mercoledì 26 gennaio 2022

Mitologia degli alberi Jacques Brosse



MITOLOGIA DEGLI ALBERI


Jacques Brosse 
Jacques Brosse (Parigi, 21 agosto 1922 – Dordogna, 3 gennaio 2008) è stato uno psicoanalista, scrittore, giornalista radiofonico francese, specialista di botanica e di religioni.

MITOLOGIA DEGLI ALBERI

Da giardino dell'Eden al legno della Croce
1989

Al centro della Terra

Nel più lontano passato, molto prima che l’uomo facesse la sua comparsa sulla terra, un albero gigantesco s’innalzava fino al cielo. Asse dell’universo, attraversava i tre mondi. Le sue radici affondavano fin negli abissi sotterranei, i suoi rami arrivavano all’empireo. L’acqua attinta dalla terra diventava la sua linfa, dai raggi di sole nascevano le sue foglie, i suoi fiori e i suoi frutti. Attraverso di lui, il fuoco scendeva dal delo, la sua cima, raccogliendo le nuvole, faceva cadere le piogge fecondatrici. Con la sua verticalità, l’albero assicurava il nesso tra l’universo uraniano e i baratri ctoni. In lui il cosmo si rigenerava in perpetuo. Fonte di ogni vita, l’albero dava riparo e nutrimento a migliaia di esseri. Tra le sue radici strisciavano i serpenti, gli uccelli si posavano sui suoi rami. Anche gli dei lo sceglievano per soggiornarvi. Ritroviamo quest’albero cosmico in quasi tutte le tradizioni, da un capo all’altro del pianeta, ed è lecito supporre che sia esistito dappertutto, anche là dove la sua immagine si è cancellata

Il frassino Yggdrasill

In uno dei canti eddici intitolato Havamal (La canzone dell’eccelso), Odino così si esprime:
Lo so che sono stato appeso
al tronco dal vento
nove intere notti.
Da una lancia ferito
e sacrificato a Odino
io a me stesso.
Con pane non mi hanno saziato, né con corni potori
in basso spiando guardavo.
Trassi su le rune gridando le trassi
e ricaddi di là.

L’idea di far nascere l’uomo dal legno è comune al patrimonio indoeuropeo. Ne ritroviamo allusioni in Omero e in Esiodo, nell’espressione «discorrere della quercia e della roccia», ragionare «sulla quercia e sulla roccia», che per loro significava risalire fino alle leggende sull’origine degli uomini, usciti dalla quercia e dalla roccia.Il verso «in basso spiando guardavo» rappresenta un’immagine alquanto singolare, dato che Odino non ha mai avuto più di un unico occhio e lo ha dato a Mimir. Odino è quindi cieco. Poiché non può trattarsi qui di una distrazione del poeta, gli occhi di Odino che scoprono le rune non sono più i suoi occhi, o meglio il suo occhio, di carne, ma gli occhi dello spirito. Rinunciando alla vista fisica, Odino è diventato un veggente. È questo un motivo ricorrente in tutte le tradizioni. Il poeta itinerante, il bardo, celta o germano, al pari del rapsodo o dell’aedo greco, come Omero, è molto spesso cieco, così come lo è l’indovino. La cecità è data loro sia come condizione del potere di veggenza che hanno ricevuto dagli dei, sia come castigo inflitto da questi per aver visto ciò che non avrebbero dovuto vedere: così l’indovino Tiresia, privato della vista da Atena, da lui osservata mentre era al bagno; così Edipo che si cava lui stesso gli occhi, in espiazione del proprio duplice delitto e dell’incesto involontariamente commesso. Soltanto perché non vedono più la luce fisica, questi eroi sono ammessi a contemplare la luce divina.
Questa associazione dell’albero primordiale e della pietra sacra, menhir, bethel (termine che nelle lingue semitiche significa «casa di Dio»), omphalos greco, «ombelico del mondo», o lingam indiano, è corrente nella maggior parte delle tradizioni. Entrambi questi elementi erano considerati serbatoi di «spiriti» disponibili, di germi pronti a incarnarsi, potenzialità di esistenze. Come osserva Jean-Paul Roux, la pietra, uguale a se stessa «da quando i più antichi progenitori l’hanno eretta o hanno inciso su di lei i loro messaggi, è eterna, è il simbolo della vita statica, mentre l’albero, soggetto a cicli di vita e di morte» ma dotato del «dono incredibile della perpetua rigenerazione» è «il simbolo della vita dinamica». È questa una struttura cosmica dualistica, di cui troviamo traccia ancor oggi tra i Berberi. L’interpretazione che questo popolo ne dà, trasposta su piano individuale, consente di capire meglio uno dei suoi due aspetti che non sempre è messo in evidenza.
L’unione delle due anime, principi essenziali della persona umana, è rappresentata dalla coppia albero-roccia. Il primo rappresenta il principio femminile, la seconda il principio maschile. Nelle tradizioni popolari, l’albero, certo, fornisce ombra e umidità a nefs, l’anima vegetativa, ma soprattutto è sostegno di rruh, l’anima sottile, che viene a posarvisi «come un uccello». Nefs è presente nella roccia o nella pietra. Le sorgenti che scaturiscono dalle pietre non sono che «il simbolo della fecondità venuta dal mondo sotterraneo». [1]

 
A Creta, il re sacerdote, il Wanax — termine che significa nello stesso tempo signore, protettore e salvatore — che aveva nome Minosse, era considerato il figlio e, secondo l’Odissea, «l’amico del grande Zeus». Regnava per un periodo di nove anni. Poiché era insieme «signore del tempo» — stabiliva il calendario — e «dispensatore della fertilità», era necessario che le sue forze fossero intatte. In capo a quel lasso di tempo, il «potere divino che gli era stato infuso» era considerato esaurito; andava quindi rinnovato. «Ogni nove anni, o meglio ogni cento mesi», Minosse saliva sull’Ida, la montagna sacra al centro dell’isola. Qui, Zeus bambino era stato allevato da tre ninfe oracolari, le quali formavano una «triade lunare» e corrispondevano perciò alle Norne, le dee del destino. Una di loro, la nutrice di Zeus a nome Adrastea, fu identificata in Nemesi, originariamente dea del frassino, divenuta giustiziera implacabile di qualsiasi hybris, di qualsiasi eccesso, orgoglio o violenza. Nemesi vegliava gelosamente a che fosse posta in esecuzione la legge secondo la quale la sventura deve senza fallo seguire il successo trionfante, che mette l’uomo al di sopra della condizione umana e lo conduce a disprezzare i suoi simili e a credersi pari agli dei. Il personaggio di Nemesi, il cui nome significa «colei cui nessuno può sfuggire», mentre quello di Adrastea ha il senso di «esorcizzare la gelosia degli dei facendo atto di umiltà», assomiglia quindi alla Noma Urdhr.
Quegli intervalli di otto o nove anni corrispondevano al presunto indebolimento del sovrano. Quel ciclo octaeteridico o enneatico, la cui durata esatta era di novantanove mesi compiuti, cioè di otto anni e quattro mesi, aveva grande importanza in Grecia. Un’antica usanza voleva che l’omicida fosse bandito dal suo paese e facesse penitenza per otto o nove anni. Secondo Pindaro, i morti che avevano espiato i loro crimini e si erano purificati con un soggiorno di otto anni nel mondo degli Inferi, il nono anno rinascevano sulla terra «sotto l’aspetto di re gloriosi, di atleti trionfanti o di saggi». In origine i giochi Pitici si celebravano a Delfi ogni otto anni ed è probabile che i giochi Olimpici, che si riteneva fossero stati fondati dai Dattili dell’Ida cretese, avessero luogo con analogo intervallo, prima che questo fosse dimezzato. Nel terzo secolo l’astrologo latino Censorino poteva scrivere che ancora ai suoi tempi le grandi solennità di culto presso i Greci ubbidivano a questo ritmo. E soprattutto, nella remota antichità questo ciclo era in stretto rapporto con la monarchia. La festa dell’incoronazione a Delfi, quella dell’alloro a Tebe, probabilmente corrispondenti al rinnovamento dei poteri del re, ricorrevano ogni nono anno. A Sparta, ogni otto anni gli efori dovevano riunirsi in una notte chiara e osservare il cielo: se scorgevano una meteora, traevano la conclusione che il re aveva offeso gli dei e lo sospendevano dalle sue funzioni.
Ci si è chiesti chi avesse potuto determinare una simile periodicità. Il problema oggi pare risolto. Si trattava, osserva Paul Faure, di «sapere dopo quanti mesi esattamente i grandi astri ritornano al loro punto di origine nel cielo, in altri termini di far coincidere la fine dell’anno solare con la fine dell’anno lunare». Ora, «il ciclo octaeteridico di novantanove mesi […] è l’unico in grado di mettere quasi d’accordo il progredire delle stagioni, quindi del sole, con quello della luna, e di conciliare il corso della natura (la luna) con quello della vita sociale, rappresentato dal re (il sole)». Stabilire il calendario da cui dipende la prosperità agricola, costituiva il principale dovere del sovrano il quale, di conseguenza, era tenuto a sottomettervisi per primo. «Ripristinando il tempo, il re ripristinava la società». Insieme al rinnovamento del ciclo, era previsto l’inizio di una nuova generazione.

L'Albero cosmico del mondo

A Eridu, in Mesopotamia, si ergeva il kiskanu, del quale un inno babilonese, che a sua volta riflette una tradizione sumera molto anteriore, dice:
A Eridu è spuntato un kiskanu nero, in un luogo santo è stato creato
Ha lo splendore del lapislazzuli brillante, si estende verso l’apsu
È il deambulatorio di Ea nell’opulenta Eridu
La sua residenza è un luogo di riposo per Bau…[2]
Eridu era la città santa del dio Ea, il cui nome sumero, «Dimora delle acque», fu conferito dai semiti a colui che i loro predecessori chiamavano Enki, Signore della terra, e che portava i titoli di Padre degli dei, Creatore dell’universo e Signore del destino. Eridu era il centro del mondo; lì sgorgavano le sorgenti che irrigavano tutto il paese. Il kiskanu è di origine celeste, poiché il lapislazzuli rappresenta la notte color blu cupo, costellata di stelle; i suoi rami si allargano in direzione dell’Oceano il quale racchiude le terre che poggiano su di lui. Le radici dell’albero scendono fino all’apsu, il baratro primordiale dal quale è uscito per primo. Kiskanu è la dimora del dio della fertilità, dell’agricoltura e delle arti, in particolare della scrittura, ma anche di sua madre Bau, a sua volta divinità dell’abbondanza dei campi e regina delle greggi.
Kiskanu è il prototipo degli alberi della vita, tanto spesso raffigurati nell’iconografia mesopotamica. Per solito ve li troviamo accompagnati da creature terrestri che da loro traggono la propria esistenza: capridi, uccelli e serpenti, circondati da astri o da esseri alati, perché si ergono verso il cielo, loro origine. Ognuno di questi simboli ha un senso ben determinato che precisa la funzione cosmologica dell’albero.
Quest’albero primordiale è stato scoperto dagli archeologi anche a Mohenjo-Daro, la città più importante della civiltà dell’Indo, contemporanea delle città-stato sumere della valle delI’Eufrate. È schematizzato come l’albero mesopotamico e accompagnato dagli stessi simboli, ma qui si tratta del fico, nel cui fogliame ha luogo l’epifania della dea nuda. Queste raffigurazioni serviranno successivamente da modello a quelle che ornano i monumenti dell’India meridionale, edificati dai Dràvida che occupavano il paese molto prima che l’invasione ariana li respingesse verso il Sud. La ficus religiosa rimarrà in India l’albero sacro; ai suoi piedi il Buddha giungerà all’illuminazione.
Dall’albero della vita mesopotamico discenderà, peraltro, quello che, secondo la Genesi, cresce in mezzo al giardino piantato da Jahveh nell’Eden per accogliere Adamo. Dalle sue radici nascono i quattro fiumi che irrigano il paradiso terrestre.
Secondo i Cinesi, il centro dell’universo, il luogo in cui dovrebbe trovarsi la Capitale perfetta, è contrassegnato da Qián mù, «Legno eretto». Questo nome ha la sua importanza, dato che in Cina il legno è considerato uno degli elementi, il quinto, sullo stesso piano dell’aria e della terra, dell’acqua e del fuoco. Corrisponde all’Est e alla primavera, e pure al trigramma, Kūn, lo scuotimento, del Yi King perché la vegetazione esce dalla terra contemporaneamente al tuono che vi era nascosto. Qián mù è l’albero del rinnovamento, perciò anche dell’inizio assoluto, quello del mondo. «Unisce le None Sorgenti (soggiorni dei morti) ai Noni Cieli, i Bassifondi del mondo al suo Apice… e si dice che a mezzogiorno niente di ciò che sta perfettamente diritto accanto a lui può proiettare ombra. Ugualmente niente vi produce un’eco.» Attraverso il suo tronco, che è cavo, salgono e scendono i sovrani, sole degli uomini, mediatori tra il cielo e la terra. Da un lato e dall’altro di Qián mù si ergono a levante pān mu, un immenso pesco «situato presso la porta dei Geni», i frutti del quale danno l’immortalità, e a ponente l’albero Jo, sul quale vengono a posarsi la sera i Diecimila soli. In altre raffigurazioni dell’universo, la parte principale è assegnata a Kōng sōng, il gelso cavo, residenza a levante della Madre dei soli, dal quale si innalza al mattino il nostro sole. Il gelso sacro era considerato ermafrodito, precedente alla divisione dello yang e dello yin, del maschio e della femmina, del chiaro e dello scuro, del cielo e della terra. Simboleggiava di conseguenza lo stesso Tao, l’ordine cosmico, il Principio universale. Una foresta di gelsi sacri (Sāng lìn) si ergeva davanti alla porta est della capitale imperiale.
Non possiamo concludere questa rapida panoramica delle grandi civiltà protostoriche che, partendo dall’Egitto, termina con la Cina arcaica senza ricordare un’immagine che non può essere stata influenzata dalle precedenti, dato che proviene dal Nuovo Mondo: la straordinaria raffigurazione dell’Albero cosmico che nel Codice Borgia illustra le credenze degli antichi messicani.
Nel mezzo, cioè nella quinta dimensione dello spazio, «il punto d’incrocio delle altre direzioni, il punto d’incontro dell’alto e del basso», si erge l’albero multicolore che scaturisce dal corpo di una dea terrestre la quale rappresenta l’occidente. Accanto a esso, da una parte c’è Quetzalcoatl, il «Serpente piumato» ctonio e uraniano al tempo stesso, la cui «storia mitica è quella della morte e della rinascita», il dio che si è sacrificato su un rogo per dar vita al sole e al pianeta Venere; dall’altra parte Macuilxochitl, «giovane dio della vegetazione che rinasce, dell’amore, del canto e della musica», «identico a Xochipilli, il principe dei fiori», e simile a Xipe Totec, «nostro signore lo Scorticato», rivestito della pelle di un essere umano sacrificato, simbolo della veste nuova indossata dalla terra in primavera.[3] In questa miniatura del Codice Borgia sono concentrati alcuni dei temi fondamentali che saranno oggetto dei prossimi capitoli. Nata da una civiltà priva di contatti con le altre, essa ne dimostra l’universalità.

Una fantasticheria realistica

Di questo ampio processo vitale è simbolo l’Albero cosmico delle leggende. Come poteva l’essere umano primevo non nutrire una venerazione riconoscente, una profonda ammirazione, per l’essere immenso che sarebbe sopravvissuto non solo a lui ma ai suoi discendenti? L'albero infatti arriva a un'età molto avanzata, più avanzata di quella di qualsiasi altro essere. Esistono essenze che, superando il millennio, all’uomo appaiono immortali. Questo antenato, l’antenato per eccellenza, è anche di tutti i viventi il più grande, il più maestoso. Mai nessun animale, neppure tra gli scomparsi giganti della preistoria, raggiunse simile statura, simile peso. Per il selvaggio, che nel senso primo del termine è l’uomo della foresta, come per il dotto, l’albero è effettivamente la prima delle creature terrestri; per il selvaggio è anche l’essere vivente più vicino al cielo, che unisce alla terra, la strada seguita naturalmente dagli dei.

La scala mistica

Il Fico sacro del Risveglio

Il Buddha è quindi più veridicamente rappresentato dall’immagine stessa dell’Albero cosmico. L’albero, inoltre, con il ventaglio delle sue radici sotterranee, il tronco stretto e il fogliame esibito in larghezza, è l’immagine perfetta del processo stesso dell’illuminazione, del risveglio, del raccoglimento e della concentrazione delle energie latenti necessarie alla trasformazione spirituale. Ecco perché nei primi testi buddhici è l’albero della Bodhi e non il Buddha stesso che viene descritto come il Grande Risvegliatcre.[4]
I più antichi monumenti del buddhismo non rappresentano mai Sakyamuni durante la sua meditazione, ma solo l’albero Bo, o il «trono di diamante» che si erge davanti a lui. È possibile constatarlo a Bodh-Gaya, nelle sculture che ornano la balaustrata posta a protezione del fico sacro e risalgono agli anni 184-172 a.0.
Abbiamo detto qual era l’essenza dell’albero Bo, ma ci tocca ancora descrivere sommariamente l’aspetto del pipal (Ficus religiosa). È un albero maestoso alto trenta metri, dalla cima folta e i cui rami si allargano molto in tutte le direzioni. Come in tutti i fichi cosiddetti «delle pagode», perché spesso piantati in prossimità di santuari, dai suoi rami pendono lunghe radici aeree che quando toccano terra danno origine a nuovi tronchi i quali circondano quello principale. Arrivato a una certa età, ogni albero forma da solo un boschetto, un piccolo bosco sacro, molto ombroso, cui quei molteplici tronchi simili a colonne danno l’aspetto di una specie di tempio naturale. Le foglie, dotate di lungo picciolo, a forma di cuore alla base e terminanti con una punta affilata, si agitano alla minima brezza. Le foglie giovani, di un verde vivo, hanno nervature rosa, diventano in seguito di un verde azzurrognolo, mentre le nervature sbiancano. I frutti, piccoli, sono a gruppi di due e porporini.
Circa duecento anni dopo il Parinirvāna (la morte) di Buddha, l’imperatore Aşoka, che, convertito al buddhismo, fu probabilmente l’unico imperatore della storia ad applicarne i principi pacifici al governo dello stato, si recò in pellegrinaggio a Uruvela, diventata Bodh-Gaya. Fece circondare il fico con un tempio a cielo aperto e contrassegnò il luogo della meditazione con un trono di pietra la cui lastra superiore, ornata da un fregio scolpito, si è conservata fino ai nostri giorni. Viene chiamata Vadjrāsana, termine che è di solito tradotto con l’espressione «Trono di diamante» ma che si potrebbe rendere anche con «Trono di fulmine» (Vadjā significa infatti tanto diamante quanto fulmine), espressione che meglio evoca quanto avvenne sotto l’Albero e dentro di esso. Una leggenda racconta che l’imperatore Aşoka aveva concepito per l’Albero sentimenti molto accesi, perché gli era apparsa la ninfa che lo abitava. La sua sposq preferita fu per ciò colta dalla gelosia. Ordinò a una strega di fare un sortilegio all’albero, che subito deperì; uguale sorte toccò ad Agoka. Così la regina dovette far rompere il sortilegio.
Il fico sopravvisse e prosperò, e con esso il buddhismo. Aşoka mandò dei missionari a diffondere la dottrina in tutto il paese e fino a Sri Lanka, dove sbarcò il suo stesso figlio, il principe Mahinda, accompagnato da quaranta monaci. La principessa Sanghamitta, figlia di Aşoka, aveva portato con sé un ramo del fico sacro, che fu piantato dal re singalese convertito, Devanampiya Tissa, al centro della propria capitale, Anurādhapura. Il ramo diventò subito, miracolosamente, un albero adulto e Tissa profetizzò che sarebbe fiorito eternamente e che sarebbe stato sempre verde. Il fico sacro di Anurādhapura, che ancora oggi vive, avrebbe quindi duemilatrecento anni.
Quanto a quello di Bodh-Gaya, fu distrutto alla fine del sesto secolo da Caşanka; re del Bengala, che perseguitava il buddhismo. Ma, malgrado le precauzioni adottate dal suo nemico, che lo bruciò e ne fece innaffiare le radici con succo di canna da zucchero, l’albero sacro rispuntò più vigoroso di prima. Cinquantanni dopo, il pellegrino cinese Yan Zong poteva venerare un albero dal tronco già alto quaranta-cinquanta piedi (13-16 m). Nel 1811, il viaggiatore e botanico inglese Buchanan-Hamilton lo trovò in pieno rigoglio. Ma nel 1867 il generale Cunningham ne constatava la decrepitezza, e nel 1876 il fico fu abbattuto da un temporale. Però nuovi germogli già urgevano per sostituirlo e, dato che il terreno era adesso rialzato di parecchi metri, uno di essi venne ripiantato accanto al «Trono di diamante». È visibile ancora oggi, anzi in un secolo ha già raggiunto dimensioni maestose. Il pipai di Bodh-Gaya, mai veramente distrutto, è quindi venerato da duemilacinquecento anni. Il fatto che l’albero Bo sopravviva è di estrema importanza per i fedeli buddhisti, i quali credono che ad esso sia legato il destino della dottrina. La morte dell’albero sarebbe per loro un sinistro presagio, convinzione peraltro condivisa dai loro nemici, come dimostrano i tentativi messi in atto da re Caşanka per distruggerlo.
Abbiamo parlato più sopra del «melo-rosa», che trae il suo nome dal fatto che il suo frutto, una meluccia giallastra che a tutta prima sembra insipida, diffonde in seguito nella bocca uno squisito sapore di rosa. Alla sua ombra Siddhārta bambino gustò le delizie di una prima e precoce illuminazione. Quest’albero, il G’ambu indiano (Eugenia jambolana Lamk.) è uno dei principali alberi cosmogonici degli Indi. Nella leggendaria foresta dell’Himalaya, raggiungerebbe misure gigantesche; quattro grandi fiumi, quelli che bagnano l’Asia subhimalayana, nascerebbero ai suoi piedi. È quindi l’albero del Paradiso e il suo frutto conferisce l’immortalità. «Durante tutto il kalpa del rinnovamento esso porta un frutto immortale, simile all’oro […]; questo frutto cade nei fiumi e i suoi semi producono granelli d’oro che vengono trascinati nel mare e che a volte si ritrovano sulla sua riva. Quest’oro ha un valore incalcolabile; non ne esiste di pari al mondo.»[5]

Nella leggenda del Buddha, Ficus religiosa e Ficus bengalensis, che sono entrambi alberi cosmici, interpretano parti differenti. Al primo Şakyamuni s’identifica: è l’albero del Destino, del Karma — ma grazie a lui è anche possibile dominarli, affrancarsene definitivamente —, mentre il baniano, modello di rigogliosità, della infinita proliferazione della vita, è la residenza terrena degli dei creatori. Liberatosi di se stesso grazie a se stesso, il Buddha sfugge al loro potere ed essi devono d’ora innanzi rendergli omaggio.

Așvațțha, l'albero a rovescio

Așvațțha, l’albero cosmico della mitologia indiana, era già molto prima della venuta del Buddha l’albero ascensionale per eccellenza. Lo era forse fin dall’epoca della civiltà preariana dell’Indo, la prima civiltà nota dell’India, riscoperta dagli archeologi all’inizio del ventesimo secolo. Nell’area in cui fiorì, oltre a delle raffigurazioni dell’albero sacro, è stata infatti ritrovata la figura di una divinità cornuta che sarebbe un prototipo di Siva, seduta nella posizione di meditazione che fu quella del Buddha storico, ma che gli è precedente di almeno duemila anni.
Eppure il più delle volte Așvațțha è rappresentato rovesciato, con le radici che affondano nell’empireo e i rami che coprono completamente la terra. Già nel Rigveda, di lui è detto: «È verso il basso che si dirigono i suoi rami, è in alto che si trovano le sue radici, è dall’alto che i suoi raggi scendono su di noi». La Katha Upanișad afferma: «Radici verso l’alto, fogliame verso il basso, ecco il fico eterno. È lui il Puro, il Brahrnan. Lui che chiamano la Non-Morte. Tutti i mondi si appoggiano su di lui». E la Maitri Upanisad precisa: «I suoi rami sono l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra…», cioè i cinque elementi, i quali manifestano quel «Brahrnan il cui nome è Așvațțha». Ricordiamo che il termine Brahrnan indicava in origine la preghiera sacrificale, poi, «essendo questa onnipotente e assicurando il mantenimento dell’ordine universale», Brahrnan arrivò a indicare l’energia cosmica stessa, «la Totalità, la Potenzialità da cui tutto discende, che contiene ciò che tutto riflette ».
Di conseguenza, è Așvațțha che deve affrontare l’asceta, colui che rinuncia, se vuole trascendere la sua condizione di uomo incarnato, ritirarsi definitivamente dal ciclo delle nascite e delle morti di cui si considera come il prigioniero. Quindi è affermato nella Bhagavadgita: «Bisogna, con l’arma solida della rinuncia, mozzare in primo luogo quest’Așvațțha dalle potenti radici, poi cercare il luogo da cui non si ritorna». Un commento aggiunge: «Poiché la sua fonte è nel non-manifestato, che emerge da lui come da un supporto unico, il suo tronco è buddhi (l’intelligenza discriminante), le sue cavità interne (sono) canali per i sensi, gli elementi i suoi rami, le foglie e i fiori il bene e il male, i frutti il piacere e la sofferenza. Questo Albero Brahrnan eterno è fonte di vita per tutti gli esseri… Se grazie all’arma della conoscenza metafisica taglia e spacca l’Albero, e se gode così nello spirito, (colui che rinuncia) non tornerà più (in questo mondo)». In altri termini, mediante l’albero e in esso, colui che medita risale fino alle proprie radici celesti e solo così può sfuggire.
«L’albero Așvațțha rappresenta qui, in tutta la sua luce, la manifestazione del Brahrnan» e la sua realizzazione «nel Cosmo, cioè la Creazione come movimento discendente», il flusso che, diretto dall’alto verso il basso, fa sì che la pura energia si trasformi in materia, corrente che viene risalita in senso inverso da colui che rinuncia, il quale, materializzatosi con la nascita, intende ritornare alla sua fonte, l’Energia non-manifestata. L’albero rovesciato è quindi il simbolo della «reciprocità ciclica», che fa della creazione una discesa e della redenzione un risalire. Nel cristianesimo, alla caduta di Adamo nella materia corrisponde l’elevazione di Cristo sulla croce, preludio drammatico alla sua Ascensione.
L’albero raffigurato con le radici in alto e la punta rivolta verso il basso fa parte del simbolismo universale. Lo si trova sia presso i Lapponi e gli aborigeni australiani sia nella tradizione islamica, in Dante come in Platone, ma soprattutto nello schema della creazione quale è concepita dall’esoterismo giudaico.

L'albero dei Sefirot

Per rappresentare il suo sistema esoterico d’interpretazione fisico-mistica del mondo, che mira nientemeno che a svelarne il segreto all’iniziato — in effetti questa rivelazione non è accessibile a tutti e non lo diventa che a certe condizioni la qabbalah ebraica ricorre a una specie di quadro schematico detto «Albero della Vita», raffigurato al rovescio, come Așvațțha, perché la Creazione divina non può essere che discendente. Nel Libro Bahir (Sefer ha-bahir), il più antico testo cabbalistico che si conosca, composto verso il 1180 nella Francia meridionale, si afferma che «tutte le potenze divine formano come l’albero una serie di anelli concentrici», e nei Sefer ha-Zohar (il «Libro dello Splendore»), la più importante delle opere cabbalistiche, scritto nel tredicesimo secolo e attribuito all’ebreo spagnolo Mosè de Leon, si può leggere: «Sì, l’Albero della Vita va dall’alto verso il basso, è il sole che illumina tutto».
Secondo Z’ev ben Shimon Halevi, cabbalista contemporaneo, «l’Albero della Vita è analogo all’Assoluto, all’Universo e all’uomo». È «un’immagine della Creazione. È un grafico oggettivo dei principi attivi in tutto l’Universo. Disposto sotto la forma analogica di un albero, illustra la discesa delle energie divine in questo mondo e il loro risalire. Contiene l’interezza delle leggi cosmiche e la loro interazione. È un quadro dell’umanità» non meno che un ritratto dell’essere umano in quanto individuo. «Punto di congiunzione in miniatura, completo ma non realizzato, meno alto degli angeli, spetta a questo scegliere la via dell’ascesa interiore e così cogliere il frutto finale.» In altri termini, l’energia divina scende dalle radici verso i rami dell’albero rovesciato, quindi l’energia che è deposta nell’uomo deve risalire alla sorgente, per fiorire in seno al suo Creatore.
Proprio in cima all’albero, dunque nelle sue radici, invisibili all’uomo «non realizzato» del quale ancora non sono aperti gli occhi dello spirito, inarrivabile da parte di qualsiasi conoscenza, si colloca Keter, la Corona, al centro di tre cerchi concentrici che la circondano e che sono dall’esterno verso l’interno, dalla diffusione alla concentrazione: En, il Vuoto assoluto, En-Sof, la sua prima qualificazione e perciò determinazione relativa, l’Infinito, e En-Sof Aur, la Luce illimitata, che si concentra in Keter, il punto luminoso, sorgente della manifestazione, «Seme nascosto», «Radice delle Radici», di cui lo Zohar scrive: «Quando il Grande Essere nascosto ha voluto rivelarsi, ha tracciato dapprima un solo punto; l’Infinito era sconosciuto e non diffondeva alcuna luce prima che quel punto luminoso irrompesse nella nostra visione. Oltre quel punto non v’è niente di conoscibile, perciò viene detto reshith, il principio, la prima delle parole creatrici attraverso le quali l’universo fu generato».
Da Keter procede una serie di altre nove emanazioni divine, i Sefirot o sfere di Dio. Concepiti come punti irradiami, riuniti tra loro dal «Lampo scintillante» (il fulmine) che scende da Keter, i Sefirot rappresentano gli attributi, i poteri e la potenzialità del Divino, che si manifestano partendo dalla pura Energia primordiale e scendendo, grado a grado, verso la materia, l’incarnazione. L’albero è costituito da tre colonne verticali: il Pilastro di destra, che porta sulla sommità Hochma, la Saggezza derivata direttamente da Keter, e che è anche Abba, il Padre cosmico o principio maschile; il Pilastro di sinistra, verso il quale il «Lampo scintillante» proveniente da Hochma si dirige successivamente, è dominato da Binah, la Comprensione, che è pure Aīma, la Grande Madre. Hochma e Binah, maschio e femmina, costituiscono la prima divisione, il primo dualismo del Principio che è dunque per natura androgino; quanto al Pilastro centrale, coronato da Keter, esso costituisce il luogo della sintesi e arriva a Malkuth, il regno, derivato da Yesod, la base. Malkuth è la cima rovesciata dell’albero di cui Keter è la radice, è la manifestazione realizzata, materializzata e, quando l’albero rappresenta l’uomo, il corpo di questo.
Interpretando i Sefirot sul piano orizzontale, vi si ritrova la rappresentazione dei tre mondi collegati dall’albero: Dio, l’universo e l’uomo, dei quali esso rivela l’identico funzionamento interno. L’uomo e l’universo sono il riflesso l’uno dell’altro ed entrambi riflettono l’Infinito, per loro inconoscibile perché esistenti lo sono nel campo del finito, dal quale però procedono e nel quale sono ugualmente immersi.
Un altro simbolo, esoterico questo, del giudaismo è il candeliere a sette bracci, o menorah, del quale Dio in persona diede il modello a Mosè, e che divenne uno dei principali oggetti sacri del Tabernacolo. La forma della menorah riproduce quella dell’Albero della Vita mesopotamico, i suoi sette bracci corrispondono ai sette corpi planetari conosciuti all’epoca. Quanto alle sette lampade, esse sono i «sette occhi del Signore», quali apparvero al profeta Zaccaria, a illuminare il candelabro d’oro piantato tra due ulivi, i frutti dei quali fornivano l’olio per le lampade.

La magia delle linfe

Se con qualche eccezione, le più illustri delle quali sono un autore già del passato, J. R. Frazer, e uno moderno, Robert Graves, questo tema è stato trascurato, ciò dipende in gran parte dal fatto che gli storici delle religioni, ottenebrati dalle modifiche effettivamente radicali nel rapporto dell’uomo con il suo ambiente prodotte dalla comparsa della coltura dei cereali, hanno dimenticato l’importanza che nella fase precedente rappresentava, per la vita umana, la raccolta, molto meno aleatoria della caccia. Grazie ai frutti e ai semi commestibili, l’albero era considerato una divinità che provvedeva al nutrimento, vera e propria sorgente di vita.
Così era nella Creta minoica, dove gli archeologi hanno potuto fornire una documentazione relativamente abbondante in proposito. Lì il culto dell’albero, attestato da tante opere d’arte, fu particolarmente sviluppato, il che, in un’isola in gran parte priva di alberi, può sorprendere. Ma, come giustamente ricorda Paul Faure che ha percorso l’isola in tutti i sensi, «nell’antichità, questa terra benedetta dagli dei appariva molto più verde che ai giorni nostri. I massicci calcarei erano ricoperti da una flora assai più abbondante». Questa è stata in seguito devastata dall’allevamento di capre e pecore, accompagnato dal «nomadismo o dal seminomadismo praticato su vasta scala» dagli invasori, «occupanti arabi o coloni slavi del Medioevo». In epoca minoica, Creta era coperta da foreste delle quelli non sopravvivono che modeste vestigia. Vi si trovavano numerose specie di alberi da frutto, l’ulivo, il pero, il melograno, il mandorlo, il nespolo, il castagno, il noce, il cotogno, il bagolaro, il giuggiolo, il sorbo, il pino marittimo del quale si mangiavano i pinoli. Alcune furono coltivate mentre delle altre, rimaste selvatiche, si raccolgono ancora i frutti.
Così, precisa ancora il Faure, «al contrario di quanto si potrebbe immaginare, sembra che la civiltà minoica si sia sviluppata partendo dalle montagne coperte di alberi» tanto che «gran parte dell’alimentazione cretese proveniva, un tempo come oggi, dalla raccolta di bacche, di gambi e di rizomi della montagna ». I boschi montani fornivano inoltre medicamenti d’ogni specie, tuttora in uso. Solo saltuariamente questo regime vegetariano era completato da alimenti animali, procurati mediante la caccia o la pesca più che mediante l’allevamento, dato che, per esempio, come in altri popoli, i bovini non erano utilizzati se non per i sacrifici. Questa dipendenza, molto più diretta di quanto si immagina, dai vegetali selvatici e in particolare dai prodotti degli alberi spiega la magia espletata nei culti orgiastici, destinati a confortare la vita vegetale e a farla rinascere. In seguito, quando si diffonderà la coltura dei cereali, questi culti sopravviveranno unicamente sotto forma di misteri riservati agli iniziati, eccetto per quanto riguarda la vite con il culto di Dioniso in quanto Bacco, che impiegherà molto a imporsi dopo aver incontrato forti resistenze e le cui cerimonie pubbliche invernali avranno ancora lo scopo di far rinascere la vita dalla morte, di trarla dai cupi baratri in cui è scomparsa.
Si comprende meglio, allora, che la Grande Dea, la Madre universale, sia tanto spesso accompagnata da un albero e che questo sia la sede per eccellenza delle sue epifanie. L’albero esce dagli abissi, dai quali attinge la sua stessa esistenza. Appare come la più imponente manifestazione verticale della sovrabbondanza della vita ctonia che si protende verso il cielo, attratta dal sole.
Che cosa rappresenta in questo contesto il piccolo dio maschio che si rivela, armato di un bastone e di uno scettro, nell’atto di uscire da un boschetto sacro, se non lo spirito stesso dell’albero? Nella religione cretese, quanto frequenti sono le rappresentazioni delle dee, altrettanto rare sono le raffigurazioni degli dei, divinità minori emananti da quelle. Apparentemente gli dei cretesi sono solo i fecondatori, e la loro funzione può paragonarsi a quella dei fuchi con l’ape regina. Anche se rinascono, questi dei sono soggetti alla morte. Sono dèi figli e dèi amanti, come fu, all’origine, Urano nei confronti di Gea, sua madre, come fu lo Zeus Cretagene, alcune caratteristiche arcaiche del quale, diventate anacronistiche, si sono però conservate nella figura dello Zeus olimpico.

Impiccagione rituale e fecondità

Che cosa possono significare tutte queste impiccagioni, di cui il dondolio rituale o le bambole appese ai rami non sono che surrogati? Abbiamo visto che l’impiego rituale dell’altalena era associato in tutto il mondo al rinnovamento della vegetazione e che le bambole dovevano stimolare l’accrescimento degli alberi ai cui rami erano appese. Se risaliamo alla fase precedente, il senso dell’impiccagione, non più simbolica ma reale, non può essere che lo stesso. E qui ritroviamo l’autosacrificio, quello di Dioniso-Zagreo e quello di Odino. Vale a dire che il sacrificio di sé ha dappertutto un significato identico: è dono totale, la vittima si sacrifica per il bene di tutti ma, consumato il sacrificio, resuscita. Nel caso appena citato di impiccagione a un albero, lo scopo prefisso è chiaro: si tratta di provocare entro un certo tempo il nuovo avvio della vegetazione. Abbiamo visto che Arianna è una dea dell’accrescimento primaverile. Forse è possibile andare ancora oltre. Erigone si impicca a un pino, l’albero di Dioniso, Elena al platano che le è consacrato. Non significa forse questo che dando la propria vita all’albero che è il suo, la divinità per un certo verso reintegra l’habitat dal quale era uscita in primavera? Il sacrificio corrisponde all’apparente morte invernale dell’albero, che allora si reinteriorizza; la linfa, abbandonando i rami, si concentra nel ceppo, quindi nella terra, da dove risalirà per irrigare di nuovo tutto l’albero quando si verificherà lo sboccio primaverile. Ci troviamo daccapo davanti al mistero della vita dell’albero, al quale non potevano non essere molto sensibili quanti dall’albero traevano i loro mezzi di sostentamento e nella sua rinascita vedevano una promessa di resurrezione per se stessi.
Se le impiccagioni divine che appaiono nelle leggende, come gli antichi sacrifici umani che esse riflettono e che sono peraltro dimostrati, costituivano riti destinati ad assicurare Paccrescimento e la fecondità della vegetazione, sia le une che gli altri promettevano alla vittima una sorte migliore, o addirittura Pimmortalità. Ecco perché è lecito pensare che si trattasse, almeno in origine, di sacrifici volontari. È singolare che ne abbiamo conservato la traccia nel dodicesimo trionfo dei tarocchi, «L’Appiccato», detto anche «Il Sacrificio» o «La Vittima», in cui è raffigurato un giovane che dondola, appeso per un piede a un trave poggiato su due alberi, con i capelli che quasi toccano la terra nella quale la testa sembra conficcarsi tra i due piccoli tumuli che sono alla base degli alberi. Secondo la simbologia tradizionale dei tarocchi, l’Appiccato manifesta la fecondità del sacrificio volontario e dell’oblio di sé, rappresenta l’anima del mistico che si libera dalla materia per tornare nel mondo spirituale dal quale proviene. Avendo «rinunciato all’esaltazione delle sue energie personali, (il mistico) si fa da parte per poter ricevere meglio le influenze cosmiche», allo scopo di promuovere «la rigenerazione ctonia». «L’Appiccato è l’arcano della restituzione finale[…] Ma questa restituzione è condizione della rigenerazione». Non esprime forse questo concetto lo spirito stesso dell’impiccagione rituale, il significato che essa dovette avere un tempo? Per il discorso che stiamo svolgendo è importante osservare ancora questo: le braccia legate dell’Appiccato sostengono dei sacelli dai quali sfuggono monete d’oro e d’argento che cadono a terra, gli alberi sui quali è poggiata la forca sono raffigurati senza foglie, capitozzati e potati, lungo i loro tronchi si aprono le cicatrici lasciate dai sei rami che sono stati appena tagliati e in cui ancora si vede la linfa color sangue. Quindi è l’albero che è ferito, non l’Appiccato. Della fede arcaica negli effetti fecondatori e rigeneratori dell’impiccagione esiste un’altra traccia: la leggenda medievale della mandragora, la cui radice ha la forma di un omuncolo. Utilizzata come una specie di panacea, quest’erba era ad un tempo sonnifero, anestetico e afrodisiaco. Si credeva che la mandragora nascesse sotto il patibolo, dal seme degli impiccati. E poi, come non paragonare l’immagine dell’uomo con la testa in giù a quella dell’Albero cosmico rovesciato? Nel simbolismo dei tarocchi, l’Appiccato è identico al Bagatto del primo trionfo, che è il demiurgo, cioè il Creatore.
Giacché Arianna è morta, impiccata a Cipro o bruciata da Artemide, Dioniso la sposa quindi dopo la sua resurrezione. Si capisce meglio, di conseguenza, perché la leggenda affermi che Artemide ha fatto morire Arianna su istigazione dello stesso Dioniso.
Era necessario che Arianna morisse, come Semele, per diventare immortale e potersi unire al dio che è a sua volta, come tutte le divinità della vegetazione, un dio che muore e resuscita.

Edera e delirio dionisiaco

L’edera «è la pianta prediletta da Dioniso». Il dio veniva spesso chiamato l’«Incoronato di edera», o anche Kissós, l’«edera ». Questa liana, è bene ricordarlo, l’aveva salvato due volte a Cadmo. Poco dopo la sua nascita, le ninfe lo immersero nella fonte Kissusa, «dell’edera», ed è sul monte Elicona (hélix è un altro nome dell’edera) che venne allevato.
«La vite e l’edera — scrive W. F. Otto — sono come due fratelli sviluppatisi in direzioni opposte senza però poter rinnegare la loro parentela». Se effettivamente si assomigliano, il ciclo della loro vita stagionale è però diametralmente opposto. Mentre all’inizio dell’inverno, dopo la vendemmia, la vite sembra morta, perché continua a esistere unicamente sotto forma di un ceppo secco, l’edera è in rigoglio e fiorisce, come ben sanno le api che da lei ricavano l’ultimo raccolto dell’anno. L’edera dà i frutti proprio all’inizio della primavera, molto prima che appaiano i primi germogli della vite, e quei frutti, con il loro succo rossastro, sono cibo per gli uccelli. «Tra i fiori e i frutti si estendono i mesi invernali in cui ha luogo l’epifania dionisiaca». L’edera non ama soltanto il freddo ma anche l’ombra, mentre i pampini hanno bisogno di luce e di sole. Con i suoi steli sarmentosi che strisciano sulla terra e si avvolgono a spirale intorno agli alberi, agli antichi l’edera ricordava il serpente, potenza ctonia per eccellenza. Nel culto dionisiaco, c’era perfino equivalenza tra la pianta e i serpenti che ornavano la capigliatura delle Menadi, e che queste tenevano con le mani, come è attestato dall’aneddoto riferito da Nonno di Panopoli: « I serpenti gettati da alcune Menadi contro un ceppo lo avvolsero e si trasformarono in sarmenti di edera ». Alle compagne del dio essi non servivano solo da decorazione: li strappavano per cibarsene.
In epoca classica si contrapponeva la freschezza umida dell'edera al carattere igneo del vino, del quale si riteneva che potesse dissipare i vapori. E questo il motivo per cui a Dioniso stesso si attribuiva il merito di aver insegnato a coloro che sono soggetti ai «furori bacchici» di farsene delle corone durante i banchetti. Non sembra che le cose siano sempre state così, perché non fu certo per i suoi effetti calmanti che il dio utilizzò l’edera con le donne ribelli al suo culto, visto che, colpite allora da frenesia, quelle correvano a raggiungere le Menadi tra i monti. Secondo Arriano, la scorta di Alessandro Magno, arrivata al monte Meros in India, si era cinta di corone d’edera, stupita di trovare lì la pianta che fino a quel momento non aveva mai incontrato in India. I soldati greci sarebbero stati presi allora da selvaggia allegria, provocata dallo spirito di Dioniso. Per gli antichi, l’edera se da un lato rendeva sterili, il che non mancava di utilità nel caso di donne in preda al delirio, avrebbe avuto anche la proprietà di provocare una specie di demenza.
«Secondo alcuni» dice Plutarco «essa contiene spiriti violenti che risvegliano, eccitano e producono moti seguiti da convulsioni. Insomma, ispira un’ebbrezza senza vino, una specie di possessione, in quanti hanno disposizione naturale per l’estasi». In un altro brano, a proposito dell’edera mista al vino, lo stesso autore precisa: «L’effetto di questo miscuglio su coloro che lo bevono non è una vera e propria ebbrezza. È un turbamento, un delirio, come quelli prodotti dal giusquiamo e da molte altre piante, che agita violentemente il cervello». Gli effetti del giusquiamo, ben noti nell’antichità, corrispondono a quanto sappiamo della possessione dionisiaca. Il giusquiamo provoca deliri, inframmezzati da visioni e da allucinazioni che arrivano a violente crisi di demenza, ma sono seguiti da un irresistibile bisogno di dormire che porta a un sonno profondo. Che l’ingestione di edera fosse pericolosa è attestato da un mito ellenico nel quale Kissós, l’edera, reputato figlio di Dioniso, messosi a danzare davanti al padre, ne morì. Oltre che narcotico, il giusquiamo è anche afrodisiaco come appunto sembra fosse pure l’edera. Le streghe del Medioevo si servivano di questa solanacea per comporre filtri d’amore, ma soprattutto essa era uno degli ingredienti usati per fabbricare l’unguento con cui si frizionavano il corpo prima di recarsi al sabba.
Nelle mitologie europee esistono ancora tracce di uno stretto legame tra l’edera e il fulmine divino. I Lituani, popolazione molto arcaica che occupava anticamente un territorio molto più esteso di quello attuale e presso la quale sopravvisse a lungo il culto degli alberi, chiamavano l’edera Perkunas, dal nome del dio del fulmine, signore sovrano della natura che le antiche cronache paragonano a Zeus. Anche i Germani consideravano l’edera consacrata a Donar, dio del tuono e figlio della dea Jord, «la Terra». D’altronde abbiamo visto che l’edera era comparsa per salvare dal fulmine Dioniso fanciullo, e qui la nascita del dio e quella della pianta sembrerebbero simultanee. Perciò possiamo aggiungere adesso che la pianta nata dal contatto del fulmine (Zeus) con la Terra Madre (Semelo) altro non era che l’edera, Kissós, uno dei nomi di Dioniso. «Sostengono che Kissós fosse il nome di Bacco fanciullo che, abbandonato dalla madre Semele si nascose sotto l’edera dalla quale trasse il proprio nome.»

Morte e rinascita dell'albero dio

Phoenix, la palma da datteri

In greco Phoenix non significa solo fenicio ma anche porpora (la porpora reale)) e indica nello stesso tempo anche la palma da datteri e la fenice. Questo uccello leggendario aveva una funzione di capitale importanza nella mitologia greca delle piante aromatiche: «Dispone della mirra e dell’incenso, se ne serve per costruirsi il nido, arriva perfino a trasportarli (nel becco), prima di consumarsi sul rogo che ha alzato ammucchiando le sostanze profumate di ogni specie», e sul quale si brucia prima di rinascere da se stesso per un nuovo ciclo di millequattrocentosessantuno anni, periodo che corrisponde alla «concomitanza tra la levata eliaca di Sirio (Sothis) da un lato e l’apparire del sole e l’inizio della piena del Nilo dall’altro». Si trattava del ritorno del Grande Anno, ossia della rinascita, della rigenerazione ciclica del cosmo. Rappresentato dall’airone purpureo — abbiamo appena visto che phoenix in greco significa anche porpora — la fenice egiziana o uccello Bennou era associato a Eliopoli, città solare per eccellenza. «È però possibile che questa città del Sole non fosse originariamente quella egiziana, ma la Terra solare primordiale, la Siria di Omero»,[6] il che ci riconduce, alla fin fine, alla costa siriana, cioè alla Fenicia.
Di tutto ciò che designava la parola greca phoenix, solo la palma da datteri (Phoenix dactilifera) ha conservato oggi questo nome. In Mesopotamia, i Sumeri la coltivavano cinque o seimila anni fa; molto probabilmente è il primo albero da frutta piantato, curato e selezionato dall’uomo. La coltura della palma si è diffusa intorno al bacino mediterraneo, e soprattutto nel Nordafrica, dove è diventata la provvidenza delle oasi, ma la densità maggiore l’ha raggiunta nelle valli del Tigri e dell’Eufrate, con i trenta milioni di esemplari — cioè un terzo del totale di tutto il mondo — attualmente piantati in Iraq.
La palma da datteri sembra all’origine dell’iconografia dell’albero della vita fin dall’epoca sumera, quando già costituiva una risorsa di primaria importanza. In Medio Oriente come in Nordafrica, il dattero è un alimento dai molteplici impieghi. Se ne può ricavare un succo molto dolce, il «miele di datteri», e farne una specie di pane; secondo Plinio, nell’antichità si sarebbe perfino fabbricato un vino di datteri. Estremamente nutriente, il dattero ha un valore energetico più alto di qualsiasi altro frutto. A seconda delle varietà, la maturazione è scaglionata da luglio-agosto a novembre-dicembre, e i datteri detti duri si possono conservare senza nessuna preparazione fino a due-tre anni dopo la raccolta. Un palmeto ben curato arriva alla piena produzione dodici-quindici anni dopo l’impianto e può dar frutto per sessanta-ottant’anni. Ogni esemplare fornisce una media di venti-cinquanta chili di raccolto e a volte, in condizioni ottimali, perfino cento e addirittura duecento chili. Nelle regioni desertiche, per esempio nelle oasi del Sahara, il dattero costituisce un alimento base che non è mai stato sostituito. I benefici della palma da datteri, che si diceva fossero trecentosessanta quanti sono i giorni dell’anno perché i suoi frutti si possono consumare in ogni stagione, erano celebrati nei canti sacri; Strabone cita un inno persiano in suo onore e Plutarco uno babilonese.
Per gli antichi, sensibili anche al fatto che rinascesse da sola, la palma da datteri non rappresentava soltanto un modello di fecondità. La sua riproduzione si otteneva infatti, e ancora si ottiene, anziché con semi, con le talee dei ricacci che spuntano ai piedi dello stipite. Per questo veniva paragonata alla fenice. A questo proposito, Plinio scrive: «ne (di palme da dattero) esiste, dicono, un solo albero nella regione di Cora (nei pressi di Alessandria d’Egitto). Su di esso si sente raccontare un particolare prodigioso, cioè che morirebbe e rinascerebbe spontaneamente insieme con la fenice, l’uccello che si ritiene tragga il nome dal comportamento di questa palma; quando io scrivevo era nel periodo di fertilità». Dato che il ciclo della fenice è di millequattrocentosessantuno anni, si pensava che la palma da datteri vivesse molto a lungo. Al tempo di Plinio, a Deio veniva ancora mostrata la palma che era servita da riparo alla nascita di Apollo. Gli orfici consideravano la specie immortale, indenne da invecchiamento, e le tributavano grande venerazione. Stupiva molto Greci e Romani un’altra delle sue caratteristiche: la sua sessualità.
Gli antichi sapevano benissimo che in questa specie esistono piante maschio e piante femmina e che era necessario che queste ultime fossero debitamente fecondate per dare frutto.
Si sostiene — scrive Plinio — che in un bosco di crescita naturale le palme femmine, prive di maschi, non procreano e che altrove ondeggiano in gran numero intorno ad ogni singolo albero maschio, piegando su di lui le carezzevoli fronde. Quello, irto, drizza il suo fogliame e le feconda tutte; con le esalazioni, con la sua sola vista e anche con la sua polvere (il polline); se lo si taglia, le palme femmine, ridotte in vedove, diventano sterili. A tal punto si spinge il loro senso dell’accoppiamento, che l’uomo ha anche escogitato un sistema di fecondazione consistente nello spargere sulle femmine fiori, lanugine, talvolta persino soltanto polvere di palme di sesso maschile.[7]
Questa fecondazione artificiale della palma da datteri fu praticata, pare, da quando se ne cominciò la coltura, quindi dalla più remota antichità, e non ha smesso di esser praticata, esattamente con la stessa modalità, fino ai nostri giorni.

La foresta abitata

La bacchetta magica, la scopa delle streghe e il caduceo

Nella mitologia, maestro della bacchetta magica è Ermete, al quale i Greci davano per padre Zeus e per madre una divinità misteriosa a nome Maia. Ermete, che si diceva nato in fondo a una caverna, era con ogni probabilità un antichissimo dio pelasgico, dunque preellenico, di origine tracia, particolarmente venerato dai pastori dell’Arcadia, il che spiega la sua rivalità con Apollo. Ma mentre aveva vinto senza fatica gli altri suoi avversari, Apollo non riuscì a venire a capo di Ermete, molto più astuto di lui e, pare, miglior musico. Dopo che Ermete, appena nato, ebbe rubato le giovenche sorvegliate dal figlio di Leto, per calmarne lo sdegno gli mostrò la lira fata con lo scudo di una tartaruga e inventata da lui, e suonò. Apollo ne fu talmente incantato da dimenticare il suo sdegno. Ciò vedendo, il figlio di Maia gli offrì lo strumento che Apollo accettò, dandogli in cambio la propria bacchetta da áugure e precisando: «che ti proteggerà, rendendoti immune, e che rende efficaci tutte le norme delle parole e delle azioni che io affermo di avere appreso dalla voce di Zeus». In altri termini, lo stesso Apollo propone a quel rivale che non è riuscito a vincere di dividere da quel momento con lui il suo dono oracolare.
Con il suo comportamento, questo seduttore, ingegnoso quanto persuasivo, si attirò le grazie degli dei dell’Olimpo. Era, che perseguitava con il suo castigo tutti i figli illegittimi del suo sposo, a Ermete si affezionò e acconsentì addirittura ad allattarlo. Quanto a Zeus, desideroso di assicurarsene i servizi, lo nominò suo messaggero e gli consegnò il cappello rotondo dei viaggiatori, il petaso, e i sandali d’oro, alati, che lo rendevano rapido come il vento; e infine la sua bacchetta fu ornata da nastri bianchi, che diventarono serpenti, animali ctoni per eccellenza, perché Ermete era «egli solo, valido messaggero presso Ade». Così nacque il caduceo, il kērykeion greco, l’insegna dell’araldo kēryx il bastone oracolare che parla (la parola greca kērykeion è vicina al verbo arcaico karkāirō, risonare), emblema del potere di Ermete in quanto psicopompo e tramite dei messaggi venuti dal regno dei morti. Dio dalla personalità molteplice e mutevole, Ermete era onorato in quanto divinità oracolare e ctonia, e questo è forse uno dei suoi caratteri fondamentali; il mese Hermáios o Hermaiõn era ad Argo il mese dei morti (dal 24 ottobre al 23 novembre), e lo stesso termine indicava la fortuna imprevista, la buona occasione, la felice scoperta procurata dal dio che metteva in comunicazione i tre mondi altrimenti separati, quello degli dei dell’Olimpo, quello dei vivi e quello dei morti, degli antenati.
Il caduceo, semplice bacchetta intorno alla quale si avvolgono in senso inverso due serpenti, è un simbolo molto antico, di molto anteriore ai Greci. È già rappresentato sulla coppa di Gudea, re sumero di Lagash (ca. 2600 a.C.), e pure sulle antiche tavole di pietra dette in India nāgakal, e pare ricordi la Creazione. Ermete divide due serpenti che lottano, i quali rappresentano il caos primordiale sotto forma di due energie, una positiva e l’altra negativa, che successivamente si riequilibrano, intorno e grazie alla bacchetta che le ha separate. Questa separazione creatrice che dà la vita al mondo manifesto vale anche per l’essere umano, riflesso del cosmo, come sta a dimostrare l’avvolgersi intorno alla sūshumna della Kundalini. Quest’ultima è il serpente cosmico interiorizzato che dorme alla base dell’« albero vertebrale » e che, una volta risvegliato, percorre i rami intrecciati dei due nādi, i canali energetici, uno positivo e l’altro negativo, presenti nella rappresentazione del corpo sottile del tantrismo indiano.
Dal momento in cui Ermete diventa messaggero degli dei, il suo caduceo si orna di due ali. Questi simboli uraniani, associati ai serpenti, indicano la funzione del dio che è quella di far comunicare il cielo con il mondo sotterraneo. I poteri di questa bacchetta magica sono esplicitati dalla storia del dio. In essa Ermete è infatti rappresentato come l’autentico inventore del fuoco, da lui ottenuto facendo ruotare molto rapidamente un bastone di legno duro, la bacchetta appunto, contro un pezzo di legno tenero. Ermete avrebbe perfino insegnato questo procedimento agli dei e da qui deriverebbe il favore di cui gode presso di loro. È questo fuoco primigenio, divenuto celeste, quello che in seguito fu rubato da Prometeo. Ciò conferma l’ipotesi che Ermete fosse una divinità molto antica. Non avendo potuto vincerla, gli dei finirono per ammetterla nell’Olimpo. La bacchetta di Ermete aveva un altro potere, quello di far addormentare e di svegliare gli uomini, cioè di farli passare da un mondo all’altro. Per questo il dio era detto ēgētōr onéirōn, guida dei sogni. Ade gli affidò pure il compito di assistere i morenti e, dopo averli convinti posando loro la bacchetta sugli occhi, di condurglieli con dolcezza.
E, da ultimo, il caduceo guariva, ed è principalmente sotto questo aspetto che lo conosciamo. Ma per questo è soprattutto attributo di Asclepio, in origine esperto medico nell’Iliade, poi diventato dio della medicina. Il suo nome significa «infinitamente buono», titolo con il quale si onoravano i medici, per attirarsene la benevolenza. Figlio di Apollo e di Coronide, la Cornacchia, antica dea della divinazione, Asclepio era raffigurato con una bacchetta nella mano destra e un serpente, simbolo e agente del suo potere, perché gli era capitato di resuscitare i morti. Suoi sacerdoti erano gli Asclepiadi, i quali guarivano grazie al suo intervento; tanto che, nei tempi antichi, detenevano il monopolio della scienza medica; negli Asclepeia, i malati avevano il diritto di pernottare. Il dio appariva loro in sogno e rivelava il suo oracolo, che veniva poi interpretato dagli Asclepiadi. Asclepio derivava le sue conoscenze dal centauro Chirone che, come abbiamo visto, era figlio di Crono, trasformato in stallone, e della ninfa del tiglio, Filira.
È evidentemente Ermete, quale lo abbiamo or ora definito, colui che va riconosciuto nel personaggio del Bagatto, in francese Bateleur, il primo trionfo dei tarocchi, che segna l’inizio del gioco cosmico del quale le carte successive illustreranno lo sviluppo. Ma che cosa altro indica questo nome francese, diventato quello del giocoliere, e derivato etimologicamente dal vecchio verbo basteler, nel senso di «fare giochi di prestigio», se non, in origine, colui che regge un bastone, una bacchetta magica? Il Bagatto è raffigurato con l’aspetto che i Greci attribuivano a Ermete in epoca classica: un giovane dal corpo agile e snello, con la testa leggermente inclinata; i suoi occhi brillano di un’intelligenza in cui guizza un po’ di malizia. Nella mano sinistra tiene la bacchetta, mentre con la destra indica un siclo d’oro posato sul tavolo davanti a lui. In tal modo egli invita gli iniziati a rimanere in silenzio davanti al gesto magico eseguito e che essi sono gli unici a capire, mentre il pubblico, tutto preso dai sortilegi destinati a coprire l’operazione vera che pure si svolge sotto i suoi occhi, non vi vede che fuoco, cioè quello che il Bagatto vuol fargli vedere: il fuoco magico trasformatore prodotto per primo da Ermete. Questo illusionista non è altri che il Creatore, come dimostrano sia i contorni del cappello, che delinea un otto disteso orizzontalmente, simbolo dell’infinito — anche i due serpenti del caduceo formano il numero otto —, sia i suoi gesti, perché la bacchetta creatrice, nella quale si concentrano le energie ancora potenziali, è diretta esattamente verso la moneta d’oro, che rappresenta anche il mondo creato. La lezione impartita dal Bagatto a quanti sono in grado di capirla è che il mondo è solo un’illusione dei nostri sensi. Abbiamo visto che il nome della madre di Ermete era una probabile connotazione dello stesso concetto. Si aggiunga che Maia era una delle Pleiadi o Peleiadi, e questo ci rimanda ancora una volta a Dodona e al suo Albero cosmico, la quercia sacra, e soprattutto al fatto che nella mitologia romana Maia era un’antichissima divinità italica, figlia di Fauno, che impersonava la rinascita della vegetazione e le cui feste si celebravano durante il mese di maggio, mese al quale la dea dà il nome. Grazie a lei, i Romani furono in grado di attribuire un’antica origine latina al recente dio del commercio, Mercurio, riflesso dell’Ermete greco, ma il cui nome compare solo verso il quinto secolo a.C. Anche qui, come nel caso dell’arcaico Vejovis, identificato con lo Zeus giovanile di Creta, è lecito chiedersi se gli italici non avessero conservato alcune divinità pelasgiche scomparse nella Grecia classica. Sappiamo che parecchie erano comuni a tutti gli Indoeuropei. Non è quindi impossibile fare l’accostamento tra l’antica Maia, figura molto sfumata presso i Greci e un po’ più nitida in Italia, e la Maya indù, «potere di illusione… in pari tempo fonte del cosmo e della coscienza che lo percepisce».[8] Proprio perché è figlio di Maia, insomma, Ermete è dio della magia, il «Trismegisto» (il «tre volte grande»). Ipotesi questa che sembra confortata dall’etimologia della parola Maia, derivata dalla radice indoeuropea che in latino ha prodotto magister, maestro, e magus, in greco magos mago, parola di origine persiana che presso i Medi indicava il sacerdote interprete dei sogni. Che ci sia qualche rapporto tra i sogni (Ermete è anche un dio dei sogni), la guarigione (Asclepio), l’illusione del mondo (Maia), l’arte del mago, del Bagatto e l’incantesimo del mese di maggio non può dopo tutto sorprendere.

I frutti, i miti e la storia

Nella venerazione riservata dai nostri antenati agli alberi, entravano per una parte, ma solo per una parte, i servizi che gli alberi rendevano loro. Sicché onoravano in modo particolare gli alberi da frutta. La loro fecondità si era tuttavia ridotta in misura considerevole rispetto ai tempi primitivi in cui fornivano agli uomini la parte essenziale del nutrimento. Riflettendo una credenza molto diffusa, Virgilio fa nascere ragricoltura dalla penuria che si verificò «quando ormai ghiande e corbezzoli del bosco sacro venivano meno». L’età dell’oro ormai non era altro che un ricordo e con la sua fine aveva avuto inizio una decadenza cui solo il lavoro degli uomini poteva rimediare. Ormai, per assicurarsi un raccolto sufficiente, era necessario coltivare gli alberi, curarli. Al tempo in cui Virgilio scriveva, l’arboricoltura era infatti diventata una vera e propria tecnica descritta dagli autori cui s’ispirò il poeta delle Georgiche, quali Catone il Censore e Varrone, o i suoi contemporanei Columella e Plinio. Nel libro dedicato agli alberi da frutta, questi parla dei numerosi innesti da poco praticati, che hanno dato origine a nuove varietà di frutti, in particolare alle susine, di cui un secolo prima Catone non parlava. Plinio ricorda anche l’introduzione di alberi da frutta prima sconosciuti: il ciliegio, portato dal Ponto nel 73 a.C. da Lucullo, il pesco e l’albicocco venuti dall’Oriente e che solo allora si cominciavano a coltivare in Italia.
Per gli antichi, i frutti erano doni degli dei. I Latini avevano addirittura una dea, Pomona, che presiedeva alla loro maturazione; a lei avevano associato un dio probabilmente precedente, fors’anche etrusco, Vertumno (da vertere,cambiare) che presiedeva al cambiamento delle stagioni e vegliava con particolare cura sugli alberi da frutta. Che ci sia stata una certa rivalità tra i due concorrenti, la giovane Pomona e il vecchio Vertumno, lo lascerebbe supporre la mitologia. Desiderando sedurre la fanciulla, Vertumno dovette di volta in volta assumere le sembianze di aratore, di vignaiolo e di mietitore, ma senza alcun risultato; allora cambiò sesso presentandosi sotto le sembianze di una vecchia, e questa volta riuscì a porre in atto il suo piano.
Frutto viene da fructus. In latino, lingua di giuristi, questo termine non indica il frutto, ma proprio ciò che noi chiamiamo usufrutto, il diritto di percepire e di utilizzare i prodotti di una cosa la proprietà della quale resta a un altro. Più in generale, fructus è il reddito di un bene, poi il risultato, il beneficio, la ricompensa. La radice europea bhrug-, che ha prodotto fructus, ha un senso più largo, il godimento procurato dai beni della terra; fruges sono i suoi prodotti e fructuosus ciò che è fecondo, fertile, ciò che rende, e da esso deriva il nostro aggettivo fruttuoso. Teniamo a mente questo significato originario: il frutto è oggetto di godimento, è anche il prodotto, il figlio dell’albero, come nel «frutto del ventre tuo» dell’Ave Maria. In latino, frutto si dice pomum e l’albero da frutta pomus; la mela, malum in latino, è quindi in francese pomme (come in vari dialetti settentrionali italiani), il frutto per eccellenza e anche il frutto in generale, dato che si dice pomme de pin (pigna) e pomme de terre (patata). Per indicare il frutto, il greco ha una parola ancora più ricca di accezioni. Karpós indica non soltanto il prodotto della terra e delle piante (in latino, carpo, carpere significa cogliere, staccare, strappare), il seme, la semente, ma anche la prole di un animale e perfino il polso, come se la mano fosse il frutto del braccio. Ricordiamo che la parola dattero viene dal greco dáktylos, dito. Forse karpós andrebbe accostato all’enigmatico Kar, che ha prodotto karya, la noce, e con il quale sembra connessa caro, carnis, che in latino non significa solo carne, ma anche la polpa del frutto e la parte tenera e interna dell’albero, quella dove scorre la linfa, l’alburno.
Più di noi vicini alla natura, ma soprattutto più sensibili al suo carattere sacro, gli antichi conservavano una freschezza che permetteva loro di meravigliarsi ancora davanti alla misteriosa genesi dei frutti, davanti alle molteplici utilizzazioni consentite dalla loro vastissima varietà, perché ghiande e mele, mandorle e fichi, olive, noci, castagne sono tutti frutti, ma nati ognuno da una evoluzione a lui propria, e dotati di una struttura diversa.
Così la ghianda è un achenio (dal greco, a- privativo e khanéin, aprire), cioè un grosso seme unico che esce da una cupula, e lo stesso la faggiola del faggio, la castagna nel suo riccio pungente e la nocciola chiusa in un guscio legnoso, ma non la noce e la mandorla, essendo queste ultime drupe la cui parte carnosa non è commestibile e delle quali consumiamo il seme chiuso nel nocciolo (la parola viene da noce); in genere questo è doppio nella mandorla — ma uno dei due è spesso abortito — e unico nella noce, dove costituisce due grossi cotiledoni oleosi. Nelle altre drupe — l’oliva, la ciliegia, la susina, la pesca, l’albicocca, per esempio — quello che si mangia è invece l’involucro sugoso. Nella polpa delle bacche (anche in latino, bacca) invece del nocciolo unico si trovano numerosi semi (in francese pepin, dal latino pipinna, piccolo). Le mele e le pere, che ne contengono anche loro, sono frutti di tipo del tutto diverso, cui i botanici danno il nome di piridion (termine pseudogreco derivato dal latino pirus, pera). Qui sono ancora visibili i cinque carpelli del pistillo florale diventati le cinque logge del frutto contenenti i semi. A questo tipo appartengono le mele cotogne, le nespole, le sorbe, e le bacche del biancospino. Di tutti i frutti utilizzati dai Greci e dai Latini, il più strano, il più misterioso, era il fico, ma, benché avesse una posizione di primo piano presso di loro, pare che non riuscissero a penetrarne il segreto.

Dal giardino dell'Eden al legno della Croce

Gli esegeti moderni distinguono nei primi capitoli della Genesi due racconti diversi, che si susseguono e sono effettivamente distinti, non foss’altro che perché Dio nel primo è designato con il plurale Elohim, nel secondo con Jahvèh, al singolare. L’inizio della Genesi, attribuita a una presunta «fonte sacerdotale», è insomma una cosmogonia, i sette giorni della Creazione, mentre i capitoli successivi costituiscono un mito esplicativo della condizione umana. Ma forse con ciò si è operata una separazione troppo netta tra i due testi che, malgrado le evidenti goffaggini della saldatura, possono anche essere, più o meno intenzionalmente, complementari. Infatti Adamo è rappresentato come un androgino: «li creò maschio e femmina »; e il Midrash Bereshit Raba precisa: Dio creò Adamo nello stesso tempo maschio e femmina. All’inizio dello stesso versetto della Genesi: «Facciamo l’uomo a nostra immagine», la parola uomo è un nome collettivo. La correlazione è quindi ben fissata: un dio il cui nome è plurale, facendo l’uomo «a sua immagine» e «a sua somiglianza», lo crea in sé plurale. E questo doppio plurale non può indicare altro che l’androginia. In tutte le tradizioni gli dei unici sono androgini, in virtù di una necessità logica, e qualsiasi creazione non può cominciare che con l’autodivisione divina; attraverso la distinzione dei sessi, attraverso la comparsa di un paredro, maschio o femmina, l’uno diventa due. È in questi termini, almeno, che l’intelletto umano è in grado di afferrare questo mistero. Il processo che fa nascere Èva dalla costola di Adamo riproduce quello mediante il quale Dio si è separato da se stesso per generare l’universo; corrisponde anche al desiderio di alterità, al desiderio dell’altro, la donna o la Creazione, che in definitiva sono una sola e identica cosa, perché l’una e l’altra sono la fonte e l’origine di tutto, la «Madre di tutti gli esseri».
Questa androginia primordiale, eliminata nella Genesi — testo sacro proveniente da un ambiente patriarcale in cui solo il principio maschile aveva autorità — e che del resto è stata cancellata solo in parte perché vi traspare ancora, è del tutto manifesta nella successiva tradizione ebraica, per esempio nel diagramma esoterico della Cabbalah detto Inalbero dei Sefirot». Quest’albero rappresenta il processo delle emanazioni procedenti dal Potere creatore, che parte dallo Spirito innominato, dal Vuoto assoluto, del quale niente può essere detto, per scendere gradualmente fino alla materia. Da Kether, la prima Sefirah, il punto luminoso, quindi già manifestato e fonte di ogni manifestazione, che rappresenta il seme da cui esce il fusto dell’Albero, hanno origine due rami, quello di destra è detto Abba, «Padre», il Padre cosmico, il principio maschile, e quello di sinistra è Aima, la «Grande Madre», mentre in mezzo ai due rami è il tronco, equilibrio assiale, via celeste unitaria. «Anzi addirittura l’ultima Sefirah, chiamata a interpretare una parte di primo piano nella drammaturgia del mondo, si chiama Shekinah, la ”Madre”, o la "Regina”, o la "Matrona”, o anche la "Sposa”».[9]
L’Albero dei Sefirot è presentato dalla tradizione come una raffigurazione dell’Adam Kadmon, l’uomo originale nella sua pura essenza, simbolo del Dio che vive nell’uomo. La Corona (Kether), il punto luminoso primordiale, si pone sopra la sua testa, il Regno (Malkut), l’energia interamente materializzata, sotto i suoi piedi. L’albero dei Sefirot è anche la forma stessa che nella tradizione ebraica assume l’Albero cosmico, che qui è un Albero rovesciato, con le radici in alto, e rappresenta l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male.
Per condensare in un’unica immagine questo complesso di concetti religiosi e metafisici, nessun simbolo poteva essere più adatto dell’albero, con il suo tronco, le radici, i rami: l’albero che è per essenza ermafrodito, non tanto perché numerose specie lo sono veramente, quanto soprattutto perché può moltiplicarsi in modo asessuato, grazie ai germogli che produce ai suoi piedi. È appunto questa facoltà propria dei vegetali di riprodursi identici ajse stessi, grazie alla quale un albero abbattuto si rigenera da se stesso, che viene utilizzata nei sistemi di riproduzione per margotta e per talea.
Quanto ai fiori, organi della riproduzione sessuata, sono ora maschi e ora femmine, e portati ora sullo stesso gambo, che quindi è ermafrodito, ora su gambi diversi; ma in molti alberi i fiori sono contemporaneamente maschio e femmina, con stame e pistillo. Tuttavia, poiché scopo della sessualità è la mescolanza dei cromosomi, che produce un essere somigliante ai suoi genitori, ma anche differente da loro nell’individualità che gli è propria, intervengono determinati processi affinché i fiori possano autofecondarsi. Accade così, per esempio, nella maggior parte delle conifere, nelle quali la riproduzione sessuata ha maggiore importanza che in altre specie, perché esse non possiedono la facoltà di moltiplicazione vegetativa.
Questa ambiguità dell’albero, che il più delle volte è contemporaneamente maschio e femmina e può anche, nel maggior numero delle specie, riprodursi da sé, spiega l’incertezza del genere che gli è attribuito nella lingua. In greco e in latino gli alberi sono sempre femminili anche se, non senza ambiguità, il loro nome ha una desinenza maschile, come avviene in numerosi casi. In italiano e in francese i nomi degli alberi sono, con rarissime eccezioni, maschili, e lo stesso è in tedesco, in inglese e nella maggior parte delle lingue europee contemporanee. Questa differenza, che in effetti colpisce, si spiega probabilmente con il fatto che gli antichi erano alquanto sensibili alla fecondità dell’albero, quindi al suo carattere materno, mentre noi vi vediamo piuttosto una figura fallica.

Conclusioni

Malgrado le nuvole d’inchiostro sollevate dalla tradizione ebraico-cristiana per mascherarla, nessuna situazione mi pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l’intelligenza, di quella di un’umanità che coesiste con altre specie viventi su una terra di cui queste ultime condividono l’usufrutto e con le quali non può comunicare. Si comprende come i miti rifiutino di considerare questo vizio della creazione come originale; che essi vedano nella sua comparsa l’evento inaugurale della condizione umana e della sua debolezza.In questo modo, infatti, venne a essere rotto un equilibrio vitale, basato sulla comunione di tutti gli esseri viventi, di questa rottura noi subiamo oggi le estreme conseguenze. Da aperta che era un tempo, l’umanità si è sempre più rinchiusa in se stessa. Tale antropocentrismo non riesce più a vedere, al di fuori dell'uomo, altro che oggetti. La natura nel suo complesso ne risulta sminuita. Un tempo, in lei tutto era un segno, la natura stessa aveva un significato che ognuno, nel suo intimo, percepiva. Avendolo perso, l’uomo oggi la distrugge, e con ciò si condanna.[10]

Note

  1. Salta
     Jean Servier, Tradition et civilisation berbéres, Paris 1985.
  2. Salta
     E. Dhorme, Choix de textes religieux assyrobabyloniens, Paris 1910.
  3. Salta
     W. Krickeberg, in W. Krickeberg, H. Trimborn, W. Müller, O. Zorries, Les Religions amérindiennes, tr. francese, Paris 1953.
  4. Salta
     R. Cook, The Tree of Life. An Image of the Cosmos (tr. francese L’Arbre de la vie, image du cosmos, Paris 1975).
  5. Salta
     E. Sénart, Essai sur la légende du Bouddha, Paris 1882.
  6. Salta
     G. J. Frazer, Il ramo d’oro, I.
  7. Salta
     Adamo di Brema, Descriptio insularum Aquilonis.
  8. Salta
     A. Daniélou, Le Polythéisme hindou, Paris 1960.
  9. Salta
     Jean Libis, Le Mythe de l’Androgyne, Paris 1980, p. 49, ove viene citato G. G. Scholem, La Kabbale et sa symbolique, Paris 1966.
  10. Salta
     Claude Lévi-Strauss in Claude Lévi-Strauss, Didier Eribon, De près et de loin, Parigi 1988.