli studi sul campo della sociologia empirica e della scienza politica non sono abbastanza razionali. Essi diventano mistificatori nella misura in cui sono isolati dal contesto realmente concreto che crea i fatti e determina la loro funzione. Tale contesto è più ampio e diverso da quello delle fabbriche e dei negozi esaminati, delle cittadine e città studiate, delle aree e dei gruppi di cui l’opinione pubblica viene sondata o di cui vengono calcolate le probabilità di sopravvivenza. Ed è anche più reale nel senso che crea e determina i fatti investigati, sondati e calcolati. Questo contesto reale in cui i soggetti particolari pervengono al loro vero significato è definibile solo entro una teoria della società, poiché i fattori nei fatti non sono dati immediati di osservazione, misurazione, e domanda. Essi diventano dati solo in un’analisi che sia capace di identificare la struttura che tiene insieme le parti ed i processi della società e determina la loro interrelazione.

Dire che questo metacontesto è la Società (con la «S» maiuscola) significa ipostatizzare il tutto come fosse più delle parti. Ma questa ipostasi accade in realtà, è la realtà, e l’analisi può superarla solo riconoscendola e comprendendo la sua portata e le sue cause. La Società è invero il tutto che esercita il suo potere indipendente sugli individui, e questa Società non è un «fantasma» inidentificabile. Essa ha il suo duro nucleo empirico nel sistema delle istituzioni, che sono le relazioni stabilite e congelate tra gli uomini. Se si fa astrazione da esso si falsificano le misurazioni, le domande, ed i calcoli, ma si falsificano in una dimensione che non appare nelle misure, nelle domande, e nei calcoli e che perciò non entra in conflitto con essi e non li intralcia. Essi mantengono la loro precisione, e sono mistificatori proprio nella loro precisione.

 

Nella sua denuncia del carattere mistificatore dei termini trascendenti, dei concetti imprecisi, degli universali metafisici, e simili, l’analisi linguistica mistifica i termini del linguaggio comune con il lasciarli nel contesto repressivo dell’universo stabilito di discorso. È entro questo universo repressivo che ha luogo l’interpretazione comportamentistica del significato, quella che dovrebbe esorcizzare i vecchi «fantasmi» linguistici dei cartesiani e altri miti obsoleti. L’analisi linguistica sostiene che se Joe Doe e Richard Roe parlano di ciò che hanno in mente, di fatto si riferiscono semplicemente alle percezioni specifiche, ai concetti, o alle inclinazioni che capita loro di possedere; la mente è un fantasma verbalizzato. Similmente, la volontà non è una facoltà reale dell’animo, ma semplicemente un modo specifico di inclinazioni, propensioni ed aspirazioni specifiche. La stessa cosa dicasi della «coscienza», dell’«io», della «libertà»; tutti spiegabili in termini che designano tipi o modi particolari di condotta e di comportamento. Ritornerò in seguito su questo modo di trattare i concetti universali.

La filosofia analitica diffonde spesso un’atmosfera di denuncia, di commissione d’inchiesta. L’intellettuale è chiamato alla sbarra. Che cosa intende quando dice…? Non nasconde qualcosa? Lei parla un linguaggio sospetto. Lei non parla come noi, come l’uomo della strada, ma piuttosto come un forestiero che non appartiene a questo luogo. Noi dobbiamo ridimensionarLa, far luce sulle sue frodi, purificarLa. Noi Le insegneremo a dire ciò che ha in mente, a «farsi capire», a «mettere le carte in tavola». Naturalmente, noi non facciamo imposizioni a Lei e alla Sua libertà di pensiero e di parola; Lei può pensare come vuole. Ma ogni volta che parla, deve pur comunicarci i Suoi pensieri – nel nostro linguaggio o nel Suo. Certamente, Lei può parlare il Suo proprio linguaggio, ma esso deve essere traducibile, e sarà tradotto. Lei può parlare in poesia, sta bene. Noi amiamo la poesia. Ma vogliamo capire la Sua poesia, e possiamo farlo soltanto se possiamo interpretare i Suoi simboli, le Sue metafore e le Sue immagini nei termini del linguaggio comune.

Il poeta potrebbe rispondere che in verità egli vuole che la sua poesia sia comprensibile e compresa (per questo la scrive), ma che se ciò che dice potesse essere detto nei termini del linguaggio comune l’avrebbe probabilmente fatto sin dall’inizio. Egli potrebbe dire: comprendere la mia poesia presuppone il crollo e la confutazione proprio di quell’universo di discorso e di comportamento nel quale voi volete tradurla. Il mio linguaggio può essere appreso come ogni altro linguaggio (per la verità esso è anche il vostro linguaggio), dopoché sarà evidente che i miei simboli, le mie metafore, ecc., non sono simboli, metafore, ecc., ma significano esattamente quello che dicono. La vostra tolleranza è ingannevole. Riservandomi una nicchia speciale di significato e di senso, voi mi assicurate l’immunità dalla salute mentale e dalla ragione, ma a mio modo di vedere il manicomio è altrove.

Il poeta può anche avere la sensazione che la solida sobrietà della filosofia linguistica parli un linguaggio piuttosto prevenuto ed emotivo – quello degli arrabbiati, vecchi o giovani. Il loro vocabolario abbonda di parole come «improprio», «curioso», «assurdo», «enigmatico», «strano», «chiacchiere» e «balbettio». Le stranezze improprie ed enigmatiche devono essere eliminate se una buona e onesta comprensione deve prevalere. L’informazione non dovrebbe essere al di sopra della comprensione del popolo; i contenuti che vanno al di là del senso comune e scientifico non dovrebbero turbare l’universo accademico di discorso, né quello ordinario.

Ma l’analisi critica deve dissociarsi da ciò che si sforza di comprendere; i termini filosofici devono essere diversi da quelli ordinari per chiarire il pieno significato di questi ultimi166, poiché l’universo stabilito di discorso porta da cima a fondo i segni dei modi specifici di dominio, organizzazione e manipolazione ai quali sono soggetti i membri di una società. Le persone dipendono per la propria vita dal padrone e dai politici e dal posto di lavoro e dal vicino, e son questi che le fanno parlare e intendere come parlano e intendono; esse sono forzate, dalla necessità della società, ad identificare la «cosa» (incluso il loro io, mente, sentimento) con le sue funzioni. Come facciamo a sapere? Perché guardiamo la televisione, ascoltiamo la radio, leggiamo i giornali e le riviste, parliamo con la gente.

In tali circostanze, la frase pronunciata è un’espressione dell’individuo che la dice, e di quelli che lo fanno parlare come parla, e di qualunque tensione o contraddizione che li ponga in relazione tra loro. Nel parlare il suo proprio linguaggio, la gente parla altresì il linguaggio dei suoi padroni, dei benefattori, degli agenti pubblicitari. Cosicché gli individui non esprimono soltanto se stessi, le loro proprie conoscenze, sentimenti, e aspirazioni, ma anche qualcos’altro diverso da sé. Nel descrivere «da sé» la situazione politica, nella propria città come sulla scena internazionale, essi (ed «essi» include noi, gli intellettuali che sanno e criticano) descrivono ciò che i «loro» media della comunicazione di massa gli dicono — e questo si confonde con quanto pensano e vedono e sentono realmente.

Nel descriverci l’un l’altro i nostri affetti e avversioni, i sentimenti ed i risentimenti, dobbiamo usare i termini dei nostri avvisi pubblicitari, delle pellicole cinematografiche, dei politici, dei bestsellers. Dobbiamo usare i medesimi termini per descrivere la nostra automobile, il cibo e la mobilia, i colleghi e i concorrenti – e ci comprendiamo a vicenda in modo perfetto. Così deve essere, poiché il linguaggio non è nulla di privato e di personale, o piuttosto il privato ed il personale sono mediati dal materiale linguistico disponibile, che è materiale societario. Ma tale situazione esclude che il linguaggio comune possa adempiere alla funzione di convalida che esso svolge nella filosofia analitica. «Ciò che gli individui intendono quando dicono…» si collega a ciò che essi non dicono. Oppure ciò che intendono non può essere preso alla lettera, non perché mentano, ma perché l’universo di pensiero e di pratica in cui vivono è un universo di contraddizioni manipolate.

Circostanze come queste possono essere irrilevanti per l’analisi di enunciati come «mi prude», o «egli mangia papaveri», o «adesso questo mi sembra rosso», ma possono diventare di importanza vitale quando la gente dice veramente qualcosa («ella ama soltanto lui», «non ha cuore», «ciò non è giusto», «che cosa ci posso fare?»), e sono essenziali per l’analisi linguistica dell’etica, della politica, ecc. In breve, l’analisi linguistica non può raggiungere maggior precisione empirica che quella estorta alla gente dalle circostanze date, né maggior chiarezza di quella permessa loro in queste condizioni; vale a dire che essa rimane entro i limiti del discorso mistificato ed ingannevole.

Dove sembra andare al di là di detto discorso, come nelle sue purificazioni logiche, del medesimo universo resta solo lo scheletro – uno spettro assai più spettrale di quelli combattuti dall’analisi. Se la filosofia è più che un’occupazione, deve mostrare i motivi che fanno del discorso un universo mutilato ed illusorio. Lasciare questo compito ad un collega del Dipartimento di sociologia o di psicologia significa fare della divisione in atto del lavoro accademico un principio metodologico. E neppure si può schivare il compito insistendo modestamente che l’analisi linguistica ha solo l’umile scopo di chiarire il pensiero ed il discorso «confusi». Se tale opera di chiarificazione va oltre la mera enumerazione e classificazione di significati possibili in contesti possibili, lasciando ampia facoltà di scelta a ciascuno a seconda delle circostanze, si tratta allora di un compito tutt’altro che umile. Tale chiarificazione richiederebbe un’analisi del linguaggio ordinario nelle aree davvero controverse, il riconoscimento del pensiero confuso dove sembra che sia meno confuso, lo scoprimento della falsità così diffusa nell’uso normale e manifesto. L’analisi linguistica raggiungerebbe quindi il livello al quale gli specifici processi societari che plasmano e limitano l’universo di discorso diventano visibili e comprensibili.

Qui sorge il problema del «metalinguaggio»; i termini che analizzano il significato di certi termini devono essere diversi, o distinguibili da questi ultimi. Essi devono essere più e altro che meri sinonimi i quali appartengono pur sempre al medesimo (immediato) universo di discorso. Ma se codesto metalinguaggio deve veramente farsi strada attraverso il campo totalitario dell’universo stabilito di discorso, in cui le differenti dimensioni del linguaggio sono integrate ed assimilate, deve essere capace di distinguere i processi della società che hanno determinato e «chiuso» l’universo stabilito di discorso. Di conseguenza, non può trattarsi di un metalinguaggio tecnico, costruito principalmente in una prospettiva di chiarezza semantica o logica. Ciò che si desidera è piuttosto di far dire proprio al linguaggio stabilito ciò che esso dissimula o esclude, poiché ciò che ha da essere rivelato e denunciato è efficace entro l’universo del discorso e dell’azione ordinari, ed il linguaggio predominante comprende il metalinguaggio.

Questo requisito è stato soddisfatto nell’opera di Karl Kraus. Egli ha dimostrato come un’analisi «interna» del discorso e del documento scritto, della punteggiatura, persino degli errori tipografici può rivelare un intero sistema morale o politico. Tale analisi si muove ancora entro l’universo comune di discorso; non necessita di un linguaggio artificiale, di «livello superiore», per estrapolare e chiarificare il linguaggio esaminato. La parola, la forma sintattica, vengono lette nel contesto in cui appaiono; per esempio, in un giornale che, in una data città o in un dato paese, abbraccia opinioni specifiche attraverso la penna di persone specifiche. Il contesto lessicografico e sintattico introduce quindi a un’altra dimensione, che non è estranea ma costitutiva del significato e della funzione della parola: quella della stampa viennese durante e dopo la prima guerra mondiale, con l’atteggiamento dei suoi redattori verso il massacro, la monarchia, la repubblica, ecc. Alla luce di questa dimensione, l’uso della parola, la struttura della frase assumono un significato ed una funzione che non appaiono ad una lettura «non mediata». I delitti di leso linguaggio, che compaiono nello stile del giornale, appartengono al suo stile politico. La sintassi, la grammatica ed il vocabolario diventano atti morali e politici. In altri casi il contesto può essere di tipo estetico e filosofico: un brano di critica letteraria, un discorso dinanzi ad una società di cultura, o qualcosa di simile. In questo caso, l’analisi linguistica di una poesia o di un saggio pone a confronto il materiale (il linguaggio della poesia o del saggio in esame) come materiale dato (immediato) con il materiale che lo scrittore ha trovato nella tradizione letteraria, e che ha trasformato.

Per una tale analisi si richiede che il significato di un termine o di una forma si sviluppi in un universo multidimensionale, dove ogni significato espresso partecipa di parecchi «sistemi» interrelati, sovrapposti, ed antagonisti. Per esempio, esso appartiene:

 

a) ad un progetto individuale, quale la comunicazione specifica (un articolo di giornale, un discorso) fatta in una occasione specifica per uno scopo specifico;

b) ad un sistema stabilito sopraindividuale di idee, valori ed obbiettivi di cui il progetto individuale fa parte;

c) ad una società particolare che integra progetti differenti e anche contraddittori, individuali e sopraindividuali.

 

Per spiegarci: un certo discorso, un articolo di giornale, o anche una comunicazione privata son fatti da un certo individuo che è il portavoce (autorizzato o no) di un gruppo particolare (professionale, residenziale, politico, intellettuale) in una data società. Un gruppo del genere ha i suoi propri valori, obbiettivi, codici di pensiero e di comportamento che entrano – accettati o contrastati – con vari gradi di consapevolezza e chiarezza, nella comunicazione individuale. In tal modo quest’ultima «individualizza» un sistema sopraindividuale di significato, il quale costituisce una dimensione di discorso differente da quella della comunicazione individuale, e tuttavia fusa con essa. Tale sistema sopraindividuale fa parte a sua volta di un esteso, onnipresente dominio di significato che è stato sviluppato, e normalmente «chiuso», dal sistema sociale entro il quale e dal quale ha origine la comunicazione.

La portata e l’estensione del sistema sociale di significato variano considerevolmente nei differenti periodi storici ed in conformità con il livello di cultura raggiunto, ma i suoi limiti sono definiti abbastanza chiaramente se la comunicazione allude a qualcosa di più che agli utensili e alle relazioni non controversi della vita quotidiana. Al giorno d’oggi i sistemi sociali di significato uniscono differenti stati nazionali e differenti aree linguistiche, e questi vasti sistemi di significato tendono a coincidere, da un lato, con l’orbita delle società capitalistiche più o meno avanzate, e con le società comuniste dall’altro lato. Sebbene la funzione determinante del sistema sociale di significato si affermi più rigidamente nell’universo di discorso controverso, politico, essa agisce anche, in maniera assai più coperta, inconscia ed emotiva, nell’universo del discorso ordinario. Un’analisi di significato veramente filosofica deve tenere conto di ognuna di queste dimensioni, poiché le espressioni linguistiche partecipano di tutte. Di conseguenza, l’analisi linguistica in filosofia ha un impegno extralinguistico. In quanto stabilisce una distinzione tra uso legittimo e non-legittimo, tra significato autentico ed illusorio, tra senso e non-senso, essa richiede un giudizio politico, estetico o morale.

 

Si può obbiettare che una tale analisi «esterna» (tra virgolette, poiché di fatto non è esterna ma è piuttosto lo sviluppo interno del significato) è particolarmente inopportuna là dove l’intento sia di impadronirsi del significato dei termini analizzando la loro funzione ed il loro uso nel discorso comune. Ma io sostengo che questo è precisamente quanto l’analisi linguistica non fa nella filosofia contemporanea. E non lo fa proprio perché trasferisce il discorso comune in uno speciale universo accademico, purificato e sintetico anche là dove (e proprio dove) è pieno di linguaggio comune. In tale trattamento analitico del linguaggio comune, quest’ultimo è veramente sterilizzato ed anestetizzato. Il linguaggio multidimensionale è ridotto ad un linguaggio unidimensionale, in cui significati digerenti e contraddittori non penetrano più, sono tenuti in disparte; la dimensione storica esplosiva del significato è ridotta al silenzio.

L’interminabile gioco linguistico di Wittgenstein con le pietre da costruzione, o la conversazione tra Joe Doe e Dick Roe possono servire di nuovo da esempi. A dispetto della semplice chiarezza dell’esempio, gli interlocutori e la loro situazione rimangono sconosciuti. Essi sono x e y, quale che sia la familiarità con cui discorrono. Ma nell’universo di discorso reale, x e y sono «fantasmi». Non esistono; sono il prodotto del filosofo analitico. Senza dubbio, il colloquio di x e di y è perfettamente comprensibile, e l’analista del linguaggio si richiama giustamente alla normale comprensione della gente comune. Ma in realtà noi ci comprendiamo a vicenda solo per tramite di intere zone di equivoco e di contraddizione. L’universo reale del linguaggio comune è quello della lotta per l’esistenza. Si tratta di un universo davvero ambiguo, vago e oscuro, che ha certamente bisogno di chiarificazione. Inoltre tale chiarificazione può ben espletare una funzione terapeutica, e se la filosofia diventasse terapeutica, entrerebbe effettivamente nel proprio dominio.

La filosofia si approssima a questo scopo nella misura in cui affranca il pensiero dal suo asservimento all’universo stabilito di discorso e di comportamento, espone la negatività dell’Establishment (gli aspetti positivi di esso sono ad ogni modo ampiamente pubblicizzati) e progetta le sue alternative. Naturalmente, la filosofia contraddice e progetta solo nel pensiero. È ideologia, e questo carattere ideologico è il destino stesso della filosofia, che nessun scientismo e positivismo può superare. Tuttavia, il suo sforzo ideologico può essere veramente terapeutico, nel mostrare sia la realtà qual è realmente, sia ciò che questa realtà impedisce di essere.

Nell’era totalitaria il compito terapeutico della filosofia sarebbe un compito politico, giacché l’universo stabilito del linguaggio comune inclina a coagularsi in un universo totalmente manipolato ed indottrinato. La politica apparirebbe quindi nella filosofia, non come una disciplina speciale o un oggetto di analisi, non come una speciale filosofia politica, ma come l’intento concettuale di comprendere la realtà non mutilata. Se l’analisi linguistica non contribuisce a tale comprensione; se, viceversa, contribuisce alla chiusura del pensiero nel circolo dell’universo mutilato del discorso comune, essa è nel miglior dei casi del tutto illogica. E, alla peggio, è una fuga nel non-controverso, nell’irreale, in ciò che è controverso solo da un punto di vista accademico.


Le possibilità delle alternative


 8.

L’impegno storico della filosofia

 

 

 

L’impegno della filosofia analitica di studiare soprattutto la realtà mutilata del pensiero e del discorso è singolarmente palese nel modo onde considera gli universali. Del problema si è fatta menzione in precedenza, come parte del carattere storico inerente e nello stesso tempo trascendente, generale dei concetti filosofici. Esso richiede ora una discussione più dettagliata. Lungi dall’essere solo una questione astratta di epistemologia, o una questione pseudo-concreta di linguaggio e di uso di esso, la questione dello status degli universali è al centro del pensiero filosofico. La considerazione degli universali rivela la posizione di una filosofia nella cultura intellettuale, la sua funzione storica.

 

La filosofia analitica contemporanea è volta ad esorcizzare «miti» o «fantasmi» metafisici quali Mente, Coscienza, Volontà, Spirito, Io, dissolvendo l’intento di questi concetti in enunciati su particolari operazioni, prestazioni, capacità, inclinazioni, tendenze, abilità, chiaramente identificabili. Il risultato mostra, in modo curioso, come la distruzione sia impotente – il fantasma non cessa di perseguitare. Sebbene ogni interpretazione o traduzione possa descrivere adeguatamente un processo mentale particolare, l’atto di immaginarsi che cosa intendo quando dico «io», o che cosa intende il prete quando dice che Maria è una «brava ragazza», non una sola di queste riformulazioni, e neppure la loro somma totale, sembra afferrare o anche circoscrivere il pieno significato di termini quali Mente, Volontà, Io, Dio. Questi universali continuano a persistere sia nell’uso comune sia in quello «poetico», e ambedue gli usi li distinguono dai vari modi di comportamento o di disposizione che secondo il filosofo analitico esaurirebbe il loro significato.

Senza dubbio, questi universali non possono essere convalidati asserendo che denotano un insieme il quale e più e altro che le sue parti. All’apparenza sembra così, ma questo «insieme» richiede un’analisi del contesto di esperienza non mutilato. Se questa analisi metalinguistica è respinta, se il linguaggio comune è preso alla lettera – ovvero se un universo illusorio di comprensione generale tra le persone è sostituito all’universo prevalente di incomprensione e di comunicazione amministrata – allora gli universali accusati sono davvero traducibili, e la loro sostanza «mitologica» può venire dissolta in modi di comportamento ed inclinazioni.

Tuttavia, questa stessa dissoluzione deve essere posta in dubbio, non solo nell’interesse del filosofo, ma nell’interesse della gente comune nella cui vita e nel cui discorso essa ha luogo. Essa non rappresenta il loro vero modo di fare e di parlare; essa accade loro e li viola mentre sono costretti, dalle «circostanze», ad identificare la loro mente con i processi mentali, le loro persone con i ruoli e le funzioni che devono svolgere nella loro società. Se la filosofia non comprende questi processi di traduzione ed identificazione come processi societari – e cioè come una mutilazione della mente (e del corpo) inflitta agli individui dalla loro società – la filosofia lotta soltanto con i fantasmi della sostanza che vorrebbe demistificare. Il carattere mistificatore perbene non ai concetti di «mente», «io», «coscienza», ecc. ma piuttosto alla loro traduzione in termini di comportamento. La traduzione è ingannevole proprio perché trasferisce fedelmente il concetto in modi effettivi di comportamento, di propensione, di inclinazione e così facendo scambia le apparenze mutilate ed organizzate (in sé abbastanza reali!) per la realtà.

 

Tuttavia, persino in questa battaglia di fantasmi sono evocate forze che potrebbero porre fine alla finta guerra. Uno dei problemi che recano scompiglio nella filosofia analitica è quello degli enunciati che riguardano universali come «nazione», «Stato», «la Costituzione britannica», «l’Università di Oxford», «Inghilterra»167. Nessuna particolare entità corrisponde a questi universali, eppure rende bene l’idea, ed è anzi inevitabile, dire che «la nazione» è mobilitata, che l’«Inghilterra» ha dichiarato guerra, che io ho studiato all’«Università di Oxford». Ogni traduzione riduttiva di queste dichiarazioni sembra cambiarne il significato. Noi possiamo dire che l’Università non è una entità a sé, a parte dai suoi vari collegi, biblioteche, ecc., ma è appunto il modo in cui questi sono organizzati; la medesima spiegazione può valere, modificata, per altri enunciati. Tuttavia, il modo in cui tali cose e persone sono organizzate, integrate ed amministrate opera come un’entità differente dalle sue parti componenti — al punto che può disporre della vita e della morte, come nel caso della nazione e della costituzione. Le persone che eseguono il verdetto, ammesso che siano affatto identificabili, agiscono in tal modo non come individui, ma come «rappresentanti» della Nazione, dell’Azienda, dell’Università. Il Congresso degli Stati Uniti in sessione, il Comitato Centrale, il Partito, il Consiglio di Amministrazione, il Presidente, gli Amministratori, la Facoltà, tutti questi enti che si riuniscono e decidono sulla linea di condotta sono entità tangibili e reali al di sopra degli individui che li compongono. Essi sono tangibili nei documenti, negli effetti dei loro decreti, nelle armi nucleari che ordinano e producono, nelle nomine, nei salari, nelle condizioni che stabiliscono. Incontrandosi in assemblea, gli individui sono i portavoce (spesso inconsapevoli) delle istituzioni, delle influenze, degli interessi incorporati nelle organizzazioni. Nella loro decisione (voto, pressione, propaganda) – che è già l’esito di istituzioni ed interessi in competizione – la Nazione, il Partito, l’Azienda, l’Università sono messi in movimento, conservati, riprodotti come una realtà (relativamente) definitiva, universale, che sopraffà le istituzioni particolari o le persone soggette ad essa.

Questa realtà ha assunto un’esistenza superiore ed indipendente; perciò gli enunciati che la concernono costituiscono un vero universale e non possono essere adeguatamente tradotti in enunciati che concernono entità particolari. Con tutto ciò, l’urgenza di tentare tale traduzione, la protesta contro la sua impossibilità indicano che ce qualcosa di sbagliato. Per rendere bene l’idea, «la nazione» o il «Partito» dovrebbero essere traducibili nei loro costituenti e componenti. Il fatto che non lo siano, è un fatto storico che si frappone al cammino della linguistica e dell’analisi logica.

La disarmonia tra l’individuo ed i bisogni sociali, e la mancanza di istituzioni rappresentative in cui gli individui lavorino e parlino per sé, conduce alla realtà di universali quali la Nazione, il Partito, la Costituzione, la Corporazione, la Chiesa – una realtà che non si identifica con alcuna particolare entità identificabile (individuo, gruppo, o istituzione). Tali universali esprimono vari gradi e forme di reificazione. La loro indipendenza, sebbene reale, è spuria poiché spuria è l’indipendenza delle potenze particolari che hanno organizzato l’insieme della società. Una ritraduzione che dissolvesse la sostanza spuria dell’universale è pur sempre necessaria – ma è una necessità politica.

 

Si crede di morire per la Classe, si muore per gli uomini del Partito. Si crede di morire per la Patria, si muore per gli Industriali. Si crede di morire per la Libertà delle persone, si muore per la Libertà dei dividendi. Si crede di morire per il Proletariato, si muore per la sua Burocrazia. Si crede di morire per ordine di uno Stato, si muore per il Danaro che lo sostiene. Si crede di morire per una nazione, si muore per i banditi che la imbavagliano. Si crede – ma perché si crederebbe in una ombra così fitta? Credere, morire?… quando si tratta d’imparare a vivere168?

 

Questa è una «traduzione» genuina di universali ipostatizzati in fenomeni concreti, e tuttavia essa ammette la realtà dell’universale nel mentre lo chiama con il suo vero nome. L’insieme ipostatizzato resiste alla dissoluzione analitica, non perché sia un’entità mitica dietro entità ed azioni particolari ma perché è il fondamento concreto ed obbiettivo della loro funzione nel contesto dato, sociale e storico. Come tale, esso è una forza reale, sentita ed esercitata dagli individui nelle loro azioni, condizioni e relazioni. Essi ne fanno parte (in maniera assai ineguale); esso decide della loro esistenza e delle loro possibilità. Il fantasma reale ha una realtà che s’impone – quella del potere separato ed indipendente del tutto sopra gli individui. E questo tutto non è una mera Gestalt percepita (come in psicologia), né una metafisica assoluta (come in Hegel), né uno stato totalitario (come nella scienza politica di second’ordine); è lo stato di cose stabilito che decide della vita degli individui.

 

Tuttavia, anche se accordiamo una tale realtà a questi universali politici, non posseggono tutti gli altri universali uno status molto differente? Certamente sì, ma la loro analisi è mantenuta con troppa facilità entro i limiti della filosofia accademica. La discussione che segue non pretende di entrare nel «problema degli universali», cerca soltanto di spiegare la portata (artificialmente) limitata della analisi filosofica e di mostrare come occorra andare al di là di questi limiti. La discussione sarà nuovamente centrata su universali sostantivi in quanto distinti dagli universali logico-matematici (insieme, numero, classe, ecc.), e, fra i primi, sui concetti più astratti e controversi che rappresentano la vera sfida al pensiero filosofico.

L’universale sostantivo non solo astrae dall’entità concreta, ma denota anche una entità diversa. La mente è qualcosa di più e di altro che non atti consapevoli e comportamento. La sua realtà potrebbe essere descritta in via provvisoria come la maniera o il modo in cui questi atti particolari sono sintetizzati, integrati da un individuo. Si potrebbe essere tentati di dire sintetizzati a priori da una «percezione trascendentale», nel senso che la sintesi integrativa che rende possibili i processi e gli atti particolari li precede, li configura, li distingue dalle «altre menti». Ma simile formulazione farebbe ancor sempre violenza ai concetti di Kant, perché tale coscienza gode di una priorità empirica, ed include quindi l’esperienza sopraindividuale, le idee, le aspirazioni di particolari gruppi sociali.

In vista di queste caratteristiche la coscienza può ben essere chiamata un’inclinazione, una propensione, o una facoltà. Non è un’inclinazione o facoltà individuale tra le altre, tuttavia, ma è in senso stretto un’inclinazione generale che è comune, in varia misura, ai singoli membri di un gruppo, di una classe, di una società. Su questi fondamenti la distinzione tra coscienza vera e coscienza falsa assume un pieno significato. La coscienza vera dovrebbe sintetizzare i dati dell’esperienza in concetti che riflettano, il più ampiamente e adeguatamente possibile, la società data nei fatti dati. Questa definizione «sociologica» è suggerita non a motivo di qualche pregiudizio a favore della sociologia, bensì a motivo della effettiva presenza della società nei dati dell’esperienza. Di conseguenza, la repressione della società sperata nella formazione dei concetti equivale a tenere l’esperienza nel confino accademico, a limitare il significato.

 

La quotidiana limitazione dell’esperienza produce inoltre una tensione diffusa, persino un conflitto, tra «la mente» ed i processi mentali, tra la «coscienza» e gli atti coscienti. Se parlo della mente di una persona, non mi riferisco solamente ai suoi processi mentali quali si rivelano nel modo onde si esprime, parla, si comporta, ecc., e neppure solamente alle sue inclinazioni o facoltà quali sono esperite o desunte dall’esperienza. Io intendo riferirmi anche a ciò che egli non esprime, per cui non mostra inclinazione, ma che è nondimeno presente, e che determina, in misura considerevole, il suo comportamento, il suo giudizio, la formazione e la portata dei suoi concetti.

Così sono «negativamente presenti» le specifiche forze «ambientali» che condizionano a priori la sua mente affinché egli respinga spontaneamente certi dati, condizioni, relazioni. Essi sono presenti come materiale respinto. La loro assenza è una realtà; un fattore positivo che spiega i suoi attuali processi mentali, il significato delle sue parole e del suo comportamento. Significato per chi? Non solamente per il filosofo di professione, compito del quale è rimediare alle storture che pervadono l’universo del discorso comune, ma anche per coloro che sopportano queste storture benché possano non esserne consci – per Joe Doe e Richard Roe. L’analisi linguistica contemporanea si sottrae a questo compito interpretando i concetti nei termini di una mente impoverita e precondizionata. Ciò che è in gioco è l’intenzione completa ed integra di certi concetti chiave, la loro funzione nella comprensione non repressa della realtà – nel pensiero critico non-conformista.

 

Le osservazioni testé formulate sul contenuto di realtà di certi universali come «mente» e «coscienza» sono applicabili ad altri concetti, ad universali astratti oppure reali, quali Bellezza, Giustizia, Felicità, con i loro contrari? Pare che la persistenza di questi universali intraducibili come punti nodali del pensiero rifletta la coscienza infelice di un mondo diviso, in cui «ciò che è» non contiene, ed anzi rifiuta «ciò che può essere». La differenza irriducibile tra l’universale ed i suoi particolari sembra essere radicata nell’esperienza primaria della invincibile differenza tra potenzialità e realtà – tra due dimensioni di un unico mondo di esperienza. L’universale comprende in una sola idea le possibilità che vengono realizzate, e allo stesso tempo arrestate nella realtà.

Nel parlare di una bella ragazza, di un bel paesaggio, di un bel dipinto, ho certo delle cose molto diverse in mente. Ciò che è comune a tutte – «la bellezza» – non è né una entità misteriosa, né un mondo misterioso. Al contrario, nulla forse è sperimentato in modo più diretto e chiaro della presenza della «bellezza» in vari oggetti belli. Il fidanzato ed il filosofo, l’artista e l’imbalsamatore possono «definirla» in modi molto differenti, ma tutti definiscono la stessa condizione o stato specifici – una o più qualità che mettono il bello in contrasto con altri oggetti. In questa sua indeterminatezza e immediatezza, la bellezza è sperimentata nel bello, ossia è vista, udita, annusata, toccata, sentita, compresa. Essa è esperita quasi come un trauma, a causa forse del suo carattere di contrasto, che spezza il circolo dell’esperienza quotidiana ed apre (per un breve momento) un’altra realtà (di cui la paura può essere un elemento integrale)169.

Questa descrizione ha precisamente quel carattere metafisico che l’analisi positivista desidera eliminare mediante traduzione, ma la traduzione elimina ciò che era da definire. Ci sono varie definizioni «tecniche» della bellezza in estetica, più o meno soddisfacenti, ma sembra essercene soltanto una che serba il contenuto di esperienza della bellezza ed è perciò la definizione meno esatta: la bellezza come «promessa di felicità»170. Essa coglie il riferimento ad una condizione di uomini e di cose, a una relazione tra uomini e cose che si manifesta momentaneamente mentre svanisce, che compare in tante forme differenti quanti sono gli individui e che, nello svanire, manifesta ciò che può essere.

La protesta contro il carattere vago, oscuro, metafisico di tali universali, l’insistenza sulla concretezza familiare e la sicurezza protettrice del senso comune e del senso scientifico rivelano ancora qualcosa di quell’ansia primordiale che ha guidato le origini storiche del pensiero filosofico nella sua evoluzione dalla religione alla mitologia, e dalla mitologia alla logica; difesa e sicurezza sono ancora elementi considerevoli nel bilancio intellettuale come in quello nazionale. L’esperienza non purgata sembra essere più familiare con l’astratto e l’universale di quanto non sia la filosofia analitica; sembra essere calata in un mondo metafisico.

 

Gli universali sono elementi primari dell’esperienza – intendo gli universali non come concetti filosofici ma come le stesse qualità del mondo che si ha quotidianamente di fronte. Ciò che si esperimenta è, per esempio, neve o pioggia o caldo; una strada; un ufficio o un padrone; amore o odio. Cose particolari (entità) ed eventi appaiono solo in (ed anzi come) un agglomerato ed un continuo di relazioni, come incidenti e parti in una configurazione generale dalla quale sono inseparabili; non possono apparire in nessun altro modo senza perdere la loro identità. Essi sono cose ed eventi particolari solo contro uno sfondo generale che è qualcosa più di uno sfondo, è il terreno concreto sul quale essi sorgono, esistono e spariscono. Questo terreno è strutturato in universali come colore, forma, densità, durezza o morbidezza, chiarore o oscurità, movimento o quiete. In questo senso gli universali paiono designare la «materia» del mondo:

 

Possiamo forse definire la «materia» del mondo come ciò che è designato da parole che, quando sono usate correttamente, si presentano come soggetti di predicati o termini di relazioni. In quel senso, dovrei dire che la materia del mondo consiste di cose come la bianchezza, piuttosto che di oggetti aventi la proprietà di essere bianchi. Tradizionalmente le qualità, come bianco o duro o dolce, erano considerate come universali, ma se la suddetta teoria è valida, essi sono da un punto di vista sintattico più simili alle sostanze171.

 

Il carattere sostantivo delle «qualità» rimanda all’origine pratica degli universali sostantivi, al modo in cui i concetti hanno origine dall’esperienza immediata. La filosofia del linguaggio di Humboldt mette in evidenza il carattere pratico del concetto in relazione alla parola, e lo porta ad assumere che vi sia una affinità originaria non solo tra concetti e parole, ma anche tra concetti e suoni (Laute). Ma se è vero che la parola, come veicolo di concetti, è l’«elemento» reale del linguaggio, essa non comunica i concetti prefabbricati, e neppure contiene il concetto già fissato e «chiuso». La parola suggerisce semplicemente un concetto, si riferisce ad un universale172.

Ma proprio la relazione della parola con un universale sostantivo (concetto) rende impossibile, a parere di Humboldt, immaginare l’origine del linguaggio come se all’inizio le parole designassero singoli oggetti, mentre in seguito si procederebbe alla loro combinazione (Zusammenfügung):

 

In realtà, il discorso non è messo insieme con parole che già esistono; avviene piuttosto il contrario: le parole emergono dall’insieme del discorso (aus dem Ganzen der Rede)173.

 

L’«insieme» che qui emerge deve essere liberato da ogni interpretazione erronea in termini di una entità indipendente, di una «Gestalt», e simili. Il concetto esprime in qualche modo la differenza e la tensione tra potenzialità e realtà – l’identità nella differenza. Il che si mostra nella relazione tra qualità (bianco, duro; ma anche bello, libero, giusto) ed i concetti corrispondenti (bianchezza, durezza, bellezza, libertà, giustizia). Il carattere astratto di questi ultimi pare designare le qualità più concrete come realizzazioni parziali, aspetti, manifestazioni di una qualità più universale ed «eccellente», che è sperimentata nel concreto174.

E per virtù di questa relazione, la qualità concreta sembra rappresentare una negazione non meno che una realizzazione dell’universale. La neve è bianca ma non è la «bianchezza»; una ragazza può essere bella, persino una bellezza, ma non è «la bellezza»; un paese può essere libero (al confronto di altri) perché il suo popolo gode di certe libertà, ma non è che personifichi sotto ogni aspetto la libertà. I concetti, inoltre, sono significativi solo nel contrasto che si avverte con i loro opposti: bianco con non bianco, bello con non bello. Asserzioni negative possono essere tradotte a volte in altre positive: «nero» o «grigio» al posto di «non bianco», «brutto» per «non bello».

Queste espressioni non alterano la relazione tra il concetto astratto e le sue realizzazioni concrete: il concetto universale denota ciò che è e ciò che non è l’entità particolare. La traduzione può eliminare la negazione nascosta riformulando il significato in una proposizione non-contraddittoria, ma l’enunciato non tradotto suggerisce una mancanza reale. C’è qualcosa di più nel nome astratto (bellezza, libertà) rispetto alle qualità («bello», «libero») attribuite a persone, cose o condizioni particolari. L’universale sostantivo allude a qualità che sorpassano ogni esperienza particolare ma persistono nella mente, non come una finzione della immaginazione e neppure come possibilità più logiche, bensì come il «materiale» di cui consiste il nostro mondo. Nessuna neve è bianco puro, e nessuna bestia o uomo crudele manifesta tutta la crudeltà che l’uomo conosce – conosce come una forza quasi inesauribile nella storia e nell’immaginazione.

Ora si dà una larga classe di concetti – osiamo dire, i concetti filosoficamente rilevanti – per cui la relazione quantitativa tra l’universale ed il particolare assume un aspetto qualitativo, e l’universale astratto sembra designare le potenzialità in un senso concreto, storico. In qualsiasi modo si possano definire «uomo», «natura», «giustizia», «bellezza» o «libertà», essi sintetizzano contenuti fondati sull’esperienza in idee che trascendono le loro realizzazioni particolari come qualcosa che va sorpassato, superato. Così il concetto di bellezza comprende tutta la bellezza non ancora realizzata; il concetto di libertà tutta la libertà non ancora ottenuta.

Per prendere un altro esempio, il concetto filosofico «uomo» allude alle facoltà umane pienamente sviluppate che lo distinguono, e che appaiono come possibilità realizzabili a partire dalle condizioni in cui gli uomini vivono realmente. Il concetto esprime le qualità che sono considerate «tipicamente umane». La frase imprecisa può servire a spiegare l’ambiguità di simili definizioni filosofiche; vale a dire, esse riuniscono le qualità che pertengono a tutti gli uomini in contrasto con altri esseri viventi, e che, al tempo stesso, sono rivendicate come la più adeguata o la più alta realizzazione dell’uomo175.

Siffatti universali appaiono quindi come strumenti concettuali per comprendere le condizioni particolari delle cose alla luce delle loro potenzialità. Essi sono nella storia e al di sopra della storia; essi concettualizzano il materiale di cui consiste il mondo sperimentato, e lo concettualizzano tenendo in vista le sue possibilità, alla luce della loro limitazione, repressione e negazione attuali. Né l’esperienza né il giudizio sono privati. I concetti filosofici si formano e si sviluppano nella coscienza di una condizione generale in un continuo storico; vengono elaborati da una posizione individuale entro una società specifica. La materia del pensiero è materia storica – non importa quanto astratta, generale, o pura essa possa diventare nella teoria filosofica e scientifica. Il carattere astratto-universale ed al tempo stesso storico di questi «oggetti eterni» del pensiero è riconosciuto e chiaramente affermato in Science and the Modern World di Whitehead176:

 

Gli oggetti eterni sono… per loro natura, astratti. Per «astratto» io intendo che quel che un oggetto eterno è in sé – come dire la sua essenza – è comprensibile senza riferimento a qualche esperienza particolare. Essere astratto significa trascendere l’occasione particolare dell’avvenimento presente. Ma trascendere un’occasione presente non significa essere staccato da essa. Al contrario, io tengo per fermo che ogni oggetto eterno ha la sua propria connessione con ogni occasione particolare, connessione che io definisco il suo modo di penetrare in quell’occasione. Lo status metafisico di un oggetto eterno, si può quindi definire dicendo che esso rappresenta una possibilità per una attualità. Ogni occasione attuale si caratterizza secondo il modo in cui dette possibilità si sono attuate in quell’occasione.

 

Elementi di esperienza, proiezione ed anticipazione di possibilità reali entrano nelle sintesi concettuali – in forma rispettabile come ipotesi, in forma malfamata come «metafisica». In vario grado, essi non sono realistici poiché vanno al di là dell’universo stabilito di comportamento, e possono persino apparire indesiderabili Nell’interesse della lindura e dell’esattezza. Certamente, nell’analisi filosofica,

 

Poco progresso effettivo… v’è da attendersi da un’espansione del nostro universo volta ad includere le cosiddette entità possibili177:

 

ma tutto dipende da come viene applicato il Rasoio di Ockham, vale a dire da quali possibilità si vogliono tagliar via. La possibilità di organizzare socialmente la vita in modo del tutto differente non ha nulla in comune con la «possibilità» che un uomo con un cappello verde si presenti domani a tutti gli ingressi, ma trattarle ambedue con la medesima logica può servire a diffamare le possibilità indesiderabili. Nel criticare l’introduzione di entità possibili, Quine scrive che un simile

 

universo sovrapopolato è per molti versi ben poco amabile. Offende il senso estetico di quelli tra noi che hanno un certo gusto per i paesaggi deserti, ma questa non è la cosa peggiore. [Un simile] slum di possibili è un pascolo ideale per elementi turbolenti178.

 

La filosofia contemporanea è pervenuta di rado ad una formulazione più autentica del conflitto tra i suoi intenti e la sua funzione. La sindrome linguistica di «amabile», «senso estetico» e «paesaggio deserto» evoca l’aria liberatrice del pensiero di Nietzsche, che attacca la Legge e l’Ordine, mentre il «pascolo ideale per elementi turbolenti» appartiene al linguaggio parlato dalle autorità dell’Indagine e dell’Informazione. Ciò che appare inamabile e turbolento dal punto di vista logico può ben comprendere gli elementi amabili di un ordine differente, e può così essere una parte essenziale del materiale con cui vengono edificati i concetti filosofici. Né il più raffinato senso estetico né il più esatto concetto filosofico sono immuni di fronte alla storia. Elementi turbolenti entrano negli oggetti più puri del pensiero. Essi pure sono staccati dalla base societaria, ed i contenuti da cui essi astraggono guidano l’astrazione.

Così si ridesta lo spettro dello «storicismo». Se il pensiero procede dalle condizioni storiche che continuano ad operare nell’astrazione, esiste una base oggettiva per fare una distinzione tra le varie possibilità progettate dal pensiero, una distinzione tra modi differenti e conflittuali di trascendenza concettuale? La questione, inoltre, non può essere discussa facendo riferimento soltanto a differenti progetti filosofici179. Nella misura in cui il progetto filosofico è ideologico, esso fa parte di un progetto storico, ossia pertiene ad uno stadio e livello specifici dello sviluppo societario, ed i concetti critico-filosofici si riferiscono (non importa quanto direttamente!) alle possibilità alternative di detto sviluppo.

La ricerca dei criteri per giudicare tra differenti progetti filosofici porta così alla ricerca dei criteri per giudicare tra differenti progetti ed alternative storiche, tra differenti modi reali e possibili di comprendere e modificare l’uomo e la natura. Io offrirò qui solo alcune proposizioni atte a suggerire che il carattere storico intrinseco dei concetti filosofici, lungi dal precludere la via della validità oggettiva, costituisce il fondamento della loro validità oggettiva.

Mentre parla e pensa per sé, il filosofo parla e pensa da una posizione particolare nella sua società, e lo fa usando il materiale trasmesso ed utilizzato da questa. Ma nel far ciò, egli parla e pensa entro un universo comune di fatti e di possibilità. Attraverso i vari agenti e strati individuali dell’esperienza, attraverso i «progetti» differenti che guidano i modi di pensare, dalle faccende della vita quotidiana alla scienza e alla filosofia, l’azione reciproca tra un soggetto collettivo ed un mondo comune prosegue e costituisce la validità oggettiva degli universali. Essa è oggettiva:

 

1) In virtù della materia che si oppone al soggetto che apprende e comprende. La formazione dei concetti resta determinata dalla struttura della materia che non arriva a disciogliersi in soggettività (anche se la struttura è completamente matematico-logica). Nessun concetto può essere valido se definisce il suo oggetto a partire da proprietà e funzioni che non appartengono all’oggetto (per esempio, l’individuo non può essere definito come essere capace di diventare identico ad un altro; né l’uomo come essere capace di rimanere eternamente giovane). Tuttavia, la materia confronta il soggetto in un universo storico, e l’oggettività si colloca in un orizzonte storico aperto; è suscettibile di mutamento.

2) In virtù della struttura della società specifica in cui ha luogo lo sviluppo dei concetti. Questa struttura è comune a tutti i soggetti nell’universo considerato. Essi esistono sotto le medesime condizioni naturali, il medesimo regime di produzione, lo stesso modo di sfruttare la ricchezza sociale, la stessa eredità del passato, lo stesso ordine di possibilità. Tutte le differenze ed i conflitti tra classi, gruppi, individui si dispiegano entro questo quadro comune.

 

Gli oggetti del pensiero e della percezione quali appaiono agli individui prima di ogni interpretazione «soggettiva» hanno in comune certe qualità primarie, attinenti a questi due strati della realtà: i) la struttura fisica (naturale) della materia, e 2) la forma che la materia ha ricevuto nella pratica collettiva storica che ha fatto di essa (della materia) oggetti per un soggetto. I due strati o aspetti dell’oggettività (fisico e storico) sono interrelati in modo tale che non possono essere isolati l’uno dall’altro; l’aspetto storico non può mai essere eliminato tanto radicalmente che rimanga solo lo strato fisico «assoluto».

Ad esempio, io ho cercato di mostrare che, nella realtà tecnologica, il mondo oggetto (inclusi i soggetti) è sperimentato come un mondo di strumentalità. Il contesto tecnologico definisce in anticipo la forma in cui appaiono gli oggetti. Essi appaiono a priori allo scienziato come elementi o complessi di relazioni non valutativi, suscettibili di essere organizzati in un effettivo sistema matematicologico; ed appaiono al senso comune come materia di lavoro o di svago, di produzione o di consumo. Il mondo oggetto è quindi il mondo di uno specifico progetto storico, né è mai accessibile al di fuori del progetto storico che organizza la materia; e l’organizzazione della materia è al tempo stesso un’impresa teoretica e pratica.

Ho ripetuto così spesso il termine «progetto» perché mi sembra accentuare più chiaramente il carattere specifico della pratica storica. Esso risulta da una scelta determinata, rilevazione di uno fra altri modi di comprendere, organizzare e trasformare la realtà. La scelta iniziale definisce l’ambito delle possibilità aperte su questa strada, e preclude le possibilità alternative incompatibili con essa.

Intendo proporre ora alcuni criteri per determinare il valore di verità di differenti progetti storici. Questi criteri devono riferirsi alla maniera in cui un progetto storico realizza date possibilità – non possibilità formali, bensì quelle che toccano le forme dell’esistenza umana. Tale realizzazione è effettivamente in cammino in ogni situazione storica. Ogni società costituita è una realizzazione del genere; per di più essa tende a giudicare a modo suo la razionalità dei progetti possibili, a mantenerli entro il proprio quadro. Al tempo stesso, ogni società costituita si trova di fronte alla presenza o alla possibilità di una pratica storica qualitativamente differente, che potrebbe distruggere la struttura istituzionale esistente. La società costituita ha già dimostrato il suo valore di verità come progetto storico. Essa è riuscita ad organizzare la lotta dell’uomo con l’uomo e con la natura; essa riproduce e protegge (in modo più o meno adeguato) l’esistenza umana (sempre con l’eccezione di coloro che sono i paria dichiarati, i nemici-stranieri, e altre vittime del sistema). Ma contro questo progetto in piena realizzazione ne sorgono altri, fra i quali quelli che vorrebbero mutare totalmente il progetto costituito. Se si fa riferimento ad un tale progetto trascendente, i criteri della verità storica oggettiva possono essere meglio formulati come i criteri della sua razionalità:

 

1) Il progetto trascendente deve essere in accordo con le possibilità reali che si aprono al livello raggiunto dalla cultura materiale ed intellettuale.

2) Per falsificare la totalità in essere, il progetto trascendente deve dimostrare di possedere una superiore razionalità nel triplice senso di:

a) offrire la possibilità di preservare e migliorare i risultati produttivi della civiltà;

b) definire la totalità in essere nella sua struttura, tendenze di fondo e relazioni;

c) mostrare che la propria realizzazione offre maggiori occasioni per la pacificazione dell’esistenza, nel quadro di istituzioni che offrono maggiori occasioni per il libero sviluppo dei bisogni e delle facoltà umani.

 

Com’è ovvio, questa nozione di razionalità contiene, specialmente nell’ultimo punto, un giudizio di valore, ed io replico ciò che ho affermato prima: io credo che il concetto stesso di Ragione abbia origine da questo giudizio di valore, e che il concetto di verità non può essere separato dal valore della Ragione.

 

«Pacificazione», «libero sviluppo dei bisogni e delle facoltà umani» – questi concetti si possono definire empiricamente nei termini delle risorse e capacità disponibili, intellettuali e materiali, e del loro uso sistematico allo scopo di moderare la lotta per resistenza. Questo è il fondamento oggettivo della razionalità storica.

 

Se è lo stesso continuo storico a fornire il fondamento oggettivo per determinare la verità di differenti progetti storici, esso determina anche la loro successione ed i loro limiti? La verità storica ha carattere comparativo; la razionalità del possibile dipende da quella del progetto in atto, la verità del progetto trascendente da quella del progetto che si va realizzando. La scienza aristotelica fu rigettata in base ai suoi risultati; se il capitalismo fosse rigettato dal comunismo, ciò avverrebbe in virtù dei suoi risultati. La continuità è mantenuta tramite una rottura: lo sviluppo quantitativo diventa mutamento qualitativo se giunge a investire la struttura stessa di un sistema stabilito; la razionalità stabilita diventa irrazionale quando, nel corso del suo sviluppo interno, le potenzialità del sistema hanno soverchiato le sue istituzioni. Tale confutazione dall’interno pertiene al carattere storico della realtà, ed il medesimo carattere conferisce ai concetti che comprendono detta realtà il loro intento critico. Essi riconoscono ed anticipano l’irrazionale nella realtà stabilita – essi progettano la negazione storica.

Questa negazione è forse «determinata»? vale a dire, la successione interna di un progetto storico, quando questo sia divenuto una totalità, è necessariamente predeterminata dalla struttura di questa? Se così fosse, allora il termine «progetto» sarebbe ingannevole. Qualunque possibilità storica diverrebbe presto o tardi reale; e la definizione della libertà come comprensione della necessità avrebbe una connotazione repressiva che di fatto non ha. Tutto ciò non ha forse molta importanza. Ciò che importa è che tale determinazione storica assolverebbe (a dispetto di ogni sottigliezza etica e psicologica) i crimini contro l’umanità che la civiltà continua a commettere, e faciliterebbe così il continuare negli stessi.

Io suggerisco la frase «scelta determinata» per sottolineare l’ingresso della libertà nella necessità storica; la frase non fa altro che condensare la proposizione che sono gli uomini a fare la loro storia, ma la fanno sotto determinate condizioni. Sono determinate: 1) le contraddizioni specifiche che si sviluppano entro un sistema storico come manifestazioni del conflitto tra il potenziale e l’attuale; 2) le risorse materiali ed intellettuali disponibili al sistema considerato; 3) la portata della libertà teorica e pratica compatibile con il sistema. Queste condizioni lasciano aperte possibilità alternative di sviluppare ed utilizzare le risorse disponibili, di «guadagnarsi da vivere», di organizzare la lotta dell’uomo contro la natura.

Così, nel quadro di una situazione data, l’industrializzazione può procedere per strade differenti, sotto controllo collettivo o privato; e anche sotto controllo privato può procedere in direzione di tipi differenti di progresso, con scopi differenti. La scelta è in primo luogo (ma solo in primo luogo!) un privilegio di quei gruppi che hanno ottenuto il controllo sul processo produttivo. Il loro controllo progetta il modo di vivere di tutti, e la necessità che ne segue e che rende schiavi è il risultato della loro libertà. La possibile abolizione di tale necessità dipende da un ulteriore incremento di libertà; non una libertà qualsiasi, bensì quella di uomini che considerano la necessità data come pena insopportabile, e del tutto non necessaria.

 

Come processo storico, il processo dialettico implica la coscienza, la capacità di riconoscere e di impossessarsi delle potenzialità liberanti. In questo modo implica la libertà. Nella misura in cui la coscienza è determinata dalle esigenze e dagli interessi della società stabilita, essa non è libera; nella misura in cui la società stabilita è irrazionale, la coscienza diventa libera ed aperta ad una superiore razionalità storica soltanto nella lotta contro la società stabilita. La verità e la libertà del pensiero negativo hanno il loro fondamento e ragione in questa lotta. Così, secondo Marx, il proletariato è la forza storica liberante solamente se opera come forza rivoluzionaria; la negazione determinata del capitalismo avviene se e quando il proletariato ha preso coscienza di sé, delle condizioni e dei processi che costituiscono la sua società. Questa coscienza è un requisito preliminare e anche un elemento della pratica negativa. Questo «se» è essenziale al progresso storico – è l’elemento di libertà (e di caso!) che schiude le possibilità di vincere la necessità dei fatti dati. Senza di esso la storia ricade nelle tenebre della natura non domata.

Abbiamo già incontrato il «circolo vizioso» della libertà e della liberazione180; qui esso riappare come la dialettica della negazione determinata. La trascendenza oltre le condizioni stabilite (di pensiero e di azione) presuppone la trascendenza entro queste condizioni. Questa libertà negativa – ovvero la libertà dal potere oppressivo ed ideologico dei fatti dati – è l’a priori della dialettica storica; è l’elemento di scelta e di decisione nella determinazione storica e contro di essa. Nessuna delle alternative date è di per sé una negazione determinata, a meno che e fino a che essa non sia colta coscientemente per rompere il potere di condizioni intollerabili e realizzare le condizioni più razionali, più logiche, rese possibili da quelle prevalenti. In ogni caso, la razionalità e la logica invocate nel movimento del pensiero e dell’azione sono quelle delle condizioni da trascendere. La negazione procede su terreno empirico; è un progetto storico che sta dentro ma va oltre un progetto già iniziato, e la sua verità è una possibilità che va determinata su questo piano.

Tuttavia, la verità di un progetto storico non si convalida ex post tramite il successo, vale a dire grazie al fatto che è accettato e realizzato dalla società. La scienza galileiana era vera nel momento in cui era condannata; la teoria marxista era già vera al tempo del Manifesto dei Comunisti; il fascismo rimane falso anche se è in ascesa su scala internazionale (usiamo «vero» e «falso» sempre nel senso della razionalità storica come sopra definita). Nel periodo contemporaneo, tutti i progetti storici tendono a polarizzarsi sulle due totalità in conflitto, il capitalismo e il comunismo, e l’esito pare dipendere da due serie antagonistiche di fattori: i) la maggior potenza di distruzione; 2) la maggior produttività senza distruzione. In altre parole, la maggior verità storica starebbe dalla parte del sistema che offre le maggiori possibilità di pacificazione.

10.
Conclusione

 

 

 

La società unidimensionale che si va affermando altera la relazione tra il razionale e l’irrazionale. In contrasto con gli aspetti fantastici e folli della sua razionalità, il regno dell’irrazionale diventa la sede di ciò che è realmente razionale – delle idee che possono «promuovere l’arte di vivere». Se la società stabilita governa ogni comunicazione normale, convalidandola o invalidandola a seconda delle esigenze sociali, allora può essere che i valori estranei a tali esigenze non abbiano altro mezzo di comunicazione che quello anormale della finzione artistica. La dimensione estetica serba ancora una libertà di espressione che mette in grado lo scrittore e l’artista di chiamare uomini e cose con il loro nome – di nominare ciò che è altrimenti innominabile.

Il vero volto del nostro tempo si mostra nei romanzi di Samuel Beckett; la sua storia reale è scritta nella commedia Der Stellvertreter di Rolf Hochhut. Qui non è più l’immaginazione che parla, ma la Ragione, in una realtà che giustifica ogni cosa ed assolve ogni cosa – tranne il peccato contro il suo spirito. L’immaginazione sta abdicando a questa realtà, che sta raggiungendo ed oltrepassando l’immaginazione. Auschwitz continua a ossessionare, non la memoria ma le realizzazioni dell’uomo: i voli spaziali, i razzi ed i missili, il «sotterraneo labirintico sotto lo Snack Bar»; le graziose officine elettroniche, linde, igieniche e con le aiole fiorite, il gas velenoso che non è in realtà dannoso per la gente; la segretezza di cui noi tutti partecipiamo. Questo è l’ambiente in cui avvengono le grandi realizzazioni umane della scienza, della medicina, della tecnologia; gli sforzi per salvare e per migliorare la vita sono la sola promessa nel disastro. Il gioco deliberato con possibilità fantastiche, l’abilità di agire con buona coscienza, contra naturam, di far esperimenti con uomini e cose, di convertire l’illusione in realtà e la finzione in verità, dimostrano fino a qual punto l’Immaginazione è diventata uno strumento di progresso. E di esso, come di altri nelle società costituite, si è metodicamente abusato. Nello stabilire il ritmo e lo stile della politica, il potere dell’immaginazione eccede di gran lunga Alice nel Paese delle Meraviglie quanto a manipolazione di parole, voltando il senso in non senso e il non senso in senso comune.

I regni prima in antagonismo si fondono sul terreno tecnico e politico – magia e scienza, vita e morte, gioia ed infelicità. La bellezza disvela il terrore che contiene là dove laboratori e impianti nucleari diventano «Parchi Industriali» in dintorni ameni; il Quartier Generale della Difesa Civile mette in mostra un «rifugio gran lusso antipioggia atomica» con tappeto («soffice») da muro a muro, poltrone, televisione e scala, «progettato come camera dei giochi e di soggiorno per la famiglia in tempo di pace (sic!) e rifugio per famiglia anti-pioggia atomica dovesse scoppiare la guerra»193. Se l’orrore di simili realizzazioni non penetra nella coscienza, se la cosa è subito ritenuta ovvia, ciò si deve al fatto che tali realizzazioni sono a) perfettamente razionali nei termini dell’ordine esistente, b) un segno dell’ingegno e del potere umani al di là dei limiti tradizionali dell’immaginazione.

La fusione oscena del momento estetico con la realtà rifiuta le filosofie che oppongono l’immaginazione «poetica» alla Ragione scientifica ed empirica. Al progresso tecnologico si accompagna una razionalizzazione progressiva ed anzi la realizzazione dell’immaginario. Gli archetipi dell’orrore come della gioia, della guerra come della pace, perdono il loro carattere catastrofico. La loro presenza nella vita quotidiana degli individui non è più quella di forze irrazionali – le loro incarnazioni moderne sono elementi di dominio tecnologico, e soggette ad esso.

Riducendo e anzi annullando lo spazio romantico dell’immaginazione, la società ha costretto l’immaginazione a dar prova di sé in campi nuovi, nei quali le immagini sono tradotte in capacità e progetti storici. La traduzione sarà tanto nociva e distorta quanto la società che l’ha intrapresa. Separata dal regno della produzione materiale e dei bisogni materiali, l’immaginazione era semplice gioco, impotente nel regno della necessità, e dedito soltanto ad una logica fantastica e ad una fantastica verità. Quando il progresso tecnologico annulla codesta separazione, esso investe le immagini con la sua propria logica e la sua propria verità, riducendo la facoltà libera della mente. Ma ciò riduce anche la lacuna tra immaginazione e Ragione. Le due facoltà antagonistiche diventano interdipendenti su un terreno comune. Alla luce delle capacità della civiltà industriale avanzata, ogni gioco dell’immaginazione non gioca forse con possibilità tecniche, che possono essere messe alla prova per vedere se è possibile realizzarle? L’idea romantica di una «scienza dell’Immaginazione» sembra assumere un aspetto più che mai empirico.

Il carattere scientifico e razionale dell’Immaginazione è stato da lungo tempo riconosciuto nella matematica, nelle ipotesi e negli esperimenti delle scienze fisiche. Esso è stato parimenti riconosciuto nella psicoanalisi, che si fonda in teoria sul presupposto della razionalità specifica dell’irrazionale; l’immaginazione compresa e interpretata diventa, dopo essere orientata in una nuova direzione, una forza terapeutica. Ma questa forza terapeutica può andare molto più in là della cura delle nevrosi. Non era un poeta ma uno scienziato colui che ha delineato questa prospettiva:

 

Una psicoanalisi materiale può… aiutarci a guarire delle nostre immagini, o almeno aiutarci a limitare l’influsso delle nostre immagini. Si può allora sperare… di poter rendere felice l’immaginazione, o, in altre parole, di poter dare una buona coscienza all’immaginazione, accordandole appieno tutti i suoi mezzi d’espressione, tutte le immagini materiali che si affollano nei sogni naturali, durante la normale attività onirica. Rendere felice l’immaginazione, lasciarla operare in tutta la sua esuberanza, vuol dire precisamente attribuire all’immaginazione la sua vera funzione di propulsione psichica194.

 

L’Immaginazione non è rimasta immune al processo di reificazione. Noi siamo posseduti dalle nostre immagini, soffriamo delle nostre proprie immagini. La psicoanalisi lo sapeva bene, e ne conosceva le conseguenze. Tuttavia, «accordare all’immaginazione tutti i mezzi d’espressione» significherebbe regredire. Gli individui mutilati (mutilati anche nella loro facoltà di immaginare) si darebbero a organizzare e distruggere in misura ancor maggiore di quanto sia loro permesso di fare al presente. Tale scatenarsi sarebbe un orrore senza attenuazioni – non la catastrofe della cultura, ma il libero dispiegarsi delle sue tendenze più repressive. Razionale è l’immaginazione che può diventare l’a priori della ricostruzione e del riorientamento dell’apparato produttivo, in vista di una esistenza pacifica, di una vita senza paura. E questa non può mai essere l’immaginazione di coloro che sono posseduti dalle immagini di dominio e di morte.

Liberare l’immaginazione in modo che possano esserle concessi tutti i suoi mezzi di espressione presuppone la repressione di molte cose che ora son libere e perpetuano una società repressiva. E tale rovesciamento non è questione di psicologia o di etica ma di politica, nel senso in cui questo termine è stato usato qui fino ad ora: la pratica per cui tramite le istituzioni base della società sono sviluppate, definite, sostenute, e mutate. È una pratica posta in atto da individui, e non ha importanza quanto essi possano essere organizzati. Quindi si deve porre ancora una volta la domanda: come possono gli individui amministrati – che hanno tratto dalla loro mutilazione le loro libertà e soddisfazioni, e così la riproducono su larga scala – liberarsi da se stessi non meno che dai loro padroni? Come si può anche solo pensare che il circolo vizioso si possa rompere?

Paradossalmente, non pare sia il disegno delle nuove istituzioni della società che presenta le maggiori difficoltà nel cercare di rispondere a questa domanda, Le società stabilite stanno anch’esse mutando, o hanno già mutato le istituzioni base in direzione di una maggior pianificazione. Dato che lo sviluppo e l’utilizzazione di tutte le risorse disponibili per la soddisfazione universale dei bisogni vitali è il requisito della pacificazione, esso è incompatibile con il prevalere di interessi particolari che ostacolano il conseguimento di questo scopo. Un mutamento qualitativo presuppone necessariamente una pianificazione a favore di tutti contro questi interessi, ed una società libera e razionale può sorgere solo su questa base.

Le istituzioni nel cui quadro la pacificazione può essere cercata trascendono quindi la classificazione tradizionale in amministrazione autoritaria o democratica, accentrata o liberale. Oggi, l’opposizione alla pianificazione dal centro in nome di una democrazia liberale che è negata nella realtà serve da sostegno ideologico per interessi repressivi. La possibilità di realizzare un’autentica autodeterminazione degli individui dipende da un effettivo controllo sociale sulla produzione e distribuzione delle cose necessarie (nei termini del livello di cultura raggiunto, materiale ed intellettuale).

Su questo punto la razionalità tecnologica, spogliata delle sue caratteristiche sfruttatrici, è il solo criterio e guida valido per pianificare e sviluppare le risorse da porre a disposizione di tutti. L’autodeterminazione nella produzione e distribuzione dei beni e dei servizi vitali sarebbe rovinosa. Si tratta di un compito tecnico, e come compito veramente tecnico, favorisce la riduzione della fatica fisica ed intellettuale. In questo regno il controllo accentrato è razionale se stabilisce le condizioni necessarie di una autodeterminazione significativa. Quest’ultima potrà quindi attuarsi nel proprio regno, nelle decisioni che riguardano la produzione e la distribuzione del sopravanzo economico, e nell’esistenza individuale.

In ogni caso, la combinazione di autorità accentrata e di democrazia diretta è soggetta ad infinite variazioni, a seconda del grado di sviluppo. L’autodeterminazione sarà reale nella misura in cui le masse si saranno dissolte in individui liberi da ogni propaganda, indottrinamento e manipolazione, capaci di conoscere e di comprendere i fatti e di valutare le alternative. In altre parole, la società sarebbe razionale e libera nella misura in cui è organizzata, sostenuta, e riprodotta da un Soggetto storico essenzialmente nuovo.

Allo stato attuale di sviluppo delle società industriali avanzate, tanto il sistema materiale quanto il sistema culturale rifiutano questa esigenza. Il potere e l’efficienza del sistema, la perfetta assimilazione della mente con il fatto, del pensiero con il comportamento richiesto, delle aspirazioni con la realtà, si oppongono all’emergere di un nuovo Soggetto. Essi si oppongono inoltre all’idea che la sostituzione del controllo in atto sul processo produttivo con un «controllo dal basso» significherebbe l’avvento di un mutamento qualitativo. Tale idea era valida, ed ancora è valida, dove i lavoratori erano e sono tuttora la negazione vivente e l’accusa della società stabilita. Ma dove queste classi sono diventate un sostegno del modo di vivere stabilito, la loro ascesa al controllo prolungherebbe tal modo di vivere in un quadro diverso.

Nonostante ciò, i fatti che convalidano la teoria critica di questa società e del suo fatale sviluppo son tutti presenti: l’irrazionalità crescente dell’insieme; lo spreco e la limitazione della produttività; il bisogno dell’espansione aggressiva; la minaccia costante della guerra; lo sfruttamento intensificato; la disumanizzazione. E tutti rimandano all’alternativa storica: l’impiego pianificato delle risorse per la soddisfazione dei bisogni vitali con un minimo di fatica, la trasformazione del tempo dedicato a passatempi in vero tempo libero, la pacificazione della lotta per l’esistenza.

Ma i fatti e le alternative stanno lì come frammenti che non si congiungono, o come un mondo di oggetti muti senza un soggetto, senza la pratica che muoverebbe questi oggetti nella nuova direzione. La teoria dialettica non è confutata, ma ciò non può offrire il rimedio. Non può aver carattere positivo. È vero che il concetto dialettico, nel mentre comprende i fatti dati, trascende i fatti dati: è questa la prova autentica della sua verità. Esso definisce le possibilità storiche, anzi le necessità; ma la loro realizzazione può soltanto venire dalla pratica che risponde alla teoria, e, al presente, la pratica non dà tale risposta.

Sul terreno teoretico come su quello empirico, il concetto dialettico manifesta la propria disperazione. La realtà umana è la sua storia, e in essa le contraddizioni non esplodono da sole. Può darsi che il conflitto tra il dominio razionalizzato e remunerativo, da un lato, ed i risultati di esso su cui potrebbe fondarsi l’autodeterminazione e la pacificazione, dall’altro, diventi clamoroso al di là di ogni possibile smentita, ma può anche avvenire che continui ad essere un conflitto trattabile e persino produttivo, perché con l’avanzare della conquista tecnologica della natura aumenta la conquista dell’uomo da parte dell’uomo; e tale conquista riduce la libertà, che è un a priori necessario della liberazione. Questa è libertà di pensiero nell’unico senso in cui il pensiero può essere libero nel mondo amministrato – come consapevolezza della sua produttività repressiva, e come bisogno assoluto di romperla con questo insieme. Ma proprio questo bisogno assoluto non prevale là dove potrebbe diventare la forza propulsiva di una pratica storica, la causa effettiva di un mutamento qualitativo. Senza codesta forza materiale, anche la coscienza più acuta rimane priva di potere.

Per quanto ovvio appaia il carattere irrazionale dell’insieme, e con ciò la necessità di mutamento, il rendersi conto della necessità non è mai bastato per afferrare le alternative possibili. Davanti all’efficienza onnipresente del sistema dato di vita, le alternative di chi discerne tale necessità sono sempre apparse utopistiche. E discernere la necessità, essere coscienti del male, non basterà neanche nello stadio in cui le realizzazioni della scienza ed il livello di produttività avranno eliminato le caratteristiche utopiche delle alternative – in cui la realtà stabilita piuttosto che il suo opposto apparirà utopica.

 

Ciò significa forse che la teoria critica della società abdica e lascia il campo ad una sociologia empirica che, libera da ogni guida teoretica eccetto quella metodologica, cede agli errori della concretezza mal riposta, rendendo così un servizio ideologico mentre proclama l’eliminazione dei giudizi di valore? Oppure i concetti dialettici mostrano una volta di più di essere nel vero, in quanto comprendono la propria situazione non meno di quella della società che analizzano? Una risposta si potrebbe presentare se si considera la teoria critica proprio nel punto della sua maggiore debolezza: l’incapacità di rilevare le tendenze liberatrici che vi sono entro la società costituita.

La teoria critica della società, all’origine, si trovava in presenza di forze reali (oggettive e soggettive) nella società costituita che si muoveva (o poteva esser portata a muoversi) verso istituzioni più razionali e più libere, abolendo quelle già esistenti che erano divenute ostacoli al progresso. Questo fu il terreno empirico sul quale la teoria venne eretta, e da esso derivò l’idea della liberazione delle possibilità inerenti – dello sviluppo, altrimenti bloccato e distorto, della produttività, delle facoltà e dei bisogni materiali ed intellettuali. Se non si pongono in luce tali forze, la critica della società sarebbe ancora valida e razionale, ma sarebbe incapace di tradurre la sua razionalità in termini di pratica storica. La conclusione? La «liberazione delle possibilità inerenti» non esprime più in modo adeguato l’alternativa storica.

Le possibilità represse delle società industriali avanzate sono: lo sviluppo delle forze produttive su scala ingrandita, l’estensione della conquista della natura, un’accresciuta soddisfazione dei bisogni per un crescente numero di persone, la creazione di nuovi bisogni e facoltà. Queste possibilità sono oggi gradualmente realizzate attraverso mezzi ed istituzioni che annullano il loro potenziale liberante, ed il processo influisce non solo sui mezzi ma anche sui fini. Gli strumenti della produttività e del progresso, organizzati in un sistema totalitario, determinano non soltanto gli impieghi attuali ma anche quelle possibili.

Nello stadio più avanzato la dominazione funziona come amministrazione, e nelle aree sovrasviluppate del consumo di massa la vita amministrata diventa la buona vita del complesso, nella difesa della quale si uniscono gli opposti. Questa è la forma pura di dominio. Per converso, la sua negazione appare essere la forma pura della negazione. Ogni contenuto sembra ridursi all’unica astratta richiesta che il dominio finisca – l’unica esigenza veramente rivoluzionaria, l’evento che convaliderebbe i successi della civiltà industriale. Di fronte al modo onde è efficacemente respinta da parte del sistema costituito, questa negazione prende la forma politicamente impotente del «rifiuto assoluto» – un rifiuto che sembra tanto più irragionevole quanto più il sistema costituito accresce la sua produttività e allevia il fardello della vita. Nelle parole di Maurice Blanchot:

 

Ciò che rifiutiamo non è senza valore ed importanza. È anzi proprio per questo che il rifiuto è necessario. C’è una ragione che non accetteremo, c’è un’apparenza di saggezza che ci fa orrore, c’è un’offerta d’accordo e di conciliazione che non accoglieremo mai. S’è prodotta una rottura. Siamo stati ricondotti a quella franchezza che non tollera più la complicità195.

 

Ma se il carattere astratto del rifiuto è il risultato della reificazione totale, allora il terreno concreto per il rifiuto deve ancora esistere, poiché la reificazione è un’illusione. Allo stesso proposito, l’unificazione degli opposti nel mezzo della razionalità tecnologica deve essere, con tutta la sua realtà, una unificazione illusoria, che non elimina né la contraddizione tra la produttività crescente ed il suo uso repressivo, né il bisogno vitale di risolvere la contraddizione.

Ma la lotta per la soluzione ha superato le forme tradizionali. Le tendenze totalitarie della società unidimensionale rendono inefficaci le vie ed i mezzi tradizionali di protesta; forse persino pericolosi, perché mantengono l’illusione della sovranità popolare. Questa illusione contiene qualche verità: «il popolo», un tempo lievito del mutamento sociale, è «salito», sino a diventare il lievito della coesione sociale. È qui, e non nella ridistribuzione della ricchezza o nella progressiva uguaglianza delle classi, che occorre vedere la nuova stratificazione caratteristica della società industriale avanzata.

Tuttavia, al di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico; la loro presenza prova come non mai quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni ed istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato. Quando si riuniscono e scendono nelle strade, senza armi, senza protezione, per chiedere i più elementari diritti civili, essi sanno di affrontare cani, pietre, e bombe, galera, campi di concentramento, persino la morte. La loro forza si avverte dietro ogni dimostrazione politica per le vittime della legge e dell’ordine. Il fatto che essi incomincino a rifiutare di prendere parte al gioco può essere il fatto che segna l’inizio della fine di un periodo.

Nulla indica che sarà una buona fine. Le capacità economiche e tecniche delle società stabilite sono abbastanza ampie da permettere aggiustamenti e concessioni a favore dei sottoproletari, e le loro forze armate sono abbastanza addestrate ed equipaggiate per far fronte alle situazioni di emergenza. Tuttavia lo spettro è di nuovo presente, dentro e fuori i confini delle società avanzate. Il facile parallelo storico con i barbari che minacciano l’impero della civiltà pregiudica l’argomento; il secondo periodo di barbarie potrebbe ben essere l’impero ininterrotto della civiltà stessa. Ma c’è la possibilità che, in questo periodo, gli estremi storici possano toccarsi ancora una volta: la coscienza più avanzata dell’umanità e la sua forza più sfruttata. Non è altro che una possibilità. La teoria critica della società non possiede concetti che possano colmare la lacuna tra il presente ed il suo futuro; non avendo promesse da fare né successi da mostrare, essa rimane negativa. In questo modo essa vuole mantenersi fedele a coloro che, senza speranza, hanno dato e dànno la loro vita per il Grande Rifiuto.

All’inizio dell’era fascista, Walter Benjamin ebbe a scrivere:

 

Nur um der Hoffnungslosen willen ist uns die Hoffnung gegeben. (È solo a favore dei disperati che ci è data a speranza).